Grice e Capizzi – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Genova).
Filosofo. Grice: “You gotta love Capizzi; he is the type of philosophical
intellectual we do not have at Oxford, where it is clever to be dumb! Capizzi
knows almost everything! His ‘Parmenids’s door’ is genial – and so is his
philosophy on Roman philosophy (‘il colosso romano,’ ‘Catone,’ ‘Roma madre,’
‘Roma e Sparta,’) – but my favourite is his tract on conversational implicature
which he entitles, in a most Italianate manner, ‘Per l’attualismo del dialogo’.”
Insegna a Villa Mirafiore, Roma. Si contraddistinse per l'accurato studio
storico e filologico dei filosofi italici (Velia, Crotone, Girgentu, Roma). Contesta
radicalmente le ricostruzioni ottocentesche del pensiero occidentale del VI e V
secolo a.C., che attribuiscono validità storica alle interpretazioni di
Aristotele e alla dossografia dipendente da Teofrasto. A questo scopo collabora
con il circolo urbinate di Gentili nello sforzo di inserire i sapienti italici nelle
tematiche concernenti le città, il pubblico, il committente, l'evoluzione delle
strutture sociali, il trapasso dalla tradizione orale alla società della
scrittura. Si forma alla scuola di Carabellese. Ben presto entra nei
circoli degli studiosi che gravitavano intorno ai filosofi Spirito e Calogero.
Insegna a Frosinone e Roma. Si evidenziandosi per l'originalità delle vedute e
la radicalità del temperamento. Coltiva due interessi paralleli.
Uno, da storico, per la sapienza italica arcaica, che lo portò a contestare la
narrazione dei italici fatta da Aristotele. Questi, secondo lui, scrisse per
esigenze di insegnamento del proprio pensiero nell'ambito del Liceo, e non con
lo scopo di ricostruire quanto realmente accaduto. Dopo di lui, per un
colossale equivoco, Teofrasto, i grammatici alessandrini, Hegel, Eduard Zeller,
Gomperz e Burnet protrassero una sistematica falsificazione. Riprese, per
contro, la lezione di Diels, Reinhardt, Cherniss, McDiarmid e Kirk, i quali
dimostrarono che Aristotele ha avuto solo interessi speculativi. Aristotele,
come tutti i filosofi, parla sempre e soltanto del suo tempo, della cultura del
suo tempo, dei problemi del suo tempo. Approfondendo gli studi di Calogero sul “pre-logismo”
italico, di Detienne sul mito antropomorfico, di Havelock sulla diffusione
della filosofia e di Colli sulla sapienza pre-filosofica, fu il primo storico
di formazione filosofica a scoprire l'importanza della dimensione politica
negli enigmatici frammenti dei sapienti italici. Ritenne che, ogni volta che si
studiano filosofi italici, occorra privilegiare il rapporto tra ogni singolo
autore e la sua singola città: Velia, Crotone, Roma, Girgentu. L'altro
interesse, preminentemente teoretico, si svolse sui temi dell'attualismo, che
tenta di superare liberandolo dal presupposto interioristico e cogitativistico
e proponendo di passare alla interosggetivita della comunicazione, in
particolare a quella comunicazione protesa verso una risposta futura che è il
dialogo o la conversazione. Intransigente oppositore dell’assoluto hegeliano,
nei sui saggi di maggior rilievo filosofico, distinse la filosofia in
"comica" e "tragica". Per filosofia comica intende quella
che presuppone una struttura unitaria a priori della realtà, che pertanto
analizza cose come l'essere, l'uomo, la conoscenza, la ragione, che ignora i
modi di essere delle singole diada conversazionale, i tipi di uomo, i modi di
conoscere legati ai modi di vivere, le ragioni dei singoli gruppi esistenti in
vari luoghi e in vari momenti. L'altra filosofia, ampiamente minoritaria e
controcorrente, è quella che presuppone la pluralità delle culture, dei
costumi, dei pensieri, e che, avendo a che fare, nei vari momenti storici, con
incontri e scontri di alcune culture, alcuni costumi e alcuni pensieri, entra
nell'età adulta del dilemma tragico, della scelta tra due opzioni contrarie le
quali, in assoluto, non rappresentano il bene o il male, ma ciascuna il bene in
un determinato sentire che spesso coincide con il male di un sentire
opposto. Altre opere: “Protagora. Le testimonianze e i frammenti); “Il libero
arbitrio”; “Per un attualismo del dialogo”; “Dall'ateismo all'umanismo: correnti
incredule del dopoguerra e loro prospettive dialogiche”); “Socrate e i personaggi
filosofi di Platone: uno studio sulle strutture della testimonianza platonica e
un'edizione delle testimonianze contenute nei dialoghi, Roma); “Impegno e
disponibilità: la doppia morale degli intellettuali di oggi); “I Presocratici.
Antologia di testi, Firenze, La Nuova Italia); “Introduzione a Velia”,
Roma-Bari, Laterza); “La porta a Velia: per una lettura del poema”; “I Sofisti.
Antologia di testi, Firenze, La Nuova Italia); “Sinfonia patriarcale. Storia
antologica dela filosofia maschile” Roma, Savelli editore); “La radice
ideologica del fascismo: il mito della libertà” (Roma, Savelli); “Socrate.
Antologia di testi, Firenze, La Nuova Italia); “Eraclito e la sua leggenda.
Proposta di una diversa lettura dei frammenti); “La repubblica cosmica. Appunti
per una storia non-peripatetica della nascita della filosofia” (Roma, Edizioni
dell'Ateneo); Platone e il suo tempo, Roma, Edizioni dell'Ateneo); Forme del
sapere nei presocratici, Roma, Edizioni dell'Ateneo); L'uomo a due anime. Il
comico-tragico adolescenziale” )Firenze, La Nuova Italia); Il tragico in
filosofia, Roma, Edizioni dell'Ateneo); I sofisti ad Atene. L'uscita retorica
dal dilemma tragico” (Bari, Levante Editori); “Paradigma, mito, scienza” (Gruppo
editoriale internazionale); “Platone nel suo tempo. L'infanzia della filosofia
e i suoi pedagoghi”; “Corpo ed anima”, “Veleatismo”; Il 'mito di Protagora' e
la polemica sulla democrazia”; "A proposito di Parmenide e di Socrate demistificati",
in Il demistificatore"; "I italici furono ‘filosofi’? L’origine dello
specifico filosofico"; "Tracce di una polemica sulla scrittura in
Eraclito e Parmenide", "Cerchie e polemiche filosofiche del V
secolo", in Storia e civiltà dei Greci,
III, Milano) "Veliadi Eliadi Meleagridi Pandionidi: la metafora
mitica in Parmenide" "Eraclito e Parmenide, un tipico luogo
comune"; "Parmenide", "Eschilo e Parmenide", "Sono/fui; sum-fui: oysia/physis;
eimi/phyo: due concetti”; "Mente elevata e mente profonda" in Il Sublime: contributi per la storia di
un'idea (Napoli); "Trasposizione
del lessico omerico in Parmenide ed Empedocle", in "Quattro ipotesi veleatiche/eleatiche",
"Di Pitodoro, di Omar, di Don Ferrante e anche degli aristotelici
attuali", Platone, Protagora, Firenze, La Nuova Italia.Partecipa con una
delegazione di professori ad un'assemblea a Roma. La discussione si fa animata
soprattutto con Rosario Romeo, professore di Storia Moderna, che prima lo
accusa di fiancheggiare gli "squadristi rossi" e poi lo schiaffeggia.
Gli Indiani metropolitani rincorrono Romeo al grido di "Compagno Capizzi,
te lo giuriamo, ogni Romeo preso te lo schiaffeggiamo" In actual fact,
Odysseus and the charioteer are complete opposites.4 Antonio Capizzi thinks
that the journey is through the streets of Velia, out of the northern gates of
the city and down to the inlet where the Velians moored their ships.5 This ...
I Romani , nel cui alfabeto figurava la V , non ebbero problemi di
trascrizione : influenzati probabilmente dalla Velia o Veliae del Palatino24 ,
modificarono in tal senso il Vele ... Dichtersprache und geistige Tradition des
44 ANTONIO CAPIZZI. studi sul pensiero greco Antonio Capizzi. QUATTRO IPOTESI
ELEATICHE 1 . Elea : nascita di un nome In epoca romana la città di Parmenide e
di Zenone era detta Velia o Veliae dagli scrittori latini ( a partire da
Cicerone ) , Eléa da quelli.. Antonio Capizzi , La porta di Parmenide . Due
saggi per una nuova lettura del poema ( = Filologia e Critica 14 ) . Edizioni
dell ' Ateneo , Rom 1975 . 125 S . Diese Arbeit hat zwei Kapitel , die mit „ Il
proemio di P . e gli scavi di Velia “ bzw Giovanni Casertano Antonio Capizzi.
Tuttavia , Alcmeone fu ... 132 ; V. Catalano , ' L'Asklepeion di Velia ' ,
estratto dagli Annali del Pontificio Istituto Superiore di Scienze e Lettere «
Santa Chiara » , Napoli 1965-66 , pagg . 289-301 , a pag la homoiòtes e
l'atrékeia , proponendosi di trasformare Velia ( prima aggregato di corn , di
villaggi autonomi ) in una polis compatta e stabile . L'uomo ... IL CARTESIO DI
GIANNONE *Un grande storico della filosofia 130 ANTONIO CAPIZZI Antonio Capizzi
, La porta di Parmenide . ... une interprétation nouvelle de certains passages
du poème de Parménide , en particulier des fragments 1 et 6 , à la lumière des
fouilles de Velia - ' Eléa commencées en 1962 par Mario Napolil'uscita retorica
dal dilemma tragico Antonio Capizzi. feste quinquennali Zenone ricomparve in
città , e il ... 183 E - 184 A. 5 E. Pozzi PAOLINI , Problemi della monetazione
di Velia nel V secolo a . C. , « La parola del passato » 25,1970 , pp .... e
ritiene l'argomento c irrilevante in quanto Parmenide poteva essersi ispirato
alla Velia reale anche in una metafora ( p . ... che si preoccupa di riu- --
nire una città sotto una costituzione aristocratica , omogenea e 402 ANTONIO
CAPIZZI. proposta di una diversa lettura dei frammenti Antonio Capizzi ... del
corpo sociale , doveva conoscere bene anche quei gruppi di cittadini che
usavano la scrittura nelle loro ricerche scientifiche , come la scuola medico -
astronomica di Velia . 1 tra le vie e le porte di Velia , recentemente
dissepolte ; e i " mortali ignoranti ” del fr . 6 tra i nemici non
metafisici , ma politici , che insidiavano la libertà della polis velina .
Antonio Capizzi , incaricato di filosofia teoretica presso l'Università di ... un
superdio – chi siede di fronte a te e ogni moeclittico è già il proemio : di
recente Antonio Capizzi ( La porta di ... ( RODOLFO MACCHIONI Velia , e Renzo
Vitali ( Una ricostruzione del Jodi ) . poema , Faenza 1978 ) una allegorica e
... da dove nasce l’idea di un ciclo di convegni sulla figura di Parmenide
proprio qui dove Parmenide è vissuto? Mi pare di non potermela cavare con due
parole appena. Consideri solo questo, che i riflettori su Elea/Velia si
accesero nel 1964, quando Mario Napoli pervenne a identificare la strada e la
porta dette “di Parmenide” e, contemporaneamente, Marcello Gigante pubblicò
sulla rivista La Parola de Passato una breve nota, «Parmenide Uliade», che
attirava l’attenzione su due iscrizioni anch’esse emerse grazie agli scavi
condotti dal Prof. Napoli. Si gettarono allora le premesse per una progressiva
riscoperta della patria di Parmenide e Zenone, e l’emozione dei primi
visitatori colti venne alimentata dalla memorabile foga con cui, intorno al
1970, Antonio Capizzi si dedicò a proclamare che non può capire Parmenide chi
non ha visto gli scavi. La scoperta del sistema viario che collegava il
quartiere meridionale con quello settentrionale, di cui fanno parte la Porta
Rosa e la cosiddetta Porta arcaica, con il conseguente disvelamento della
topografia del sito, hanno stimolato lo studioso di filosofia antica Antonio
Capizzi, a una rilettura affascinante,[6] ma non universalmente accettata,[7]
del proemio Parmenideo al poema in versi Peri Physeos (Sulla
Natura). Antonio Capizzi, La porta di Parmenide, Roma, 1975 e, dello
stesso autore, Introduzione a Parmenide, Bari, 1975. PARMENIDE SULLA
NATURA Introduzione, traduzione, note e commento a cura di Dario Zucchello
PREMESSA Il lavoro qui proposto è il risultato di anni di confronto con il
testo e la letteratura parmenidei, sollecitato dalla discussione con l’amico
Livio Rossetti, cui sono riconoscente per stimoli, idee ed esempio, e alla cui
vivacità e intelligenza d’approccio alla cultura preplatonica sono debitore di
non pochi elementi di riflessione. Per rintracciare nel tempo le origini di
questo specifico interesse eleatico, devo invece risalire agli anni
universitari pisani, alle lezioni di Giorgio Colli, nel periodo in cui i volumi
della Sapienza greca stavano vedendo la luce presso l’editore Adelphi: il primo
impatto con il pensatore di Elea avvenne infatti nei riferimenti alla
discussione intorno alla natura della dialettica arcaica e all’origine della
filosofia, nonché attraverso la lettura del Parmenide platonico, proprio in
occasione di un corso seguito, tra gli altri, anche da due affermati studiosi e
recenti editori dell’opera del sapiente di Elea: Angelo Tonelli e Riccardo Di
Giuseppe. Prima dell’impegnativo lavoro di esegesi che ha richiesto una
paziente frequentazione delle interpretazioni classiche e contemporanee, la mia
fatica (la fatica di chi non ha ricevuto un’educazione filologica) si è
concentrata sulla restituzione di un testo greco che tenesse conto dei
contributi originali degli editori più recenti, conservando tuttavia, a
dispetto delle molte suggestioni, una coerenza complessiva. La traduzione non
ha alcuna pretesa di conservare le qualità letterarie del verso epico, puntando
piuttosto alla massima prossimità possibile ai termini e alla costruzione dei
versi stessi. Il mio sforzo non attende quindi riconoscimenti per originalità
ed efficacia nella resa del testo parmenideo: esso ha puntato piuttosto, sin
dall’inizio, a ricostruire la fi- sionomia di un’opera complessa, cercando di
strapparla alle ipoteche metafisiche da cui è stata spesso condizionata la
lettura. Ho già avuto modo di proporre le mie idee sulla posizione del poema
nel quadro della storia della sapienza arcaica in due saggi stesi in parallelo
alla composizione della presente edizione: Parmenide e la tradizione del
pensiero greco arcaico (ovvero, della sua eccentricità), in Il quinto secolo.
Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e
F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011; Parmenide e la περὶ φύσεως ἱστορία, in Elementi
eleatici, a cura di I. Pozzoni, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2012. Il lettore
troverà nel commento ai frammenti e nella introduzione generale un’ampia difesa
della lettura “cosmologica“ del poema, ma, allo stesso tempo, attenzione per le
tracce delle interazioni di Parmenide con la cultura del suo tempo: un campo
d’indagine che ritengo ancora del tutto aperto a nuove suggestioni. Nel
presentare il risultato del mio lavoro mi sia concesso ringraziare i miei
anziani genitori per il sostegno che non mi hanno fatto mai mancare e che ha
reso possibile le mie ricerche e i mei studi, e Umbi e Gigì per la loro
pazienza. Nonostante tutto. A loro questa fatica è dedicata. Dario Zucchello
Como, febbraio 2014 4 INTRODUZIONE IL POEMA E IL SUO TEMA Secondo quanto ci
attesta Diogene Laerzio (II-III secolo), Parmenide sarebbe autore di un'unica
opera: οἱ δὲ [sc. κατέλιπον] ἀνὰ ἓν σύγγραμμα· Μέλισσος, Π., Ἀναξαγόρας altri –
Melisso, Parmenide e Anassagora – [lasciarono] un unico scritto (DK 28 A13), un
poema in esametri, cui la tradizione posteriore attribuisce la titolazione di
Περὶ φύσεως: ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ Μέλισσος καὶ Π. ...
καὶ μέντοι οὐ περὶ τῶν ὑπὲρ φύσιν μόνον, ἀλλὰ καὶ περὶ τῶν φυσικῶν ἐν αὐτοῖς τοῖς
συγγράμμασι διελέγοντο καὶ διὰ τοῦτο ἴσως οὐ παρηιτοῦντο Περὶ φύσεως ἐπιγράφειν
Sia Melisso sia Parmenide intitolarono i loro scritti Sulla natura .... E certo
in questi scritti trattano non solo di ciò che è oltre la natura, ma anche
delle cose naturali e per questo probabilmente non disdegnarono di intitolarli
Sulla natura (Simplicio; DK 28 A14). 5 L'indagine περὶ φύσεως Che in effetti
tale intestazione potesse risalire a Parmenide è stato sostenuto da Guthrie1 ,
sulla scorta della parodia che ne avrebbe fatto Gorgia con il suo Περὶ τοῦ μὴ ὄντος
ἢ περὶ φύσεως, anche se è comune la convinzione che, prima dei sofisti, la
designazione di un testo avvenisse attraverso la citazione dell’incipit (che
doveva risultare particolarmente incisivo), con l'indicazione del contenuto,
preceduta dal nome dell'autore (sulla prima riga del testo, analogamente a
quanto registriamo nel caso di Erodoto)2 . Il trattato ippocratico Sull'antica
medicina riferisce la formula indentificativa περὶ φύσεως almeno ai testi della
metà del V secolo a.C.: Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ περὶ φύσιος γεγράφασιν Empedocle
e gli altri che scrissero sulla natura (De prisca medicina cap. 20). È opinione
ampiamente condivisa che essa abbia funzionato, a posteriori, da etichetta per
classificare una certa tipologia di scritti, manifestandone il tema: in questa
direzione è possibile che, in particolare, la Συναγωγή di Ippia abbia
contribuito a fissare un certo numero di categorie storiografiche tradizionali,
tra cui appunto la nozione unificante di φύσις, la denominazione Περὶ φύσεως,
il termine generico φυσιόλογος3 . Si tratta, infatti, di uno dei primi4 sforzi
"dossografici", un'opera (molto utilizzata da Platone e Aristotele)
intesa a selezionare, raccogliere, mettere in relazione e commentare gli
enunciati trovati in ogni genere testuale (poetico e 1 W.K.C. Guthrie, The
Sophists, C.U.P., Cambridge 1971, p. 194. 2 G. Naddaf, The Greek Concept of
Nature, SUNY Press, New York 2005, p. 16; W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo,
Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi
di Pisa, Pisa 1994, p. 12. 3 J.-F. Balaudé, Hippias le passeur, in La
costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M.
Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, p. 296. 4 Gorgia ne avrebbe portato
avanti uno analogo, ma connotato più in senso critico, per sottolineare gli
insolubili contrasti tra filosofie. Gorgia avrebbe influenzato direttamente
Isocrate, Platone e lo stesso Aristotele. 6 in prosa), di ogni epoca, per
coglierne convergenze e stabilire linee di continuità 5 . In ogni caso, al di
là della discussione sull'attendibilità storica di quel titolo per le opere del
V secolo a.C., non è contestato il fatto che tra V e IV secolo a.C. fosse
individuabile un gruppo di autori περὶ φύσεως, impegnato, in altre parole, in
ricerche sulla natura delle cose: sebbene risulti problematico accertare se
coloro che chiamiamo «filosofi presocratici» fossero consapevoli di contribuire
a una specifica impresa culturale (sottolineandola nell'intestazione o incipit
dei propri contributi), è tuttavia difficile negare che, almeno tra i
contemporanei di Platone, si fosse diffusa la convinzione dell'esistenza di una
tradizione di ricerca sulla natura (φυσιολογία), iniziata con Talete e
conclusasi con Socrate6 . L'espressione περὶ φύσεως A quali contenuti ci si
intendeva riferire con l'etichetta περὶ φύσεως? Quale significato è da
attribuire a tale espressione? Secondo Naddaf7 , che al problema ha dedicato
un'ampia indagine, con ἱστορία περὶ φύσεως si doveva intendere una storia
dell'universo, dalle origini alla presente condizione: una storia che
abbracciava nel suo insieme lo sviluppo del mondo (naturale e umano),
dall'inizio alla fine. In effetti, origini e sviluppo sono etimologicamente
implicati in φύσις: nella forma attiva-transitiva φύω, il radicale del
sostantivo significa «crescere, produrre, generare»; in quella
mediopassiva-intransitiva φύομαι, invece, «crescere, originare, nascere». La
prima occorrenza del termine φύσις, nel libro X dell'Odissea (303), si registra
nell'ambito delle istruzioni (da parte di Hermes all'eroe) per la preparazione
di una «pozione efficace» (φάρμακον 5 Balaudé, op. cit., p. 291. 6 W. Leszl,
Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to the
Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy, in La
costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, cit., p. 357. 7
Op. cit., pp. 28-29. 7 ἐσθλόν) contro gli effetti delle «pozioni velenose»
(φάρμακα λύγρα) di Circe: Odisseo racconta come Hermes, estratta dalla terra (ἐκ
γαίης ἐρύσας) una pianta medicamentosa (μῶλυ), ne illustrasse la «natura» (καί
μοι φύσιν αὐτοῦ ἔδειξε). Per un verso, in quel contesto, φύσις può apparire
immediatamente sinonimo di εἶδος, μορφή, φύη, termini (ricorrenti in Omero)
indicanti la «forma»: è per altro evidente, tuttavia, che quanto Hermes rivela
non riguarda semplicemente l'aspetto esteriore, identificativo della pianta,
piuttosto le sue effettive qualità e la costituzione interna da cui esse
discendono. In particolare Hermes si riferisce alla radice, nera, da cui cresce
il fiore dal colore opposto, bianco: utilizza il termine, quindi, per denotare
non tanto la forma fenomenica, né propriamente quella che potremmo
anacronisticamente definire l'essenza della pianta, quanto la sua origine (la
radice), differente da quel che appare (il fiore, che ne è comunque sviluppo).
In questo senso il termine φύσις occorre nelle più antiche citazioni della
sapienza greca: τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ
πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον
τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ
διηγεῦμαι κατὰ φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους
λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται Di
questo logos che è sempre gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima
di udirlo, sia subito dopo averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo
questo logos, si mostrano privi di esperienza, mentre si misurano con parole e
azioni quali quelle che io presento, analizzando ogni cosa secondo natura e
mostrando come è. Ma agli altri uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno
da svegli [dopo essersi destati], così come sono dimentichi di quello che fanno
dormendo (Sesto Empirico; DK 22 B1) φύσις δὲ καθ’ Ἡράκλειτον κρύπτεσθαι φιλεῖ 8
la natura, secondo Eraclito, ama [è solita] nascondersi (Temistio; DK 22 B123).
Sebbene nell'incipit dello scritto di Eraclito l'espressione κατὰ φύσιν sia per
lo più resa dagli interpreti moderni intendendo φύσις come «natura, essenza»,
incrociando i due frammenti eraclitei è inevitabile pensare al passo omerico
sull'erba moly: l'«origine» che si cela dietro il fenomeno8 . In questa
accezione la φύσις – secondo l'Efesio – «ama nascondersi». Kahn9 ha marcato,
invece, come la formula del frammento B1 di Eraclito attesti già un uso
"tecnico" del termine nel linguaggio contemporaneo, per designare il
«carattere essenziale» di una cosa, unitamente al processo da cui scaturirebbe:
la comprensione della «natura» di una cosa passerebbe attraverso la
ricostruzione del suo processo di sviluppo. Analogamente Naddaf valorizza la
dimensione dinamica implicita in φύσις: «la costituzione reale di una cosa così
come si realizza – dall'inizio alla fine – con tutte le sue proprietà»10 . Il
modello nella tradizione medica Se ora torniamo al trattato ippocratico
sull'Antica medicina, da cui abbiamo tratto conferma dell'esistenza (almeno
alla metà di V secolo a.C.) di una produzione a posteriori classificata come
περὶ φύσιος, possiamo evincere dal contesto alcuni elementi del modello:
Λέγουσι δέ τινες καὶ ἰητροὶ καὶ σοφισταὶ ὡς οὐκ ἔνι δυνατὸν ἰητρικὴν εἰδέναι ὅστις
μὴ οἶδεν ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος·ἀλλὰ τοῦτο δεῖ καταμαθεῖν τὸν μέλλοντα ὀρθῶς θεραπεύσειν
τοὺς ἀνθρώπους. Τείνει δὲ αὐτέοισιν ὁ λόγος ἐς φιλοσοφίην, καθάπερ Ἐμπεδοκλῆς ἢ
ἄλλοι οἳ 8 M.L. Gemelli Marciano, Lire du début. Quelques observations sur les
incipit des présocratiques, «Philosophie Antique», 7, 2007 (Présocratiques),
pp. 16-17. 9 Ch.H. Kahn, Anaximander and The Origins of Greek Cosmology,
Hackett Publishing Company, Indianapolis 1994 (edizione originale 1960), pp.
201-202. 10 Naddaf, op. cit., p. 15. 9 περὶ φύσιος γεγράφασιν ἐξ ἀρχῆς ὅ τί ἐστιν
ἄνθρωπος, καὶ ὅπως ἐγένετο πρῶτον καὶ ὅπως ξυνεπάγη. Ἐγὼ δὲ τουτέων μὲν ὅσα τινὶ
εἴρηται σοφιστῇ ἢ ἰητρῷ, ἢ γέγραπται περὶ φύσιος, ἧσσον νομίζω τῇ ἰητρικῇ τέχνῃ
προσήκειν ἢ τῇ γραφικῇ. Νομίζω δὲ περὶ φύσιος γνῶναί τι σαφὲς οὐδαμόθεν ἄλλοθεν
εἶναι ἢ ἐξ ἰητρικῆς. Alcuni medici e sapienti [sofisti] sostengono che nessuno
possa conoscere la medica a meno di non sapere che cosa sia l'uomo, ma che ciò
debba conoscere colui che intenda curare correttamente gli uomini. Il loro
discorso verte dunque sulla filosofia, proprio come nel caso di Empedocle o
degli altri che scrissero sulla natura: che cosa sia dal principio l'uomo, come
sia stato dapprima generato e come costituito. Io ritengo che quanto è stato
scritto da medici e filosofi sulla natura abbia più a che fare con il disegno
che con la medicina. Ritengo che in nessun altro modo si possa conoscere
qualcosa di chiaro sulla natura se non attraverso la medicina (De prisca
medicina cap. 20). L'autore, evidentemente polemico, marca in effetti lo scarto
tra indagine medica e indagine περὶ φύσιος: nell'apertura dell'opera aveva
contrapposto all'approccio di coloro che ricorrevano a postulazioni e ipotesi (ὑποθέμενοι)
– cioè speculazioni - per l'indagine dei fenomeni celesti e terrestri (περὶ τῶν
μετεώρων ἢ τῶν ὑπὸ γῆν), il principio e il metodo (ἀρχὴ καὶ ὁδὸς) della
medicina, in altre parole le «scoperte» (τὰ εὑρημένα) avvenute nel corso del
tempo e l'osservazione11. Per avere un'idea più precisa dell'impostazione
alternativa che egli andava criticando, possiamo leggere un altro trattato
ippocratico – il De carnibus – il cui estensore sottolinea di prendere le mosse
da convinzioni condivise (κοινῇσι γνώμῃσι): Περὶ δὲ τῶν μετεώρων οὐδὲ δέομαι
λέγειν, ἢν μὴ τοσοῦτον ἐς ἄνθρωπον ἀποδείξω καὶ τὰ ἄλλα ζῶα, ὁκόσα ἔφυ καὶ ἐγένετο,
καὶ ὅ τι ψυχή ἐστιν, καὶ ὅ τι τὸ ὑγιαίνειν, 11 Naddaf, op. cit., pp. 24-25. 10
καὶ ὅ τι τὸ κάμνειν, καὶ ὅ τι τὸ ἐν ἀνθρώπῳ κακὸν καὶ ἀγαθὸν, καὶ ὅθεν ἀποθνήσκει.
Non devo parlare di questioni celesti se non per quanto necessario a mostrare,
rispetto all'uomo e a tutti gli altri viventi, come si sono generati e
sviluppati, che cosa sia l'anima, che cosa la salute e la malattia, che cosa
sia cattivo e buono nell'uomo, e perché muoia (De carnibus 1). Il passo rivela
quelle che dovevano essere le comuni assunzioni (le ὑποθέσεις contro cui
polemizza l'Antica medicina) nella tradizione della ἱστορία περὶ φύσεως: lo
schema adottato è infatti il seguente: (i) originaria caoticità e indistinzione
di tutte le cose; (ii) processo di discriminazione degli elementi (etere, aria,
terra); (iii) formazione dei corpi. Centrale risulta il parallelo tra
formazione dei viventi e formazione del cosmo che deve aver effettivamente
costituito un asse portante nella cultura arcaica, sin dalla produzione
teogonica. Ciò risulta confermato dall'autore anonimo del De diaeta: Φημὶ δὲ δεῖν
τὸν μέλλοντα ὀρθῶς ξυγγράφειν περὶ διαίτης ἀνθρωπίνης πρῶτον μὲν γνῶναι καὶ
διαγνῶναι· γνῶναι μὲν ἀπὸ τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς, διαγνῶναι δὲ ὑπὸ τίνων μερῶν
κεκράτηται· εἴ τε γὰρ τὴν ἐξ ἀρχῆς σύστασιν μὴ γνώσεται, ἀδύνατος ἔσται τὰ ὑπ’ ἐκείνων
γιγνόμενα γνῶναι· εἴ τε μὴ γνώσεται τὸ ἐπικρατέον ἐν τῷ σώματι, οὐχ ἱκανὸς ἔσται
τὰ ξυμφέροντα τῷ ἀνθρώπῳ προσενεγκεῖν Affermo che colui che intenda scrivere
correttamente sul regime di vita dell'uomo deve prima conoscere e riconoscere
la natura di tutto l'uomo: conoscere allora da quali cose è composto dal
principio, riconoscere da quali parti è governato. Se non conosce infatti
quella composizione originaria, sarà incapace di conoscere quanto da essa
generato; se poi non conosce quel che prevale nel corpo, non sarà in grado di
prescrivere all'uomo il trattamento adeguato (De diaeta I, 2) Conoscere «la
natura di tutto l'uomo» (παντὸς φύσιν ἀνθρώπου) è condizione del corretto
intervento medico: ciò implica eviden- 11 temente conoscere (i) quanto
costituisce originariamente l'uomo (ἀπὸ τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς), per
rintracciarne e riconoscerne gli effetti (τὰ ὑπ’ ἐκείνων γιγνόμενα), e (ii) le
componenti che lo governano (ὑπὸ τίνων μερῶν κεκράτηται). Conoscere la natura
comporta, insomma, risalire alla composizione originaria e al successivo
processo. Significativamente questa riduzione al principio riconduce «tutte le
cose» a due elementi originari, fuoco e acqua: Ξυνίσταται μὲν οὖν τὰ ζῶα τά τε ἄλλα
πάντα καὶ ὁ ἄνθρωπος ἀπὸ δυοῖν, διαφόροιν μὲν τὴν δύναμιν, συμφόροιν δὲ τὴν χρῆσιν,
πυρὸς λέγω καὶ ὕδατος I viventi e tutte le altre cose e anche l'uomo sono
composti da due elementi, l'uno ha il potere di differenziare, l'altro il
temperamento che combina: intendo il fuoco e l'acqua (De diaeta I, 3) L'analogia
tra formazione biologica dell'individuo umano (nel senso dell'odierna
embriologia) e processi di strutturazione dell'universo (cosmogonia), è un dato
riscontrato anche nelle testimonianze relative ad Anassimandro e autori
pitagorici, oltre che nei precedenti mitici 12 : l'antropologia non poteva
prescindere dalla antropogonia, come la cosmologia dalla cosmogonia. Altre
tracce antiche del modello Se queste indicazioni - ricavate dalla letteratura
scientifica risalente plausibilmente al V-IV secolo a.C. – consentono di farsi
un'idea circa la ricezione antica della περὶ φύσεως ἱστορία e dunque
dell'argomento cui i pensatori arcaici avevano dedicato le loro opere, alle
origini della letteratura filosofica, prima che il modello si affermasse e
consolidasse definitivamente nella narrazione peripatetica, un primo abbozzo ne
era stato tracciato in un celebre passo del Fedone platonico: 12 Naddaf, op.
cit., pp. 22-23. 12 ἐγὼ γάρ, ἔφη, ὦ Κέβης, νέος ὢν θαυμαστῶς ὡς ἐπεθύμησα
ταύτης τῆς σοφίας ἣν δὴ καλοῦσι περὶ φύσεως ἱστορίαν· ὑπερήφανος γάρ μοι ἐδόκει
εἶναι, εἰδέναι τὰς αἰτίας ἑκάστου, διὰ τί γίγνεται ἕκαστον καὶ διὰ τί ἀπόλλυται
καὶ διὰ τί ἔστι Io, Cebete, da giovane ero straordinariamente affascinato da
quella sapienza che chiamano indagine sulla natura. Mi sembrava fosse magnifico
conoscere le cause di ogni cosa, perché ogni cosa si generi, perché si corrompa
e perché esista (96a). Il filosofo racconta la storia della fascinazione
esercitata (non è chiaro se effettivamente sul protagonista Socrate o sullo
stesso autore) da una forma di sapere – evidentemente già riconoscibile e
dunque assestato, come rivela la formula impiegata («che chiamano», ἣν δὴ καλοῦσι)
- in grado di rispondere agli interrogativi sulla generazione e corruzione, e
così di dar ragione dell'esistenza di ciascuna cosa. Anticipando lo schema del
primo libro della Metafisica aristotelica, Platone disegna una storia della
sapienza incentrata sull'efficacia della esplicazione causale, nella quale
intende marcare la svolta radicale rappresentata dalla propria «seconda
navigazione» (δεύτερος πλοῦς): il filosofo non discute la necessità di
ricondurre le cose alla loro ragion d’essere; contesta invece la riduzione
limitata all’orizzonte delle cause fisiche, per Platone insufficienti a dar
adeguatamente conto del perché della disposizione del tutto. È probabile che,
pur attingendo a raccolte dossografiche organizzate in ambito sofistico, egli
ne adottasse il materiale in modo creativo, allo scopo di giustificare e
valorizzare una prospettiva filosofica peculiare13 . Un'ulteriore attestazione
dell'originaria accezione dell'espressione περὶ φύσεως ἱστορία ritroviamo, tra
i contemporanei di Platone, nel riscontro accidentale di un non-specialista
come Senofonte: 13 M. Adomenas, Plato, Presocratics and the Question of
Intellectual Genre, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei
Presocratici, cit., p. 344. 13 οὐδεὶς δὲ πώποτε Σωκράτους οὐδὲν ἀσεβὲς οὐδὲ ἀνόσιον
οὔτε πράττοντος εἶδεν οὔτε λέγοντος ἤκουσεν. οὐδὲ γὰρ περὶ τῆς τῶν πάντων
φύσεως, ᾗπερ τῶν ἄλλων οἱ πλεῖστοι, διελέγετο σκοπῶν ὅπως ὁ καλούμενος ὑπὸ τῶν
σοφιστῶν κόσμος ἔχει καὶ τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων Ma nessuno
mai vide o sentì Socrate fare o dire alcunché di irreligioso o empio. Egli
infatti non si interessava della natura di tutte le cose, alla maniera della
maggior parte degli altri, indagando come è fatto ciò che i sapienti chiamano
"cosmo" e per quali necessità si produca ciascuno dei fenomeni
celesti (Senofonte, Memorabili I, 1, 11). Non solo appare assodata - a livello
di opinione diffusa - (i) la sostanziale equivalenza tra sapienza e ricerca
«sulla natura di tutte le cose» (περὶ τῆς τῶν πάντων φύσεως), ma anche (ii) la
funzionalità di cosmogonia e cosmologia (ὅπως [...] κόσμος ἔχει), e
ulteriormente (iii) l'attenzione per la spiegazione di fenomeni specifici (ὅπως
[...] τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων). Una "istantanea"
che aiuta a fissare, dall'esterno, i caratteri del naturalismo presocratico è
infine costituita dal frammento dell’Antiope di Euripide (fr. 910 Nauck)14: ὄλβιος
ὅστις τῆς ἱστορίας ἔσχε μάθησιν, μήτε πολιτῶν ἐπὶ πημοσύνην μήτ’ εἰς ἀδίκους
πράξεις ὁρμῶν, ἀλλ’ ἀθανάτου καθορῶν φύσεως κόσμον ἀγήρων, πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ
καὶ ὅπως. τοῖς δὲ τοιούτοις οὐδέποτ’ αἰσχρῶν ἔργων μελέδημα προσίζει 14 A.
Laks, «Philosophes Présocratiques». Remarque sur la construction d’une
catégorie de l’historiographie philosophique, in A. Laks et C. Louguet (éds),
Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?,
Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, p. 20. 14
Beato è colui che alla ricerca ha dedicato la sua vita; egli né i suoi
concittadini danneggerà né contro di loro compirà atti malvagi, ma, osservando
della immortale natura l'ordine che non invecchia, ricercherà da quale origine
fu composto e in che modo. Tali individui non saranno mai coinvolti in atti
turpi. In questo caso, addirittura, abbiamo il privilegio di veder sottolineato
dal poeta il nesso tra contemplazione (καθορᾶν) dell'«ordine che non invecchia»
(κόσμον ἀγήρων) della «natura immortale» (ἀθανάτου φύσεως) e ricostruzione
delle sue modalità di formazione. A dispetto degli aggettivi coinvolti - ἀθάνατος
e ἀγήρως (di uso omerico ed esiodeo) – evidentemente il κόσμος oggetto
d'attenzione – l'ordinamento attuale dei fenomeni – è percepito come il
risultato di un processo di composizione (πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως), e il
suo studio non può prescindere dall'indagine (speculativa) sulle sue tappe. Il
modello peripatetico Della περὶ φύσεως ἱστορία la storiografia peripatetica ha
certamente fissato il canone interpretativo che ha pesato su tutta la
tradizione: nella ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia,
infatti, si attribuisce alla «maggioranza di coloro che per primi filosofarono»
(τῶν δὴ πρώτων φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι) la convinzione che «principi di
tutte le cose» (ἀρχὰς πάντων) fossero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς
ἐν ὕλης εἴδει μόνας), così argomentando: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ
οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης
τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων,
καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης
φύσεως ἀεὶ σωζομένης 15 ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro
essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono,
permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni,
questo sostengono essere elemento e questo principio delle cose, e per questo
credono che né si generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale
natura si conserva sempre. (Metafisica I, 3 983 b8-13) Nella lettura di
Aristotele, la specificità del contributo dei «primi filosofi» risiederebbe
nella riduzione degli enti (ἅπαντα τὰ ὄντα) soggetti a divenire alla stabilità
della φύσις soggiacente, ovvero, come lo stesso Aristotele precisa: ὥσπερ φασὶν
οἱ μίαν τινὰ φύσιν εἶναι λέγοντες τὸ πᾶν, οἷον ὕδωρ ἢ πῦρ ἢ τὸ μεταξὺ τούτων
come affermano coloro che sostengono che il tutto [l'universo] è una certa,
unica natura, quale l'acqua o il fuoco o qualcosa di intermedio (Fisica I, 6
189 b2), all'unità di una sostanza materiale originaria, «elemento» (στοιχεῖον)
e «principio» (ἀρχή) delle cose (τῶν ὄντων). Il quadro si definisce
ulteriormente nella ricostruzione che Teofrasto propone delle origini in
Anassimandro: [A.] [...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος
τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν
καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον, ἐξ ἧς ἅπαντας
γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς
οὖσι͵ καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην
καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις
οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα μεταβολὴν τῶν τεττάρων
στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον ποιῆσαι, ἀλλά
τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’
16 ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως. [...] Anassimandro [...]
affermò l’infinito principio e elemento delle cose che sono, adottando per
primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che esso non sia né
acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che sia una certa
altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i mondi in essi: «è
secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che sono hanno
origine, avvenga anche la loro distruzione; esse, infatti, pagano la pena e
reciprocamente il riscatto della colpa, secondo l’ordine del tempo» [B1]. Così
si esprime in termini molto poetici. È evidente allora che, avendo considerato
la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non ritenne adeguato porre
alcuno di essi come sostrato, preferendo piuttosto qualcos’altro al di là di
essi. Egli poi non fa discendere la generazione dalla alterazione
dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno [...]
(Simplicio; DK 12 A9). Senza scendere nel dettaglio dell'analisi, la
testimonianza e la citazione lasciano intravedere chiaramente alcuni punti su
cui si sarebbe concentrata l'indagine del Milesio: (i) l'individuazione di un
principio-origine delle cose (ἀρχή τῶν ὄντων) sottoposte a generazione
(γένεσις) e corruzione (φθορά); (ii) la formazione – nel linguaggio
peripatetico della testimonianza - degli «elementi» (στοιχεία), costitutivi
materiali da cui (ἐξ ὧν, «dalle quali cose») le cose hanno la loro generazione,
e verso cui (εἰς ταῦτα, «verso quelle stesse cose») si produce (γίνεσθαι) la
loro corruzione; (iii) le modalità del processo dalla natura originaria,
attraverso gli elementi, agli enti: «secondo necessità» (κατὰ τὸ χρεών),
secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν); (iv) il perché, la
causa del processo: il costante e compensativo confronto conflittuale tra i
contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας). Le
osservazioni di Teofrasto documentano quindi, agli albori dell'indagine περὶ
φύσεως, un'attenzione che non si esaurisce nella determinazione della materia
originaria (secondo l'interpretazione 17 di Burnet15), ma si rivolge almeno
anche ai processi di formazione delle «cose che sono» (come pensava Jaeger, accostando
φύσις e γένεσις 16 ). Complessivamente ciò doveva conferire alla ricerca quella
caratteristica impronta speculativa da cui l'autore dell'Antica medicina
prendeva le distanze. Che l'interesse non dovesse comunque risolversi in una
mera dimensione archeologica e abbracciare invece anche i risultati dei
processi, e dunque l'ordinamento dei fenomeni, è suggerito da varie fonti.
Aristotele, per esempio, marca in modo sufficientemente netto il focus
cosmologico: οἱ μὲν οὖν ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι φιλοσοφήσαντες περὶ φύσεως περὶ τῆς ὑλικῆς
ἀρχῆς καὶ τῆς τοιαύτης αἰτίας ἐσκόπουν, τίς καὶ ποία τις, καὶ πῶς ἐκ ταύτης
γίνεται τὸ ὅλον, καὶ τίνος κινοῦντος, οἷον νείκους ἢ φιλίας ἢ νοῦ ἢ τοῦ αὐτομάτου,
τῆς δ’ ὑποκειμένης ὕλης τοιάνδε τινὰ φύσιν ἐχούσης ἐξ ἀνάγκης, οἷον τοῦ μὲν πυρὸς
θερμήν, τῆς δὲ γῆς ψυχράν, καὶ τοῦ μὲν κούφην, τῆς δὲ βαρεῖαν. Οὕτως γὰρ καὶ τὸν
κόσμον γεννῶσιν. Gli antichi, che per primi filosofarono intorno alla natura,
indagarono, circa il principio materiale e la causa siffatta, che cosa e quale
fosse, e in che modo da questa si generasse l'intero, e da che cosa il
movimento, ad esempio dall'odio o dall'amore, o dall'intelletto, o dal caso,
poiché la materia sostrato ha una certa siffatta natura per necessità, ad
esempio calda quella del fuoco, fredda quella della terra, una leggera, l'altra
pesante; in questo modo, infatti generano anche il cosmo. (Aristotele, Le parti
degli animali, 640 b4-12. Traduzione di A. Carbone, BUR Rizzoli, Milano 2002).
La ricerca περὶ φύσεως degli «antichi primi filosofi» (ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι
φιλοσοφήσαντες) sarebbe stata variamente modulata intorno a: 15 J. Burnet,
Early Greek Philosophy, Black, London 19203 , pp. 11-12. 16 W. Jaeger, La
teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961, p. 32. 18
(i) natura e proprietà del «principio materiale» (περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς); (ii)
individuazione della causa del movimento (καὶ τίνος κινοῦντος); (iii) modalità
di generazione dell'«intero» (πῶς ἐκ ταύτης γίνεται τὸ ὅλον) ovvero del «cosmo»
(τὸν κόσμον γεννῶσιν). Parmenide e la φύσις Tornando ora alla titolazione del
Poema parmenideo, le testimonianze di coloro che hanno contribuito a
trasmetterne citazioni – sopra tutti Sesto Empirico e Simplicio (il secondo
molto probabilmente disponeva di copia dell'opera, il primo plausibilmente) –
sono univoche nell'attribuirgli l'intestazione Περὶ φύσεως. Abbiamo già letto
le affermazioni di Simplicio (ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ
Μέλισσος καὶ Π.), in linea con quelle di Sesto: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης
[...] ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον «Il discepolo
di lui (= Senofane), Parmenide [...] iniziando appunto il Peri physeōs scrive
in questo modo […]» (Adv. Math. VII, 111). Si tratta ora di capire entro quali
schemi avvenisse la ricezione dell'opera e del pensiero di Parmenide nella
tradizione περὶ φύσεως. Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία Prescindendo dagli
inquadramenti della produzione per noi frammentaria di Gorgia e Ippia, alla
collocazione e al ruolo di Parmenide nel quadro della sapienza antica pensò per
primo Platone. Delineando in un lungo passo del Sofista (242 b6-251 a4), che
costituisce indubbiamente l'antecedente diretto della disamina 19 dossografica
aristotelica, il panorama delle teorie dell’essere, egli introduce di fatto
alcune categorie destinate a grande fortuna storiografica: l'occasione è
fornita proprio da un rilievo su Parmenide: Εὐκόλως μοι δοκεῖ Παρμενίδης ἡμῖν
διειλέχθαι καὶ πᾶς ὅστις πώποτε ἐπὶ κρίσιν ὥρμησε τοῦ τὰ ὄντα διορίσασθαι πόσα
τε καὶ ποῖά ἐστιν Mi sembra che con leggerezza si siano rivolti a noi Parmenide
e tutti coloro che a un certo punto si sono impegnati a determinare gli enti:
quanti e quali enti esistano (242 c4-6). L’opposizione tra pensatori pluralisti
e unitari, e la «battaglia di giganti» (γιγαντομαχία) tra coloro che riducono
«tutto a corpo» (εἰς σῶμα πάντα) e coloro che, al contrario, pongono l'essere
(οὐσία) «nelle idee» (ἐν εἴδεσιν), sono fatte scaturire proprio dai problemi
(πόσα τε καὶ ποῖά ἐστιν, «quanti e quali enti esistano») sollevati (anche) dal
Poema. L'ottica "ontologica" adottata non può nascondere, nel
contesto, il riferimento all'indagine περὶ φύσεως, e, in particolare,
l'equivalenza tra ὄντα e ἄρχαί17: Μῦθόν τινα ἕκαστος φαίνεταί μοι διηγεῖσθαι
παισὶν ὡς οὖσιν ἡμῖν, ὁ μὲν ὡς τρία τὰ ὄντα, πολεμεῖ δὲ ἀλλήλοις ἐνίοτε αὐτῶν ἄττα
πῃ, τοτὲ δὲ καὶ φίλα γιγνόμενα γάμους τε καὶ τόκους καὶ τροφὰς τῶν ἐκγόνων
παρέχεται· δύο δὲ ἕτερος εἰπών, ὑγρὸν καὶ ξηρὸν ἢ θερμὸν καὶ ψυχρόν, συνοικίζει
τε αὐτὰ καὶ ἐκδίδωσι Mi sembra che ognuno racconti una storia, come fossimo
bambini: l'uno [racconta] che gli esseri sono tre, alcuni di essi talvolta sono
in qualche modo in lotta reciproca, talvolta al contrario, diventano amici, si
sposano, fanno figli e procurano nutrimento alla progenie; un altro, invece,
sostiene che [gli esseri] sono due - umido 17 Su questo punto N.L. Cordero nel
suo commento a Platon, Le Sophiste, traduction et presentation par N.L.
Cordero, Flammarion, Paris 1993, p. 240; J. Palmer, Plato's Reception of
Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999, p. 190. 20 e secco ovvero caldo e
freddo -, li fa convivere e li unisce in matrimonio (242 c8-d4). È appunto
all'interno di questo ampio disegno di ricostruzione della tradizione di
pensiero precedente che Platone fa della «stirpe eleatica» (Ἐλεατικὸν ἔθνος) 18
il prototipo del “monismo”. È chiaro nel contesto come esso sia, tuttavia, da
intendere non ingenuamente - non come se esistesse una sola cosa -, ma in
riferimento alla discussione sulla realtà fondamentale: alcuni pongono tre
principi, altri due, gli Eleati uno solo: τὸ δὲ παρ’ ἡμῖν Ἐλεατικὸν ἔθνος, ἀπὸ
Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον, ὡς ἑνὸς ὄντος τῶν πάντων καλουμένων οὕτω
διεξέρχεται τοῖς μύθοις da noi la stirpe eleatica - che ha avuto inizio da
Senofane e anche prima – riferisce le proprie storie secondo cui ciò che è
chiamato "tutto" [tutte le cose] non è che un solo essere (Sofista
242 d5-6). Nell'intenzione di Platone, ricondurre l'eleatismo a Senofane era
probabilmente funzionale alla sua collocazione entro un dibattito culturalmente
definito19: nella prospettiva di questa ricerca, in particolare, risulta
significativa la scelta di non isolare il contributo di Parmenide dallo sfondo
d'indagine sui principi (τὰ ὄντα διορίσασθαι). In termini analoghi il Parmenide
(180a) delinea le posizioni di Parmenide e Zenone: σὺ μὲν γὰρ ἐν τοῖς ποιήμασιν
ἓν φῂς εἶναι τὸ πᾶν, καὶ τούτων τεκμήρια παρέχῃ καλῶς τε καὶ εὖ· ὅδε δὲ αὖ οὐ
πολλά φησιν εἶναι, τεκμήρια δὲ καὶ αὐτὸς πάμπολλα καὶ παμμεγέθη παρέχεται. τὸ οὖν
τὸν μὲν ἓν φάναι, τὸν δὲ μὴ 18 È probabile che la genealogia sfumata del gruppo
eleatico (ἀπὸ Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον) fosse motivata
dall'intenzione di accentuare la "profondità" (l'antichità) della
dottrina di Parmenide in direzione delle origini. Su questo il commento di F.
Fronterotta in Platone, Sofista, a cura di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano
2007, p. 341-342. 19 Palmer, op. cit., pp. 191-192. 21 πολλά, καὶ οὕτως ἑκάτερον
λέγειν ὥστε μηδὲν τῶν αὐτῶν εἰρηκέναι δοκεῖν σχεδόν τι λέγοντας ταὐτά Tu
[Parmenide], infatti, nel tuo poema affermi che il tutto [l'universo] è uno, e
porti prove di ciò in modo brillante ed efficace; questi [Zenone], invece,
sostiene che i molti non esistono, e anche lui porta prove molto numerose e
consistenti. Il primo dice quindi che esiste l'uno, l'altro che i molti non
esistono: così ciascuno parla in modo che sembri che non sosteniate alcunché di
simile, mentre in realtà affermate le stesse cose, mentre il Teeteto (180e)
sottolinea la continuità tra Parmenide e Melisso: καὶ ἄλλα ὅσα Μέλισσοί τε καὶ
Παρμενίδαι ἐναντιούμενοι πᾶσι τούτοις διισχυρίζονται, ὡς ἕν τε πάντα ἐστὶ καὶ ἕστηκεν
αὐτὸ ἐν αὑτῷ οὐκ ἔχον χώραν ἐν ᾗ κινεῖται e le altre [dottrine] che i vari
Melissi e Parmenidi propongono con convinzione, opponendosi a tutti costoro [i
sostenitori della dottrina del flusso universale], secondo cui tutte le cose
sono uno e questo rimane stabile in se stesso, non avendo luogo in cui
muoversi. Ciò che questi passi confermano è – almeno nell’elaborazione della
maturità di Platone20 - la riduzione della dottrina eleatica alla formula ἓν τὸ
πᾶν (ovvero ἕν πάντα), con un’implicita valenza cosmologica che si affaccia,
oltre che in Parmenide (180a), nel Sofista (244e): Εἰ τοίνυν ὅλον ἐστίν, ὥσπερ
καὶ Παρμενίδης λέγει, πάντοθεν εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς
πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ, 20
Sulle fasi della ricezione platonica di Parmenide è oggi fondamentale J.
Palmer, Plato's Reception of Parmenides, cit.. 22 τοιοῦτόν γε ὂν τὸ ὂν μέσον τε
καὶ ἔσχατα ἔχει, ταῦτα δὲ ἔχον πᾶσα ἀνάγκη μέρη ἔχειν Se allora è un intero,
come sostiene anche Parmenide: «da tutte le parti simile a massa di ben rotonda
palla, a partire dal centro ovunque di ugual consistenza: è necessario infatti
che esso non sia in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una
parte o dall’altra», essendo tale ciò che è avrà un centro e dei limiti
estremi, e, avendoli, necessariamente avrà parti, e che il Timeo sembra
esplicitare21, riferendo l'opera di produzione del cosmo da parte del demiurgo:
σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα
περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα
σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον,
κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν τε αὐτὸ ἑαυτῷ
σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ
ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο
ἔξωθεν, οὐδ’ ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς,
οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν
δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ
ποθεν - οὐδὲ γὰρ ἦν - αὐτὸ γὰρ ἑαυτῷ τροφὴν τὴν ἑαυτοῦ φθίσιν παρέχον καὶ πάντα
ἐν ἑαυτῷ καὶ ὑφ’ ἑαυτοῦ πάσχον καὶ δρῶν ἐκ τέχνης γέγονεν E gli diede una
figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al vivente che
doveva contenere in sé 21 Secondo le indicazioni di Palmer (op. cit., pp. 193
ss.) sulla concentrazione di termini parmenidei nel dialogo. 23 tutti i viventi
non poteva essere che quella che comprendesse in sé tutte le figure possibili;
per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni parte
ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di tutte
le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più bello del
dissimile. E ne rese perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte
ragioni. Infatti, non aveva bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da
vedere all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi
era intorno aria, che dovesse essere respirata, né aveva bisogno di un organo
per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo averlo
assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso
aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori; infatti, è stato
prodotto in modo da offrire a se stesso, come nutrimento, la propria corruzione
e da avere in sé e da sé ogni azione e ogni passione (33 b-c)22 . Indizi
lessicali che invitano a supporre che Platone vedesse nell'Essere di Parmenide
una sorta di entità cosmica23, nell'interpretazione platonica modellata secondo
il precedente della divinità cosmica di Senofane24. Come ha prospettato
Brisson25, la stessa discussione del Parmenide potrebbe essere imperniata
sull'alternativa: (a) tutte le cose (l'universo) costituiscono una realtà unica
(ἓν εἶναι τὸ πᾶν) – come sarebbe stato affermato da Parmenide; la molteplicità
degli enti è solo apparente, dal momento che la loro pluralità reale
condurrebbe a paradossi: in questo senso «i molti non esistono» (οὐ πολλά εἶναι)
- secondo quanto argomentato da Zenone; 22 Platone, Timeo, introduzione,
traduzione e note di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano 2003. 23 E. Passa,
Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma
2009, p. 24. 24 Su questo punto Palmer, op. cit., pp. 193 ss.. 25 L. Brisson,
Introduction a Platon, Parménide, présentation et traduction par L. Brisson,
Flammarion, Paris 1994, pp. 20-21. 24 (b) esistono realmente molteplici realtà
sensibili, esse sono componenti dell'universo a loro volta costituite da
componenti elementari26 . Eccentricità di Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία
Nel terzo capitolo del primo libro della Metafisica, Aristotele, riprende uno
schema platonico, contrapponendo «coloro [...] che sostennero che uno solo è il
sostrato» (οἱ [...] ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον) a «coloro che ammettono
più principi» (τοῖς δὲ δὴ πλείω ποιοῦσι), ribadendone poi (nel quinto capitolo)
le implicazioni cosmologiche, in conclusione della discussione sui Pitagorici:
τῶν μὲν οὖν παλαιῶν καὶ πλείω λεγόντων τὰ στοιχεῖα τῆς φύσεως ἐκ τούτων ἱκανόν ἐστι
θεωρῆσαι τὴν διάνοιαν· εἰσὶ δέ τινες οἳ περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως ἀπεφήναντο,
τρόπον δὲ οὐ τὸν αὐτὸν πάντες οὔτε τοῦ καλῶς οὔτε τοῦ κατὰ τὴν φύσιν. Da queste
cose è possibile intendere a sufficienza il pensiero degli antichi che
sostenevano la pluralità di elementi della natura. Ci sono poi coloro che
parlarono del tutto [dell'universo] come di un'unica natura, ma non tutti allo
stesso modo, né per convenienza né per conformità alla natura (986 b8-12).
Evidentemente in relazione a Parmenide e ai suoi seguaci, Aristotele osserva: εἰς
μὲν οὖν τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων οὐδαμῶς συναρμόττει περὶ αὐτῶν ὁ λόγος (οὐ γὰρ
ὥσπερ ἔνιοι τῶν φυσιολόγων ἓν ὑποθέμενοι τὸ ὂν ὅμως γεννῶσιν ὡς ἐξ ὕλης τοῦ ἑνός,
ἀλλ’ ἕτερον τρόπον οὗτοι λέγουσιν· ἐκεῖνοι μὲν γὰρ προστιθέασι κίνησιν, γεννῶντές
γε τὸ 26 Ivi, p. 21. 25 πᾶν, οὗτοι δὲ ἀκίνητον εἶναί φασιν)· οὐ μὴν ἀλλὰ τοσοῦτόν
γε οἰκεῖόν ἐστι τῇ νῦν σκέψει. Una discussione intorno a costoro esula
dall’esame attuale delle cause: essi, infatti, non parlano come alcuni dei naturalisti,
i quali, posto l’essere come uno, fanno comunque nascere [le cose] dall’uno
come da materia; essi parlano, invece, in altro modo. Mentre quelli, in
effetti, aggiungono il movimento, facendo nascere il tutto [l’universo],
questi, al contrario, sostengono che [il tutto] sia immobile. Almeno quanto
[segue], tuttavia, è appropriato alla presente ricerca (986 b12-18).
Nell'ambito di una indagine sulle cause e sui principi primi, il confronto con
le dottrine eleatiche non avrebbe dovuto trovare spazio: in questo senso è
marcata una radicale differenza rispetto alla ricerca dei «naturalisti» (ἔνιοι
τῶν φυσιολόγων). Essendosi espressi «sull'universo [sul tutto] come fosse
un'unica natura [realtà]» (περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), «immobile» (ἀκίνητον)
e immutabile, gli Eleati, in effetti, lo avevano pensato incausato27 . In De
Caelo si sottolinea ulteriormente la peculiare posizione di Parmenide e
Melisso: Οἱ μὲν οὖν πρότερον φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας καὶ πρὸς οὓς νῦν
λέγομεν ἡμεῖς λόγους καὶ πρὸς ἀλλήλους διηνέχθησαν. Οἱ μὲν γὰρ αὐτῶν ὅλως ἀνεῖλον
γένεσιν καὶ φθοράν· οὐθὲν γὰρ οὔτε γίγνεσθαί φασιν οὔτε φθείρεσθαι τῶν ὄντων, ἀλλὰ
μόνον δοκεῖν ἡμῖν, οἷον οἱ περὶ Μέλισσόν τε καὶ Παρμενίδην, οὕς, εἰ καὶ τἆλλα
λέγουσι καλῶς, ἀλλ’ οὐ φυσικῶς γε δεῖ νομίσαι λέγειν· τὸ γὰρ εἶναι ἄττα τῶν ὄντων
ἀγένητα καὶ ὅλως ἀκίνητα μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς
σκέψεως. Ἐκεῖνοι δὲ διὰ τὸ μηθὲν μὲν ἄλλο παρὰ τὴν τῶν αἰσθητῶν οὐσίαν ὑπολαμβάνειν
εἶναι, τοιαύτας δέ τινας νοῆσαι πρῶτοι φύσεις, εἴπερ ἔσται τις γνῶσις ἢ
φρόνησις, οὕτω μετήνεγκαν ἐπὶ ταῦτα τοὺς ἐκεῖθεν λόγους 27 Perplessità analoghe
sono espresse e discusse da Aristotele nei primi capitoli della Fisica (I, 2 e
3). 26 Coloro dunque che dapprima filosofarono intorno alla verità sono stati
in disaccordo sia rispetto ai discorsi che noi proponiamo, sia reciprocamente.
Gli uni, infatti, eliminarono completamente generazione e corruzione:
sostengono in vero che nessuna delle cose che sono si generi o si corrompa, ma
semplicemente che ciò sembra a noi. Così i seguaci di Melisso e Parmenide, i
quali, anche se si esprimono adeguatamente sulle altre cose, tuttavia non si
deve credere che parlino da un punto di vista fisico, dal momento che l'essere
alcuni degli enti ingenerati e completamente immobili è proprio piuttosto di
un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica. Costoro, invece, da un
lato non ritenevano esistesse altro oltre la sostanza dei sensibili, dall'altro
per primi pensarono delle nature di tale specie, se doveva esserci una qualche
forma di conoscenza o intelligenza: così trasferirono su questi enti
[sensibili] i ragionamenti riferiti a quell'ambito»(Aristotele, De Caelo III, 1
298 b12-24). Alludendo esplicitamente a Melisso e Parmenide, Aristotele ne
disloca il contributo rispetto a una ricerca incardinata sulla ricostruzione
dei processi di «generazione e corruzione» (γένεσις καὶ φθορά): considerare gli
enti «ingenerati» (ἀγένητα) e «completamente immobili» (ὅλως ἀκίνητα) è proprio
«di un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica» (μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας
καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς σκέψεως). Eppure l'analisi della Metafisica rivela
come, secondo Aristotele, l’eleatismo presentasse al proprio interno
incrinature e fratture che l'appiattimento operato dalla dossografia sofistica
doveva aver coperto o trascurato28. Nel primo libro (Ι, 3 984 a27-b4) – dopo
aver discusso «l'opinione circa la natura» (περὶ τῆς φύσεως ἡ δόξα) dei
pensatori orientati a ricercare la causa prima (περὶ τῆς πρώτης αἰτίας) in
ambito materiale (di cui Talete sarebbe stato «i- 28 J. Palmer, Parmenides
& Presocratic Philosophy, OUP, Oxford 2009, p. 35 giustamente sottolinea
come i raggruppamenti operati da Gorgia nel suo Sulla natura o sul non essere
avessero incoraggiato l'assimilazione "riduttiva" di Parmenide e
Melisso. Aristotele avrebbe avuto il merito di recuperare le differenze tra le
relative posizioni. 27 niziatore», ἀρχηγὸς) – lo Stagirita marca una
discontinuità nel contributo di Parmenide, capace di individuare la causa
specifica del mutamento (τῆς μεταβολῆς αἴτιον): οἱ μὲν οὖν πάμπαν ἐξ ἀρχῆς ἁψάμενοι
τῆς μεθόδου τῆς τοιαύτης καὶ ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον οὐθὲν ἐδυσχέραναν
ἑαυτοῖς, ἀλλ’ ἔνιοί γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς
ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν
καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην
μετα βολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν. τῶν μὲν οὖν ἓν φασκόντων εἶναι τὸ
πᾶν οὐθενὶ συνέβη τὴν τοιαύτην συνιδεῖν αἰτίαν πλὴν εἰ ἄρα Παρμενίδῃ, καὶ τούτῳ
κατὰ τοσοῦτον ὅσον οὐ μόνον ἓν ἀλλὰ καὶ δύο πως τίθησιν αἰτίας εἶναι· Coloro,
dunque, che fin dall’inizio aderirono completamente a tale tipologia di ricerca
e sostennero che uno solo è il sostrato, non si resero conto di questa
difficoltà, ma alcuni di coloro che affermano tale unicità, quasi sopraffatti
da questa ricerca, sostengono che l’uno è immobile e che lo è anche la natura
nel suo complesso, non solo rispetto a generazione e corruzione - questa è,
infatti, [convinzione] antica, su cui tutti concordavano -, ma anche rispetto a
ogni altro genere di mutamento. Questa è loro peculiarità. A nessuno, pertanto,
di coloro che affermarono che il tutto [l’universo] è uno è capitato di
scoprire tale tipologia di causa, tranne, forse, a Parmenide, e a costui nella
misura in cui pone non solo l’uno, ma anche che le cause sono in un certo modo
due. È significativo che, illustrando queste affermazioni di Aristotele nel
proprio commento (in Metaphys. Ι, 3 984 b3), Alessandro di Afrodisia citi Teofrasto:
τούτωι δὲ ἐπιγενόμενος Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης (λέγει δὲ [καὶ] Ξενοφάνην) ἐπ’ ἀμφοτέρας
ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι
πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ 28 ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν
ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς
τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς
ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. Venuto dopo costui (si riferisce a Senofane),
Parmenide - figlio di Pyres, da Elea - percorse entrambe le strade. Dichiara
infatti che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione degli
enti, pur non affrontando entrambe allo stesso modo: piuttosto sostenendo,
secondo verità, che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; ponendo
invece, secondo l’opinione dei molti – allo scopo di spiegare la generazione
dei fenomeni [delle cose che appaiono] - che i principi siano due, fuoco e
terra, l'una come materia, l'altro come causa e agente (DK 28 A7). Condizionata
dalla stessa ricezione schematica, in entrambi i casi la valutazione del
contributo di Parmenide è chiaramente orientata dalla prospettiva della περὶ
φύσεως ἱστορία: non solo per l'attenzione alla «natura nel suo complesso» (τὴν
φύσιν ὅλην), al «tutto uno» (ἓν τὸ πᾶν), ma soprattutto per l'evidenza della
«ricerca dell'altro principio» (τὸ τὴν ἑτέραν ἀρχὴν ζητεῖν), cioè del
«principio del movimento» (ἡ ἀρχὴ τῆς κινήσεως), per «spiegare la produzione
dei fenomeni» (εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων). In questo senso
Teofrasto poteva proporre Parmenide al centro di una delle due serie di
pensatori affrontati sistematicamente: quella che collegava i primi a «rivelare
ai Greci l’indagine intorno alla natura» (τὴν περὶ φύσεως ἱστορίαν τοῖς Ἕλλησιν
ἐκφῆναι) 29 agli atomisti30 . 29 G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, Milano
1978, Adelphi, p. 247. Teofrasto, in effetti, prospetta Parmenide discepolo di
Senofane - come riferiscono Diogene Laerzio (IX, 21, DK 28 A1), e i
commentatori aristotelici Alessandro e Simplicio (DK 28 A7) - e di Anassimandro
(secondo quanto attesta sempre Diogene Laerzio), associandolo poi a Empedocle -
«ammiratore» (ζηλωτής) e «imitatore» (μιμητής) di Parmenide (DK 28 A9) - e
Leucippo - «unito a Parmenide nella filosofia» (κοινωνήσας Παρμενίδηι τῆς
φιλοσοφίας, DK 28 A8). 29 Per quanto possa apparire inverosimile da un punto di
vista cronologico, l’accostamento ad Anassimandro non è tuttavia sorprendente31
e rivela il modus operandi di Teofrasto nelle sue ricostruzioni: egli insegue
le tracce di problemi che sarebbero giunti ad adeguata formulazione solo
successivamente, cogliendone lo sviluppo attraverso la connessione tra le
principali personalità (per altro all’interno di rigide categorie
aristoteliche)32. In questa prospettiva, allora, Parmenide, come abbiamo sopra
registrato, avrebbe compiuto quanto da Anassimandro solo impostato: non si
sarebbe limitato a mantenere la prospettiva del divenire distinta da quella del
sostrato materiale, ma ne avrebbe anche individuato chiaramente i principi
diversi33 . Un secondo elemento di discontinuità all'interno dell'eleatismo è
da Aristotele individuato nella concezione dell'unità dell'universo (περὶ τοῦ
παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), di cui si sottolineano le ricadute interessanti
anche «sull'indagine in corso intorno alle cause» (εἰς τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων).
Parmenide, infatti, avrebbe inteso l’uno «secondo la nozione [forma]» (κατὰ τὸν
λόγον), ovvero come unità finita (essendo la finitezza espressione di
determinatezza); Melisso, da parte sua, «secondo la materia» (κατὰ τὴν ὕλην),
come unità indeterminata e quindi infinita. Senofane - «il primo tra costoro a
essere partigiano dell'Uno» (πρῶτος τούτων ἑνίσας) e per ciò ancora una volta
riconosciuto maestro di Parmenide – si sarebbe invece limitato, volgendosi
«all'universo nel suo 30 L’altra doveva raccogliere Anassimandro, Anassimene,
Anassagora, Archelao, Empedocle, Diogene di Apollonia. Determinante il ruolo
riconosciuto complessivamente ad Anassimandro. 31 Nella ricerca contemporanea è
stata sottolineata la dipendenza della cosmologia del poema Sulla natura dalla
cosmologia e cosmogonia attribuite al Milesio: si veda in particolare Naddaf,
op. cit., p. 138. D’altra parte, a dispetto di singoli elementi di convergenza,
David Furley ha opportunamente marcato la distanza tra «the centrifocal
universe» del poema e quello «lineare» delle cosmologie milesie (D. Furley, The
Greek Cosmologists.Volume I: The formation of the atomic theory and its
earliest critics, C.U.P., Cambridge 1987, pp. 53 ss.). 32 Un’ampia discussione
della storiografia teofrastea sui presocratici si trova in G. Colli, La natura
ama nascondersi. Physis kruptesthai philei, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano
1998, cap. II (Storicismo peripatetico). 33 G. Colli, La sapienza greca, Vol.
II, cit., p. 327. 30 insieme» (εἰς τὸν ὅλον οὐρανὸν), ad affermarne la divinità
(τὸ ἓν εἶναί φησι τὸν θεόν). Ribadendo un giudizio di valore già espresso nel
Teeteto platonico (183e), lo Stagirita registra l'acutezza del contributo di
Parmenide, a dispetto della sua eccentricità rispetto al focus
"aitiologico". Messi da parte Melisso e Senofane come «un po’ troppo
grossolani» (μικρὸν ἀγροικότεροι), egli infatti sottolinea: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον
βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν
οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν),
ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον
πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς
πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν
τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche
modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre
all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di
necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e
assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione,
pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia
fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il
non-essere (986 b27-987 a1). Nella ricostruzione aristotelica due sarebbero i
cardini della dottrina parmenidea: (i) la convinzione circa l'unità dell'essere
(ἓν οἴεται εἶναι) - da un punto di vista razionale (κατὰ τὸν λόγον) necessaria
(ἐξ ἀνάγκης), imposta dalla disgiunzione e mutua esclusione tra essere e
non-essere: «non esiste ciò che non è al di là di ciò che è» (παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ
μὴ ὂν οὐθὲν εἶναι); (ii) la presa d'atto dell'evidenza fenomenica: così,
secondo noi, è da intendere l'espressione greca ἀναγκαζόμενος ἀκολουθεῖν τοῖς
31 φαινομένοις (letteralmente «costretto a essere guidato dai fenomeni [cose
che appaiono]»). Proprio l'ineludibile rilievo empirico della molteplicità
(πλείω κατὰ τὴν αἴσθησιν) avrebbe imposto un nuovo campo d'indagine, inducendo
Parmenide a introdurre «due cause e due principi» (δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς),
ciò legittimando la sua rilevanza per la discussione aristotelica. Si tratta di
una lettura che trova conferma nella dossografia successiva, anche in un
autore, Plutarco, che attingeva probabilmente a una tradizione accademica,
relativamente autonoma rispetto alla linea teofrastea: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν
φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος ἰδέαν
τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ
τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν.
ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ < ὲς ἦτορ
>’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ (Parmen. B 1, 29. 30) διὰ τὸ παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ
πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι. καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν
καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν; οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide]
non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è
proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo
"essere" in quanto eterno e incorruttibile, e ancora uno per
uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile invece in
quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile
vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che raggiunge
l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le opinioni dei
mortali in cui non è vera certezza» [B1.29-30], perché esse sono congiunte con
cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come
avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il
sensibile e 32 l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus
Colotem 1114 d-e). Le osservazioni di Plutarco sono particolarmente
significative perché intervengono a correggere l'interpretazione
"melissiana" di Parmenide (proposta da Colote), secondo cui
«Parmenide cancella ogni cosa postulando l'essere uno» (πάντ’ ἀναιρεῖν τῷ ἓν ὂν
ὑποτίθεσθαι τὸν Παρμενίδην): è appunto contro questo fraintendimento che il
platonico attribuisce anacronisticamente all'Eleate l'articolazione della
realtà in «intelligibile» (τὸ νοητόν) e «sensibile» (τὸ αἰσθητόν), avendo in
precedenza ricordato lo sforzo del Poema di produrre un «sistema del mondo»
(διάκοσμον), in conformità con quanto ci si poteva attendere da un «naturalista
arcaico» (ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ
στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ
τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ
σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν
φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν
Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la
tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in
effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta
anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti,
come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno
scritto proprio – non distruzione di un altro (Adversus Colotem 1114b, DK 28
B10). Questa testimonianza rafforza la convinzione che - sia per la tradizione
dossografica antica, sia per la posteriore (in gran parte però dipendente da
quella) - il tema del Poema parmenideo fosse anche la φύσις (nel senso sopra
sommariamente ricostruito), seb- 33 bene se ne registrasse la
"eccentricità" 34 e quindi la problematica riducibilità al paradigma
della περὶ φύσεως ἱστορία. Tra ricerca περὶ φύσεως e ricerca περὶ τῆς ἀληθείας
Aristotele, introducendo l’indagine «sull’essere in quanto essere» (περὶ τὸ ὂν ᾗ
ὂν), su ciò che appartiene «a tutte le cose in quanto enti» (ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι),
la differenzia rispetto a ricerche più specifiche: ciò che la connota è,
infatti, accanto alla eziologia propria di ogni sapere, l'apertura alla
totalità della realtà. Riguardo alla περὶ φύσεως ἱστορία, tuttavia, la sua
posizione è più sfumata: l'originale speculazione sull’«essere in quanto
essere» è proposta, infatti, in continuità con la precedente tradizione: ἐπεὶ δὲ
τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας ζητοῦμεν, δῆλον ὡς φύσεώς τινος αὐτὰς ἀναγκαῖον
εἶναι καθ’ αὑτήν. εἰ οὖν καὶ οἱ τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων ζητοῦντες ταύτας τὰς ἀρχὰς
ἐζήτουν, ἀνάγκη καὶ τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος εἶναι μὴ κατὰ συμβεβηκὸς ἀλλ’ ᾗ ὄν·
διὸ καὶ ἡμῖν τοῦ ὄντος ᾗ ὂν τὰς πρώτας αἰτίας ληπτέον Dal momento che
ricerchiamo i principi e le cause supreme, è evidente come esse riguardino
necessariamente una certa natura [realtà] in quanto tale. Se dunque coloro che
ricercano gli elementi delle cose ricercavano questi principi, è necessario che
fossero anche gli elementi dell'essere non per accidente ma in quanto essere.
Per questo motivo dobbiamo comprendere le cause prime dell'essere in quanto
essere» (Metafisica IV, 1 1003 a26-32). «Gli elementi costitutivi delle cose
che sono» (τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων) – nella misura in cui sono intesi come
principi di tutte – 34 Ci siamo occupati di questo aspetto in Parmenide e la
tradizione del pensiero greco arcaico (ovvero della sua eccentricità), in Il
quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di
S. Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011, pp. 165-178. 34 risultano
in effetti «elementi dell'essere in quanto tale» (τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος ᾗ ὄν),
costitutivi di tutto ciò che è. In questo senso la cifra sapienziale comune
alla «scienza dell'essere in quanto essere» (ἐπιστήμη ἣ θεωρεῖ τὸ ὂν ᾗ ὂν) e
all'indagine dei φυσικοί è data, in definitiva, dalla convergente modalità di
realizzazione: «ricercare i principi e le cause prime» (τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας
αἰτίας ζητεῖν) della realtà. Più avanti nello stesso libro, infatti, Aristotele
rileva come «alcuni dei fisici» (τῶν φυσικῶν ἔνιοι) si fossero mostrati
evidentemente consapevoli di «ricercare sulla natura [realtà] nella sua
interezza e sull’essere» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος,
Metafisica IV, 3 1005 a32- 33), intendendo quindi la «natura» come una totalità
omogenea (dal punto di vista dell'essere), cui ineriscono determinate proprietà
riconducibili a principi universali. Ritenendo così che φύσις e τὸ ὂν
coincidessero, che la φύσις cioè costituisse «tutta la realtà», quei «fisici»
avrebbero manifestato interesse per gli «assiomi» (ἀξιώματα), i principi più
generali di tutti, quelli che «appartengono a tutti gli enti» (ἅπασι ὑπάρχει τοῖς
οὖσιν), la cui discussione non è di competenza dello specialista (che si limita
ad applicarli) ma appunto della «ricerca del filosofo» (τῆς τοῦ φιλοσόφου
[σκέψεως]). Il riferimento è indeterminato ed è stato precisato in modo diverso
dagli interpreti: noi riteniamo che esso coinvolga direttamente Eraclito (per
la riflessione sul logos) e in particolare Parmenide, soprattutto in
considerazione del lessico dei frammenti B2 e B8. Un lessico che effettivamente
sembra istituire la riflessione ontologica, sia con l'analisi dei «segni»
(σήματα), delle proprietà che manifestano τὸ ἐόν, sia con l'insistenza sulla reciproca
implicazione di verità ed essere. Natura, essere, verità Lo Stagirita, in
effetti, rilegge la tradizione anche alla luce di un'intenzione veritativa di
fondo: 35 ὅμως δὲ παραλάβωμεν καὶ τοὺς πρότερον ἡμῶν εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων ἐλθόντας
καὶ φιλοσοφήσαντας περὶ τῆς ἀληθείας consideriamo comunque anche coloro che
prima di noi hanno proceduto alla ricerca intorno agli enti e hanno filosofato
intorno alla verità (Metafisica I, 3 983 b1), Espressioni come «coloro che
dapprima filosofarono intorno alla verità» (οἱ μὲν οὖν πρότερον φιλοσοφήσαντες
περὶ τῆς ἀληθείας, De Caelo III, 1 298 b12), ovvero che «indagarono la verità
intorno agli enti» (περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, Metafisica IV, 5
1010 a1), rivelano come Aristotele intendesse l'indagine sulla natura come
indagine sulla verità, la prima comportando una presa di posizione circa ciò
che è Realtà 35. In questo senso i primi filosofi avevano contribuito
«all’indagine sugli enti» (εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων): in quanto convinti che la
natura fosse la realtà fondamentale, ricercando «sulla natura [realtà] nella
sua interezza» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως) essi avevano offerto anche riflessioni
«sull’essere» (περὶ τοῦ ὄντος): ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν
καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας,
καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι
γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον
εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν
γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’
εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Coloro che per primi hanno ricercato
secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti, furono sviati
come su una certa altra strada, sospinti dall'inesperienza: essi sostennero che
delle cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera
origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma ciò è 35 W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo,
Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi
di Pisa, Pisa 1994, p. 16. 36 impossibile da entrambi i punti di vista. Ciò che
è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò che non è è
possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che funga da
sostrato. E aggravando in questo modo la conseguenza immediata, affermarono che
non esistano i molti ma che esista solo l'essere stesso (Fisica I, 8 191 a25
ss.). Il passo è di grande interesse: nell'ambito di una discussione sui
principi (il primo libro della Fisica compare nei cataloghi antichi come Περὶ ἀρχῶν),
Aristotele (i) intende la riflessione dei primi filosofi (οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι)
come indagine a un tempo sulla natura e sulla verità (ζητοῦντες τὴν ἀλήθειαν καὶ
τὴν φύσιν τῶν ὄντων), e (ii) attribuisce il loro "sviamento", la loro
erranza, a una precoce analisi ontologica condotta con imperizia (ὑπὸ ἀπειρίας).
Benché spesso riferita dai commentatori specificamente agli Eleati, la difficoltà
segnalata potrebbe intendersi rivolta a coloro che avevano operato la riduzione
a elementi base (questo appare il significato nel contesto di τὰ ὄντα) 36. In
tal caso Aristotele riconoscerebbe all'indagine dei «fisici» un filo conduttore
ontologico, che in Parmenide sarebbe stato pienamente esplicitato. È
significativo che dalle intestazioni attribuite (probabilmente sin
dall'antichità 37) alle opere di Melisso e Gorgia (di una generazione
posteriore a quella di Parmenide) emergesse già la consapevolezza
dell'inadeguatezza del tradizionale repertorio Περὶ φύσεως, con la proposta di
Περὶ φύσεως ἢ περὶ τοῦ ὄντος, nel primo caso, e Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως
nel secondo; e che in ambi- 36 Su questo in particolare Palmer, Parmenides
& Presocratic Philosophy, cit., pp. 130 ss.. 37 È tradizionalmente
riconosciuto che l'intenzione dello scritto gorgiano era di ribaltare le tesi
eleatiche (per esempio, W.K.C. Guthrie, The Sophists, C.U.P., Cambridge 1971,
pp. 270-271). I due resoconti dell'opera – quello di Sesto Empirico (che ci
fornisce anche la titolazione completa) e quello dell'Anonimo del De Melisso,
Xenophane et Gorgia (forse I secolo d.C.) – potrebbero dipendere da Teofrasto
ed essere stati semplicemente elaborati in modo diverso. In alternativa, per la
seconda redazione, si è supposta la mano di un peripatetico antico (si veda la
nota di M. Untersteiner in Sofisti, Testimonianze e frammenti, a cura di M.
Untersteiner, con la collaborazione di A. Battegazzore, Bompiani, Milano 2009,
p. 234). 37 to sofistico proliferassero opere sulla «Verità» (Περὶ τῆς ἀληθείας
e Ἀλήθεια sono le titolazioni attribuite alle opere principali rispettivamente
di Antifonte e di Protagora). Aristotele, in ogni caso, con la formula
«indagine sulla verità» intende un’indagine sulla realtà genuina, tesa ad
accertare quale essa sia, spingendosi oltre le apparenze che la occultano38.
Illuminante un passo di De generatione et corruptione: Ἐκ μὲν οὖν τούτων τῶν
λόγων, ὑπερβάντες τὴν αἴσθησιν καὶ παριδόντες αὐτὴν ὡς τῷ λόγῳ δέον ἀκολουθεῖν,
ἓν καὶ ἀκίνητον τὸ πᾶν εἶναί φασι καὶ ἄπειρον ἔνιοι· τὸ γὰρ πέρας περαίνειν ἂν
πρὸς τὸ κενόν. Οἱ μὲν οὖν οὕτως καὶ διὰ ταύτας τὰς αἰτίας ἀπεφήναντο περὶ τῆς ἀληθείας·
ἐπεὶ δὲ ἐπὶ μὲν τῶν λόγων δοκεῖ ταῦτα συμβαίνειν, ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων μανίᾳ
παραπλήσιον εἶναι τὸ δοξάζειν οὕτως A partire dunque da questi ragionamenti, e
spingendosi oltre la sensazione e ignorandola, dal momento che si dovrebbe
seguire il ragionamento, alcuni dicono che il tutto [l'universo] è uno,
immobile e infinito: il limite, infatti, confinerebbe con il vuoto. Costoro,
dunque, in questo modo e per queste ragioni si sono espressi sulla verità: ora,
alla luce dei ragionamenti sembra che queste cose accadano così; alla luce dei
fatti, invece, il pensare così sembra quasi follia (Aristotele, De generatione
et corruptione I, 8 325 a13ss.). Qui Aristotele stigmatizza, per la sua
paradossalità (sintomatico il riferimento alla «follia»), una forma di
«razionalismo eleatico» 39 che, nel riferimento all'infinito, appare
sostanzialmente melissiano40: il contributo all'indagine sulla verità
scaturisce da una 38 Leszl, op. cit., p. 17. 39 Così Migliori, Aristotele, La
generazione e la corruzione, traduzione, introduzione e commento di M.
Migliori, Loffredo Editore, Napoli 1976, p. 200. 40 Non è un caso che Reale
abbia accolto le prime righe del passo aristotelico come un vero e proprio
frammento di Melisso: Melisso, Testimonianze e frammenti, traduzione,
introduzione e commento di G. Reale, Firenze 1970, La Nuova Italia, pp. 98-104.
38 ricerca volta alla comprensione della realtà naturale nel suo insieme (τὸ πᾶν).
Una ricerca, dunque, a un tempo "ontologica" ed
"epistemologica" (in senso lato), nella misura in cui la
determinazione della realtà genuina dipende da considerazioni di ordine gnoseologico
(delineate nella contrapposizione ἐπὶ μὲν τῶν λόγων - ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων).
Ora, nei frammenti parmenidei non mancano indizi (come rivelano le letture
antiche) della possibilità che l'espressione τὸ ἐόν («ciò che è» ovvero
«l'essere»), di cui si definiscono proprietà strutturali - «senza nascita» (ἀγένητον)
«senza morte» (ἀνώλεθρον), «tutto intero» (οὖλον), «uniforme» (μουνογενές),
«saldo» (ἀτρεμές) (B8.4-5) – si riferisca a quel che Aristotele indica come τὸ
πᾶν, il Tutto dell’universo41: Parmenide, nel suo sforzo di evitare le
incongruenze colte nelle coeve indagini sull'origine e sulla struttura del
mondo naturale42, avrebbe trasfigurato lo spazio cosmico nel compiuto,
omogeneo, immutabile campo dell’«essere», così spingendo la filosofia naturale
ai limiti di logica e metafisica43. Né, d'altra parte, mancano tracce di una
trattazione περὶ τῆς ἀληθείας44: la prima sezione del Poema si apre e si chiude
con chiare menzioni della Verità – intesa come la Realtà oggetto
dell'esposizione stessa, mentre l'impianto dicotomico dell'opera tràdita
riflette la tensione tra il resoconto genuino di quella realtà e una sua
accettabile ricostruzione a partire dall'esperienza che gli uomini ne hanno. 41
Interpreta in questo senso D. Furley, The Greek Cosmologists, cit., p. 54.
Conche – in Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction,
présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1996, p. 182 – osserva
come l’essere abbia a che fare con il Tutto, con l’insieme di ciò che è, e sia
dunque coestensivo al mondo. Una prospettiva analoga a quella che proponiamo è
espressa da M. Kraus, "Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des
Parmenides", in G. Rechenauer (Hg.), Frügriechisches Denken, Vandenhoeck
& Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269. Di particolare rilievo le pagine
260-1. 42 Lasciamo qui indeterminati i bersagli possibili, da ricercare
comunque in ambito ionico e pitagorico. 43 D.W. Graham, “Empedocles and
Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge Companion to Early Greek
Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999, p. 175. 44 Leszl, op.
cit., p. 19. 39 Natura e verità in Parmenide In effetti, nel caso del poema di
Parmenide, presumendone unitarietà e coerenza, possiamo registrare: (i) lo
squilibrio di struttura: la (seconda) sezione dedicata all'esposizione
dell'«ordinamento [del mondo] del tutto appropriato» (διάκοσμον ἐοικότα πάντα,
B8.60) doveva essere assai più consistente di quella (la prima) relativa al
«percorso di Persuasione, che si accompagna a Verità» (Πειθοῦς κέλευθος - Ἀληθείῃ
γὰρ ὀπηδεῖ, B2.4); (ii) il costante richiamo, nell'introduzione del διάκοσμος,
a un lessico di conoscenza: B10 appare, in questo senso, un vero e proprio
programma di istruzione cosmologica e cosmogonica, tra l'altro in sintonia con
il modello poetico esiodeo della Teogonia45: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν
αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν
ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ
καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄
ἔχειν ἄστρων. Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della
pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e
le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la [sua]
natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e
come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri. 45
L’accostamento è naturale in Aristotele, quando, in apertura di Metafisica I,
4, introduce l’analisi della causalità efficiente, rinviando proprio ai
precedenti di Esiodo e Parmenide sul ruolo cosmogonico di Amore. 40 Che
l'articolata indagine prospettatavi possa essere rubricata come περὶ φύσεως ἱστορία
sembra, alla luce delle considerazioni introduttive, indiscutibile, così come
appare chiara la sua intenzione cognitiva: nella costruzione del Poema, è
allora possibile rintracciare una corrispondenza tra la ricerca della seconda
sezione e l'impegno ontologico-veritativo dei frammenti B2-B8. L'obiettivo
dichiarato (nel proemio) della comunicazione divina è compiutamente
conoscitivo, scandito da espressioni verbali dalla inequivocabile valenza
cognitiva, in relazione tanto a Ἀληθείη quanto ai δοκοῦντα: χρεὼ δέ σε πάντα
πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι
πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι
διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità
ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale
credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle
opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti
(B1.28b-32). La Dea sottolinea il proprio impegno a (i) rivelare la realtà
genuina (Ἀληθείη), tradizionale appannaggio divino, e (ii) denunciare le
infondate (senza «reale credibilità», πίστις ἀληθής) «opinioni dei mortali»
(βροτῶν δόξας), in ciò riflettendo il canonico pessimismo sulla condizione e
comprensione umana che aveva trovato espressione nella poesia e nella sapienza
antica: τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ σύνθεο καί μευ ἄκουσον· οὐδὲν ἀκιδνότερον γαῖα
τρέφει ἀνθρώποιο [πάντων, ὅσσα τε γαῖαν ἔπι πνείει τε καὶ ἕρπει.] οὐ μὲν γάρ
ποτέ φησι κακὸν πείσεσθαι ὀπίσσω, ὄφρ’ ἀρετὴν παρέχωσι θεοὶ καὶ γούνατ’ ὀρώρῃ· ἀλλ’
ὅτε δὴ καὶ λυγρὰ θεοὶ μάκαρες τελέωσι, 41 καὶ τὰ φέρει ἀεκαζόμενος τετληότι θυμῷ.
τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε
θεῶν τε. Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi: nulla è più
inconsistente dell'uomo tra tutte le cose che nutre la terra, e sulla terra
camminano e si muovono. Egli sostiene che nulla di male mai gli accadrà, fin
quando gli dei concedono forza e le membra sono in movimento. Quando invece gli
dei beati infliggono anche dolori, pure questi sopporta, suo malgrado, con
animo paziente. Tale è la comprensione degli uomini che vivono sulla terra,
quale il giorno che manda il padre degli dei e degli uomini (Odissea XVIII,
129-137) θνατὰ χρὴ τὸν θνατόν, οὐκ ἀθάνατα τὸν θνατὸν φρονεῖν il mortale deve
pensare cose mortali, non cose immortali (Epicarmo, DK 23 B20) ἄρα θεὸς μὲν οἷδε
τὴν ἀλήθειαν δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται soltanto dio conosce la verità, a tutti
è dato solo opinare (Senofane, DK 21 A24). Ma il programma non si esaurisce
nella contrapposizione tra comprensione divina e incomprensione umana, pur
limpidamente e criticamente evocata. La rivelazione della realtà autentica -
per la quale Parmenide ricorre a una perifrasi, impiegando due immagini: letteralmente
«cuore che non trema» (ἀτρεμὲς ἦτορ) di «Verità ben rotonda» (Ἀληθείης εὐκυκλέος
ovvero, secondo altri codici, «ben convincente», εὐπειθέος) - è certamente
occasione per condannare di fronte al giovane poeta (κοῦρος) l’inattendibilità
delle convinzioni umane. Essa, nell'economia del poema, appare tuttavia
funzionale anche alla presentazione di un resoconto alternativo, plausibile
(δοκίμως), del mondo dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα): 42 a dispetto
dell'inaffidabilità delle correnti opinioni mortali, è possibile delinearne una
sintesi compatibile con la lezione di verità della prima istruzione. Difficile
credere che Parmenide non fosse in qualche misura convinto della bontà del
punto di vista espresso negli attuali frammenti B9-B1246, ovvero della ἱστορία
περὶ φύσεως tracciatavi, anche perché i rilievi del testo richiamano
puntualmente i divieti di B2-B8: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ
τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ
νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose
luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà,
[sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di
luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle
due [è] il nulla (B9). Discorso affidabile e ordinamento verosimile Eppure il
passaggio tra le due sezioni è marcato in modo inequivocabile: ἐν τῷ σοι παύω
πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε
κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine per te al
discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi
opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando che può ingannare
(B8.50-2). 46 Lesher, op. cit., p. 240. 43 In questi versi si incrociano le due
prospettive che Parmenide tenta di salvaguardare all'interno della tradizionale
opposizione tra umano e divino: (i) da un lato la "superiore" ottica
della divinità, che si esprime in un logos degno di fiducia: svolgendo
rigorosamente la propria disamina dall'alternativa «è e non è possibile non
essere»-«non è ed è necessario non essere», esso riconosce che: ἀγένητον ἐὸν καὶ
ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄
ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές senza nascita è ciò che è e senza
morte, tutto intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un
tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.3b-6a), (ii)
dall'altro i punti di vista umani, molteplici e concorrenti, insidiosi e
potenzialmente dispersivi: è esplicitamente all'interno di questo orizzonte che
la Dea introduce la seconda sezione: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα
φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del
tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali
possa superarti. Nessun resoconto cosmologico, nella misura in cui si riferisca
alle vicende di una molteplicità di enti in divenire (instabili e mutevoli),
può essere considerato completamente affidabile, come, invece, il discorso su
«ciò che è» (τὸ ἐόν), sulla realtà colta come totalità (unitaria, immutevole,
essendo nel suo complesso tutto ciò che è). Per valutare correttamente
l'impresa parmenidea dobbiamo tenere conto di due elementi: 44 (a) del
contributo scientifico47 (prevalentemente in campo cosmologico48) riconosciuto
a Parmenide nell’antichità: ancora una volta è interessante soprattutto il
fatto che Teofrasto (DK 28 A44) gli attribuisse la scoperta della sfericità
della Terra: ἀλλὰ μὴν καὶ τὸν οὐρανὸν πρῶτον ὀνομάσαι κόσμον καὶ τὴν γῆν
στρογγύλην, ὡς δὲ Θεόφραστος [Phys. Opin. 17] Παρμενίδην, ὡς δὲ Ζήνων Ἡσίοδον
[in riferimento a Pitagora] ma fu anche il primo a chiamare il cielo cosmo e la
terra sferica; per Teofrasto fu invece Parmenide, per Zenone Esiodo, e che
altre fonti risalissero all’Eleate per osservazioni sulla identità di Espero e
Lucifero (DK 28 A40a): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον
ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι
πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ οὐρανὸν καλεῖ Parmenide pone come primo nell'etere Eos,
lo stesso da lui chiamato anche Espero; dopo di esso pone il Sole, sotto
questo, nella parte ignea che chiama cielo, gli astri, e sulla natura solare
della luce della Luna: Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ
φωτίζεται 47 Per una recente valorizzazione di questo aspetto G. Cerri, La
riscoperta del vero Parmenide, introduzione a Parmenide di Elea, Poema sulla
natura, introduzione, testo, traduzione e note a cura di G. Cerri, Milano 1999,
BUR Rizzoli (in particolare pp. 52-57); D.W. Graham, Explaining the Cosmos.The
Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press,
Princeton and Oxford 2006, pp. 179-182. 48 Naddaf ha d’altra parte segnalato
come il modello cosmogonico della seconda sezione del poema dovesse essere
influenzato da una prospettiva biologica e ricordato opportunamente le tracce
di una «antropogonia», attestata da Diogene Laerzio (DK 28A1). Si veda G.
Naddaf, The Greek Concept of Nature, cit., pp. 137-138. 45 Parmenide [dice che]
la luna è uguale al sole: da esso è infatti illuminata (DK 28 A42); (b)
dell'evidente contrasto tra la condanna della confusione "mortale"
tra le due vie: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν,
πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato essere e non
essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso
torna all'indietro (B6.8-9) οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα Mai questo
sarà forzato: che siano cose che non sono (B7.1), ovvero dell’irrisolta
opposizione nelle cosmogonie correnti (ioniche? pitagoriche?): μορφὰς γὰρ
κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν
Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità non
è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (B8.53-4),
e la sottolineatura (nel già citato B9) della riduzione omogenea all'essere
delle forme introdotte per il διάκοσμος ἐοικώς: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ
ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ
φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché
tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le
rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è
pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché
insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). 46 La distinzione tra i due
momenti dell'istruzione divina sembra quindi consapevolmente delineare due
distinte forme di conoscenza: (a) la certezza della comprensione razionale –
evocata dalla reiterazione di νοεῖν (comprendere, concepire, pensare) e νόος
(intelligenza, pensiero), nonché di espressioni come κρῖναι δὲ λόγῳ («giudica
con il ragionamento») - degli attributi universali di «ciò che è» (τὸ ἐόν, il
complesso della realtà colto come tutto-intero); (b) la plausibilità di una
conoscenza – l'uso di verbi di conoscenza è indiscutibile nei frammenti
attribuiti alla seconda sezione - che possiamo definire "empirica",
dal momento che si concentra sulla natura delle cose che incontriamo nella
nostra esperienza49 . In realtà il quadro è più complesso, perché fortemente
condizionato da una cornice religiosa che deve indurre cautela. Intanto, quella
che abbiamo indicato come «conoscenza razionale» (via d'accesso privilegiata
alla Verità) è proposta come contenuto diretto di una rivelazione (B1) che
costituisce il contesto dell'intera esposizione del Poema, e che pone
immediatamente (B2) le premesse da cui dipendono i ragionamenti successivi.
Come avremo modo di sottolineare nel commento, tale rivelazione non appare un
semplice escamotage poetico, estrinseco rispetto alla comunicazione di verità,
ma, al contrario, il vero nucleo propulsivo dell’opera, la condizione di
continuità entro cui le due sezioni assumono il loro senso e il loro statuto50.
Un elemento andato perduto nella ricezione di Parmenide nel IV secolo a.C.
(che, infatti, non ci ha conservato citazioni dal proemio), ma in sé di grande
interesse per la collocazione culturale dell'Eleate e per la valutazione del
suo contributo. L'oggetto di tale conoscenza - τὸ ἐόν – appare, a sua volta,
nei frammenti sia come risultato di una costruzione logica: 49 Lesher, op.
cit., p. 241. 50 Su questo punto insiste Lambros Couloubaritsis, nella nuova
edizione (La pensée de Parménide, Éditions Ousia, Bruxelles 2008) del suo Mythe
et Philosophie chez Parménide. 47 ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ
ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής
ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito
dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare
l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che
l’altra invece esista e sia reale (B8.15b-18), sia come concrezione di una
sintesi intuitiva, a partire dallo sguardo rivolto alla molteplicità degli enti:
λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος
ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον Considera
come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non
impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi
completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4). In questo
secondo caso, la costante presenza dell'essere è giustapposta alla
presenza-assenza degli enti, prefigurando l'opposizione tra l'immutabile
presente dell'uno: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν,
συνεχές né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno,
continuo (B8.5-6a) e il divenire - scandito da passato, presente e futuro –
degli altri: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι 48 καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε
τελευτήσουσι τραφέντα Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose
ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine
(B19.1-2). Ciò può suggerire che i due momenti del discorso divino riflettano
l'originale rielaborazione parmenidea della tensione, implicita nella cultura
delle origini, tra la dimensione temporale delle cose in divenire (τά τ’ ἐόντα
τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, «le cose che sono, le cose che sono state e le
cose che saranno», Iliade I, 70) e quella peculiare alla concezione arcaica del
divino (θεοὶ αἰὲν ἐόντες, «dei che sono sempre», Iliade I, 290)51 . La
distinzione ben delineata nei frammenti tràditi, come abbiamo visto, è quella
tra: (i) la certezza (πίστιος ἰσχύς) che scaturisce dal giudizio razionale su τὸ
ἐὸν: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν
Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario: essere è infatti possibile, il
nulla, invece, non è (B6.1-2a); (ii) la verosimiglianza del resoconto
cosmologico, che pur legittimato dalla parola divina: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα
πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento,
del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei
mortali possa superarti (B8.60-1) si rivolge all'origine e sviluppo di fenomeni
prodotti dall'azione celeste: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα
51 Ivi, p. 102. 49 σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν
ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν Conoscerai la
natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente
Sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai
periodiche della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura (B10.1-5a), e,
ulteriormente, ai fondamenti cosmogonici e cosmologici (in questo senso alle
condizioni generali del mondo naturale): εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν
ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων conoscerai anche
il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidando
lo vincolò a tenere i confini degli astri (B10.5b-7). La certezza è prodotto
del «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος) associato a Verità (Ἀληθείη)
ed essere (τὸ ἐὸν): Parmenide insiste sulla necessità di tale sapere,
chiaramente correlata a immutabilità, identità e stabilità del suo oggetto. La
ricostruzione del διάκοσμος ἐοικώς riflette, d'altra parte, la mutevolezza dei
fenomeni fissati dall'arbitrio delle denominazioni umane: in questo senso,
rispetto all'affidabilità del «percorso di Persuasione» che manifesta la
genuina realtà (la Verità), essa è proposta dalla Dea come κατὰ δόξαν, «secondo
opinione». Essere e natura in Parmenide Nel proprio schema (Metafisica I, 5 986
b27-987 a1) - che già abbiamo commentato - Aristotele aveva dunque colto
sostanzialmente nel segno: 50 Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ
γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο
οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν), ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν
τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων
εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ
καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν.
Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal
momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto,
egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto
tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i
molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi,
chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo
sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere. La lettura aristotelica
suggerisce, infatti, che l'oggetto – apparentemente diverso - delle due sezioni
del Poema sia in verità identico, sebbene prospettato secondo differenti
modalità gnoseologiche: «secondo ragione» (κατὰ τὸν λόγον) e «secondo
sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Una considerazione puramente razionale fa
emergere la realtà (naturale) come uno-tutto; il riferimento all'esperienza
manifesta la pluralità dei fenomeni: nel primo caso il livello di astrazione fa
perdere di vista i connotati fenomenici e risaltare i tratti di fondo della
realtà; nel secondo l'urgenza di dar conto dei fenomeni spinge
all'individuazione di efficaci principi esplicativi. Come non è possibile
parlare di due oggetti diversi, così non può sfuggire nei frammenti il
tentativo di Parmenide di ripensare il problema dei principi in termini
ontologici, attribuendo cioè ai principi alcune caratteristiche dei «segni» di
τὸ ἐὸν: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν
φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, 51 τῷ δ΄ ἑτέρῳ
μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo
e segni imposero separatamente gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma
etereo fuoco, che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni direzione
identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche
quello in se stesso, le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e
pesante (B8.55-9) τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε αὐτὰρ ἐπειδὴ
πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς,
πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ
μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e
queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose
e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe
alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). Questo
autorizza l'ipotesi che la prima sezione – pur compiuta, autosufficiente e
autonoma – fosse effettivamente intesa come preparatoria alla seconda, con la
quale l'autore entrava in competizione (come sottolineato anche dalle parole
della divinità) con altre cosmologie. È plausibile che il modello esplicativo
del mondo naturale che vi si delinea abbia profondamente influenzato quello,
fondato sulla nozione di mescolanza, adottato da Empedocle e Anassagora52,
sensibili, tra l'altro, ai rilievi “ontologici” di 52 In modo diverso giungono
a sostenere questa ipotesi P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism
and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998; P.
Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, cit.;
D.W. Graham, Explaining the Cosmos, cit.. 52 Parmenide53 – come risulterebbe da
una serie di frammenti (DK 31 B8, B9, B11, B12; DK 59 B17). 53 D.W. Graham,
“Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge
Companion to Early Greek Philosophy, cit., p. 167. Per una più meditata e
articolata riflessione sullo stesso tema, si può ora consultare D.W. Graham,
Explaining the Cosmos, cit.. 53 IL TESTO DI PARMENIDE E LA SUE FONTI Si
ipotizza che la consistenza dell'unica opera di cui la tradizione sostiene
Parmenide sia stato autore, fosse approssimativamente di un migliaio di versi,
160 (circa) dei quali abbiamo ricevuto attraverso posteriori citazioni da parte
di altri autori. Essi riferivano in qualche caso direttamente da una copia del
poema, in altri indirettamente da selezioni antologiche ovvero da citazioni
altrui. Riflettendo sulla storia di queste citazioni testuali, possiamo
concludere che il poema di Parmenide sia stato oggetto di due distinti momenti
di attenzione, a distanza di 4 secoli l’uno dall’altro, prima di scomparire
definitivamente54 . Il materiale del Poema Possiamo supporre che una prima
diffusione di copie del Poema avvenisse sotto il controllo dell'autore e che
forme di controllo sul testo e sulla sua circolazione fossero esercitate dagli
allievi nel periodo immediatamente successivo alla sua morte. È plausibile che
nel mondo greco occidentale si conservasse una memoria testuale autonoma, da
collegare forse ad ambienti pitagorici 55 , e che, analogamente, tradizioni del
testo si affermassero anche in altre aree di civilizzazione greca, come l'Asia
Minore, dove il poema sembra essere stato conosciuto abbastanza presto. Si
tratta solo di congetture, dal momento che non disponiamo di evidenze di questa
fase pre-platonica, ma, secondo Passa56, non è da escludere che a una di queste
tradizioni abbia attinto Sesto Empirico. La prima attestazione del Poema risale
a Platone, che cita per cinque volte Parmenide: nel Teeteto (180d a proposito
della tesi dell’unità e della immobilità dell’Uno-Tutto), nel Simposio (178b 54
N.-L- Cordero, L’histoire du texte de Parménide, in Études sur Parménide, sous
la direction de P. Aubenque, t. II, Problèmes d’interpretation, Vrin, Paris
1987, p. 4. 55 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua,
Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 143. 56 Ibidem. 54 a proposito del primato di
Eros), tre volte nel Sofista (237a e 258d a proposito del «parricidio»; 244e a
proposito della struttura e indivisibilità del Tutto). Aristotele, a sua volta,
replica la descrizione del Tutto già citata da Platone (Fisica 207 a18), cita
il verso su Eros (Metafisica 984 b26) e trascrive l'attuale frammento 16
(Metafisica IV, 5 1009 b22). L’ultima citazione della prima "esistenza
postuma" del Poema è in Teofrasto, che riprende tre volte il fr. 16 (in
una versione diversa da quella aristotelica). È probabile che le citazioni del
frammento 8 nello pseudo-aristotelico Su Melisso, Senofane e Gorgia e in Eudemo
derivino da Platone 57 . Dopo un lungo silenzio - segnale, secondo Cordero58,
non propriamente di scomparsa del testo parmenideo, piuttosto di «mancato
utilizzo» - il platonico Plutarco (I secolo d.C.) torna a fare uso abbondante
dei frammenti del poema, aprendo di fatto la seconda stagione d’attenzione per
l'opera - la più ricca di citazioni testuali - che dura fino a tutto il VI
secolo. Caratteristica di questa fase è il ricorso al Poema non per illustrare
la posizione dell'autore, ma per confermare o chiarire il tema oggetto di
analisi da parte dei commentatori: è probabile che le citazioni non siano di
prima mano, ma dipendano in gran parte da Platone, Aristotele e Teofrasto. A
Simplicio, l’ultimo autore conosciuto che abbia usato un manoscritto
dell’intera opera di Parmenide 59, dobbiamo la citazione (in gran parte come
unica fonte) dei due terzi dei 160 versi tràditi del poema: egli cita
estensivamente anche perché consapevole della rarità del testo già nella sua
epoca (clamorosamente quella in cui aumenta il numero di autori che
direttamente o indirettamente citano Parmenide: Damascio, Filopono, Asclepio,
Boezio, Olimpiodoro60): καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος
ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε 57 Cordero, op. cit., pp. 4-5. 58
Ivi, p. 5. 59 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum,
Assen/Maastricht 1986, p. 1. 60 Cordero, op. cit., p. 6. 55 τοῖς ὑπομνήμασι
παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ
Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di sembrare insistente, vorrei
aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere
uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto
parmenideo (DK 28 A21). Cordero giudica molto probabile – sulla scorta del
lavoro filologico di Diels – l'utilizzazione da parte di Proclo (V secolo) e
Simplicio (VI secolo) di due differenti versioni del poema di Parmenide61.
Damascio (V-VI secolo d.C.) cita sulla scorta del commento perduto di Giamblico
(III-IV secolo d.C.) al Parmenide platonico. Altri autori antichi (V e VI
secolo d.C.) come Ammonio, Filopono, Olimpiodoro e Asclepio potrebbero non aver
avuto la possibilità di accedere direttamente a copia dell’intero poema62 . Le
fonti e i loro problemi Da un punto di vista culturale, possiamo rileggere
questa storia disponendo le fonti in tre raggruppamenti63: (i) Platone,
Aristotele, Teofrasto e Eudemo (tutti del IV secolo a.C.), gravitanti intorno
alle due principali istituzioni filosofiche ateniesi: Accademia e Liceo; (ii)
figure eterogenee appartenenti a centri di cultura ellenistico-romana: Plutarco
(I sec.), Galeno (II sec.), Clemente Alessandrino e Sesto Empirico (II-III
sec.), Diogene Laerzio (III sec.); (iii) figure cronologicamente e
geograficamente distanti, ma unite culturalmente dal fondamentale
neoplatonismo: Plotino (III sec.), Giamblico (III-IV sec.), Proclo (IV-V sec.),
Damascio e Ammonio (V-VI sec.): Simplicio è loro discepolo. 61 Cordero, op.
cit., p. 5. 62 Coxon, op. cit., p. 2. 63 Seguiamo Passa, op. cit., p. 21. 56
Fonti attiche Possiamo supporre che le fonti del primo gruppo abbiano avuto
accesso a copie del poema: secondo Passa64, si può facilmente dimostrare,
tuttavia, che in molti casi esse citano a memoria, ma è probabile che
sfruttassero anche la prima sistemazione del materiale presocratico a opera dei
sofisti. Si ritiene, infatti, che Platone e Aristotele ricorressero alle
selezioni approntate nella seconda metà del V secolo a.C. da Ippia (che nella
sua Συναγωγή aveva estratto, messo in relazione e commentato tesi presenti in
opere poetiche e in prosa65) e Gorgia (che, a sua volta, aveva estrapolato
dalla prima produzione filosofica enunciati teorici che potevano essere
organizzati per contrapposizioni, così sottolineando gli insolubili contrasti tra
filosofie: un'impostazione che certamente ha lasciato tracce ancora nelle opere
ippocratiche, in Senofonte e Isocrate). Platone e Aristotele, che rivelano
nelle loro opere di combinare i due approcci, pur avendo modo di consultare
direttamente almeno una parte delle opere attribuite ai primi filosofi,
sarebbero stati comunque condizionati dagli schemi sofistici nella loro
lettura66 . Se è plausibile, dunque, che le nostre fonti più antiche - Platone,
Aristotele e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo - avessero accesso a copie
dell’intero poema, è tuttavia significativo che Teofrasto e Eudemo non siano
fonti primarie dei versi che citano e che lo stesso Aristotele citi (3 volte su
4) probabilmente sulla scorta dei dialoghi platonici (per altro poco accurati
nel riportare il testo parmenideo)67. La disponibilità, inoltre, di differenti
versioni dello stesso frammento (B16) in Aristotele e Teofrasto può essere
indizio dell’esistenza, già nel IV secolo a.C., di almeno due distinte
tradizioni manoscritte. Nonostante sia praticamente impossibile per noi
risalire oltre la redazione attica del poema pos- 64 Ivi, p. 25. 65 J.-F.
Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età
dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp.
288 ss.. 66 J. Mansfeld, Sources, in The Cambridge Companion to Early Greek
Philosophy, cit., pp. 26-27. 67 Ivi, pp. 2-3. 57 seduta dall'Accademia e dal
Peripato, è dunque almeno ipotizzabile discriminare al suo interno tra il testo
usato (o citato a memoria) da Platone e Aristotele e quello usato da Teofrasto.
Né, come abbiamo in precedenza segnalato, si può escludere che redazioni
alternative autonome siano sopravvissute nella tradizione più tarda68 . La
recente ricerca linguistica69 sottolinea come Platone citi da una versione già
in parte "atticizzata" del Poema, che aveva dunque sopportato
interventi simili a quelli operati (nello stesso periodo) sul testo omerico:
modificazioni del vocalismo e introduzione di aspirazioni (in origine il testo
doveva essere psilotico). Il testo riportato da Platone è nel complesso
accurato, sebbene, secondo Passa, proprio a Platone si possa far risalire la
spiccata propensione a interpretarlo, che diventerà poi norma per i
neoplatonici, con conseguenti gravi alterazioni nelle loro redazioni. Da
Platone e dalla sua scuola deriverà, fino a Proclo, quella tradizione
"accademica" da cui è tratta la maggioranza delle citazioni del Poema
disponibili. In considerazione di quanto sopra osservato, è plausibile che
Aristotele, a sua volta, dipenda da Platone, mentre Teofrasto potrebbe aver
attinto da fonte alternativa: è dalla ricerca dell'allievo di Aristotele che si
sarebbe formata, in ambiente peripatetico, la tradizione
"dossografica", quella delle fonti che derivano le proprie citazioni
da compilazioni70 . 68 Passa, op. cit., p. 26. 69 Ibidem. 70 La tradizione
dossografica si apre in effetti con le Φυσικαὶ Δόξαι (nella tradizione per lo
più indicato come Physicorum Opiniones) di Teofrasto (in 16 libri): integrata
in periodo ellenistico, l’opera sarebbe stata poi utilizzata dagli Epicurei,
Cicerone, Varrone, Enesidemo (fonte di Sesto Empirico, seconda metà II secolo),
dal fisico Sorano (I-II secolo), Tertulliano (II-III secolo). Diels denominò
questa revisione Vetusta Placita. Essa sarebbe stata ulteriormente rivisitata,
abbreviata e integrata – nel I secolo – da un autore indicato come Aëtius, la
cui raccolta, per noi perduta, è stato ricostruita da Diels. Il filologo
tedesco ha mostrato come i Placita attribuiti a Plutarco (in realtà
pseudo-Plutarco, II secolo) fossero una sintesi dell’opera di Aëtius (e il De
historia philosophica di Galeno un’ulteriore riduzione di pseudoPlutarco) e
soprattutto come da Aëtius (anche attraverso il materiale riassunto da pseudo-Plutarco)
dipendessero la monumentale antologia (solo 58 Fonti ellenistico-romane
Plutarco (esponente di punta della Media Accademia) è il primo autore, dopo il
lungo silenzio dell'età ellenistica, a citare passi del Poema: gli attuali
frammenti B1.29-30, B8.4, B13, B14, B15 hanno Plutarco come fonte; degli ultimi
due egli è la nostra unica fonte. Sebbene dichiari di ricorrere ad appunti (ὑπομνήματα),
alcune varianti di testo fanno supporre che egli citi da fonti attendibili71 .
È probabile attingesse a una tradizione vicina o identica a quella
"accademica" (le sue citazioni presentano coincidenze con varianti
trasmesse da Proclo), prima, tuttavia, delle alterazioni intervenute nella
successiva tradizione neoplatonica. La redazione plutarchea di B1.29, infatti,
coincide con quella di Sesto Empirico e Diogene Laerzio, ed è alternativa a
quelle di Proclo e Simplicio72. Indicativo della validità della fonte
plutarchea è soprattutto il caso di B13 (trasmesso anche da Platone,
Aristotele, Sesto Empirico, Simplicio, Stobeo): Plutarco è l'unico testimone in
grado di menzionare chiaramente soggetto e contesto del frammento, con
l'indicazione della sezione cui la citazione apparteneva (un unicum nelle
fonti)73 . Dimestichezza con il Poema, secondo Coxon74, mostrerebbe nel
complesso Clemente Alessandrino (per noi fonte più antica di quasi tutto ciò
che cita75: B1.29 s., B3, B4, B8.3 s., B10), ma il fatto che di B8.4 egli sia
l'unico a riportare la variante ἀγένητον (nella dossografia impiegata per
sottolineare l'accordo di Parmenide con Senofane) - dove Simplicio presenta ἀτέλεστον
- fa suppore, nella ricezione del testo, un condizionamento da parte di in
parte conservata) di Stobeo (V secolo), Eclogae physicae, e la Graecarun
affectionum curatio di Teodoreto (V secolo). A Teofrasto sarebbero in ultimo da
ricondurre anche la Refutatio omnium haeresium di Ippolito (III secolo), gli
Stromateis di altro pseudo-Plutarco (conservato da Eusebio), i capitoli
dedicati ai primi filosofi greci nelle Vitae philosophorum di Diogene Laerzio
(III secolo). Su questo Mansfeld, op. cit., pp. 23-24. 71 Passa, op. cit., p.
27. 72 Ivi, pp. 27-28. 73 Ivi, p. 28. 74 Coxon, op. cit., p. 5. 75 Ivi, p. 3.
59 versioni dossografiche. Più recisa la valutazione di Passa76, secondo cui
gli atticismi delle citazioni rivelerebbero come Clemente lavorasse su un testo
fortemenete modificato, di fonti atticizzate. Il livello di corruttela farebbe
escludere (contro l'ipotesi di Coxon) la disponibilità di copia integrale del
Poema. La ricerca di Passa ha evidenziato la peculiarità del contributo di
Sesto Empirico nella storia del testo del Poema: egli sarebbe, in effetti, il
solo a conservare nelle proprie citazioni tracce di una tradizione testuale
alternativa a quella attica77 . In particolare è Sesto - cui dobbiamo anche la
citazione di B7.2-7 e B8.1-2) – l'unica fonte del Proemio (B1.1-30) e una sua
interpretazione allegorica: in genere si afferma che esse dipendano da fonte
intermedia, probabilmente di ambiente vicino a Posidonio, ma lo studioso
italiano ha avanzato l'ipotesi che Sesto abbia utilizzato fonti diverse per il
testo del proemio e per la sua parafrasi78. Questa dipenderebbe effettivamente
da commento stoico; nel caso del testo del Proemio, tuttavia, Sesto è l'unico a
conservare traccia dell'antica redazione psilotica del poema: probabile,
dunque, che egli disponesse di una buona copia del Proemio, verosimilmente da
esemplare di tutto il poema79. Che Sesto (ovvero la sua fonte) possa aver
attinto a una terza tradizione testuale, è ipotesi che anche Cordero80 avanza,
sebbene la citazione di B1.29-30 in tre lezioni differenti non ne possa
costituire prova conclusiva. A tradizione testuale molto vicina a quella
sestana (quindi non attica), potrebbe aver attinto anche Diogene Laerzio, che
fornisce identica redazione di B1.29 e, con Sesto, una buona porzione di B7
(vv. 3-5)81 . Fonti neoplatoniche La prima fonte neoplatonica – ovviamente dopo
lo stesso Plotino (III secolo d.C.), che cita solo di passaggio frammenti
isolati: 76 Passa, op. cit., p. 32. 77 Passa, op. cit., p. 29. 78 Ivi, p. 31.
79 Ibidem. 80 Cordero, op. cit., p. 5. 81 Coxon (op. cit., pp. 2-3) presume
invece, nel caso di Sesto e di Diogene, fonti peripatetiche e stoiche. 60 B3,
B8.5, B8.25, B8.43 - è costituita da Proclo, che fu scolarca dell'Accademia
fino alla morte (fine V secolo). A lui dobbiamo un consistente numero di
citazioni: gli attuali B1.29-30, B2, B3, B4.1, B5, B8.4, B8.5, B8.25, B8.26,
B8.29-32, B8.35-36, B8.43- 45, che rivelano la sua familiarità con l’opera
parmenidea82, ciò suggerendo la possibilità che avesse accesso a testo
completo. Oggi si concorda83 sostanzialmente sulla notevole approssimazione dei
suoi riferimenti, probabilmente risultato di citazioni a memoria, eppure si
conviene che, in considerazione delle coincidenze non casuali con la versione
di Plutarco, il testo di Proclo dovesse essere antico almeno quanto quello di
Plutarco, e derivare dalla medesima tradizione testuale accademica84, sebbene
ormai modificata dall'interpretazione neoplatonica di Parmenide. Nella propria
edizione del Poema (1897)85 Hermann Diels attribuì a Simplicio - come fonte per
la ricostruzione dell'opera di Parmenide - enorme valore. A conclusione della
propria introduzione, il filologo tedesco da un lato assumeva che l'esemplare
di Simplicio dovesse essere di qualità eccellente (im Ganzen vortrefflich),
forse (vermutlich) risalente alla stessa biblioteca della scuola di Platone86,
di cui egli fu uno degli ultimi esponenti prima della chiusura a opera di
Giustiniano (529 d.C.); dall'altro, però, riconosceva anche come Simplicio e
Proclo non potessero aver ricavato dalla stessa copia le rispettive citazioni.
Così, nonostante risultassero legati alla stessa istituzione, secondo Diels i
due commentatori neoplatonici avrebbero utilizzato codici diversi87 , esemplari
di versioni testuali alternative all'interno della stessa tradizione
accademica. L'impostazione dielsiana nello specifico è stata di recente
discussa con acribia da Passa88, secondo il quale è difficile credere 82 Coxon,
op. cit., pp. 2-3. 83 Coxon, op. cit., pp. 5-6; Passa, op. cit., pp. 38-39. 84
Passa, op. cit., p. 39. 85 H. Diels, Parmenides Lehrgedicht, Academia Verlag,
Sankt Augustin 20012 , pp. 25-26. 86 Ivi, p. 26. 87 Ibidem. 88 Op. cit., pp. 35
ss. 61 che Simplicio potesse derivare la propria copia dalla biblioteca
dell'Accademia, dal momento che: (i) dopo la chiusura decretata nel 529
dall'editto di Giustiniano, i filosofi neoplatonici (il diadoco Damascio e
l'allievo Simplicio) prima si recarono in esilio presso il re persiano Cosroe
(531), per ritirarsi poi (532) entro i confini dell'impero bizantino, a Harran
(Mesopotamia) o in Siria; (ii) tutti i trattati simpliciani furono stesi dopo
il ritorno dalla Persia, secondo questo ordine: (i) de caelo, (ii) in physicam,
(iii) in categorias, (iv) de anima89 . Simplicio – cui dobbiamo citazioni degli
attuali B1.28-32, B2.3-8, B6, B7.1-2, B8, B10, B11, B12, B13, B20 - è stato, in
effetti, generalmente considerato fonte attendibile anche dagli editori
successivi: ancora Coxon90 giudicava l'esemplare a disposizione di Simplicio «a
rare and excellent copy». Nonostante si possa registrare come un certo numero
di sue citazioni sia ricavato da testi platonici, e plausibilmente sospettare
che sia ricorso a ὑπομνήματα e/o compilazioni antologiche (conosce infatti due
redazioni di B8.4, di cui una molto vicina all'esemplare di Plutarco e
Proclo)91 , a favore dell'affidabilità dell'attestazione di Simplicio depongono
l'esplicito impegno a trasmettere documenti del pensiero antico ritenuti
fondamentali e il fatto che egli mostri di padroneggiare la struttura del Poema
sin dal primo commento aristotelico (de caelo) 92. Soprattutto hanno pesato,
nella valutazione del suo contributo, i suoi espliciti rilievi, in precedenza
citati: «vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide
sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità
dello scritto parmenideo» (DK 28 A21). Passa93 ha tuttavia messo in dubbio
l'attendibilità della redazione simpliciana, facendo leva in particolare su un
indizio: citando i vv. B8.53-59, Simplicio (in physicam 31, 3) segnala: 89 Ivi,
p. 36. 90 Coxon, op. cit., p. 6. 91 Passa, op. cit. p. 40. 92 Ibidem. 93 Ivi,
pp. 41-43. 62 καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς
αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως· ἐ π ὶ τ ῶ ι δ έ ἐ σ τ ι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ
τ ὸ φ ά ο ς καὶ τὸ μ α λ θ α κ ὸ ν καὶ τὸ κοῦφον, ἐ π ὶ δ ὲ τ ῶ ι π υ κ ν ῶ ι ὠ
ν ό μ α σ τ α ι τὸ ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· ταῦτα γὰρ ἀπεκρίθη
ἑκατέρως ἑκάτερα tra i versi si riferisce un passo in prosa come dello stesso
Parmenide, che dice così: per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e
morbidezza e leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come
oscurità, durezza e pesantezza. Dopo B8.57, evidentemente, nella copia
utilizzata da Simplicio, uno scolio era stato incorporato (da un copista che
non si era reso conto trattarsi di καταλογάδην τι ῥησείδιον, di «un passo in
prosa») all'interno del testo del Poema. Il commentatore, tuttavia, nel citare
il passaggio, non sembra preoccuparsene, riferendolo sostanzialmente allo
stesso Parmenide (ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου)! Whittaker94 ne ha inferito che: (i)
l'esemplare simpliciano del Poema doveva presentarsi come «the product of
unintelligent transcription from an annotated source»; (ii) la competenza del
commentatore (che non si avvede dell'inquinamento del testo) in relazione al
testo parmenideo doveva essere discutibile. Una valutazione che dovrebbe far
riflettere sulla problematica situazione testuale del Poema, soprattutto
accreditando l'ipotesi di Deichgräber95 che tutta la copia di Simplicio fosse
corredata di scolii. Passa ha proposto un'interessante spiegazione
dell'atteggiamento del commentatore neoplatonico: il mancato allarme di fronte all'inserto
in prosa nel corpo esametrico del Poema deriverebbe dalla piena assimilazione
del quadro proposto nel Sofista platonico (237a): 94 J. Whittaker, God, Time,
Being. Two Studies in the Transcendental Tradition in Greek Philosophy, Osloae
1971, p. 21. Citato da Passa, op. cit., pp. 41-2. 95 K. Deichgräber,
"Xenophanes' περὶ φύσεως", «Rheinisches Museum» 87, 1938, p. 3. 63
Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο
ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους
τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων - Οὐ γὰρ μή ποτε
τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε νόημα
[B7.1-2] Questo discorso ha osato ammettere che il non essere sia: il falso, in
effetti, non potrebbe darsi diversamente. Il grande Parmenide, invece, caro
figliolo, a noi che eravamo ragazzi testimoniava contro ciò dall'inizio alla
fine, ribadendo ogni volta, nelle sue parole e nei suoi versi, che: «Mai,
infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via
di ricerca allontana il pensiero». Platone documentava una pratica di
insegnamento in cui si intrecciavano la memorizzazione dei contenuti
fondamentali del Poema, l'esposizione dettagliata del maestro,
l'approfondimento e il chiarimento di temi attraverso la comunicazione di
informazioni supplementari96: è possibile che in tal modo egli recuperasse un
modello effettivamente operante in ambito eleatico97. Non va inoltre
dimenticato che, proprio a partire da questa "testimonianza"
platonica, nella tradizione tarda (come attesta Suda, X secolo) si diffuse la
convinzione che Parmenide avesse composto, oltre al Poema, anche opere in
prosa: Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης φιλόσοφος, μαθητὴς γεγονὼς Ξενοφάνους τοῦ
Κολοφωνίου, ὡς δὲ Θεόφραστος Ἀναξιμάνδρου τοῦ Μιλησίου. [...] ἔγραψε δὲ
φυσιολογίαν δι’ ἐπῶν καὶ ἄλλα τινὰ καταλογάδην, ὧν μέμνηται Πλάτων 96 Passa,
op. cit., p. 25. 97 Ne sono sostanzialmente convinti sia Cerri sia Passa, che
richiamano questo punto. 64 Parmenide, figlio di Pireto, filosofo eleate, fu
discepolo di Senofane di Colofone; secondo Teofrasto, al contrario, di
Anassimandro di Mileto. [...] Scrisse di scienza della natura in versi e di
altri argomenti in prosa, come ricorda Platone (DK 28 A2). Non sorprenderà,
quindi, che Simplicio, poco avveduto sul piano filologico, potesse
frettolosamente ricondurre l'inserto in prosa a commento dello stesso autore.
Queste considerazioni contribuiscono a ridimensionare la fiducia
nell'attendibilità dell'attestazione simpliciana, che Passa98 giudica
fondamentale ma sopravvalutata: [Simplicio] mancava infatti sia della capacità
di inquadrare correttamente Parmenide nel suo vero contesto storico-culturale,
sia di strumenti critici in grado di smascherare i vizi dell'esemplare in suo
possesso. Quel che però risulta più preoccupante per l'editore del Poema
parmenideo è la prospettiva che nelle citazioni simpliciane si riflettano
interventi diretti sul testo, operati all'interno della scuola platonica, perché
rispondesse alle sue aspettative teoriche: proprio il caso di Simplicio
potrebbe essere esemplare, se accettiamo la ricostruzione di Passa99 .
Nell'ambiente siriaco in cui Simplicio avrebbe sviluppato tutta la sua opera di
commento, si era radicata, a partire dal II secolo, una tradizione che, da
Numenio a Giamblico (III secolo), aveva puntato a una rilettura della storia
della filosofia (Φιλόσοφος ἱστορία era il titolo della grandiosa ricostruzione
del maestro di Giamblico, il neoplatonico Porfirio, allievo diretto di Plotino)
imperniata sulla rivelazione della Verità: la filosofia vi era infatti
interpretata come recupero, con gradi variabili di approssimazione, di una
verità eterna, di cui Pitagora (erede delle antiche dottrine di Zarathustra,
Anassimandro, Egizi, Fenici, Caldei ed Ebrei) prima, 98 Passa, op. cit., p.
145. 99 Ivi, pp. 35 ss.. 65 e poi soprattutto Platone sarebbero stati i più
lucidi testimoni100 . Caratteristica dell'interpretazione siriaca di Giamblico
(cui si deve un importante "canone" di lettura tematico-gerarchica
dell'opera platonica101) rispetto all'interpretazione porfiriana102 era la
valorizzazione dell'essenza "pitagorica" del pensiero di Platone (e
Aristotele), che finiva per coinvolgere, in prospettiva, anche i pensatori presocratici:
così, per esempio, Parmenide figurava nel catalogo dei pitagorici103 . È in
tale ambiente che Simplicio avrebbe recuperato in genere gli strumenti
necessari al ripensamento di Platone e Parmenide (visto come anello di
congiunzione104) e il materiale per le proprie citazioni. Le citazioni di
Simplicio rimangono comunque fondamentali (in particolare per la possibilità
del commentatore di ricorrere direttamente a esemplare del Poema, che consente
di conservare caratteristiche formali autentiche, perdute in altri settori
della tradizione105), ma non senza riconoscimento e consapevolezza della
presenza - all'interno delle citazioni stesse - di (i) un evidente processo di
adattamento linguistico (contrazioni, crasi) al modello attico; (ii) un
possibile intervento sul lessico per impreziosire il testo106; (iii) una
probabile "normalizzazione"107 del testo sul piano dei contenuti,
alla luce della chiave di lettura neoplatonizzante e pitagorizzante. 100 Molto
utili per la ricostruzione di questo quadro il saggio introduttivo di G.
Girgenti, Interpetazione filosofica della Vita di Pitagora, in Porfirio, Vita
di Pitagora, a cura di A.R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano 1998, e
l'introduzione dello stesso Sodano alla sua edizione di Porfirio, Storia della filosofia,
Rusconi, Milano 1997. 101 (i) Platone-etico: Alcibiade Primo, Gorgia e Fedone;
(ii) Platone-logico: Cratilo, Teeteto; (iii) Platone-fisico: Sofista e
Politico; (iv) Platone-teologo: Fedro, Simposio, Filebo (per il sommo bene). Il
tutto era poi ricomposto nella lettura di Timeo e Parmenide, che riassumevano
tutto l'insegnamento platonico sulla natura e la teologia. 102 Girgenti, op.
cit., p. 11. 103 Passa, op. cit., p. 37. 104 Ivi, p. 145. 105 Ivi, p. 42. 106
Operazione caratteristica del Neopitagorismo secondo Passa, ibidem. 107 Ibidem.
66 BIBLIOGRAFIA Edizioni del testo consultate Per il testo greco e la
traduzione ho tenuto conto delle seguenti edizioni contemporanee: H. Diels – W.
Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Band I, Weidmannsche Verlagsbuchhandlung,
Berlin 19526 [indicheremo l'edizione come Diels-Kranz ovvero DK. Per la
traduzione italiana, quando non abbiamo personalmente tradotto, abbiamo
utilizzato quella, a cura di G. Reale: I presocratici, Bompiani, Milano 2006]
P. Albertelli, Gli Eleati. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari 1939
(ristampa Arno Press, New York 1976) [indicheremo l'edizione come Albertelli] I
presocratici. Frammenti e testimonianze. I. La filosofia ionica. Pitagora e
l’antico pitagorismo. Senofane. Eraclito. La filosofia elatica, introduzione,
traduzione e note a cura di A. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1958 [indicheremo
l'edizione come Pasquinelli] Parmenide, Testimonianze e frammenti,
Introduzione, traduzione e commento a cura di M. Untersteiner, La Nuova Italia,
Firenze 1958 [indicheremo l'edizione come Untersteiner] G.S. Kirk, J.E. Raven,
The Presocratic Philosophers. A Critical History with a Selection of Texts,
C.U.P., Cambridge 1963 [indicheremo l'edizione come Kirk-Raven] Parmenides. A
Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L. Tarán, Princeton
University Press, Princeton 1965 [rimane, per i problemi testuali e la loro
discussione, una edizione di riferimento. La indicheremo com Tarán] Parmenides,
Über das Sein, übersetzt von J. Mansfeld, herausgegeben von H. von Steuben,
Reclam, Stuttgart 1981 Les deux chemins de Parménide, édition critique,
traduction, études et bibliographie par N.-L. Cordero, Vrin, Paris 1984 [da 67
integrare con l’opera interpretativa aggiornata - dello stesso autore – By
Being, It Is, Parmenides Publisher, Las Vegas 2004: complessivamente offrono un
grande contributo testuale, grazie alla discussione delle difficoltà e al
confronto costante con la tradizione dei manoscritti. Indicheremo lo studio del
2004 come Cordero] Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, PUF, Paris
19863 (edizione originale 1955) A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van
Gorcum, Assen/Maastricht 1986 [fondamentale, anche per i riferimenti alla
tradizione testuale e ai manoscritti, nonostante le riserve di O’Brien. La
indicheremo come Coxon] Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque,
t. I, Le Poème de Parménide, texte, traduction, essai critique par D. O’Brien,
Vrin, Paris 1987 [strumento molto utile per la discussione delle difficoltà
testuali, ma anche per la doppia traduzione, francese e inglese, con le scelte
conseguenti. Lo indicheremo come O'Brien] Parmenides of Elea, Fragments. A Text
and Translation with an Introduction by D. Gallop, University of Toronto Press,
Toronto 1987 [indicheremo l'edizione come Gallop] Parmenide, Poema sulla
Natura. I frammenti e le testimonianze indirette, presentazione, traduzione e
note a cura di G. Reale, saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di
L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991 [non si distingue tanto come strumento
filologico, quanto per l’ampio commentario filosofico di corredo. Indicheremo
la traduzione come Reale e il commento come Ruggiu] Parmenides, Die Fragmente,
herausgegeben von E. Heitsch, Artemis & Winkler, Zürich 1995 [indicheremo
l'edizione come Heitsch] Parménide, Sur la nature ou sur l’étant. La langue de
l’être?, présenté, traduit et commenté par B. Cassin, Éditions du Seuil, Paris
1998 [indicheremo l'edizione come Cassin] Parménide, Le Poéme: Fragments, texte
grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999
(edizione originale 1996) [indicheremo l'edizione come Conche] 68 Parmenide di
Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e note di commento di
G. Cerri, BUR, Milano 1999 [strumento essenziale – pur trattandosi di edizione
tascabile - per la discussione dei principali problemi testuali, e la
chiarificazione dei nessi con la letteratura greca arcaica. Lo indicheremo come
Cerri] H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen
und Schlösser, mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten
Bibliographie von D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione
originale 1897) [rimane opera fondamentale, soprattutto per la comprensione
dell’ambiente culturale e i motivi del poema. La indicheremo come Diels]
Parmenide, Poema sulla natura, a cura di V. Guarracino, Edizioni Medusa, Milano
2006 Parmenide, Sull’Ordinamento della Natura. Per un’ascesi filosofica, a cura
di Raphael, Edizioni Asram Vidya, Roma 2007 Die Vorsokratiker, Band II
(Parmenide, Zenon, Empedokles), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse,
Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis &
Winkler Verlag, Düsseldorf 2009 [indicheremo l'edizione come Gemelli Marciano]
Le parole dei Sapienti. Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso, traduzione e cura
di A. Tonelli, Feltrinelli, Milano 2010 [indicheremo l'edizione come Tonelli]
The Texts of Early Greek Philosophy. The Complete Fragments and Selected
Testimonies of the Major Presocratics, translated and edited by D.W. Graham,
Part I, C.U.P., Cambridge 2010 [indicheremo l'edizione come Graham] Per
specifici problemi testuali risulta ancora illuminante A.P.D. Mourelatos, The
Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale
University Press, New Haven – London 1970 (ora in edizione aggiornata presso
Parmenides Publisher, Las Vegas 2008) [indicheremo l'opera genericamente come
Mourelatos]. 69 Molto utili per la discussione di singoli problemi
interpretativi J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche
Welt, Van Gorchum, Assen 1964 [indicheremo l'opera genericamente come Mansfeld]
e W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della
filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994 [indicheremo
l'opera genericamente come Leszl]. In generale, per lo status interpretativo
fino alla seconda metà degli anni Sessanta, è strumento di inquadramento
l’aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia
dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, La Nuova
Italia, Firenze 1967 (ora ristampato come E. Zeller, R. Mondolfo, G. Reale, Gli
Eleati, Bompiani, Milano 2011, con aggiornamento bibliografico a cura di G.
Girgenti). Per una dettagliata analisi del frammento B8 e delle sue premesse è
davvero illuminante la lettura di R. McKirahan, “Signs and Arguments in
Parmenides B8”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P.
Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, pp. 189-229. Per la storia e lo stato
del testo di rilievo, insieme al fondamentale Les deux chemins de Parménide
cit., il recente lavoro di E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e
questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009 [che indicheremo come Passa].
Letteratura critica consultata J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An
account of the interaction between the two schools during the fifth and early
fourth centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948 J. Zafiropulo,
L’Ecole Eléate, Les Belles Lettres, Paris 1950 J.H.M.M. Loenen, Parmenides
Melissus, Gorgias. A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorchum, Assen
1959 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze
1961 (edizione originale 1953) 70 W.J. Verdenius, Parmenides. Some Comments on
His Poem, Hakkert, Amsterdam 1964 Parmenides, herausgegeben von K. Riezler,
Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. (edizione originale 1934) M.C. Stokes, One
and Many in Presocratic Philosophy, The Center for Hellenic Studies, Washington
1971 M. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A New View on Their Cosmologies
and on Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974 G. Calogero, Studi
sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 19772 (edizione originale 1932) G.
Casertano, Parmenide: il metodo, la scienza, l’esperienza, Guida Editori,
Napoli 1978 E. Heitsch, Parmenides und die Anfänge der Erkenntniskritik und
Logik, Auer, Donauwörth 1979 M. Heidegger, Gesamtausgabe, II Abteilung:
Vorlesungen 1923-1944. Band 54. Parmenides, Vittorio Klostermann, Frankfurt
a.M. 1982 K. Reinhardt, Parmenides und die Geschichte die griechischen
Philosophie, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 19854 (edizione originale
1916) S. Austin, Parmenides. Being, Bounds, and Logic, Yale University Press,
New Haven and London 1986 L. Couloubaritsis, Mythe et Philosophie chez
Parménide, Ousia, Bruxelles 1986 La scuola eleatica, «La Parola del Passato»,
volume XLIII, Macchiaroli, Napoli 1988 G. Colli, La natura ama nascondersi.
FYSIS KRUPTESQAI FILEI, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 1988 (edizione
originale 1948) P.A. Meijer, Parmenides Beyond the Gates. The Divine Revelation
on Being, Thinking and the Doxa, Brill Academic Publishers, Amsterdam 1997 P.
Thanassas, Die erste "zweite Fahrt": Sein des Seienden und Erscheinen
der Welt bei Parmenides, Fink, Munich 1997 71 S. Sellmer,
Argumentationsstrukturen bei Parmenides. Zur Methode des Lehrgedichts und ihren
Grundlagen, Peter Lang, Frankfurt a.M. 1998 P. Curd, The Legacy of Parmenides.
Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press,
Princeton 1998 G. Colli, Zenone di Elea. Lezioni 1964-1965, a cura di E. Colli,
su appunti di E. Berti, Adelphi, Milano 1998 P. Kingsley, In the Dark Places of
Wisdom, Duckworth, London 1999 J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides,
O.U.P., Oxford 1999 G. Colli, Gorgia e Parmenide. Lezioni 1965-1967, a cura di
E. Colli, su appunti di E. Berti, Adelphi, Milano 2003 M.J. Henn, Parmenides of
Elea: A Verse Translation with Interpretative Essays and Commentary to the
Text, Praeger Publishers, Westport 2003 A. Hermann, To Think like God.
Pythagoras and Parmenides, Parmenides Publishing, Las Vegas 2004 N.-L. Cordero,
By Being, It Is. The Thesis of Parmenides, Parmenides Publisher, Las Vegas 2004
G. Scuto, Parmenides’ Weg. Vom Wahr-Scheinenden zum Wahr-Seienden. Mit einer
Untersuchung zur Beziehung des parmenideischen zum indischen Denken, Academia
Verlag, Sankt Augustin 2005 M. Fattal, Ricerche sul logos. Da Omero a Plotino,
a cura di R. Radice, Vita e Pensiero, Milano 2005 J. Bollack, Parménide, de
l’Etant au Monde, Verdier, Lagrasse 2006 D.W. Graham, Explaining the Cosmos.
The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press,
Princeton and Oxford 2006 C. Robbiano, Becoming Being. On Parmenides’
Transformative Philosophy, Academia Verlag, Sankt Augustin 2006 P. Thanassas,
Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, Marquette
University Press, Milwaukee (Wisconsin USA) 2007 72 S. Austin, Parmenides and
the History of Dialectic: Three Essays, Parmenides Publishing, Las Vegas 2007
E. Struck, Parmenides von Elea. Philosophie an der Wende von der
Naturphilosophie zur Ontologie. Studienarbeit, Grin, Münich 2007 M. Stemich,
Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, Ontos Verlag, Frankfurt 2008
Parmenide scienziato?, a cura di L. Rossetti e F. Marcacci, Academia Verlag,
Sankt Augustin 2008 L. Couloubaritsis, La pensée de Parménide, Ousia,
Bruxelles, 2008 (si tratta della terza edizione, modificata e aumentata, di Mythe
et Philosophie chez Parménide) G. Colli, Filosofi sovrumani, a cura di E.
Colli, Adelphi, Milano 2009 (il testo risale al 1939) L.A. Wilkinson,
Parmenides and To Eon. Reconsidering Muthos and Logos, Continuum International
Publishing, London – New York 2009 J. Palmer, Parmenides & Presocratic
Philosophy, OUP, Oxford 2009 F. Merkel, Das Verhältnis von Meinung und Wissen
im Lehrgedicht des Parmenides, Grin, Münich 2009 F. Ferrari, Il migliore dei
mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne Editrice, Roma
2010 R.J. Roecklein, Plato versus Parmenides. The Debate Cominginto-Being in
Greek Philosophy, Lexington Books, Plymouth (UK) 2011 R. Di Giuseppe, Le Voyage
de Parménide, Orizons, Paris 2011 Parmenides, Venerable and Awesome, Proceedings
of the International Symposium (Buenos Aires, October 29-November 2, 2007),
Parmenides Publishing, Las Vegas 2011 J. Frère, Parménide ou le Souci du Vrai.
Ontologie, Théologie, Cosmologie, Kimé, Paris 2012 J. Burnet, Early Greek
Philosophy, Black, London 19203 W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy.
Vol. 1. The Earlier Presocratics and the Pythagoreans, C.U.P., Cambridge 1962
73 Id., A History of Greek Philosophy. Vol. 2. the Presocratic Tradition from
Parmenides to Democritus, C.U.P., Cambridge 1965 Id., The Sophists, C.U.P.,
Cambridge 1971 G. Colli, La sapienza greca. Vol. I: Dioniso, Apollo, Eleusi,
Orfeo, Museo, Iperborei, Enigma, Adelphi, Milano 1977 Id., La sapienza greca.
Vol. II: Epimenide, Ferecide, Talete, Anassimandro, Anassimene, Onomacrito,
Adelphi, Milano 1978 W. Schadewaldt, Die Anfänge dei Philosophie bei den
Griechen, Suhrkamp, Frankfurt am Mein 1978 G. Colli, La sapienza greca. Vol.
III: Eraclito, Adelphi, Milano 1980 G. Wöhrle, Anaximenes aus Milet. Die
Fragmente zu seiner Lehre, herausgegeben, übersetzt, erläutert und mit einer
Einleitung versehen von G. Wöhrle, Steiner, Stuttgart 1993 Ch.H. Kahn,
Anaximander and The Origins of Greek Cosmology, Hackett Publishing Company,
Indianapolis 1994 (edizione originale 1960) K. Morgan, Myth and Philosophy From
the Presocratics to Plato, C.U.P., Cambridge 2000 V. Caston, D.W. Graham
(editors), Presocratic Philosophy. Essays in Honour of Alexander Mourelatos,
Ashgate, Aldershot 2002 A. Laks, C. Louguet (eds), Qu’est-ce que la philosophie
présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du
Septentrion, Villeneuve d’Ascq 2002 G. Naddaf, The Greek Concept of Nature,
SUNY Press, New York 2005 G. Rechenhauer (Hg.), Frühgriechisches Denken,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005 La costruzione del discorso
filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della
Normale, Pisa 2006 C. Rapp, Vorsokratiker, Beck, München 20072 F. Ferrari, La
fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall'Odissea alle lamine misteriche,
Utet Libreria, Torino 2007 Die Vorsokratiker, Band I (Thales, Anaximander,
Anaximenes, Pythagoras und die Pythagoreer, Xenophanes, Heraklit), Au- 74 swahl
der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli
Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2007 [indicheremo questa
edizione come Gemelli Marciano] A. Bernabé y F. Casadesús (coords.), Orfeo y la
tradicíon órfica. Un reencuentro, 2 voll., Akal, Madrid 2008 The Oxford
Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P.,
Oxford 2008 Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009 Die Vorsokratiker,
Band II (Parmenides, Zenon, Empedokles), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse,
Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis &
Winkler Verlag, Düsseldorf 2009 G. Wöhrle (Hrsg.), Die Milesier: Thales, De
Gruyter, Berlin 2009 [Traditio Praesocratica] Die Vorsokratiker, Band III
(Anaxagoras, Melissos, Diogenes von Apollonia, die antiken Atomisten), Auswahl
der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli
Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2010 Il quinto secolo. Studi
di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F.
Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011 La Sagesse Présocratique. Communications des
Savoirs en Grèce Archaïque: des Lieux et des Hommes, sous la direction de M.-L.
Desclos et F. Fronterotta, Armand Colin, Paris 2013 Con la sigla LSJ indichiamo
H.G. Liddell, R. Scott, GreekEnglish Lexicon, revised and augmented throghout
by H.S. Jones, Clarendon Press, Oxford 1996 PARMENIDE SULLA NATURA Frammenti
testo greco e traduzione italiana1 1 Le note al testo greco si riferiscono a
problemi di determinazione del testo originale; quelle alla traduzione, invece,
a problemi di resa del testo greco e di interpretazione. 76 DK B1 ἵπποι ταί με
φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι, πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι
δαίμονος1 , ἣ κατὰ † ... †2 φέρει εἰδότα φῶτα· τῇ φερόμην· τῇ γάρ με
πολύφραστοι φέρον ἵπποι [5] ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον. ἄξων
δ΄ ἐν χνοίῃσιν ἵ < ει >3 σύριγγος ἀυτήν αἰθόμενος - δοιοῖς γὰρ ἐπείγετο
δινωτοῖσιν κύκλοις ἀμφοτέρωθεν -, ὅτε σπερχοίατο πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι,
προλιποῦσαι δώματα Nυκτός4 [10] εἰς φάος, ὠσάμεναι κράτων5 ἄπο χερσὶ καλύπτρας.
ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων, καί σφας6 ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει
καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Δίκη7
πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς. [15] τὴν δὴ παρφάμεναι κοῦραι μαλακοῖσι
λόγοισιν 1 Diels-Kranz (ma non Diels nella sua originaria edizione del poema
parmenideo, 1897) accolgono la correzione (Stein, 1867) del genitivo δαίμονος
nel nominativo δαίμονες, di cui oggi si riconosce l'arbitrarietà. 2 Non si
tratta di lacuna testuale, ma di testo presumibilmente corrotto: KATAPANTATH,
trasmesso nei codici come κατὰ πάντ’ ἄτη (N), κατὰ πάντἀτη (L), κατὰ πάντα τη
(E), κατὰ πάντα τῆ (codices deteriores). Diels legge: κατὰ πάντ’ ἄ < σ >
τη (partendo dall'errore di decodifica del codice N da parte di Mutschmann).
Per il resto gli editori hanno fatto ricorso a congetture plausibili nel
contesto: Cerri: κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ; Cordero: κατὰ πάν ταύτῃ; Coxon suggerisce
κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν >. Per la traduzione si veda nota
relativa. 3 χνοίῃσιν ἵ < ει > è correzione di Diels (1897) a χνοῖησινι
del codice N, χνοιῆσιν (codici EL). 4 Scegliamo, seguendo Diels, di considerare
Νύξ nome proprio della divinità, così come nel caso del successivo Ἦμαρ. 5 Il
genitivo κρατερῶν dei codici è stato emendato in κρατῶν da Karsten e il κράτων
da Diels. 6 La forma pronominale greca σφας è evoluzione dell'accusativo
plurale di terza persona in uso nell'epica arcaica (σφε) all'interno della
aedica ionica: la presenza della forma in Parmenide è considerata notevole da
Passa (pp. 99-100). 7 La forma Δίκη è degli editori moderni: nei codici δίκην.
77 πεῖσαν ἐπιφράδέως, ὥς σφιν βαλανωτὸν ὀχῆα ἀπτερέως ὤσειε πυλέων8 ἄπο· ταὶ δὲ
θυρέτρων χάσμ΄ ἀχανὲς ποίησαν ἀναπτάμεναι πολυχάλκους ἄξονας ἐν σύριγξιν ἀμοιϐαδὸν
εἰλίξασαι [20] γόμφοις καὶ περόνῃσιν ἀρηρότε9 · τῇ ῥα δι΄ αὐτέων10 ἰθὺς ἔχον κοῦραι
κατ΄ ἀμαξιτὸν 11 ἅρμα καὶ ἵππους. καί με θεὰ πρόφρων ὑπεδέξατο, χεῖρα δὲ χειρί
δεξιτερὴν ἕλεν, ὧδε δ΄ ἔπος φάτο καί με προσηύδα ὦ κοῦρ΄ ἀθανάτοισι συνάορος12 ἡνιόχοισιν,
[25] ἵπποις θ’ αἵ 13 σε φέρουσιν ἱκάνων ἡμέτερον δῶ, 8 La forma del genitivo
πυλέων trasmessa dai codici potrebbe rivelare (Passa, p. 84) la familiarità di
Parmenide con la dizione epica, manifestando in particolare la vicinanza a
Esiodo. Si tratta comunque di un caso dubbio di metatesi quantitativa. Diels,
nell'edizione del poema (1897), si interrogava (pp. 26-27) sull'opportunità di
conservare πυλέων in vece di πυλῶν. 9 La forma duale ἀρηρότε è stata restaurata
da Bergk e generalmente accolta dagli editori. Si distingue Cordero, che
conserva la forma del participio plurale ἀρηρότα dei codici NE e deteriores. 10
Il genitivo in αὐτέων, accolto per lo più dagli editori, è conservato dal solo
codice N; gli altri (LE e deteriores) riportano αὐτῶν. Sarebbe esemplare dello
stile solenne (di ascendenza epica ionica) adottato da Parmenide. Diels, in
verità, nell'edizione del poema (1897), optava per αὐτῶν, come oggi fa Cordero.
Effettivamente si possono trovare precedenti omerici (Iliade XII, 424) e
esiodei (Scutum 237) nella formula ὑπὲρ αὐτέων: rimane comunque il sospetto
(Passa, p. 85) che la lezione apparentemente superiore del codice N, copia di
uno scriba doctus, rifletta un tentativo di "omerizzazione" del
poema. 11 Si veda la successiva nota a θ’ αἵ del v. 20. 12 I codici di Sesto
Empirico attestano unanimemente συνάορος, il cui vocalismo - ᾱορος appare fuori
posto in un poema in esametri, composto da un autore ionico. In Omero è
attestato συνήορος, preferito da Brandis (1813) e, nel nostro secolo, da Coxon
(ἀθανάτῃσι συνήορος). Diels (1897) rifiutò la correzione, seguito dalla quasi
totalità di editori successivi. La scelta di Diels è stata di recente difesa,
su diverse basi interpretative, da Passa (pp. 132-137), che vede nel vocalismo
- ᾱορος il segno di una incidenza della lirica corale nella letteratura arcaica
e tardo-arcaica: συνάορος non è lezione dei codici attici del poema (che
dovevano riportare συνήορος), ma probabilmente è la forma voluta dallo stesso
Parmenide, che se ne appropriava appunto in quanto forma di successo nella poesia
contemporanea. 78 χαῖρ΄, ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα14 κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι τήνδ΄ ὁδόν
- ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ Θέμις15 τε Δίκη16 τε. χρεὼ 17 δέ
σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης18 εὐκυκλέος19 ἀτρεμὲς 20 ἦτορ 13 I codici LE
riportano ταί; N riproduce θ’ αἵ; i codices deteriores τε. Come osserva J.
Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2009, p. 378):
«the postpositive connective is required here». La presenza di ταί nei codici
si giustifica probabilmente per l'eco quasi letterale del v. 1, che può aver
confuso i copisti: i codici, infatti, riproducono per B1.1 la stessa lezione
data in B1.25 (Passa, p. 59). Passa fa tuttavia osservare come il passaggio da
un originale ΘΑΙ (nella scriptio continua dei codici) al ταί della copia non
sia facilmente spiegabile, mentre è più naturale ipotizzare che,
meccanicamente, ΤΑΙ sia stato reso come ταί. È probabile che il copista di N
abbia corretto (come ha fatto in altri punti) il testo che aveva di fronte
(ΤΑΙ), allineando la lezione dei versi 1 e 25, ovvero rilevando una sintassi
difettosa: introducendo l'aspirazione, l'originale ΤΑΙ sarebbe stato copiato
appunto come θ’ αἵ. Secondo Passa, è probabile invece che la tradizione di
Sesto Empirico riportasse ΤΑΙ, da rendere come τ’ ἄι, senza aspirazione: θ’ αἵ
sarebbe forma normalizzata di τ’ ἄι (congiunzione τε seguita dal pronome
relativo ἄι senza aspirazione), che conserverebbe traccia di psilosi, la
mancanza di aspirazione, comune nel dialetto ionico in cui il poema fu
originariamente composto. A conferma lo studioso italiano porta, sempre nel
proemio, il caso di κατ΄ ἀμαξιτὸν del v. 20, conservato dai migliori codici di
Sesto Empirico (NLE), in luogo della forma aspirata καθ΄ ἁμαξιτὸν, da
attendersi. È possibile, dunque, che la redazione del proemio da cui discende
la tradizione sestana fosse psilotica. 14 Scegliamo, a differenza degli altri
editori, di considerare Μοῖρα nome proprio, coerentemente con il contesto
divino. 15 La scelta della maiuscola è solo di alcuni editori. 16 Secondo M.E.
Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A new view on their cosmologies and on
Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974, p. 59, l'uso della minuscola in
questo caso sarebbe legittimo, in quanto non ci troveremmo di fronte alla
«nozione concreta» di Δίκη incontrata al v. 14. 17 Un caso di metatesi: χρεώ
forma epica da χρήω. L'epica conosce anche la forma più antica χρειώ (Passa, p.
77-9). 18 È interessante segnalare che in questo caso, nelle vecchie edizioni
(Diels 1897; Diels-Kranz), il testo greco riportava il maiuscolo Ἀληθείη,
evidentemente classificando Verità tra le rappresentazioni divine. In
considerazione della posizione - che, seguendo Passa (p. 53), si potrebbe
definire di «ipostasi divina» - riconosciutale anche in B2.4, reintroduciamo la
maiuscola iniziale. La stessa scelta è stata compiuta da Gemelli Marciano (II,
p. 12). 79 [30] ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα
μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα21 χρῆν δοκίμως22 εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα23 .
19 Degli ultimi versi del proemio abbiamo, oltre a quella (vv. 1-30) di Sesto
Empirico, diverse citazioni: Simplicio cita 28b-32 nel commentario al De Caelo
aristotelico; Diogene Laerzio cita 28b-30, mentre Plutarco, Clemente di
Alessandria, Proclo e ancora Sesto (nella discussione) citano 29-30. Il testo
di Simplicio riporta εὐκυκλέος («ben rotonda»), accolto da Diels in forza della
qualità e interezza (presunte) del manoscritto di Simplicio. Il filologo
tedesco è stato in passato seguito (tra gli altri) da Untersteiner, Guthrie,
Tarán, Hölscher, e oggi da Cordero, Reale, Cerri, Ferrari, Tonelli, Palmer. I
manoscritti ellenistici (quello di Plutarco, Sesto Empirico e Diogene Laerzio),
tuttavia riportavano εὐπειθέος (che viene tradotto come «ben convincente»), che
i più (tra gli altri Mansfeld, Mourelatos, Coxon, Conche, O'Brien, Gallop,
Curd, Gemelli Marciano, Passa) preferiscono. Solo Proclo usa εὐφεγγέος
(«risplendente»), poco attendibile. Come in altri casi, si è rivelata decisiva
la convinzione della affidabilità della redazione di Simplicio. Passa è
certamente colui che, con maggiore acribia, ha argomentato, in tempi recenti,
la propria opzione (pp. 55 ss.), tra l'altro all'interno di una ricostruzione
delle tradizioni testuali del poema che mette in discussione proprio
l'affidabilità della versione di Simplicio, che risentirebbe pesantemente di
adattamenti platonizzanti (come quella di Proclo). Di diverso avviso Cerri (p.
184), per il quale Simplicio sarebbe invece molto attento alla conservazione
del testo e del lessico parmenidei. Buone osservazioni a difesa della lezione εὐκυκλέος,
si trovano ora in Palmer (op. cit. pp. 378-80). 20 Plutarco, Diogene Laerzio e
Sesto Empirico (in math. 7.111) trasmettono ἀτρεκές («non torto»). Sulla
lezione ἀτρεκές ha pesato la liquidazione di Diels (1897, pp. 54 ss.), che vi
ha colto una trivializzazione, riconoscendo, invece, nell'alternativa ἀτρεμὲς
un «predicato caratteristico dell'Ἐόν parmenideo». A contestare la liquidazione
dielsiana, riproponendo la lezione ἀτρεκές, è stato di recente Passa (pp. 53
ss.), il quale ha dimostrato come l'aggettivo non implichi alcuna trivialità,
vantando invece precedenti illustri in Omero e Pindaro. Come tutto il verso,
anche ἀτρεκές sarebbe stato vittima di un rimaneggiamento secondario. 21 Passa
(p. 121) segnala come la forma contratta δοκοῦντα sia molto probabilmente un
atticismo nella tradizione del testo: egli esclude che δοκοῦντα (come anche
φοροῦνται in B6.6) sia lezione autentica. La lezione δοκοῦντα sarebbe stata
sostituita a δοκέοντα o δοκεῦντα. 22 Nella sua edizione del poema (1897) Diels
propose di leggere δοκίμως εἶναι come δοκιμῶσ(αι) εἶναι. Tra gli editori
novecenteschi Untersteiner è tra i pochi ad aver rilanciato tale lezione,
seguito di recente da R. Di Giuseppe, 80 [vv. 1-30 Sesto Empirico, Adversus
Mathematicos VII, 111; vv. 28b-32 Simplicio, In Aristotelis De Caelo 557-558;
vv. 28b30 Diogene Laerzio IX, 22; vv. 29-30 Plutarco, Adversus Colotem 1114
d-e; Clemente Alessandrino, Stromata V, 9 (II, 366); Proclo, In Platonis
Timaeum I, 345; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 114] Le Voyage de
Parménide, Orizons, Paris 2011, che documenta ampiamente, anche nella
tradizione latina, le ragioni della propria scelta. 23 La lezione dei codici
DEF di Simplicio è πάντα περ ὄντα, che accogliamo, mentre il solo codice A
riporta πάντα περῶντα («tutte le cose pervadendo»), per lo più preferito dagli
editori, sulla scorta del precedente omerico (Iliade XXI.281 ss.). Ferrari (Il
migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, Aracne,
Roma 2010, p. 43) osserva che la forma περῶντα (da περάω) non ha riscontri
nelle parti del poema che ci sono pervenute. Passa (p. 127-8), incerto sulla
lezione, ritiene che, accettando l'opzione περ ὄντα, si debba comunque
correggere la forma attica del participio di εἰμί in quella ionica ἐόντα: in
rapporto a un verbo fondamentale, nell'uso e nella frequenza, all'interno del
poema, è plausibile che Parmenide «abbia voluto usare sempre la stessa forma,
quella propria del suo dialetto». 81 Le cavalle1 che mi portano2 fin dove il
[mio] desiderio3 potrebbe giungere4 , 1 Il testo greco riporta ἵπποι ταί, con
il sostantivo dunque al femminile (come in Pindaro, Bacchilide e Sofocle). Il
tema del tiro di «cavalle» sarebbe di origine omerica: secondo Tarán (p. 9)
sarebbe forzato cogliervi prova di una influenza orfica. 2 Il verbo φέρουσιν è
al presente, che, come tempo verbale, si alterna nel proemio all’imperfetto
(che indica abitualmente azioni continuate) e all’aoristo (impiegato
normalmente per azioni puntuali). Secondo Coxon (p. 14) l’uso del presente
sottolineerebbe come il poeta sia ancora sul carro, con un viaggio ancora
davanti a sé. È possibile, invece, che Parmenide intendesse effettivamente
marcare delle sequenze temporali, costruendo un proemio in cui nel canto
(presente) del poeta fosse rivissuta un'esperienza di rivelazione (passato):
rivelazione con cui il poeta stesso giustificherebbe la propria attività, la
scelta della via poetica (ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»). G.A. Privitera
("La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole di
Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di
scienza morali, storiche e filologiche» s. 9, v. 20, 2009, pp. 447- 464)
osserva come il Proemio sia «fondato sulla memoria» e «autobiografico»:
Parmenide avrebbe «elevato alla dignità di proemio una sua lontana esperienza».
A proposito dell'uso dei tempi verbali, il presente «mi portano» indicherebbe
in particolare che sono state «le solite cavalle di adesso e di sempre ad averlo
indirizzato nel viaggio»; il successivo imperfetto πέμπον che l'azione è
avvenuta nel passato; il sostantivo κοῦρος (v. 24) segnalerebbe l'età in cui il
viaggio fu intrapreso. (p. 449). 3 Traduciamo θυμός come «desiderio», ritenendo
che il termine greco, nel contesto dinamico in cui è inserito, abbia il valore
di «slancio», ovvero – ma il significato appare più generico - di «animo». È
plausibile che θυμός si riferisca non alle cavalle (ἵπποι) ma al poeta che
parla: il termine, tuttavia, può essere simbolicamente collegato anche allo
sforzo della corsa delle cavalle (Coxon, p. 157). Secondo Chiara Robbiano
(Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, Academia Verlag,
Sankt Augustin 2006, p. 124), che interpreta come se i primi versi rinviassero
all'inizio del viaggio verso la rivelazione, la scelta di θυμός nell’apertura
del poema suggerirebbe come la guida possa dirigere all’obiettivo solo se si è
già motivati e disposti ad assumere un ruolo attivo nel perseguirlo. 4
L’ottativo ἱκάνοι è stato considerato (Tarán, Coxon) iterativo, indicante cioè
un’indefinita frequenza (dunque: «giunge»), ma nella poesia omerica è attestato
un uso potenziale (senza ricorso alla particella ἄν: Robbiano, op. cit., pp.
65-6, n. 189), che autorizza la traduzione che proponiamo. Anche Mourelatos
(The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments,
Yale University Press, New Haven – London 82 mi guidavano5 , dopo che,
conducendomi, mi ebbero avviato6 sulla via7 ricca di canti8 1970, p. 17, n. 21)
sottolinea – sulla scorta di precedenti omerici - che la modalità rilevante è
quella della possibilità. Cerri (p. 166) segnala come la metafora del moto del
pensiero, paragonato al moto traslatorio, sia molto radicata nell’immaginario
greco arcaico. 5 Il verbo greco è all’imperfetto (πέμπον): l'uso di imperfetto
durativo e participio presente (φερόμην v. 4, τιταίνουσαι v.5, ἡγεμόνευον v. 5)
denoterebbe che l'apertura del proemio proietta al centro dell'azione in corso;
le forme dell'aoristo (βῆσαν v. 2, προλιποῦσαι v. 9), secondo uno schema
ricorrente in Omero (O’Brien, p. 8), indicano, per contrapposizione, quanto
precede. Conche interpreta πέμπον come “imperfetto storico”, optando dunque per
una traduzione con il presente indicativo. Ferrari, nella sua analisi del
proemio (F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza
dall’Odissea alle lamine misteriche, Utet, Torino 2007, p. 104; ora anche Il
migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne,
Roma 2010, p. 162), ha sottolineato come l’intreccio dei verbi al presente e
all’imperfetto sembri evidenziare la continuità tra il presente e il ritorno
dall’oltretomba. 6 Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., p. 102) coglie
in questo passaggio un’eco dell'iniziazione poetica di Esiodo: ciò che
Parmenide intenderebbe suggerire è che le cavalle (figure dello slancio
interiore del poeta) del suo θυμός lo hanno avviato sulla via poetica
(connotata come ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»), che gli permetterebbe di
comunicare la rivelazione ricevuta nell’Ade. Parmenide porrebbe in primo piano
il risultato dell’incontro con la divinità iniziatrice. 7 La ὁδὸς πολύφημος
δαίμονος, ἣ κατὰ † ... † φέρει εἰδότα φῶτα è contrapposta – secondo Cerri (p.
170) – alla strada pubblica, frequentata da tutti (secondo precedente omerico).
Possiamo individuare nel rilievo la possibile eco di un precetto pitagorico
riferito da Porfirio: τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade
popolari»). Maria Michela Sassi ("Parmenide al bivio", in «La Parola
del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 383- 396) – accostando sistematicamente il
Proemio ai frammenti di letteratura orfica, alle laminette e ai miti
escatologici platonici – interpreta l'espressione come indicante la via che
precede la porta dell'oltretomba, oltre la quale Parmenide troverà la dea (p.
387): simbolicamente vi si potrebbe cogliere il riferimento al processo di
iniziazione (donde poi il coinvolgimento di termini "tecnici" come εἰδώς
φώς o κοῦρε. Questo potrebbe spiegare anche la presenza di guide divine: come
rivelano i miti platonici (Fedone 107 ss.), le anime devono percorrere un certo
cammino per giungere propriamente nell'Ade; cammino non agevole, per il quale è
richiedo l'intervento di δαίμονες come ἡγεμόνες. 83 della divinità9 che10 porta
† ... †11 l’uomo sapiente12 . Ma l'espressione potrebbe più semplicemente
riferirsi all'attività poetica intrapresa (con eco esiodea), proposta in un
contesto pubblico (come suggerirebbe l'eco omerica di πολύφημος). O ancora,
come sostiene con buoni argomenti Palmer (J. Palmer, Parmenides &
Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2010, p. 56) in relazione al contesto,
essa potrebbe designare il percorso che il carro del Sole deve tracciare ogni
giorno. 8 Il termine πολύφημος è qui reso in senso attivo, a indicare
l’abbondanza di canti, leggende, ma anche voci, suoni e informazioni: si tratta
del valore più antico, omerico, riferito per esempio a una piazza (che risuona
di voci e rumori), come di recente ribadito da Ferrari (La fonte del cipresso
bianco, cit., p. 102). Diels e altri decidono invece di tradurre,
sottolineandone il valore passivo, come «molto celebrata». 9 Il termine δαίμων
(maschile o femminile, secondo i contesti) potrebbe riferirsi al successivo (v.
22) θεά: alla Dea interlocutrice del poeta. Di diverso avviso Ferrari (La fonte
del cipresso bianco, cit., pp. 106-7): riferendo il successivo pronome ἣ alla
divinità (e non alla via), egli osserva che «il ritmo stesso del verso»
suggerisce di considerare la relativa come «una perifasi che sollecita
l’identificazione della daimôn». In tal senso, essa non coinciderebbe né con la
divinità in genere (come crede invece Cerri, il quale traduce ὁδὸν δαίμονος
come «strada divina»), né con Dike, né con la θεά del v. 22: i paralleli omerici
ed esiodei inducono a credere che questa divinità femminile, che guida su un
carro condotto dalle figlie del Sole «l’uomo sapiente», sia da identificare con
Ἡμέρη, la figlia di Notte, ovvero Ἠώς, Aurora. In Odissea XXIII.241-246
troviamo Aurora condotta attraverso l’Etere dai cavalli «che portano luce ai
mortali», un possibile modello per Parmenide. Il genitivo è da considerare
possessivo. Un’alternativa suggestiva – richiamata dal successivo
coinvolgimento delle figure mitiche delle Eliadi (vedi v. 9) - è quella secondo
cui l’allusione sarebbe al Sole, sul cui carro il poeta starebbe viaggiando
(Leszl, p. 147). 10 Mantengo l’ambiguità di riferimento del relativo ἣ: alla
Dea o alla via (ὁδός): l’analisi convincente di Ferrari spinge nella prima
direzione, ma la nostra soluzione lascia aperta la possibilità che il relativo
possa riferirsi a un tempo alla divinità – Helios, il Sole – e al tracciato
celeste che essa percorre quotidianamente. 11 Abbiamo già segnalato in nota al
testo greco il problema della corruzione del passo. Le principali proposte
degli editori: κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη (Diels, seguito da molti), «per
tutti i luoghi» ovvero, letteralmente, «per tutte le città»; κατὰ πάν ταύτῃ
(Cordero), «là riguardo a tutto»; Conche, che accoglie la proposta di Cordero,
interpreta tuttavia ταύτῃ non come forma avverbiale, bensì come dativo del
dimostrativo femminile, riferito a ὁδός; κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν
> (Coxon), «through every stage straight onwards»; 84 Su questa via13 ero
portato14, su questa via mi portavano15 molto avvedute16 cavalle, κατὰ πάντ’ ἃ
τ’ ἔῃ (Cerri), «per tutte le cose che siano». Ferrari (op. cit., nota p. 114)
ha sostenuto a più riprese l’opportunità di recuperare la lettura κατὰ πάντ’ ἄ
< σ > τη, «come emendamento anche se non più come lezione tramandata». In
questo caso sarebbe tuttavia necessario tenere ben distinta la ὁδός πολύφημος
δαίμονος dell'apertura del proemio da quella di cui proprio la Dea sottolinea
il fatto che è ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου («lontana dalla pista degli uomini»).
12 L’espressione greca εἰδὼς φώς si riferisce, per alcuni (Bowra, Untersteiner,
Burkert), alla figura dell’«iniziato», secondo la terminologia propria della
tradizione misterica: «espressione quasi tecnica in tal senso», come nota la
Sassi (op. cit., p. 387), attestata nei frammenti orfici (fr. 233 Kern). Per
altri (Fränkel, Tarán), invece, all’uomo che già conosce la via per averla
percorsa; Coxon e Cerri insistono sul riferimento alle competenze e conoscenze
preventivamente richieste per la piena conquista della verità. Di diverso
avviso Mansfeld (J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die
menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 226-7), il quale, partendo da
Senofane B34, sottolinea come εἰδώς abbia un valore legato all’esperienza
visiva, che si conserverebbe in Parmenide: la conoscenza che il poeta rivendica
è dunque legata a un esperire, vedere, diretto. Il termine εἰδώς dovrebbe
rendersi allora come «[l’uomo] che ha visto» ovvero «che ha conoscenza». Nella
stessa direzione si è mosso Ferrari (op. cit., pp. 102 ss.), il quale
sottolinea come la qualifica di sapiente, che indirettamente viene attribuita
al poeta narrante, presupponga che l'incontro con la Dea e la rivelazione siano
già avvenuti. La qualifica di εἰδώς indica, infatti, ancora in Aristofane e
Euripide, la condizione del «miste», di colui che ha ormai superato la prova
dell’iniziazione. L’immagine del sapiente che per il mondo diffonde con la
paola poetica la verità conquistata, suggerirebbe dunque di riferire la
situazione (e la condizione del poeta) a un tempo successivo all’incontro con
la θεά. 13 Intendo la forma avverbiale τῇ (ταύτῃ), ribadita nello stesso verso,
come se si riferisse non a un luogo determinato ma alla via lungo la quale il
poeta è condotto: «lungo questa via», dunque, o al limite «qui». Scegliendo di
tradurre in questo modo e non come per lo più si fa («là»), intendo marcare
questa sequenza – concentrata sul viaggio-missione del poeta - dalla
successiva, che si apre (v. 11) con un altro locativo (ἔνθα) e che propriamente
introduce alla rivelazione. La traduzione in questo caso ha un peso: dal
momento che τῇ può rendersi tanto con «qui» che con «là», le indicazioni di
luogo, analogamente ai tempi verbali, possono avere un'incidenza
nell’interpretazione complessiva. Abbiamo scelto una perifrasi, cercando di
conservare, anche in questa occasione, l'ambiguità: «questa via» 85 [5]
trainando il carro17: fanciulle18 mostravano la via. Nei mozzi emetteva un
sibilo acuto19 l’asse, può riferirsi alla via su cui al momento si muove il
poeta nella sua missione pubblica, ovvero la via al centro del successivo
racconto. 14 Le due forme verbali del verso – φερόμην e φέρον – sono imperfetti
in diatesi passiva e attiva: sottolineano l'azione di trasporto (delle cavalle)
e il privilegio di essere trasportato (del poeta). 15 Si tratta dell’ennesima
ripetizione di una forma del verbo φέρω nei versi iniziali. Tale ripetizione,
sottolineata dagli interpreti, è intesa da alcuni (Mourelatos, p. 35) come un
difetto, un limite della poesia di Parmenide, da altri (P. Kingsley, In the
Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999, p. 135), invece, come mezzo per
incidere sull’audience: la ripetizione sarebbe «una tecnica per creare un
effetto incantatorio». Secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 124), essa avrebbe
essenzialmente una funzione retorica: preparerebbe l’audience al concetto di
guida, centrale nel «second journey», cioè nel viaggio intrapreso, appunto
sotto la direzione della Dea, verso la verità. 16 L’aggettivo πολύφραστοι, riferito
alle cavalle, significa letteralmente «che hanno molto da dire»: supponendo che
πολύ comporti intensità, si può rendere con «molto avvedute», «molto sagge».
Parmenide vuole forse sottolineare le affinità tra le cavalle e le guide cui si
allude ai vv. 5 e 9. 17 Cerri (pp. 96-7) ricorda come il carro trainato da
cavalle o cavalli sia chiara metafora della poesia, impiegata spesso nella
lirica corale: il poeta sul carro guidato dalle Muse è avviato all’itinerario
espressivo più adeguato all’occasione. D’altra parte anche lo sciamano
mediatore tra uomini e dei, come sottolinea Mourelatos (pp. 42-3), ha la
capacità di lasciare in trance il proprio corpo e viaggiare in cielo o
nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni mediche o
cultuali da una divinità. Il suo viaggio, pericoloso, avviene talvolta su un
carro volante: frequentemente accostata a certi animali, come i cavalli, la
figura dello sciamano - spesso poeta o cantore - narra in prima persona le sue
esperienze celesti. L’associazione con le Ἡλιάδες κοῦραι (v. 9) e i riferimenti
(v. 9) alla «dimora della Notte» (δώματα Νυκτός) e (v. 11) alla «porta dei
sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων) suggeriscono
un nesso tra il carro (ἅρμα) di cui si parla e il carro del Sole. La possibile
contestualizzazione oltremondana del viaggio fa pensare, d'altra parte, al
carro di Hades. 18 Si tratta, come risulta dal v. 9, delle Eliadi. 19 Così
traduciamo σύριγγος ἀυτήν, letteralmente «lamento di siringa [organetto a canne]».
Ferrari rende con «sibilo di zufolo». Si tratta del sibilo prodotto dall’asse
nella sua rotazione all’interno delle sedi (χνοῖαι) che lo fissano al carro.
Kingsley (op. cit., pp. 89 ss.) ha rilevato che le fonti antiche (Ippolito,
Plutarco, Giamblico) collegano l’esperienza del suono della σῦριγξ a 86
incandescente20 (poiché era mosso da due rotanti cerchi da ambo i lati), mentre
si affrettavano21 a scortar[mi]22 le fanciulle Eliadi 23, avendo abbandonato24
la dimora25 della Notte resoconti di incubation, cioè a esperienze di trance:
uno dei segni che accompagnano il passaggio a un diverso stadio di
consapevolezza (tra sonno e veglia) sarebbe appunto il fischio della σῦριγξ. 20
L’aggettivo αἰθόμενος letteralmente «infiammato», ma anche «surriscaldato». 21
L’ottativo σπερχοίατο avrebbe, secondo Coxon (p. 161) e altri, valore iterativo
(come ἱκάνοι, v. 1). O’Brien (p. 10), invece, ne rileva – sulla scorta di
analoghe espressioni omeriche – l’uso per designare semplice concomitanza di
azioni. 22 Il testo greco non riporta alcun complemento pronominale, ma è
ovviamente da sottintendere, come nel precedente v. 4, che πέμπειν si riferisca
al poeta. Coxon (p. 161) fa osservare come il soggetto di πέμπειν - e quindi
anche della conduzione del carro del poeta - a questo punto non siano più le
cavalle ma le Eliadi. 23 L'espressione greca Ἡλιάδες κοῦραι determina il
precedente (v. 5) uso indefinito di κοῦραι: si tratta delle Eliadi, le figlie
del Sole. In Omero (Odissea XII.127-36) esse attendono all'immortale bestiame
del genitore, ma nel mito, cantato in un frammento esiodeo (fr. 311
Merkelbach-West) e ripreso in un'opera perduta (Ἡλιάδες, appunto) di Eschilo
(alla cui rappresentazione in Siracusa Parmenide potrebbe aver presenziato,
secondo quanto ipotizza A. Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", «La
Parola del Passato», XLIII, 1988, pp. 42-60; il riferimento a p. 52), sono
direttamente coinvolte nella drammatica vicenda del fratello Fetonte, al quale
consegnano il carro del Sole, all'insaputa del padre. In questo modo esse sono
corresponsabili della sua impresa punita dall'intervento di Zeus con la morte
di Fetonte. Per punizione Zeus le mutò in pioppi: le loro lacrime si
trasformarono in ambra. Nel contesto è significativo ricordare che la prole del
Sole è connotata nell’universo mitico in termini sapienziali (Cerri, p. 173),
e, d'altra parte, appariva funzionale all'economia del racconto, del viaggio e
della rivelazione. 24 Il participio aoristo προλιποῦσαι – secondo il precedente
omerico - indica il punto di partenza dell'azione corrente (la conduzione del
poeta da parte delle Eliadi). La «dimora della Notte» - luogo di soggiorno
alternato di Notte e Giorno – è, dunque, naturale luogo di destinazione delle
Eliadi che accompagnano il poeta. 25 Il termine δώματα è al plurale («case»),
probabilmente per accentuare le dimensioni della casa della Notte.
L’espressione δώματα Nυκτός richiama l’analoga Nυκτός οἰκία esiodea (Teogonia,
744) e fa pensare, dunque, a una collocazione nell’abisso del mondo infero (che
in Esiodo domina sulla 87 [10] verso la luce26, rimossi con le mani i veli dal
capo27 . prigione dei Titani): la casa della Notte - in cui alternativamente
soggiornano Notte e Giorno – è probabilmente situata, oltre la porta presso cui
essi si danno il cambio, nel χάσμα sottostante. In questo senso potrebbe
leggersi l'indicazione del v. 11 a «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno»
(πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων). Mantenendo il riferimento esiodeo,
sembrerebbe quindi che Parmenide alluda in questi passaggi non a una locazione
genericamente ai limiti occidentali della Terra, ma a una direzione
sotterranea, verso le regioni del Tartaro e dell’Ade (Cerri, p. 173). Nella
letteratura orfica (fr. 105 Kern) abbiamo attestata l'espressione ἐν τοῖς
προθύροις τοῦ ἄντρου τῆς Νυκτὸς («sulla porta dell'antro della Notte»). Da
notare che, in questo caso, l'«antro» è sorvegliato da Dike, Adrasteia e Nomos.
D’altra parte, le porte di Notte e Giorno potrebbero intendersi come le
omeriche porte del cielo (Iliade V.754 ss.), sorvegliate dalle Ore: Dike - in
Esiodo - è proprio una di loro (Mourelatos, p. 15). È possibile, tuttavia, che
sia Esiodo sia Parmenide in realtà si appoggino a una tradizione mesopotamica:
W. Heimpel ("The Sun at Night and the Doors of Heaven in Babylonian Texts",
Journal of Cuneiform Studies, 38, 127-51) ha mostrato come i testi sumerici e
accadici presentassero esattamente lo stesso immaginario celeste e infero, con
analogo ruolo dei cancelli del cielo rispetto al passaggio del Sole, analoga
descrizione dei loro meccanismi di apertura, analogo soggiorno notturno presso
un dimora locata tra mondo celeste e mondo infero (il Sole in effetti avrebbe
svolto anche funzioni di giudice oltremondano). Su questo Palmer, op. cit., pp.
55-6. 26 L’espressione εἰς φάος può essere riferita a πέμπειν (v. 8), nel senso
di «scortare verso la luce», ovvero, come è più naturale, a προλιποῦσαι (v. 9),
scelta preferibile, anche per la prossimità del collegamento. Quindi: «[le
fanciulle Eliadi] abbandonata la dimora della notte [muovendo] verso la luce».
In ogni caso la costruzione appare intenzionalmente ambigua e l'interpretazione
è stata spesso condizionata dalla punteggiatura: DielsKranz, per esempio,
inserivano la virgola prima di εἰς φάος, forzando il suo riferimento a πέμπειν.
L’espressione è ricca di implicite possibilità simboliche: un viaggio verso il
regno della luce è metafora appropriata per una esperienza di illuminazione
(Mourelatos, p. 15) ovvero di rivelazione; ma potrebbe richiamare il fatto che
il poeta accede all’αἰθήρ, alla estrema regione di fuoco dell’universo fisico,
di cui la dea innominata successivamente (v. 22) citata sarebbe
personificazione (Coxon, p. 163). Ma la luce potrebbe anche rappresentare il
nostro mondo, se interpretiamo il racconto come resoconto di un νόστος, di un
periglioso viaggio di ritorno dal mondo dell’Ade, dove il poeta ha ricevuto la
rivelazione (così Ruggiu, pp. 162-3). Cerri (p. 173) segnala come l’espressione
ricorra in altri testi arcaici, per indicare l’«azione portentosa del riemergere
dall’Ade». Ferrari (op. cit., pp. 101-2) con buoni argomenti sostiene questo
tipo di lettura: nel 88 Là28 sono i battenti29 dei sentieri30 di Notte e
Giorno: proemio il tempo del racconto scorrerebbe a ritroso: il ritorno finale
alla luce precederebbe il racconto della catabasi nel regno della Notte.
Secondo Privitera (op. cit., p. 460), invece, proprio l'indicazione προλιποῦσαι
δώματα Nυκτός εἰς φάος rappresenterebbe «precisazione inequivocabile e scoglio
funesto, contro cui è destinata a naufragare ogni interpretazione catabatica
del viaggio di Parmenide». 27 Esiodo descrive la dimora della Notte avvolta
nelle tenebre: καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι
E di Notte oscura la casa terribile s’innalza di nuvole livide avvolta
(Teogonia 744-745). Nella stessa opera, le Muse sono introdotte come figure
notturne: ἔνθεν ἀπορνύμεναι κεκαλυμμέναι ἠέρι πολλῷ ἐννύχιαι στεῖχον Di là
levatesi, nascoste da molta nebbia, notturne andavano (Teogonia 9-10). I due
passi, che non sono sfuggiti a Cerri (p. 174), potrebbero concorrere a
illustrare il moto e i gesti delle Eliadi nel dettaglio fornito da Parmenide.
Anche Palmer (op. cit., p. 57) suggerisce l'accostamento. 28 Cerri (p. 174)
segnala come l’avverbio locativo ἔνθα ricorra nella tradizione epico-teogonica
in relazione all’Ade come connotazione aggiuntiva. Nella lettura di Ferrari, a
questo punto comincia «il resoconto dell’esperienza oltremondana» (p. 103). 29
Il testo greco presenta il plurale πύλαι, letteralmente «piloni» ovvero i
pilastri che sorreggono un grande portale a due battenti (su questo punto si
leggano le osservazioni di O’Brien, p. 11, e Conche, p. 49). Altri (Cordero
1984, p. 180, Coxon, pp. 161-2) riferiscono il plurale a due porte distinte,
una in faccia all’altra: Coxon, per esempio, seguendo le letture neoplatoniche
di Simplicio e Numenio, crede che le «porte» si riferiscano a quelle celesti,
per le quali le anime sono condotte, rispettivamente, a discendere εἰς γένεσιν
(«alla generazione, incarnazione») e ad ascendere εἰς θεούς (verso le
divinità), in altre parole a viaggi di genere opposto. Il verso successivo
sembra tuttavia smentire tale lettura. In Omero è attestata l'espressione πύλαι
Ἀΐδαο (Iliade V, 646; IX, 312; Odissea XIV, 156) per indicare i cancelli che
immettono al mondo infero; uso analogo (Ἄιδου πύλαι) nella tragedia eschilea.
Secondo Privitera (op. cit., p. 453), che ricostruisce l'immagine del mondo nel
mito arcaico attraverso i versi di Omero, Esiodo, Mimnermo e Stesicoro,
Parmenide avrebbe rinnovato il quadro che 89 architrave e soglia31 di pietra li
incornicia32; emergeva dalla tradizione unificando quelle che erano in
precedenza due porte distinte: la Porta dell'Ade (attraverso cui si davano il
cambio Notte e Giorno) e la Porta del Sole (attraversando la quale, a
occidente, l'astro trascorreva, sul bordo dell'Oceano, verso una porta
orientale, per tornare a risplendere all'alba). Secondo lo studioso italiano,
Parmenide avrebbe trasferito la Porta della Notte e del Giorno sulla Terra e
l'avrebbe unificata con la Porta del Sole (sdoppiandola dunque in una porta
occidentale e in una orientale): la Porta varcata dalle Eliadi riassumerebbe
allora la doppia funzione nella tradizione distribuita tra Porta del Giorno e
della Notte e Porta del Sole. 30 Già negli usi omerici e nella tragedia
eschilea, il termine κέλευθος può indicare, secondo il contesto, «via»,
«sentiero», «strada», ma anche ciò che viene effettuato lungo quella via, cioè
«viaggio» ovvero «spedizione». Il plurale κέλευθα potrebbe rendersi in questo
caso, mediando tra i due significati segnalati, come «percorsi», come
suggerisce anche Ferrari (op. cit., p. 109): si tratta in effetti degli
itinerari compiuti da Giorno (Ἡμήρη) e Notte (Νύξ). La Sassi (op. cit., p. 388)
fa notare come la porta, presso cui si incontrano e attraverso cui accedono
alternativamente al cosmo Giorno e Notte, dia accesso a un «luogo mitico,
analogo al Tartaro», dove, come in Esiodo (Teogonia 736 ss.) è situata la
«dimora della Notte». 31 L’Olimpica VI di Pindaro si apre con un analogo
riferimento alla soglia (οὐδός), a indicare l’esordio del canto. In relazione
alla espressione πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων è probabile che οὐδός sia
da intendere come entrata del mondo infero, accettando il suggerimento di Cerri
(p. 175) di accostare il passo parmenideo ai versi esiodei di Teogonia 748-751:
[…] ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσονἰοῦσαι ἀλλήλας προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν
χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται, οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς
ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ
δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν ἵκηται […] là dove Notte
e Giorno incontrandosi si salutano, al momento di varcare la grande soglia di
bronzo, l’uno per scendere dentro, l’altra per la porta se ne va, né mai
entrambi a un tempo la casa trattiene dentro di sé, ma sempre l’uno, fuori
della casa, la terra percorre, l’altra, dentro casa, attende la propria ora di
viaggio, finché non giunga. 90 essi, alti nell’aria33, sono agganciati34 a
grande telaio35 . Nel poema di Parmenide troviamo λάινος οὐδός invece di
χάλχεος οὐδός, come appunto in Esiodo e Omero (Iliade VIII, 15). Secondo Cerri
(p. 176) la correzione nell’uso dell’aggettivo potrebbe essere dettata dalla
finalità del poema fisico dell’Eleate: la collocazione nelle viscere della
terra avrebbe consigliato «pietrigna» piuttosto che «bronzea». 32 Rendiamo ἀμφὶς
ἔχειν come «incorniciare»: il poeta intende segnalare i limiti verticali (la
soglia e l'architrave appunto) della struttura, che, così descritta non può
essere propriamente un cancello ma un vero e proprio portale. Sembra da
escludere anche la possibilità delle due porte. 33 L’aggettivo αἰθέριαι si
riferirebbe, secondo una certa tradizione interpretativa (Deichgräber, Coxon),
alla collocazione della porta nella regione estrema del cielo; per altri, più
semplicemente, il poeta sottolineerebbe la dimensione in altezza del portale
(Cerri: «battenti che toccano il cielo»; Ferrari: «alta fino al cielo»). Alcune
traduzioni (Tarán, O’Brien) privilegiano il valore materiale dell’aggettivo,
dunque la natura eterea della porta: è vero però che Parmenide marca che essa è
di pietra. Proprio con l’incrocio lessicale di pietra ed etere egli potrebbe
allora suggerire che la porta è punto di incontro di terra e cielo (Leszl, p.
151). La scelta dell'aggettivo sarebbe significativa, secondo Privitera (op.
cit., p. 453), perché rivelerebbe come la porta che le Eliadi stanno per
varcare non è quella dell'Ade, la cui volta è descritta da Esiodo come
sottostante il soffitto del Tartaro. Al contrario, la PellikaanEngel (op. cit.,
p. 57) ritiene che l'espressione αἰθέριαι πύλαι potrebbe essere ripresa
sintetica del verso esiodeo: τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν Di
fronte a essa il figlio di Iapeto tiene il cielo ampio (Teogonia 746). Il
riferimento ad Atlante, che con i piedi piantati per terra solleva il cielo con
testa e braccia, potrebbe (come vuole Burkert) essere avvalorato proprio
dall'uso di λάινος οὐδός («soglia di pietra») in relazione a αἰθέριαι πύλαι,
quasi a indicare gli estremi (terra e cielo) dello sforzo del titano. Parmenide
potrebbe dunque aver avuto Esiodo come modello per la sua porta dei «sentieri
di Notte e Giorno», replicando l'analogo portale di Atlante (Pellikaan-Engel,
op. cit., pp. 57-8). 34 La «strana» (Passa, op. cit., p. 100) forma verbale πλῆνται
ha ingannato gli editori: normalmente la si riferisce a πίμπλημι («riempire»),
ma, come ha con acribia dimostrato Passa (pp. 100-4), va ricondotta a πίλναμαι
(«avvicinarsi»), di cui rappresenterebbe forma "corta" del perfetto
medio (πέπλημαι). Rendiamo, come suggerito dallo stesso Passa per il nostro
contesto. 91 Dike36, che molto castiga37, ne38 detiene le chiavi dall’uso
alterno39 . [15] Placandola40, le fanciulle, con parole compiacenti, 35 Anche
in questo caso molti editori sono stati imprecisi, lasciandosi sfuggire il
significato tecnico del termine θύρετρα, che è plurale tantum usato anche come
variante di θύρα («porta»), ma il cui valore primario è «telaio [della porta]»,
come correttamente inteso da Coxon e recentemente ribadito da Passa. 36 Nella
tradizione omerica ed esiodea, Dike era, con Eunomia e Irene, una delle Ore,
sorelle delle Moire, figlie di Zeus e Temi: compito delle Ore (Iliade V, 749;
VIII, 393) era quello di sorvegliare le porte del Cielo. È significativo che
anche Eraclito (DK B94) alluda a Dike e alle coadiutrici Erinni come garanti
del corretto percorso del Sole. Secondo Robbiano (p. 155), la figura di Dike è
tradizionalmente introdotta in relazione al rispetto dei confini: non a caso la
ritroviamo a sorvegliare il cancello che discrimina i percorsi di Giorno e
Notte. Essa sarebbe responsabile delle divisioni e distinzioni all’interno di
natura e società (dei confini tra parti e gruppi): in questo senso sarebbe
garante di equilibrio (p. 157). Tuttavia, come la studiosa correttamente
segnala (p. 158), l’ordine cui sovrintende la Dike parmenidea, rivelato nei
versi successivi, non è quello tradizionalmente inteso. 37 L’espressione Díkh
πολύποινος è attestata nella letteratura orfica (fr. 158 Kern), ma la datazione
è incerta (Coxon, p. 163). D'altra parte, come abbiamo già avuto modo di
segnalare, Dike compare nella stessa tradizione (fr. 105 Kern) come
sorvegliante (con Adrasteia e Nomos) dell'«antro della Notte». Molto critico su
questa prospettiva orfica Cerri (p. 104). Certamente, come osserva Mourelatos
(p. 15), la figura di Δίκη πολύποινος, che tiene le chiavi (delle
retribuzioni?), ricorda quella di una divinità infernale. Ferrari nella stessa
direzione traduce come «Dike sanzionatrice». Nell'economia del racconto
proemiale, accettando l'ipotesi di una katabasis, la funzione di Dike sarebbe
quella di permettere al poeta di accedere, vivo, alla realtà oltremondana
(Sassi, op. cit., p. 389). 38 L'interpunzione dell'edizione Diels-Kranz
autorizza a intendere il genitivo pronominale iniziale τῶν riferito (come il
pronome αὐταί, nella stessa posizione del verso precedente) a πύλαι. 39
L’aggettivo ἀμοιϐός – raro – sembrerebbe indicare successione: potrebbe
riferirsi al fatto che le chiavi consentono l’apertura alternata della porta
(Coxon, p. 164) ovvero al loro uso complementare (O’Brien, p. 11). Nel contesto
è probabile che il riferimento sia all’alternanza di Notte e Giorno: Dike
regolerebbe con la propria sorveglianza il passaggio del Sole. Questo potrebbe
spiegare la situazione drammatica di seguito descritta: non era in effetti
plausibile che Dike potesse lasciar passare il mortale viaggiatore. 40 Il verbo
πάρφημι (παράφημι) ha un valore simile al successivo πείθω, ed è spesso
associato all'inganno (come segnalato da LSJ). In questo senso forse 92 [la]
persuasero41 sapientemente affinché per loro la barra del chiavistello
togliesse rapidamente dai battenti42. E questi43 nel telaio vuoto enorme44 produssero
aprendosi, i bronzei cardini nelle cavità in senso inverso facendo ruotare,
[20] applicati per mezzo di ferri e chiodi45. Per di là46 , anche la scelta del
complemento μαλακοῖσι λόγοισιν, per sottolineare la gentilezza
dell'espressione. 41 Il racconto della (possibile) catabasi, introdotto con la
descrizione del portale al v. 11, ha qui il suo effettivo inizio, segnalato
dall’uso del primo aoristo (βῆσαν al v. 2 era stato utilizzato all’interno di
una subordinata), cui seguono quelli ai vv. 18, 22, 23. Il racconto, secondo
Ferrari cui si devono queste osservazioni (op. cit., p. 105), è prospettato
come premessa e ragione del “ritorno”, cui sono stati dedicati i versi iniziali
del proemio. 42 Un analogo repertorio di immagini, movimenti, meccanismi di chiusura
e apertura di portali, così come analogo superamento divino dello stesso
portale che discrimina mondo celeste e mondo infero a opera del Sole è
documentato negli antichi testi sumerici (per i quali si rinvia ancora a
Heimpel e Palmer, op. cit., pp. 55-6). 43 Anche in questo caso, come nei
precedenti ai vv. 13-14, il pronome ταί si riferisce a πύλαι. 44 L’espressione
χάσμ΄ ἀχανὲς sembra evocare il χάσμα μέγα esiodeo (in entrambi i casi χάσμα è
in relazione con il genitivo πυλέων), il baratrochaos che Esiodo nella Teogonia
(740) pone al di là della soglia della porta di Giorno e Notte: si tratta della
voragine al fondo della quale è collocata la prigione in cui, al termine della
titanomachia, furono rinchiusi i titani sconfitti. Leszl fa notare (p. 151),
comunque, come non si abbia l’impressione che la porta di cui parla Parmenide
sia la porta di accesso alla casa della Notte. La Robbiano (p. 150), invece,
rileva la funzione drammatica dell’immagine, che si frappone, con la soglia
petrigna, tra la quotidiana esperienza mortale del viaggiatore e l’incontro con
la divinità. A rendere estremamente probabile la diretta evocazione di Esiodo
da parte di Parmenide contribuisce un dato significativo: il termine χάσμα non
ricorre in letteratura almeno fino alla metà del V secolo a.C. (M.E.
Pellikaan-Engel, op. cit., p. 53). 45 A struttura e dinamica della “porta”
dedicano spazio i commenti di Diels e Conche, che si servono anche di opportune
illustrazioni a sostegno della spiegazione. 46 Seguiamo Ferrari nel rendere in
italiano la formula greca τῇ ῥα δι΄ αὐτέων, costruita con la particella
avverbiale locativa e il complemento di (moto attraverso) luogo. Letteralmente
si dovrebbe tradurre: «Là, attraverso quella [porta]». 93 dritto condussero le
fanciulle lungo la via maestra47 carro e cavalli. E la Dea48 benevola mi
accolse: con la mano [destra] la [mia] mano 47 L'aggettivo (qui in forma
sostantivata) ἀμαξιτός, comunemente associato a ὁδός, indica la strada
attrezzata per il passaggio dei carri, quindi, derivatamente, una strada
principale. Secondo la Pellikaan-Engel (op. cit., p. 54), la scelta del termine
segnalerebbe che dalla porta al luogo dell'incontro con la Dea il percorso non
è breve. In questo senso potrebbe dunque approfondirsi la dimensione
sotterranea del viaggio. 48 Traduco θεά con «la Dea» per accentuarne il valore
religioso: mi pare plausibile alla luce del suo ruolo personale di
interlocutrice privilegiata, che guida, sollecita, espone, proibisce ecc.. Per
l'identificazione dell’anonima divinità, tra le proposte degli ultimi decenni è
interessante l’indicazione di Cerri (pp. 180-1): nelle città della Magna Grecia
(Locri, Posidonia e varie altre) erano diffuse iscrizioni alla «dea infera»,
«ninfa infera» o semplicemente «alla dea», in cui il riferimento era
chiaramente a Persefone. A conclusioni analoghe è giunto, indipendentemente,
Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.). Anche Passa ( p. 53) ha di recente
riconosciuto in Persefone la dea rivelatrice del poema. Secondo West (M.L.
West, La filosofia greca arcaica e l'Oriente, Il Mulino, Bologna 1993, p. 289
n. 57), la θεά alluderebbe a Θεία (Tia), in Esiodo (Teogonia 135) una delle
Titanidi (come Temi), figlie di Urano e Gea, e madre di Sole, Luna e Aurora
(371-4). Anche in Pindaro (Istmiche V.1) Θεία è invocata come «Madre del Sole».
Pugliese Carratelli (“La Θεά di Parmenide”, «La Parola del Passato» XLIII,
1988, pp. 337-346) ha proposto – sulla scorta di una laminetta orfica dedicata
a Μνημοσύνη, ritrovata nel 1974 a Ipponio – l'identificazione della dea appunto
con Mnemosyne (a sua volta una Titanide). La stessa ipotesi è avanzata su basi
analoghe da Sassi (op. cit., p. 393). Ferrari (op. cit., pp. 107-8), sulla scia
di J.S. Morrison ("Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies»,
75, 1955, pp. 59-68) e W. Burkert ("Das Proömium des Parmenides und die
Katabasis des Pythagoras", «Phronesis», 14, 1969, pp. 1-30), ha di recente
concluso che la non meglio definita divinità del v. 22 altri non sarebbe che
Νύξ (Notte), variamente attestata nella tradizione oracolare e orfica. In
particolare egli ha osservato come, nella tradizione epica, l’uso di θεά senza
ulteriori determinazioni sia anaforico: nel contesto, a parte Dike guardiana
del portale, l’unica divinità nominata è appunto Νύξ. Anche Palmer (op. cit.,
pp. 58-61), seguendo Morrison e Mansfeld (pp. 244-7), è tornato a insistere su
Νύξ, giustificando la propria opzione non solo nel contesto del proemio, ma
rinviando anche all'ambiente culturale orfico, in particolare al poema oggetto
di commento nel Papiro di Derveni, e alle funzioni oracolari associate alla
figura di Notte nel mondo greco. A suo tempo la Pellikaan- 94 destra prese49, e
così parlava e si rivolgeva50 a me: O giovane51, che, compagno52 a immortali
guide53 Engel (op. cit., pp. 61-2) aveva opposto a questa proposta di
identificazione l'osservazione sensata che la compresenza di Eliadi e Notte era
quanto mai improbabile, proprio alla luce del precedente esiodeo. In
alternativa, quindi, aveva suggerito l'esiodea Ἡμέρη (il Giorno), da Parmenide
evocata come Ἤμαρ. A Πειθώ, invece, ha pensato Mourelatos (op. cit., p. 161).
Di recente, riprendendo il suggerimento di Hermann Fränkel, Privitera (op.
cit., pp. 461-2) ha proposto la Musa, portando sostanzialmente tre argomenti:
(i) la ricorrenza del termine θεά all'interno del proemio di un poema epico;
(ii) l'analogia con Iliade, nel cui primo verso la Musa è allusa appunto come
θεά; (iii) il costume che prevedeva una invocazione alla Musa per poema
"epico" di argomento sapienziale. In ogni caso, è significativo che
questa δαίμων subito interpelli il poeta: ciò ha riscontro nell'immaginario
viaggio oltremondano tratteggiato nelle laminette orfiche conservate, dove
l'iniziato è interrogato da «custodi» (φύλακες) presso la palude di Mnemosine
(Sassi, op. cit, p. 390). 49 Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.) rinvia a
testimonianze vascolari che ritraggono Persefone nell'atto di accogliere
nell'Ade Eracle e Orfeo, offrendo loro appunto la mano destra. 50 Il verbo
greco προσηύδα è all’imperfetto, come il successivo προὔπεμπε (v. 26:
«spingeva»): i verbi che esprimono l’idea di un ordine o di una missione sono
impiegati all’imperfetto perché implicano uno sforzo e indicano il punto di
partenza di uno sviluppo. Così per i verbi che significano «dire» (O’Brien, p.
8): la forma epica φάτο, in effetti, può essere anche imperfetto. 51 Il termine
vocativo κοῦρε non si riferisce necessariamente alla giovinezza del poeta,
potrebbe piuttosto marcare lo scarto tra la natura divina e quella umana degli
interlocutori. Il termine κοῦρος (forma epica e ionica di κόρος), relativamente
raro nei testi arcaici, indica sia il giovane contrapposto all’anziano, sia il
figlio, sia il ragazzo contrapposto alla ragazza. Esso può implicare anche un
legame particolare con la divinità, dal momento che κοῦρoι erano chiamati i
giovani addetti ai sacrifici, ma anche i figli degli dei (negli inni omerici a
Hermes e Pan, e in Pindaro Olimpiche VI): in ogni caso, il termine sarebbe
titolo di onore (Coxon e Kingsley). Conche (p. 59) fa notare come l’appellativo
sia coerente con il contesto educativo, giustificando la disponibile e benevola
accoglienza della dea. La Sassi (op. cit., p. 387) associa l'appellativo κοῦρε
a εἰδὼς φώς, come espressione legata a una prospettiva iniziatica. 52 Il
termine συνάορος non significa semplicemente «accompagnato da», ma «associato
a», «collegato a»: la traduzione «compagno» è sufficientemente ambigua da
accoglierne le sfumature. Etimologicamente è connesso a συναείρω («aggiogare»),
con il significato immediato di «aggiogato insieme»: anche in questo caso,
dunque, è evidente il debito del proemio 95 [25] e cavalle che ti conducono,
giungi alla nostra casa54 , rallegrati, poiché non Moira55 infausta ti spingeva
a percorrere questa via56 (la quale è in effetti lontana dalla pista degli
uomini57), ma Temi58 e Dike 59 . Ora60 è necessario61 che tutto62 tu63
apprenda64: parmenideo all'immaginario dell'ippica (Passa, p. 137). Da
sottolineare il fatto che la formula utilizzata dalla Dea fa del κοῦρος in
questo modo un «compagno» delle Eliadi, a loro volta presentate (v. 5) come κοῦραι.
Secondo Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles
1986, p. 93), il rilievo della Dea si riferirebbe alla comune giovinezza delle
Eliadi – κοῦραι - e del poeta - κοῦρος. 53 Il sostantivo maschile ἡνίοχος
designa chi guida un carro, l'«auriga»; derivatamente è utilizzato anche per
indicare chi governa e indirizza una nave, e, in senso lato chi guida e
governa. Nel contesto il termine si riferisce alle Eliadi. 54 Secondo Ferrari
(op. cit., p. 107), l'espressione ἡμέτερον δῶ («la nostra casa») richiamerebbe
δώματα Nυκτός («la dimora della Notte») del v. 9, spingendo alla conclusione
che la Dea sia da identificare appunto con Νύξ. 55 In Esiodo abbiamo tre Moire,
figlie di Zeus e Temi. L’espressione μοῖρα κακή ricorre in Iliade XIII, 602 per
indicare la morte: nel contesto, dunque, essa potrebbe alludere a un luogo
preciso dell’incontro con la divinità: l’oltretomba. In questo senso Cerri e
Ferrari traducono come «sorte maligna»: i traduttori, in effetti, per lo più
preferiscono associare al termine, nel nostro contesto, il valore di «fato» o
«destino». Così intende anche la Sassi (op. cit., p. 389). 56 L'espressione
τήνδ΄ ὁδόν sottolinea, con il dimostrativo, il privilegio del κοῦρος: a partire
dalla prima evocazione (vv. 2-3) della ὁδός πολύφημος δαίμονος, il tema della
strada/via è rimasto dominante sullo sfondo del racconto, che si è sviluppato
lungo l'itinerario del poeta. 57 Conche (p. 60) osserva che il riferimento
coinvolge costumi, abitudini, modi di pensare diffusi tra gli uomini. È
probabile ritrovare in questo passaggio un’eco del precetto pitagorico
conservato da Porfirio (e sopra citato proprio in relazione alla ὁδός πολύφημος
δαίμονος dei vv. 2-3): τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade
popolari»). 58 In alternativa: «norma divina», ovvero «legge» (θέμις). Temi era
una delle Titanidi, figlie di Urano e Gea, madre delle Moire e delle Ore,
nonché una delle spose di Zeus. 59 Complessivamente il coinvolgimento di Temi e
Dike sembrerebbe essere proposto a garanzia della eccezionalità dell’evento
rivelativo. Il riferimento a Temi potrebbe giustificare l’intervento delle
Eliadi presso Dike per persuaderla ad aprire una porta che avrebbe altrimenti
dovuto rimanere 96 sia di Verità65 ben rotonda66 il cuore67 fermo68 , serrata
per un mortale (in vita), e il rilievo della associazione delle due dee nelle
parole della divinità innominata. Tenendo conto della associazione delle due
dee con la norma e la giustizia divine, il loro coinvolgimento proietta e
impone sulla successiva “rivelazione” una forte impronta d’ordine e di
necessità (cosmici). In questo senso Tonelli, nella sua edizione dei frammenti
(p. 116), rileva come Moira, Temi e Dike, unitamente ad Ananke (Necessità),
rappresenterebbero «la divinità femminile nella sua dimensione di norma
cosmica». 60 Pochi traduttori traducono la particella δέ. Ferrari le riconosce
valore avversativo («Ma»), altri continuativo: Diels («so»), Gemelli Marciano
(«also»), Tonelli («e»). L'introduzione della particella non è legata forse
solo a ragioni di equilibrio metrico, ma anche al senso della rassicurazione
iniziale della Dea: ella dapprima tranquillizza il poeta circa il suo destino,
quindi sottolinea il compito che lo aspetta. 61 Il termine χρεώ è associato
nell'epica a χρειώ, che nelle fasi antiche dell'epica era utilizzato come vero
e proprio nome femminile: nel corso del tempo esso fu trattato come un neutro.
Analogamente χρεώ, che, preso il posto di χρειώ, finì per diventare un sinonimo
di χρή (Passa, p. 77-8). La formula (con copula sottintesa) χρεώ rende una
necessità soggettiva, dunque opportunità, convenienza, piuttosto che una
costrizione oggettiva: si potrebbe rendere anche con «è giusto», «è opportuno».
In ogni modo, l’uso di tale formula implica che quanto la Dea sta per esprimere
è parte del compito, del dovere che il viaggiatore deve assumere (Robbiano, op.
cit., p. 75). Ferrari (op. cit., p. 104) giustamente osserva come il kouros per
la dea sia in fondo solo un «apprendista» (apostrofato appunto come κοῦρε). 62
La scelta del pronome neutro plurale πάντα («tutto», ovvero «tutte le cose») è
significativa perché garantisce al programma della comunicazione (rivelazione)
della Dea un orizzonte di verità piena, totale, giustificandone le
articolazioni annunciate negli ultimi versi. 63 L'insistenza sui pronomi
personali è confermata anche nei frammenti successivi (soprattutto la polarità
«tu» e «io», in contrapposizione ai «mortali»). 64 Il verbo πυνθάνομαι ha il
valore di «imparare per sentito dire (raccogliendo informazioni)» ovvero
«imparare per indagine». Può implicare dunque sia un atteggiamento di passiva
ricezione, sia di attiva ricerca («di tutto fare esperienza»). 65 Secondo Coxon
(p. 168) il sostantivo ἀληθείη e l’aggettivo ἀληθής non significherebbero nel
contesto del poema «verità» e «vero», ma «realtà» e «reale». Di recente Palmer
(op. cit., pp. 89-93) ha rilanciato con buoni argomenti. Anche Ferrari traduce
con «Realtà». Nel suo Parmenides und die Anfänge der Erkenntniskritik und Logik
(Auer, Donauwörth 1979, pp. 33 ss.), E. Heitsch mostra, sulla scorta della
preistoria del termine, come 97 ἀλήθεια etimologicamente (non occultamento e
non dimenticanza) suggerisca una originaria affinità tra il senso oggettivo e
soggettivo di verità: ἀλήθειαν εἰπεῖν verrebbe per esempio a significare
«riportare nel discorso qualcosa che nel mondo si mostra come non nascosto». In
effetti, in Omero ἀληθείη e ἀληθέα compaiono in dipendenza da verba dicendi:
Gloria Germani ("ΑΛΗΘΕΙΗ in Parmenide", in «La Parola del Passato»,
vol. XLIII, 1988, pp. 177-206) ha sottolineato in questo senso la «peculiarità
sintattica» del termine nella individuazione del processo unitario che connette
soggetto e oggetto (p. 181). Tipico di ἀληθείη sarebbe infatti il riferimento a
chi parla: l'oggetto si manifesta solo se c'è un soggetto a cogliere tale
manifestazione. Il termine designerebbe dunque una relazione in cui «conoscere
e realtà si completano e si realizzano a vicenda» (p. 185). In effetti, già
Aristotele, riferendosi ai pensatori presocratici (Metafisica IV, 5 1010 a1-3),
poteva sottolineare: αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν
ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ μόνον la causa di questa
opinione presso di loro è che essi certamente ricercavano la verità intorno
agli esseri, ma supponevano che gli enti fossero solo quelli sensibili.
L'accostamento verità-realtà (sensibile) proprio in relazione ai pensatori
presocratici è ribadito in Aristotele, per esempio: ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ
φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων Coloro che per primi
hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti
(Fisica I, 8 191 a25). Ma rispetto al nostro contesto è significativo, come ha
fatto notare Leszl (p. 16), il fatto che, a un certo punto, in relazione alle
opere di Melisso e Gorgia (seconda metà V secolo a.C.), siano state utilizzate,
accanto alla corrente indicazione περὶ φύσεως, rispettivamente le formule περί
τοῦ ὄντος e περί τοῦ μὴ ὄντος (rivelando una certa consapevolezza della
inadeguatezza della tradizionale titolazione). Passa (p. 53), che interpreta il
proemio come itinerario dell'iniziato verso la Verità, sostiene che esso
contiene «la rappresentazione poetica di esperienze sciamaniche vissute da
Parmenide»: Ἀληθείη, in questo senso, sarebbe «figura del contenuto essenziale
rivelato dalla dea, assurto esso stesso a ipostasi divina». Come segnala
l'autore, per altro, Verità ritorna, "ipostatizzata", anche nei
reperti archeologici (placche d'osso) recuperati a Olbia Pontica. 98 È allora
da soppesare con attenzione l'ipotesi interpretativa che fa della figura divina
appena introdotta il perno simbolico della ripresa e della soluzione parmenidea
del problema della verità, dopo la profonda incrinatura dell'orizzonte arcaico,
soprattutto a opera di Senofane: il tema dell'accesso alla verità potrebbe
fungere da chiave di lettura generale (oltre che, specificamente, dello stesso
proemio). Su questo punto ancora la Germani, op. cit., pp. 186-7. 66 Accogliendo
la lezione εὐκυκλέος rendiamo letteralmente con «[Verità] ben rotonda».
Effettivamente ci sarebbero buone ragioni per l'adozione di εὐπειθέος, se si
potesse senza problemi tradurre come «persuasiva» (o «ben persuasiva»). Nel
verso successivo si rileverà come nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας)
non vi sia «vera credibilità» (πίστις ἀληθής): con una inversione, Parmenide
passerebbe da una «verità» (ἀληθείη) «persuasiva [credibile]» (εὐπειθής) a una
«vera» (ἀληθής) «credibilità» (πίστις). In B2.4, la Dea rimarcherà come la via
«che è» (ὅπως ἔστιν) sia «sentiero di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), in
quanto «a Verità si accompagna» (ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). In conclusione della sua
esposizione della verità, la stessa Dea sottolineerà (B8.50-1): ἐν τῷ σοι παύω
πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης A questo punto pongo termine per te al
discorso affidabile e al pensiero intorno alla verità. È indiscutibile
l'insistenza parmenidea sul nesso tra ἀληθείη e πειθώ, che in B2 sono proposte
sostanzialmente come ipostasi divine. Il vero problema dell'opzione εὐπειθέος è
che il significato antico dell'aggettivo εὐπειθής – attestato ancora in Platone
e Aristotele - è quello di «obbediente» «disponibile/pronto all'obbedienza»: il
significato di «persuasivo» è posteriore. Nell'economia del poema, anche
l'aggettivo εὔκυκλος – attestato sia in Pindaro sia in Eschilo – è comunque
denso di implicazioni, soprattutto in relazione ai versi del poema più citati
in assoluto nell'antichità (vv. B8.43-5), dove ritroviamo il ricorso a
un'immagine: εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ («simile a massa di ben rotonda
palla»). 67 Il sostantivo ἦτορ era impiegato prevalentemente per animali,
uomini, dei, quindi in senso non astratto: il suo significato sarebbe vicino a
quello di θυμός, per veicolare l’idea di un’attività intellettuale emotivamente
tonalizzata. In Omero il termine ἦτορ (insieme a κραδίη), come θυμός,
sembrerebbe coinvolgere soprattutto la sfera degli affetti, dei sentimenti. È
significativo che Parmenide opti di correlare Ἀληθείη a ἦτορ, la verità
all’uomo che la deve conoscere (Stemich, op. cit., pp. 78-80): nella
letteratura arcaica ἦτορ è piuttosto 99 [30] sia dei mortali le opinioni69, in
cui non è reale credibilità70 . connesso al corpo (Passa, p. 52). Il termine ἦτορ
può indicare la «coscienza vigile» («un cuore di bronzo», in Omero), da cui la
fermezza rilevata da Parmenide, ma anche la parte essenziale dell’uomo: in
riferimento al Tutto, la «verità ben rotonda», compiuta, perfetta (Ruggiu, p.
199). R.B. Onians (The Origins of the European Thought, C.U.P., Cambridge 1951,
p. 106) vi vede racchiusa «la sostanza della coscienza», cui è associata la
sede del linguaggio. Questo può significare che all'espressione Ἀληθείης ἦτορ
Parmenide intendesse far corrispondere la «sostanza conoscitiva e insieme
linguistica del messaggio in esso [poema] contenuto» (Passa, p. 53). 68
L'aggettivo ἀτρεμές (letteralmente «che non trema»), variamente tradotto (per
adeguarlo al contesto) come «intrepido» (Ferrari), «saldo» (Reale),
«incrollabile» (Cerri, che rende però la formula ἀτρεμὲς ἦτορ come «il sapere
incrollabile»), suggerisce immobilità, saldezza (e in questo senso lo
ritroveremo annoverato tra i σήματα in B8.4). 69 Contrapposte alla Verità, la
Dea propone βροτῶν δόξας («opinioni dei mortali»), insistendo sia sul
tradizionale discrimine tra sapere divino e ignoranza umana, sia sulla
opposizione tra «l’uomo che sa» (εἰδώς φώς, v. 3) e «i mortali che nulla sanno»
(βροτοὶ εἰδότες οὐδέν B6.4): a dispetto dei mortali che non hanno conoscenza,
il kouros deve conoscere tutto. Per connotare il punto di vista dei mortali, la
dea (Parmenide) ricorre a un termine – δόξαι – che, a differenza del mero
manifestarsi (φαίνεσθαι) e di una passiva registrazione empirica, implica
giudizio e accettazione (ancorché affrettati e scorretti), opinione assunta
attraverso una decisione, di cui, dunque, i «mortali» non sono vittime ma
responsabili. In questo senso Couloubaritsis, per esempio, traduce con
«considerazioni». È allora opportuno il rilievo di Conche (p. 66): Parmenide
evita di contrapporre la sua verità a quella degli altri, un punto di vista ad
altri alternativi. Il poeta, invece, è presentato come portavoce di una
divinità anonima, scevra della soggettività dei mortali, impersonale: ella non
è altro che la Verità stessa. Significativo l’accostamento a Eraclito: οὐκ ἐμοῦ,
ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me, ma il
logos ascoltando, è saggio convenire che tutto è uno (DK 22 B50). Interessante
il rilievo di Leszl (p. 37), in conclusione di un lungo esame della nozione di ἀληθεια:
δόξα indicherebbe a un tempo l’opinione che abbiamo circa le cose e il modo in
cui le cose si presentano a noi. 70 Il termine greco πίστις conserverebbe –
secondo Heitsch (Parmenides, Die Fragmente, p. 95) – il valore di «prova,
dimostrazione per credibilità o 100 Nondimeno71 anche questo72 imparerai73:
come le cose accolte nelle opinioni74 fiducia» o semplicemente di «prova,
dimostrazione» (Beweis) sia negli oratori attici, sia in Platone e Aristotele.
Egli propone di utilizzare questo valore anche nel contesto di B1. Palmer (op.
cit., p. 92) osserva, invece, come πίστις sia in questo passaggio impiegato con
valore soggettivo, dunque nel senso di «trustworthiness»: tale (non genuina)
«credibilità» si riferirebbe, tuttavia, non direttamente alle βροτῶν δόξαι, ma
alla loro esposizione nel resoconto della Dea. 71 Come segnala LSJ, la formula ἀλλ΄
ἔμπης - composta da congiunzione avversativa (ἀλλά) e avverbio (ἔμπης) – è
impiegata nel greco omerico come sinonimo di ὅμως (all the same, nevertheless,
«nondimeno»), più tardi con valore più debole (at any rate, yet, «tuttavia,
comunque»). Cordero (p. 32) osserva come la formula ἀλλ΄ ἔμπης sia utilizzata
in Omero per introdurre una restrizione di senso rispetto a quanto appena
enunciato: nel nostro contesto, dunque, secondo lo studioso argentino, la Dea
intenderebbe sottolineare il fatto che, a dispetto della loro non-verità, il
kouros dovrà essere informato sulle opinioni. La stessa convinzione era stata
espressa da un altro grande interprete di Parmenide, Tarán: i vv. 31-32 del
frammento «show the purpose that the goddess has in mind in asking Parmenides
to learn the opinions of men in spite [rilievo nostro] of the fact that they
are false» (p. 211). 72 Il pronome ταῦτα (letteralmente «queste cose») può
indicare quanto precede immediatamente, quindi riferirsi alle «opinioni dei
mortali», ovvero specificare ulteriormente πάντα («tutto», v. 28), riferendosi
a quanto segue (in funzione prolettica rispetto a quanto introdotto con ὡς). La
prima soluzione appare più naturale rispetto all'uso corrente, tuttavia è
possibile la lettura dei due versi finali con un futuro programmatico
(μαθήσεαι) e una proposizione dipendente introdotta per definirne gli
obiettivi. In effetti, come nota Cerri, nell’uso corretto greco, per anticipare
quanto segue sarebbe stato più naturale τάδε; ma, come dimostra M.C. Stokes
(One and Many in Presocratic Philosophy, The Center for Hellenic Studies,
Washington 1971, p. 302 nota 27) con paralleli in Erodoto, l'uso contemporaneo
non escludeva un valore prolettico del pronome. Nella nostra lettura, la Dea,
effettivamente, si riferisce ancora alle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι),
i cui contenuti («le cose accolte nelle opinioni», τὰ δοκοῦντα) intende
riscattare: ταῦτα, quindi, a un tempo (e ambiguamente) evoca quel che precede,
precisandone il senso, e introduce l’ultimo punto del programma della
rivelazione (corrispondente alla seconda grande sezione del poema). 73 Il verbo
μανθάνομαι ha il valore di «imparare per esperienza o studio» (analogamente a
πυνθάνομαι), ma anche di «comprendere, discernere». 101 Patricia Curd (The
Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton
University Press, Princeton 1998, pp. 113-4) ha marcato le differenti
implicazioni semantiche rispetto al precedente πυνθάνομαι: πυνθάνομαι
suggerisce che si raccolga informazioni e apprenda per esperienza, mentre
μανθάνω suggerisce piuttosto apprendimento e comprensione acquisiti con un atto
di giudizio. 74 Abbiamo scelto questa traduzione faticosa per τὰ δοκοῦντα,
cercando di salvarne le implicazioni semantiche. L'espressione participiale τὰ
δοκοῦντα indica le cose accettate nella opinione di qualcuno, ovvero che sono
accolte nel giudizio di qualcuno. Non si tratta di punti di vista soggettivi,
quanto del loro contenuto, delle cose cui ci si riferisce (che si manifestano)
in quei punti di vista, delle cose (plurale), di quelle che sono dette anche τὰ
ἐόντα (Ruggiu, p. 207). Cordero (p. 33) rende come «ciò che appare nelle
opinioni», le cose che sembrano, che sono pensate, tra i mortali: il mondo come
è visto dai mortali. Conche (p. 64) parla, a proposito di τὰ δοκοῦντα, di
«correlati intenzionali (nel senso della fenomenologia) delle doxai». Mourelatos
(p. 204), che ha scritto pagine illuminanti sul significato dei termini greci
in radice dok-*, marca l’ambiguità del valore di τὰ δοκοῦντα: «le cose che i
mortali ritengono accettabili», ma anche «le cose come i mortali [le] ritengono
accettabili». Parmenide intenderebbe, insomma, suggerire che i termini con cui
i mortali accettano o riconoscono le cose costituiscono l'identità propria
dell’oggetto della accettazione dei mortali. Brague (Études sur Parménide, t.
II, Problèmes d'interpretation, pp. 54-5) ricorda come in Simplicio ricorra la
formula τὸ δοκοῦν ὄν, «l’essere apparente», «ciò che sembra [essere] ente» in
contrapposizione a τὸ ὄν ἁπλῶς, «l’essere in senso pieno, assoluto». Una
formulazione senza paralleli, che potrebbe quindi essere eco di una espressione
autenticamente parmenidea. Couloubaritsis (op. cit., pp. 267 ss.), ribadendo il
doppio registro semantico di τὸ δοκοῦν (τὰ δοκοῦντα) - in una direzione rivolto
al discorso, in altra alla cosa - segnala il posteriore accostamento
aristotelico (Confutazioni sofistiche, 33, 182 b38) di τὰ δοκοῦντα a τὰ ἔνδοξα
e in genere la convergenza insistita in ambito peripatetico tra τὸ δοκοῦν ἑκάστῳ
e τὸ φαινόμενον ἑκάστῳ. La specificità di τὸ δοκοῦν rispetto all'altro termine
sarebbe tuttavia da rintracciare proprio nell'aspetto opinativo,
nell'implicazione di un giudizio. Il nesso con δοξάζειν («considerare») si
preciserà in relazione all'atto del nominare: è in quanto legata alla parola e
all'imposizione di nomi, che la via della doxa viene sviluppata nel poema. In
questo senso Couloubaritsis (op. cit., pp. 269-270) crede che l'espressione τὰ
δοκοῦντα rimandi alle cose in quanto designate dai mortali piuttosto che da
loro percepite. Più puntualmente: le cose che i mortali hanno designato per
spiegare il mondo in divenire. 102 era necessario75 fossero effettivamente76,
tutte insieme77 davvero esistenti78 . 75 L’imperfetto χρῆν seguito
dall’infinito può indicare un tempo reale del passato (pensando soprattutto
all’origine delle erronee opinioni mortali e all'alternativa proposta
esplicativa di Parmenide), ovvero un tempo irreale, del passato o del presente.
Nel contesto, come segnala Robbiano (p. 180), la forma verbale può riferirsi a
un requisito nel passato che o è stato o non è stato ottemperato. Ricordiamo che
nel greco arcaico il verbo esprime piuttosto convenienza che necessità logica
(quindi «è giusto, opportuno»). La concomitante presenza di δοκίμως rende,
secondo noi, più logico pensare che Parmenide intendesse contrapporre alle
«opinioni dei mortali» una prospettiva esplicativa alternativa e plausibile
rivolta agli stessi oggetti di quell'opinare: questo passaggio del testo è
colto efficacemente nella resa di Palmer (op. cit., p. 363): «Nonetheless these
things too will you learn, how what they resolved had actually to be [...]». 76
L’avverbio δοκίμως è qui usato come complemento dell’infinito εἶναι: il
predicato in effetti può essere espresso da un avverbio, facendo così assumere
al verbo «essere» il suo valore pieno di esistenza. L’avverbio può tradursi sia
con «plausibilmente», «accettabilmente» (Mourelatos, p. 204), sia con
«realmente, genuinamente» (secondo l’uso eschileo). Rendendo l’imperfetto (χρῆν)
come forma di irrealtà, si determina una costruzione ambigua, che afferma e
nega a un tempo (come irreale) un’esistenza qualificata come reale ovvero
plausibile. Ne deriva una sorta di gioco espressivo, del tipo rintracciabile
nei frammenti di Eraclito (O’Brien, pp. 13- 4). Ferrari (Il migliore dei mondi
impossibili, cit., p. 43) cita in proposito DK 22 B28: δοκέοντα γὰρ ὁ
δοκιμώτατος γινώσκει, φυλάσσει ... (anche) l'uomo più considerato conosce e
custodisce cose apparenti [ovvero opinioni]. Secondo lo studioso italiano,
proprio la relazione tra τὰ δοκοῦντα e δοκίμως comporterebbe un «cortocircuito
etimologico»: il participio sostantivato, con le sue potenzialità semantiche
negative (parvenze), è coniugato con un avverbio dal significato positivo di
accettabilità, plausibilità. δοκίμως deriva da δόκιμος («accettabile»,
«approvato», «stimato»); il verbo δοκιμάζω conferma il senso di «mettere alla
prova» e «approvare»: l'avverbio ha dunque in sé implicite le sfumature di
«come conviene» e di «realmente», «veramente». La sua radice indoeuropea *dek-
evidenzierebbe il senso di adeguazione, conformità (Couloubaritsis, op. cit.,
p. 271). Accettando, invece, la vecchia lezione di Diels (δοκιμῶσ(αι) εἶναι),
ripresa, tra gli altri, da Untersteiner e recentemente da Di Giuseppe, il senso
di ὡς τὰ 103 δοκοῦντα χρῆν δοκιμῶσ(αι) εἶναι sarebbe: «come era necessario
acconsentire (riconoscere) che le cose che appaiono ai mortali sono». 77
Traduco in questo modo il testo greco, intendendo διὰ παντὸς πάντα come una
formula, secondo il suggerimento di Mourelatos (p. 204), il quale fa leva su
paralleli testuali che vanno dalla letteratura ippocratica a quella platonica.
Essi suggeriscono la traduzione «tutte [le cose] insieme» (all of them
together), ovvero «tutte [le cose] continuamente». Sulla scorta dell’uso
platonico (Repubblica, 429b-430b), Mourelatos (p. 205) propone di leggere in διὰ
παντὸς il riferimento alle prove sopportate nel corso di una competizione. In
alternativa si traduce διὰ παντὸς come «in ogni senso» (Tonelli), «in un tutto»
(Cerri), «dappertutto» (Ferrari»), mantenendo autonomo il significato e la
funzione di πάντα («tutte le cose»). 78 Si è dato notizia, in nota al testo
greco, delle due lezioni (περ ὄντα e περῶντα) dei codici di Simplicio. Come ha
giustamente fatto notare la Curd (op. cit., p. 114, nota 52), entrambe le
letture rendono complessivamente lo stesso significato. Traduciamo ὄντα come
participio e non come sostantivo (manca, in effetti, l’articolo τὰ),
ricordando, tuttavia, come il termine, in Omero e Esiodo, designasse le realtà
che esistono davvero e nei filosofi ionici l’oggetto della ricerca, la realtà
permanente del mondo (Brague, pp. 61-2). 104 DK B2 εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν 1 ἐρέω,
κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας, αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι· ἡ μὲν ὅπως
ἔστιν2 τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, Πειθοῦς 3 ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ 4 γὰρ ὀπηδεῖ
-, [5] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών5 ἐστι μὴ εἶναι, τὴν δή τοι φράζω
παναπευθέα6 ἔμμεν ἀταρπόν7 · οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν8
- 1 Coxon, invece di ἄγ΄ ἐγὼν (proposto come emendazione dei codici di Proclo
da Karsten e accolto da Diels-Kranz e dagli editori posteriori), legge con i
codici εἰ δ΄ ἄγε, τῶν («orsù, parlerò di queste cose»), difendendo la propria
scelta con la consuetudine epica del genitivo di argomento in dipendenza da
verba dicendi. La proposta di Karsten non solo è considerata più naturale dal
punto di vista paleografico, ma valorizza anche l’opposizione ἐγώ - σύ, che nel
testo pare significativa. La forma ἐγών riflette l'uso omerico, che dissimulava
l'antico digamma perduto nel dialetto degli aedi ionici: per eliminare gli iati
creatisi nella dizione, fu introdotto –ν nel testo omerico (Passa, p. 74 nota).
Qui il –ν di ἐγὼν supplisce il digamma iniziale di ἐρέω. 2 Come segnala Cordero
(N.L. Cordero, "Histoire du texte de Parménide", in Études sur
Parménide, cit., t. II: Problèmes d'interprétation, p. 21), ἔστιν è correzione
di Mullach: la tradizione manoscritta conserva ἔστι. Il codice moscovita W di
Simplicio è l'unico a presentare la forma similare ἐστίν. Passa (p. 97) osserva
come i sei casi, in Parmenide, di ἐστιν con ν efelcistico davanti a consonante
rappresentino «una vistosa innovazione rispetto alla dizione omerica». 3 Come
in casi precedenti, intendo Πειθώ come nome personale. 4 Seguiamo Gemelli
Marciano (II, p. 14) nell'intendere il sostantivo greco maiuscolo. I codici di
Proclo e Simplicio riportano ἀληθείη: ἀληθείῃ è proposta degli editori. 5 La
formula χρεών ἐστι è tipica della prosa: nella tragedia e in Pindaro si trova
solo l'uso assoluto dell'accusativo χρεών, nel senso di χρή (Passa, p. 79). 6 I
codici di Proclo riportano παναπειθέα e παραπειθέα; quelli di Simplicio
παναπευθέα, forma corretta, come rivela il confronto con Odissea III, 88.
Secondo Passa (p. 38), è evidente che in questo caso Proclo cita a memoria. 7
Si tratta della forma ionica - ἀταρπός – dell'attico ἀτραπός (da τρέπω). 8 I
codici di Proclo riportano ἐφικτόν («che si può raggiungere», da ἐφικνέομαι),
quelli di Simplicio ἀνυστόν. La lezione di Proclo, che presenta paralleli in
Empedocle (B133) e Democrito (B58, B59), ha una sua 105 οὔτε φράσαις· [vv. 1-8
Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; vv. 3-8 Simplicio, In Aristotelis Physicam
116-7; vv. 5b-6 Proclo, In Platonis Parmenidem, 1078, 4-5] plausibilità, ma la
forma ἀνυστόν («che può essere compiuto») ha riscontri "eleatici" in
Melisso (B2 e B7), e si trova ancora in Anassagora (B5). In questa occasione
Proclo potrebbe nuovamente aver fatto ricorso alla citazione a memoria: il
significato di οὐ ἐφικτόν è prossimo a quello di οὐ ἀνυστόν: «risultato che non
si può raggiungere». 106 Orsù1 , io dirò - e tu2 abbi cura3 della parola4 una
volta ascoltata5 - 1 La formula εἰ δ΄ ἄγε per «orsù» è ampiamente attestata
nell’epica, anche in relazione al pronome ἐγώ (Cerri – p. 187 - cita a esempio
un verso formulare che ricorre identico in molti luoghi di Iliade e Odissea). 2
Il pronome personale «tu» (σύ) si riferisce al poeta\filosofo, cui la Dea si
rivolge. Questa interpretazione dà continuità a B1 e B2. Untersteiner (p. LXXX)
ipotizza, invece, che a parlare sia lo stesso Parmenide: alcune espressioni che
ricorrono nei frammenti (in relazione ai «mortali») confermano la lettura
tradizionale. 3 Il senso dell’imperativo aoristo κόμισαι è quello di ricezione
e cura (come di cosa preziosa), forse anche di trasmissione (come vuole
Mansfeld, pp. 95-6). Tonelli (p. 119) rende questo complesso di significati con
«accompagna la mia parola». Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit.,
p. 135) recupera, invece, da Kingsley il senso di «take away» e traduce come
«riporta con te». 4 Il termine greco è μῦθος, che nella lingua greca tarda
significa (come il latino fabula) una narrazione meravigliosa, in origine
indicava qualcosa di completamente diverso: la «parola», la parola che esprime
ciò che è realmente, effettivamente accaduto, implicando quindi la dimensione
della oggettività: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce qualcosa,
e, in questo senso, è autorevole (W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in
W.F. Otto, Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp.
30-32). Parola, quindi, intesa non come termine isolato, ma come discorso,
comunicazione di verità. Mourelatos (p. 94, nota) contesta la traduzione di
Tarán («word»), preferendole nel contesto di B2.1 «account», quanto la Dea ha
da dire, la sua comunicazione. In questo senso egli si appoggia a Omero, in cui
il valore del termine è quello di «discorso», «pensiero» o «consiglio». Solo
progressivamente, nell’uso post-omerico, il significato di «discorso» sarebbe
sfumato in quello di «resoconto», finendo poi per indicare «mito». Anche alla
luce di tale evoluzione, altri autori (Coxon, Robbiano, Curd) hanno preferito
tradurre con «story». Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the
Presocratics to Plato, C.U.P., Cambridge 2000, pp. 17-18) distingue tra l’uso
di ἔπος per «parola» o genericamente «affermazione» e quello di μῦθος, che,
come rivelerebbero alcune ricorrenze omeriche, si riferirebbe a un
«authoritative speech act». In questo senso, di recente Couloubaritsis, nella
nuova edizione del suo volume su Parmenide, ha insistito su una resa poco
familiare ma attenta a conservare un aspetto essenziale del valore originario
del termine greco: egli traduce (La pensée de Parménide, , Ousia, Bruxelles,
2008, p. 541) come «ma façon de parler autorisée». Una traduzione di
compromesso potrebbe essere: «e tu abbi cura delle mie parole dopo averle
ascoltate». 5 Tutto il verso ha una forte assonanza con Odissea XVIII, 129: 107
quali sono le uniche6 vie7 di ricerca8 per pensare9 : τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ
σύνθεο καί μευ ἄκουσον Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi. 6 Il
valore di μοῦναι è stato da alcuni interpreti relativizzato, intendendolo nel
senso debole di «le sole legittime» (Conche, p. 76), da altri reso in senso
forte, come se le «vie di ricerca» indicate costituissero le due sole possibilità
per pensare (Cordero, p. 39). In effetti è difficile scindere il valore di μοῦναι
dal successivo infinito e dal relativo significato. 7 È interessante segnalare
come il termine ὁδός – che, nota Cerri (p. 60), ossessivamente ritorna nel
versi parmenidei – non abbia solo il valore metaforico di metodo, cioè del
percorso lungo il quale si sviluppa un’indagine per giungere alla verità: esso
può suggerire anche l’idea di «direzione di vita», linea di condotta (Stemich,
op. cit., p. 199), come è possibile riscontrare in Eraclito, letteralmente e
metaforicamente (in riferimento al comportamento da assumere nella ricerca
della verità). In Parmenide, tuttavia, nel ricorso a ὁδός prevarrebbe la
suggestione di un peculiare metodo di pensiero e ricerca. La Stemich in questo
senso indica (op. cit., pp. 200-1) una convergenza tra l’illustrazione
parmenidea del metodo per giungere alla conoscenza dell’essere – inteso come
via che conduce oltre l’ambito sensibile in un ambito metafisico - e il
percorso di ascesi filosofica all'idea del Bello nel Simposio di Platone. 8
Coxon (p. 173) osserva come l’espressione ὁδοὶ διζήσιος occorra solo in
Parmenide (e in un frammento orfico di dubbia congettura), forse per
sottolineare la peculiarità della propria ricerca rispetto a quella ionica.
Secondo Kahn (Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009, p. 147) δίζησις
costituirebbe «equivalente poetico» del termine ionico ἱστορίη («ricerca
scientifica»). Oggetto di investigazione è (B6-B8) l’essere (τὸ ἐόν), ovvero
(B1.29 e B8.51) la realtà (ἀληθείη): «vie di ricerca», dunque, perché hanno
come obiettivo la verità. Leszl (pp. 124-5) rileva come il verbo δίζημαι,
corrente in Omero nel significato di ricercare una persona o cosa scomparsa,
ovvero ricercare per identificare qualcuno, assuma il senso definito di
indagare (e anche interrogare) in Eraclito e Erodoto. L’espressione δίζησις
sottolineerebbe così che la ricerca riguarda qualcosa che non è manifesto o
accessibile fin dall’inizio. Secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 125) il termine
suggerisce anche l’attiva partecipazione richiesta per l’indagine stessa. 9
Come puntualmente rileva Cordero (p. 40), l’infinito aoristo νοῆσαι ha valore
di infinito finale o consecutivo, ma è spesso stato letto con valore passivo,
come se εἰσι («sono») avesse a sua volta valore di possibilità («siano
[possibili] da pensare», «logicamente pensabili»). La scelta del valore attivo
108 l’una10: [che11] è12 e [che] non è possibile13 non essere14 – comporta che
sia più facile spiegare la presenza delle successive congiunzioni dichiarative
(ὅπως, ὡς), che possono corrispondere alla attività di pensare («l’una per
pensare che …», «l’altra per pensare che …»). È possibile inoltre trovare un
riscontro nel poema Sulla natura di Empedocle, dove il frammento DK 31 B3.12
presenta costruzione analoga: ὁπόσηι πόρος ἐστὶ νοῆσαι («dove ci sia passaggio
per conoscere»). O’Brien (pp. 153-4) fa dipendere invece νοῆσαι da μοῦναι
ovvero dall’unità sintattica μοῦναι + εἰσι: «Je dirai quelles sont les voies de
recerche, les seuls à concevoir». La Robbiano (op. cit., p. 82) valorizza
l’ambiguità nell’espressione di Parmenide, e propone, di conseguenza, di
accettare contestualmente entrambe le interpretazioni: quella che fa delle vie
l’oggetto del νοεῖν (da pensare) e quella che fa del νοεῖν la meta delle vie
(per pensare). Contro la resa attiva e finale dell’infinito le osservazioni di
Sellmer (S. Sellmer, Argumentationsstrukturen bei Parmenides. Zur Methode des
Lehrgedichts und ihren Grundlagen, Peter Lang, Frankfurt a.M. 1998, pp. 11-12),
in particolare il problema dell’impraticabilità della seconda via per il
pensiero. Contro la lettura potenziale di εἰσι νοῆσαι Kahn, Essays on Being,
cit., p. 146, nota 4. Abbiamo reso νοεῖν genericamente con «pensare», ma – come
suggerito da vari interpreti - si potrebbe scegliere una espressione più
specifica, come «comprendere», o anche «afferrare», che ancora conservano
traccia dell'originario valore di percezione mentale, capace di vedere in
profondità e più lontano, nel tempo e nello spazio (su questo punto Mourelatos,
pp. 68 ss.). Vero è che nei frammenti ci si riferisce a νόος (πλακτὸν νόον,
B6.6) anche per designare una intelligenza offuscata, confusa: ciò potrebbe
indicare che Parmenide non si senta vincolato a un uso di νοεῖν e derivati nel
loro significato cognitivo più forte, che, a nostro giudizio, rimane, tuttavia,
l'unico a giustificare l'alternativa che la Dea qui propone. Recentemente
Palmer (op. cit., pp. 69 ss.), nel tentativo di mediare tra una resa generica e
una più specifica, ha proposto understanding ovvero achieving understanding.
Tonelli, invece, rende direttamente come «intuire», per la continuità tra il
verbo greco e l'intueor latino, che implica un vedere che «attraversa e penetra
l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno con esso» (p. 118). 10
L’indicazione delle «uniche vie» è introdotta (v. 3 e v. 5) dalla formula ἡ μὲν
- ἡ δέ: si tratta di una alternativa ulteriormente delineata con coerente
corrispondenza anche nella costruzione sintattica. 11 Consideriamo in questo
contesto ὅπως e il successivo ὡς congiunzioni che introducono una dichiarativa
(retta da un sottinteso: «per pensare» ovvero «che pensa», «che dice»). In
questo senso, suggeriamo la possibilità di 109 di Persuasione15 è il percorso16
(a Verità17 infatti si accompagna) – leggere il verso come: «l’una: è e non è
possibile non essere» (analogamente il v. 5: «l’altra: non è ed è necessario
non essere»). L’uso di ὅπως e ὡς per introdurre le due vie sarebbe – secondo
Chiara Robbiano (op. cit., p. 82) - illuminante: esso suggerisce che esse sono
due modi di guardare alle cose, due prospettive: ὡς sarebbe, infatti, preferito
a ὅτι quando si voglia accentuare una affermazione come opinione, ovvero
introdurre qualcosa intorno a cui esistano opinioni differenti. Per la studiosa
italiana (p. 83), insomma, ὅπως\ὡς, con le loro implicazioni avverbiali,
servirebbero a esprimere uno stato di cose da una certa prospettiva,
manifestando dunque il proprio punto di vista. Analogamente Ferrari (Il
migliore dei mondi impossibili, cit., p. 40), il quale rende in entrambi i casi
con «secondo cui». 12 La terza persona singolare – ἔστιν - del presente di εἶναι,
«essere», è qui resa letteralmente, senza decidere del suo valore
(esistenziale, copulativo, veritativo), per conservarle tutte le sfumature. Tra
i traduttori moderni, Tarán sceglie di renderla con «exists», Conche con «il y
a», per sottolineare l’idea di presenza. In coerenza con il testo greco, non
attribuiamo un soggetto al verbo, lasciandolo sottinteso: si rinvia al commento
per un chiarimento. Coxon ricorda che l’omissione del pronome indefinito come
soggetto sia ampiamente diffusa nell’epica e nel greco posteriore (p. 175). 13
Letteralmente ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι si potrebbe rendere come «che non
[c’]è/esiste non essere», ovvero, sostantivando il μὴ εἶναι finale, «che il
non-essere non è», cui corrisponderebbe, simmetricamente ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι:
«che, come necessario, il non essere è». Ma, proprio considerando l’emistichio
5b (dove la traduzione «è necessario che… appare più naturale), optiamo per
attribuire a ἔστι valore potenziale e considerare μὴ εἶναι come infinitiva:
«che non è possibile non essere» (più ambigua), ovvero «che non è possibile che
non sia». Si tratta, in ogni caso, di un passaggio controverso, anche per le
sue implicazioni logiche, per le quali è molto lucida l’analisi di Leszl (pp.
131 ss.). 14 La nostra traduzione è vicina a quella di Heitsch: «Der eine, (der
da lautet) “es ist, und Sein ist notwendig”». Frère (J. Frère, Parménide ou le
Souci du Vrai. Ontologie, Théologie, Cosmologie, Kimé, Paris 2012) rende: «Le
premier chemin énonçant: est, et aussi: il n’est pas possible de ne pas être».
15 Come divinità, Persuasione è nella cultura arcaica (Pindaro) collegata ad
Afrodite, alla dea dell'Amore, in quanto esercita fascinazione e seduzione. È
dunque originale e significativa la connessione stabilita da Parmenide, in
apertura della comunicazione divina, tra Πειθώ e Ἀληθείη: nel suo caso i legami
persuasivi saranno il risultato del rigore e della coerenza logica 110 [5]
l’altra: [che] non è e [che] è necessario18 non essere19 . Proprio20 questa ti
dichiaro21 essere sentiero22 del tutto privo di informazioni23: impliciti nella
affermazione appena introdotta :«è e non è possibile non essere». 16 Il termine
κέλευθος viene da Coxon distinto da ὁδός come il «viaggio» lungo la «via»,
contribuendo in questo modo a determinare successivamente (Platone) la nozione
di μέθοδος, e di filosofia appunto come viaggio (p. 174). 17 Abbiamo già
segnalato in nota a B1, come nel poema ἀληθής (e ἐτήτυμος) significhino «reale»
e ἀληθείη «realtà». Heitsch (p. 97) argomenta a favore di una resa più
esplicita, che ricava dai contraddittori caratteri negativi di μὴ ἐὸν (verso
7): egli traduce, infatti, con «evidenza» (Evidenz). Palmer ricorre a una
formula inequivocabile: «true reality». Pur concordando che la Dea si riferisce
alla realtà, insistiamo nel tradurre con il nostro «verità» e con la maiuscola,
intendendo Verità come entità divina. In ogni modo, come nel linguaggio omerico,
anche in Parmenide il contrario di ἀληθείη non sarà il falso, indicato da ψεῦδος
o ψεύδεσθαι, ma l'assenza di ἀληθείη, la mancata manifestazione della realtà
(su questo Germani, op. cit., pp. 183-4). 18 Colleghiamo, come appare naturale,
l’espressione greca χρεών al verbo ἔστι, traducendo con «è necessario»,
conservando il valore modale. Come segnala Leszl (p. 136), χρεών può stare da
solo, inteso come un participio (χρή ἐόν), che, preceduto da ὡς, assume valore
avverbiale: ὡς χρεών potrebbe essere dunque inciso avverbiale in una frase il
cui significato complessivo non sarebbe modale («come conveniente»). Il termine
è usato nella cultura greca arcaica (e non) in espressioni come κατὰ τὸ χρεών
(Anassimandro DK 12B1: «that which must be» secondo LSJ), ma per lo più
nell'espressione χρεών [ἐστι] con il significato di χρή («è necessario»). 19
Considerato μὴ εἶναι come infinito sostantivato e interpretato ὡς χρεών
avverbialmente, la traduzione del secondo emistichio potrebbe essere: «e, come
conveniente, il non-essere è». Si tratta di una possibilità, che suona tuttavia
piuttosto improbabile. Così come la traduzione proposta da Ferrari (Il migliore
dei mondi impossibili, cit., pp. 137-8): «l'una (via) secondo cui è lecito e
non è possibile che non sia lecito... l'altra secondo cui non è lecito ed è
necessario che non sia lecito». Coerentemente con la scelta del v. 3, Heitsch
traduce: «Der andere, (der da lautet) “es ist nicht, und Nicht-Sein ist
notwendig”»; Frère (J. Frère, Parménide ou le Souci du Vrai…, cit.) rende:
«L’autre chemin énonçant: n’est pas, et aussi: il est nécessaire de ne pas
être». 20 Traduciamo avverbialmente la particella δή, che molti decidono di non
rendere ovvero di rendere come congiunzione («e») per marcare una 111 poiché
non potresti conoscere ciò che non è24 (non è infatti cosa fattibile25), né
potresti indicarlo26 . transizione nel discorso della Dea. In effetti, δή è
frequentemente posposto a un pronome (nel nostro contesto τὴν con funzione
pronominale), con il risultato di accentuare il rilievo nella frase. 21 Coxon
osserva che il verbo φράζω, che in epica significa «indicare, evidenziare», è
usato da Parmenide con oggetto diretto o accusativo e infinito nel senso (poi
regolare) di «spiegare» (p. 177). 22 Il termine ἀταρπός è contrapposto a ὁδός e
κέλευθος, impiegati in B1 (vv. 2 e 11) e qui ai vv. 2 e 4: mentre in B1.21
eravamo informati del fatto che il poeta viaggiava κατ΄ ἀμαξιτὸν «lungo la via
maestra», in questo passaggio, accennando alla seconda via, Parmenide ricorre a
un’espressione che veicola l'idea di sentiero, tracciato secondario,
scorciatoia. 23 L’aggettivo παναπευθής può indicare – attribuendogli senso
passivo - ciò che è del tutto ignoto, ovvero, in senso attivo, appunto «ciò che
è del tutto privo di informazioni», ovvero «imperscrutabile» (Tonelli p. 119),
come la via che pensa che «non è». Si tratta, nell'economia del discorso divino
(e del poema), di un punto essenziale: la seconda via delineata non è proposta
come «falsa», non è scartata come follia (non è prodotto di un πλακτὸς νόος,
come si sottolinea in B6.6 a proposito della presunta ὁδος διζήσιός «inventata»
da coloro che sono apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν); di essa si afferma
che è sentiero lungo il quale non si possono raccogliere informazioni, che non
può manifestare la realtà, come chiarisce immediatamente il verso successivo.
24 L’espressione τό μὴ ἐὸν si potrebbe rendere anche come «il non essere».
Secondo Coxon (p. 177) essa si riferisce al soggetto della seconda via, di «non
è», come manifestato in B6.2 dall’uso del pronome indefinito μηδέν (nulla). In
effetti l'espressione τό μὴ ἐὸν è introdotta a giustificazione della
dichiarazione del verso precedente, dunque per identificare il presunto
contenuto della seconda via, necessariamente priva di informazioni. 25
L’aggettivo verbale ἀνυστόν è attestato in Simplicio: con la precedente
negazione (οὐ), il valore – da ἀνύω («fare, compiere») - è quello di cosa che
non è possibile compiere. Nel suo commento (p. 220), Ruggiu sottolinea come il
valore di οὐ ἀνυστόν sia prossimo a quello del termine ἀμηχανίη: esprime una
impossibilità che scaturisce da ontologica impotenza. Mourelatos (p. 100)
insiste sull'idea di impraticabilità che οὐ ἀνυστόν porta con sé: «that which
cannot be consummated». 26 La traduzione di φράζω con «indicare» vuol rendere
il senso di «manifestare in segni» (anche a parole): ciò che non è non può
rendersi (e essere reso) manifesto attraverso tracce, come saranno i σήματα
dell’ἐόν in B8. 112 Mourelatos (p. 76) segnala che φράζω è impiegato
nell’Odissea all’interno del motivo del viaggio, in riferimento al gesto di una
guida che mostri a un viaggiatore il luogo o il percorso della sua
destinazione. Si potrebbe rendere οὔτε φράσαις, restringendo il campo semantico
del verbo, con «né potresti parlarne». 113 DK B3 ... τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν1
τε καὶ εἶναι. [Clemente Alessandrino, Stromata VI, 2.23 (II, 440); Plotino,
Enneadi V, 1.8; V, 9.5; Proclo, In Plat. Parm. 1152, Theologia platonica I, 66
(ed. Saffrey, Westerink)] 1 Il codice di Clemente riporta ἐστί; il testo di
Plotino, in due luoghi diversi, ἐστί e ἔστι. ἐστίν è correzione degli editori.
114 La stessa cosa, infatti, è1 pensare2 ed essere3 . 1 Zeller, seguito da
Burnet, Cornford, Raven e altri, rende i due infiniti come dipendenti da ἔστιν
(non ἐστίν) con valore potenziale (analogamente a B2.3: εἰσι νοῆσαι), quindi
con «denn dasselbe kann gedacht werden und sein». Tarán, che accetta il
suggerimento di Zeller, rende con «for the same thing can be thought and can
exist». Anche per O’Brien (pp. 19-20) i due infiniti sono complementi del
pronome (τὸ αὐτὸ) o dell’unità sintattica pronomeverbo. Quest’uso completivo
dell’infinito (νοεῖν) ammetterebbe che lo si traduca come un passivo o
equivalente: «C'est en effet une seule et même chose que l'on pense et qui est»
(«For there is the same thing for being thought and for being»). Il fatto che,
optando per questa soluzione interpretativa, il soggetto di uno dei due
infiniti (εἶναι) diventi oggetto dell’altro (νοεῖν), non rappresenterebbe un
problema, essendo già attestato nei poemi omerici. È un fatto, comunque, come
osserva Conche (op. cit., p. 89), che Parmenide ha scritto νοεῖν e non νοεῖσθαι.
D’altra parte, seguendo Plotino, la resa «più fedele» (Heitsch, p. 144), il
senso «ovvio» del greco (Conche, p. 89) sarebbe «pensare ed essere sono la
stessa cosa», con τὸ αὐτὸ predicato, νοεῖν e εἶναι soggetti della frase.
Un’alternativa sensata, che tiene conto di analoghe costruzioni nei frammenti
sopravvissuti e soprattutto del senso dei vv. 34-36a di B8: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν
τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. [35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν,
εὑρήσεις τὸ νοεῖν è quella di Coxon («for the same thing is for conceiving as
is for being»), variata nella recente resa di Palmer (op. cit., p. 122): «for
the same thing is (there) for understanding and for being». 2 Secondo Cerri (p.
194), qui per la prima volta νοεῖν assumerebbe il significato specifico di
«capire razionalmente», significato che, tuttavia, non si può regolarmente
attribuire a νοεῖν (e νόος) nei frammenti. In una sua classica ricerca
filologica, von Fritz (K. von Fritz, “Νοῦς, νοεῖν and Their Derivatives in
Presocratic Philosophy (Excluding Anaxagoras). I: From the Beginnings to
Parmenides”, «Classical Philology» 40, 1945, pp. 223-242) osserva come νοεῖν in
Omero significhi «comprendere una situazione» e come questo valore sia ancora
presente nel poema di Parmenide, indicando qualcosa di diverso da un processo
di deduzione logica: sarebbe ancora sua funzione primaria essere in contatto
con la realtà ultima (p. 237). Abbiamo sopra ricordato come Tonelli renda νοεῖν
come «intuire», cogliendo la continuità tra il verbo greco e l'intueor latino,
nella percezione che 115 «attraversa e penetra l'oggetto di conoscenza [...]
facendosi tutt'uno con esso» (p. 118). 3 Gallop (p. 8) e Heitsch (p. 144)
osservano che, sebbene la continuità di B3 con B2 sia incerta, metricamente B3
costituirebbe con B2.8 una perfetta linea di testo. Calogero (op. cit., pp.
22-23) aveva in effetti già proposto di leggere B3 come prosecuzione di B2,
integrando il testo tràdito in questo modo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ
γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· [B2.7-8] τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι < ὅσσα
νοεῖς φάσθαι >, Ché quel che non è non lo puoi né pensare né dire: pensare
infatti è lo stesso che dire che è quel che pensi!. 116 DK B4 λεῦσσε δ΄ ὅμως1 ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει2 τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε
σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. [vv. 1-4 Clemente
Alessandrino, Stromata V, 2 (II, 335); v. 1 Proclo, In Platonis Parmenidem
1152; Teodoreto, Graecarum Affectionum Curatio I, 72 (22); v. 2 Damascio,
Dubitationes et Solutiones de Primis Principiis in Platonis Parmenidem I, 67]
La proposta e l'integrazione sono state poi ancora rilanciate da Giannantoni. 1
Due codici di Teodoreto con la citazione di Clemente riportano ὁμῶς
(«ugualmente») in vece di ὅμως. Tra gli editori moderni solo Hölscher e
Untersteiner preferiscono quella lezione. 2 I manoscritti di Clemente riportano
ἀποτμήξει, quelli di Damascio ἀποτμήσει: ἀποτμήξει sarebbe effetto di una
atticizzazione del testo parmenideo, probabilmente antica (come evidenziato
dall'unanimità dei manoscritti). Secondo Passa (pp. 34-5), come avevano colto
gli editori ottocenteschi che correggevano ἀποτμήξει in ἀποτμήξεις, la forma
verbale corretta sarebbe quella della seconda persona singolare del futuro
medio (ἀποτμήξῃ) nella probabile trascrizione di un esemplare attico. 117
Considera1 come cose assenti 2 siano comunque3 al pensiero4 saldamente5
presenti6 ; 1 Il verbo λεῦσσω è già impiegato da Omero (Couloubaritsis, pp.
336-7) per indicare la capacità di considerare simultaneamente passato e
avvenire per comprendere il presente: capacità associata alla maturità
dell’anziano, al suo discernimento, contrapposto alla precipitazione dei
giovani. Molti traduttori optano per una resa che ne accentui il valore
percettivo: «osserva», «guarda». Etimologicamente, d’altra parte, il verbo
deriva dall’aggettivo λευκός, che nel linguaggio omerico significa «chiaro»,
«limpido»: porta con sé, dunque, l’idea di chiarezza, luminosità, trasparenza,
come nell’italiano «chiarire», «rischiarare». 2 Ovvero «cose lontane». Il verbo
ἄπειμι, come il successivo πάρειμι, ha un valore a un tempo materiale e
mentale, indicando la distanza (πάρειμι la vicinanza) nel tempo e nello spazio.
Manteniamo in traduzione un senso indefinito. 3 Traduciamo così la congiunzione
ὅμως: nelle varie versioni, il suo valore oscilla tra l’avversativo e il
concessivo, secondo i contesti. Dal momento che è possibile legare il termine
sia al verbo iniziale, sia a ἀπεόντα, Ruggiu (p. 238) suggerisce che la
collocazione sia intenzionalmente polisignificante, secondo lo stile attestato
anche in Eraclito. 4 A chi debba essere immediatamente riferito il dativo νόῳ è
oggetto di discussione: è possibile infatti accostarlo direttamente a lεῦσσε,
nel senso di «chiarisci con intelligenza\intendimento», ovvero lasciarlo legato
a παρεόντα, sottolineando come il nesso ἀπεόντα-παρεόντα dipenda dalla visione
dell’intelligenza: l’espressione νόῳ παρεῖναι avrebbe appunto il valore di
«essere presente alla mente, allo spirito». 5 L’avverbio βεϐαίως (saldamente)
può essere collegato direttamente al verbo, come suggerisce Coxon (p. 188):
«gaze steadily with your mind…». Lo studioso giustifica la proposta per il
parallelo con il verso di Empedocle DK 31 B17.30: τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν
ἧσο τεθηπώς Guardala con intelligenza, non restare con sguardo esterefatto. La
collocazione dell’avverbio fa pensare tuttavia a un rapporto stretto con
παρεόντα, di cui esprimerebbe il modo d’essere, la solidità, la permanenza.
L’avverbio veicola infatti l’idea di stabilità, ma anche quella di costanza e
lealtà. Robbiano (op. cit., p. 130) rileva la connessione con ἀτρεμὲς ἦτορ 118
non impedirai7 , infatti, che l’essere8 sia connesso all’essere, (B1.29): βεϐαίως
esprimerebbe l’attitudine dell’uomo che ricerca sulla via della verità; un modo
di guardare, ma anche un modo d’essere. 6 Ovvero «prossime». Sulla struttura
del verso (lεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως) ha richiamato di
recente l’attenzione Graham (Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of
Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006,
p. 151), il quale ne ha rilevato la struttura a chiasmo, che ricorderebbe
quella di alcuni frammenti eraclitei, per esempio DK 22 B25: μόροι γὰρ μέζον ε
ς μ έ ζ ο ν α ς μ ο ί ρ α ς λ α γ χ ά ν ο υ σ ι destini di morte più grandi
ottengono sorti più grandi. 7 La forma verbale ἀποτμήξει può essere terza
persona singolare del futuro indicativo attivo (così intendono per lo più gli
editori moderni, sottintendendo νόος come soggetto), ovvero, considerando la
probabile atticizzazione del testo parmenideo, come forma (attica appunto)
della seconda persona singolare dell’indicativo futuro medio: «tu non
impedirai…». Secondo Passa (pp. 34-5) sarebbe questa, in coerenza con analoghe
espressioni del poema (εἶργε, «allontana» B7.2b; μάνθανε, «impara» B8.52; εὑρήσεις,
«troverai» B8.36), l'interpretazione corretta del passo. 8 Traduciamo il
participio ἐόν preceduto dall’articolo (τὸ ἐόν) come «l’essere», senza articolo
come «ciò che è»: per noi si tratta di espressioni sinonime, ma la formula con
articolo è più astratta. Come nota Cordero (By Being, It is, cit., p. 169),
Parmenide molto raramente usa l’articolo τò davanti al participio ἐόν; in
effetti participio senza articolo cattura più precisamente il carattere
dinamico della presenza denotata da ἐστί: «essendo, è». Il problema della
traduzione del termine è comunque complesso: Heidegger (M. Heidegger, Was
heisst Denken, Niemeyer, Tübingen 1954, p. 133) richiamò l’attenzione sul
duplice valore di questo participio: nominale (ciò che è) e verbale (l’Essere
di ciò che è), per sostenere la tesi che già con Parmenide la filosofia sarebbe
scivolata nell’oblio dell’Essere, non riuscendo a mantenere distinti i due
valori, confondendo quindi Essere e enti. Di recente Thanassas (pp. 44-5) ha
insistito sul fatto che Parmenide avrebbe impiegato ἐόν esclusivamente in senso
verbale, come equivalente semantico di ἐστί. Il rischio di intendere il
participio nel valore nominale sarebbe quello di riconoscerne implicitamente
l’esistenza come unico ente, negando dunque la pluralità del mondo. Il che
sarebbe contraddetto dall’uso frequente di plurali (ἐόντα) nella sezione sulla Ἀληθείη
(B4.1-2, B8.25, B8.47-8). L’identità semantica e la sinonimia tra ἐόν e ἐστί
sarebbe inoltre 119 né disperdendosi9 completamente10 in ogni direzione per il
cosmo11 , né concentrandosi. confermata da Parmenide nel poema stesso (B6.1-2).
Thanassas sostiene che ἐόν possa identificarsi estensionalmente con la totalità
degli enti che appaiono; intensionalmente (dal punto di vista del suo contenuto
concettuale), invece, ἐόν sembrerebbe distinto da essa: il suo significato
verbale, insomma, non si limiterebbe ad abbracciare la totalità degli enti, ma
farebbe del loro Essere il proprio obiettivo. 9 Il participio σκιδνάμενον, come
il successivo συνιστάμενον, si riferisce a τὸ ἐόν. 10 La funzione dell’avverbio
πάντως (interamente, completamente) sarebbe, in congiunzione con l’altro
avverbio πάντῃ (dappertutto, ovunque), quella di intensificarne valore
spaziale. 11 L’espressione κατὰ κόσμον appare come uno dei più antichi passi
presocratici in cui il termine κόσμος assume il valore di «ordinamento del
mondo», «cosmo» (Cerri, p. 199). Tarán, tuttavia, contesta che la nostra
espressione possa tradursi (così come abbiamo fatto) con un complemento di moto
«nel mondo» (o «per il mondo»), preferendo renderla letteralmente come «in
order», con il significato, dunque, di conformità a un ordine. Analogamente la
Stemich (p. 190) sottolinea come dalla Dea il kouros sia chiamato a non
alterare l’essere «secondo l’ordine delle cose», attribuendo quindi alla
formula valore normativo. Coxon sottolinea il precedente omerico, traducendo
«in regular order». Noi preferiamo attribuirgli il valore cosmico, considerando
κατὰ κόσμον insieme alla forma avverbiale precedente (πάντῃ πάντως). 120 DK B5
ξυνὸν δέ μοί ἐστιν, ὁππόθεν1 ἄρξωμαι· τόθι γὰρ πάλιν ἵξομαι αὖθις. [Proclo, In
Platonis Parmenidem 708] 1 La forma ὁππόθεν è correzione degli editori: i
codici di Proclo riportano ὅπποθεν. 121 Indifferente1 è per me da dove cominci,
dal momento che là, ancora una volta, farò ritorno. 1 Bicknell (“Parmenides, DK
28 B5”, «Apeiron», 13, 1979, pp. 9-11) ha proposto di tradurre ξυνὸν come «a
basic point»: «It is a basic point from which I shall begin: I shall come back
to it repeatedly». Collocando il frammento subito prima di B2, il senso
complessivo effettivamente è assicurato e, come è stato notato (Gallop, p. 37),
suggestivo. Difficile però avere un riscontro della traduzione proposta per ξυνὸν.
122 DK B6 χρὴ τὸ λέγειν τò1 νοεῖν τ΄ ἐὸν 2 ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ
ἔστιν· τά σ΄ ἐγὼ 3 φράζεσθαι ἄνωγα. πρώτης γάρ σ΄4 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος †
... † 5 , 1 I codici di Simplicio riportano unanimente τό; nel 1835 Karsten
congetturò invece τε νοεῖν, ripreso poi da Diels. Il testo corretto, dopo la
riscoperta a opera di Tarán e la ripresa da parte di Cordero, è tuttavia
accolto solo da una minoranza di editori contemporanei. 2 I codici D e E di
Simplicio riportano τὸ ὂν, il codice F τεὸν: τ΄ ἐὸν è correzione degli editori.
3 Il testo greco in DK è τά σ΄ ἐγὼ, secondo la lezione di Bergk. Cordero (pp. 101-2)
preferisce la versione del codice D di Simplicio (considerato il più affidabile
dallo stesso Diels 1897): τά γ΄ ἐγὼ. Il codice E riporta: τοῦ ἐγὼ; il codice F:
τά γε. 4 Il codice D di Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece,
τ΄. 5 La tradizione manoscritta presenta a questo punto una lacuna: la
proposizione manca del verbo. Congettura Diels, tradizionalmente accettata: εἴργω
(«tengo lontano», «distolgo»), sulla scorta di B7.2 (ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ
διζήσιος εἶργε νόημα - «ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero»).
Congettura Mourelatos: εἷργον («tenevo lontano»), in riferimento al rifiuto
della seconda via di B2. Congettura Cordero: ἂρξει («comincerai»). Congettura
Nehamas: ἂρξω («comincerò»), ripresa di recente anche da Patricia Curd, che la
preferisce alla precedente in quanto mantiene il baricentro del discorso sulla
divinità, coerentemente con gli altri versi del poema. La Curd insiste in
particolare sul parallelismo con i versi B8.50-52: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ
νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν
ἀκούων A questo punto pongo termine al discorso affidabile e al pensiero
intorno alla Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara,
ascoltando l’ordine delle mie parole che può ingannare. L’espressione «pongo
termine» corrisponderebbe a «comincerò per te» appunto di B6.3, così come «da
questo momento in poi» a «da questa via di ricerca». A più riprese (cominciando
da B1.28-30) la dea sarebbe ritornata sulla 123 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ
βροτοὶ εἰδότες οὐδέν [5] < πλάσσονται > 6 , δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν
στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν 7 νόον· οἱ δὲ φοροῦνται κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε,
τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν,
πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος. [vv. 1-2a Simplicio, In Aristotelis
Physicam 86; vv. 1b-9 Simplicio, In Aristotelis Physicam 117; vv. 8-9a
Simplicio, In Aristotelis Physicam 78] propria strategia, enunciando i suoi
principi fondamentali (B2), ribadendoli (B6.3-4) e ricontestualizzando la
propria esposizione in B8.50-52 (Curd, The Legacy of Parmenides, cit., p. 58).
Tarán, che pur accetta la congettura Diels, suppone una lacuna successiva, tra
i versi 3 e 4. 6 La tradizione manoscritta di Simplicio riporta πλάττονται,
dichiarato corrotto in apparato da Kranz. In effetti πλάττονται sarebbe,
secondo Cordero e Cerri (p. 210), atticizzazione (intervenuta nella tradizione
manoscritta stessa) di πλάσσονται, da πλάσσομαι («mi invento»). Dello stesso
avviso O'Brien e Gemelli Marciano (II, p. 82). Coxon (p. 183) sostiene la
derivazione (per corruzione) da πλάζονται («vagano»). Diels fa della
espressione una corrutela medievale di πλάσσονται, variante dialettale di
πλάζονται, utilizzato nel poema (e in altri autori) per indicare sbandamento
intellettuale, errore. Una recente messa a punto della questione testuale si
trova in Passa (pp. 104 ss.), il quale ha con acribia sostenuto, su basi
parzialmente diverse, la soluzione dielsiana con precoce corruzione di πλάσσονται
in πλάττονται. Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 47 nota) ha
contestato tale ricostruzione, preferendo tornare alla vecchia correzione
πλάζονται, coerente con πλακτὸν νόον e φοροῦνται (v. 6). Accogliamo la
correzione πλάσσονται, pur considerando l'emendazione πλάζονται, come
sinteticamente insegna Ferrari, una valida alternativa. 7 I codici DE di
Simplicio riproducono πλακτὸν, il codice F πλαγκτὸν, forma preferita da diversi
editori (Coxon, O'Brien, Conche, Cerri, Gemelli Marciano, Palmer). 124 Dire e
pensare1 : «ciò che è è2 », è necessario3 ; essere4 è infatti possibile, 1
Accogliendo la restituzione del testo originale di Simplicio proposta da
Cordero (su indicazione di Tarán), abbiamo qui due infiniti (λέγειν, νοεῖν)
introdotti da τό, da intendere: (i) come articolo determinativo (sarebbe allora
più corretto rendere con «il [fatto di] dire e il [fatto di] pensare»), ovvero
(ii) come pronome dimostrativo («dire questo e pensare questo»). Nella nostra
traduzione abbiamo seguito la prima soluzione: i due infiniti articolari
costituiscono soggetto congiunto del quasi impersonale χρή, come suggerisce
Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 111; ma si devono
registrare le riserve di Cassin, p. 146). Costruzioni alternative: (a) χρή
regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è il loro
articolo e ἐόν il loro complemento oggetto («è necessario che dire e pensare
ciò che è sia»): così, per esempio, Fränkel e Untersteiner. Una variante
interessante è quella sostenuta da Tarán e Cordero (Les deux chemins de
Parménide, Vrin, Paris 1984, pp. 111-2): essi suppongono la costruzione χρὴ εἶναι
(ἔμμεναι) τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν («è necessario dire e pensare ciò che è».
Cordero, tuttavia, nella revisione (2004) della sua opera, traduce
diversamente: «It is necessary to say and to think that by being, it is». (b)
χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è
articolo e ἐόν nome del predicato di ἔμμεναι («dire e pensare è necessario che
siano un essere»): così, per esempio, Diels (1897), Heidel, Verdenius. Coxon
(pp. 181-2) sostiene l'uso predicativo di ἐόν, supportandolo con paralleli (ἐὸν
εἶναι) in autori influenzati da Parmenide (Gorgia, Leucippo, Platone,
Aristotele). La sua traduzione (che accoglie il testo emendato da Karsten) è,
di conseguenza: «it is necessary to assert and conceive that this is Being».
Soggetto della proposizione sarebbe τό, pronome (che Coxon riferisce a τὸ αὐτὸ
di B3). (c) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui τό...ἐόν è soggetto, da cui
dipendono λέγειν e νοεῖν («ciò che è da dire e pensare è necessario che sia»):
così, tra gli altri, Burnet e Raven. 2 Traduciamo ἔμμεναι con «essere», per
mantenere l'ambiguità che a nostro avviso caratterizza il testo, attribuendogli
tuttavia valore decisamente esistenziale. 3 L’impersonale χρή è formula di
necessità ma anche di opportunità: il valore del vincolo implicato può variare
in intensità, dal necessario, al corretto, all’opportuno. Ha insistito su
questo punto Patricia Curd (1998, p. 53), 125 il nulla5 , invece, non è6 .
Queste cose7 io ti esorto a considerare8 . riducendo così l’impianto modale dei
primi due versi del frammento. Ma il nesso con B2 suggerisce la forma di
necessità. 4 Nel caso di B6.1b, l'impegno per l'interprete è doppio. Si
ripresenta infatti il problema di traduzione di ἔστι e si aggiunge quello della
traduzione dell’infinito εἶναι in questo contesto: si tratta di due problemi
correlati. Se, come scelgono di fare alcuni traduttori, si considera εἶναι come
infinito sostantivato, soggetto di ἔστι, avremmo: «l'"essere" esiste»
(Cerri); «infatti l'essere è» (Reale), «denn Sein ist» (Kranz), «for there is
Being» (Tarán). Analogamente intende la Germani (op. cit., p. 191). Questa
lettura potrebbe essere avvalorata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio
riportano τò εἶναι (Cordero, Les deux chemins de Parménide, cit., p. 24). Nel
caso si accolga tale soluzione, in 6.1b-6.2a avremmo la piena esplicitazione
dei soggetti delle vie di B2.3 e B2.5: rispettivamente εἶναι e μηδὲν. Per certi
versi questa traduzione appare naturale, sebbene non risulti del tutto
perspicuo l'uso di γὰρ, a meno di privarlo del suo valore esplicativo per
riconoscergli una funzione confermativa. Se, invece, si intende εἶναι come
infinito retto da ἔστι, allora è naturale attribuire a questo valore di
possibilità (che sembrerebbe dare un senso alla particella γάρ). Alcuni
sottintendono ἐὸν come soggetto, traducendo: «solo esso infatti è possibile che
sia» (Pasquinelli); «For it is for being» (Coxon); «è possibile, infatti, che
sia» (Giannantoni); «perché può essere» (Tonelli, Ferrari). Altri, come O'Brien
e Cordero, optano per una formula impersonale: «car il est possible d'être»;
«for it is possibile to be». 5 Secondo Coxon (p. 182) μηδέν conserverebbe in
questo caso il suo significato più stretto, quello di «non una cosa». L’intera
frase, dunque, asserirebbe che ciò che non ha essere, non è per niente una
cosa. Kranz (in apparato) riteneva che μηδέν equivalesse a μὴ ἐόν (citando in
questo senso B8.10: τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον). Ferrari (Il migliore dei mondi
impossibili, cit., p. 46 nota) considera possibile un rimando al non-essere,
intendendo la lezione (corrotta) del codice greco di Simplicio (Phys. 117) come
μὴ δ’ ἐόν. 6 Anche in questo caso conserviamo l'ambiguità dell'«essere»,
intendendolo comunque in senso esistenziale: la necessità di affermare
l’esistenza dell’essere sarebbe giustificata incrociando la possibilità
dell’essere e l'inesistenza del nulla. Guthrie decide di attribuire al verbo
essere nell’intera formula valore di possibilità: «for it is possible for it to
be, but impossible for nothing to be». Analogamente Mansfeld: «denn dieses (sc.
Das Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann nicht sein». O’Brien (p. 27) è
convinto che i due indicativi ἔστι e οὐκ ἔστιν abbiano valore potenziale, con
l’infinito in funzione completiva, e suppone un secondo infinito per completare
l’espressione negativa μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν: «il n’est pas possible 126 Per
prima, infatti, da questa via di ricerca 9 ti 10 , e poi da quella11 che
appunto12 mortali che nulla sanno13 (οὐκ ἔστιν) que (εἶναι) ce qui n’est rien
(μηδὲν)». L’alternativa, seguita da alcuni, è quella di rimanere fermi, in
entrambi i casi, al valore esistenziale, affermando (Tarán): «for there is
Being, but nothing is not». È possibile, tuttavia, attribuire senso potenziale
a ἔστι e senso esistenziale alla negazione οὐκ ἔστιν, come fanno Cordero (2004)
e, seguendo Colli, Tonelli, a dispetto delle obiezioni di O’Brien, che ritiene
improbabile la soluzione. Per conservare il senso modale di B2.3, Palmer (p.
113) propone di considerare ἐόν unico soggetto sottinteso di B6.b-2a (ἔστι γὰρ
εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), e rendendo μηδέν con valore predicativo: «(What is)
is to be, but nothing it is not». Letteralmente più aderente al greco la
traduzione senza articolo: «nulla [ovvero niente] non è». 7 Il pronome τά
(accusativo neutro plurale) difficilmente può essere riferito esclusivamente al
contenuto dei vv. 1-2a: è invece probabile che esso alluda a quanto seguiva B2
precedendo immediatamente B6, cioè la esclusione della via «che non è e che è
necessario non essere» come effettivo percorso di indagine. 8 La formula τά σ΄ ἐγὼ
φράζεσθαι ἄνωγα è mutuata da Omero ed Esiodo: richiama l’attenzione sull’esclusione
della via «che non è e che è necessario non essere». 9 Concordiamo con Ferrari
(Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 49) nel considerare questo
riferimento alla «prima via di ricerca» (πρώτη ὁδός διζήσιος) vincolato alla
discussione di cui B6.1-2a costituisce la conclusione, e che doveva vertere sul
non-essere. Si tratta della discussione cui allude Simplicio nel contesto della
citazione di B8.1-52: ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν Le cose
stanno in questo modo dopo l'eliminazione del non essere. Per evitare
confusione, alcuni traduttori hanno fatto ricorso a costruzioni meno ambigue:
«this is the first way of inquiry from which I hold you back»
(Kirk-Raven-Schofield); «Questa è la via di ricerca da cui ti distolgo per prima»
(Cerri); «Questa è la prima via di ricerca da cui ti tengo lontano» (Tonelli).
Come quella che proponiamo, si tratta di soluzioni interpretative, che
indubbiamente forzano la resa più naturale. In ogni caso, per rimanere più
aderenti alla costruzione greca, abbiamo considerato πρώτης in funzione
predicativa. 10 Manteniamo, pur con prudenza, la congettura Diels. 127 [5] ,
uomini a due teste14: impotenza15 davvero nei loro petti16 guida la mente
errante17. Essi sono trascinati18 , 11 Il compemento ἀπὸ τῆς riferisce il
pronome a ὁδοῦ διζήσιος: questo porta Coxon a concludere che nel contesto
Parmenide si riferisca a filosofi, ricercatori. 12 Normalmente si lascia cadere
in traduzione δή, che pure, seguendo un pronome relativo, ne enfatizza la
posizione nella frase. L'uso nel contesto potrebbe alludere alla discussione
che precede B6. 13 L’espressione greca βροτοὶ εἰδότες οὐδέν riprende il
tradizionale contrasto tra sapienza divina e ignoranza umana, riferendolo in
particolare a una tipologia di errore che nasce dal fraintendimento della
κρίσις di B2. La ἀκρισία delle «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) manifesta la
loro «impotenza» (ἀμηχανίη). Nell’epica e nella lirica l’espressione βροτοὶ εἰδότες
οὐδέν ritorna frequentemente per caratterizzare il fatto che i mortali non
conoscono la totalità del passato, né possono prevedere il futuro, ristretti
alla limitatezza del loro presente (Ruggiu p. 259). Nello specifico,
l’ignoranza dei mortali è implicitamente contrastata dalla conoscenza che
Parmenide ha rivendicato per sé in B1.3 (εἰδότα φῶτα). 14 Il greco δίκρανοι si
riferisce alla condizione di coloro che manifestano una sorta di schizofrenia e
in questo senso hanno una testa (una mente) divisa in due: affermano a un tempo
essere e non-essere, fingendo di poter incrociare due vie in realtà (verità)
incompatibili. Robbiano (op. cit., pp. 104-5) segnala come nella lirica arcaica
il tema della indecisione-confusione propria della condizione umana fosse
espresso nel riferimento a un νόος diviso (Teognide) o a una sorta di doppia
mente (Saffo). 15 Il sostantivo greco ἀμηχανίη segnala la mancanza di mezzi, di
aiuti per risolvere una situazione di difficoltà: insomma, una condizione di
impotenza. In Omero gli dei possiedono σοφία, un saper fare (abilità nella
costruzione di oggetti) che garantisce loro una vita facile, mentre gli uomini,
ignoranti, conducono una esistenza dura. In Esiodo è grazie a Prometeo che gli
uomini hanno potuto strappare agli dei alcuni dei loro segreti, facendo fronte
alla propria impotenza. 16 L’espressione ἐν αὐτῶν στήθεσιν rinvia a Omero, dove
è marcato il nesso tra ἀμηχανίη e θυμός, la cui sede è appunto nel petto. Coxon
(p. 184) assume che nel contesto ciò possa alludere a un ruolo di θυμός
distinto da νόος, secondo il modello pitagorico ripreso nell’immagine iniziale
del carro (e poi reso celebre nel mito del Fedro platonico). 17 L’espressione
πλακτὸς νόος sottolinea lo sbandamento, l’erramento in primo luogo della
«mente» (così traduciamo in questo caso νόος) e quindi del «pensiero»: la
mente, invece di essere guida sicura, conduce fuori strada. 128 a un tempo
sordi e ciechi19, sgomenti, schiere scriteriate20 , per i quali esso21 è
considerato22 essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di
[costoro] tutti23 il percorso torna all'indietro24 . 18 La forma verbale φοροῦνται
rafforza il senso di sbandamento, deriva, cui conduce la mente dissennata dei
«mortali che nulla sanno». 19 L’espressione greca κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί vuol
marcare una condizione di disorientamento, a un tempo (ὁμῶς) di isolamento
uditivo e visivo. Anche Eraclito utilizzava l’aggettivo kwfój denunciare la
stoltezza manifestata dalle opinioni correnti. 20 Il greco ἄκριτα φῦλα
sottolinea l’incapacità, da parte di un gruppo numeroso (φῦλόν indica razza,
tribù, classe, genia), di giudicare, di discernere. Evidentemente la Dea
intende marcare, per contrasto, la prospettiva di ricerca aperta in B2 con
l'alternativa delle «vie di ricerca per pensare»: in questo caso, la «mente»
erra, e i «mortali» non conoscono alcunché. Alcuni ritengono (tra gli altri
anche Cerri, p. 212), che Parmenide si riferisca qui ai seguaci di Eraclito. 21
Traduciamo in questo modo il pronome τό, che, come aveva a suo tempo rilevato
Burnet (seguito poi da Coxon e ora da Palmer), potrebbe fungere da articolo per
sostantivare πέλειν, ma non οὐκ εἶναι. Nel contesto del frammento τό è da
riferire a ἐόν del v. 1. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, pp.
115-6), oltre a ricordare il frequente impiego da parte di Parmenide
dell'articolo come dimostrativo (secondo l'uso arcaico), ha segnalato una
costruzione analoga in B8.44b-45: τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον
πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ è necessario, infatti, che esso non sia in qualche
misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra, in cui
τό rinvia a τὸ ἐόν del v. 37. 22 Il perfetto medio-passivo νενόμισται ha
attirato l’attenzione di Jaeger (La teologia dei primi pensatori greci, cit.,
p. 170, n. 36), il quale lo riferisce non all’opinione di un uomo o di qualche
individuo, ma alla malignità del νόμος dominante (costume, tradizione), alla
opinio communis degli uomini. Leszl in questo senso osserva (p. 230) come il
passivo di νομίζω abbia il significato di «è pratica corrente». Il ricorso a
νομίζω, con la soggettività implicata, fungerebbe, secondo Coxon (p. 185), da
contrasto ai positivi (e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. 129 23 Il genitivo plurale
πάντων può essere qui inteso come neutro, riferito dunque a «tutte le cose»,
ovvero come maschile, riferito quindi ai «mortali», come il precedente relativo
οἷς, «per i quali». Coxon traduce: «and for all of whom»; analogamente O'Brien,
Palmer, Gemelli Marciano, che abbiamo seguito. La Gemelli Marciano (II, p. 83)
segnala la composizione ad anello, con cui nell'ultimo emistichio Parmenide
riprenderebbe il v. 4. 24 Secondo Mourelatos (p. 100), il senso dell’aggettivo
παλίντροπός sarebbe da vedere in connessione con οὐ γὰρ ἀνυστόν (B2.7),
indicando l’infinita regressione della ricerca lungo la via dei mortali.
Potremmo dire che la Dea in questo modo stigmatizzi la inconcludenza della
presunta via di ricerca inventata dai mortali, e quindi il destino di erranza
che colpisce chi pretenda di seguirla. Secondo coloro che propendono per una
interpretazione del frammento in chiave anti-eraclitea, qui avremmo una eco di
DK 22 B51: Οὐ ξυνίασι ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῷ ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ
τόξου καὶ λύρης non capiscono che ciò che è differente concorda con se stesso,
armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della lira. Contro questa
interpretazione, tra gli altri, di recente A. Nehamas (“Parmenidean
Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston &
D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 55-6), il quale sottolinea come il
termine παλίντροπός si riferisca qui in realtà ai mutamenti sequenziali delle
cose reali l'una nell'altra (come nella cosmologia milesia); in Eraclito,
invece, esso sarebbe impiegato in riferimento a un equilibrio statico. 130 DK
B7 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ 1 εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος2
εἶργε νόημα· μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα
καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν, κρῖναι δὲ λόγῳ 3 πολύδηριν4 ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα.
[vv. 1-2 Platone, Sofista, 237 a 8-9, 258 d 2-3; Simplicio, In Aristotelis
Physicam 135, 143-144; v. 1 Aristotele, Metafisica 1089 a; vv. 2-6 Sesto
Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; v. 2 Simplicio, In Aristotelis
Physicam 78, 650; vv. 3-5 Diogene Laerzio IX, 22] 1 Alcuni codici di Aristotele
(EJ) e Simplicio (DE) riportano τοῦτο δαμῇ, quelli di Platone τοῦτ’ οὐδαμῇ.
Sono attestate anche le forme τούτου οὐδαμὴ (Simplicio F), τοῦτο μηδαμῇ
(Simplicio D), τοῦτο δαῇς (Aristotele recc.). 2 I codici di Sesto e Simplicio
riportano διζήσιος (nelle varianti dialettali διζήσεος, διζήσεως), quelli di
Platone il participio διζήμενος. 3 Nonostante i codici di Sesto e Diogene
Laerzio riportino la forma del dativo λόγῳ, Kingsley (P. Kingsley, Reality, The
Golden Sufi Center, Inverness (CA) 2003, pp. 139-140), all'interno di una lunga
discussione sul valore da attribuire al termine (prima di Platone), propone
(seguito da Gemelli Marciano) di leggere, in alternativa, il genitivo λόγου. 4
Il testo di Diogene Laerzio riporta πολύδηριν, quello di Sesto πολύπειρον. 131
Mai, infatti1 , questo2 sarà forzato3 : che siano cose che non sono4 . Ma tu da
questa via di ricerca5 allontana il pensiero6 ; 1 Coxon (p. 190) osserva
giustamente che la presenza di γὰρ presuppone un'asserzione da giustificare,
per noi mancante: questo solleva dubbi sull'effettivo riferimento del
successivo τοῦτο. 2 Cerri (p. 215) osserva l’uso apparentemente irregolare di
τοῦτο in funzione prolettica (per la quale sarebbe stato naturale piuttosto
τόδε): nel contesto il pronome sembra in realtà riferirsi anche a quanto precede
(per noi perduto). 3 Seguiamo Tarán (e Diels) nel preferire questa resa a
quelle suggerite da O’ Brien e Conche: «Jamais, en effet, cet énoncé ne sera
dompté» («Mai, infatti, questo enunciato sarà domato») ovvero «Car jamais ceci
ne sera mis sous le joug» («Poiché mai questo sarà posto sotto il giogo»).
Secondo l’indicazione di Diels (Parmenides Lehrgedicht, p. 74), il senso
dell’aoristo congiuntivo passivo di δαμάζω \ δάμνημι è da ricavare dalle
citazioni platoniche del Teeteto (196b: viene usato ἀναγκάζειν) e del Sofista
(241 d5- 7): Τὸν τοῦ πατρὸς Παρμενίδου λόγον ἀναγκαῖον ἡμῖν ἀμυνομένοις ἔσται
βασανίζειν, καὶ βιάζεσθαι τό τε μὴ ὂν ὡς ἔστι κατά τι καὶ τὸ ὂν αὖ πάλιν ὡς οὐκ
ἔστι πῃ. Ci troviamo di fronte alla necessità, per difenderci, di mettere alla
prova il pensiero del padre, Parmenide, e di forzarlo [biázesqai] col dire che
il non-essere «è», sotto un certo aspetto; e che, per converso, l’essere, in un
certo senso, «non è» (traduzione M. Vitali, Bompiani, Milano 1992). A
rafforzare questo valore, c’è anche il βιάσθω del v. 3. Interessante anche il
suggerimento specifico di Liddell-Scott-Jones, di rendere il verbo in senso
lato come «sarà provato», che Cerri (p. 215) difende, pur apprezzando
l’interpretazione del passo offerta da O’Brien. Contro la scelta di Diels e LSJ
argomenta tuttavia in modo convincente Coxon (p. 190). A suo tempo Calogero
(Studi sull’eleatismo, cit., pp. 24-5, nota) aveva puntualmente contestato
l'ipotesi τοῦτο δαμῇ, preferendole τοῦτο δαῇς (l'emistichio risultava così:
«Non ti lasciar mai insegnare questo»). Alle osservazioni di Calogero si
richiama oggi la Gemelli Marciano (II, p. 84). 4 Il non-essere è in questo caso
espresso con il participio plurale μὴ ἐόντα, «cose che non sono». Secondo Tarán
(p. 75), ciò si collegherebbe alla successiva polemica contro il dato dei
sensi. 132 né abitudine7 alle molte esperienze8 su questa strada ti faccia
violenza9 , 5 Simplicio (Fisica 78, 2) sembra riferire l’espressione τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ
διζήσιος - «questa via di ricerca» - alla seconda via: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ
συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ
συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ [B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9]
μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας
τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] sostiene che la
contraddizione non sia vera [cioè: le proposizioni contraddittorie non siano
vere] a un tempo in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli
opposti: dice infatti [citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In
Aristotelis Physicam 117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono
l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver
allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge
[citazione B8.1 ss.]. Secondo Simplicio, insomma, B7.2 alluderebbe alla «via
che conduce al nonessere»; inoltre B7.1-2 seguirebbero B6.8-9, precedendo B8.1.
Come fa osservare Tarán (p. 76), Simplicio sembra distinguere anche tra
l’obiettivo polemico di B6 e quello di B7. 6 Il sostantivo νόημα è qui
impiegato probabilmente nel significato – già omerico - di mente, intelligenza,
organo del pensiero e della comprensione. I primi due versi del frammento sono
citati da Platone e Simplicio: essi costituiscono un primo blocco testuale.
Diogene cita isolatamente i vv. 3-5, secondo blocco. Sesto consente di cucire i
due blocchi, citando i vv. 3-6 dopo il verso 2. nella sua citazione, tuttavia,
non c’è posto per il verso 1. Non sorprenderà, dunque, che nella storia delle
interpretazioni il frammento abbia subito vari smembramenti e montaggi. Noi
scegliamo di conservare l’ordinamento che si può ricavare da Simplicio,
l’ultimo autore che si ha fondato motivo di ritenere disponesse di una copia
del poema (ancorché non esente da rielaborazioni linguistiche e
contenutistiche). 7 Coxon (p. 191) legge ἔθος in contrapposizione a νόημα
(abitudine versus analisi intellettuale): la prima forzerebbe, la seconda
condurrebbe in modo persuasivo. 8 Dal momento che ἔθος si connoterebbe
autonomamente in contrasto a νόημα, secondo Coxon (p. 191) πολύπειρον sarebbe
da riferire a ὁδὸν: contribuirebbe a determinarne il valore rispetto a τῆσδ΄ ἀφ΄
ὁδοῦ del verso 133 a dirigere10 l’occhio che non vede, l’orecchio risonante11
[5] e la lingua12. Giudica13 invece con il ragionamento14 la prova15 polemica16
precedente. Cerri (p. 216) giudica tuttavia inaccettabile la proposta (anche)
per ragioni metriche. Robbiano (p. 97) segue Coxon, insistendo sull’abitudine
generata lungo la via di cui i mortali hanno molta esperienza. Anche Nehamas
(op. cit., p. 59 nota 50) preferisce riferire πολύπειρον a ὁδὸν, ma suggerisce
la possibilità che Parmenide intendesse riferirlo anche a ἔθος. Per quanto
riguarda la traduzione, abbiamo optato per una resa che sottolinei
nell’aggettivo il riferimento all’origine dalle molte esperienze; altri
scelgono, invece, di marcare l’effetto implicito in esse, rendendo quindi con
«molto esperta», «molto abile». 9 Il verbo βιάσθω si potrebbe rendere anche con
«induca»: come informa Cerri (p. 217), esso ricorre frequentemente nella poesia
tra fine VI secolo e inizi del V (Simonide, Pindaro, Bacchilide, Eschilo) nel
senso di violenza esercitata dalla menzogna sulla verità. 10 Cerri (p. 217)
osserva che νωμᾶν nel linguaggio epico significa «muovere, dirigere con abilità
e destrezza». 11 Cerri (p. 217) rileva la natura ossimorica del verso: ἄσκοπον ὄμμα
e ἠχήεσσαν ἀκουήν evocano le metafore eraclitee. Lo studioso giustamente le
collega a B6.7, trovandosi però in difficoltà nell’interpretazione. In B6,
infatti, esse sarebbero riferite agli eraclitei, qui, invece, recuperate (nella
stessa prospettiva eraclitea) contro il sapere tradizionale. 12 Coxon (p. 192)
sottolinea come l’epiteto ἠχήεσσαν qualifichi tanto ἀκουήν quanto γλῶσσαν: la
lingua replicherebbe la confusione degli occhi e delle orecchie. La sua
proposta è contestata, per ragioni semantiche (il significato dell’aggettivo -
«risuonante» - mal si accorderebbe nel contesto con γλῶσσα), da Tarán (p. 77),
il quale suggerisce invece di considerare ἄσκοπον riferito tanto a ὄμμα quanto
a ἀκουήν e γλῶσσαν, con il valore avverbiale di «senza scopo», «a caso». Come
riconosce lo stesso Tarán, tuttavia, la lettera del verso 4, con i due
aggettivi immediatamente riferiti ai due sostantivi, rende più plausibile la
solitudine di γλῶσσαν: il termine, in relazione a ἔθος πολύπειρον, indica il
linguaggio ordinario. Heitsch (p. 161) suggerisce che, nel contesto, senza
ulteriori predicazioni, γλῶσσα non sia da porre sullo stesso piano degli altri
organi di senso: qui, dunque, il termine indicherebbe non l’organo del gusto ma
l’organo del linguaggio, come riconosce anche Robbiano (pp. 97-98), insistendo
sull’«organo che produce nomi che non sono in grado di riflettere la verità».
13 Kingsley (Reality, cit., p. 140) rende κρῖναι come «judge in favor of», nel
senso di «scegli» (opzione adottata anche da Ferrari, Il migliore dei mondi
impossibili, cit., p. 50); la Gemelli Marciano (II, p. 19) preferisce
«entscheide dich für» («deciditi per»). 134 14 Secondo Cerri (p. 218), del
termine λόγος – corradicale di λέγω (dire) e dunque originariamente sinonimo di
μῦθος - qui sarebbe valorizzato l’aspetto semantico del ragionamento mentale
(emergente anche in Eraclito), mentre nella seconda occorrenza nel poema
(B8.50) l’aspetto semantico del discorso che verbalizza il ragionamento (λόγος
è in tal caso complementare a νόημα). Tonelli (p. 126), insistendo sul
parallelo con il contemporaneo Eraclito, mantiene una stretta connessione tra
λόγος e νόος: λόγος non indicherebbe qui «il raziocinio ma la facoltà umana di
cogliere il senso». A suo tempo Conche (p. 122) aveva sottolineato come, a
differenza del νόος che può errare (B6.6), il λόγος non si allontani dalla
verità, evidentemente intendendo con il termine la facoltà razionale. Ma di
recente Kingsley (Reality, cit., pp. 129-50) ha lungamente argomentato che tale
significazione è solo platonica e post-platonica, mentre in Parmenide λόγος
avrebbe ancora il valore di «discorso» o «discussione»: in questo senso, egli
preferisce (come segnalato in nota al testo greco) emendare il dativo in
genitivo, facendone dunque una specificazione di ἔλεγχος. Contro la tendenza a
contrapporre, in Parmenide, il λόγος all'esperienza, si esprime anche Cordero
(By Being, It Is, cit., pp. 136-137), convinto che il significato base sia
ancora quello di «discorso». A noi pare che la resa con «ragione» sia forzata,
e che l'invito espresso dalla Dea sia quello di valutare discorsivamente,
argomentativamente: il suggerimento di Cerri, insomma, evitando
l'identificazione di una facoltà (la ragione appunto) e limitandosi a evocare
un esercizio di controllo della discussione (λόγος, ἔλεγχος), pare prudente e
funzionale. 15 Si tratta di una delle prime attestazioni del termine ἔλεγχος.
Liddell-ScottJones, con esplicito riferimento al nostro testo, indica come
significato «argument of disproof, refutation». Di recente, Chiara Robbiano
(pp. 106- 107) – che legge B7 e B8 come costituissero un testo continuo - ha
ricordato come ἔλεγχος debba riferirsi non solo alla contestazione già
implicita nei versi precedenti, ma anche agli argomenti di B8, che hanno «la
forma di un elenchos». In B8.1-49 la dea metterebbe alla prova varie strategie
tradizionalmente ritenute in grado di condurre alla conoscenza. Interpretando
correttamente il suo (della dea) logos, l’audience non solo sarebbe stata
completamente persuasa dal non seguire la seconda via, ma avrebbe anche
riconosciuto alcuni dei caratteri dell’Essere che concorrono all’obiettivo
della prima via: la comprensione (insight) dell’Essere. 16 L’aggettivo
πολύδηρις sarebbe, secondo Coxon (p. 192), di conio parmenideo, e si
riferirebbe alla polemica contro la fisica ionica e pitagorica, poi ripresa da
Zenone. In πολύδηρις – come osserva Conche (p. 123) - c’è l’idea di lotta, di
combattimento (δῆρις): la forza della ragione opposta alla forza
dell’abitudine. Liddell-Scott-Jones – con esplicito riferimento al nostro testo
- rende con una espressione di senso passivo: «molto contestata». 135 da me
enunciata17 . Interessante l'analisi di Patricia Curd (The Legacy of
Parmenides, cit., p. 104): «The elenchos (testing) is poludēris (rich in
strife) because it must repeatedly fight against habit and experience; it is a
battle to be won over and over». Efficace la resa di A. Nehamas (“Parmenidean
Being/Heraclitean Fire”, cit., p. 59), il quale traduce κρῖναι δὲ λόγῳ
πολύδηριν ἔλεγχον come «giudica con la ragione l'argomento che molto contesta».
17 Mentre Diels e Calogero riferiscono la prova (che così sarebbe genericamente
«annunciata») alla sezione sulla Doxa, Verdenius, Tarán e Mourelatos la
intendono riferita ai passaggi precedenti (il participio va allora tradotto più
opportunamente con «enunciata»), in cui la Dea ha introdotto le due vie e
argomentato contro la presunta terza via. Si tratta della posizione prevalente
tra gli interpreti, tenuto conto dell’uso del participio aoristo ῥηθέντα, che
proietta il termine cui si riferisce (ἔλεγχος) verso un passato appena
compiuto. Preferiamo lasciare sospeso il riferimento, tenendo conto anche del
suggerimento di R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of
Changelessness", in Presocratic Philosophy, cit., p. 76) di tradurre in
questo caso il participio aoristo come «when it has been spoken by me». 136 DK
B8 vv. 1-49 μόνος1 δ΄ ἔτι2 μῦθος3 ὁδοῖο λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι
πολλὰ μάλ΄, ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε4 καὶ ἀτρεμὲς
ἠδ΄ ἀτέλεστον5 · 1 È possibile, sulla scorta della citazione di Sesto (Adversus
Mathematicos VII, 111), che il verso iniziale di B8 costituisse il secondo
emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα). Il testo dei codici di Sesto -
μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è tuttavia improbabile in epica, dove si
attenderebbe μοῦνος, forma (presente nei codici DE di Simplicio) che, in
effetti, alcuni editori preferiscono; d'altra parte, rettificandola, l'intero
verso non reggerebbe metricamente. Di recente Passa (p. 87) si è espresso per
la continuità tra B7 e B8, ritenendo di dover accettare μόνος come forma
autenticamente parmenidea. 2 In vece di δ΄ ἔτι, i codici DEF di Simplicio e LEV
di Sesto riportano δέ τι; il codice C di Sesto δέ τοι. Il contesto, tuttavia,
suggerisce l’adozione – largamente prevalente tra gli editori – dell'attuale
versione. 3 Sesto in vece di μῦθος riporta θυμὸς. 4 L'emistichio οὖλον
μουνογενές τε è lezione attestata in Simplicio (commento alla Fisica 120.23,
145.4, 30.2, 78.13, 87.21 e al De Caelo 557.18), Clemente e Teodoreto (che
tuttavia non è considerato fonte indipendente), originariamente accolta anche
da Diels e per lo più ripresa dagli editori contemporanei. Nella V edizione dei
Vorsokratiker a cura di Kranz, tuttavia, essa fu sostituita dalla trascrizione
dei codici di Plutarco (Contro Colote 1114 c) ἔστι γὰρ οὐλομελές («è infatti
intero [nelle sue membra]»), accolta tra gli altri anche da O’Brien e Reale.
Come segnala Coxon (p. 195), ἔστι γὰρ potrebbe essere formula introduttiva di
Plutarco: Passa fa notare, tuttavia, come la stessa formula sia ripetuta in
B8.33. Proclo cita (commento al Parmenide 6.1007.25, 6.1084.29-30) in un caso
solo οὐλομελές, ma, quando riporta l'intero verso (nello stesso commentario,
6.1152.25), il testo del primo emistichio è οὖλον μουνομελές τε. Si ha quindi
l'impressione di una citazione a memoria (in effetti il testo è per il resto
identico a quello citato da Simplicio). La forma οὐλομελές, come suggerisce
Passa (p. 63), potrebbe essersi insinuata nella tradizione testuale parmenidea
a partire dall'atmosfera pitagoreggiante dell'Accademia, tra II sec. a. C. e I
sec. d. C.. Analogamente, deformazione del testo a noi tramandato dai codici
simpliciani potrebbe essere anche μοῦνον μουνογενές, attestato in
PseudoPlutarco, Teodoreto ed Eusebio. 5 La ricostruzione del testo di questo
secondo emistichio è molto controversa. La versione più attestata nelle fonti
antiche è: καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀγένητον. 137 [5] οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν
ὁμοῦ πᾶν 6 , ἕν, συνεχές7 · τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; οὔτ΄
ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω8 φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ
ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος9 ὦρσεν [10] ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον,
φῦν; οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών10 ἐστιν ἢ οὐχί. Tuttavia Simplicio presenta
anche (nel commentario alla Fisica 30.2, 78.13, 145.4) la variante ἠδ΄ ἀτέλεστον.
La forma ἠδ΄ ἀγένητον non pare sostenibile, in quanto ripetizione di ἀγένητον
del verso precedente. Sulla variante esistono comunque dubbi e non mancano le
trascrizioni alternative nei codici: ἢ δ’ ἀτέλεστον, ἢ ἀτέλεστον, ἤδ’ ἀτέλεστον,
ἢ δι’ ἀτέλεστον. Il testo potrebbe dunque essere corrotto, dal momento che il
suo senso appare contraddetto da οὐκ ἀτελεύτητον (v. 32) e τετελεσμένον...
πάντοθεν (vv. 42-3). Accettando la variante di Simplicio e volendone evitare le
implicazioni contraddittorie, Karsten propose di emendare il testo come ἠδὲ
τελεστόν (quindi «e perfetto»), seguito poi da Tarán e Cordero. Owen e altri
(Kirk-Raven-Schofield, McKirahan, sostanzialmente Mourelatos e Coxon) hanno
proposto ἠδὲ τέλειον («e completo»). Una minoranza (ma significativa: Hölscher,
Cassin, Leszl, Gemelli Marciano) ha ripreso la versione di Brandis: οὐδ’ ἀτέλεστον.
6 Del verso esiste una variante attestata (con leggere differenze) in Ammonio,
Asclepio, Filopono, Olimpiodoro: οὐ γὰρ ἔην οὐκ ἔσται ὁμοῦ πᾶν ἔστι δὲ μοῦνον.
A seconda della punteggiatura potrebbe rendersi come: «poiché non era, non
sarà, tutto intero insieme, ma è solamente», ovvero: «poiché non era, non sarà,
ma è solamente, tutto intero insieme». 7 I codici di Simplicio riportano ἕν,
συνεχές; in Asclepio è attestato invece οὐλοφυές («di natura intera»), lezione
difesa e preferita da Untersteiner. 8 Alla forma ἐάσσω, riportata da alcuni
codici di Simplicio, è da preferire ἐάσω, presente nei codici omerici e per lo
più anche in quelli di Simplicio (che presentano anche la variante ἐασέω). 9
Nell'epica χρέος è forma recente di χρεῖος: essa è attestata in Odissea nel
significato originario di «debito» e in quello secondario di «bisogno» (che ha
riscontri in lirica e tragedia), come sottolinea Passa (pp. 82-3). 10 I codici
attestano qui unanimemente χρεών ἐστιν; al v. 45, dove troviamo formula
analoga, le lezioni si dividono: alcuni codici riportano χρεόν ἐστι. Passa (pp.
80 ss.) ha discusso specificamente il rapporto tra le forme χρεών e χρεόν,
sottolineando come sia accettabile in Parmenide (analogamente a quanto
riscontriamo nel caso di Erodoto) la forma ionica recente χρεόν, 138 οὐδὲ ποτ΄ ἐκ
< τοῦ ἐ > όντος11 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν
οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, [15] ἀλλ΄ ἔχει· ἡ δὲ
κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ
ἐτήτυμον εἶναι. πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν12; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; [20] εἰ
γὰρ ἔγεντ΄13 , οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος14 ὄλεθρος. οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ
μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος.
[25] τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. mentre χρεών sarebbe
atticismo: a confermare un meccanismo di atticizzazione parallelo a quello
operante sul testo omerico. 11 Il codice di Simplicio riporta ἐκ μὴ ὄντος («da
ciò che non è»): l’emendazione proposta da Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος consente di
concludere la dimostrazione come si trattasse di dilemma: l’essere non può
avere origine dal non-essere (v. 7), né dall’essere, dunque è senza origine (ἀγένητον).
La necessità dell’emendazione è analiticamente sostenuta da Tarán (pp. 95-102),
ma combattuta con buone osservazioni da Coxon (pp. 200-201). Accogliamo, con
qualche riserva sia relativamente alla fonte emendata – i codici di Simplicio
rendono sostanzialmente in modo unanime il testo emendato – sia alle
implicazioni teoriche, la correzione, in considerazione soprattutto del senso
della successiva proposizione γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό. 12 I codici DE di
Simplicio riportano πέλοι τὸ ἐόν, generalmente accettato; il codice F rende
πέλοιτο ἐόν («potrebbe essere ciò che è», «essendo, potrebbe essere»), che una
minoranza di editori (tra gli altri Coxon e Cassin) fanno proprio. Karsten
propose di emendare il testo come ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν («potrebbe poi perire ciò
che è»), soluzione accolta da Kranz (Vorsokratiker, V edizione), ma oggi
abbandonata. 13 La forma [εἰ γὰρ] ἔγεντ΄ è correzione (Preller) non attestata
nei manoscritti simpliciani della edizione di Simplicio, che riportano invece ἔγενετ΄
(EF) e ἔγετ΄ (D). 14 Qui, in vece di ἄπυστος (De Caelo A e Fisica F), nei
codici DE del commento al De Caelo abbiamo ἄπαυστος («incessante»), nel
commento alla Fisica (ed. aldina) ἄπιστος («incredibile»), in Fisica DE il
testo corrotto ἄπτυστος. 139 αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον
ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε15 μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής.
ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον16 καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται [30] χοὔτως ἔμπεδον αὖθι
μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, οὕνεκεν
οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν 17 δ΄ ἂν παντὸς
ἐδεῖτο. ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. [35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος,
ἐν ᾧ 18 πεφατισμένον19 ἐστίν, 15 Cordero ha restituito τῆλε sulla base dei
codici EW di Simplicio (Phys.); i codici DF riportano τῆδε (τῆ δὲ E a ). 16
Della prima parte del verso abbiamo due redazioni: i codici di Simplicio
(Phys.) riproducono (con varianti) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον; quelli di
Proclo (in Parmenidem 1134.22, 1177.5/6) ταὐτόν δ’ ἐν ταὐτῷ μίμνει («identico,
resta in un identico [luogo]»). 17 La prima parte del verso è trasmessa con
varianti nei manoscritti di Simplicio (Phys.): ἐπιδευές· μὴ ἐὸν (30, 10, 40, 6
Ea F) ovvero ἐπιδεές· μὴ ἐὸν (30, 10. 40, 6 DE); ἐπιδευές· μὴ ὂν (146, 6 EF) o ἐπιδεές·
μὴ ὂν (146, 6 D). Da un punto di vista metrico, ἐπιδευές· μὴ ἐὸν non regge;
d'altra parte ἐπιδεές non è forma epica: Cerri (pp. 234-5), che discute
ampiamente i problemi connessi con la scelta del testo greco più plausibile,
propende – con riserve – per l’adozione della soluzione ἐπιδεές, accettabile
appunto per la misura del verso. Analogamente Coxon (p. 208). Vari editori
(Tarán, O'Brien, Palmer, Graham), invece, seguendo la proposta di Bergk,
espungono μὴ, conservando la forma epica ἐπιδευές. Passa (pp. 112 ss.) ha con
buoni argomenti suffragato la scelta di Cerri, marcando come ἐπιδεές
riflettesse in origine, prima ancora dell'atticizzazione del testo, l'adozione
da parte di Parmenide, autore tardo-ionico, di forme dello ionico parlato, in
cui già era caduta la più antica forma indoeuropea [w]: egli avrebbe preferito
all'ἐπιδεῖς parlato la sinizesi ἐπιδεές, «la sola grafia adeguata a un testo
scritto». Preferiamo, pertanto, evitare di ricorrere alla espunzione proposta
da Bergk, conservando ἐπιδεές· μὴ ὂν. 18 I manoscritti di Simplicio riportano ἐν
ᾧ, quelli di Proclo ἐφ’ ᾧ, dal significato sostanzialmente equivalente. O'Brien
(p. 55) ipotizza che in origine la formula di Proclo dovesse essere glossa per
precisare il senso di ἐν ᾧ. La lezione di Proclo è adottata da Cordero, seguito
da Couloubaritsis. 19 I codici di Proclo e Simplicio (Phys. 146, 8; 87, 15 F;
143, 23-24 EF) riportano πεφατισμένον, privilegiato dagli editori; altri
manoscritti di 140 εὑρήσεις τὸ νοεῖν· οὐδὲν γὰρ < ἢ > ἔστιν20 ἢ ἔσται ἄλλο
πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον21 ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι22· τῷ
πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται 23 , ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, [40]
γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, Simplicio (Phys. 87, 15 DE; 143,
23-4 D) presentano invece πεφωτισμένον («è illuminato»). 20 Il testo del codice
di Simplicio (Phys. 146, 9) riporta οὐδ’ εἰ χρόνος ἐστὶν («nemmeno se il tempo
esiste»), che, metricamente accettabile, appare poco sensato nel contesto.
Coxon (seguito da Conche) ha accolto la variante οὐδὲ χρόνος («And time is
not»), che, a sua volta, non risulta però illuminante. Tra le proposte per
aggiustare il senso del verso troviamo quella di Bergk - οὐδ’ ἦν γὰρ («né
esisteva infatti») – e soprattutto quella di Preller (la più adottata), che (con
qualche perplessità) seguiamo: οὐδὲν γὰρ ἔστιν [+ ἢ ἔσται]. Essa riprende
(integrandola con la congiunzione ἢ) una citazione di Simplicio (Phys. 86, 31)
– οὐδὲν γὰρ ἔστιν –. Va dato comunque atto a Coxon che il suo argomento a
favore della lezione χρόνος di Simplicio in Phys. 146, 9 è buono: essa si
trova, in effetti, nel contesto della citazione continua dei primi 52 versi del
frammento (B8), quasi a garanzia di uno sforzo di attenta trascrizione
dell’originale, mentre l’altra lezione (Phys. 86, 31) ha più l’aria di una
libera parafrasi. Le difficoltà di questo passaggio potrebbero dunque
suffragare l'ipotesi di interventi di montaggio sulla copia del poema
disponibile a Simplicio. 21 I manoscritti EF di Simplicio (Phys. 146, 11; 87,
1) riportano οὖλον (D ὅλον); l'Anonimo (In Theaet.) οἶον («solo»); Platone
(Teeteto 180 e1), Eusebio, Teodoreto οἷον («come»). 22 I manoscritti di
Simplicio riportano τ΄ ἔμεναι (Phys. 146, 11) ovvero τ΄ ἔμμεναι (Phys. 87, 1
EF; D τ΄ ἔμμενε); quelli di Platone, Eusebio, Teodoreto (e Simplicio Phys. 29,
18; 143, 10) τελέθει; l'Anonimo τε θέλει. 23 Il secondo emistichio è di
difficile decifrazione nei manoscritti. Nei codici di Simplicio prevalgono
tuttavia due lezioni, prevalentemente adottate dagli editori: (i) πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται
(Diels-Kranz, Tarán, Cordero, Coxon, O'Brien, Conche, Cassin, Reale, Cerri);
(ii) πάντ΄ ὀνόμασται (Mourelatos, Casertano, Kirk-Raven-Schofield, Gallop). Gli
accertamenti più recenti sui manoscritti sembrerebbero suffragare questa
seconda lettura, che ha un riscontro anche in B9.1. Accanto a varianti
secondarie, abbiamo come lezione alternativa il testo di Platone (Teeteto 180
e1), seguito dal commentatore anonimo del Teeteto, Eusebio, Teodoreto: παντὶ ὄνομ
(α) εἶναι. Abbiamo mantenuto la lezione Diels-Kranz perché, nel contesto, ci
sembra più naturale il senso che se ne può ricavare, anche in traduzione. 141
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν. αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον,
τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς
πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον [45] οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν24 ἐστι τῇ ἢ τῇ.
οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν 25 ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι26 εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν 27 ἔστιν
ὅπως εἴη κεν28 ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ 29 γὰρ
πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει30 . [Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio,
In Aristotelis Physicam 145-146, vv. 1-14 id. 78] 24 Si veda l'annotazione a
χρεών, v. 11. In questo caso i manoscritti riportano sia la forma χρεών, sia la
forma χρεόν (sul piano filologico lectio difficilior), che, come sottolinea
Passa (p. 81) difficilmente può intendersi come corruzione di χρεών. Manteniamo
dunque la forma χρεόν, consapevoli dell'improbabilità del fatto che Parmenide
impiegasse la stessa formula πελέναι ... ἐστιν, ricorrendo ora a χρεών ora a
χρεόν. 25 La lezione dei codici di Simplicio è οὔτε γὰρ οὔτε ἐόν (ovvero ὄν):
l’edizione aldina emendò οὔτε ἐόν in οὐκ ἐὸν, per lo più accettato. Diels
(1897) preferì l’alternativa οὔτεον (= οὔ τι), forma rara dell’indefinito. 26
La forma ἱκνεῖσθαι è attestata in Simplicio (Phys. DE), accolta dagli editori.
Simplicio F riporta invece κινεῖσθαι. 27 Il testo dei codici di Simplicio è οὔτε
ὄν, emendato da Karsten in οὔτ΄ ἐὸν. 28 La forma κεν è emendazione di Karsten:
i codici DEF di Simplicio riportano καὶ ἓν; l'edizione aldina κενὸν. 29 La
lettura οἷ (dativo del pronome personale) si è affermata nel corso dell’ultimo
secolo, a partire dalla proposta di Diels, il quale però intendeva οἷ come un
relativo («verso cui»). I manoscritti (DEF) di Simplicio riportano οἱ (articolo
determinativo ovvero dimostrativo), emendato nell’edizione aldina come ἦ
(espressione omerica per «in effetti», «certo»). 30 Così già leggeva Diels; i
manoscritti di Simplicio riportano in effetti κυρεῖ (EF), ovvero κυροῖ (D):
κύρει è emendazione degli editori. 142 Unica1 parola2 ancora, della via3 che4
«è», rimane; su questa [via] sono5 segnali6 1 Il complesso della costruzione
greca (aggettivo, avverbio, sostantivo e verbo) μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο
accentua la connessione logica del frammento con quanto precede: prospettate le
due vie, esclusa una delle due come impercorribile, discusse le contaminazioni
dei mortali, «rimane una sola via» da esaminare, quella, appunto, ὡς ἔστιν.
Sebbene chiaramente l’aggettivo mónoj si riferisca a μῦθος, molti traduttori di
fatto lo applicano a ὁδοῖο: «One path only is left for us to speak of»
(Burnet), ovvero «So bleibt nur noch Kunde von Einen Wege» (Diels), «One way
only is left to be spoken of» (Raven). 2 Ricordiamo che il termine μῦθος
ricorreva già in B2.1, qualificato dalla fonte divina: la «parola» (ovvero il
«discorso») proferita dalla Dea doveva essere accolta, meditata e custodita dal
kouros. Il valore del termine sembrerebbe dunque nel contesto quello di parola,
discorso di Verità. Nella relativa nota di B2.1 abbiamo richiamato alcune
recenti posizioni interpretative: Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From
the Presocratics to Plato, cit., pp. 17-18) sottolinea nell’uso di mythos il
valore di «authoritative speech act»; Couloubaritsis (La pensée de Parménide,
cit., p. 541) insiste sullo stesso valore con una traduzione poco familiare:
«ma façon de parler autorisée». 3 Il genitivo ὁδοῖο è per lo più reso come
genitivo oggettivo, di argomento, in relazione a μῦθος, di cui specificherebbe
il contenuto. Cerri (p. 219) difende una sua interpretazione “partitiva” («di
via, resta soltanto una parola»), riferendolo alle vie prese in esame. 4 Il
valore della congiunzione ὡς sarebbe – secondo Mansfeld (p. 93) – complesso:
non significherebbe semplicemente «che», ma anche «come». Per tale valore si
veda il parallelo di B1.31. 5 Coxon (p. 194) sottolinea la contrapposizione tra
σήματ΄ ἔασι e il successivo (v. 55) σήματ΄ ἔθεντο («posero segni»): alla
convenzionalità dell’imposizione umana è opposta l'oggettività delle evidenze
dell’Essere. 6 Il greco σήματα può rendersi nel contesto come «indizi»,
«segnali», anche «evidenze» (monuments, Coxon p.194). Essi possono essere
intesi anche come i «riferimenti» che consentono di mantenere la propria
direzione lungo una via: essi garantirebbero, in altre parole, al pensiero di
non perdersi. Così, secondo Cordero (By Being, It Is, cit., p. 168), i σήματα
sarebbero indicazioni, «prove» del carattere necessario e unico del fatto di
essere: pietre miliari e segnavia che indicano che il pensiero sta seguendo la
via giusta. Thanassas (p. 44), a sua volta, ritiene che i σήματα –
rigorosamente parlando – non siano da intendere come segni dell’Essere, ma
della sua via, con la funzione, quindi, di guidare lungo il percorso di
conoscenza dell’Essere: il concetto di ἐόν assicurerebbe alla via la
determinazione 143 specifica. A Thanassas (pp. 54-5) si deve soprattutto un
rilievo: i «segni» fungerebbero essenzialmente da monito contro possibili
deviazioni dalla via dell’Essere, quindi non tanto da attributi positivi,
piuttosto da segnali negativi, che escludono ogni sovrapposizione con il
Non-Essere. Un aspetto valorizzato anche da Scuto (G. Scuto, Parmenides’ Weg.
Vom WahrScheinenden zum Wahr-Seienden. Mit einer Untersuchung zur Beziehung des
parmenideischen zum indischen Denken, Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, p.
142): tutti i segni ricavati da Parmenide sarebbero conseguenze necessarie e
inconfutabili della applicazione del principio di fondo secondo cui l’essere
non può sorgere dal non-essere. La Stemich (pp. 211-2) propone di analizzare i
segni in quanto indicatori e a un tempo strumenti di orientamento per il
kouros, segnavia ma anche descrittori della sua condizione spirituale nel
momento in cui attinga la conoscenza. Da ricordare, in ogni caso, che il
termine designa anche i «segni augurali» interpretati dagli indovini (Cerri p.
219); per Mansfeld (p. 104) σῆμα è il mezzo di rivelazione di una potenza
superiore. L’eco religiosa potrebbe essere deliberatamente evocata dall’autore
anche per predisporre la propria audience (interna ed esterna) alla disamina
successiva. Sempre Mansfeld segnala (p. 104) come σῆμα sia sinonimo poetico di
σημεῖον, termine che ritroviamo in Melisso (B8) e negli usi giuridici. Mourelatos
(p. 94) inserisce l’interpretazione dei σήματα all’interno del motivo della
quest: per raggiungere il fine della quest è necessario percorrere la strada
«è»; per fare ciò è necessario tenere d’occhio i «segnavia». Rimanendo fedele
all’immaginario epico, Mourelatos propone di leggere i segnavia come imperativi
del tipo: «cerca sempre ciò che è ….». Di recente Chiara Robbiano (pp. 108-9)
ha segnalato il nesso tra ἔλεγχος e σήματα: essi, in effetti, come rivela la
letteratura arcaica, possono essere usati per provare, mettere alla prova
(sottoporre a elenchos) l’identità di una persona. Robbiano si riferisce
all’episodio del riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope, dove il
termine σήματα è messo in relazione alla verifica dell’identità del mendicante:
è offrendo segni che Odisseo persuade della propria identità. Sempre alla
Robbiano (pp. 125-6) dobbiamo il rilievo circa il nesso tra σήματα e loro
interpretazione. La dea guida attraverso σήματα, che l’audience deve
interpretare. La consapevolezza della necessità di interpretare segni per
giungere alla verità richiamerebbe Eraclito DK 22 B93: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι
τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει Il signore che ha il suo
oracolo in Delfi non dice, non nasconde, ma dà segni. Il modello che la dea in
questo caso evocherebbe sarebbe, dunque, quello di un dio che invia segnali ai
mortali, per far loro conoscere cose normalmente 144 molto numerosi: che7 senza
nascita8 è ciò che è9 e senza morte10 , fuori della loro portata. La Robbiano,
per altro, concorda con Cerri (p. 214) sul fatto che σήματα non si riferirebbe
ai predicati enumerati in B8.2-6, ma ai successivi argomenti. A una funzione
essenzialmente argomentativa dei σήματα ha pensato invece Colli (Gorgia e
Parmenide, cit., p. 146): i «segni» costituirebbero gli argomenti della
dimostrazione, coincidendo di fatto con gli attributi fondamentali dell’essere.
Essi sarebbero in parte dimostrati nel seguito, in parte assunti senza
dimostrazione, fungendo da medi aristotelici e contribuendo al carattere
razionale della dimostrazione. 7 Della proposizione introdotta da ὡς (ἀγένητον ἐὸν
καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) esistono varie traduzioni possibili: (a) intendendo ὡς
come congiunzione dichiarativa: «Being is ungenerable and imperishable» (Tarán
p. 85); «whatis is ungenerable and imperishable» (Mourelatos p. 94); (b)
intendendo ὡς come congiunzione causale: «since it exists it is unborn and
imperishable» (Guthrie p. 26); «étant inengendré, est aussi impérissable»
(O’Brien, p. 171); analogamente Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146). La
costruzione σήματa … ὡς può (e probabilmente intende nel nostro contesto)
indicare sia la significazione del come (dell’Essere) in senso descrittivo, sia
il che (dell’Essere) in senso dichiarativo. I segni devono rivelare l’ἐόν e
dunque la loro funzione può sembrare quella di indicare il che; al contempo,
manifestandolo, consentono di prendere consapevolezza della sua natura (per cui
il come potrebbe essere giustificato). Da apprezzare (secondo Mourelatos, p. 95),
infine, la struttura che viene introdotta a partire da questo punto: Parmenide
annuncia programmaticamente tutti i segnavia, quindi procede a una loro
giustificazione. 8 Il greco ἀγένητον ricorre in pensatori contemporanei o di
poco posteriori a Parmenide, come Eraclito (citazione di Ippolito di B50): Ἡ. μὲν
οὖν φησιν εἶναι τὸ πᾶν διαιρετὸν ἀδιαίρετον, γενητὸν ἀγένητον, θνητὸν ἀθάνατον,
λόγον αἰῶνα, πατέρα υἱόν, θεὸν δίκαιον· ‘οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν
σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι’ ὁ Ἡ. φησι. Eraclito sostiene che il tutto è diviso
indiviso, generato ingenerato, mortale immortale, logos eterno, padre figlio,
dio giusto, e afferma: énon me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che
tutto è uno», ed Empedocle (B7, dal Lessico di Esichio): ἀ γ έ ν η τ α : στοιχεῖα.
παρ’ Ἐμπεδοκλεῖ «Ingenerati»: gli elementi secondo Empedocle. 145 L'aggettivo
indica dunque ciò che è ingenerato in contrapposizione a ciò che ha nascita
(Eraclito), ovvero gli elementi primordiali, che non sono generati da altro ma
che tutto generano. Diogene Laerzio sostiene (IX, 19) che Senofane sarebbe
stato il primo ad affermare che «tutto ciò che è generato è corruttibile» (πρῶτός
τε ἀπεφήνατο, ὅτι πᾶν τὸ γινόμενον φθαρτόν ἐστι). Secondo Coxon (p. 195), il
termine potrebbe essere di conio parmenideo. Della stessa idea Mourelatos (p.
97), secondo cui esso ricorrerebbe qui per la prima volta nella letteratura
greca, assumendo un significato più forte del semplice «ingenerato»: ἀγένητον
in Parmenide escluderebbe ogni forma di processo in cui qualcosa venga
all’essere. Possiamo qui notare di passaggio che la caratteristica essenziale
dei segni parmenidei è quella di presentarsi come negazioni (alfa privativo +
aggettivo) di qualcosa di significante all’interno del linguaggio e della
esperienza dei mortali (Ruggiu p. 277). 9 Come già segnalato, traduciamo ἐόν
come «ciò che è», segnalando invece τὸ ἐόν come «l’essere»: per noi si tratta
di espressioni sinonime, ma la seconda, con l’articolo, è la formula più
astratta. Nel contesto ἐόν, come forma participiale, potrebbe essere reso con
valore verbale (come fa, per esempio Leszl, p. 171): «essendo ingenerato è
anche imperituro». In tal caso, però, le altre determinazioni rischierebbero di
essere subordinate alle prime due. Si può segnalare in questo contesto quanto
sottolineato da Scuto (op. cit., p. 141), secondo cui in Parmenide assisteremmo
al passaggio da un valore ancora temporale del participio a un significato
atemporale: si tratterebbe di una netta correzione nella direzione
dell'astrazione, con cui dall’esperienza della costante mutevolezza degli enti
si concluderebbe nella certezza di un essere sottratto al tempo. 10
L’espressione ἀνώλεθρόν, come la precedente - ἀγένητον - formata con l’alfa
privativo, indica letteralmente «ciò che è senza distruzione [morte] (ὄλεθρος)».
Si tratta di termine veramente raro nella letteratura arcaica: prima di
Parmenide ricorre una volta in Omero (Iliade XIII.761); dopo Parmenide
ricompare per la prima volta solo in Platone (Cerri, p. 220). Nella
testimonianza di Aristotele (Fisica III, 4 203 b13, DK 12 A15; 12 B3), in
riferimento ad Anassimandro, abbiamo: καὶ τοῦτ’ εἶναι τὸ θεῖον· ἀθάνατον γὰρ καὶ
ἀνώλεθρον [B 3], ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων E tale
sembra essere il divino; è infatti immortale e imperituro, come dicono
Anassimandro e la maggior parte dei filosofi della natura. Ciò potrebbe
significare che l’aggettivo era stato effettivamente impiegato dai pensatori
arcaici: Conche (p. 131) è convinto che il termine sia anassimandreo. In ogni
caso, i due aggettivi – ingenerato e imperituro – corrispondono alle
tradizionali connotazioni degli dei come sempre esistenti, immortali. 146 tutto
intero11, uniforme12, saldo13 e senza fine14; 11 Il termine οὖλον (che rendiamo
come «tutto intero» per dar ragione sia della totalità sia della integrità
implicite) è di diretta eco senofanea: οὖλος ὁρᾶι, οὖλος δὲ νοεῖ, οὖλος δέ τ’ ἀκούει
Tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ode (DK 21 B24). 12
Nonostante le difficoltà rilevate (Kranz, poi ripreso da Reale) nell'uso di
μουνογενές dopo ἀγένητον (v. 3), Tarán (p. 92) ha buon gioco nel marcare il
valore derivato dell’aggettivo, che anche in Eschilo (Agamennone 808) non ha
significato letterale di «unigenito», ma quello di «unico». Cerri (p. 221),
collegando μουνογενές all’epiteto sacrale di Ecate (secondo Esiodo, Teogonia
426, 488), valorizza la «metafora arditissima» proprio nella «contraddizione
sarcastica» ad ἀγένητον. In realtà la radice *γεν esprime sia la nozione di “nascere”,
“divenire”, sia quella di “essere”, “esistere”. Il termine μουνογενές potrebbe
alludere a γένος piuttosto che a γίγνεσθαι e dunque veicolare l’idea di
unicità. Mourelatos (pp. 113-4) suppone che Parmenide usi μουνογενές in diretta
opposizione alla formula tradizionale per esprimere distinzioni, familiare da
Esiodo: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν εἰσὶ δύω Non c’era
dunque un solo genere di Eris; sulla τerra ce ne sono due (Opere e giorni
11-12). L’aggettivo μουνογενές si contrapporrebbe a μορφὰς δύο (B8.53): dietro
οὖλον μουνογενές ci sarebbe dunque il rifiuto della contrarietà. Alcuni
interpreti (Barnes, per esempio) associano μουνογενές a ἀτρεμὲς:
"monogeneity" e immobilità sarebbero poi contestualmente riprese ai
vv. 26-33. Secondo R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of
Changelessness", in Presocratic Philosophy…, cit., p. 73) questa soluzione
è grammaticalmente più consona rispetto alla associazione alternativa a οὖλον,
sebbene rimanga preferibile considerare l'aggettivo indipendentemente, nel
significato di «uniforme». 13 L’aggettivo ἀτρεμές esprime stabilità, solidità,
immutabilità: Conche (p. 133) vi coglie la «calma» dell’Essere, in contrasto
con l’«inquietudine» degli enti. Coxon (p. 195) associa l’aggettivo alle successive
espressioni ἀκίνητον (vv. 26 e 38: «immobile»), ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον (v.
29: «identico e nell’identica condizione perdurando») e ἔμπεδον αὖθι μένει (v.
30: «stabilmente dove è rimane»): esse denoterebbero identità esente da
mutamento temporale. Alle stesse connessioni rinvia anche McKirahan (R.
McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford 147 [5] né un
tempo15 era16 né [un tempo] sarà, poiché17 è ora18 tutto insieme19 , Handbook
of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford
2008, p. 210), il quale però insiste nel suggerire che l’aggettivo sia inteso a
esprimere il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di essere
pienamente, effetto dei limiti che costringono la sua natura. Esso sarebbe,
quindi, impiegato per indicare qualcosa di più e di diverso dalla mera assenza
di cambiamento e movimento fisico. Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 147),
tra gli altri, leggendo il verso come ἔστι γὰρ οὐλομελές τε καὶ ἀτρεμὲς, lo
avvicina a Platone, Fedro 250 c3: ὁλόκληρα δὲ καὶ ἁπλᾶ καὶ ἀτρεμῆ καὶ εὐδαίμονα
φάσματα μυούμενοί integralmente perfette e semplici e senza tremore e felici
erano le visioni cui eravamo iniziati. Si tratterebbe di un riferimento ai
misteri eleusini, dove ὁλόκληρα («integralmente perfette») corrisponderebbe a οὐλομελές,
indicando la completezza di struttura fisica, mentre ἀτρεμές ritorna identico,
evocando «di Verità ben rotonda il cuore fermo» (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ
B1.29). La ripresa platonica suggerirebbe allora una direzione interpretativa
alternativa: uno sguardo sul mondo della alētheia indimostrato, il cui
apprendimento è intuitivo, tanto da essere paragonato alla conoscenza
misterica. 14 Leggo ἠδ΄ ἀτέλεστον – con DK, Coxon, O’Brien, Conche, Reale,
Heitsch e altri – attestato da Simplicio. Il valore da attribuire a ἀτέλεστον
dovrebbe essere, nel contesto, quello di «senza fine», «senza termine». Cerri
(pp. 222- 3) interpreta l’aggettivo letteralmente come «incompiuto»,
riferendolo, senza interpunzione, alla riga successiva: «incompiuto mai fu un
tempo, né sarà, poiché è ora tutto omogeneo». Da notare che Simplicio (Phys.
30, 4), volendo accostare Parmenide a Melisso, asserisce che l’essere di
Parmenide è ἄπειρον, con ciò intendendo probabilmente ἀτέλεστον (Tarán, p. 93).
15 Intendendo οὐδέ ποτe come formula avverbiale, avremmo «non mai, giammai».
Abbiamo preferito conservare πότe come avverbio separato dalla negazione,
riferendolo sia a ἦν sia a ἔσται. Ruggiu (p. 283) interpreta πότε come
indicatore della generale dimensione temporale, cui Parmenide contrapporrebbe
l’ἔστιν rafforzato dal νῦν, a esprimere il presente atemporale. 16 In questo
verso, come ha fatto giustamente osservare O’Brien (“L’Être et l’Éternité”, in
Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, Tome II Poblèmes
d’interprétation, p. 149), gli avverbi (πότε, νῦν) sono fondamentali come le
tre forme verbali di εἶναι (ἦν, ἔσται, ἔστιν). 148 17 Non è chiaro se ἐπεί si
riferisca immediatamente solo a νῦν ἔστιν o anche a ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές, cioè
se anche questi attributi concorrano alla determinazione delle due affermazioni
iniziali del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται: appare, in effetti, più semplice
escludere la possibilità che «ciò che è» (ἐόν) sia stato (e in qualche modo non
sia più) o debba essere in futuro (e in qualche modo non sia ancora) per il
fatto che esso è ora tutto insieme, uno e compatto, cioè che è pienamente,
senza mancare di alcunché che coinvolga in qualche modo «non è» (McKirahan, p.
207). 18 L’avverbio νῦν, come giustamente sottolinea Coxon (p. 196), non denota
un istante o una unità temporale, ma la simultaneità. Secondo Conche (p. 136),
«l’essere è, “ora”», irriducibile a un istante senza durata, o a una durata
temporale, che implichi successione di prima e poi. Così l’«ora» indicherebbe
una «durata senza successione» (come il «durare di Dio» secondo Tommaso).
O’Brien (Études, II, pp. 335-362) sottolinea il nesso con ἀγένητον e ἀνώλεθρόν:
la Dea intenderebbe escludere generazione e corruzione e dunque, in quanto
ingenerabile e indistruttibile, l’Essere sarebbe eterno. Secondo Cordero (By
Being, It Is, cit., p. 171) Parmenide usa il tempo presente ἔστιν per marcare
la presenza propria dell’«ora» (νῦν), cioè il permanente presente dell’essere:
l’essere non avrebbe nulla a che fare con il tempo strutturato in momenti
temporali. A queste letture si contrappongono tradizionalmente quelle che, nel
rilievo dell’avverbio temporale νῦν e nella contestuale negazione di passato e
futuro, colgono la presenza di una concezione ardita e profonda: l’Essere
sarebbe presente eterno, fuori dal tempo. Privilegiano questa dimensione della
“atemporalità” dell’Essere parmenideo, tra gli altri, Calogero, Mondolfo,
Gigon, Untersteiner, Reale (e Ruggiu nel suo commento). Mourelatos (pp. 103 ss.)
ritrova nell’uso parmenideo dell’ἔστι il richiamo a una pratica consolidata in
ambito matematico: proposizioni senza implicazioni temporali (tenseless) sono
le verità necessarie - definizioni, verità classificatorie e implicazioni
logiche – cui la «predicazione speculativa» di Parmenide si sarebbe ispirata.
In B8.5 l’enfasi è ancora su νῦν ἔστιν, che suggerirebbe un condizionamento
temporale. Il senso del verso, tuttavia, sarebbe, secondo Mourelatos: «né mai
era, né sarà, né è ora, dal momento che semplicemente è». In direzione analoga
si muove Thanassas (p. 47), per il quale l’intenzione di Parmenide in B8.5
sarebbe quella di marcare l’irrilevanza dello sviluppo del tempo in passato,
presente e futuro per il suo progetto ontologico: l’Essere non è nel tempo, non
ha storia né futuro, risultando estraneo a ogni mutamento. Tarán (p. 95)
insiste, a sua volta, per intendere il verso nel senso di una continua durata
temporale. È significativo, comunque, che sia assente una esplicita
argomentazione di νῦν ἔστιν, che per McKirahan (p. 206) sarebbe conseguenza di
«ciò-che-è è» (B2.7-8, B6.1-2) e riconducibile all’essenziale pienezza
dell’essere di ciò-che-è. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of
Changelessness", cit., p. 73) propone una lettura 149 uno20, continuo21.
Quale nascita22, infatti, ricercherai di esso? originale: in forza degli
attributi che τὸ ἐόν possiede «ora» (completezza, autosufficienza ecc.), non ha
senso supporre che possa non esistere in qualche momento del passato o del
futuro. 19 Conche (pp. 137-8), che valorizza il nesso con l’avverbio
precedente, traduce ὁμοῦ πᾶν come «tout entier à la fois», accostandolo al tota
simul con cui Boezio (e poi Tommaso) caratterizzava l’eternità. 20 Tra i
«segni» destinati a gravare sul destino del pensiero parmenideo, questo è
senz’altro il più importante. Nel contesto, tuttavia, ἕν è solo uno dei segni,
inserito in una sequenza - ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές – in cui l’autore sembra
insistere sulla compiutezza, integrità e omogeneità dell’essere piuttosto che
sulla sua unicità. Come opportunamente marcato da McKirahan (p. 215), infatti,
è probabile che μουνογενές e ἕν fossero sostanzialmente intesi come sinonimi,
in relazione al gruppo di attributi οὖλον, ὁμοῦ πᾶν, συνεχές, la cui
giustificazione argomentativa ritroviamo ai vv. 22-25. Come giustamente rileva
Conche (p. 138), l’essere è «uno», non l’Uno della posteriore tradizione
platonica-neoplatonica. Alla lezione ἕν, συνεχές di Simplicio, Untersteiner
preferisce quella alternativa di Asclepio: οὐλοφυές, «un tutto naturale». Coxon
osserva (p. 196) che questo è l’unico luogo in cui sia usato da Parmenide il
termine ἕν, il cui posto sarà poi preso da oὐδὲ διαιρετόν (v. 22), con cui –
qui e in v. 25 – συνεχές è virtualmente sinonimo. Mourelatos (p. 95, nota)
legge come un unico blocco ὁμοῦ πᾶν ἕν, interpretando ἕν come predicato
modificato dall’avverbio ὁμοῦ e dal pronome πᾶν: il senso complessivo sarebbe
«all of it together one». Secondo Cordero (By Being, It Is, cit. p. 177),
Parmenide intenderebbe marcare come il «fatto d’essere» sia denominatore comune
a tutte le cose, affermando che esso è unico, non che tutte le cose sono uno
ovvero che l’essere è l’Uno. Ruggiu (p. 286), pur non accettando la variante οὐλοφυές,
ritiene che l’Essere valga come intero: esso non espungerebbe il molteplice,
ricomprendendolo piuttosto in sé. 21 L’aggettivo συνεχές, in relazione con il
precedente ἕν, sottolinea il fatto che «ciò che è» è «uno con se stesso»
(Conche p. 139). Non è del tutto perspicua la connessione di questa ultima
serie di attributi con quella introdotta ai vv. 3-4: si tratta di implicazioni
dei precedenti ovvero di nuovi attributi? In ogni caso, qui termina l’elenco
dei segni. Da questo momento in avanti si apre la loro discussione
argomentativa, che altri (per esempio Heitsch, Leszl, Plamer) fanno iniziare
dal v. 5. 22 Il termine γέννα potrebbe tradursi più semplicemente con
«origine», ma, seguendo il suggerimento di Coxon (p. 197), insistiamo sul
valore biologico della espressione. È possibile che – come nota la Stemich (Parmenides’
Einübung in die Seinserkenntnis, cit., p. 214) – in questo passaggio il
filosofo contrapponga alla comune accezione religiosa (per cui le divinità sono
sì 150 Come23 e donde cresciuto24? Da ciò che non è non permetterò25 che tu
dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare26 che «non è»27. Quale
bisogno28, inoltre29, lo avrebbe spinto30 , [10] originando31 dal nulla, a
nascere32 più tardi o33 prima34? immortali, ma non senza nascita) la sua
concezione dell’essere, appunto «senza nascita e senza morte». 23 La formula
interrogativa πῇ πόθεν potrebbe rendersi (con O’Brien e Cassin): «verso dove e
da dove?», accentuandone le implicazioni spaziali, insistendo cioè su direzione
e verso della crescita. Anche Mourelatos (p. 98, nota), attribuisce senso
locale a πῇ. 24 Il passaggio dal sostantivo (γέννα) al participio aoristo (αὐξηθέν),
con relativo cambio di sintassi, e il successivo (v. 8) implicito riferimento
all’infinito aoristo αὐξηθῆναι (essere cresciuto) in relazione agli infiniti
φάσθαι e νοεῖν, evocherebbero, secondo Coxon (p. 197) una tipica situazione di
dibattito (quindi di oralità). McKirahan (p. 193) ha sottolineato le
implicazioni tra le tre domande: assumendo che generazione e crescita siano
equivalenti (come ragionevolmente attestato dai successivi vv. 9-10), la
seconda e la terza domanda possono essere interpretate come riferentesi alle
sue condizioni necessarie: la generazione è un processo («come») che richiede
un’origine («donde»). 25 La formula οὔτ΄ … ἐάσω (futuro preceduto dalla
negazione) vuol marcare la proibizione logica imposta e fatta rispettare dalla
razionalità della Dea. 26 Letteralmente οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν dovrebbe
rendersi come «non è infatti dicibile e pensabile», con la proposizione
introdotta da ὅπως come soggettiva. I due aggettivi - φατόν e νοητόν – hanno
dunque complessivamente il senso di «cosa che si possa dire e pensare». 27
Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", cit.,
p. 77) suggerisce come soggetto implicito di οὐκ ἔστι «the potential
generator»: è la generazione dal non-essere che è impensabile. 28 La formula τί
χρέος; è corrispettivo poetico dell’ordinario interrogativo τί χρήμα; «quale
circostanza?» (Coxon p. 198). Gemelli Marciano (II, p. 87) rinvia a Pindaro e
Eschilo per la sua traduzione («Verpflichtung», dovere, servizio). 29 Come
segnalato da O'Brien nel suo commento (p. 50), la funzione di καί in questo
caso non è solo avverbiale: esso rinforza l'interrogazione. 30 Rendiamo in
questo modo la forma «irreale» dell’interrogativo (che suggerisce una risposta
negativa) veicolata da ἄν + l’aoristo. 31 Rendiamo in questo modo il participio
aoristo ἀρξάμενον, che in realtà dovrebbe implicare anteriorità rispetto
all'azione espressa dall'infinito φῦν: altri preferiscono ricorrere a
perifrasi: «se comincia dal nulla» (Pasquinelli), «se fosse nato dal nulla»
(Cerri), «se trae inizio dal nulla» (Tonelli). 151 Così35 è necessario36 sia
per intero o non sia per nulla37 . 32 L'infinito aoristo φῦν può essere reso
come «nascere\sorgere» o «crescere»: i traduttori si dividono. 33 La particella
ἢ può avere funzione disgiuntiva («o»), ovvero esprimere una comparazione (=
quam). 34 Traduco letteralmente ὕστερον ἢ πρόσθεν. Le versioni più diffuse
sono: «früher oder später» (Diels), «prima o poi» (Calogero), «later or sooner»
(Tarán), «dopo o prima» (Reale), «dopo piuttosto che prima» (Cerri), «later or
before» (Coxon), «plus tard, plutôt qu’ […] auparavant» (O’Brien). In effetti ὕστερον
è comparativo dell’avverbio, ma πρόσθεν no: quindi, letteralmente «più tardi
che [\o] prima», sebbene la costruzione possa sembrare asimmetrica. Nei versi
9-10 avremmo una delle prime applicazioni del cosiddetto «principio di ragion
sufficiente»: nulla si verifica senza una ragione sufficiente a spiegare perché
si verifichi così e non altrimenti. Secondo Conche (p. 141), si tratterebbe
della seconda applicazione, dopo quella di Anassimandro (per dimostrare la
centralità immobile della Terra nel cosmo), e dominerebbe nel complesso il
«pensiero dell’essere» di Parmenide. Una opinione diversa in proposito è
espressa da Leszl (pp. 182-5), che interpreta come se Parmenide intendesse
marcare l’assenza di una ragione (causa) perché l’essere si generi in un
qualsiasi momento: il non-essere, nella sua completa negatività, non potrebbe
offrirne alcuna. In realtà, come viene rilevato acutamente da McKirahan (p.
194), delle due possibili traduzioni di ὕστερον ἢ πρόσθεν, «più tardi o più
presto» ovvero «più tardi piuttosto che più presto», la prima evidenzia come
manchi una ragione per cui ciò che è debba generarsi, cioè non ce ne sia in
alcun momento; la seconda, invece, in modo più sofisticato e coinvolgendo il
“principio di indifferenza”, sottolineerebbe come non ci sia ragione perché
esso si generi «in un momento qualsiasi piuttosto che in un altro». Sempre
McKirahan osserva come l’argomento sia formulato in termini di domanda
retorica, che presuppone una risposta del tipo: in nessuna circostanza, da ciò
che non è potrebbe generarsi qualcosa. 35 McKirahan (p. 194) ha contestato la
tradizionale traduzione di οὕτως come «così, perciò», che introdurrebbe la
conclusione di un'argomentazione. Secondo lo studioso, infatti, in tal caso il
senso del v. 11 appare – nel contesto - problematico: πάμπαν πελέναι è più
naturalmente collegato all'analisi dei successivi vv. 22 ss., piuttosto che a
quel che immediatamente precede. La sua proposta è dunque quella di tradurre
l’avverbio οὕτως collegandolo alla alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί: il suo
valore sarebbe allora «in questo modo» (cioè «essendo ingenerato»). La sua
funzione sarebbe prolettica: quanto detto nel contesto sarebbe rilevante per la
discussione successiva. A noi pare, comunque, che B8.11 concluda un passaggio
(esclusione della generazione) dell'argomento avviato nei versi precedenti. In
questo senso confermiamo la traduzione più comune. 152 Né mai 38 concederà
forza di convinzione39 36 McKirahan (p. 194) traduce χρεών ἐστιν come «è
giusto»: il suo significato - nel contesto dell’alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ
οὐχί - sarebbe quello di prospettarne i corni come «le uniche possibilità» da
considerare relativamente a ciò che è. 37 Come segnala Coxon (p. 199) la
formula ἢ οὐχί sta per ἢ οὐ χρεών ἐστι πάμπαν πελέναι «o non deve essere per
niente». Parmenide sottolinea la contraddizione e l’esclusione di una terza via
(adottando di fatto il principio del terzo escluso): la via dell’essere esclude
non solo la via del non-essere, ma anche un'impossibile combinazione tra essere
e non-essere (Conche p. 142). Secondo Mourelatos (p. 101), questo verso non
costituisce elemento della prova successiva, ma serve solo a ricordare la
krisis radicale, la «decisione», operata in connessione con le due vie. 38
Avendo accolto con cautela la correzione di Karsten del testo tràdito, dobbiamo
comunque osservare che lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il nostro
passo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre il senso della emendazione: καὶ γὰρ καὶ
Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι
(οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος Anche Parmenide infatti
sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che esso non si
genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non
essere (162, 11). D'altra parte, analoga impostazione dilemmatica è attestata
anche da Aristotele in un celebre passo della Fisica (I, 8 191 a28-33), con
chiara allusione anche agli Eleati (Palmer – Parmenides & Presocratic
Philosophy, cit., pp. 129- 133 - ha contestato, con buoni argomenti, che il
testo si riferisca esclusivamente agli Eleati): Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ
τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι
τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες
ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον
μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων
ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν
γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’
εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. 153 che nasca qualcosa40 accanto41 a
esso42. Per questo43 né nascere né morire concesse Giustizia44, sciogliendo le
catene45 , Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori
antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno
indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono sviati come
spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi sostengono in
effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che si
genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è
impossibile che ciò accada in entrambi i casi. L'essere, infatti, non si genera
(perché è già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa
deve fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le conseguenze,
affermavano allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere stesso. 39
L’espressione πίστιος ἰσχύς è variamente tradotta: «la forza di una certezza»
(Reale), «forza di prova», ovvero «forza di argomentazione» (Cerri). In ogni
caso, come osserva Cerri (p. 224), è chiaro dal contesto che πίστις è termine
da Parmenide impiegato nel valore di «convinzione razionale». Coxon (p. 199)
rileva come l’Eleate scelga di esprimersi come se la certezza (πίστις, appunto)
avesse un potere attivo e non solo critico. 40 Nel τι Conche (p. 145) coglie un
riferimento all’ente: dall’essere non può essere generato né l’essere né un
ente qualunque (esso non potrebbe che essere generato da un altro ente). 41
Attribuiamo a παρά valore locativo. In alternativa gli interpreti propongono
«oltre a», ovvero «in addizione a». 42 L'infinitiva γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό
sembrerebbe giustificare la scelta della variante di Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος.
Difficile, infatti, trovare altrimenti un senso. Per chi assume la lezione dei
codici - ἐκ μὴ ἐόντος – è più naturale cogliere in αὐτό un riferimento al
non-essere, che appare però problematico: si dovrebbe ammettere che la Dea
introduca ipoteticamente l'esistenza del non-essere (contraddicendo i
precedenti divieti), per marcare come da esso nulla di diverso possa derivare
ovvero nulla accanto, oltre a esso possa sorgere. Mourelatos (pp. 101-2), che
segue il testo greco non emendato, riferisce comunque il pronome a ciò che è:
nella sua lettura l’espressione «che da ciò-che-non-è qualcosa venga a essere
accanto a esso» - interpretata come equivalente a προσγίγνεσθαι (accrual,
accretion) - suggerisce l’idea di crescita come addizione (accretion) a
qualcosa già esistente. 43 La preposizione εἵνεκεν, con il τοῦ dimostrativo,
introduce quel che segue come conseguenza di quel che precede (Conche p. 146).
44 Intendo Δίκη come nome personale: Conche (p. 146), invece, nega consistenza
mitica al riferimento, riconoscendolo come «metafora» della «legge
dell’essere». Dike svolge in questo contesto quel tradizionale ruolo 154 [15]
ma [lo] tiene46. Il giudizio47 in proposito48 dipende da ciò: è o non è. Si è
dunque deciso, secondo necessità49 , di lasciare l’una [via] impensabile [e]
inesprimibile50 (poiché non è una via genuina51), e che l’altra invece esista e
sia reale52 . equilibratore, di preservazione delle distinzioni e dei limiti,
che abbiamo notato nel proemio. In questo caso – come osserva Robbiano (p. 163)
– il limite che la dea deve rigidamente sorvegliare è quello che (al v. 42) è
definito πεῖρας πύματον, «limite estremo», all’interno del quale riposa sicura
l’intera realtà. L’effetto è allora quello di fungere, in quanto rigorosa
garante della separazione (tra essere e non-essere), da sorvegliante
dell’interezza e integrità dell’essere. 45 I termini impiegati da Parmenide
(Δίκη, πέδῃσιν, nella riga successiva κρίσις) insistono sul lessico
giudiziario, probabilmente per rendere con efficacia la forza della necessità
logica. In effetti, come sottolinea Cordero (By Being, It Is, cit., p. 171),
Dike, con Ananke e Moira, assicura a un tempo l'immutabile identità di ciò che
è e l’inesorabilità della via. 46 Intendiamo ἐόν come oggetto sottinteso di ἔχει,
per analogia a quanto sotto (verso 26) affermato, appunto a proposito di ἐόν.
47 Il termine greco κρίσις – così come il successivo verbo κέκριται – veicola
ancora, insieme alla formalità del giudizio, l’autorevolezza della decisione: a
marcare la forza razionale del passaggio nella dimostrazione della Dea. È
esplicito nel contesto il riferimento all'alternativa di B2: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν.
In questo senso, Mourelatos ritiene che i vv. 17-18 abbiano la funzione di
richiamare (come il v. 11) la «decisione» tra le due vie. 48 Letteralmente: «a
proposito di queste cose», ovvero sulla questione della generazione e della
corruzione o della nascita e della morte. 49 Letteralmente «come necessità»:
rendiamo ἀνάγκη (preceduto da ὥσπερ) con il suo valore generico, non personale.
50 La coppia di aggettivi ἀνόητον ἀνώνυμον (proposti senza congiunzione) sono,
a nostro avviso, da intendersi congiuntamente come connotazione
dell’impalpabilità della seconda via (ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι).
51 L’espressione οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός si riferisce al fatto che la via «che
non è (ὡς οὐκ ἔστιν)» non conduce in vero da nessuna parte e, in questo senso,
non è una «via genuina (vera)». Conche (p. 147) insiste piuttosto sul fatto che
non si tratti della «vera via»: in altre parole, di una via che conduca alla
Verità. A conclusione del verso troviamo, invece, l’espressione τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι, che sottolinea come «l’altra [via] invece esista e
sia reale», cioè una via che conduce effettivamente a una destinazione. Coxon
(p. 168) ricorda come nelle occorrenze del poema, ἀληθείη (B1.29) e ἀληθής
(B8.17, 39) si riferiscano non al pensiero o al 155 E come potrebbe esistere53
in futuro l’essere54? E come potrebbe essere nato55? [20] Se nacque, infatti,
non è56, e neppure [è] se57 dovrà essere58 in futuro. linguaggio ma alla realtà
oggettiva. Cordero (By Being, It Is, cit., p. 179) sostiene che per Parmenide
la verità è prerogativa di un logos presentato da una via: solo per illegittima
generalizzazione, la via stessa sarebbe da considerare vera. La verità risiede
in un logos che, se valido, ha il privilegio di essere accompagnato dalla
verità: così B2.4 recitava: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ («di
Persuasione è percorso – a Verità, infatti, si accompagna»). Più avanti (B8.51)
Parmenide, introducendo la sezione del poema dedicata alla Doxa, utilizzerà la
formula [νόημα] ἀμφὶς Ἀληθείης («pensiero intorno alla Verità»). Anche per la
Wilkinson (Parmenides and To Eon…, cit., pp. 87 ss.) impropriamente una “via”
può definirsi «vera»: seguendo Mourelatos, ella suggerisce che ἀληθείη nel
poema si riferisca non alla via ma alla dea: la verità è connessa a
Persuasione, Πειθώ, che sarebbe la dea stessa del poema; al centro del poema ci
sarebbe il riferimento al discorso della dea; la via «è» potrebbe intendersi
come «il mio discorso è». 52 Il valore di ἐτήτυμος (vero, genuino, reale) è
sostanzialmente coincidente con quello di ἀληθής: i due termini sono impiegati
sostanzialmente come sinonimi. Per le differenze Germani, op. cit., pp. 184-5.
53 Coxon (pp. 202-3) difende il testo del codice F: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοιτo ἐόν,
e, rilevando in πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα formula ricorrente (tre volte) in Omero, in
cui l’avverbio ἔπειτα si riferisce alle asserzioni che seguono, rende
diversamente l’intero verso: «And how could what becomes have being, how come
into being?». Il senso sarebbe quello di contestare che ciò che diviene (what
becomes) possa essere Essere o diventare Essere. La variante (oggi trascurata)
di Karsten - πῶς δ΄ ἂν ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν («potrebbe poi perire ciò che è») -
invece, introdurrebbe un argomento contro la corruzione. 54 Qui Parmenide usa
eccezionalmente l’espressione τὸ ἐόν. 55 Ovvero «venuto a essere» o «divenuto»,
«essere stato». 56 Tarán (p. 105) ritiene che il senso dell’affermazione si
colga nella contrapposizione tra il passato ipotetico di εἰ γὰρ ἔγεντο –
aoristo che può riferirsi sia al processo compiuto di venire ad essere, sia a
una condizione remota («fu») - e il presente di οὐκ ἔστι: dunque, se è venuto a
essere, è ora diverso da come fu (Tarán p. 105). Analogamente per il secondo
emistichio: se sarà, se avrà da essere, ora è diverso da ciò che sarà. Anche
Mourelatos (pp. 102-3) richiama l’attenzione sulla scelta dei modi e dei tempi
verbali di questo passaggio: γένοιτο, ottativo, non porta riferimento al tempo;
ἔγεντo, 156 Così è estinta59 nascita e morte oscura60 . aoristo, si riferisce a
una azione puntuale nel passato; ἔστι, presente, veicola durata e continuità:
se x è in un certo momento, allora non è in senso continuo e assoluto. O’Brien
(“L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit., Tome II, p. 153)
osserva come il presente οὐκ ἔστι non si riferisca al momento fuggevole
intercalato tra passato e futuro, ma a un «presente» logico: al «nulla»
anteriore a ogni possibilità di nascita («più tardi o prima»). Analogamente
Cerri, che parafrasa: «se è nato (rinato), non esiste (nel momento in cui non è
ancora nato\rinato) [...]» (p. 227). 57 Qui dovremmo intendere «se [è vero
che]». 58 Il verbo μέλλω seguito da infinito futuro (ἔσεσθαι) può rendersi come
«essere sul punto di, avere l’intenzione di». Si suppone che l’azione o la
condizione indicata dall’infinito debba ancora avvenire. La presenza
dell’avverbio (ποτε) rafforza questo aspetto temporale dell’espressione
(O’Brien, “L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit., t. II, p.
139). McKirahan (p. 196) interpreta i vv. 19-20 come rivolti contro la
generazione nel futuro, a completamento dell’argomento di B8.5-6, per cui ciò che
è non può essere in futuro. Era rimasta aperta la possibilità che qualcosa che
non è ora possa venire a essere in futuro: B8.19-20 negherebbero questa
possibilità. Mourelatos (pp. 106-7) parafrasa diversamente il verso: «ciò che
una cosa arriva a essere non è ciò che la cosa realmente è, nella sua essenza o
natura». Egli vi coglie un contrasto non tra «arrivare a essere» e «essere
durevolmente», piuttosto tra tempo e atemporalità. 59 O’Brien e Cerri pongono ἀπέσϐεσται
(«è estinta\spenta») come complemento verbale sia di γένεσις (genesi, nascita)
sia di ὄλεθρος (distruzione, morte). Soluzione che abbiamo preferito a quella,
adottata da molti, che invece sottintende il verbo essere nel secondo
emistichio e fa di una due proposizioni coordinate: «Così generazione è estinta
e distruzione ignorata». Secondo Thanassas (p. 46), l’analisi del primo segno
intreccia intenzionalmente divenire e tempo, anticipando la correlazione
aristotelica di tempo e mutamento. Gli enti individuali certamente sono
sottomessi al divenire incessante: Parmenide non negherebbe ciò, dedicando al
problema la parte più consistente del suo poema; ma nella Alētheia i segni non
si riferiscono a enti particolari, bensì unicamente al loro Essere: solo questo
Essere può rivendicare la estraneità a ogni forma di mutamento (pp. 48-9). 60
Cerri (pp. 227-8) osserva come – sulla scorta di assonanze omeriche –
l’espressione ἄπυστος ὄλεθρος possa essere resa come «morte oscura (ma anche
ignorata, oggetto di oblio)». Molto diversa la resa di McKirahan: «Thus
generation has been extinguished and perishing cannot be investigated» (p.
196). Egli insiste (p. 223) sul legame tra ἄπυστος e il verbo πυνθάνεσθαι
(«imparare, investigare, cercare»), da cui anche παναπευθέα ἀταρπόν (B2.6), la
via di ricerca scartata perché impossibile da investigare, da cui era
impossibile, dunque, ricavare informazioni. In B8.21 ἄπυστος 157 Né è
divisibile61, poiché62 è tutto omogeneo63; né c’è qui qualcosa di più64 che
possa impedirgli di essere continuo65 , conserverebbe lo stesso valore: la
corruzione, la morte non possono essere oggetto di indagine, in quanto, come la
generazione, impongono di seguire una via che non può assolutamente essere
investigata. Si tratta di una osservazione già proposta da Mourelatos (p. 97),
secondo il quale Parmenide non avrebbe ritenuto necessario argomentare contro
la corruzione, rubricandola all’interno della via negativa: ciò spiegherebbe
appunto l’uso di aggettivi come παναπευθής e ἄπυστος, riferiti alla via
negativa e a ὄλεθρος. 61 L'espressione διαιρετόν ἐστιν può rendersi (ed è
effettivamente tradotta) sia come «è divisibile», sia come «è diviso»: come
osserva Leszl (p. 202), concettualmente la prima possibilità dipende dalla
seconda, dal momento che l’operazione intellettuale della divisione non fa che
rivelare divisioni già oggettivamente presenti (come attestato anche dagli
argomenti di Zenone). Anche Thanassas (p. 50) rileva come, nella discussione
del secondo segno, Parmenide punti a escludere la precondizione per ogni
discriminazione interna dell’eon: esso non ha parti in cui possa essere
articolato. Ne seguirebbe che, considerando ogni ente non come questa o quella
cosa ma come Essere, non sarebbe possibile riconoscere differenze: ogni
determinatezza svanirebbe all’interno della uniforme prospettiva dell’Essere.
62 Coxon (p. 203) sottolinea come da ἐπεί dipendano tutte le asserzioni
successive (vv. 22-25). 63 Traduciamo così l’aggettivo ὁμοῖον, che altri
rendono come «uguale»: ci sembra logicamente più efficace rispetto alla
indivisibilità (οὐδὲ διαιρετόν). È possibile anche una lettura avverbiale e non
predicativa di ὁμοῖον, da rendere (come fanno Owen, Guthrie, Stokes e Gallop):
«esiste tutto allo stesso modo». Tarán e Mourelatos hanno tuttavia, con buoni
argomenti, contestato tale lettura. McKirahan intende sia πᾶν sia ὁμοῖον con
valore avverbiale: ciò-che-è non avrebbe dunque l’attributo di essere tutto
uguale (o omogeneo), piuttosto ciò-che-è è in un certo modo, cioè tutto uguale,
«interamente e uniformemente» (v. 11: πάμπαν πελέναι). È l’omogeneità che rende
impossibile ogni discriminazione e divisione di ciò che è. Mourelatos (p. 114)
ritiene che Parmenide sostenga logicamente πᾶν ἐστιν ὁμοῖον con πάμπαν πελέναι.
In ogni caso la fondatezza della premessa di omogeneità è stata molto discussa:
mancherebbe un argomento a sostegno nei versi precedenti. 64 Traduciamo
l’espressione τι μᾶλλον genericamente come «qualcosa di più»: Coxon accentua il
valore intensivo del comparativo («any more in degree»). 65 McKirahan (p. 197)
sottolinea come συνέχεσθαι suggerisca non tanto continuità quanto «holding
together», tenersi insieme, e accosta il significato 158 né [lì] qualcosa di
meno66, ma è 67 tutto pieno68 di ciò che è69 . [25] È perciò tutto continuo70:
ciò che è si stringe71 infatti a ciò che è72 . del verbo a quello
dell’attributo ὁμοῦ πᾶν (v. 5), che egli traduce come «all together». Robbiano
(p. 130) segnala come συνέχεσθαι possa riferirsi a unioni strette: l’unione
sessuale di individui o le estremità annodate di una cintura. Il senso è comunque
quello di estrema coesione. 66 Rendiamo τι χειρότερον come «qualcosa di meno»,
per rimanere coerenti con la scelta effettuata traducendo τι μᾶλλον. Coxon (p.
204) sottolinea ancora il valore intensivo dell’aggettivo: Parmenide in questo
senso avrebbe usato χειρότερον (inferiore) e non *hsson (meno). 67 Intendiamo ἐόν
come soggetto sottinteso; altri intendono πᾶν come soggetto («but all is full
of Being», Tarán). 68 L’espressione πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος vuol marcare come ciò
che esiste è solo l’essere, quindi esso è continuo, omogeneo, “denso” d’essere
(uguale in tutto e per tutto a se stesso). Tarán (p. 108) osserva come la
continuità sia dedotta dalla omogeneità. Coxon (p. 204) parafrasa: «Being is
adjacent to Being», che implica l’assenza di qualsiasi cosa di diverso
dall’Essere. McKirahan (p. 197) insiste invece sulla completa pienezza di ciò
che è, che consegue dal bando di «non è». Si tratterebbe, nella sua lettura
complessiva di B8, di un “segno” fondamentale, che riformulerebbe πάμπαν
πελέναι del v. 11, cui essenzialmente si riferirebbero molti altri attributi.
Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 50), sottolineando come il
contesto non sia quello di un’analisi fisica, ma di una considerazione
ontologica (condotta alla luce della distinzione fondamentale tra Essere e
Non-Essere), insiste nell’intendere l’espressione πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος
come rilievo della «pienezza ontologica» (ontological plenitude) che non ha
nulla da condividere con spazialità fisica, vuoto e massa. 69 McKirahan (p.
197) sottolinea il nesso tra πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος e πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (v.
22): egli, infatti, intende in entrambi i casi πᾶν avverbialmente (come nel
successivo v. 25 ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), così che ἔμπλεόν ἐόντος risulterebbe
equivalente a ὁμοῖον. 70 Ovvero «coeso». Riformulazione dell’inziale
indivisibilità: Coxon (p. 204) osserva giustamente che, a parte la solitaria
occorrenza di ἕν nel v. 6, ξυνεχὲς è l’unico termine parmenideo per «uno».
McKirahan traduce diversamente il greco: dal suo punto di vista (p. 224), la
relazione con συνέχεσθαι suggerisce di valorizzare il fatto che ciò che è «si
tiene insieme» (holds together); così in vece di «continuo», con la sua
ambiguità spazio-temporale, egli preferisce usare per ξυνεχὲς la formula, di
difficile resa italiana, «holding together». 71 Il verbo πελάζω suggerisce
l’idea di avvicinamento. In questo senso potrebbe essere tematicamente
collegato tanto alla via quanto al viaggio che trascorre 159 Inoltre73,
immobile74 nei vincoli75 di grandi catene76 , lungo la via, seguendo i suoi
segni. Robbiano (p. 133) insiste nel cogliere nella immagine ἐὸν ἐόντι πελάζει
la suggestione dell’ultimo passo di un viaggio che si avvicina alla sua meta:
l’Essere. 72 Abbiamo qui un passaggio in cui è dato intravedere come, facendo
leva sui due "assiomi" di B2 - «è e non è possibile non-essere», «non
è ed è necessario non-essere» - e dunque escludendo sistematicamente il ricorso
al non-essere, Parmenide abbia potuto superare, nella nozione di τὸ ἐόν, la
molteplicità dispersa degli enti, uniti e omogenei nell'«essere». In effetti
Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 153) osserva come questi versi documentino
il «continuo», dimostrando razionalmente il contatto di «ciò che è» con «ciò
che è»: l’unità dell’essere sembrerebbe non escludere una sorta di
molteplicità. Egli pone giustamente in relazione questo passo con B4. McKirahan
(p. 197) sottolinea invece il valore figurato dell’espressione: una
interpretazione letterale susciterebbe difficoltà. 73 Improbabile che nel
contesto αὐτὰρ abbia valore avversativo: preferiamo attribuirgli valore
progressivo (vedi Curd, The Legacy of Parmenides, cit., pp. 83-4). 74
L’aggettivo verbale ἀκίνητον può discendere dalla voce attivo-passiva o da
quella media di κινέω: nel primo caso il suo significato sarebbe «non
suscettibile di essere mosso dal proprio luogo»; nel secondo «non capace di
muoversi dal proprio luogo» (Mourelatos, op. cit., pp. 117-120). Tarán
giustamente sottolinea il nesso tra ἀκίνητον e ἀτρεμὲς (v. 4). L’aggettivo ἀκίνητον
si riferirebbe sia alla immobilità sia, più in generale, alla immutabilità. Su
questo si veda il commento. Una nuova, convincente luce sulla questione è stata
– a nostro avviso – proiettata dalla lettura di McKirahan (p. 200), il quale
insiste sul contesto immediato: «immobile» ha a che fare con i limiti dei
grandi legami piuttosto che con assenza di generazione e corruzione. I vv.
27-28 ricavano dai precedenti vv. 6-21 due ulteriori conseguenze dell’essere
ingenerato e incorruttibile, cioè senza inizio o fine, di «ciò-che-è» (ἐόν).
Attributi che non hanno in alcun modo a che vedere con l’assenza di moto. Nel
contesto l’espressione «immobile» coinvolgerebbe l’idea della natura fissa,
limitata e costretta di ciò-che-è. In questa prospettiva rimane aperta la
questione circa le convinzioni parmenidee sul movimento o cambiamento di
ciò-che-è. Thanassas (p. 51) privilegia nella propria lettura un’immobilità
fondata nell’assenza di relazioni con il Non-Essere: Parmenide escluderebbe il
«movimento ontologico» che avvicina Essere e Nulla. 75 Ovvero «nei limiti»
(πείρασι). Mourelatos (pp. 117-9) mostra efficacemente come alla nozione
omerica di κινεῖν fosse associata non la nostra idea di traslazione rispetto a
un punto di riferimento stazionario, ma quella di uscita, allontanamento da una
posizione originaria e dai suoi limiti: il caso paradigmatico sarebbe, insomma,
quello di "e-gresso", concettualmente 160 è senza inizio e senza
fine77, poiché nascita e morte sono state respinte78 ben lontano79: convinzione
genuina80 [le] fece arretrare. contrastante con la nozione di ὁδός («via»).
Mentre il viaggiatore lungo la via raggiunge il luogo di destinazione, colui
che si muove, invece, abbandona il suo luogo, supera, appunto, i suoi limiti.
Il concetto di «via» è centripeto, quello di κινεῖν è centrifugo. La
locomozione, in questo senso, sarebbe qualcosa di simile a un
autoestraniamento: muoversi è essere oltre sé stessi, essere dove uno non è: è
questa nozione di locomozione a essere oggetto di attacco nel paradosso della
freccia di Zenone. Si esprime l’idea – arcaica, ma ancora operante in
Aristotele (la teoria dei luoghi naturali) che il luogo di una cosa, con i suoi
limiti-confini, sia parte della sua identità. La relazione tra ἀκίνητον e
πείρατα escluderebbe dunque la locomozione intesa come moto assoluto,
"e-gresso" dal proprio luogo specifico. 76 Giustamente Cerri (p. 229)
segnala il cambiamento nel registro espressivo dell’autore, il cui linguaggio
«torna alle movenze epiche del proemio». Questo passaggio, in particolare, è
evocativo del mito prometeico, così come giuntoci nel dramma eschileo. Della
relativa, breve discussione di Cerri, sembra opportuno valorizzare la
possibilità che Parmenide e Eschilo (evitando improbabili contatti diretti) si
ispirassero, per il tema dell’incatenamento e della conseguente immobilità, a
un modello «già presente nella cultura mitico-filosofica della tarda
arcaicità». Non è chiaro, tuttavia, il senso preciso dell’aggettivo
«mitico-filosofica». Mourelatos (p. 115, nota), a sua volta, evoca un passo
omerico (Odissea VIII, 296-98), che costituirebbe buon parallelo per
l’immaginario parmenideo: ἀμφὶ δὲ δεσμοὶ τεχνήεντες ἔχυντο πολύφρονος Ἡφαίστοιο,
οὐδέ τι κινῆσαι μελέων ἦν οὐδ’ ἀναεῖραι e tutto intorno le catene ingegnose
chiuse, dell’astuto Efesto, ed essi non potevano più muoversi né sollevarsi. 77
Gli aggettivi ἄναρχον ἄπαυστον marcano la peculiare immutabilità dell’Essere,
diversa dalla immobilità di ciò che si genera e corrompe. Per questo potrebbero
implicare – se si accetta la lezione adottata – la formula ἠδ΄ ἀτέλεστον del v.
4. Coxon (p. 206) vi coglie un’eco delle affermazioni di Anassimandro (DK 12
A15): οὐ ταύτης ἀρχή, [...] ἀ θ ά ν α τ ο ν γὰρ καὶ ἀ ν ώ λ ε θ ρ ο ν di esso
non c'è principio [...] immortale e indistruttibile. 161 Identico e
nell’identica condizione81 perdurando82, in se stesso83 riposa84 , 78
All’aoristo ἐπλάχθησαν è possibile associare sia un significato attivo (Coxon:
«becoming and perishing have strayed very far away»), sia un significato
passivo (indicato in questo caso da Liddel-Scott): come suggerisce O’Brien (p.
53), il secondo emistichio del verso giustifica la resa passiva. 79 Coxon
ricorda (p. 207) come l’espressione τῆλε μάλa occorra una sola volta in Omero
ed Esiodo, dove si allude alla distanza del Tartaro: Parmenide potrebbe usarla
per marcare analoga distanza dall’Essere di generazione e corruzione. 80
Traduco πίστις ἀληθής non con «reale credibilità» - come in B1.30: il diverso
contesto – in particolare la sua impronta argomentativa, autorizza una
differente accentuazione del valore di πίστις, intesa come convinzione,
convincimento che scaturisce dall’esame condotto correttamente. In effetti il
termine ha un suo specifico uso giudiziario (Heidel citato da Tarán p. 113), in
cui designa l’evidenza o la prova addotta in tribunale. Il legame con la
Realtà\Verità, espresso dall'aggettivo ἀληθής (reale, vera, veritiera,
genuina), tuttavia, suggerisce di privilegiare il significato di convinzione.
81 L’espressione greca ἐν ταὐτῷ μένει è idiomatica, con valore variabile tra
«restare nello stesso luogo» e «restare nello stesso stato» (Cerri p. 231).
Heitsch (p. 172) e Coxon (p. 207) insistono piuttosto sulla condizione, Coxon
escludendo il significato locale (come confermerebbe l’uso analogo
dellespressione in Epicarmo, Sofocle, Euripide, Aristofane). Abbiamo
privilegiato la seconda lettura per la sua portata più generale rispetto ai
fenomeni del mutamento che Parmenide intende escludere dall’essere. McKirahan
(p. 201) interpreta tutto il passo come una nuova sottolineatura del
fondamentale rilievo della pienezza di ciò-che-è, riformulato nel linguaggio
del limite, dei legami e della costrizione: in questo senso «identico e
nell’identico» sarebbero implicazioni di «è pienamente». Anche le scelte
verbali - «perdurare», «rimanere», «riposare» - supporterebbero questa lettura:
ciò-che-è è pienamente e non può cessare di essere in quel modo. 82 L'intero
verso 29 sembra evocare il frammento DK 21 B26 di Senofane: αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι
μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι Sempre
nello stesso posto permane, e per nulla si muove, né gli si addice spostarsi
ora in un posto ora in un altro. 83 McKirahan (p. 201) rileva come καθ΄ ἑαυτό
possa significare sia «per sé», «solo», «solitario», ma anche «indipendente»
(prossimo al valore che gli darà Platone in riferimento alle Idee). Nella sua
prospettiva si tratta di una 162 [30] e, così, stabilmente85 dove è86
persiste87: dal momento che Necessità88 potente89 espressione plausibile per
descrivere qualcosa che è pienamente e non può cessare di essere in quel modo.
84 Opportunamente Conche (p. 155) richiama, per contrasto, le posizioni di
Eraclito e, soprattutto, nell’accentuazione dello spirito eracliteo, di
Epicarmo DK 23 B2.9: ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει ora
ciò che muta non rimane mai nel medesimo posto. I versi 29-30 sembrano
riecheggiare, in negativo, quella concezione. Mourelatos (p. 119) osserva come
la formula καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται manifesti noninterazione: il v. 29, dunque,
esprimerebbe a un tempo, nella sua prima parte, autocontenimento e
autoconsistenza, nella seconda parte isolamento, risultando complementare
all’attributo ἀδιαίρετον. Thanassas (p. 52) valorizza il nesso tra ἐόν e
identità: la saldezza dell’eon non si ridurrebbe alla semplice immobilità, al
rifiuto di ogni relazione con il Non-Essere, ma scaturirebbe anche dal rilievo
della identità (sameness) dell’eon con se stesso. 85 Rendiamo avverbialmente ἔμπεδον,
che indica stabilità, fissità: come correttamente osserva McKirahan (p. 200),
il termine nei suoi valori copre complessivamente le tre condizioni elencate al
v. 29. 86 Traduciamo in questo modo αὖθι per evitare «qui», «là», che appaiono
limitativi e troppo immediati (anche se non è da escludere a priori che proprio
tale immediatezza fosse ricercata dall’autore). Conche (p. 156), invece,
preferisce «qui», che indicherebbe – in parallelo con νῦν che è un «ora» non
temporale – un «qui» non spaziale. 87 Come segnalano i commentatori, ἔμπεδον αὖθι
μένει è formula epica, che richiama il celebre episodio in cui Odisseo si fa
legare all’albero maestro della nave per resistere al canto delle Sirene
(Odissea XII, 160-2): ἀλλά με δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι
μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω ma con funi saldissime
dovete legarmi, perché io resti immobile, ritto alla base dell’albero – ad esso
siano fissate le corde. Nel nostro contesto il valore della espressione non è
tanto locale quanto temporale: segnala l’esenzione dell’essere da qualsiasi
variazione temporale (Coxon p. 208). Ruggiu (p. 299) sottolinea il carattere
militare di ἔμπεδον μένει: «stare saldo in battaglia». In gioco sarebbe non la
stabilità spaziale o 163 nelle catene del vincolo90 [lo] tiene, che tutto
intorno lo rinserra91 . temporale, ma l’esclusione di ogni alterità e il
radicamento dell’identità. Come già segnalato in relazione a ἀτρεμὲς, McKirahan
(p. 210) suggerisce una sostanziale sinonimia tra i due aggettivi: entrambi
esprimerebbero il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di
essere pienamente, effetto dei limiti che costringono la natura di ciò-che-è.
88 Intendiamo Ἀνάγκη come nome proprio. Come Giustizia e Moira, Necessità è
figura tradizionale e incarnazione della ineluttabile legge del destino (Tarán
p. 117). Mourelatos, che identifica Necessità, Fato, Giustizia e Persuasione,
traduce come «Constraint»: l’immagine della Costrizione che tiene ciò-che-è nel
suo luogo rafforza la sua tesi secondo cui ἀκίνητον escluderebbe la locomozione
intesa come moto assoluto, egresso dal proprio luogo specifico (pp. 118-9).
Dalla triangolazione Giustizia, Fato (Moira), Costrizione risulterebbe che in
Parmenide il concetto di rettitudine (Giustizia) assimila il concetto di
necessità (Mourelatos p. 120). In un classico lavoro dedicato al concetto (W.
Gundel, Beiträge zur Entwicklungsgeschichte der Begriffe Ananke und Heimarmene,
Giessen 1914), Gundel individuò il significato di Ἀνάγκη nel passo in questione
come Naturnotwendigkeit. Schreckenberg (H. Schreckenberg “Ananke. Untersuchungen
zur Geschichte des Wotgebrauchs“, «Zetemata» 36, München 1964, pp. 1-188, cap.
I) ne ha invece marcato la connessione tematica con altri termini, come giogo,
catene, corde, con l’idea di legame, imprigionamento, schiavitù, rilevando così
come sotto ananke non si sia in grado di scegliere che cosa fare. L’immagine
platonica di σύνδεσμος τοῦ οὐρανοῦ avrebbe origine proprio in ambiente
pitagorico, come Schreckenberg cerca di provare appoggiandosi alla
testimonianza di Aëtius – Πυθαγόρας ἀνάγκην ἔφη περιεχεῖσθαι τῷ κόσμῳ - e
collegandola alla nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo») e
all’abbraccio cosmico di Ananke. In questo senso essa avrebbe la funzione di
“destino” o “legge di natura”: qualcosa che si può esprimere in termini di
legami che vincolano, l’uomo o l’universo (pp. 75-6). 89 L’espressione κρατερὴ
γὰρ Ἀνάγκη richiama l’esiodea (Teogonia 517 ss.) κρατερῆς ὑπ’ ἀνάγχης, nella
descrizione di Atlante che «sostiene l’ampio cielo per una potente necessità ai
confini della terra», come segnalano vari commentatori. 90 Ovvero «nelle catene
del limite» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν). Ancora l’insistenza sui vincoli, ancora da
intendere sostanzialmente in senso logico, nonostante la tendenza da parte di
alcuni interpreti a insistere sui limiti spaziali. L’associazione di Giustizia
(v. 14) e Necessità suggerisce in effetti a McKirahan (p. 200) che in gioco
siano soprattutto forza e\o costrizione. Nel riferimento ai vincoli e alle
catene Barbara Cassin (“Le chant des Sirènes dans le Poème de Parménide.
Quelques remarques sur le fr. 8.34", in 164 Per questo92 non incompiuto93
l’essere [è] lecito che sia94: Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 163-169)
ha colto un’eco di Odissea XII, 158-162: Σειρήνων μὲν πρῶτον ἀνώγει θεσπεσιάων
φθόγγον ἀλεύασθαι καὶ λειμῶν’ ἀνθεμόεντα. οἶον ἔμ’ ἠνώγει ὄπ’ ἀκουέμεν· ἀλλά με
δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ
πείρατ’ ἀνήφθω Per prima cosa ci impone delle Sirene di evitare il canto e il
loro prato fiorito. Posso ascoltarlo solo io, ma con fune saldissima dovete
legarmi, così che io resti immobile, ritto alla base dell’albero – ad esso
siano fissate le funi. 91 Il confinamento da parte di Necessità-Costrizione è
paradigmatico della concezione tradizionale greca per cui giustizia è mantenere
il proprio luogo specifico, rispettare il proprio ruolo (Mourelatos, p. 119).
92 La congiunzione οὕνεκεν ha etimologicamente (οὗ ἕνεκεν) il significato di
«ragion per cui», «cosa a causa della quale»; ha anche il significato di
«poiché», «a causa del fatto che» (privilegiato da Fränkel), e può essere usata
come ὅτι con il valore di «che», «il fatto che». Nel contesto preferiamo la
resa etimologica (privilegiata da Diels), ritenendo che la perfezione
dell’essere sia giustificata in quel che precede, ancorché con il ricorso a
un’immagine (la costrizione delle catene di Necessità) di probabile matrice
letteraria. 93 Secondo Coxon (p. 208), Parmenide impiegherebbe ἀτελεύτητον
nella sua valenza omerica di «unfinished». Rendiamo con «incompiuto», «imperfetto».
Mansfeld (p. 100) sottolinea il nesso tra l’essere vincolato e l’essere
compiuto e perfetto, recuperando come implicito nel greco anche il valore di
«realizzazione» e, di conseguenza, l’idea di un vincolo che legherebbe la cosa
alla propria realizzazione. Si veda per questo R.B. Onians, The Origins of
European Thought about the Body, the Mind, the Soul, the World, Time and Fate,
C.U.P., Cambridge19882 , pp. 426-66. Mourelatos (p. 121) sottolinea come il
verbo τελέω sia collegato al motivo del viaggio e abbia un'importante relazione
con il verbo ἀνύω (consumare) e forse con l’idea di πεῖρας, come legame
circolare. Nell’epica in generale il verbo esprime compimento, realizzazione di
promesse, desideri, predizioni e compiti (comprensivi di viaggi). È in
relazione a questa idea di compimento che il termine ammetterebbe il valore -
più debole - di «fine», nel senso di «estremità» o «termine». 94 Abbiamo
cercato di conservare la costruzione del verso greco, forzando la costruzione
italiana. 165 non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non essere95,
invece, mancherebbe di tutto. La stessa cosa96 invero è pensare97 e il
pensiero98 che99 «è»: 95 Intendiamo l’espressione μὴ ἐὸν come participio
sostantivo, in contrapposizione al precedente τὸ ἐὸν: quindi «il non essere»
ovvero «ciò che non è» (espressione tuttavia meno felice nel contesto). Ci
troveremmo in presenza di una articolazione del discorso imperniata su essere
(τὸ ἐὸν) e non-essere (μὴ ἐὸν): non è lecito che l’essere sia incompiuto: in
effetti non manca di niente; il non-essere, invece, mancherebbe di tutto».
D'altra parte, μὴ ἐὸν può essere reso in senso verbale: letteralmente la Dea
ipotizzerebbe: «se [l’essere] non fosse [non-manchevole], mancherebbe di
tutto». 96 A questo punto avrebbe inizio secondo Mansfeld (p. 101) un excursus
che impegnerebbe Parmenide fino al verso 41. Dello stesso orientamento anche
Guthrie e Kirk-Raven, cui si oppone, per esempio, Mourelatos (p. 165). Molto
convincente la lettura di McKirahan (p. 202): i vv. 34-41 esplorerebbero le
implicazioni del precedente (B2.7-8) «non potresti conoscere ciò che non è […]
né indicarlo». Se qualcosa è possibile conoscere o affermare, deve trattarsi
non di «ciò-che-non-è», ma (come conseguenza dell’alternativa) di ciò-che-è.
Esiste una proposta (originariamente suggerita da Calogero) di restauro del
testo greco da parte di Theodor Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine
Textumstellung im Fragment 8 des Parmenides", «Phronesis», 34, 1989, pp.
121-138), secondo il quale il blocco di versi 34-41 andrebbe rilocato dopo il
verso 52. Come ha di recente sottolineato anche J. Palmer (Parmenides &
Presocratic Philosophy, cit., pp. 352-4), il testo guadagnerebbe in coerenza
sia nel blocco centrale del frammento, sia in quello conclusivo. Dello stesso
avviso Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 32 ss.). Ciò
significherebbe, tuttavia, mettere in discussione l'affidabilità della
redazione del poema utilizzata da Simplicio (che Diels riteneva «im Ganzen
vortrefflich»): come ha sostenuto Passa nella prima parte del suo lavoro, il
testo simpliciano ha alle spalle, in misura più accentuata rispetto ad altre
fonti, un'interpretazione del poema di Parmenide in chiave neoplatonizzante e
pitagorizzante, che può averne alterato la ricezione. Passa si limita tuttavia
a indicare scelte espressive, mentre l'ipotesi Ebert (e ora Palmer e Ferrari)
implica un vero e proprio montaggio del testo, aprendo una serie di possibili
altri problemi testuali relativi ad altri passaggi dei codici manoscritti. A
Ebert va dato atto, nello specifico, di aver sollevato un problema serio:
nessun'altra fonte antica cita il v. 34 dopo il v. 33 o il v. 42 dopo il v. 41.
97 Rendiamo ἐστὶ νοεῖν letteralmente. Sulla traduzione, tuttavia, esiste grande
discordanza. Prevalgono due orientamenti, che optano per una resa diversa: (i)
«thinking is» (Owen, Sedley); (ii) «is to be thought» (Mourelatos), «is there
to be thought» (Kirk-Raven-Schofield), «is for thinking» (Curd). McKirahan (p.
203) traduce «is to be thought of» intendendo l’espressione 166 [35] giacché
non senza l’essere, in cui100 [il pensiero] è espresso101 , come un richiamo di
B2.2: ciò che è disponibile per il pensiero (ovvero “per essere pensato”). 98
Intendiamo il verso nel suo insieme come una ricapitolazione di B3 (a sua volta
conclusione di B2): ciò che è è l’unico reale oggetto del pensiero. Solo ciò
che è è disponibile come oggetto del pensiero e non esiste altro oltre ciò che
è: quindi solo ciò che è può essere pensato (McKirahan, pp. 203-4). Sulla scorta
di questa interpretazione, McKirahan suggerisce di interpretare anche
l’affermazione di B5: «indifferente è per me donde debba iniziare: là, infatti,
ancora una volta farò ritorno». 99 Intendiamo οὕνεκεν, in questo caso, come
congiunzione equivalente a ὅτι («che»), come, tra gli altri, Calogero («La
stessa cosa è il pensare e il pensiero che è»), Guthrie («What can be thought
[apprehended] and the thought that “it is” are the same»), Tarán («It is the
same to think and the thought that [the object of thought] exists»), O’Brien
(«C’est une même chose que penser, et la pensee : “est”»), Conche («C’est le
même penser et la pensée qu’il y a»), Cassin («C'est la même chose penser et la
pensée que "est"»). L'alternativa è rendere οὕνεκεν come formula
pronominale, composta dal pronome neutro (caso genitivo) + preposizione. Questa
lettura è difesa – tra gli interpreti recenti - da Reale («Lo stesso è il
pensare e ciò a causa del quale è il pensiero»), Coxon («The same thing is for
conceiving as is cause of the thought conceived»), Heitsch («Dasselbe aber ist
Erkenntnis und das, woraufhin Erkenntnis ist»), Cerri («La stessa cosa è capire
e ciò per cui si capisce»), Cordero («Thinking and that because of which there
is thinking are the same»), Gemelli Marciano («Dasselbe ist zu denken und das,
was den Gedanken verursacht»). Diels, intendendo come τὸ οὗ ἕνεκα con valore
finale (ciò in vista di cui), aveva reso: «Denken und des Gedankens Ziel ist
eins». Lo ha seguito Beaufret («Or c’est le même, penser et ce à dessein de quoi
il y a pensée»). Lunga disamina critica in Tarán, pp. 120-3. Di recente
McKirahan (p. 203) ha difeso la lettura causale di οὕνεκεν, ma ha avanzato
l’ipotesi suggestiva che l’espressione abbia contemporaneamente anche una
sfumatura finale. 100 Per evitare la difficoltà di una traduzione che
sottolinea come il pensiero sia espresso «nell’essere», sono state proposte
varie alternative. Zeller, Burnet, Cornford, Raven (tra gli altri) preferiscono
rendere ἐν ᾧ con una perifrasi: «a soggetto del quale», «in riferimento al
quale», «rispetto al quale». A conclusione di una lunga discussione (pp.
123-8), Tarán (seguendo Albertelli e Mondolfo) propone «in what has been
expressed». A questa traduzione (cui ricorre anche Sedley) sono state tuttavia
opposte obiezioni di ordine grammaticale (si veda Robbiano, p. 170). La
Robbiano (pp. 169-170) intende ἐν ᾧ come equivalente a ἐν τούτῳ ἐν ᾧ,
proponendo τὸ νοεῖν come soggetto di πεφατισμένον ἐστίν. Il passo in traduzione
risulta quindi: «for without Being you will not find understanding in that
where understanding 167 troverai il pensare. Né102, infatti, esiste, né
esisterà altro oltre103 all’essere104, poiché105 Moira lo ha costretto106 a
essere intero e immobile107. Per esso108 tutte le cose saranno nome109 , has
been given expression». In questo caso ἐν ᾧ non si riferirebbe a τὸ ἐόν, ma a
una formula implicita per «le mie parole, i versi del mio poema». La dea
spiegherebbe, insomma, che non si può trovare νοεῖν in ciò che esprime νοεῖν,
se non si trova l’Essere (τὸ ἐόν): per raggiungere la comprensione non è
sufficiente ascoltare le parole della dea, ma si deve trovare l’Essere.
Preferiamo, come versione più naturale, la traduzione (per lo più adottata
dagli interpreti recenti) che risale a Diels («denn nicht ohne das Seiende, in
dem sich jenes ausgesprochen findet, kannst Du das Denken antreffen»). 101
Secondo Ruggiu (p. 303, nota), πεφατισμένον indicherebbe non solo che il
pensiero è manifestativo dell’Essere, ma che l’Essere è tale in quanto
fondamento di ogni manifestabilità. In questo senso, πεφατισμένον sarebbe
equivalente a φατὸν e νοητόν (B8.8) e οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν
- οὔτε φράσαις (B2.7-8). 102 Rendiamo le due congiunzioni < ἢ >... ἢ
precedute da οὐδὲν come «né…né». 103 La formula ἄλλο πάρεξ è adattamento di
analoga formula epica (ἄλλα παρὲξ). 104 Secondo Mansfeld (p. 101) Parmenide
affermerebbe in questo passaggio l’identità di pensiero e essere, implicando
che il pensiero non possa essere qualcosa di altro, indipendente, contrapposto
all’essere o comunque estraneo a esso. 105 Anche in questo caso è la
costrizione della divinità di turno (Moira) a giustificare compiutezza e
unicità dell’essere parmenideo. 106 Si ripete, con ἐπέδησεν, la suggestione
dell’incatenamento, della costrizione (da intendere, fuor di metafora, in senso
logico). La formula μοῖρ΄ ἐπέδησεν è epica. 107 Le due connotazioni - οὖλον ἀκίνητον
– marcano l’integrità e immutabilità, reiteratamente richiamate nel frammento.
Per ἀκίνητον, tuttavia, vale quanto segnalato sopra: la sua comprensione, come
suggerisce McKirahan, è probabilmente da collegare alla metafora dei legami e
della costrizione. Così, l’integrità di ciò che è (espressa da οὖλον) è
sostenuta dall’immagine della costrizione a essere pienamente ciò che è. 108 Seguiamo
Palmer (op. cit., pp. 171-2) nell'intendere τῷ come pronome relativo (riferito
a τὸ ἐόν): dal momento che egli accoglie la lettura πάντ΄ ὀνόμασται del secondo
emistichio, la sua traduzione risulta: «to it all things have been given as
names». Lo studioso si appoggia a una costruzione analoga presente in Empedocle
B8.4: φύσις δ’ ἐπὶ τοῖς ὀνομάζεται ἀνθρώποισιν 168 quante i mortali
stabilirono110, persuasi che fossero reali111: [40] nascere e morire, essere e
non essere, cambiare luogo112 e mutare luminoso colore113 . natura è data come
nome a questi [processi di mescolanza e separazione] dagli uomini. La resa
pronominale di τῷ è comunque assolutamente compatibile anche con la lezione
Diels-Kranz da noi adottata: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται Per esso [τὸ ἐόν] tutte le
cose saranno nome. Per lo più gli editori hanno reso τῷ con valore assoluto
come «perciò». 109 Il greco ὄνομα è singolare, per marcare l’identità nominale
dei neutri plurali πάντα e ὅσσα: genericamente cose, eventi, fenomeni, la cui
natura mutevole si rivela solo nome. La lezione alternativa dei codici di
Simplicio - τῷ πάντ΄ ὀνόμασται - è variamente tradotta: «wherefore it has been
named all things» (Gallop), attribuendo a τῷ valore avverbiale, ma anche «With
reference to it [the real world], are all names given» (Woodbury), intendendo τῷ
come un dimostrativo riferentesi a τὸ ἐὸν, ovvero (Leszl p. 231) «in relazione
a questo è assegnato, come nome». Da osservare che una lunga tradizione
risalente a Diels, ha tradotto l’emistichio introducendo un implicito aggettivo
peggiorativo (blosser, ovvero «mero») al sostantivo «nome», assolutamente
assente nel testo greco. Una diversa tendenza si è manifestata nelle versioni
degli ultimi decenni. 110 Il verbo κατέθεντο ricorre tre volte nei frammenti
del poema (qui, in B8.53 e B19.3): sottolinea la matrice linguistica della
ordinaria comprensione del mondo. 111 Il greco è ἀληθῆ. McKirahan (p. 202) ha,
secondo noi, correttamente colto il senso complessivo del passo: i vv. 34-38
argomentano che l’unico possibile oggetto di pensiero e linguaggio è ciò-che-è;
i vv. 38-41 ricavano la conclusione che, a prescindere da ciò cui i mortali
pretendano di riferirsi nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente
(veramente) pensano e possono pensare è ciò-che-è. Ciò-che-è è l’oggetto dei
loro pensieri, anche di quei pensieri che ricorrono a formule proibite come
generazione e corruzione. Leszl (p. 231) osserva come la tesi di Parmenide
sarebbe che i «mortali» applicano all'essere – commettendo un errore – tutte le
designazioni: il loro errore consisterebbe dunque nell'imporre nomi all'essere
stesso, non nell'applicarli alle cose. 112 Tarán (pp. 138-9) ammette che, nella
espressione τόπον ἀλλάσσειν, il sostantivo τόπος molto probabilmente significa
«spazio vuoto». Parmenide, tuttavia, non sarebbe qui interessato a una polemica
nei confronti dei 169 Inoltre, dal momento che [vi è]114 un limite115
estremo116, [ciò che è] è compiuto117 da tutte le parti118, simile119 a
massa120 di ben rotonda121 palla122 , sostenitori della esistenza del vuoto, ma
solo a rilevare la contraddittorietà del fenomeno del moto locale. 113 Il
secondo emistichio - διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν – è variamente tradotto. Coxon
(pp. 211-2) rende con «change their bright complexion to dark and from dark to
bright». Come Reinhardt, egli coglie un'allusione alla successiva teoria (DKB9)
della composizione degli enti. Le differenze nelle traduzioni dipendono
soprattutto dall’intendere χρόα – accusativo di χρώς, «colore» - come χροιά
ovvero χρόα, «superficie». O’Brien (p. 56) sottolinea come al significato di
«complessione» (cui si riferisce anche Coxon) sia nel contesto da preferire
quello più generico di «colore». 114 La proposizione introdotta da ἐπεί può
omettere ἐστι: la traduzione può renderlo in questo caso come predicato verbale
(come abbiamo fatto) ovvero come copula: «il limite è estremo». 115 Mourelatos
(pp. 128-9) nota come l’immagine dei legami e dei limiti si faccia
progressivamente «più plastica e concreta» man mano che B8 procede, per
raggiungere il proprio culmine appunto in questo passaggio. 116 L’aggettivo
πύματος significa «estremo», «ultimo»: in Omero indica, per esempio, il bordo
estremo di uno scudo, ciò che lo limita e oltre il quale non c’è più scudo
(Conche p. 176). 117 L’espressione τετελεσμένον πάντοθεν indica la completezza
di ciò che è, risultando equivalente di πάμπαν πελέναι. Come ha
convincentemente marcato McKirahan (pp. 212-213), le indicazioni spaziali,
letteralmente disseminate nei vv. 42-49, possono essere intese anche in senso metaforico.
Si tratta di naturali sviluppi della nozione di πέρας, le cui prime occorrenze,
anche in ambito filosofico, hanno a che fare con i limiti spaziali, ma che
presto è usata anche per altre finalità, non spaziali (come attesta il
contemporaneo di Parmenide Eschilo). Thanassas (pp. 53-4), dal canto suo,
valorizza una interessante implicazione: il limite che abbraccia e conserva
l’interezza del reale (preservandola dal Non-Essere), consente da un lato di
riconoscere l’eon «completo da ogni lato», dall’altro di intendere tutte le
apparenze (appearances) come equivalenti, come esseri. Ciò richiamerebbe
l’affermazione conclusiva della dea nel proemio, che nella versione accolta da
Thanassas e da noi condivisa suona: διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, «tutte insieme
davvero esistenti». 118 L’avverbio πάντοθεν, sia che lo si intenda riferito a
τετελεσμένον ἐστί (come nel nostro caso), sia che lo si riferisca, invece, a εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, sembra esprimere comunque un punto di vista, una
prospettiva “esterna” (Mourelatos p. 126). Come, d’altra parte, per lo più 170
suggeriscono anche le altre immagini del frammento (lacci, legami, catene che
rinserrano tutto intorno). 119 L’aggettivo ἐναλίγκιον introduce indubbiamente
una comparazione, che tuttavia non si riferisce, si badi bene, direttamente a
σφαῖρη (palla, sfera), ma a ὄγκος (massa, estensione). 120 Il termine ὄγκος può
tradursi come «massa», volume fisico (Coxon p. 214): in tal senso è da
intendersi dunque la «ben rotonda palla». Parmenide si riferisce probabilmente
all'estensione fisica, tridimensionale, e alla forma geometrica compiuta.
Conche (p. 177) suggerisce «grosseur» o «corps». Di recente McKirahan (pp.
213-4), riprendendo la questione, ha ritenuto significativo che Parmenide non
dica che «ciò-che-è» è una sfera o simile a una sfera, ma «simile al corpo di
una sfera», una espressione giudicata «inaspettatamente elusiva». Non si
tratterebbe, infatti, né di massa (nel senso di peso) della sfera, né della sua
misura, né di altre qualità fisiche, né, pur avendo a che fare con la forma
della sfera, di forma o superficie. L’espressione potrebbe approssimativamente
tradursi come «estensione fisica»: «fisica» per suggerire che non si tratta di
astratta nozione geometrica; «estensione», in vece di «misura», per evitare la
tentazione di pensarla come una quantità determinata. Mourelatos (p. 126) aveva
a suo tempo segnalato il fatto che ὄγκος è espressione parmenidea per
estensione tridimensionale e che il carattere che essa accentua rispetto alla
sfera è la forma. 121 Come suggerisce Mourelatos (p. 127), intendendo πάντοθεν
riferito a εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, l’aggettivo εὔκυκλος definirebbe
un oggetto che, osservato da tutte le parti, ha il contorno di un cerchio
perfetto. Come abbiamo in precedenza ricordato, Tonelli (p. 117 e pp. 133-4) ha
sottolineato il nesso tra εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ - riferito a τὸ ἐὸν
– e ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ (B1.29): la forma sferica è forma
archetipica della perfezione e della totalità. 122 Seguo Leszl (p. 211) nel
tradurre σφαῖρη come «palla», analogamente all’omerico σφαίρῃ παίζειν (giocare
a palla). Ciò rende più efficace l’accostamento: Leszl osserva che «se l’essere
fosse detto «simile a una sfera», l’implicazione potrebbe essere che esso non è
veramente una sfera, mentre se è detto «simile a una palla», la giustificazione
per quest’affermazione può essere precisamente che è una sfera». L’espressione
εὐκύκλου σφαίρης ὄγκῳ rivelerebbe invece, secondo Coxon (p. 214), che Parmenide
qui non intende genericamente un corpo a palla, ma proprio la sfera (σφαῖρη),
la cui perfetta rotondità è sottolineata dall’epiteto εὐκύκλου. In ogni caso è
ancora da osservare – con Mourelatos (p. 126) - come la comparazione proposta
non sia direttamente tra ciò-che-è e una palla, piuttosto tra la completezza di
ciò-che-è e l’espansione-estensione di una palla perfetta, ben-rotonda.
L’analogia si riferirebbe alla curvatura esterna della sfera. 171 a partire dal
centro123 ovunque di ugual consistenza124: giacché è necessario che esso non
sia in qualche misura di più, Diels e Brehier hanno voluto cogliere dietro
l’espressione l’influenza pitagorica: essa alluderebbe, quindi, a una immagine
geometrica. Conche (p. 177) ribatte marcando come, in tal caso, non avrebbe
senso precisare εὐκύκλου. L’immagine sarebbe invece «fisica». Il sostenitore
più coerente della natura geometrico-spaziale dell’Essere parmenideo è De
Santillana (Le origini del pensiero scientifico, Sansoni, Firenze 1966):
l’Essere sarebbe il risultato di un processo di astrazione in cui Parmenide
avrebbe tenuto presenti spazio del matematico e spazio del fisico. L’Essere
sarebbe dunque un plenum, un'estensione corporea densa, cristallina: la realtà
fisica non sarebbe illusoria, ma avrebbe luogo nello spazio geometrico, occupandolo.
Coerentemente con la propria interpretazione dei segni come indici della
consapevolezza cognitiva del kouros, la Stemich (op. cit., p. 212) ritiene che
l’immagine della sfera, cioè della più perfetta di tutte le forme, attesti che
la conoscenza dell’essere è la forma più pura del pensiero: la somma facoltà di
pensiero del kouros, nel momento della conoscenza dell’essere, è completamente
conchiusa in se stessa, coincidendo a tutto tondo con la verità della Dea. 123
Dal momento che è difficile attribuire parti all’essere, il termine μεσσόθεν è
stato spesso volto in senso metaforico. Concordiamo con Conche (p. 180), che il
centro cui si riferisce la Dea sia quello del mondo e che ella sottolinei come
in ogni parte dell’universo l’essere sia lo stesso. Coxon (p. 217), invece,
sottolinea come l’equilibrio cui Parmenide allude con μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ
sia di carattere «non-fisico», e funga da complemento alla nozione di
perfezione universale (somiglianza con il volume della sfera), marcando la
sussistenza in se stessa di questa perfezione, la sua totale ed eguale
dipendenza dal suo proprio centro. 124 Intendiamo l’espressione μεσσόθεν ἰσοπαλὲς
πάντῃ come un rilievo della compattezza dell’Essere: ἰσοπαλές concorda con il
neutro ἐόν\τὸ ἐόν, non con il maschile ὄγκος (o il femminile σφαῖρη), dunque
con il soggetto sottinteso («ciò che è»), non con «massa di ben rotonda palla».
Dal centro alla superficie della sfera si esprime la stessa forza (Diels,
Tarán), ovvero lo stesso «peso», lo stesso «equilibrio», la stessa «spinta».
Ruggiu (p. 309), riprende (da Calogero, Vlastos, Mourelatos e Guthrie) l’idea
che l’immagine della sfera esprima una «uguaglianza dinamica»: forza e potenza
dell’Essere si estendono in modo uguale dal centro alla periferia e dalla periferia
al centro, senza possibilità di differenza alcuna in intensità o potenza
d’essere. O’Brien e Conche preferiscono rendere come «uguale a se stesso»,
privilegiando l’aspetto della omogeneità a quello dinamico dell’aggettivo: è in
particolare rilevante la sottolineatura, da parte di Conche (p. 180), di un
fatto che nel contesto può sfuggire: ἰσοπαλές si riferisce all’Essere e non
alla sfera. Secondo Mourelatos (p. 127) avremmo qui, invece, la definizione 172
[45] o in qualche misura di meno 125 , da una parte o dall’altra126 . Non vi è,
infatti, non essere127, che possa impedirgli di giungere a omogeneità128, né
ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è 129 - qui più, lì meno130,
poiché131 è tutto inviolabile132 . di equidistanza: ἰσοπαλές esprimerebbe
l’idea di espansione uguale in ogni direzione. 125 Rendiamo in questo modo οὔτε
τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον, per sottolineare l’omogeneità dell’Essere in senso
intensivo: non c’è un più o un meno d’essere. Si vedano anche i successivi τῇ μᾶλλον
τῇ δ΄ ἧσσον (v. 48). 126 Ruggiu (pp. 309-10) osserva come perfezione e
stabilità dell’Essere non dipendano da vincoli esterni, ma dalla simmetrica
distribuzione delle forze interne e dall’assoluta uguaglianza che sussiste tra
le parti. 127 Traduciamo letteralmente οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι. Cerri (p. 239)
osserva che, in questo caso, οὐκ ἐὸν «significa né più né meno che “vuoto”,
“spazio vuoto”, “assenza di essere\materia”». 128 Traduciamo così l’espressione
εἰς ὁμόν: il non-essere potrebbe teoricamente interrompere e discriminare
l’identità e l’uguaglianza con se stesso di ciò che è. In questa direzione
anche le traduzioni di O’Brien («à la similitude ») e Conche («à l’egalité à
soi-même»). 129 Utilizziamo la forma dell’inciso (traducendo ἐόντος come «di
ciò che è»), per facilitare la lettura in italiano. Avremmo potuto impiegare il
pronome «di esso», ma abbiamo scelto di rimanere aderenti alla ripetizione
greca. 130 L’espressione τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον ribadisce sostanzialmente
omogeneità e uniformità già argomentate, e dunque la pienezza d’essere di ciò
che è. Come ha osservato McKirahan (p. 213), Parmenide ha ogni motivo per
concludere la trattazione di ciò-che-è sottolineando l’importanza della tesi
che «ciò-che-è» è pienamente, esprimendola in modi differenti per catturare
l’attenzione del suo pubblico e condurlo a comprendere il suo punto più
chiaramente. 131 Recentemente Palmer (op. cit., pp. 157-8) – per evitare di
fare del v. 49 (οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) la ragione (γὰρ)
dell'affermazione di v. 48b (πᾶν ἐστιν ἄσυλον), a sua volta proposta a
giustificazione (ἐπεὶ) dei vv. 47-48a, che contengono una delle ragioni a
sostegno di quanto affermato ai vv. 44b-45, rischiando così la circolarità – ha
proposto di inserire un punto prima di ἐπεὶ, legando quindi il v. 48b al v.
49b: «Poiché è tutto inviolabile – dal momento che è a se stesso da ogni parte
uguale – uniformemente entro i suoi limiti rimane». In questo modo 173 A se
stesso, infatti, da ogni parte uguale133, uniformemente134 entro i [suoi] limiti
rimane135 . ἐπεὶ introdurrebbe la ragione per l'affermazione (riassuntiva)
finale: «uniformemente entro i [suoi] limiti rimane». 132 Il termine ἄσυλον
evoca uno sfondo religioso: ἀσυλία era concetto del linguaggio giuridico
religioso e indicava la condizione di inviolabilità di persone o luoghi sacri,
associati al culto, la violenza nei confronti dei quali era perseguita, come
sacrilegio, con la condanna capitale. Secondo Colli (Gorgia e Parmenide, cit.,
p. 150) l’allusione religiosa andrebbe posta in relazione con la rivelazione
del proemio. Nel contesto l’inviolabilità può intendersi come altra faccia
della costrizione che tiene insieme ciò che è, che gli impedisce di essere
diversamente da come è: impossibilità che gli siano sottratti i suoi attributi
o gliene siano imposti altri che non ha (McKirahan p. 213). 133 Parmenide
afferma l’eguaglianza dell’essere con se stesso (οἷ πάντοθεν ἶσον) - che
esclude non-essere e possibili gradi d’essere – in relazione ai suoi limiti.
Come osserva Coxon (p. 216), l’Essere è universalmente uguale a se stesso nel
senso che è uniformemente confinato da un limite (ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει), il
quale, essendo estremo, non lo divide da qualcos’altro ma lo determina a essere
quello che è e identifica la sua perfezione. Mourelatos (p. 127) suggerisce una
lettura diversa: in riferimento alla sfera, si valorizzerebbe il fatto che è un
oggetto sempre uguale a se stesso, da qualsiasi prospettiva lo si guardi. 134
Così rendiamo ὁμῶς, che si dovrebbe più letteralmente tradurre come «ugualmente»,
«allo stesso modo». Mourelatos (p. 127) sottolinea come dire di qualcosa che «è
presente» ugualmente entro i suoi limiti sia un modo di affermare che è
simmetrico. 135 Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 150) traduce κύρει come
«tende»: il verbo introdurrebbe un elemento dinamico, in tensione con la
precedente connotazione statica dell’essere, presentando l’essere quasi fosse
un organismo vivente, che tende a espandersi come un respiro verso i suoi
limiti. In questo modo l’essere sarebbe presentato dall’interno: dall’esterno
ne sarebbe dunque accentuata l’immobilità, dall’interno il dinamismo. 174 DK B8
vv. 50-61 [50] ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης1 · δόξας δ΄
ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. μορφὰς γὰρ
κατέθεντο δύο γνώμας2 ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν
-· [55] ἀντία3 δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν
φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν 4 , μέγ΄ ἐλαφρόν5 , ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ
μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε.
[60] τόν6 σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν
γνώμη 7 παρελάσσῃ 8 . 1 Come in B1.29 indendiamo Ἀληθείη come nome divino. 2 I
codici DEEa F di Simplicio Phys. 39, 1 riportano γνώμας, forma per lo più
accolta dagli editori; i codici DEF di Phys. 30, 23 e DEF2 di Phys. 180, 1
riportano invece γνώμαις. 3 Ι codici DE di Simplicio riportano ἐναντία; alcuni
editori leggono τἀντία. 4 Nei codici DE di Simplicio ritroviamo ἤπιον τὸ in
vece di ἤπιον ὄν. 5 I codici delle tre citazioni di Simplicio riproducono il
verso 57 con evidenti irregolarità metriche, per la presenza di ἀραιόν
(rarefatto) prima di ἐλαφρόν. Il testo risulterebbe dunque: «che è mite, molto
rarefatto e leggero....». Si è per lo più ritenuto che uno dei due aggettivi
fosse glossa dell'altro, con conseguente espunzione. La versione del testo che
suggeriamo è quella per lo più adottata. Cerri, che sceglie di conservare il
testo dei codici, senza espunzioni, in una lunga nota testuale, con grande
acribia ricostruisce la probabile fisionomia del testo di Simplicio in questa
forma:ἤπιον ἀραιόν ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν. Da osservare che il termine ἀραιόν
(«raro», «rarefatto») è probabilmente da considerare un termine tecnico della
cosmogonia milesia (Anassimandro DK 12 A22, Anassimene DK 13 B1). Al contrario,
il termine ἐλαφρόν non è attestato nel linguaggio fisico presocratico. Coxon
(p. 223) considera ἀραιόν certamente parmenideo, in quanto utilizzato come
opposto di πυκνόν da Melisso e Anassagora e nella tradizione dossografica sulla
fisica di Parmenide. 6 L'aggettivo dimostrativo τόν è concordato con διάκοσμον.
Karsten propose di correggere il testo dei codici con τῶν. Il senso sarebbe
allora: «relativamente a queste cose, io ti espongo ordinamento del tutto
verosimile». 175 [Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam
145-146; vv. 50-61 Simplicio, In Aristotelis Physicam 38-39] 7 Nella
trascrizione dei codici, alcuni editori (Stein, tra i contemporanei seguito tra
gli altri da Coxon, O'Brien) intendono γνώμῃ. Il significato complessivo del
verso cambia di poco: «così che nessuno dei mortali possa esserti superiore
nell'opinione» ovvero «nel giudizio» (o «practical judgement» Coxon). 8 I
codici Ea F di Simplicio riportano παρελάσση, i codici DE παρελάση: gli editori
hanno corretto in παρελάσσῃ. 176 [50] A questo punto pongo termine per te al
discorso affidabile1 e al pensiero intorno a Verità2 ; da questo momento3 in
poi opinioni4 mortali5 impara6 , l’ordine7 delle mie8 parole9 ascoltando10, che
può ingannare11 . 1 L'aggettivo πιστὸν è immediatamente riferito a λόγον, ma
può riferirsi anche a νόημα: in qualche caso le traduzioni scelgono questa
strada. Qui abbiamo preferito mantenere distinti i due oggetti - πιστὸν λόγον e
νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης – che ci sembrano reiterare e rafforzare lo stesso
concetto. 2 Si potrebbe rendere νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης – e si deve comunque
intendere - anche come «pensiero intorno alla realtà». 3 I due versi 50-51
segnano il passaggio tra una sezione l'altra: la conclusione della Verità è
segnalata da ἐν τῷ σοι παύω, l'attacco della Doxa da ἀπὸ τοῦδε [...] μάνθανε. 4
Ovvero «convinzioni» o «considerazioni». 5 L'espressione δόξας βροτείας – in
considerazione del soggetto divino della comunicazione - potrebbe forse
rendersi semplicemente con «opinioni umane». 6 L'imperativo μάνθανε riprende,
nell'introdurre la sezione sulla Doxa, il programmatico futuro μαθήσεαι di
B1.31. Cerri (p. 242) sottolinea il valore "scientifico" che il verbo
venne ad assumere all'epoca, non indicando il mero ascoltare e memorizzare, ma
«l'essere fatto partecipe di una elaborazione scientifica, di una dimostrazione
rigorosa ed esaustiva». Interessante soprattutto ritrovare un verbo come μανθάνω,
senza dubbio positivamente connotato in termini gnoseologici, nell'imminenza
dell’esposizione della Doxa: B10 presenterà ancora εἴσῃ («conoscerai»), πεύσῃ
(«apprenderai»), εἰδήσεις («conoscerai»). Lo stesso B11 doveva esordire con
un'esortazione simile. Tutti indizi di consistenza, evidentemente riconosciuta
dalla divinità al sapere che andava a esporre. 7 Si potrebbe forse rendere
κόσμον ἐπέων come «costrutto verbale», «sintassi verbale». In ogni modo è da
preferire una resa letterale del sostantivo κόσμος (come suggerisce O' Brien,
p. 57: «arrangement») nel senso di τάξις (Anassimandro). Mourelatos (p. 226)
indica come possibilità anche «forma». Nella cultura arcaica l'espressione
ricorre tra l'altro in Solone (κόσμον ἐπέων ὠιδὴν fr. 2.2 Diels); nel V-IV
secolo in Democrito (DK 68 B21): in entrambi i casi si sottolinea la
composizione, l'artificio poetico. Coxon (p. 218), che rende il greco come
«composition», sostiene che il termine sarebbe stato scelto per la sua
congruità con il successivo διάκοσμος, «sistema», che la «composizione» deve
esporre. Una interpretazione radicalmente diversa è quella di J. Frère
("Parménide et l'ordre du monde: fr VIII, 50-61", in Études 177 sur
Parménide cit., vol. II, pp. 199-200), che legge il genitivo ἐμῶν ἐπέων come
complemento indiretto («dalle mie parole») di ἀκούων, e κόσμον come «ordine del
mondo». Robbiano (op. cit., p. 182) avanza l'ipotesi che κόσμος mantenesse in
Parmenide il suo valore omerico (disposizione ordinata che è conveniente, che
funziona e che è anche bella da vedere: il prodotto di un essere intelligente),
precedente al riferimento (che per altro conservava aspetti della accezione
originaria) all'universo (per la prima volta forse in Eraclito B30). Nello
specifico, secondo la studiosa, kosmos si riferirebbe a prodotto della mente e
della parola umana: a ciò che vediamo da una certa prospettiva (umana) e non a
ciò che (e come) le cose sono nell'ottica divina. Nehamas ("Parmenidean
Being/Heraclitean Fire", cit., p. 60) ha invece ipotizzato che κόσμος
significhi nel contesto il mondo di cui la dea parla: «da questo punto in
avanti, impara le opinioni mortali, venendo a conoscere (attraverso l'ascolto)
il mondo ingannevole cui le mie parole si riferiscono». È possibile che le
affermazioni di cui consta la Doxa, la teoria che essa contiene, non siano di
per sé erronee, che descrivano correttamente un mondo di per sé ingannevole, in
quanto mascherato da realtà quando è solo apparenza. 8 L'uso dell'aggettivo
possessivo sottolinea l'autorità della comunicazione e l'assunzione di
responsabilità nell'introduzione della sezione sulla Doxa: analogamente ai
pronomi personali ἐγὼν (B2.1), μοί (B5.1), ἐγὼ (B6.2), ἐγὼ (v. 60). 9 Coxon (p.
218) segnala l'opposizione di κόσμον ἐπέων a λόγος: «discorso poetico» sarebbe
contrapposto a «discorso razionale». D'altra parte la cultura del V secolo
riconosceva un nesso tra ἔπη e δόξα (come risulta da Euripide, Eracle 111).
Cerri (p. 243) non è, tuttavia, disposto a esagerarne, nel contesto, le
implicazioni: in particolare, l'irrazionalità e l'ingannevolezza delle parole
che seguono sarebbero solo relative. Tarán (p. 221) sottolinea come la Dea, pur
impiegando parole secondo le regole della grammatica e della poesia, non potrà
evitare che il suo discorso risulti decettivo. 10 Nuovamente (dopo B2.1) il κοῦρος
viene invitato ad ascoltare, a manifestare con la disponibilità all'ascolto la
propria aspirazione alla conoscenza. 11 Dobbiamo a J. Frère (op. cit., p. 201)
il rilievo circa il significato antico di ἀπατηλός: che non sarebbe, come per
il corrispettivo moderno, «ingannevole», piuttosto «suscettibile di ingannare».
La sua resa francese è la seguente: «[un ordre du monde], où l'on peut se
trompeur». Lo studioso propone in effetti di collegare κόσμον e ἀπατηλὸν, senza
fare di ἐμῶν ἐπέων un genitivo dipendente da κόσμον, ma vedendovi un
complemento di ἀκούων (p. 199). Reale sceglie di rendere l'aggettivo con
«seducente»: Ruggiu nel suo commento (pp. 313) sottolinea come il senso
dell'aggettivo vada colto nella relazione di apertura alla verità e all'errore
(come sarebbe proprio di ogni seduzione), alla luce del suo oggetto,
l'apparire. Mourelatos (p. 227) ha valorizzato le potenziali ambiguità della
formula κόσμον ἐπέων 178 Presero12 la decisione13, infatti14, di dar nome15 a
due16 forme17 , ἀπατηλὸν: è la stessa combinazione di parole a celare la
tensione di idee contrarie. L'espressione κατὰ κόσμον indica, in effetti,
parlare veritativamente, appropriatamente: la polarità κόσμος-ἀπάτη
segnalerebbe sia che le δόξαι sono decettive, sia che l'ordinamento delle
parole della dea o il loro contesto può suggerire molteplici e\o confliggenti
significati. In questo senso Mourelatos invita a tenere a mente la formula
esiodea ἐτύμοισιν ὁμοῖα («simili a cose vere», Teogonia 27) e l'espressione ἀμφιλλογία
(da tradursi come come «double talk», Teogonia 229), che Esiodo intenderebbe
deliberata e maliziosa. Affascinante l'accostamento omerico all'episodio di
Odisseo e Polifemo. Lo studioso ne ricava (p. 228) nel contesto una lezione di
ironia da parte di Parmenide: i mortali praticano "anfilogia"
innocentemente (senza saperlo), cadendo quindi in errore; la dea usa
l'anfilogia in modo pienamente consapevole, svelando quindi la verità sulle
opinioni umane! 12 Anche chi, come Coxon (p. 219), ritiene che il modello
dualistico proposto nella Doxa possa risalire al pitagorismo antico, è convinto
che κατέθεντο abbia comunque come soggetto genericamente «gli esseri umani»,
cogliendo una connessione tra lo stabilire nomi di questo verso e quanto
sostenuto nei vv. 34-41. Tuttavia il problema del soggetto del verbo si pone:
Frére (p. 203), per esempio, osserva come sia difficile pensare che tutti i
«mortali» possano essere assunti come «dualisti», e decide di indicare come
soggetto «alcuni» (certains). Seguendo la proposta di Ebert ("Wo beginnt
der Weg der Doxa? Eine Textumstellung im Fragment 8 des Parmenides", cit.)
di leggere la sequenza dei vv. 34-41 dopo il v. 52, il soggetto di κατέθεντο (e
dei successivi ἐκρίναντο e ἔθεντο) diventerebbe βροτοί. Ma quali? Couloubaritsis
(Mythe et philosophie, cit., p. 261) ritiene, per esempio, che, diversamente
dai mortali (senza discernimento, che nulla sanno) di B6, i βροτοί di cui la
Dea parla negli ultimi versi di B8 si siano smarriti solo su un punto preciso
(B8.54). 13 Secondo Cerri (p. 245), la sequenza di aoristi (κατέθεντο, ἐκρίναντο,
ἔθεντο) rivelerebbe un riferimento del discorso della Dea a un lontano passato.
Secondo Diels (Parmenides Lehrgedicht, cit., p. 92) γνώμη κατατίσθεσθαι sarebbe
da considerare formula abituale: Liddell-Scott traducono nel nostro caso
κατέθεντο γνώμας ὀνομάζειν come «recorded their decision, decided to name». Si
potrebbe rendere come «si decisero a nominare». In alternativa si potrebbe
costruire il verso facendo dipendere da κατέθεντο («stabilirono») μορφὰς δύο
(«due forme») e attribuendo all'infinito ὀνομάζειν valore finale (per dar
nome), con γνώμας come oggetto diretto: «stabilirono due forme per dar nome ai
loro punti di vista» (soluzione vicina a quella adottata da Cerri). O ancora, considerare
(come Deichgräber) sia γνώμας sia μορφὰς come oggetti retti da κατέθεντο
(«posero due forme 179 [come] principi per nominare»). Cordero fa, invece, di
δύο γνώμας l'oggetto diretto di κατέθεντο e traduce quindi: «They estabilished
two viewpoints to name external forms». Couloubaritsis (Mythe et philosophie
cit., pp. 278-9) propone una soluzione analoga, intendendo γνώμας come «marque
signifiante»; ne risulta: «En effect, ils proposèrent deux formes pour nommer
les marques signifiantes». Pur essendo la struttura della frase molto diversa,
nella sostanza il significato non muterebbe, come sottolinea anche Conche (p.
190). Frére (p. 203), invece, sottolinea come κατέθεντο non possa in questo
caso essere costruito con il complemento diretto. Tenendo conto del fatto che·
(i) i vari significati del termine γνώμη sono riconducibili essenzialmente a
giudicare, pensare e (conseguentemente) decidere; (ii) nel contesto γνώμας si
dovrebbe rendere con «opinioni», «giudizi», «punti di vista»; (iii) esiste nei
codici DEF la variante γνώμαις: se accolta, la traduzione dovrebbe risultare:
«[Uomini] stabilirono, infatti, due forme per nominare sulla base delle [loro]
opinioni»; (iv) in alternativa γνώμας potrebbe essere inteso come accusativo di
relazione (Frére: «en leurs jugements») – tutto ciò considerato, optiamo per la
soluzione più lineare: quella di intendere κατέθεντο γνώμας come «risolvettero
i [loro] punti di vista» e dunque tradurre «presero la decisione», «si decisero
a». Va menzionata l'analisi di Mourelatos (pp. 228-9), che riscontra nel verso
una costruzione a conferma della sua lettura "anfilogica" della
sezione: l'effetto sarebbe quello di far avvertire all'uditore/lettore la
tensione tra γνώμην κατέθεντο («essi decisero») e κατέθεντο δύο γνώμας (l'opposto:
«essi erano di due opinioni, vacillavano»; situazione che può richiamare quanto
espresso da δίκρανοι, B6.5). 14 Palmer (Parmenides & Presocratic
Philosophy, cit., p. 354) ha di recente sottolineato come γὰρ qui abbia poco
senso nel contesto, in quanto quel che segue non sembra giustificare le
affermazioni della dea nei vv. 51-2: assumerebbe altro valore accettando la
proposta di Ebert di "restaurare" i vv. 34-41 dopo il v. 52. In
realtà la Dea, in quel che segue, illustra proprio come e dove possa annidarsi
la distorsione nel punto di vista umano che va a presentare. 15 La decisione di
nominare implica un’arbitrarietà che Parmenide ha già stigmatizzato in
B8.38b-39: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ
Perciò tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che
fossero reali. Sullo stesso motivo ancora in B19: 180 οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ
τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι
κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ. Così appunto, secondo opinione, queste cose ebbero
origine e ora sono, e poi, a partire da ora, sviluppatesi, moriranno. A queste
cose un nome gli uomini imposero, particolare per ciascuna. Se teniamo conto
della proposta di restauro del testo (vv. 34-41 dopo v. 52) da parte di Ebert,
potremmo effettivamente concludere che l'arbitrio della convenzione linguistica
è indissociabile dalla concezione parmenidea della Doxa. Leszl (p. 230) ha
colto in questo un’anticipazione della distinzioneopposizione tra nomos e physis.
16 Interessante la proposta di Leszl (p. 230): egli suppone infatti che δύο
abbia una doppia associazione, traducendo: «i mortali con doppia mente hanno
dato nome a due forme». La descrizione dei mortali corrisponderebbe così a
quella di B6.4-5. 17 Il valore di μορφαί sarebbe nel contesto, secondo Cerri
(p. 246) quello di strutture categoriali, create dall'uomo in funzione delle
sue (due) sensazioni più urgenti, sulla base delle quali si costruirebbe
successivamente la trama complessa delle parole. Un parallelo in Platone, che
sembra evocare direttamente il verso parmenideo: θῶμεν οὖν βούλει, ἔφη, δύο εἴδη
τῶν ὄντων, τὸ μὲν ὁρατόν, τὸ δὲ ἀιδές vuoi che stabiliamo, disse, due categorie
di tutto ciò che è, l'una del visibile, l'altra dell'invisibile? (Fedone 79 a
6-7). Nella stessa direzione Robbiano (op. cit., p. 181), che vede nelle due
forme opposte la possibilità di ridurre il molteplice dell'esperienza «to a
minimal number of categories». Per rimanere vicino all'uso arcaico del termine,
Cordero (By Being, It Is, cit., p. 156) insiste per rendere μορφαί come
«external forms». Analogamente Frére (p. 204) – che opta per «figures», anche
alla luce del successivo riferimento a δέμας, che designa corpo e aspetto
fisico - e Mourelatos, che rende con «perceptible forms». Granger (“The
Cosmology of Mortals”, in Presocratic Philosophy, cit., p. 112) osserva come la
scelta di μορφαί (che significa appunto anche «forme esteriori», «apparenze per
un osservatore») potrebbe segnalare il fatto che la dea si è volta dalla realtà
alle apparenze. 181 delle quali l’unità18 non è [per loro]19 necessario
[nominare]20: in ciò sono andati fuori strada21 . 18 L'interpretazione del
valore di τῶν μίαν è stata oggetto di interminabile dibattito (che origina
nell'antichità!). La traduzione più fortunata è quella (proposta tra gli altri
da Zeller e alla fine accolta anche da Diels, inizialmente critico) che intende
rilevare come, delle due forme imposte dai mortali, una non avrebbe dovuto
essere introdotta, una è «di troppo» (ci si riferisce spesso alle due forme
come repliche di Essere e Non-Essere: la seconda non avrebbe dovuto essere
nominata); ciò costituirebbe l'errore dei mortali secondo la Dea. Si tratta di
fatto dell’interpretazione di Aristotele; essa è stata oggetto di critica, in
quanto: (i) da un punto di vista linguistico intende μίαν come se fosse ἑτέρην
(non si potrebbe leggere in μίαν il significato di «una delle due»); (ii) da un
punto di vista interpretativo accosta arbitrariamente essere e luce e
non-essere e tenebra. Una seconda linea di lettura (proposta tra i
contemporanei in particolare da Kirk-Raven) sottolinea come i mortali abbiano
stabilito di nominare due forme, di cui non si deve nominare una sola (cioè una
senza l'altra), come specificato da Raven: «two forms, of which it is not right
to name one only (i.e. without the other)». Coxon segue la stessa linea. Una
terza esegesi (anticipata da Reinhardt e Kranz e poi seguita Verdenius,
Deichgräber, Untersteiner, Pasquinelli, Schofield) fu proposta da Cornford, intendendo
τῶν μίαν οὐ = οὐδετέραν: i mortali hanno errato nell'introdurre (oltre
all'essere) due forme: nessuna delle due avrebbe dovuto essere nominata:
«mortals have decided to name two Forms, of which it is not right to name (so
much as) one». La Curd l'ha riproposta all'interno della sua analisi delle due
forme come «enantiomorfe». Tarán (p. 219) ha sottolineato come tale resa
sottintenda qualcosa (οὐδὲ μίαν) che il testo greco non propone. Una quarta
possibile interpretazione è quella che abbiamo seguito: si può ritrovare già
nell'edizione del poema di Diels (1897), ma è stata soprattutto ripresa e
approfondita da H. Schwabl ("Sein und Doxa bei Parmenides", «Wiener
Studien», 1953, p. 53 ss.) e poi adottata da Tarán («for they decided to name two
forms, a unity of which is not necessary»), Couloubaritsis e da Reale. Gli
uomini pongono due principi che non si possono ridurre a unità, in ciò cadendo
in errore. Il genitivo del pronome (τῶν) non può essere partitivo (in tal caso
avremmo ἑτέρην) ma collettivo, e riferirsi a entrambe le μορφαί. Conclusione:
μία (da intendere in senso numerico) deve essere «una unità» delle δύο μορφαί.
Insomma l'errore consisterebbe nel porre due forme e nel non cogliere che sono
riconducibili a un'unica realtà (l'essere). Fondamentale dunque l'accurata
traduzione di Schwabl dei vv. 53-4, che alcuni ritengono l'unica
grammaticalmente accettabile (Mansfeld, p. 126): denn sie legten ihre Meinung
dahin fest, zwei Formen zu benennen, 182 von denen die Eine (d.h. eine
einheitliche, die beiden zusammenfassende Gestalt) nicht notwendig ist; in
diesem Punkte sind sie in die Irre gegangen. Si tratta di una lettura
sollecitata dallo stesso commento di Simplicio (Fisica 31, 8-9): τοὺς τὴν ἀντίθεσιν
τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας [si sono ingannati] coloro
che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la
generazione. Su queste esegesi si diffonde Reale nel suo aggiornamento a
Zeller-Mondolfo, Eleati, cit., pp. 244 ss.. Di recente Palmer (op. cit., pp.
169-170) ha contestato la soluzione di Schwabl, ribadendo che il significato di
τῶν μίαν è «one of these», portando a esempio un testo di Erodoto (IX, 122),
dove, però τῶν μίαν è riferito a una pluralità di luoghi (πολλαὶ ἀστυγείτονες)
e non all'alternativa tra due elementi (che richiederebbe appunto ἑτέρην). 19
Importante per il senso complessivo stabilire se la mancata postulazione è tesi
della Dea ovvero parte della sua analisi dell'errore dei mortali. Abbiamo
scelto di seguire questa seconda opzione, che ci sembra suggerita anche dalla
relativa seguente. Dello stesso avviso J.H.M.M. Loenen, Parmenides Melissus,
Gorgias. A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorchum, Assen 1959, pp.
117-120. 20 L'espressione con valore modale χρεών ἐστιν richiede l'infinito:
sottintendiamo ὀνομάζειν. Nei precedenti (B2.5; B8.11, B8.45) Parmenide
utilizza εἶναι o πέλεναι, ma l'accusativo μίαν suggerisce nel contesto ὀνομάζειν.
21 Il perfetto medio-passivo πεπλανημένοι εἰσίν equivale a «si sono sbagliati»:
conserviamo il valore implicito in πλανάομαι. Coxon (p. 220) osserva come l'uso
del perfetto distingua l'allusione storica ai pensatori ionici dall'analisi
dello status delle due forme espresso dall'aoristo κατέθεντο. In particolare,
πεπλανημένοι εἰσίν richiamerebbe B6.4-6, per l'uso di πλάζονται (la variante
che Coxon accoglie in vece di πλάσσονται) e dell'espressione πλακτὸν νόον. In
questo modo si chiarisce anche che le allusioni di quel frammento erano ai
pensatori ionici. La natura dell'errore cui si allude dipende dalla lettura
dell'emistichio precedente: aver posto due principi, distruggendo il monismo
ontologico, ovvero aver posto due principi senza coglierne l'unità; aver posto
un solo principio. Secondo Patricia Curd (The Legacy of Parmenides…, cit., pp. 104
ss.) l'errore dei mortali sarebbe da ravvisare nel fatto che essi hanno fondato
la Doxa su due opposti di genere speciale: enantiomorphs, «oggetti che sono
immagini speculari l'uno 183 [55] Scelsero22 invece23 [elementi]24 opposti25
nel corpo26 e segni27 imposero dell'altro [...] definiti in termini di ciò che
l'altro non è» (p. 107), dunque in una sorta di intreccio di essere e
non-essere. Thanassas rimarca la connessione tra κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν e ἐν
ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν: la formula «in questo essi si sono ingannati»
concorrerebbe a restringere la validità del termine «ingannevole» alle
«opinioni mortali» criticate in 8.54- 9, così da aprire la possibilità di una
nuova comprensione della relativa incidentale (τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν). Essa
esprimerebbe esattamente l’errore denunciato in quel che segue, poi corretto
dalla «appropriata» Doxa divina (p. 65). 22 Seguiamo Coxon (p. 221) nel rendere
– secondo il consueto uso epico di κρίνεσθαι - ἐκρίναντο come «scelsero». Anche
in questo caso si pone il problema del soggetto: si tratta dello stesso
soggetto di κατέθεντο? Ovvero, come crede Frére (p. 204), di altro soggetto,
per cui «alcuni presero la decisione di dar nome a due forme» e «alcuni invece
scelsero ... e segni imposero»? Optiamo per la continuità di un soggetto
indefinito. 23 Traduciamo δέ attribuendogli valore avversativo (per lo più non
è tradotto o gli viene aatribuito valore copulativo), nella convinzione che la
Dea, faccia seguito al proprio rilievo critico del verso precedente. 24 Forzando
l'interpretazione, sottintendiamo «elementi» (e non genericamente «cose») nel
neutro plurale ἀντία. Simplicio in effetti parla di ἀρχαί e στοιχεία. Mansfeld
(p. 140), sulla scorta di Deichgräber, sostiene che i «segni» con cui sono
connotate le due forme concorrano a definire la nozione di «elemento», con cui,
nella sua trattazione, sostituisce il termine «forma». 25 Alcuni interpreti
(per esempio O' Brien e Frère) intendono ἀντία come avverbio («in modo
contrario», «oppositivamente») riferendolo alle due forme nominate,
«relativamente al corpo» (δέμας, accusativo di relazione). Altri, invece,
pongono δέμας come oggetto diretto di ἐκρίναντο e pongono l'avverbio in
relazione a esso. Coxon, dal canto suo, fa di πῦρ e νύκτα gli oggetti diretti e
di ἀντία un predicativo. Intendiamo ἀντία come neutro plurale. 26 Il termine
δέμας è sempre riferito a corpi viventi: secondo Coxon (p. 221) ciò rivelerebbe
che Parmenide considera le due forme come divinità. Conche (pp. 194-5) ritiene
che il significato omerico di forma corporea non possa funzionare nel contesto:
risalendo al valore di δέμω (che indicherebbe un certo modo di costruire, per
sovrapposizione di linee uguali), egli individua «struttura» come resa più
sensata. 27 Il termine σήματα avrebbe, secondo Cerri (p. 248), qui il valore di
«segni di lingua», «parole». Nella scelta di ἐκρίναντο e di σήματα, Mansfeld
(p. 131) 184 separatamente28 gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma
etereo fuoco29 , che è mite30, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico31
, coglie una ripresa della «disgiunzione» (κρίσις) di B2 e delle proprietà
dell’essere (B8). 28 Rendiamo χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων come espressione avverbiale,
per ribadire l'opposizione (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο). 29 Coxon (p. 221) ritiene che
Parmenide, pur concordando nella sostanza con Eraclito sul fatto che il fuoco è
costituente ultimo del mondo fisico, nella scelta della coppia luce-notte
rivelerebbe come sua fonte immediata la tavola degli opposti pitagorica.
Charles Kahn, invece - nel suo fondamentale Anaximander and the Origins of
Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 1994 (originariamente Columbia U.P., New
York 1960), p. 148 -, ha mostrato come l'espressione φλογὸς αἰθέριον πῦρ
risenta della omerica connotazione di αἰθέρ (da αἴθω, «accendere, infiammare»)
come «celestial light», originariamente indicante una condizione del cielo e
solo derivatamente l'elemento luminoso e raggiante connesso alla regione
superiore dell'atmosfera, a contatto con la copertura celeste (οὐρανός): nel
tempo, insieme al correlato ἀήρ, avrebbe modificato il proprio significato,
finendo nel V secolo a.C. per indicare una regione di puro fuoco (come ancora
attesta Anassagora in DK 59 B1, B2, B15). I sostantivi πῦρ e νύκτα (accusativi)
sottintendono un verbo reggente: nella nostra traduzione si tratta di ἐκρίναντο.
30 L'aggettivo ἤπιος è per lo più tradotto con «mite», che nel contesto, dopo
il richiamo a φλογὸς αἰθέριον πῦρ, potrebbe apparire insensato: in alternativa
Cerri (p. 249) propone «utile» o «propizio». Ma anche questa soluzione,
soprattutto nel confronto oppositivo con i «segni» di «notte oscura», appare
poco convincente. Manteniamo «mite», nel senso fisico, suggerito da Frére (pp.
207-8), di «non intenso». 31 La due forme - «fuoco etereo» e «notte oscura» -
sono poste a un tempo con la caratteristica identità uniforme dell'essere e con
la non-identità rispetto alla forma opposta. Si tratta di caratteri
fondamentali per l'interpretazione della cosmologia parmenidea: il sistema di
spiegazione adottato riflette proprietà emerse dall'analisi della Verità. Su
questo punto in particolare Graham (pp. 170-1). Couloubaritsis (Mythe et
philosophie cit., pp. 281 ss.) vede in questo rilievo una sorta di indulgenza
della Dea nei confronti dei «mortali» in questione, i quali si attengono
parzialmente alla legge dell'essere: ciò consentirebbe di riconoscere i
Pitagorici dietro alle espressioni parmenidee. Come abbiamo sopra ricordato,
Mansfeld (p. 140) individua nei «segni» con cui Parmenide connota le due forme
la nascita della nozione di «elemento»: 185 rispetto all’altro, invece, non
identico32; dall’altra parte, anche quello in se stesso33 , le caratteristiche
opposte34: notte oscura35, corpo denso e pesante36 . proprio «auto-identità» e
«non-identità» rispetto alla forma contraria ne sarebbero i costitutivi
concettuali decisivi. 32 Forse è proprio questo rilievo a segnalare il limite
della posizione criticata: come suggerisce Couloubaritsis (Mythe et philosophie
cit., p. 288) non aver saputo cogliere fino in fondo la legge della identità e
non aver posto, per la conoscenza, l'orizzonte dell'unità. È possibile che il
gioco di τωὐτόν - μὴ τωὐτόν richiami le «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) di
cui in B6.8-9a si dice: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν
[...] per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non
la stessa cosa. A questo ha di recente prestato attenzione Granger ("The
Cosmology of Mortals", in Presocratic Philosophy, cit., p. 111). Mansfeld
(pp. 133-4) ha osservato come l’identità dell’essere sia differente da quella
delle due forme: l’auto-identità dell’essere è identità nella quiete.
L’auto-identità delle forme, inoltre, è auto-identità di aspetto che non
esclude ma anzi concede allo stesso tempo una contraria auto-identità di aspetto.
Nehamas (“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, cit.,
p. 55) ha invece sottolineato come i due principi della Doxa - separati l'uno
dall'altro, ognuno completamente identico a sé e differente dall'opposto - non
si mescolino in alcun modo l'uno con l'altro: la loro «separazione radicale»
sarebbe dunque, «linguisticamente e filosoficamente», contraria alla «pervasiva
confusione di essere e non-essere» denunciata in B6. 33 Diels (DK vol. I, p.
240) legge κατ΄ αὐτό τἀντία come se αὐτό avesse valore avverbiale («gerade») e
κατὰ reggesse τἀντία («all'opposto»). 34 L'espressione τἀντία è qui intesa come
τά + ἀντία («gli opposti», «le cose opposte»), come oggetto indeterminato del
verbo reggente (ἐκρίναντο), utilizzato per introdurre il vero oggetto (νύκτα) e
le sue connotazioni. 35 L'aggettivo ἀδαής indica l'impossibilità di discernere,
percepire, conoscere (costruzione con alfa privativo del verbo δάω, «imparare»,
«conoscere», «percepire»): «absence de sens», secondo O'Brien (p. 60), ma anche
«absence de lumière» (δαίω). Liddell-Scott indica come secondo valore «oscuro»,
proprio in questa occorrenza nel poema di Parmenide. Coxon (p. 186 [60] Questo
ordinamento37, del tutto38 appropriato 39, per te40 io41 espongo42 , 223)
preferisce rendere l'aggettivo in senso attivo come «unintelligent». O'Brien in
francese rende con «l'obscure nuit», in inglese offre una versione più sfumata:
«dull mindless night». È da notare come questa connotazione di Notte possa
essere intesa in senso epistemico negativo (impenetrabilità conoscitiva): ciò
potrebbe aver spinto all'accostamento aristotelico tra Notte e non-essere. Su
questo si veda Granger (op. cit. p. 113). Da osservare inoltre che alcune delle
caratteristiche qui associate a νύξ (in particolare oscurità e densità)
richiamano quelle arcaiche di ἀήρ, connotata come nebbia densa, oscura, fredda
(per esempio Esiodo, Opere e giorni 547-556). Sulla origine e sui caratteri
degli elementi nella cultura greca arcaica è ancora essenziale il contributo di
Kahn, op. cit., pp. 119-165. A proposito di ἀήρ le evidenze testuali mostrano
come in origine il termine non designasse una regione o un elemento specifico,
ma una condizione: la condizione che rende invisibili le cose, assimilabile
dunque sia a νέφος (nuvola) sia all'oscurità, intesa come positiva realtà (p.
143). 36 Mansfeld (pp. 132-3) vede nella corrispondente sequenza di segni delle
due forme tre distinti aspetti: (i) denominativo (αἰθέριον πῦρ/νύξ), (ii)
teoreticoconoscitivo (ἤπιον/ἀδαῆ), (iii) fisico (μεγ’ ἀραιὸν/πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές
τε). Una quarta corrispondenza è ritrovata nel rilievo della comune
autoidentità e etero-differenza delle due forme. 37 Mourelatos (p. 230) coglie
nell'uso di διάκοσμος un aspetto decettivo. Esso può indicare «ordine del mondo»,
ma suggerire anche attività: un ordinamento in divenire nel tempo, una
cosmogonia. Inoltre, in relazione a τἀντία e τ΄ ἐναντίον (B12.5),
l'implicazione di ordine (κόσμος) di διάκοσμος sarebbe rovesciata nel senso di
«segregazione, divisione»: il κόσμος dei mortali sarebbe dunque, in realtà, un
campo di battaglia. Il termine è tuttavia impiegato anche in Aristotele per
indicare l'ordinamento cosmico pitagorico e in genere anche nella forma verbale
διακοσμεῖν conserva una valore positivo. Robbiano (op. cit., p. 183),
riprendendo la propria interpretazione del termine κόσμος, osserva come
διάκοσμος sia qui utilizzato per ribadire all'audience che il kosmos non è un
aspetto della realtà, non esiste oggettivamente; che vedere un kosmos è vedere
ed esprimere la realtà usando parole. Thanassas (Parmenides, Cosmos, and
Being…, cit., pp. 64-5) osserva, invece, come il termine diakosmos implichi un
intreccio delle due forme, che prelude alla introduzione della nozione di
mescolanza, impiegata per la Doxa “appropriata”. In questo senso, le
espressioni «ordine ingannevole delle mie parole» e «ordinamento del mondo del
tutto appropriato» denoterebbero due diversi livelli e obiettivi della Doxa: è
importante che essi non siano confusi (pp. 67-8). 187 38 Mourelatos e Couloubaritsis
intendono πάντα come aggettivo, concordato con τόν διάκοσμον: «this whole
ordering [system, framework]»; «l'ordonnance totale». 39 Il significato del
participio ἐοικώς usato con valore assoluto è secondo Liddell-Scott «seeming
like, like» ovvero «fitting, seemly». La verosimiglianza è qui da intendere in
relazione ai caratteri attribuiti alle due forme, in analogia con quelli
dell'essere. Ruggiu osserva come, per connotare la doxa, Parmenide ricorra ad
aggettivi, con caratterizzazione positiva, che hanno radice nell'apparire: ἐοικώς
e δοκίμως (B1.32). RealeRuggiu scelgono comunque di rendere ἐοικώς come
«veritiero», seguendo Schwabl e il suo suggerimento di leggere l'aggettivo
«sulla base del linguaggio spontaneo di Omero» (p. 323), piuttosto che con
quello della (posteriore) sofistica. In Omero effettivamente il significato
prevalente di εἰκώς è «appropriato, adeguato». Untersteiner (pp. CLXXVII ss.),
in questo senso, insiste sul nesso con Senofane B35 (ἐοικότα τοῖς ἐτύμοισιν),
marcando l'accordo e la coerenza con i fatti. Anche Couloubaritsis (Mythe et
Philosophie chez Parménide, cit., pp. 264-5) sottolinea la positività del
termine, optando per il valore di «conveniente», adeguato, analogo a quello
(appunto) dell'avverbio δοκίμως. La dea segnalerebbe al giovane la propria
intenzione di esporre l'ordinamento delle cose «che conviene», cioè tenendo
conto della critica rivolta ai mortali (B8.54). Di diverso avviso Mourelatos
(p. 231), per il quale anche ἐοικότα manifesterebbe lo stesso gioco di positività
e negatività che in genere impronta la Doxa parmenidea: per i mortali non
iniziati ἐοικότα significherebbe «adeguato, appropriato, probabile», per la dea
e il kouros «apparente». Per Robbiano (op. cit., p. 183), la dea ricorrerebbe
qui a ἐοικότα per correggere l'impressione negativa che l'audience poteva
associare al precedente κόσμον ἀπατηλὸν. Leszl osserva (p. 223) come in questo
verso di solito si renda διάκοσμον ἐοικότα come «ordine (disposizione di cose)
conveniente», ritenendo che ἐοικώς non possa qui valere come «simile (a
qualcosa)», in quanto sarebbe assente il termine di paragone. Ammettendo
tuttavia che in questo verso vi sia un richiamo al v. 52 (κόσμος-διάκοσμος) e
che la descrizione tradizionale (omerico-esiodea) della falsità sia quella di
dire cose simili a quelle vere (ἐτύμοισιν ὁμοῖα), in effetti il termine di
paragone risulterebbe introdotto indirettamente: l'essere, concepito come la
realtà genuina. 40 Si susseguono i due pronomi personali σοι ἐγὼ: abbiamo di
nuovo ben marcato nell'interlocutore diretto il destinatario dell'esposizione
ancora rivendicata dalla dea. Qui il dativo è di interesse (Coxon p. 223). 41
Coxon (p. 223) rileva come, nonostante la dea attribuisca la «decisione di
nominare due forme» e la scelta di luce e notte agli esseri umani,
considerandole integrali alla natura dell'esperienza umana, ella invece
sottolinea con ἐγώ che il sistema del mondo (caratterizzato come ἐοικώς) è 188
così che mai alcuna opinione43 dei mortali possa superarti44 . suo. Un aspetto
rilevato anche da Thanassas (op. cit., p. 71): il pronome personale ἐγώ, in
greco non necessario, sarebbe impiegato per enfatizzare il carattere rivelativo
di quel che segue, così segnando il passaggio dalla Doxa ingannevole a quella
appropriata. 42 Coxon (p. 224) intende φατίζω come «io dichiaro», modificando
la struttura della frase: «This order of things I declare to you to be likely
in its entirety». Couloubaritsis (Mythe et philosophie, cit., pp. 262-3)
sottolinea come, nel linguaggio corrente, φατίζω fosse utilizzato per indicare
una promessa, un impegno. Come se la scelta verbale di Parmenide impegnasse la
Dea nella esposizione che segue. Interessanti le implicazioni lessicali: il
sostantivo φάτις in effetti significa «parola», in particolare la parola di un
dio o di un oracolo; ma anche «ciò che si dice di qualcuno», una «voce» e, di
conseguenza, «la rinomanza». Si tratta, dunque, di espressione ambigua, il cui
valore oscilla tra «verità» e discorso inverificabile. Utilizzato dalla Dea,
φατίζω viene da un lato a significare parola vera (B8.35), che dovrà permettere
al giovane di acquisire rinomanza, così da risultare credibile come «uomo
divino» (θεῖος ἀνήρ). Questo spiegherebbe, secondo Couloubaritsis, il passaggio
alla proposizione conclusiva: nessun sapere umano potrà superare quello così
acquisito dal giovane. In ogni caso, anche per una valutazione complessiva
della sezione sulla Doxa, è opportuno marcare (seguendo Frère, op. cit., p.
209) come φατίζω rinvii, all'interno di questo frammento, alla parola che
manifesta l'Essere (vv. 35-36a: οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν,
εὑρήσεις τὸ νοεῖν). 43 Il termine γνώμη ha uno spettro semantico piuttosto
ampio, che spazia da «pensiero», «giudizio», «opinione», a «decisione»,
«massima pratica», «proposito». Reale-Ruggiu (pp. 316-7) interpretano
l'espressione βροτῶν γνώμη come se non indicasse semplicemente altre opinioni,
altri giudizi «dei mortali», ma una forma di "saggezza" (come quella
veicolata attraverso gli enunciati "gnomici" appunto, massime di
saggezza pratica) tutta umana, che si riduce a mere parole. Tarán traduce in
effetti come «wisdom» e Couloubaritsis come «savoir». 44 Il verbo παρελαύνω ha
il significato di «passare», «superare». Mourelatos (p. 226 nota) osserva che
il verbo appartiene al vocabolario delle corse di carri. Il senso sarebbe
dunque da rintracciare nel superamento/sorpasso («outstrip»), ma anche nel
rivelarsi superiore in ingegno («outwit»). Untersteiner ha sottolineato anche
il valore di «portare fuori strada», «sviare», seguito da Reale-Ruggiu e anche
da Cerri. Manteniamo la traduzione più comune. Su questa conclusione ha fatto
per molto tempo leva l'interpretazione "dialettica" della Doxa
parmenidea: uno strumento, il migliore possibile, per concorrere con successo
con cosmologie rivali. Ma pur sempre "ingannevole"! Una recente
ripresa, ben argomentata, è quella di 189 Granger (op. cit., pp. 102-3):
l'impegno della Dea sarebbe stato quello di fornire il miglior strumento per
individuare l'inganno che si annida nelle cosmologie. Nella misura in cui il
giovane allievo fosse stato in grado di riconoscere i difetti del pensiero dei
mortali nella cosmologia che la Dea aveva approntato, nessuna opinione mortale
avrebbe più potuto sorprenderlo: la cosmologia più ingannevole, in effetti, è
quella più vicina alla realtà. Tarán (p. 207) aveva marcato come i due versi
finali del frammento non affermino che la ragione per esporre il διάκοσμος sia
che esso è il migliore, ma solo che l’intero ordinamento è offerto perché
nessuna sapienza umana possa superare Parmenide. 190 DK B9 αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα
φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται1 καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν
πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα
μηδέν. [Simplicio, In Aristotelis Physicam 180] 1 La forma verbale ὀνόμασται è
in realtà nei codici DEF2 ὠνόμασται, corretta dagli editori per ragioni
metriche. 191 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate1 , e
queste2 , secondo le rispettive3 proprietà4 , [sono state attribuite] a queste
cose e a quelle5 , tutto6 è pieno ugualmente7 di luce e notte invisibile8 , 1
Coxon (p. 232) difende l'inversione tra soggetto e predicato: dal momento che
in B8.53-59 si parla di nominare due forme, «luce e notte» dovrebbero essere
soggetto della proposizione, mentre «tutte le cose» diventerebbe predicativo. I
due nomi sarebbero, insomma, la sostanza della molteplicità di enti fisici. 2
Il pronome dimostrativo neutro plurale τά secondo Tarán (p. 161), seguito da
Conche (p. 198), si riferisce a φάος καὶ νὺξ; Diels, invece, seguito da altri
(per esempio Pasquinelli, Coxon), lo intende riferito a ὀνόματα. Gigon,
Fränkel, Raven rendono il verso come espressione semplice: le cose in accordo
con le qualità di luce e notte sono state attribuite a queste cose e a quelle.
3 L’aggettivo possessivo σφετέρας può essere tradotto con valore riflessivo
(«proprie») o meno: il valore dipende dalla decisione circa il significato da
attribuire a τά. 4 Il termine δυνάμεις avrebbe qui, secondo Tarán (p. 162) e Coxon
(p. 233) un valore analogo a quello di σήματα. Conche (p. 199), a nostro avviso
giustamente, interpreta come le «qualità opposte» associate a luce e notte.
Untersteiner (p. CLXXXIV, nota 66) vi coglie invece sinonimia con φύσις. In
effetti il termine dovrebbe nel contesto significare proprietà, qualità
essenziale. È vero però che la dimensione entro cui Parmenide inserisce la Doxa
è certamente anche linguistica, donde la scelta di Tarán di tradurre con
«meanings». Coxon sottolinea nella implicazione tra δύναμις e μορφή un
carattere della posteriore associazione tra δύναμις e ἰδέα o εἶδος. 5
L'espressione ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς si riferisce agli enti fisici, con i loro
opposti caratteri. 6 Il pronome πᾶν può essere riferito al Tutto ovvero a
«tutte le cose», alla totalità delle cose: nel secondo caso, è l'insieme delle
cose a essere pieno di luce e tenebra, non ogni singola cosa. B12.1 sembra
avvalorare la seconda lettura, così come Teofrasto in DK 28 A46. Tra gli altri,
Tarán (p. 162), Coxon (p. 233), e Gallop (p. 77) la sostengono. Conche (p. 200)
esplicitamente contesta questa lettura: come è possibile che la totalità delle
cose sia ripiena a un tempo di luce e notte se non non lo sono anche le singole
cose? Guthrie (vol. II, p. 57) e Cerri (p. 255) insistono sulla equipollenza
quantitativa. Ruggiu (p. 328) esplicitamente sottolinea come «ogni cosa sia
costituita insieme e ugualmente di Luce e Notte». 192 di entrambe alla pari9 ,
perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla 10 . 7 L'avverbio ὁμοῦ può rendersi
come «insieme», «allo stesso tempo», «egualmente». Se il valore sia da
intendere nel senso di una rigorosa misura quantitativa, dipende da come si
interpreta πᾶν. 8 L'aggettivo ἀφάντου è usato per marcare come, benché
invisibile, la notte, opposta alla luce, è pur qualcosa (Coxon p. 233). 9
All'espressione ἴσων ἀμφοτέρων si può riconoscere valore quantitativo - come
fanno Diels e Reinhardt e di recente, per esempio, Cerri (p. 255), per il quale
Parmenide preciserebbe come i due principi debbano essere quantitativamente
equipollenti – ovvero, come preferisce Tarán (p. 163), interpretare nel senso
di una equivalenza funzionale, ovvero di status o potere, come vuole Coxon (p.
233). Empedocle (DK 31, B17.27): ταῦτα γὰρ ἶσά τε πάντα καὶ ἥλικα γένναν ἔασι questi
sono infatti tutti uguali e coevi, sembra alludere a una equivalenza (non
quantitativa) di funzioni delle quattro radici. Le due «forme» concorrono alla
composizione del mondo: la loro complicità nell'opposizione assicura la
stabilità del mondo (Conche, p. 201). L'idea di un equilibrio di forze,
tuttavia, sembra comportare una interpretazione quantitativa. 10 L'espressione ἐπεὶ
οὐδετέρῳ μέτα μηδέν è stata variamente tradotta, ciò comportando una diversa
accentuazione del suo senso complessivo: (i) Diels, Burnet, Reinhardt,
Cornford, Riezler, Untersteiner: «poichè nessuna delle due ha potere
sull'altra»; (ii) H. Gomperz, Coxon: «con nessuna delle due c'è il vuoto»;
(iii) Schwabl, Kirk-Raven, Beaufret, Hölscher, Mourelatos,
Kirk-Raven-Schofield, Austin, Reale, Palmer: «poiché insieme a nessuna delle
due è il nulla» (ovvero, Mourelatos: «since nothingness partakes in neither»);
(iv) Zafiropulo, Casertano: «perché non esiste alcunché che non dipenda
dall'una e dall'altra»; (v) Fränkel, Calogero, Verdenius, Tarán, O'
Brien:·«perché non c'è nulla che non appartenga all'uno o all'altro dei
principi»; (vi) Guthrie, Conche, Pasquinelli, O'Brien, Tonelli: «poiché niente
partecipa di nessuna delle due». Abbiamo preferito la terza soluzione, in
quanto sembra marcare con decisione la svolta rispetto all'errore imputato alle
«opinioni mortali» criticate in B8.53- 59: come sottolinea Ruggiu (p. 329), il
rilievo della Dea ribadisce come tutte le cose siano, come in esse si manifesti
l'Essere. La lettura di Simplicio sembra corroborante: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν
[...] εἰ δὲ μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι
δηλοῦται 193 e poco dopo ancora [citazione B9]; e se «insieme a nessuna delle
due è il nulla», egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono
opposti. Da segnalare come Gomperz e Coxon (suo allievo) ritornino sulla
questione dell'equazione nulla-vuoto: in un contesto fisico – secondo lo
studioso anglosassone (p. 234) – μηδέν significherebbe spazio vuoto, la cui
esistenza Parmenide avrebbe rigettato implicitamente (in B8, insistendo sul
pieno), Melisso esplicitamente. 194 DK B10 εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι
πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν1 ἐξεγένοντο,
ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα2 σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν
ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν3 ἔφυ τε4 καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων.
[Clemente Alessandrino, Stromata V, 14 (419)] 1 Si tratta di correzione degli
editori; il codice di Clemente riporta ὁπόθεν. 2 Gli editori moderni hanno
corretto la forma περὶ φοιτά del codice di Clemente in περίφοιτα. 3 Il codice
di Clemente riporta, dopo ἔνθεν, μὲν γὰρ, poi espunto dagli editori. 4 La forma
ἔφυ τε è correzione moderna: il codice di Clemente riporta ἔφυγε. 195
Conoscerai1 la natura2 eterea3 e nell’etere tutti i segni4 e della pura5 fiamma
dello splendente6 Sole le opere invisibili7 e donde ebbero origine8 , 1 La
forma del futuro εἴσῃ, come la successiva εἰδήσεις, è epica. Da sottolineare il
valore positivo del verbo: insieme a πεύσῃ e εἰδήσεις sottolinea la natura
programmatica del frammento e la sua funzione di cerniera nell'opera. 2 Il
termine φύσις è stato in questo contesto tradotto (Coxon, Conche) come
«nascita»: Parmenide non si proporrebbe di esporre la «costituzione» o
l'«essenza» (Diels traduceva con «Wesen») dell'etere o della luna, analizzarne
la composizione, ma di spiegare il loro venire a essere, la generazione dei
costituenti del mondo e la genesi dei fenomeni (Conche, pp. 204-5). Non pare
tuttavia naturale rendere l'espressione αἰθερίαν φύσιν come «la nascita
dell'etere», né necessario intendere «natura» come «essenza»: il riferimento
alla costituzione dei fenomeni implica, nel caso della cosmogonia della Doxa,
illustrarne l'origine. 3 Dalla testimonianza di Aezio (DK 28 A37) possiamo
intravedere come Parmenide intendesse αἰθήρ come l'atmosfera più pura,
rarefatta, nella quale si muovono gli astri, e ἀήρ, invece, si riferisse
all'atmosfera sublunare, dislocata a ridosso della superficie terrestre, più
densa, meno pura. 4 In questo caso σήματα assume il suo valore comune nella
lingua greca arcaica (Omero): gli astri intesi in generale come «segni» per
l'orientamento. 5 Il termine καθαρή, «pura», ha un valore prossimo a una delle
accezioni di εὐᾰγής (con alfa breve), utilizzato in questo verso nel senso di
«splendente» (εὐᾱγής con alfa lunga): si tratta di purezza anche in senso
religioso. 6 Abbiamo già detto di εὐᾱγής (con alfa lunga) con valore di
«splendente», da preferire all'altra forma, εὐᾰγής (con alfa breve), per
ragioni metriche (Cerri, p. 260). 7 L'espressione ἔργ΄ ἀίδηλα è attestata in
Omero, dove significa «azioni odiose» (Iliade V, 897): in questo contesto si
potrebbe rendere – come fanno molti traduttori - come «operazioni distruttive».
Ma l'aggettivo ἀΐδηλος – costruito con alfa privativo e la radice ἰδ- di
«vedere» - può indicare tanto la capacità di far sparire, rendere invisibile
(dunque «distruttivo»), quanto la indisponibilità alla vista (quindi «oscuro»,
«ignoto»). Nell'insieme il significato di «invisibile» appare più convincente.
Ricordiamo, inoltre, come fa notare Cerri (p. 260), che in B8.57 la Dea aveva
connotato il fuoco come ἤπιον (mite, utile). Conche (pp. 205-7) sostiene la sua
traduzione «les oeuvres destructrices du pur flambeau du brillant soleil»
rinviando alle funzioni cosmogoniche di Fuoco e Notte: la loro unione implica
generazione del mondo, la loro dissociazione distruzione del mondo. Nella
misura in cui il fuoco solare si purifica al punto di liberarsi dalla
componente notturna, 196 e le opere apprenderai periodiche9 della Luna
dall’occhio rotondo10 , [5] e la [sua] natura11; conoscerai anche il cielo che
tutto intorno cinge12 , donde ebbe origine13 e come Necessità14 guidando lo
vincolò15 a tenere16 i confini degli astri. esso diviene funesto e dunque
dissociatore della mescolanza e distruttore della realtà. 8 Il verbo (aoristo
medio) ἐξεγένοντο, alla terza persona, è riferito a tutti i termini elencati in
precedenza, e non semplicemente al neutro plurale ἔργ΄ ἀίδηλα: si troverebbe
altrimenti alla terza persona singolare. 9 Seguiamo Conche (pp. 207-8) nel
tradurre ἔργα περίφοιτα come «opere periodiche», evitando «vaganti», troppo
generico e fuorviante rispetto al senso implicito nell'aggettivo (che LSJ traducono
nel contesto come «revolving»): quello di una ripetizione costante: già
nell'ambito del pitagorismo, infatti, la lunazione sarebbe stata fissata in 4
periodi di 7 giorni. Il senso del rilievo parmenideo sarebbe allora quello di
sottolineare la periodicità dell'azione lunare. Tonelli (p. 137) preferisce
riferire a senso περίφοιτα a σελήνης («della luna errante»). 10 Qui κύκλωψ ha
il valore di «occhio rotondo» (LSJ «round-eyed») e non si riferisce ovviamente
al gigante dall'occhio solo, il Polifemo omerico. 11 In questo caso, come
scelgono di fare alcuni traduttori (per esempio Coxon, Conche), φύσις potrebbe
rendersi con il suo valore etimologico di «origine», «nascimento». 12
L'espressione οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (letteralmente «cielo che tiene intorno») si
riferisce alla funzione del cielo nel sistema astronomico di Parmenide: quella
di racchiudere in sé l'universo, l'insieme di etere (contenente gli astri) e di
aria (che fascia la Terra). 13 L'espressione interrogativa ἔνθεν ἔφυ
rivelerebbe l'insistenza sulla spiegazione a partire dall'origine (Conche, p.
209). 14 Ritroviamo Ἀνάγκη, a governare (ἄγουσα) il cielo e soprattutto a
costringere entro i limiti (ἐπέδησεν πείρατ΄ ἔχειν). In B8 Ἀνάγκη costringeva
l'Essere alla identità e immutabilità; qui garantisce l'ordine dell'universo e
la sua costanza. Coxon (pp. 229-230) sottolinea la relazione di somiglianza,
analoga a quella che intercorre (in conclusione di B8) tra le due forme e
l'Essere. 15 Letteralmente «legò» (ἐπέδησεν): torna anche in questo luogo l'eco
prometeica che il verbo porta con sé (Cerri, p. 262). 16 Significativo il fatto
che il Cielo abbia una doppia funzione: avvolgente (ἀμφὶς ἔχοντα) e limitante
rispetto alla marcia astrale (πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). 197 DK B11 πῶς γαῖα καὶ ἥλιος
ἠδὲ σελήνη αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν
1 μένος ὡρμήθησαν γίγνεσθαι2 . [Simplicio, In Aristotelis De Caelo 559] 1 I
codici DE di Simplicio riportano θερμῶν. 2 I codici AF riportano γίνεσθαι. 198
[...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune1 e la Via Lattea2 e l'Olimpo
estremo3 e degli astri l'ardente forza4 ebbero impulso5 a generarsi6 . 1
L'espressione αἰθήρ ξυνὸς si riferisce probabilmente al fatto che tutti gli
astri sono immersi nello spazio etereo. 2 La formula greca - γάλα οὐράνιον –
significa letteralmente «latte celeste». L'uso dell'aggettivo potrebbe
autorizzare a pensare (Conche, p. 211) che per Parmenide la Via Lattea fosse
composta di stelle. 3 Nel contesto l'espressione ὄλυμπος ἔσχατος - «Olimpo
ultimo» o «Olimpo estremo» - si riferisce chiaramente a quanto sopra abbiamo
trovato indicato come οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, «il cielo che tutto attorno cinge».
Esso costituisce l'estremo limite dell'universo, così forzando in circolo il
corso degli astri. 4 In Empedocle (DK 31 B115.9) abbiamo un'espressione
analoga: αἰθέριον μένος. Il valore di μένος sarebbe quello di forza vitale.
L'impiego dell'aggettivo θερμός si spiega con la natura ignea degli astri. 5
Significativo nel contesto il ricorso al verbo ὁρμᾶν, che sottolinea la spinta,
l'impulso interiore: è tale impulso a guidare il processo di costituzione delle
cose. In B12.4 Parmenide lo attribuirà alla potenza immanente di una δαίμων. 6
Come sottolinea la scelta espressiva (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), il contenuto del
frammento è comunque in continuità con il tema cosmogonico-cosmologico del
precedente. 199 DK B12 αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο1 πυρὸς ἀκρήτοιο2 , αἱ δ΄ ἐπὶ
ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ·
3 γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει [5] πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄4 ἐναντίον
αὖτις5 ἄρσεν θηλυτέρῳ. [vv. 1-3 Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; vv. 2-6
Simplicio, In Aristotelis Physicam 31] 1 I codici di Simplicio riportano παηντο
(Ea ), πάηντο (D1 ), πύηντο (D2E), ποίηντο (edizione aldina). Bergk ipotizzò
prima (1842) πλῆντο (adottato da Diels), quindi (1864) πλῆνται, per ragioni
metriche. Gli editori contemporanei sono divisi: alcuni (Tarán,
Kirk-Rave-Schofield, O'Brien) preferiscono πλῆνται, che risulta tuttavia più
improbabile dal punto di vista paleografico; altri la forma da noi adottata, πλῆντο,
che presenta difficoltà metriche. 2 La forma ἀκρήτοιο è correzione di Bergk: i
codici riportano ἀκρήτοις (DEa ), ἀκρίτοις (EF), ἀκρίτοιο (edizione aldina). 3
Il testo greco dei manoscritti DEF è πάντα γὰρ στυγεροῖο, problematico a
livello metrico. Karsten e Diels propongono l'introduzione del pronome ἣ dopo γὰρ.
Così ancora Cordero e Reale. Mullach preferì correggere πάντα in πάντηι,
seguito da alcuni editori (Tarán, Coxon, O' Brien). Altri, appoggiandosi al
manoscritto W, ignoto a Diels, leggono πάντων: così molti editori
contemporanei: Mansfeld, Kirk-Raven-Schofield, Conche, Gallop. Si tratterebbe
comunque, secondo Franco Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili…, cit., p.
86 nota), di congettura bizantina. 4 La forma μιγῆν τό τ΄ è correzione di
Bergk: i codici riportano μιγέν τότε (DE), μιγέν τότ΄ (F). 5 La forma αὖτις si
trova nel codice F: DE riportano αὖθις. 200 Quelle1 più strette2 , infatti, si
riempirono3 di fuoco non mescolato; le successive4 [si riempirono] di notte, ma
insieme si immette5 una porzione6 di fuoco; 1 L'articolo αἱ, qui usato con
valore pronominale, e l'aggettivo στεινότεραι si riferiscono probabilmente a
στεφάναι, come insegna Cicerone (DK 28 A37), il quale traduce il termine come
corona e orbis. Coxon (p. 235) osserva giustamente come i versi che precedevano
le citazioni di Simplicio dovessero vertere sugli elementi e sulla struttura
delle sfere, evocate senza dettagli o nomi qualificanti in apertura. 2 Simplicio,
nel contesto della citazione, si limita a dire che i versi seguivano un passo
sui due elementi, e non chiarisce quindi a quale sostantivo l'aggettivo si
riferisse: si intende comunemente στεφάναι. In questo senso στεινότεραι
qualificherebbe quelle «più strette», ovvero quelle «interne», dunque le corone
più vicine al centro del sistema. Nell'interpretazione complessiva che Diels
proponeva già nell'edizione del poema (1897), il riferimento sarebbe alle
corone interne di una doppia coppia, che costituirebbe centro e periferia del
sistema cosmico: (i) la coppia di corone non mescolate (quindi una esterna di
pura Notte, una interna di puro Fuoco) posta al centro costituirebbe la
struttura terrestre con la sua crosta solida e il suo interno infuocato (fuoco
vulcanico); (ii) quella alla periferia corrisponderebbe alla solida (di pura
Notte) parete esterna contenente (indicata anche come ὄλυμπος ἔσχατος in B11,
ovvero come «cielo che tiene tutto intorno», οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, in B10), e
alla corona di puro Fuoco, evocata in B11 come αἰθήρ τε ξυνὸς. 3 L'aoristo (πλῆντο)
di πίμπλημι significa decisamente «divennero\furono riempite»: Parmenide sta
dunque alludendo alla formazione delle corone (Coxon, p. 237). 4 L'espressione
αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς significa letteralmente «quelle sopra [ovvero dopo] queste»: per
mantenere l'ambiguità di riferimento, abbiamo deciso di rendere con «le
successive» (così Tonelli). I due pronomi dimostrativi (αἱ e ταῖς) si intendono
riferiti sempre a στεφάναι: il problema è capire esattamente a quali «corone»
si alluda. Nell'ipotesi di Diels, di recente rilanciata da Ferrari, si
tratterebbe delle corone comprese tra la coppia centrale e quella periferica
(composte di "elemento puro", di Fuoco all'interno, di Notte
all'esterno); corone "miste" di Notte e Fuoco. 5 Si passa dal passato
(πλῆντο) al presente (ἵεται), forse per marcare la perduranza degli effetti
cosmogonici: il valore dei versi è dunque sia cosmogonico sia cosmologico. 201
in mezzo a queste7 la Dea8 che tutte le cose governa9 . 6 Letteralmente αἶσα –
termine omerico - si dovrebbe tradurre con «parte». Parmenide preferisce
l'espressione poetica, rara negli autori presocratici, a μέρος. 7 L'espressione
ἐν δὲ μέσῳ τούτων è ambigua, come fa notare tra gli altri Tarán (p. 248): essa
può riferirsi al centro dell'universo o al centro delle «corone miste». Nel
contesto la seconda sembrerebbe la soluzione più naturale. 8 Aëtius
esplicitamente identifica la δαίμων con una delle «corone miste»: τῶν δὲ συμμιγῶν
τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ
γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει
Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone frammiste [di fuoco e oscurità], quella
centrale è principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica
anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (DK
28A37), facendola coincidere con Δίκη e Ἀνάγκη. In tal modo egli salda nella
teogonia e cosmogonia della Doxa i riferimenti sparsi in B1, B8 e B10 a Δίκη e Ἀνάγκη.
Ma Simplicio, evidentemente interpretando diversamente da Aëtius il riferimento
di ἐν δὲ μέσῳ τούτων, intende la dea come collocata al centro dell'universo: καὶ
ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην
καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente
una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione
(contesto di B12). Qualcuno ha suggerito che ciò avvenisse in quanto il
commentatore accostava la δαίμων parmenidea alla Hestia pitagorica: si veda,
per esempio Filolao B7: τὸ πρᾶτον ἁρμοσθέν, τὸ ἕν, ἐν τῶι μέσωι τᾶς σφαίρας ἑστία
καλεῖται la prima cosa ben composta, l'uno, nel mezzo della sfera si chiama
Hestia (DK 44 B7). 9 L'espressione δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ sarebbe, secondo Tarán
(pp. 248-9), probabilmente connessa con l'idea, più o meno corrente all'epoca
di Parmenide, di una divinità suprema che governa l'universo. Coxon (p. 242)
202 Di tutte le cose ella sovrintende 10 all'odioso 11 parto e all’unione12 ,
[5] spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile13, e, al contrario, il
maschile al femminile. vi ha voluto cogliere un'analogia con Eraclito, per cui
il potere razionale del fuoco governa ogni cosa (DK 22B41). 10 Il senso più
appropriato di ἄρχει, in un contesto in cui si parla dell'azione della «Dea che
tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ), sembra essere quello di «presiede»,
«sovrintende». Si potrebbe rendere anche come «è principio di» ovvero «è
all'origine di». 11 L'uso di στυγερός (da στυγέω, «avere in orrore»)
rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, eco della Stimmung della sua
epoca, come riscontrato soprattutto nella poesia, epica e lirica. Da notare
(Conche, pp. 225 ss.) che in questo caso il riferimento non è esclusivamente
alla nascita umana, ma alla genesi di tutte le cose: la condanna del filosofo
sarebbe rivolta al divenire come tale (p. 227). Altri, tuttavia, attenuano il
senso negativo dell'aggettivo proprio in relazione al sostantivo τόκος,
traducendo «doloroso [ovvero duro] parto» (Reale), riferendolo quindi
esclusivamente alla pena del travaglio, non ai suoi effetti. 12 Il greco μῖξις
è reso, alla luce del verso successivo, come unione «sessuale», «coito»
(Cerri), «amplesso» (Tonelli). In realtà non si deve dimenticare che qui il
poeta si riferisce non solo all'unione sessuale di maschio e femmina, ma in
genere all'unione dei due principi. 13 Le forme aggettivali sostantivate τό ἄρσεν
(il maschile) e τό θῆλυ (il femminile) alludono forse - come nella tradizione
pitagorica (secondo quanto attesta Aristotele) - alla riduzione del primo
elemento alla luce e del secondo alla notte. 203 DK B13 πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν
μητίσατο πάντων… [v. 1 Platone, Simposio, 178b; Plutarco, Amatorius 13; Sesto
Empirico, Adversus Mathematicos IX, 9; Stobeo, Anthologium I, 9, 6; Simplicio,
In Aristotelis Physicam 39; v. 1b Aristotele, Metafisica, 1, 4 984 b 23] 204
Primo tra gli dei tutti ella1 concepì2 Amore. 1 La δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ di
B12. 2 Traduciamo in questo modo (ambiguamente) μητίσατο: il senso – nel contesto
garantito dalle testimonianze di Platone e Aristotele (che pur lasciano incerto
il riferimento al soggetto), Plutarco (che riferisce il verbo a Afrodite) e
Simplicio (che invece esplicitamente identifica il soggetto nella δαίμων di
B12) - dovrebbe essere quello di generare, ma il significato del verbo μητιάω è
«meditare, deliberare, pianificare». Il verbo qualifica dunque la dea come una
potenza razionale (Coxon, p. 243). 205 DK B14 νυκτιφαὲς 1 περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον
φῶς… [Plutarco, Adversus Colotem 1116 A] 1 La forma νυκτιφαὲς è correzione
dello Scaligero: il codice di Plutarco riporta νυκτὶ φάος. 206 di notte
splendente1 , vagando intorno alla Terra2 , luce d'altri3 1 Il composto greco
νυκτιφαὲς significa letteralmente «di notte visibile\splendente». Come fa
notare Cerri (p. 274), in tutti i composti del tipo νυκτι- il primo elemento ha
valore di determinazione temporale («di notte»). Questo è il senso che anche
Conche (pp. 234-5) attribuisce al composto νυκτιφαὲς: «brillant la nuit»,
contestando la poco convincente resa di Coxon («shining like night»?!).
L'aggettivo ricorre solo un'altra volta in Orphica, Hymnii 54, 10: ὄργια
νυκτιφαῆ, in relazione ai riti dionisiaci, che si tenevano (evidentemente) alla
luce delle torce. Aristotele documenta analoga interessante costruzione in
riferimento al Sole: νυκτικρυφές, «di notte nascosto». Rivendicato da Jaeger
come citazione parmenidea, l'aggettivo è stato accolto come frammento nella
edizione Untersteiner. Lo facciamo seguire come B14a. 2 L'espressione περὶ γαῖαν
ἀλώμενον riferisce alla Luna il moto di rivoluzione intorno alla Terra: in
B10.4 Parmenide aveva usato la formula ἔργα τε κύκλωπος περίφοιτα σελήνης («le
opere periodiche della luna dall'occhio rotondo»), alludendo già con περίφοιτα
al regolare movimento (e quindi all'azione periodica) dell'astro. L'espressione
sembrerebbe poi implicare la sfericità della Terra, come attestato anche da
Teofrasto (Diogene Laerzio): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν
μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma
di sfera e giace al centro [dell'universo] (DK 28 A44). 3 L'espressione ἀλλότριον
φῶς, da intendere letteralmente come «luce altrui», si riferisce alla luce
riflessa della luna (luce «presa in prestito», come traduce Conche). Parmenide
consapevolmente gioca sull'assonanza con l'omerico ἀλλότριον φώς («straniero»).
Come osserva Cerri (p. 275), tale formula era evidentemente opposta a ἴδιον φῶς,
«luce propria». Espressione analoga in Empedocle (DK 31 B45): κυκλοτερὲς περὶ
γαῖαν ἑλίσσεται ἀλλότριον φῶς in forma di cerchio introno alla Terra si aggira
luce non propria (ovvero straniera). 207 B14a [...ἥλιος, ... τὸ περὶ γῆν ἰὸν ἢ]
νυκτικρυφές [Aristotele, Metafisica, VII, 15 1040 a31] 208 [... il Sole, ...
colui che va intorno alla Terra o] il di notte nascosto1 1 Secondo l'editore
della Metafisica - W.D. Ross – in questo caso Aristotele non avrebbe citato
Parmenide, ma forgiato il termine νυκτικρυφές in analogia con Parmenide
(νυκτιφαὲς). 209 DK B15 αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. [Plutarco,
Quaestiones Romanae 282 B; Plutarco, De facie in orbe lunae 929 B] 210 sempre
volta e attenta1 ai raggi2 del sole. 1 Il participio παπταίνουσα dovrebbe
letteralmente tradursi come «guardando attentamente». Come segnala Cerri (p.
276), è qui molto probabile che Parmenide giochi sulle implicazioni della
relazione tra i due termini, maschile (ἥλιος) e femminile (σελήνη): la Luna
innamorata volge il suo sguardo intenso verso il Sole. Immagine analoga in
Empedocle (DK 31 B47): ἀθρεῖ μὲν γὰρ ἄνακτος ἐναντίον ἁγέα κύκλον contempla di
fronte a sé il fulgido disco del suo signore. 2 Come osserva Cerri (p. 276), αὐγὰς
vale non solo «raggi» ma anche «sguardi». 211 DK B15a [Π. ἐν τῆι στιχοποιίαι] ὑδατόριζον
[εἶπειν τὴν γῆν] [Scolio a Basilio di Cesarea] 212 [Parmenide nei suoi versi
dice che la Terra] ha radici nell'acqua1 1 Secondo Conche (p. 242), che si
sofferma a lungo a chiarire l'affermazione di Basilio, la Terra cui si allude è
quella ricoperta di flora e fauna, la Terra vivente, di cui l'acqua è
effettivamente fonte di nutrimento. Non vi sarebbe dunque alcuna implicazione
genetica: alla luce delle testimonianze, non è l'acqua all'origine della Terra,
semmai il contrario. Coxon (pp. 246-7) ritiene, invece, che il riferimento sia
alla massa di terre emerse (forse per spiegare fenomeni come i terremoti). Di
diverso avviso, in passato Paula Philippson (Origini e forme del mito greco,
Torino 1949, pp. 269 ss.), che riscontra in questo riferimento all'acqua una
allusione al mito di Okeanos, che avrebbe circondato la Terra. 213 DK B16 ὡς γὰρ
ἑκάστοτ’ 1 ἔχῃ 2 κρᾶσιν3 μελέων πολυπλάγκτων4 , τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν5
· τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί·
τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ 6 νόημα. [vv. 1-4 Aristotele, Metafisica IV, 5 1009 b21;
Teofrasto, De sensu, 3; vv. 1-2a Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis
Metaphysicam (parafrasi del testo) IV, 5; Asclepio, In Aristotelis Metaphysicam
(parafrasi) 277; vv. 3-4 Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysicam
(parafrasi del testo) IV, 5] 1 Αlcuni codici aristotelici riportano ἕκαστος
(«ciascuno»), preferito da DielsKranz; altri ἕκαστοι o ἑκάστῳ. Il codice di
Asclepio ἕκαστον. Gli editori contemporanei (Tarán, Coxon, Conche, O'Brien,
Cerri) hanno optato per la versione di Teofrasto e di autorevoli codici
aristotelici (i più antichi) della Metafisica: ἑκάστοτε (lectio difficilior). 2
Seguiamo Coxon e Cerri nel preferire ἔχῃ - attestata da un solo codice (E)
aristotelico – a ἔχει (per lo più accolta dagli editori) o ἔχειν: come spiega
Cerri (p. 280), il congiuntivo ἔχῃ è non solo lectio difficilior, ma anche
scelta più sensata nel contesto. Passa (p. 48) sottolinea l'opportunità della
scelta di Cerri e Coxon, trovando riscontri nell'uso omerico delle comparative.
3 La forma κρᾶσιν è attestata in Aristotele e Teofrasto (in unione a ἔχει o ἔχειν).
Estienne modificò in κρᾶσις, ancora accolto da alcuni editori (Tarán,
KirkRaven-Schofield, O'Brien, Conche). A κρᾶσιν alcuni (Coxon, Palmer)
preferiscono la forma ionica κρῆσιν. Passa (p. 120) avanza perplessità in
proposito. 4 Il testo aristotelico, Alessandro e Asclepio riportano πολυκάμπτων
(«dai molteplici movimenti»). Il testo di Teofrasto πολυπλάγκτων, preferito
dagli editori. 5 I codici aristotelici (insieme a quelli di Alessandro e
Asclepio) riportano il presente παρίσταται, accolto da Diels-Kranz (e di
recente ancora difeso da Passa, pp. 48-51), di cui tuttavia è stata segnalata
l'impossibilità metrica. La tradizione teofrastea propone invece il perfetto
παρέστηκε (che ha esattamente lo stesso valore), metricamente accettabile. La
forma παρέστηκεν è degli editori. 6 I codici di Aristotele e Teofrasto
riportano ἐστὶ; quello di Alessandro λέγεται. 214 Come, infatti, di volta in
volta si ha1 temperamento2 di membra3 molto vaganti4 , così il pensiero5 si
presenta agli uomini6 : poiché è precisamente la stessa cosa 1 Attribuiamo al
verbo valore impersonale. Per l'alternativa costruzione personale sono state
proposte diverse possibili candidature al ruolo di soggetto del verbo: νόος del
v. 2 (Diels 1897: l'unico soggetto rafforzerebbe la correlazione ὡς... τὼς),
ovvero, adottando il testo greco di Diels-Kranz, ἕκαστος, o ancora un soggetto
implicito (Cerri: «qualcuno», «ciascuno», «l'uomo») o sottinteso (Ferrari: τις
βροτῶν Β8.61). Altri, emendando κρᾶσιν in κρᾶσις, hanno fatto della
«mescolanza» il soggetto. 2 Il termine κρᾶσις ha un valore più forte di μῖξις:
quello di perfetta fusione, mescolanza in cui non sia più possibile discernere
le componenti (come invece accade in una μῖξις, semplice mescolanza). La κρᾶσις
trasforma gli elementi in una nuova entità unitaria e armonica: per questo il
termine viene reso con «fusione» (Ferrari) ovvero «impasto» (Cerri), «unione»
(Tonelli). Va tuttavia osservato che, sulla scorta della testimonianza di
Teofrasto (DK 28 A46), anche tale amalgama presuppone una composizione
variabile dei due elementi base. Traduciamo quindi come «temperamento», anche
in considerazione della lezione che giunge dalla tradizione della medicina
ippocratica, dove l'idea di κρᾶσις era associata a quella di riconduzione del
molteplice a unità (Stemich, op. cit., pp. 157 ss.). 3 Ricordiamo che nei poemi
omerici il termine σῶμα non indica mai ciò che noi comunemente intendiamo con
«corpo», bensì il suo contrario, il «cadavere». Omero non rappresenta il corpo
dell’uomo come unità di una molteplicità: impiega infatti termini per lo più al
plurale, come μέλεα (o γῦια) appunto, che noi traduciamo con «membra». Ciò cui
qui Parmenide intenderebbe riferirsi con il termine μέλεα non sono dunque gli
«organi di senso» (Diels) o gli «elementi» (Schwabl), ma il corpo, come ha ben
rilevato Tarán (p. 170). È tuttavia interessante la proposta di Cassin-Narcy
(B. Cassin – M. Narcy, “Parménide Sophiste”, in Études sur Parménide, cit., II,
p. 289) di mantenere al termine la doppia significazione, riferendolo sia
immediatamente al corpo, sia mediatamente alle componenti universali. 4
Traduciamo l'espressione κρᾶσις μελέων πολυπλάγκτων come «temperamento di
membra molto vaganti [erranti]», intendendola riferita all'unità del corpo
umano, che è articolata appunto in appendici mobili, che si agitano in molte
direzioni. 5 Rendiamo il termine νόος con «pensiero» ritenendo che in questo
caso Parmenide non si riferisca genericamente alla facoltà (mente), ma alla sua
215 ciò che pensa7 negli uomini, la costituzione8 del [loro] corpo9 ,
condizione in relazione alla situazione del corpo. La costruzione dei primi due
versi e il loro contenuto propongono un'eco omerica: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων
ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli
uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini
e degli dei (Odissea XVIII, 136-7). 6 È significativo che in questo contesto la
Dea non ricorra a un'espressione come βροτοί ma a ἄνθρωποι: il termine assume
un valore descrittivo, marcando l'identica natura degli esseri umani «tutti»
(καὶ πᾶσιν καὶ παντί). 7 Ricostruzione letterale dei vv. 2b-4a: «perché è la
stessa cosa ciò che pensa (τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει) la natura del corpo
(μελέων φύσις) negli uomini, in tutti e in ciascuno (ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ
παντί)». Nella letteratura recente si è distinta la proposta (Thanassas, Meijer
e ora anche Marcinkowska-Rosół) di tradurre linearmente il testo greco,
supponendo νόος come soggetto (sottinteso) di ἔστιν: ὅπερ sarebbe complemento
oggetto e φύσις soggetto del verbo (φρονέει): perché [esso (il pensiero)] è
precisamente la stessa cosa che la costituzione del corpo pensa negli uomini,
in tutti e in ciascuno. Un'alternativa classica (Verdenius, ripreso da Vlastos
e, tra gli altri, da Hölscher, Barnes, Bormann, Mansfeld) è quella di fare di
φύσις a un tempo il soggetto di ἔστιν e φρονέει: «la natura delle membra è
negli uomini la stessa cosa che [essa] pensa». Tarán, Heitsch, Mourelatos,
Gallop, O'Brien, Gadamer (tra gli altri) hanno avanzato a loro volta una
traduzione letterale, che fa di φύσις μελέων il soggetto di φρονέει, di ὅπερ un
accusativo, e di τὸ αὐτό il soggetto di ἔστιν: «la stessa cosa, infatti, è ciò
che la natura delle membra pensa negli uomini». In questo modo si lega τὸ αὐτό
a ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί, marcando quindi l'identità dell'oggetto del
pensiero. 8 Intendiamo in questo contesto φύσις come «natura, costituzione» (μελέων
φύσις: «costituzione del corpo»). Giorgio Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p.
189) intende φύσις come «essenza»: il νόος, come elemento della struttura
dell'uomo, operebbe una fusione nella molteplicità delle «membra». Tonelli
riprende nella sua traduzione queste indicazioni. 9 Rendiamo il plurale μέλεα
come «corpo», secondo l'uso omerico segnalato sopra. 216 in tutti e in
ciascuno: ciò che prevale10 , infatti, è il pensiero11 . 10 In questo caso
intendiamo πλέον come comparativo di πολύ («molto»): τὸ πλέον non vale dunque
«il pieno» (πλέος aggettivo: «pieno»), ma «il più», «quanto prevale», riferito,
a quanto si ricava dal contesto della citazione teofrastea, agli elementi
(Fuoco-Notte, ovvero caldo e freddo). Teofrasto interpreta infatti: «la conoscenza
si produce secondo l'elemento che prevale» (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις).
Tra coloro che interpretano τὸ πλέον come «il pieno», interessante la posizione
di Tarán (pp. 256-60), che argomenta a lungo a partire dallo stesso contesto
teofrasteo. Teofrasto, infatti, citerebbe il frammento per marcare come
determinante per il pensiero non tanto l'elemento che prevale, ma una certa
proporzione tra i componenti (συμμετρία). Così, quando una certa proporzione
delle componenti di Luce e Notte è presente nel corpo, ne risulterebbe lo
stesso pensiero, dal momento che il pensiero è il risultato dell'intera
mescolanza. Coxon (p. 87) interpreta «the plenum» come «the subject whose
nature has been expounded in the Way of Truth»: esso sarebbe il solo contenuto
del pensiero. Recentemente M. Marcinkowska-Rosół, in Die Konzeption des
"Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p.
187, ha proposto di leggere τὸ come pronome dimostrativo (= τοῦτο) in funzione
prolettica, πλέον come avverbio, e ipotizzando una relativa in funzione di
completamento: «[denn dies ist mehr das Denken], was in der Mischung jeweils
überwiegt». 11 Qui νόημα è decisamente il risultato dell'atto di pensare. 217
DK B17 δεξιτεροῖσιν1 μὲν κούρους, λαιοῖσι δὲ 2 κούρας… [Galeno, In Hippocr.
Epid. VI, 48 (XVII, 1002)] 1 La forma δεξιτεροῖσιν è intervento degli editori:
il codice di Galeno riporta δεξιτεροῖσι. 2 Il testo di Galeno riporta δ’ αὖ:
per ragioni metriche è stato emendato in δὲ (Scaligero, poi Karsten). Cerri
(pp. 283-4) ha contestato tale emendazione come inutile banalizzazione. 218 a
destra1 i maschi, a sinistra le femmine. 1 Le due forme dative δεξιτεροῖσιν e
λαιοῖσι sono riferite nel contesto del discorso di Galeno (che cita) alle parti
dell'utero: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι
τῶν παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη Molti altri tra gli
antichi hanno sostenuto che il maschio sia concepito nella parte destra
dell'utero. Parmenide infatti afferma.... Gli aggettivi andrebbero dunque
riferiti alle parti dell'utero. 219 DK B18 Femina virque simul Veneris cum
germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine virtus Temperiem servans
bene condita corpora fingit. Nam1 si virtutes permixto semine pugnent Nec
faciant unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt semine sexum.
[Celio Aureliano, Tardarum sive chronicarum passionum libri IV, 9] 1 Nella
tradizione si trova At come alternativa a Nam. 220 Quando femmina e maschio
mescolano insieme i semi1 di Venere, la potenza2 formatrice nelle vene3 , che
[deriva] da sangue4 opposto5 , conservando la giusta misura plasma corpi ben
fatti. Se, infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono [5] e non
diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche
affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme6 . 1 Dalla parafrasi
di Celio Aureliano troviamo conferma della tradizione dossografica secondo cui
Parmenide credeva che esistessero semi maschili e femminili, e che giocassero
entrambi un ruolo nella riproduzione. Tale convinzione risale probabilmente ad
Alcmeone di Crotone, ma fu contestata nell'antichità da Anassagora e Diogene di
Apollonia. 2 Il latino virtus traduce il greco δύναμις («potenza, forza,
qualità, proprietà»). 3 L'ablativo venis deve riferirsi o alle vene dei
genitori o a quelle dell'embrione: la costruzione, con l'uso di «diverso ex
sanguine» suggerisce che la seconda alternativa sia più probabile (Coxon, p.
254). 4 Evidentemente per Parmenide i semi deriverebbero dal sangue,
rispettivamente maschile e femminile. Coxon (pp. 254-5) segnala come ciò
differenzi la posizione di Parmenide da quella di Alcmeone (che faceva derivare
il seme dal cervello), mentre al sangue pare rinviasse Pitagora. 5 Come
suggerito da Conche (p. 262), «diversus» non ha qui valore generico, ma, in
relazione al sangue maschile e femminile, il significato di «opposto,
contrario». 6 Si allude alla situazione in cui l'individuo generato risulti
possessore sia del seme maschile sia di quello femminile, caratteristici
normalmente di uomini e donne separatemente (Coxon, p. 255). 221 DK B19 οὕτω
τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε1 καί νυν2 ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι
τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ. [Simplicio, In
Aristotelis De Caelo 558] 1 I codici DE di Simplicio, in vece di ἔφυ τάδε,
riportano ἐφύτα δὲ. 2 I codici di Simplicio riportano καὶ νῦν· καί νυν è
correzione degli editori. 222 Ecco, in questo modo1 , secondo opinione2 ,
queste cose3 ebbero origine4 e ora5 sono6 , 1 La formula οὕτω τοι è impiegata
per riassumere quanto detto: introduce quindi una ricapitolazione ovvero la
"lezione" che si ricava dal discorso precedente (Conche, p. 265). 2
In conclusione della seconda sezione del poema, nella quale la Dea affrontava –
come recita B8.51 - δόξας βροτείας, appare legittimo tradurre κατὰ δόξαν come
«secondo opinione». In realtà, molti scelgono di insistere sulla radice in
δοκέω, traducendo l'espressione come «secondo parvenza», «secondo apparenza»
(Tonelli), «selon ce qui semble» (Conche), «according to belief» (Coxon). Il
senso della formula a noi pare comunque salvaguardato: la Dea conclude la
propria trattazione della realtà dal punto di vista dell'esperienza umana, cioè
di quel punto di vista che matura a partire da τὰ δοκοῦντα («le cose che
appaiono e sono assunte sulla base della esperienza»: Simplicio, a proposito di
tale punto di vista parla di διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν), ribadendo il carattere
che contraddistingue i fenomeni che registriamo (τάδε): nascita (ἔφυ), sviluppo
(τραφέντα), morte (tελευτήσουσι). Nella sua interpretazione introduttiva,
Simplicio impiega una formulazione platonico-aristotelica: egli parla di ὑπόστασις
τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ ma anche di δοκοῦν ὄν. Come ha fatto osservare Coxon
(p. 256), i due versi B19.1-2 mettono in contrasto la natura delle cose che
appaiono nell'esperienza umana con la natura attribuita all'Essere in B8.5: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. 3 Il pronome dimostrativo τάδε è
qui impiegato per designare l'insieme dei fenomeni cosmici oggetto della
trattazione (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν nel linguaggio di Simplicio) precedente.
Secondo Conche (p. 265) si riferisce alle cose che i mortali hanno sotto gli
occhi: «queste cose qui», di cui il discorso cosmogonico ha spiegato l'origine,
la natura e il destino. 4 Il testo greco riporta una irregolarità nell'uso del
verbo: il plurale neutro τάδε regge sia la terza persona singolare ἔφυ, sia la
terza plurale ἔασι e τελευτήσουσι: il passaggio da singolare a plurale nell'ambito
di una stessa frase esistono comunque precedenti in Omero e Senofane (DK 21
B29). 5 La formula καί νυν, come segnalano Diels e Coxon, è comune in Pindaro
(e Omero). 6 Come abbiamo già segnalato, è chiaro come in questo passo «queste
cose» siano connotate da un punto di vista temporale in senso opposto rispetto
a τὸ ἐόν: i tempi verbali (passato, presente futuro), gli avverbi (νυν,
μετέπειτα), le scelte verbali (φύω, τρέφω, τελευτάω) contrastano la
determinazione dell'essere come οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν
di B8.5. 223 e poi, in seguito7 sviluppatesi, avranno fine8 . A queste cose,
invece9 , un nome gli uomini10 imposero11, distintivo12 per ciascuna. 7 La
formula avverbiale μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε (letteralmente «dopo, a partire da ora»)
contrasta la labile puntualità di νυν ἔασι. Leggiamo ἀπὸ τοῦδε collegato al
participio τραφέντα. 8 La costruzione greca - τελευτήσουσι τραφέντα – consente
diverse soluzioni nella traduzione (Cerri, p. 289): (i) la combinazione di
futuro medio e participio aoristo può intendersi nel senso del compimento
dell'azione indicata dal participio, quindi: «porteranno a termine la propria
crescita»; ovvero (ii) nel senso di una cessazione di quell'azione, quindi:
«cesseranno di crescere» (si interromperà il oro sviluppo); o ancora (iii)
subordinando l'azione indicata dal futuro a quella indicata dal participio:
«una volta cresciuti/sviluppati, avranno fine». 9 Sottolineiamo il valore
avversativo di δέ, seguendo Untesteiner e Ruggiu: ciò contribusce a conferire
senso critico al rilievo successivo. 10 Anche in questo caso, come in B16, il
poeta opta per ἄνθρωποι: la Dea ricorre insomma a una designazione diversa
rispetto alla diminutiva βροτοί. Sintomo, forse, del fatto che in questo
contesto la polemica è stata abbandonata per lasciare il posto a una
ricostruzione oggettiva. 11 L'espressione ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντο richiama
puntualmente B8.38b-39a: πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο e B8.53: μορφὰς
γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν secondo quella che Cerri (p. 289) definisce
«la più tipica movenza della "composizione ad anello"». 12
L'aggettivo ἐπίσημος si riferisce alla funzione (in questo caso attribuita a ὄνομα)
di distinguere, contraddistinguere (ἐπί-σημαίνω). All'instabilità del nascere,
crescere, morire è sovrapposta la relativa stabilità del nome. 224 COMMENTO 225
IL VIAGGIO [B1] Introduzione Sesto Empirico, unica nostra fonte per i primi
trenta versi del poema Περὶ φύσεως (Sulla natura), ne contestualizza il proemio
in questi termini: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης τοῦ μὲν δοξαστοῦ λόγου
κατέγνω, φημὶ δὲ τοῦ ἀσθενεῖς ἔχοντος ὑπολήψεις, τὸν δ’ ἐπιστημονικόν, τουτέστι
τὸν ἀδιάπτωτον, ὑπέθετο κριτήριον, ἀποστὰς καὶ < αὐτὸς > τῆς τῶν αἰσθήσεων
πίστεως. ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον Il discepolo
di lui (= Senofane), Parmenide, svalutò il discorso opinativo – intendo quello
che ha concezioni deboli -, e assunse come criterio quello scientifico, cioè
quello infallibile, avendo preso le distanze anche lui dalla fiducia nelle
sensazioni. Iniziando appunto il Peri physeōs scrive in questo modo … (Adv.
Math. VII, 111). Il successivo commento (§§112-114), nel quale Sesto identifica
il viaggio del poeta con lo studio filosofico (τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον
θεωρίαν), ha nei secoli condizionato la ricezione del proemio, sia nel senso di
proporlo come mera approssimazione metaforica all’istruzione filosofica del
poema, sia, conseguentemente, nel senso di misconoscerne il rilievo teoretico,
riducendolo a orpello poetico (in fondo trascurabile): ἐν τούτοις γὰρ ὁ
Παρμενίδης ἵππους μέν φησιν αὐτὸν φέρειν τὰς ἀλόγους τῆς ψυχῆς ὁρμάς τε καὶ ὀρέξεις
[1], κατὰ δὲ τὴν πολύφημον ὁδὸν τοῦ δαίμονος πορεύεσθαι τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον
λόγον θεωρίαν, ὃς λόγος προπομποῦ δαίμονος τρόπον ἐπὶ τὴν ἁπάντων ὁδηγεῖ γνῶσιν
[2. 3], κούρας δ’ αὐτοῦ προάγειν τὰς αἰσθήσεις [5], ὧν τὰς μὲν ἀκοὰς αἰνίττεται
ἐν τῶι 226 λέγειν ‘δοιοῖς ... κύκλοις’ [7. 8], τουτέστι τοῖς τῶν ὤτων, τὴν φωνὴν
δι’ ὧν καταδέχονται, τὰς δὲ ὁράσεις Ἡλιάδας κούρας κέκληκε [9], δώματα μὲν Νυκτὸς
ἀπολιπούσας [9] ‘ἐς φάος < δὲ > ὠσαμένας’ διὰ τὸ μὴ χωρὶς φωτὸς γίνεσθαι
τὴν χρῆσιν αὐτῶν. ἐπὶ δὲ τὴν ‘πολύποινον’ ἐλθεῖν Δίκην καὶ ἔχουσαν ‘κληῖδας ἀμοιβούς’
[14], τὴν διάνοιαν ἀσφαλεῖς ἔχουσαν τὰς τῶν πραγμάτων καταλήψεις. ἥτις αὐτὸν ὑποδεξαμένη
[22] ἐπαγγέλλεται δύο ταῦτα διδάξειν ‘ἠμὲν ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεμὲς ἦτορ’
[29], ὅπερ ἐστὶ τὸ τῆς ἐπιστήμης ἀμετακίνητον βῆμα, ἕτερον δὲ ‘βροτῶν δόξας ...
ἀληθής’ [30], τουτέστι τὸ ἐν δόξηι κείμενον πᾶν, ὅτι ἦν ἀβέβαιον. In questi
versi Parmenide dice che le cavalle lo portano, [intendendo] gli impulsi e i
desideri irrazionali dell'anima (1), e che esse avanzano lungo la via ricca di
canti della divinità, [intendendo] nella ricerca secondo la ragione filosofica;
la quale ragione guida a guisa di divinità, per la conoscenza di tutte le cose
(2, 3); le fanciulle che lo precedono sono le sensazioni (5): di esse accenna
all'udito laddove dice «due rotanti cerchi» (7, 8), cioè i cerchi delle
orecchie, attraverso cui esse ricevono il suono. Chiama gli occhi fanciulle
Eliadi (9), che avendo abbandonato la dimora della Notte (9) vanno «verso la
luce> (10), poiché senza luce non può esservi uso di essi. Dice che
procedono verso la Giustizia «che molto punisce» e che tiene «le chiavi
dall'uso alterno» (14), [intendendo] la ragione che possiede una conoscenza
certa delle cose. Essa lo accoglie (22) e promette di insegnare queste due
cose: «il cuore saldo di verità ben persuasiva» (29), che è il fondamento
immutabile della scienza, e l'altra «le opinioni dei mortali in cui non è reale
credibilità» (30), cioè tutto quanto ricade nell'opinione, che non è saldo. In
realtà, sin dalla fine del XIX secolo – dall'edizione (1897) del poema a opera
di Hermann Diels - si è reagito al rischio di una banale allegoresi della
poesia parmenidea, recuperando, proprio nel proemio, uno sfondo frastagliato di
prospettive e possibili 227 suggestioni culturali, che hanno in comune
l’effetto di renderne la relazione con i successivi frammenti molto più
complessa. Dobbiamo alla competenza del filologo tedesco l’inquadramento
dell’opera di Parmenide all’interno di un’articolata cornice di plausibili
precedenti (e motivi) poetici, che appaiono rilevanti per apprezzarne
l’originalità. Nella consapevolezza che la conoscenza della tradizione poetica
intermedia (secoli VII-VI a.C.) tra le fonti omeriche ed esiodee e il poema
parmenideo è, per noi, in gran parte compromessa, Diels valorizzava in
particolare1 : (i) il modello della speculazione cosmogonica e cosmologica di
Esiodo, che avrebbe improntato soprattutto la seconda sezione del Περὶ φύσεως,
ma da cui dipenderebbe la sua stessa struttura bipartita - corrispondente
all'iniziale sottolineatura delle Muse in Teogonia, vv. 27-28: ἴδμεν ψεύδεα
πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo
dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero
cantare, insieme al motivo della “doppia via” (verità ed errore), che
evocherebbe l’analoga alternativa tra miseria morale (κακότης) e valore morale
(ἀρετή) in Opere e giorni (vv. 287 ss.); (ii) il modello della poesia orfica,
di cui nel poema riecheggerebbero termini e immagini: nel riconoscerne
l’importanza, le connessioni con altre correnti religiose contemporanee
(misteri) e il radicamento nella tradizione più antica, lo studioso ne marcava
l’ampia incidenza nella cultura greca in genere, rilevando tracce del
«pessimismo» (Pessimismus) di questo movimento di «riforma» (Reformation) anche
nel «razionalismo» (Rationalimus) della filosofia ionica. 1 H. Diels,
Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und Schlösser,
mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von
D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione originale 1897),
pp. 12 ss. 228 In tale prospettiva, Diels richiamava l’attenzione sulla
tradizione dei leggendari «profeti» del misticismo greco arcaico (Epimenide,
Onomacrito, Museo) che avrebbe ancora trovato espressione nei Καθαρμοί di
Empedocle: nel caso della forma poetica («rivestimento poetico», poetische
Einkleidung) privilegiata da Epimenide per la propria «rivelazione»
(Offenbarung), ritroveremmo, per esempio, il prototipo della «narrazione in
prima persona» (Icherzählung) di un’esperienza di Incubation, quale riferita da
Alessandro di Tiro: ἦλθεν Ἀθήναζε καὶ ἄλλος Κρὴς ἀνὴρ ὄνομα Ἐ.· οὐδὲ οὗτος ἔσχεν
εἰπεῖν αὑτῶι διδάσκαλον ἀλλ’ ἦν μὲν δεινὸς τὰ θεῖα, ὥστε τὴν Ἀθηναίων πόλιν
κακουμένην λοιμῶι καὶ στάσει διεσώσατο ἐκθυσάμενος· δεινὸς δὲ ἦν ταῦτα οὐ
μαθών, ἀλλ’ ὕπνον αὑτῶι διηγεῖτο μακρὸν καὶ ὄνειρον διδάσκαλον. ἀφίκετό ποτε Ἀθήναζε
ἀνὴρ Κρὴς ὄνομα Ἐ. κομίζων λόγον οὑτωσὶ ῥηθέντα πιστεύεσθαι χαλεπόν· < μέσης
γὰρ > ἡμέρας ἐν Δικταίου Διὸς τῶι ἄντρωι κείμενος ὕπνωι βαθεῖ ἔτη συχνὰ ὄναρ
ἔφη ἐντυχεῖν αὐτὸς θεοῖς καὶ θεῶν λόγοις καὶ Ἀληθείαι καὶ Δίκηι. Venne ad Atene
anche un altro Cretese, di nome Epimenide: nemmeno costui seppe dire chi gli
sia stato maestro, ma era straordinariamente competente nelle questioni divine,
tanto che, facendo offrire sacrifici, riuscì a salvare la città degli Ateniesi,
afflitta dalla peste e dalla discordia civile. Ed era così esperto in questa
materia non perché l'avesse imparata, ma si diceva che suo maestro fosse stato
un lungo sonno con un sogno. – Arrivò un tempo ad Atene un Cretese, di nome
Epimenide, portando un racconto difficile da credere, formulato nei seguenti
termini: disse che, sdraiatosi a mezzogiorno nella grotta di zeus Ditteo,
rimase immerso in un sonno profondo per molti anni, e si intrattenne in sogno
con dèi e discorsi di dèi, con la Verità e con la Giustizia (contesto DK 3 B1.
Traduzione di I. Ramelli e G. Reale). 229 Proprio Epimenide (nei suoi Καθαρμοί,
in particolare) sarebbe figura esemplare di uno sciamanismo, presente nelle
credenze religiose elleniche (in associazione con fenomeni rilevanti, anche a
livello letterario, come le epifanie, i sogni, i sacrifici), in cui, rispetto
al più generale tema della purificazione e della relativa iniziazione, decisivo
diventa il motivo del “viaggio” ultraterreno, del contatto con una realtà
trascendente: in questa direzione la poesia genericamente orfica avrebbe
incrociato l’elemento “estatico”, di cui appunto il «viaggio celeste»
(Himmelreise) costituirebbe frammento. All’interno di tale orizzonte culturale,
il Περὶ φύσεως si propone in una luce diversa, tale da suggerire maggiore
cautela ermeneutica nella riduzione dei suoi contenuti ai moduli del dibattito
contemporaneo (come accade negli approcci analitici ai frammenti). Nel caso del
suo proemio, in particolare, si rischia il fraintendimento proponendolo come
mera introduzione d’occasione o tributo formale, in cui il sapiente (un
filosofo!), per opportunità letteraria e compiacenza verso il proprio pubblico,
avrebbe optato per un mascheramento allegorico della propria concettualità
(assumendo l’implausibile veste del poeta!): è necessario invece conservare al
testo la sua polisemia e al complesso dell’impresa teorica di Parmenide uno
spessore originale2 . 2 Ogni edizione del poema e ogni saggio su Parmenide si
intrattengono su questo nodo interpretativo: la sintesi più recente del lungo
dibattito si può leggere in L. Couloubaritsis, La pensée de Parménide [si
tratta delle terza edizione di Mythe et philosophie chez Parménide], Ousia,
Bruxelles 2008, cap. II "Le «Proème» comme producteur de chemins".
Molto utile anche l’introduzione (“Parmenides and His Predecessors”) di M.J.
Henn al suo Parmenides of Elea: A Verse Translation with Interpretative Essays
and Commentary to the Text, Praeger Publishers, Westport 2003, che si apre la
propria introduzione sul tema “The Poet as Shaman and Singer of Mysteries in
the Homeric Style”, dedicando molto spazio all’analisi della struttura
dell’esametro parmenideo. Una riconsiderazione complessiva della poesia del Περὶ
φύσεως è proposta da L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconsidering
Muthos and Logos, Continuum International Publishing, London – New York 2009:
le pagine 69-79 sono dedicate al problema del proemio. Un’ampia e sostenuta
lettura del proemio come chiave per l’interpretazione del poema è oggi proposta
in R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011. 230 Come di
recente ha ricordato Maria Laura Gemelli Marciano3 , il proemio parmenideo non
è inutile orpello o artificio letterario: esso è invece fondamentale per
comprendere carattere, metodo e finalità del poema. Nel contesto
storico-geografico, sociale e religioso in cui si muoveva Parmenide, cantare
un’esperienza eccezionale, rappresentare, nel ritmo e nella musicalità proprie
delle forme esametriche, un viaggio nell'aldilà, evocando un linguaggio iniziatico
e performativo, era cosa ben diversa dall’erudita esercitazione che
l’allegoresi di Sesto presuppone: il poeta Parmenide si rivolgeva a
un’audience, un pubblico convenuto per ascoltare le parole di una dea e
partecipare all’esperienza evocata in versi. È significativo, per la
comprensione storica del poema, che del proemio non resti traccia nelle
citazioni antiche, che esso sia stato ignorato da coloro (Platone e Aristotele)
che hanno contribuito a fissare i contorni della figura di Parmenide per la tradizione
successiva. Perché la poesia? Il problema della natura e portata del proemio è
strettamente connesso a quello, più generale, della scelta di fondo – da parte
di Parmenide - del medium poetico, di cui la narrazione riflette alcuni motivi
tradizionali, culturalmente di grande significato teoretico anche nella
prospettiva specifica del poema. Ci si riferisce in particolare all’intimo
nesso tra poesia, rivelazione e mito, certamente una chiave per decifrare
l’impianto creativo del Περὶ φύσεως, in cui si intrecciano racconto,
comunicazione divina della «parola» (μῦθος) e «verità» (Ἀληθείη). Rimane ancora
molto utile il vecchio aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R.
Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III:
Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967. 3 "Lire du début. Quelques
observations sur les incipit des présocratiques", «Philosophie Antique»,
7, 2007 (Présocratiques), pp. 7-37. l'osservazione è alle pp. 11-12. 231
Poesia, mito, verità In un frammento (fr. 12 Bowra) del perduto Inno a Zeus di
Pindaro, contemporaneo di Parmenide, noi troviamo una sorta di
autointerpretazione mitica del ruolo del poeta e della poesia nella società
greca tra VI e V secolo a.C.. Pindaro racconta come, dopo aver ordinato il mondo
e il regno degli dei, Zeus avesse loro domandato se, per caso, mancasse ancora
qualcosa alla sua fatica: essi, allora, lo avevano pregato di creare alcune
divinità per «celebrare con parole e musica quelle grandi opere e l’intero suo
ordinamento»4 . A tale scopo, per onorare la bellezza dell’edificio cosmico, e
manifestarlo nella sua totalità, Zeus introduce nuove divinità, le Muse: così
la sua opera si compie con la nascita della parola, del canto (originariamente
identici), espressioni divine che ne rivelano l’essere. Per il grande filologo
tedesco Walter Friedrich Otto, il supremo evento del mito è che l’essere delle
cose si riveli nella parola con la sua divinità5 : ogni mito genuino si rivolge
alla totalità del reale, come uno sguardo complessivo sulla sua manifestazione
originaria. In questa prospettiva, l’esperienza del mito è intesa come
esperienza, a un tempo, della bellezza e della verità: da cui l’impressione
arcaica che il poeta possa avvicinare, più degli altri uomini, l’essere delle
cose; che la sua parola possa afferrare la realtà in profondità in forza della
sua “ispirazione”. L’invocazione alle Muse dell’antica poesia greca palesa la
recettività del poeta: l’ – osserva Otto - non si apre con la superbia
(tipicamente moderna) di una coscienza creatrice, ma con la modestia di chi
ascolta. È la divinità a cantare, il poeta è solo suo mediatore: in questo
senso la poesia è un’ombra dell’essenza del mito. Eppure il poeta (tipicamente
per noi il poeta omerico), sebbene non sia riconosciuto autore di ciò che
canta, rimane in ogni caso il recettore dello spirito delle Muse: egli si
distingue dalla massa degli altri uomini ed è più vicino agli dèi in quanto sua
è la voce 4 Citato in W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in Id., Il mito,
a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 43-44. 5 W.F. Otto, Il
mito (1955), ivi, p. 60. 232 attraverso cui le Muse si esprimono. Egli è un
«maestro di verità» (Detienne), le cui parole proclamano piuttosto che
suggerire: per questo poeti come Senofane e Parmenide (che compongono entro la
tradizione omerica) rivendicano una condizione privilegiata rispetto a quella
dei “mortali”. Donde il carattere spesso esoterico della filosofia antica 6 .
Parmenide e la poesia Nella scelta poetica di Parmenide questi elementi, come
si avrà opportunità di rilevare, si ricompongono in modo originale, soprattutto
nel plasmare l’atteggiamento del destinatario della comunicazione divina: è un
fatto, tuttavia, che essi siano presenti nel Περὶ φύσεως, che il mito assuma la
forma del manifestarsi di ciò che è originario, di quanto viene altrimenti
designato come il divino (τό θεῖον). Significativamente, la θεά introdurrà (B2)
l’assiomatica della sua istruzione intorno alla Verità ricorrendo proprio alla
formula «e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata» (κόμισαι δὲ σὺ μῦθον
ἀκούσας): il «giovane» (κοῦρος) è esplicitamente sollecitato a «prendersi cura»
(κόμισαι) del μῦθος divino, che dischiude la comprensione della realtà. Dei
termini greci arcaici per «parola» ritroviamo dunque nel poema: (i) μῦθος
(B2.1; B8.1), la forma primitiva per esprimere ciò che è realmente,
effettivamente accaduto: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce
qualcosa, e, in questo senso, è autorevole; (ii) λόγος (B7.5), che ha il valore
di di ciò che è stato ponderato, che serve a convincere (donde il valore di
«ragione») 7 , della parola ragionevole. In questo senso, in B7.5, la Dea
innominata inviterà il κοῦρος a valutare razionalmente (κρῖναι λόγωι, «giudica
con il ragionamento») l’argomento proposto. 6 L. Atwood Wilkinson, Parmenides
and To Eon…, cit., p. 29. 7 W.F. Otto, Il mito e la parola, in Id., Il mito,
cit., pp. 30-32. 233 Già nel registro verbale è possibile intravedere
l’intervento creativo di Parmenide sulla tradizione. Nel rilevare la
contrapposizione apparente del poema di Parmenide con la razionalità ionica sul
terreno dei contenuti e dello stile, Ruggiu8 ha colto nella ripresa della forma
e del metro epico una modalità espressiva appropriata alla parola come μῦθος:
il contenuto dell’epica è costituito, insieme, da «le cose che sono, quelle che
sono state e quelle che saranno» (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα,
Calcante in Iliade I, 70) e τά ἀληθέα (le Muse in Teogonia 28), da intendere
come sinonimi. Dal momento che, anche per Parmenide, valore primario è la
Verità (Realtà), attribuire a una divinità la rivelazione del contenuto
dell’opera sarebbe dunque escamotage espressivo coerente con la tradizione
sapienziale arcaica: il disvelarsi del reale si palesa come manifestazione del
divino stesso9 . È questo, allora, il motivo che induce all'adozione della
forma e del metro epico? Parmenide è ancora persuaso che il discorso cantato
come pratica comunicativa garantisca la possibilità di una “comunicazione
vera”, di un «autentico contatto» (Vernant) con il divino10? Proprio il
proemio, in effetti, sembra giustificare le scelte di Parmenide alla luce dei
suoi possibili modelli di riferimento: (i) l’inno alla divinità in funzione di
proemio rapsodico (nel campo della poesia epica), ovvero l’invocazione alle
Muse in funzione di protasi; (ii) i proemi delle opere di Esiodo, Epimenide e
Aristea (nel campo della poesia cosmogonica), che celebrano l’investitura
poetica e la rivelazione da parte della divinità11. Non vi è dubbio che, optato
per il medium della rivelazione, l’adozione della forma poetica fosse scontata
e il metro dell’epica tradizionalmente 8 Parmenide, Poema sulla Natura. I
frammenti e le testimonianze indirette, presentazione, traduzione e note a cura
di G. Reale, saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di L. Ruggiu,
Rusconi, Milano 1991, pp. 155- 156. 9 Ivi, p. 160. 10 Wilkinson, op. cit., p.
67. 11 Parmenide di Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e
note di commento di G. Cerri, BUR, Milano 1999, pp. 109-110. 234 funzionale
all’istruzione 12 ; ma è anche vero che la scelta dell’epica avrebbe a suo modo
naturalmente comportato quel medium (almeno nella forma dell'ispirazione)
tradizionale. Si tratta di due prospettive distinte e complementari, che
potremmo così schematicamente caratterizzare: la prima opzione sottolinea
l’orizzonte della verità in cui si iscrivono i contenuti del poema, che la
divinità garantisce con la propria autorità e autorevolezza; la seconda
richiama soprattutto la sua efficacia comunicativa, un aspetto spesso
trascurato, ma che di recente ha assunto grande rilievo nella letteratura
critica13 . Poesia, educazione e vita Proprio considerando i plausibili modelli
che si celano dietro le scelte e i moduli espressivi di Parmenide, non pare
azzardato sostenere che il proemio annunci un processo di trasformazione della
persona (il κοῦρος istruito dalla Dea), in cui il momento cognitivo
tradizionalmente privilegiato dagli interpreti è in realtà funzionale a una
modificazione radicale dell’esistenza di colui che è destinato a ricevere la
comunicazione divina. Non a caso esso è stato spesso accostato in passato ai
miti escatologici di Platone: in particolare il mito conclusivo della
Repubblica (mito di Er) e quello centrale del Fedro (mito dell’auriga). Almeno
alcuni elementi fanno in questo senso indiscutibilmente riflettere: (i) la
ripresa di un motivo, quello del viaggio, centrale non solo nella letteratura
omerica ma anche in quella religiosa; (ii) la meta del viaggio: l’incontro con
la divinità; (iii) la scenografia cosmica dell’incontro; (iv) le modalità della
rivelazione divina. Gli interpreti sostanzialmente concordano nel riconoscere
nella scelta parmenidea del metro (esametro) dell’epica 12 Parmenides. A Text
with Translation, Commentary and Critical Essays, by L. Tarán, Princeton
University Press, Princeton 1965, p. 31. 13 Mi riferisco, in particolare, ai
contributi di Chiara Robbiano (2006) e Martina Stemich (2008). 235
un’intenzione didascalica, l’interesse al recupero di uno strumento culturale
ed educativo essenziale della tradizione. Possiamo allora considerare tale
opzione come un facilitatore per la comunicazione del sapiente: come i poemi
epici di Omero ed Esiodo, il poema di Parmenide tratta della verità e offre educazione.
Chiara Robbiano ha giustamente rilevato come scrivere in versi fosse la
soluzione espressiva più naturale per chi intendesse affrontare una materia del
massimo rilievo: evocando alcune categorie epiche familiari al pubblico, era
poi possibile rimodellarle in una nuova prospettiva filosofica14. Nel caso di
Parmenide si trattava di suscitare aspettative, soprattutto se - ammettendo la
circolazione di idee nel complesso del mondo greco, orientale e occidentale -
interpretiamo la scelta poetica come alternativa ai modelli in prosa
provenienti dalla Ionia. Da un poema in esametri il pubblico poteva aspettarsi:
(i) una comunicazione di verità; (ii) la proposta di un modello di
comportamento15. A conferma, è significativo il fatto che, nella cultura tra VI
e IV secolo a.C., a più riprese, Senofane, Eraclito e Platone abbiano attaccato
Omero ed Esiodo, così denunciando l’incidenza (e l’efficacia) dell’epica
arcaica su mentalità e costumi. Non va trascurata la possibilità che Parmenide
abbia valutato l’impatto “didattico” della performance poetica, la forza
comunicativa della recitazione pubblica, caratteristica di un contesto
culturale ancora decisamente segnato dalla tradizione orale. Anche in questo
senso Parmenide avrebbe potuto sfruttare i vantaggi che garantiva il richiamo
alla sapienza del canto poetico omerico ed esiodeo (facilitare diffusione e
memorizzazione della propria scrittura, attingere a un repertorio di immagini e
analogie di sicuro effetto), con la possibilità, poi, di dar forma – in piena autonomia
– a nuovi concetti e formule astratte16 . 14 C. Robbiano, Becoming Being. On
Parmenides’ Transformative Philosophy, International Pre-Platonic Studies,
Academia Verlag, Sankt Augustin 2006, p. 42. 15 Ibidem. 16 M. Stemich,
Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, Ontos Verlag, Frankfurt 2008, pp.
30-31. 236 Della poesia greca arcaica17, il Περὶ φύσεως, nel suo proemio,
conserva senz’altro il riferimento paradigmatico al mito come memoria per
recuperare creativamente temi e motivi della tradizione in funzione
didascalica, insieme al rilievo dell’ispirazione divina (donde l’istituto
stesso del proemio, cioè l’abitudine di far cominciare il canto - epico o
lirico - con l’invocazione alle Muse o ad altre divinità) e alla (probabile)
destinazione performativa pubblica, collegata alla scelta della forma metrica
(esametro), secondo le indicazioni interne alla stessa tradizione omerica
(l’aedo Demodoco nell’ottavo libro dell’Odissea). Gentili segnala18 come alla
fine del VI sec. (504-501) il rapsodo Cineto di Chio fosse il primo a
«recitare» Omero a Siracusa (in un’area geografica non remota dalla Magna
Grecia di Elea: pare che Parmenide soggiornasse presso la corte di Ierone, che
aveva richiamato artisti e intellettuali da tutta la Grecia19), inserendo nell’ordito
dei poemi omerici originali versi epici. Non va dimenticato come, in un sistema
culturale – quale quello greco arcaico - fondato quasi esclusivamente
sull’oralità della comunicazione del messaggio poetico, il cantore epico fosse
destinato a trasmettere, attraverso la narrazione, l’enciclopedia del sapere
(tecnico, giuridico, scientifico) in cui, per secoli (nel caso dell’epos
omerico), si era riconosciuta (e intorno a cui si era venuta organizzando) la
società ellenica20. Per la comprensione del testo di Parmenide, che noi oggi
leggiamo, è quindi essenziale la contestualizzazione, non solo per le trame
teoriche, ma anche per quelle formali: ciò consente - rispetto a quelle
arcaiche forme enciclopediche, in cui tutta la saggezza era incorporata nella
concretezza della narrazione - di apprezzarne la specifica natura,
l'originalità dell’impianto e l’audacia dei suoi assunti (astratti e
sistematici). 17 Ricavo questi elementi dal primo capitolo (Oralità e cultura
arcaica) di B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V
secolo, Feltrinelli, Milano 2006. 18 Ivi, p. 22. 19 Su questo A. Capizzi,
"Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato», XLIII, 1988,
pp. 42-60; riferimento alle pp. 52-53. 20 Gentili, op. cit., p. 69. 237 Non va
comunque trascurato il fatto che la scelta espressiva – probabilmente
condizionata da esigenze di diffusione e trasmissione (non ultima la stessa
memorizzazione) – implicava, in quello sfondo culturale, la dimensione
“spettacolare” (recitazione e canto) della sua ricezione21, che Parmenide non
poteva ignorare. Questa considerazione, da un mero punto di vista formale,
aiuta a comprendere la solennità dell’esordio poetico del Περὶ φύσεως e
l’insieme drammatico del proemio (viaggio, difficoltà, incontro con la
divinità), così come la sua intenzione di coinvolgere il pubblico destinatario,
non solo a livello intellettuale, ma anche emozionale, incoraggiandolo a
seguire l’esperienza «trasformativa» del poeta, convertito dal contatto con la
verità22 . In questo senso, rispetto alla tradizione, è opportuno osservare
come il poema suggerisca: (i) una diversa modalità di approccio alla Verità:
nella poesia omerica, la presenza del divino era evocata e invocata attraverso
la Musa e i versi originavano dalla «memoria divina» 23; nel poema in generale,
e nel proemio soprattutto, l'invocazione è sostituita da un incontro
divinamente garantito e da una diretta comunicazione divina, che fanno del
poeta qualcosa di più di un semplice tramite ispirato; (ii) una probabile integrazione
della dimensione performativa: l'invito alla valutazione razionale (κρῖναι δὲ
λόγῳ) fa pensare a una relazione educativa del tipo delineato dal Sofista
platonico (237a): come ha di recente sottolineato Passa24, la rievocazione, per
bocca dello Straniero di Elea, di una lezione tenuta da Parmenide ai discepoli
potrebbe essere indicativa – oltre che dello stesso modello pedagogico
dell'Accademia – di un'originale impronta dell'Eleate: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος
ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ
21 Ivi, p. 49. 22 Robbiano, op. cit., p. 49. 23 Wilkinson, op. cit., p. 32. 24
E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni
Quasar, Roma 2009, p. 25. 238 μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ
διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων Οὐ γὰρ
μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε
νόημα [B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che ciò che non è sia; il falso,
infatti, non potrebbe prodursi in altro modo. Il grande Parmenide, tuttavia,
figlio mio, a noi che eravamo ancora bambini, cominciando e fino alla fine
testimoniava contro questo discorso, ribadendo ogni volta con le sue parole e i
suoi versi che: «Questo infatti mai sarà forzato: che siano cose che non sono;
Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero». Si tratta di un
«fotogramma di interno scolastico»25: la memorizzazione dei contenuti
fondamentali (cui la scelta dei versi sarebbe stata funzionale) era affiancata
dal commento e dall'argomentazione dettagliata del maestro, che approfondiva e
chiariva i temi (comunicando probabilmente informazioni supplementari, non
divulgabili all'esterno). Il poema potrebbe essere, almeno in parte, un reperto
di tale situazione didattica: donde le sue asperità e l'impressione che fosse
probabilmente rivolto a una cerchia ristretta26 . Parmenide poeta È
significativo che, in quella che potrebbe essere la più antica allusione a
Parmenide, egli sia annoverato tra i «poeti»: 25 Cerri, op. cit., p. 94. 26
Questo rilievo in M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des
Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet
(éds), Qu’estce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?,
Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp.
89-90, che accosta in questo senso Parmenide a Eraclito. 239 ἆρα ἔχει ἀλήθειάν
τινα ὄψις τε καὶ ἀκοὴ τοῖς ἀνθρώποις, ἢ τά γε τοιαῦτα καὶ οἱ ποιηταὶ ἡμῖν ἀεὶ
θρυλοῦσιν, ὅτι οὔτ’ ἀκούομεν ἀκριβὲς οὐδὲν οὔτε ὁρῶμεν; Mi chiedo se vista e
udito abbiano una qualche verità per gli uomini, oppure se queste cose stiano
proprio come sempre ci ripetono i poeti: che non udiamo né vediamo alcunché di
preciso. (Fedone 65b), a dispetto di una tradizione che avrebbe poi, a più
riprese, manifestato un certo disappunto di fronte ai versi dell’Eleate: τὰ δ’ Ἐμπεδοκλέους
ἔπη καὶ Παρμενίδου καὶ θηριακὰ Νικάνδρου καὶ γνωμολογίαι Θεόγνιδος λόγοι εἰσὶ
κιχράμενοι παρὰ ποιητικῆς ὥσπερ ὄχημα τὸ μέτρον καὶ τὸν ὄγκον, ἵνα τὸ πεζὸν
διαφύγωσιν. I poemi di Empedocle e Parmenide, le Teriache di Nicandro e le
Sentenze di Teognide sono discorsi che, servendosi della poesia come di un
veicolo, ne prendono il metro e la dignità, per evitare la prosa [il prosaico].
(Plutarco; DK 28 A15) μέμψαιτο δ’ ἄν τις Ἀρχιλόχου μὲν τὴν ὑπόθεσιν, Παρμενίδου
δὲ τὴν στιχοποιίαν [...] Ad Archiloco si potrebbe rimproverare il soggetto, a
Parmenide il modo di fare versi […] (Plutarco; DK 28 A16) ὁ δέ γε Π. καίτοι διὰ
ποίησιν ἀσαφὴς ὢν ὅμως καὶ αὐτὸς ταῦτα ἐνδεικνύμενός φησιν Parmenide, pur
risultando oscuro a causa della poesia, espone e afferma a sua volta le stesse
cose. (Proclo; DK 28 A17). La forza del pensiero sarebbe stata, insomma,
artificiosamente costretta in una forma espositiva inadeguata, producendo un
duplice effetto negativo: l’oscurità dell’espressione e la scadente qualità dei
versi. Scontato, per la tradizione platonica, che Parmenide avesse elaborato il
proprio contributo indipendentemente dal 240 medium espressivo, cui si sarebbe
applicato in un secondo momento, valutandone l’impatto comunicativo: donde i
compromessi e le incongruenze cui accenna Proclo: αὐτὸς ὁ Π. ἐν τῆι ποιήσει·
καίτοι δι’ αὐτὸ δήπου τὸ ποιητικὸν εἶδος χρῆσθαι μεταφοραῖς ὀνομάτων καὶ
σχήμασι καὶ τροπαῖς ὀφείλων ὅμως τὸ ἀκαλλώπιστον καὶ ἰσχνὸν καὶ καθαρὸν εἶδος τῆς
ἀπαγγελίας ἠσπάσατο. δηλοῖ δὲ τοῦτο ἐν τοῖς τοιούτοις [B 8, 25. 5. 44. 45] καὶ
πᾶν ὅ τι ἄλλο τοιοῦτον· ὥστε μᾶλλον πεζὸν εἶναι δοκεῖν ἢ ποιητικὸν < τὸν
> λόγον. Lo stesso Parmenide, nel poema, pur essendo costretto, certamente a
causa della forma poetica, a far ricorso a metafore, figure e tropi, privilegiò
tuttavia una forma d’esposizione disadorna, controllata e semplice. Mostra ciò
in questi versi [B8.25, 5, 44, 45] e in tutti gli altri di questo tenore, così
che il suo discorso sembra piuttosto prosa che poesia. (Proclo; DK 28 A18).
Sembra rivendicare invece l’originaria e originale intenzione poetica
dell’opera parmenidea Genetlio: φυσικοὶ [sc. ὕμνοι] δὲ ὁποίους οἱ περὶ
Παρμενίδην καὶ Ἐμπεδοκλέα ἐποίησαν [vgl. 31 A 23]. […] εἰσὶν δὲ τοιοῦτοι, ὅταν Ἀπόλλωνος
ὕμνον λέγοντες ἥλιον αὐτὸν εἶναι φάσκωμεν καὶ περὶ τοῦ ἡλίου τῆς φύσεως
διαλεγώμεθα καὶ περὶ Ἥρας ὅτι ἀήρ, καὶ Ζεὺς τὸ θερμόν· οἱ γὰρ τοιοῦτοι ὕμνοι
φυσιολογικοί. καὶ χρῶνται δὲ τῶι τοιούτωι τρόπωι Π. τε καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἀκριβῶς
... Π. μὲν γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἐξηγοῦνται, Πλάτων δὲ ἐν βραχυτάτοις ἀναμιμνήισκει.
Inni fisici, come quelli composti da Parmenide, Empedocle e dai loro seguaci
[…] Essi sono tali quando, levando un inno ad Apollo, diciamo che è il sole e
discutiamo della natura del sole, e di Era diciamo che è l’aria, di Zeus che è
il calore: inni di questo tipo infatti riguardano l’indagine sulla natura. Si
servono di questa forma d’espressione Parmenide ed Empedocle in modo rigoroso
[…] Parmenide ed Empedocle infatti fanno da 241 guida e Platone lo ricorda
brevemente. (Genetlio; DK 28 A20). Parmenide ed Empedocle sarebbero stati
campioni in un genere, quello dei «poemi fisici» (φυσικοὶ ὕμνοι), vere e
proprie «indagini sulla natura» (φυσιολογικοί), riconosciuto nell’antichità
(Platone). Simplicio suggerisce, dal canto suo, un ulteriore interessante
accostamento: εἰ δ’ ‘ε ὐ κ ύ κ λ ο υ σ φ αί ρ η ς ἐ ν α λ ί γ κ ι ο ν ὄ γ κ ω ι
’ τὸ ἓν ὄν φησι [Β 8, 43], μὴ θαυμάσηις· διὰ γὰρ τὴν ποίησιν καὶ μυθικοῦ τινος
παράπτεται πλάσματος. τί οὖν διέφερε τοῦτο εἰπεῖν ἢ ὡς Ὀρφεὺς [fr. 70, 2 Kern]
εἶπεν ‘ὠεὸν ἀργύφεον’; Se [Parmenide] afferma che l’essere uno è «simile a
massa di ben rotonda palla» [B8.43], non ci si deve meravigliare: a causa della
poesia, infatti, egli ricorre anche a qualche finzione mitica. Che differenza
c’è dunque tra questo modo di esprimersi e quello di Orfeo: «uovo d’argento»?
(Simplicio; DK 28 A20). La ricerca contemporanea ha documentato la matrice
omerica praticamente dell’intero lessico del poema (Coxon27), e rilevato la
raffinatezza della sua composizione ritmica e musicale (Henn), a dispetto della
complessità della sua materia (rispetto ai precedenti di riferimento, Omero ed
Esiodo), rivendicando quindi la dimensione poetica dell’opera di Parmenide e
soprattutto la sua formazione di rapsodo (Schwabl28), riconoscendo, in altre
parole, che «Parmenide era un bardo omerico, erede dei tesori di secoli di
recitazione orale» (Henn29), impegnato a comporre all’interno della tradizione
epica e non contro di essa. Parmenide, insomma, era (come Empedocle,
probabilmente) in primo luogo un poeta, interessato a sperimentare le
potenzialità 27 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum,
Assen/Maastricht 1986, pp. 9-13. 28 H. Schwabl, “Hesiod und Parmenides, Zur
Formung des parmenideischen Prooimions (28 B1)”, «Reinisches Museum», 106
(1963), pp. 134-142. 29 M.J. Henn, Parmenides of Elea…, cit., p.5. 242 del
verso nel campo d’indagine della natura: i modelli epici potrebbero tuttavia
non ridursi ai poemi omerici ed esiodei, e comprendere anche (soprattutto per
la seconda parte del poema) la produzione orfica, soprattutto teogonica e cosmogonica30,
attribuita a Museo, Epimenide e Onomacrito31 . La rivelazione di Parmenide La
scelta di una portavoce divina esprimerebbe per alcuni il desiderio di
Parmenide di marcare l'oggettività del suo metodo32: se l’esito della ricerca
fosse stato avanzato semplicemente come la sua verità, avrebbe finito per
riproporsi come un punto di vista, l’opinione di un mortale in concorrenza con
le opinioni degli altri (mortali)33. Secondo il modulo epico, invece, il
poeta-pensatore non è che portavoce della Dea e della Verità: come il
contemporaneo Eraclito rimarcava che: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν
σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me, ma il logos ascoltando, è saggio convenire
che tutto è uno (DK 22 B50), così Parmenide non intende riferire la verità
immediatamente a un soggetto, ma alla divinità, per garantirne l’assolutezza34
. 30 Sull’orfismo in generale si vedano ora i numerosi e preziosi saggi
contenuti in A. Bernabé y F. Casadesús (coords.), Orfeo y la tradicíon órfica.
Un reencuentro, 2 voll., Akal, Madrid 2008. In particolare, nel primo volume A.
Bernabé, Caraterísticas de los textos órficos, pp. 241-246; M. Herrero,
Tradición órfica y tradición homérica, cit., pp. 247-278. 31 Per questi aspetti
R.B. Martínez Nieto, Otros poetas griegos próximos a Orfeo, ivi, pp. 549-576.
32 Tarán, op. cit., p. 31. 33 Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec,
traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999
(edizione originale 1996), p. 66. 34 Ivi, p. 65. 243 Questa plausibile spiegazione
della cornice religiosa non può tuttavia non tenere conto proprio della natura
argomentativa della prima sezione del poema - indicata dalla Dea come «discorso
affidabile e pensiero intorno alla Verità» (πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης
B8.50-1) - che la stessa Dea evoca come ἔλεγχος (disamina, prova), invitando il
κοῦρος a giudicare razionalmente (κρῖναι δὲ λόγῳ): consapevolezza che
sembrerebbe contraddire l’urgenza di un pegno divino per il logos proferito.
Rivelazione e verità In realtà Parmenide, come Senofane, sembra per lo più
aderire alla concezione pessimistica della condizione umana espressa
tradizionalmente nella poesia arcaica. Leszl, in proposito, cita il
contemporaneo Teognide (vv. 139-41): οὐδέ τωι ἀνθρώπων παραγίνεται, ὅσσα
θέληισιν· ἴσχει γὰρ χαλεπῆς πείρατ’ ἀμηχανίης. ἄνθρωποι δὲ μάταια νομίζομεν εἰδότες
οὐδέν· θεοὶ δὲ κατὰ σφέτερον πάντα τελοῦσι νόον Nessuno degli uomini ottiene
quanto è nei suoi desideri; si scontra infatti con i limiti postigli dalla dura
inettitudine. Uomini come siamo, coltiviamo illusioni, senza sapere nulla,
mentre gli dei pervengono alla realizzazione di tutto quanto hanno in mente35 .
È significativo che proprio dalla poesia Parmenide ricavi i tratti con cui, in
B6 e B7, caratterizzerà l’impotenza dei «mortali» (βροτοί): essi sono
apostrofati come εἰδότες οὐδέν («che nulla sanno», come in Omero, Teognide,
Mimnermo, Semonide); la loro incapacità di realizzare ciò che è nei loro
intenti è stigmatizzata 35 W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il
corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa
1994, p. 162. 244 come ἀμηχανίη («impotenza», «inettitudine», come in Teognide
e nell’Inno Omerico ad Apollo, vv. 189-193); la loro attitudine cognitiva
liquidata come πλακτὸν νόον («mente errante», con paralleli in Archiloco fr.
58)36 . A dispetto di questo quadro, del fatto che l’uomo, con le sole sue
forze, non possa pervenire alla conoscenza piena della realtà, il proemio narra
come l’intervento e la benevolenza delle divinità consentano – almeno al poeta
– di ricevere e partecipare di quel sapere che è appannaggio divino37. Non
sorprende che tale rivelazione investa in primo luogo le premesse (B2) della
successiva disamina razionale (B6-8), che il kouros è invece sollecitato a
valutare, come se ormai, grazie alla comunicazione dei principi, potesse
concludere autonomamente; né che, alla luce delle tradizioni evocate nello
stesso proemio, essa si sostanzi essenzialmente in termini contemplativi
(B3-4), facendo quasi coincidere la percezione intelligente (νοεῖν) con il
proprio oggetto (εἶναι) 38 . La specifica cornice letteraria e l’implicito
motivo della comunicazione divina sarebbero allora sfruttati, consapevolmente e
strumentalmente, allo scopo di certificare verità e disponibilità dei principi
dell’argomentazione: Parmenide, insomma, avrebbe attribuito i fondamenti della
propria enciclopedia a un’anonima docenza divina, per assicurarne
incontestabilità e universalità. Ovvero, come intende Conche, il sapiente-poeta
avrebbe conservato, nella finzione della Dea, l’idea tradizionale
dell’onniscienza divina, idea di un sapere che tocca la realtà nel suo insieme:
avremmo in questo senso, come già nel caso di Senofane, non più una divinità
religiosa ma filosofica39 . 36 Ivi, pp. 163-4. 37 Ivi, p. 166. 38 Su questo
ancora Leszl, op. cit., p. 168. 39 Conche, op. cit., p. 66. 245 Il problema
della verità Nella pratica poetica sembrava dunque risolversi un cruciale
problema cognitivo40: dal momento che gli esseri umani, nella loro impotenza,
sono soggetti a illusoni, come può il sapiente riconoscere la verità, sottrarsi
a quella condizione di diffusa deficienza (cognitiva) e pretendere di sapere?
Nella cultura greca arcaica, solo un dio poteva essere fonte di verità, e il
linguaggio della comunicazione divina era quello dei versi: Omero ed Esiodo
validavano la loro poesia marcando il fatto che essa annunciava la verità, la
cui conoscenza (sovrumana) era garantita dalla Musa epica41. In questo senso,
il motivo poetico della comunicazione divina è in Parmenide pervasivo,
abbracciando entrambe le sezioni del poema42: l’intero campo del sapere è
esplicitamente ricondotto alla lezione della Dea, tanto le tesi intorno
all’essere, quanto l’enciclopedia del «sistema cosmico» (διάκοσμος), senza
alcuno spazio per una piena rivendicazione autoriale da parte del poeta. Se
consideriamo la struttura dell'opera delineata in conclusione del proemio, e i
passi superstiti della prima sezione, risulta evidente, nella narrazione, come
il rilievo della lezione divina sia funzionale alla focalizzazione del problema
dell'accesso alla veri- 40 Su questo punto è fondamentale il contributo di G.W.
Most, "The poetics of early Greek philosophy", in The Cambridge
Companion to Early Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge
1999, pp. 332-362. Nello specifico rinvio a p. 353. 41 Ivi, p. 343. 42 Sulla
scorta delle indicazioni del testo (DK 28 B8.50-52): ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν
λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε […] A
questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno
a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara […] le due sezioni
sono tradizionalmente designate come Verità e Opinione. 246 tà43. Veridicità ed
essenzialità44, in effetti, erano fondamentali obiettivi poetici che le opere
di Omero ed Esiodo si proponevano e rivendicavano (implicitamente o
esplicitamente): gli inni teogonici, per esempio, articolavano il pantheon
riconducendolo all’origine del cosmo, così assicurando, in forza della rivelazione
della Musa, una conoscenza superumana di cose distanti nel tempo e nello
spazio45 . Quando le Muse di Esiodo dichiarano: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν
ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne
simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare – (Teogonia
27-28), l’intenzione non è di mettere in guardia dal contenuto della buona
poesia, piuttosto dalla comprensione della maggioranza degli uomini, così
scadente da non poter discernere il vero dal falso46. Senofane, probabilmente
nello stesso ambiente culturale di Parmenide47, aveva già chiaramente
manifestato segni di scetticismo nei confronti del mito e di quella tradizione
poetica: πάντα θεοῖσ’ ἀνέθηκαν Ὅμηρός θ’ Ἡσίοδός τε, ὅσσα παρ’ ἀνθρώποισιν ὀνείδεα
καὶ ψόγος ἐστίν, κλέπτειν μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν ogni cosa agli
dei attribuirono Omero ed Esiodo, 43 Su questo punto G. Germani, "ΑΛΗΘΕΙΗ
in Parmenide", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 177-206.
44 Most, op. cit., p. 343. 45 K. Algra, "The beginnings of
cosmology", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit.,
pp. 45-65. Il passo cui ci riferiamo è a p. 49. 46 Most, op. cit., p. 343. 47
La tradizione dossografica antica costantemente associa Parmenide a Senofane:
tale relazione è stata conservata nella tradizione fino al XX secolo, nel corso
del quale essa è risultata profondamente scossa. Con buoni argomenti ha di
recente rilanciato la dipendenza di Parmenide dal pensatore di Colofone John
Palmer (Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999, pp. 186
ss.; Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 324 ss.). 247 quanto
presso gli uomini è cosa riprovevole e censurabile: rubare, commettere
adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B11) Ὅμηρος δὲ καὶ Ἡσίοδος κατὰ
τὸν Κολοφώνιον Ξενοφάνη ὡς πλεῖστ(α) ἐφθέγξαντο θεῶν ἀθεμίστια ἔργα, κλέπτειν
μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν Omero ed Esiodo, secondo Senofane di
Colofone: Numerosissime azioni illegittime hanno narrato degli dei: rubare,
commettere adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B12). Egli (come
Eraclito) prende apertamente posizione contro la falsità dei contenuti di
quella poesia, contro la distorsione della corretta concezione del divino: è
significativo, in questo senso, che proprio a cavallo tra VI e V secolo a.C. si
sviluppi la più importante «misura di recupero»48 a protezione dei poeti:
l'interpretazione allegorica. A Teagene di Reggio dovremmo, in effetti, il
tentativo di sanare la frattura tra le fonti tradizionali dell'autorità poetica
e i più recenti criteri di argomentazione concettuale49 . Certamente la critica
di Senofane rischiava di accentuare il divario tra piano umano e piano divino,
come emerge da alcuni dei frammenti conservati, rendendo conseguentemente
problematico l'accesso alla verità: οὔτοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν,
ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον non è vero che dal principio tutte
le cose gli dei ai mortali svelarono, ma nel tempo, ricercando, essi trovano
ciò che è meglio (DK 21 B18) 48 L'espressione è di Most, op. cit., p. 339. 49
Ibidem. Sulla relazione tra Senofane, Paremnide e Teagene si veda A. Capizzi,
"Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato, cit.. 248 καὶ
τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα
λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ
οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe,
né mai ci sarà sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se,
infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui
stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34). Benché
testo e significato dell'ultimo frammento rimangano ancora controversi50, esso
sembra anticipare la conclusione scettica per cui non esiste criterio per
stabilire una verità evidente e del tutto affidabile. Analogamente si
esprimeva, tra i contemporanei di Parmenide, Alcmeone: Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης
τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων,
περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς
Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte
e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la
certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi51 (DK 24
B1). La scelta di Parmenide - di far ruotare intorno a una figura divina la
comunicazione del poema - potrebbe allora simboleggiare 50 J.H. Lesher, "Early
interest in knowledge", in The Cambridge Companion to Early Greek
Philosophy, cit., pp. 225-249. Il riferimento a p. 229. 51 Dal passo iniziale
del frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la Gemelli
Marciano propone di espungere la virgola, offrendo quindi la seguente
traduzione: «sulle cose invisibili che riguardano i mortali» ("Lire du
début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques",
«Philosophie Antique», 7, 2007 [Présocratiques], p. 19). 249 «la ripresa e la
soluzione parmenidea del problema della verità»52 . Non va quindi trascurata la
possibilità di cogliere, negli echi della poesia religiosa e della stessa
poesia esiodea (con la ripresa di elementi cosmologici della Teogonia), la
specificità dell'esperienza narrata nel proemio come prefigurazione del
complesso dei contenuti dell’opera. Motivi poetici e suggestioni In uno studio
molto innovativo per l’attenzione alla forma poetica del Περὶ φύσεως,
Mourelatos 53 individuò alcuni motivi 54 dell’epica chiaramente presenti nel
poema. Tra questi appaiono di particolare interesse (i) quello del viaggio,
certamente il più importante, anche per le possibili implicazioni (in
precedenza segnalate) con la poesia religiosa; (ii) quello dell’istruzione,
marcata dall’uso della seconda persona nella comunicazione divina, e dal
ricorso a formule programmatiche (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; μαθήσεαι; κόμισαι
δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας; πεύσῃ; εἰδήσεις), memori di Esiodo (Le opere e i giorni) e
Omero. Viaggio ed erramento Dei cinque aspetti rilevati55 nella struttura di
questo «motivo» (motif) omerico - (i) progresso nel viaggio di ritorno, (ii)
regresso ed erramento; (iii) navigazione esperta; (iv) azione folle; (v)
ricerca di informazioni sul ritorno da parte dei parenti a casa – i 52 Germani,
op. cit., p. 187. 53 A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of
Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven –
London 1970, pp. 12-14. 54 Non mi addentro nella distinzione, proposta dallo
studioso, tra «tema» o «concetto», per cui le pure forme poetiche fungono da
veicolo (oggetto della «iconografia»), e «motivo» o «significato complessivo»,
«valore simbolico» (oggetto della «iconologia»). Ibidem, pp. 11-12. 55 Ivi, p.
18. 250 primi quattro appaiono marcatamente sfruttati nel poema. La compiuta
circolarità del viaggio nell'Odissea pone in primo piano il ritorno a casa
(νόστος), per cui esiste una specifica impresa di ricerca (νόστον διζήμενος):
nel proemio si alluderebbe esplicitamente o implicitamente – a seconda delle
interpretazioni – alla stessa situazione (viaggio alla dea e ritorno tra gli
uomini). In ogni caso centrali risulterebbero, nell’economia del poema, la
conduzione (πομπή) delle guide (divine) di scorta al viaggiatore e – per
contrasto – l’erramento (πλάνη) dei «mortali»: analogamente, l’eroe omerico -
accorto e istruito dalle divinità - sa di dover osservare un certo
comportamento, mentre i suoi compagni, privi di lungimiranza, si rendono
colpevoli di azioni irresponsabili, d’ostacolo al viaggio di ritorno56. Così,
al kouros la Dea non manca di riferire le coordinate (i «segni», σήματα) della
via corretta (B8.1-2: μῦθος ὁδοῖο ὡς ἔστιν), mettendolo in guardia dalle
insidie della «abitudine nata dalle molte esperienze» (B7.3: ἔθος πολύπειρον);
alla cui deriva, invece, come i compagni di Odisseo, si abbandonano i «mortali
che nulla sanno» (B6.4: βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), connotati come «uomini a due
teste» (δίκρανοι). Ma il motivo del viaggio non riconduce solo al paradigma
omerico: è probabile ne esistesse una variante letteraria nella poesia
apocalittica 57 , diffusa nei circoli pitagorici, a partire dai Καθαρμοί del
leggendario Epimenide sopra ricordato. Non è solo Diels a crederlo; tra gli
specialisti del XX secolo, Guthrie58, per esempio, coglie, almeno a livello
verbale, echi orfici, che tuttavia non dimostrerebbero altro che il radicamento
nella tradizione della poesia più antica e in quella contemporanea (Pindaro,
Bacchilide, Simonide), mentre ritiene più consistente la possibilità di una
influenza dello sciamanesimo, proprio sulla scorta dei precedenti di Epimenide
e altri (Aristea, Abari, Ermotimo). 56 Ivi, pp. 18-21. 57 Uso l’aggettivo –
come Diels – nel suo significato etimologico da ἀποκαλύπτω (scoprire, rivelare
appunto). 58 W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy. II. The Presocratic
Tradition from Parmenides to Democritus, C.U.P., Cambridge 1965, pp. 10 ss..
251 Esperienze dell'altro mondo Come segnalato in nota ai versi del proemio,
alcune scelte espressive di Parmenide – per esempio il vocativo κοῦρε (con cui
la δαίμων apostrofa il viaggiatore giunto al suo cospetto) e soprattutto la
formula εἰδὼς φώς (con cui è indirettamente designato il poeta) – hanno fatto
pensare a un esplicito richiamo a modelli misterici, destinati a fortunate
riprese in particolare da parte di Platone59 . Rivestono in questo senso un
notevole interesse le laminette funerarie classificate come "orfiche"
(le più antiche risalenti al VIV secolo a.C.) e altri frammenti riconducibili a
quell'ambiente religioso, sia per il motivo del viaggio (per giungere all'Ade:
non agile, non lineare; dunque bisognoso di guida) e della connessa esperienza
che propongono (il giudizio della anime a opera di Dike), sia per specifici
elementi che presuppongono (l'iniziazione) e impongono (la necessità di operare
una scelta di fronte a un bivio). Di recente Ferrari è tornato a segnalare come
l'itinerario del poeta nel proemio, con la sua destinazione infera, abbia
«molto in comune con quegli itinerari iniziatici che i defunti percorrevano
nell'oltretomba», seguendo più o meno puntuali istruzioni60 . Non si
tratterebbe solo di dettagli di contorno (come segnaliamo in nota) che
Parmenide avrebbe recuperato per garantire solennità alla propria composizione,
ma di suggestioni che l'avrebbero informata, fornendo il nesso profondo tra il
racconto del proemio e il resto del poema, saldando «il tema dell'iniziazione
alla fondazione logica del sistema»61 . Così sarebbe possibile ricostruire la
topografia del viaggio parmenideo: percorso privilegiato (sotto la conduzione
delle EliaEliadi: κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον, v. 5) di un "iniziato"
(εἰδὼς φώς) lungo la via che conduce alla porta dell'oltretomba (ὁδός 59 Per
questi aspetti è ancora molto utile M.M. Sassi, "Parmenide al bivio. Per
un'interpretazione del proemio", «La Parola del Passato», cit., pp.
383-396. 60 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza
dall'Odissea alle lamine misteriche, Utet, Torino 2007, p. 115. 61 Sassi, op.
cit., p. 386. 252 πολύφημος δαίμονος, vv. 2-3)62 sorvegliata da Dike, la quale
non solo consentirà al poeta l'accesso al mondo dei morti (per testimoniarne),
ma soprattutto l'incontro con la δαίμων e, conseguentemente, la sua istruzione.
Un tragitto che, a suo tempo, in uno studio pionieristico, Morrison aveva connotato
come quello del «poeta-sciamano in cerca di conoscenza»63, accostandolo
all'esperienza del platonico Er. In modo sorprendentemente simile, le
istruzioni (incise su laminetta aurea) per l'anima del defunto nel sepolcro di
Ipponio (circa 400 a.C.) prevedono: ἐπεὶ ἂμ μέλληισι θανεῖσθαι εἰς Ἀΐδαο δόμους
εὐήρεας Quando ti toccherà di morire andrai alle case ben costrutte di Ade64 ,
dove, presso la palude di Mnemosine (Μναμοσύνη λίμνη), l'anima sarebbe stata
affrontata e interpellata dai «custodi» (φύλακες): [ h ] οι δέ σε εἰρήσονται ἐν
φραςὶ πευκαλίμαισι ὄττι δὴ ἐξερέεις Ἄιδος σκότους ὀλοέεντος che ti chiederanno
nel loro denso cuore Cosa vai cercando nelle tenebre di Ade rovinoso65 . Ma le
laminette propongono soprattutto un'altra suggestione, che potrebbe emergere in
Parmenide (per giungere poi ai miti dell'aldilà platonico) come riflesso di un
fondo escatologico comune 66 : la possibilità che una tappa nell'itinerario
tracciato da 62 La Sassi (pp. 387-8) ricorda come nel mito oltremondano del
Fedone (107d ss.) le anime dei defunti, per coprire il cammino verso l'Ade,
abbiano bisogno di δαίμονες che le conducano come ἡγεμόνες. 63 J.D. Morrison,
"Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies», 75, 1955, pp.
59-68. La citazione è a p. 59. 64 G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi,
Milano 1977, pp. 172-3. 65 Colli, op. cit., pp. 172-3. 66 Sassi, op. cit., pp.
390-1. 253 Parmenide sia costituita dal bivio dell'oltretomba ben attestato
nelle laminette (e nei testi platonici): ἔστ’ ἐπὶ δ < ε > ξιὰ κρήνα, πὰρ
δ’αὐτὰν ἐστακῦα λευκὰ κυπάρισσος [...] ταύτας τᾶς κρᾶνας μηδὲ σχεδὸν ἐνγύθεν ἔλθηις·
πρόσθεν δὲ [ h ] ευρήσεις τᾶς Μναμοσύνας ἀπὸ λίμνας ψυχρὸν ὔδωρ προρέον c'è
alla destra una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto [...] A
questa fonte non andare neppure troppo vicino; ma di fronte troverai fredda
acqua che scorre dalla palude di Mnemosine (laminetta di Ipponio) εὑρήσσεις δ’ Ἀίδαο
δόμων ἐπ’ ἀριστερὰ κρήνην πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον ταύτης τῆς
κρήνης μηδὲ σχεδὸν ἐμπελάσειας. εὑρήσεις δ’ ἑτέραν, τῆς Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης
ψυχρὸν ὕδωρ προρέον E troverai alla sinistra delle case di Ade una fonte, e
accanto a essa un bianco cipresso diritto: a questa fonte non accostarti
neppure, da presso. E ne troverai un'altra, fredda acqua che scorre dalla
palude di Mnemosine (laminetta di Petelia, circa 350 a.C.) εὑρήσεις Ἀίδαο
δόμοις ἐνδέξια κρήνην, πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον ταύτης τῆς
κρήνης μηδὲ σχεδόθεν πελάσηιςθα. πρόσσω εὑρήσεις τὸ Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης ὕδωρ
προ < ρέον > Troverai alla destra delle case di Ade una fonte, e accanto
a essa un bianco cipresso diritto: a quella fonte non accostarti neppure, da
presso. E più avanti troverai la fredda acqua che scorre 254 dalla palude di
Mnemosine (laminetta di Farsalo, circa 330 a.C.)67 . Così come l'iniziato è
preventivamente istruito di fronte all'alternativa delle fonti cui attingere
per placare la propria sete, la Dea di Parmenide, conclusa la propria
allocuzione introduttiva e richiamata l'attenzione del κοῦρος: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω,
κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura della parola, una
volta ascoltata (B2.1), evoca (B2.2) l'immagine delle «vie di ricerca»,
evidentemente biforcate: (i) ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
(B2.3); (ii) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5); per
trattenerlo dal tentativo di percorrere la seconda, come invece accade
(analogamente alle anime che si gettano verso l'acqua della prima fonte) ai
«mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, B6.4)68 . Sono stati compiuti,
negli ultimi anni, tentativi per individuare un modello unitario per tutto il
materiale funerario di questo tipo (che si riferisce a reperti risalenti ai
secoli V-II a.C.), giungendo addirittura a fissare la serie di stazioni che
farebbero da sfondo alle istruzioni per le anime dei defunti69. Più
prudentemente, riferendosi alle laminette di Ipponio, Petelia, Farsalo e
Entella (fine V- fine IV secolo a.C.), Ferrari ha sottolineato come ci si trovi
di fronte «a una traccia poetica sostanzialmente unica e unitaria, ma altresì
che le rimodulazioni dei vari testimoni risultano a tratti 67 Colli, op. cit.,
pp. 172-7. 68 Sassi, op. cit., pp. 392-3. 69 Il tentativo più sistematico è
quello di A. Bernabé, Poetae epici Graeci. Testimonia et fragmenta, II:
Orphicorum et Orphicis similium testimonia et fragmenta, II, K.G. Saur,
Münche-Leipzig 2005, p. 13. di ciò dà conto Ferrari in La fonte del cipresso
bianco, cit., pp. 115-6. 255 importanti e complesse»70. In ogni caso, un
elemento risulta nel nostro contesto significativo: il fatto che nelle
laminette (pur recuperate in località diverse e in qualche caso distanti: si va
dalla Magna Grecia per le prime due laminette, alla Tessaglia per la terza,
alla Sicilia per l'ultima) si faccia «ripetuta menzione di Mnemosine come
divinità che dispensa il dono di ricordare»71, e che rivelerebbe l'appartenenza
dei defunti a circoli pitagorici, a quella cultura, in altre parole, «che
appunto alla memoria assegnava un ruolo cruciale nel processo di ascesi e di
perfezionamento della persona»72. Non è un caso che Pugliese Carratelli,
editore delle laminette, proponga, in relazione all'ambiente e allo specifico
richiamo del proemio di Parmenide a quella temperie, Mnemosine come la δαίμων
innominata di Parmenide. Esperienze sciamaniche Abbiamo citato Morrison a
proposito del suo accostamento del viaggio di Parmenide al tragitto di un
«poeta-sciamano»: la figura dello sciamano - il cui rilievo nell’ambito della
cultura arcaica era stato notato, qualche anno prima del contributo di
Morrison, da Dodds, in una delle opere più originali sulla civiltà greca73 - è
quella di un mediatore tra uomini e dei, che ha la capacità di lasciare in
trance il proprio corpo e di viaggiare in cielo o nell’oltretomba, per
accompagnare altre anime o ricevere istruzioni mediche o cultuali da una
divinità. Egli è spesso poeta o cantore e tipicamente narra in prima persona
dei suoi viaggi celesti e delle sue esperienze: il suo viaggio (il mezzo di
trasporto è talvolta un carro volante) è difficoltoso e può presentare momenti
di erramento prima del desiderato confronto con la divinità. 70 Ivi, p. 119. 71
Ivi, p. 124. 72 Ibidem. 73 E.R. Dodds, I Greci e l’Irrazionale, La Nuova
Italia, Firenze 1959 (edizione originale 1951), capitolo V (Gli sciamani e le origini
del puritanesimo). 256 Anche Mourelatos 74 riconosce le somiglianze tra
l’itinerario del kouros e il complesso di elementi focalizzati da Dodds e
ripresi, in relazione a Parmenide, da Guthrie. Se concediamo la presenza di
certi tratti sciamanici nella Grecia arcaica, il riferimento, nel proemio, al
viaggio del protagonista e alla sua scorta divina (Guthrie parla di «odissea
spirituale dello sciamano») avrebbe allora potuto immediatamente evocare,
nell’immaginazione di un ascoltatore "iniziato" a tali pratiche, i
segni dell’esperienza sciamanica. In questo senso appare ancor più
significativo l’accostamento a Odisseo. In particolare, Mourelatos è convinto
che, dietro o sotto la poesia di Parmenide, si possa rintracciare, oltre a
Omero (e a Esiodo), un consistente corpo di poesia cultuale e profetica del
VII-VI secolo a.C.. Il problema in proposito è la mancanza di esemplari per
valutarne la reale incidenza, forse più importante di quella omerico-esiodea. È
probabile, tuttavia, che l’importanza di questo retroterra dipenda in larga
misura da motivi e temi condivisi dall’epica precedente, sebbene impiegati in
una nuova prospettiva e con una nuova contestualizzazione. Parmenide avrebbe
così usato il complesso del viaggio sciamanico come modello per il suo viaggio
speculativo. Nonostante l’assenza di evidenze testuali che autorizzino a
parlare di un “motivo” letterario, allusioni al paradigma dell'esperienza
sciamanica sarebbero rintracciabili, secondo Kingsley 75 , proprio nel proemio,
quasi a inquadrare la successiva dottrina in una cornice sapienziale
indiscutibile. Anche per l'autore inglese, infatti, il modo di presentarsi del
poeta (come «uomo che sa», εἰδὼς φώς) costituirebbe uno standard nel mondo
greco arcaico per indicare l’«iniziato»76, colui che, in virtù delle proprie
conoscenze, poteva giungere dove ad altri era proibito. Analogamente
l’espressione κοῦρος con cui la Dea si rivolge al poeta denoterebbe una figura
al limite (e tramite) tra mondo umano e divino77: l’esperienza descritta,
infatti, sarebbe quella di un’eccezionale 74 Op. cit., pp. 44-5. 75 P.
Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999. 76 Ivi, p. 62.
77 Ivi, p. 72. 257 κατάβασις, autorizzata da Dike (divinità associata al mondo
infero78). Qui è plausibile che Parmenide si rifacesse a modelli letterari, che
coniugavano il tema della discesa nell’Ade in quanto luogo della rivelazione
(Odissea XI), a un determinato contesto cosmologico (Teogonia 736-774) e a
particolari figure di predestinati, come l’eroe Eracle79 o il leggendario poeta
Orfeo (in questo senso da leggere, analogamente a Dodds80, come sciamano). A
conferma della propria lettura (che in realtà si regge su tradizioni
posteriori), Kingsley porta testimonianze ricavate dall’arte vascolare
dell’epoca e della regione di Elea, che ritraggono l’incontro di Eracle con
Persefone secondo lo schema ripreso da Parmenide, ovvero quello di Orfeo con la
stessa dea infera, e la presenza sullo sfondo di Dike81. In questo modo sarebbe
attestato, se non un motivo poetico-letterario, almeno un retroterra culturale,
tradizionale e locale, in cui il poeta poteva inserire i propri riferimenti,
permettendosi l'anonimità della dea82. In effetti, che il ruolo di divina
interlocutrice sia ricoperto da Persefone, è suggerito dalla stessa accoglienza
del kouros da parte della θεά: non una sorte infausta (la morte?) lo ha
allontanato dal mondo degli uomini, ma un destino di conoscenza sotto l’egida
della giustizia divina. Come se, appunto, ella fosse preoccupata di rassicurare
il poeta circa la sua presenza nel mondo dei morti. D’altra parte, è assai
probabile che il poeta si attenesse a norme compositive, ricorrendo a scelte
espressive non improvvisate e per lo più funzionali a un determinato obiettivo.
Kingsley richiama esemplarmente il ricorso alla ripetizione costante del verbo
φέρω nei primi versi, la cui frequenza sarebbe difficilmente tollerabile, da un
punto di vista poetico, se non per l’effetto “performativo” (immaginando la
recitazione), di incantamento e trasporto. L’attenzione per alcuni dettagli fa
inoltre pensare che Parmenide evocasse precisi riferimenti cultuali (se non
poetici), così inquadrando la propria rivelazione in uno sfondo comprensibile
ai 78 Ivi, pp. 62-3. 79 Ivi, p. 61. 80 Op. cit., pp. 186-7. 81 Op. cit., p. 94.
82 Ivi, p. 97. 258 propri ascoltatori (iniziati): potrebbe dunque non essere
casuale il particolare rilievo iniziale del suono («sibilo acuto», σῦριγξ)
emesso dall’«asse del carro nei mozzi […] incandescente», dal momento che esso
ritorna nella posteriore tradizione dei papiri magici greci, associato proprio
al silenzio della «incubazione» e al viaggio cosmico83 . Maria Laura Gemelli
Marciano84 ha inoltre richiamato l'attenzione sullo spazio (21 versi) dedicato
nel proemio (che consideriamo conservato integralmente) alla descrizione del
viaggio e sull’acribia con cui ne viene resa l'esperienza sensoriale (acustica
e ottica), nonché la topografia: ricchezza di dettagli che sembra escludere il
mero impiego simbolico, tanto più considerando85 la stretta relazione tra suoni
(«sibilo», σῦριγξ), movimenti rotatori (i «cerchi rotanti» δινωτοῖσιν κύκλοις
dei vv. 7-8) – segnali di alterazione dello stato di coscienza - e il
manifestarsi delle figure divine86. Indizi che possono autorizzare la lettura
del poema come resoconto di un viaggio estatico. Alcuni elementi esteriori
concorrono in effetti a collegare Parmenide a questo retroterra apocalittico.
Nel 1962 fu ritrovata a Velia (l’antica Elea) un'iscrizione su blocco marmoreo
che recita87: Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός. Parmenide, figlio di
Pireto, è riconosciuto come Ouliades, seguace di Apollo Oulios (venerato
nell’area anatolica, da cui provenivano i profughi focesi che fondarono nel VI
secolo a.C. Elea), e physikos, a un tempo ricercatore della natura e medico:
dal momento che ad Apollo Oulios era riconducibile la tecnica dei guaritori, è
possibile che la figura del filosofo fosse ufficialmente associata alla
iatromantica (di cui l’archeologia conferma la pratica in Velia), nel solco
dello sciamanesimo (Epimenide) attestato dalla tradizione testuale. Nella
stessa direzione punta un’altra evidenza dossografica: 83 Ivi, pp. 129-130. 84
Die Vorsokratiker, II, p. 54. 85 Sulla scia dello stesso Kingsley. 86 Gemelli
Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, p. 55. 87 Kingsley, op. cit., pp. 139
ss.. 259 ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ
πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον
ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ πλούτου, καὶ ὑπ’ Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ
Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν προετράπη. Parmenide, come affermò Sozione, ebbe
familiarità anche con Aminia, figlio di Diochete, pitagorico, uomo povero, ma
nobile e retto, ciò che tanto più ne favorì l’influenza. Quando questi morì,
Parmenide, che era di famiglia illustre e ricca, eresse per lui un monumento
funebre. Fu proprio Aminia, non Senofane, a volgerlo alla tranquillità di una
vita di studio (Diogene Laerzio; DK 28 A1). Il termine ἡσυχία - qui tradotto
come «tranquillità di una vita di studio» - avrebbe in realtà un valore molto
diverso, soprattutto riferito allo stile di vita esemplare del pitagorico
Aminia: qualcuno parla di vita contemplativa, ovvero di vita filosofica, ma
letteralmente il significato è quello di «quiete, riposo», «silenzio,
immobilità». L’ascetico Aminia sarebbe stato maestro di «incubazione», avrebbe
cioè avviato Parmenide alle tecniche di concentrazione già in uso presso i
gruppi pitagorici88 . Come ha rilevato la Gemelli Marciano89, l'«incubazione»
può fornire la chiave per collegare la iatromantica, riferita all'Eleate dalle
evidenze archeologiche, all'attività di legislatore attribuitagli sempre da
Diogene Laerzio (sulla scorta di Speusippo): almeno secondo lo schema che
Platone ricorda nelle Leggi (624b) in relazione al mitico Minosse, ma che
abbiamo ritrovato in Epimenide e che potrebbe emergere anche nel caso di
Zaleukos, legislatore di Locri, di cui si sosteneva avesse ricevuto le leggi
direttamente dagli dei. Sebbene non sia dato cogliere in quale modo questo insieme
di elementi potesse costituire un “motivo” letterario, è possibile ipotizzare
una sua codifica in una qualche forma recitativa (come nel 88 Kingsley, op.
cit., pp. 179-181. 89 Op. cit., II, p. 45-6. 260 caso delle Purificazioni di
Epimenide), cui Parmenide potrebbe essersi ispirato (viaggio, incontro con
Giustizia e Verità ecc.), evocando situazioni e particolari significativi in
una società ancora legata a quelle pratiche (importate, come crede Kingsley,
dalla patria di origine, Focea, sulle coste dell’Asia Minore). La cornice
cosmologica: Esiodo Il motivo del viaggio e della sua destinazione divina – con
le diverse, possibili suggestioni - risulta comunque proiettato, nel proemio,
all’interno di uno sfondo cosmico (parzialmente delineato nelle allusioni del
testo) modulato su un terzo grande modello poetico, probabilmente decisivo
nell’elaborazione letteraria di Parmenide: la Teogonia di Esiodo. Sulla sua
incidenza pochi hanno dubbi, anche quando, come Mourelatos 90 , privilegino il
confronto con Omero. Sommariamente, infatti, possiamo rilevare: (i) le analogie
tra il proemio del poema e l’inno alle Muse91 della Teogonia; (ii) in
particolare la possibile criticità del già citato rilievo delle Muse in
Teogonia 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν
ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo
anche, quando vogliamo, il vero cantare -, rispetto al programma didattico
proposto in conclusione di B1, con l'opposizione tra verità e incerto opinare
umano; (iii) la presenza strutturale di dettagli dello scenario cosmologico
dell'opera esiodea nel proemio, oltre alla chiara intenzione cosmogonica (e
teogonica) della seconda sezione del poema. 90 Op. cit., p. 33. 91 Su questo,
tra gli altri, concordano Leszl, Couloubaritsis, e soprattutto M.
Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A New View on Their Cosmologies and on
Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974. 261 Quasi Parmenide volesse
sovrapporre o contrapporre la propria verità a quella del poeta di Ascra. A
livello formale, lo sforzo da parte di Parmenide di utilizzare creativamente il
precedente esiodeo appare evidente. Egli si muove in effetti all’interno delle
novità da questi introdotte nella tradizione aedica: il riferimento dell’autore
a se stesso nell’esordio dell’opera e la funzionalità del proemio rispetto al
poema. In relazione all'originalità esiodea del primo aspetto, Arrighetti ha
colto, nel modo di proporsi del poeta rispetto alla memoria letteraria, il
doppio risvolto della «contrapposizione polemica» e, soprattutto, del «distacco
critico», garantito dalla rivelazione delle Muse 92: l’investitura poetica e il
dono divino della verità, come proposti in apertura della Teogonia,
giustificano la pretesa di una poesia diversa dalla tradizionale, in cui
l’autore fondatamente rivendica una visione unitaria del cosmo. D’altra parte,
anche la risorsa proemiale è da Esiodo sfruttata in modo peculiare, nella
misura in cui essa non si riduce ad artificio estrinseco rispetto al canto
poetico vero e proprio, a inno propiziatorio da recuperare nel repertorio di
evocazioni dedicate, sul tipo degli inni tramandati come omerici: il nesso tra
proemio e poema è, nel caso della Teogonia, molto stretto, sia per il
coinvolgimento diretto del poeta e della sua esperienza personale, sia, in
particolare, perché tale esperienza illumina la sostanza complessiva
dell’opera: «il proemio, con il racconto della epifania delle Muse, costituisce
la garanzia del carattere di veridicità del contenuto del poema»93 . A richiamare
l’attenzione dell'interprete sul precedente esiodeo sono tuttavia soprattutto
alcuni elementi di contenuto, in primo luogo lo scenario complessivo del
proemio parmenideo, con un viaggio che conduce, lungo la direttrice del
sentiero di Notte e Giorno (il percorso lungo cui essi si alternano), a un
imponente portale (a protezione della dimora divina), il quale, aprendosi,
rivela un «vuoto enorme» (χάσμ΄ ἀχανὲς), eco delle «porte» (πύλαι) che chiudono
(e dischiudono) l’oscuro Tartaro esiodeo: 92 Esiodo, Teogonia, a cura di G.
Arrighetti, BUR, Milano 1984, pp. 7-8. 93 Ivi, pp. 129-130. 262 ἔνθα δὲ γῆς
δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος ἑξείης
πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ·
χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων
ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης ἀργαλέη· δεινὸν
δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι. τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν
νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι. τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν ἑστηὼς
κεφαλῇ τε καὶ ἀκαμάτῃσι χέρεσσιν ἀστεμφέως, ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσον ἰοῦσαι ἀλλήλας
προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται,
οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα
γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν
ἵκηται· ἡ μὲν ἐπιχθονίοισι φάος πολυδερκὲς ἔχουσα, ἡ δ’ Ὕπνον μετὰ χερσί,
κασίγνητον Θανάτοιο, Νὺξ ὀλοή, νεφέλῃ κεκαλυμμένη ἠεροειδεῖ. ἔνθα δὲ Νυκτὸς παῖδες
ἐρεμνῆς οἰκί’ ἔχουσιν, Ὕπνος καὶ Θάνατος, δεινοὶ θεοί· οὐδέ ποτ’ αὐτοὺς Ἠέλιος
φαέθων ἐπιδέρκεται ἀκτίνεσσιν οὐρανὸν εἰσανιὼν οὐδ’ οὐρανόθεν καταβαίνων. τῶν ἕτερος
μὲν γῆν τε καὶ εὐρέα νῶτα θαλάσσης ἥσυχος ἀνστρέφεται καὶ μείλιχος ἀνθρώποισι,
τοῦ δὲ σιδηρέη μὲν κραδίη, χάλκεον δέ οἱ ἦτορ νηλεὲς ἐν στήθεσσιν· ἔχει δ’ ὃν
πρῶτα λάβῃσιν ἀνθρώπων· ἐχθρὸς δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσιν Là della terra nera e
del Tartaro oscuro, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di
tutti vi sono le scaturigini e i confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli
dèi hanno in odio, voragine enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per
giungere al fondo a chi passasse dentro le porte, 263 ma qua e là lo porterebbe
tempesta sopra tempesta crudele; tremendo anche per dèi immortali è tale
prodigio. E di Notte oscura la casa terribile s'inalza, da nuvole livide
avvolta. Di fronte a essa il figlio di Iapeto tiene il cielo ampio reggendolo
con la testa e con infaticabili braccia, saldo, là dove Notte e Giorno venendo
vicini si salutano passando alterni il gran limitare di bronzo, l'uno per
scendere dentro, l'altro attraverso la porta esce, né mai entrambi ad un tempo
la casa dentro trattiene, ma sempre l'uno fuori della casa la terra percorre e
l'altro dentro la casa aspetta l'ora del suo viaggio fin che essa venga; l'uno
tenendo per i terrestri la luce che molto vede, l'altra ha Sonno fra le sue
mani, fratello di Morte, la Notte funesta, coperta di nube caliginosa. Là hanno
dimora i figli di Notte oscura, Sonno e Morte, terribili dèi; né mai loro Sole
splendente guarda coi raggi, sia che il cielo ascenda o il cielo discenda. Di
essi l'uno la terra e l'ampio dorso del mare Tranquillo percorre e dolce per
gli uomini, dell'altra ferreo è il cuore e di bronzo l'animo, spietata nel
petto; e tiene per sempre colui che lei prende degli uomini, nemica anche agli
dèi immortali.94 (vv. 736-766). Come ci ricorda Privitera95, abbiamo nella
cultura greca arcaica due prospettive sull'alternanza di luce e oscurità: una
fisica, rintracciabile nell'Odissea, l'altra mitica, presente invece in Esiodo,
ma con riscontri anche nell'Iliade. La prima sarebbe "orizzontale",
dal momento che i fenomeni coinvolti (il movimento del Sole, nel suo trascorrere
celeste da oriente a occidente, e il suo 94 Esiodo, Teogonia, cit., pp. 111-3.
95 G.A. Privitera "La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole
in Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei», s. 9, v.
20, 2009, pp. 447-464. 264 tragitto di ritorno a oriente navigando su Oceano
intorno alla Terra) hanno luogo sulla Terra e nel cielo sovrastante. La
seconda, al contrario, "verticale", in quanto i fenomeni terrestri e
celesti sono radicati nel mondo "infero"96. Non si tratta di
prospettive incompatibili, come puntigliosamente dimostra lo studioso: nel caso
di Parmenide (come nel precedente di Stesicoro97) registreremmo un originale
tentativo di inquadrare il rapporto tra Luce-Sole-Notte entro una cornice
cosmica in cui si completano le due prospettive tradizionali98. Nella lettura
di Privitera, ciò avrebbe comportato concentrare strutturalmente il baricentro
del proemio sul percorso solare, trasferendo la Porta del Giorno e della Notte
dall'Ade sulla Terra: sarebbe in questo senso esclusa qualsiasi forma di
katabasis verso il regno dei morti. Eppure i versi esiodei, a dispetto delle
divergenze che pur ne caratterizzano le interpretazioni cosmologiche 99 , si
prestano a suggestioni diverse, proiettando decisamente verso il mondo infero
la ripresa proemiale di Parmenide. Dopo la narrazione della Titanomachia (665
ss.), della sconfitta dei Titani (713 ss.) e della loro segregazione in un
remoto luogo infero (720 ss.), Esiodo ci informa che sopra quella prigione,
nelle profondità sotterranee, si sviluppano le radici del mare e della terra
(729): come intendesse garantire sulla sicurezza della detenzione, il poeta
fornisce particolari sulle modalità di reclusione dei Titani (immobilizzati da
«lacci tremendi» 718), e sulla località di carcerazione («un'oscura regione,
all'estremo della terra prodigiosa», cintata tutta intorno e assicurata da
portali di bronzo, e guardiani infernali, 731-5). La descrizione del mondo
sotterraneo è dunque organicamente inserita nel contesto teogonico,
sottolineando la rassicurante distanza infera delle ostili forze titaniche: ἔνθα
δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος
96 Ivi, p. 449. 97 Ivi, p. 453. 98 Ibidem. 99 Si vedano, per esempio la
discussione specifica in Pellikaan-Engel (op. cit., capp. II-III), ma anche le
annotazioni di Arrighetti (op. cit., pp. 151-2). 265 ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ
πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ. ἔνθα δὲ μαρμάρεαί τε
πύλαι καὶ χάλκεος οὐδός, ἀστεμφὲς ῥίζῃσι διηνεκέεσσιν ἀρηρώς, αὐτοφυής· πρόσθεν
δὲ θεῶν ἔκτοσθεν ἁπάντων Τιτῆνες ναίουσι, πέρην χάεος ζοφεροῖο. Là della terra
oscura e del Tartaro tenebroso, del mare infecondo e del cielo stellato, di
seguito, di tutti, sono le scaturigini e i confini, luoghi squallidi e oscuri,
che anche gli dèi hanno in odio. Là sono le porte splendenti e la bronzea
soglia, inconcussa, su radici infinite commessa, nata spontaneamente; davanti,
lontano da tutti gli dèi, i Titani hanno la loro dimora, di là dal caos
tenebroso100 (vv. 807-814). In questa sua intenzione, è possibile che Esiodo
effettivamente giustapponesse (come vogliono Privitera e Arrighetti)
prospettiva orizzontale e verticale, oscillando tra una dislocazione
occidentale e una sotterranea dell'«al di là», ma, come ha puntualmente indicato
nella sua analisi la Pellikaan-Engel101, va presa seriamente in considerazione
l'ipotesi che il poeta alludesse a un quadro cosmologico diverso da quello
(sostanzialmente emisferico) della tradizione omerica. La Terra vi comparirebbe
come un disco piatto (ancorché ondulato sulle due superfici), immobile,
circondato dalla solida, rotante sfera celeste, il cui emisfero sovrastante
sarebbe stato designato propriamente come «cielo»; quello sottostante avrebbe
invece costituito quella regione infera in cui proiettare la minaccia titanica
e localizzare il sistema di tutele contro la sua risorgenza. In questo senso,
allora, è possibile che, alla luce del ruolo e del corso cosmico e mitico del
Sole, Esiodo incrociasse, rispetto all'esperienza terrestre, il tradizionale
orientamento orizzontale (estovest, secondo la direzione quotidiana
dell'astro), con la prospet- 100 Teogonia, cit., p. 115. 101 Op. cit.. Si veda
in particolare il capitolo II. 266 tiva verticale rappresentata dalle opposte
estremità, a ridosso della sfera celeste avvolgente, dell'Olimpo e del Tartaro.
Una certa confusione (stridente in qualche dettaglio) si avrebbe semmai,
secondo quanto rileva la Pellikaan-Engel102, tra fenomeni (diurni e notturni) e
loro personificazione (Giorno e Notte). Così, nel quadro che possiamo
ricostruire dai versi citati, all'estremo limite occidentale della Terra, dove
Atlante («il figlio di Iapeto») sorregge la sfera celeste (per impedirle di
gravare direttamente sulla superficie terrestre e impedire il passaggio del
Sole), si incontrano e danno il cambio Giorno e Notte, i quali,
alternativamente, discendono verso il mondo infero per soggiornare nella «casa
della Notte», e ascendere poi, quando giunge il loro turno, verso il mondo
terrestre (che quindi passa regolarmente dal regime diurno a quello notturno).
A tale ciclo e struttura cosmici si riferirebbero i versi del proemio: «i
battenti dei sentieri di Notte e Giorno» avrebbero la funzione di discriminare
i due mondi, attraverso cui si succedono i passaggi delle due divinità,
consentendo l'accesso al mondo infero, in cui sarebbe locata «la dimora della
Notte» (δώματα Nυκτός). Ad accentuare tale prospettiva "verticale" la
possibile associazione tra tale sito e l'accesso all'Ade, proprio come nella
poesia esiodea: ἔνθα θεοῦ χθονίου πρόσθεν δόμοι ἠχήεντες ἰφθίμου τ’ Ἀίδεω καὶ ἐπαινῆς
Περσεφονείης ἑστᾶσιν Lì davanti del dio degli inferi la casa sonora, del
possente Ade e della terribile Persefoneia, s'inalza [...]103 (vv. 767-769a)
Sebbene possano essere sollevati dubbi circa l'esatta struttura cosmologica che
fa da sfondo al racconto parmenideo, le analogie con il modello esiodeo
potrebbero dunque autorizzare l'ipotesi che il superamento della soglia
sorvegliata da Dike apra al poeta non genericamente uno spazio oltremondano, ma
propriamente la 102 Ivi, p. 38. 103 Teogonia, cit., p. 113. 267 direzione
dell’oltretomba, in altre parole del luogo tradizionalmente privilegiato per le
rivelazioni. Parmenide e la poesia: conclusioni provvisorie È probabilmente
questa la cornice entro cui Parmenide decide di concentrare gli altri elementi
della propria creazione, elaborando, consapevolmente e in modo originale,
materiali tradizionali, significativi nella comprensione dei contemporanei.
Questo non implica che egli abbia semplicemente puntato all’effetto
comunicativo, curandosi essenzialmente dell’impatto persuasivo dell’immaginario
così plasmato. Accogliendo le suggestioni di Kingsley (e ancora della Gemelli
Marciano) circa il radicamento del pensatore all’interno di un sistema di
credenze e pratiche ereditate dai costumi e culti del suo popolo, potremmo
ipotizzare che l’intenzione di Parmenide fosse quella di veicolare, nelle forme
ispirate della tradizionale poesia epica, arricchite dell’eco suggestiva
(suoni, movimenti ecc.) di una straordinaria esperienza sciamanica, un nuovo
punto di vista, maturato nella ricerca personale e nel confronto con la cultura
ionica e pitagorica, e la conseguente condotta di vita. Una prospettiva
interpretativa che, a partire dalla centralità dell’elaborazione poetica,
impone il problema di determinare il nesso tra gli elementi di immediatezza ed
emotività di quello sfondo culturale e l'indiscutibile impianto logico del Περὶ
φύσεως. Anticipando le conclusioni delle successive analisi, è da rilevare come
la difficoltà dell’interprete, nel caso di Parmenide, risieda proprio nella
determinazione della continuità tra esperienze religiose, il cui retroterra
emerge nell’espressione poetica, e razionalità scientifica, che prende corpo
nelle due sezioni del poema. Le strade per lo più battute nella storia delle
interpretazioni sono, in realtà, quelle (maggioritarie) che scorporano i
frammenti successivi dal proemio, quasi si trattasse di corpo estraneo
all’originale comunicazione parmenidea, ovvero quelle (minorita- 268 rie) che
unilateralmente insistono sull’evento rivelativo (e sui suoi contorni),
trascurando poi il fatto che il tutto cosmico era l’oggetto di analisi (anche
dettagliata) nell’opera, come attestato dalla titolazione tradizionale e,
soprattutto, dalla sua consistente seconda sezione. È plausibile, al contrario,
che il complesso del proemio prefiguri le tesi del filosofo e che queste non
siano estranee a un intento trasformativo (Robbiano), indistricabilmente
connesso alle esperienze evocate. In questo senso, si può condividere il
suggerimento (Robbiano e Stemich) di cogliere nella sapienza comunicata nel
poema essenzialmente uno “stile di vita”, prefigurante l’accezione di filosofia
poi affermatasi (secondo la lezione di Hadot104) nel socratismo e soprattutto
nella cultura ellenistica. In dissenso da Mourelatos, per il quale, invece, gli
imperativi della dea sono tutti rivolti a un’attività di tipo cognitivo, non al
bios o al prattein105 . D'altra parte, contestualizzando la lettura del
proemio, è prudente rigettare un approccio meramente allegorico,
rintracciandovi piuttosto l’espressione di un’esperienza vissuta. Appare
fondata l’osservazione di Leszl106, secondo cui un'interpretazione allegorica -
come quella fornita da Sesto Empirico - si scontra con il fatto che la pratica
dell’allegoresi era, al tempo (fine VI secolo a.C.), solo agli inizi, con
Teagene di Reggio (forse, come Parmenide, legato all’ambiente pitagorica107.
Possiamo supporre108, allora, che, nella narrazione del viaggio del poeta Parmenide,
siano confluiti elementi eterogenei - il resoconto di una genuina esperienza
visionaria, allusioni cosmologiche, intenzioni didascaliche: il poeta avrebbe
plasmato, nel modulo espressivo più vicino alla sua formazione rapsodica,
immagini e contenuti a un tempo adeguati a manifestare le sue conquiste
spirituali, ed efficaci per co- 104 P. Hadot, Exercices spirituels et
philosophie antique, Albin Michel, Paris 20022 . 105 Op. cit., p. 45. 106 Op.
cit., p. 144. 107 Allegoristi dell’età classica, Opere e frammenti, a cura di
I. Ramelli, Bompiani, Milano 2007, p. XII. 108 Come fanno lo stesso Leszl, op.
cit., p. 145, e Coxon, op. cit., p. 156. 269 involgere (emotivamente e
intellettualmente) il pubblico destinatario (plausibilmente un gruppo ristretto
di discepoli109). Ciò comportava, naturalmente, anche consapevoli opzioni
simboliche, per le quali egli poteva attingere all’immaginario dell’epica e,
probabilmente, della stessa poesia apocalittica: il poema appare in effetti
concentrato sull’effetto (il mutamento della prospettiva cognitiva e la
correlata trasformazione dell’attitudine personale) dell’impatto con la verità,
della scoperta del reale assetto del tutto cosmico. Il viaggio e la sua
esperienza L’esplicita indicazione di Sesto Empirico ci attesta – come abbiamo
riscontrato introduttivamente - la tradizione integrale dell’incipit del poema
in quello che è classificato, nella edizione Diels-Kranz, come frammento B1: il
privilegio di disporre dell’esordio nella sua originale interezza offre l’opportunità
di valutarne costruzione, impronta e ufficio all’interno dell’impresa
complessiva di Parmenide. Comunque se ne interpreti il messaggio, è chiaro come
il poeta intenda marcare l’eccezionalità dell'esperienza cantata, che – abbiamo
sottolineato - non appare mera, scontata formula di indirizzo, sebbene,
prendendo in considerazione i contenuti dell’opera conservati nei frammenti
successivi, l’aura del mito possa superficialmente risultare stridente con gli
incoraggiamenti alla ponderazione razionale (B7 e B8) e con le fatiche
argomentative di B8. Come abbiamo già rilevato, è plausibile, infatti, che il
preambolo proponesse quella veste proprio in funzione di quei contenuti e degli
obiettivi educativi che il filosofo-poeta si prefiggeva. 109 Questa è l'impressione
della Gemelli Marciano (M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des
Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet
(éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic
Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord)
2002, pp. 83-114. Il riferimento alle pp. 89-90. 270 Nel segno dell’eccezione
Nonostante i particolari sfumati della rappresentazione d’insieme - dettagliata
in alcuni passaggi (descrizione del carro e della apertura della porta) e molto
indeterminata in altri (tragitto oltre la porta)110 - abbiano dato adito a vari
tentativi di contestualizzazione del viaggio, il suo carattere straordinario è
segnalato da due momenti ben evidenziati nei versi parmenidei: (i) l’intervento
delle Eliadi (Ἡλιάδες κοῦραι) presso Dike, austera (πολύποινος, «che molto
punisce») guardiana del portale, per persuaderla a consentire il passaggio del
carro che conduce il poeta: le fanciulle devono placarla «con parole
compiacenti» (μαλακοῖσι λόγοισιν) e «sapientemente» (ἐπιφράδεως) convincerla a
concedere una possibilità evidentemente non garantita ad altri mortali; (ii) la
formula di accoglienza della Dea, la quale rileva che: (a) non è stata «Moira
infausta» (Μοῖρα κακὴ, destino infausto) a spingere il giovane (κοῦρος) al suo
cospetto; (b) la via (ὁδός) per cui è stato guidato è «lontana dal percorso
degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου). Incrociando i rilievi, si evince che
l’esperienza di cui è protagonista il poeta eccede i limiti dell’umano e che
ciò accade secondo un disegno cui concorrono le aspirazioni (θυμός) del
filosofo (v. 1): ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι Le cavalle che
mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere, e il decisivo ausilio
divino (vv. 8b-9a): ὅτε σπερχοίατο πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι mentre si
affrettavano a scortar[mi] le fanciulle Eliadi. 110 Leszl, op. cit., p. 141.
271 L’eccezione coinvolge in particolare due aspetti. Il poeta ha chiaramente
l’opportunità: (i) di spingersi oltre i confini stabiliti per le ambizioni
mortali, e, in tal modo, (ii) di accedere non semplicemente alla rivelazione
della verità, ma più esattamente a una lezione articolata, che lo informerà
circa (a) la natura della realtà (vv. 28b-29): χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης
εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità
ben rotonda il cuore fermo, (b) la natura del comune fraintendimento (v. 30): ἠδὲ
βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia dei mortali le opinioni, in cui
non è reale credibilità, (c) fornendo soprattutto (pensando alla struttura del
poema), alla luce di quegli errori, gli strumenti corretti di comprensione del
mondo della nostra esperienza (vv. 31-2): ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ
δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure anche questo
imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero
realmente, tutte insieme davvero esistenti. A sancire tale eccezione
registriamo, insomma, un triplice avallo divino: (i) la scorta delle Eliadi,
che si muovono a sostenere e realizzare lo sforzo del poeta\filosofo; (ii) la
condiscendenza di Dike, che veglia sulle infrazioni ed è garante dei limiti;
272 (iii) la comunicazione della θεά senza nome - che può offrire la chiave per
giungere alla Verità - meta del viaggio cui viene finalizzata l’aspirazione del
poeta\filosofo. Il quadro è, nell’insieme, una modulazione di quello arcaico
tradizionale: sotto protezione divina al poeta è permesso accostarsi a una
condizione sovrumana111, che descriveremmo in termini di ispirazione,
illuminazione e rivelazione. In altre parole, il privilegio della conoscenza
superiore costituisce una sorta di trascendimento dello status mortale: nel
rispetto, tuttavia, dell’indiscutibile primato del divino. Come anticipato
nelle pagine precedenti e nelle annotazioni al testo del frammento, le
indicazioni del proemio sembrano dislocare tale trascendimento nel mondo
infero. In tal senso si può interpretare il riferimento della dea a «Moira
infausta» (ovvero «destino infausto») e, soprattutto, alludendo a δώματα
Nυκτός, all’abisso del Tartaro descritto meticolosamente da Esiodo (Teogonia
736- 745)112, con la prossimità della «dimora della Notte» (scortata nel suo
corso da Sonno e Morte) alla «porta del possente Ade e della terribile
Persefoneia» (vv. 758-778). In analoga direzione concorrono vari elementi
esteriori (rilievi archeologici113, dati storici114), cui abbiamo sopra
accennato, che confermano, nel caso di Parmenide e di Elea, la probabile
relazione con il culto di Persefone, che potrebbe dunque essere la θεά,
innominata in quanto scontato referente. D’altra parte il viaggio nel regno dei
morti, anche senza voler fare eccessivo affidamento sulle credenze sciamaniche,
già in Omero (Odissea XI) risultava cruciale per la conoscenza della verità. La
stessa figura di Δίκη πολύποινος - l’aggettivo πολύποινος ricorre solo in un
altro testo, un poema attribuito a Orfeo (fr. 158 Kern), in cui Dike affianca
111 Leszl, op. cit., p. 167. 112 Cerri, op. cit., p. 173. 113 Kingsley conferma
che figurazioni vascolari rappresentano Persefone che accoglie nell’Ade Eracle
e Orfeo, stringendo loro la mano destra, proprio come la dea innominata fa con
il kouros del proemio. Op. cit., pp. 93-100. 114 Elea era centro di un culto
dedicato a Demetra e Persefone (Cerri, op. cit., p. 108). 273 Zeus nell’atto di
relegare i Titani nel Tartaro115 - troverebbe in tale scenario la propria
naturale collocazione: nell’Ade i morti subiscono il giudizio divino e
ricevono, conseguentemente, la punizione delle colpe commesse in vita. La
plausibile destinazione individuata per il viaggio del poeta avrebbe, tuttavia,
anche un secondo e non meno rilevante risvolto nella prospettiva del poema. Il
percorso indicato, infatti, richiama la visione mitica del cosmo espressa in
Esiodo e Omero, in cui i confini del mondo coincidono con quelli della terra
(la cui superficie è piatta), sui cui limiti estremi poggia il cielo-cupola116:
in questo senso, nel caso dell’Odissea, la katabasis non è intesa tanto come
discesa sotto la superficie della terra, piuttosto come raggiungimento di un
luogo oltre i limiti della superficie terrestre117 . La nozione del limite (e
del suo superamento) è poi significativamente evocata dal vettore e dalla
scorta, che richiamano l’immagine del carro del Sole e il mito di Fetonte118 .
In effetti, la conduzione delle Eliadi (figlie di Helios, il Sole appunto) e il
tragitto verso «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ
Ἤματός κελεύθων, v. 11), che complessivamente tracciano i contorni celesti, se
da un lato sembrano insistere sul punto di vista privilegiato garantito al
poeta, dall’altro, indirettamente, attraverso l’implicita rievocazione di
Fetonte (fratello delle Eliadi, la cui imperizia nel condurre il carro,
sottratto di nascosto al padre Sole, richiese l’intervento riparatore di Zeus),
suggeriscono anche l’idea della regolarità e della misura cosmica, rafforzata
dalla presenza severa di Dike. Come in Esiodo e in altri pensatori arcaici
(Anassimandro e il contemporaneo Eraclito), la processualità della natura –
l’alternanza di notte e giorno ai confini del cosmo - si svolge in conformità
con le prescrizioni della giustizia119. Al poeta è dunque attribuito – garante
Dike – il favore 115 Cerri, op. cit., pp. 104-5. 116 Leszl, op. cit., p. 149.
117 Ivi, p. 144. 118 Benché in genere l’accostamento non sia sfuggito ai
commentatori, mi pare particolarmente felice la lettura che ne propone Leszl
(p. 147). 119 Ibidem. 274 di seguire il corso del Sole, abbracciando così nel
tragitto mitico l’intera realtà cosmica e accedendo ai misteri dell’oltremondo.
Al di là dell'esperienza quotidiana L’eccezionalità dell'esperienza del poeta,
sottolineata nel suo indirizzo dalla θεά, non sarebbe allora riducibile
semplicemente a una discesa (κατάβασις) agli inferi, ovvero a una ascesa (ἀνάβασις)
celeste: quanto risulta marcato nei versi del proemio è la distanza della via
seguita nel corso del viaggio «dal percorso degli uomini» (ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς
πάτου ἐστίν, v. 27). La porta del Sole, identificata con la Porta dell’Ade
(Iliade VIII, 13- 16; Odissea XXIV, 11-14; Esiodo, Teogonia 740 ss; 744-757;
811-814), è, in effetti, miticamente situata nell’occidente estremo,
lontanissima quindi dalle regioni abitate: poggia sulla superficie terrestre,
al di sotto della quale si radica nel profondo, mentre i suoi pilastri si
elevano tanto da toccare il cielo. Oltre essa l’abisso, il mondo dei morti, il
regno di Ade e Persefone120. Come ricorda Cerri, si tratta di una «porta
cosmica», sia in quanto discrimina il percorso del sole e quindi giorno e
notte, sia in quanto separa il mondo dei vivi e quello dei morti121 . Ciò che,
in realtà, viene sottolineato nel resoconto parmenideo non è l’allontanamento
dalla terra per pervenire alla porta del cielo, superare i confini del mondo e
incontrare, nell’etere celeste, la dea rivelatrice (Mansfeld), né propriamente
il viaggio nell’oltretomba (Burkert) ovvero verso il centro del cosmo
(Pellikaan-Engel). Il poeta, scortato dalle Eliadi sul carro solare, perviene
presso e oltrepassa la «porta cosmica», raggiungendo, dunque, il punto
privilegiato che è accesso, a un tempo, all’Ade e al cielo (con la duplice
valenza, quindi, di rivelazione e illuminazione). In ogni caso, la tradizionale
oscurità dell’Ade appare, per la meta del viaggio, più giustificata nel
contesto rispetto alla luce 120 Cerri, op. cit., p. 98. 121 Ivi, p. 99. 275
celeste122: sono le Eliadi a doversi portare «verso la luce», muovendo dalla
«dimora della Notte» (dove hanno soggiornato durante la pausa notturna: il loro
viaggio comincia, dunque, presumibilmente all’alba), a cui ritornano, con la
compagnia del poeta, percorrendo, plausibilmente, il consueto tragitto solare
(cioè al tramonto, quando Notte ha nuovamente abbandonato la propria dimora per
dar cambio a Giorno). In questo senso, pur ribadendo la convinzione che a
Parmenide prema soprattutto evidenziare l’oltrepassammento dell'esperienza
quotidiana e la distanza dell’accesso alla Verità rispetto all’ordinario spazio
delle relazioni umane, la katabasis certamente offre al poeta un paradigma
influente. Al nodo della “direzione” del viaggio è poi legato quello dei suoi
tempi. Il poema si apre con il presente: ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς
ἱκάνοι Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere
(v. 1), quasi a marcare un’abitudine123 ovvero, all’interno della narrazione,
un elemento di sfondo, indipendente dallo sviluppo del racconto, come i
successivi rilievi (sempre riferiti al presente) sulla «strada […] della divinità»:
ἣ κατὰ † ... † φέρει εἰδότα φῶτα che porta † ... † l’uomo sapiente (v. 3),
sulla struttura della “porta cosmica” e sul ruolo di Dike: ἔνθα πύλαι Νυκτός τε
καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων, καί σφας ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ
δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Díkh πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς.
Là sono i battenti dei sentieri di Notte e Giorno: architrave e soglia di
pietra li incornicia; 122 Ciò a dispetto delle osservazioni di G.A. Privitera,
op. cit.. 123 Guthrie, op. cit., p. 7. 276 essi, alti nell’aria, sono
agganciati a grande telaio. Dike, che molto castiga, ne detiene le chiavi
dall’uso alterno (vv. 11-14). Nel primo caso sarebbe accentuato il tratto
sciamanico della figura del poeta, avvezzo a straordinarie escursioni; nel
secondo valorizzata, invece, la sua disposizione al sapere, la sua aspirazione
(θυμός, desiderio) alla verità124, condizione dell'esperienza di conoscenza
annunciata nel poema quanto la successiva rivelazione della Dea. In ogni caso,
l’uso del presente comporta che le «cavalle», soggetto della relativa, abbiano
una relazione non episodica con il poeta-narratore e dunque siano irriducibili
a mero vettore in una esperienza eccezionale, che continuino, cioè, a operare
nella contemporaneità, siano parte di un’esperienza di verità che possa
ripetersi (a cui altri, al limite, possano essere avviati125). Nel senso
allegorico proposto da Coxon126, il poeta è ancora sul carro, con un viaggio
ancora davanti a sé, con le cavalle che continuano a essere le sue forze motrici:
il viaggio diverrebbe allora figura del conseguimento metodico della filosofia,
secondo la lezione ricevuta; le cavalle figura della forza (θυμός) che lo
spinge a filosofare. Nel passaggio al secondo verso, al contrario, appare
chiara l’intenzione di Parmenide di raccontare, nelle sue sequenze, la vicenda
che lo ha visto privilegiato discepolo della Dea: πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν
πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος, ἣ κατὰ † ... † φέρει εἰδότα φῶτα· 124 Martina
Stemich, nella sua ricerca su Eraclito (Heraklit. Der Werdegang des Weisen,
Grüner, Amsterdam 1996, pp. 41 ss.), rintraccia una precondizione filosofica
analoga nel frammento DK 22 B18: «Se uno non spera, non potrà trovare
l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio». 125 In questo
senso ingressivo la Stemich (Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, cit.,
pp. 39-40) interpreta l’intera esperienza del proemio: sebbene il percorso
verso la Dea sia già stato compiuto, esso – in quanto motivo connesso a una
trasformazione comprensibile solo come sviluppo sistematico – diventerebbe
emblematico della graduale approssimazione alla conoscenza ricercata dal
filosofo. 126 Coxon, op. cit., p. 14. 277 τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι
φέρον ἵπποι ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον [Le cavalle] mi
guidavano, dopo che, conducendomi, mi ebbero avviato sulla via ricca di canti
della divinità che porta † ... † l’uomo sapiente. Su questa via ero portato,
perché su questa via mi portavano molto avvedute cavalle, trainando il carro:
fanciulle mostravano la via (vv. 2- 5). L’uso dei tempi verbali impone sia la
prospettiva dello sviluppo e della continuità dell’azione nel passato
(imperfetto, che, comunque, qualcuno127 interpreta come “imperfetto storico”
traducendolo con il presente), sia quella delle sue successive e puntuali
sequenze compiute (aoristo), rafforzata, nel verso 2, anche dal ricorso alla
congiunzione ἐπεί («dopo che»). L’intero proemio è costruito intorno a questo
ordito temporale che, se valorizziamo l’opposizione presente-passato, potrebbe
alludere – come intendono Mansfeld128 e Ferrari129 - al presente della
condizione sapienziale del poeta, conseguita grazie alla rivelazione della Dea
e dunque giustificata dalla narrazione, dal passato. Nel presente della
performance recitativa il poeta evoca l’avventura della conoscenza che lo ha
visto fortunato protagonista al cospetto della divinità, del cui dono si
propone di far partecipi gli altri mortali: il sapiente, l’uomo che sa (εἰδὼς
φώς), è tale per essere stato guidato, condotto lungo la «via della divinità»
(il genitivo δαίμονος ha valore soggettivo e oggettivo a un tempo: «della
divinità» perché a essa appartiene ovvero a essa conduce); il canto poetico
documenta quel privilegio. Questa prospettiva temporale, che collegherebbe al
presente dei versi 1 e 3 una condizione di conoscenza giustificata dall'e- 127
Conche, op. cit., p. 44.. 128 J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und
die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 228-229. 129 F. Ferrari, La
fonte del cipresso bianco…, cit., cap. VIII "Il ritorno del
«kouros»"; id., Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo
dei Presocratici, Aracne, Roma 2010, capitolo V "Il ritorno". 278
sperienza (εἰδώς implica etimologicamente l’esperienza visiva) narrata in quelli
successivi 130, può essere messa in discussione partendo dall’uso che,
dell'espressione εἰδὼς φώς, si sarebbe fatto, nella ritualità misterica, per
indicare l’«iniziato» (analogamente, come sappiamo, potrebbe intendersi anche
il ricorso a κοῦρος al v. 24), e che potrebbe dunque designare una minoranza
predisposta, per intelligenza e tirocinio, alla scoperta della verità131. Il
termine εἰδώς si potrebbe allora riferire alla conoscenza pregressa di
Parmenide: in relazione all’obiettivo da raggiungere, ciò garantirebbe un senso
anche a θυμός (v. 1), allo slancio dell’animo del poeta verso il contatto con
la verità. Nulla vieta, tuttavia, di mantenere distinte le qualità necessarie
per accedere alla verità – che il poeta\sapiente avrebbe evocato con il paradigma
iniziatico dell’εἰδὼς φώς – dalla piena cognizione di essa, disponibile –
all’interno del tradizionale modello oppositivo tra conoscenza umana e
conoscenza divina – in virtù dell’eccezionale prerogativa di una rivelazione
divina. In tal caso la condizione che consente al poeta di annunciare la verità
(presente) è conseguita grazie alla comunicazione divina (passato), in cui si
realizza comunque la sua originaria aspirazione. Accentuando (arbitrariamente)
la significazione e composizione simbolica nel racconto, si potrebbero
identificare due movimenti – quello del poeta sul carro tirato dalle cavalle e
quello delle Eliadi che intervengono a scortarlo presso le divinità – come
rievocazione della tensione religiosa del κοῦρος verso l’esperienza della rivelazione
ovvero figurazione della ricerca di un accesso alla piena conoscenza della
realtà. Ancora sul nodo delle divinità Abbiamo già avuto modo di portare
l’attenzione – nell’economia complessiva del frammento B1 e nello specifico 130
Si tratta appunto della proposta di Mansfeld, op. cit., pp. 226-7. 131 Cerri,
op. cit., pp. 169-170. 279 rilievo dell'eccezionalità dell'esperienza
celebratavi – sul ruolo delle figure divine proposte nel proemio: (i)
l’incarico di direzione, guida e tutela delle Eliadi; (ii) la funzione di
garanzia e sanzione di Dike; (iii) l’ufficio rivelativo della θεά anonima,
rispetto a cui, globalmente, nella vicenda cantata, gli altri due risultano
subordinati. In un contesto già popolato da molte altre potenziali132 entità
divine (Notte, Giorno, Temi, Moira, Verità), il loro rilievo non può essere
meramente narrativo, ma, nell'insieme dell'esperienza che il poeta intendeva
comunicare, doveva probabilmente celare anche una valenza simbolica.
Riprendiamo brevemente la questione. Dike deve essere persuasa dalle Eliadi ad
accondiscendere all’eccezione, proprio per consentire la rivelazione: la dea è
evocata in una mansione che il pensiero arcaico le riconosce, come «ipostasi
mitica della legge della physis» 133, che vincola elementi e fenomeni
nell’equilibrio del tutto. È significativo che anche in Eraclito essa si
esplichi in relazione al movimento solare e in genere alla regolare alternanza
di giorno e notte (che tanto rilievo cosmologico hanno nel proemio): Ἥλιος γὰρ
οὐχ ὑπερβήσεται μέτρα· εἰ δὲ μή, Ἐρινύες μιν Δίκης ἐπίκουροι ἐξευρήσουσιν le
Erinni che troveranno Helios, qualora egli oltrepassi le sue misure, sono
ministre di Dike (DK 22 B94). Incrociando nell’universo mitico la sua figura
con quella delle Eliadi (divinità solari dell'illuminazione)134, Parmenide si
rifaceva al mito di Fetonte, che esse, in una variante della storia (ripresa in
una perduta tragedia eschilea – le Eliadi appunto -, alla cui rappresentazione
a Siracusa Parmenide potrebbe aver presenziato135) aiutarono nell’impresa di
guidare il carro del Sole. Alla luce di 132 Se se ne accetta la
personificazione, giustificata dall’insieme dell’indirizzo e del tono religioso
del poema. 133 Cerri, op. cit., pp. 104-5. 134 Come ricorda Cerri, op. cit., p.
173. 135 Capizzi, op. cit, p. 52. 280 questa circostanza, che i versi
dell’esordio poetico possono richiamare, Parmenide si proporrebbe come una
sorta di nuovo Fetonte, sebbene, nel suo caso, come ricorda la Dea, il viaggio
proceda (vv. 26-8) sotto buoni auspici136: di questo le Eliadi devono
convincere Dike, perché autorizzi il passaggio lungo la traiettoria solare. Se
accettiamo questo accostamento, la divinità allusa nei vv. 2-3 potrebbe essere
proprio il Sole: il carro su cui viaggia il poeta potrebbe essere allora il
suo, così come la via quella che il Sole percorre, e che conduce ai confini del
mondo. Ma l’associazione tra Eliadi e Dike è evocatrice anche in un’altra
direzione: abbiamo ricordato come, nella cosmologia mitica esiodea ricostruita
puntualmente dalla Pellikaan-Engel, la «dimora della Notte» sia collocata nelle
profondità del Tartaro (il mondo infero), in prossimità dell'accesso all'Ade
(il mondo dei morti), in una regione in cui hanno le loro radici la terra, il
mare, il cielo, abisso senza fine (caos), luogo terrificante anche per gli
dei137. In tale dimora soggiornano alternativamente Notte e Giorno: da essa
muovono e a essa conducono le Eliadi. Esse, uscite dalla porta cosmica del
Giorno e della Notte (su questo punto in Esiodo c'è un'incongruenza: dovrebbero
essere due, collocate alle estremità orientali e occidentali), prelevano
Parmenide (all’alba: si tolgono i veli notturni) e lo guidano alla stessa
porta, alta tra la terra e il cielo, seguendo verso occidente il percorso del
Sole. Al di là c’è il mondo infero: il suo vestibolo è a livello della
superficie terrestre (descrizione omerica), ma immediatamente dopo si spalanca
il baratro immenso. Parmenide ha il privilegio (come iniziato, εἰδὼς φώς) di
varcarne, ancora vivo, la soglia, per attingere la conoscenza: Dike è al suo
posto, nella misura in cui deve giudicare i requisiti; le Eliadi tutelano il
poeta viaggiatore in qualità di patrocinatrici (impiegano parole suasive per
ammansire la inflessibile sorvegliante dei confini)138 . Gli elementi che
abbiamo riassunto suggeriscono che l’eccezionalità dell’impresa cantata
coincida con il massimo pri- 136 Leszl, op. cit., p. 146. 137 Ivi, p. 147. 138
Cerri, op. cit., pp. 106-7. 281 vilegio previsto per un mortale nell’universo
mitico: come Odisseo e Orfeo, al poeta è concesso di accedere (anche se non
forse propriamente “discendere”) all’Ade, per incontrare la divinità che vi è
regina, Persefone. In questo senso, probabilmente, Parmenide insiste
inizialmente sull’uso del presente contrastato da quello del passato: per
marcare lo straordinario esito della sua esperienza, la cui specifica
difficoltà consiste proprio nel ritorno alla luce, tra i vivi, al presente
della condizione umana. Prima di concludere su questo punto, è ancora
necessario chiarire un aspetto. Abbiamo continuato a interpretare il proemio in
un senso prossimo alla sua lettera, come si trattasse del resoconto di un
viaggio dal poeta effettivamente compiuto, rigettando, quindi, le letture
allegoriche secondo il prototipo proposto dallo stesso Sesto Empirico. Questo
non comporta trascurare il valore simbolico delle scelte espressive di
Parmenide, evitare di attendere alle implicazioni che certe immagini o
situazioni concrete dovevano già avere assunto nella attività poetica all’epoca
di Parmenide: la pratica allegorica stava compiendo solo i primi passi, ma è
possibile che il simbolismo avesse un peso nella cultura pitagorica cui si
dovrebbe, secondo alcuni139, ricondurre la formazione di Parmenide. Il
contemporaneo Pindaro, per esempio, nella Olimpica VI, faceva ricorso al motivo
del viaggio con intento manifestamente metaforico, sebbene l’accostamento a
Parmenide risulti difficile (il viaggio di costui appare ben più complesso). In
ogni caso, è forse la natura stessa dell’eccezione evocata a rendere plausibile
un’intenzione simbolica del proemio: l'esperienza liminare (un viaggio oltre i
confini del mondo) compiuta dall'anima del poeta (spiritualmente), prefigurava,
nell'insegnamento della Dea, una vicenda conoscitiva di cui altri avrebbero
potuto fruire. Così, sfruttando al massimo l’incidenza dei dettagli concreti
della scena cosmica, Parmenide avrebbe, con la propria "odissea",
delineato un modello per le avventure dell’anima nel grande mito del Fedro
platonico140 . 139 Coxon, op. cit., p. 14. 140 Su questo punto ampia è la
convergenza degli interpreti. 282 La sequenza del racconto e il progressivo
(non casuale) coinvolgimento di quelle divinità fanno comunque apparire poco
convincenti le letture che marcano nel proemio la mera figurazione allegorica
di opzioni gnoseologiche o la semplice legittimazione, in chiave di
illuminazione superiore, di una proposta filosofica. L’autore, invece, proprio
attraverso la narrazione in prima persona del viaggio, ha la possibilità di
coinvolgere il suo pubblico in un'esperienza di trasformazione radicale della
persona, che richiede l’identificazione con il protagonista (donde l’adozione
della prospettiva del viaggiatore)141. È la futura condotta di vita il vero
obiettivo delle istruzioni della dea: il viaggio, in tal senso, sarebbe
rappresentazione di una forma di κάθαρσις142. Lo sciamanesimo di Parmenide
potrebbe leggersi in questa prospettiva: non traduzione poetica di una trance
onirica (incubazione), ma assunzione della pervasività emotivo-esistenziale
(forse direttamente esperita) di quella prova al servizio di uno sforzo di
profondo riorientamento – teorico e pratico – nella realtà quotidiana. Alla
concretezza di un fenomeno culturale (la pratica sciamanica), forse radicato
nell’ambiente eleatico143, Parmenide associa un percorso di conoscenza,
proposto esemplarmente ai propri uditori, in cui la dimensione di estraneazione
dalle distorsioni della quotidianità è funzionale a un processo di
trasformazione spirituale e a una prassi di vita. Il corso delle Eliadi ai
limiti del mondo, la sanzione di Dike e la verità di Persefone scandiscono
evidentemente una ricerca destinata a modificare l’intera personalità: in un
contesto in cui il sapere salvifico era appannaggio di iniziazioni e
incubazioni, il filosofo avrebbe così fatto ricorso, in termini simbolici,
all'efficacia coinvolgente (da cui l’attenzione per alcuni 141 La Robbiano (pp.
65 ss.) dedica ampio spazio a questo punto, individuando due elementi che, da
un lato, favoriscono l’identificazione tra pubblico e viaggiatore, dall’altro
contribuiscono alla costruzione di una nuova attitudine mentale: (i) la
focalizzazione e l’invenzione della autobiografia: le strategie dell’Io; (ii)
il ritratto e le strategie del tu. 142 Coxon (op. cit., pp. 15-6) parla di
katharsis pitagorica. 143 Come confermerebbero i rilievi di Kingsley e le
osservazioni della Gemelli Marciano. 283 dettagli riconducibili, secondo
Kingsley, all'esperienza dello sciamano) di una forma di ascesi
estatico-religiosa. La rivelazione e il suo programma Con il concorso delle
Eliadi e la condiscendenza di Dike (guadagnata proprio grazie all’intervento
persuasivo delle figlie del Sole), il poeta – superata la porta cosmica in cui
si incontrano i sentieri di Giorno e Notte – giunge infine presso la Dea: che
ella rappresenti la meta degli sforzi sottolineati nei primi 23 versi, è chiaro
nelle parole con cui la stessa θεά accoglie e rincuora («rallegrati!»)
l’attonito visitatore. Esse rivelano come viaggio e accompagnamento non siano
né casuali, né naturali, ma risultato di un disegno: ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα κακὴ
προὔπεμπε νέεσθαι τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ
Qémij τε Díkh τε Non Moira infausta, infatti, ti spingeva a percorrere questa
via (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uomini), ma Temi e Dike
(vv. 26-28). Non è stata la morte, un disgraziato destino, a condurre il poeta
al cospetto della dea infera, per una via ben lungi dai sentieri comunemente
battuti: la rassicurazione divina sottintende che quella distanza dai mortali
sia da considerare un privilegio e non un accidente, e che lo straordinario
incontro non sia da ascrivere tanto all'iniziativa del protagonista (che è
stato piuttosto spinto da Moira) quanto all’eccezionalità della scorta. La
«via» (ὁδός) che gli consente di raggiungere la residenza divina (ἡμέτερον δῶ
«la nostra casa») – probabilmente la stessa ὁδὸς πολύφημος δαίμονος («via ricca
di canti della divinità» vv. 2- 3), lungo la quale le cavalle conducevano il
poeta all’esordio: in 284 ogni caso una strada principale, come chiarisce
l'indicazione κατ΄ ἀμαξιτὸν («lungo la via maestra») – è percorsa sotto l’egida
della giustizia, in compagnia di «immortali guide » (ἀθανάτοισι ἡνιόχοισιν). Le
scelte espressive di Parmenide – il vocativo κοῦρε («giovane») e il nominativo
in funzione vocativa συνάορος («compagno») – apparentemente descrittive della
condizione giovanile del poeta e della sua scorta, potrebbero alludere, in
realtà, alla sua dedizione religiosa, sottolinearne l’iniziazione, e dunque
legittimarne il privilegio. Imparare tutto L’eccezionalità della situazione si
riflette anche nella completa disponibilità della Dea, nella sua accoglienza e
nell’informazione successiva: rilevando didascalicamente - secondo il
tradizionale paradigma144 oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina -
l’opportunità per il «giovane» di «tutto apprendere» (πάντα πυθέσθαι), ella
propone un programma articolato in due momenti, chiaramente scanditi in greco
(vv. 29-30) dalle congiunzioni ἠμέν …. ἠδὲ («sia … sia»), in conclusione ulteriormente
precisati (v. 31) – ricorrendo alla formula ἀλλ΄ ἔμπης (congiunzione
avversativa + avverbio), da rendere come «nondimeno», «eppure» «anche così».
L’interpretazione di questo passaggio è molto controversa, ma anche decisiva,
dal momento che all'articolazione programmatica presumibilmente corrisponde poi
la struttura del poema (cioè la successiva esplicitazione dei contenuti della
rivelazione), e dunque dall'interpretazione di quella dipende la comprensione
di questo. Il kouros «apprenderà», «imparerà», sarà informato su tutto: ἠμέν Ἀληθείης
εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ 144 Secondo Cerri (p. 182) la fraseologia dell’incontro
tra il poeta e la dea riprende tipicamente quella delle scene di incontro tra
dei e mortali in Omero. 285 ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di
Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è
reale credibilità (vv. 29-30). Si tratta dell’opposizione fondamentale, che
genera tutti i contenuti del poema: il nucleo essenziale (ἦτορ, «cuore») di Verità
(Ἀληθείη), di ogni verità (εὐκυκλέος, «ben rotonda»), la sua necessità
immanente (ἀτρεμὲς ἦτορ, letteralmente «cuore che non trema»); le incerte
«opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι), che non sono veramente credibili: esse
risultano, letteralmente, inaffidabili, in esse non risiede πίστις ἀληθής
(«reale fiducia»). La qualificazione umana delle doxai giustifica la loro
debolezza, assumendo per scontato che la proposta della Verità sia divina. Il
modello è ancora quello di Teogonia vv. 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν
ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne
simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare, sebbene in
Parmenide l'opposizione tra proferire menzogne (ψεύδεα λέγειν), cioè contraffazioni
del genuino stato delle cose, ed esprimere le cose reali (ἀληθέα γηρύσασθαι)
sia rimodulata nella tensione tra la salda stabilità nella relazione con la
realtà («di Verità il cuore fermo») illustrata dalla Dea, da un lato, e
l'incredibilità dei punti di vista mortali, dall'altro. Nel poema non vi è
propriamente traccia dell'esplicita e secca contrapposizione verofalso: così
l’oscillazione esiodea tra «cose false» (ψεύδεα) e «cose vere» (ἀληθέα) diventa
nel contesto parmenideo opposizione determinata oggettivamente da una norma
(esplicitata in B2). La divinità di Parmenide è meno volubile delle Muse
esiodee: la sua rivelazione è vincolata alla manifestazione della realtà
(Verità) e, conseguentemente, alla denuncia dell'origine degli sviamenti umani
nelle molteplici opinioni. In questo senso, allora, possiamo leggere la
conclusione del programma: 286 ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν
δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure anche queste cose imparerai:
come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero effettivamente,
tutte insieme davvero esistenti (vv. 31-32). Nell’impegno a tutto insegnare, la
Dea non si limita – attraverso l'illustrazione della norma di verità – a
denunciare l’inattendibilità delle convinzioni umane (come vedremo,
rintracciandone la distorsione genetica), ma intende proporre una ricostruzione
affidabile (δοκίμως) della totalità degli enti che quelle opinioni travisavano.
Il ricorso a δοκίμως suggerisce, nel contesto, l'intenzione della Dea di
riconsiderare comunque il materiale delle inverosimili δόξαι βροτῶν, così da
fornirne un quadro attendibile (credibile alla luce della verità). Possiamo
dunque articolare il programma della Dea in tre momenti145: (i)
l’esplicitazione della norma immanente (le «vie di ricerca per pensare»),
dell'intima necessità della verità (B2, B6), con la conseguente manifestazione
della struttura essenziale della realtà (B8); (ii) la denuncia dell’errore di
base delle opinioni dei mortali (B6, B7); (iii) la riformulazione dei contenuti
di quelle opinioni (quindi del mondo della esperienza umana) conformemente a
quella norma (B9 ss.). Tale scansione ha dunque risconto nella struttura del
poema: (a) una prima sezione (primo logos), indicata convenzionalmente come
“Verità” (Ἀλήθεια) dalla formula: πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς ἀληθείης
(«discorso affidabile e pensiero intorno alla verità» B8.50-51), in cui, in
successione e strettamente connessi, sono affrontati i momenti (i) e (ii): i
principi del corretto ricercare e le origini dell'errore dei «mortali»; 145
Ruggiu, op. cit., p. 196. 287 (b) una seconda sezione (secondo logos,
considerevolmente più consistente), convenzionalmente nota come “Opinione”
(Δόξα) e nel poema denotata per i suoi contenuti: δόξας βροτείας («opinioni
mortali»): in essa si concentrava il punto (iii) del programma, naturalmente
più composito (riferendosi al complesso dell'esperienza). Variante di questa
prospettiva di lettura è quella di Coxon146 , secondo cui, invece, Parmenide,
in conclusione di B1, rievocherebbe le posizione espresse da Senofane e
Alcmeone nei passi sopra citati: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται
εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι
τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται davvero
l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà sapiente intorno agli dei
e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la
verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte
le cose (DK 21 B 34). Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ
Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι,
ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς Alcmeone di Crotone, figlio di
Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte e Batillo: sulle cose
invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in
quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi147 (DK 24 B1). 146 Op. cit., p.
169. 147 Dal passo iniziale del frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ
τῶν θνητῶν) la Gemelli Marciano propone di espungere la virgola, offrendo
quindi la seguente traduzione: «sulle cose invisibili che riguardano i mortali»
("Lire du début…", cit., p. 19). 288 Sarebbe dunque ribadita la contrapposizione
omerica tra incerte convinzioni umane (elaborate inferenzialmente nel caso di
Alcmeone) e conoscenza divina: Parmenide si limiterebbe semplicemente a
riformularla nel senso di un contrasto tra forme cognitive: una affidabile
perché in grado di manifestare il reale, l’altra opinabile e convenzionale,
espressione di meri punti di vista. Solo riconoscendo l’insufficienza
dell'esperienza ordinaria, gli uomini hanno la possibilità della certezza: ciò
che Parmenide avrebbe tentato nella seconda parte del poema è appunto una
ridefinizione del campo delle doxai in termini non contraddittori. Questa
interpretazione si scontra, tuttavia, con una lunga tradizione che attribuisce
valore diverso alle parole della Dea, per lo più assimilando i punti (ii) e (iii):
alla saldezza (razionale) della verità (i), Parmenide contrapporrebbe
l’incertezza (empirica) dell’opinare umano (ii), di cui offrirebbe comunque, a
scopo esemplificativo e\o critico, esposizione (o ricostruzione) coerente
(iii). Leszl 148 ritiene, in effetti, che la distinzione verità-opinioni, che
chiude la comunicazione della dea nel proemio, corrisponda alla distinzione,
enunciata dalle Muse esiodee, tra verità e falsità: in entrambi i casi le
divinità si rivelano in dominio completo dell’ambito del vero e di quello
dell’ingannevole (da Esiodo considerato tale perché simile al vero), sebbene, a
differenza delle Muse che si limitano a esporre il vero, la dea di Parmenide
espone anche ciò che non è vero, nell’intento di coprire «tutto», di offrire un
sapere globale che non ritroviamo in Esiodo. Lo stesso parallelismo con l’inno
alle Muse della Teogonia è sfruttato da Mansfeld149, il quale riscontra, nel
doppio resoconto prospettato dalla Dea, l’analoga pretesa delle Muse di dire
verità e menzogne: in questo modo, evidentemente, tutto quanto si riferisce
all’ambito della doxa è stigmatizzato come ingannevole, con il risultato
paradossale di ridurre proprio la sezione cosmogonica e teogonica, più vicina
al modello divinamente ispirato del poema 148 Op. cit., pp. 153-4. 149 Op.
cit., p. 33. 289 esiodeo, a occasione per repertare gli errori dei mortali
(sottolineando come τὰ δοκοῦντα dovrebbero essere ma non sono150). Non è da
escludere, invece, che proprio il secondo logos rappresentasse il nucleo
centrale e originario del progetto di Parmenide, quello in continuità con la
riflessione arcaica περὶ φύσεως (donde la titolazione tradizionale), di cui la
sezione sulla Doxa riprodurrebbe anche la logica di riduzione di τὰ δοκοῦντα,
delle «cose accettate nelle opinioni», a principi, «forme» (μορφαί) nel lessico
parmenideo (B8.53); ma che l’elemento di originalità (da cui l’attenzione tra
gli antichi e la conservazione nelle testimonianze) fosse costituito dalle
premesse ontologiche contenute nel primo logos, che forniscono la cornice e le
condizioni di una coerente enciclopedia del mondo naturale, denunciando a un
tempo le debolezze delle ricostruzioni alternative151 . 150 Ivi, p. 210. 151 Il
dibattito sulla natura della doxa parmenidea è sterminato: a parte il vecchio
aggiornamento di G. Reale a E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel
suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, cit., la questione è stata
sistematicamente ripresa nello specifico da P.A. Meijer, Parmenides Beyond the
Gates. The Divine Revelation on Being, Thinking and the Doxa, Brill Academic
Publishers, Amsterdam 1997. Molto utili J. Frere, "Parménide et l'ordre du
monde: fr. VIII, 50-61", in Études sur Parménide, sous la direction de P.
Aubenque, t. II Problèmes d'interprétation, Vrin, Paris 1987, pp. 192-212; R.
Brague, "La vraisemblance du faux (Parménide, fr. 1, 31-32)", ivi,
pp. 44-68; A. Nehamas, «Parmenidean Being/Heraclitean Fire» in Presocratic
Philosophy, edited by V. Caston & D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp.
45-64; H. Granger, "The Cosmology of Mortals", ivi, pp. 101-116; P.
Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought,
Princeton University Press, Princeton 1998, cap. III: "Doxa and
Deception"; le pagine di D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian
Tradition of Scientific Philosophy, Princeton U.P., Princeton 2006 dedicate
all'argomento (pp. 169-184). 290 Opinioni: credibili e non Secondo uno dei più
accreditati studiosi ed editori contemporanei di Parmenide - Cordero152 - la Dea
prospetterebbe, introduttivamente, il contenuto del suo «corso di filosofia»
nell’ambizioso riferimento alla totalità delle cose, precisato in due oggetti
complementari: (i) il «cuore della verità» e (ii) le «opinioni dei mortali». A
completamento del suo programma, ella avrebbe poi illustrato anche un possibile
modello per le «opinioni»: la verità è assente dalle opinioni, ma «riconoscere
che le opinioni non sono vere è vero»153. Ciò che rende, a nostro avviso,
implausibile questa proposta di lettura è soprattutto l’estensione e
l’articolazione che supponiamo il secondo logos dovesse avere, configurandosi
come poema didascalico, manuale o trattato scientifico, a carattere
enciclopedico154. È necessario dunque intendersi preliminarmente sul valore
delle opinioni155 . Una prima indicazione ci giunge dalle testimonianze dei
lettori antichi: Aristotele, per esempio, osserva: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ
που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι,
τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ
ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας
καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων·
τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν 152 N.-L.
Cordero, By Being, It Is. The Thesis of Parmenides, Parmenides Publishing, Las
Vegas 2004, p. 30. 153 Ivi, p. 32. 154 G. Cerri, «Testimonianze e frammenti di
scienza parmenidea», in Parmenide scienziato?, a cura di L. Rossetti e F.
Marcacci, Academia Verlag, Sankt Augustin 2008, p. 80. 155 Torneremo
sull'argomento commentando l'ultima parte di B8 e i frammenti del "secondo
logos". 291 Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore
perspicacia: ritenendo, infatti, che non esista affatto, oltre all’essere, il
non-essere, egli crede che, di necessità, l’essere sia uno e nient’altro. […]
Costretto tuttavia a tener conto dei fenomeni, e assumendo che l’uno sia
secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due
cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di
questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere
(Aristotele, Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1; DK 28 A24). A sua volta,
Teofrasto (secondo quanto attestato da Alessandro di Afrodisia) rileva: Π.
Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται
καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ
κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ
δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς,
πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. Parmenide figlio di
Pyres, da Elea […] percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è
eterno, e cerca anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non
avendo sulle due vie le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli
sostiene che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; secondo
l’opinione dei molti, invece, al fine di spiegare la generazione delle cose che
appaiono, pone due principi, fuoco e terra, l'uno come materia, l'altro invece
come causa e agente (DK 28 A7). Il problema dei due logoi era già delineato
come incrocio tra due forme diverse di esplorazione della realtà, che potremmo
sbrigativamente indicare come razionale ed empirica: la seconda parte del poema
avrebbe così riproposto un approccio alla physis, dai fenomeni ai loro
principi, analogo a quello ionico; la prima 292 parte, originale, avrebbe
invece introduttivamente messo a fuoco le implicazioni ontologiche a priori
dell’indagine156 . Certamente il programma della Dea prevede un momento
critico, che investe indiscutibilmente le «opinioni dei mortali», in cui non risiede
«reale credibilità»: individuare la norma di verità comporta necessariamente
denunciare l’origine di erronee convinzioni circa il mondo dell’esperienza,
senza escludere tuttavia la possibilità che la stessa materia sia passibile di
una trattazione diversa, rigorosa e plausibile. Questo il senso della
precisazione introdotta dal restrittivo ἀλλ΄ ἔμπης: tra la saldezza della
Verità (illustrazione della realtà) annunciata dalla Dea e la (contraddittoria,
come vedremo) inconsistenza delle diffuse, illusorie convinzioni umane, si
annuncia la possibilità di una credibile (in quanto coerente con i presupposti
che fondano la ricerca) ricostruzione dei fenomeni. Benché l’intervento divino
sia teso a legittimare la norma di verità (che non può giustificarsi empiricamente),
l’impianto educativo del poema, la scelta del kouros e la sollecitazione
critica nei suoi confronti sembrerebbero autorizzare un'interpretazione
positiva dei versi conclusivi del proemio. Ciò che colpisce, nell’articolazione
della lezione divina, è, in ogni caso, soprattutto il punto (iii) del
programma, che risulta nel contesto meno scontato: comunque si intenda,
infatti, la direzione del viaggio cantato nei versi parmenidei,
indiscutibilmente la sua meta è rappresentata dalla rivelazione divina, che
presuppone, con l’esito veritativo, l’opposizione tra il sapere che la Dea può
manifestare e quello che gli esseri umani possono attingere. Così la compiuta
(εὐκυκλέος, «ben rotonda» 157 ), salda consistenza (ἀτρεμὲς ἦτορ, «cuore
fermo») di Verità è (naturalmente e tradizionalmente) contrapposta alla debole
(οὐκ ἀληθής, «non reale 156 Si tratta di una relazione che potrebbe ancora
trovare riscontro nell’organizzazione del poema Sulla natura di Empedocle, nei
cui frammenti (DK 31 B8, 9, 11) troviamo l’eco della ontologia di Parmenide
chiaramente saldata alla prospettiva di una positiva indagine della physis. 157
Per la lettura che proponiamo, sarebbe più naturale accogliere la variante εὐπειθέος
(«ben convincente») della versione di Plutarco, Clemente, Sesto Empirico e
Diogene Laerzio, prevalentemente accolta dagli editori moderni, di cui diamo
notizia in nota al testo greco. 293 [genuina]») «credibilità» (πίστις)
riconosciuta alle βροτῶν δόξαι: «nondimeno», a proposito di queste opinioni, il
poeta apprenderà, dall’istruzione della Dea, anche come «le cose accolte nelle
opinioni» (τὰ δοκοῦντα: il contenuto empirico di tali opinioni) siano da
intendere «effettivamente» (δοκίμως: realmente, genuinamente), considerandole
«tutte insieme davvero esistenti» (διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα), in altre parole
riconducendole rigorosamente alla «via di ricerca» lungo la quale è
effettivamente possibile procedere (B2.3). Senza questa precisazione il
percorso formativo destinato al kouros sarebbe incompleto: la formula (χρεὼ)
che lo introduce sottolinea come esso sia opportuno, adeguato a conseguire una
nuova consapevolezza della realtà158. A tale scopo non è sufficiente (almeno
non per la formazione del kouros) conoscerne l’essenza e dunque prendere
coscienza della genesi delle opinioni erronee: per il poeta, destinato a
tornare tra gli uomini e a rivaleggiare con altri presunti sapienti, è
necessario saper affrontare i contenuti dell’esperienza umana. Non pare – come
invece molti sostengono159 - che la vera novità parmenidea sia rappresentata
dal fatto che la Dea offra agli uomini la possibilità di imparare e la verità e
le opinioni, se per doxai si intendono quelle illusorie dei mortali: esse
saranno sbrigativamente liquidate (B6-7) in conseguenza della enunciazione (B2)
dei criteri di verità. Ciò che, invece, risulta originale nella rivelazione
della Dea del poema, a dispetto della tradizionale frattura tra sapere umano e
sapere divino, è l’ardita combinazione di rigorosa affermazione (B2, B8) di una
realtà non immediatamente manifesta all’esperienza umana, e articolata
esposizione di un accettabile «ordinamento» (διάκοσμος, B8.60) dei fenomeni
naturali. La comunicazione dell’anonima divinità avrebbe insomma abbracciato
sia quanto tradizionalmente considerato appannaggio esclusivo del dio (la
verità), sia l’oggetto della contemporanea ricerca (περὶ φύσεως ἱστορίη): in
questo modo, il poema avrebbe ridefinito, nel suo insieme, il quadro
cosmologico (e cosmogonico) della Teogonia esiodea. 158 Robbiano, op. cit., p.
77. 159 Tra gli altri Robbiano, op. cit., pp. 51-2. 294 Verità e opinione Sul
programma introdotto dalla dea innominata in conclusione del proemio (vv.
28-32), possiamo ancora osservare come, a livello espressivo, l’articolazione
su cui abbiamo insistito emerga chiaramente nelle scelte verbali: χρεὼ δέ σε
πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι
πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι
διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. Intanto risultano essenziali due verbi - πυθέσθαι e
μαθήσεαι – il cui valore è quello di «apprendere per esperienza», «imparare per
indagine», ma anche «discernere»: essi possono veicolare, dunque, sia l’idea di
ricettività, sia quella di ricerca, perfettamente in contesto laddove la
docenza (divina: θεά) guida il processo di apprendimento, marcando a un tempo i
temi su cui verterà la lezione impartita (Ἀληθείης ἦτορ; βροτῶν δόξαι; τὰ δοκοῦντα)
e l’urgenza di comprensione da parte dell’allievo (κοῦρος). La prima formula
didattica sottolinea l’opportunità che «tutto tu apprenda»: come in precedenza
rilevato, è netta la costruzione oppositiva dei vv. 29-30, in cui la saldezza
della Verità è contrastata esplicitamente dalla incertezza delle «opinioni», e
la garanzia di verità del nesso θεά-κοῦρος implicitamente alla inaffidabilità
dei «mortali»: la rivelazione del «cuore fermo di Verità ben rotonda»
comporterà la contestazione della consistenza delle loro convinzioni. La
seconda formula introduce gli ultimi due versi, testualmente molto tormentati:
il fatto di ribadire «imparerai» sembra implicare che questa sezione della
lezione divina sia ulteriore e autonoma rispetto alla prima opposizione (verità
e credenza non vera), sebbene il complemento oggetto - «anche queste cose» -
plausibilmente rinvii al contenuto delle «opinioni dei morta- 295 li»160 e
soprattutto sia evidente il vincolo lessicale rappresentato dalla comune radice
(δοκ) di δόξας, δοκοῦντα e δοκίμως. Come Mourelatos 161 ha chiarito nella sua
ricerca, il verbo δοκέω può significare sia (a) «aspettarsi», «pensare»,
«supporre», sia (b) «sembrare», nel senso (i) di «pensare», ma anche (ii) di
«apparire»: presenta dunque a subject-oriented sense e an objectoriented sense.
Mentre δόξα e δοκίμως sarebbero riconducibili al primo valore e alla sua
«funzione criteriologica», il ricorso al termine δοκοῦντα rivela piuttosto le
implicazioni oggettive di (b), nonostante la derivazione da δοκέω lo renda
irriducibile a una «funzione fenomenologica» (quella dei derivati di φαίνομαι).
In δόξα (opinione-convinzione) e δοκίμως (rendendo l’avverbio come
«plausibilmente») troveremmo allora coinvolta l’idea di valutazione e
accettazione, di approvazione; di conseguenza in τὰ δοκοῦντα (o τὸ δοκοῦν ὄν,
come in Simplicio) «le cose ritenute accettabili» ovvero «le cose come sono
accettate». Ma l’avverbio δοκίμως è impiegato dal contemporaneo Eschilo con il
valore di «realmente» (Liddell-Scott) e quindi potrebbe a sua volta rinviare
all’accezione oggettiva, a una situazione di fatto, a come stanno effettivamente
le cose (così lo abbiamo inteso nella nostra traduzione). In ogni caso, le βροτῶν
δόξαι - che vengono denunciate come non fededegne - non rappresentano mere
impressioni ma punti di vista assunti, condivisi e diffusi, con cui ha
evidentemente senso ingaggiare polemica: è alla soggettività di tali punti di
vista che viene contrapposta la verità comunicata dalla dea. Gli ultimi due
versi del proemio ritornano sulla materia di quelle confuse assunzioni, per
riproporla in modo adeguato: in questo caso Parmenide impiega non il termine
δόξαι ma τὰ δοκοῦντα: non i punti di vista ma le cose che in essi sono accolte.
A τὰ δοκοῦντα collega la complessa (e testualmente controversa) espressione
participiale διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, che abbiamo reso come «tutte insieme
davvero esistenti». La scelta appare non 160 In funzione prolettica, Parmenide
avrebbe – di norma - dovuto impiegare τάδε, non ταῦτα, che sembra invece
riferito a quanto precede. 161 Op. cit., pp. 195 ss.. 296 quella di ricostruire
la genesi dell’errore dei mortali, ovvero quella di proporne una versione più
coerente, piuttosto quella di mostrare come «le cose accolte nelle opinioni»
avrebbero dovuto («era necessario\opportuno», con possibile valore di irrealtà)
essere intese nella loro totalità come ὄντα (esistenti), in altre parole
considerate alla luce della Verità, ovvero come genuina realtà. La precisazione
di Parmenide, con le sue scelte lessicali (δοκοῦντα, ὄντα), e la struttura del
poema, con un secondo logos di natura enciclopedica, suggeriscono di
considerare positivamente il terzo punto del programma della dea, ben distinto
dal secondo (che riceve indiscutibilmente una connotazione negativa), di cui
tuttavia sembra condividere due elementi essenziali: (i) il contenuto
materiale, costituito dalla pluralità delle cose che accogliamo sulla base
della esperienza; (ii) la prospettiva (espressa dall’insistenza sulle forme in
δοκ), il punto di vista mortale, che è appunto quello che passa attraverso
l’esperienza, ma che, non per questo, deve essere giudicato inaffidabile. La
Dea procederà quindi: (i) in primo luogo, a introdurre quella verità di cui è
esplicitamente (e tradizionalmente) garante (B2): si tratta delle premesse
(B2.3, B2.5) da cui è possibile procedere per manifestare la struttura della realtà
(B8); (ii) poi, a stigmatizzare (sbrigativamente), sulla scorta della forma
(logica) di quelle premesse (necessità dell’essere e impossibilità del
non-essere), l'infondatezza dei comuni assunti circa le cose e il loro
divenire; (iii) infine, a illustrare, attraverso una ricostruzione coerente con
i parametri veritativi della Dea, l'«ordine del mondo» (διάκοσμος), vero
obiettivo dell'opera. In questo modo, il poema contiene, complessivamente, la
rivelazione di tutta la Verità: della sua natura intrinseca («cuore fermo»),
fraintesa nel comune, superficiale pregiudizio, e della sua adeguata
applicazione al campo dell’esperienza umana. Parmenide si riferisce a due
ambiti distinti, divino e umano, che nella rivelazione si sovrappongono: la
meditazione della «parola» (μῦθος) della Dea, che segnala la traccia che
conduce ad Ἀληθείη, 297 assicurerà al κοῦρος la consapevolezza degli errori
comuni tra gli uomini e dunque un'avveduta prospettiva sul mondo della sua
esperienza. In questo senso, le due sezioni (Verità e Opinione) hanno lo stesso
oggetto (non potrebbe essere diversamente per la logica del poema): la realtà,
manifestata nella sua unitotalità essenziale dall'intelligenza, e nella
pluralità dei processi naturali dall’esperienza. La scansione di tale programma
nei moduli della tradizionale istruzione poetica è significativa: lo scarto tra
sapere umano e sapere divino, proposto nella cornice dell'eccezionale tragitto
ai limiti del cosmo, dove cielo e terra, notte e giorno, mondo dei vivi e mondo
dei morti si incontrano, è ribadito non solo nella relazione didascalica tra
θεά e κοῦρος, ma anche nella complementarità dei loro due diversi sguardi sulla
realtà. Quello della Dea si rivolge impassibile (logicamente coerente e
inattaccabile) all’essere, alla totalità razionalmente afferrata nella sua
omogeneità e identità ontologica; quello dei mortali è invece condizionato (e
per lo più sviato) dal filtro dell’esperienza. Compito del poema condannare le
distorsioni e produrre – con la lezione divina – una consapevole mediazione.
Per via Prima di concludere l’esame del proemio e dopo averne considerato gli
ultimi versi e il programma contenutovi, è opportuno ritornare riassumere i
nostri risultati. Parmenide compone nei moduli della tradizione epica,
evocandone il rilievo veritativo e educativo e sviluppandone in particolare il
tema del viaggio, centrale non solo per l’epica omerica ma anche, in generale,
per l’esperienza culturale e religiosa arcaica (sciamanesimo). Modulando tali
paradigmi, il poeta insiste sull’eccezionalità della propria esperienza, sia
per gli auspici che ne assicurano lo svolgimento, sia per la meta oltremondana,
sia, infine, per l’incontro con la dea rivelatrice: ciò comporta, da parte sua,
valorizzare, con la lezione divina, anche il percorso del viag- 298 gio, la
«via» (ὁδός πολύφημος δαίμονος) che la dea innominata ci informa essere
«lontana dalla pista degli uomini. A sancire tale percorso e la legittimità
della percorrenza, Parmenide colloca Dike e Temi, giustizia e norma divina:
l’accesso alla verità, dunque, non è casuale, accidentale, ma risultato di uno
slancio educato (il poeta in apertura evoca la spinta del proprio desiderio,
θυμός), forse di una iniziazione (come rivelerebbe, in particolare, l’uso della
espressione εἰδὼς φώς). La lezione della Dea non si limita a manifestare la
Verità (di cui rileva la saldezza, il nucleo inattaccabile), mediandola a un
mortale, ancorché favorito, ma è attenta anche a dar conto del mondo
dell’esperienza, delle «convinzioni» umane, sia per denunciarne gli
stravolgimenti, sia per offrirne un’illustrazione adeguata, coerente, nei suoi
principi esplicativi, con la realtà annunciata (l'essere). I modelli e i temi
interessati suggeriscono che la comunicazione di verità, certamente centrale
nei frammenti disponibili, non fosse fine a se stessa, ma costituisse
l’elemento intorno a cui realizzare un profondo ri-orientamento della
esperienza umana e una radicale ri-determinazione del rapporto tra soggetto
umano e realtà (come cercheremo di dimostrare in B3 e B8)162 . La formazione
alla verità porterà il kouros a vedere il mondo in una prospettiva lontana
dalla quotidianità, ma soprattutto a scegliere diversamente dalla società163 .
162 Analizzando il valore di ἀλήθεια nella cultura arcaica, la Stemich (op.
cit., pp. 84-6), convinta che in Parmenide non si possa delimitarne nettamente
la prospettiva oggettiva (che insiste sul referente, sull’entità data al di
fuori dell’individuo) da quella soggettiva (come nelle espressioni dire vero,
fare vero, in cui è sottolineata la relazione dell’uomo alla verità), osserva
comunque che Parmenide (come già Eraclito) insista piuttosto sulla seconda,
ovvero sulla condizione che consente all’uomo di superare il senso comune
quotidiano. 163 È significativo che, di recente, oltre a Martina Stemich anche
Chiara Robbiano (op. cit., p. 56) abbia richiamato l’attenzione su questo
punto: la ἀλήθεια rivelata, prioritaria nel programma educativo della Dea,
sarebbe il risultato di un punto di vista (che il kouros deve maturare), e
dunque soggettiva, ma, dal momento che esso svela l’essenza della realtà, allo
stesso tempo oggettiva. In questo senso il poema riguarderebbe una
trasformazione 299 Che si tratti di percorso astrale – quello solare – che
conduce alla porta cosmica, chiave di volta non solo dell’alternanza
giorno-notte ma anche dell’accessibilità al mondo infero, ovvero di itinerario
celeste, verso una trascendenza extra-cosmica (come vuole Mansfeld), o ancora
di discesa verso il mondo infero, il viaggio verso la divinità è comunque destinato
a un impatto che sarebbe riduttivo considerare esclusivamente sotto il profilo
conoscitivo, come per lo più si è fatto nella tradizione. L’evento è decisivo
non solo per quello che consentirà di conoscere ma per come consentirà di
condursi nell’esistenza: questa è forse la ragione della scelta comunicativa di
Parmenide, con le sue potenzialità performative (la recitazione) e le allusioni
a esperienze (rivelazioni, illuminazioni ecc.) note soprattutto per la loro
incidenza esistenziale. Non a caso, dunque, il poema si apre con riferimenti
allo θυμός, all’εἰδὼς φώς, alla accortezza delle cavalle di scorta, e all’egida
divina di Temi e Dike, per procedere all’incontro con una dea (che potrebbe
essere Persefone) la quale introdurrà la propria rivelazione (B2) con
l’evocazione dell’immagine di un bivio, di fronte al quale il kouros è chiamato
a scegliere. del punto di vista tale da investire non solo l’oggetto della
comprensione, ma anche - alla fine del viaggio - il soggetto ( p. 37). 300 LE
VIE E LA VERITÀ [B2] Nonostante i vari problemi di traduzione e interpretazione
suscitati dai versi di B2, con certezza possiamo asserirne, come nel caso del
precedente B1, la collocazione: all’inizio della prima sezione del poema1 , a
ridosso del proemio (se non addirittura in continuità e contiguità con esso).
Possiamo inoltre ragionevolmente ritenere che B2 costituisca, con i successivi
B3, B6, B72 , un blocco argomentativo continuo: l’introduzione dei presupposti
per manifestare (B8) i segni (σήματα), le proprietà della Realtà concepita come
un tutto, ovvero di quanto anticipato (B1.29) come Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ
(«di Verità ben rotonda il cuore fermo»). All’interno di uno schema espositivo
che esplicitamente richiama l’attenzione sul rilievo fondativo dei versi B2.2-8
(la Dea, infatti, marca la significatività del proprio μῦθος, sollecitando
l’interlocutore a prenderne nota e averne cura), alcuni hanno voluto
valorizzare la condizionante presenza dei principi della logica occidentale3 ,
altri invece vi hanno colto le premesse dell'ontologia4 . Dire, ascoltare La
continuità con B1 è segnata proprio dalla modalità direttiva della
comunicazione, in cui esortazione e insegnamento marcano lo scarto tra il ruolo
della Dea (ἐγὼν ἐρέω, «io dirò») e la ricezione (l’ascolto attento) del poeta
(κόμισαι δὲ σύ μῦθον, «e tu abbi cura 1 Ricordiamo che, nella cesura di
B8.50-1, la Dea si riferisce a quel che precede come πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς
Ἀληθείης; B2.4 sembra riferirsi alla stessa materia con l'espressione Πειθοῦς
κέλευθος. 2 Coxon, op. cit., p. 173: la sequenza proposta è, nella numerazione
DK (diversa da quella ricostruita dall’autore), B2, B3, B6, B4, B7. 3 Per
esempio Heitsch in Parmenides, Die Fragmente, griechisch-deutsch,
herausgegeben, übersetzt und erlaütert von Ernst Heitsch, Sammlung Tusculum,
Artemis & Winkler, Zürich 19953 . 4 Per esempio Leszl, op. cit., p. 85. 301
della parola»), destinata, a sua volta, a trasformarsi, attraverso il canto,
nella mediazione della verità a un discepolo: il σύ («tu») impiegato dalla
divinità è rivolto tanto da questa al poeta, quanto da questi al proprio
ascoltatore. La Dea sottolinea: ti dirò e tu ascolta e riferisci. Al poeta,
giunto alla meta del viaggio (infero), non sono riservate privilegiate visioni
o rivelazioni immediate; lo attendono, invece, parole, di cui si raccomanda
l'ascolto5 . La sua ricerca della Verità dovrà dunque muovere da esse: parole
con cui la Dea non nomina se stessa, non descrive se stessa o la casa in cui
risiede, non designa neppure puntualmente un soggetto6 . Un solo impegno è
stato assunto e quindi fa da sfondo alla sua parola: «è necessario che tutto tu
apprenda» (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι). Come sarà sottolineato in altro luogo
(B7.5), l’espressione κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας («e tu abbi cura della parola
una volta ascoltata») certamente sollecita attenzione per la verità del
messaggio (μῦθος), ma implica anche – nella ricezione\cura - la sua valutazione
e trasmissione. Sintomatica nel contesto la scelta del termine μῦθος, la
«parola» divinamente ispirata del poeta, la parola che veicola, attraverso il
poeta, il canto delle Muse, e dunque sancisce, a un tempo, il vincolo di
dipendenza del mortale dall’immortale, ma anche l’eccezionale rilievo del
poeta, la sua peculiare posizione sociale, la sua σοφίη 7 . 5 L. Atwood
Wilkinson, Parmenides and To Eon… cit., pp. 89-90. 6 Ivi, p. 79. 7 Su questo
punto in particolare la Wilkinson (pp. 40 ss.), che richiama Senofane, DK 21
B2.11-14: ῥώμης γὰρ ἀμείνων ἀνδρῶν ἠδ’ ἵππων ἡμετέρη σοφίη. ἀλλ’ εἰκῆι μάλα τοῦτο
νομίζεται, οὐδὲ δίκαιον προκρίνειν ῥώμην τῆς ἀγαθῆς σοφίης Migliore è infatti
della forza di uomini e cavalli la nostra sapienza. Ma si valuta questo in modo
veramente dissennato: e invece non è giusto preferire la forza alla buona
sapienza. Lo stesso Senofane aveva così introdotto la propria sapienza: 302 Io,
tu La polarità comunicativa ἐγώ-σύ introduce anche la dialettica del testo
parmenideo: essa, in effetti, sottolinea l’urgenza di illustrare la forza
persuasiva del messaggio al destinatario (B2.4: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ
γὰρ ὀπηδεῖ: «di Persuasione è il percorso - a Verità infatti si accompagna») e
dunque la dimensione argomentativa (che si impone soprattutto in B8). A
dispetto del tono e della situazione solenni, è progressivamente sul piano
della (co)stringente discussione (ἔλεγχος) che si sviluppa la rivelazione della
Dea, quasi assumendo il «tu» come muto interlocutore, di cui B8 sembrerebbe
confutare il punto di vista ordinario. In questa prospettiva, la dialettica
comunicativa esprime l’intenzione educativa anche nella forma di una lezione
sull’uso degli strumenti razionali. B2 proporrebbe allora, in modo originale,
le premesse di base della successiva trattazione: Mansfeld, in particolare, ha
sostenuto che il ruolo condizionante della divinità e della sua rivelazione si
manifesterebbe nei due passaggi introdotti dalle forme verbali in prima
persona8 , negli asserti imposti dall’autorità di ἐγώ («io»): εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω
[…] Orsù, io dirò (B2.1a) χρὴ δὲ πρῶτον μὲν θεὸν ὑμνεῖν εὔφρονας ἄνδρας εὐφήμοις
μύθοις καὶ καθαροῖσι λόγοις bisogna che in primo luogo celebrino il dio uomini
assennati, con racconti adeguati e puri discorsi (B1.13-14); e: ἀνδρῶν δ’ αἰνεῖν
τοῦτον ὃς ἐσθλὰ πιὼν ἀναφαίνει, ὥς οἱ μνημοσύνη καὶ τόνος ἀμφ’ ἀρετῆς da lodare,
poi, tra gli uomini, colui che, bevendo, pronuncia belle parole, conformemente
a memoria e aspirazione alla virtù (B1.20-1). 8 Op. cit., pp. 61-2. 303 τὴν δή
τοι φράζω Proprio questa ti dichiaro (B2.6a). Il primo momento coinciderebbe
con l’enunciazione (B2.2) delle «uniche vie di ricerca per pensare» (solo A e B
sono «per pensare», A e B sono immediatamente incompatibili), in questi termini
(letterali): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non
è [possibile] non essere (B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι
l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5). Il secondo con
l’asserzione dell'impercorribilità della seconda via: τὴν δή τοι φράζω
παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto
privo di informazioni (B2.6). Che (i) «è» e «non è» rappresentino alternative
incompatibili e che (ii) τό μὴ ἐὸν non sia effettivamente disponibile per
un'autentica ricerca, costituirebbero le matrici (garantite dall'iniziativa
divina) della successiva discussione, come evidenziato dall'invito all’ascolto9
: il poeta paleserebbe in questo modo sia il proprio proposito argomentativo
sia la consapevolezza del suo articolarsi. Anche non condividendo la tesi di
Mansfeld, appare comunque indiscutibile l’intenzione di Parmenide di sfruttare
la presenza della Dea per muovere da una verità fondamentale. Altri, invece,
riconoscendo l’uso didascalico del mito, vi hanno colto la rivendicazione di
una verità indiscutibile (che non è mera opinione umana) 10 , ovvero
l’espressione della matura consapevolezza dell’oggetto e dei mezzi propri della
filosofia11: non sarebbe stato 9 Ivi, p. 86. 10 Conche, op. cit., pp. 79-80. 11
La tesi secondo cui Parmenide sarebbe il primo filosofo ad argomentare, a dare
ragioni a supporto della propria posizione, a elaborare consapevolmente 304 più
sufficiente enunciare la verità; era necessario assicurarla con la costrizione
del logos. Forse, più semplicemente, per il sapiente-poeta, che componeva
all'interno di una cultura in cui, in un modo o nell'altro, ogni sapere era
radicato nella sfera della comunicazione divina12, era scontato rispettare la
convenzione e fondare le premesse dei propri argomenti sulla parola della Dea.
Uniche vie di ricerca per pensare All'esortazione di apertura che l’«io» della
Dea rivolge al «tu» del poeta (v. 1), invitandolo ad «aver cura di» (κόμισαι) –
ovvero «prender nota, meditare e trasmettere» – quanto ella sta per rivelare,
fa immediatamente seguito (v. 2), sintatticamente retto dall’impegnativa espressione
omerica ἐρέω («dirò, proclamerò»), la prima indicazione concreta sul contenuto
della rivelazione: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι che abbiamo reso
come: quali sono le uniche vie di ricerca per pensare. Il verso presenta alcune
difficoltà, non indifferenti per l'interpretazione relativa e complessiva.
Quale valore riconoscere a ὁδοὶ διζήσιός? Quale a μοῦναι? Come rendere εἰσι?
Come νοῆσαι? La Dea, riferendosi a ὁδοὶ διζήσιός, ritorna (dopo averlo già
fatto in B1.2, B1.5 e soprattutto B1.26-7) sul tema della via, impiegando
un'espressione di nuovo conio, che rientra tuttavia a pieno titolo nel motivo
omerico del viaggio13. Il termine parmeni- il proprio ragionamento con metodo,
è di Cordero (By Being, It Is, cit., p. 38). 12 Su questo aspetto della cultura
greca, è interessante la messa a fuoco di L. Brisson, "Mito e
sapere", in Il sapere greco. Dizionario critico, a cura di J. Brunschwig e
G.E.R. Lloyd, vol. I, Einaudi, Torino 2005, pp. 49-62. 13 Mourelatos, op. cit.,
p. 67. 305 deo δίζησις è infatti di derivazione epica, essendo δίζημαι
utilizzato in Omero per «ricercare persone o animali perduti» ovvero nel senso
lato di «concepire»: esso implica desiderio del e interesse nell’oggetto
ricercato (la cui esistenza quindi non sarebbe in discussione). La formula ὁδοὶ
διζήσιός alluderebbe allora a un investigare impegnato a raccogliere
informazioni che conducano all’oggetto desiderato. È significativo che il
contemporaneo Eraclito usi δίζημαι nel senso di ricercare in profondità: χρυσὸν
γὰρ οἱ διζήμενοι γῆν πολλὴν ὀρύσσουσι καὶ εὑρίσκουσιν ὀλίγον Quelli che cercano
oro rivoltano molta terra, ma trovano poco [oro] (DK 22 B22), marcando la
propria direzione d’indagine verso quanto nascosto e inaccessibile ai più: la
ricerca della φύσις, in contrapposizione alla πολυμαθία di poeti e sapienti
tradizionali. Eraclito, tuttavia, sottopone il verbo a un’ulteriore, originale,
torsione: ἐδιζησάμην ἐμεωυτό ho indagato me stesso (DK 22 B101), che
Mourelatos14 legge in relazione a: ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ ἂν ἐξεύροιο, πᾶσαν ἐπιπορευόμενος
ὁδόν· οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει i limiti dell’anima non potrai mai trovarli,
sebbene tu ti spinga per tutte le strade: tanto profondo è il suo logos (DK 22
B45). L’uso arcaico di δίζημαι sottolinea, insomma, il fatto che si ricerca intorno
a qualcosa che non è manifesto o accessibile fin dall’inizio. In questo senso
il nesso stabilito nei versi 3-4 tra la prima ὁδός e Ἀληθείη: 14 Mourelatos,
op. cit., p. 68. 306 Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ di Persuasione
è il percorso - a Verità infatti si accompagna. È necessario un percorso di
ricerca per appalesare quanto è immediatamente nascosto: la via conduce alla
scoperta della realtà, e in questo senso alla «verità». La verità richiede
dunque una specifica ricerca: solo seguendo una «pista» (termini come πάτος,
κέλευθος, ἀταρπός sono ricorrenti nei primi due frammenti) non casuale è
possibile cogliere ciò che è genuinamente reale. Parmenide sceglie di ricorrere
all'espressione «vie di ricerca» proprio per dare risalto al fatto che esse
hanno come obiettivo essenziale la realtà (verità)15 . La Dea proclama dunque
solennemente: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι (letteralmente: quali vie
uniche di ricerca sono per pensare). La costruzione greca ha autorizzato sia
(i) la lettura che insiste sulla concepibilità delle vie (εἰσι νοῆσαι in senso
potenziale, da rendere come: «sono possibili da pensare», «possono essere
pensate», «sono pensabili/concepibili»), sia (ii) quella che, come pare
corretto nel contesto, facendo leva (a) sul valore finaleconsecutivo
dell’infinito, (b) sul suo nesso con μοῦναι, e (c) sulla successiva
determinazione delle ὁδοί con formule introdotte da ὅπως e ὡς, esprime il lato
attivo del pensare (dunque: «quali sono le uniche vie per pensare»),
introducendo due modi di pensare («pensare che...»). Qualcuno16 ha ipotizzato
che Parmenide intendesse evocare entrambi i valori, intenzionalmente giocando
sull’ambiguità (in analogia con le modalità di comunicazione del contemporaneo
Eraclito): una chiave interpretativa che potrebbe applicarsi ad altri passaggi
del testo. 15 Leszl, op. cit., p. 124. 16 Robbiano, op. cit., pp. 81-2. 307 Ma
il testo pone anche il problema della resa di νοῆσαι: generico «pensare», o,
secondo l’uso arcaico, «apprendere, conoscere»17? La traduzione in questo caso
impone un'opzione interpretativa: «pensare» rischia di risultare troppo
indefinito rispetto all'unicità conclamata delle vie, consentendo, per esempio,
di ammettere, oltre alle razionalmente legittime, anche «le vie
dell’irrazionale» (illuminazioni, rivelazioni, ispirazioni ecc.), illegittime
agli occhi della ragione18, come in effetti alcuni frammenti del poema
(soprattutto B6 e B7) sembrano suggerire. D’altra parte, si potrebbe obiettare
che, rendendo in senso forte νοεῖν con «apprendere\conoscere», come pur
giustificato dalla conclusione del proemio19, risulterebbe poi problematica la
comprensione della via introdotta in B2.5 (letteralmente): ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς
χρεών ἐστι μὴ εἶναι che non è e che è necessario non essere. Di essa, in
effetti, la Dea si affretta subito a osservare: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν
ἀταρπόν οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις·
Proprio questa di dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni:
poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né
potresti indicarlo (B2.6-8); sottolineatura ripresa e accentuata ancora in
B8.17-8: ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός 17 Mourelatos, op. cit.,
p. 70. Tra gli editori contemporanei, anche Heitsch opta per erkennen. Per una
discussione aggiornata si veda ora Palmer, op. cit., pp. 69 ss.. 18 Come nel
caso di Conche, op. cit., p. 77. 19 Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmenides”, in
Id., Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009, pp. 146-147. 308 impensabile [e]
inesprimibile (poiché non è una via genuina). Eppure è proprio questa
difficoltà a risultare illuminante rispetto alla natura e alla funzione delle
«uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοί μοῦναι διζήσιός νοῆσαι): solo la
nozione di νοεῖν come pensare del tutto intellettuale, capace di prescindere
dalle sembianze sensibili e afferrare ciò che è realmente dato, appare in grado
di giustificare l'alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) prospettata nei versi B2.3 e
B2.5. Intendendo νοεῖν come un «pensare» generico, si può ridurre il paradosso
di una «via di ricerca per pensare» connotata come «sentiero del tutto privo di
informazioni» (παναπευθέα ἀταρπόν) e, addirittura, come «impensabile e
inesprimibile (ἀνόητον ἀνώνυμον), ricorrendo alla distinzione tra la sua prospettazione
a priori e l'effettiva (a posteriori) sua praticabilità. Crediamo, tuttavia,
che sia solo la comprensione di νοεῖν secondo la prospettiva omerica
(improntata all'analogia con il vedere) di una relazione percettiva immediata
con l'oggetto20, a dare senso alla disgiunzione «è»-«non è»: essa allora
esprimerà, per quella funzione ricettiva, l'alternativa radicale tra necessità
di rivolgersi a una realtà che è, e impossibilità di afferrare ciò che non è.
La Dea annuncia nel contesto quali siano le «uniche vie di ricerca per
pensare»: tre sono gli elementi da considerare: (i) la ricerca (δίζησις), (ii)
i percorsi lungo per cui essa si sviluppa, (iii) la finalità che essa intende
realizzare, designata dall'infinito aoristo νοῆσαι: «pensare», svelare la
realtà (verità), ovvero, come suggerisce Palmer21, «comprendere», «giungere a
comprensione». Il contesto di B2 suggerisce palesemente anche l'obiettivo
conclusivo delle ricerca, che traduce in risultato la finalità dell'unico
effettivo percorso di ricerca: come abbiamo già osservato, della prima via di
ricerca (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) la Dea sottolinea che (a) è
«percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), 20 Germani, op. cit., p. 189. 21
Op. cit., pp. 72-3. 309 in quanto (b) «attende alla Verità» (Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ).
L'apertura di B6 preciserà (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι
è necessario il dire e il pensare che ciò che è è, fissando quindi in quanto
espresso da ἐόν l'oggetto specifico di comprensione. D'altra parte, le «vie»
annunciate sono «uniche» (μοῦναι) in forza di ciò che esse si propongono di
pensare: in B8.16 sinteticamente proposto come ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν («è o non è»),
esso è in B2 rinforzato da due formule modali: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι
μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν
τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere
(B2.5). Lungo la prima via (per pensare), la ricerca si sviluppa riflettendo a
partire dall'immediata evidenza: «è» (ἔστιν), rimanendo saldamente sul terreno
dell'«essere» (escludendo cioè la possibilità del «non-essere»). La seconda
modalità, invece, prospetta una ricerca che si svolga a partire dalla negazione
di quella evidenza: «non è» (οὐκ ἔστιν), pretendendo di svilupparsi
conseguentemente sul terreno del «non essere». Delineata come alternativa alla
precedente, essa si rivela di fatto impercorribile, dal momento che il pensiero
non avrebbe alcunché da afferrarvi e manifestarvi: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν
ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις
Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni:
poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né
potresti indicarlo. 310 Per pensare Prima di procedere alla determinazione
delle «vie», è opportuno, tuttavia, in relazione al verso 2, soffermarsi ancora
sulle implicazioni dell’annuncio della Dea: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω [...] αἵπερ ὁδοὶ
μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι. Comunque si valutino queste parole, è evidente
come in esse Parmenide anticipi il senso di un messaggio (divino) che investe
indiscutibilmente la dimensione cognitiva del νοεῖν: si tratterà di riassumere,
nella schematica astrazione di due forme («vie»), le modalità di fondo del
«ricercare», del portare a conoscenza22, discriminandole rispetto all'ampia
fenomenologia di tentativi e sviamenti «mortali» (le δόξαι βροτῶν). Se si può
riconoscere alla narrazione del proemio anche un'intenzione simbolica,
ricordiamo come la θεά, accogliendo il κοῦρος, rilevasse (B1.27): τήνδ΄ ὁδόν
[...] γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν. Il filo che lega l’esordio della
comunicazione della θεά (B1.24 ss.) alla rivelazione di B2 è costituito dal
tema della ὁδός: la Dea dapprima (B1.27) – con riferimento alla via che, grazie
all’intervento di eccezionali coadiutrici, ha condotto al suo cospetto -
segnala come essa sia «lontana dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς
πάτου); in B2 ella ne rievoca il tema nelle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός, precisando in
modo rigoroso i criteri per valutare la fondatezza di ogni punto di vista. In
gioco è esplicitamente (B1.29) la Verità: (i) nella sua “essenza” (Ἀληθείης εὐκυκλέος
ἀτρεμὲς ἦτορ); (ii) nella sua manifestazione 22 Come ricordato in nota al testo,
Kahn (Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmenides”, cit., p. 147) ha sostenuto che
δίζησις costituirebbe «equivalente poetico» del termine ionico ἱστορίη
(«ricerca scientifica»). 311 all’esperienza umana (τὰ δοκοῦντα); (iii) nella
sua diffusa distorsione (βροτῶν δόξαι). La realtà da scoprire (Verità) rimane,
in effetti, al centro anche di B2, come abbiamo in precedenza sottolineato a
proposito della espressione δίζησις e della sua derivazione dall’omerico
δίζημαι, alimentando un possibile ulteriore paradosso. Secondo una corrente
interpretazione dei primi versi del proemio, la Dea è stata raggiunta a
conclusione di un viaggio lungo la «strada ricca di canti» (ἐς ὁδὸν πολύφημον)
che conduce «l’uomo che sa»: ella rivela di non essere la fonte diretta da cui
attingere la Verità; suo compito è solo quello di indicare il (nuovo) percorso
per conseguirla23. È questo decentramento della verità dalla Dea che
giustifica, per esempio, la lezione di Untersteiner, il quale fa coincidere la
verità con la via stessa. In ogni caso, nell’economia complessiva del testo, il
riferimento al νοεῖν – del poeta e del lettore\ascoltatore – è essenziale per
coglierne l’intenzione pedagogica. Il discorso si snoderà a partire dalla
comprensione delle implicazioni di due enunciati divini, insistendo sulla
centralità della relazione tra νοεῖν e εἶναι: tale comprensione risulterà
ugualmente vincolante per la Dea e per i «mortali» (manifestando un decisivo,
comune denominatore razionale): (i) legittimando, da un lato, il taglio
argomentativo di alcuni dei frammenti della prima sezione (segnatamente B8,
parzialmente B6) e l’ἔλεγχος adottato dalla divina interlocutrice per istruire
il κοῦρος; (ii) contribuendo dall’altro a determinare l’oggetto intorno a cui
verte il discorso, indicato dallo stesso Parmenide (nella formula più astratta)
come τὸ ἐόν. Le «vie» e i loro problemi: natura e articolazione della ricerca
Le «uniche vie di ricerca per pensare», come abbiamo visto, sono proposte
letteralmente come: 23 Ruggiu, op. cit., p. 211. 312 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς
οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς
οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario
non essere (B2.5) ovvero, volendo risolvere le infinitive in una soggettive
esplicite (come appare più naturale): l’una che è e che non è possibile che non
sia l’altra che non è e che è necessario che non sia. La nostra preferenza per
la resa infinitiva è legata alla possibilità di rimanere più aderenti alla
costruzione greca e soprattutto di sfruttarne gioco espressivo e ambiguità. In
apparenza, l’alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) reitera – pur senza
sovrapposizione, come vedremo - lo schema oppositivo già impiegato dalla Dea
nella propria allocuzione di saluto, quando aveva sottolineato al κοῦρος
l’esigenza di «tutto» apprendere: ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν
δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia
dei mortali le opinioni, in cui non è vera credibilità (B1.29-30). L'una -
l’altra Ammettendo la sostanziale continuità tra B1 e B2, le due opposizioni,
cariche di significato in forza delle reciproche introduzioni (nel primo caso -
B1.28 – l’urgenza di χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; nel secondo l’interrogativo
implicito in αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι), appaiono evidentemente
collegate, 313 anche se non (come vorrebbe qualcuno24) nel senso di una
puntuale correlazione. Nel caso di B2, l’opposizione emerge non solo, sul piano
espressivo, nella scelta della costruzione (ἡ μὲν ὅπως ... ἡ δ΄ ὡς), ma
soprattutto, sul piano logico, nella peculiare costruzione degli enunciati, che
possiamo rispettivamente articolare nei due emistichi dei versi 3 e 5, quindi: ἡ
μὲν ὅπως ἔστιν […] (B2.3a) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν […] (B2.5a) καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
(B2.3b) καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). Letteralmente dovremmo tradurre,
attribuendo (come prevalentemente si fa) a ὅπως e ὡς il valore di congiunzioni
(subordinanti) dichiarative (sottintendendo, dunque «che dice» ovvero «che
pensa»): l’una [che pensa] che «è»25 […] (B2.3a) l’altra [che pensa] che «non
è» […] (B2.5a), e che «non è [possibile] non essere» (B2.3b) e che «è
necessario non essere» (B2.5b). L'alternativa più credibile a questa
costruzione dichiarativa non pare tanto quella avverbiale discussa da
Mourelatos26: l’una come è e come non sia non essere l’altra come non è e come
sia necessario non essere, 24 In modo coerente per esempio Cordero. 25 Il
virgolettato vuol sottolineare il contenuto dichiarato. 26 Op. cit., pp. 49.51.
Untersteiner rende in modo apparentemente analogo, ma in realtà con valore
interrogativo: «come una esista e che non è possibile che non esista» (p.
LXXXVI). 314 quanto quella proposta da Ferrari27, almeno per quel che concerne
la resa di ὅπως e ὡς con «secondo cui», che ben suggerisce l'idea delle diverse
prospettive di ricerca. Il rilievo oppositivo delle «vie» può essere rafforzato
se – come è possibile e per certi versi naturale nel contesto – B2.3b (καὶ ὡς οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι) è reso con espressione modale; avremmo così: e che: «non è
possibile non essere» [ovvero: che non sia] (B2.3b) e che: «è necessario non
essere» [ovvero: che non sia] (B2.5b). In questo caso, sarebbe evidente come
Parmenide abbia deliberatamente costruito le «vie di ricerca» facendo leva
sulle opposizioni «è» – «non è» e «non è [possibile] non essere» - «è
necessario non essere»: la Dea – per acclarare αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι
νοῆσαι - ricorre a due formule coordinate 28 : (i) «[pensare] che A e che B»
per la prima via; (ii) «[pensare] che non-A e che non-B» per la seconda. In
greco abbiamo: A = ἔστιν; non-A = οὐκ ἔστιν; B = οὐκ ἔστι μὴ εἶναι; non-B =
χρεών ἐστι μὴ εἶναι. Nello schema che così si delinea, da un punto di vista
logico «non-B» dovrebbe corrispondere alla negazione di «non è possibile non
essere» e dunque a «è possibile non essere», non a «è necessario non essere».
In questo senso, è stato giustamente osservato (Kahn, Mourelatos, Lloyd, Leszl)
che, alla luce della posteriore logica aristotelica, gli enunciati 2.3a e 2.5a
sarebbero effettivamente contraddittori29, mentre gli enunciati 2.3b e 2.5b
(costruiti sulla opposizione «non è possibile...»-«è necessario...») solo
contrari30, e che dunque la formulazione alternativa non sarebbe esaustiva.
Eppure nell'insieme appare chiara (Aubenque, 27 Il migliore dei mondi
impossibili, cit., pp. 135 ss.. 28 Proposta da Cordero, By Being, It Is…, cit.,
p. 43. 29 Ammettendo, ovviamente, l'identità di soggetto: uno necessariamente
vero, l’altro necessariamente falso. 30 Non potrebbero essere, quindi, veri
entrambi, ma potrebbero essere entrambi falsi. 315 Heitsch) l’intenzione di
Parmenide di esprimersi attraverso alternative esclusive (quindi in termini di
espressioni incompatibili)31 . In questo senso la nostra scelta di rendere il
testo greco con subordinate implicite: l’una: è e non è possibile non essere
l’altra: non è ed è necessario non essere, quasi la Dea puntasse ad associare
all’immediato rilievo dello stato d’essere (ἔστιν) la forma infinitiva32
(«essere»), in altre parole ad anticipare, nel gioco verbale, i due oggetti al
centro della disamina (B3, B4, B6, B7, B8): ἐόν, τό ἐὸν, τό μὴ ἐὸν. Una volta
delineata la formulazione oppositiva delle vie d’indagine, due questioni
delicate (da un punto di vista interpretativo complessivo) si impongono: a chi
o che cosa si riferiscono affermazione e negazione (quale il loro soggetto)?
Quale valore (esistenziale, copulativo, veritativo) attribuire al verbo
«essere»? È - non è Il primo interrogativo è ovviamente suscitato dall'assenza,
in greco, di un soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν: dal momento che le principali
lingue moderne richiedono che esso sia in qualche modo esplicitato, la
traduzione del testo ha sopportato svariati tentativi di completamento: dalla
scelta dell'assoluta indeterminatezza33, a quella della forma impersonale34,
dal ricorso a pronomi35 31 Si veda la discussione in Cordero, op. cit., p. 71.
32 Heitsch rende ancora più esplicitamente questa situazione: Der eine, (der da
lautet) «es ist, und Sein ist notwendig» Der andere, (der da lautet) «es ist
nicht, und Nicht-Sein ist notwendig». 33 Tipicamente Calogero. 34 Fränkel. 35
Si tratta della soluzione più frequente. 316 (it, es, on), sostantivi
(l’essere36, la via37, la Verità38, il mondo reale39, il corpo40), all'uso di
intere formule sottintese - «whatever can be thought and talked about»41 (come
viene da alcuni tradotto il primo emistichio di B6.1), «whatever we inquire
into»42 . Da un punto di vista filologico l’ipotesi di una lacuna relativa al
soggetto - azzardata per esempio da Cornford43 e Loenen44, i quali propongono
rispettivamente ἐόν (l'essere) e τι (qualcosa) – appare forzata: i codici
conservati di Proclo e Simplicio, infatti, presentano lo stesso identico
testo45 e l’operazione sul verso risponde quindi a un'esigenza essenzialmente interpretativa.
Parmenide, evidentemente, ha scelto di esprimere i suoi enunciati in questo
passaggio del poema senza un soggetto esplicito. Può essere in questo senso
provocatorio il suggerimento della Wilkinson, la quale, in considerazione della
naturale destinazione recitativa del poema, considera l’assenza di un soggetto
definito per ἔστιν come una modalità intenzionale per esaltarne, nella
ripetizione, la formula: la sua rarità nella poesia arcaica fa supporre che per
l’audience di Parmenide il termine (soprattutto senza soggetto o come soggetto
esso stesso) fosse una novità46 . D’altra parte, l’esame del frammento consente
di individuare un soggetto implicito: la stessa logica di costruzione delle
«vie» comporta, infatti, che, nel momento stesso in cui la Dea sottolinea: 36
Tipicamente Cornford. 37 Untesteiner. 38 Verdenius. 39 Casertano. 40 Burnet. 41
Russell, Owen. 42 Barnes. 43 F.M. Cornford, Plato and Parmenides, Routledge
& Kegan Paul, London 1939. 44 J.H.M.M. Loenen, Parmenides, Melissus, Gorgias:
A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorcum, Assen 1959. 45 Come
osserva Cordero (By Being, It is…, cit., p. 37), è curioso che le citazioni di
questi versi (in Proclo e Simplicio) siano posteriori al poema di un millennio.
46 Wilkinson, op. cit., pp. 93 ss.. 317 οὔτε … ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν
- οὔτε φράσαις non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa
fattibile), né potresti indicarlo (B2.7-8), conoscibilità ed esprimibilità –
negate a τό μὴ ἐὸν - debbano essere riferite a un ancora implicito [τὸ] ἐόν 47,
come chiarito in B6.1-2a (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι·
ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν è necessario il dire e il pensare che ciò
che è è; è infatti [possibile] essere, [il] nulla, invece, non è. Se è vero,
come segnala Coxon48, che l’omissione del pronome indefinito (denotante «la
cosa in questione») come soggetto è ampiamente diffusa nell’epica e nel greco
posteriore, nel contesto dell’attuale B2, in altre parole all’esordio della
comunicazione divina, è tuttavia assai probabile che Parmenide rinunciasse
intenzionalmente al soggetto (per altro non immediatamente desumibile e quindi
difficile da sottintendere per l’ascoltatore), insistendo piuttosto
sull’impatto espressivo dell’intreccio oppositivo ἔστινοὐκ ἔστιν (con relative
formule modali), per (i) catturare progressivamente l’attenzione
dell’ascoltatore e (ii) coinvolgerne l’impegno intellettuale, lungo le due vie
delineate, nell’enucleazione della verità. Saremmo, in questo senso, in presenza
di un’ambiguità ricercata a scopo pedagogico. Se, come per lo più si conviene,
l’ordinamento DK dei frammenti della prima parte del poema è relativamente
plausibile, allora, da B2 a B8, assisteremmo a una graduale manifestazione del
47 Questo rilievo in R. Mondolfo, “Discussioni su un testo parmenideo (fr. 8.5-
6)”, «Rivista critica di storia della filosofia», 19 (1964), p. 311. Si veda
anche Coxon, op. cit., p. 177. 48 Op. cit., p. 175. 318 soggetto sottinteso49
in B2.3: dalla pura affermazione «ἔστιν» si passerebbe, in B6.1, a un soggetto
(ἐόν) sotto forma di participio ricavato dallo stesso verbo εἶναι, determinato
poi, in B.8, come vera e propria nozione (τὸ ἐόν), con relative proprietà50 .
La scelta espressiva di Parmenide (rinunciare a un esplicito soggetto per ἔστιν-οὐκ
ἔστιν) – che imbarazza il traduttore moderno, spesso costretto a ricorrere al
pronome neutro come mero soggetto grammaticale51 - ha l’effetto di porre in
risalto nei versi (per il lettore), ovvero nella recitazione (per l’ascoltatore)
l’assolutezza di ἔστιν (οὐκ ἔστιν) 52 , una ricorrenza insistente nel poema53.
L'«impertinenza linguistica» di Parmenide54 si sarebbe concentrata
deliberatamente su una forma verbale esposta all’ambiguità, per la rottura
dello schema sintattico soggettopredicato verbale, e l’uso (di conseguenza
incondizionato) della terza persona singolare indicativa (ἔστιν). Con l’effetto
di richiamare l’attenzione sull’esperienza del reale55 implicita nel linguaggio
ordinario: l'evidenza del puro fatto d’essere56. Come verbo assoluto, senza
vincoli grammaticali e logici (soggetto, predicato), ἔστιν esprimerebbe
immediatamente lo «stato puro»57 della realtà, 49 Su questa proposta convengono
alcuni recenti interpreti: Couloubaritsis, Cassin, Aubenque, Ruggiu. 50
O’Brien, op. cit., p. 164. 51 Che preannuncia il vero (reale) soggetto: Conche,
op. cit., p. 79. 52 Grazie al supporto delle formule modali οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e
χρεών ἐστι μὴ εἶναι. 53 Su questo aspetto, in particolare, Wilkinson, op. cit.,
p. 94. 54 P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical
Interpretation, Marquette University Press, Milwaukee (Wisconsin USA) 2007, p.
35: l’enfasi sull’«è» sorgerebbe da una certa awareness of language, e sarebbe
in realtà funzionale al rilievo delle implicazioni dell’uso pre-filosofico del
verbo «essere». 55 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 89. 56
Convincente per questo aspetto la lettura di Cordero, By Being, It Is, cit.,
pp. 61 ss.. Va per altro osservato come Parmenide coniughi il rilievo «ἔστιν»
con la formula «οὐκ ἔστι μὴ εἶναι», che certamente lo rafforza: è a partire
dalla sua assolutezza che si potrà procedere all'estrazione (B6-B8) di un
soggetto (con l’introduzione di τὸ ἐόν o εἶναι). 57 R. Di Giuseppe, Le Voyage
de Parménide, cit., p. 93. 319 presupposto in ogni affermazione58. Per questo
l’aggiunta di un pronome indefinito (qualcosa, τι in greco) tradirebbe
(attenuandola) la radicalità dell’indicazione della Dea, che potrebbe piuttosto
essere intesa come veicolo dell’originario stupore per, della primitiva
attenzione al «fatto d’essere». Nella lettura che proponiamo, infatti,
all’immediata rilevanza dell’ἔστιν la Dea farebbe seguire, con una sequenza
verbale ad effetto59 , οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, cioè l’estrazione e l’affermazione
(attraverso la doppia negazione) di εἶναι. Per quanto si valorizzino le
implicazioni linguistiche (come segnalato da Calogero, e da altri poi in vario
modo ribadito60), il contesto della dichiarazione della Dea rimane comunque
quello della determinazione di «vie di ricerca per pensare», nel senso di
percorsi prospettati per giungere a comprensione della realtà: Parmenide
intende dunque riferirsi in ultima analisi alla realtà sottesa a quelle
espressioni, delineata nella sua assolutezza («non è possibile non essere»). Così,
quando afferma (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· è
necessario il dire e il pensare che ciò che è è (B6.1a), ἐόν emerge come
espressione concettuale, consapevole sviluppo astratto, dell’immediato
contenuto di ἔστιν, denotando, a un tempo, la totalità degli enti (di ognuno
dei quali si dice che è «ciò 58 In questa prospettiva, è forse ancora utile
l'indicazione di Calogero, rilanciata da Giannantoni (G. Giannantoni, "Le
due 'vie' di Parmenide", «La Parola del Passato», cit., pp. 207-221),
circa la scelta dell'«è» «in quanto puro elemento logico e verbale
dell'affermazione» (G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze
19772 , pp. 20-2). 59 L’effetto musicale in greco della sequenza verbale in ἡ μὲν
ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι non è facilmente riproducibile in
traduzione, mantenendo il valore potenziale di οὐκ ἔστι. 60 Riflessione intorno
all’uso della copula (Thanassas, op. cit., p.32; Cerri, op. cit., p. 60), alla
sua funzione «speculativa» nel rivelare il predicato essenziale di un soggetto
(la copula funzionerebbe da conveyer verso la realtà della cosa: Mourelatos,
op. cit., p. 59); riflessione sul fatto che, in greco, il linguaggio quotidiano
indica le cose come ὄντα (Cordero, op. cit., p. 60.). 320 che è», ἐόν/ὄν), ma
richiama anche la attenzione sull’essere (ἐόν, εἶναι) di quegli enti61 .
[Pensare] «che è», [pensare] «che non è» La seconda questione suscitata dalla
formulazione delle «vie di ricerca […] per pensare» è relativa al valore da
attribuire al verbo «essere» negli enunciati: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι
μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν
τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere
(B2.5). L'insistenza sull’incrocio oppositivo di ἔστι e εἶναι risalta sia in
lettura sia all’ascolto: «è»\«non-è», «non è [possibile] nonessere»-«è
necessario non-essere». A partire da questo dato testuale è aperta la
discussione tra gli interpreti su come intendere le espressioni verbali. Nella
conclusione dell’esame precedente abbiamo posto in relazione l’affermazione di
B2.3 con il primo emistichio di B6.1: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι.
All'interno del verso, «essere» (qui nella forma epica ἔμμεναι) è riferito a un
esplicito soggetto, il participio ἐόν, con un valore che appare, naturalmente,
esistenziale (predicato verbale: «esiste»). Ora, volgendoci 62, senza
forzature, a B8, possiamo ulteriormente rilevare due passi chiaramente
significativi: 61 Thanassas, op. cit., p. 45. Interessante il rilievo secondo
cui l’ἐόν di Parmenide sarebbe in questo senso direttamente comparabile alla
espressione aristotelica τὸ ὂν ᾗ ὂν. 62 Seguendo l’esempio di O’Brien, op.
cit., pp. 170 ss.. 321 […] ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν che senza
nascita è ciò che è e senza morte (B8.3), οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις
εἶναι per questo non incompiuto l’essere è lecito che sia (B8.32). In questi
casi si individua ancora esplicitamente il soggetto nel participio ἐόν (B8.3) e
nel participio sostantivato63 τὸ ἐόν (B8.32), mentre ἐστιν e εἶναι sono
impiegati con valore copulativo64. Più complessa la situazione di B8.5-6: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές· né un tempo era né
[un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.5-6), dove
soggetto sottinteso è ἐόν di cui sopra (B8.3), e ἔστιν ha un duplice ruolo: a
un tempo valore esistenziale (con l’avverbio: «è ora») e funzione copulativa65
. Se poi guardiamo alla ricostruzione delle premesse dell’argomento della Dea
(B8-15-18), dove Parmenide rievoca la κρίσις (decisione) intorno a «è o non è»,
il senso dell’ἔστιν in B2 si approfondisce: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ
ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. […] Il giudizio in
proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, 63
Che certamente comporta valore esistenziale. 64 In realtà per B8.3 la
situazione è più complicata, in quanto il testo greco potrebbe rendersi
diversamente: «essendo, è ingenerato e indistruttibile»; «essendo ingenerato,
l’essere è anche indistruttibile». 65 O’Brien, op. cit., p. 177. 322 di
lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è via genuina),
e che l’altra invece esista e sia reale (B8.15-18). La via (ὁδός) che pensa che
«non-è [e che è necessario non essere]» è abbandonata, in quanto «impensabile
[e] inesprimibile», perché «non genuina» (οὐ ἀληθής). In B2.6-7 si parla di
«sentiero del tutto privo di informazioni»: «conoscere ciò che non è» ovvero
«indicarlo» «non è in effetti cosa fattibile». L’altra si è invece «deciso»
(κέκριται) «sia\esista» (πέλειν) e «sia reale\genuina\vera» (ἐτήτυμον εἶναι).
Se in B2, nell’economia della lezione divina, è essenziale soprattutto
focalizzare l’attenzione sul valore decisivo della espressione verbale ἔστιν,
preparando il terreno alla comprensione delle implicazioni nella formulazione
delle «vie», in B8, al contrario, riscontriamo gli effetti della sistematica
applicazione alla prima «via», con altrettanto sistematica esclusione della
seconda. La prima via per pensare (comprendere) afferma ἔστιν; la seconda lo
nega (οὐκ ἔστιν). La prima via completa e assolutizza l’affermazione con la
negazione del non-essere (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), ovvero della possibilità del
non-essere. La seconda via assolutizza la negazione affermando la necessità del
non-essere (ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι). Con la prima via, attraverso l’esplicito
(e incondizionato) rilievo di ἔστιν e dell’impossibilità di μὴ εἶναι, viene
implicitamente imposto l’oggetto pienamente positivo della ricerca (ἐόν, εἶναι);
con la seconda, che nega quanto la prima afferma, viene, di conseguenza,
delineato l’oggetto alternativo, radicalmente negativo, indicato come τό μὴ ἐὸν,
dichiarato al v. 7 come oggetto indisponibile alla conoscenza o alla
manifestazione. In B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν 323 è necessario il dire e il pensare che ciò che è è:
poiché è possibile essere, il nulla, invece, non è. con la piena esplicitazione
del contenuto delle due vie, avrà poi inizio la disamina critica. Se questa
prospettiva è corretta, allora in B2 le formule della pura affermazione (ἔστιν)
e della pura negazione (οὐκ ἔστιν) - sostenute dalle relative formule modali,
possono generare, in quanto «vie di ricerca» (le sole «per pensare»), due
soggetti diversi e due espressioni tautologiche, su cui appunto Parmenide fa
leva in B6. La necessità di «dire e pensare» che «ciò che è» (il participio ἐόν)
«è, esiste» fonda la propria legittimità sulla duplice premessa: (i) che
«essere» (εἶναι) «è possibile» (ἔστι); (ii) che il «nulla» (μηδέν) «non è» (οὐκ
ἔστιν). Il comune errore dell’opinare umano si accompagna proprio al
fraintendimento della portata di queste tautologie, nella contraddizione
generata dall’affermazione incrociata (ancorché solo implicita) di essere e
non-essere. Alla luce di questa considerazione – ribadendo quanto sopra a
proposito della deliberata opzione parmenidea per forme verbali (ἔστιν - οὐκ ἔστιν),
nel contesto immediatamente impersonali (senza soggetto e predicato) e dal
valore (esistenziale, copultativo, veritativo) ambiguo – appare insostenibile
il tentativo di attribuire τὸ ἐόν come soggetto comune sottinteso (in B2.3 e
B2.5). Dalle due formule saranno ricavati due soggetti distinti: uno reale (τὸ ἐόν,
appunto, «l’essere»), l’altro fittizio, pura espressione verbale e funzione
logica (τό μὴ ἐὸν, «il non-essere», μηδέν il «nulla»), segnavia di una pista
che la ragione riconosce subito impraticabile. In questo senso possiamo parlare
di due «vie»: (i) una manifesta la «realtà» (Ἀληθείη) di «ciò che è
(necessariamente); (ii) l'altra spinge a riconoscere (come evidenzia
l'intervento della Dea) l'indisponibilità effettiva di «ciò che non è
(necessariamente)», che pertanto andrà sistematicamente escluso dall'orizzonte
dell'umano indagare. 324 Non pare che alla seconda delle vie di ricerca si
debba attribuire la contraddizione che, invece, viene denunciata nelle «opinioni
dei mortali»: condivisibile su questo punto quanto sottolineato da Mansfeld66 .
L’identificazione della seconda via con quella del mondo dell’esperienza è
errata: ricordiamo come la seconda via è ancora connotata in B8.17-18: τὴν μὲν ἐᾶν
ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι.
[Si è deciso] di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non
è via genuina). Della via «non è» non si può concepire un contenuto reale: essa
è allora ἀνόητον, ma anche ἀνώνυμον (letteralmente «senza nome»: non si può
indicare ciò che non è in senso assoluto). Ma sono proprio i «nomi» a
caratterizzare il mondo fenomenico, come sottolinea la stessa divinità
(B8.38b.41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ,
γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα
φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali
stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere,
cambiare luogo e mutare luminoso colore. A rimanere «senza nome» è
definitivamente ciò che (necessariamente) è nulla, quanto appunto espresso
nella formulazione della seconda via, e designato come τό μὴ ἐὸν. Le due
enunciazioni divine (affermativa e negativa) – in quanto «vie di ricerca, le
uniche per pensare» - devono essere reciprocamente alternative ma in sé
incontraddittorie, e tracciare i percorsi (κέλευθος, ἀταρπός) per i quali: (i)
generare le nozioni di «essere» e «non-essere»; (ii) valutare, in relazione al
coerente ri- 66 Op. cit., p. 55. 325 spetto dell’alternativa concettuale
prodottasi, la consistenza dei punti di vista umani. D’altra parte, il motivo
dell’intransitabilità della seconda via è non il suo carattere contraddittorio
- come accade appunto nel caso della “presunta” via (B6.5-9) che i «mortali che
nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, «uomini a due teste» - δίκρανοι), si
fingono -, ma il fatto che (B2.6-8) «non potresti conoscere ciò che non è, né
potresti indicarlo», in quanto «cosa non fattibile». Prospettata (con la
negazione οὐκ ἔστιν) come alternativa a ἔστιν, la via che pensa «che non è e
che è necessario non essere» è «percorso» (ἀταρπός) assolutamente privo di
contenuti, e quindi indicato come τό μὴ ἐὸν. L’unica via, per la piena
consistenza dei suoi contenuti, effettivamente accessibile e percorribile «per
pensare» (cioè per afferrare la realtà) è, di conseguenza, la prima, il cui
soggetto sarà esplicitato come ἐόν (B6.1) ovvero τὸ ἐὸν (B8.32), ma già
implicitamente individuabile, nella forma oppositiva di B2, come formula
contraddittoria rispetto a τό μὴ ἐὸν. Si è detto67 che l’unico modo per
rispettare il valore oppositivo delle vie che la Dea propone è di mantenere lo
stesso soggetto per entrambe: abbiamo, però, ipotizzato che la linea di pensiero
di Parmenide sia stata in realtà un’altra, che in B2 si lascia intravedere.
Attraverso l'asseverazione della tesi «è» (ὅπως ἔστιν), pura espressione
dell’immediata esperienza della realtà, coniugata con la contestuale negazione
modale dell’antitesi («non è possibile non essere», ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), la
divinità pone le premesse per l'estrazione della nozione positiva di τὸ ἐὸν,
che indicherà ovviamente ciò che è in senso pieno e necessario, il soggetto
ontologico di cui si manifesteranno le proprietà in B8: la prima via è in
questa prospettiva «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος). Nei versi 5-8,
invece, dall’altrettanto pura negazione (ὡς οὐκ ἔστιν) di quell’originaria
esperienza, coniugata con la relativa formula modale («è necessario non essere»,
ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι), ella ricava la nozione di τό μὴ ἐὸν, marcandone subito
l'in- 67 Cordero (pp. 44-5), Ruggiu (p. 221). 326 disponibilità facendo leva su
un’ulteriore, immediata evidenza: non è «cosa fattibile» (ἀνυστόν) conoscere e
indicare «il nonessere» (τό μὴ ἐὸν). Il percorso di Persuasione La rivelazione
divina delle «vie di ricerca» è accompagnata da due rilievi. Relativamente alla
via «che è e che non è possibile non essere», la Dea osserva che: Πειθοῦς ἐστι
κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ - di Persuasione è il percorso (a Verità infatti
si accompagna) (B2.4), marcando, dunque, con un genitivo a un tempo oggettivo e
soggettivo, come il viaggio per tale via conduca a scoprire la realtà (Ἀληθείη):
essa appare, allora, come un'istruzione (affermazione d'essere e sistematica
esclusione del non-essere) da seguire nell'indagine. Nella stessa prospettiva,
le formule modali di B2.3 e B2.5 possono essere intese come ammonimenti divini,
affinché siano evitati gli sviamenti tipici dei «mortali che nulla sanno»: il
«percorso» (κέλευθος) lungo la ὁδός anticipa effettivamente l’idea della
μέθοδος che Platone introduce68, prospettando poi la filosofia (dialettica)
come viaggio69 . 68 In Fedone 79e: Πᾶς ἄν μοι δοκεῖ, ἦ δ’ ὅς, συγχωρῆσαι, ὦ
Σώκρατες, ἐκ ταύτης τῆς μεθόδου, καὶ ὁ δυσμαθέστατος, ὅτι ὅλῳ καὶ παντὶ ὁμοιότερόν
ἐστι ψυχὴ τῷ ἀεὶ ὡσαύτως ἔχοντι μᾶλλον ἢ τῷ μή Mi sembra – disse - che
chiunque, Socrate, anche il più tardo, muovendo da questa via [ἐκ ταύτης τῆς
μεθόδου], debba convenire che l'anima è, in tutto e per tutto, più simile a ciò
che è sempre che a ciò che non lo è. 69 Coxon, op. cit., p. 174. Il passo di
Repubblica (532b) è il seguente: 327 L’insistenza sul processo (la via, il
percorso) è importante perché sottolinea come la Dea prospetti, nell’immediato,
essenzialmente la direzione di una ricerca, aperta al coinvolgimento razionale
del κοῦρος. In questo senso, la dimensione della (progressiva) scoperta della
realtà autentica (Verità), che culminerà in B8, se da un lato conferma
l’associazione (heideggeriana) tra ἀληθείη e disvelamento (non-nascondimento),
dall’altro accentua gli aspetti di attivo condizionamento del ricercare, donde
il rilievo della “cognizione critica” (B7.5: «giudica con il ragionamento», κρῖναι
δὲ λόγῳ) e il ruolo riconosciuto (B3, B4) a νόος e νοεῖν. La realtà (Verità) è
obiettivo del percorso di Persuasione (che a Verità, osserva la Dea, «si
accompagna», ovvero «tien dietro», ὀπηδεῖ), proposto come oggetto di
apprendimento, conoscenza e discorso70: il percorso sarà genuino, vero, nella
misura in cui svela la realtà. Che essa (Verità) si manifesti (a colui che
ricerca con intelligenza) lungo la via (che pensa o afferma) «che è e che non è
[possibile] non essere» è ulteriormente marcato – come abbiamo più volte
rilevato – dall'indicazione con cui la Dea stigmatizza l'alternativa, seconda
via (B2.6-8): Τί οὖν; οὐ διαλεκτικὴν ταύτην τὴν πορείαν καλεῖς; Ebbene, non è
proprio questo itinerario che chiami dialettica? Poche righe sotto (532 d-e),
Glaucone invita Socrate a determinare la natura della dialettica: λέγε οὖν τίς ὁ
τρόπος τῆς τοῦ διαλέγεσθαι δυνάμεως, καὶ κατὰ ποῖα δὴ εἴδη διέστηκεν, καὶ τίνες
αὖ ὁδοί· αὗται γὰρ ἂν ἤδη, ὡς ἔοικεν, αἱ πρὸς αὐτὸ ἄγουσαι εἶεν, οἷ ἀφικομένῳ ὥσπερ
ὁδοῦ ἀνάπαυλα ἂν εἴη καὶ τέλος τῆς πορείας Devi dirci allora quale sia il modo
della facoltà della dialettica, quali siano le specie in cui è divisa, e quali
le vie; queste infatti, come pare, sono le vie che potranno condurre là dove,
pervenuti, potrà esservi riposo dal cammino e fine del viaggio. 70 Mourelatos,
op. cit., p. 66. 328 τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις Proprio questa ti dichiaro
essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere
ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo. Si tratta
di un rilievo decisivo: la divinità mette in gioco l'autorevolezza del proprio
“io” (τοι φράζω, «ti dichiaro») per rivelare, della via «che non è e che è
necessario non essere», che essa è un «sentiero» (ἀταρπός, tracciato
secondario) per cui non si accede alla realtà, lungo il quale non si può fare
esperienza o imparare raccogliendo informazioni. Ciò-che-non-è È in questo
contesto che la Dea introduce la formula τό μὴ ἐὸν (participio sostantivato).
Nella cornice di un processo di indagine che evoca il tradizionale motivo
omerico del viaggio71, la precisazione è netta: il ricercatore che pretendesse
lasciarsi guidare dall'assunto «non è ed è necessario non essere», non potrebbe
propriamente incontrare, né «indicare» (φράζειν) qualcosa. Pensare «che non è e
che è necessario non essere» non porta da nessuna parte: nemmeno la guida
divina può tracciare concretamente tale via, portando a casa un risultato
conoscitivo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν poiché non
potresti conoscere ciò che non è - non è infatti cosa fattibile (B2.7).
Possiamo allora, per contrasto, confermare che, lungo la via imboccata seguendo
l'assunto «è e non è [possibile] non essere», 71 Mourelatos, op. cit., p. 76.
329 ci si muove verso «ciò-che-è» (verso la realtà-Verità), e che tale percorso
può essere compiuto (cioè è «fattibile» - ἀνυστόν – a differenza dell'altro):
la guida divina, in effetti, potrà fornire i segni o i criteri della via72 .
Dal momento che – come rivela la dea senza nome - non è in assoluto possibile
(«cosa fattibile») conoscere, ovvero determinare «ciò che (necessariamente) non
è», solo la prima via, che pensa e afferma «che è e che non è possibile non
essere», che muove dalla evidenza «è», è in grado di manifestare la verità, di
estrarre dall’«è» indicazioni positive e ultimative riguardo alla realtà (donde
il successivo impiego delle nozioni equivalenti di ἐόν e τὸ ἐὸν). I dati
fondamentali su cui il κοῦρος è invitato a riflettere sono dunque: (i)
l'esclusività delle vie di ricerca «per pensare [comprendere]» (in questo senso
esse sono appunto designate come ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός νοῆσαι: l'infinito «per
pensare» ne specifica la natura); (ii) la loro reciproca incompatibilità
(sottolineata dal ricorso combinato alla negazione e alle formule modali - su
cui ancora tra breve); (iii) l’impercorribilità della seconda via: non è
possibile conoscere o indicare «ciò che non è»; (iv) la loro (conseguente)
natura ontologica, ovvero, propriamente, il loro annunciare opposti modi
d'essere: la modalità dell'essere necessario e quella del necessario
non-essere73 . B2 attesta un ricorso precoce al surrogato τό μὴ ἐὸν per
«nonessere», probabilmente dandone per scontata l’immediata evidenza per il
lettore\ascoltatore. Nella contrapposizione delle vie, ciò induce ad anticipare
le formule opposte (ἐόν e τὸ ἐὸν). In questo senso, l’argomentazione di
Parmenide appare sollecitata dalla preoccupazione di istituire e fondare la
contrapposizione tra τὸ ἐὸν («essere») e τό μὴ ἐὸν («non-essere»)74, marcando
(a) la loro reciproca incompatibilità, (b) l’intransitabilità del non-essere,
così da 72 Ivi., p. 78. 73 Su questo punto è oggi da valutare quanto scrive
Palmer, op. cit., pp. 83 ss.. 74 Leszl, op. cit., p. 105. 330 concludere
(letteralmente) nella onto-logia. Ciò comporta riconoscere, con Cordero75, che
l'assolutizzazione del concetto di «essere» è ottenuta da Parmenide attraverso
la negazione della contraddittoria nozione di «non-essere». Il focus ontologico
del poema (sinteticamente ribadito con formula ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν:
«è [possibile] infatti essere, il nulla invece non è») è così proposto
contestualmente all’unico, fondamentale rilievo sul non-essere: «non è
[possibile] non essere». Due formule: «non è possibile non essere», «è
necessario non essere» Torniamo allora ancora una volta alla formulazione delle
due vie per concentrarci sulla loro struttura formale: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς
οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν
τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra: non è ed è necessario non essere»(B2.5).
La presentazione di ognuna consiste (nella nostra traduzione) in un verbo
semplice (enunciato non modale), in forma impersonale, coniugato con un enunciato
modale: «è», «non è possibile non essere»; «non è», «è necessario non essere»76
. Ogni verso è articolato in due coppie di emistichi corrispondenti, (a) e (b);
la prima coppia (a): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν l’una [che pensa] che è, ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν
l’altra [che pensa] che non è; 75 Op. cit., pp. 64-5. 76 O’Brien, op. cit., p.
182. 331 la seconda coppia (b): τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e che non è
[possibile] non essere [ovvero: che non è possibile non sia], τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι e che è necessario non essere [ovvero: che è necessario che non sia].
La formula della prima coppia (primo emistichio) propone l'opposizione tra
affermazione e negazione: la traduzione, supponendo la dipendenza di ὅπως e ὡς
da νοῆσαι («le uniche per pensare: l’una che pensa che …, l’altra che pensa
che…») ovvero (come spesso si è fatto) da verba dicendi («l’una che dice che…,
l’altra che dice che…»), non presenta particolari problemi di resa – a parte
quelli (essenziali) già ricordati, relativi al soggetto inespresso e al valore
da attribuire al verbo «essere». Nel caso della seconda coppia (secondo
emistichio) si impongono invece difficoltà nella resa dal greco. Il greco οὐκ ἔστι
può essere predicato verbale («non esiste», «non c’è»), ovvero, come può
apparire naturale alla luce del corrispondente uso dell'espressione χρεών ἐστι
(«è necessario») in B2.5b, e della (comune) relazione con lo stesso infinito (μὴ
εἶναι), può tradursi con epressione modale («non è possibile»). Se, in questo
caso, seguendo Aubenque77, interpretiamo la formula modale οὐκ ἔστι come
sinonima di ἀδύνατον (impossibile), traspare allora l’intenzione parmenidea di
proporre l’alternativa in termini netti: nell’enunciare la tesi della prima via
(l’affermazione «è»), Parmenide marca, indirettamente, la sua necessità
sottolineando l’impossibilità della antitesi (la negazione «non è»). Quanto
affermato nella tesi non può essere negato, non può rovesciarsi nella antitesi:
nella argomentazione della Dea, l’affermazione è collegata strettamente alla
posizione della necessità logica e della impossibilità logica78. Resa italiana
in 77 P. Aubenque, "Syntaxe et Sémantique de l’Être dans le Poème de
Parménide", in Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 109. 78 Ruggiu, op.
cit., p. 218. 332 questo senso più efficace potrebbe essere: «è e non è
possibile che non sia». A sua volta la formula della seconda via, οὐκ ἔστιν
(«non è»), vede accentuata la propria forza di negazione da un’espressione -
χρεών ἐστι μὴ εἶναι – che ribadisce l’intensità della antitesi («è necessario
che non sia»). L'enunciazione delle vie evidenzia, quindi, per un verso, la
loro assolutezza, per altro la loro reciproca incompatibilità. Non si deve
tuttavia perdere di vista il fatto che la Dea, nel mettere in guardia il κοῦρος
rispetto alla seconda via, si riferisca a essa con l'espressione τό μὴ ἐὸν,
stigmatizzando l’impossibilità di afferrarne e determinarne la negatività (οὐ γὰρ
ἀνυστόν, «non è infatti cosa fattibile», in cui spicca – come nel termine epico
ἀμηχανίη - la strutturale impotenza)79. Le vie non hanno, quindi, una mera
consistenza logica, ma finiscono per enucleare due distinte nozioni
ontologiche. 79 Ivi., p. 220. 333 PENSARE ED ESSERE [B3] Il frammento (è
proprio il caso di usare il termine) ha assunto nel corso dei secoli il valore
di sintetica espressione dell’essenza della filosofia di Parmenide1 : esito
paradossale dell’elaborazione della tradizione, dal momento che,
oggettivamente, esistono difficoltà per la sua contestualizzazione all’interno
del poema, e dunque anche per la sua intellezione. A ciò si aggiunga che, da
parte degli interpreti, sono talvolta considerati con sospetto contesto e
cotesto delle testimonianze di Clemente2 e Plotino3 , che citano il verso
parmenideo: anzi, soprattutto a causa della citazione delle Enneadi, quella che
appare la traduzione più naturale è stata spes- 1 Tarán, op. cit., p. 41. 2 Il
contesto di Clemente riporta: Ἀριστοφάνης ἔφη· δύναται γὰρ ἴσον τῷ δρᾶν τὸ νοεῖν,
καὶ πρὸ τούτου ὁ Ἐλεάτης Παρμενίδης· τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστί < ν > τε καὶ
εἶναι Aristofane ha detto: «il pensare ha lo stesso potere dell'agire», e prima
di lui Parmenide: [B3]. 3 Il contesto di Plotino (Enneadi V, I, 8) è il
seguente: οὖν καὶ Παρμενίδης πρότερον τῆς τοιαύτης δόξης καθόσον εἰς ταὐτὸ συνῆγεν
ὂν καὶ νοῦν, καὶ τὸ ὂν οὐκ ἐν τοῖς αἰσθητοῖς ἐτίθετο “τ ὸ γ ὰ ρ α ὐ τ ὸνο ε ῖ ν
ἐ σ τ ί τ ε κ α ὶ ε ἶ ν α ι ” λέγων. Καὶ ἀ κ ί ν η τ ο ν δὲ λέγει τοῦτο -
καίτοι προστιθεὶς τὸ νοεῖν - σωματικὴν πᾶσαν κίνησιν ἐξαίρων ἀπ’ αὐτοῦ, ἵνα μένῃ
ὡσαύτως, καὶ ὄ γ κ ῳ σ φ α ί ρ α ς ἀπεικάζων, ὅτι πάντα ἔχει περιειλημμένα καὶ ὅτι
τὸ νοεῖν οὐκ ἔξω, ἀλλ’ ἐν ἑαυτῷ Già Parmenide aveva in precedenza aderito a una
opinione simile a questa, quando riconduceva a unità essere e pensiero, e non
poneva l'essere nell'ambito delle cose sensibili, affermando: [B3]. E dice anche
che è immobile, dal momento che – avendo aggiunto il pensare – gli toglie ogni
movimento corporeo, affinché rimanga nell'identico stato, definendolo simile
alla massa di una palla, in quanto raccoglie tutto in sé e il pensare non gli è
esterno ma interno. 334 so rifiutata, a favore di altre meno immediate e più
tormentate dal punto di vista grammaticale, in quanto si è intravisto il
rischio di fare di Parmenide un neoplatonico ante litteram4 . La collocazione
Nel tentativo di offrire contesto e senso al frammento si è per lo più operato
in due direzioni, che appaiono legittime: (i) ricondurlo a complemento di
B2.7-8 5 e quindi proporlo a sostegno (γάρ) dell'indicazione secondo cui il
non-essere non può essere né indicato né conosciuto6 ; (ii) proiettarlo verso
B6.1-2 e B8.34-37, come in particolare oggi propone Cordero7 , con argomenti
convincenti. B3 e B2 Nel primo caso si insiste soprattutto sulla compatibilità
metrica e logica8 con l’ultimo verso di B2: i termini coinvolti – νοεῖν e εἶναι
– sono chiaramente correlati nella prospettazione delle due vie («le uniche per
pensare»), mentre in B2.7 Parmenide utilizza l’espressione τό γε μὴ ἐὸν per
indicare l’oggetto su cui andrebbe a vertere la seconda via: oggetto che non
può essere conosciuto e indicato. B3, dunque, non farebbe che esplicitare il
nesso identita- 4 O’Brien, op. cit., p. 19. D’altra parte il senso della
citazione di Proclo (Theol. plat. I, 66) appare indiscutibile: ταὐτόν ἐστι τὸ
νοεῖν καὶ τὸ εἶναι, φησὶν ὁ Παρμενίδης 5 Come fanno – più o meno decisamente –
Giannantoni, Ruggiu, Coxon, Sellmer, Heitsch, Gallop, e, in passato, Calogero.
Scettici Tarán, Conche, O’Brien. 6 Ruggiu, op. cit., p. 233. Secondo Calogero
(p. 19), B3 andrebbe congiunto a B2.8, con l’aggiunta dι ὅσσα νοεῖς φάσθαι: si
avrebbe così: «perché pensare è lo stesso che dire che quello che tu pensi
esiste». 7 E a suo tempo propose Giorgio Colli. 8 Coxon (p. 180); Sellmer (p.
33); Gallop (p. 8). 335 rio tra εἶναι e νοεῖν: le relative nozioni si
implicherebbero inscidibilmente9 . Questa conclusione non è in discussione:
essa appare effettivamente il perno della tesi di Parmenide anche in B6.1 e
B8.34- 37, sebbene le traduzioni possano diversamente modulare la relazione tra
i due termini. In discussione è, invece, il fatto che l’impossibilità di
afferrare il nulla (B2.7-8) abbia bisogno della dimostrazione introdotta da γάρ
(B3): non è immediatamente chiaro che nel nulla non c’è nulla da conoscere,
concepire, pensare10? D’altra parte, l’implicazione tra essere e pensare non
sembra, a sua volta, aver bisogno della mediazione di un argomento: è stato
giustamente osservato come, nell’uso greco arcaico, il verbo νοεῖν non
veicolasse la possibilità di immaginare qualcosa di non esistente, denotando
fondamentalmente un atto di riconoscimento immediato11. Concepito in analogia
con la percezione sensibile, νοεῖν comportava nell’uso che si pensasse appunto
qualcosa di dato indipendentemente dall'attività stessa del pensare, e che il
rapporto con l’oggetto fosse del tutto immediato, una sorta di contatto con
esso12 . È possibile che la Dea, in B2.7, si limiti a rilevare come τό μὴ ἐὸν
non possa essere conosciuto, osservando semplicemente: οὐ γὰρ ἀνυστόν, «non è
infatti cosa fattibile», quasi a richiamare un'evidenza, per cui non è
necessario ulteriore argomento. A questo corrisponderebbe il rilievo di B3,
secondo cui εἶναι si identifica con νοεῖν: leggendo in continuità i due
frammenti, non dovremmo riconoscere alla congiunzione γάρ un valore
esplicativo, piuttosto intenderne nel contesto la presenza a conferma della
tesi di fondo. Dovremmo inoltre, in traduzione, attribuire a νοεῖν non il
generico significato di «pensare», ma, come suggerito da vari interpreti,
quello specifico di «conoscere» o «comprendere» («capire»13 , «Erkennen» 14 ,
«Erfassen» 15 o ancora, più debolmente, 9 Heitsch, op. cit., p. 144. 10 Conche,
op. cit., p. 87. 11 Guthrie, op. cit., pp. 17-8. 12 Leszl, op. cit., p. 67. 13
Cerri. 336 «conceiving»16). L’uso arcaico di νοεῖν evoca effettivamente
funzioni analoghe a quelle del verbo γιγνώσκω (normalmente tradotto con
«conoscere»), sebbene suggerisca in primo luogo il riconoscimento, la capacità
di penetrazione intellettuale17 . B3, B6.1 e B8.34-7 Anche Cordero ammette che
in B2 si stabilisca una relazione tra un oggetto (l’essere), il pensare
quell’oggetto e l’esprimerlo in un discorso: i versi B2.7-8 mirerebbero a
marcare il carattere assoluto e necessario di tale oggetto, essendo la sua
negazione impossibile. Come conseguenza, pensare e parlare non possono fare a
meno di questo oggetto18. Ma per lo studioso è rilevante la connessione con
B6.1, inteso a dimostrare la necessità di quella relazione: χρὴ τὸ λέγειν τò
νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι·(B6.1a) è necessario dire e pensare che – essendo - è 19;
e soprattutto B8.34-7, in cui Parmenide attribuirebbe al pensiero una sola
causa20: il fatto d'essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. oὐ
γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐφ’ [invece di ἐν] ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν·(B8.34-36a)
pensare e ciò a causa del quale c’è il pensiero sono la stessa cosa dal momento
che senza l'essere, grazie a 21 cui è espresso, 14 Heitsch. 15 Sellmer. 16
Coxon. 17 Leszl, op. cit., p. 68. 18 Cordero, By Being, It Is, cit., p. 83. 19
Usiamo, traducendo in italiano, la versione dello stesso Cordero. 20 Come si vedrà,
noi interpretiamo il passo in modo diverso. 21 Cordero utilizza la versione ἐφ’
(invece di ἐν), unanimente attestata nei manoscritti di Proclo. 337 non
troverai il pensare22 . Cordero osserva come nei due versi successivi si
precisi che «senza l'essere (τὸ ἐόν) […] non troverai il pensare», ciò
comportando che τὸ ἐόν designi sinteticamente quanto introdotto come οὕνεκεν ἔστι
νόημα («ciò a causa del quale c’è il pensiero»). Senza τὸ ἐόν, νοεῖν risulta
privo di fondamento, poiché (γάρ), come osserva Parmenide, c’è solo «l'essere»
(B8.36-7)23: οὐδ΄ ἦν γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος Né,
infatti, esiste, né esisterà altro oltre all’essere. È chiaro come ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ
νοεῖν (B8.34) equivalga a τὸ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν (B3) e quindi è plausibile che τε
καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα (B8.34) articoli la formula più secca τε καὶ εἶναι (B3).
In forza di questo accostamento, difficile sostenere l’interpretazione
idealistica che vorrebbe l’essere dipendente dal pensiero: «senza l'essere» (ἄνευ
τοῦ ἐόντος), il pensiero non esiste; ovvero, positivamente, esso esiste solo
quando esprime qualcosa su ciò che è24 . Da B2 a B3 Mantenendo aperte le due
prospettive e dunque collocando B3 concettualmente tra B2, B6 e B8, il
frammento andrebbe tematicamente inquadrato tra l’esclusione della concreta
possibilità di riferirsi al nulla nel pensiero e nel discorso (quindi della via
«che non è»), la conseguente affermazione della via alternativa alla precedente
(«che è»), e l’esplicitazione delle sue implicazioni per il pensiero e il
linguaggio. L’estrapolazione non consente di stabilire se B3 fosse
effettivamente parte di un argomento ovvero, come sopra abbiamo prospettato,
semplice precisazione a sostegno della tesi di B2. Certamente in B8
l’implicazione tra pensiero 22 Come per B6.1, traduciamo il testo di Cordero.
23 Cordero, By Being, It Is, cit., p. 85. 24 Ivi, pp. 88-9. 338 (νοεῖν, con il
suo specifico valore conoscitivo) e essere è inserita in una cornice
argomentativa. Un elemento testuale deve far riflettere l’interprete: Clemente,
Plotino e Proclo citano B3 senza collegarlo in alcun modo a B225 . In altre
parole, le tre fonti del frammento vi leggono l’asserzione dell’identità di
pensare (o conoscere) ed essere, indipendentemente dalla discussione sulle «vie
di ricerca»26. Plotino, in particolare, mostra di intendere B3 chiaramente
nell’orizzonte di B8, insistendo sulla riduzione a unità di pensiero ed essere
e sulla posizione dell’essere al di fuori del campo sensibile («non poneva
l’essere nell’ambito delle cose sensibili»), e parafrasando in tal senso
proprio B8. Le ricostruzioni peripatetiche (Teofrasto e Eudemo) del logos di
Parmenide (secondo Simplicio che riferisce in proposito la testimonianza di
Alessandro di Afrodisia) fanno tuttavia intravedere il nesso tra B2 e B3: τὸ
παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν· τὸ οὐκ ὂν οὐδέν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre l’essere, non
è; ciò che non è, è nulla; dunque, l’essere è uno (Teofrasto; DK 28 A28) τὸ παρὰ
τὸ ὂν οὐκ ὄν, ἀλλὰ καὶ μοναχῶς λέγεται τὸ ὄν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre
l’essere, non è; ma l’essere si dice in un solo senso, dunque l’essere è uno
(Eudemo; DK 28 A28). Nel citare i versi 3-8 di B2, Simplicio precisa che essi
contengono le «premesse» (προτάσεις) del discorso di Parmenide: εἰ δέ τις ἐπιθυμεῖ
καὶ αὐτοῦ τοῦ Παρμενίδου ταύτας λέγοντος ἀκοῦσαι τὰς προτάσεις, τὴν μὲν τὸ παρὰ
τὸ ὂν οὐκ ὂν καὶ οὐδὲν λέγουσαν, ἥτις ἡ αὐτή ἐστι τῆι τὸ ὂν μοναχῶς λέγεσθαι, εὑρήσει
ἐν ἐκείνοις τοῖς ἔπεσιν 25 Un punto richiamato da Mansfeld, op. cit., p. 73. 26
Coxon, op. cit., p. 179. 339 Se invece qualcuno desidera ascoltare da Parmenide
stesso queste premesse, quella che dice che ciò che è oltre l’essere non è ed è
nulla, che è la stessa di quella che dice che l’essere si dice in un modo solo,
le troverà in questi versi [B2.3-8]. Significativamente Diels annota che B3 si
connette a questo: in effetti, l’espressione peripatetica τὸ ὂν μοναχῶς
λέγεσθαι, che chiaramente Eudemo propone come premessa del sillogismo27 ,
comporta la determinazione dell’essere come κατὰ τὸν λόγον ἕν («uno secondo il
concetto»), versione aristotelica di B3. Come rilevato da Mansfeld28, l’unità
concettuale dell’essere funge logicamente da assioma nella ricostruzione
peripatetica di B2: un assioma indipendente, implicito, che Aristotele non
introduce formalmente nella sua ricostruzione: Παρμενίδης μὲν γὰρ ἔοικε τοῦ κατὰ
τὸν λόγον ἑνὸς ἅπτεσθαι […] παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης
ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν Parmenide sembra aver inteso l’uno
secondo la forma (il concetto) […] Poiché egli ritiene che oltre l’essere non
ci sia affatto il non essere, necessariamente deve credere che l’essere sia uno
e null’altro (Aristotele, Metafisica I, 5 986 b18, 986 b27; DK 28 A24). La
congettura adottata da Mansfeld, per giustificare a un tempo l’uso implicito di
B3 come assioma nella tradizione peripatetica, e la sua autonomia da B2
attestata dalla tradizione neoplatonica, è quella di proporlo come
modificazione della conclusione dell’argomento di B2, per noi solo implicita29:
solo l’essere (ciò che è) vi è allora per pensare e dire. 27 Mansfeld, op.
cit., pp. 78-9. 28 Ivi, p. 73. 29 Ivi, pp. 82-4. 340 Solo l’essere può essere
oggetto per pensare: con τὸ ἐόν Parmenide avrebbe introdotto qualcosa che manca
nella enunciazione della prima premessa (la prima via) del sillogismo di B2 (la
cui conclusione, quindi, avrebbe dovuto essere: «solo la prima via – che è e
che non è possibile non essere – è per pensare»). L’introduzione del soggetto τὸ
ἐόν sarebbe giustificata proprio da B3: nel testo tradito di B2 ci si limita a rilevare
l’impossibilità («non è infatti cosa fattibile») di procedere lungo la seconda
via, designata dalla espressione τό γε μὴ ἐὸν; B3 potrebbe rinviare
immediatamente – come precisazione - alla conclusione formale, in cui essere e
pensiero sarebbero stati esplicitamente correlati. La Dea allora
sottolineerebbe in B3 quella che dal suo punto di vista è una evidenza:
l’identità di essere e pensiero (vi ritornerà in B8.34 ss. con una più
articolata riflessione). Essere e pensare Nella nostra traduzione abbiamo
scelto di mantenere la struttura sintattica più naturale del verso greco,
cercando, allo stesso tempo, di preservarne l’ambiguità: la Dea di Parmenide
didascalicamente reitererebbe, in positivo, l’implicito (nei nostri frammenti)
risultato dell’argomento delineato in B2: (i) da un lato per marcare il nesso
tra νοεῖν e εἶναι e la sua natura intellettuale - così preparando la nota
discriminante rispetto all’ἔθος πολύπειρον, all'«abitudine alle molte
esperienze» (B7.3); (ii) dall’altro per richiamare l’attenzione del κοῦρος sul
contenuto della prima via (altrimenti espresso con ἐόν ovvero τὸ ἐόν). Il
pensare è introdotto in B2 come esercizio avulso da riscontri empirici;
un’attività in cui si è semplicemente chiamati a riconoscere un'evidenza: che –
pur considerando la possibile alternativa – per pensare e conoscere la verità
c’è una sola via da percorrere. Nello stesso tempo, l’identità affermata in B3
sottolinea lo stretto rapporto tra il percorso (la sola «via di ricerca» che
effettivamente è possibile seguire) e il suo esito: la via è in qualche modo
impo- 341 sta dalla realtà stessa (cui si allude forse con l'infinito εἶναι).
La via (o il metodo) è concepita come la via del discorso (λόγος) che ha
l’essere (ovvero la realtà) come contenuto30 . Quale identità? Nel suo commento
Cerri 31 ha segnalato, nell'identificazione dei due verbi, «stranezza
apparente» e «sinteticità paradossale»: νοεῖν, infatti, evidenzia un atto della
mente (che viene reso come «capire»), εἶναι uno stato delle cose. L’atto
intellettivo sarebbe dunque solo l’aspetto soggettivo dell’identità tra due
cose (esse sembrano diverse, essendo in realtà la stessa cosa); quell’
identità, invece, l’aspetto oggettivo dell’atto intellettivo. Ruggiu32
sottolinea, da un lato, l’aspetto linguistico dell’identità, la connessione
immediata tra termini nel linguaggio ordinario non considerati identici;
dall’altro l’aspetto che potremmo definire “dialettico” della relazione:
l’identità è anche distinzione e si costituisce come rapporto di reciproca implicazione.
Thanassas, infine, rileva come l’identità tra essere e pensiero non sia da
intendere in senso matematico: il testo greco con τε καὶ suggerisce
un’interazione, una «mutua connessione e reciproca referenza». Nessun pensare
senza essere, nessun essere senza pensare33 . Dall’incrocio con B2, B6 e B8
abbiamo ricavato segnali abbastanza definiti circa la relazione cui allude la
sintetica formula del frammento: (i) rilevata l’impossibilità di percorrere un
corno della disgiunzione tra le vie («è e non è possibile non essere - non è ed
è necessario non essere»), in quanto non si può conoscere (γιγνώσκειν) né
indicare (φράζειν) «ciò che non è», e (ii) probabilmente integrato il rilievo
con la necessaria conclusione positiva circa la effettiva praticabilità della
via alternativa (conoscere e indicare ἐόν, «ciò che è»), la Dea (iii) estrae
quella che nella sua ot- 30 Leszl, op. cit., p. 64. 31 Op. cit., p.193. 32 Op.
cit., pp. 233 ss.. 33 Thanassas, op. cit., p. 39. 342 tica è un’evidenza
basilare, implicita nella impostazione di B2, espressa in termini astratti,
generali, con due infiniti. Il verbo νοεῖν non è più assunto a designare
genericamente un'operazione intellettuale, ma connotato specificamente per
veicolare un atto di riconoscimento (che riassuma sostanzialmente lo spettro
degli altri due verbi, γιγνώσκειν e φράζειν); εἶναι, impiegato per denotare
quanto si ritrova, come suo oggetto necessario, al fondo di un pensare che sia
riconoscere-esprimere-indicare: il fatto d’essere. Ma nell’identità accennata da
τὸ αὐτό, la Dea non si riferisce semplicemente alla connessione tra pensare e
essere, ma soprattutto alla reciproca implicazione: non solo il pensiero deve
avere come oggetto ciò che è, ma l’essere deve essere espresso, manifestato nel
pensiero. In apertura di una comunicazione di verità, questa osservazione è
capitale: pur prospettato (più avanti, in B8.34) come «causa del pensiero»
(Cordero), l’essere deve svolgersi completamente davanti al pensiero34, deve
essere pensabile (il che non comporta che dipenda dal pensiero). Dal punto di
vista della Dea, almeno, nulla, di diritto, sfugge al pensiero: il sapere che
la Dea comunica al filosofo (e di cui questi è tramite rispetto ai propri
discepoli e al pubblico di ascoltatori\lettori) è un sapere assoluto35 . Ancora
su pensare e essere Abbiamo insistito, nel commentare il frammento, sul rilievo
della sua collocazione per una corretta attribuzione di significato; in
particolare, proponendolo come sentenza con cui la Dea, ellitticamente, svela
un principio fondamentale della sua rivelazione, dell’esposizione della Verità.
B3 è l’occasione per interrogarsi sul valore di νοεῖν e εἶναι. Abbiamo già
colto indicazioni in tal senso: ipotizzando la prossimità testuale e logica di
B2 e B3, abbiamo determinato il campo semantico di νοεῖν in relazione a
γιγνώσκειν e φράζειν, in- 34 Conche, op. cit., p. 90. 35 Ibidem 343 tendendolo
come atto di riconoscimento immediato; in εἶναι abbiamo individuato la forma
verbale con cui Parmenide esprime l’evidenza presupposta per ogni attività di
pensiero: quanto possiamo indicare come «essere» ovvero il fatto di esistere.
Una certa tensione sussiste tra B2 e B3 riguardo al valore di νοεῖν. Mentre in
apertura della propria comunicazione la Dea salda l’alternativa delle «vie di
ricerca» a νοεῖν (esse, ribadiamolo, sono «le uniche per pensare»), dunque
collegando al verbo non solo la via positiva, ma anche quella negativa - non
solo quella che avrà il proprio soggetto in τὸ ἐόν (B8.32), ma anche quella che
(non) lo trova (B2.7) in τό γε μὴ ἐὸν -, nella formula sintetica del nostro
frammento il pensare sembra vincolato all’essere, addirittura si afferma che
pensare ed essere sono la stessa cosa. In che senso, allora, è possibile
sostenere la relazione tra νοεῖν e la via: «che non è»? Abbiamo già osservato
in sede di traduzione come i curatori delle edizioni dei frammenti abbiano
spesso optato per determinare νοεῖν in modo da evitare di renderlo
genericamente come «pensare»; ma non è facile aggirare la difficoltà, a meno di
non decidere di mantenere il valore generico in B2.2 e introdurne uno specifico
(comprendere, capire) in B3. Operazione legittima ma un po’ forzata. Secondo
Leszl 36 , invece, B2.2 presenterebbe νοεῖν come atto puramente intellettuale
(implicitamente da contrapporre all’immediatezza del riscontro sensibile), che
coglie l’alternativa delle vie in quanto possibilità del tutto astratte. Tale
atto, tuttavia, sarebbe in ultima analisi riconducibile a un caso di
intellezione immediata dell’oggetto, consistendo di fatto nel riconoscimento
(intuitivo) della validità del principio del terzo escluso. In attesa di trovar
sottolineato in B4 un ulteriore, essenziale carattere della facoltà indicata
come νοεῖν - la capacità di rendere presente qualcosa che può essere lontano
nello spazio e nel tempo -, possiamo provvisoriamente concludere che: 36 Op.
cit., p. 69. Leszl intende B2.2 (αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι) come
«quali sono le vie di ricerca, le uniche che sono da pensare», quindi
attribuendo a noēsai valore passivo. 344 (i) νοεῖν è inizialmente introdotto in
relazione alle «due vie di ricerca», come loro finalizzazione («le uniche per
pensare») - evidentemente designando un atto di comprensione che dà senso
all’indagine -, ovvero, intendendo diversamente il testo greco, come loro
condizione di possibilità («le uniche da pensare\pensabili»), quindi
accentuandone il significato logico; (ii) νοεῖν – pur non ancora esplicitamente
contrapposto ai sensi – riceve una connotazione metaempirica: le vie sono «per
pensare», non sono fatte per essere esperite percettivamente; νοεῖν è in grado
di evidenziare quanto celato o sfocato nella percezione; (iii) νοεῖν è dunque
attività che si spinge oltre l’immediato sensibile, nel nostro contesto
probabilmente oltre la complessità dei dati empirici, per ridurli al loro
essenziale, al loro comune denominatore (fondamento) ontologico: nello
specifico, il fatto d’essere (condizione del pensare stesso) e la nozione
(opposta) di τό μὴ ἐὸν. In questo senso è giusto designarne la facoltà come
«penetrazione intellettuale»37 . D’altra parte νοεῖν è costantemente
riscontrato su εἶναι o termini connessi: le vie sono determinate come «l’una
che è (e che non è possibile non essere)», «l’altra che non è (e che è
necessario non essere)»; l’oggetto della seconda è ulteriormente ripreso come
«ciò che non è»; attraverso la formula τὸ αὐτὸ ἐστίν, νοεῖν è sovrapposto a εἶναι.
All’acume e intelligenza di sguardo del νοεῖν corrispondono dunque la
profondità e comprensione della nozione di εἶναι, che appare designare, nel contesto,
analogamente al termine Ἀληθείη, ciò che genericamente indicheremmo come «la
realtà», ciò che accomuna le cose che sono. Nell’uso quotidiano «essere» è
sempre oscurato da questa o quella cosa, sempre presupposto in ogni possibile
predicazione («è»): il νοεῖν riconosce come proprio oggetto specifico e
condizione appunto questo presupposto, questa realtà. 37 Ivi, p. 68. 345 ENTI
ED ESSERE [B4] Conservatoci nella sua interezza dalla sola citazione di
Clemente di Alessandria, il frammento ha sempre costituito una croce per gli
interpreti, divisi sul problema della sua collocazione assoluta e relativa:
incerti riguardo alla sua appartenenza alla prima o alla seconda sezione del
poema e (ulteriormente) alla sua posizione e funzione all’interno di esse. In proposito
abbiamo due proposte estreme: (a) Diels, nella sua edizione del 1897,
presentava il nostro testo come primo frammento della prima sezione,
collocandolo subito dopo il Proemio (che in quella edizione, tuttavia,
includeva anche B7.2-6); (b) Bicknell1 e Hölscher2 , al contrario, lo hanno
considerato conclusione dell’opera (collocandolo, quindi, dopo B19)3 , quindi
nella seconda sezione. Possiamo considerare intermedie tutte le altre proposte,
variamente schierate, che fanno registrare convergenze su un punto da
valorizzare, anche perché potrebbe spiegare la oggettiva difficoltà degli
interpreti: il ruolo di cerniera di B4. Secondo Ruggiu, per esempio, esso
collegherebbe i contenuti propri dell’Opinione (τὰ δοκοῦντα), al tema primario
della Verità (τὸ ἐόν), marcando il radicamento del molteplice nell’Essere4 .
Che cosa rende di così difficile contestualizzazione, all’interno del poema, i
versi del frammento? Che cosa contribuisce al disorientamento degli interpreti
– arrivati con Fränkel a negare piena intelligibilità a B4? Si possono
agevolmente individuare tre questioni: 1 P.J. Bicknell, “Parmenides' Refutation
of Motion and an Implication”, «Phronesis», 1, 1967, pp. 1-6. 2 U. Hölscher,
Parmenides von Wesen des Seienden. Die Fragmente, Frankfurt a.M. 1969. 3 In
questo sono stati seguiti anche da L. Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez
Parménide, Ousia, Bruxelles 1986), il quale, tuttavia, nell'ultima edizione
della sua opera (La Pensée de Parménide, Ousia, Bruxelles 2008), ha optato per
un inserimento all'interno di B8 (tra i vv. 41 e 42). 4 Op. cit., p. 245. 346
(i) il ruolo del νόος e la probabile valenza gnoseologica del frammento; (ii)
il nesso tra ἀπεόντα - παρεόντα e τὸ ἐόν (vv. 1-2) e l’ulteriore implicazione
tra gnoseologia e ontologia; (iii) i possibili riferimenti cosmogonici e
relativi obiettivi polemici (vv. 3-4). Il noos e il suo operare Per decidere
del significato del frammento è importante il contesto della citazione di
Clemente Alessandrino (V, 15): ἀλλὰ καὶ Π. ἐν τῶι αὑτοῦ ποιήματι περὶ τῆς ἐλπίδος
αἰνισσόμενος τὰ τοιαῦτα λέγει· [B4], ἐπεὶ καὶ ὁ ἐλπίζων καθάπερ ὁ πιστεύων τῶι
νῶι ὁρᾶι τὰ νοητὰ καὶ τὰ μέλλοντα. εἰ τοίνυν φαμέν τι εἶναι δίκαιον, φαμὲν δὲ
καὶ καλόν, ἀλλὰ καὶ ἀλήθειάν τι λέγομεν· οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς
εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι. Ma anche Parmenide, nel suo poema, alludendo
alla speranza, sostiene cose di questo genere: [citazione], in quanto anche
colui che spera, come colui che ha fede, con il pensiero vede le cose
intelligibili e quelle a venire. Se ora affermiamo che c'è qualcosa di giusto,
diciamo anche che c'è qualcosa di bello, ma anche che c'è qualcosa di vero:
nessuna di queste cose, tuttavia, mai vediamo con gli occhi, ma solo con il
pensiero. L’autore alessandrino sottolinea come quel che Parmenide afferma in
B4 alluda enigmaticamente (questo il senso del verbo αἰνίσσομαι: adombrare,
alludere per enigmi) alla ἔλπις (e alla πίστις) cristiana: il saper
rappresentare (rendere presente) il futuro da parte dell’intelligenza (νόος).
In questo senso, Parmenide riconoscerebbe al νόος la capacità di rendere
presenti enti assenti e 347 lontani 5 . La prospettiva appare certamente
gnoseologica, investendo una facoltà cognitiva che Clemente decisamente
caratterizza rispetto all’organo di senso: un «vedere» (εἴδομεν) «con il
pensiero» (τῶι νῶι) contrapposto (con l’avversativa) al vedere «con gli occhi»
(τοῖς ὀφθαλμοῖς). Ad accentuare l’opposizione troviamo anche l’indicazione di
oggetti specifici (τὰ νοητὰ) per l’intelligenza, diversi (significativo l’accostamento
a τὰ μέλλοντα, «le cose a venire») da quelli immediatamente colti
sensibilmente: si osserva, infatti: οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς
εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι nessuna di queste cose mai vediamo con gli occhi,
ma solo con il pensiero. Cose assenti presenti Ora, se passiamo alla citazione,
possiamo effettivamente intravedere la ragione del suo recupero da parte di
Clemente: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· Considera come cose
assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti (B4.1). La Dea, che ha
la parola, invita il κοῦρος a osservare e prendere in considerazione come «cose
assenti (o lontane)» (ἀπεόντα) possano risultare «al pensiero» (νόῳ) a un tempo
«presenti (o prossime)» (παρεόντα). Precisando ulteriormente: οὐ γὰρ ἀποτμήξει
τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι non impedirai, infatti che l'essere sia connesso
all'essere (B4.2). 5 Per l’analisi della testimonianza di Clemente è essenziale
e convincente il contributo di C. Viola, “Aux origines de la gnoséologie:
Réflexions sur le sens du fr. IV du Poéme de Parménide », in Études sur
Parménide, cit., t. II, pp. 69-101. 348 È chiaro come la possibilità di pensare
(rappresentare) cose assenti o lontane come presenti o prossime passi
attraverso la consapevolezza dell’omogeneità di τὸ ἐόν: il νόος raccoglie e
supera, nella omogeneità di τὸ ἐόν, le differenze che si impongono sul piano
empirico. Il νόος, in questo modo, si impone come uno sguardo altro rispetto a
quello dei sensi, in grado di superarne le discriminazioni alla luce di una
realtà che solo l’intelligenza stessa dischiude. È indicativo il fatto che
Parmenide scelga un verbo – λεῦσσω – etimologicamente legato a λευκός (nel
linguaggio omerico «chiaro», «limpido»), che porta con sé dunque l’idea di
chiarezza, luminosità, trasparenza6 . Un verbo che può essere direttamente
messo in relazione con νόος (νόῳ), per assumere il valore di «chiarire con il
pensiero [l'intelligenza]». I primi due versi di B4, quindi, si prestano alla
curvatura gnoseologica che il contesto della citazione di Clemente implica,
senza tuttavia comportarne necessariamente le opposizioni; senza imporre, in
particolare, l’opposizione tra due inconciliabili visioni, sensibile e
spirituale, come ha correttamente rilevato la Stemich, sottolineando come in λεῦσσε
νόῳ siano a un tempo coinvolti entrambi gli elementi 7 . Possiamo inoltre
marcare come il frammento non autorizzi a retroiettare in Parmenide una teoria
dei due mondi (sensibile e intelligibile, ovvero presente e futuro), ma
semplicemente registri due distinte modalità di guardare alla realtà:
l’immediato sguardo sensibile e la più accorta considerazione
dell’intelligenza, che ne supera le contraddizioni. Con il risultato (che
traspare in B4.1-2) di offrire, della stessa realtà, due prospettive, una soggetta
a distorsioni, l’altra corretta (che nell’economia del poema sono accentuate
come «opinioni dei mortali» e «Verità»). È nostra convinzione (che presuppone
una complessiva interpretazione del pensiero di Parmenide) che proprio da
questo frammento possano ricavarsi preziose indicazioni riguardo alla capacità
dell’intelligenza di superare la frammentazione del dato 6 Viola, op. cit., p.
80. 7 Stemich, op. cit., p. 178. 349 empirico, raccogliendone pluralità e
differenze nella unità e compattezza dell’Essere. L’uso del plurale ἀπεόντα-παρεόντα,
quindi del singolare τὸ ἐόν, segnalerebbe appunto come ἀπεόνταπαρεόντα siano
(-εόντα), in quanto τὸ ἐόν mantiene l’unità e la compattezza (nell’Essere) di
tutti i suoi momenti8 . Elementi che puntano in direzione della seconda sezione
del poema. I due versi iniziali autorizzano, dunque, ad associare a νόος (e νοεῖν)
due distinte ma coordinate operazioni: (i) superare i vincoli spazio-temporali
“presentificando” la pluralità dispersa (spazio-temporalmente), rappresentando
presenti «cose assenti»; (ii) cogliere la loro connessione (veicolata dal verbo
ἔχεσθαι) in τὸ ἐόν (ovvero il fatto che τὸ ἐόν è connesso a τὸ ἐόν). La seconda
operazione è propriamente “ontologica”, nel senso che riconosce e traduce in
termini di τὸ ἐόν la molteplicità espressa nei due plurali del primo verso (ἀπεόντα-παρεόντα):
la si è voluta leggere anche come un portare le cose lontane-assenti alla
presenza dell’essere9 . Lo spessore gnoseologico (ed epistemologico) del
passaggio consiste nel fatto che l’oggetto (τὸ ἐόν) cui il νόος è riferito,
direttamente10 o indirettamente11, è diverso dagli oggetti molteplici ai sensi
(senza tuttavia trasformarsi in una entità che neghi la molteplicità del
mondo12): li abbraccia e li raccoglie interamente, senza dislocarsi su un piano
di realtà altro. Come nota puntualmente Leszl, ciò fa di νοεῖν un’attività che
si spinge oltre l’immediato sensibile, rendendo presente l’assente, senza la
sua preliminare evidenza percettiva: un pensare del tutto intellettuale, che ha
per oggetto qualcosa che si impone 8 Ruggiu, op. cit., p. 241. 9
Couloubaritsis, Mythe et Philosophie, cit., p. 336. 10 Se accettiamo che ἀποτμήξει
sia terza persona singolare dell’indicativo futuro, con νόος appunto soggetto
sottinteso del verbo. 11 Nel caso si legga (come facciamo noi, ma di recente
anche Palmer e Tonelli) lo stesso verbo in seconda persona singolare futuro
indicativo medio, e la Dea quindi si limiti a esortare il κοῦρος a non
ostacolare la connessione di τὸ ἐόν. 12 Thanassas, op. cit., p. 43. 350
all’intelligenza13. Non deve però essere trascurato un aspetto del passaggio:
il movimento dalla assenza alla presenza rivela che l’uomo è comunque radicato
nel mondo, legato allo spazio\tempo14. Così, nel contesto di un discorso che
verte sulle «vie di ricerca», che focalizza il «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς
κέλευθος), non può sfuggire il fatto che il νόος sia connotato dinamicamente,
attraverso quel movimento, che porta con sé anche la potenzialità del suo
errare15: la sua conoscenza è esposta alla distorsione. È possibile che
l’operare del νόος riceva ulteriore significazione dall’accostamento a λεῦσσω,
che Omero utilizzava per indicare la capacità di considerare simultaneamente
passato e avvenire per comprendere il presente 16. Una capacità associata alla
maturità dell’anziano, al suo discernimento rispetto alla precipitazione dei
giovani, e che nel poema potrebbe avere un riscontro nella relazione
didascalica tra θεά e κοῦρος. «…saldamente presenti» Ritornando sull’apertura
di B4, è chiaro che l’uso dell’avverbio βεϐαίως (saldamente) nel primo verso, e
l’intero contenuto del secondo contribuiscono a determinare νόος come un
pensiero che conduce alla continuità e stabilità dell’essere: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come
cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai,
infatti, che l'essere [ciò che è] sia connesso all'essere (B4.1-2). 13 Op.
cit., p. 68. 14 Couloubaritsis, op. cit., p. 340. 15 Viola, op. cit., pp. 94-5.
16 Couloubaritsis, op. cit., pp. 336-7. 351 Effetto dell’operare del νόος è la
solidità della connessione degli enti (-εόντα), al di là delle loro coordinate
spazio-temporali, e il riconoscimento del loro comune denominatore nell’Essere
(τὸ ἐόν). Più precisamente: il νόος è quello sguardo che, da una parte,
illumina e unifica ἀπεόντα e παρεόντα (nell’ἐόν), dall’altra si vieta di
introdurre discriminazioni (spazio-temporali) in τὸ ἐόν 17. Alla luce di B3,
esso aderisce completamente all’ἐόν: l’avverbio βεϐαίως veicolerebbe allora
l’idea di stabilità, costanza, caratteristica dell’oggetto (τὸ ἐόν, appunto),
ma suggerirebbe pure qualcosa circa l’atteggiamento di chi è sulla strada della
verità: la certezza e affidabilità (ricordiamo ἀτρεμὲς ἦτορ di B1.29) di un
modo di vedere, corrispondente a un modo d’essere; a un νόος saldo e pieno di
fiducia18 . Dal momento che manca una specifica argomentazione a sostegno della
affermazione di B4.2, alcuni interpreti (Kirk-Raven, West, Gallop) hanno messo
in relazione B4 con B8.22-5: οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ
τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν
ἐόντος. Τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει Né è divisibile, poiché è
tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere
continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò
tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Questa indicazione,
concettualmente apprezzabile, non comporta inevitabilmente una presa di
posizione sulla collocazione del frammento nel complesso del poema. Non
implica, in altre parole, necessariamente la dipendenza di B4 da B8 e dunque a
una sua dislocazione nella sezione sulla Doxa (o addirittura all’interno dello
stesso B8, dopo i versi 22-5). Forse, accettandone le impli- 17 Viola, op.
cit., p. 100. 18 Robbiano, op. cit., p. 130. 352 cazioni cosmologiche, la
funzione di B4 potrebbe essere stata prolettica, nella introduzione del
discorso della Dea, che poi B8 avrebbe articolato e precisato. È significativo
che nella sua prima edizione del poema (1897), come abbiamo sopra ricordato,
Diels proponesse l’attuale B4 come B2, dunque all’inizio sostanzialmente della
prolusione divina. Rimane comunque l'impressione che il frammento possa aver
svolto, nell'economia dell'esposizione divina, un ufficio di raccordo, tra le
due sezioni, analogamente a B9. In alternativa, valutando soprattutto il
contesto della citazione di Clemente e la sua intenzione di marcare la differenza
tra visione percettiva e visione spirituale, e convenendo con Coxon19 che
Parmenide non sia in questo frammento interessato alla natura dell’Essere (la
cui indivisibilità sarà argomentata proprio in B8.22-5), ma alla natura del
νόος come capacità intellettuale, potremmo ipotizzare il posizionamento di B4
in relazione ai rilievi di B6 e B7 sui rischi della «abitudine alle molte
esperienze» (ἔθος πολύπειρον). L’espressione kata kosmon e le implicazioni
cosmologiche Sono comunque gli ultimi due versi (3-4) del frammento a
rappresentare il maggior cruccio per gli interpreti, soprattutto per la
determinazione del valore del greco κατὰ κόσμον e del senso della dinamica
imperniata intorno ai due participi σκιδνάμενον e συνιστάμενον, che indicano
dispersione e raccoglimento. Essi sono riferiti immediatamente a τὸ ἐόν, della
cui connessione interna (rilevata dal νόος) costituiscono una alternativa: οὐ γὰρ
ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε
συνιστάμενον 19 Op. cit., p. 187. 353 non impedirai, infatti, che l'essere sia
connesso all'essere, né disperdendosi completamente in ogni direzione per il
cosmo, né concentrandosi (B4.2-4). Parmenide si limita a stigmatizzare la
prospettiva di un moto – ordinato (conforme a un ordine) - di disseminazione e
concentrazione degli enti, quale potrebbe essere rappresentato dalle cosmogonie
ioniche, ovvero, più specificamente si riferisce a un modello, intenzionalmente
impiegando il termine κόσμος per designare l’assetto complessivo della realtà?
Il noos e il cosmo Che egli possa aver imboccato – tra i primi - questa seconda
direzione, è suggerito dai passi paralleli - segnalati dagli editori - in
Empedocle (B17.18-21; riferimento già in Clemente) e Anassagora (B8), in cui la
dimensione cosmologica è indiscutibilmente centrale, implicando un’ontologia
influenzata da Parmenide: πῦρ καὶ ὕδωρ καὶ γαῖα καὶ ἠέρος ἄπλετον ὕψος, Νεῖκός
τ’ οὐλόμενον δίχα τῶν, ἀτάλαντον ἁπάντηι, καὶ Φιλότης ἐν τοῖσιν, ἴση μῆκός τε
πλάτος τε· τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς Fuoco e Acqua e Terra e
l’altezza immensa dell’Aria, e Contesa, disgiunta da essi ma di pari peso,
ovunque, e Amore, in essi, uguale in lunghezza e larghezza. Osservala con
l’intelligenza, non restare con sguardo stupito (Empedocle; DK 31 B17.18-21). οὐ
κεχώρισται ἀλλήλων τὰ ἐν τῶι ἑνὶ κόσμωι οὐδὲ ἀποκέκοπται πελέκει οὔτε τὸ θερμὸν
ἀπὸ τοῦ ψυχροῦ οὔτε τὸ ψυχρὸν ἀπὸ τοῦ θερμοῦ Nell’unico universo non si trovano
separate le cose, le une dalle altre, e non risultano tagliati a scure né il
caldo dal freddo né il freddo dal caldo (Anassagora; DK 59 B8). 354 Nel suo
commento a B4, Cerri ha invece richiamato l’attenzione sulla pagina iniziale
del trattato Sul cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele (ma più
probabilmente di autore genericamente peripatetico20), che contiene passaggi
che sembrano effettivamente riecheggiare i versi parmenidei: Πολλάκις μὲν ἔμοιγε
θεῖόν τι καὶ δαιμόνιον ὄντως χρῆμα, ὦ Ἀλέξανδρε, ἡ φιλοσοφία ἔδοξεν εἶναι,
μάλιστα δὲ ἐν οἷς μόνη διαραμένη πρὸς τὴν τῶν ὄντων θέαν ἐσπούδασε γνῶναι τὴν ἐν
αὐτοῖς ἀλήθειαν, καὶ τῶν ἄλλων ταύτης ἀποστάντων διὰ τὸ ὕψος καὶ τὸ μέγεθος, αὕτη
τὸ πρᾶγμα οὐκ ἔδεισεν οὐδ’ αὑτὴν τῶν καλλίστων ἀπηξίωσεν, ἀλλὰ καὶ
συγγενεστάτην ἑαυτῇ καὶ μάλιστα πρέπουσαν ἐνόμισεν εἶναι τὴν ἐκείνων μάθησιν. Ἐπειδὴ
γὰρ οὐχ οἷόν τε ἦν τῷ σώματι εἰς τὸν οὐράνιον ἀφικέσθαι τόπον καὶ τὴν γῆν ἐκλιπόντα
τὸν ἱερὸν ἐκεῖνον χῶρον κατοπτεῦσαι, καθάπερ οἱ ἀνόητοί ποτε ἐπενόουν Ἀλῳάδαι, ἡ
γοῦν ψυχὴ διὰ φιλοσοφίας, λαβοῦσα ἡγεμόνα τὸν νοῦν, ἐπεραιώθη καὶ ἐξεδήμησεν, ἀκοπίατόν
τινα ὁδὸν εὑροῦσα, καὶ τὰ πλεῖστον ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ
συνεφόρησε, ῥᾳδίως, οἶμαι, τὰ συγγενῆ γνωρίσασα, καὶ θείῳ ψυχῆς ὄμματι τὰ θεῖα
καταλαβομένη, τοῖς τε ἀνθρώποις προφητεύουσα. Τοῦτο δὲ ἔπαθε, καθ’ ὅσον οἷόν τε
ἦν, πᾶσιν ἀφθόνως μεταδοῦναι βουληθεῖσα τῶν παρ’ αὑτῇ τιμίων Ho più volte
pensato che la filosofia sia cosa veramente divina e sovrumana, o Alessandro, e
soprattutto in quell'aspetto per cui essa, da sola, innalzandosi alla
contemplazione dei componenti della realtà nella loro totalità, si è impegnata
a conoscere la verità che è in essi. E, mentre tutte le altre scienze si
tennero lontane da questa verità a motivo della sua altezza e grandezza, la
filosofia non temette l'impresa e non si reputò indegna delle cose 20 Rivendica
la paternità aristotelica dell’opera G. Reale, A.P. Bos, Il trattato Sul cosmo
per Alessandro attribuito ad Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1996. 355 più
belle, e, anzi, ritenne che la conoscenza di quelle cose fosse in sommo grado
congenere alla propria natura e massimamente conveniente. Infatti, poiché non
era possibile col corpo raggiungere i luoghi celesti, lasciare la terra e
contemplare quelle sacre regioni, come follemente tentarono gli Aloadi,
l'anima, mediante la filosofia, preso l'intelletto come conduttore, varcò il
confine e abbandonò l'ambiente che le è familiare, avendo trovato una via che
non stanca. E le cose più lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel
pensiero, con facilità, credo, perché riconobbe le cose che le sono congeneri e
con il divino occhio dell'anima colse le cose divine, rivelandole poi agli
uomini. E questo le accadde perché desiderava, nella misura in cui era
possibile, far partecipi senza restrizione tutti gli uomini dei suoi tesori21 .
Quello che risulta interessante - in chiave eleatica – è, nei versi empedoclei
e nelle righe peripatetiche, il nesso tra lo sguardo del pensiero (νόος,
διάνοια) e la dimensione del tutto - le quattro radici in Empedocle, il
riferimento agli elementi della totalità nello pseudo-Aristotele; nel frammento
anassagoreo, invece, l’uso di κόσμος nel senso evidentemente di universo,
complesso del mondo (e non genericamente di ordine), come rivelato dal
riferimento ai tradizionali contrari cosmogonici «caldo-freddo», unitamente
alla negazione della separazione delle cose nella unità del κόσμος. Lo stesso
Empedocle (DK 31 B26.5) impiega κόσμος nella formula εἰς ἕνα κόσμον («in un
unico mondo») nell’ambito della descrizione degli effetti cosmogonici
dell’alternanza ciclica di Amore e Contesa; mentre in Eraclito (B30: κόσμον
τόνδε), il termine è presente in senso già prossimo al valore cosmico, per
indicare cioè l’ordine delle cose. L’espressione del pensatore agrigentino
«osservala con l'intelligenza» (τὴν σὺ νόωι δέρκευ) sembra effettivamente
ricalcare il parmenideo λεῦσσε νόῳ, così come la pseudo-aristotelica «le cose
più lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel pensiero» (τὰ πλεῖστον
ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ 21 Ivi, p. 175. 356 συνεφόρησε)
richiama complessivamente B4.1 (λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως).
L’impressione è che i versi del Περὶ φύσεως, i loro cenni al κόσμος, alle cose
lontane e vicine, assenti e presenti, allo sguardo del νόος, fossero
chiaramente significativi in prospettiva cosmologica già nel V secolo
(Empedocle, Anassagora), a ridosso della sua composizione: forse perché
estrapolati dalla sezione cosmologica del poema, forse perché in quel senso
andava inteso l’insieme dell’impegno parmenideo (come si evincerebbe in
particolare dalla ripresa peripatetica, che risente tuttavia della lezione
aristotelica). La possibile (probabile) implicazione cosmica, l’accenno alla
dinamica di concentrazione-dispersione (eco plausibile della cosmogonia di
Anassimene), e, in relazione a τὸ ἐόν, il rilievo della funzione omogeneizzante
del νόος potrebbero suggerire ancora una posizione introduttiva del frammento
rispetto alla revisione cosmologica proposta dall’Eleate (sulla scorta della
lezione di B8): premessa, dunque, alla vera e propria esposizione fisicocosmologica
della seconda sezione. Disperdendosi, concentrandosi I versi 3-4 alludono a
qualche specifico precedente cosmologico-cosmogonico, ovvero dobbiamo pensare a
un riferimento generico? Gli interpreti sono divisi anche su questo punto:
qualcuno, come Coxon22, vi coglie una polemica nei confronti della teoria di
una sostanza prima soggetta a condensazione e rarefazione (Anassimene23, pur
non escludendo il coinvolgimento polemico di Eraclito DK 22 B9124); altri, come
Guthrie25, ritengono Parmenide 22 Op. cit., p. 189. 23 Su questo concordano
Reinhardt, Gigon, Albertelli. 24 Il frammento recita: ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι
δὶς τῶι αὐτῶι καθ’ Ἡράκλειτον οὐδὲ θνητῆς οὐσίας δὶς ἅψασθαι κατὰ ἕξιν < τῆς
αὐτῆς >· ἀλλ’ ὀξύτητι καὶ τάχει μεταβολῆς σκίδνησι καὶ 357 alluda a Eraclito
(B91)26; altri ancora, come Conche27, valorizzando l’intenzione ontologica del
frammento, dubitano che possa riferirsi a fenomeni di
condensazione-rarefazione, giudicando tale lettura “obiettivista”, superficiale
e banale. In realtà, se si prende sul serio l’interesse cosmologico del poema
di Parmenide, pare corretto individuarne un obiettivo polemico, da cui il
filosofo avrebbe preso le distanze: nella logica dell’opera si potrebbe
ipotizzare che la riflessione più strettamente ontologica offra gli strumenti
concettuali per contestare alternativi modelli esplicativi della natura e
fondare una più consapevole e coerente teoria fisica. Schematicamente
convincente la lezione di Graham28, il quale, ammiccando a Thomas Kuhn, individua
tre “paradigmi” scientifici, successivamente attivi tra VI e V secolo a.C.: (i)
quello con cui originariamente si ricercò la scaturigine (φύσις) degli enti, il
loro principio (ἀρχή), e si tentò di inquadrare i fenomeni naturali, indicato
come Generating Substance Theory (GST); (ii) quello che avrebbe, secondo
l’autore, radici nella seconda parte del poema parmenideo e sarebbe poi stato
sviluppato, più o meno coerentemente, dai pensatori tradizionalmente designati
come “pluralisti” (Empedocle, Anassagora, atomisti), definito come Elemental
Substance Theory (EST); πάλιν συνάγει (μᾶλλον δὲ οὐδὲ πάλιν οὐδ’ ὕστερον, ἀλλ’ ἅμα
συνίσταται καὶ ἀπολείπει) καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι Non è possibile scendere due
volte nello stesso fiume, secondo Eraclito, né si può toccare due volte una
sostanza mortale nell'identico stato; ma, per lo slancio e la velocità del
mutamento, si disperde e di nuovo si raccoglie (piuttosto, non di nuovo né
dopo, ma a un tempo si riunisce e si separa), viene e va. 25 Op. cit., p. 32.
26 Su questo concordano Diels, Nestle, Cornford, Vlastos, Calogero, Mondolfo.
27 Op. cit., p. 94. 28 D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition
of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford
2006. 358 (iii) quello espresso pienamente nei frammenti di Diogene di
Apollonia, riconosciuto come Material Monism (MM). Il primo corrisponde al
programma scientifico ionico, così riassunto per punti29: a) esiste una
sostanza originaria da cui tutto il resto è sorto; b) esiste un processo per
cui gli elementi costitutivi del cosmo scaturiscono dalla sostanza originaria;
c) tali elementi si dispongono negli strati materiali del cosmo; d) le
strutture e i materiali del cosmo si stabilizzano nell’ordine che conosciamo;
e) emergono gli esseri viventi; f) un’ampia varietà di fenomeni è spiegabile
secondo il modello. Rispetto a questo paradigma (modulato da Anassimene nel
senso di una vera e propria teoria del mutamento30), Eraclito (cui è dedicata
da Graham un’analisi convincente31) avrebbe abbandonato l’idea di primato della
«sostanza generatrice» a vantaggio di quella di processo universale, regolato
da una legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra, acqua). È alla luce
di questi precedenti, in particolare dell’impatto della lezione di Eraclito32,
che Graham interpreta l’ontologia di Parmenide. La prima parte del Περὶ φύσεως
metterebbe in campo tutti gli strumenti concettuali per negare il divenire come
generazione dal non-essere e affermare una concezione di «ciò che è» che
l’autore ritiene compatibile con il pluralismo di sostanze ingenerate,
incorruttibili, omogenee, immutabili e complete (Graham parla di Eleatic
Substantialism): la seconda sezione (Doxa) avrebbe quindi proposto una
cosmologia basata sulle proprietà focalizzate nella Aletheia, coerente con i
principi della metafisica di Parmenide33 . Lasciando per il momento in sospeso
altre valutazioni, la collocazione della riflessione dell’Eleate proposta da
Graham appare 29 Ivi, pp. 8-9. 30 Ivi, pp. 45-84. La rivalutazione del contributo
del “terzo” milesio è uno degli aspetti più interessanti dell’opera. 31 Ivi,
pp. 113-147. 32 Ivi, pp. 148-162. 33 Ivi, pp. 182-5. 359 sensata e potrebbe
aiutare a leggere correttamente anche il nostro frammento. Da un lato, infatti,
i versi attestano un ruolo del νόος chiaramente inteso a ricondurre gli ἀπεόντα
alla presenza di τὸ ἐόν, negando quindi lo spazio del non-essere potenzialmente
implicito nel movimento assenza-presenza; dall’altro anticipano (ovvero
sottintendono) i rilievi di B8 sull’omogeneità dell’essere, per rifiutare
quelle proposte esplicative che sembravano comportare, di fatto, accanto
all’essere del principio\natura, l’implicita ammissione del non-essere.
Anassimene (DK 13 B1), in effetti, sulla base di quanto espone Plutarco, avrebbe
sostenuto: τὸ γὰρ συστελλόμενον αὐτῆς καὶ πυκνούμενον ψυχρὸν εἶναί φησι, τὸ δ’ ἀραιὸν
καὶ τὸ χ α λ α ρ ὸ ν (οὕτω πως ὀνομάσας καὶ τῶι ῥήματι) θερμόν [Anassimene]
dice infatti che la parte dell’aria che si contrae e si condensa è fredda,
mentre la parte che è dilatata e “allentata” (è proprio questa l'espressione
che usa) è calda […] (DK 13 B1). Eraclito, a sua volta: σκίδνησι καὶ πάλιν
συνάγει [...] καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι […] si disperde e di nuovo si raccoglie
[…] viene e va (DK 22 B91). Il frammento di Parmenide – un breve passaggio
nelle centinaia di versi complessivi del poema – potrebbe dunque essere
risultanza di una più o meno esplicita evocazione dei precedenti ionici, per
marcare l'originalità del contributo eleatico soprattutto in termini di coerenza
– come attesterebbe l’insistenza sul νόος e sul suo operare - con i presupposti
taciti nella stessa concezione della realtà della φύσις- ἀρχή ionica. Proprio
questa possibile funzione critica farebbe di B4 una sorta di passe-partout per
il poema: 360 (i) come controparte gnoseologica dell’argomentazione di B8 e
dunque degli effetti paradossali di una coerente riflessione ontologica
rispetto ai dati del senso comune; (ii) come trait d'union tra la sezione
ontologica e quella cosmologica, a sottolinearne la continuità, cioè
nell’ambito di una positiva interpretazione della φύσις sulla scorta della
Verità, come vuole Ruggiu34 . 34 Op. cit., p. 251. 361 UN’ESPOSIZIONE CIRCOLARE
[B5] Il breve frammento ci è conservato in una citazione di Proclo, che lo connette
a B8.25 (ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει, «ciò che è si stringe infatti a ciò che è») e
B8.44 (μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ, «a partire dal centro ovunque di ugual
consistenza»), riferendolo dunque all’Essere. In realtà, come spesso è stato
riconosciuto, è difficile sfuggire all’impressione di una decontestualizzazione
disorientante. Se l’indicazione di Proclo può suggerire un suo significato
ontologico, in linea, per altro, con la relazione tra νοεῖν e εἶναι che emerge
da B3 e la dinamica ἀπεόντα-παρεόντα-τὸ ἐόν di B4, è forte tuttavia tra gli
interpreti l’opzione metodologica, che appare in qualche lettura
particolarmente convincente1 . Anche nel caso di B5, la questione del suo
significato è decisiva per la sua collocazione. Laddove prevalga il rilievo del
suo senso ontologico, l’attuale sequenza può essere mantenuta2 . Laddove, al
contrario, sia privilegiato il senso metodologico del frammento, il suo
posizionamento nell’attuale ordinamento del materiale andrebbe rivisto (come
fanno, tra gli altri, Pasquinelli e Coxon), a ridosso di B1 e prima di B2, come
preliminare della esposizione divina. Registrata la ricorrenza dell’immagine
del cerchio all’interno delle citazioni del poema - la verità «ben rotonda»
(B1.29); l'analogia tra τὸ ἐόν e εὐκύκλου σφαίρης ὄγκος («massa di ben rotonda
palla», B8.43); il discorso sulla verità indicato come ἀμφὶς Ἀληθείης (B8.51);
il concetto di «limite estremo» (πεῖρας πύματον, B8.42) – appare comunque
forzata la conclusione di Ruggiu3 , secondo cui B5 esporrebbe la forma nella
quale l’Essere esprime la propria natura. Soprattutto se teniamo conto della
possibilità che il materiale conservato rappresenti solo una quota minoritaria
dei versi del poema integrale. Nell’ambito della comunicazione della Dea,
invece, il passo potrebbe essere inteso e marcare lo scarto tra 1 È il caso
dell’analisi di Coxon e di quella di Conche. 2 Ovvero, ipotizzando una
(improbabile) lacuna in B8 (Cornford), potrebbe essere accettato il suo
inserimento tra i due riferimenti di Proclo. 3 Op. cit., p. 253. 362 sapere
divino e sapere umano: la necessità di un ordine espositivo rivolto al κοῦρος e
la sua indifferenza rispetto alla conoscenza di chi lo propone. Conche4 ha
giustamente messo in relazione il frammento con il programma di insegnamento
annunciato dalla Dea: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι È necessario che tutto tu
apprenda (B1.28). La verità che il κοῦρος apprenderà è la verità del Tutto, un
sapere compiuto: i limiti dell’uomo non consentono tuttavia che tale sapere sia
acquisito tutto in una volta. È necessario un ordine, corrispondente alle tappe
di una ricerca, modalità tipicamente umana di accedere alla conoscenza. Il
percorso, la via da seguire (affermazione di una via ed esclusione di un’altra,
ecc.) rappresentano un escamotage didattico che ha senso solo per il discepolo,
non per la Dea: per lei il punto di partenza e l’ordine di esposizione sono
indifferenti. In relazione a una verità definita nel poema εὐκυκλής («ben
rotonda»), Cerri valorizza, a sua volta, la prospettiva didascalica del
frammento5 , rafforzata dal possibile accostamento a Eraclito (DK 22 B1036 ) e
dall’eco nel Sofista platonico (237a7 ): Parmenide implicherebbe una sorta di
circolarità della ricerca scientifica e del discorso che la espone8 . 4 Op.
cit., p. 98. 5 Pur non escludendo, a priori, la possibilità di un suo
coinvolgimento all’interno di una (in vero implausibile) specifica
argomentazione geometrica. 6 Il frammento recita: ξυνὸν γὰρ ἀρχὴ καὶ πέρας ἐπὶ
κύκλου περιφερείας Comune è, in effetti, nella circonferenza del cerchio il principio
e la fine. 7 Il passo è il seguente: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν
εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ παῖ, παισὶν
ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους 363 In ogni caso, alla luce della
successiva trattazione dell’Essere e del mondo della natura, sembra difficile
poter insistere su tale circolarità, come ha opportunamente segnalato Coxon9 :
nel primo caso, infatti, lo sviluppo argomentativo procede in una direzione
lineare; nel secondo l’esposizione delle «opinioni dei mortali» doveva
diffondersi sul piano storico-descrittivo. Né è plausibile che la circolarità
indifferente possa riferirsi al complesso delle due esposizioni, dipendendo la
comprensione della seconda dalle analisi della prima10. Indifferente e
circolare, invece, potrebbe essere considerata la discussione delle possibili
vie di ricerca, non necessariamente legata a un ordine di sequenza e in questo
senso indifferente rispetto all’argomento da articolare. Come segnala Coxon11,
la circolarità di quella preliminare discussione sarebbe contrapposta alla
linearità degli argomenti sviluppati lungo la via imboccata verso la Verità
(B8). Una variante interessante è quella avanzata da Bicknell12, che abbiamo
registrato nelle annotazioni alla traduzione: intendendo ξυνὸν come a basic
point, B5 potrebbe essere immediatamente anteposto alla κρίσις di B2, per
marcare come a essa l’argomentazione della Dea avrebbe dovuto ripetutamente
richiamarsi. τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων [DK
28 B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che sia ciò che non è: il falso,
in effetti, non potrebbe generarsi in altro modo. Il grande Parmenide, invece,
ragazzo mio, a noi che eravamo ragazzini proprio contro questo discorso
testimoniava dall'inizio alla fine, in prosa e in versi, che [citazione
B7.1-2]. 8 Cerri, op. cit., p. 202. 9 Op. cit., pp. 171-2. 10 In questo senso
non convince il rilievo di Pasquinelli (I presocratici, p. 396) sulla presunta
comunanza di tutti i punti del discorso della Dea. 11 Op. cit., pp. 171-2. 12
P.J. Bicknell, “Parmenides, DK 28 B5”, cit., pp. 9-11. 364 ESSERE E NULLA [B6]
Il frammento, ricostruito a partire dalle sole sparse citazioni di Simplicio
(quindi, come osserva Cordero1 , ricomparso a un millennio dalla stesura del
poema), è dallo stesso commentatore per un verso direttamente connesso a B22 ,
per altro proiettato su B7 e B8: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων
λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ
[B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9] μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν
συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν
ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Sostiene che le proposizioni contraddittorie
non siano a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in
quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti: dice infatti
[citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In Aristotelis Physicam
117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il
non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via
che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In
Aristotelis Physicam 78, 2). È dunque introduttivamente importante, per una
valutazione del senso e della posizione del testo, ricordare che la citazione
di Simplicio è intesa a confermare l’uso condizionante del principio di
contraddizione3 (donde l’accostamento a B2) come premessa 1 By Being, It Is,
cit., p. 90. 2 Simplicio cita B6.1b-9 subito dopo aver citato B2.3-8. 3 In
questo senso Simplicio ne confermava l’implicita attribuzione a Parmenide da
parte di Aristotele (Metafisica IV, 3 1005 a28-35): 365 che lo stesso Simplicio
salda esplicitamente all’argomento ontologico successivo (B8). In effetti, il
primo verso e il primo emistichio del secondo sono richiamati dal commentatore,
in altro contesto, proprio per marcare il nesso tra pensiero ed essere: ἀλλὰ καὶ
τὸ πάντων ἕνα καὶ τὸν αὐτὸν εἶναι λόγον τὸν τοῦ ὄντος ὁ Παρμενίδης φησὶν ἐν
τούτοις [B6.1-2a]. εἰ οὖν ὅπερ ἄν τις ἢ εἴπῃ ἢ νοήσῃ τὸ ὄν ἐστι, πάντων εἷς ἔσται
λόγος ὁ τοῦ ὄντος Ma che la nozione di tutte le cose sia una e la stessa,
quella dell'essere, Parmenide sostiene in questi versi: [B6.1-2a] Se proprio
l'essere è ciò di cui è possibile dire e pensare, di tutte le cose vi sarà una
sola nozione, quella dell'essere (In Aristotelis Physicam 86, 25-30). Per la
sua discussa interpretazione è corretto e inevitabile rinviare al complesso
B2-B3, a maggior ragione ipotizzando che gli attuali B4 e B5 siano fuori posto
(in particolare che B5 possa precedere immediatamente B2 e B4 trovarsi a
cavaliere tra prima e seconda sezione). È possibile, infatti, intravedere nei
versi e nel contesto della citazione la centralità del riferimento critico a τό
μὴ ὥστ’ ἐπεὶ δῆλον ὅτι ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι (τοῦτο γὰρ αὐτοῖς τὸ κοινόν), τοῦ
περὶ τὸ ὂν ᾗ ὂν γνωρίζοντος καὶ περὶ τούτων ἐστὶν ἡ θεωρία. διόπερ οὐθεὶς τῶν
κατὰ μέρος ἐπισκοπούντων ἐγχειρεῖ λέγειν τι περὶ αὐτῶν, εἰ ἀληθῆ ἢ μή, οὔτε
γεωμέτρης οὔτ’ ἀριθμητικός, ἀλλὰ τῶν φυσικῶν ἔνιοι, εἰκότως τοῦτο δρῶντες·
μόνοι γὰρ ᾤοντο περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος Così, in
quanto è chiaro che [gli assiomi] appartengono a tutte le cose in quanto sono
(l'essere è infatti ciò che è comune a tutti), è proprio di colui che indaga
l'essere in quanto essere anche lo studio di questi [assiomi]. Perciò, nessuno
di coloro che si limitano all'indagine di una parte si cura di dire qualcosa di
essi, se siano veri o no: non il geometra, né il matematico. Ne parlarono,
tuttavia, alcuni dei fisici, e a ragione: credevano in effetti di essere gli
unici a ricercare sul complesso della natura e sull'essere. 366 ἐὸν (Simplicio:
τὸ μὴ ὂν), formula estratta dalla seconda «via di ricerca» di B2, che
evidentemente aveva costituito il preliminare oggetto di discussione nella
parte mancante del primo logos della Dea. Come rivela l’ampio dibattito intorno
alla traduzione del testo greco e alla sua intellezione, il frammento è
decisivo per determinare: (i) la natura delle «vie di ricerca per pensare»;
(ii) il numero di tali vie; (iii) l’obiettivo della polemica parmenidea. In
particolare, relativamente all’ultimo punto, è dall’Ottocento oggetto di
contesa l’attribuzione esatta dei riferimenti a βροτοὶ εἰδότες οὐδέν («mortali
che nulla sanno»), δίκρανοι («uomini a due teste»), e ἄκριτα φῦλα («schiere
scriteriate»), che molti hanno inteso come allusioni a Eraclito e seguaci,
trovando nelle espressioni degli ultimi versi un possibile riscontro verbale
(come abbiamo segnalato in nota): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν
νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è
considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di
[costoro] tutti il percorso torna all'indietro (B6.8-9). La natura delle vie Il
primo verso e il primo emistichio del secondo, che sembrano fornire
nell’insieme un asserto e le condizioni che lo giustificano (come evidenziato
dal ricorso all’indicatore di premessa γάρ), introducono il primo problema
interpretativo: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄
οὐκ ἔστιν che può rendersi letteralmente come: 367 È necessario il dire e il
pensare che ciò che è è; poiché è possibile essere [ovvero, come preferiamo: è
possibile infatti essere], il nulla, invece, non è». La nostra traduzione4
ricava due formule modali («è necessario», «è possibile») dal testo greco, che
appare invece immediatamente costruito su tre formule tautologiche: ἐὸν ἔμμεναι
(letteralmente: «ciò che è [l'essere] è»), ἔστι εἶναι (che si potrebbe rendere
letteralmente: «è essere» ovvero «[l']essere è»), μηδὲν οὐκ ἔστιν
(letteralmente: «ni-ente non è»). L’essere dell’ente Il primo emistichio è
costituito da tre blocchi testuali: (i) l’espressione verbale χρή, che abbiamo
reso come «è necessario»: si tratta di una formula con cui la Dea rileva un
passaggio significativo della propria comunicazione, proposto come conclusione
di un argomento (le premesse introdotte dall'indicatore γάρ); (ii) le due forme
verbali all’infinito – λέγειν e νοεῖν – precedute da τό, con valore di articolo
sostantivante («il [fatto di] dire», «il [fatto di] pensare»), ovvero, come
crede qualcuno, di dimostrativo in funzione prolettica («dire questo e pensare
questo: ….»); in ogni caso è evidente che la Dea (Parmenide) coinvolge due
verbi particolarmente pregnanti nel contesto della sua rivelazione: νοεῖν
richiama immediatamente B3 e B2.2 (νοῆσαι), mentre λέγειν può collegarsi a
φράζω (B2.6-8); (iii) l’insieme verbale ἐὸν ἔμμεναι, formato dal participio
presente del verbo «essere» (ἐόν, forma ionica di ὂν: «essente», ovvero «ente»
o ancora «ciò che è» e quindi anche «essere») e dall’infinito dello stesso
verbo (ἔμμεναι nella forma epica), che 4 Per le costruzioni e traduzioni
alternative rinviamo alle note testuali al frammento. 368 abbiamo reso, come
appare naturale, come proposizione infinitiva (dichiarativa) retta da λέγειν e
νοεῖν: si tratta della prima formulazione ambigua (per la multivocità del verbo
essere) della tautologia centrale (μηδὲν οὐκ ἔστιν non fa che esprimerla in
negativo: da una lato l’«ente» di cui si afferma l’essere, dall’altro il
«ni-ente» di cui si nega lo stesso essere). Nel contesto la traduzione proposta
appare plausibile, ed evidenzia la difficoltà di interpretazione dell’ultimo
blocco: la scelta di Parmenide è chiaramente quella di sfruttare la densità
semantica della coppia participio-infinito dello stesso «essere», per marcare
l’identità di soggetto e verbo. L’effetto ricercato potrebbe essere quello – su
cui giustamente insiste la lettura heideggeriana di Beaufret 5 e Conche 6 - di
richiamare l’attenzione sull’εἶναι (ἔμμεναι) dell’ἐόν, sull’essere di ciò che
è; ovvero, più semplicemente, sul fatto d’essere, sull'evidenza dell'esistenza.
È da tener presente che, in B2.7-8, la Dea aveva denunciato come: οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· poiché non potresti
conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo.
B6 si apre appunto sostituendo all’espressione negativa τό μὴ ἐὸν di B2.7 il
positivo ἐόν; al rilievo dell’impossibilità di conoscere e indicare (esprimere)
«ciò che non è», quello della necessità di dire e pensare l’«essere» dell’ἐόν.
Nel passaggio interviene l’importante novità dell’introduzione del soggetto di
εἶναι (ἔμμεναι), ἐόν appunto: l’affermazione «è e non è possibile non essere»
(B2.3: ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) che caratterizzava il Πειθοῦς
κέλευθος, «percorso di Persuasione», trova in B6.1a ἐόν come proprio naturale
soggetto di referimento. Nella sequenza B2-B6, possiamo intendere ἐόν come
formula concettuale scaturita dalla riflessione sull'espressione della prima
via di 5 Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, cit., p. 81. 6 Op.
cit., p. 102. 369 ricerca per pensare7 : formula che manifesta l’essere di ciò
di cui si afferma ἐστίν, ovvero come formula sintetica riassumente la totalità
delle cose che si manifestano nella esperienza (come ricorda Thanassas8 , è
frequente l’uso del plurale ἐόντα nella sezione sulla Alētheia) di cui ἐστίν
focalizza il fatto d’essere: ciò che è, l’ente, la “cosa”, «è», esiste. Siamo
portati decisamente a credere che, nel contesto, il valore di ἔμμεναι sia
esistenziale, pur avendolo reso ambiguamente con «essere». L’uso dell’iniziale
χρή – anche senza volergli attribuire il significato forte di necessità logica
– è funzionale alla ripresa della conclusione negativa di B2 riguardo a τό μὴ ἐὸν,
integrata dal rilievo di B3: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa
cosa, infatti, è pensare ed essere. Delle «due vie di ricerca» di B2 – le
uniche «per pensare» - quella che pensava che «non è» è di fatto indisponibile,
perché, come abbiamo ricordato, «ciò che non è» non è conoscibile né
esprimibile; questo porta la Dea in B3 a rilevare il nesso tra νοεῖν e εἶναι,
tra il pensiero che svela (νοεῖν) e l’unico suo reale oggetto possibile (εἶναι)
alla luce dell’iniziale alternativa tra le vie. Nell’apertura di B6, ai due
infiniti (λέγειν e νοεῖν) viene esplicitamente attribuito un oggetto: la
dichiarativa ἐὸν ἔμμεναι («ciò che è è»). La Dea non si limita in questo modo a
riprendere ed esplicitare la propria tesi: sottolinea anche come pensiero e
discorso debbano correttamente ammetterla9 . A tale scopo, in B6.1b-2a, ella
reitera nella sostanza le risultanze di B2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν
essere, infatti, è possibile, 7 Thanassas, op. cit. p. 45. 8 Ivi, p. 44.
B4.1-2, B8.25, B8.47-8. 9 Cordero, op. cit., p. 92. Preferiamo attenuare il
carattere di necessità logica che Cordero attribuisce a χρή. 370 il nulla,
invece, non è. La formula ἔστι εἶναι può estrarsi positivamente dall'insieme di
affermazione e proibizione nella prima «via di ricerca per pensare»: ὅπως ἔστιν
τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι. L'espressione μηδὲν οὐκ ἔστιν, a sua volta,
ribadisce l'assolutezza della seconda via: ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ
εἶναι, attribuendo coerentemente a οὐκ ἔστιν un adeguato soggetto logico. La
traduzione dei due emistichi e la loro interpretazione sono comunque
particolarmente controverse. Essere, non-essere Traducendo letteralmente: ἔστι
γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν abbiamo almeno tre possibili costruzioni e
relative plausibili soluzioni: (i) intendere il precedente ἐὸν come soggetto
del primo emistichio e μηδὲν del secondo: poiché [ovvero: infatti] è essere, il
nulla, invece, non è; (ii) intendere ἐὸν come soggetto di entrambi, con μηδὲν
predicato (come εἶναι): poiché [ovvero: infatti] è essere, e non è nulla; 371
(iii) intendere εἶναι come soggetto del primo emistichio e μηδὲν del secondo:
poiché [ovvero: infatti] l'essere è, il nulla, invece, non è. Nell'ultimo caso,
esplicitamente ritroveremmo la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι, accompagnata dai due
soggetti logici (il primo εἶναι, il secondo μηδέν) che la trasformano in una
duplice asserzione tautologica (quindi vera). Per molti versi si tratta della
versione più naturale10, ma ha lo svantaggio di non dare del tutto ragione
dell’uso di γάρ. Seguendo una affermazione (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι),
esso dovrebbe introdurre le proposizioni in grado di giustificarla: ora la
doppia tautologia (si tratta dell’aspetto che rende più perplessi) sembra
semplicemente riformulare la dichiarativa (εἶναι funge da soggetto in
sostituzione di ἐόν), negando l’essere al soggetto contrario («[il] ni-ente»).
La Dea, dunque, sosterrebbe la propria tesi direttamente, marcando la non
esistenza del non-essere: oggetto del dire e del pensare non può allora che
essere «ciò che è», perché solo «ciò che è [l’essere] è [esiste]». Il vantaggio
di questa soluzione è quello di mettere in valore la possibile struttura delle
due vie di B2: come abbiamo osservato, la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι è
riformulata in termini tautologici, dunque investirebbe in realtà due verità,
in questo senso proposte come le uniche vie di ricerca per pensare11, una delle
quali (sviluppare coerentemente la premessa «che è») feconda, l’altra
(sviluppare coerentemente la premessa «che non è») assolutamente improduttiva.
Questo spiegherebbe il tono del discorso della Dea, che cambia e si fa
sprezzante solo quando denuncia la confusione dei βροτοί che incrociano le due
vie: come fa osservare Giorgio 10 Tra l'altro potrebbe essere suffragata dal
fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano τò εἶναι. 11 In questo senso
la lettura della Germani, op. cit., p. 191. 372 Colli12, la via enunciata in
B2.5 non era stata rifiutata con disprezzo, perché volgare, come accade invece
con quella formulata a partire da B6.4. Le altre due soluzioni, in fondo, non
si allontanano concettualmente dalla precedente, trovando comunque nel contesto
dei frammenti una loro sensata giustificazione. Nel primo caso («poiché è
essere, il nulla, invece, non è») sarebbe messo in valore l'essere di «ciò che
è» (ἐόν), dell'ente, ribadendo la non esistenza del nulla, del
"ni-ente"; nel secondo (la costruzione appare meno naturale) la Dea
otterrebbe lo stesso risultato sottolineando che «ciò che è» è «essere» e non è
«nulla». È necessario, è possibile, non è possibile Un’interessante soluzione
alternativa alla traduzione letterale è quella proposta da O’Brien: essa,
rendendo ἔστι\οὐκ ἔστι con valore potenziale, ricava da B6.1-2a tre espressioni
modali: necessità (χρή), possibilità (ἔστι), impossibilità (οὐκ ἔστιν): Il faut
dire ceci et penser ceci: l’être est; car il est possible d’être, il n’est pas
possible que ce qui n’est rien. Poiché è possibile essere ed è impossibile che
il ni-ente sia, dire e pensare (presupposti nel ragionamento) dovranno
riconoscere come loro oggetto necessario l’ente. Come ricorda l’autore13,
infatti, i candidati a essere oggetto di tali attività sono ἐόν e μηδέν: il
primo può esistere, il secondo no. La difficoltà di questa interpretazione è
principalmente legata alla lingua greca, in cui ἔστι assume valore potenziale
in relazione con un infinito: è dunque legittima la traduzione del secondo
emistichio del v.1, problematica la traduzione di B6.2a, nella quale, 12 Gorgia
e Parmenide. Lezioni 1965-1967, a cura di E. Colli, su appunti di E. Berti,
Adelphi, Milano 2003, p. 175. 13 O’Brien, Études sur Parménide, cit., vol. I,
p. 214. 373 non a caso, O’Brien sottintende un infinito (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν
< εἶναι >). Anche Mansfeld14 opta per una (diversa15) resa potenziale in
entrambi i casi, proprio per garantire la corrispondenza, pur riconoscendo
ininfluente la traduzione con valore esistenziale di B6.2a (come abbiamo scelto
di fare). Parmenide potrebbe dunque aver derivato, dall’affermazione della
possibilità dell’essere e dalla negazione del nulla, la necessità che l'essere
sia16 . Resta comunque valida l’obiezione, avanzata da Leszl 17 , per cui,
attribuendo alle due ricorrenze di ἔστι valori diversi, verrebbe meno la
simmetria e soprattutto l'uniformità nell’impiego del verbo. Le due vie di B2
in B6 In apertura di B6, insomma, la Dea ritorna sull’alternativa delineata in
B2, precisandola: sottolinea la necessità (correttezza) del riconoscimento
dell’ἐόν come oggetto di λέγειν e νοεῖν, escludendo che μηδέν (τό μὴ ἐὸν di
B2.7), teorico contenuto della via di ricerca «non è ed è necessario non
essere», esista. In pratica ci troviamo di fronte a una riproposizione in
positivo della conclusione di B2. La puntualizzazione riguarda «le uniche vie
di ricerca per pensare»: alla pura formulazione oppositiva ὅπως ἔστιν\ὡς οὐκ ἔστιν
si sostituiscono le espressioni tautologiche – ἐὸν ἔμμεναι, ἔστι εἶναι, e μηδὲν
οὐκ ἔστιν, con l’esplicitazione, dunque, di adeguati soggetti logici. 14 Op.
cit., p. 90. 15 Traduce: «denn dieses (das Seiende) kann sein, ein Nichts
hingegen kann nicht sein». 16 Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 174) ha
osservato come l'affermazione iniziale di B6.1 (ἐὸν ἔμμεναι) sia l'enunciazione
della prima via di B2, mentre B6.2 enuncerebbe la seconda. Ciò confermerebbe,
secondo Colli, i soggetti delle due vie: «ciò che è», «ciò che non è». Questa
lettura fa cogliere un nuovo aspetto: nel frammento 6 ci sarebbe una
congiunzione delle due vie. Tra la possibilità che l’essere sia e la necessità
che il nulla non sia, dovremmo scegliere la possibilità, che così diventerebbe
a sua volta necessità. 17 Op. cit., p. 133. 374 In B2 la Dea aveva prospettato
due potenziali percorsi di indagine – gli unici «per pensare»: (i) l'uno,
ricercava pensando ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, in pratica
sviluppando le implicazioni dell'affermazione di esistenza - «è» - e negando
possibilità al non-essere: valorizzando il significato arcaico di νοεῖν (come
un vedere che coglie immediatamente il proprio oggetto), si potrebbe sostenere
che lungo questa pista di indagine il focus era destinato a concentrarsi
assolutamente sull'essere; (ii) l’altro, al contrario, tentava la ricerca
imboccando la direzione opposta, pensando cioè ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι, nello sforzo di ricavare le implicazioni della negazione «non è»
rinforzata dal vincolo di necessità: in tal modo la seconda «via di ricerca per
pensare» tracciava un percorso verso il nulla, subito inibito in quanto in tale
direzione non vi era «ni-ente» (μηδὲν) da vedere e riferire. La seconda via
poteva essere delineata solo come radicale alternativa alla prima e
sostanzialmente per confermarne la necessità: non è possibile νοεῖν, nel senso
originario di percezione mentale, se non di ciò che è. La Dea, infatti, aveva
immediatamente connotato la prima via come Πειθοῦς κέλευθος, in quanto capace
di condurre alla vera realtà (Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ): un convincente chiarimento
in merito era giunto però solo nei versi successivi, quando, a proposito della
via alternativa, ella aveva ammonito che τό μὴ ἐὸν è indisponibile
all’effettiva conoscenza ed espressione. In B2.7 la Dea aveva dunque estratto
l'oggetto della seconda via, implicitamente ponendo quello della prima. In
B6.1-2a, abbiamo l'indicazione in positivo dell'oggetto della ricerca: χρὴ τὸ
λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι e l'esplicitazione dei soggetti logici adeguati
delle formule delle vie: «ciò che è è» (ovvero «l'essere è») e «il nulla
[ovvero, letteralmente: ni-ente] non è». A questa lettura – che ha conseguenze,
come vedremo, sull'interpretazione dell’intero frammento - si contrappone in
particolare 375 quella di Cordero (ma condivisa da altri), secondo cui nel complesso
6.1b-6.2a si registrerebbe la presentazione della prima via18: «il nulla non
esiste» di B6.2a sarebbe una semplice riformulazione di 2.3b: «non è possibile
non essere», riferendosi quindi alla prima via19. In questo senso si è
orientato di recente anche Palmer20. Alla seconda via, a detta di Cordero, la
Dea alluderebbe invece subito dopo, connotando l'indiscriminata combinazione di
essere e non-essere: le cose dovrebbero essere e non essere allo stesso tempo,
come segnalato da B7.1 (εἶναι μὴ ἐόντα «che esistano cose che non sono»). La
struttura argomentativa, tuttavia, suggerisce che quanto «è necessario»
riconoscere (dire e pensare) - ἐὸν ἔμμεναι – è la compiuta, esplicita
espressione della formula per la prima via; a sua giustificazione sono addotte
la possibilità dell'essere e l'inesistenza del nulla. È decisivo soprattutto
questo rilievo. In B2.6-8 la Dea aveva infatti sottolineato il nesso tra la
seconda via e τό γε μὴ ἐὸν: essa era «sentiero del tutto privo di informazioni»
(παναπευθής ἀταρπός) in quanto «ciò che non è» è inconoscibile e
indiscernibile. La sua negatività è ora tradotta nella tautologia μηδὲν οὐκ ἔστιν,
come elemento dimostrativo per richiamare l’attenzione sulla necessità
dell'opposto ἐὸν ἔμμεναι. Il guadagno teorico su B2 riguarda sia la
riconsiderazione critica (argomentativa) del Πειθοῦς κέλευθος («percorso di
Verità»), inizialmente introdotto in forma direttiva, sia la definizione
ufficiale del suo oggetto: ἐόν. Il numero delle vie È indicativa la formula
utilizzata per valorizzare l’argomento proposto in apertura di B6: la Dea,
infatti, con espressione caratteristica dell’epica omerica ed esiodea, insiste:
18 By Being, It Is, cit., p. 99. 19 Ivi, p. 105. 20 Parmenides &
Presocratic Philosophy, cit., pp. 112-3. Palmer offre comunque
un'interpretazione diversa delle vie. 376 τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα Queste cose
io ti esorto a considerare, che sembra richiamare l’invito iniziale di B2: εἰ
δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura
della parola, una volta ascoltata. Come in quel caso, la Dea sottolinea il
rilievo dell’alternativa tra le due vie per la corretta comprensione della
realtà: il fraintendimento della loro natura, in effetti, è all’origine della
confusione dei «mortali che nulla sanno», come appureremo tra breve.
Analogamente, dopo aver presentato la via « è ed è necessario non essere», la
Dea si premura di osservare (B2.6): τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν
Questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni; in B6.3,
allora, ella ribadisce (immediatamente dopo aver affermato che «il nulla invece
non è»): πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω > Da questa prima
via di ricerca, infatti, ti < tengo lontano >. Questa versione del testo
greco, con l’integrazione della lacuna dei codici assunta da Diels (sulla base
di una tradizione che risale alla edizione aldina del 1526), è stata
vigorosamente avversata da Cordero e abbandonata anche da Nehamas21 (e dalla
Curd22), i quali propongono, rispettivamente, di integrare con il verbo ἄρχω-ἄρχομαι
(forma media), «cominciare»: 21 A. Nehamas, “On Parmenides’ Three Ways of
Inquiry”, «Deucalion», 33-34, 1981, pp. 197-211. 22 Di ciò diamo conto in nota
al testo greco. 377 πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει >
since you < will begin > with this first way of investigation, πρώτης γάρ
σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος << ἄρξω > For, first, < I will begin
> for you from this way of inquiry. L’esigenza di mettere in discussione la
lezione tradizionale, sebbene giustificata da un punto di vista filologico
dalla oggettiva corruzione del testo dei manoscritti (con l’ulteriore
possibilità che la lacuna si estenda a più versi), è dettata soprattutto dalla
incoerenza cui si va incontro interpretando i primi due versi del frammento come
ripresa della sola via «che è e che non è possibile non essere», da cui,
ovviamente la Dea non potrebbe «trattenere» ovvero «tenere lontano»23, bensì
solo «cominciare» o invitare a cominciare. Pur segnalando la lacuna e
riconoscendo la coerenza degli argomenti filologici di Cordero, non crediamo
necessario integrare secondo la sua lezione 24 , ma offrirla solo come
possibilità. L’interpretazione che proponiamo è coerente con la lettura
tradizionale, dal momento che consente di riferire il complemento iniziale e il
dimostrativo ταύτης alla formula μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. Essa evocava l'unica
indicazione desumibile dalla via di indagine «che non è e che è necessario non
essere»: l'oggetto che se ne può estrarre in verità non esiste. È probabile che
dopo l'enunciazione delle due vie la Dea avesse condotto la discussione a
partire dalla seconda, mettendo in guardia dal suo coinvolgimento: B6 e B7
rappresenterebbero la conclusione di tale disamina, mirata ad affermare la
necessità del riconoscimento che ἐὸν ἔμμεναι. In questo 23 Noto, per inciso
che, nel caso del verso B6.3, Cordero preferisce la lezione τ’ dei codici BC a
quella σ’ (pronome personale) di D (con E e F), di cui si era sottolineata, per
la lezione del verso precedente, la bontà. Traducendo con il personale «ti»,
l’integrazione proposta risulterebbe impraticabile nel caso di Cordero, meno
naturale nel caso di Nehamas («comincerò per te»). 24 Che appare comunque
plausibile, dal momento che la costruzione ἄρχεσθαι + ἀπό è caratteristica
nella letteratura greca arcaica. 378 senso, la seconda via prospetta diventa
«prima» nell’ordine espositivo. Da questa prima via di ricerca, poi da quella….
Per chi (come Cordero, come noi e come altri) fa leva su B2 per sostenere un
modello duale per le vie parmenidee, B6.4-5 propone una difficoltà, che la
soluzione di Cordero e Nehamas effettivamente sembra risolvere, indicando una
sequenza nell’esposizione della Dea. Adottando la congettura di Cordero
avremmo: πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει > αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ
τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται > con questa prima via di
ricerca comincerai, poi con quella che mortali che nulla sanno s’inventano. Una
sequenza che potrebbe alludere alle due sezioni del poema, e richiamare
B8.50-52, considerato passaggio conclusivo della Alētheia e introduzione alla
Doxa: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε
βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine
per te al discorso affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo
momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando,
che può ingannare. 379 Nella tradizione interpretativa, è stata decisiva (come
per altri aspetti) la presa di posizione di Karl Reinhardt25, il quale, dal
confronto tra B2 e B6, ricavò l’indicazione di tre vie: (i) quella che
affermerebbe «l'essere è» (ricavata da B2); (ii) quella che affermerebbe (a)
«l'essere non è» (ricavata da B2) ovvero (b) «il nonessere è» (ricavata da
B7.1); (iii) infine quella che affermerebbe «l'essere sia è sia non è» ovvero
«sia l'essere sia il non-essere sono». La prima via da evitare (nella lettura
tradizionale di Diels di B6.3) sarebbe la seconda via di B2; l’altra via da
evitare (B6.4) sarebbe allora una terza via rispetto alle due menzionate in B2:
dal momento che essa esplicitamente coinvolge la condizione dei mortali,
Reinhardt concludeva che dovesse concernere l’ambito dell'opinione26. È proprio
per precisare questo passaggio classico delle interpretazioni parmenidee che il
nodo delle vie richiede di essere affrontato e risolto (per quanto è possibile)
in questa sede. A noi appaiono indiscutibili alcuni punti: (i) B2 delinea in
modo netto una alternativa (ἡ μὲν ὅπως ... ἡ δ΄ ὡς), marcando l’esaustività
(«le uniche per pensare ») delle «vie di ricerca» prospettate; (ii) B2 offre
con «le uniche vie di ricerca per pensare» due direzioni d'indagine lungo le
quali dirigersi: (a) la prima muove dall’immediata evidenza: «è» (ἔστιν),
estraendone «essere» (εἶναι) e respingendo la possibilità della sua antitesi (οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι); (b) la seconda dalla connessa negazione: «non è» (οὐκ ἔστιν),
marcando la necessità del non-essere (χρεών ἐστι μὴ εἶναι); (iii) lo stesso B2
registra immediatamente l'asimmetria delle due vie indicate: l'indagine,
infatti, non potrà in realtà procedere lungo la seconda, in quanto non potrebbe
discernervi alcunché: non è possibile conoscere né indicare «ciò che non è»;
(iv) le «vie di ricerca per pensare» sono introdotte come vere e proprie
premesse della complessiva esposizione della Dea: le sue 25 Nel suo epocale K.
Reinhardt, Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Vittorio
Klostermann, Frankfurt a.M. 1916. 26 Sulla questione molto chiara la
ricostruzione di Leszl, op. cit., pp. 120-1. 380 parole («io dirò - e tu abbi
cura della parola, una volta ascoltata») suggeriscono il rilievo cruciale
dell'alternativa per il kouros (e dunque anche per il discepolo, l’ascoltatore
e il lettore); (v) difficile quindi ipotizzare che Parmenide attribuisca alla
Dea la responsabilità di sostenere come possibile via di indagine («per
pensare»!) la tesi contradditoria: οὐκ ἔστιν ἐόν - «via dell'errore», come
vorrebbe Cordero27: è vero, piuttosto, che alla seconda via si alluderà
(B8.17-8) come οὐ ἀληθής ὁδός («via non genuina»), percorso di indagine che non
può concretizzarsi in conoscenza; (vi) dalle due vie, invece, potranno essere
estratte due verità basilari per le successive argomentazioni: l'essere è
necessariamente, il non-essere non esiste. Mentre si potrà procedere
ulteriormente a determinare la prima via (seguendo i σήματα di B8), nulla potrà
dirsi di più della seconda, evocata solo per marcare la necessità della
direzione d'indagine alternativa. Come segnala la Germani 28 (e, in una
prospettiva diversa, Cordero29 ), potrebbe in questo senso non essere casuale
l'eco parmenidea della formulazione aristotelica del principio del terzo
escluso: τὸ μὲν γὰρ λέγειν τὸ ὂν μὴ εἶναι ἢ τὸ μὴ ὂν εἶναι ψεῦδος, τὸ δὲ τὸ ὂν
εἶναι καὶ τὸ μὴ ὂν μὴ εἶναι ἀληθές dire che l'essere non è o che il non essere
è è infatti falso; [dire] che l'essere è e il non essere non è è invece vero
(Metafisica IV, 7 1011 b26-27). B6.1-2 costituirebbe, quindi, lo sviluppo della
conclusione di B2: la Dea, rievocando (implicitamente) l'alternativa tra le
vie, afferma la necessità di riconoscere che «ciò che è è» (ἐὸν ἔμμεναι),
attraverso il rilievo della possibilità di «essere» (ἔστι 27 By Being, It Is…,
cit., p. 73. 28 Op. cit., p. 193. 29 By Being, It Is…, cit., p. 105 nota. 381 εἶναι),
e dell’inesistenza del nulla (μηδὲν οὐκ ἔστιν) 30. In B8.15-18 il passaggio
sarà richiamato: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται
δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός -
τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò:
è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via]
impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra
invece esista e sia reale. Il testo è significativo, secondo noi, perché
scandisce efficacemente le sequenze del procedimento parmenideo: (a)
introduzione (logica: le vie sono per pensare) della disgiunzione «è\non è»;
(b) esclusione della via «che non è» in quanto ἀνόητον e ἀνώνυμον (che
richiamano le connotazioni di B2.7-8); (c) riconoscimento dell’unica via
praticabile per la ricerca: essa esiste è vera\reale (ἐτήτυμον), mentre l’altra
non lo è (non è «genuina», ἀληθής), non può costituirsi, per sua natura, come
effettivo percorso di ricerca. Liquidata la via ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι in quanto percorso di ricerca impraticabile («il nulla non è»), prima
ancora di dedicarsi al sondaggio dell’unica via genuina (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι), la Dea si sofferma sull’erronea «invenzione» dei «mortali che
nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), effetto del colpevole misconoscimento
delle implicazioni nell’alternativa ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Ancorché prospettata
come ὁδὸς διζήσιος, la strada imboccata dai βροτοὶ εἰδότες οὐδέν è chiara- 30
L’argomento sarebbe quindi: (i) ἔστι εἶναι, (ii) μηδὲν οὐκ ἔστιν ® ἐὸν ἔμμεναι. 382 mente
caratterizzata, nelle scelte espressive dell’autore, come illusione31 .
L’impotenza dei mortali Il registro linguistico all’interno dei frammenti del
poema muta sensibilmente, per assumere i toni della risentita disapprovazione:
αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >,
δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον e poi da quella
che appunto mortali che nulla sanno , uomini a due teste: impotenza davvero nei
loro petti guida la mente errante (B6.4-6). Questi versi assumono una grande
importanza soprattutto per lo sfondo culturale che sembrano evocare: Gigon,
Verdenius, Pasquinelli, Fränkel sottolineano come la terminologia parmenidea,
ricavata da formule consolidate dell’epica e della lirica greca arcaica,
veicoli un senso tragico dell’esistenza. Non a caso Jaeger32 richiama i versi
del Prometeo eschileo (probabilmente di pochi decenni posteriore al poema Sulla
natura): λέξω δὲ μέμψιν οὔτιν’ ἀνθρώποις ἔχων, ἀλλ’ ὧν δέδωκ’ εὔνοιαν ἐξηγούμενος·
οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι
μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον εἰκῆι πάντα 31 Soprattutto se intendiamo il
verbo retto da βροτοί come forma di πλάσσομαι, «mi invento» e non di πλάζω
«vado errando», come interpreta Diels, seguito da molti altri. 32 W. Jaeger, La
teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 155. L’autore osserva: «par di
sentire l’eco di un’esortazione religiosa». 383 Parlerò senza disprezzo per gli
uomini, narrando solo del favore dei miei doni. Dapprima essi, pur avendo
occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni
simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo,
Prometeo incatenato 445-50). Non vi è dubbio che Parmenide, nei versi di B6,
sia impegnato a stigmatizzare una condizione mortale, facendo riecheggiare
spunti della tradizione letteraria che si possono ancora riscontare nella
produzione filosofica del V secolo in Eraclito ed Empedocle. La ἀμηχανίη segna
la costituzione dei βροτοί (ricordiamo che è una divinità a parlare, ribadendo
un consolidato stereotipo già impiegato dal poeta nel proemio): l’«impotenza»
si traduce in una sorta di paralisi della comprensione, in una confusa
percezione della realtà e in un vano orientamento. Proprio come denunciato da
Prometeo. Ma, rispetto al luogo comune fissato nel mito, Parmenide pone
l’accento sull'incapacità di discriminare tra le due vie, e dunque su un
intreccio perverso di essere e non-essere: l’obiettivo polemico appare dunque
una falsa interpretazione del mondo reale, dell’esperienza, di cui si
sottolineerà l’inconsapevole consolidamento nel linguaggio del sentire comune,
in una vera e propria “seconda natura” (ἔθος di B7.3)33 . La Dea riferisce ai
«mortali»una prima serie di caratteristiche negative. Li qualifica come εἰδότες
οὐδέν, «che nulla sanno», una formula frequentemente impiegata nell’epica e
nella lirica per indicare la limitatezza dell’orizzonte umano34 (concentrato sul
presente, immemore del passato e ignorante del futuro)35 . Li connota come
δίκρανοι, «uomini a due teste», coniando un termine ad hoc per alludere allo
specifico deficit di comprensione: la mancata discriminazione tra le due vie
comporta che quei mortali guardino contemporaneamente in due direzioni.
Attribuisce loro la “finzio- 33 Su questo Ruggiu, op. cit., p. 257. 34 Ivi, p.
259. 35 A questa situazione mortale era stata contrapposta la conoscenza
rivendicata in B1.3 (εἰδώς φώς). 384 ne” (πλάσσονται, «si inventano») di una
via: invenzione evidentemente frutto della confusione delle «uniche vie di
ricerca per pensare». Denuncia la loro ἀμηχανίη, la debolezza per cui la loro
mente (νόος) cede all’attrazione del non-essere - alla vertigine del nulla,
come si esprime Conche36. In tal modo ella collega a un impulso irrazionale la
chiave dell’erranza dei mortali: ἐν αὐτῶν στήθεσιν, «nei loro petti», potrebbe
riferirsi a una localizzazione dello θυμός che consenta di differenziarne la
funzione rispetto al νόος. Queste determinazioni negative sono ulteriormente
accentuate con espressioni che sottolineano la fenomenologia del
disorientamento: οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα
Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate
(B6.6-7). I «mortali», dunque, non sono in controllo di sé; il loro
atteggiamento ne svela la radicale incomprensione, che si manifesta a tre
livelli: (i) nella perdita di contatto con la realtà: gli organi di senso
deputati (la vista e l’udito) producono – nel loro caso dei «mortali» –
isolamento, distorsione; (ii) nella conseguente tonalità emotiva della
sorpresa37, da intendere nel contesto non come positiva apertura alla
comprensione, bensì come sintomo della condizione contraria: profonda
confusione; (c) nella mancanza di giudizio38, di discernimento (κρίσις, κρινεῖν),
con cui spregiativamente la Dea connota le «schiere» (φῦλα) dei βροτοί, cioè la
loro massa, il loro insieme indistinto, come confusa è la loro percezione della
realtà. 36 Op. cit., p. 108. 37 Con formula omerica (τεθηπότες): in Omero
(Odissea XXIII, 105) lo sgomento era attribuito allo θυμός e localizzato «nel
petto» (ἐνι στήθεσσι). 38 Si tratta, a nostro avviso, dell’indicazione più
importante nell’insieme del frammento. 385 Le due sequenze su cui ci siamo
concentrati sono interessanti perché mostrano lo sforzo di Parmenide, per bocca
della divinità, di ridefinire lo stereotipo tradizionale della fragilità
mortale: così nel poeta-sapiente non troviamo alcuna condanna dell’uomo in
quanto tale, semmai, sin dal proemio, il tentativo di individuare la norma
razionale che vincoli umano e divino (Untersteiner). In questo senso la
posizione di Parmenide appare vicina a quella del contemporaneo Eraclito: τοῦ δὲ
λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες
τὸ πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι,
πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν
διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες
ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται Di questo logos che è sempre
gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia subito dopo
averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano
privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali quelle che io
presento, analizzando ogni cosa secondo natura e mostrando come è. Ma agli
altri uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo essersi destati],
così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto Empirico; DK 22
B1) ὧι μάλιστα διηνεκῶς ὁμιλοῦσι λόγωι τῶι τὰ ὅλα διοικοῦντι, τούτωι
διαφέρονται, καὶ οἷς καθ’ ἡμέραν ἐγκυροῦσι, ταῦτα αὐτοῖς ξένα φαίνεται proprio
dal logos con cui hanno sempre costantemente rapporto, essi discordano, e
quelle cose in cui si imbattono quotidianamente appaiono loro estranee (Marco
Aurelio; DK 22 B72) ἀξύνετοι ἀκούσαντες κωφοῖσιν ἐοίκασι·φάτις αὐτοῖσιν μαρτυρεῖ
παρεόντας ἀπεῖναι 386 ascoltando senza comprensione assomigliano a sordi; di
loro è testimone il detto: pur presenti sono assenti (Clemente Alessandrino; DK
22 B34) ὁ Ἡ. φησι τ ο ῖ ς ἐ γ ρ η γ ο ρ ό σ ι ν ἕ ν α κ α ὶ κ ο ι ν ὸ ν κ ό σ μ
ο ν ε ἶ ν α ι , τῶν δὲ κοιμωμένων ἕκαστον εἰς ἴ δ ι ο ν ἀποστρέφεσθαι E. dice
che per coloro che sono desti il mondo è unico e comune, invece ciascuno di
coloro che dormono ritorna a un proprio mondo privato (Plutarco; DK 22 B89) ξὺν
νόωι λέγοντας ἰσχυρίζεσθαι χρὴ τῶι ξυνῶι πάντων, ὅκωσπερ νόμωι πόλις, καὶ πολὺ ἰσχυροτέρως.
τρέφονται γὰρ πάντες οἱ ἀνθρώπειοι νόμοι ὑπὸ ἑνὸς τοῦ θείου· κρατεῖ γὰρ τοσοῦτον
ὁκόσον ἐθέλει καὶ ἐξαρκεῖ πᾶσι καὶ περιγίνεται Coloro che vogliono parlare con
intendimento devono fondarsi su ciò che a tutti è comune, come la città sulla
legge, e ancora più fermamente. Tutte le leggi umane, infatti, si alimentano
dell’unica legge divina: poiché quella domina quanto vuole, basta per tutte le
cose e avanza (Stobeo; DK 22 B114). Senza voler entrare nel dettaglio
dell’interpretazione del pensiero di Eraclito, è sufficiente osservare come
nelle citazioni sia marcato l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni
condivise dai più: il suo discorso consapevole (λόγος) che annuncia come
«tutto» accada secondo il logos (che manifesta dunque la struttura stabile del
mutamento) è contrapposto all’incomprensione (mancanza di intelligenza della
realtà) degli «altri» (uomini). Le espressioni impiegate denunciano chiaramente
una condizione di inversione: pur essendo il logos alla base della realtà (in
Eraclito abbiamo una delle prime attestazioni di κόσμος come ordine del mondo)
che li circonda, gli «uomini» (ἄνθρωποι) ne ignorano la normatività; essi
vivono così non da «desti» (ἐγρήγοροι) in una condizione di torpore,
stordimento: una sorta di sonnambulismo. L’adesione al logos è adesione a «ciò
che è comune» (τὸ ξυνόν) e quindi sensato, oggettivo, diversamente
dall’ottusità della incon- 387 sapevole esperienza quotidiana, che convince
falsamente di un mondo frammentario, discontinuo, caotico (il tema
dell’estraneità). L’«io» della Dea di Parmenide e l’«io» personale di Eraclito
sono – come correttamente segnalato da Conche39 - dalla stessa parte, in quanto
«cooperatori del vero»; dall’altra ci sono coloro che non giudicano con la
ragione: il segreto dell’erranza dei «mortali» è nel loro stesso pensiero40. A
noi pare che lo studioso francese abbia colto nel segno sottolineando come
l’espressione ἄκριτα φῦλα evochi l’«uomo collettivo», incapace di assumere la
decisione (κρίσις) riguardo alle due vie: in questo senso, analogamente a
quanto registriamo nei frammenti dell’Efesio, giudicare con intelligenza è
possibile solo all’individuo che si distacchi intellettualmente dalle credenze
collettive41 . Una via “inventata” Per riassumere e concludere sulle vie di B6,
ribadiamo la convinzione che Parmenide reiteri, in apertura del frammento,
l’alternativa di B2, introducendo poi, in relazione a essa, il tema specifico
dell’errore di fondo dei «mortali». Il passaggio alla confusa combinazione
delle vie è accompagnato nel testo dal recupero del motivo tradizionale
dell’impotenza umana (tanto più significativamente in quanto affidato alle
parole di una divinità), che viene tuttavia “curvato” per corrispondere alle
peculiari esigenze polemiche dell’autore. Il linguaggio parmenideo sembra
insistere soprattutto sulla natura illusoria di una ὁδὸς διζήσιος («via di
ricerca»), scaturita in realtà dalla presunzione e debolezza cognitiva dei
«mortali». In questo senso esso non avalla alcuna “terza via”, non le riconosce
alcuna consistenza, nemmeno sul piano strettamente logico: mentre la via che
pensa «che non è e che è necessario non essere» si presentava come uno dei
corni della alternativa 39 Non a caso editore sia dei frammenti parmenidei, sia
di quelli eraclitei! 40 Conche, op. cit., p. 107. 41 Ivi, p. 108. 388
fondamentale e, pur impercorribile, poteva almeno essere prospettata
correttamente, questa presunta “terza via” è stigmatizzata come “invenzione” di
«coloro che nulla sanno», dunque come logicamente insostenibile. Le due vie di
B2 possono essere ritradotte in forma tautologica in apertura di B6: ἐὸν ἔμμεναι
e μηδὲν οὐκ ἔστιν; anche per la seconda via, dunque, a dispetto della sua
negatività, è possibile, dunque, estrarre un soggetto, ancorché puramente
formale (μηδέν, ovvero τό γε μὴ ἐὸν). Dei βροτοὶ εἰδότες οὐδέν - che nel loro
scorretto argomentare e confuso parlare “si fingono” un commercio delle due vie
alternative - si rileva invece: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν
νενόμισται κοὐ ταὐτόν per i quali esso è considerato essere e non essere la
stessa cosa e non la stessa cosa (B6.8-9). È opportuno ricordare che Simplicio
cita B6.1b-3 (dopo B2), tralasciando l’esordio del nostro frammento e
concentrandosi sulla disgiunzione essere-non essere: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ
συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ
συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα Sostiene che le proposizioni contraddittorie non siano
a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in quei versi
in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti (In Aristotelis Physicam
117, 2). Precisa inoltre: μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν
τῶι νοητῶι Dopo aver biasimato coloro che congiungono l’essere e il non-essere
nell’intelligibile (Simplicio, Phys. 78, 2; DK 28 B6). 389 Pur non concordando
con l’analisi specifica di Leszl (vicina a quella di Cordero), mi sembra
inoppugnabile la sua osservazione: Simplicio intende rilevare la contraddizione
in cui cadono i mortali combinando termini incompatibili (essere e non-essere).
Dei «mortali che nulla sanno» la Dea parmenidea denuncia essenzialmente
l’incapacità di discriminare πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι («essere e non essere»),
ταὐτὸν κοὐ ταὐτόν («la stessa cosa e non la stessa cosa»), che finiscono per
essere contraddittoriamente riferiti a ἐόν. Nella loro finzione, secondo la
Dea, essi indifferentemente assumono e combinano termini in realtà
contraddittori, senza rendersi evidentemente conto della loro incompatibilità:
proprio nella contestazione di tale ingiustificata, infondata assunzione, in
questo come nei due successivi frammenti, si appalesa l’accanimento verbale di
Parmenide. L’obiettivo della polemica Ma chi sono i «mortali» cui si rivolge
l’attacco parmenideo? È possibile individuare un obiettivo specifico, ovvero
dobbiamo pensare a una generica presa di posizione? Parmenide si limita a
marcare la strutturale, originaria impotenza umana (come vuole Reinhardt),
magari per legittimare la funzione rivelatrice della divinità (come vuole
Mansfeld), oppure dobbiamo intravedere nei versi di B6 (come nei successivi di
B7) la condanna di un errore determinato? Più precisamente: le assonanze
espressive giustificano il coinvolgimento di Eraclito (e di suoi non meglio
precisati seguaci) come oggetto delle critiche (come credono in molti), o
dobbiamo piuttosto supporre che Parmenide prenda posizione in generale rispetto
allo sfondo complessivo (e grandioso) della sapienza milesia (come sostengono,
tra gli altri e in modo diverso, Untersteiner e Gadamer)? In un certo senso,
citando a conferma della nostra lettura i frammenti eraclitei, abbiamo
indirettamente già preso posizione, almeno rispetto ad alcune posizione
consolidate del dibattito interpretativo. 390 Quella che mortali che nulla
sanno s’inventano Se da un lato è corretta l’osservazione di Coxon, per cui in
B6.4 il complemento pronominale (ἀπὸ τῆς) si riferisce alla ὁδὸς διζήσιος del
verso precedente, e dunque a “ricercatori”, è dall’altro possibile che
Parmenide abbia colto l’occasione per polemizzare nei confronti di coloro (il
greco indica genericamente βροτοί, «mortali») che propongono un punto di vista
ordinario, teoreticamente ingenuo, in una veste ispirata o sapienziale. Nel
linguaggio della Dea sarebbero allora apostrofati («nulla sanno», εἰδότες οὐδέν)
presunti sapienti che esprimono, in verità, solo opinioni volgari. L’errore
ascritto – la mancata discriminazione delle due vie di B2 - potrebbe
genericamente riferirsi all’incapacità di offrire una coerente (con le «uniche
vie di ricerca per pensare») spiegazione dei processi naturali, preoccupazione
esplicitata in B8.38-41 e soprattutto nella seconda sezione del poema.
Ricordiamo che anche Eraclito ha modo di sviluppare, nei frammenti pervenutici,
una polemica analoga: la sua nuova nozione di saggezza da un lato lo spinge a
rifiutare i modelli della tradizione, discutendone lo spessore (il caso di
Omero) o la competenza (Esiodo), dall’altro a contestare l’enciclopedismo dei
contemporanei: τόν τε Ὅμηρον ἔφασκεν ἄξιον ἐκ τῶν ἀγώνων ἐκβάλλεσθαι καὶ ῥαπίζεσθαι
καὶ Ἀρχίλοχον ὁμοίως Sosteneva che Omero fosse degno di essere cacciato dagli
agoni e frustato e analogamente Archiloco (Diogene Laerzio; DK 22 B42)
διδάσκαλος δὲ πλείστων Ἡσίοδος· τοῦτον ἐπίστανται πλεῖστα εἰδέναι, ὅστις ἡμέρην
καὶ εὐφρόνην οὐκ ἐγίνωσκεν· ἔστι γὰρ ἕν Maestro dei più è Esiodo – costui
credono sapesse una gran quantità di cose, lui che non aveva conoscenza di
giorno e notte: sono infatti la stessa cosa (Ippolito; DK 22 B57) 391 πολυμαθίη
νόον ἔχειν οὐ διδάσκει· Ἡσίοδον γὰρ ἂν ἐδίδαξε καὶ Πυθαγόρην αὖτίς τε Ξενοφάνεά
τε καὶ Ἑκαταῖον l'apprendimento di molte cose non insegna la sapienza,
altrimenti l'avrebbe insegnata a Esiodo e Pitagora e ancora a Senofane e Ecateo
(Diogene Laerzio; DK 22 B40) Πυθαγόρης Μνησάρχου ἱστορίην ἤσκησεν ἀνθρώπων
μάλιστα πάντων καὶ ἐκλεξάμενος ταύτας τὰς συγγραφὰς ἐποιήσατο ἑαυτοῦ σοφίην,
πολυμαθίην, κακοτεχνίην. Pitagora, figlio di Mnesarco, esercitò la ricerca più
di tutti gli uomini e raccogliendo questi scritti ne produsse la propria
sapienza, il saper molte cose, cattiva arte (Diogene Laerzio; DK 22 B129).
L’obiettivo, nel caso di Parmenide, potrebbe dunque essere generale, e
coinvolgere le alternative al modello di sapienza filosofica che proprio la Dea
interveniva a delineare, sollecitando il kouros a meditare le sue parole e a
giudicare con intelligenza. Sul terreno filosofico è difficile pensare che le
posizioni della tradizione milesia potessero meritare un'attenzione così
critica e sprezzante. Il quadro offerto da Parmenide appare per molti versi
analogo a quello delineato a Mileto, con la fondamentale differenza che, nel
suo caso, non si punta a riscattare l’instabilità del divenire nella permanenza
della φύσις-ἀρχή: nel complesso dei frammenti si può cogliere, semmai, la
denuncia della debolezza degli schemi interpretativi ionici, come abbiamo già
registrato nel commento a B4. Una polemica, aspra nei toni, come quella di B6 e
B7 apparirebbe comunque eccessiva se rivolta effettivamente verso la cultura
scientifica di Mileto (sempre ammettendo la praticabilità, all’epoca, di
confronti del genere). L’impressione è che essa si rivolga piuttosto a una
volgare contraffazione del sapere: Conche ha probabilmente ragione a cogliervi
un riferimento alla massa di non filosofi, sordi e ciechi quando si tratta di
intendere la parola della Dea, la parola della Verità. Anche in questo caso,
potrebbe valere l’analogia con Eraclito. 392 Uomini a due teste All’inizio del
secolo scorso Döring42 propose di leggere i versi B6.4-9 come polemica
antipitagorica: una prospettiva rilanciata dall’adesione di una quota
minoritaria degli specialisti (tra i più autorevoli certamente Raven43). Tra
gli assunti di Döring44, soprattutto la convinzione che i primi pitagorici
asserissero l’esistenza del vuoto, considerato identico al non-essere:
posizione che Parmenide avrebbe riaffermato nella sua «terza via», combinando
essere e non-essere. Si tratta, evidentemente, di tesi discutibili, che
speculano su una materia molto controversa, non solo per le carenze
documentarie, ma anche per la complessità di quel movimento culturale, con la
sua tendenza a retroiettare verso l’origine conquiste teoriche maturate nel
tempo. È vero, d’altra parte, che proprio queste difficoltà non consentono di
escludere che Parmenide, sulle cui relazioni con ambienti pitagorici si è molto
insistito, potesse attaccarne posizioni specifiche, immediatamente
comprensibili nel contesto storico-culturale in cui erano avanzate, a un
pubblico essenzialmente di uditori o discepoli. Raven, in particolare, ha
ravvisato in B6.4-9 un riferimento al modello dualistico pitagorico45, in cui
lo studioso riconosce un'impronta antica, pre-parmenidea. Esso troverebbe
espressione nella tavola degli opposti attestata da Aristotele, riconducibile
alla originaria opposizione di limite (πέρας) e illimite (ἄπειρον), cooperanti
nella generazione di tutti gli enti46 . 42 A. Döring, Geschichte der
griechischen Philosophie, vol. I, Leipzig 1903. Dello stesso autore “Das
Weltsystem des Parmenides”, «Zeitschrift für Philosophie und philosophische
Kritik», 104, 1894, pp. 161-177. 43 J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An
Account of the Interaction between the Two Opposed Schools during the Fifth and
Early Fourth Centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948. 44 Si
veda Tarán, p. 68. 45 Sebbene nella successiva opera con Kirk tale riferimento
cada, a favore della possibilità del tradizionale coinvolgimento di Eraclito.
46 Aristotele, Metafisica, I, 5 986 a17-21: τοῦ δὲ ἀριθμοῦ στοιχεῖα τό τε ἄρτιον
καὶ τὸ περιττόν, τούτων δὲ τὸ μὲν πεπερασμένον τὸ δὲ ἄπειρον, τὸ δ’ ἓν ἐξ 393
In questo senso, gli uomini «a due teste» (δίκρανοι) cui allude Parmenide
potrebbero essere genericamente pitagorici oppure i pitagorici responsabili
dell’elaborazione di quel modello dualistico: la testimonianza aristotelica,
infatti, a dispetto dell’accenno a un contributo specifico dedicato
all’argomento, rivela, (come nel ricorso all’espressione «i cosiddetti
pitagorici», οἱ καλούμενοι Πυθαγόρειοι), incertezze di documentazione e
difficoltà di determinazione, ricostruendo un percorso di ricerca (dallo studio
matematico all'applicazione dei suoi principi a tutta la realtà) che potrebbe
implicare un'evoluzione delle posizioni interne alla scuola. In ogni caso è per
noi significativo il riferimento ad Alcmeone (contempoaneo di Parmenide) in
relazione alla tavola delle due serie di contrari: ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων
ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου
παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι
Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· φησὶ γὰρ εἶναι δύο τὰ πολλὰ τῶν ἀνθρωπίνων,
λέγων τὰς ἐναντιότητας οὐχ ὥσπερ οὗτοι διωρισμένας ἀλλὰ τὰς τυχούσας [...] In
tal modo pare pensasse anche Alcmeone Crotoniate, sia che questi prendesse tale
dottrina da quelli, sia quelli da questo; poiché, quanto a età, Alcmeone fiorì
quando Pitagora era vecchio, e si espresse in modo molto simile a costoro.
Sosteneva, infatti, che la maggior parte delle cose umane sono dualità, pur non
determinando, come fanno questi, le opposizioni, ma proponendole a caso [...]
(Metafisica I, 5 986a 27-34). ἀμφοτέρων εἶναι τούτων (καὶ γὰρ ἄρτιον εἶναι καὶ
περιττόν), τὸν δ’ ἀριθμὸν ἐκ τοῦ ἑνός, ἀριθμοὺς δέ, καθάπερ εἴρηται, τὸν ὅλον οὐρανόν
[Essi pongono] come elementi del numero il pari e il dispari; di questi, il
primo è illimitato, l'altro limitato. L’Uno deriva da entrambi questi elementi
(è, infatti, insieme, e pari e dispari). Dall’Uno, poi, deriva il numero; e i
numeri, come s’è detto, costituirebbero l’intero universo. 394 Secondo la
Timpanaro Cardini47, dalla testimonianza aristotelica si può concludere che,
come alla fisica ionica andava probabilmente ricondotta l'originaria dualità
pitagorica (ἄπειρον-πέρας), così alla cultura scientifica milesia dovevano
risalire quelle opposizioni (riscontrate poi nella pratica medica) che Alcmeone
contribuì a introdurre nell'ambiente pitagorico, dove avrebbero ricevuto una
elaborazione sistematica. Insomma, non è da escludere, a livello teorico, che
le allusioni critiche dei versi parmenidei possano investire temi e figure di
una tradizione che doveva risultare riconoscibile nello humus locale: in
un’epoca per la quale è difficile valutare l’incidenza della distanza degli
ambienti culturali, non vi è dubbio che appaia plausibile una referenza
pitagorica. Sul rapporto con la tradizione pitagorica avremo comunque modo di
tornare nel commento a B8. Il percorso torna all'indietro Sin dall’Ottocento
(Bernays) è maturata tra un numero consistente di accreditati interpreti
(Diels, Kranz, Mondolfo, Guthrie, Tarán, Couloubaritsis, Giannantoni, Cerri,
Graham, tra gli altri) la convinzione che il vero obiettivo della polemica di
B6.4-9 sia Eraclito (o, in alternativa, suoi presunti seguaci). Si va dalla
supposizione motivata da considerazioni di contenuto (Guthrie48), alla lettura
sostenuta dall'attenzione per la forma logica dei frammenti (Tarán e
Couloubaritsis), alle conclusioni giustificate da assonanze espressive (per
esempio Cerri). Sono spesso impiegati, come possibili evidenze testuali, le
seguenti citazioni eraclitee: οὐ ξυνιᾶσιν ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῶι ὁμολογέει·
παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης 47 Pitagorici antichi,
Testimonianze e frammenti, a cura di M. Timpanaro Cardini, Bompiani, Milano
2010 (edizione originale 1958-1964), pp. 134- 135. 48 Op. cit., p. 23. 395 non
capiscono che ciò che è differente concorda con se medesimo: armonia di
contrari, come l’armonia dell’arco e della lira (Ippolito; DK 22 B51) συνάψιες ὅλα
καὶ οὐχ ὅλα, συμφερόμενον διαφερόμενον, συνᾶιδον διᾶιδον, καὶ ἐκ πάντων ἓν καὶ ἐξ
ἑνὸς πάντα congiungimenti: intero e non intero, concorde discorde, armonico
disarmonico, da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose (Pseudo-Aristotele
[de mundo 5 396 b7]; DK 22 B10) ποταμοῖς τοῖς αὐτοῖς ἐμβαίνομέν τε καὶ οὐκ ἐμβαίνομεν,
εἶμέν τε καὶ οὐκ εἶμεν Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non
siamo (Eraclito; DK 22 B49a) ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι non si
può discendere due volte nel medesimo fiume (Plutarco; DK 22 B91a). Nel testo
di Parmenide si valorizzano per il confronto gli ultimi due versi (per lo più
tradotti diversamente49): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ
ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato
essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti
il percorso torna all'indietro. 49 La resa italiana più frequente è la
seguente: per i quali l’essere e il non essere sono considerati la stessa cosa
e non la stessa cosa: di tutte le cose c’è un percorso che torna indietro. 396
Secondo Tarán, la sottolineatura parmenidea riferirebbe a Eraclito (DK 22 B10)
l’identità dei contrari come identità-nelladifferenza, secondo un modello del
“sì e no”50, che l’Eleate ricondurrebbe all'opposizione fondamentale essere-non
essere (per cui appunto «l’essere e il non essere sono considerati la stessa
cosa e non la stessa cosa»). In questo senso, secondo Couloubaritsis, l’attacco
di Parmenide sarebbe rivolto a una impostazione (quella eraclitea) ancora
prossima alla logica ambivalente del mito, in cui la complementarità degli
opposti suppone un legame indissociabile. Eppure lo studioso belga, nella
modalità eraclitea di pensare gli opposti, riconosce già una presa di distanze
da quella ambivalenza, soprattutto per l’introduzione di un’opposizione più
inglobante, comune a tutti, quella appunto di essere e non-essere (DK 22 B49a,
B91)51. Proprio la rottura radicale di quella logica caratterizzerebbe la
κρίσις della Dea parmenidea, discriminante dunque allo stesso tempo anche
rispetto alla posizione di Eraclito52 . Ancora di recente, Graham53 ha proposto
di leggere l’ontologia parmenidea come reazione prodotta dall’impatto
dell’opera di Eraclito, la cui provocazione sarebbe consistita nella
esasperazione della polarità presente nel modello ionico, con l’abbandono dell’idea
di primato di una «sostanza generatrice» a vantaggio di quella di processo
universale, regolato da una legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra,
acqua). A questi elementi di contenuto o struttura, si aggiunge poi il
riscontro di un’eco espressiva eraclitea, quasi Parmenide intendesse colpire un
avversario evocandone le parole. Sebbene Tarán, a proposito del conclusivo
πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος, metta in guardia dalla tentazione di
leggervi un puntuale riferimento alle parole di Eraclito (DK 22 B51)54, altri
hanno molto insistito su questo punto: tra i contemporanei, per esempio, Cerri
50 Tarán, op. cit., p. 71. 51 Couloubaritsis, op. cit., p. 199. 52 Ivi, p. 200.
53 Per esempio, sia in Explaining the Cosmos, sia in The Texts of Early Greek
Philosophy. 54 Semmai vi si dovrebbe ravvisare la caratterizzazione delle
vedute degli assertori dell’identità dei contrari (p. 72). 397 trova conferma
in B6.9 di una vera e propria «tecnica della citazione», già emersa nel proemio
con la evocazione del mito di Fetonte e delle Eliadi55 . Come Tarán e
Couloubaritsis, anche lo studioso italiano marca vicinanza e distanza specifica
della posizione di Parmenide rispetto a Eraclito, il quale, pur avendo
anticipato la teoria dell'identità nella (apparente) differenza, manifestò nei
suoi enunciati paradossali viva consapevolezza della problematicità di tale
verità, delle oggettive contraddizioni insite nella realtà naturale e umana 56
. Così non vi è dubbio, secondo Cerri, che siano proprio le formule scelte da
Eraclito, del tipo «è e non è», a essere imputate da Parmenide: il filosofo di
Efeso avrebbe infatti praticato quella (presunta) “terza via” denunciata
dall’Eleate57 . Lo studioso italiano, inoltre, sottolinea come le scelte
lessicali di Simplicio, nel citare B6, mostrino come egli avesse inteso che la
(presunta) “terza via” del frammento non si riferisse a un ingenuo
atteggiamento ordinario della mente umana, ma alla tesi specifica di un
indirizzo filosofico: il linguaggio impiegato dal commentatore, infatti,
sarebbe quello con cui la tradizione peripatetica connotava inequivocabilmente
la dottrina eraclitea58 . Questa osservazione, tuttavia, non comporta alcunché
riguardo all'identificazione del referente dell’attacco di Parmenide: tra gli
specialisti è noto, infatti, come le ricostruzioni platonica e aristotelica
propongano un’anomalia di fondo, che si ritiene effetto dei peculiari canali
nella ricezione delle opinioni dei pensatori arcaici. Le prime collezioni delle
loro tesi, infatti, sarebbero da attribuirsi, nella seconda metà del V secolo
a.C., ai sofisti Ippia59, che avrebbe approntato una selezione per temi, e
Gorgia, che invece avrebbe disposto il materiale per contrapposizioni teoriche:
è dunque molto probabile che la versione offerta da chi (Platone e 55 Cerri,
op. cit., p. 208. 56 Ivi, p. 206. 57 Ibidem. 58 Ivi, p. 208. 59 J. Mansfeld,
“Aristotle, Plato and the Preplatonic doxography and chronography”, in G.
Cambiano (ed.), Storiografia e dossografia nella filosofia antica, Torino 1986,
pp. 1-59. A. Patzer, Der Sophist Hippias als Philosophiehistoriker, Münich
1986. 398 Aristotele appunto) diede inizio alle prime forme di storiografia
filosofica risentisse profondamente di quegli schemi riduttivi60 . Mansfeld61
ha marcato come ciò risulti particolarmente evidente proprio nel caso di
Eraclito e di Parmenide: del primo sarebbero stati esasperati la dottrina del
flusso universale e della diversità (a scapito delle affermazioni su unità e
stabilità); del secondo il motivo dell’Uno e dell’immobilità62. In realtà, come
abbiamo già avuto modo di rilevare in precedenza, è possibile leggere i
frammenti di Eraclito in una prospettiva alternativa, tale da rendere
problematici le facili schematizzazioni. L’Efesio, in effetti, proprio nelle
citazioni sopra riportate, potrebbe essere impegnato in un'operazione analoga a
quella parmenidea: considerare i modelli cosmologici e cosmogonici della prima
riflessione ionica e delle teogonie poetico-religiose per estrapolarne gli
schemi ricorrenti, sviluppando così la prima indagine sistematica sulle forme
della razionalità applicata alla ricerca. Concretamente questo si sarebbe
tradotto nel rilievo di tre aspetti essenziali: i) l'universale pervasività del
divenire; ii) la forma inerente al divenire; iii) la stabilità persistente nel
divenire. Significativa anche l’altra convergenza già segnalata: Eraclito
esplicitamente polemizza con alcune figure della tradizione - Omero, Esiodo,
Archiloco - e intellettuali contemporanei - Pitagora, Senofane, Ecateo - dalla
cui sapienza egli si proponeva, evidentemente, di prendere le distanze, per
delinearne, consapevolmente, quasi marcandone la novità, una propria. Eraclito
manifesta una verità – relativa alla costituzione del mondo fisico e umano - a
cui, pur avendone potenzialmente accesso attraverso esperienza e riflessione,
la maggioranza degli uomini - indicata spregiativamente con l’espressione «i
molti» (οἱ πολλοὶ) - rimane estranea. In questo senso, analogamente al kouros
privilegiato dalla rivelazione della Dea, egli avverte e marca il proprio
isolamento, sottolineando lo scarto tra una visione che va 60 Sebbene sia
plausibile che Platone e Aristotele (e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo)
avessero accesso a un manoscritto dell’intero poema. 61 F. Mansfeld, “Sources”,
in A.A. Long (ed.), The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, C.U.P.,
Cambrdige 199, pp. 22-44. 62 Ivi, p. 27. 399 al fondo delle cose afferrandone
la natura e la semplice, superficiale erudizione (πολυμαθίη) o la percezione
parziale e distorta che impronta le credenze degli uomini (δοξάσματα). La
pluralità delle cose è da lui colta come unitaria connessione cosmica,
all’interno di due limiti essenziali: i) il «logos che è sempre» (τοῦ δὲ λόγου
τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ); ii) la totalità degli enti che «sempre divengono secondo
questo logos» (γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε). Eraclito sottolinea
il valore di norma del λόγος rispetto a ogni accadere, con allusioni all’unità
della legge civile (νόμος) - cui si riconduce la identità della polis - e alla unicità
della legge divina (cui si riducono quelle umane), e ne afferma la funzione
strutturante all’interno dei singoli enti. Così, con riferimento al λόγος,
«tutto è uno» 63, sia nel senso che le cose sono tra loro unitariamente
organizzate secondo il suo piano, sia nel senso che nella natura di ogni
singola cosa si riflette il suo schema. Il λόγος è la legge che regola il
prodursi e il divenire degli enti nel mondo, pur rimanendo natura nascosta allo
sguardo superficiale. È in considerazione di questi elementi teorici (al di là
dei problemi di cronologia relativa, di non facile risoluzione64) che la
supposizione di una polemica specificamente antieraclitea appare esagerata, a
meno di non insistere su un atteggiamento in realtà più complesso (come sembrano
fare Graham, Cerri e Couloubaritsis). Cerri, per esempio, riconoscendo come a
Eraclito sia da attribuire un ruolo decisivo (da «archegeta») nella
ricostruzione della dottrina dell’«essere», giustifica l’attacco di Parmenide
come effetto dell’irritazione di fronte a un’incongruenza (la combina- 63 DK 22
B50: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι
non me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno. 64 Su
questo tra gli altri Conche (p. 108) e Colli (p. 178). 400 zione di «è» e «non
è»), che rischiava di vanificarne l’intuizione scientifica65 . In questo senso,
però, le battute parmenidee sembrano destinate a stigmatizzare un errore ovvero
un'incoerenza che il sapiente poteva cogliere non solo nelle espressioni della
cultura tradizionale, ma anche nelle posizioni della stessa sapienza ionica.
Ipotizzando per le opere degli autori presocratici – come ha fatto di recente
Maria Laura Gemelli Marciano66 - un «contesto culturale e pragmatico» molto
«concorrenziale», e concedendo quindi una circolazione sufficientemente ampia
delle idee nel bacino del Mediterraneo, potremmo attribuire alla polemica
parmenidea un riferimento generico e specifico a un tempo: (i) agli ignoranti
colpevoli di fondamentali fraintendimenti dei propri dati sensoriali (da cui
l’insistenza sull’ottundimento degli organi percettivi: cecità, sordità); (ii)
ai poeti responsabili della divulgazione di quel volgare stravolgimento della
realtà; (iii) ai pensatori ionici, che non avevano evitato un’ambiguità di
fondo, riconoscendo la forza del principio a un elemento a scapito degli altri,
concentrando l’essere in un’area della realtà, piuttosto che in un’altra; (iv)
al limite allo stesso Eraclito, essenzialmente per le sue provocatorie
enunciazioni di un logos che, per altri versi, Parmenide avrebbe dovuto
apprezzare: formule in cui, pericolosamente dal punto di vista eleatico, essere
e non-essere si trovavano accostati. Al centro dell’attacco dell’Eleate – come
confermerà B7 – sono gli “uomini della contraddizione”, coloro che implicano –
consapevolmente o meno67 – l’assurdo: «che siano cose che non sono»; in altre
parole coloro («schiere senza giudizio») che, affidandosi acriticamente al dato
empirico, condizionati dai meccanismi irriflessi dell’abitudine, avanzano una
inaccettabile terza via. 65 Cerri, op. cit., p. 209. 66 M.L. Gemelli Marciano,
"Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et
destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la
Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses
Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. 67 In
questo senso la lettura di Gallop (pp. 11-12), che attribuisce alle convinzioni
dei mortali riguardo a pluralità e divenire l’«assurda implicazione» che
«essere e non-essere sono la stessa cosa e non la stessa cosa». 401 Come
osserva Coxon68, la formulazione τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται
κοὐ ταὐτόν è da leggere in opposizione alla tesi di B6.1a: χρὴ τὸ λέγειν τε νοεῖν
τ΄ ἐὸν ἔμμεναι: il verbo νομίζω, con la sua soggettività, è contrastato dai
positivi (e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. Conche giustamente può marcare come
l’espressione «mortali che nulla sanno» si riferisca alla massa di non
filosofi, che Parmenide trova sordi e ciechi quando tenta di far intendere la
parola della Dea, la parola della Verità69. Né va dimenticato un rilievo di
Jaeger: νενόμισται evocherebbe non l’opinione di un uomo o di qualche
individuo, ma la communis opinio, «la perversione del nomos dominante (cioè
della tradizione)»70 . A questa ignoranza, tuttavia, è possibile fossero
associate nella condanna anche quelle espressioni scientifico-filosofiche in
cui il discrimine tra «le uniche vie di ricerca per pensare» appariva debole o
confuso: un fronte potenzialmente ampio, dai Milesi a Eraclito, passando per i
pitagorici, la cui reale presenza polemica è comunque solo ipotetica. 68 Op.
cit., p. 185. 69 Op. cit., p. 109. 70 W. Jaeger, La teologia dei primi
pensatori greci, cit., p. 170, nota 36. 402 ESPERIENZA, ABITUDINE, GIUDIZIO
[B7] Il frammento, ricostruito nel corso delle successive edizioni Diels e
Diels-Kranz, è un collage di diverse citazioni: (i) Platone (Sofista 237 a 8-9)
e Simplicio (In Aristotelis Physicam 143, 31–144, 1) riportano il secondo
emistichio del primo verso e l’intero secondo verso; (ii) Aristotele
(Metafisica XIV, 2 1089 a) riproduce l’intero primo verso; (iii) Sesto Empirico
(Adversus Mathematicos VII, 111) trascrive i versi 2-6, citandoli di seguito a
B1.28-32 e completandoli con B8.1b-2a; (iv) Diogene Laerzio (IX, 22) ci
conserva i versi 3-5. Le sovrapposizioni sembrano quindi assicurare la
plausibilità dell’attuale ricostruzione e la ragionevole unitarietà del
frammento1 , nonché la sua probabile saldatura con B8, in considerazione del
fatto che il secondo emistichio dell’ultimo verso di B7 citato da Sesto
corrisponde al primo verso della citazione dell’attacco di B8 in Simplicio.
Anche da un punto di vista argomentativo appare piuttosto stretto il nesso tra
B6, B7 e B82 e la loro dipendenza logica da B2 e B3. Coxon3 ritiene possibile
che B7 seguisse B4, a causa dell’uso iniziale del plurale μὴ ἐόντα che
richiamerebbe ἀπεόντα-παρεόντα (B4.1). Mansfeld4 - che propone la sequenza di
tre blocchi logici (B2-B3, B6-B7, B8) – riconosce la possibilità che B5 si
collochi tra il primo e secondo blocco. Rispetto all'attuale ricomposizione del
frammento, rimane aperto il problema della (parziale) citazione sestiana in
continuità con il proemio (e per questo accolta originariamente da Diels nel
primo frammento del poema5 ), cui possiamo aggiungere anche quello linguistico
e metrico, ipotizzando l'ulteriore continuità di 1 Tarán, op. cit., p. 76. 2
Mansfeld, op. cit., pp. 91-2. 3 Op. cit., p 189. 4 Op. cit., p. 92. 5 Di
recente Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 49 ss.), che è
sostanzialmente tornato a riproporre l'originale versione dielsiana. 403
B7.6[a] con B8.1[b]6 . Attribuire l'origine delle difficoltà a una libera
citazione antologica da parte di Sesto, ovvero a una sua citazione da antologia
poco affidabile7 , non appare del tutto convincente, soprattutto alla luce del
fatto che da Sesto abbiamo l'unica citazione dell'intero proemio, con tracce
della redazione psilotica originaria (quindi di una tradizione alternativa a
quella attica): è possibile, dunque, che «egli disponesse di una buona copia
del proemio, derivata verosimilmente da un esemplare di tutto il poema»8 . Nel
caso della sua citazione sarebbe semmai da valutare l'intenzione teoretica di
fondo: mentre Simplicio esplicitamente si impegnava a documentare passi di
un'opera ormai irreperibile, Sesto potrebbe aver consapevolmente
"montato" parti del poema originariamente distinte, in funzione di un
assunto generale: respingere la validità della sensazione come vero strumento
di conoscenza9 . Nonostante perduranti perplessità, negli ultimi decenni la
critica si è mostrata tuttavia propensa a riconoscere la fondatezza della
ricostruzione di Diels-Kranz anche riguardo al presente frammento. Non è in
discussione, in ogni caso, il suo ruolo critico, per noi condizionato dalla
ricezione di B6 e dalla soluzione del problema delle “vie”. Una via che è
impossibile addomesticare L’attacco del frammento, infatti, ci proietta ancora
sulla krisis di B2, ribadita all’inizio di B6: 6 Nella citazione di Sesto, il
verso iniziale di B8 costiuisce il secondo emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα).
Ma la forma tràdita - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è improbabile in epica, dove
si troverebbe μοῦνος (in vece di μόνος); d'altra parte, rettificandola, l'intero
verso non reggerebbe metricamente. 7 Per esempio Plamer, Parmenides &
Presocratic Philosophy, cit., p. 380. 8 E. Passa, Parmenide. Tradizione del
testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 31. 9 Ivi, p. 30.
404 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε
νόημα· Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da
questa via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). Il senso del primo verso
coincide con la reiterazione della condanna della contraddizione, da cui la Dea
mette in guardia il kouros, con scelte espressive (ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος, ma anche
εἶργε νόημα, se accettiamo l’integrazione Diels per la lacuna di B6.2) che
richiamano evidentemente il frammento precedente. Il nume sembra ancora
impegnato a denunciare gli «uomini a due teste» (δίκρανοι), uomini della
contraddizione appunto, formalizzandone in questo passaggio, nei termini delle
«uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι B2.2),
l’assurdità. Un pensare “selvaggio” Due elementi spingono in questa direzione:
(i) l’espressione introduttiva (oὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) secondo cui è
inammissibile che «cose che non sono» (μὴ ἐόντα) «sono [esitono]» (εἶναι); (ii)
il sostantivo νόημα, che, come vedremo, può essere messo in relazione sia con
la formula κρῖναι δὲ λόγῳ, («giudica invece con il ragionamento» ovvero valuta
discorsivamente, attraverso l'argomentazione), sia, per contrasto, con ἔθος
πολύπειρον, l’«abitudine» nata dalle «molte esperienze». Per quanto riguarda il
primo aspetto, la traduzione che abbiamo adottato è sostanzialmente quella
tradizionale, che Diels suggerì sulla scorta della lezione platonica e Tarán ha
difeso per la sua sensatezza. Da O’Brien e Conche ne è stata proposta una
versione più letterale (di cui si è data notizia in nota alla traduzione), che
aiuta a comprendere il valore dell’affermazione εἶναι μὴ ἐόντα: «Jamais, en
effet, cet énoncé ne sera dompté», «For never shall this [wild saying] be
tamed» (O’Brien); «Car jamais ceci se- 405 ra mis sous le joug» (Conche). Ciò
che la Dea vuol manifestare è l’insostenibilità, l’illegittimità della tesi che
può ricavarsi dalla confusa posizione dei mortali «che nulla sanno». La
contraddittoria commistione delle «due vie» (che si fondano sull’immediata
evidenza «è» e sulla sua negazione), il mancato apprezzamento della loro
disgiunzione, si traducono in una “selvaggia” (bestiale) contaminazione, che è
impossibile “domare”, “aggiogare”, ricondurre a norma. Liddell-Scott-Jones
propongono per damázw, in questo caso, proprio in relazione a questa
attestazione parmenidea, lo specifico valore di «to be proved». La durezza
della presa di posizione della Dea, che reitera le formule sprezzanti del
frammento precedente, non si giustifica come semplice messa in guardia rispetto
alla inconcludenza della “seconda via” (ὡς οὐκ ἔστιν), il cui statuto,
ricordiamolo, era stato immediatamente definito in termini inequivocabili10: τὴν
δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ
ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto
privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è
infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8). Ciò che viene
stigmatizzato è piuttosto il fraintendimento corrente, consapevole o meno: il
nume si riferisce a quelle posizioni che assumono esplicitamente o comunque
implicano l’esistenza del non-essere. 10 Insiste su questo punto, in diversi
passaggi del capitolo 5 (Parmenides’ Poem), la Wilkinson; in particolare pp.
77-8. 406 Cose che non sono Non è ovviamente sfuggito agli interpreti il fatto
che in questi versi Parmenide utilizzi il plurale - εἶναι μὴ ἐόντα (una
infinitiva, per altro, con soggetto senza articolo, così da lasciarlo
indeterminato). Si è per lo più voluto cogliere in questa scelta un rilievo
polemico nei confronti dell'esperienza sensibile11, di una “via” dei sensi che
cerca di attribuire esistenza a cose che non esistono. Anzi, secondo Cordero12,
la critica delle attestazioni sensibili salderebbe gli ultimi versi di B6
all’intero B7, in un complessivo attacco al πλακτὸς νόος dei mortali. Insomma,
l’infinitiva iniziale (εἶναι μὴ ἐόντα), riassumendo B6.8-9, denuncerebbe
l’esito di un modo di pensare – quello di «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες
οὐδέν) – condizionato, dalla fiducia nel dato sensibile e dalla guida di un
intelletto instabile, a credere che esistano cose che non sono13 . Parmenide
avrebbe impiegato il plurale (μή ἐόντα) e non il singolare (μή ἐόν) perché il
pensiero "selvaggio" di chi si allontana dalla strada dell’essere è
esercitato a partire dalle cose che si presentano nell’esperienza14. In questo
passaggio il filosofo non intenderebbe, tuttavia, riferirsi al «non-essere»,
non sarebbe impegnato a rigettare la seconda via15, ma a rilevare la
contraddizione indotta dal fraintendimento dell’esperienza16. L’insistenza su
questo punto nei due frammenti che precedono (secondo le ipotesi di
ricostruzione cui abbiamo introduttivamente accennato) la lunga analisi della “prima
via” in B8.1-49, rivela come esso sia cruciale nella economia del discorso di
Parmenide, soprattutto in funzione della seconda sezione del poema. 11 Tarán,
op. cit., p. 77. 12 By Being, It Is, cit., p. 129. 13 Ivi, p. 130. 14 Ruggiu,
op. cit., p. 263. 15 Come ritengono Cordero e Tarán. 16 Conche, op. cit., p.
117. 407 Una posizione diversa e più specifica in proposito è quella espressa
da Coxon17, secondo cui il contesto di B7 sarebbe quello di una critica non
genericamente condotta nei confronti dell'esperienza sensibile o del suo
fraintendimento, ma delle teorie fisiche precedenti e contemporanee. Ciò
sarebbe confermato da Simplicio (In Aristotelis Physicam 650, 11-2), che cita
il verso 2 proiettandolo nella discussione aristotelica degli argomenti del V
secolo a favore o contro l’esistenza dello spazio vuoto: καὶ τὸ κενὸν οὐκ ἔχει
χώραν ἐν τῷ παντελῶς ὄντι, ὥσπερ οὐδὲ τὸ μὴ ὄν non può esservi il vuoto in ciò
che è in senso pieno, così come non può esservi il non-essere. Nella
sottolineatura parmenidea dell'inesistenza di «cose che non sono», avremmo
allora una contestazione delle teorie ioniche (i processi di
condensazione-rarefazione cui alluderebbe anche B4, i cui ἀπεόντα-παρεόντα
sarebbero evocati appunto da μὴ ἐόντα), e probabilmente delle posizioni di
alcuni pitagorici sul vuoto: logicamente B7.1-2 dipenderebbe da B2 e B4, in
quanto a essere coinvolta nell’attacco sarebbe appunto la supposizione che
esista il vuoto (equiparato al non-essere), condizione per discriminare
l’Essere in ἐόντα. In pratica la Dea richiamerebbe il kouros (in questa
prospettiva essenziale l’enfasi sul «tu» personale) dalla tentazione di seguire
coloro che asseriscono l’esistenza del non-essere (vuoto)18. In effetti, come
ci ricorda anche la Wilkinson19, il concetto di «non-essere» sarebbe associato
nella riflessione arcaica al termine e alla nozione pitagorica di ἄπειρον
(illimitato): come risulta dalla testimonianza aristotelica, i Pitagorici
sostenevano che, dall'esterno «illimitato soffio» (ἐκ τοῦ ἀπείρου πνεύματος),
il vuoto (τὸ κενόν) fosse penetrato nell'universo (οὐρανός) come «respiro» (πνεῦμα),
costituendo lo spazio discriminante e distanziante le cose: 17 Op. cit., p.
189. 18 Ivi, pp. 190-191. 19 Op. cit., p. 101. 408 εἶναι δ’ ἔφασαν καὶ οἱ
Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι
καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς
καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς· τὸ γὰρ κενὸν
διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermavano che esistesse il vuoto
e che esso dall'illimitato soffio penetrasse nell'universo come se questo
respirasse, e che è il vuoto a delimitare le nature, quasi il vuoto fosse una
sorta di separatore e divisore delle cose che sono in successione. Questo
accade in primo luogo tra i numeri: il vuoto, infatti, distingue la loro natura
(Aristotele, Fisica IV, 6 213 b22-27). Come abbiamo osservato commentando B6,
l’ipotesi di un confronto con le tesi pitagoriche è suggestiva, anche per
l’ambiente culturale cui si rivolgono i versi di Parmenide: le indicazioni di
Coxon, in effetti, sono supportate dall’uso di aggettivi come ἔμπλεόν (B8.24) –
riferito a ἐόν - ovvero πλέον (B9.3) per «pieno»: Οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν
ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι
χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος Né è divisibile, poiché è tutto
omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo,
né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. (B8.22-24). Αὐτὰρ ἐπειδὴ
πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς,
πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ
μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, 409 e
queste, secondo le rispettive proprietà, a queste cose e a quelle, tutto è
pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché
insieme a nessuna delle due [è] il nulla. (B9). Nei due diversi contesti – la
sezione sulla Verità per B8, e, quasi certamente, quella sulla Opinione, per B9
-, Parmenide associa a ἐόν e πᾶν omogeneità e pienezza, evidenziando, nel
secondo caso, l’assenza del nulla. Ciò farebbe supporre implicito il rifiuto
del «vuoto» (τὸ κενόν) e la sua identificazione con il nonessere (μηδέν,
«nulla» appunto), che solo Melisso avrebbe esplicitamente sostenuto: οὐδὲ
κενεόν ἐστιν οὐδέν· τὸ γὰρ κενεὸν οὐδέν ἐστιν· οὐκ ἂν οὖν εἴη τό γε μηδέν Né
esiste alcunché di vuoto: il vuoto, infatti, è nulla; e ciò che è nulla non può
esistere (DK 30 B7.7). Coxon20 nota come Aristotele – nella discussione sul
vuoto commentata da Simplicio (In Aristotelis Physicam 650, 11), cui si
riferisce la citazione di B7.2 – coinvolga sul tema, oltre a Leucippo e
Democrito, solo i Pitagorici: essi avrebbero appunto attribuito al vuoto una
funzione discriminante, all’origine della pluralità (in primo luogo dei
numeri). La proposta di Coxon non è, tuttavia, del tutto convincente nello
specifico, in quanto non è sufficiente a spiegare il ricorso a μὴ ἐόντα per indicare
il vuoto. Forse giustificato per designare i supposti enti molteplici, effetto
dell’assunzione del vuoto-nulla, l’uso del plurale – come conferma anche il
lessico di Melisso - sembra improprio in riferimento a qualcosa che è in sé
indiscriminabile e inconsistente. Appare dunque più probabile che l’apertura
dell’attuale B7 riprenda la polemica aperta in B6 contro gli «uomini a due
teste», formalizzandola in relazione alla krisis di B2: il γὰρ del primo verso
sottolinea una continuità argomentativa che potrebbe trova- 20 Coxon, op. cit.,
pp. 189-190. 410 re, nella formula contraddittoria εἶναι μὴ ἐόντα, la
possibilità di stigmatizzare con rigore l’assurdità implicita nelle assunzioni
di βροτοὶ εἰδότες οὐδέν. Forse la lettura di Mansfeld 21 è incauta nell’assumere
la validità dell’integrazione εἴργω di Diels per B6.3, ma la proposta
complessiva è di grande interesse: i primi due versi di B7 riformulerebbero B6;
εἶργε (B7.2) richiamerebbe εἴργω (B6.3), completandone il senso con un chiaro
esempio di composizione ad anello. L’attacco ai «mortali che nulla sanno»
sarebbe dunque compreso tra il primo richiamo alla disgiunzione fondamentale
(B6.1-2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) e l’invito a «giudicare con il
ragionamento» (κρῖναι δὲ λόγῳ): due modi per evocare la krisis di B2, prima e
dopo la descrizione del mondo umano22 . Che siano cose che non sono La Dea
mette in guardia il kouros: a dispetto dell’alternativa rappresentata dalle
«uniche vie di ricerca per pensare» e dunque contro una coerente considerazione
razionale della realtà, si tenta di far accettare l’esistenza di cose che non
sono. In gioco è la presunta pluralità di “non-enti” (μὴ ἐόντα) in qualche modo
associata, nei versi successivi a ἔθος πολύπειρον, «abitudine alle molte
esperienze», un costume mentale scaturito dal commercio quotidiano con il
mondo. B4.1-2 può essere su questo di aiuto alla comprensione: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come
cose assenti siano comunque per la mente saldamente presenti; non impedirai,
infatti, che l’essere sia connesso all’essere. 21 Op. cit., p. 91. 22 Ibidem.
411 Ciò che non è immediatamente percepito è comunque razionalmente raccolto
nell’«essere» (τὸ ἐὸν), perché il νόος impedisce di considerare l’essere a
“intermittenza”, quasi fosse alternato al non-essere. Sono i sensi ad attestare
presenza e assenza immediate degli enti; è l’abitudine a tale oscillante
attestazione empirica a tradire la corretta comprensione: una superficiale
lettura dei dati empirici spinge a riscontravi la successione di essere
(presenza) e non-essere (assenza). I sensi, in verità, non rilevano (né
potrebbero) il non-essere, come giustamente ricorda Ruggiu23: essi attestano la
presenza di qualcosa, quindi la sua assenza; mai, però, propriamente il nulla.
Ciò che la Dea contesta è dunque una superficiale inferenza condotta dai
mortali a partire dalla loro esperienza: in Parmenide, come in Eraclito, non è
in discussione il valore dei sensi, ma quello dei giudizi dei mortali24 . Ma tu
… Leggiamo ancora una volta l’attacco di B7: Οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα·
ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα Mai, infatti, questo sarà forzato:
che siano cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero
(B7.1-2). La Dea esorta il kouros a trattenere il pensiero (εἶργε νόημα)
dall'incosciente illusione che esistano cose che non sono (εἶναι μὴ ἐόντα).
Ritorna il riferimento alla «via di ricerca» (τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος), che
richiama B6.4-5: […] ἀπὸ τῆς [ὁδοῦ διζήσιος], ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν 23 Op.
cit., p. 266. 24 Conche, op. cit., p. 122. 412 < πλάσσονται >, δίκρανοι
[…] da quella [via di ricerca] che mortali che nulla sanno < s’inventano
>, uomini a due teste […] Nel frammento precedente si era iniziato a
costruire lo stereotipo degli sprovveduti mortali, impaniati nella
contraddizione: il loro, in fondo, era solo un “preteso” percorso d’indagine,
in realtà forgiato indebitamente (πλάσσονται, «s’inventano»). In B7, invece, si
punta su due elementi: (a) la dura presa di posizione (οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ)
rispetto alla pretesa che «siano cose che non sono»; (b) l’appello personale (ἀλλὰ
σὺ) a trattanersi - evidentemente contrapposto con enfasi agli ἄκριτα φῦλα,
alle «schiere scriteriate» (B6.7), impotenti a discriminare essere e
non-essere. Questo richiamo personale segue: (i) l’iniziale allocuzione di
saluto della dea al kouros (B1.24- 28) con l’illustrazione del suo programma di
istruzione (B1.28b: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι); (ii) l’invito ad aver cura
della comunicazione introduttiva sulle due vie alternative di ricerca, da cui
dipende la possibilità di accedere alla Verità (B2.1: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω,
κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας); (iii) l’esortazione ad atteggiare coerentemente
la propria intelligenza (B4.1 e B6.2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως;
τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα); (iv) la dissuasione dalla tentazione irriflessa di
adeguarsi a uno stile di pensiero (e comportamento) diffuso ma logicamente
contraddittorio (B6.3-4: πρώτης γάρ σ΄25 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω
>, αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς...). In B7 registriamo dunque il compimento dello
sforzo dissuasivo della dea nei confronti del kouros, esplicitamente
sollecitato a marcare il proprio atteggiamento intellettuale rispetto all’«impotenza»
dei «mortali», a condividere razionalmente la disamina critica della Dea. La
presunta "terza via" è delineata es- 25 Il codice D di Simplicio
riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece, τ΄. 413 senzialmente per
distogliere da essa: B6 e B7 svolgono, in questo senso, l'ufficio critico di
«liberare la mente dell'allievo (e dell'uditorio) da presupposti invalsi e
premesse fallaci» per concentrarla sul compito arduo di «riconoscere i segni
scaglionati lungo la Via dell'essere»26 . Chiara Robbiano, interessata a
valorizzare in chiave performativa l’efficacia comunicazionale del poema, ha
sottolineato lo specifico effetto identificativo sull’audience. Essa è stata
incoraggiata a immedesimarsi nel destinatario della comunicazione divina: un
«uomo che sa» (B1.3), partner degli dei (B1.24) sotto l’egida di Themis e Dikē
(B1.28). All’audience è stata prospettata quindi la scelta tra le alternative
«per pensare» proposte dalla Dea: la via lungo la quale è lei stessa a condurre
alla manifestazione dei «segni» della realtà genuina, e l’altra, da cui ella
mette in guardia, dal momento che, come abbiamo sopra ricordato: οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις. Ora, le vie dei mortali,
nel loro sforzo di comprensione della realtà, implicano il nulla: così in
B7.4-5 la Dea metterebbe sull’avviso la propria audience contro il modo comune
di guardare alle cose e di esperirle27, insistendo a stigmatizzarne confusione
e distorsione. In questo senso, rispetto alla marcata contrapposizione del «tu»
ai «mortali» (e alle loro vie confuse), il riferimento della Robbiano allo
schema dissuasivo dell’antimodello28: tra B6 e B7 la Dea connoterebbe uno
stereotipo negativo (un antimodello, appunto), così da condizionare nella
scelta la propria audience interna (il kouros) ed esterna. Imboccare la via
sbagliata impliche- 26 Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp.
48-9. 27 Robbiano, op. cit., p. 97. 28 Secondo la lezione di Ch. Perelman &
L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, Paris
1958, §80: le modèle et l’antimodèle. 414 rebbe, infatti, essere assimilati a
una tipologia umana con cui nessuno intende identificarsi29 . Da questa via di
ricerca… Come abbiamo segnalato in nota, nella testimonianza di Simplicio (forse
direttamente dal testo del poema) la «via di ricerca» da cui la Dea inviterebbe
a tenersi alla larga (B7.2) sarebbe la seconda di B2 (ὡς οὐκ ἔστιν), diversa da
quella evocata in B6.4, inventata da «mortali che nulla sanno»: μεμψάμενος γὰρ
τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ
τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Dopo aver biasimato infatti
coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione
B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione
B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In Aristotelis Physicam 78, 2).
Certamente la “seconda via” è coinvolta nel rilievo della Dea, ma non nel senso
che a essa immediatamente ci si riferisca: essa, piuttosto, risulta implicata
nella posizione espressa dai mortali che combinano indiscriminatamente essere e
non-essere. Ed è per questo motivo che B7.1 denuncia l'insostenibile
contraddizione: εἶναι μὴ ἐόντα, dove, come abbiamo già segnalato, il neutro
plurale plausibilmente si salda alla prospettiva del fraintendimento empirico
di cui si renderebbero colpevoli i «mortali». Condividiamo dunque la lettura di
B7.2 che Conche30 (e altri) hanno avanzato: la via di ricerca incriminata
sarebbe quella che βροτοὶ εἰδότες οὐδέν illusoriamente si forgiano, quella
appunto che pretende che i non-enti siano. Si tratta impropriamente di una 29
Robbiano, op. cit., pp. 103-4. 30 Op. cit., p. 120. 415 terza via, illegittima
dal punto di vista della Dea: in B2 sono definite le uniche vie legittime da un
punto di vista razionale (quello della Dea). Il pensiero e l’abitudine I versi
che seguono l’avviso della Dea contribuiscono probabilmente a chiarire
l’origine dello sviamento dei «mortali che nulla sanno»: μηδέ σ΄ ἔθος
πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ
γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza,
a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5).
Appena invitato il kouros a trattenere il pensiero (νόημα) dalla fittizia via
di indagine lungo la quale si trascinano i (o meglio certi) «mortali», il nume
richiama l’attenzione sulle insidie dell’«abitudine» (ἔθος), che allignano
nella irriflessa consuetudine quotidiana, con l’effetto di stravolgerne il
quadro: i termini in gioco sono appunto (i) ἔθος, che guadagna la sua forza dal
contrasto con (ii) νόημα. Il linguaggio dei versi 4-5 riprende chiaramente la
fenomenologia degli ἄκριτα φῦλα (B6.7): l’«abitudine» è contrastata con la
valutazione intellettuale implicita in νόημα, che può dissolvere le illusorie
(perché in sé contraddittorie) certezze empiriche. Costume irriflesso Di quale
abitudine si tratta? La Dea la qualifica come πολύπειρον, probabilmente per
marcarne l’origine dalle frequenti 416 esperienze, e ne rileva l’azione a un
tempo dispotica e insidiosa: evidentemente il quotidiano rapporto sensibile con
le cose, quanquando non è guidato dall'intelligenza, può indurre assuefazione e
spingere, inconsapevolmente, a ritenere che «siano cose che non sono». La nuova
messa in guardia è giustificata dai meccanismi irriflessi che condizionano il
nostro orientamento: proprio per questo i sensi non possono essere separati
dalla ragione31 . È sufficientemente chiaro che la condanna è rivolta al cattivo
uso dei sensi per effetto dell’abitudine e non ai sensi stessi: è infatti
marcato nel testo come sia l’ἔθος πολύπειρον a “forzare” (βιάσθω) la
percezione. D’altra parte, se la Dea esorta a giudicare con la ragione è perché
lungo la via sconsigliata la ragione non è impiegata, sotto l’effetto appunto
dell’abitudine32. Costantemente sottoposti a input sensibili che
richiederebbero di essere correttamente analizzati, i mortali sviluppano una
acritica dimestichezza con le cose, progressivamente avviluppandosi in una
spirale di incomprensioni. Eraclito aveva espresso forse lo stesso punto di
vista: κακοὶ μάρτυρες ἀνθρώποισιν ὀφθαλμοὶ καὶ ὦτα βαρβάρους ψυχὰς ἐχόντων
Cattivi testimoni per gli uomini sono occhi e orecchi, se essi hanno anime
barbare [balbettanti] (Sesto Empirico; DK 22 B107). L’Efesio riconosce
all’anima una funzione intellettuale – la presenza a sé stessi, la
consapevolezza - testimoniata da prontezza di direzione, controllo sui gesti e
in genere sul corpo (si vedano, per esempio, i frammenti B85 e B118) –
integrata dalla capacità di discernimento, senza la quale, sostiene il
filosofo, i sensi sono fuorvianti. I dati sensoriali in sé considerati sono
insufficienti, richiedendo il vaglio critico della psychē, proposta come
istanza indipendente rispetto alla sensibilità. Interessante, nella prospettiva
parmenidea, l’uso dell’aggettivo «barbaro», in cui è stata ravvisata la
probabile implicazione linguistica: il termine si riferisce, 31 Ruggiu, op.
cit., p. 267. 32 Conche, op. cit., p. 121. 417 infatti, o al balbettare di chi
non ha un buon controllo della lingua (gli stranieri) o alla incomprensione di
chi non conosce il linguaggio. A sottolineare l’essenziale ruolo dell’anima
come facoltà di raccolta, decifrazione e intellezione dei dati empirici. In Parmenide,
come in Eraclito, non è in gioco il valore dei sensi, ma quello dei giudizi e
del linguaggio dei mortali: i sensi, in effetti, non fanno che attestare
presenza e assenza; il resto è frutto del giudizio e del linguaggio umani, che
attribuiscono ai dati sensoriali una consistenza ontologica che essi non
rivendicano33 . L’erramento dei «mortali» è marcato dalla Dea (come in B6.4-9)
come erramento del pensiero, intellettuale: se consideriamo il contesto del suo
discorso, assicurato da B1, potremmo convenire con Conche che, se la via della
Dea è discosta «dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου B1.27),
l’abitudine, al contrario, pare proprio trattenere e intrattenere su quel
percorso34. In questa prospettiva l’esortazione rivolta al kouros in B7.2 (ἀλλὰ
σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα) può essere letta di nuovo in parallelo
con il frammento B1 di Eraclito (già utilizzato nel commento a B6):
l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni condivise dagli «altri uomini»
(τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους) si rivela nella tensione tra il suo discorso
consapevole - che annuncia il dominio del logos su tutta la realtà - e
l’incomprensione degli uomini (nei frammenti connotata come torpore,
stordimento, una sorta di sonnambulismo) per le cose che li circondano, tanto
più grave in quanto essi pure si muovono nell’ambito di quella legge universale
e eterna, cui è improntato il divenire di tutti gli enti. Ramnoux35 preferisce
allora al termine «abitudine» il termine «costume», per evidenziarne un effetto:
esso ci spinge a giudicare come tutti gli altri, ad assumere un punto di visto
ordinario, come se il nostro sguardo fosse privo di una propria identità. Per
questo, dunque, l’appello personale della Dea al discepolo affinché valuti 33
Ivi, p. 122. 34 Ivi, p. 121. 35 C. Ramnoux, Parménide et ses successeurs
immédiats, Monaco, Ed. du Rocher, 1979, p. 111. La referenza è di Conche, op.
cit., p. 121. 418 ragionando. Conche 36 ne ricava un'indicazione suggestiva:
l’abitudine esercita il suo potere in modo insidioso, facendo leva sulla
pressione sociale, con il risultato di alienare il giudizio personale nel
giudizio collettivo. La via ordinaria è la via “collettiva” dei mortali; la via
della Dea, la via della Verità, è la via “singolare” del kouros37 . Sempre in
relazione a Eraclito, ma all’interno del più generale quadro di riferimento
della cultura arcaica, Cerri 38 valorizza l’espressione ἔθος πολύπειρον, il
«vezzo di molto sapere». I termini πολύπειρος e πολυπειρία (in greco sinonimo
di πολυμαθία e ἱστορία) indicherebbero l’attitudine alle molte esperienze, a
collezionare notizie, denotando in ultima analisi una forma di cultura
nozionistica, nell’antichità attribuita per esempio a Solone39, impartita con
la memorizzazione scolastica, che Platone (Leggi 7.811 a-b) esplicitamente
condanna (come πολυπειρία e πολυμαθία), ma già duramente stigmatizzata, come in
precedenza ricordato, da Eraclito (DK 22 B40; B129). Appoggiandosi a Gemelli
Marciano40, anche Chiara Robbiano ha di recente ricordato come nel contesto presocratico
(in particolare in Senofane, Eraclito ed Empedocle) sia costante la polemica
nei confronti di altri filosofi ma soprattutto di altre autorità in campo
culturale e sapienziale. In questo senso sarebbero da leggere le aspre critiche
di Parmenide in B7: il riferimento sarebbe alla πολυμαθίη come sapienza
tradizionale, che raccoglie e accumula conoscenza intorno a molte cose41 . 36
Che, ricordiamolo, è anche editore di Eraclito. 37 Conche, op. cit., p. 122. 38
Op. cit., pp. 61-2. 39 Il quale (Plutarco, Sol. 2.1) avrebbe compiuto viaggi in
giovinezza «a scopo di esperienza molteplice e di indagine conoscitiva». 40
M.L. Gemelli Marciano, “Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et
destinataires”, cit., pp. 83-114. 41 Robbiano, op. cit., p. 102. 419 Occhio,
orecchio e lingua La “forza” della consuetudine è dunque contrastata dalla
“persuasività” (B2.4) che caratterizza il viaggio lungo la via autentica42: il
logos deve rettificare l’eco confusa della comune ricezione empirica, la cui
cifra è, ribadiamolo, essenzialmente la distorsione: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν
κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né
abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere
l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5). Parmenide
recupera un motivo tradizionale, che ha riscontri in Omero43 e nei lirici e
ritornerà ancora in Empedocle (DK 31 B3), ma soprattutto, come abbiamo già
ricordato a proposito di B6.7, in Eschilo: οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον
μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον
εἰκῆι πάντα Dapprima essi [gli uomini], pur avendo occhi, in vano osservavano;
avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni simili alle forme, la lunga vita
impastavano tutta senza disegno (Eschilo, Prometeo incatenato 447-50).
Couloubaritsis ritiene che i μὴ ἐόντα (analogamente a τὰ δοκοῦντα) sarebbero da
identificare con le “cose”, cui Parmenide 42 Coxon, op. cit., p. 191. 43 Coxon
(p. 192) sottolinea la risonanza omerica (non l’uso che se ne fa ) dell’intero
verso 4. 420 negherebbe lo statuto di essere, attribuendo al commercio
quotidiano con esse, all’esperienza multipla, quella violenza sul pensiero che
si traduce nella identificazione del reale con il divenire44. In verità, la Dea
insegnerebbe che il loro statuto è quello di «nome» (ὄνομα): svuotate di ogni
consistenza ontologica, le “cose” sono così destinate a sparire. Secondo
l’autore belga, dunque, questa prima forma di “nominalismo” condannerebbe ogni
tentativo di attribuire realtà alle cose come «vuoto parlare», «parlare per non
dire niente»45 . Noi riteniamo che in B7 Parmenide rilanci la propria denuncia
contro il modo comune di guardare alle cose e di esperirle: i mortali implicano
il non-essere nel tentativo di comprendere la realtà attraverso il dato
sensibile: dunque, per riprendere una osservazione della Robbiano46, la Dea
ammonisce la propria audience che quando si coinvolge il non-essere, non si
troverà la verità. Per riprendere una formulazione, che ci pare efficace, della
Wilkinson47, la Dea «non critica i mortali perché percepiscono in modo
scorretto, piuttosto critica i mortali perché nominano in modo scorretto quello
che percepiscono»48 . Logos e elenchos Il frammento si chiude con una
esortazione notevole: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα
Giudica invece con il ragionamento la prova polemica da me enunciata (B7.5-6).
L’interesse del passo è legato alla connessione tra vocaboli destinati a
diventare tecnici nelle filosofie posteriori - λόγος e 44 Mythe et
Philosophie…, cit., p. 201. 45 Ivi, pp. 201-2. 46 Op. cit., p. 97. 47 Op. cit.,
p. 105. 48 Enfasi dell’autrice. 421 ἔλεγχος: il kouros è invitato a valutare, a
sottoporre a scrutinio, con il logos (con il discorso, con l'argomentazione)
l’elenchos (qualificato come πολύδηριν, «polemico», ma anche «molto
contestato») appena proposto (sulle implicazioni temporali del participio
aoristo ῥηθέντα si veda la nota alla traduzione). La Dea, con trasparenza,
sollecita il proprio interlocutore a prendere piena coscienza della forza
(razionale) della contestazione condotta: (i) ogni distanza (tra umano e
divino) è così annullata sul terreno dell’argomentazione: il potere del logos
può accomunare docente e discente; (ii) giudicare e discriminare appaiono come
operazioni implicanti il logos e riferentesi a una «prova» destinata a
contestare: in senso aristotelico, un argomento che intende accertare una
contraddizione. Il termine λόγος indicava originariamente l’attività e il
risultato del «raccogliere» (λέγειν), donde una prima associazione semantica
alla «numerazione» e le successive due linee di sviluppo: (i) «enumerazione» e
«racconto» (inteso appunto come raccolta e ordinamento di fatti), quindi
«discorso»; (ii) «conteggio, calcolo, stima, ragionamento». Nel nostro
contesto, e nella associazione con κρίνω, λόγος è espressione di operatività
razionale: argomentazione, riflessione. Nel contemporaneo Eraclito, λόγος
risulta polivalente, designando a un tempo il «discorso», la sua espressione
scritta, il suo significato; con una forte valenza ontologica, nella misura in
cui viene utilizzato per designare la struttura della realtà, la sua misura
interna. Secondo Ruggiu49 , anche in Parmenide, come in Eraclito B1, λόγος
indicherebbe quella peculiare forma di conoscenza razionale che (analogamente
al νόος) consente di penetrare il senso profondo delle cose. A determinarne
l’accezione è proprio l’associazione con ἔλεγχος: il valore etimologico
originario del verbo ἐλέγχω (da cui discende il sostantivo ἔλεγχος) è
«provocare vergogna», una vergogna che scaturisce dalla cattiva figura;
collegato a esso è il significato di «smentire una menzogna», riuscire a
provare che qualcuno è colpevole di una menzogna. È possibile che in questo 49
Op. cit., p. 267. 422 modo il verbo abbia assunto il senso di «mettere alla
prova, verificare, accertare qualcosa». L’espressione πολύδηρις ἔλεγχος sembra
dunque riferirsi proprio alla critica, sviluppata tra B6 e B7, nei confronti
della presunta sapienza tradizionale, probabilmente delle tesi di pensatori
ionici e forse pitagorici. Una vera e propria confutazione, se consideriamo che
la polemica è consistita essenzialmente nel denunciare la contraddizione
implicita in quelle posizioni. La Dea dapprima (B2.3a; B2.5a) propone
l’espressione diretta della semplice e immediata esperienza della realtà, ἔστιν,
contrapponendole la negazione (οὐκ ἔστιν): da questa alternativa fondamentale e
radicale, può ulteriormente ricavare τό μὴ ἐὸν (B2.7) e τὸ ἐὸν (B42; ἐὸν B6.1)
come soggetti (ancorché il primo solo logico, il secondo reale) delle due
coerenti «vie per pensare». Quindi, dopo aver riformulato (B6.1-2) in termini
tautologici (ἐὸν ἔμμεναι; μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) il contenuto delle vie, ella si
concentra (B6.4-9; B7) sul cortocircuito prodotto nel pensiero (νόος) dei
«mortali» dalla loro contraddizione50, cioè dall’incauta contravvenzione delle
norme: οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3b); χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). In questo senso
la «prova» intorno a cui la Dea invita il kouros a meditare è, nella posteriore
accezione aristotelica, una «confutazione» (ἔλεγχος), deduzione di una
contraddizione (ἀντίφασις), cioè procedimento dialettico per eccellenza 51 . 50
Heitsch, op. cit., p. 161. 51 Su questo si vedano in particolare i contributi
di Enrico Berti, ora raccolti in E. Berti, Nuovi studi aristotelici. I –
Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, Brescia 2004. 423 PERCORSI
NELL’ESSERE [B8 VV. 1-49] Il frammento B8 ci è interamente conservato da
Simplicio, in due passi del suo commento alla Fisica aristotelica, ma brevi
citazioni (per lo più di singoli versi) sono riscontrabili nello stesso
commentatore, in Platone, Aristotele, Pseudo Aristotele, Aetius, Plutarco,
Clemente, Eusebio, Plotino, Teodoreto, Proclo, Ammonio, Filopono, Asclepio,
Damascio. La collazione dei codici ha creato, almeno in alcuni casi, non pochi
problemi per la ricostruzione del testo originale, con conseguenti, profonde
divergenze interpretative, come abbiamo già documentato nelle note. L’acribia
nella discussione critica si giustifica per il rilievo del lungo frammento,
attestato dalla stessa messe di citazioni e comunque dalla sua eccezionale
tradizione (B8 rimane uno dei più lunghi passi superstiti della sapienza greca
arcaica): con tutta probabilità in questi versi Simplicio ci ha conservato
(consapevole della rarità dell’opera) l’intera comunicazione di verità del
poema - dopo le premesse (B2, B3) e un primo esame critico (B6 e B7) - insieme
con l’introduzione della sezione convenzionalmente designata come Doxa (che,
secondo i calcoli contemporanei, da sola doveva coprire i 2\3 dell’opera): καὶ
εἴ τῳ μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ
πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ
λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος. ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ
μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν anche a costo di sembrare insistente, vorrei
aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere
uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto
parmenideo. Dopo l'esclusione del non essere, le cose stanno così: [B8.1-52]
(Simplicio, Commentario alla Fisica 144, 25-29). Nella nostra edizione e nel
nostro commento abbiamo deciso di dividere i due segmenti, ma solo per ragioni
di omogeneità: abbiamo in altre parole preferito concentrare l’attenzione prima
424 sulla presunta ontologia del poema, per passare poi in modo più sistematico
a discuterne i principi interpretativi della natura. La via «che è» e la Verità
Diogene Laerzio (IX.22), a proposito delle tesi di Parmenide, afferma: δισσήν
τε ἔφη τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la
filosofia si divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo
opinione. Alla luce di quanto risulta dalla nostra analisi di B1, tale
struttura emerge dal programma annunciato dalla Dea in B1.28b ss.: χρεὼ δέ σε
πάντα πυθέσθαι ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι
πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι
διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità
ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale
credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle
opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero
esistenti. Nella prima sezione (dopo il proemio) indicata - per antica
consuetudine, sulla scorta di tale programma - come Verità1 , ritroveremmo
dunque - concentrato essenzialmente in B8 - l’insegnamento (πυθέσθαι, anche
«imparare») del «cuore fermo di 1 E che – ricordiamolo - Parmenide in B2.4
designa come Πειθοῦς κέλευθος - «percorso di Persuasione». 425 Verità ben
rotonda» (ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ), correlato alla denuncia (B6, B7 e
ancora B8) dell’errore insito nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας). La
sezione indicata come Opinione sarebbe (nella nostra interpretazione) da
mettere invece in relazione all’ultimo punto del programma: conterrebbe cioè
una lezione (μαθήσεαι, «apprenderai») adeguata su τὰ δοκοῦντα, sui contenuti
dell’esperienza. È significativo dell'originalità della sezione sulla Verità –
soprattutto di B8 - il fatto che le citazioni relative siano più numerose e
consistenti. Dei tre blocchi testuali in cui supponiamo fosse articolato il
poema – Proemio, Verità, Opinione - l’apertura proemiale, che si prestava
all’allegoresi, dovette riscuotere particolare attenzione in età ellenistica:
probabilmente da una tradizione stoica dipende, infatti, la sua interpretazione
da parte di Sesto Empirico, che è anche l'unico a riprodurne integralmente il
testo (forse da fonte non attica2 ). In genere, però, già la produzione del V
secolo a.C. attesta l’incidenza del modello argomentativo e della concettualità
della Verità, che doveva costituire novità rispetto all'arcaica elaborazione
ionica, sebbene, come vedremo, sia molto probabile che i
"naturalisti" posteriori, da Empedocle agli atomisti3 , abbiano
adottato uno schema interpretativo desunto dalla Opinione. Anche la consistente
eco parmenidea in Platone e Aristotele è per lo più riferita alla Verità e solo
subordinatamente (so- 2 Secondo Passa (op. cit., p. 31), infatti, Sesto avrebbe
utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e per la sua parafrasi: nel
secondo caso, la fonte potrebbe effettivamente essere stoica; nel primo caso,
invece, la tradizione sestana è l'unica a conservare traccia dell'antica
redazione psilotica del poema. Passa ne conclude che è plausibile che Sesto
disponesse di una buona copia del proemio, derivata verosimilmente da un
esemplare dell'intero poema. 3 Alexander Nehamas ("Parmenidean
Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy. Essays in Honour of
Alexander Mourelatos, edited by V. Caston and D.W. Graham, Ashgate, Aldershot
2002, pp. 51-2) sottolinea come, nonostante i presocratici posteriori avessero
mutuato le caratteristiche ontologiche illustrate da Parmenide, nessuno si
sentisse in dovere di sostenere l'introduzione di una pluralità di elementi
giustificandola argomentativamente. Quasi non ce ne fosse bisogno: un segno,
forse, di continuità con il poema. D'altra parte, Melisso, che non attribuisce
esplicitamente a Parmenide le proprie posizioni, si impegnò a giustificare il
proprio «numerical monism»: un segno, forse, di discontinuità con il poema. 426
prattutto in Aristotele) alla Opinione, cioè a quella che doveva presentarsi
come una più tradizionale trattazione peri physeōs. È inoltre interessante
osservare come, anche da un punto di vista “musicale”, dell’esperienza di ascolto
dell’intero poema, B8 si distacchi dal resto, deviando spesso dalla cadenza del
verso omerico: solo nei versi nella terza sezione il linguaggio ritorna alla
semantica convenzionale e ordinaria e alle relazioni sintattiche
caratteristiche del proemio4 . La reiterazione di ἔστιν (senza soggetto)
produce (i) un’interruzione di ritmo (suono) e (ii) una dissociazione di
significato5 , come se Parmenide intenzionalmente rompesse la sintassi, le
regolari relazioni semantiche e le relazioni logiche o strutturali: sia che il
poema si legga in silenzio, sia che si ascolti in lettura, in B2 e B8 “è”
(senza soggetto) incombe, con eco amplificata dal ritorno al ritmo poetico
consueto nei due terzi finali del discorso della dea6 . La via che è L’attacco
del frammento (vv. 1-3a) non sembra lasciare dubbi sul contenuto: μόνος δ΄ ἔτι
μῦθος ὁδοῖο λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς… Unica
parola ancora, della via che «è», rimane; su questa [via] sono segnali molto
numerosi: che... Esplicito il richiamo a B2 (μῦθος; ὁδός) e ai suoi esiti:
rimane un’unica parola da ascoltare, dopo che si è riconosciuto
l’impraticabilità di alternative. È giunto dunque il momento di in- 4 L.A.
Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 107. 5 Ivi, p. 96. 6 Ivi, p. 107.
427 camminarsi lungo la via che appartiene a Πειθώ e Ἀληθείη. Su questo
Parmenide è ancora più netto nei vv. 15-18: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ
ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. Il giudizio in
proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di
lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via
genuina), e che l’altra invece esista e sia reale. Nel sottolineare la bontà
del proprio argomento, la Dea ricostruisce sinteticamente la ratio per cui
μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται («unica parola ancora […] rimane» B8.1-2),
evocando l’alternativa dilemmatica - ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν (espressione sincopata
delle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι di B2.2) – e la conseguente, necessaria
esclusione della via «che non è» (B2.7-8): «non è fattibile» (οὐ ἀνυστόν)
conoscere (γνῶναι) e indicare (φράζειν) «ciò che non è» (τό μὴ ἐὸν). In questo
senso va intesa la coppia di aggettivi «impensabile» (ἀνόητον) e «indicibile»
(«senza nome», ἀνώνυμον): la via ὡς οὐκ ἔστιν (τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι) è
effettivamente impalpabile (B2.6), «sentiero del tutto privo di informazioni»
(παναπευθέα ἀταρπόν). La «decisione» (il «giudizio», κρίσις) è conseguente:
come destino («necessità», ἀνάγκη), ricorda la Dea, si è riconosciuto che non
si tratta di via «genuina» (οὐ ἀληθής ἔστιν ὁδός), lungo la quale sia realmente
possibile inoltrarsi e incontrare qualcosa. All’inizio di B8, delle «uniche vie
di ricerca […] per pensare», non rimane quindi che imboccare quella «reale» (ἐτήτυμον),
quella, appunto, ὡς ἔστιν (τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι): muoversi sul terreno
di «è e non è possibile non essere», rinunciando a dare 428 consistenza a «non-è
ed è necessario non essere», garantisce intelligibilità e comprensione della
realtà7 . Una sola parola L’eco inziale del μῦθος che la Dea aveva invitato il
kouros ad accogliere e conservare - e che dunque propone i tratti di un
authoritative speech act (Morgan) – è funzionale alla successiva notifica della
vanità del nominare mortale (B8.38b-39): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ
κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ Per esso tutte le cose saranno nome, quante i
mortali stabilirono, persuasi che fossero reali, ma anche al rilievo della
svolta introdotta in conclusione del frammento (vv. 50 ss.), con una formula
indicativa: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ
τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo
termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo
momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando,
che può ingannare (B8.50-52). La «parola» (il «discorso») di Verità della Dea
traccia i contorni della realtà attraverso l’esclusione sistematica di ciò che,
nella propria inconsistenza (τό μὴ ἐὸν), si rivela ἀνόητον ἀνώνυμον. Si tratta
della rigorosa applicazione argomentativa della formula della prima «via»: 7
Sul rapporto tra il tema della “via” e l’unicità del discorso in apertura di B8
si veda in particolare L. Couloubaritsis, Les multiples chemins de Parménide,
in Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 29-30. 429 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς
οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è possibile non essere. In questo senso, in
B7.5 ella aveva chiaramente esortato a valutare discorsivamente (κρῖναι δὲ λόγῳ)
la «prova polemica» (πολύδηριν ἔλεγχον) fornita: donde forse – ipotizzando una
sostanziale continuità tra B7 e B8 (come attesterebbero le citazioni e il
commento di Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 111 e 114) – l’apertura
con l’espressione μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται. Tale μόνος μῦθος è relativo
alla «via: è» (ὁδός ὡς ἔστιν), di cui la Dea informa (vv. 2b-3a): ταύτῃ δ΄ ἐπὶ
σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄… su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il
discorso è uno, perché una sola è in effetti la via riconosciuta percorribile;
molti i «segni» (σήματα) che consentono di identificarla8 , molti gli argomenti
che possono essere addotti per metterla alla prova: di qui il nesso tra
πολύδηρις ἔλεγχος, μόνος μῦθος e σήματα. Come rivela il precedente epico del
riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope, essi, infatti, possono essere
usati per provare (sottoporre a elenchos) l’identità di una persona9 . Sarà
allora lo stesso intreccio dei «segni» a rivelare unità e omogeneità di τὸ ἐόν
e dunque a mostrare l’alterità tra il μῦθος della Dea e i discorsi dei
«mortali»: essi ipostatizzano quanto, in vero, è solo «nome»; assumono come
evidenza ultimativa la molteplicità di enti, senza ricondurla all’identità
dell’«essere». Il μόνος μῦθος che la θεά articola in B8.1-49 corrisponde a
quanto annunciato (B2.4) come Πειθοῦς κέλευθος («percorso di Persuasione») in
quanto Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ («tien dietro a Verità»): lungo la 8 Secondo gli
interessanti rilievi di Robbiano, op. cit., pp. 108-9. 9 Ibidem 430 «via: è e
non è possibile non essere» si esprime – non solo per l’autorevolezza
dell'indicazione divina, ma per l’intrinseca costruzione razionale – quella
πίστις ἀληθής (B8.28) che era stata negata (B1.30) alle «opinioni dei mortali»
(ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής, «in cui non è reale credibilità»). Con una
differenza significativa: nel proemio il kouros doveva semplicemente registrare
un annuncio; la πίστις ἀληθής rappresentava quella credibilità che la Dea
disconosceva alle convinzioni correnti. In B8 è lo stesso «convincimento»,
maturato argomentativamente, a trattenere dalla distorsione tipica dei «mortali
che nulla sanno»: considerare (νομίζειν) (B8.27-28): ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε
μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής poiché nascita e morte sono state
respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Analogamente, in
B6.4-9 e B7.1-5 la Dea aveva duramente stigmatizzato la confusione teorica
corrente, mettendo in guardia il kouros: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν
< πλάσσονται > […] ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν
νενόμισται κοὐ ταὐτόν […] [ti tengo lontano] da quella [via] che appunto
mortali che nulla sanno , […] schiere scriteriate, per i quali esso è
considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa […] οὐ γὰρ
μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα·
μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω Mai, infatti, questo sarà
forzato: che siano cose che non sono. 431 Ma tu da questa via di ricerca
allontana il pensiero; né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti
faccia violenza. In B8.38 ss. è lo stesso μόνος μῦθος (articolato in relazione
ai σήματα) a svelare in che cosa effettivamente consista quello stravolgimento:
perdere di vista il fatto che, prescindendo dall’unico referente reale
(l’essere), i vari nomi con cui designiamo i fenomeni della nostra esperienza
sono, in realtà, solo simboli: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο
πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον
ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le cose saranno nome,
quante i mortali stabilirono, persuasi che fossero reali: nascere e morire, essere
e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. L’«essere» (τὸ ἐόν),
ovvero «ciò che è» (ἐόν), è la sola cosa che possa essere pensata ed espressa
nel linguaggio: a qualsiasi cosa i mortali pensino o di qualsiasi cosa i
mortali parlino e in qualsiasi modo ne pensino o parlino, essi in realtà
pensano o parlano di ciò-che-è 10. Questa è la lezione che si ricava dalla
«parola» della Dea: trasfigurazione del linguaggio dell’esperienza, della
rappresentazione ingenua, ma anche della (contestata) cosmologia ionica. Una
lezione che discende, dunque, dalla krisis (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), condotta
escludendo τό μὴ ἐὸν: l’unica via praticabile troverà manifestazione rigorosa
attraverso i «segnali» che possono identificarla per la ragione. In questa
prospettiva i vv. 50-52 marcano effettivamente un passaggio, dal momento che
spostano l’attenzione (e l’istruzione) del kouros da quella manifestazione – il
«discorso affidabile» (πιστὸν λόγον) che esprime la Verità (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης)
– all’ambito delle nostre convinzioni empiriche (τὰ δοκοῦντα 10 R. McKirahan,
“Signs and Arguments in Parmenides B8”, cit., p. 205. 432 B1.31), da ridurre a
uno schema interpretativo adeguato (χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα
B1.32). È la stessa divinità a connotare la propria comunicazione (μῦθος): a
rilevarne con formule (κέκριται ὥσπερ ἀνάγκη) la cogenza, la dipendenza dalla
κρίσις (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν),·e, attraverso figure (Δίκη, Ἀνάγκη, Μοῖρα), lo
statuto trascendentale. La «parola», infatti, nel suo procedere argomentativo,
appalesa, della realtà (τὸ ἐόν), ordine e superiore garanzia: «Giustizia [lo]
tiene (ἔχει)», «Necessità potente [lo] tiene (ἔχει)», «Moira (Destino) lo ha
costretto (ἐπέδησεν)». La nuova sezione, introdotta al v. 50, è, a sua volta,
esplicitamente determinata: è sempre la divinità a sottolinearne la materia
diversa – conseguenza dell’adozione di un punto di vista che potremmo definire
“umano”: δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε («da questo momento in poi
opinioni mortali impara» B8.51-2). Contestualmente, nell’abbandonare la parola
garantita e il suo oggetto immutabile (τὸ ἐόν e i suoi σήματα), è la Dea stessa
a mettere in guardia sul passaggio dal rigore del «discorso affidabile» (πιστὸν
λόγον), del «pensiero intorno alla Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης), alla
ricostruzione potenzialmente fuorviante (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων,
«ascoltando l’ordine delle mie parole che può ingannare»). Il poeta segnala il
cambio di registro anche a livello espressivo, tornando, come abbiamo in
precedenza ricordato, alla semantica convenzionale e alle relazioni sintattiche
caratteristiche del proemio: in questo senso, rispetto ai versi centrali della
Verità, ἀπατηλὸν (passibile di inganno) appare effettivamente l’organizzazione
stessa delle parole11 . L’attuale frammento B19 confermerà la natura “umana”
della prospettiva (κατὰ δόξαν) adottata, e la sua peculiare costruzione
linguistica: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε
tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ 11 L.A.
Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 107. 433 Ecco, in questo modo,
secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito
sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini imposero,
distintivo per ciascuna. La via e i suoi «segnali» La Dea si affretta a
osservare (B8.2-3), riguardo alla ὁδός (ὡς ἔστιν), come: ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι
πολλὰ μάλ΄ su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il rilievo è importante
perché sottolinea la fondatezza della comunicazione divina, sottraendola
all’arbitrio, e la sua intenzione razionale: essa allude a «segni», proprietà,
evidentemente da riconoscere come genuini indicatori della realtà, e
implicitamente è introdotta la loro discussione. La presenza di «segnavia»
lungo un percorso (κέλευθος) è naturale, così come la loro funzione di
orientamento: trattandosi di Πειθοῦς κέλευθος, il compito educativo della Dea
diventa quello di illustrarli e, così facendo, di sviluppare la conoscenza
della via, di guidare alla comprensione dell’essere. I σήματα si riferiscono
immediatamente alla ὁδός, non a τὸ ἐόν, ma la loro discussione, il
riconoscimento della loro funzione, contribuisce a determinare e far prendere
consapevolezza della nozione di τὸ ἐόν: la «via», in effetti, è indicata come ὡς
ἔστιν. In questo caso la natura descrittiva dei «segnali» rispetto al percorso
di conoscenza si fa ancora più netta. Simplicio (Phys. 78, 11) parla di τὰ τοῦ
κυρίως ὄντος σημεῖα, che potremmo tradurre come «connotazioni dell’essere che
veramente è». 434 Segnali La Dea ne propone un catalogo, nel seguito utilizzato
(anche se non integralmente) per l’analisi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν,
οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν
ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές che senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto
intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà,
poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Dei molti problemi testuali abbiamo
dato notizia in nota. Qui interessa tentare di comprendere che cosa i σήματα
rappresentino per l’autore. Una prima risposta possiamo ricavare dalla versione
che abbiamo proposto (una delle possibili): la via ὡς ἔστιν è tradotta in
termini proposizionali, con un soggetto (ἐόν, lo stesso emerso in B6.1) e,
apparentemente12, due serie di predicati: (i) ἀγένητον, ἀνώλεθρόν, οὖλον,
μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. I
«segnali molto numerosi» sulla via ὡς ἔστιν sarebbero dunque caratteristiche
che si possono legittimamente riferire a «ciò che è», sulla scorta – come
risulterà più chiaramente nel corso della esposizione divina (e come abbiamo
anticipato) - della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Formulando diversamente lo
stesso concetto: predicati essenziali di τὸ ἐόν, implicati (e deducibili) dalla
12 Come segnalato in nota, Leszl, Heitsch e di recente Palmer (tra gli altri),
fanno iniziare l’analisi dei segni dal v. 5, con ciò considerando gli attributi
dei vv. 5-6 già parte della discussione e non propriamente σήματα. 435 stessa
nozione di ἔστιν (τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), con esclusione di οὐκ ἔστιν
(τε καὶ [...] χρεών ἐστι μὴ εἶναι); attribuiti all’essere, essi ne manifestano
la natura. È plausibile nel contesto che la Dea intenda σήματα e ἔλεγχος non
disgiuntamente, in altre parole che l’orientamento conoscitivo richieda non
semplicemente il catalogo, ma l’argomentazione che lo sostiene. Anzi, dal punto
di vista della lezione divina, la valutazione razionale del giovane allievo
appare preoccupazione primaria, come marcato in B7.5-6: κρῖναι δὲ λόγῳ
πολύδηριν ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα Giudica invece con il ragionamento la prova
polemica da me enunciata. I «segnali» potrebbero dunque costituire il materiale
concettuale su cui esercitare la razionalità del kouros, con un duplice scopo:
(i) fargli prendere confidenza con τὸ ἐόν; (ii) fargli prendere coscienza delle
inconsistenze di altre posizioni teoriche (ioniche, forse pitagoriche). Si
tratta ovviamente di due risvolti della stessa strategia, nella misura in cui il
riconoscimento della natura di «ciò che è» comporta, per un verso, la presa di
distanza dalla superficiale lettura del dato sensibile, per altro la
contestazione di lezioni concorrenti. Così ritroveremo riaffermato (B8.34-36a)
il nesso tra pensiero (addirittura nella formulazione astratta τὸ νοεῖν) e
essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. Οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος,
ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa invero è pensare e il
pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso,
troverai il pensare. Un rilievo che ribadisce appunto l’equazione di B3: τὸ γὰρ
αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere, 436
e soprattutto richiama la funzione “ontologica” del νόος di B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως
ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι
Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non
impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere. L’aspetto che appare
tuttavia peculiare nella relazione tra σήματα e νοεῖν è il fatto che alcuni dei
«segnali» fondamentali siano evidentemente costruiti - sul piano linguistico –
con l’uso dell’alfa privativo, mentre su quello argomentativo (attraverso ἔλεγχος,
confutazione) tutti siano sostenuti ribaltando il dato di senso comune (nascita
e morte, accrescimento e diminuzione, mobilità ecc.). Un risultato che a loro
modo anche la sapienza ionica aveva ottenuto, ma, come rivelerebbe la
discussione parmenidea, in modo contraddittorio. In questo senso, i σήματα
possono essere letti come elementi concettuali espressamente rivolti a
contestare i metodi tradizionali di interpretazione dell’universo13. Il
catalogo e la relativa discussione investirebbero direttamente alcuni
contributi della elaborazione cosmologica arcaica14: (i) il paradigma di fondo
della cosmogonia (B8.6-21); (ii) il modello esplicativo per successive
differenziazioni – quale è possibile intravedere nelle testimonianze su
Anassimandro e Anassimene (B8.22-25); (iii) la riflessione sul mutamento – cui
possono ricondursi in parte i frammenti di e le testimonianze su Anassimene e
Eraclito (B8.26-31); (iv) il modello biologico di sviluppo dell’universo, che
possiamo ritrovare nelle testimonianze su Anassimandro (B8.32-49). È allora
possibile che la natura dei σήματα non fosse quella di predicati astratti,
concettualmente dedotti dalla nozione di «esse- 13 Robbiano, op. cit., p. 109.
14 Ibidem. 437 re», bensì quella di contrafforti dialettici scaturiti dal
confronto con specifiche dottrine, e, in questo senso, storicamente,
culturalmente determinati. La loro funzione “segnica” rispetto alla «via»
consisterebbe nell’evitare che essa possa essere abbandonata, seguendo il
richiamo di assunzioni acritiche ovvero di presunte, scorrette, teorie. Donde
l’impronta discutiva e confutatoria dell’analisi di Parmenide. La via, i
segnali e la guida D’altra parte è evidente nel testo come la Dea scelga di
riferirsi ai «segnali» nel contesto della propria istruzione al kouros, del
proprio esercizio di guida. Anzi: ella guida attraverso σήματα, che impegnano
razionalmente. La tradizione li conosceva come «segni augurali» che gli
indovini dovevano interpretare15, come mezzi di rivelazione di una potenza
superiore16. In questo senso il contemporaneo Eraclito evocava lo stesso
modello: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ
σημαίνει Il signore, di cui è l'oracolo in Delfi, non dice, non nasconde ma dà
un segno (Plutarco; DK 22 B93). Anche la dea di Parmenide invia segnali ai
mortali, per far conoscere cose normalmente oltre la loro portata: Robbiano e
Cerri hanno probabilmente ragione nel sottolineare come il termine σήματα non
si riferisca allora tanto ai predicati enumerati in B8.2- 6, quanto ai
successivi argomenti, risultando essenziale nella relazione tra l’umano e il
divino il momento dell'interpretazione dei segni per giungere alla verità. In
questa prospettiva – come rilevato da Mourelatos17 - σήματα e ὁδός (ὡς ἔστιν)
si salderebbero nel motivo della quest: per raggiungere il fine della ricerca è
necessa- 15 Cerri, op. cit., p. 219. 16 Mansfeld, op. cit., p. 104. 17 Op.
cit., p. 94. 438 rio percorrere la strada «che è»; per fare ciò è necessario
tenere d’occhio i segnavia. L’accostamento al modello oracolare - giustificato
non solo dalle implicazioni tra σήματα e σημαίνειν, ma pure dal nesso lessicale
tra σήματα e σημεῖον, termine per «segno divinatorio» (di qualsiasi tipo), e
«responso oracolare» (testo verbale) – è ricco di risvolti significativi nel
contesto. Il segno divinatorio, infatti, proviene dalla sfera divina: nel segno
la sapienza divina irrompe nell'ambito umano, per condensarsi poi nel
responso,: la parola del responso è umana come suono, ma rivela una conoscenza
che separa l'uomo dal dio18. Ora, non vi è dubbio che Parmenide rielabori, in
forme originali, questi elementi: la rivelazione, lo scarto conoscitivo e il
suo rilievo esistenziale, la comunicazione di verità come evento privilegiato.
Come ricorda la Robbiano19, la dea di Parmenide evoca un dio che manda segnali
ai mortali per far loro conoscere cose normalmente fuori della loro portata:
non dobbiamo dimenticare che in Omero la divinazione comporta la conoscenza
delle cose che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in
passato: […] τοῖσι δ’ ἀνέστη Κάλχας Θεστορίδης οἰωνοπόλων ὄχ’ ἄριστος, ὃς ᾔδη
τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, καὶ νήεσσ’ ἡγήσατ’ Ἀχαιῶν Ἴλιον εἴσω ἣν
διὰ μαντοσύνην, τήν οἱ πόρε Φοῖβος Ἀπόλλων Si alzò allora Calcante, figlio di
Testore, di gran lunga il migliore degli indovini, il quale conosceva le cose
che sono, le cose che saranno, le cose che furono, e aveva guidato le navi
degli Achei fino a Ilio grazie all’arte profetica che gli donò Febo Apollo
(Iliade I, 68-72). 18 Su questo punto si veda G. Manetti, Le teorie del segno
nell'antichità classica, Bompiani, Milano 1987. 19 Op. cit., p. 126. 439 In
Parmenide è la divinità stessa a indicare i «segnali» che tracciano la via al
pieno dispiegamento della realtà (Verità) nella conoscenza, e a interpretarli
per il kouros; è la divinità stessa a tradurre la propria sapienza in immagini
e discorsi: essa riassorbe in sé, insieme alla funzione rivelativa, anche
quella di μάντις e προφήτης, marcando l’eccezionalità del privilegio concesso.
Il «colpo d’occhio [del dio] che conosce ogni cosa» (Pindaro), la visione
simultanea di passato, presente e futuro, si presenta nei segni che l’indovino
deve riversare in parole (enigmatiche) e l’interprete chiarire per i mortali.
In questo senso la divinità di Parmenide ha un ruolo simile a quello delle Muse
(le quali garantiscono al poeta la trasposizione della loro sinossi nello
sviluppo del canto), ma “laicizzato”: analoga l’intenzione pedagogica, comunque
diversamente declinata. La Dea, infatti, propriamente non ispira un canto, piuttosto
insegna argomentando; pur marcando lo scarto tra umano e divino, ella comunica
razionalmente, insistendo sulla «forza di convinzione» (πίστιος ἰσχύς), sulla
«convinzione genuina» (ovvero «reale credibilità», πίστις ἀληθής), per
illustrare i σήματα al proprio interlocutore (cui è richiesto di non accogliere
supinamente, ma riflettere su quanto comunicato): interpretarli significa, nel
nostro contesto, giustificarli razionalmente alla luce dei principi (le «vie»)
introdotti in B2. Alla ripresa del motivo tradizionale segue, dunque, una
sostanziale revisione: è attraverso ἔλεγχος che la Dea sviluppa il tracciato
della «via che "è"»; è contestando ed escludendo errate assunzioni di
senso comune e contributi teorici concorrenti che ella viene determinandola
dialetticamente. È indicativo del retroterra culturale il fatto che Parmenide
scelga di proporre in prima istanza un catalogo (memorizzabile) di «segni»,
quindi un prolungato sforzo argomentativo – un unicum nel panorama della
produzione arcaica –, sostenuto da una serie di immagini plastiche (catene,
legami, sfera) e figure (divine). Ritroviamo sapientemente intessuti ἔλεγχος,
metafora e mito, quasi costituissero ancora tre aspetti inscindibili di una
stessa esperienza comunicativa. Segnavia 440 L’attacco di B8 sottolinea dunque
una volta di più il ruolo della guida divina e la centralità del tema della
via: è la Dea, infatti, a ricordare come rimanga ancora solo la possibilità di
un μῦθος; è la Dea ad annunciare i «segnavia» (σήματα) e quindi che il percorso
sarà discorsivo. È la Dea, insomma, che non solo anticipa al kouros l’identità
della via che resta (ὡς ἔστιν), ma prospetta pure la prova (ἔλεγχος) che il
giovane discepolo deve sostenere. Come opportunamente osservato da Coxon20, B8
è introdotto da un resoconto delle evidenze lungo la via, sulla quale, nella
narrazione, il kouros deve ancora viaggiare: gli argomenti di B8 valgono quindi
come guida (filosofica), grazie a cui è possibile mantenere la direzione e
percorrere fino in fondo la «via genuina» (ὁδός ἀληθής), in B2.4 connotata come
Πειθοῦς κέλευθος. Come anticipato, Parmenide sembra articolare un doppio
registro di evidenze da sottoporre all’attenzione; in effetti il testo recita
(vv. 3-6): ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς
ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές
che senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e
senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme,
uno, continuo. Ne abbiamo sopra estratto due liste di attributi di ἐὸν: (i) ἀγένητον,
ἀνώλεθρόν, οὖλον, μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν,
συνεχές. L’argomento di B8 – pur coinvolgendoli complessivamente – sembra
costruito per privilegiare questi enunciati: 20 Op. cit., p. 193. 441 γένεσις μὲν
ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος è estinta nascita e morte oscura (B8.21) πᾶν ἐστιν
ὁμοῖον è tutto omogeneo (B8.22) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται
χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se
stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (B8.29-30) οὐκ ἀτελεύτητον
τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές non incompiuto l’essere [è] lecito che
sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché] (B8.32-33). In questo senso
appare plausibile la ricostruzione di Mourelatos21 (ripresa di recente anche da
Robbiano22), elaborata tenendo conto delle convergenze tra gli interpreti sui
seguenti blocchi testuali e relativi sÔmata di riferimento: B8.6-21: ἀγένητον (ingenerato)
e ἀνώλεθρόν (imperituro); B8.22-25: συνεχές (continuo) e\o ἀδιαίρετον
(indiviso); B8.26-31: ἀκίνητον (immobile, immutabile); B8.32-33: οὐκ ἀτελεύτητον
(non incompiuto); B8.42-49: τετελεσμένον (compiuto). Possiamo precisare
leggermente questo schema e privilegiare la discussione (ἔλεγχος) di quattro
σήματα di base, riferibili, in quanto «segnavia», direttamente a ὁδός (ma,
nella nostra traduzione, predicati di τὸ ἐόν), cui è poi possibile ricollegare
gli altri: (i) «senza nascita e morte» (ἀγένητον, ἀνώλεθρόν B8.5-21); (ii)
«tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον B8.22-25); (iii) «immobile» 21 Op. cit., p. 95. 22
Op. cit., p. 108. 442 (ἀκίνητον B8.26-31); (iv) «compiuto» (οὐκ ἀτελεύτητον,
τετελεσμένον B8.32-49). Di recente McKirahan23 ha proposto un elenco più
minuzioso, classificando con una più articolata suddivisione in gruppi tutti i
predicati: A: ἀγένητον (ingenerato) ἀνώλεθρόν (imperituro) B: οὖλον (intero)
τέλειον24 (completo) ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme) συνεχές (che si tiene insieme) C:
οὐδέ ποτ΄ ἦν (né un tempo era) οὐδ΄ ἔσται (né sarà) νῦν ἔστιν (è ora) D: ἀκίνητον
(immobile) ἔμπεδον (immutabile) E: ἀτρεμὲς (stabile) F: μουνογενές (unico25) ἕν
(uno). Nella nostra esposizione seguiremo lo schema di Mourelatos che abbiamo
precisato, integrandolo con le osservazioni desumibili dall’elenco di
McKirahan. Ingenerato (e imperituro) Il vero e proprio attacco argomentativo
del frammento è formulato come interrogazione (vv. 6-7)26: τίνα γὰρ γένναν
διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso?
Come e donde cresciuto? 23 “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The
Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham,
O.U.P., Oxford 2008, p. 191. 24 McKirahan legge hdè téleion in vece di ἠδ΄ ἀτέλεστον.
25 Noi abbiamo preferito rendere come «uniforme». 26 Ma alcuni sostengono che
l'argomentazione cominci al verso precedente con οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται... 443
L’implicita opzione discutiva impronterà lo sviluppo discorsivo: la Dea non si
limiterà a ragionare con il proprio (muto) ascoltatore, ma mimerà un autentico
confronto dialettico, attribuendogli le convinzioni teoriche (o di senso
comune) che è necessario confutare per dimostrare la propria tesi. Un possibile
modello argomentativo I versi 7-15 – nella versione (a dire il vero tormentata)
che abbiamo accolto e tradotto27 - possono esemplificare efficacemente la
struttura del procedimento razionale di Parmenide: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω
φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν
καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; οὕτως ἢ πάμπαν
πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί. οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς
γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη
χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· Da ciò che non è non permetterò che tu dica e
pensi; non è infatti possibile dire e pensare che «non è». Quale bisogno,
inoltre, lo avrebbe spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima?
Così è necessario sia per intero o non sia per nulla. Né mai concederà forza di
convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. Per questo né nascere né morire
concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 27 Come risulta dalle
annotazioni al testo greco, abbiamo accettato l'emendazione proposta da Karsten
della forma ἐκ μὴ ὄντος attestata dai codici, in ἐκ < τοῦ ἐ > όντος. 444
L’argomento – insieme agli interrogativi che lo introducono - ha come soggetto
sottinteso (nella nostra traduzione) ἐόν (v. 3): per escluderne generazione
(τίνα γένναν αὐτοῦ; - «quale nascita di esso?») e derivazione (πῇ πόθεν αὐξηθέν;
- «come e donde cresciuto?»), la Dea non concede: (i) che esso possa nascere (φῦν)
«originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον) - «da ciò che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος);
(ii) che esso origini (γίγνεσθαi) «dall’essere» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος). Non
rimanendo alternative, ella conclude il proprio ragionamento (a dimostrazione
della tesi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) appoggiandosi alla superiore
garanzia di Dike (il nume tutelare dei limiti e delle prerogative a essi
associate), la quale vincola ciò che è a essere ἀγένητον (e ἀνώλεθρόν). La
struttura dell’argomento risulterebbe dilemmatica, come segnalato dall'uso di οὔτε
(v. 7) e οὐδέ (v. 12): «non è vero questo, e neppure è vero quest’altro», dove
«questo» e «quest’altro» rappresentano le uniche due possibilità concepibili in
proposito28 , appunto ἐκ μὴ ἐόντος (v. 7) e ἐκ < τοῦ ἐ > όντος (v. 12
emendato). Di questa struttura si trova conferma nello scritto Sul non-essere
di Gorgia (versione Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 71): καὶ μὴν οὐδὲ
γενητὸν εἶναι δύναται τὸ ὄν. εἰ γὰρ γέγονεν, ἤτοι ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος
γέγονεν. ἀλλ’ οὔτε ἐκ τοῦ ὄντος γέγονεν· [...] οὔτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος·[...] οὐκ ἄρα
οὐδὲ γενητόν ἐστι τὸ ὄν E ancora, l'essere non può neppure essere generato: se
è stato generato, infatti, certamente è stato generato o dall'essere o dal
non-essere; ma non è stato generato né dall'essere [...] né dal non essere
[...]. L'essere, di conseguenza, non è stato generato; 28 Leszl, op. cit., p.
177. 445 e in Aristotele (Fisica I, 8 191 a23 ss.), con chiara allusione anche
agli Eleati29: Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ
ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων
ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε
γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι
τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι·
οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι
γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ
μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei
pensatori antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi
hanno indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono
sviati come spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi
sostengono in effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge: poiché
ciò che si genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non
è, ma è impossibile che ciò accada in entrambi i casi30. L'essere, infatti, non
si genera (perché è già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che
qualcosa deve fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le
conseguenze, affermavano allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere
stesso. Lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il testo (Phys. 77, 9; 162,
11), offre questo senso: 29 Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy
cit., pp. 129-133) ha contestato, con buoni argomenti, che il testo si
riferisca esclusivamente agli Eleati. 30 Enfasi nostra. 446 καὶ γὰρ καὶ
Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι
(οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος Anche Parmenide infatti
sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che esso non si
genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non
essere (162.11). Accettando questa lezione, ritroveremmo Parmenide impegnato a
elaborare una dimostrazione dialettica rigorosa31: (i) gli interrogativi
(retorici: τίνα [...] γένναν διζήσεαι αὐτοῦ;) introducono l’ipotesi
contraddittoria alla tesi che l’autore intende dimostrare (nella forma
gorgiana: εἰ γὰρ γέγονεν), in questo modo delineando la struttura dilemmatica
di base: «ciò che è è ingenerato» (ἀγένητον ἐὸν) - «ciò che è è generato»
(Gorgia: γενητόν ἐστι τὸ ὄν); (ii) tale ipotesi viene articolata in un nuovo
dilemma: nascita e crescita implicano necessariamente un’origine o (a) ἐκ μὴ ἐόντος
o (b) ἐκ < τοῦ ἐ > όντος (secondo lo schema citato da Simplicio); (iii)
dal momento che entrambe le possibilità sono razionalmente insostenibili,
l’ipotesi (nascita e crescita di ciò che è) si rivela infondata, e la sua
contraddittoria, la tesi difesa da Parmenide, è dimostrata: «che ciò che è è
ingenerato» (ὡς ἀγένητον ἐὸν … ἐστιν). Come abbiamo già segnalato, anche il
contesto appare implicitamente dialettico: viene (monologicamente) mimato il dibattito
tra un sostenitore (che pone gli interrogativi) e un oppositore (di cui si
anticipano le risposte possibili) della tesi di Parmenide. Compito
(retorico-persuasivo) della Dea rispetto al kouros (e al pubblico di
ascoltatori e lettori di Parmenide) è di illustrare i passaggi della (virtuale)
discussione, marcando il nesso tra «forza di 31 Contro questa ricostruzione,
che presume l’introduzione (consapevole) di un modello argomentativo
dilemmatico da parte dell’autore, può valere l’osservazione di Leszl (p. 178)
secondo cui la sequenza di tre argomenti (vv. 7b-9a; vv. 9b-11; vv. 12-13a)
rende improbabile una struttura dilemmatica. 447 convinzione» (πίστιος ἰσχύς),
«giudizio» (κρίσις), necessità (ὥσπερ ἀνάγκη). Appare trasparente nella
confutazione della prima possibilità: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν·
οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò
che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che non è il
riferimento a B2.7-8 e B6.1: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν -
οὔτε φράσαις poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa
fattibile), né indicarlo χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι È necessario il
dire e il pensare che ciò che è è. Questo comporta che quanto leggiamo a
livello frammentario fosse in realtà organizzato in una costruzione
argomentativa complessa, che il discorso della Dea in B8 presuppone (e talvolta
richiama esplicitamente): in particolare il μῦθος di B2. Il modello delle
«uniche vie di ricerca per pensare» ricavate dall’alternativa «è»-«non-è», il
rifiuto del secondo corno sulla scorta della sua inconsistenza (assenza di
contenuto da pensare, dire e indicare) e dunque la piena accettazione della
prima via di indagine («che è»), insieme alla conseguente esclusione di una
effettiva “terza via” (B6.4-5, 8-9; B7.1), consentono a Parmenide di operare di
fatto con i principi di non-contraddizione e del «terzo escluso»32: donde
l’impossibilità di sostenere che «ciò che è» non sia, ovvero 32 Conche, op.
cit., p. 142. 448 ammettere qualcosa che possa comportare che «ciò che è» non
sia33 . D’altra parte la pervasiva presenza della Dea - che pone domande e
risponde (vv. 6b-7a: τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν;), che
sottolinea i passaggi (v. 7b: οὔτ΄... ἐάσω;) e richiama le condizioni (v. 15b: ἡ
δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν...), che complessivamente ribadisce il rigore
del procedimento seguito (v. 16b: κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη...) e ne
conferma i risultati con il proprio commento (l’inciso ai vv. 17b-18a: οὐ γὰρ ἀληθής
ἔστιν ὁδός) – ci ricorda che il contesto narrativo entro cui si inserisce il
ragionamento è comunque quello di una rivelazione. Il fatto che alcune premesse
rimangano implicite si giustifica forse proprio con la forma apodittica della
comunicazione divina: come osserva Mansfeld34, i «segni» sono ricavati -
immediatamente o mediatamente - dalla disgiunzione di B2, le cui premesse sono
garantite dal μῦθος della Dea. Questo potrebbe anche spiegare la scelta
dell’espressione σήματα, il mezzo di comunicazione di una potenza superiore:
Parmenide sceglie di lasciare la «parola» della Dea a fondamento di tutti i
processi (e progressi) del pensiero in B835. Ella sollecita l’autonomia del
discepolo, ma lo invita a registrare e ad aver cura di un μῦθος contrapposto a
quanto comunemente assunto dai «mortali»: il suo ruolo pedagogicamente “eccede”
lo stesso esercizio razionale, assicurandone i principi, così come le altre
divinità evocate nel frammento (Dike, Ananke, Moira) “trascendono”
(garantendolo) τὸ ἐὸν, ciò che, secondo l’istruzione razionale, pretende di
dominare – di fronte al pensiero – senza eccezione36 . 33 McKirahan, op. cit.,
p. 192. 34 Op. cit., pp. 103-4. 35 Mansfeld, op. cit., p. 106. 36 Su questo in
particolare la terza edizione dell’opera di Couloubaritsis, più volte citata,
Mythe et Philosophie chez Parménide, ora con nuova titolazione: La pensée de
Parménide (en appendice traduction du Poème), Éditions Ousia, Bruxelles 2008,
per esempio p. 247. 449 Nascita e crescita Abbiamo sottolineato come la prima
sezione argomentativa si apra con tre interrogativi, che offrono alla Dea
l’opportunità di dimostrare ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν; essi sono così
formulati (vv. 6b-7a): τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale
nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto? È possibile
intenderli come introduzione ai tre successivi argomenti: (i) vv. 7b-9a: ἐκ μὴ ἐόντος
ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò
che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e
pensare che non è; (ii) vv. 9b-10: τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ
πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale necessità lo avrebbe mai spinto,
originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? (iii) vv. 12-13a: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ
< τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né mai
concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. 450 Le
relative risposte negative sarebbero formulate espressamente ai vv. 13b-15a: τοῦ
εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per
questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo]
tiene. Piuttosto che sollevare problemi diversi (ancorché collegati) e rinviare
a distinti argomenti, la progressione delle domande, il ricorso a interrogativi
retorici (vv. 9-10) e la possibile articolazione dilemmatica sembrano evocare
l’incalzare dialettico di un confronto, i cui termini di riferimento – il
sostantivo γέννα («nascita», «generazione») e il participio αὐξηθέν
(«cresciuto», da αὐξάνω, «crescere, incrementare») – puntano direttamente al
problema dell’origine, come esplicitamente rivelato dall’uso di due espressioni
verbali indicative: ἀρξάμενον (da ἄρχω, «iniziare, cominciare, dare origine»,
da cui ἀρχή, «principio») e φῦν (da φύω, «generare, produrre», ma anche
«sorgere, nascere», da cui φύσις, «natura»). In questo senso le tre formule
inquisitive (τίνα γένναν, πῇ αὐξηθέν, πόθεν αὐξηθέν) potrebbero essere assunte
come equivalenti: la seconda e la terza, in particolare, come riferentesi alle
condizioni necessarie alla nascita: essa è un processo (questo spiega il
«come?») che richiede un’origine («donde?»)37. Analogamente gli argomenti
possono essere letti come momenti della stessa progressione negativa contro
l’ipotesi di γένεσις di τὸ ἐόν: le domande ne articolerebbero le implicazioni
per consentire di confutarne più efficacemente le condizioni di possibilità. 37
McKirahan, op. cit., p. 193; Robbiano, p. 112. 451 Nascita e morte oscura
Proprio la connessione tra γέννα e φύσις (di cui «nascita» esprimerebbe uno dei
significati originari) ha fatto supporre38 che Parmenide nel nostro passo
discuta il senso stesso della nozione di φύσις, scomponendola nei suoi
originari termini costitutivi, di fatto attaccando la riduzione dell’Essere a
φύσις. Obiettivi della confutazione sarebbero, in particolare, Esiodo (il quale
aveva posto il problema: chi venne per primo?) e i pensatori ionici (per la
ricerca della ἀρχή) 39. Esemplari in questa prospettiva i frammenti di
Anassimandro: ἀρχὴn ... τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον ... ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι͵
καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν
ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν. principio delle cose che sono è
l’infinito ... è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che
sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione [ovvero letteralmente: le
cose dalle quali invero le cose che sono hanno la loro origine, verso quelle stesse
cose avviene la loro distruzione secondo necessità]; esse, infatti, pagano le
une alle altre pena e riscatto della colpa, secondo l’ordinamento del tempo
(Simplicio; DK 12 B1) ταύτην (sc. φύσιν τινὰ τοῦ ἀ π ε ί ρ ο υ ) ἀίδιον εἶναι
καὶ ἀ γ ή ρ ω che essa [una certa natura dell’infinito] è eterna e non
invecchia (Hippolitus; DK 12 B2) ἀθάνατον . . καὶ ἀνώλεθρον (τ ὸ ἄ π ε ι ρ ο ν
= τὸ θεῖον) immortale .... e indistruttibile ( Aristotele; DK 12 B3). 38 Per
esempio a Ruggiu, op. cit., p. 289. 39 Ivi, p. 290. 452 Il frammento B1 ci è
conservato nella testimonianza di Simplicio, il quale nel suo commento alla
Fisica aristotelica si serve del prezioso contributo di Teofrasto (uno degli
ultimi a disporre probabilmente dell’opera del Milesio) nelle sue Opinioni dei
fisici: la citazione, che appare sostanzialmente accurata40, è inserita in una
presentazione delle opinioni di Anassimandro che è necessario non perdere di
vista per intenderne correttamente le parole: [A.] [...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον
εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν
μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον,
ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ ...
τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα
μεταβολὴν τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον
ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν
γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως. [...]
dichiarò l’apeiron principio e elemento delle cose che sono, adottando per
primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che esso non sia né
acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che sia una certa
altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i mondi in essi: [B1],
parlando di queste cose così in termini piuttosto poetici. È evidente allora
che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non
ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, ma qualcosa di diverso, al
di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione
dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno.
[...] (Simplicio; DK 12 A9). 40 Per l’analisi relativa si rinvia al
fondamentale contributo di Ch. Kahn, Anaximander and the Origins of Greek
Cosmology, Hackett, Indianapolis 19943 , in particolare alla prima parte,
dedicata alla documentazione dossografica. 453 Dal complesso di testimonianza e
citazione possiamo in effetti intravedere nel testo di Anassimandro sei aspetti
su cui si sarebbe concentrata la sua indagine: (i) l’ἄπειρον come «principio
delle cose che sono» (ἀρχή τῶν ὄντων); (ii) «le cose che sono» (τὰ ὄντα), la totalità
degli enti della nostra esperienza41, sottoposti ai processi di generazione
(γένεσις) e corruzione (φθορά); (iii) «le cose dalle quali» (ἐξ ὧν) le altre
(«le cose che sono») hanno origine: nel contesto molto probabile il riferimento
agli «elementi» (στοιχεία) – nel linguaggio peripatetico della testimonianza;
più plausibile intendere i «contrari» (τὰ ἐναντία) da cui esse si fomerebbero
direttamente, come documentato da PseudoPlutarco: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου
γόνιμον θερμοῦ τε καὶ ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι καί
τινα ἐκ τούτου φλογὸς σφαῖραν περιφυῆναι τῶι περὶ τὴν γῆν ἀέρι ὡς τῶι δένδρωι φ
λ ο ι ό ν [Anassimandro] sostiene anche che ciò che, derivato dall’eterno, è
produttivo di caldo e freddo fu separato alla generazione di questo mondo, e da
esso una sfera di fiamma si sviluppò intorno all'aria che circonda la terra,
come la scorza intorno all'albero (DK 12 A10); (iv) «le cose verso cui» (εἰς ταῦτα)
si produce (γίνεσθαι) la corruzione delle altre cose: gli elementi (ovvero i
contrari) cui esse si riducono; (v) il come tale processo si sviluppa: «secondo
necessità» (κατὰ τὸ χρεών), secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν)
42; 41 Su questo punto la nostra interpretazione diverge da quella di Kahn (pp.
180 ss.), che costituisce ancora un riferimento imprescindibile. 454 (vi) il
perché, la causa del processo: il costante e compensativo confronto
conflittuale tra i contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας).
Da un punto di vista filologico, Kahn43 ha convincentemente insistito sulla
probabile genuinità della citazione, rilevando, con riscontri nella letteratura
del periodo, le ascendenze ioniche e arcaiche del lessico del frammento: è per
noi di particolare interesse la conferma – addirittura nella costruzione
sintattica – dell’uso omerico di γένεσις nel senso di «generazione» ma anche di
«origine causale» e - accanto alla plausibile autenticità di φθορά (termine non
attestato prima di Erodoto e Eschilo), come in Parmenide impiegato nella letteratura
ippocratica in contrapposizione a αὔξη («crescita») - la possibilità di τελευτή
(«morte»), presente, con forme verbali derivate (τελευτᾶν), in Senofane (τελευτᾶι
B27) e appunto in Parmenide (τελευτήσουσι B19). Secondo quanto attesta
Ippolito: οὗτος ἀρχὴν ἔφη τῶν ὄντων φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου, ἐξ ἧς γίνεσθαι τοὺς
οὐρανοὺς καὶ τὸν ἐν αὐτοῖς κόσμον. ταύτην δ’ ἀίδιον εἶναι καὶ ἀγήρω [B 2], ἣν
καὶ πάντας περιέχειν τοὺς κόσμους. λέγει δὲ χρόνον ὡς ὡρισμένης τῆς γενέσεως καὶ
τῆς οὐσίας καὶ τῆς φθορᾶς [Anassimandro] disse che principio delle cose che
sono è una certa natura dell'apeiron, da cui si generano i cieli e l'ordine [il
mondo] che è in essi. Essa è eterna e non invecchia, e inoltre circonda tutti i
mondi. parla poi del tempo in quanto la generazione, l'esistenza e la
dissoluzione risultato ben delimitate (DK 12 A11), 42 Secondo S.A. White
("Thales and the Stars", in Presocratic Philosphy cit., p. 4)
l'espressione rifletterebbe le conquiste astronomiche di Talete. Sullo stesso
tema l'autore è tornato più diffusamente in "Milesian Measures: Time,
Space and Matter", in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy cit.,
pp. 89-133). 43 Op. cit., pp. 168 ss.. 455 di quella «certa natura
dell’infinito» (φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου) Anassimandro avrebbe inoltre sostenuto
che (i) è «eterna» (ἀίδιον) e (ii) «non invecchia» (ἀγήρω). Predicati analoghi
a quelli - «senza morte» (ἀθάνατον, immortale) e «senza distruzione» (ἀ ν ώ λ ε
θ ρ ο ν ) - che Aristotele, riferendosi esplicitamente anche ad Anassimandro,
aveva a sua volta citato, nel discutere dell’ἄπειρον come principio: non a caso
marcandone il nesso con «il divino» (τὸ θεῖον). Ora, è possibile che Parmenide,
nel complesso della sezione B8.6-21, tenesse presenti proprio il modello se non
addirittura lo scritto di Anassimandro: le assonanze verbali (ovviamente per
quanto la filologia ha potuto ricostruire del testo del Milesio) appaiono
esplicite, così come l'esigenza di escludere che (i) «da ciò che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος)
qualcosa possa «essere cresciuto» (αὐξηθέν) – ovvero che qualcosa possa
«nascere» (φῦν) «originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον); appare chiaro
soprattutto il disegno di sistematica contestazione di nozioni come γένεσις e
γέννα (cui si deve aggiungere ὄλεθρος) e dell’idea stessa che (ii) «da ciò che
è» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος) possa generarsi «qualcosa accanto [o oltre] a
esso» (τι παρ΄ αὐτό). È una evidenza che la Dea, nella propria confutazione,
insista sulla γένεσις, senza produrre, in effetti, una specifica argomentazione
a supporto dell’incorruttibilità (ἀνώλεθρόν): sebbene poi sottolinei (vv. 14 e
21) di averlo fatto. Dobbiamo concludere44 che Parmenide giudicasse gli
argomenti a sostegno di ἀγένητον sufficienti anche per ἀνώλεθρόν (considerando
l’affermazione dell’indistruttibilità dell’essere implicita nell’esclusione
della sua generabilità45); ovvero che non ritenesse necessario confutare la
corruzione in quanto processo analogo, ancorché opposto, al precedente; o
ancora che la rubricasse tra le espressioni della via negativa.
Significativamente, egli connota ὄλεθρος («morte», distruzione) come ἄπυστος
(«oscura», oggetto di oblio) come aveva fat- 44 Con McKirahan, op. cit., p.
193. 45 Tarán, op. cit., p. 106. 456 to per la via negativa con παναπευθής
(«del tutto privo di informazioni» B2.6)46 . D’altra parte, l’idea di forze
elementari a un tempo «immortali» e tuttavia generate era parte della
tradizionale concezione del mondo omerica ed esiodea (donde il genere
teogonico) 47 . Lo schema della testimonianza teofrastea ribadita da Simplicio
potrebbe confermarne il residuo nella distinzione anassimandrea tra: (i)
«principio» - τὸ ἄπειρον, pensato eterno e stabile, in contrapposizione
all’instabilità degli elementi (στοιχεία); (ii) «contrari» (τὰ ἐναντία: di base
«caldo» e «freddo») che scaturiscono per «separazione» (ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων),
«a causa del movimento eterno» (διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως), e che producono con
il proprio conflitto il processo cosmogonico (ovvero, più correttamente, la
«cosmo-gono-phthoria»48); (iii) «cose» (τὰ ὄντα) sottoposte alla vicissitudine
di generazione e corruzione. Il resoconto della Dea avrebbe dimostrato come,
secondo ragione, «ciò-che-è», oltre a implicare la stessa incorruttibilità
abitualmente attribuita al divino e a quanto a esso immediatamente connesso (i
cieli), escludesse in ogni modo la possibilità stessa di «generazione», nel
duplice senso di derivazione da qualcosa di «altro» dall'essere o di produzione
di altro essere. Aristotele, i Milesi e Parmenide Possiamo trovare un'eco della
discussione arcaica sulla «generazione» nella ricostruzione aristotelica delle
origini della filosofia (Metafisica I, 3): a proposito della posizione della
«maggioranza di coloro che per primi filosofarono» (τῶν δὴ πρώτων
φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι), secondo cui «principi di tutte le co- 46
Mourelatos, op. cit., p. 97. 47 Ibidem. 48 A. Laks, Introduction à la
«philosophie présocratique», PUF, Paris 2006, p. 10. 457 se» (ἀρχὰς πάντων)
sarebbero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας),
Aristotele osserva: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ
εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι
μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ
τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ
σωζομένης ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da
cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un
verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono
essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che né si
generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale natura si conserva
sempre (983 b8- 13). Nello schema interpretativo di Aristotele, dunque, alle
origini della tradizione filosofica ritroveremmo, per dar conto del divenire
degli enti, l’applicazione di un principio: nulla si genera (dal nulla) e nulla
si distrugge (nel nulla). Ciò avrebbe di fatto imposto una forma di «monismo
materialistico»49, di riduzione del molteplice empirico all'unità soggiacente
del principio materiale. Il movimento dal principio e verso il principio, cioè
verso «quella natura che si conserva sempre» (τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ
σωζομένης), richiama quasi letteralmente (il complemento di origine è espresso
al singolare e non al plurale) il frammento anassimandreo. Più avanti,
precisando tale posizione che riconosce «unico il sostrato» (ἓν τὸ ὑποκείμενον),
Aristotele si riferisce implicitamente agli Eleati in questi termini: ἀλλ’ ἔνιοί
γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν
φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν
τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) 49 Secondo l'acuta lettura di Graham, Explaining the
Cosmos…, cit., pp. 48 ss.. 458 ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μεταβολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο
αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν ma alcuni di quelli che sostengono l’unità, come sopraffatti
da una tale ricerca, affermano che l’uno è immobile e così anche l'intera
natura, non solo rispetto alla generazione e alla corruzione (questa è infatti
convinzione antica, su cui tutti concordavano), ma anche rispetto a ogni altro
mutamento: e questo era loro peculiare (984 a29-984 b1). L’inciso nel passo
rende ancora più evidente l’assunto aristotelico secondo cui già i primi
filosofi accettarono la doxa che è impossibile che qualcosa sia generato da ciò
che non è, sviluppando sistemi in coerenza con essa: la peculiarità della
posizione eleatica (a Parmenide si accenna esplicitamente due righe sotto) è
risultato della “estremizzazione” della stessa doxa adottata dagli Ionici50. In
pratica, Aristotele da un lato avalla una sorta di continuità tra la posizione
ionica e quella eleatica - nella condivisione del principio esplicativo di
fondo, dall’altro rileva lo scarto alla base della deviazione eleatica
dall'indagine peri physeōs nella radicalizzazione dell’applicazione di quel
principio, che avrebbe condotto alla negazione di ogni forma di divenire e
dunque fuori dell’ambito della filosofia della natura. Torneremo più sotto sul
modello cosmogonico e cosmologico milesio e sullo schema interpretativo
aristotelico. È tuttavia opportuno anticipare come il complesso delle
testimonianze (di matrice essenzialmente peripatetica) faccia in realtà
intravedere la possibilità di una lettura diversa: dalla natura individuata
come origine (ἀρχή) si sarebbero generate, per effetto in ultima analisi del
moto intrinseco, alcune realtà elementari indipendenti (connesse ai «contrari»:
Pseudo-Plutarco accenna a fuoco, aria e terra), da cui deriverebbe tutto il
resto. Un modello pluralistico, che 50 Sulla ricostruzione aristotelica delle
origini della filosofia sono molto interessanti le osservazioni di Leszl in W.
Leszl, “Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to the
Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy”, in
La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di
M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp. 355-380, in particolare pp.
362 ss.. 459 ancora risentirebbe del politeismo teogonico esiodeo51, e che
avrebbe suscitato dunque almeno due ordini di problemi di
"second'ordine" (metacosmologici) per la riflessione posteriore: (i)
perché una realtà dovrebbe avere una precedenza, un primato (ontologico) sulle
altre? (ii) come è possibile che una natura ne produca altre? Da ciò che non
è... Tornando ora al testo, per mostrare l’insensatezza degli interrogativi
sull’origine di «ciò che è» espressi all’inizio della sezione: τίνα γὰρ γένναν
διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso?
Come e donde cresciuto?, la Dea, come abbiamo già osservato, procede a
considerare una prima eventualità: che ἐόν sia scaturito (nato e cresciuto) ἐκ
μὴ ἐόντος. Tale possibilità è scartata sulla base di due successive
argomentazioni: la prima si richiama alla linea di pensiero sviluppata nei
frammenti precedenti: ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ
νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò 51 Su questo schema
interpretativo si veda in particolare Graham, Explaining the Cosmos…, cit.,
capp. 3 e 4. Il tema era già stato affrontato dall'autore in saggi precedenti:
per esempio in "Heraclitus' criticism of Ionian philosophy", «Oxford
Studies in Ancient Philosophy», 1997, 15, pp. 1-50. A. Nehamas
("Parmenides Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy,
cit., pp. 45-64), con qualche distinguo, accetta lo schema proposto da Graham.
Elabora un modello analogo S.A. White, “Milesian Measures: Time, Space, and
Matter”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, cit., pp. 112 ss..
460 che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che «non è».
(vv. 7b-9a). Abbiamo sopra rilevato in questo caso la ripresa delle tesi di
B2.7-8 e B6.1, e dunque di quanto immediatamente rivelato dalla Dea: (i)
esistono solo «due vie di ricerca per pensare» (B2.2); (ii) «una: è» (B2.3),
«l’altra: non è» (B2.5); (iii) la seconda è di fatto impercorribile, in quanto
παναπευθής ἀταρπός («sentiero del tutto privo di informazioni» B2.6); (iv) è
allora necessario che ciò che è sia (cρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι
B6.1). Il primo argomento dipende direttamente dall’autorevolezza (e
dall’autorità) del μῦθος divino, per escludere, con le sue logiche implicazioni
(la formula χρή, con le sue sfumature di cogenza, correttezza e opportunità),
un percorso di ricerca che coinvolga la via negativa, cioè comporti
concettualmente – a qualunque titolo – il ricorso a «ciò che non è». A questa
contestazione fa seguito un secondo, più discusso, argomento (vv. 9b-10): τί δ΄
ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale
bisogno lo avrebbe mai spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o
prima? Come abbiamo segnalato nel commento, il testo greco lascia adito a due
possibili interpretazioni. (i) Perché mai, in un momento qualsiasi, «ciò che è»
dovrebbe generarsi? Nel «nulla», in effetti, manca una ragione per cui esso
debba sorgere. (ii) Per quale circostanza – ammettendo che sia generato - «ciò
che è» dovrebbe generarsi in un momento dato piuttosto che in un altro («più
tardi piuttosto che prima»)? In realtà - «originando dal nulla» - non c’è
ragione per cui un momento debba essere privilegiato rispetto a un altro: non
vi è affatto ragione, dunque, per la sua generazione. In entrambi i casi ci
troviamo in presenza dell’applicazione del principio di ragione, per cui un
evento determinato è necessario 461 che abbia la propria «ragione», cioè la
propria causa, in una situazione che possa produrlo (e quindi anche spiegarlo).
La più antica, esplicita formulazione del principio è in Leucippo (dalle fonti
ellenistiche supposto discepolo di Zenone e dunque considerato vicino alla
concettualità eleatica): οὐδὲν χρῆμα μάτην γίνεται, ἀλλὰ πάντα ἐκ λόγου τε καὶ ὑπ’
ἀνάγκης nulla accade invano, ma tutto da ragione e necessità (DK 67 B2). In
questo senso, la risposta di Parmenide agli interrogativi sull’origine di «ciò
che è» è netta: nel «nulla» non è possibile rintracciare tale causa; non c’è
ragione per cui «ciò che è» debba nascere (φῦν) dal nulla. Ma nella seconda
interpretazione, al comune terreno rappresentato dal principio di ragione si
aggiungerebbe un’ulteriore implicazione: il ricorso consapevole
all'indifferenza rispetto al tempo52, per cui nulla si verifica senza che vi
sia una ragione sufficiente a spiegare perché è così e non altrimenti. La
nascita in un momento piuttosto che in un altro non è casuale, ma conseguenza
necessaria di una causa determinata53: (i) affinché «ciò che è» si possa
generare, è necessario si generi in un certo momento; (ii) ma, derivando dal
nulla, non c’è ragione per cui si generi in un momento piuttosto che in un
altro; (iii) non essendoci ragione per cui esso si generi in un qualche
momento, esso non potrà mai generarsi. Insomma: deve esserci qualcosa che
faccia la differenza: il non-essere non può fare differenza. È qui possibile
ancora un’eco di Anassimandro, nel cui scritto sarebbe stata presente una
particolare applicazione cosmologica del principio, per giustificare
l’immobilità e la centralità della Terra all’interno della sfera celeste: 52
Leszl, op. cit., p. 183. 53 Conche, op, cit., p. 140. 462 τὴν δὲ γῆν εἶναι
μετέωρον ὑπὸ μηδενὸς κρατουμένην, μένουσαν δὲ διὰ τὴν ὁμοίαν πάντων ἀπόστασιν
La Terra è sospesa, da nulla dominata: rimane nel suo luogo a causa della
equidistanza da tutto [da tutti i punti della circonferenza celeste?]
(Ippolito; DK 12 A11) μέσην τε τὴν γῆν κεῖσθαι κέντρου τάξιν ἐπέχουσαν la terra
giace in mezzo, occupando la posizione centrale (Diogene Laerzio; DK 12 A1) εἰσὶ
δέ τινες οἳ διὰ τὴν ὁμοιότητά φασιν αὐτὴν μένειν, ὥσπερ τῶν ἀρχαίων Ἀναξίμανδρος·
μᾶλλον μὲν γὰρ οὐθὲν ἄνω ἢ κάτω ἢ εἰς τὰ πλάγια φέρεσθαι προσήκει τὸ ἐπὶ τοῦ
μέσου ἱδρυμένον καὶ ὁμοίως πρὸς τὰ ἔσχατα ἔχον· ἅμα δ’ ἀδύνατον εἰς τὸ ἐναντίον
ποιεῖσθαι τὴν κίνησιν· ὥστ’ ἐξ ἀνάγκης μένειν vi sono alcuni, come Anassimandro
tra gli antichi, che sostengono che essa [la terra] rimanga in posizione a
causa della equidistanza: una cosa stabilita al centro, infatti, e equidistante
rispetto agli estremi, non conviene si porti verso l’alto piuttosto che verso
il basso o orizzontalmente; ma poiché è impossibile muoversi contemporaneamente
in direzioni opposte, necessariamente rimane in posizione (Aristotele, De Caelo
295 b11-16; DK 12 A26). Nel caso del Milesio l’indifferenza (e quindi l’assenza
di “ragione” per il movimento in una direzione o nell’altra) è espressa in
relazione ai limiti celesti; Parmenide l’avrebbe applicata al tempo, nel senso
di negare la possibilità che nel nulla si dia ragione per fare differenza, ai
fini di un’ipotetica generazione dell’essere, tra un momento e l’altro. Appare
tuttavia più plausibile che il filosofo intendesse semplicemente marcare la
mancanza di una ragione per cui, «originando dal nulla», «ciò che è» si possa
formare in un qualsiasi momento: nella completa negatività del non-essere non
può tro- 463 varsi alcuna necessità che possa generarlo, nulla che possa
fungere da ragione (causa) per la sua generazione54 . Al termine del secondo
argomento, al v.11, abbiamo un rilievo: οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί
Così è necessario sia per intero o non sia per nulla. Insistendo sul valore
avverbiale di οὕτως, qui non ritroveremmo la conclusione del ragionamento ma
solo una sottolineatura importante: «ciò che è» deve essere integralmente
ingenerato ovvero assolutamente non essere. In pratica la Dea ribadirebbe
l’alternativa fondamentale della propria rivelazione, escludendo che tra le due
vie possa darsi una via intermedia e dunque un commercio tra essere e
non-essere. Come indicato in nota al testo, McKirahan55 ha riconosciuto al
verso una funzione prolettica: segnalerebbe che quanto stabilito è rilevante
per la successiva discussione. In effetti, πάμπαν πελέναι appare plausibile
parafrasi di «tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον), «tutto pieno d’essere» (πᾶν ἔμπλεόν
ἐόντος) - discussi a partire dal v. 22 – piuttosto che di «ingenerato» o
«ingenerato e incorruttibile». Se invece, come per lo più si riscontra tra gli
interpreti, si attribuisce a οὕτως valore conclusivo («perciò»), il verso risulterebbe
comunque anticipare la krisis dei vv. 15-16 («Il giudizio in proposito dipende
da ciò: "è" o "non è"»), ribadendo l’assoluta
incompatibilità di essere e non-essere e dunque negando un passaggio dal
non-essere all’essere (e viceversa): nel contesto questo significa bandire
definitivamente la possibilità di generazione «dal nulla», ovvero che ci possa
essere una diversità dell’essere nel tempo56. Leszl, in particolare, convinto
che l’uso degli avverbi sottolinei nei vv. 9-10 la preoccupazione parmenidea
rispetto alla generazione nel tempo, interpreta: «in ogni momento l’essere c’è
tutto o non c’è per nulla»57. In questo senso la conclusione – e- 54 Leszl, op.
cit., p. 185. 55 Op. cit., p. 194. 56 Leszl, op. cit., pp. 185-186. 57 Ivi, p.
185. 464 scludendo il variare nel tempo di «ciò che è» – effettivamente diventa
anche funzionale alla successiva discussione della sua omogeneità. Né mai
dall’essere... Accettando l’emendazione di Karsten, i vv. 12-13a risultano: οὐδὲ
ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né
mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. In
pratica, dopo aver eliminato la possibilità di una derivazione di «ciò che è»
dal non-essere, la Dea si sbarazza rapidamente anche della possibilità
alternativa: che «ciò che è» si generi da altro essere. In che senso, infatti,
«qualcosa» (τι) potrebbe «generarsi» (γίγνεσθαί) «dall’essere» (ἐκ < τοῦ ἐ
> όντος)? Parmenide assume che la nozione di γένεσις ἐκ < τοῦ ἐ >
όντος introduca implicitamente la prospettiva di qualcosa di diverso
dall’essere, cioè che «accanto [o oltre] a esso» (παρ΄ αὐτό) possa prodursi
altro. È plausibile che anche qui egli si confronti direttamente con la
riflessione sull’ἀρχή: nella misura in cui si riconosca l’ἀρχή come «ciò che è»
e si tenga fermo il principio di esclusione del nonessere, che cosa potrebbe
generarsi «accanto [oltre] a esso»? In pratica ammettere la generazione
dall’essere comporterebbe riconoscere che: εἶναι μὴ ἐόντα siano cose che non
sono (B7.1). La Dea in proposito può ricorrere a una formula di divieto diversa
da quella “personale” utilizzata in B8.7 (ἐάσω ... οὐδὲ «non permetterò
che...»): in questo caso la proibizione risulta più astratta, vincolata a una
considerazione razionale (οὐδὲ ποτ΄ ... 465 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς «Né mai
concederà forza di convinzione [certezza]», B8.12), alla linea di pensiero
espressa nel testo precedente. Una versione alternativa dell’ultimo argomento è
quella tradizionalmente accolta sulla scorta dell’autorevolezza del codice di
Simplicio: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό
Né mai dal non essere concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto
a esso. (B8.12-3) Si tratterebbe di un ulteriore sostegno (il terzo) alla
negazione della possibilità di generazione dal nulla, che presenta tuttavia una
difficoltà: il riferimento, nel contesto, dell’espressione παρ΄ αὐτό. Coxon58,
per esempio, traduce: Nor will the strength of conviction ever impel anything
to come to be alongside it from Not-being, riconoscendo a παρ΄ αὐτό valore
locativo e riferendolo all’essere. In modo analogo intendono il passo, tra gli
altri, Mansfeld59, per sottolineare come ogni origine dal nulla sia impossibile
(il nulla è l’assoluto nihil), e Cerri60, che vi intravede addirittura la
dimostrazione che l’Essere è οὖλον μουνογενές e ἕν, συνεχές. Altri, come
Leszl61 esplicitamente, riferiscono αὐτό a μὴ ἐόντος, e colgono una (nuova)
giustificazione del principio di ragione (ex nihilo nihil fit): il non-essere,
per la sua negatività, non può essere la causa di qualcosa. Conche62 segnala,
in questo caso, come risulti incomprensibile attribuire valore comparativo ad αὐτό
(«autre chose que lui-mêmê»), dal momento che così la Dea implicherebbe
l’esistenza del Non-essere. 58 Op. cit., p. 197. 59 Op. cit., p. 95. 60 Op.
cit., p. 224. 61 Op. cit., p. 187. 62 Op. cit., p. 143. 466 Alcuni 63 di coloro
che mantengono la lezione dei codici di Simplicio - e quindi non riconoscono
struttura dilemmatica all’argomentazione parmenidea, rilevandovi piuttosto tre
successive, insistite contestazioni contro la possibilità della genesi e
dell’accrescimento dal non-essere - colgono nel passo un riferimento al
concetto pitagorico di «vuoto» (= non-essere), così attestato in Aristotele: εἶναι
δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου
πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ
χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς·
τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermarono ci fosse
il vuoto, e che esso penetrasse, dall’infinito soffio, nel cielo [universo]
come se [questo] respirasse, e che fosse il vuoto che delimita le realtà, quasi
essendo il vuoto qualcosa di separato delle cose successive e di distinzione;
affermarono anche che questo avvenga dapprima nei numeri: il vuoto, infatti,
distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b) οἱ μὲν οὖν
Πυθαγόρειοι πότερον οὐ ποιοῦσιν ἢ ποιοῦσι γένεσιν οὐδὲν δεῖ διστάζειν· φανερῶς
γὰρ λέγουσιν ὡς τοῦ ἑνὸς συσταθέντος, εἴτ’ ἐξ ἐπιπέδων εἴτ’ ἐκ χροιᾶς εἴτ’ ἐκ
σπέρματος εἴτ’ ἐξ ὧν ἀποροῦσιν εἰπεῖν, εὐθὺς τὸ ἔγγιστα τοῦ ἀπείρου ὅτι εἵλκετο
καὶ ἐπεραίνετο ὑπὸ τοῦ πέρατος Non si deve allora essere per nulla esitanti
circa la questione se i Pitagorici non assumano o assumano la generazione:
essi, infatti, affermano chiaramente che, una volta costituito l’uno – sia da
superfici, sia da un piano, sia da un seme, sia da cose che sono in difficoltà
a indicare – subito la parte prossima dell’infinito fu attirata e delimitata
dal limite (Aristotele, Metafisica XIV, 3 1091 a13-18). 63 Cornford, Raven,
Untersteiner, Mondolfo, per esempio. 467 Mondolfo64, in particolare, nel
complesso della sezione B8.5- 21 non coglie semplicemente la negazione del
divenire come processo di generazione e corruzione, in antitesi ai modelli
cosmogonico e teogonico, ma l’attacco a una concezione determinata, di cui lo
studioso ritiene si possano tracciare i contorni definiti: una dottrina che
affermava la molteplicità in connessione con la discontinuità; che introduceva
la generazione dell’essere, senza precisarne processo e necessità, e,
soprattutto, suscitava il problema dell’inizio, suscettibile di accrescimento
in relazione al nonessere. Come risulta appunto dall'attestazione aristotelica,
si sarebbe trattato della cosmologia pitagorica, l’evocazione della quale
spiegherebbe convincentemente anche la sequenza di interrogativi ai vv. 6-7 e
in genere la scelta dei σήματα dell’essere da parte di Parmenide. Pur non escludendo
le due possibilità - (i) che la versione dei codici di Simplicio sia quella
corretta e (ii) che l’allusione sia effettivamente alla “respirazione cosmica”,
che avrebbe lasciato anche altre tracce antiche (in Senofane e Pindaro, secondo
Mondolfo65) – l’impressione è che in realtà l’insistenza del poeta sia
essenzialmente su γενέσθαι e ὄλλυσθαι e che l’eventuale riferimento dottrinale
sia da individuare all’interno di una discussione più ampia, in cui per
Parmenide era fondamentale attaccare le posizioni che in qualche misura ancora
implicavano γένεσις e ὄλεθρος. In questa prospettiva, l’emendazione che abbiamo
accolto e la connessa ricostruzione argomentativa (in cui οὐδέ al v. 12
richiama οὔτε al v. 7) appaiono più convincenti. Sarebbe forse praticabile
un’altra strada66 per l’interpretazione di ἐκ μὴ ἐόντος, tuttavia più complessa
e meno plausibile: ammettere che l’espressione abbia un senso, nella lettura
parmenidea, proprio in relazione alle nozioni di περιέχον, ἄπειρον e ἀρχή,
quasi 64 E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo
storico, Parte Prima, vol. II: Ionici e Pitagorici, a cura di R. Mondolfo, La
Nuova Italia, Firenze 1967, pp. 652-3. 65 Ivi, p. 653. 66 Su questo Conche, op.
cit., pp. 143-4. 468 che alle concezioni dei pensatori milesi e pitagorici
fosse connaturato il «non-essere». Aristotele è ancora prezioso: διό, καθάπερ
λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα
καὶ πάντα κυβερνᾶν per questo diciamo che di esso [riferimento all’ἄπειρον] non
c’è principio, ma che esso stesso sembra essere principio di tutte le cose e
tutte comprendere [abbracciare] e tutte governare (Fisica IV, 4 203 b10-12; DK
12 A15). Marcando l’origine degli enti nel loro complesso da un ἄπειρον-ἀρχή
che è anche περιέχον (avvolge «tutte le cose»), Anassimandro – così come i
pensatori che ne ereditarono a vario titolo lo schema cosmogonico - ne avrebbe
fatto un “non-ente”, qualcosa di diverso dagli enti di cui sarebbe stato
principio. È chiaro, comunque, che in questa accezione l’ἄπειρον-ἀρχή
difficilmente avrebbe potuto essere inteso propriamente come nulla e appare
dubbia la possibilità che in questo senso Parmenide vi si possa rivolgere
polemicamente. Giustizia e le sue catene A questo punto del suo ragionamento -
una volta esclusa la possibilità di γένεσις sia dal non-essere sia dall’essere
e ribadito che «ciò che non è» non è dicibile e pensabile - la Dea può
concludere provvisoriamente (vv. 13-15a): τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι
ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse
Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 469 L’interesse del rilievo è
legato al fatto che Parmenide sceglie, nel contesto della narrazione avviata
con il proemio, all’interno del discorso che la Dea rivolge al proprio
interlocutore, e in particolare di un passaggio argomentativo, di riconoscere a
Dike – e poi a Ananke e Moira - un ruolo di garanzia: esso si presta a una
lettura simbolica, quasi che la citazione della figura (e della funzione)
mitica fosse semplice «metafora»67. Così intendono molti interpreti, per i
quali i tre numi tradizionali, proprio per il loro intrinseco riferimento al
rispetto dei limiti, sottolineerebbero la «ineluttabile legge dell’Essere» 68 :
in altre parole, come l’Essere debba sempre essere identico a se stesso. La
questione è, in realtà, più complessa, sia dal punto di vista della costruzione
del poema, sia da quello delle specifiche implicazioni: (i) Δίκη πολύποινος è
elemento strutturale della narrazione: le sono espressamente attribuite una
collocazione liminare e, in relazione a essa, una (tradizionale) mansione di
sorveglianza; (ii) essa, tuttavia, sin dal proemio, è anche parte dell’azione:
persuasa dall’intervento delle Eliadi, Giustizia vien meno al proprio compito
di tutela del mondo infero e dei confini, consentendo l’accesso a un mortale;
(iii) Θέμις e Δίκη sono espressamente evocate dall'anonima divinità all’esordio
del suo discorso: il viaggio del poeta si compie non sotto l’impulso di Μοῖρα
κακὴ, ma sotto l’egida della Giustizia. Le figure del mito (Dike, Ananke,
Moira), insieme allo schema del «cammino» (ὁδός) - ovvero «pista» (πάτος) o
«via» (κέλευθος), costituiscono la struttura portante nell'architettura
dell’opera69, elementi di continuità nella sua articolazione, le sue condizioni
“trascendentali”: il contesto entro cui le specifiche trattazioni su «ciò che
è» e sulla Doxa assumono il proprio senso e statuto. Certamente le tre figure
svolgono la propria mansione di 67 Ivi, p. 146. 68 Tarán, op. cit., p. 117. 69
Un aspetto, questo, registrato da Couloubaritsis nelle prime edizioni della sua
opera e accentuato nell’ultima edizione, La pensée de Parménide, cit.. 470
garanzia “trascendendo” «ciò che è» (ἐόν), ovvero danno l’impressione, nelle
parole della Dea, di sovrintendere (problematicamente) all’Essere
dall’esterno70, a dispetto della sua assolutezza. In questa prospettiva, Dike,
in particolare, assume nel poema una posizione peculiare: essa protegge τὸ ἐόν
da γένεσις e ὄλεθρος avvolgendolo e trattenendolo in catene, in altri termini
preservandone il perfetto equilibrio attraverso l’esclusione della coppia
oppositiva nascita-morte71. Se nel proemio il suo ruolo era stato, secondo
costume, quello di consegna al portale discriminante del mondo infero, di
salvaguardia dei confini tra mondo della vita e mondo della morte, nel nostro
passo tale connotazione si modifica nel senso che la garanzia passa per la
discriminazione tra essere e non-essere, con conseguente immobilizzazione e
omogeneizzazione dell’essere stesso: oltre l’essere non si dà un mondo altro.
Possiamo solo registrare alcune espressioni indicative: οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι
ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει né nascere né morire concesse Giustizia,
sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (B8.13-15a) κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν
δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del laccio [lo] tiene (B8.30-31)
Μοῖρ΄ ἐπέδησεν Moira [lo] ha costretto... (B8.37). La Robbiano ha accostato, su
questo punto, la posizione di Parmenide a quella di Anassimandro, per cui, come
sappiamo, l’ἄπειρον «circonda e governa» ogni cosa: Parmenide, reagendo 70
Robbiano, op. cit., pp. 166-7. 71 Ivi, pp. 174-5. 471 forse a questa soluzione
e all’idea pitagorica di confine cosmico, avrebbe introdotto il riferimento a un
limite estremo della realtà, sorvegliato da figure di garanzia. A dispetto
delle differenze, entrambi gli autori avrebbero inteso marcare immutabilità ed
equilibrio dell’universo, che nulla può giungere a turbare dall’esterno. Mentre
l’ἄπειρον, tuttavia, appare come ipostatizzazione della causa dell’equilibrio,
Dike, Ananke e Moira, pur sovrintendendo all’Essere dall’esterno (come l’ἄπειρον),
non hanno consistenza ontologica, ma solo l’ufficio di orientare, guidare la
comprensione dell’audience cui il poema si rivolgeva72 . In realtà, il recupero
del mito nel contesto, con la sua “eccedenza” rispetto al dato argomentativo, e
la conseguente (apparente) «messa in questione» dell’assolutezza dell’essere,
potrebbe segnalare, come vuole Couloubaritsis73, la difficoltà di Parmenide a
giustificare argomentativamente uno stato limite o ultimo: nell’argomentazione
sviluppata, infatti, nulla autorizzerebbe a ricavare non-miticamente la
limitazione dell’essere. Il mito, attraverso l’uso che ne fa la dea, supplirebbe
a questa mancanza, rivelando che il logos non ha autonomia assoluta: utilizzate
per significare l’essere come se lo trascendessero, le figure delle tre
divinità tradizionali acquisirebbero così uno statuto trascendentale e
sarebbero il segno di un'integrazione, all’interno del poema, tra discorso
significante e discorso mitico74 . Giudizio ed essere D’altra parte, che la
tutela di Giustizia sia essenzialmente logica si mostra nei vv. 15b-18: ἡ δὲ
κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής 72 Ivi, pp. 166-8. 73 Mythe et
philosophie…, cit., p. 217. 74 Ivi, p. 250. 472 ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν
καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è
dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e]
inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia
reale. Il linguaggio e le immagini insistite - «sciogliendo le catene»
(χαλάσασα πέδῃσιν v. 14), «nei vincoli di grandi catene» (μεγάλων ἐν πείρασι
δεσμῶν v. 26), «nelle catene del vincolo [lo] tiene» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει
v. 31) – puntano, da un lato, direttamente alla pratica razionale della
decisione giudiziaria, dall’altro alla conseguente restrizione di libertà: il
vincolo che Giustizia impone non è arbitrario; la condizione che essa prescrive
è logicamente incontrovertibile, donde la formula «secondo necessità» (ὥσπερ ἀνάγκη).
Come abbiamo sopra ricordato, il passaggio evoca sinteticamente le ragioni della
scelta dell’ἔστιν: (i) ripresa dell’alternativa tra le formule contraddittorie ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν; (ii) esclusione della via οὐκ ἔστιν: in quanto «non genuina» (οὐ ἀληθής),
essa è anche ἀνόητον ἀνώνυμον; (iii) conseguente concentrazione su ἔστιν: «che
l’altra esista e sia reale» (τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι). Sulla
scorta di premesse individuabili negli esordi della sua comunicazione (B2), e
di cui era stato opportunamente segnalato il rilievo, la Dea può ribadire
l’impraticabilità del non-essere e delle nozioni che in qualche misura lo
implichino, come appunto γενέσθαι e ὄλλυσθαι. Con una precisazione
interessante: delineata come alternativa tra formule contraddittorie, ἔστιν ἢ οὐκ
ἔστιν, in verità la krisis di B2 è tale solo apparentemente, dal momento che -
la Dea deve riconoscere - la via οὐκ ἔστιν non è «genuina», è via solo in
teoria, in quanto costruita sulla contraddizione con l’unica realtà: ἔστιν. È
da escludere, dunque, che la stessa divinità possa in qualche misura
servirsene, per esempio nella seconda sezione del poema, come qualche
interprete vorrebbe. 473 Essere e tempo I versi che seguono (vv. 19-21) e
concludono la prima sezione argomentativa del frammento sono ancora di
controversa interpretazione: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε
γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος ὄλεθρος E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come
potrebbe essere nato? Se nacque, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere in
futuro. Così è estinta nascita e morte oscura. Che la dimensione temporale sia
centrale è chiaro nell’uso dei tempi verbali e degli avverbi, così come è
esplicita la connessione tra temporalità e γένεσις-ὄλεθρος. Il testo e la sua
resa presentano difficoltà, di cui abbiamo dato notizia in nota. A un primo
livello di lettura, appare evidente come Parmenide giochi sulla
contrapposizione tra forme del verbo «essere» (εἶναι: ἔστι, ἔσεσθαι, τὸ ἐόν, ma
anche πέλοι) e forme di «venire a essere» (γίγνεσθαι: γένοιτο, ἔγεντo,
γένεσις). La convinzione da veicolare con tale costruzione verbale è che se
l’essere (τὸ ἐόν) è coinvolto in processi («nacque» ovvero «dovrà essere [in
seguito]»), e dunque diviene, esso propriamente «non è» (ovvero non è sempre
allo stesso modo75), così contraddicendo l’immediata evidenza della «via: è» -
che comportava l’altrettanto immediata ammissione: «non è possibile non essere»
(ἔστι καὶ οὐκ ἔστι μὴ εἶναι). Ciò che è propriamente (τὸ ἐόν) è sempre uguale a
se stesso, come suggerisce l’uso (durativo) di ἔστι; ciò che diviene (γένεσις
può valere genericamente come «venire a essere»), come tale, è instabile, è e
non-è (non è più o non è ancora). Già a livello verbale, dunque, Parmenide
intende rilevare la reciproca incompatibilità delle condizioni designate dai
due verbi. 75 Leszl, op. cit., p. 190. 474 Se τὸ ἐόν è venuto a essere, è ora
diverso da come fu; se verrà a essere in seguito, ora è diverso da ciò che
sarà76: il mutamento che implichiamo nelle espressioni temporali è
inconciliabile con la natura dell’Essere (ingenerato e immortale).
Interpretando, potremmo affermare, con Conche77, che quel che vale per la
temporalità degli enti della nostra esperienza irriflessa non vale per l’essere
di cui la Dea traccia i contorni: l’essere è «ora», nel senso che è sempre
uguale a se stesso. In alternativa, in vece della polarità passato-presente
ovvero «venire a essere»-«essere» (εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι), è possibile
valorizzare l'implicazione tra «venire a essere» e «non-essere»: ogni venire
all'esistenza, in effetti, presuppone sempre - indipendentemente dalla
prospettiva temporale (passato remoto o futuro prossimo: εἰ ἔγεντo - εἴ ποτε
μέλλει ἔσεσθαι) - una non-esistenza (οὐκ ἔστι). In ogni caso, appare a questo
punto evidente il nesso dell’argomento nel suo complesso con i vv. 5-6: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές né un tempo era né [un
tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Negare il passaggio da
non-essere a essere e viceversa – come nei vv. 6-18 – ovvero l’eventualità di
un mutamento dell’essere nel tempo, significa riconoscere che «in ogni momento
l’essere c’è tutto o non c’è per nulla»78 (ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί
v. 11), e dunque collegare il ragionamento che porta a escludere γένεσις e ὄλεθρος
al rilievo dell’identità di ciò che è con se stesso e alla problematica
caratterizzazione di ἐόν rispetto alla temporalità che ritroviamo nei vv. 5-6.
Interessante la ripresa del nesso in Melisso: 76 Tarán, op. cit., p. 105. 77
Op. cit., p. 148 78 Leszl, op. cit., p. 186. 475 ἀεὶ ἦν ὅ τι ἦν καὶ ἀεὶ ἔσται.
εἰ γὰρ ἐγένετο, ἀναγκαῖόν ἐστι πρὶν γενέσθαι εἶναι μηδέν· εἰ τοίνυν μηδὲν ἦν, οὐδαμὰ
ἂν γένοιτο οὐδὲν ἐκ μηδενός Sempre era ciò che era [qualsiasi cosa era] e
sempre sarà. Se, infatti, fosse nato, è necessario che, prima di nascere, non
fosse nulla; ora, se non era nulla, in nessun modo nulla potrebbe nascere dal
nulla (DK 30 B1) […] εἰ γὰρ ἑτεροιοῦται, ἀνάγκη τὸ ἐὸν μὴ ὁμοῖον εἶναι, ἀλλὰ ἀπόλλυσθαι
τὸ πρόσθεν ἐόν, τὸ δὲ οὐκ ἐὸν γίνεσθαι. εἰ τοίνυν τριχὶ μιῆι μυρίοις ἔτεσιν ἑτεροῖον
γίνοιτο, ὀλεῖται πᾶν ἐν τῶι παντὶ χρόνωι [...] se diventa altro, infatti, è
necessario che l’essere non sia uguale, ma che si distrugga ciò che era prima e
si generi ciò che non è. Se allora si alterasse di un solo capello in diecimila
anni, si distruggerebbe tutto quanto per tutto il tempo (DK 30 B7, §2) La
stessa preoccupazione, di marcare l’indifferenza dell’essere rispetto al tempo,
negare, in altre parole, la possibilità che il tempo possa comportare una
differenza per l’essere, è espressa chiaramente in termini più lineari e
immediati, sottolineando soprattutto la durevole identità temporale
dell’essere. In questo senso, la sintetica connotazione melissiana di τὸ ἐὸν -
«è eterno, infinito, uno, tutto uguale» (ἀίδιόν ἐστι καὶ ἄπειρον καὶ ἓν καὶ ὅμοιον
πᾶν, DK 30 B7, §1) - interpreterebbe la formula parmenidea «è ora tutto
insieme, uno, continuo» (νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές), in cui è necessario
considerare l’avverbio unitamente agli attributi, per intendere correttamente
il primo emistichio del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται. Ciò che la Dea sembra
negare è la possibilità di pensare coerentemente: τὸ ἐόν «[in] un tempo
[passato] era» ovvero «[in] un tempo [a venire] sarà». Accettando la nostra
traduzione, espressioni verbali come «era» e «sarà» sono rifiutate in quanto
modificate dall’avverbio ποτε («un tempo, una volta»). Il verso manifesterebbe
allora il proprio senso nella contrapposizione tra tempi 476 verbali e forme
avverbiali temporali: da un lato «né un tempo era» (οὐδέ ποτ΄ ἦν) e «né [un
tempo] sarà» (οὐδ΄ ἔσται), dall’altro «è ora» (νῦν ἔστιν). Le due proposizioni
coordinate sono a loro volta subordinate da un nesso causale - «poiché» (ἐπεὶ)
– alla terza («è ora tutto insieme, uno, continuo»): in altre parole è il
rilievo della completezza, omogeneità e integrità (ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές) di
«ciò che è» a escludere qualsiasi forma di discontinuità e dunque di autentica
discriminazione temporale. Questa costruzione si rifletterebbe anche
nell’argomento complessivo dei vv. 6-21: la Dea dapprima si concentra
sull’eventualità che «ciò che è» sia divenuto (nato e cresciuto), quindi (v.
19) considera interrogativamente che τὸ ἐόν possa esistere in futuro: πῶς δ΄ ἂν
ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ
ποτε μέλλει ἔσεσθαι E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come
potrebbe essere nato? Se è nato, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere
in futuro. Se riscontriamo i vv. 5 e 20: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν
ὁμοῦ πᾶν εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι possiamo notare
come la Dea insista a marcare l'incompatibilità tra esistenza passata e\o
esistenza futura (che implicano οὐκ ἔστι) e quella condizione presente (νῦν)
che si esprime nell’«è»79 e ne riflette il valore «stativo»80 . 79 Ma come
insegna Palmer, ἔστιν è forma riassuntiva di ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι;
o, come preferiamo, ἔστιν esprime immediatamente l’evidenza, di cui οὐκ ἔστι μὴ
εἶναι è contestuale inferenza. 80 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit.,
p. 94. Sulla questione lo studioso italiano richiama i numerosi lavori di Kahn,
ora riuniti in Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009. 477 Isolando (e
assolutizzando) le espressioni verbali (ἦν, ἔσται, ἔστιν, ἔγεντο, μέλλει ἔσεσθαι),
si è avvertito in queste battute il delinearsi di un punto di vista ardito:
l’idea dell’eternità come atemporalità, totale estraneità dell’essere al tempo.
Valorizzando, invece, le funzioni avverbiali (ποτε, νῦν), è forse più prudente
limitarsi a segnalare come – pur sempre all’interno di una prospettiva
temporale (che privilegia il presente) – la Dea rifiuti di riconoscere, in
relazione a τὸ ἐόν, la validità (sensatezza) del riferimento alle dimensioni
temporali del passato e del futuro. L’impressione che Parmenide insista sul
presente per sottolineare l'identità dell’essere è rafforzata dalla
reiterazione di formule di persistenza (e stabilità) già ricordate: τοῦ εἵνεκεν
οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· né nascere
né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13-15a)
κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del
laccio [lo] tiene (vv. 30-31), cui possiamo aggiungere quella che è forse la
formulazione più pregnante: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως
ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso
riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30), dove la costruzione
verbale (μένον, κεῖται, μένει) e avverbiale (ἔμπεδον ma anche le espressioni ἐν
ταὐτῷ, καθ΄ ἑαυτό) segnala nuovamente la preoccupazione di fondo dell’autore
circa identità 478 e immutabilità di «ciò che è», e sua estraneità a processi
che possano contraddirle. Al v. 21 si conclude il lungo argomento, con
l’esplicita esclusione dei due indicatori fondamentali del divenire (e, per
quel che abbiamo potuto notare, della temporalità): τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος ὄλεθρος Così è estinta nascita e morte oscura. In entrambi i casi,
l’accettazione di un «venire a essere» ovvero di una «distruzione» dell’essere
comporterebbe l’implicita ammissione di ciò che non è, il riferimento a un
impraticabile passaggio dal o verso il nulla. Comunque sia tradotto il verso
(si vedano le annotazioni al testo), sulla scorta delle argomentazioni
precedenti, Parmenide chiude la propria esposizione relativamente a un punto
essenziale nel quadro della cultura contemporanea: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν
ἐστιν che senza nascita è ciò che è e senza morte (v. 3). L’estinzione dei
processi veicolati dai termini γένεσις e ὄλεθρος passa attraverso (i) la
decisione tra «è» e «non-è», (ii) l’inaccettabilità della loro commistione,
(iii) il riconoscimento che il nulla è inindagabile: donde forse la caratterizzazione
della morte (distruzione) come ἄπυστος, «inaudita», «inconcepibile». Omogeneo e
continuo I vv. 22-25 costituiscono un nuovo blocco a giustificazione dei
σήματα: οὖλον (intero), μουνογενές (uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme),
συνεχές (continuo): οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον,
τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος.
τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. 479 Né è divisibile, poiché è
tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere
continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò
tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Impermeabile al
non-essere, «ciò che è» non può che essere «omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον letteralmente
«tutto uguale»), «pieno» (ἔμπλεόν), «continuo» (ξυνεχὲς): in altre parole, è
«tutto» (πᾶν, termine ripetuto tre volte in quattro versi) identico a se stesso
(uniforme). In questo senso, esiste indubbiamente, tra questo gruppo di σήματα,
il precedente e i successivi, la forte connessione garantita dai versi sopra
citati: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι
μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e,
così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30). L’indivisibilità,
l’irriducibilità dell’essere seguono alla sua omogeneità, alla sua densità, in
ultima analisi al bando della via «non è»: nulla può inframezzarsi a «ciò che
è». In poche battute la Dea sottolinea coerentemente tale omogeneità con una
serie di espressioni: (i) «non c’è alunché che possa impedirgli di essere
continuo»; (ii) «è tutto pieno di ciò che è»; (iii) «è tutto continuo»; (iv)
«ciò che è si stringe a ciò che è». Ora, è chiaro che centrale risulta la (ii):
πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος; una affermazione che sembra ricavata direttamente
dalla enunciazione della tesi di fondo di B2 (ἔστιν τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι),
esplicitata in B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. 480 Dal riconoscimento dell’identità dell’essere con se
stesso (ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι), e dal contestuale bando del nulla (μηδὲν
δ΄ οὐκ ἔστιν), seguono sia che «tutto pieno è di ciò che è», sia che nulla
«possa impedirgli di essere continuo», e, ulteriormente, le due
caratterizzazioni equivalenti del verso finale del passo: «è tutto continuo» e
«ciò che è si stringe a ciò che è». Tutto intero, uniforme Parmenide suggerisce
compattezza, coesione e identità, in forza di scelte espressive che escludono
la possibilità di distinzione, riduzione, separazione: πᾶν ὁμοῖον, συνέχεσθαι, ἔμπλεόν,
ξυνεχὲς πᾶν, πελάζει. Le implicazioni materiali e psicologiche della pienezza e
dei vincoli evocati sono state messe in valore nell’analisi di Mourelatos81, il
quale ha marcato la presenza sullo sfondo di due elementi: (i) la semplicità
inqualificata di ciò-che-è; (ii) la negazione di dualismi. Questo consente di
collegare il passo in questione con l’iniziale rilievo (v. 4) dell’espressione
«tutto intero, uniforme» (οὖλον μουνογενές), che, sempre secondo Mourelatos82,
anticiperebbe l’argomento a sostegno dell'indivisibilità, anche grazie
all’amplificazione di B8.5b-6a: ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. Come abbiamo segnalato
in nota al testo, per il significato della formula μουνογενές lo studioso
richiama un importante precedente esiodeo, che Parmenide avrebbe avuto ben
presente e in opposizione al quale avrebbe coniato la propria espressione: Οὐκ ἄρα
μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν εἰσὶ δύω· τὴν μέν κεν ἐπαινήσειε
νοήσας, ἣ δ’ ἐπιμωμητή· διὰ δ’ ἄνδιχα θυμὸν ἔχουσιν Non vi era dunque un solo
genere di Eris [Contesa], ma sulla terra ce ne sono due: l’una potrebbe onorare
chi la comprenda; 81 Op. cit., pp. 111-2. 82 Ivi, p. 95. 481 l’altra è da
riprovare; hanno animo diverso e opposto (Le opere e i giorni 11-13). Il
segnavia μουνογενές indicherebbe dunque un'identità di genere, di natura,
un’uniformità tale da escludere qualsiasi forma di potenziale discriminazione
all’interno dell’essere: in questo senso sarebbe impiegato – nel nostro frammento
– in antitesi alla dicotomia che il filosofo pone al fondo delle «opinioni
mortali» (δόξας βροτείας v. 51), costruite intorno a una coppia di «forme»
(μορφὰς δύο v. 53) distinte oppositivamente (τἀντία δ΄ ἐκρίναντο v. 55), e
reciprocamente separate (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων vv. 55b-56a).
Accettando la lettura di Mourelatos, risulta ancora più evidente il ruolo
decisivo della κρίσις richiamata al v. 16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. È sulla scorta di
essa, infatti, che la Dea può marcare l’inesorabile “uni-genericità” (o meglio
uniformità) di «ciò che è», escluderne differenziazioni, proporlo come un
blocco compatto nell’essere. Concentrandosi su ἔστιν ed escludendo οὐκ ἔστιν, è
possibile affermare (di τὸ ἐόν): πᾶν ἐστιν ὁμοῖον. Una piena applicazione della
formula della prima via di B2.3: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι.
È possibile che l’insistenza su coesione e omogeneità dell’essere riveli ancora
un'intenzione polemica nei confronti del modello cosmogonico ionico: come
abbiamo già avuto modo di ricordare, le testimonianze su Anassimandro e
Anassimene supportano uno schema di base, per cui l’origine del processo di
formazione del mondo coinciderebbe con un atto di separazione da uno stato
primitivo di indifferenziazione: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ
ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι [Anassimandro] sostiene
che ciò che, derivato dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu separato
alla 482 generazione di questo mondo (Pseudo-Plutarco; DK 12 A10) Ἀ. δὲ Εὐρυστράτου
Μιλήσιος, ἑταῖρος γεγονὼς Ἀναξιμάνδρου, μίαν μὲν καὶ αὐτὸς τὴν ὑποκειμένην
φύσιν καὶ ἄπειρόν φησιν ὥσπερ ἐκεῖνος, οὐκ ἀόριστον δὲ ὥσπερ ἐκεῖνος, ἀλλὰ ὡρισμένην,
ἀέρα λέγων αὐτήν· διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας. καὶ ἀραιούμενον
μὲν πῦρ γίνεσθαι, πυκνούμενον δὲ ἄνεμον, εἶτα νέφος, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, εἶτα γῆν,
εἶτα λίθους, τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων. κίνησιν δὲ καὶ οὗτος ἀίδιον ποιεῖ, δι’ ἣν καὶ
τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, discepolo di
Anassimandro, afferma, come quello, che unica e infinita è la natura
soggiacente, non indefinita, tuttavia - come sosteneva quello - ma determinata,
chiamandola aria. Afferma inoltre che essa si differenzia nelle sostanze per
rarefazione e condensazione. Rarefacendosi, infatti, diventa fuoco,
condensandosi invece vento, poi nuvola, e quando più condensato acqua, poi
terra, poi pietre. Tutto il resto deriva da queste cose. Anch’egli pone eterno
il movimento per cui si produce il mutamento. (Simplicio; DK 13 A5). Ἀ. δὲ καὶ
αὐτὸς ὢν Μιλήσιος, υἱὸς δ’ Εὐρυστράτου, ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι, ἐξ οὗ
τὰ γινόμενα καὶ τὰ γεγονότα καὶ τὰ ἐσόμενα καὶ θεοὺς καὶ θεῖα γίνεσθαι, τὰ δὲ
λοιπὰ ἐκ τῶν τούτου ἀπογόνων. (2) τὸ δὲ εἶδος τοῦ ἀέρος τοιοῦτον· ὅταν μὲν ὁμαλώτατος
ἦι, ὄψει ἄδηλον, δηλοῦσθαι δὲ τῶι ψυχρῶι καὶ τῶι θερμῶι καὶ τῶι νοτερῶι καὶ τῶι
κινουμένωι. κινεῖσθαι δὲ ἀεί· οὐ γὰρ μεταβάλλειν ὅσα μεταβάλλει, εἰ μὴ κινοῖτο.
(3) πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι· ὅταν γὰρ εἰς τὸ ἀραιότερον
διαχυθῆι, πῦρ γίνεσθαι, ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον, ἐξ ἀέρος <
δὲ > νέφος ἀποτελεῖσθαι κατὰ τὴν πίλησιν, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, ἐπὶ πλεῖον
πυκνωθέντα γῆν καὶ εἰς τὸ 483 μάλιστα πυκνότατον λίθους. ὥστε τὰ κυριώτατα τῆς
γενέσεως ἐναντία εἶναι, θερμόν τε καὶ ψυχρόν [...] Anassimene, anche lui
milesio, figlio di Euristrato, disse che il principio è aria infinita, da cui
si generano le cose che nascono e le cose che sono nate e quelle che nasceranno
e gli dei e le cose divine, mentre le altre cose derivano da quanto è da essa
prodotto. (2) L’aspetto dell’aria è questo: quando è del tutto uniforme, essa
risulta invisibile; si mostra invece con il freddo e il caldo e l’umidità e il
movimento. Si muove sempre: le cose che mutano, infatti, non muterebbero, se
essa non si muovesse. (3) Quando è condensata e rarefatta, infatti, appare in
modo diverso: quando si dirada fino a essere molto rarefatta, diventa fuoco;
mentre i venti, a loro volta, sono aria condensata; dall’aria poi, per
compressione, si formano le nuvole, e, crescendo ancora la condensazione,
l’acqua, e, crescendo di più, la terra, e, crescendo al massimo, le pietre.
Così gli elementi fondamentali della generazione sono contrari, il caldo e il
freddo (Ippolito; DK 13 A7). La fonte comune di Pseudo-Plutarco, Simplicio e
Ippolito è Teofrasto, un teste affidabile: ricorrente - a dispetto della
convinzione che di tutto unica sia la scaturigine in una φύσις ἄπειρος - è
l’idea che: (i) fondamentale per la cosmogonia sia l’azione dei contrari
(Ippolito lo afferma chiaramente: τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία): essa si
dispiega, in Anassimandro, a partire da «ciò che è produttivo di», ovvero «ciò
che può generare» (γόνιμον) caldo e freddo, ovvero, in Anassimene, dai processi
di rarefazione e condensazione; (ii) la separazione del principio generativo
degli opposti (γόνιμον), nel primo caso, ovvero la doppia azione esercitata
sull’aria, nel secondo, sarebbero a loro volta effetto di un «movimento eterno»
(κίνησις ἀίδιος) nella φύσις ἄπειρος, da Simplicio riconosciuto (per entrambi)
come causa diretta del «mutamento» (μεταβολή). 484 Il lessico peripatetico
delle testimonianze fa intravedere la possibile sovrapposizione di due schemi
esplicativi, che potrebbero ambiguamente essere stati compresenti nelle
cosmologie (e cosmogonie) ioniche. Il primo – delineato dalle affermazioni di
Simplicio su Anassimene secondo cui la «natura soggiacente» (ὑποκειμένη φύσις)
«si differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione» (διαφέρειν δὲ
μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας), e confermato da qualche passaggio di
Ippolito («condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso» πυκνούμενον
γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι; ovvero «i venti, a loro volta, sono
aria condensata» ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον) – è quello che
prevale in Aristotele (e che è possibile ritrovare esplicitato in Diogene di
Apollonia): la materia originaria ed eterna subisce alterazioni a causa del suo
interno moto incessante, presentandosi così in varie forme fenomeniche. In
questo schema le «sostanze» della lista proposta83 (fuoco, venti, nuvole,
acqua, terra, pietre) non sarebbero realtà indipendenti, ma semplici stadi di
passaggio nel ciclo di trasformazione dell’unico principio materiale.
Conseguentemente, in questa prospettiva “monistica”, tutte le cose si
ridurrebbero ad aria84 . Il secondo è espressamente sottolineato da Simplicio
in Anassimandro (citato in precedenza): [...] οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ
στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου
κινήσεως [...] Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione
dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno
(DK 12 A9), 83 Che ha l’aria di essere citazione dall’originale teofrasteo: in
questo caso non ritroveremmo una semplice parafrasi, con la proiezione della
dottrina peripatetica dei 4 elementi, ma forse il riferimento a un elenco
effettivamente anassimeneo. Su questo punto Kahn, Anaximander and the Origins
of Greek Science cit., pp. 149-150. 84 Secondo un paradigma riduttivo già
presente nel mito greco di Proteo, come segnala Kahn, op. cit., p. 151. 485 ma
rilevabile anche nelle testimonianze su Anassimene, dove si marca la
generazione di tutte le altre cose da un nucleo di «sostanze» (fuoco, vento,
nuvola, acqua, terra, pietre). Secondo questo schema (pluralistico, con
probabile eco del politeismo teogonico esiodeo), dal principio materiale (ἀέρα ἄπειρον
ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι) si sarebbero generate, come effetto di compressione e
rarefazione, alcune realtà elementari indipendenti (le «sostanze» elencate), da
cui risulterebbero tutte le altre cose. Una possibile, analoga oscillazione tra
i due schemi si lascia cogliere anche nel contemporaneo Eraclito: κόσμον τόνδε,
τὸν αὐτὸν ἁπάντων, οὔτε τις θεῶν οὔτε ἀνθρώπων ἐποίησεν, ἀλλ’ ἦν ἀεὶ καὶ ἔστιν
καὶ ἔσται πῦρ ἀείζωον, ἁπτόμενον μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον μέτρα Questo mondo
ordinato, lo stesso per tutti, nessuno degli dei o degli uomini produsse, ma fu
sempre, è e sarà fuoco sempre vivo, che si accende secondo misura e si estingue
secondo misura (Clemente Alessandrino; DK 22 B30) πυρός τε ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα
καὶ πῦρ ἁπάντων ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός Tutte le cose sono
scambio con fuoco e il fuoco scambio con tutte le cose, come i beni sono
scambio con oro e l’oro scambio con beni (Plutarco; DK 22 B90) ψυχῆισιν θάνατος
ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ θάνατος γῆν γενέσθαι, ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος
δὲ ψυχή per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua, invece, è morte
diventare terra, ma dalla terra si genera l’acqua, dall’acqua a sua volta [si
genera] l’anima (Clemente Alessandrino; DK 22 B36) ζῆι πῦρ τὸν γῆς θάνατον καὶ ἀὴρ
ζῆι τὸν πυρὸς θάνατον, ὕδωρ ζῆι τὸν ἀέρος θάνατον, γῆ τὸν ὕδατος 486 Il fuoco
vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la
morte dell’aria, la terra la morte dell’acqua (Massimo di Tiro; DK 22 B76). Da
un lato, soprattutto i primi due frammenti suscitano l’impressione che Eraclito
riduca ogni cosa a fuoco, la natura originaria che si cela dietro ogni
trasformazione; dall’altro il lessico (γενέσθαι, γίνεται, ζῆι, θάνατος) di B36
e B76 suggerisce l’idea di un ciclo di produzione di elementi, che scaturiscono
gli uni dagli altri, senza una reale identità di base85 . I limiti di
documentazione (anche nel caso dei frammenti eraclitei) e il lessico e
l’impostazione peripatetici delle testimonianze non consentono di stabilire con
certezza quale schema fosse effettivamente operante negli autori ionici: in
ogni modo è chiaro che, rispetto all’impegno argomentativo di Parmenide, essi
potrebbero far sentire la loro presenza da due punti di vista. Intanto, come in
precedenza segnalato, nell’insistenza parmenidea sul nesso γένεσις- ὄλεθρος e
nell’eco biologica di molti termini ed espressioni ricorrenti nel poema
(γενέσθαι, ὄλλυσθαι, γένναν, αὐξηθέν, ἀρξάμενον, φῦν), che potrebbero evocare
la centralità della dimensione generativa decisiva nel secondo modello. Un
lessico “biologico” è attribuito chiaramente, nelle testimonianze, in
particolare ad Anassimandro, come rivelano l’uso del termine γόνιμον per
indicare il nucleo originario dei processi reattivi che conducono alla
formazione di un mondo (una sorta di base seminale del mondo stesso), e la
scelta di un verbo - ἀποκριθῆναι (da ἀποκρίνεσθαι) – che evoca attività di
secrezione. L’ἄπειρον stesso sarebbe stato proposto, allora, come fertile,
feconda matrice, una sorta di “genitore” (in senso letterale), cui imputare in
ultima analisi l’origine. In secondo luogo è evidente, nel poema, la
riflessione sulle implicazioni “ontologiche” dei due possibili paradigmi
esplicativi che possiamo cogliere nello schema attribuito dalle testimonianze
ad Anassimene: (i) esiste una «natura soggiacente» (ὑποκειμένη 85 Graham,
Explaining the Cosmos…, cit., pp. 124 ss.. 487 φύσις), «unica e infinita» (μία ἄπειρος),
dalla quale, (ii) a causa di «movimento eterno» (κίνησις ἀίδιος), (iii) si
produce «il mutamento» (τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι), consistente nel (iv) suo
differenziarsi «in sostanze» (διαφέρειν κατὰ τὰς οὐσίας), (v) «da cui»
discenderebbero «tutte le altre cose» (τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων). A Parmenide non
sarebbero sfuggiti: (a) la difficoltà di coniugare la consistenza d’essere
della ὑποκειμένη φύσις, la sua eterna irrequietezza, e la realtà sostanziale
delle «altre cose»; (b) il fatto che l’attività discriminante («differenziare»,
διαφέρειν) riferita alla realtà originaria ne minasse la compattezza (portando
con sé la nozione di non-essere); (c) il problema della giustificazione dello
stesso processo di generazione dal principio e\o della sua trasformazione. In
effetti si tratta delle questioni di fondo che abbiamo ritrovato commentando i
primi 25 versi di B8. Immobile e identico È probabile che allo stesso contesto
rinviino i versi successivi (26-31), che sottolineano immobilità e immutabilità
di ciò che è: αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ
γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής. ταὐτόν τ΄ ἐν
ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη
πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, Inoltre, immobile nei vincoli
di grandi catene, è senza inizio e senza fine, poiché nascita e morte sono
state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Identico e
nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente
dove è persiste: dal momento che Necessità potente 488 nelle catene del vincolo
[lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra. L’uso del termine ἀκίνητον non deve
ingannare: ciò che è in gioco in questo passaggio non è tanto, nello specifico,
il movimento, quanto il mutamento in generale, come suggerito da: (i)
accostamento tra ἀκίνητον e altri due aggettivi – «senza inizio» (ἄναρχον) e
«senza fine» (ἄπαυστον) – esplicitamente giustificati dalla precedente
esclusione di γένεσις e ὄλεθρος; (ii) insistenza su identità durevole, fissità
di stato e persistenza di τὸ ἐόν; (iii) variazione nel registro espressivo, con
la reiterazione di immagini che suggeriscono certamente anche inabilità al
moto, ma, nel contesto, soprattutto impossibilità di sviluppo, di cambiamento
della propria situazione. Nell’identica condizione Insomma, Parmenide appare
interessato a escludere dall’essere la possibilità di intrinseca motilità
(connaturata invece, secondo le testimonianze, alla φύσις milesia) - donde
forse l’aggettivo ἀτρεμὲς del v. 4 - e dunque, rispetto allo schema esplicativo
che abbiamo riscontrato, di trasformazione (μεταβολή): da un punto di vista
linguistico sono dominanti le espressioni che accentuano saldezza («stabilmente
dove è persiste» ἔμπεδον αὖθι μένει) e staticità («in se stesso riposa» καθ΄ ἑαυτό
τε κεῖται), figurativamente accompagnate dalla suggestione dei «vincoli di
grande catene» (μεγάλων δεσμῶν πείρατα), e del rinserramento dell’essere (τό
μιν ἀμφὶς ἐέργει) a opera di «Necessità potente» (κρατερὴ Ἀνάγκη). Come abbiamo
segnalato in nota al testo, il passo è ricco di echi letterari e riflette su un
nodo (mutamento) ben documentato anche nella cultura filosofica arcaica: - ἀλλ’
ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα, τάδε δ’ ἀεὶ πάρεσθ’ ὁμοῖα διά τε τῶν
αὐτῶν ἀεί. 489 - ἀλλὰ λέγεται μὰν Χάος πρᾶτον γενέσθαι τῶν θεῶν. - πῶς δέ κα; μὴ
ἔχον γ’ ἀπό τινος μηδ’ ἐς ὅ τι πρᾶτον μόλοι. - οὐκ ἄρ’ ἔμολε πρᾶτον οὐθέν; —οὐδὲ
μὰ Δία δεύτερον τῶνδέ γ’ ὧν ἁμὲς νῦν ὧδε λέγομες, ἀλλ’ ἀεὶ τάδ’ ἦς A. Ma sempre
gli dei furono presenti e mai vennero meno: queste cose sono sempre uguali e
sempre per sé stesse. B. Eppure si dice che Caos primo venne all’essere degli
dei. A. Come possibile? Come primo non aveva da cosa derivare né verso cosa
procedere. B. Nulla allora procedette per primo? A. Nemmeno per secondo, per
Zeus, , almeno delle cose di cui ora stiamo discorrrendo in questo modo, ma
esse furono sempre [...]. (Epicarmo; DK 23 B1) [...] — ὧδε νῦν ὅρη καὶ τὸς ἀνθρώπως·
ὁ μὲν γὰρ αὔξεθ’, ὁ δέ γα μὰν φθίνει, ἐν μεταλλαγᾶι δὲ πάντες ἐντὶ πάντα τὸν
χρόνον. ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει, ἕτερον εἴη κα τόδ’
ἤδη τοῦ παρεξεστακότος [...] [...] Così ora considera anche gli uomini: l’uno
cresce, l’altro, invece, deperisce: tutti sono in mutamento durante tutto il
tempo. Ora, ciò che muta per natura e non mai nella stessa condizione permane,
sarebbe già diverso da quel che era [...] (Epicarmo; DK 23 B2) αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι
μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι 490 sempre
nella stessa condizione permane, e per nulla si muove, né gli si addice
spostarsi ora in un luogo ora in un altro (Senofane; DK 21 B26). Le citazioni
di Senofane ed Epicarmo attestano, nella elaborazione contemporanea, la
preoccupazione per il mutamento in associazione al tempo: tradizionalmente
riferite al rapporto tra l’umano e il divino (Epicarmo), esse complessivamente
contrastano i processi di crescita e deperimento, l’instabilità sostanziale
degli esseri umani, con l’immota identità delle realtà divine («uguali e sempre
per sé stesse» ὁμοῖα διά τε τῶν αὐτῶν ἀεί), connotata sia rispetto al tempo
(«sempre gli dei furono presenti e mai vennero meno», ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον
οὐ πώποκα), sia rispetto allo stato («ciò che muta per natura, e mai nella
stessa condizione permane», ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι
μένει) 86. Significativamente, nel suo breve frammento Senofane sembra
giustificare l’immobilità divina con una considerazione di opportunità: «né gli
si addice [ἐπιπρέπει] spostarsi ora in un luogo ora in un altro». La Dea di
Parmenide, da parte sua, coniuga immobilità, immutabilità e identità sulla base
di tre considerazioni: (i) generazione e corruzione sono state allontanate
dallo scenario dell’essere con argomento conclusivo («convinzione genuina [le]
fece arretrare» ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής): τὸ ἐόν è dunque indiscutibilmente
sottratto alla linearità della relazione inizio-fine a causa della
contraddizione che essa comporta; è ἄναρχον ἄπαυστον nel senso che non diviene;
(ii) ingenerabilità, incorruttibilità, pienezza, omogeneità e continuità
(sottolineate nei versi precedenti) pongono l’accento sull’identità di τὸ ἐόν
con se stesso: essa appare il nuovo baricentro del discorso divino. La Dea,
tuttavia, non propone un argomento a sostegno, né esplicitamente si appoggia al
precedente, 86 È da osservare, in particolare, l’uso in entrambi gli autori
dell’espressione ἐν ταὐτῶι μένει (in Senofane l’equivalente poetico ἐν ταὐτῶι
μίμνει), nella duplice valenza (locativa e di stato) che ritroviamo in
Parmenide. 491 limitandosi invece a citare la garanzia della vigilanza di Ἀνάγκη
(Necessità-Costrizione) e, per due volte, dei suoi vincoli e catene; (iii)
l’immobilità è collegata, attraverso la sottrazione dei processi di generazione
e corruzione e il rilievo dell’identità di stato, all’argomento complessivo: il
movimento viene assimilato a un mutamento di condizione dell’essere e quindi
escluso87 . Non incompiuto... Anche l’argomento a sostegno dell’immutabilità di
«ciò che è» dipende dunque, in ultima analisi, dalla κρίσις dei vv. 15-16: ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν. Su quel giudizio, in effetti, poggia saldamente la πίστις ἀληθής
che esclude, dall’orizzonte della riflessione sull’essere, γένεσις e ὄλεθρος.
Tale immutabilità è, a sua volta, utilizzata (vv. 32-33) come prova a favore
della perfezione di τὸ ἐὸν 88: οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι
γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο. E per questo non incompiuto
l’essere [è] lecito che sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non
essere, invece, mancherebbe di tutto. Interessante nel passaggio il fatto che
Parmenide ricorra a una congiunzione (οὕνεκεν, «per questo») che riferisce
l’affermazione successiva a quel che immediatamente precede: l’argomento si
sostiene quindi sia sulla κρίσις e le sue conseguenze, sia sulle immagini di
vincoli e catene, immobilizzanti ma anche identitarie. La suggestione divina di
Ἀνάγκη opera a garanzia della compiutezza dell’essere, sorvegliandone e
salvaguardandone la pienezza (πᾶν ἐστιν ὁμοῖον; πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος).
87 Leszl, op. cit., p. 209. 88 Su questo passaggio P. Curd, Eleatic Arguments,
in Methods in Ancient Philosophy, edited by J. Gentzler, Clarendon Press,
Oxford 1998, p. 18. 492 La Dea, insomma, annoda immobilità, immutabilità,
identità e perfezione: οὐκ ἀτελεύτητον – come οὖλον μουνογενές (intero,
uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme), συνεχές (continuo, coeso) – discende dal
rigetto della via ὡς οὐκ ἔστιν, e rivela dunque un carattere essenziale
dell’essere. L’alternativa radicale ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, con l’invito a valutare
discorsivamente la robustezza degli argomenti (B7.5) e a concentrarsi su ἔστι e
sui suoi «segnali» (B8.1- 2), comporta, infatti, la progressiva sottrazione di
ogni negatività che potrebbe attentare all’integrità dell’essere, come
manifesto nel v. 33, comunque lo si intenda: (i) l’essere non può essere in
difetto in alcun modo (poiché «deve essere per intero o non essere per nulla»);
il non-essere, invece, sarebbe totale assenza di realtà; (ii) traducendo
diversamente, invece, avremmo: ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο
non è, infatti, manchevole [di alcunché]; se non fosse [non-manchevole],
invece, mancherebbe di tutto (v. 33); se l’essere fosse in qualche misura o per
qualche aspetto carente, porterebbe con sé non-essere e ne sarebbe distrutto,
come già marcato (o anticipato) al v. 11: ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί
deve essere per intero o non essere per nulla. Se ora consideriamo, nel suo
complesso, il nodo di questi versi centrali del frammento, possiamo forse
cogliervi una presa di posizione nei confronti delle tesi che avevano delineato
a un tempo il primato di un principio e i suoi sviluppi o le sue
trasformazioni: che lo avevano considerato divino, attribuendogli eterna durata
e vitalità, per garantire gli enti nella loro totalità; proteiforme (l’aria di
Anassimene?) per giustificarne le traduzioni fenomeniche; infinitamente fecondo
per sostenere gli incessanti processi di generazione e corruzione. 493 Essere e
pensiero È appunto nella discussione di questo nodo che Parmenide inserisce
(vv. 34-38a) quanto appare come un excursus, oggetto di un articolato
dibattito, filologico e interpretativo, cui abbiamo accennato in nota al testo:
ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ
πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν· o;udèn γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο
πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι La stessa
cosa invero è pensare e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui
[il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Né, infatti, esiste né esisterà
altro oltre all’essere, poiché Moira lo ha costretto a essere intero e
immobile. Accettando la nostra traduzione del v. 34, in effetti qui la Dea
recupererebbe affermazioni avanzate in precedenza: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε
καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere (B3) χρὴ τὸ λέγειν τò
νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario (B6.1a).
Ribadendo la connessione, che fa da sfondo a tutta l’esposizione divina, tra
νοεῖν e εἶναι - e dunque anche l’impossibilità che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν)
possa realmente essere oggetto del pensiero89, secondo le indicazioni di
B2.7-8: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις 89
Questo è quanto i versi in questione mostrerebbero secondo Curd, Eleatic
Arguments, cit., p. 19. 494 poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è
infatti cosa fattibile), né indicarlo - l’obiettivo sarebbe quello di escludere
che possa darsi per l’intelligenza della realtà oggetto diverso dall’«essere» (ἄλλο
πάρεξ τοῦ ἐόντος), che possa in altre parole essere assunto come realtà quanto
si manifesta a livello di senso comune. Questa lettura sembra confermata da
quel che segue immediatamente (vv. 38b-41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ
κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί,
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le
cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali:
nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore.
Gli eventi che i «mortali» (βροτοί) registrano quotidianamente e che in modo
irriflesso interpretano come fenomeni di mutamento («nascere e morire»,
«cambiare luogo e mutare luminoso colore») – designandoli, illusi (πεποιθότες)
della loro genuina consistenza (ἀληθῆ) - si rivelano, all'intelligenza critica
sollecitata dalla Dea, per quello che in verità sono: «nome». Gli uomini, in
altre parole, utilizzano una pluralità di espressioni - dalla Dea già
esplicitamente proibite: «nascere e morire, essere e non essere, cambiare
luogo» - per articolare e cadenzare una realtà che, correttamente valutata,
risulta essenzialmente estranea a ogni accadere e mutare. L’unico genuino (vero)
oggetto di intelligenza e linguaggio è «ciò-che-è»: indipendentemente da quel
che i mortali pretendono di riferire nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi
realmente pensano e possono pensare è τὸ ἐὸν 90 . 90 McKirahan, op. cit., p.
202. 495 Prima di tornare a discutere i «segnali» lungo la via ὅπως ἔστιν – in
particolare prima di riprendere e ulteriormente determinare il nodo cruciale
dell’immobilità, immutabilità e compiutezza dell’essere – la Dea di Parmenide
richiama l’attenzione su quanto implicito nelle sue affermazioni iniziali
(B2-B3): per un pensare intelligente, capace cioè di afferrare consapevolmente
il proprio oggetto, non può darsi altro orizzonte che ἐόν, dal momento che «ciò
che non è» (μὴ ἐὸν) è intrinsecamente inconsistente. Molto discussa la formula
impiegata (vv. 34-36a): ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ
τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa è pensare
e e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è
espresso, troverai il pensare. Rispetto ai due enunciati (B3 e B6.1a) sopra
ricordati, qui non si tratta semplicemente di un’affermazione di identità
(generica) tra pensare ed essere (B3) ovvero di una presa d’atto della
necessità per il pensiero di ammettere che «ciò che è è» (B6.1a). Qui la Dea si
spinge a delineare a un tempo due relazioni - di identità (ταὐτὸν ἐστὶ) e di
dipendenza (espressa da οὕνεκεν, che traduciamo come equivalente a ὅτι «che»91)
- i cui membri risultato da un lato νοεῖν, dall’altro appunto «il pensiero»
(νόημα) «che "è"». Non c’è altro oltre all’essere, quindi l’essere
non può che essere l’oggetto del pensiero: la Dea sottolinea, infatti, come
l’essere sia propriamente ciò «in cui» il pensiero è espresso, il campo entro
cui necessariamente il pensiero si manifesta. Dal momento che τὸ ἐὸν è in
verità il solo contenuto realmente pensato ed espresso nel linguaggio,
qualsiasi cosa i mortali pensino o dicano e in qualsiasi modo la pensino o
dicano, essi stanno parlando di ciò-che-è 92 . C’è tensione, dunque, tra quanto
essi sono «convinti» di nominare e 91 Ma che altri scelgono di rendere come «a
causa di». 92 McKirahan, op. cit., p. 205. 496 quanto in realtà essi nominano:
sebbene non ne siano consapevoli, ogni nome afferma l’essere. All’orizzonte
(trascendentale) dell’essere non può sottrarsi il nominare dei mortali93 . Nel
contesto, insomma, a dispetto di una lunga tradizione interpretativa,
intenzione della Dea sarebbe non tanto aprire una parentesi per discutere
dell'inattendibilità dell’esperienza umana, quanto rilevare l’illusione che
altro (dall’essere e dai suoi «segnali») possa essere l’ambito del pensare. In
questione sarebbe allora la consistenza del mondo attestato empiricamente, ma
non in quanto di per sé illusorio, risultato di un inganno dei sensi, piuttosto
perché non inquadrato coerentemente, da un punto di vista logico, nell'unitaria
cornice d’essere, e dunque frainteso. In quest'ottica, al linguaggio inadeguato
dei mortali è contrapposto il linguaggio della verità dell’essere94 . A chi si
riferisce il termine βροτοί? Agli esseri umani in genere, evocando il
tradizionale rilievo della loro debolezza cognitiva (rispetto alla conoscenza
divina) e dunque accentuando la natura eccezionale dell'esperienza del poeta?
Ovvero a un gruppo o a gruppi di sapienti rivali? Osservando le scelte
espressive di Parmenide (γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ
τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν), potremmo riconoscere sia una
generica allusione alle modalità ordinarie di lettura della realtà (cambiamento
di luogo, mutamento qualitativo), sia l’accenno a un linguaggio più specifico
(nascere e morire, essere e non essere): quello che sopra abbiamo individuato
nelle testimonianze relative agli schemi cosmologici (e cosmogonici) milesi e
nei frammenti eraclitei. A noi sembra, tuttavia, che questo passo -
apparentemente una pausa nella sequenza argomentativa del frammento – faccia
emergere un aspetto peculiare dell’approccio di Parmenide, una nuova dimensione
speculativa. Ipotizzando che l’Eleate abbia preso le mosse dall’analisi delle
implicazioni (ontologiche) di affermazioni relative alla φύσις o all'ἀρχή,
denunciando le incongruenze delle lezioni cosmologiche (e cosmogoniche)
circolanti, è 93 Ruggiu, op. cit., pp. 307-8. 94 Ibidem. 497 possibile si sia a
un certo punto concentrato sulle condizioni di comprensione della realtà
(dunque sulla stessa attività di νοεῖν): questione di «secondo livello» 95
(meta-cognitiva), intesa a far prendere consapevolezza, oltre che dei «segni» dell’essere,
anche dei presupposti del pensare. L’ontologia che viene delineata traccia così
a un tempo i requisiti necessari (stabilità, identità) alla conoscenza: la
comprensione (νοεῖν) esige determinate condizioni formali (proprietà) per
l’intelligibilità del proprio oggetto; condizioni che Parmenide potrebbe aver
fatto emergere nel confronto serrato (meta-critico) con le teorie della natura
della tradizione ionica96 . Moira lo ha costretto... Per la terza volta nel
frammento, la Dea assicura il proprio ragionamento ricorrendo a un’immagine
mitica (e a una formula epica): Moira «ha costretto» (ἐπέδησεν) ἐόν «a essere
intero e immobile» (οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι). È in forza di tale “destino” che
nulla «esiste o esisterà» (ἔστιν ἢ ἔσται) «oltre all’essere» (πάρεξ τοῦ ἐόντος):
ciò, in primo luogo, comporta ancora (come nel caso di Giustizia e Necessità)
che la garanzia di Moira risulti formalmente essenziale per affermare
integrità, unicità e immutabilità dell’essere (e dunque per sostenere come i
«nomi» dei «mortali» si riferiscano in vero sempre e solo all’essere). Ma la
superiore tutela di Moira impone, in secondo luogo, anche l’identità di essere
e pensiero, nel momento in cui marca, appunto, come non possa esistere ἄλλο
πάρεξ τοῦ ἐόντος («altro oltre all’essere»). In questo senso, rispetto a νοεῖν
e ἐόν, essa riveste una funzione “trascendentale”: richiamando implicitamente
le immagini dei legami (πείρατα) e delle catene (δεσμοί) ed esplicitamente la
fissi- 95 G.E.R. Lloyd usa l’espressione «second’ordine», per esempio nel suo
Le pluralisme de la vie intellectuelle avant Platon, in A. Laks et C. Louguet
(éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique?..., cit., p. 44. 96 Graham,
Explaining the Cosmos…, cit., p. 166. 498 tà (ἐπέδησεν - ἔμπεδον) dei ceppi (πέδαι),
con la figura di Moira la Dea, da un lato, ribadisce la stabilità dell’essere,
dall’altro indica in quella invariabilità un carattere fondamentale della
conoscenza. Questa connessione tra saldezza di «ciò che è» e costanza del νόημα
che la coglie è la stessa allusa in B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα
βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti
siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che
l’essere sia connesso all’essere. La Dea le contrappone la precarietà tutta
umana e artificiale («saranno nome» ὄνομ΄ ἔσται) di quanto (πάντ΄ [...] ὅσσα)
«i mortali stabilirono» (βροτοὶ κατέθεντο), lasciandosi poi traviare
(πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ). Compiuto e omogeneo I versi (42-49) che concludono la
sezione sulla Verità ne riassumono l’ontologia, insistendo particolarmente su
compiutezza e omogeneità di «ciò che è», attraverso un ampio ricorso a metafore
“spaziali”: αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι
βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ. οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι
εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν
ἄσυλον· οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει. Inoltre, dal momento che
[vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti, simile a
massa di ben rotonda palla, 499 a partire dal centro ovunque di ugual
consistenza: giacché è necessario che esso non sia in qualche misura di più, o
in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra. Non vi è, infatti, non
essere, che possa impedirgli di giungere a omogeneità, né ciò che è esiste così
che ci sia - di ciò che è - qui più, lì meno, poiché è tutto inviolabile. A se
stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti
rimane. I versi propongono contestualmente due diverse prospettive:
l’accostamento alla «massa di ben rotonda palla» (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ)
presuppone infatti un punto di vista “esterno”, per comunicare un’impressione
ottica (“da fuori”) della compatta estensione dell’essere, della sua compiuta
integrità; d’altra parte, la sottolineatura dell’equa distribuzione (ἰσοπαλὲς
πάντῃ) «a partire dal centro» (μεσσόθεν), manifesta piuttosto un punto di vista
“interno” (dal centro alla superficie perimetrale). Complessivamente il testo
vuol riproporre ἐόν come totalità piena, densa, uniforme, e a tale scopo fa
leva sulla nozione di «limite estremo» (πεῖρας πύματον), di un confine che
rende plasticamente l’assoluto discrimine tra ἐόν e μὴ ἐὸν, logicamente
essenziale a tutto il ragionamento della Dea. C’è un limite estremo Anche in
questo caso – come in altri passaggi del poema – appare evidente il debito nei
confronti dell’immaginario epico: ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος
πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν,
ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα
τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν 500 οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά
κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης ἀργαλέη· δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι
θεοῖσι.] [τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς
κεκαλυμμένα κυανέῃσι Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare
infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i
confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dei hanno in odio, voragine
enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi
passasse dentro le porte, ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta
crudele; tremendo anche per gli dei immortali è tale prodigio. E di Notte
oscura la casa terribile s’inalza, da nuvole livide avvolta (Teogonia 736-745.
Traduzione di G. Arrighetti). Il passo esiodeo è di un certo rilievo nel nostro
contesto, in quanto lega il tema delle «scaturigini» e dei «confini» di tutte
le cose (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν) a uno scenario infero in cui è
inserito il riferimento alla «casa terribile di Notte oscura» (Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία
δεινὰ), probabile prototipo della «dimora della Notte» (δώματα Nυκτός) evocata
nel proemio di Parmenide. Né va dimenticato che la Dea promette nel poema «di
tutto informare» (B1.28): almeno didascalicamente, l’ottica della sua
comunicazione è situata effettivamente al «limite» del dicibile (dell’essere).
Agli interpreti non è sfuggito il peso peculiare che nello sviluppo
argomentativo di B8 progressivamente assumono le immagini che afferiscono al
limite (πεῖρας) vincolante per l’essere: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι
ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse
Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13b-15a) 501 ἀκίνητον
μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν immobile nei vincoli di grandi catene (v. 26) ἐπεὶ τό
γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι poiché Moira lo ha costretto a
essere intero e immobile (vv. 37b-38a) κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν
ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει dal momento che Necessità potente nelle catene del
vincolo [lo] tiene (vv. 30a-31b) ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί dal
momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto (v. 42). Sono i
legami variamente evocati a impedire all’essere di essere esposto a generazione
e corruzione (ἀγένητον καὶ ἀνώλεθρoν), ovvero al mutamento (ἀκίνητον), e a
garantirne integrità (o%ulon μουνογενές) e perfezione (οὐκ ἀτελεύτητον,
τετελεσμένον). Come abbiamo in precedenza osservato, significativamente alle
immagini di catene e vincoli sono associate figure di garanzia: Giustizia,
Necessità, Moira. L’idea è quella di costrizione come destino ovvero legge
dell’essere97, ma nel contesto, in relazione al pronunciamento circa
l'esistenza di un «confine estremo» (πεῖρας πύματον), all'accostamento al
«corpo di una palla ben rotonda» (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) e alle
altre formule spaziali (πάντοθεν, μεσσόθεν) utilizzate, potremmo trovarci in
presenza di una suggestione cosmologica. Secondo Schreckenberg98, l'idea di un
estremo vincolo cosmico sarebbe antica e avrebbe avuto origine in ambiente
pitagorico, come documenterebbe Aëtius: 97 H. Schreckenberg, "Ananke.
Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs", Zetemata 36, München
1964, pp. 75-6. Citato in Robbiano, op. cit., p. 141. 98 Op. cit., pp. 103 ss..
Citato in Robbiano, op. cit., p. 140. 502 Π υ θ α γ ό ρ α ς ἀνάγκην ἔφη περικεῖσθαι
τῷ κόσμῳ Pitagora affermò che la necessità circonda il cosmo99 , e
confermerebbe la nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo»). In
effetti, Aëtius attribuisce proprio a Pitagora l'introduzione del termine
«cosmo» per indicare il tutto: Π. πρῶτος ὠνόμασε τὴν τῶν ὅλων περιοχὴν κ ό σ μ
ο ν ἐκ τῆς ἐν αὐτῶι τάξεως Pitagora per primo chiamò l'insieme di tutte le cose
cosmo, per l'ordine che vi regna (DK 14 A21) Ricordiamo, inoltre, come il tema
dell’equilibrio del cosmo garantito dal confine cosmico si colleghi ad
Anassimandro, del cui principio (l’apeiron) Aristotele afferma: [...] διὸ
καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα
καὶ πάντα κυβερνᾶν [...] per questo motivo diciamo che di esso [principio] non
vi sia principio, ma che sembra essere esso stesso principio di tutte le altre
cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e tutte governarle (DK 12 A15). A suo
modo Parmenide avrebbe potuto dunque fare proprio dall'ambiente culturale del
tardo VI secolo il motivo dell'immutabilità e della stabilità dell’universo,
espresso soprattutto nell'ultimo verso (v. 49) di questa sezione: οἷ γὰρ
πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει A se stesso, infatti, da ogni parte
uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. Rispetto alla tradizione,
tuttavia, muta profondamente l'ottica adottata: all'interno della sezione sulla
Verità, l'Eleate rivolge il proprio sguardo alla realtà cosmica rilevando la
dimensione d'es- 99 H. Diels, Doxographi Graeci, De Gruyter, Berlin 1965, 321
b4. 503 sere (ἐόν), rispetto alla quale svaniscono tutti gli elementi di
discriminazione spaziale (così come erano stati neutralizzati tutti i
riferimenti temporali)100 . Nell'essere si riassumono omogeneamente tutte le
cose: «ciò che è si stringe infatti a ciò che è» (v. 25: ἐὸν γὰρ ἐόντι
πελάζει). In considerazione dell'alternativa radicale «è-non è», «ciò che è»
risulta compatto (v. 19: πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος), coeso (v. 25: ξυνεχὲς πᾶν
ἐστιν), compiuto (v. 27: οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι): οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι,
τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν Non vi è, infatti, non essere, che possa
impedirgli di giungere a omogeneità (vv. 46-47a). La proibizione di percorrere
la via che pensa «che non è» fa sentire ancora la propria forza coinvolgente,
nel determinare i contorni della realtà. In effetti, la recisa affermazione
della Dea: «vi è un confine estremo» (πεῖρας πύματον) – sebbene ancora
formalmente giustificata, a questo punto, dall'insistenza (mitica e\o
metaforica) su vincoli e catene, e dalla sorveglianza dei relativi numi (Dike,
Ananke, Moira) - interviene a completare il quadro ontologico, marcando in
particolare l'integrità di «ciò che è» come totalità (v. 4: οὖλον μουνογενές;
v. 5: ὁμοῦ πᾶν), di cui non a caso si enuncia: «è tutto inviolabile» (πᾶν ἐστιν
ἄσυλον). La reiterazione di un avverbio connette inizio e fine del passo:
τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv.
42b-43a) 100 Su questo punto il saggio di M. Kraus, Sein, Raum und Zeit im
Lehrgedicht des Parmenides, in Frühgriechisches Denken, a cura di G.
Rechenhauer, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269, in
particolare pp. 260-1 e 267-8. 504 οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει
a se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti
rimane (v. 49). La compiutezza (in ogni direzione) di «ciò che che è» è
sostenuta sulla base della sua "densità" ontologica: οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως
εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον né ciò che è esiste così che ci sia - di
ciò che è - qui più, lì meno (vv. 47b-48a). Nulla può alterarne l'equilibrio,
ovvero impedirne l'omogeneità (τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν): affermare
l'essere comporta escluderne (con il non-essere) ogni possibile deficienza e
dunque equivale ad affermarne eguaglianza, uniformità, totale identità con se
stesso, in altre parole la inviolabilità (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). Simile a massa...
Estremamente controversa a livello interpretativo è la similitudine introdotta
dalla Dea all'inizio del nostro passo (ma in conclusione della sua
comunicazione di Verità!): εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς
πάντῃ simile a massa di ben rotonda palla, a partire dal centro ovunque di
ugual consistenza (vv. 43b-44a). Come abbiamo rilevato in nota al testo, tre
punti sono criticamente determinanti: (i) il soggetto (sottinteso) della
similitudine è ἐόν (con cui concorda ἐναλίγκιον); (ii) ἐναλίγκιον («simile») si
riferisce non a «palla» (σφαῖρα) ma a «massa» (ὄγκος); 505 (iii) ἰσοπαλὲς («di
ugual consistenza») è attributo del soggetto sottinteso («ciò che è») della
affermazione iniziale, non di «massa di ben rotonda palla». Se è da escludere
l'equazione tra «ciò che è» e corpo sferico, è difficile tuttavia – proprio in
forza dell'eco spaziale di questi versi e dei successivi – sottrarsi
all'impressione che Parmenide stia parlando di qualcosa comunque esteso: il
tutto indifferenziato e omogeneo di cui si parla potrebbe dunque coincidere con
la realtà universale (τὸ πᾶν, come suggerisce Furley101), colta "in quanto
essere", in altre parole intuita appunto come ἐόν («ciò che è»), ovvero –
più astrattamente – come τὸ ἐόν («l'essere»), con le relative conseguenze
logiche. La novità della sezione sulla Verità (che culmina nei versi in esame)
sarebbe, allora, non quella di volgersi a una realtà diversa da quella cosmica,
ma quella di concentrarsi sul «tutto» (πᾶν, πάντοθεν, πάντῃ) - come già
documentato negli autori ionici – in una prospettiva diversa dalla cosmologia
milesia: le scelte espressive di Parmenide ci suggeriscono di definirla
"ontologica". Essa consiste nel trasfigurare la realtà – la stessa
realtà attestata dall’esperienza – alla luce di rigorose esigenze razionali,
che la Dea introduce assiomaticamente in B2 e ribadisce in B8.15 (ἡ δὲ κρίσις
τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν). Parmenide indica questa attitudine con formule che
evocano sia l'esame e la fatica argomentativa (B7.5: «valuta con il
ragionamento la prova polemica», κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον), sia lo sguardo
logicamente educato a evitare la contraddizione (B4.1: la possibile connessione
tra λεῦσσε e νόῳ). Il risultato di questa considerazione originale della realtà
cosmica è l'abbandono degli schemi esplicativi – cosmologici e cosmogonici –
milesi e la riduzione del «tutto» alla compatta uniformità di τὸ ἐόν: nella sua
identità logicamente garantita dall’effettiva indisponibilità di μὴ ἐὸν, ogni
divenire e ogni discriminazione temporale sono sospesi, nell’eterna, continua
gia- 101 D. Furley, The Greek Cosmologists. Volume 1: The formation of the
atomic theory and its earliest critics, CUP, Cambridge 1987, p. 54. 506 cenza
di «ciò che è» in se stesso (dunque nel presente); analogamente sono superate
tutte le distinzioni di luogo, nella sua compiuta, omogenea, coesa estensione.
Insomma, del cosmo milesio (e probabilmente pitagorico) sono evaporati i
fattori cosmogonici - i contrari, la natura-principio, le masse elementari - ed
è rimasto τὸ ἐόν, espressione che solo in questo senso designa qualcosa di
astratto, non immediatamente riconducibile ai sensi: un intero
indiscriminato102, in cui si riassume la realtà dell'universo, la totalità
delle cose considerate appunto come essere103 . Solo in coerenza con l'esigenza
di permanenza, stabilità e identità incarnata da questa realtà-verità sarà
possibile ripensare il mondo della esperienza. Se è vero che Parmenide non
propone nella Via della Verità una propria cosmologia, ne fissa certamente le
condizioni di possibilità, come la riflessione posteriore, da Empedocle agli
atomisti, avrebbe mostrato. La similitudine con la «massa di ben rotonda palla»
è introdotta per illustrare plasticamente un nodo decisivo della esposizione
della Dea: ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν dal momento che [vi
è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42-43a).
L'impressione è che Parmenide cerchi di utilizzare l'immagine della massa
sferica per confermare l'intuizione della compiuta integrità dell'essere senza
ricorrere a una tutela esterna, come avvenuto nei versi precedenti grazie alle
figure divine (Dike, Ananke, 102 Kraus (p. 261) evoca in proposito una forma di
esperienza immediata descritta da Ernst Mach, in cui l'universo nella sua
interezza si sarebbe rivelato come massa indiscriminata e coesa. 103 Thanassas
(Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 45) sottolinea in proposito come l'ἐόν
di Parmenide sia direttamente comparabile alla espressione aristotelica tò $on
*h? $on, in quanto denoterebbe la totalità degli enti (tò $on), richiamando
tuttavia l'attenzione (nel secondo $on) sull’Essere di quegli enti. 507 Moira)
e ai loro vincoli immobilizzanti, piuttosto attraverso il riferimento al
carattere ultimo dell’estremità entro cui l’essere «uniformemente nei limiti
rimane» (ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) 104. Il limite è estremo: come in Esiodo si dà,
rispetto all'abisso spalancato (χάος, χάσμ’ ἀχανές), una barriera
insormontabile in cui tutte le cose hanno radice (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατα), in
Parmenide oltre il confine non c’è nulla, al di qua tutto l’essere, di
conseguenza perfetto, compiuto (τετελεσμένον) da ogni parte (πάντοθεν) 105. La
similitudine insiste sull’estensione compatta e sulla tensione uniforme:
sull’uguale consistenza, dal centro al perimetro della sfera. Mourelatos ha
osservato106 come la sfera si prestasse, tra le varie figure, all'estrazione di
criteri di completezza, dal momento che è quella che ha estensione sempre
«identica con se stessa». Che questi versi (i più citati del poema
nell'antichità) fossero destinati a un forte impatto cosmologico, è rivelato
soprattutto dalle riprese platoniche: come hanno puntualmente confermato le
ricerche di Palmer107, la rappresentazione della grandiosa creazione del cosmo
fisico da parte del demiurgo, sulla scorta del modello del vivente intelligibile,
nel Timeo platonico propone un’impressionante concentrazione di allusioni (e
parole) parmenidee: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ δὲ τὰ
πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς ἐν
αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς τελευτὰς
ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν τε αὐτὸ ἑαυτῷ
σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ
ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο
ἔξωθεν, οὐδ’ 104 Couloubaritsis, Mythe et philosophie cit., p. 249. 105 Ruggiu,
op. cit., p. 309. 106 Op. cit., pp. 127-8. 107 J. Palmer, Plato's Reception of
Parmenides, O.U.P., Oxford 1999, pp. 193 ss.. 508 ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά
τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ
τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι πάλιν.
ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν—οὐδὲ γὰρ ἦν [...] E gli diede una
figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al vivente che
doveva contenere in sé tutti i viventi non poteva essere che quella che
comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una sfera,
in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle
estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se
stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese
perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non
aveva affatto bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere all'esterno,
né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era bisogno di un
organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo
averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso
aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori [...] (Timeo
33b-c7)108 . 108 Traduzione da Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, BUR,
Milano 2003. 509 DALL’ESSERE ALLE FORME [B8 VV. 50-61] Sin dalla antichità si è
presentato il poema di Parmenide come suddiviso in un proemio e due sezioni, di
diversa ampiezza: Verità (o via della Verità) e Opinione (o via della
Opinione), secondo lo schema attestato da Diogene Laerzio: δισσήν τε ἔφη τὴν
φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia si
divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo opinione. (DK 28
A1). È plausibile che Proemio e prima parte complessivamente risultassero
marcatamente più brevi rispetto alla seconda, di cui però abbiamo conservati
soltanto quaranta versi (dei 150 circa complessivamente superstiti: 32 del solo
B1 e 61 di B8!): 1/10, secondo le stime tradizionali, dell’intera sezione, che
doveva coprire i 2/3 del poema1 . Su questo elemento strutturale avremo modo di
riflettere ancora più avanti. Discorso affidabile e opinioni mortali Gli ultimi
12 versi del frammento 8 DK, conservatici da Simplicio, segnano evidentemente
il passaggio tra le due sezioni (Verità e Opinione), come rivela il contesto
delle citazioni: συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί
[vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς
αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς
στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ
> πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ 1 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…,
cit., p. 104. 510 ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον
παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno
all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-61] (Simplicio, Phys.
38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si
esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv.
50-52], pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la
prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o
identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati,
[citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). Pur ipotizzando la
posteriorità della suddivisione e sottotitolazione (Verità e Opinione) delle
sezioni, non rimangono dubbi circa la funzione di cerniera di questo passo. Il
linguaggio peripatetico del commentatore riflette in effetti un'altra celebre
testimonianza sulla Doxa parmenidea, proposta nel primo libro della Metafisica
aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ
ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...], ἀναγκαζόμενος
δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν
αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν
καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει
θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con
maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il
non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e
nient’altro. […] Costretto, tuttavia, a seguire i fenomeni, e assumendo che
l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua
volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e
terra. E di questi 511 dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il
non-essere (Metafisica I, 5 986 b 31- 987 a 2). Verità e opinioni Il testo del
frammento è, d'altra parte, a sua volta esplicito nel rilevare la svolta
nell'esposizione divina: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης·
δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo
punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a
Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie
parole ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Da un lato la Dea sottolinea
al proprio interlocutore la conclusione della «comunicazione attendibile» (πιστὸν
λόγον) e della «riflessione sulla verità» (νόημα ἀμφὶς ἀληθείης) e, insieme,
l'introduzione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), mettendolo
sull'avviso: la costruzione verbale (κόσμον ἐμῶν ἐπέων) potrà risultare
fuorviante (ἀπατηλὸν). Dall'altro, è comunque la Dea a tenere lezione (donde
l'esortazione al kouros: μάνθανε), e le stesse scelte espressive richiamano
puntualmente il programma educativo del prologo del poema. La rivelazione della
dea innominata comprevedeva tre momenti distinti (ma concettualmente
correlati): (i) l'indiscutibile Verità, (ii) le inaffidabili opinioni dei mortali,
(iii) un adeguato resoconto dei contenuti di quelle opinioni, τὰ δοκοῦντα - «le
cose accettate nelle opinioni», ovvero «le cose che appaiono». Nostra
convinzione è che le premesse di B2 consentano di individuare espressamente in
B8.1-49 la trattazione del primo punto, e complessivamente in B6, B7, B8
allusioni al secondo, non fatto oggetto di riscontro puntuale, ma solo
genericamente di rilievi di fondo 512 (che poi gli interpreti proiettano in una
direzione o nell'altra). Quella che tradizionalmente è chiamata Doxa doveva
invece svolgere l'ufficio positivo di rileggere il quadro dell'esperienza in
termini compatibili con le indicazioni della Verità: in pratica – secondo il
costume dei precedenti ionici – offriva cosmogonia, cosmologia e zoogonia, probabilmente
con dovizia di contributi, come risulta limpidamente dalla preziosa
testimonianza di Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ διάκοσμον
πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα
πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ
καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος
ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων
παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la
luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha
detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e
tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più
importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha
composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro. È significativo il
fatto che di questo διάκοσμος così poco sia stato conservato: come documenta
anche l'urgenza della citazione di B8 da parte di Simplicio, è plausibile che
fossero gli elementi più originali del poema – soprattutto premesse ed
esposizione della Verità - ad attrarre l'attenzione dei compilatori: καὶ εἴ τωι
μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ
ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ
λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di
sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi
di Parmenide 513 sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette,
sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21). La seconda parte, in
fondo, rientrava nei canoni della produzione cosmogonico-cosmologica milesia:
non è un caso che di essa siano state tramandate, probabilmente, apertura e
conclusione. «...l'ordine delle mie parole...» Come abbiamo sottolineato in
precedenza, la Dea mette sull'avviso il proprio giovane interlocutore circa il
mutamento di registro: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης ·
δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo
punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a
Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie
parole ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Due dati risultano fuori
discussione: (i) l'abbandono dell'esposizione della «Verità»; (ii) il passaggio
alla considerazione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), in altri
termini di una prospettiva diversa rispetto a quella divina. Nel contesto della
narrazione ciò comporta da parte della Dea – che si rivolge a un essere umano –
adeguare il proprio registro espressivo: pur continuando la propria lezione,
ella avverte circa il potenziale disturbo (alla corretta intelligenza della
realtà) conseguenza dell'adozione di un lessico adeguato a quei punti di vista.
Come im precedenza denunciato (B8.38b-42), il linguaggio della pluralità e del
divenire è virtualmente foriero di contraddizione e il relativo correlato
oggettivo, il mondo delle cose in mutamento, è, dal punto di vista dell’essere,
apparenza. Dal momento che – nonostante le denunce di B6, B7 e dello stesso B8
– la 514 Dea insiste perché il kouros apprenda (μάνθανε) quei contenuti,
possiamo inferire che la sua esposizione: (a) non si concentrasse su opinioni
che il giovane allievo potesse da sé ricavare dall'esperienza; (b) né,
diffondendosi (secondo quanto ci attesta Plutarco) sugli aspetti fondamentali
della realtà naturale, avallasse opinioni erronee (per circa i 2\3 del poema!);
(c) piuttosto riconducesse l'esperienza umana all'interno della cornice della
verità. A sostegno di questa lettura possiamo addurre i versi conclusivi del
frammento (vv. 60-61): τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή
ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato,
per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. Si
tratta in pratica dell'osservazione finale di un inciso lungo 12 versi, a
cavallo tra Verità e Opinione, in cui la Dea (e il poeta attraverso la Dea)
offre indicazioni sul passaggio tra le due sezioni. Le scelte lessicali
sottolineano che l'esposizione successiva riguarderà l'organizzazione di una
pluralità: così al κόσμον ἐμῶν ἐπέων del v. 52 corrisponde, al v. 60
l'espressione διάκοσμον ἐοικότα πάντα. Che si tratti dell'ordine verbale ovvero
dell'ordinamento cosmico, è comunque implicito il rinvio a una molteplicità di
elementi da sistemare: è possibile che Parmenide giocasse proprio sulla doppia
valenza semantica di κόσμος, costrutto, disposizione, ma anche «mondo»,
accentuando i rischi della costruzione verbale (che può risultare
«ingannevole», ἀπατηλόν). L'enunciazione divina è comunque connotata
positivamente: il rilievo dei pronomi personali (σοι, ἐγὼ, σε) marca l'impegno
e la responsabilità della Dea, nei confronti del kouros, di fornire in ogni
modo una ricostruzione almeno relativamente plausibile del quadro complesso dei
fenomeni naturali. L'adozione di un'ottica «mortale» implica la dimensione
qualitativa dell'esperienza (in questo senso sembrerebbe scontato il ri- 515
chiamo a τὰ δοκοῦντα), come rivelano in particolare le connotazioni delle «due
forme» (μορφαί δύο), e dunque l'adeguamento della prospettiva della
comunicazione divina: donde l'urgenza di ridefinire i tradizionali strumenti
(il modello oppositivo) di illustrazione dei fenomeni naturali, così da evitare
le contraddizioni stigmatizzate nei frammenti precedenti. Complessivamente la
preoccupazione è quella di fornire una spiegazione del mondo naturale
(διάκοσμος) comunque superiore a quella della concorrenza. Rispetto alla
sezione sulla Verità, in cui era essenziale determinare, con lo sguardo
dell'intelligenza, la compatta fisionomia dell'essere (attraverso i «segni» di
B8), l'urgenza avvertita nelle parole della Dea è quella di non abbandonare
all'insignificanza il mondo dell'esperienza. Un ordinamento verosimile Può
essere utile, per comprendere le movenze intellettuali di Parmenide, richiamare
il testo di B4: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ
ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε
συνιστάμενον. Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente
presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né
disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi.
Se B4, la cui collocazione nel poema rimane molto discussa, mostrava come per
il νόος la molteplicità dispersa degli enti (ἀπεόντα) «nel cosmo» (κατὰ κόσμον)
si riconducesse alla identità di τὸ ἐὸν, alla sua inscindibile connessione (τὸ ἐὸν
τοῦ ἐόντος 516 ἔχεσθαι), a partire dalla conclusione dell'attuale B8, dopo aver
illustrato quell’identità in cui tutte le cose si riassumono e averne
analizzato le proprietà, la Dea percorre in un certo senso la direzione
opposta. Ella indica, infatti, come quella molteplicità che si manifesta
all'esperienza, in cui l'intelligenza riconosce l'identità dell'essere, possa
essere correttamente intesa nelle sue dinamiche, senza pregiudizio per la
realtà annunciata dall'intelligenza. Parmenide non annuncia una distinzione di
piani di realtà (anticipando Platone), ma rileva come all'unica realtà si possa
guardare nell'ottica immediata dell'esperienza, ovvero attraverso il sondaggio
dell'intelligenza, ricavandone due immagini sostanzialmente diverse: nel primo
caso il quadro multiforme e plurale di dati mutevoli, nel secondo la sua
estrema rarefazione negli attributi di B8.1-49, in cui molteplicità, differenza,
movimento ecc. sono evaporati nella compattezza dell'essere. A partire dalle
consuetudini empiriche (richiamate in B7.3 nell'espressione ἔθος πολύπειρον,
«abitudine alle molte esperienze») si è spinti a considerare reale una
molteplicità di enti in divenire, che si rivelano in contraddizione con gli
esiti dell'esame cui l'intelligenza sottopone «ciò che è» (ἐὸν). Si
tratterebbe, in fondo, di una diversa, più coerente e radicale modulazione del
progetto di indagine ionico, almeno dando credito alla interpretazione
peripatetica delle origini, con la riduzione di «tutti gli enti» (ἅπαντα τὰ ὄντα)
all'unità di una «sostanza soggiacente» (οὐσία ὑπομενούσα), a un tempo
«principio» (ἀρχή), «elemento» (στοιχεῖον) e «natura» (φύσις) delle cose (τῶν ὄντων):
ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται
τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο
στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι
οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης ciò da cui,
infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si
generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza,
per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono 517 essere elemento
e questo principio delle cose, e per questo credono che nulla né si generi né
si distrugga, dal momento che una tale natura si conserva sempre (Aristotele,
Metafisica I, 3 983 b8-13). Da un lato Parmenide riconosce nel fatto d'essere
la dimensione omogeneizzante che raccoglie a identità gli enti, ricavandone –
attraverso l'esclusione del non-essere – le proprietà. Dall'altro, dopo aver
denunciato le contraddizioni di fondo che minavano le cosmologie contemporanee,
offre nella Doxa una ricostruzione che colloca quanto si manifesta
nell'esperienza (τὰ δοκοῦντα) in un sistema esplicativo (διάκοσμος) adeguato (ἐοικότα)
– in esplicita coerenza con le indicazioni dei «segni» (σήματα) della via «che
è» (ὡς ἔστιν), come evidenzia ancora B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος
καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le
cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive
proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno
egualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a
nessuna delle due [è] il nulla, impiegando un lessico che è indiscutibilmente quello
della conoscenza e non dell'errore, come conferma B10: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε
φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα
καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις
δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη
πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων 518 Conoscerai la natura etereα e nell’etere tutti i segni
e della pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero
origine, e le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la
[sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe
origine e come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri.
Diagnosi di un errore Dopo aver annunciato il passaggio dalla «riflessione
intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) alle «opinioni mortali» (δόξας
βροτείας) e il mutamento di registro - dalla necessaria enunciazione di «ciò
che è è» (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι, B6.1) all'ascolto dell’«ordine
delle mie parole che può ingannare» (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων, B8.52)
– la Dea concentra la propria attenzione, con una formula non priva di
ambiguità, su uno schema linguistico di cui riscontra e stigmatizza, in un
verso dal significato molto discusso, il limite concettuale: μορφὰς γὰρ
κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν
- · Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità
non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada
(B8.53-4). Di che cosa si tratta e a chi è riferita la decisione? Abbiamo
indicato in nota al testo le principali opzioni interpretative contemporanee:
in estrema sintesi, gli studiosi hanno individuato i destinatari della
contestazione o genericamente nei «mortali», intendendo l'universale approccio
umano al mondo naturale, o specificamente in una determinata posizione teorica
(per lo più nel pitagorismo antico). Ma non appare plausibile che il modello
519 (dualistico) cui la Dea allude possa essere fatto valere in generale per
gli esseri umani, né che esso, in particolare, possa univocamente riferirsi
alla riflessione cosmologica milesia (sebbene lo schema polare vi svolga un
ruolo rilevante). D'altra parte, la scelta di lasciare implicito il riferimento
potrebbe spiegarsi – all'interno della cultura aurale in cui matura l'opera di
Parmenide – con la possibilità da parte dell'audience di individuare facilmente
il soggetto: in questo senso potrebbe considerarsi credibile, a dispetto delle nostre
incertezze circa la sua fisionomia antica, la candidatura pitagorica.
Riteniamo, in ogni caso, che il poeta intenda contestare non ogni possibile
approccio "mortale", ma quello di un certo gruppo di pensatori, da
cui evidentemente egli ha interesse a prendere le distanze, per introdurre poi
un resoconto «appropriato», in relazione al quale impiega (in B9-10, come
abbiamo sopra segnalato) espressioni indiscutibilmente positive, difficilmente
riferibili a posizioni giudicate erronee. Due forme e la loro unità L'errore
fuorviante (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν: «in ciò sono andati fuori strada» v. 54b)
che viene imputato dalla Dea è delineato dapprima in termini formali,
distinguendone due momenti per focalizzare esattamente la sua genesi: (a) μορφὰς
γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν Presero la decisione, infatti, di dar nome a
due forme... (v. 53) (b) τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν delle quali l’unità non è [per
loro] necessario [nominare] (v. 54a). I due versi, come risulta anche dalla
nostra rapida sintesi in nota al testo, sono stati oggetto di tormentate
analisi linguistiche, per decidere della costruzione del primo e del
significato del se- 520 condo. La nostra traduzione tiene conto delle diverse
proposte interpretative (e filologiche), senza pretendere di fare chiarezza: è
probabile, come suggerito da Mourelatos2 , che il costrutto verbale fosse
intenzionalmente ambiguo, se non addirittura ironico, forse concepito per un
efficace attacco ad hominem. La diagnosi ruota intorno al punto (b): la Dea, in
altre parole, stando alla nostra ricostruzione del significato dei versi
parmenidei, censura (senza addebito esplicito) il mancato riconoscimento
dell'unità nelle due «forme» introdotte per dar conto dei fenomeni. Una lettura
nell'antichità già proposta da Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν
τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας si sono ingannati coloro
che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la
generazione (Fisica 31.8-9). Per quanto ci è dato ricostruire dallo scarso
materiale conservato, nelle battute che segnano il passaggio alla Doxa la Dea
si intrattiene dapprima su un errore che evidentemente Parmenide considerava
strutturale almeno in certi resoconti cosmologici: ciò per assumerne un modello
(pitagorico?), evitandone a un tempo le implicazioni contraddittorie con
l'insegnamento della Alētheia. La preoccupazione di rilevare con precisione (ἐν
ᾧ, «in ciò...») la natura dell'erranza è probabilmente indice dell'esigenza di
procedere comunque con lo schema dualistico, tenendo lontano lo spettro del
non-essere. Si spiegherebbe così la cautela della Dea, la sua segnalazione
delle potenzialità fuorvianti del proprio discorso sulle «opinioni mortali»:
non a caso, dello schema adottato, subito si denuncia un impiego improprio, per
poi (B9) marcare la corretta impostazione ontologica: [...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ
φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν [...] tutto è
pieno egualmente di luce e notte invisibile, 2 Op. cit., pp. 228-9. 521 di entrambe
alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.3-4). Il
riscontro tra il passo conclusivo di B8 e B9 – che doveva seguire dappresso,
secondo le indicazioni di Simplicio (contesto di B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν...,
«poco dopo aggiunge...») – può autorizzare la lettura di Thanassas, secondo il
quale l'aggettivo ἀπατηλὸν andrebbe riferito alle «opinioni dei mortali»
criticate in B8.54-9, in stretta relazione con la formula «in questo si sono
ingannati» (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν): essa esprimerebbe l’errore delle
ingannevoli δόξαι βροτείαι, preparando la correzione della «appropriata» (ἐοικότα)
Doxa divina3 . In effetti la Dea così passa a determinare il modello dualistico
introdotto al v. 53: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων,
τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄
ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές
τε Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente
gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto
leggero, a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece,
non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche
opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 55-59). Rispetto alle
precedenti allusioni agli errori dei «mortali», qui indubbiamente la situazione
si presenta molto diversa. Confrontiamo, per esempio, questa analisi con la
requisitoria contro la ὁδός διζήσιός richiamata ai versi B6.4-9: 3 Op. cit., p.
65. 522 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν πλάττονται, δίκρανοι· ἀμηχανίη
γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί
τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ
ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος poi da quella [via] che mortali che
nulla sanno s’inventano, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti
guida la mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti,
schiere scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non essere la
stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna
all'indietro. Nel contesto delle citazioni (DK 28 B6), Simplicio indica
l'errore contestato: i «mortali che nulla sanno» hanno trascurato la κρίσις
(decisione, scelta) tra τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν, imponendo così di fatto l'identità
(εἰς ταὐτὸ συνάγουσι) tra essere e non-essere. Diverso il discorso a proposito
delle «opinioni mortali» criticate in B8, ancora secondo Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι
δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας
si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli
elementi che producono la generazione (Fisica 31, 8-9). In questo caso, ciò che
viene censurato è sostanzialmente l'errore opposto: il mancato rilievo
dell'unità delle «forme» nell'essere. Si può notare, allora, accostando
l'attenzione descrittiva di B8.55-59 alla dura requisitoria contro la
confusione dei δίκρανοι di B6, come nella conclusione di B8 la Dea manifesti
una diversa indulgenza per quelle convinzioni, di cui sembra rilevare pregi e
difetti. Ella in pratica parrebbe, a un tempo, insistere sullo schema
oppositivo e prendere le distanze, per i criteri ontologici della Alētheia, da
una sua specifica applicazione. In questo senso, in parti- 523 colare,
l'insistenza su una opposizione i cui membri risultano interamente separati e
indipendenti: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων
[...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό
τἀντία [...] Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero
separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione
identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche
quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...]. Diventa allora difficile
credere che in B8.60-61, laddove afferma che: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα
πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento,
del tutto adeguato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali
possa superarti, la dea si riferisca alle erronee concezioni dei mortali appena
determinate 4 , mentre si rafforza l'impressione che il materiale frammentario
della Doxa costituisca il residuo di uno sforzo positivo di comprensione del
mondo naturale, definitosi proprio in relazione alla revisione di quello schema
oppositivo (come confermerebbe B9). 4 Su questo punto in particolare J.H.
Lesher, Early interest in knowledge, cit., p. 239. 524 Un modello elementare
Abbiamo inizialmente utilizzato il contesto della citazione dei versi
conclusivi di B8 da parte di Simplicio per osservare come il commentatore
segnalasse il passaggio tra le due sezioni del poema. Ora dobbiamo riprendere
quel contesto per determinare il modello proposto nella Doxa: συμπληρώσας γὰρ τὸν
περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ
τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv.
50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο,
ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ > πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ
ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso
infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione
vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili,
o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in
cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle
cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco
e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in
precedenza citati, [citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). La Dea
prende dunque le mosse da uno schema in cui due μορφαί sono selezionate come
«opposti nel corpo» (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας) e connotate con proprietà
reciprocamente ben distinte (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων): i «segni» fisici
erano essenziali e funzionali evidentemente alla concreta esplicazione dei
fenomeni: τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, 525 ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, [...] [...] ἀτὰρ
[...] τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε da una parte, della fiamma
etereo fuoco, che è mite, molto leggero [...] [...] dall’altra parte [...] le
caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 56b-59).
Dalla testimonianza aristotelica sappiamo che, tra i primi seguaci di Pitagora,
qualcuno produsse un sistema seriale di opposizioni entro cui è possibile
riscontrare anche quella sfruttata da Parmenide: ἕτεροι δὲ τῶν αὐτῶν τούτων τὰς
ἀρχὰς δέκα λέγουσιν εἶναι τὰς κατὰ συστοιχίαν λεγομένας, πέρας [καὶ] ἄπειρον,
περιττὸν [καὶ] ἄρτιον, ἓν [καὶ] πλῆθος, δεξιὸν [καὶ] ἀριστερόν, ἄρρεν [καὶ] θῆλυ,
ἠρεμοῦν [καὶ] κινούμενον, εὐθὺ [καὶ] καμπύλον, φῶς [καὶ] σκότος, ἀγαθὸν [καὶ]
κακόν, τετράγωνον [καὶ] ἑτερόμηκες· ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ
Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου
παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι
Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· Altri di questi stessi
[Pitagorici] sostengono che i principi sono dieci, disposti in serie di
opposti: limite e illimite, dispari e pari, uno e molti, destro e sinistro,
maschio e femmina, fermo e mosso, diritto e curvo, luce e tenebra, buono e
cattivo, quadrato e rettangolo. Analogamente sembra pensasse Alcmeone, sia che
egli recuperasse da loro questa dottrina, sia che quelli la prendessero da lui:
Alcmeone, infatti, fiorì quando Pitagora era vecchio e professò una teoria
simile alla loro» (Metafisica I, 5 986 a22-31). Non è chiaro da dove Aristotele
- che, secondo la tradizione dossografica, avrebbe sviluppato specifiche
ricerche sui Pitagorici (Diogene gli attribuisce nel suo elenco delle opere sia
un Πρὸς 526 τοὺς Πυθαγορείους sia un Περὶ τῶν Πυθαγορείων) – abbia ricavato
quella tavola degli opposti, la cui antichità sarebbe attestata solo dal vago
accostamento alle idee del contemporaneo di Parmenide Alcmeone. Gli specialisti
sono divisi: Schofield5 ritiene che non ci siano in realtà elementi per
stabilirne l'originalità pitagorica, ipotizzando piuttosto una sua dipendenza
dal modello parmenideo. Più plausibile allora l'associazione con l'ambiente di
Filolao (seconda metà del V secolo a.C.)6 . Ma di recente Kahn7 , pur rilevando
nella doppia lista la possibilità di un'eco accademica, osserva come la
modalità con cui opposti astratti e concreti, matematici ed estetico-morali
sono combinati potrebbe rinviare effettivamente a uno schema arcaico. Essendo
implausibile (a causa dell’espliito riferimento a una «decisione»: κατέθεντο ὀνομάζειν)
che la fisica dualistica proposta rispecchiasse una prospettiva genericamente
umana, e che si riferisse direttamente solo alle cosmologie milesie (in cui il
dualismo oppositivo indubbiamente agisce), ammettendo che essa dovesse
risultare in ogni caso perspicua agli originari destinatari del poema, la
considerazione del contesto geografico e culturale entro cui Parmenide operò, e
le tenui indicazioni della tradizione dossografica: di; meno affidabile
Giamblico DK 28 A4): Ξενοφάνους δὲ διήκουσε Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης (τοῦτον
Θεόφραστος ἐν τῆι Ἐπιτομῆι Ἀναξιμάνδρου φησὶν ἀκοῦσαι). ὅμως δ’ οὖν ἀκούσας καὶ
Ξενοφάνους οὐκ ἠκολούθησεν αὐτῶι. ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι
Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον
ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ
πλούτου, καὶ ὑπ’ 5 Nel suo rifacimento dei capitoli pitagorici di Kirk-Raven
(nel capitolo su Filolao): G.S. Kirk, J.E. Raven, M. Schofield, The Presocratic
Philosophy, C.U.P., Cambridge 19832 , p. 339. 6 Una indicazione analoga si può
ricavare dal saggio di C.A. Huffman, The Pythagorean tradition, in Early Greek
Philosophy cit., p. 78 ss.. 7 Ch.H. Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans,
Hackett, Indianapolis 2001, pp. 65-6. 527 Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς
ἡσυχίαν προετράπη Parmenide Eleate, figlio di Pireto, fu discepolo di Senofane
(Teofrasto nella Epitome dice che costui fu discepolo di Anassimandro).
Tuttavia, pur essendo stato discepolo anche di Senofane, non lo seguì. Secondo
quanto ha affermato Sozione, egli si associò al pitagorico Aminia, figlio di
Diochete, un uomo povero ma di grande valore. Costui preferì seguire, e quando
morì, dal momento che Parmenide era di una distinta casata e ricco, gli eresse
un monumento funebre. E da Aminia, non da Senofane, egli fu avviato alla
tranquillità [della vita contemplativa] (Diogene Laerzio; DK 28 A1) Ζήνωνα καὶ
Παρμενίδην τοὺς Ἐλεάτας· καὶ οὗτοι δὲ τῆς Πυθαγορείου ἦσαν διατριβῆς Anche gli
eleati Zenone e Parmenide appartenevano alla scuola pitagorica (Giamblico; DK
28 A4), può suggerire l'ipotesi che l'Eleate abbia ricavato da contemporanee
correnti pitagoriche lo schema cui sommariamente riferirsi8 . In alternativa,
sfruttando il prezioso lavoro di Charles Kahn sull'origine degli
"elementi" nel mondo greco arcaico, si potrebbe rintracciare in
Parmenide l'eco di una tradizione che aveva fatto di Gaia (γαῖα) e Urano (οὐρανός)
i progenitori di tutti gli esseri, come si può ancora cogliere in Esiodo:
χαίρετε τέκνα Διός, δότε δ’ ἱμερόεσσαν ἀοιδήν· κλείετε δ’ ἀθανάτων ἱερὸν γένος
αἰὲν ἐόντων, οἳ Γῆς ἐξεγένοντο καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος, Νυκτός τε δνοφερῆς, οὕς
θ’ ἁλμυρὸς ἔτρεφε Πόντος Salve, figlie di Zeus, datemi l'amabile canto;
celebrate la sacra stirpe degli immortali, sempre viventi, 8 Dobbiamo tuttavia
ricordare, con Patricia Curd, che non si conosce alcuna cosmogonia presocratica
che cominci con Luce e Notte (The Legacy of Parmenides…, cit., p. 117). 528 che
da Gaia nacquero e da Urano stellato, da Notte oscura e quelli che nutrì il
salso Mare (Teogonia 104-107, traduzione Arrighetti), e più tardi nelle
laminette orfiche (V-IV secolo a.C.): ὐιὸς Βαρέας καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono
figlio della Greve e di Cielo stellante (laminetta di Ipponio) Γῆς παῖς εἰμι καὶ
Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono figlio di Terra e Cielo stellante» (laminetta di
Petelia)9 . Un’opposizione ricorrente nella cultura arcaica, intrecciata a quella
tra regione celeste (οὐρανός), e regione della oscurità (Ade, Notte), in cui,
come mostra ancora Kahn10 , αἰθήρ avrebbe poi sostituito οὐρανός, e ἀήρ
assorbito i caratteri della oscurità (come rivela, anche etimologicamente, la
formula omerica ζόφος ἠερόεις, «oscurità nebbiosa»). In Parmenide, insomma,
sarebbe possibile rintracciare un’estrema essenzializzazione e concentrazione
del lessico delle teogonie e cosmogonie, nell'alveo della riflessione
cosmologica dei Milesi, la quale, in estrema sintesi, aveva ricostruito gli
opposti elementari disponendo da un lato caldo, secco, luminoso e raro,
dall'altro freddo, umido, oscuro, denso. In questo senso egli avrebbe estratto
le sue due serie di proprietà (δυνάμεις) fondamentali: (i) αἰθέριον («etereo»),
[ἀραιόν] 11 («rarefatto»), ἤπιον («mite»), μέγ΄ ἐλαφρόν («molto leggero») sono
riferiti a φλογὸς πῦρ («fuoco di fiamma»); (ii) ἀδαῆ («oscura») è attributo
diretto di núx («notte»), mentre πυκινὸν («denso»), ἐμϐριθές («pesante»)
concordano con δέμας («corpo»), a sua volta in apposizione a νύξ. 9 Testo greco
e traduzione di G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp.
172-175. 10 Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett,
Indianapolis 1994, p. 152. 11 Secondo alcuni codici di Simplicio. 529 Se
consideriamo nel complesso le due liste, e riscontriamo l'incidenza di quelle
connotazioni nella tradizione delle opposizioni e degli elementi, non abbiamo
in realtà bisogno di coinvolgere indefiniti gruppi pitagorici: di quella
tradizione Parmenide avrebbe semplicemente riferito alla polarità πῦρ\νύξ i
poteri (δυνάμεις) cosmogonici essenziali, che altri avevano concentrato in sole
e terra e che Anassagora fisserà in αἰθήρ e ἀήρ. È significativo che ancora in
Empedocle, colui cui generalmente si riconosce l'introduzione del modello
elementare (le quattro radici), l'opposizione luce-oscurità giochi un ruolo
rilevante: ἀλλ’ ἄγε, τόνδ’ ὀάρων προτέρων ἐπιμάρτυρα δέρκευ, εἴ τι καὶ ἐν
προτέροισι λιπόξυλον ἔπλετο μορφῆι, ἠέλιον μὲν λευκὸν ὁρᾶν καὶ θερμὸν ἁπάντηι, ἄμβροτα
δ’ ὅσσ’ εἴδει τε καὶ ἀργέτι δεύεται αὐγῆι, ὄμβρον δ’ ἐν πᾶσι δνοφόεντά τε ῥιγαλέον
τε· ἐκ δ’ αἴης προρέουσι θελεμνά τε καὶ στερεωπά. Orsù, considera questa
attestazione delle cose dette prima, se mai anche nelle cose dette prima è mancato
qualcosa alla forma: il sole splendente a vedersi e caldo dappertutto, quante
cose imperiture sono immerse nel calore e nella luce irradiante, la pioggia in
tutte le cose oscura e gelida; e la terra da cui sorgono cose compatte e solide
(DK 30 B21.1-6). In ogni modo, come sappiamo, Parmenide intervenne a correggere
quello schema cosmogonico su un punto essenziale: l'assoluta posizione della
separazione delle due forme: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄
ἀλλήλων [...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο
κατ΄ αὐτό τἀντία [...] 530 Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni
imposero separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni
direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte,
anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...] (vv. 55-59a),
emendata con la sottolineatura del fatto che esse sono e sono nell'essere: τῶν
μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - · delle quali l’unità non è [per
loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (v. 54).
Complessivamente il recupero e la correzione vanno nella direzione della
determinazione di due elementi-principi, qualitativamente connotati in funzione
della spiegazione dei fenomeni, di cui si rimarca che non sono frutto di una
indebita confusione tra essere e non-essere: in questo senso, come ha rilevato
Nehamas12 , essi danno ragione di molteplicità e cambiamento nel mondo
sensibile mescolandosi in proporzioni differenti, senza che nessuno dei due si
trasformi nell'altro. Identico, non identico Comunque sia stato ricavato, dalla
lezione di contemporanei pitagorici, come alcuni credono, ovvero distillando un
modello dalla tradizione, come abbiamo ipotizzato, lo schema che Parmenide introduce
ai vv. 53 ss. rivela, una volta sottoposto all'esame dei criteri ontologici di
B8.1-49, la propria falla. Inquadrate all'interno della fondamentale
alternativa «è-non è», le polarità oppositive, nella loro identità con sé
stesse (ἑωυτῷ τωὐτόν) e reciproca 12 A. Nehamas, “Parmenidean Being/Heraclitean
Fire”, in Presocratic Philosophy, cit., pp. 61-62. 531 non-identità (τῷ δ΄ ἑτέρῳ
μὴ τωὐτόν), ovvero nella mutua esclusione, appaiono foriere di potenziale
contraddizione: donde l'esigenza di denunciare il rischio13 . La situazione
appare paradossale, perché da un lato Parmenide, di fronte al compito di
spiegare τὰ δοκοῦντα, avrebbe recuperato il dualismo giudicandolo più coerente
con i criteri ontologici, rispetto, per esempio, alla cosmologia ionica che
cerca di dar ragione dei fenomeni facendo appello alle trasformazioni di un
singolo principio di base14; dall'altro, però, avrebbe avvertito l'implicita
debolezza del modello. Come abbiamo sopra sottolineato, il lessico dei
frammenti superstiti – che è lessico di conoscenza (B10: εἴσῃ «conoscerai»,
πεύσῃ «apprenderai», εἰδήσεις «conoscerai») - segnala che in qualche modo tale
debolezza era stata aggirata. La nostra lettura, tuttavia, non sembra aver
superato il paradosso: perché introdurre «due forme» e poi insistere sulla loro
unità? Aristotele, come abbiamo inizialmente avuto occasione di ricordare,
interpreta a suo modo: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ
ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν
[...], ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν
λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς
πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν
τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche
modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre
all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di
necessità uno e nient’altro. […] 13 In questo senso la Curd riferisce
correttamente la natura «enantiomorfa» del modello delineato nei versi
conclusivi di B8, ma secondo noi sbaglia ad attribuirlo a Parmenide, il quale,
invece, lo propone per sottolinearne il limite. 14 Nehamas, op. cit., pp.
61-62. 532 Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia
secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due
cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di
questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere
(Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Solo per dar ragione dei fenomeni,
Parmenide avrebbe recuperato due principi (secondo i precedenti cosmologici) e
solo analogicamente avrebbe accostato la loro opposizione a quella di essere e
non-essere15: Simplicio ne coglie il senso citando B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν
[...] εἰ δὲ "μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν " καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω
καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e poco dopo ancora [citazione B9]; e se "insieme
a nessuna delle due è il nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono
principi e che sono opposti. Il commentatore rileva l'interesse del passo
parmenideo nell’esplicitazione del duplice aspetto di φῶς e νύξ: per le loro
proprietà costitutive - che condensano le tradizionali opposizioni elementari –
e nella misura in cui escludano il nulla, esse possono fungere da ἀρχαὶ. Pur
opposte nei loro «segni», entrambe «sono»: «luce è» e «notte è». Insomma,
l'Eleate avrebbe conservato un consolidato schema esplicativo del mondo
fenomenico, emendandone le implicazioni inaccettabili sul piano ontologico: la
mutua esclusione degli opposti doveva evitare la trasformazione dell'uno
nell'altro, senza spingersi tuttavia fino alla loro assolutizzazione. Presero
la decisione di dar nome... Il passaggio dalla prima alla seconda sezione del
poema è sottolineato dalla antitesi tra «pensiero intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς
Ἀληθείης)·e «opinioni mortali» (δόξας βροτείας): come già 15 Così interpreta
Mansfeld, op. cit., pp. 137-139. 533 indicato nei versi che precedono, una
componente essenziale dell'opinare umano è riscontrata nel linguaggio, o,
meglio, nell'arbitrio delle convenzioni linguistiche. In questo senso era stata
netta la presa di posizione di B8.38b-41: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ
κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί,
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le
cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali:
nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore.
Alla necessità («unica parola ancora rimane», μόνος δ΄ ἔτι μῦθος λείπεται) con
cui, in apertura di B8, si erano imposti la prospettiva della «via che è» (ὁδοῖο
ὡς ἔστιν) e il riconoscimento della relativa sequenza di «segni» («su questa
[via] sono segnali molto numerosi: che ...», ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ
μάλ΄, ὡς...), la Dea ha modo di contrapporre, introducendo le «opinioni
mortali», la decisione di «nominare» (κατέθεντο ὀνομάζειν), ovvero la scelta di
«opposti» (ἀντία ἐκρίναντο δέμας) e l'imposizione di «segni» (σήματ΄ ἔθεντο).
Non sorprende, dunque, che ella metta sull'avviso il kouros circa le
potenzialità fuorvianti dell'espressione di quelle convinzioni umane (κόσμον ἐμῶν
ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων). Il passaggio fa registrare dunque una significativa
svolta nell'atteggiamento intellettuale proposto all'interno dell’esposizione
divina. Da una considerazione puramente razionale della realtà, che abbraccia
con l'intelligenza il tutto come tale, omogeneizzandolo nell'essere e
guadagnandone argomentativamente le proprietà, nella seconda sezione
l'attenzione si sposta sul complesso dei fenomeni e quindi non può prescindere
dal dato sensibile: questo non comporta comunque una forma di "empirismo",
come confermano appunto i rilievi circa la rielaborazione "umana"
della Doxa attraverso lo schema degli opposti. La posizione introdotta non è
assimilabile a quella stigmatizzata in B7.3- 5a: 534 μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν
κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né
abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere
l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua. L'operazione di
riduzione dei fenomeni naturali alla coppia «luce-notte» è certamente altra
cosa rispetto alla meccanica e irriflessa assuefazione al dato empirico (ἔθος
πολύπειρον), pur avendo di mira la stessa realtà attestata e accettata sulla
scorta dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα). La rielaborazione è valorizzata da
Parmenide soprattutto nella sua dimensione linguistica e\o categoriale:
l'insistenza su formule verbali che implicano valutazione (κατέθεντο, ἐκρίναντο)
e disposizione (ἔθεντο) è infatti associata al rilievo del «nominare» (ὀνομάζειν).
Così la Dea attribuisce il compito di ordinare il campo dei fenomeni all'umana
risorsa del classificare (attraverso i nomi), sebbene ella individui
esplicitamente nei nomi l'origine di un potenziale fraintendimento della realtà
(come denuncia B8.38b-41). Anche questo contribuisce a spiegare il cambiamento
di registro all'interno del poema e il richiamo ai rischi impliciti nella
comunicazione della Doxa. Questi rilievi non devono spingere a concludere che
il mondo della Doxa sia appunto un mondo puramente "verbale", inconsistente,
illusorio: non condividiamo l'opinione di Nehamas, secondo cui la Doxa
proporrebbe una descrizione accurata di apparenze, la quale, per quanto
accurata, rimarrebbe pur sempre descrizione di apparenze, dunque di un mondo
falso16. È vero piuttosto che Parmenide aveva denunciato tale illusione
nell'immagine della realtà - in sé contraddittoria – caratteristica di coloro
che in B6.4-5 sono apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν e δίκρανοι. La seconda
sezione del poema, al contrario, era probabilmente intesa 16 A. Nehamas,
“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, cit., p. 63. 535 come alternativa alle
cosmologie ioniche17: una grande sintesi enciclopedica che avrebbe dovuto
illustrare la superiorità della sua analisi ontologica. L'orgoglio dell'impresa
potrebbe ancora riflettersi nelle battute conclusive del frammento: τόν σοι ἐγὼ
διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ
Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io espongo, così che mai
alcuna opinione dei mortali possa superarti (vv. 60-61). D'altra parte, se
l'intelligenza applicata alla riflessione su «ciò che è», alla totalità
dell'essere, manifestava proprietà rigorosamente riconducibili all'alternativa
«è»-«non-è», risulta invece evidente, nei versi tràditi della seconda sezione,
l'impegno a dare conto dell'impianto della realtà fenomenica, delle strutture
portanti del cosmo dell'esperienza umana. L'eco, nelle parole della Dea, del
tradizionale motivo dell'opposizione di sapere umano e divino, nonché l'uso di
espressioni, come δοκίμως (B1.32, «realmente», ma anche «plausibilmente») e ἐοικότα
(B8.60, «appropriato», «adeguato», ma anche «verosimile», «probabile»)
potrebbero segnalare, da parte di Parmenide, la consapevolezza dei limiti della
περὶ φύσεως ἱστορία. Spesso nella letteratura si è, su questo punto, evocato il
possibile esempio di Senofane: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔ τις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται
εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι
τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται Davvero
l'evidente verità nessun uomo la conosce, né mai ci sarà 17 Come ipotizza
Graham (Explaining the Cosmos…, cit., p. 184), è forse possibile che la sfida
fosse lanciata anche a Esiodo, considerato alla stregua di un cosmologo. 536
chi sappia intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti,
ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non
lo saprebbe; opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34) ταῦτα δεδοξάσθω μὲν ἐοικότα
τοῖς ἐτύμοισι Siano queste cose credute simili a cose vere (DK 21 B35) ὁππόσα δὴ
θνητοῖσι πεφήνασιν εἰσοράασθαι Tutte le cose che essi [gli dei] hanno mostrato
ai mortali perché le osservassero (DK 21 B36) οὔ τοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’
ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον Gli dei dall'inizio non
hanno rivelato tutte le cose ai mortali, ma nel tempo ricercando essi trovano
ciò che è meglio (DK 21 B18). Graham18 ha di recente rilanciato l'accostamento,
rilevando come i frammenti di Senofane avrebbero presentato, tra VI e V secolo,
qualcosa di simile a uno status quaestionis, una prima meditazione sui limiti
della conoscenza del mondo naturale, concludendo che essa non sarebbe sicura.
Posizione analoga a quella del giovane contemporaneo Alcmeone: περὶ τῶν ἀφανέων,
περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι Sulle
cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma gli
uomini devono imparare per inferenza (DK 24 B1)19 . 18 Explaining the Cosmos…,
cit., p. 176. 19 Come abbiamo in precedenza ricordato, del testo greco esiste
oggi una versione proposta da M.L. Gemelli Marciano (“Lire du début…, cit., pp.
7- 37), che ha espunto la virgola tra i due complementi iniziali, offrendo
quindi un senso profondamente diverso: 537 Il pensatore di Crotone (che Diogene
Laerzio vuole discepolo di Pitagora e dunque proveniente dalla stessa area
geografica e culturale di Parmenide) avrebbe ripreso la tradizionale
opposizione (μὲν θεοὶ ... δὲ ἀνθρώποις) per precisare come gli uomini abbiano
solo la possibilità di procedere per evidenze sensibili e relative inferenze.
Parmenide potrebbe aver reagito alle provocazioni di Senofane indicando come in
realtà fosse possibile una conoscenza dimostrativa sicura di «ciò che è»,
sforzandosi poi, negli ultimi versi del nostro frammento, di rintracciare delle
linee di stabilità che consentissero di riordinare il campo fenomenico alla
luce delle indicazioni ontologiche, come rivelerebbero chiaramente i «segni»
attribuiti alle due «forme». περὶ τῶν ἀφανέων περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν
θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι sulle cose mortali gli dei possiedono
la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo di trovare degli indizi.
538 LE FORME, L’ESSERE, IL NULLA [B9] Simplicio offre, nel caso di B9,
un'indicazione preziosa, ancorché approssimativa, circa la sua collocazione nel
poema parmenideo. Afferma infatti il commentatore (contesto DK 28 B9): καὶ μετ’
ὀλίγα πάλιν [citazione B9] εἰ δὲ ‘μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν ’ καὶ ὅτι
ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e dopo poco aggiunge ancora: [citazione
B9]. E se "con nessuna delle due è il nulla", egli dice chiaramente
che entrambi sono principi e che sono opposti. Dal momento che il rilievo è
posto subito dopo la citazione di B8.53-59, è facile concludere che i quattro
versi di B9 seguissero dappresso la conclusione di B8, anche se non
necessariamente come prosecuzione (come ipotizza Cerri1 ). Appare di
conseguenza discutibile la scelta di alcuni editori (Coxon, Collobert) di collocarli
dopo B10 e B11 (ovvero di ipotizzare la successione B11- B10-B9, come fa O'
Brien), o addirittura, dopo altri intervalli testuali, subito prima di B19
(Mansfeld), nonostante l'evidenza di una relazione tra B9, 10 e 11, come
introduzione generale all'esposizione cosmologico-cosmogonica della Doxa. Tutte
le cose sono state denominate In effetti, dopo l'esordio di B8.50-61, B9
condivide con B19 l'importante riferimento agli ὀνόματα e all'attività di ὀνομάζειν,
che abbiamo visto essere centrale nella costruzione della cosmologia
parmenidea. In particolare, nelle prime battute di B9 troviamo un accenno al
ruolo d'ordine delle due μορφάι: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ
τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς 1 Op. cit., p. 255. 539 Ma poiché
tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le
rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv.
1-2). Nella dimensione plurale delle cose (πάντα) attestate dall’esperienza e
che l'intelligenza ha riassunto nell’omogeneità dell'essere, il compito di φάος
καὶ νὺξ è quello di classificare e discriminare: secondo il modello che abbiamo
riscontrato nel commento al frammento precedente, lo schema oppositivo
distribuisce sul complesso dei fenomeni le «proprietà» (δυνάμεις, «potenze»), i
σήματα che accompagnano le due μορφάι, così riordinando, attraverso
un'articolazione elementare, il mondo empirico. Dopo aver messo a fuoco la
nozione di τò ἐόν, comune denominatore che contraddistingue la realtà,
raccogliendo a unità la totalità degli enti, e averne approfondito le
implicazioni (alla luce della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), Parmenide delinea una
strategia conseguente di recupero del cosmo dell’esperienza umana: Luce e Notte
dovranno spiegare l'apparire senza che venga ammesso come principio il nulla2 .
Alcuni accostamenti verbali manifestano questa operazione. Al verso B8.24b la
Dea aveva sottolineato (i): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος ma tutto pieno è di ciò
che è, dopo aver ricordato (ii): οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν
συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli
di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno (B8.23-24a), e soprattutto (iii):
2 Ruggiu, op.cit., p. 326. 540 οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον Né è
divisibile, poiché è tutto omogeneo (B8.22). A questa rappresentazione della
omogeneità e compattezza dell'essere possiamo far corrispondere l'affermazione
centrale del nostro frammento: πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων
ἀμφοτέρων tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile di entrambe alla
pari (B9.3-4a), dove l'originario nesso ontologico di totalità e pienezza (πᾶν
δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος) è declinato al duale (πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς),
salvaguardando comunque l'esigenza di uniforme densità e continuità – veicolata
in B8 da espressioni come ὁμοῦ πᾶν (B8.5), πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (B8.22), oltre che
da συνεχές (B8.6) e συνέχεσθαι (B8.23) e ribadita in B9 dalla formula πᾶν πλέον
ἐστὶν ὁμοῦ e dalla precisazione incidentale ἴσων ἀμφοτέρων. Insieme a nessuna
delle due è il nulla Ma, al di là di queste convergenze che paiono
indiscutibili, il διάκοσμος proposto dalla Dea esplicitamente rileva il dato
discriminante rispetto alle narrazioni cosmogoniche, la preoccupazione
ontologica essenziale a tutela della fondatezza della ricostruzione: ἐπεὶ οὐδετέρῳ
μέτα μηδέν perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.4). Per quanto
orientata a ordinare ciò che è registrato a livello empirico e che τὸ νοεῖν (il
pensare) ovvero il νόος (l'intelligenza) o ancora il λόγος (il discorso
argomentativo) confermano nell'unità di τò ἐόν, la scelta del modello
oppositivo e della relativa disposizione seriale (l'aristotelica συστοιχία) di
δυνάμεις (proprietà) riba- 541 disce l'assoluta esclusione del «nulla» (μηδέν).
Insomma, il linguaggio della doxa ripropone quello della alētheia,
sottolineando, sul terreno dell'apparire, la propria continuità con il νόημα ἀμφὶς
Ἀληθείης, quasi che la doxa, nel suo insieme e a dispetto dell'insidia degli ὀνόματα,
ne costituisse la diretta prosecuzione3 . Perché, ci si potrebbe chiedere,
Parmenide avrebbe dovuto affiancare alla Verità il resoconto plausibile di una
realtà già ridotta, nei suoi tratti caratterizzanti, ai σήματα di B8? B9 può
contribuire a una risposta, soprattutto considerandone la collocazione a
ridosso della dichiarazione conclusiva di B8: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα
πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento,
del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei
mortali possa superarti. L'orizzonte dell'esperienza è ineludibile per un
mortale; così l'insegnamento divino della verità è proceduto di pari passo con
una puntuale disamina degli errori umani, in larga misura condizionati da
scriteriate assunzioni empiriche: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε
βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle
molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che
non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5a). Proprio per la sua
ineludibilità, la Dea si impegna a fornire gli strumenti per una ricostruzione
adeguata di quell'orizzonte, che ne conservi la fisionomia pluralista e
qualitativa, senza contraddire nella sostanza le indicazioni della Verità. B9
si inserisce appunto in questo contesto, con le sue "istruzioni"
circa l'ordinamento lin- 3 Ibidem. 542 guistico del mondo dell'esperienza e il
suo "riempimento" a opera delle due «forme» nominate, con opportuno
esorcismo del «nulla». Una soluzione per garantire in ogni senso la superiorità
del discente dalla concorrenza di potenziali resoconti alternativi. In questa
prospettiva, la probabile ampia articolazione della Doxa ancora attestata –
come sappiamo - da Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ
διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ
φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ
οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς
ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν,
τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come
elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e
mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul
sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto
circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della
natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro, può
far sorgere il sospetto che la relativamente più contenuta trattazione della
Verità fosse funzionale al coerente consolidamento della trattazione
cosmologica e cosmogonica. Tutto è pieno di luce e notte Se osserviamo la
costruzione del frammento, possiamo notare un passaggio significativo per la
complessiva interpretazione della Doxa: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
[...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου 543 Ma poiché tutte le cose
luce e notte sono state denominate, [...] tutto è pieno ugualmente di luce e
notte invisibile. La consistenza del mondo della nostra esperienza dipende
dalla coerenza della sua costruzione linguistica: dopo (i) aver rifiutato le
interpretazioni che pretendevano coniugare essere e nonessere (B6 e B7), (ii)
aver individuato un modello (linguistico) di base, imperniato sullo schema
polare delle nozioni luce-notte (B8.53-4), (iii) averne rilevato i limiti
(B8.55-59), e (iv) bandito esplicitamente l'implicazione del «nulla» (B9.4),
Parmenide se ne serve (v) distribuendone le rispettive proprietà su tutte le
cose. In altre parole, egli procede a connotare, attraverso gli ὀνόματα delle
due μορφάι – e i relativi σήματα -, i vari aspetti fenomenici: la luce è
associata a caldo, leggero, raro; la notte a freddo, pesante, denso, come
possiamo evincere da B8.56-9 e dallo scolio a B8 di Simplicio: καὶ δὴ καὶ
καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως·
ἐ π ὶ τ ῶ ι δ έ ἐ σ τ ι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τ ὸ φ ά ο ς καὶ τὸ μ α λ θ
α κ ὸ ν καὶ τὸ κοῦφον, ἐ π ὶ δ ὲ τ ῶ ι π υ κ ν ῶ ι ὠ ν ό μ α σ τ α ι τὸ ψυχρὸν
καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· tra i versi è riportato un passo in
prosa come fosse dello stesso Parmenide; esso afferma: «per questo ciò che è
raro è anche caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la densità invece il
freddo è indicato come oscurità, durezza e pesantezza». Quanto è stato
denominato conformemente a tale strategia assume lo spessore di un mondo
comune, condiviso: non a caso, dopo aver impiegato in premessa l'espressione
πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται, al v. 3 la Dea conclude che πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος
καὶ νυκτὸς. 544 Le due «forme» concorrono alla composizione del mondo: la loro
complicità nell'opposizione assicura la stabilità del mondo4 . Il fatto che
entrambe siano parte dell'Essere rende possibile una fisica della mescolanza
(κρᾶσις) 5 . La κρᾶσις funge così da principio di costituzione di tutte le
cose: l'uguaglianza delle due forme e la presenza delle rispettive potenze
spiega come ogni cosa sia costituita insieme (anche se non nella stessa misura)
di Luce e Notte6 . È tuttavia necessario ricordare – con Conche 7 - che le due
μορφάι parmenidee non sono assimilabili agli elementi di Empedocle o degli
atomisti: non si tratta di principi eterni e immutabili, ma di «forme» nominate
dai mortali, di cui la Dea si serve ad hoc, per una adeguata spiegazione
dell'universo delle «opinioni mortali». Ciò deve rendere cauti rispetto a una
loro ontologizzazione: nulla ne giustifica l'assolutizzazione al di fuori di
questo mondo. 4 Conche, op. cit., p. 201. 5 Ruggiu, op. cit., p. 327. 6 Ivi, p.
328. 7 Op. cit., p. 200. 545 UN GRANDE AFFRESCO COSMICO [B10-11-12- 13] I tre
frammenti B10-11-12 sono conservati da due fonti diverse: Clemente Alessandrino
(II-III secolo d.C.) e Simplicio (tuttavia B11 in un passo del commento al De
caelo, B12 in due passi del commento alla Fisica): solo il secondo ci fornisce,
per B12, un’indicazione approssimativa circa la collocazione relativa: μετ’ ὀλίγα
δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως
[...] poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la
causa efficiente, dicendo così [B12.1-3] [...] Ricordiamo che con analoga
approssimazione («poco dopo») era stata introdotta la citazione di B9, il cui
testo avrebbe seguito dappresso B8.59. Almeno i versi di B12, dunque, dovevano
trovarsi a ridosso di B8 e B9: certamente dopo B8. Il contesto delle altre due
citazioni e il loro contenuto concorrono a suggerire una stretta relazione di
B12 con B10 e B11, e, ulteriormente, dei tre frammenti con B9, anche se sono
state proposte diverse soluzioni circa la loro effettiva sequenza. B13, infine,
conservato da varie fonti (Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico,
Stobeo, Simplicio), viene citato da Simplicio in stretta connessione con B12.
Clemente (autore che rivela dimestichezza con il poema, risultando unica fonte
di quasi tutto quello che cita) introduce e accompagna B10 con queste parole: ἀφικόμενος
οὖν ἐπὶ τὴν ἀληθῆ μάθησιν ὁ βουλόμενος ἀκουέτω μὲν Παρμενίδου τοῦ Ἐλεάτου ὑπισχνουμένου
‘ε ἴ σ η ι . . . ἄ σ τ ρ ω ν ’ pervenuto alla vera conoscenza [di Cristo], chi
vuole ascolti Parmenide di Elea che promette «tu conoscerai ... degli astri».
Il commentatore neoplatonico, a sua volta, ci informa che: 546 Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν
ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν
μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili
afferma di aver intenzione di dire [citazione B11] e descrive l'origine delle
cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali.
Evidentemente la funzione dei due testi citati era prolettica rispetto alla
vera e propria descrizione cosmogonica e cosmologica: dal momento che Plutarco
(Contro Colote 1114b, contesto di DK 28 B10) ci documenta l'articolazione della
Doxa parmenidea, utilizzando ancora la sua testimonianza possiamo tracciare una
loro plausibile posizione: ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ
λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ
γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων
ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν,
οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del
mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i
fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla
Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna e tratta anche dell'origine degli
uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo
arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non
distruzione di un altro. Plutarco offre diversi spunti per il nostro
orientamento nella seconda parte del poema, suggerendo almeno tre cose
fondamentali sulla sua struttura: (i) intanto che la costruzione del «sistema
del mondo», annunciata in conclusione di B8, è, per quanto consta all'autore,
chiaramente responsabilità di Parmenide: διάκοσμον πεποίηται sottoli- 547 nea
l'originalità dell'impresa scientifica. Ciò è ribadito in conclusione: «ha
composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro» (συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν,
οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν); (ii) poi che la scelta degli elementi (στοιχεῖα) è
funzionale al progetto scientifico: la ricognizione cosmologica (διάκοσμον)
implica la ricostruzione comogonica; la struttura del cosmo la sua produzione.
Con la proposta di due principi il filosofo assicura la spiegazione fenomenica
(conclusione di B8 e B9): «mescolando come elementi la luce e la tenebra»
(στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν), egli produce il suo διάκοσμος. Da e
per mezzo di quegli elementi (ἐκ τούτων [...] καὶ διὰ τούτων) ricava (ἀποτελεῖ)
«tutti i fenomeni» (τὰ φαινόμενα πάντα); (iii) infine che il progetto
scientifico doveva essere ambizioso, dire «molto» («molte cose», πολλὰ) «sulla
Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna»: si tratta evidentemente del tema
cui alludono programmaticamente B10-11 e che B12 sviluppa. Doveva poi procedere
a delineare l'«origine degli uomini» (γένεσις ἀνθρώπων): ne abbiamo tracce in
B13 (e successivi). Potremmo così avere conferma della bontà dell'attuale
successione, ovvero supporre una sistemazione leggermente diversa. La natura
programmatica di B10 e B11, attestata dalla ricorrenza di formule illocutorie
(εἴσῃ, πεύσῃ, εἰδήσεις) che ricorda la protasiinvocazione alle Muse della
Teogonia esiodea1 , unitamente alla considerazione che B9 ne costituisce il
fondamento (funzione dei principi), potrebbe suggerire una posposizione dello
stesso B92 . A ciò osta sostanzialmente l'indicazione (comunque approssimativa)
di Simplicio, nel contesto di B9, circa la prossimità della citazione alla
conclusione della precedente (B8.53-9). D'altra parte è chiaro come B10
costituisca una sorta di indirizzo della Dea a Parmenide, analogo a quello che
chiude il proemio: ci troveremmo in questo senso in presenza di un
"secondo" 1 Cerri, op. cit., p. 263. 2 Ruggiu, op. cit., p. 332. 548
proemio3 . B10 e B11 annunciano – Clemente parla di Parmenide «che promette» (ὑπισχνούμενος)
- e descrivono sommariamente il programma scientifico (spiegazione cosmogonica
e cosmologica) che B12 contribuisce a realizzare. Con B10 e B11 siamo, insomma,
ancora al prologo, al profilo preliminare; con B12 alla descrizione dei
processi e della struttura del cosmo, che Aëtius e Cicerone (DK 28 A37) ci
aiutano a ricostruire. B9, in questo contesto, sembra effettivamente, più che
una tessera programmatica vera e propria, un rilievo delle conseguenze
immediate, sul piano cosmologico e cosmogonico, dell'opzione per le due «forme»
(B8.53-59), e quindi fungere solo in questo senso da cerniera introduttiva.
O'Brien4 , in alternativa, vi ha colto, dopo l'annuncio degli argomenti principali
(B11) e il passaggio alle «opere» del Sole e della Luna (B10), una precisazione
sulla natura delle due «forme», prima dell'introduzione della δαίμων che le
«governa» (la sequenza sarebbe dunque: B11-B10-B9- B12). La disposizione
proposta da Diels-Kranz appare comunque credibile e soprattutto compatibile con
le indicazioni di Simplicio. Conoscere la natura La Dea dunque preannuncia
(promette) al proprio discepolo un grandioso disegno scientifico: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν
τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄
ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ
φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν
Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. 3 Per questo in passato Bicknell propose di
integrare i versi di B10 nel prologo del poema (P.J. Bicknell, «Parmenides,
fragment 10», Hermes 95, 1968, pp. 629.631). 4 Études sur Parménide, cit., I,
p. 246-7 (in particolare nota 33). 549 Conoscerai la natura eterea e nell’etere
tutti i segni e della pura fiamma dello splendente Sole le opere invisibili e
donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della Luna dall’occhio
rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge,
donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo costrinse a tenere i confini
degli astri. La promessa è quella di: (i) far «conoscere» (εἰδέναι) «la natura
eterea» (αἰθερίαν φύσιν) e «tutti i segni» (πάντα σήματα) nell'etere; (ii) e le
«opere invisibili (distruttive)» (ἔργ΄ ἀίδηλα) del Sole e «ciò da cui» (ὁππόθεν)
esse si generarono (ἐξεγένοντο); (iii) far «apprendere» (πεύθεσθαι) «le opere»
(ἔργα) della Luna e «la [sua] natura» (φύσιν); (iv) far «conoscere» (εἰδέναι)
«il cielo» (οὐρανὸν) «che tiene tutto intorno» (ἀμφὶς ἔχοντα) e «da che cosa» (ἔνθεν)
«scaturì» (ἔφυ); (v) far conoscere come Necessità (Ἀνάγκη) «incatenò» (ἐπέδησεν)
il cielo a «mantenere nei loro limiti» (πείρατ΄ ἔχειν) gli astri. Il contesto
della citazione di B11 (nel commento di Simplicio al De caelo) conferma questo
disegno di Parmenide: Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione
B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν
παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di
dire [B11] e descrive l'origine delle cose che si generano e si corrompono,
fino alle parti degli animali. 550 Conche5 ha osservato, a proposito di questi
rilievi, come Simplicio evidenzi l'ampiezza e la verticalità dell'indagine
parmenidea, evocando nelle scelte verbali (generazione-corruzione, parti degli
animali) i temi poi trattati da Aristotele, e la centralità dei processi
naturali nell'esplicazione dei fenomeni: il mondo è opera della natura. D'altra
parte non è sfuggita agli studiosi l'eco di questo indirizzo cosmogonico di B10
in Empedocle (DK 31 B38): εἰ δ’ ἄγε τοι λέξω πρῶθ’ † ἥλιον ἀρχήν †, ἐξ ὧν δῆλ’ ἐγένοντο
τὰ νῦν ἐσορῶμεν ἅπαντα, γαῖά τε καὶ πόντος πολυκύμων ἠδ’ ὑγρὸς ἀήρ Τιτὰν ἠδ’ αἰθὴρ
σφίγγων περὶ κύκλον ἅπαντα. Orsù, ti dirò delle cose prime e ; da cui divenne
manifesto tutto quanto ora vediamo, terra e mare dalle molte onde e aria umida
e il Titano etere che cinge in cerchio tutte le cose. L'impressione è che
Empedocle si sia direttamente ispirato al modello parmenideo introducendo la
sezione astronomica del proprio poema 6 . Le opere della natura Di questo
programma scientifico (abbiamo già osservato, nel commento di B8.50-61,
l'insistenza della Dea sulle formule di conoscenza di B10) sono da notare in
particolare: (a) il nesso ribadito tra φύσις e ἔργα, e (b) l'uso di espressioni
come ὁππόθεν ἐξεγένοντο (che abbiamo reso come «donde ebbero origine») e
l'equivalente ἔνθεν ἔφυ. Al centro della comunicazione della Dea ritroviamo
dunque un modello di sapere che si definisce per la capacità di ricostruire la
«generazione» dei fenomeni, con l'esplicito accostamento di φύσις e γένεσις:
nel contesto il primo termine 5 Op. cit., pp. 210-11. 6 Cerri, op. cit., p.
259. 551 – che abbiamo per lo più tradotto come «natura» - designa appunto ciò
che dà origine (φύω, «dare origine»), la cui attività generatrice si traduce in
ἔργα. Conoscere la natura significa allora riconoscere i processi di
formazione, il manifestarsi dell'origine (φύσις, γένεσις) nei «segni» (σήματα),
nei fenomeni celesti; Parmenide evidentemente non allude con φύσις a un’immota
identità, a un'essenza che con la propria stabile determinatezza consenta di
classificare i fenomeni 7 : in questo senso la formula «donde ebbero origine» (ὁππόθεν
ἐξεγένοντο) riprende e rilancia la ricerca milesia dell'ἀρχή8 . Nell'indirizzo
della Dea è allora possibile intravedere una doppia direzione di indagine: (i)
quella che dai σήματα, dagli ἔργα, dai fenomeni astronomici risale alla natura
che li esprime; (ii) quella che dalla φύσις discende ai relativi ἔργα 9 . Nella
stessa direzione, precisando il disegno, B11: πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ
τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν μένος ὡρμήθησαν
γίγνεσθαι. [...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune e la Via Lattea e
l'Olimpo estremo e degli astri l'ardente forza ebbero impulso a generarsi. In
questo caso, di alcuni elementi essenziali del quadro cosmologico si prospetta
la genesi marcandone lo spunto immanente: a conferma del fatto che Parmenide
non intende semplicemente descrivere un ordine cosmico, stabilire ruoli e
posizioni relative, ma produrre una cosmogonia. La combinazione di ὁρμᾶν e
γίγνεσθαι è indicativa della sua nozione di φύσις: essa in ogni fenomeno è la 7
In questa direzione anche la lettura di Conche, op. cit., pp. 204-5. A noi
pare, tuttavia, che Parmenide intenda esporre anche la «costituzione»
dell'etere o della luna, analizzarne la composizione. 8 Su questo punto si veda
Ruggiu, op. cit., pp. 333-5. 9 Ibidem. 552 δύναμις che si esprime in «segni» e
«opere». Ovvero, richiamando l'attacco di B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς Ma poiché tutte le cose
luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà
[δυνάμεις], [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv.1-2), potremmo
concordare con Ruggiu10 che le due «forme» originarie – Luce e Notte – si
manifestano come δυνάμεις nella φύσις di ogni cosa: esse, sotto questo profilo,
costituirebbero l'unica natura delle cose. Opere invisibili, opere periodiche
Quello che, nei versi del poema che ci sono conservati, ancora possiamo
"catturare" della grandiosa sintesi cosmologica cui allude Plutarco è
lo sforzo di elaborazione cosmogonica. Essa traspare, come abbiamo rilevato,
nella insistenza sulla γένεσις, nella centralità del tema della φύσις, ma anche
nelle scelte verbali che tendono a marcare - si veda, per esempio, il passaggio
dal passato11 di πλῆντο al presente di ἵεται in B12.1-2 - gli effetti durevoli
dei processi generativi nella struttura cosmica: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς
ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα Quelle più strette
[interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si
riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco. 10 Ibidem.
11 Sia nella forma, da noi accolta, dell'aoristo, sia in quella del perfetto
medio (πλῆνται), proposta in alternativa. 553 È infatti probabile che B12
alluda proprio alla formazione e articolazione dello spazio cosmico (come
vedremo meglio più avanti), delineando costituzione del centro terrestre del
sistema (sfera terrestre e suo interno infuocato), della periferia celeste
(sfera solida esterna e sfera ignea interna), e dello spazio intermedio in cui
si muovono i corpi celesti. Esplicita in B12.3 è anche l'introduzione della
«Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ) e della sua funzione
"copulatrice": ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ
στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις
ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di
tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo
l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al
femminile (B12.3-6). Ma che lo sguardo del poeta – nei versi superstiti - non
sia rivolto tanto alla contemplazione di un ordine da cui ricavare o in cui
riscontrare armonie ed equilibri strutturali, ovvero modelli geometrici, quanto
al compiaciuto rilevamento della fecondità, dell'impeto (μένος) generativo che
nell'universo manifesta la natura, emerge nei versi in cui la Dea – riferendosi
a Sole e Luna – insiste non sulla loro posizione relativa nel sistema o sulla
loro relazione reciproca (a Parmenide dobbiamo il riconoscimento della
riflessione lunare della luce solare), ma sulle loro «opere», rispettivamente
«invisibili» (ovvero «distruttive») e «periodiche», cioè sul loro contributo ai
processi cosmici. 554 Il sistema del mondo Articolando il programma scientifico
annunciato in B10, B11 si riferisce al «come» (πῶς) Terra, Sole, Luna e etere
«ebbero impulso a generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), dunque al processo di
formazione del cosmo a partire dalle due potenze originarie. Il legame con B9,
infatti, doveva essere molto stretto, perché, come abbiamo già ricordato, la
citazione dei primi 3 versi di B12 è registrata nel seguente contesto: μετ’ ὀλίγα
δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως
[...] poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la
causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. Se è valida la ricostruzione per lo
più accettata, i versi di B12 dovevano seguire di poco B9, e dunque
l'introduzione degli elementi materiali (στοιχεία); d'altra parte essere dappresso
anche a un primo riferimento alla struttura delle «corone» (στεφάναι) cosmiche,
di cui ci dà notizia Aëtius (A37), dal momento che a esse rinviano
implicitamente in apertura: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ
ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ·
Quelle più strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le
successive [si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di
fuoco; in mezzo a queste la Dea che tutte le cose governa. Corone cosmiche Il
processo cui alludono i versi doveva fornire le coordinate essenziali per la
comprensione dell'universo parmenideo, relati- 555 vamente alla sua
configurazione e composizione. La scarsità (nei numeri e nella consistenza) dei
frammenti superstiti, purtroppo, non ci consentono di delinearle se non in modo
estremamente approssimativo: così sappiamo (B10.5-7) del «cielo che tutto
intorno cinge» (οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) e di come esso sia stato vincolato da
Necessità (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη) «a tenere i confini degli astri» (πείρατ΄ ἔχειν
ἄστρων); B11 conferma la presenza di un «Olimpo estremo» (ὄλυμπος ἔσχατος) – il
cielo di cui sopra, umschliessende Firmament come lo definisce Diels12 - e di
uno spazio etereo (αἰθήρ τε ξυνὸς), con esso (ma la relazione è indefinita nel
testo) nominando Terra (che secondo la tradizione delle testimonianze antiche
consideriamo il centro del sistema) e pianeti; B12 poi, come abbiamo ricordato,
sintatticamente sembra sottendere il riferimento a una struttura ad «anelli» o
«corone» (στεφάναι) concentrici. Un senso complessivo a questi cenni
cosmologici riusciamo a garantirlo grazie alla preziosa (quanto discussa)
testimonianza di Aëtius, che fornisce, partendo da Teofrasto, il quadro
d'insieme entro cui collocarli: Π. στεφάνας εἶναι περιπεπλεγμένας, ἐπαλλήλους,
τὴν μὲν ἐκ τοῦ ἀραιοῦ, τὴν δὲ ἐκ τοῦ πυκνοῦ· μικτὰς δὲ ἄλλας ἐκ φωτὸς καὶ
σκότους μεταξὺ τούτων. καὶ τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν,
ὑφ’ ὧι πυρώδης στεφάνη, καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης
[sc. Στεφάνη]. τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ
< αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν
καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην. καὶ τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι
τὸν ἀέρα διὰ τὴν βιαιοτέραν αὐτῆς ἐξατμισθέντα πίλησιν, τοῦ δὲ πυρὸς ἀναπνοὴν τὸν
ἥλιον καὶ τὸν γαλαξίαν κύκλον. συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος
καὶ τοῦ πυρός. περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων 12 Parmenides Lehrgedicht, cit.,
p. 104. 556 τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν,
ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. Parmenide [afferma che] ci sono corone, l'una intorno
all'altra in successione, una costituita dal raro, l'altra dal denso; tra
queste ve ne sono altre miste di luce e oscurità. Ciò che tutte le avvolge è
solido come un muro, sotto il quale è una corona ignea; solido è anche ciò che
è al centro di tutto, intorno al quale è, ancora, una corona ignea13. Delle
corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e
causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che
governa e Giustizia che tiene le chiavi14 e Necessità. L'aria è secrezione
della Terra, evaporata a causa della sua [della Terra] compressione più
intensa, e il Sole e la Via Lattea sono esalazioni del fuoco; la Luna
mescolanza di entrambi, dell'aria e del fuoco. L'etere poi avvolge tutto
dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto
quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni
intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37). Parmenide avrebbe introdotto una
cosmologia fondata sulla nozione di στεφάνη, da intendere probabilmente come
«anello» cilindrico (Cicerone traduce coronae similem). Secondo Teofrasto,
dunque, il cosmo celeste dell'Eleate era costituito da στεφάναι concentriche,
anelli alternativamente di «rado» (ἐκ τοῦ ἀραιοῦ) e 13 Il testo greco καὶ τὸ
μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης sarebbe in realtà interpolato:
come sottolinea Franco Ferrari (nel suo recente Il migliore dei mondi
impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, cit., pp. 88-9), στερεόν è
infatti una integrazione, e περὶ ὃ un emendamento. Il testo alternativo
restaurato sarebbe: καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν περι < ι > όν πάλιν πυρώδης,
«e la circonferenza al centro di tutte [le corone] è di nuovo [una corona]
ignea». 14 Il greco stabilito da Diels - κληιδοῦχον Δίκην – è emendazione del
testo dei manoscritti: κληροῦχον Δίκην, «Giustizia che indirizza le sorti».
Simplicio, dopo aver citato B13, osserva in effetti: καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ
μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν, «[Parmenide sostiene
che la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso
opposto». 557 di «denso» (ἐκ τοῦ πυκνοῦ), che presentavano quindi la purezza
degli elementi-principi. Tra questi (μεταξὺ τούτων) erano poi dislocate altre
corone «miste di luce e oscurità» (μικτὰς ἐκ φωτὸς καὶ σκότους), con una
evidente corrispondenza nei «segni»: ἐκ τοῦ ἀραιοῦ/ἐκ φωτὸς, ἐκ τοῦ πυκνοῦ/ἐκ
σκότους. Il cosmo finito era avvolto da una sfera solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας
τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν), secondo quanto indicato in B10.5: οὐρανὸν
ἀμφὶς ἔχοντα, altrimenti evocato (B11.2-3) come ὄλυμπος ἔσχατος. L'espressione
conclusiva τὰ περίγεια suggerisce che al centro del sistema cosmico si trovasse
la Terra, come confermano, sempre sulla scorta di Teofrasto, Diogene Laerzio e
Aëtius (DK 28 A1, A44): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι
κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma di
sfera e giace al centro [dell'universo] Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν
[τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε
ῥέψειεν ἄν· διὰ τοῦτο μόνον μὲν κραδαίνεσθαι, μὴ κινεῖσθαι δέ Parmenide e
Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti,
rimane in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare da una parte
piuttosto che dall'altra. Per questo trema soltanto e non si muove. La
struttura del cosmo Seguendo le indicazioni di Teofrasto riferite da Aëtius,
analogamente al centro sferico (τὴν γῆν [...] σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι)
dobbiamo supporre sferica almeno la solida parete esterna (τ ε ί χ ο υ ς δίκην
στερεὸν) del cosmo - «ciò che tutto avvolge» (τὸ περιέχον δὲ πάσας). Qui
incontriamo una prima difficoltà: la 558 consistenza attribuita al contenitore
cosmico (appunto la parete solida esterna cui allude Aëtius) dovrebbe
comportare – per rispettare i σήματα associati alle due μορφάι – la sua natura
densa e oscura; d'altra parte Aëtius sottolinea come l'«etere» avvolga tutto
«dall'esterno [ovvero dalla posizione superiore]» (περιστάντος δ’ ἀνωτάτω
πάντων τοῦ αἰθέρος). Diels15 identificava tale «muro» (Mauer) con una sfera di
pura Notte, esterna a una sfera di puro Fuoco, che complessivamente
costituivano la coppia di στεφάναι concentriche periferiche, contrastate, al
centro del sistema, da una coppia corrispondente: una sfera esterna di Notte
densa (la superficie terrestre) e una interna di puro fuoco (fuoco vulcanico).
Di recente Franco Ferrari 16 ha ribadito questo modello, tra l'altro proponendo
una revisione del testo greco di Aëtius che rende coerente l'ipotesi di Diels
con le indicazioni che giungevano da Teofrasto. Anche Tarán17 sottolinea la
corrispondenza tra τὸ περιέχον στερεὸν (A37), οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (B10) e ὄλυμπος
ἔσχατος (B11), riducendolo a una solida sfera di Notte, sebbene poi la sua
struttura cosmica diverga in parte da quella dielsiana, per una diversa
interpretazione delle στεινότεραι στεφάναι (coincidenti, secondo lo studioso
americano, con gli anelli che contengono le stelle). Altri, tuttavia, hanno
contestato questa ricostruzione. Coxon18 , per esempio, pur rilevando che la
testimonianza di Aëtius appare parafrasi dei versi di B12, e concedendo che
l'accostamento al muro di una città (τ ε ί χ ο υ ς δίκην) potrebbe essere stato
dello stesso Parmenide (dal momento che ricorre in un contesto pitagorico alla
fine di un saggio di Massimo di Tiro, II secolo), denuncia come l'asserzione su
τὸ περιέχον στερεὸν risulti fraintendimento di ὄλυμπος ἔσχατος: l'οὐρανὸς di
Parmenide non sarebbe dunque solido (cioè composto di Notte), ma etereo, come
si ricaverebbe dall'incrocio delle attestazioni di Aëtius e Cicerone: 15 Nella
sua edizione del 1897, cit., p. 104. 16 Il migliore dei mondi impossibili,
cit., pp. 88-90. 17 Op. cit., p. 241. 18 Op. cit., pp. 235-236. 559 περιστάντος
δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ
κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi avvolge tutto
dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto
quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni
intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37) nam P. quidem commenticium quiddam:
coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et >
lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum [...] Parmenide elabora
qualcosa di fittizio: simile a una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera
di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio [...]
(Cicerone; DK 28 A37). L'orbis lucis di Cicerone coinciderebbe con l'αἰθήρ di
Aëtius: Parmenide distinguerebbe il fuoco dall'etere: l'etere – secondo Aëtius
– costituirebbe in Parmenide la regione estrema dell'universo, governando il
cielo delle stelle fisse (οὐρανὸς) 19 . Ruggiu20 interpreta le indicazioni dei
frammenti e delle testimonianze in modo analogo. Il termine στεφάνη nel
pensiero arcaico designerebbe una formazione di tipo circolare sviluppata
intorno a un punto centrale: dal momento che al centro delle στεφάναι in
Parmenide sta la Terra, concepita come sferica, la struttura dei cieli sarebbe
sferica: la periferia sarebbe occupata da una sfera di fuoco; l'elemento che
tutto contiene, ancora igneo, sarebbe della consistenza di un solido muro.
D'accordo sostanzialmente Cerri21: nel complesso delle στεφάναι – corone
sferiche concentriche – la più esterna, il confine limite dell'universo
visibile, sarebbe formata da uno strato di «etere rigido», avvolgente un'altra
corona di etere rarefatto e igneo, denominata οὐρανός. 19 Ivi, p. 227. 20 Op.
cit., p. 343. 21 Op. cit., p. 266. 560 Parmenide avrebbe previsto, nel suo
cosmo, una doppia funzione per il cielo, che ancora può intravedersi nei
frammenti: esso è, per un verso, (i) οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, quindi fisicamente
limitante, circoscrivente; per altro (ii) vincolante: «Necessità guidando lo
vincolò a tenere i confini degli astri» (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων).
Il cielo, dunque, è anche legame per tutti gli elementi celesti: gli astri,
dislocati sulle στεφάναι, con i rispettivi moti, immersi al suo interno
nell'etere (ἐν αἰθέρι) 22 . In effetti risulta evidente, nelle testimonianze,
il nesso tra cielo ed etere. Parmenide avrebbe indicato due aree nell'etere
celeste: (i) l'etere che si estende tutto intorno al cosmo, libero da astri;
(ii) l'etere popolato da astri, condensazioni di fuoco23. A questo
alluderebbero le espressioni ἐν τῶι αἰθέρι·e ἐν τῶι πυρώδει di Aëtius A40a: Π.
πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν
τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ ο ὐ ρ α
ν ὸ ν καλεῖ Parmenide dispone per primo nell'etere Eos, considerato da lui
identico a Espero. Dopo quello dispone il Sole, sotto il quale sono gli astri
nella zona ignea che chiama cielo. Alla luce delle indicazioni che si possono
ricavare dai frammenti e soprattutto da Aëtius, l'etere si estenderebbe tra la
fascia più interna del sistema cosmico - densa di «aria» secreta dalla Terra (τῆς
μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα A37) - e la volta esterna (ὄλυμπος ἔσχατος),
che tuttavia potrebbe essere stata concepita a sua volta come etere rigido. Il
termine οὐρανὸς appare nelle testimonianze di Aëtius con i significati correnti
nella tradizione peripatetica (Teofrasto): molto chiaramente la struttura
celeste delineata e il lessico adottato riflettono la lezione di Aristotele: 22
Ruggiu, op. cit., p. 336. 23 Conche, op. cit., p. 213. 561 Εἴπωμεν δὲ πρῶτον τί
λέγομεν εἶναι τὸν οὐρανὸν καὶ ποσαχῶς, ἵνα μᾶλλον ἡμῖν δῆλον γένηται τὸ
ζητούμενον. Ἕνα μὲν οὖν τρόπον οὐρανὸν λέγομεν τὴν οὐσίαν τὴν τῆς ἐσχάτης τοῦ
παντὸς περινὸν περιφορᾶς, ἢ σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός· εἰώθαμεν
γὰρ τὸ ἔσχατον καὶ τὸ ἄνω μάλιστα καλεῖν οὐρανόν, ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί
φαμεν. Ἄλλον δ’ αὖ τρόπον τὸ συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ
σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων· καὶ γὰρ ταῦτα ἐν τῷ οὐρανῷ εἶναί φαμεν. Ἔτι
δ’ ἄλλως λέγομεν οὐρανὸν τὸ περιεχόμενον σῶμα ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιφορᾶς· τὸ γὰρ
ὅλον καὶ τὸ πᾶν εἰώθαμεν λέγειν οὐρανόν. Τριχῶς δὴ λεγομένου τοῦ οὐρανοῦ, τὸ ὅλον
τὸ ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιεχόμενον περιφορᾶς ἐξ ἅπαντος ἀνάγκη συνεστάναι τοῦ
φυσικοῦ καὶ τοῦ αἰσθητοῦ σώματος διὰ τὸ μήτ’εἶναι μηδὲν ἔξω σῶμα τοῦ οὐρανοῦ
μήτ’ ἐνδέχεσθαι γενέσθαι. Prima dobbiamo dichiarare che cosa diciamo essere il
cielo e in quanto modi lo diciamo, perché diventi più chiaro l'oggetto
d'indagine. In un senso dunque diciamo cielo la sostanza dell'estrema volta del
tutto, cioè il corpo naturale nell'estrema volta del tutto; è appunto la
regione estrema e più elevata che siamo soliti chiamare cielo, in cui
affermiamo aver sede tutto quanto è divino. In altro senso [diciamo cielo] il
corpo contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e
alcuni degli astri; anche questi, in effetti, affermiamo essere nel cielo. In
un altro senso ancora, diciamo cielo il corpo abbracciato [compreso]
dall'estrema volta; siamo soliti, infatti, definire cielo l'universo e il tutto
[ovvero: l'intero universo]. Essendo inteso il cielo in questi tre modi,
l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il corpo
naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, 562 né è possibile si generi
fuori del cielo (Aristotele, De caelo I, 9 278 a9-25). È plausibile che nella
propria sintesi Aristotele tenesse conto anche della cosmologia parmenidea
ovvero di un modello analogo o condiviso (pitagorico?) dall'Eleate: in effetti
«il corpo naturale nell'estrema volta del tutto» (σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ
περιφορᾷ τοῦ παντός) richiama sia «il cielo che tutto intorno cinge» (B10.5 οὐρανὸν
ἀμφὶς ἔχοντα) sia l'«Olimpo estremo» (B11.2- 3 ὄλυμπος ἔσχατος), anche per la
sua associazione al «divino» (ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν). È per
altro chiaro che quando Aëtius (A40a) parla di «astri nella zona ignea che
[Parmenide] chiama cielo» (ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ ο ὐ ρ α ν ὸ ν καλεῖ) si
riferisce a ciò che Aristotele indicava come «il corpo contiguo all'estrema
volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri» (τὸ συνεχὲς
σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων).
Interessante il rilievo aristotelico circa l'accezione "cosmica" di οὐρανός:
«l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il
corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, né è possibile si
generi fuori del cielo». La tentazione di una lettura "cosmica" di
Parmenide B8 è molto forte: la compiutezza dell'essere manifestata dalla
sfericità, traduceva in immagine ontologica la perfezione che la doxa poteva
riscontrare nell'universo compiuto e intero (τὸ ὅλον καὶ τὸ πᾶν) di cui parla
Aristotele. In conclusione non si può dunque non ribadire la difficoltà nella
ricostruzione del quadro cosmologico del poema: troppo frammentarie le
citazioni e troppo condizionate dal lessico e dalla concettualità della
posteriore tradizione le testimonianze. Come abbiamo constatato, sono pochi i
dati certi sulla struttura cosmica: (i) la forma complessivamente sferica del
centro (Terra) e della periferia (τὸ περιέχον, ovvero ὄλυμπος ἔσχατος, «Olimpo
estremo»), pensata come una parete solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς
δίκην στερεὸν); 563 (ii) l'esistenza di una prima fascia celeste superiore
eterea, composta cioè di corone, anelli cilindrici, di puro Fuoco; di una
seconda fascia intermedia di corone in cui Fuoco e Notte sono compresenti; di
una terza fascia a ridosso della superficie della Terra, corrispondente a una
atmosfera aerea prodotta dalle evaporazioni terrestri; (iii) la distribuzione
dei corpi celesti tra le prime due fasce (sulla loro disposizione le
indicazioni non sono concordi). La δαίμων e il cosmo Il contesto e la citazione
di B12, insieme alla relativa testimonianza di Aëtius, pongono un ulteriore
problema interpretativo: quello relativo alla posizione e al ruolo della δαίμων
che lì viene evocata: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει
καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘α ἱ γ ὰ ρ . . . κ υ β ε ρ ν ᾶ ι ’. [...] καὶ
ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν
γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘α ἱ δ ’ ἐ π ὶ . . . θ η λ
υ τ έ ρ ω ι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω
ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν. poco
dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa
efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei
corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla
generazione, Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli
pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è
causa di ogni generazione ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ
στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει 564 πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον
αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose
governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione,
spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il
maschile al femminile (B12.3-6) τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν
> τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα
κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste
[di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di
movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa
e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (Aëtius; DK 28 A37). Il
neoplatonico Anatolio di Laodicea (III secolo d.C.) offre un'ulteriore
indicazione: πρὸς τούτοις ἔλεγον περὶ τὸ μέσον τῶν τεσσάρων στοιχείων κεῖσθαί
τινα ἑναδικὸν διάπυρον κύβον, οὗ τὴν μεσότητα τῆς θέσεως καὶ Ὅμηρον εἰδέναι
[...]. ἐοίκασι δὲ κατά γε τοῦτο κατηκολουθηκέναι τοῖς Πυθαγορικοῖς οἵ τε περὶ Ἐμπεδοκλέα
καὶ Παρμενίδην καὶ σχεδὸν οἱ πλεῖστοι τῶν πάλαι σοφῶν, φάμενοι τὴν μοναδικὴν
φύσιν ἑστίας τρόπον ἐν μέσωι ἱδρῦσθαι καὶ διὰ τὸ ἰσόρροπον φυλάσσειν τὴν αὐτὴν ἕδραν
Oltre a queste cose [i Pitagorici] sostenevano che nel mezzo dei quattro
elementi sta un cubo unitario di fuoco, la cui posizione centrale era nota
anche a Omero [...]. Sembra che abbiano in questo seguito i Pitagorici i
discepoli di Empedocle e Parmenide e per lo più i [lett.: «quasi la maggioranza
dei»] sapienti antichi, dal momento che affermano che la natura monadica è
posta al centro come focolare [Estia], e che conserva la stessa sede in 565
forza dell'equiposizione [dell'equilibrio rispetto alla perimetro del sistema]
(DK 28 A44). Indubbiamente il cosmo parmenideo presenta affinità con quello
filolaico, quale possiamo ricostruire da frammenti e testimonianze: ὁ κόσμος εἷς
ἐστιν, ἤρξατο δὲ γίγνεσθαι ἀπὸ τοῦ μέσου καὶ ἀπὸ τοῦ μέσου εἰς τὸ ἄνω διὰ τῶν αὐτῶν
τοῖς κάτω. ἔστι < γὰρ > τὰ ἄνω τοῦ μέσου ὑπεναντίως κείμενα τοῖς κάτω. τοῖς
γὰρ κατωτάτω τὰ μέσα ἐστὶν ὥσπερ τὰ ἀνωτάτω καὶ τὰ ἄλλα ὡσαύτως. πρὸς γὰρ τὸ
μέσον κατὰ ταὐτά ἐστιν ἑκάτερα, ὅσα μὴ μετενήνεκται Il cosmo è uno; iniziò a
formarsi dal mezzo e dal mezzo verso l'alto, e attraverso gli stessi passaggi
verso il basso. Le cose che sono al di sopra del mezzo giacciono in senso
opposto a quelle che sono al di sotto. In effetti le cose che sono in mezzo si
trovano rispetto a quelle sotto come rispetto a quelle sopra e le altre in modo
simile: dal momento che rispetto al mezzo entrambe si trovano nella stessa
relazione, solo capovolte (DK 44 B17) Φ. πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον ὅπερ ἑστίαν
τοῦ παντὸς καλεῖ [B 7] καὶ Δ ι ὸ ς ο ἶ κ ο ν καὶ μ η τ έ ρ α θ ε ῶ ν β ω μ ό ν
τε καὶ σ υ ν ο χ ὴ ν καὶ μ έ τ ρ ο ν φ ύ σ ε ω ς . καὶ πάλιν πῦρ ἕτερον ἀνωτάτω
τὸ περιέχον. πρῶτον δ’ εἶναι φύσει τὸ μέσον, περὶ δὲ τοῦτο δέκα σώματα θεῖα
χορεύειν, [οὐρανόν] < μετὰ τὴν τῶν ἀπλανῶν σφαῖραν > τοὺς ε πλανήτας,
μεθ’ οὓς ἥλιον, ὑφ’ ὧι σελήνην, ὑφ’ ἧι τὴν γῆν, ὑφ’ ἧι τὴν ἀντίχθονα, μεθ’ ἃ
σύμπαντα τὸ πῦρ ἑστίας περὶ τὰ κέντρα τάξιν ἐπέχον. τὸ μὲν οὖν ἀνωτάτω μέρος τοῦ
περιέχοντος, ἐν ὧι τὴν εἰλικρίνειαν εἶναι τῶν στοιχείων, ὄ λ υ μ π ο ν καλεῖ, τὰ
δὲ ὑπὸ τὴν τοῦ ὀλύμπου φοράν, ἐν ὧι τοὺς πέντε πλανήτας μεθ’ ἡλίου καὶ σελήνης
τετάχθαι, κ ό σ μ ο ν , τὸ δ’ ὑπὸ τούτοις ὑποσέληνόν τε καὶ περίγειον μέρος, ἐν
ὧι τὰ τῆς φιλομεταβόλου γενέσεως, 566 ο ὐ ρ α ν ό ν . καὶ περὶ μὲν τὰ τεταγμένα
τῶν μετεώρων γίνεσθαι τὴν σ ο φ ί α ν , περὶ δὲ τῶν γινομένων τὴν ἀταξίαν τὴν ἀ
ρ ε τ ή ν , τελείαν μὲν ἐκείνην ἀτελῆ δὲ ταύτην. Filolao definisce il fuoco in
mezzo attorno al centro «focolare del tutto [dell'universo]» e «casa di Zeus» e
«madre degli dei», «altare» e «vincolo» e «misura della natura»; l'altro fuoco
in alto invece «l'involucro». Sostiene che primo per natura sia quello in
mezzo, intorno a cui si muovono dieci corpi divini, primo il cielo delle stelle
fisse, poi i cinque pianeti, poi il Sole, quindi la Luna, poi la Terra, poi
l'Antiterra; dopo queste cose il fuoco del focolare, che risiede intorno al
centro. Chiama la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la
purezza degli elementi, «Olimpo»; quella che porta sotto l'Olimpo, in cui sono
collocati i 5 pianeti con il Sole e la Luna, «cosmo»; dopo queste, poi, la
parte sublunare e circumterrestre, entro cui sono le cose della generazione
mutevole, «cielo». E intorno alla disposizione delle cose celesti verte la
sapienza, intorno al disordine delle cose in divenire verte la virtù: quella
perfetta, questa imperfetta (Aëtius; DK 44 A16). È probabile che alcuni
particolari delle concezioni pitagoriche siano stati utilizzati per ricostruire
a posteriori il quadro del cosmo parmenideo, sempre che quegli elementi non
fossero sullo sfondo della stessa elaborazione eleatica, almeno come tratti
consolidati di una tradizione. Aëtius (che si appoggia alla lezione di
Teofrasto) riferisce come anche Filolao definisse ὄλυμπος «la parte più alta
dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli elementi», distribuendo
poi gli astri in due regioni – κόσμος e οὐρανός – compatibilmente con la
rappresentazione parmenidea. La citazione filolaica sottolinea la
preoccupazione per la struttura sferica, che potrebbe riflettersi
nell’insistenza delle testimonianze sul modello arcaico delle «corone»,
probabilmente di matrice anassimandrea, in Parmenide: al pensatore di Mileto
punta anche l'argomento per la centralità della Terra, precoce applicazione del
principio di ragion sufficien- 567 te, impiegato da Parmenide anche in sede
ontologica, nella sezione sulla Verità (vv. B8.9 ss.): Π., Δημόκριτος διὰ τὸ
πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν
δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· Parmenide e Democrito sostengono che
la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti, rimanga in equilibrio,
non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto che dall'altra
(Aëtius; DK 28 A44). L'accostamento alla posteriore cosmologia (e cosmogonia)
filolaica - in cui si depositava e sistemava plausibilmente la primitiva
lezione pitagorica - è utile, tuttavia, soprattutto nella determinazione del
ruolo cosmico della δαίμων parmenidea. Simplicio, nelle due citazioni che
costituiscono B12, sembra interessato a rilevare come Parmenide postulasse
nella sua fisica una potenza distinta dalla forma Fuoco come «causa efficiente»
(ποιητικὸν αἴτιον): «la dea che governa tutte le cose». Secondo Coxon24, il
rilievo del commentatore sarebbe stato diretto contro il modello interpretativo
della doxa proposto da Alessandro sulla scorta di Teofrasto, secondo il quale
al Fuoco spettava il ruolo di ποιητικὸν αἴτιον e alla terra (Notte) quello di ὕλη:
καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην
καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente
una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione.
D'altra parte in B12 leggiamo che: ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ al
centro di queste [corone] la Dea che tutte le cose governa, 24 Op. cit., p.
234. 568 e Aëtius sottolinea come: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν
> τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα
κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste
[di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di
movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa
e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità, mentre Plutarco, citando B13,
osserva: διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν Ἔρωτα τῶν Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς ἔργων πρεσβύτατον
ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν . . . π ά ν τ ω ν ’ «perciò
Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella
cosmogonia [B13]». Le testimonianze e i frammenti superstiti consentono di
affermare che effettivamente Parmenide attribuiva alla δαίμων una funzione
cosmogonica (πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει, «di tutte le cose
ella sovrintende all'odioso parto e all’unione» B12.4). Evidentemente aperta è
invece la questione della sua collocazione cosmologica e della sua
identificazione. La dislocazione cosmica della δαίμων L'indicazione di Plutarco
è un punto di partenza: oggi si è infatti convinti che Plutarco non solo avesse
accesso a una copia del poema di Parmenide, ma potesse attingere a una versione
attendibile25. Il passo propone di fatto l'identificazione della δαίμων con
Afrodite: Simplicio sottolinea come la dea sia «causa efficiente 25 Su questo
punto è molto importante la messa a fuoco di Passa, op. cit, pp. 27- 28. 569
non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che
concorrono alla generazione» (ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι
γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων); Plutarco fa di Afrodite
la generatrice di Eros e dunque nomina la δαίμων. Ovviamente non possiamo
stabilire se l'identificazione fosse per lui scontata o solo una speculazione
ovvero riscontrata invece nel testo, ma la precisazione: «nella cosmogonia» (ἐν
τῆι κοσμογονίαι) - sembra avvalorare l'ultima possibilità. In ogni caso, nella
misura in cui B12 assegna alla δαίμων il governo di tutto, B13 sembra suggerire
che ciò avvenga attraverso la generazione di Eros e il controllo
dell'accoppiamento26 . D'altra parte, poiché la testimonianza di Aëtius colloca
la dea al centro degli anelli misti di Notte e Fuoco, assimilandola di fatto a
uno di essi, è possibile, incrociando le due testimonianze, ipotizzare che essa
coincidesse con un'entità astrale concreta, fonte fisica dell'influenza
cosmogonica, Afrodite appunto. Parmenide, il primo a identificare Eos (Ἕως
ovvero Fosforo/Φωσφόρος, la stella del mattino) e Espero (Ἕσπερον, la stella
della sera): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ
καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι Parmenide per primo pone nell'etere Eos, considerato
da lui identico a Espero (DK 28 A40a), potrebbe aver dato per primo il nome di
Afrodite all'astro27 . Contro questa identificazione e collocazione si pongono
le informazioni che giungono dal contesto delle citazioni di Simplicio, che
chiaramente parla a favore della centralità cosmica della δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ:
in effetti, l'espressione parmenidea - ἐν δὲ μέσῳ τούτων - con cui essa viene
introdotta, è ambigua, potendosi riferire sia al centro delle corone miste
(come appare più probabile nel contesto) sia al centro dell'universo. Difficile
pensare, tuttavia, che il commentatore, che certamente disponeva di una 26
Cerri, op. cit., pp. 267-268. 27 Ibidem. 570 copia del poema, potesse
fraintenderne il testo su questo punto; né la sua indicazione contraddice
quella di Plutarco, il quale si limita a identificare la δαίμων come Ἀφροδίτης
. La testimonianza di Anatolio di Laodicea è dello stesso tenore, marcando in
particolare la continuità con le cosmologie e cosmogonie pitagoriche: la
«natura monadica» (τὴν μοναδικὴν φύσιν) è posta da Parmenide (ed Empedocle) al
centro (ἐν μέσωι) «al modo di un focolare» (ἑστίας τρόπον). I riscontri delle
citazioni di Filolao e delle relative testimonianze confermano che nella
tradizione pitagorica del V secolo «il fuoco in mezzo attorno al centro» (πῦρ ἐν
μέσωι περὶ τὸ κέντρον) coincideva con il divino «focolare del tutto» (ἑστίαν τοῦ
παντὸς), ovvero «dimora di Zeus» (Δ ι ὸ ς ο ἶ κ ο ν ) o «madre degli dei» (μ η
τ έ ρ α θ ε ῶ ν ), connotazione che ritorna anche negli Inni orfici: [Ἑστία] ἣ
μέσον οἶκον ἔχεις πυρὸς ἀενάοιο Hestia [...] che hai dimora al centro del fuoco
eterno (Orphica, Hymnii 84.1-2) ἐκ σέο [Ἑστία] δ’ ἀθανάτων τε γένος θνητῶν τ’ ἐλοχεύθη,
da te [Hestia] ebbe nascita la stirpe degli immortali e dei mortali (Orphica,
Hymnii 27.7)28 , e che ritroviamo nel contesto simpliciano della citazione di
B13: ταύτην [δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ] καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων [B13] la
[dea che tutto governa] considera causa anche degli dei, affermando [B13]. La
collocazione della δαίμων al centro del sistema cosmico, le possibili
convergenze con il pitagorismo del V secolo sul motivo della Hestia divina,
potrebbero avvalorare il modello cosmologico 28 F. Ferrari, Il migliore dei
mondi impossibili, cit., pp. 104-5. 571 proposto da Diels, per cui il nucleo
centrale dell'universo risulterebbe una sfera di puro Fuoco, circondata dalla
superficie terrestre (sfera di pura Notte). Coxon29, rilevando le difficoltà
implicite nelle testimonianze di Aëtius e Simplicio, ha sostenuto, sulla scorta
di Cicerone (A37), una diversa soluzione circa natura e collocazione della
divinità. Come abbiamo già riscontrato, in Cicerone, infatti, la dea appare
come «una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo»: coronae simile
efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui
cingit caelum, quem appellat deum immagina una corona (egli la chiama
στεφάνην), cioè una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli
denomina dio; incrociando il dato cosmologico con quello fornito da Aëtius:
περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’
ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi tutto avvolge
dall'esterno [dalla posizione superiore] e al di sotto di esso è posto proprio
l'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo (Aëtius; DK 28 A37), si potrebbe
concludere – come abbiamo visto - che l'orbis lucis (secondo Cicerone, indicata
da Parmenide come «dio»), la «corona» ignea e luminosa che abbraccia il cielo,
coincida con l'αἰθήρ di Aëtius, che avvolge οὐρανόν. Questa identificazione
sarebbe compatibile sia con la tradizione peripatetica (che attribuiva al fuoco
il ruolo di principio efficiente), sia con i dati relativi alla tradizione
ionica: ἅπαντα γὰρ ἢ ἀρχὴ ἢ ἐξ ἀρχῆς, τοῦ δὲ ἀπείρου οὐκ ἔστιν ἀρχή· εἴη γὰρ ἂν
αὐτοῦ πέρας. ἔτι δὲ καὶ ἀγένητον καὶ ἄφθαρτον ὡς ἀρχή τις οὖσα· τό τε γὰρ 29
Op. cit., pp.239 ss.. 572 γενόμενον ἀνάγκη τέλος λαβεῖν, καὶ τελευτὴ πάσης ἐστὶ
φθορᾶς. διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ
περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν, ὥς φασιν ὅσοι μὴ ποιοῦσι παρὰ τὸ ἄπειρον ἄλλας
αἰτίας οἶον νοῦν ἢ φιλίαν. καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον· ἀ θ ά ν α τ ο ν γὰρ καὶ ἀ ν
ώ λ ε θ ρ ο ν , ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων Ogni
cosa, in effetti, è o principio o [deriva] da principio; dell'apeiron però non
v'è principio, dal momento che vi sarebbe un limite di esso [apeiron]. E
ancora, esso è ingenerato e incorruttibile, in quanto è un principio: è
necessario, infatti, che ciò che è generato abbia una fine, e vi è un termine
finale di ogni corruzione. Proprio per questo motivo diciamo che di esso
[principio] non vi sia principio, ma che sembra essere esso stesso principio di
tutte le altre cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e tutte governarle,
come affermano quanti non pongono oltre all'infinito altre cause, per esempio
Intelligenza o Amore. E questo è il divino: è infatti senza morte e senza
distruzione, come sostengono Anassimandro e la maggioranza degli studiosi della
natura. (Aristotele; DK 12 A15) Ἀ. Εὐρυστράτου Μιλήσιος ἀρχὴν τῶν ὄντων ἀέρα ἀπεφήνατο·
ἐκ γὰρ τούτου πάντα γίγνεσθαι καὶ εἰς αὐτὸν πάλιν ἀναλύεσθαι. 'οἶον ἡ ψυχή,
φησίν, ἡ ἡμετέρα ἀὴρ οὖσα συγκρατεῖ ἡμᾶς, καὶ ὅλον τὸν κόσμον πνεῦμα καὶ ἀὴρ
περιέχει' (λέγεται δὲ συνωνύμως ἀὴρ καὶ πνεῦμα). Anassimene, figlio di
Euristrato, milesio, affermò che principio delle cose è l'aria: da essa tutto
si genera e in essa di nuovo si risolve. Dice: «come la nostra anima, che è aria,
ci governa, così soffio e aria abbracciano l'interno universo» (aria e soffio
sono utilizzati come sinonimi) (Aëtius; DK 13 B2) εἶναι γὰρ ἓν τὸ σοφόν, ἐπίστασθαι
γνώμην, ὁτέη ἐκυβέρνησε πάντα διὰ πάντων 573 esiste una sola sapienza:
riconoscere la ragione, che governa tutto attraverso tutto (Diogene Laerzio; DK
22 B41) [λέγει δὲ καὶ τοῦ κόσμου κρίσιν καὶ πάντων τῶν ἐν αὐτῶι διὰ πυρὸς
γίνεσθαι λέγων οὕτως] τὰ δὲ πάντα οἰακίζει Κεραυνός, τουτέστι κατευθύνει,
κεραυνὸν τὸ πῦρ λέγων τὸ αἰώνιον. λέγει δὲ καὶ φρόνιμον τοῦτο εἶναι τὸ πῦρ καὶ
τῆς διοικήσεως τῶν [ὅλων αἴτιον] [Eraclito sostiene anche che abbia luogo un
giudizio sul mondo e su tutto ciò che si trova in esso, attraverso il fuoco, in
tal modo:] il fulmine dirige il tutto, ossia [il dio] lo guida [con il
fulmine], intendendo con fulmine il fuoco eterno. Dice anche che questo fuoco è
dotato di intelligenza, e che esso è [causa] dell'ordinamento [dell'universo]
(Ippolito; DK 22 B64). Le assonanze espressive potrebbero avvalorare la
convergenza parmenidea sulle posizioni di coloro che, alle origini della
speculazione cosmologica, avevano accennato alla divinità della naturaprincipio
(καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον), assegnandole anche un compito direttivo sui processi
cosmici: «abbracciare e pilotare tutte le cose» (Anassimandro: περιέχειν ἅπαντα
καὶ πάντα κυβερνᾶν), ovvero «abbracciare l'universo» (Anassimene: ὅλον τὸν
κόσμον περιέχει), in analogia con il controllo dell'anima sulle nostre funzioni
vitali (ἡ ψυχή συγκρατεῖ ἡμᾶς). In B12.4, in effetti, ritroviamo il verbo ἄρχει,
che, come vuole Coxon30, potrebbe alludere direttamente ad Anassimandro (cui
Teofrasto riconosce il merito di aver introdotto il termine tecnico di ἀρχὴ). È
tuttavia possibile che la parmenidea δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ, da Plutarco
identificata come Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς , sia in realtà solo l'espressione mitica
della potenza generatrice cui alluderanno Empedocle e Lucrezio, il quale - ci
ricorda Ferrari31 - utilizzava espressioni analoghe a quelle del filosofo greco
(quae ... rerum naturam sola gubernas, I.21). A insistere per questa lettura è
so- 30 Ivi, p. 242. 31 Ferrari, op. cit., p. 106 nota. 574 prattutto Ruggiu32,
per il quale la δαίμων sembra essere la personificazione della stessa forza
vivificatrice (mana) presente in tutte le cose: l'impulso immanente alla
generazione (B11.3-4 ὡρμήθησαν γίγνεσθαι). Nel senso di una attribuzione ad
Afrodite della forza demiurgica è orientato anche il commentatore (IV secolo)
della teogonia (V secolo) del papiro Derveni, e conferme ulteriori si
potrebbero cogliere nel riferimento alla nascita di Eros, che potrebbe
coinvolgere il complesso sfondo delle presunte teogonie orfiche, documentate
negli Uccelli (vv. 695-9) di Aristofane. La funzione cosmo-teogonica della
δαίμων B12 allude quindi chiaramente a un processo cosmogonico e, in relazione
a esso, al ruolo direttivo (κυϐερνᾷ, ἄρχει) della δαίμων, la quale «spinge
all'unione» (πέμπουσα μιγῆν)·di «femminile» (θῆλυ) e «maschile» (ἄρσεν): ἐν δὲ
μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει
πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a
queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella
sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a
unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). Un
ruolo, come sappiamo, ben documentato nel linguaggio peripatetico di Simplicio
(contesto B12): 32 Op. cit., p. 344. 575 μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν
στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘αἱ γὰρ . . . κ υ β ε ρ ν ᾶ
ι ’. [...] καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ
ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘αἱδ’ἐπὶ .
. . θηλυτέρωι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ
ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν. poco
dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa
efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei
corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla
generazione, Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli
pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è
causa di ogni generazione, e connesso a una (probabilmente correlata) analoga
funzione teogonica: ταύτην καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν
. . . π ά ν τ ω ν ’ κτλ. καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές,
ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν. sostiene che questa stessa [la dea] sia causa anche
degli dei, dicendo [B13], e sostiene che invia le anime talora dal visibile
all'invisibile, talora in senso opposto (Simplicio; contesto B13).
L'indicazione di Simplicio suggerisce una prossimità almeno tematica tra B12 e
B13: πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο πάντων… Primo tra gli dei tutti ella
concepì Amore, confermata dalla testimonianza di Plutarco (contesto B13): 576
διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν τῶν Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι
κοσμογονίαι γράφων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν . . . π ά ν τ ω ν ’ perciò Parmenide
mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella cosmogonia
[B13]. Un'ulteriore cerniera tra i due frammenti si può cogliere nel contesto
della citazione aristotelica di B13 (Metafisica I, 4 984b23-7): ὑποπτεύσειε δ’ ἄν
τις Ἡσίοδον πρῶτον ζητῆσαι τὸ τοιοῦτον, κἂν εἴ τις ἄλλος ἔρωτα ἢ ἐπιθυμίαν ἐν
τοῖς οὖσιν ἔθηκεν ὡς ἀρχὴν οἷον καὶ Π.· οὗτος γὰρ κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς
γένεσιν ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν μ έ ν , φ η σ ί ν Ἔρωτα … πάντων’ [ B 1 3 ] Si
potrebbe sospettare che Esiodo per primo abbia ricercato una [causa] del
genere, anche se qualcun altro pose negli enti, come principio, amore o
desiderio, per esempio Parmenide. Questi, infatti, ricostruendo la genesi del
tutto, affermò: [B13]. Ancora utile, sebbene condizionata dall'esplicita
liquidazione (e incomprensione) della strategia parmenidea, è anche la
testimonianza di Cicerone (DK 28 A37): nam P. quidem commenticium quiddam:
coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et >
lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum; in quo neque figuram divinam
neque sensum quisquam suspicari potest. multaque eiusdem < modi >
monstra: quippe qui B e l l u m , qui Discordiam , qui C u p i d i t a t e m [B
13] ceteraque generis eiusdem ad deum revocat, quae vel morbo vel somno vel
oblivione vel vetustate delentur; eademque de sideribus, quae reprehensa in
alio iam in hoc omittantur Parmenide immagina qualcosa di fittizio: una corona
(egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e
che egli chiama dio; in cui non si 577 può supporre ci sia figura divina né
sensibilità alcuna. Inoltre, indica moltre altre assurdità di tale specie:
riferisce infatti dio a Guerra, Discordia, Passione [B13] e tutte le altre cose
del genere, le quali sono distrutte o da malattia o dal sonno o dall'oblio o
dalla vecchiaia. Le medesime cose sono dette anche degli astri: essendo già
state criticate in altro luogo, possiamo ometterle in questo. Quelli che
abbiamo elencato sono i testi che complessivamente autorizzano la speculazione
sulla cosmo-teogonia parmenidea. Pochi gli elementi sufficientemente certi: (i)
la testimonianza di Simplicio – che pone la funzione della δαίμων in relazione
diretta con i «due elementi» (περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων) Fuoco e Notte – insiste
decisamente sulla divinità come «causa efficiente» (ποιητικὸν αἴτιον) «una e
comune» (ἓν κοινὸν), origine di ogni generazione (γένεσις); (ii) la sua
causalità efficiente appare come impulso alla mescolanza (πέμπουσα μιγῆν) dei
due contrari: la divinità è causa comune in quanto, attraverso la mescolanza
delle δυνάμεις di Fuoco e Notte, rende possibile quanto i mortali definiscono
generazione e corruzione33; (iii) a nascita e morte allude probabilmente
Simplicio quando osserva che «[la dea] invia le anime talora dal visibile
all'invisibile, talora in senso opposto» (τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς
εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν); allo stesso fenomeno si riferisce Parmenide
in B12.4 con l'espressione: πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει di
tutte le cose sovrintende al doloroso parto e all'unione. Conche (tra gli
altri) si è soffermato34 sull'uso di στυγερός (da στυγέω, «avere in orrore»),
che a suo credere rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, portato di
una Stimmung riscontrata soprattutto nella poesia arcaica: un pessimismo
proiettato nel 33 Ivi, p. 340. 34 Op. cit., pp. 225 ss.. 578 suo caso, rispetto
alla poesia, dalla condizione umana al divenire nel suo complesso; (iv) la
mescolanza (μῖξις) è ulteriormente connotata come (o almeno accostata a) una
forma di unione sessuale: questo spiega probabilmente il ruolo di Eros.
Simplicio, infatti, introducendo B13, precisa che la δαίμων è anche «causa
degli dei» (θεῶν αἰτία), mentre Aristotele esplicitamente attribuisce al
concepimento di Eros una funzione cosmogonica («ricostruendo la genesi del
tutto», κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν); (v) a dire di Cicerone, altre
figure divine (Guerra, Discordia, Passione) dovevano cooperare all'attività
direttiva della δαίμων: evidente l'analogia con le forze cosmogoniche di
Empedocle (che, ribadiamo, potrebbe essersi ispirato direttamente al modello
parmenideo). In quella che Plutarco chiama κοσμογονία, è possibile dunque che
Parmenide impiegasse un doppio registro: l'esposizione propriamente cosmogonica
era accompagnata e intrecciata a una versione immediatamente teogonica. Ciò è
suggerito, da un lato, dall'uso, in B11.3-4, della formula «ebbero impulso a
generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), che sembra implicare una spinta immanente,
dall'interno della natura stessa del cosmo, dall'altro, dalla attribuzione
aristotelica a Eros di una funzione analoga. Secondo Ruggiu35 l'impulso
(cosmogonico) a congiungersi e mescolarsi (e quindi il processo di costituzione
delle cose) sarebbe guidato dalla potenza immanente, da quella forza
vivificatrice denominata δαίμων (o forse Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς ), di cui Eros
(insieme alle altre divinità cui allude Cicerone) sarebbe espressione teogonica
e cosmogonica a un tempo, nella misura in cui l'unione sessuale rientra
tipicamente nelle forme di congiunzione\mescolamento, essenziali, nello schema
parmenideo che prevedeva due principi elementari di base, per produrre
generazione e corruzione. Sarebbe, insomma, in vista dell'«odioso parto» e
dell'«unione» che la dea avrebbe «concepito» (letteralmente «meditato,
pensato») Eros36. Si può dunque osservare ulteriormente che: 35 Op. cit., p.
340. 36 Coxon, op. cit., p. 242. 579 (vi) la δαίμων, di cui si sottolineano,
con linguaggio nautico (κυϐερνάω: pilotare, timonare), sia il ruolo di governo,
sia l'azione di dare inizio ai processi, sembra dominarli in ultima analisi
attraverso il pensiero (μητιάω: meditare, deliberare, ma anche concepire,
inventare). A dispetto del contesto e della tradizione teogonica evocata, il
poeta intenderebbe così rilevare «un rapporto di pura filiazione concettuale»37
. 37 Cerri, op. cit., p. 273. 580 NOTTE DI LUNA [B14-14A-15-15A] I quattro
frammenti sono propriamente delle schegge del testo del poema (B14a, per altro,
normalmente non considerato frammento autentico ma imitazione aristotelica), di
difficile contestualizzazione, e il cui valore è discusso. È significativo, in
particolare, il fatto che B14 e B15 siano citati da Plutarco non per
documentare il sistema astronomico di Parmenide, ma, strumentalmente, per
illustrare altre relazioni (B14) ovvero (B15) per le implicazioni etiche
(obbedienza volontaria a un superiore)1 : οὐδὲ γὰρ ὁ πῦρ μὴ λέγων εἶναι τὸν
πεπυρωμένον σίδηρον ἢ τὴν σελήνην ἥλιον, ἀλλὰ κατὰ Παρμενίδην [B14: νυκτιφαὲς περὶ
γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς] ἀναιρεῖ σιδήρου χρῆσιν ἢ σελήνης φύσιν. nemmeno
chi nega che il ferro incandescente sia fuoco o la Luna Sole, ma come
Parmenide: «di notte splendente, vagando intorno alla Terra, luce d'altri» –
elimina l'uso del ferro o la natura della Luna. τῶν ἐν οὐρανῶι τοσούτων τὸ πλῆθος
ὄντων μόνη φωτὸς ἀλλοτρίου δεομένη περίεισι κατὰ Π. αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς
ἠελίοιο. Nell'abbondanza di tali entità nel cielo la sola [Luna] va in giro
bisognosa di luce altrui, secondo Parmenide. ...sempre rivolta verso i raggi
del sole. Nella tradizione è stato a essi attribuito sostanzialmente un
significato poetico e solo subordinatamente astronomico. Si è insistito sulla
costruzione ritmica2 ovvero sull'immaginario sentimentale cui ricorre Parmenide:
la Luna come donna innamorata rivolta a contemplare il proprio amante (il
Sole), illuminata dai suoi sguardi (raggi). Situazione e immagine che Empedocle
avrebbe poi puntualmente ripreso, come abbiamo segnalato in nota al testo. 1
Coxon, op. cit., pp. 244-5. 2 Cerri, op. cit., p. 274. 581 Dai pochi versi si
possono tuttavia ricavare anche interessanti indicazioni cosmologiche: (i) la
conferma della natura circolare del moto di rivoluzione della Luna («vagante
intorno alla Terra», περὶ γαῖαν ἀλώμενον); (ii) donde l'inferenza circa la
probabile sfericità della stessa, confermata dalle testimonianze teofrastee;
(iii) l'attestazione della relazione di dipendenza della luce lunare dalla luce
solare (ἀλλότριον φῶς). Su questo punto è necessario precisare che, attraverso
Aëtius, siamo informati della origine e composizione di Luna e Sole: Π. τὸν ἥλιον
καὶ τὴν σελήνην ἐκ τοῦ γαλαξίου κύκλου ἀποκριθῆναι, τὸν μὲν ἀπὸ τοῦ ἀραιοτέρου
μίγματος ὃ δὴ θερμόν, τὴν δὲ ἀπὸ τοῦ πυκνοτέρου ὅπερ ψυχρόν. Parmenide sostiene
che il Sole e la Luna si siano formati per distacco dal cerchio della Via
Lattea: il primo è costituito dalla mescolanza più rarefatta, che è calda;
l'altra dalla più densa, che è fredda (DK 28 A43) συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν
σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός La luna è mescolanza di entrambi, di aria e
di fuoco (DK 28 A37) Π. πυρίνην [sc. εἶναι τὴν σελήνην]. Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc.
εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται. Θαλῆς πρῶτος ἔφη ὑπὸ τοῦ ἡλίου
φωτίζεσθαι. Πυθαγόρας, Παρμ. ... ὁμοίως Parmenide sostiene [che la Luna è] di
fuoco. Parmenide sostiene [che la Luna è] simile [per grandezza] al Sole: è in
effetti illuminata da esso. Talete per primo disse che [la Luna] è illuminata
dal Sole; analogamente Pitagora, Parmenide ...... È la diversa commisurazione
degli elementi base, pur derivando Sole e Luna dalla stessa fascia celeste (la
Via Lattea), a produrre, nel caso della seconda, effetti fisici (fenomenici)
più deboli 582 rispetto a quelli del Sole (giustificandone così la dipendenza):
il pallore della Luna è connesso al fatto che il fuoco non riesce a renderla
calda e quindi neppure splendente3 . 3 Conche, op. cit., pp. 235-6. 583 IL
CORPO E IL PENSIERO [B16] Frammento di interpretazione estremamente
controversa, B16 costituisce effettivamente una sfida per il traduttore:
accanto ai problemi di determinazione del testo all'interno della tradizione
manoscritta, troviamo nello specifico difficoltà per quanto concerne la sua
comprensione. In assenza del contesto immediato, infatti, la costruzione
sintattica non è del tutto perspicua e univoca, e le possibili, diverse
soluzioni producono per lo più significati diversi. Incerta risulta anche la
sua collocazione all'interno della struttura del poema. Prevalente è
l'orientamento di Diels, che considerò i versi come appartenenti alla sezione
sulla Doxa, ma non sono mancate - in passato e tra gli studiosi contemporanei
(Mourelatos, Robinson, Stemich, Ferrari) – le proposte di assegnarlo alla
sezione sulla Verità, analogamente a B4: per gli uni il frammento esprimerebbe
una concezione soggettivistica del comune pensare umano, costantemente
condizionato dalla situazione fisiologica dell'individuo pensante; per gli
altri, invece, esso affermerebbe la stretta relazione tra pensiero e realtà.
L'esame del contesto delle citazioni può aiutare a comprendere il senso dei
versi parmenidei e a decidere del suo posizionamento nell'opera. Il contesto
peripatetico Abbiamo di B16 due citazioni integrali peripatetiche - in
Aristotele (Metafisica IV, 5 1009 b21) e Teofrasto (De sensu 3) – e due
parafrasi – Alessandro di Afrodisia e Asclepio nei loro commenti al testo
aristotelico. Aristotele Aristotele cita il frammento all'interno di una
disamina critica delle dottrine relativistiche di stampo protagoreo (tutte le
opinioni sarebbero egualmente vere ed egualmente false), che lo Stagirita 584
fa derivare dalla combinazione di un assunto teorico di fondo e di due assunti
specifici. Per quanto riguarda il primo, lo scenario entro cui il filosofo
posiziona gli autori citati, egli osserva (a più riprese): ἡ περὶ τὰ φαινόμενα ἀλήθεια
ἐνίοις ἐκ τῶν αἰσθητῶν ἐλήλυθεν la verità circa le cose che appaiono ad alcuni
è derivata dalle cose sensibili (Metafisica IV, 5 1009 b1) αἴτιον δὲ τῆς δόξης
τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι
τὰ αἰσθητὰ μόνον causa di questa convinzione per costoro è che essi ricercavano
sì la verità intorno agli enti, ma supponendo che gli enti fossero solo quelli
sensibili (1010 a1-3). Il discorso aristotelico che coinvolge anche Parmenide
verte, dunque, in generale, su una ontologia "materialistica" e sulla
conoscenza associata all'esperienza sensibile. Le assunzioni specifiche
riguardano invece la sensazione (αἴσθησις): essa è intesa come (i) pensiero
(φρόνησις), ovvero (ii) processo di alterazione fisica (ἀλλοίωσις). La
citazione di B16 avviene appunto in questo contesto: ὅλως δὲ διὰ τὸ ὑπολαμβάνειν
φρόνησιν μὲν τὴν αἴσθησιν, ταύτην δ’ εἶναι ἀλλοίωσιν, τὸ φαινόμενον κατὰ τὴν αἴσθησιν
ἐξ ἀνάγκης ἀληθὲς εἶναί φασιν· ἐκ τούτων γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος καὶ
τῶν ἄλλων ὡς ἔπος εἰπεῖν ἕκαστος τοιαύταις δόξαις γεγένηνται ἔνοχοι. καὶ γὰρ Ἐμπεδοκλῆς
μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν μεταβάλλειν φησὶ τὴν φρόνησιν· “πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἐναύξεται
ἀνθρώποισιν.” καὶ ἐν ἑτέροις δὲ λέγει ὅτι “ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν,
τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ | καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο”. καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται
τὸν αὐτὸν τρόπον·[B16] 585 Generalmente, poiché pensano che la sensazione sia
pensiero e che sia una alterazione, sostengono che ciò che appare secondo la
sensazione di necessità sia vero. È partendo in vero da queste considerazioni
che Empedocle, Democrito e, per così dire, ciascuno degli altri [naturalisti]
si sono ritrovati soggetti a tali opinioni. Empedocle, infatti, afferma che, mutando
la condizione, muti il pensiero: «in relazione alla situazione presente, in
vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove dice che: «per quanto mutano
diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose
diverse». Anche Parmenide si esprime nello stesso modo: [B16]. È interessante
notare come Aristotele interpreti Empedocle: Empedocle, infatti, afferma che,
mutando la condizione (μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν), muti il pensiero (μεταβάλλειν τὴν
φρόνησιν), prima di citarlo (due volte), facendo corrispondere ἕξις e φρόνησις,
come, a suo dire, Parmenide avrebbe fatto nei suoi versi: καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται
τὸν αὐτὸν τρόπον anche Parmenide si esprime nello stesso modo. In effetti i
primi due versi del frammento parmenideo sono costruiti sulla connessione ὡς....
τὼς: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχει 1 κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι
παρίσταται2 come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra
molto vaganti, 1 È questa la forma verbale prevalente nei codici: nello
stabilire il testo abbiamo accolto tuttavia la lectio difficilior ἔχῃ
(congiuntivo). 2 Nella versione greca del frammento abbiamo accolto la versione
παρέστηκεν dei codici di Teofrasto. 586 così il pensiero si presenta agli
uomini, così che la citazione, nel contesto del discorso aristotelico,
suggerisce di riscontrare la correlazione precedente (ἕξιςφρόνησις): si è
spinti, insomma a leggere l'espressione ἔχει κρᾶσιν μελέων come corrispettivo
di ἕξις, e νόος come corrispettivo di φρόνησις. A ciò va aggiunto che la seconda
citazione empedoclea: ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ
καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο per quanto mutano diventando diversi, di tanto
sempre a loro si presenta il pensare cose diverse, richiama, nella
formulazione, a sua volta i primi due versi parmenidei, in particolare per
l'espressione νόος ἀνθρώποισι παρίσταται, in cui il comune verbo παρίστημι è
riferito in un caso a τὸ φρονεῖν nell'altro a νόος. Indubbiamente, anche
evitando il commento diretto, Aristotele imponeva di fatto le coordinate di
lettura di B16. Al medesimo nodo teorico, lo stesso Aristotele si richiama
ancora in De Anima: Ἐπεὶ δὲ δύο διαφοραῖς ὁρίζονται μάλιστα τὴν ψυχήν, κινήσει
τε τῇ κατὰ τόπον καὶ τῷ νοεῖν καὶ φρονεῖν καὶ αἰσθάνεσθαι, δοκεῖ δὲ καὶ τὸ νοεῖν
καὶ τὸ φρονεῖν ὥσπερ αἰσθάνεσθαί τι εἶναι (ἐν ἀμφοτέροις γὰρ τούτοις κρίνει τι ἡ
ψυχὴ καὶ γνωρίζει τῶν ὄντων), καὶ οἵ γε ἀρχαῖοι τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι
ταὐτὸν εἶναί φασιν—ὥσπερ καὶ Ἐμπεδοκλῆς εἴρηκε ‘πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἀέξεται ἀνθρώποισιν’
καὶ ἐν ἄλλοις ‘ὅθεν σφίσιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίσταται’, τὸ δ’ αὐτὸ
τούτοις βούλεται καὶ τὸ Ὁμήρου ‘τοῖος γὰρ νόος ἐστίν’, πάντες γὰρ οὗτοι τὸ νοεῖν
σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι ὑπολαμβάνουσιν, καὶ αἰσθάνεσθαί τε καὶ φρονεῖν τῷ
ὁμοίῳ τὸ ὅμοιον, ὥσπερ καὶ ἐν τοῖς κατ’ ἀρχὰς λόγοις διωρίσαμεν 587 L'anima è
per lo più definita in base a due elementi: il movimento locale e il pensare,
il riflettere e il sentire. Sembra che il pensare e il riflettere siano
qualcosa come il sentire (in entrambi i casi, infatti, l'anima discrimina e
conosce qualcosa degli enti), e del resto gli antichi sostengono che il pensare
e il sentire siano la stessa cosa. Così Empedocle affermò: «in relazione alla
situazione presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove: «per quanto
mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose
diverse». La stessa cosa intende l'affermazione di Omero: «tale è infatti la
mente». Tutti costoro, in effetti, sostengono che il pensare sia qualcosa di
corporeo come il sentire, e che sentire e pensare siano del simile attraverso
il simile, come abbiamo detto inizialmente nel nostro discorso (De Anima III, 3
427 a17-29). Benché non evocato direttamente, Parmenide rimane coinvolto
doppiamente: perché l'equazione aristotelica tra «pensare» e
«percepire/sentire» (τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι) è genericamente rivolta
agli «antichi» (οἵ ἀρχαῖοι), analogamente alla connotazione conclusiva del
pensare come «qualcosa di corporeo come il sentire» (τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ
αἰσθάνεσθαι), attribuita a «tutti costoro» (πάντες οὗτοι, cioè, ancora, «gli
antichi»). Significativi il costante riferimento a Empedocle e la citazione
omerica (in Metafisica IV, 5 1009 b28-30 si evocava Iliade XXIII, 698), di cui
molti studiosi ritrovano eco in B16: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων,
οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che
vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei
(Odissea XVIII, 136-7). Il testo di Omero, in effetti, intende marcare la
costitutiva debolezza della comprensione umana e la sua totale dipendenza
dall'operare divino. Esso riflette un punto di vista che circolava nella poesia
arcaica: il νόος dell'uomo come ἀμήχανος (impotente) rispetto a quello divino.
Possiamo rintracciare lo stesso motivo in 588 Archiloco (fr. 68.1-2 Diehl),
Simonide (fr. 1.1-5) e Teognide (vv. 1171-4). Teofrasto Secondo Coxon3 ,
Teofrasto avrebbe avuto chiaramente presenti l'argomento e la citazione del
maestro, pur utilizzando il frammento per motivi diversi e ricavandolo da un
testo indipendente: non si comprenderebbe altrimenti su quali basi B16
troverebbe collocazione all'interno di una riflessione περὶ αἰσθήσεως (De
Sensu) e come potrebbe riferirsi al dibattito sull'origine della sensazione
(dal simile o dai contrari), se non appunto per la precedente (incrociata)
lettura aristotelica: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν·
οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ
Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι. (3) Π. μὲν
γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον
ἐστὶν ἡ γνῶσις. ἐὰν γὰρ ὑπεραίρηι τὸ θερμὸν ἢ τὸ ψυχρόν, ἄλλην γίνεσθαι τὴν
διάνοιαν, βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν τὴν διὰ τὸ θερμόν· οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ ταύτην
δεῖσθαί τινος συμμετρίας· ‘ὡς γὰρ ἑκάστοτε , φησίν, ἔ χ ε ι . . . ν ό η μ α ’
(B 16). τὸ γὰρ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ λέγει· διὸ καὶ τὴν μνήμην καὶ
τὴν λήθην ἀπὸ τούτων γίνεσθαι διὰ τῆς κράσεως· ἂν δ’ ἰσάζωσι τῆι μίξει, πότερον
ἔσται φρονεῖν ἢ οὔ, καὶ τίς ἡ διάθεσις, οὐδὲν ἔτι διώρικεν. ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι
καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ
θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν ἔκλειψιν τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς
καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι. καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν. οὕτω μὲν
οὖν αὐτὸς ἔοικεν ἀποτέμνεσθαι τῆι φάσει τὰ συμβαίνοντα δυσχερῆ διὰ τὴν ὑπόληψιν.
3 Op. cit., p. 247. 589 Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e
diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal
contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e
Eraclito dal contrario... Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato
alcunché, ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce
secondo l'elemento che prevale: qualora infatti prevalga il caldo o il freddo,
il pensiero cambia [diventa altro], ma migliore e più puro è comunque quello
secondo il caldo. Anche questo, tuttavia, richiede una certa proporzione.
[citazione B16]. Parla del percepire e del pensare come della stessa cosa:
perciò anche la memoria e l'oblio derivano da queste cose attraverso la
mescolanza. Non precisa ulteriormente invece circa l'eventualità che gli elementi
siano equivalenti nella mistione: se ci sarà pensiero o no, e quale la sua
costituzione. Che egli faccia dipendere la percezione anche dal contrario in sé
considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che il morto non
percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco, ma che
percepisce freddo, silenzio e i contrari. Nel complesso sostiene che tutto
l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. Così, dunque, egli sembra
eliminare in apparenza le difficoltà che derivano dalla sua teoria. A
differenza della discussione aristotelica dei presunti presupposti ontologici
materialistici e del conseguente sensismo soggettivistico di marca protagorea,
il contesto teofrasteo è quello di un'analisi decisamente gnoseologica.
Dobbiamo tuttavia trattenerci dall'intendere il frammento in chiave di
gnoseologia generale4 : né Aristotele né Teofrasto utilizzano i termini
parmenidei νόος e νόημα, limitandosi a correlare τὸ αἰσθάνεσθαι e τὸ φρονεῖν
ovvero i derivati αἴσθησις e φρόνησις. È possibile, dunque, che nessuno dei due
intendesse realmente attribuire a Parmenide la riduzione della conoscenza a
percezione5 , riferendosi entrambi piuttosto alla sua teoria della conoscenza
del mondo sensibile. 4 Cerri, op. cit., pp. 277-8. 5 Coxon, op. cit., p. 251.
590 In ogni caso, Teofrasto introduce il riferimento a Parmenide all'interno
dell'esame delle due opinioni prevalenti (secondo lo schema delle testimonianze
aristoteliche che doveva già risultare condizionante6 ): la prima novità
rispetto all'indicazione del maestro, infatti, interviene proprio su questo
punto: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν· οἱ μὲν γὰρ
τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι ὁμοίωι,
οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι Riguardo alla sensazione le
opinioni più numerose e diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile,
gli altri dal contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci
di Anassagora e Eraclito dal contrario. Parmenide viene classificato tra i
sostenitori della derivazione della percezione dall'azione del simile sul
simile, sebbene all'inizio della trattazione specifica Teofrasto segnali come:
Π. μὲν γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha
precisato alcunché [...]. La seconda novità della testimonianza teofrastea è
che, immediatamente di seguito, essa valorizza un particolare trascurato da
Aristotele: ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ
γνῶσις [...] ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce
secondo l'elemento che prevale. Si tratta probabilmente di un riferimento
proprio alla conclusione di B16: 6 Su questo B. Cassin-M. Narcy,
"Parménide sophiste. La citation aristotélicienne du fr. XVI", in
Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 281. 591 τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα ciò
che prevale, infatti, è il pensiero. Dal punto di vista di Teofrasto è questa
la peculiarità del contributo parmenideo in campo conoscitivo: il principio
della dipendenza del pensiero dall'elemento che prevale nella mescolanza. Il
terzo rilievo interessante della testimonianza è quello conclusivo: καὶ ὅλως δὲ
πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν Nel complesso [sostiene] anche che tutto l'essere
abbia una qualche capacità conoscitiva. La convinzione espressa potrebbe
discendere dai fondamenti della "fisica" parmenidea: i due
costitutivi "materiali" (Fuoco e Notte) presenti in tutte le cose
hanno «proprietà» (δυνάμεις) per cui funzionano anche come principi di
movimento e conoscenza. Possiamo così riassumere le preziose informazioni
teofrastee sulle concezioni gnoseologiche di Parmenide: (i) due sono gli
elementi coinvolti nella conoscenza (γνῶσις): «il caldo» (τὸ θερμὸν) e «il
freddo» (τὸ ψυχρόν); (ii) essa si produce con il prevalere di uno dei due (κατὰ
τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις): a seconda della preponderanza, «il pensiero
cambia [diventa altro]» (ἄλλην γίνεσθαι τὴν διάνοιαν); (iii) il pensiero
(διάνοια) qualitativamente migliore (βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν) è «quello
secondo il caldo» (τὴν διὰ τὸ θερμόν); (iv) «una certa proporzione [degli
elementi]» è tuttavia sempre implicata (δεῖσθαί τινος συμμετρίας); (v)
percepire e pensare sono considerati la stessa cosa (τὸ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ
φρονεῖν ὡς ταὐτὸ); (vi) la percezione è del simile attraverso il simile
(evidentemente Teofrasto ha presente una parte del poema per noi perduta): ὅτι
δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν
φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν 592 ἔκλειψιν τοῦ πυρός,
ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι Che egli faccia dipendere la
percezione anche dal contrario in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente
laddove afferma che il morto non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la
perdita del fuoco, ma che percepisce freddo, silenzio e i contrari; (vii) tutta
la realtà è dotata di capacità di conoscere (καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ
γνῶσιν): è chiaro nel contesto, dove ripetutamente si accenna ai due elementi,
che Teofrasto riferisce questa asserzione agli enti sensibili, al mondo fisico.
Al centro dell'esposizione della dottrina parmenidea sono comunque i punti (ii)
e (iii), che giustificano la citazione di B16: Teofrasto ritrova evidentemente
nel poema il rilievo esplicito dell'incidenza della κρᾶσις μελέων sulla qualità
del pensiero, ma solo sotto il profilo della prevalenza di uno dei due
«elementi» (στοιχεία), sottolineando invece l'assenza in Parmenide di una
perspicua considerazione degli effetti dell'eventuale loro equilibrio.
L'impressione è che il frammento parmenideo sia impiegato non tanto per
sostenere una prospettiva rigorosamente conoscitiva (non per marcare la
relazione tra il pensiero e il suo oggetto), quanto piuttosto per rimarcare la
relazione psico-fisica che vi è tematizzata7 . Ricostruzione dei vv. 1-2a I
primi due versi del frammento sono di interpretazione relativamente più agevole
rispetto agli ultimi due: nonostante le divergenze nella ricostruzione
sintattica, il senso generale non cambia di molto: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν
μελέων πολυπλάγκτων, 7 M. Marcinkowska-Rosół, Die Konzeption des
"Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p.
181. 593 τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν Come, in effetti, di volta in volta, si
ha temperamento di membra molto vaganti, così il pensiero si presenta agli
uomini. Come abbiamo segnalato in nota al testo, esistono varie soluzioni per
il soggetto del primo verbo (ἔχῃ) e per il suo valore (transitivo,
intransitivo). Complessivamente, tuttavia, si conferma un'indicazione
fondamentale: la condizione mentale degli uomini è correlata alla loro
situazione fisiologica. Negli esseri umani in generale (ἀνθρώποισι), alle
variazioni (ὡς ἑκάστοτ’ ἔχῃ) dell'amalgama corporea (κρᾶσιν μελέων
πολυπλάγκτων), corrisponde il manifestarsi (τὼς παρέστηκεν) del pensiero
(ovvero della «mente», νόος). Come abbiamo registrato, è quanto Aristotele
rendeva con la correlazione ἕξις-φρόνησις. Si tratta di una tesi di
antropologia generale che trova indirettamente conferma nella tradizione
dossografica: δύο τε εἶναι στοιχεῖα, πῦρ καὶ γῆν, καὶ τὸ μὲν δημιουργοῦ τάξιν ἔχειν,
τὴν δὲ ὕλης. γένεσίν τε ἀνθρώπων ἐξ ἡλίου πρῶτον γενέσθαι· αὐτὸν [?] δὲ ὑπάρχειν
τὸ θερμὸν καὶ τὸ ψυχρόν, ἐξ ὧν τὰ πάντα συνεστάναι. καὶ τὴν ψυχὴν καὶ τὸν νοῦν
ταὐτὸν εἶναι, καθὰ μέμνηται καὶ Θεόφραστος ἐν τοῖς Φυσικοῖς, πάντων σχεδὸν ἐκτιθέμενος
τὰ δόγματα. Disse che due sono gli elementi – fuoco e terra – e che l'uno ha
funzione di artefice, l'altro di materia. Disse che la generazione degli uomini
deriva in primo luogo dal Sole e che a quello [uomo] spettano come elementi il
caldo e il freddo, da cui tutte le cose sono costituite. Disse anche che
l'anima e l'intelligenza sono la stessa cosa, come ricorda anche Teofrasto
nella sua Fisica, dove espone le dottrine di quasi tutti [i filosofi] (Diogene
Laerzio; DK 28A1). Parmenides ex terra et igne [sc. animam esse]. Π. δὲ καὶ Ἵππασος
πυρώδη. Π. ἐν ὅλωι τῶι θώρακι τὸ ἡγεμονικόν. Π. καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος
594 ταὐτὸν νοῦν καὶ ψυχήν, καθ’ οὓς οὐδὲν ἂν εἴη ζῶιον ἄλογον κυρίως Parmenide
dice che l'anima è costituita di terra e fuoco (Macrobio; DK 28 A45) Parmenide
e Ippaso dicono che l'anima è ignea. – Parmenide dice che in tutto il petto ha
sede l'egemonico. – Parmenide ed Empedocle e Democrito dicono che
l'intelligenza e l'anima sono la stessa cosa; secondo loro nessun animale
sarebbe completamente senza ragione (Aëtius; DK 28 A45). Parmenide avrebbe
ricondotto rigorosamente ai suoi principi (Fuoco e Notte, ovvero Fuoco e Terra)
la natura umana, attribuendo alla loro interazione la stessa attività percettiva
e conoscitiva. In particolare, la scelta di κρᾶσις potrebbe rivelare la
vicinanza di Parmenide alle scuole mediche (il termine ritorna in Alcmeone ed
Empedocle, nonché in Democrito): l'idea trasmessa sarebbe quella del
temperamento delle componenti in un'amalgama coesa. Nel testo, comunque, il
genitivo μελέων (πολυπλάγκτων) non si riferirebbe (se non indirettamente) agli
elementi, ma immediatamente alle «membra» corporee, secondo il costume omerico
di designare il complesso fisico con il rinvio alle parti. L'Eleate pare
dunque, in primo luogo, attento a rilevare, nella relazione psicofisica,
l'interdipendenza tra disciplina delle «membra» e condizione della mente 8 : in
tal caso, il tradizionale motivo poetico dell'instabilità ed eteronomia9 della comprensione
umana risulterebbe decisamente piegato all'esigenza di marcare non tanto una
generica dipendenza del pensiero (νόος) umano dalle circostanze esterne - come
nella formula omerica sopra ricordata (ed evocata anche da Aristotele in De
Anima): τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν
τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, 8 Su questo
M. Stemich, op. cit., pp. 139-142. 9 Riprendo l'espressione da
Marcinkowska-Rosół, op. cit., p. 162. 595 quale il giorno che manda il padre
degli uomini e degli dei, quanto il suo condizionamento da parte del mutevole
equilibrio fisiologico corporeo10 . L'attenzione di Parmenide sembrerebbe
allora, in secondo luogo, tesa a marcare proprio la mutevolezza, l'instabilità
della situazione psico-fisica, come rivelerebbe la scelta dell'avverbio ἑκάστοτε
(«ogni volta, di volta in volta») e dell'aggettivo composto πολυπλάγκτων
(«molto vaganti, dai molteplici movimenti, volubili»). Nel complesso, quindi,
nella prospettiva antropologica adottata nei versi in esame, non v'è dubbio che
sia proposta una concezione del pensare come attività (e del pensiero come
prodotto: νόημα) che sopravviene (anche in questo caso la scelta espressiva è
indicativa: παρέστηκεν, «si presenta») dall'esterno, dal temperamento cangiante
di «membra che molto si agitano» (μελέων πολυπλάγκτων), di cui, insomma, il
soggetto non sembra essere in controllo11 . Ricostruzione dei vv. 2b-4 Il
frammento prosegue: τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ
πᾶσιν καὶ παντί· τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα perché è precisamente la stessa cosa
ciò che pensa negli uomini, la costituzione del [loro] corpo, in tutti e in
ciascuno: ciò che prevale, in vero, è il pensiero. 10 Ivi, p. 176. 11 Ivi, pp.
162-3. 596 Si tratta di uno dei passaggi più controversi dell'intero poema
sopravvissuto. Nella nostra ricostruzione sintattica del testo greco, la Dea,
riferendosi alla propria asserzione secondo cui la qualità del pensiero dipende
dal temperamento delle membra (vv. 1-2a), precisa dapprima come ciò accada in
virtù del fatto che «ciò che pensa negli uomini» (ὅπερ φρονέει ἀνθρώποισιν)
coincide (τὸ αὐτό ἔστιν) con «la costituzione del loro corpo» (μελέων φύσις).
La soluzione interpretativa seguita nella traduzione è, nella sostanza, quella
proposta originariamente da Diels (1897), che appare, rispetto all'insieme del
frammento, la più equilibrata, a dispetto del limite denunciato nella
tradizione critica (Fränkel, Hölscher): la costruzione richiesta, con μελέων
φύσις come apposizione (con valore esplicativo12), risulta un po' artificiosa13
. A questo chiarimento la Dea fa seguire una puntualizzazione: il pensiero
(νόημα, qui da intendere come «contenuto di pensiero») coincide con «ciò che
prevale» (τὸ πλέον). Il senso è chiarito nella testimonianza teofrastea, come
abbiamo avuto modo di registrare: ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον
ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo
l'elemento che prevale. Il lessico di Teofrasto è lessico di
"conoscenza" (γνῶσις); quello del frammento appare piuttosto lessico
di "pensiero" (νόος, νόημα): in assenza del contesto, è la
determinazione del pensiero attraverso gli equilibri fisiologici che sembra
posta al centro dell'attenzione. La Dea, secondo costume (Omero, Archiloco),
informa il κοῦρος, destinatario diretto della comunicazione, circa
l'inevitabile condizionamento del pensiero umano: in altre parole, all'interno
della complessiva illustrazione della realtà cosmica e 12 Come spiegano nel
loro contributo B. Cassin e M. Narcy (p. 290). 13 Per una aggiornata disamina
della discussione critica in merito alle possibili soluzioni nella traduzione
si veda ora Marcinkowska-Rosół, op. cit., pp. 164 ss.. 597 dei suoi processi di
formazione, ella inserisce un resoconto dei meccanismi fisiologici alla base
delle attività spirituali. In realtà, la sua è una modalità didascalica per
mettere in guardia la propria audience. Soprattutto se consideriamo che, a
differenza di quel che accadeva nella rappresentazione omerica che teneva unite
dimensione corporea e dimensione spirituale, il ricorrente impiego di νόος,
νόημα, νοεῖν (B2, B3, B4, B6, B7, B8) suggerisce, nel caso di Parmenide, una
consapevole distinzione delle nozioni di «corpo» (μέλεα) e «spirito/pensiero»
(νόος) e la conseguente valutazione delle loro implicazioni reciproche. Il κοῦρος
è stato invitato a: (i) sottrarsi al giogo della assuefazione empirica: μηδέ σ΄
ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν
καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia
violenza a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua
(B7.3-5a), (ii) tenersi lontano dalla strada per lo più battuta dai «mortali»:
una strada che disorienta, ottundendo i loro sensi e la loro comprensione della
realtà: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >, δίκρανοι· ἀμηχανίη
γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί
τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα da quella [via di ricerca] che appunto mortali che
nulla sanno , uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la
mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti,
schiere scriteriate (B6.4-5a), 598 (iii) imparare attivamente, giudicando criticamente
la comunicazione della Dea: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον Giudica invece con
il ragionamento la prova polemica (B7.5b), (iv) riflettere sulla specifica
capacità di attualizzazione del pensiero: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα
βεϐαίως Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente
presenti (B4.1), (v) e sulla effettiva natura del suo oggetto: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν
ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere (B3). In B16,
infine, la Dea esplicitamente ricorda come il prodursi del pensiero sia da
inquadrare all'interno di un'ineludibile cornice psico-fisica: averne
cognizione e coscienza comporta, in prospettiva, potersene avvantaggiare,
garantendo al pensiero le condizioni ideali14. Potrebbe allora non essere
casuale la relazione lessicale tra «mente errante» (πλακτὸν νόον, B6.5b-6a): ἀμηχανίη
γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον impotenza davvero nei loro petti
guida la mente errante, e «membra molto vaganti» (μελέων πολυπλάγκτων, B16): ὡς
γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν
come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto
vaganti, 14 Così la Stemich, op. cit., pp. 164-5. 599 così il pensiero si
presenta agli uomini. Forse proprio il disordine e l'agitazione del corpo,
espressi da πολυπλάγκτα μέλεα, possono spiegare la confusione che domina il
pensiero dei «mortali». Per converso, possiamo ipotizzare che ai «segni» di
stabilità e compattezza del νόημα ἀμφὶς ἀληθείης (B8) dovesse corrispondere il
miglior temperamento degli elementi corporei: nella testimonianza teofrastea
«il pensiero secondo il caldo» (διάνοια διὰ τὸ θερμόν). Forse l'illustrazione
dei meccanismi fisiologici condizionanti aveva (direttamente o indirettamente)
la specifica funzione di guidare il kouros a una loro corretta gestione:
difficile, infatti, immaginare che il νόημα ἀμφὶς ἀληθείης potesse essere
affidato a un accidentale equilibrio psico-fisico, su cui il destinatario non
avesse opportunità di controllo15 . Queste supposizioni assumono maggiore
consistenza se accettiamo i riscontri giunti dalla ricerca archeologica16, i
quali, dopo i ritrovamenti dell'ultimo mezzo secolo, fanno intravedere la
possibilità che la «scuola eleatica» fosse qualcosa di molto diverso da un
«cenacolo di filosofi razionalisti»17: probabilmente un sodalizio consacrato ad
Apollo Οὔλιος (guaritore, risanatore), dunque una scuola di medicina, istituita
forse dallo stesso Parmenide, il quale è evocato in un’iscrizione recuperata a
Velia (l'odierno sito dell'antica Elea) come Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης
φυσικός (Parmenide, figlio di Pyres, medico di Apollo Guaritore). Altre
iscrizioni recuperate nello stesso luogo confermano l'esistenza di una
tradizione locale di guaritori - apostrofati come Οὖλις ἰατρός φώλαρχος,
letteralmente «risanatore medico signore della caverna» -, che onoravano un Οὐλιάδης
ἰατρόμαντις, un medico- 15 A meno di non interpretare il discorso della Doxa,
come si è fatto tradizionalmente, come una messa in guardia nei confronti di
una elaborazione segnata strutturalmente dall'illusione e dall'inganno: abbiamo
visto, però, che ci sono motivi per credere che non fosse questa l'intenzione
del pensatore di Elea. 16 In precedenza richiamati nel commento al proemio. 17
Passa, op. cit., p. 17. 600 indovino sacerdote di Apollo, da identificare
probabilmente con lo stesso Parmenide18 . È possibile, dunque, che egli
praticasse un'arte che si collocava tra medicina e mantica vera e propria,
ricorrendo al φωλεύειν, cioè a una sorta di "incubazione", analoga
alla letargia invernale dell'animale nella tana (φωλεός). Non dovrebbe allora
sorprendere il rilievo circa la relazione psico-fisica all'interno della
esposizione della Doxa. Il medico-indovino, in effetti, diagnosticava il male
in uno stato di trance, decifrando segni e ricavandone indicazioni terapeutiche
idonee19. Nel caso dell'«incubazione», l'esperienza avveniva, dopo una adeguata
preparazione cultuale, rimanendo immobili in assoluto silenzio, in un luogo
consacrato, inaccessibile ai profani: il sonno avrebbe portato con sé il
manifestarsi del dio in sogni e visioni, che lo iatromantis poteva
interpretare. Parmenide potrebbe aver suggerito al kouros una trasformazione
della condizione psicofisica, così da garantire, attraverso il suo controllo,
la perfetta amalgama dei dati percettivi, la loro omogenea fusione nel pensare
corretto. 18 Per queste notizie Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, cit.,
pp. 55 ss.; Gemelli-Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, pp. 42 ss.; Ferrari,
Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 141 ss.. 19 Kingsley, op. cit.,
pp. 120-7. 601 MASCHI E FEMMINE [B17 E B18] I due frammenti (B18 può essere
solo impropriamente definito tale) trattano della differenziazione dei sessi
(B17) e della trasmissione dei caratteri sessuali (somatici e psichici),
delineando un abbozzo di spiegazione embriogenetica. Non a caso sono il
risultato di citazioni scientifiche: a Galeno dobbiamo quella di B17, che
doveva corroborare la sua opinione circa l'originaria formazione del feto maschile:
τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν
παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη Molti altri tra gli
antichi affermarono che il maschio sia concepito nella parte destra dell'utero.
Parmenide in effetti dice [B17]. Proprio l'intenzione di confermare le proprie
convinzioni biologiche e l'assenza di indicazioni che attestino il rimando
diretto al poema hanno fatto avanzare dubbi sull'attendibilità di quella che
rimane comunque una "scheggia" testuale1 . A Celio Aureliano (V
secolo?), traduttore di opere della tradizione medica greca - in particolare,
nel caso specifico, delle due parti del monumentale Περὶ ὀξέων καὶ χρονίων παθῶν
(Sulle malattie acute e croniche) di Sorano di Efeso (I-II secolo) - dobbiamo
invece la parafrasi in versi che Diels-Kranz hanno classificato come B18. La
citazione è proposta nel seguente contesto: Parmenides libris quos d e n a t u
r a scripsit, eventu inquit conceptionis molles aliquando seu subactos homines
generari. cuius quia graecum est epigramma, et hoc versibus intimabo. latinos
enim ut potui simili modo composui, ne linguarum ratio misceretur. ‘f e m i n a
. . . s e x u m ’. Parmenide, nei libri Sulla natura, afferma che, secondo le
modalità di concezione, si generano talvolta 1 Conche, op. cit., p. 258. 602
uomini molli e sottomessi. Dal momento che il suo testo greco è in versi, lo
proporrò io pure in versi: ho composto, infatti, versi latini di tenore
analogo, per quanto mi è stato possibile, per non confondere il carattere specifico
delle due lingue. [B18] [...]. Celio Aureliano mette dunque sull'avviso: la sua
non è citazione letterale, ma traduzione-rielaborazione2 , sebbene, come ha
osservato Coxon3 , la facilità con cui si possono volgere in greco i suoi versi
latini attesta la loro fedeltà al greco (come segnalato dalla precisazione: «ut
potui simili modi»). Per mettere a fuoco il nodo cui i passaggi del poema
evocati dalle citazioni si riferivano, sono essenziali le testimonianze di
Aëtius e Censorino: Ἀναξαγόρας, Π. τὰ μὲν ἐκ τῶν δεξιῶν [sc. Σπέρματα]
καταβάλλεσθαι εἰς τὰ δεξιὰ μέρη τῆς μήτρας, τὰ δ’ ἐκ τῶν ἀριστερῶν εἰς τὰ ἀριστερά.
εἰ δ’ ἐναλλαγείη τὰ τῆς καταβολῆς, γίνεσθαι θήλεα igitur semen unde exeat inter
sapientiae professores non constat. P. enim tum ex dextris tum e laevis
partibus oriri putavit Anassagora e Parmenide sostengono che i semi della parte
destra sono gettati nella parte destra dell'utero, quelli della sinistra nella
parte sinistra. Se la fecondazione è invertita, si generano femmine. Tra i
cultori della sapienza non vi è certezza circa la provenienza del seme [lett.:
da dove esca il seme]. Parmenide, infatti, credeva che provenisse ora dalla
parte destra, ora dalla parte sinistra (28 DK A53). Evidentemente Parmenide
prendeva posizione nel confronto scientifico circa natura e meccanismi del
concepimento, e loro effetti sul sesso dell'embrione. In particolare, la
testimonianza di Aëtius interviene a integrare e correggere l'indicazione di
Galeno. Questi richiama Parmenide come uno dei primi sostenitori della 2 Cerri,
op. cit., p. 285. 3 Op. cit., p. 253 603 tesi secondo cui il maschio sarebbe
concepito nel lato destro dell'utero: tesi attribuita da Aristotele (De
generatione animalium IV, 1 763 b30 ss.) ad Anassagora e «altri fisiologi» (ἕτεροι
τῶν φυσιολόγων): φασὶ γὰρ οἱ μὲν ἐν τοῖς σπέρμασιν εἶναι ταύτην τὴν ἐναντίωσιν
εὐθύς, οἷον Ἀναξαγόρας καὶ ἕτεροι τῶν φυσιολόγων· γίγνεσθαί τε γὰρ ἐκ τοῦ ἄρρενος
τὸ σπέρμα, τὸ δὲ θῆλυ παρέχειν τὸν τόπον, καὶ εἶναι τὸ μὲν ἄρρεν ἐκ τῶν δεξιῶν
τὸ δὲ θῆλυ ἐκ τῶν ἀριστερῶν, καὶ τῆς ὑστέρας τὰ μὲν ἄρρενα ἐν τοῖς δεξιοῖς εἶναι
τὰ δὲ θήλεα ἐν τοῖς ἀριστεροῖς Alcuni sostengono che tale opposizione si trovi
già in origine nei semi, come Anassagora e altri fisiologi. Il seme, infatti,
origina dal maschio, la femmina invece fornisce il luogo; e il maschio viene da
destra, la femmina da sinistra, e i maschi si formano nelle parti destre
dell'utero, le femmine nelle parti sinistre, e associata a quella secondo cui
il carattere sessuale preesiste nel seme (fornito esclusivamente dal genitore
maschio) al concepimento: il seme che trasmette carattere maschile proviene
dalla parte destra, quello che trasmette carattere femminile dalla sinistra.
Integrando Galeno, si può fondatamente avanzare l'ipotesi che Parmenide facesse
derivare i maschi e le femmine rispettivamente dalla parte destra e dalla parte
sinistra dei genitali maschili e femminili. La versione latina di Celio
Aureliano aiuta in particolare a chiarire la posizione di Parmenide circa il
contributo al concepimento: Femina virque simul Veneris cum germina miscent,
Venis informans diverso ex sanguine virtus Temperiem servans bene condita
corpora fingit. Quando femmina e maschio mescolano insieme i semi di Venere, la
potenza formatrice nelle vene, che [deriva] da sangue opposto, 604 conservando
la giusta misura plasma corpi ben fatti (B18.1-3). Il testo (di tenore
parmenideo4 ) offre, in effetti, alcune informazioni importanti: (i) i semi
originano dal sangue (maschile e femminile); (ii) esistono quindi due tipologie
di semi, rispettivamente maschile e femminile: essi sono opposti come il sangue
da cui provengono5 («da sangue opposto», diverso ex sanguine); (iii) i due
semi, maschile e femminile, cooperano nella riproduzione. Incrociando queste
informazioni con i riferimenti delle testimonianze e dei contesti delle
citazioni, possiamo così ricostruire la probabile posizione parmenidea sulla
relazione genetica dei figli ai genitori6 : entrambi i semi delle parti
(genitali) destre generano maschi simili ai padri; entrambi i semi delle parti
sinistre generano femmine simili alle madri; negli altri due casi (semi delle
parti sinistra e destra, maschile e femminile), maschi simili alle madri o
femmine simili ai padri. Parmenide probabilmente riteneva che dalla corretta
mescolanza di seme maschile e seme femminile dovesse scaturire un'equilibrata
costituzione psico-fisica: le due tipologie di seme, infatti, conferivano
specifiche proprietà (virtutes, δυνάμεις), che, mescolandosi i semi, erano
destinate a combinarsi in un'unica potenza formatrice (informans virtus). È
quanto si ricava dal rilievo in negativo che chiude B18: Nam si virtutes
permixto semine pugnent Nec faciant unam permixto in corpore, dirae Nascentem
gemino vexabunt semine sexum. Se, infatti, una volta mescolato il seme, le
forze confliggono e non diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla
mescolanza, malefiche 4 Conche, op. cit., p. 262. 5 Ibidem. 6 Coxon, op. cit.,
p. 253. 605 affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme
(B18.4-6), e dal commento di Celio Aureliano alla sua citazione: vult enim
seminum praeter materias esse virtutes, quae si se ita miscuerint, ut eiusdem
corporis faciant unam, congruam sexui generent voluntatem; si autem permixto
semine corporeo virtutes separatae permanserint, utriusque veneris natos
adpetentia sequatur Pretende infatti che i semi abbiano, oltre a materia, anche
virtù formatrici (virtutes), le quali se si mescolano così da produrre dello
stesso corpo una sola virtù, generano carattere (voluntatem) conforme al sesso;
nel caso in cui, invece, una volta mescolato il seme corporeo, le virtù siano
rimaste separate, deriva ai nati desiderio di entrambi i tipi di amore. Se la
misura nella opposizione dei semi fosse stata rispettata (temperiem servans)
nella loro mescolanza (permixto semine), si sarebbe realizzata complementarità
nelle loro proprietà, garantendo così un'unione equilibrata e armoniosa (unam
permixto in corpore). In caso contrario la disarmonia si sarebbe instaurata nei
corpi, producendo disagio sessuale e psichico7 : lo sviluppo coerente della
personalità sessuale (congruam sexui voluntatem) era funzione dell'armonia dei
contrari nella costituzione dell'essere umano. Le presunte tesi biologiche di
Parmenide presentano certamente affinità con quanto attestato del pensiero del
contemporaneo Alcmeone, nella tradizione dossografica proposto come «discepolo
di Pitagora» (Diogene Laerzio; 24 DK A1). Nel frammento B4 del suo Περὶ φύσεως
leggiamo infatti: Ἀ. τῆς μὲν ὑγιείας εἶναι συνεκτικὴν τὴν ἰ σ ο ν ο μ ί α ν τῶν
δυνάμεων, ὑγροῦ, ξηροῦ, ψυχροῦ, θερμοῦ, πικροῦ, γλυκέος καὶ τῶν λοιπῶν, τὴν δ’ ἐν
αὐτοῖς μ ο ν α ρ χ ί α ν νόσου ποιητικήν· φθοροποιὸν γὰρ 7 Ivi, p. 254. 606 ἑκατέρου
μοναρχίαν. [...]. τὴν δὲ ὑγείαν τὴν σύμμετρον τῶν ποιῶν κρᾶσιν Ciò che mantiene
la salute, afferma Alcmeone, è l'equilibrio di forze: umido, secco, freddo
caldo, amaro, dolce e così via; la supremazia di una di esse, invece, è foriera
di malattia: micidiale è, in effetti, il predominio di ognuno degli opposti.
[...] La salute, invece, è mescolanza misurata delle qualità. Sono evidenti le
consonanze lessicali (δυνάμεις, κρᾶσις) ed è probabile l'accordo sulla tesi
fondamentale di Alcmeone: che la salute del corpo sia funzione della isonomia
degli elementi contrari, e la malattia espressione di uno squilibrio. Le
testimonianze accentuano le convergenze anche nello specifico: ex quo parente
seminis amplius fuit, eius sexum repraesentari dixit A. Alcmeone afferma che il
feto ha il sesso di quello, tra i genitori, il cui seme è stato più abbondante»
(Censorino; DK 24 A14). Alcmeone condivideva con Parmenide la convinzione che
entrambi i genitori contribuissero con semina (σπέρματα) al concepimento, pur
avendo sull'origine dello sperma un'opinione diversa: Ἀ. ἐγκεφάλου μέρος (sc. εἶναι
τὸ σπέρμα) Alcmeone sosteneva che [il seme fosse] parte del cervello (Aëtius;
DK 24 A13). Mentre Coxon8 nota in questo senso come Parmenide seguisse
Alcmeone, Ruggiu9 tende a rovesciare la relazione, convinto che nello specifico
l'influenza sia stata esercitata da Parmenide su Alcmeone. La questione è in
effetti complessa. È probabile che Alcmeone ricavasse le proprie opposizioni
(umido-secco, freddo-caldo, amaro-dolce ecc.) dalla più antica 8 Op. cit., p.
252. 9 Op. cit., p. 366. 607 tradizione ionica, la stessa che dovette ispirare
le tavole pitagoriche, ma anche il modello parmenideo: l'orizzonte fisico
appare ancora quello delle origini e non va dimenticato che le osservazioni
biologiche di Parmenide sono inquadrate all'interno di una complessiva
interpretazione del mondo naturale in chiave oppositiva (Fuoco-Notte). Il primo
riferimento all'unione sessuale e alla riproduzione che abbiamo registrato
nell'analisi dei frammenti (B12) le introduceva direttamente in chiave cosmica:
ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος
ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ. in mezzo
a queste la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende
all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile,
e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). È possibile, come abbiamo
in precedenza argomentato, che Parmenide abbia effettivamente elaborato il
proprio sistema (διάκοσμος) misurandosi con le proposte pitagoriche proprio sul
terreno decisivo della cosmogonia e cosmologia; probabile che ciò sia avvenuto
comunque tenendo ben presenti le soluzioni ioniche. Dal momento che le
testimonianze, soprattutto i recenti rilievi archeologici, fanno supporre uno
specifico interesse medico, non deve sorprendere la possibilità che un
confronto sia intervenuto anche in ambito biologico. Il tema
dell'opposizionericomposizione degli elementi risulta per altro ricorrente:
come sottolineava Maria Timpanaro Cardini a proposito di Alcmeone: come alla
fisica ionica si ricollegava probabilmente la primitiva dualità pitagorica ἄπειρον-πέρας
[...], così da quella stessa fisica trasse verosimilmente Alcmeone 608 alcune
opposizioni [...] le cui potenze egli constatava nella pratica della medicina10
. Su questo sfondo piuttosto sfumato è possibile parlare di comuni obiettivi
scientifici nella ricerca di Parmenide e Alcmeone, di convergenze nei
risultati, sulla scorta di paradigmi esplicativi condivisi, forse anche
pitagorici. A Crotone una fiorente scuola medica preesisteva all'arrivo di
Pitagora, a testimoniare l'autonomia dell'indagine e della pratica medica,
sebbene poi esse siano documentate anche nell'ambito della tradizione
pitagorica antica, a conferma che la medicina fu avvertita come μάθημα
essenziale11 . 10 M. Timpanaro Cardini, Pitagorici antichi. Testimonianze e
frammenti, Bompiani, Milano 2010 (edizione originale 1958-1964), pp. 134-5. 11
Ivi, p. 133. 609 B19 Il frammento B19 ci è conservato esclusivamente da
Simplicio (In Aristotelis de caelo 558), in un contesto particolare (557-8), in
cui si susseguono in poche righe tre citazioni del poema parmenideo (B1.28-32,
B8.50-53 e appunto B19): οἱ δὲ ἄνδρες ἐκεῖνοι διττὴν ὑπόστασιν ὑπετίθεντο, τὴν
μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ, ὅπερ οὐκ ἠξίουν
καλεῖν ὂν ἁπλῶς, ἀλλὰ δοκοῦν ὄν· διὸ περὶ τὸ ὂν ἀλήθειαν εἶναί φησι, περὶ δὲ τὸ
γινόμενον δόξαν. λέγει γοῦν ὁ Παρμενίδης [B1.28-32]. ἀλλὰ καὶ συμπληρώσας τὸν
περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγον καὶ μέλλων περὶ τῶν αἰσθητῶν διδάσκειν ἐπήγαγεν
[B8.50-53]. παραδοὺς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐπήγαγε πάλιν [B19]. πῶς οὖν
τὰ αἰσθητὰ μόνον εἶναι Παρμενίδης ὑπελάμβανεν ὁ περὶ τοῦ νοητοῦ τοιαῦτα
φιλοσοφήσας, ἅπερ νῦν περιττόν ἐστι παραγράφειν; πῶς δὲ τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα
μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ χωρὶς μὲν τὴν ἕνωσιν τοῦ νοητοῦ καὶ ὄντως ὄντος
παραδούς, χωρὶς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐναργῶς καὶ μηδὲ ἀξιῶν τῷ τοῦ ὄντος
ὀνόματι τὸ αἰσθητὸν καλεῖν; Quegli uomini [Parmenide, Melisso] posero una
duplice ipostasi: quella dell'essere che è veramente, dell'intelligibile, e
quella dell'essere che diviene, del sensibile, il quale essi non ritennero
opportuno chiamare essere in senso assoluto, ma essere che appare. Per questo
afferma[no] che la verità riguarda l'essere, l'opinione il divenire. Parmenide,
infatti, dice: [B1.28-32]. Ma anche una volta completato il ragionamento
intorno all'essere che è veramente, e sul punto di introdurre [la trattazione
sul]l'ordinamento delle cose sensibili, aggiunse: [B8.50- 53]. Dopo aver
fornito esposizione sistematica delle cose sensibili, aggiunse ancora: [B19].
Ma come ha potuto Parmenide supporre esistessero solo le cose sensibili, lui
che intorno alle cose intelligibili era stato in grado di condurre riflessioni
di tale consistenza e mole da non 610 poter ora essere riportate qui? Come ha
potuto trasferire le caratteristiche proprie delle cose intelligibili alle cose
sensibili, lui che con chiarezza distingue tra l'unità dell'intelligibile e del
vero essere e l'ordinamento delle cose sensibili e non ritiene opportuno indicare
il sensibile con il nome di essere? Riflettendo sulle indicazioni qui fornite
da Simplicio, e incrociandole con le sue stesse citazioni, dovremmo concludere
che: (i) il poema si articolava in due sezioni principali, per le quali il
commentatore trova conferma in B1.28b-32; (ii) il passaggio tra le due sezioni
avviene ai vv. B8.50-53; (iii) il nostro B19 era apposto a compimento di quella
che il commentatore designa come διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν (sulla scorta del
διάκοσμος di B8.60): ciò non autorizza tuttavia la deduzione che esso chiudesse
il poema1 . Ancora sulla doxa parmenidea Il contesto ci fornisce dunque una
prospettiva d'insieme - ovviamente quella culturalmente e teoreticamente
condizionata dell'intellettuale neoplatonico del VI secolo - sulla struttura
del poema. Il proemio, in effetti, avrebbe, secondo Simplicio, delineato nel
programma espositivo della Dea (B1.28-32) due ambiti: (i) il primo dedicato al
«discorso/ragionamento sul vero essere» (περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος), in altre
parole alla «verità riguardo all'essere» (περὶ τὸ ὂν ἀλήθεια): nel lessico
della tradizione platonico-aristotelica si tratta dell'ambito
dell'«intelligibile» (τὸ νοητόν), che costituisce l'«essere in senso assoluto»
(ὂν ἁπλῶς); (ii) l'altro, relativo all'illustrazione sistematica
dell'«ordinamento sensibile» (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν, ma anche περὶ τῶν αἰσθητῶν
διδάσκειν), si riferisce all'«essere in divenire» (τὸ γινόμενον), il cui
statuto ontologico è quello di «essere che 1 Non tutti concordano su questo
punto: Conche (op. cit., p. 265), per esempio, non concede che il frammento –
naturale conclusione della cosmologia del poema – ne costituisse anche la vera
e propria chiusa. 611 appare» (δοκοῦν ὄν): Simplicio insiste sulla sua natura
«sensibile» (τὸ αἰσθητόν), dunque sul suo manifestarsi nell'esperienza. La
trattazione specifica è designata – in contrapposizione alla verità che
concerne l'essere in senso pieno - come «opinione riguardo all'essere in
divenire» (περὶ τὸ γινόμενον δόξα). È chiara, nel contesto del discorso,
l'interpretazione di Simplicio dei versi conclusivi (28b-32) del proemio: χρεὼ
δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν
δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. La struttura effettiva del poema
doveva, dopo l'introduzione, prevedere: (i) la rivelazione circa «di Verità ben
rotonda il cuore saldo » (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ): si tratta di ciò
cui allude Simplicio con περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος; (ii) la ricostruzione
effettiva (δοκίμως) di τὰ δοκοῦντα, delle «cose che appaiono», ovvero delle
«cose accettate nelle opinioni», che corrispondono a quanto il commentatore
designa come δοκοῦν ὄν: la rivelazione della Dea avrebbe dunque investito anche
l'ambito «sensibile», proponendo appunto una διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν. Il
contesto delle citazioni fa intravedere come, per Simplicio, l'articolazione
del Περὶ φύσεως fosse essenzialmente positiva, non prevedendo una specifica
sezione riservata all'esame degli errori umani – alle «opinioni dei mortali, in
cui non è reale credibilità» (βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής) -, che
doveva invece essere distribuito nelle altre due. Negli interrogativi retorici
che seguono la citazione di B19, troviamo conferma di una linea di lettura del
poema che, all'interno della tradizione platonica, ha per noi un importante
precedente in Plutarco: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς
τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος 612 ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς
ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν
προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν
ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ< ὲς ἦτορ >’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ
ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ διὰ τὸ
παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι.
καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν;
οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide] non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna
conferendo ciò che le è proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e
dell'essere, definendolo «essere» in quanto eterno e incorruttibile, e ancora
uno per uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile
invece in quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è
possibile vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che
raggiunge l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le
opinioni dei mortali in cui non è vera certezza», perché esse sono congiunte
con cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze.
Come avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il
sensibile e l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus Colotem
1114 d-e), e nella dossografia peripatetica (Teofrasto): Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’
ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν
ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν
μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν
εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν
ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. 613 Parmenide figlio di Pyres, da Elea […]
percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca
anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie
le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è
uno e ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al
fine di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi,
fuoco e terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28
A7). Ma chiaramente all'origine di questa valutazione delle prospettive (in
termini di contenuto e struttura) del poema parmenideo troviamo l'analisi
aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ
ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος
δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν
αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν
καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει
θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con
maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il
non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e
nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno
sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due
cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di
questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere
(Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Possiamo leggere il passo aristotelico
proprio come un tentativo di sottrarsi agli schemi della originaria ricezione
sofistica (giorgiana in particolare) del pensiero eleatico: Aristotele intende
marcare, nello specifico, l'opzione teorica di Parmenide da quella di Melisso,
il monismo «rispetto alla definizione (ovvero ragio- 614 ne)» (κατὰ τὸν λόγον)
dell'uno, da quello «rispetto alla materia» (κατὰ τὴν ὕλην) dell'altro.
Anticipando l'argomento di fondo della polemica plutarchea contro l'epicureo
Colote, lo Stagirita poteva sottolineare come «ciò che è» (τὸ ὄν) è «uno» (ἓν)
«secondo ragione» (appunto κατὰ τὸν λόγον), «molteplice» (πλείω) «secondo la
sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Si evitava in questo modo di fare di Parmenide
il sostenitore di un mero «uno-tutto» ovvero «essere-uno» (ἓν τὸ πᾶν, ἓν τὸ ὄν)
- formule cui era stata ridotta l'essenza della filosofia eleatica soprattutto
in alcuni dialoghi della maturità di Platone (Teeteto, Parmenide, Sofista,
Timeo) 2 – che avrebbero ridotto il mondo molteplice e cangiante
dell'esperienza a pura illusione. Come rivela il caso di Colote (e la risposta
di Plutarco), si trattava effettivamente di una ricezione diffusa,
probabilmente proprio sulla scorta dello schema gorgiano del Περὶ τοῦ μὴὄντος ἢ
Περὶ φύσεως . Ripercorrendo le testimonianze e valutando gli interrogativi
retorici che Simplicio faceva seguire alla propria citazione di B19 e dunque al
riferimento al complesso della doxa parmenidea, appare giustificata una lettura
"costruttiva" della seconda sezione del poema. In Teofrasto e
Simplicio – che certamente disponevano di copie diverse del poema, trasmesse da
tradizioni testuali almeno parzialmente alternative 3 - si conferma, in
particolare, la prospettiva aristotelica di un doppio resoconto della stessa
realtà4 : secondo ragione e secondo esperienza. Parmenide, in altre parole, pur
avendo coerentemente messo a fuoco i caratteri dell'oggetto dell'intelligenza –
e quindi correttamente distinto tra i due ambiti (τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ
νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ) -, avrebbe poi mancato di
individuarne la specifica realtà intelligibile: come sottolinea Simplicio, egli
di fatto «proiettò sugli enti sensibili quanto adeguato agli enti
intelligibili» (τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ). 2 Su
questo in particolare Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di
lingua, cit., p. 23. 3 Ivi, pp. 25 ss.. 4 Per questa linea interpretativa si
veda J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 32 ss., in
particolare pp. 38-41. 615 B19 e la doxa I tre versi del nostro frammento, poco
più di una scheggia testuale, ribadiscono sinteticamente i termini della discussione:
come abbiamo indicato in nota, la formula οὕτω τοι introduce effettivamente la
ricapitolazione del discorso sulle cose «fisiche» considerate nel loro insieme
(e ne traggono, in questo senso, la lezione «metafisica»5 ): οὕτω τοι κατὰ
δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς
δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ Ecco, in questo modo, secondo
opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito
sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini imposero,
distintivo per ciascuna. Il punto di vista adottato - κατὰ δόξαν – giustifica
l'insistenza sulla dimensione temporale delle forme verbali impiegate: ἔφυ, νυν
ἔασι, τελευτήσουσι τραφέντα. Non è difficile intravedere la corrispondente
prospettiva del νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, espressa in B8.5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται,
ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. Il rilievo del divenire passa, in vero, attraverso
scelte espressive ben ponderate: a) il passato espresso con ἔφυ richiama
etimologicamente (φύω) la centralità della φύσις (B10) nella ricerca condotta
(διάκοσμος) nella seconda sezione del poema; b) il presente connotato
avverbialmente (νυν) limpidamente evoca, per contrasto, il νῦν di B8.5,
caricandosi, rispetto all'immutabile stabilità di quel contesto, di un senso di
precarietà e sfuggente puntualità; c) lo sviluppo, il mutamento e la caducità
sono resi come τελευτήσουσι τραφέντα, marcando, insomma, il nesso tra fine e
compimento, con la ripresa di una forma verbale – τελευτάω - de- 5 Conche, op.
cit., p. 265. 616 rivata da τέλος e τελέω, ma, nuovamente, con un valore
diverso rispetto a quello di analoghi derivati in B8 (B8.4: ἀτέλεστον; B8.32: οὐκ
ἀτελεύτητον; B8.42: τετελεσμένον): il senso è qui quello di «concludersi in
quanto giunto al proprio fine e al proprio compimento»6 . Per la terza volta,
dopo B8.38b-41 e B8.53, i versi del poema insistono sullo spessore linguistico
della doxa: e ancora, come nei due precedenti, essenzialmente per rilevarne gli
effetti distorcenti. L'origine dell'erranza umana, dello sviamento che gli
uomini perpetrano e perpetuano nel linguaggio, risiede nell'ordinamento dei
contenuti fenomenici all'interno di una determinata cornice linguistica, in cui
appare implicita la possibilità di qualcosa di diverso dall'essere stesso7 .
Non a caso l'interpretazione κατὰ δόξαν parmenidea si era aperta stabilendo
principi (B9) di cui esplicitamente si escludeva la partecipazione al nulla. In
questo senso, Ruggiu8 ha colto nel linguaggio di Parmenide - in particolare in
questo passaggio - il tentativo di elaborare un lessico più vicino alla verità
delle cose; come in B4, dove l'apparire era stato proposto non nei termini
ontologici dell'«essere» e del «non-essere», ma in quelli della «presenza» e
dell'«assenza». Un sforzo che ancora ci riporterebbe ad Aristotele, che ne
avrebbe colto alcuni aspetti nella sua polemica antieleatica: ζητοῦντες γὰρ οἱ
κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν
τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε
φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ
ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ
ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς
συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. 6 Ruggiu, op.
cit., pp. 370-1. 7 Ivi, p. 370. 8 Ivi, pp. 370-1. 617 Coloro che per primi
hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti,
dall'inesperienza furono spinti su una via diversa: essi sostengono che delle
cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera
origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma è impossibile da entrambi i punti
di vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò
che non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che
funga da sostrato [soggiacia]. Così si spinsero, aggravando le cose, ad
affermare che non esistano i molti ma che esista solo l'essere (Fisica I, 8 191
a25 ss.). Antonio Capizzi. Keywords: Velia, la scuola
di Velia. Zenone, sono/fui, l’adolescenziale, conversazione, calogero,
veliatichi, veliadi meleagridi, pandionidi veliatico, eliadico, meleagride,
pandionide. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capizzi” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51714170366/in/photolist-2mPTYES-2mMNDa1/
Grice e Capocasale—segni di dialettica –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Montemurro).
Filosofo. Grice: “You gotta love Capocasale; my favourite is his ‘corso
filosofico,’ which the monks rendered as ‘CVRSVS PHILOSOPHICVS,’ almost alla
Witters! Capocasale multiplies the principles of reason – I thought there was
just one – On top, he uses the trouser-word, ‘vero,’ – so he thinks he is
philosophising about the ‘vero principio della ragione,’ or its plural! In
fact, he is philosophising about conversational implicature!” Figlio di Lorenzo
e Maria Lucca, sin da ragazzino aiuta il padre nel suo mestiere di fabbro
ferraio. Nel tempo libero si dedica alla filosofia, mostrando grande attitudine
nella filosofia romana antica in particolare. Con la morte del padre, avvenuta
quando Capocasale aveva 15 anni, visse tra Corleto Perticara, Stigliano e San
Mauro Forte, procurandosi da vivere come insegnante privato, dedicandosi
contemporaneamente allo studio della filosofia e del diritto. Dopo esser stato governatore baronale di
Sarconi, incarico ottenuto appena ventenne, lasciò la Basilicata per
trasferirsi a Napoli, conseguendo la laurea in giurisprudenza. Dopo gli studi
universitari, insegnò filosofia nella scuola dallo stesso fondata a Napoli. Dal
1801 vestì l'abito talare e, dal 1804, fu nominato da Ferdinando IV precettore
di logica e di metafisica all'Napoli.
Perse tale incarico con l'arrivo di Giuseppe Bonaparte: sotto il suo
governo gli fu concessa solamente la docenza privata. Con la restaurazione,
Ferdinando IV lo nominò vescovo di Cassano nel 1816. Capocasale, tuttavia,
preferendo l'insegnamento, rinunciò alla carica, così come fece più tardi con
l'incarico di pari grado conferitogli per la diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo.
Sempre nell'ateneo partenopeo ebbe, dal 1818, la cattedra di diritto di natura
e delle genti: i suoi teoremi, di stampo lockiano, ebbero una certa risonanza,
tanto da essere citati da filosofi come Francesco Fiorentino, Giovanni Gentile
e Eugenio Garin. Alcuni suoi discepoli
divennero importanti personalità culturali del tempo come Francesco Iavarone,
Giustino Quadrari, Giuseppe Scorza, Gaetano Arcieri e Giuseppe Mazzarella.
Sempre fedele alla monarchia borbonica, si schierò contro le insurrezioni
carbonare del 1820. Dal 1822 fu precettore del futuro re delle Due Sicilie:
Ferdinando II. Fu inoltre membro di varie Accademie come la Parmense, la
Fiorentina, la Cosentina, l'Augusta di Perugia, Aletina e Renia di Bologna,
degli Intrepidi di Ferrara, de' Nascenti e degli Assorditi di Urbino, dei
Filoponi di Faenza. Altre opere:“Divota novena del gloriosissimo taumaturgo S.
Mauro” (Roma); “Esercizio di divozione verso il glorioso confessore S. Rocco”
(Napoli); “Cursus philosophicus” (Napoli); “Saggio di politica privata per uso
dei giovanetti ricavata dagli scritti dei più sensati pensatori” (Napoli); “Catechismo
dell'uomo e del cittadino” (Napoli); “Codice eterno ridotto in sistema secondo
i veri principi della ragione e del buon senso” (Napoli); “Saggio di fisica per
giovanetti” (Napoli); “Istituzioni elementari di matematica” (Napoli); “Corso
filosofico per uso dei giovanetti”. Dizionario
biografico degli italiani -- un filosofo lucano alla corte dei Borboni. Quoniam philosophia est scientia, quae viam ad felicitatem
sternit. Ea vero rationis solius ductu cognoscitur, ac demostrationis ope vernm
investigat. In vero autem inveniendo methodus utramque facit paginam: patet
primum philosophi studium esse debere, intellectum, sive facultatem cogitandi,
ad veritatem methodice investigandam, ac diiudicandam aptum reddere, eumque
mediis opportunis acuere, vel, si morbo aliquo laboret, salutaribus eidem
mederi remediis. Et quia veritas per demonstrationem invenitur, et iudicatur.
Demonstratio vero methodo perficitur, ut supra iam dictum est; liquet, ei
pecessarium esse, mentem quoque ad demonstrationem, ac methodum adsuefacere, ut
in eo habitum adquirat , in quo philosophi scientia consistit. Quamvis vero
omnes homines naturali quodam verum cognoscendi, iudicandi, rationes denique
conficiendi facultate praediti sint, eaque a multis usu, atque exercitatione ad
summum usqne perfectionis gradum sit redacta: quum tamen plurimis erroribus
sint obnoxii , nisi facul tatem illam regulis quibusdam certis , at que
indubiis dirigant , disciplina aliqua in veniatur , oportet , quae regulas ac
prae cepta tradat , quibus naturalis illa cogi tandi vis augeatur, perficiatur ,
et ad ve ritatis investigationem inoffenso pede dirigatur. Naturalis haec
percipiendi , iudicandi , ratio cinandique vis LOGICA NATURALIS appellatur ,
quae qunn in casuum similium observatione, adeoqne in sola praxi consistat ,
non solum erroribus est obnoxía sed rerum caussas et rationes ignorans ,
confusam tantummodo co gnitionem , non vero scientiam producere pol est . Ex
quo legitime fluit Logicae artificialis necessitas. Disciplina haec vulgo
LOGICA ARTIFI Cialis appellatur, quam definimus per do ctrinam , qua regulae
traduntur , quibus, humana mens in cognoscenda , et diiu ; dicanda veritate
dirigatur. * * Vocatur haec a ' nonnullis PHILOSOPHIA RATIONALIS, ARS COGITANDI,
et kat i Sony LOGICA ; 32 Logicae Prolegomena quae tantum abest , ut
essentialiter a Naturali differat , ut sit potius distincta eiusdem explicatio
, adeoque tanto illa praestantior % quanto distincta cognitio praestat confusae
. Ex quo patet, Philosophum sola Logica natu rali esse non posse contentum ,
sed ei colen dam esse artificialem . 14 Quandoquidem autem Logica artifi cialis
leges explicat naturalem iudicandi fa cultatem dirigentes: sequitur 1 . ut eas
ex mentis humanae natura deducat, adeoque 2. mentis operationes prius, carum
que naturam distincte explicare; deinde vero eam in veritatis investigatione ,
atque exa mine veluti manuducere debeat: uno verbo, ut prima theoriam , deinde
praxin ostendat. Vltro ergo mihi sese offert genuina Logicae divisio, in
THBORETICAM ET PRACTICAM. Atque hinc est, cur opusculum boc in duas partes
distribuerimus : in quarum prima de mentis operationibus; in altera de legitimo
carum usu , quantum satis erit, tractabimus. Quoniam autem humana mens tria bus
modis res cognoscit; vel enim eas tan tummodo percipit , vel de iis iudicium
pro fert , vel denique rationes conficit : * de tribus his mentis operationibus
priore pår te agemus. Quumque veritates vel per se pateant , vel per rationem
et meditationern inveniantur, vel denique ex aliorum scri Prolegomena. ptis
hauriantur : inventae vero cum aliis communicentur : de omnibus his parte se
cunda nonnulla haud proletaria monebi mus . } Experientia namque constat, nos
omnis cognis tionis expertes in mundum prodire ( quidquid pro ideis innatis
Platonici , et Cartesiani cla mitent ) , atque primo res simpliciter perei pere
, earumque ideas adquirere , deinde bi nas inter se conferre, tandem eas cum
aliqua tertia idea comparare, indeque novas verita tes deducere . Mentis actio
, qua res aliquas sensibus obvias percipit , aut ab iis abstra hendo novas
imagines sibi format, PERCEPTIO , sive idea dicitur : quum hinas ideas invicena
confett, IVDICIVM : dum vero eas cum aliis comparat , atque inde novas
veritates elicit RATIOCINIŲm nominatur. Nec aliae attente con sideranti mentis
operationes occurrere pote runt . Scholion. De Logicae utilitate non est, quod
plura dicamus. Quamvis enim quam plurimi eam scriptis suis ad astra tulerint;
quisque tainen in se huiusmodi periculum facere poterit : nam qnidquid ex recta
ra tione capiet emolumenti , id omne huic disciplinae se debere , aperto
cognoscet. Prima mentis hnmanae operatio est SIMPLEX PERCEPTI , sive notio, quam
de finimus per simplicem rei alicuius reprae sentationem in mente factam .
praesentationem autem intelligunt adcura tiores assimilationem eorum , quae
sunt exlra ens , in eodem *** . ** Dici quoque solet idea , conceptus , vel sim
** Per rea plex apprehensio , ut Scholis placuit. Sunt , qui perceptionem ab
idea distinguendam pu tant, atque illam esse aiunt , mentis actio nem in
obiecto percipiendo ; hanc vero ipsam abiecti imaginem menti percipienti obviam
, Sunt , qui eas terminis tantum differre do cent. Quidquid id est , nobis
placuit percep tionem cum idea confundere: adeoque nusquain hic de huiusmodi
distinctione sermo cadet. Ideam alii definiunl per imaginem menti ob versantcm
. Buddeus Phil. instrum . cum observ. alii per exemplar rei in cc gitante.
Hollmannus Log. Sed hae , aliaeqne definitiones eodem redeunt. *** Repraesentationis
vox absque definitione ad sumi poierat , quum sit cuique nota : sed ut
methodici rigoris amatoribus nonnihil daremus eam ita explicavimus , sequuti
Baumeisterum Quoniam itaque notio est rei reprae sentatio : in omni autem
reprae sentatione duo considerarida veniunt, nem, pe modus repraesentandi , et
obiectum , sive res ipsa quae repracscntatur : liquet , in qualibet idea itidem
duo animadverti posse , scilicet percipiendi modum , et ob iecta nempe res
perceptas ; quorum ille FORMA, haec MATERIA idearum recte di, cuntur . Si ergo
ideae ad formam referan tur consideratio illa dicetur FORMALIS; si vero ad
nıateriam, OBỊECTIVA, vel Rialis appellabitur , Et quia utroque re spectu ideae
inter se differunt : de forma li , ac materiali earum differentia diversis sectionibus
agemus. MATE B nos De formali idearum differentia Experi Xperientia abunde
constat quaedam ita percipere , ut ca ab aliis in ternoscere possimus, quaedam
vero non ita . Repraesentatio illa , quae sufficit ad rem perceptam ab aliis
dignoscendam , idea di citur CLARA; OBSCURA contra , quae ad eam discernendam
est insufficiens. Vnde idea recte dividitur in claram , et obscuram E. Rosae
ideam claram habes , ei eam a lilio , hiacynto , aliisque floribus distinguere
scias , et quotiescumque tibi occurrit , eam dem agnoscas ; contra si arborem
peregrinam videas , eamque a reliquis plantis discernere nequeas, arboris
illius ideam habes obscuram. Huiusmodi sunt ideae infantum recens nato rum ,
hominum bene potorum , eorumqne , qui lethargo oppressi reperiuntur. CLARITAS
enim Physicis est ille lucis effectus, cuius operes externas circa nos positas
alias ab aliis distingnere possumus; contra vero OBCVRITAS est claritatis
absentia, scilicet tenebra rum eftectus : nam quun tenebrae in lucis privatione
consistant , haec vero obiecta exter pa distinguere faciat ; deficiente luce ,
deficit distinctionis facilitas : adeoque obscuritas in distinguendi impotentia
sita est . Quum res existentes innumeris de terminationibus, et circumstantiis
involutae observentur , ut infra dicemus ; hae vero, nisi attente consideranti,
sensuumqne aciem ad obiecta convertenti , innotescere non possint , ut
experientia patet : recte infer tur 1. éo clariorem fieri ideam , quo plu . ra
possunt in obiecta distingui ; * adeoque 2. ad claram idean adquirendam requiri
sensus cum attentione coniunctos , qua des ficiente , ideas fieri deteriores **
Esenplo sit hono in maxima distantia con stitutus , qnem qui vilet , primo
dubius hae ret , utrum corp is quidlibet sit , an vivens ; deinde in obiectum
illud oculorun aciem at tente convertens , a motu animal esse compe rit , sed
cuiusnam speciei , nescit ; propius ve ro'accedenten , ho nisen distinguit ;
tandem ex corporis habiti, facie, aliis que circumstan tiis Titium agnoscit. Vides
quan attente spe-. ctator consideraverit, ut Titium cognosceret! Quemadmodun
ideae meliores funt , si ex obscuris clarae evadant , ex confusis distin ctae ,
ex inadaequatis adaequatae: ita deterio res redduntur, si ex claris fiant
obscurae ex distinctis confusae ex adaequatis inadaequatae. Quia vero ab
attentione penlet cla ritas idearum , eaque gralus ha bet , nec semper , aut in
omnibus eadem est : liquet 3. res alias aliis clarius a no 7 38 Logic. Pars 1.
bis percipi posse , ideoque obscuritatem dari non modo ABSOLVTAM sed RELATIVAM.
Hinc 4. obscuritatis caussam plerumquc in hominibus , raro in re percepta quaeren
dam esse ; ac proinde praecipitanter iu dicare illos , qui absolute obscura
esse di cunt , quae eorum superant captum : quo ut quae ignorant ( ut Aesopica
vul pes ) exsecrentur. * Obscuritas vel absoluta est , vel relativa. Illa
habetur quum res percepta ab aliis prorsus internosci' non potest; haec autem ,
quando rem qampiam aliqui subobscure , quidam clar re , clarius alii
percipiunt. Quod quum acci dit , illorum claritas respectu maioris horum
claritatis est obscuritas relativa. fit , 21. Quoniam autem ad idearum clarita
tem utramque facit paginam attentio , qua deficiente deteriores fiunt: con
Sequens est 6. ut obscurae eyadant perce ptiones , si alicui meditationi defisi
alia percipiamus, vel 7 si unico actu plura 0 aut animo subiiciamus, 8. denique
si ab una perceptione ad aliam celerrime transeamnus. Et quia adfectus
attentionem turbant , ut cxperientia docet : infertur 9. menten adfectibus
agitatam * ad ideas cla ras vel numquam , vel raro admodum per, venire. Adfectus
enim sunt motus quidam vehementiores appetitus sensitivi ex idearum obscuritate
, et confusione orti , de quibus abunde in Psy chologia disseremus, adeoque iis
praedominan tibus nullae , nisi obscurae confusaeve ideae haberi possunt. Si
namque in ideis claritas et distinctio adesset , nullis adfectibus animus ve
xaretur. Hinc ergo est , ut a Philosophis ad fectus inter errorum caussas
enumerentur. E. xemplo sit homo ira aestuans , qui donec ea agitatur , nec res
clare percipere , nec perce ptionum suarum conscius esse potest. Vid . Seneca
de Ira Lib. I. cap. 1. et apud Virg. Aen. II. v. 315. Furor , iraque mentem
prae cipitant.Vides hinc , obscuritatis caussas easdem esse , quae attentionem
turbant vel minuunt : nem pe 1. distractionem , 2. obiectorum multipli citatem
, 3. praeproperam festinationem , 4 . denique adfectuum praedominium. Quae
omnia mentem frustra fatigant , et ad proficiendum în studiis ineptam reddunt.
22. Sed quia Philosophus non solis stare sensibus; rerum autem latebras et
recessus idest caussas et rationes inve stigare debet: per se patet 10. eum
claris notionibus adquiescere non pos * adeoque il . in distinctarum et adae
quatarum perceptionum statu versari debe re ut infra dicemus. 2 se ; · Clarae
namque ideae attento sensuum usu ad 40 Logic. Pars I. quiruntur; sensus autem ,
ut mox adparebit , res tantummodo exsistentes confuse repraesentant', in quarum
cognitione nullum ra tio habet exercitium : nihil ergo Philosophus age Tet ;
nec hihim quidem in scientia proficeret si claris dumtaxat ideis contentus rationem
ne gligeret, nec in caussarum inve stigatioue adlaboraret. > 2 23. Eadem
experientia docet , nos re rum quas clare percipimus , vel notas sive characteres
quibus ab aliis discer nuntur , distincte nobis sistere posse , eo rum scilicet
ideam claram nabere ; vel characteres illos invicem non posse digno sive ipsos
obscure percipere. Re praesentatio clara' notarum obiecti , quod percipimus ,
idea dicitur DISTINCTA : repraesentatio contra notarum obscura, vo catur idea
CONFUSA. Idea clara proin de merito dividitur in distinctam , et con fusan .
seere 8 Si quis invidiam novit esse taedium ob alterius felicitatem , illius
characteres sibi clare sistit , adeoque invidiae ideam habet distin ctam. Si
vero coloris nigri notas distinguere nequeat , licet eum ab aliis coloribus
discer nat , ejusdem ideam habet confusam : uti sunt omnes ideae colorum ,
saporum , sonorum , odo rum , etc. , quorum characteres prorsus igno ramus.
Distinctio haec a Cartesio , et Leibnią * E. Cap. I. De Ideis. 41 tio inventa
fuit : alii namque grammatica vo cum significatione decepti, ideas claras'ét di
stinctas obscuras et confusas 'unum idemque esse docebant. Quum idea distincta
sit notio clara notarum ; ad claritatem autem notionum permultum conferat
attentio: consequens est 12 ut clarae ideae di stinctae fiant potissimum
attentione , qua deficiente , etiamsi distinctae sint , confu sae evadant. Et
quia singulae notae peculiaribus gaudent nominibus, qui bus exprimuntur :
infertur CRITERIVM ideae distinctae id esse , si cogitala nostra
aliis.cxponere, atque con is com municare queainus ; oppositum autem ess :
indicium ideae confusae . Hinc 13. idcas confusas aliis referre volentes ,
objecta , quae confuse percepimus , ipsis ostendere, vel cum alia re , de qua
ideam habent claram , comparare debemus. * Res clarior fiet exemplis supra allatis.
Qui notionem invidiae habet distinctam , is eam verbis explicare poterit: quod
recte ex sequetur , si notas , quib :is a :lfectuš iste ab aliis distinguitur ,
eau neret. Contra ei , quo modo coloris albi aut rubri nolas proferet , ut cum
aliis eius notionenı corninunicet ? Pro cul dubio , ut ab illo intelligatur ,
colorem illum , aut rem quampiar confuse perceptam, ipsius oculis admovere, vel
cum alia re iarna nota conferre oportebit , sicque in altero con fusa quoque
idea orietur. Hinc est , ut colo rum ideas coeco nato nullo modo explicarc
possimus , isque visu carens nullam , nequi dem obscuram , umquam huiusmodi
notionem adquirere queat. ** 25. Porro rei , cuius distinctam habe mus ideam ,
vel omnes novimus characte res ad eam in statu quolibet agnoscendam
sufficientes, et tunc idea distincta erit COMPLETA ; vel quosdam tantum ·
eosque insufficientes , eaqne INCOMPLETA dicetur . * Idea ergo distincta
dispescitur in completam , et incompletam . * Sic invidiae idea iam tradita completa
est : adsunt enim notae sufficientes ad eam in statu quolibet internoscendam.
Si ve ro hominem cum Platone definires per ani mal bipes implume , notionem
haberes incom pletam : * hae namque notae non sufficiunt ad hominem semper ab
aliis rebus discernendum , ut ostendit Diogenes Cynicus , dum hanc Pla tonis
sententian irridendo improbavit. Nec eam postea coinpletam reddere potuerunt
Platonis discipuli , addito latorum unguium charactere : nusquam enim homines a
simiis discernere illa nota valebat. Laert. Lib. VI. cap. 2. segm . 40 . **
Licet duo clarissimiViri Leibnitius , et Wol. Cap. 1. de Ideis. 43 fius semper
et ubique in eamdem sententiam ierint : in hoc tamen hic ab illo discessit .
Quumque Leibnitius omnem ideam distinctam completam esse docuerit : Wolffins
contra eam in completam , et incompletam dividi debere , docuit et
demonstravit. a * 26. Denique eadem experientia edocti scimus , nos quaedam ita
percipere , ut non solum eorumdem characteres singilla tim agnoscamus , sed et
novas characte rum notas enumerare queamus ; . quorum dam vero solis distinctis
ideis adquiescere . Quum notarum characteristicarum notione gaudemus distincta
; idea totalis erit ADAEQUATA ; quum antem notas neb ; confuse repraesentamus,
idea oritur INA DAEQUATA . Quo fit , ut distinctam ideam rursus dividanius in
adaequatam , et inadaequatam . * E. g. Si quis invidiae notas rursus evolvat,
sciatque taedium esse sensum imperfectionis , et felicitatem determinet per
siatum durabilis gaudii : is invidiae idlea adaequata gandebit. Si vero in solis
invidiae characteribus ail juie scat : nec ulterius in iis evolvendis progredia
tur , tunc ideam habebit inadaequitam . Ob servandum tamen , quod quo novas
notas , donec fieri possit , invenire liceat , eo adaequatior evadet notio. *
Hanc porro doctrinam Leibnitio debemus , qui eam in Actis Erud. Acad. Lips.
ann. 1684. semper 44 Logic. Pars I. p. 437. seqq. proposuit , eumque suo more
sequutus est Wolffius Logic. cap. i . f. 9. seqq. * 27. ANALYSIS IDEARUM est
formas tio idearum adaequatarum . Quumque idea fiat adequatioi, si novos semper
cha racteres invenire liceat : patet 15. eo adaequatiorem fieri notionem , quo
longius eius analysis procedere. Quoniam vero ob sensuura limites non possumus
plura distincte percipere : infertur 16. nos in notionum analysi" in
infinitum progredi non posse : ideoque 18. quum ad notas vel simplices , vel
cuique claras perven. tum fuerit uiterius eam instituere prohi bemur. ** *
Notionum analysis Medicoruin anatomiae simi lis est. Quemadinodum enim Medici
corpus humanum in partes dividunt, easque depuo in alias aliasque particulas
resolvunt , donec ad exilissima tandem filamenta perveniant , om nes interim
earum connexiones, structuram, et proprictates attente perscrutantes : ita et
Phi Josophi idearum noías singillatim perquirunt, easque iterum atque tertio in
novas notas mente resolventes , minima quacque adcurate contemplantur. **
Sicuti ergo Medicis , quum ad indivisihiles particulas pervenerint , eas in
novas rursus se care non licet : Philosophis etiam ea facultas Cap. I. De
Ideis. 45 ademta est in analysi notionum , si vel ad simplicia et indivisibilia
, vel ad clara et evi dentia fuerit pervenlum , vel finis obtentus sit , ob
quem fuerat analysis instituta. SECTIO II . De obiectiva , sive materiali
idearum differentia . 28. Haecaec de divisione idearum formali . Ad ,
materialem , sive obiectivam quod at tinet , primo res , quas nobis repraesen
{are possumus , vel sunt exsistentes , vel proprietates iis communes. Quidquid
exsi stit dicitur INDIVIDVVM , sive RES SINGULARIS: individuum autem defiuiri
po test id , quod est omnimode determina tum . Repraesentatio ergo individui vo
catur idea SINGULARIS sive INDIVI DVALIS. E. g. “Socrates”, “Plato”, Aristoteles,
Caius, Titius , haec dumus , haec mensa , hic liber quem legis, sunt individua,
quia in unoqucque eorum adsunt tales circumstaniiae et detern ina tiores , ut
Socrates sit Socrates , et non Plato , Caius sit praecise Caius , et non alius
: ita ut si aliqua earum desit , desinant esse quae prius erant . Hinc
individuum idem est cum uno mathemat.co , quod concipitur tanquam 46 Logic.
Pars 1. * > individuum in se, et ab aliis separatum . Iu re igitur
individuum res singularis ; ideoque eius perceptio singularis pariter
adpellatur. 29. Quamvis autem individua sint omni mode determinata hoc est
innumeris circumstantiis involuta ( S. 27:), quae efficiunt, ut ea longe inter
se differant : 11 bent tamen aliquas determinaliones , in quibus perpetuo
conveniunt. ** Harum de terminationum complexus aliam ideam su periorem
constituit , quae SPECIES dici. tur. Non iniuria ergo species a recentio .
ribus definitur per similitudinem indivi duorum . Determinationis vocabulum ,
licet barbariem redoleat, iure tamen hic a nobis adhibetur , et quia civitate
donatum , et oh termini pu rioris deficientiam . Absque definitione por, ro
sumitur utpote experientia seusuque com muni satis notum ; eius vero completam
no tionem dabimus in Ontologia , ubi methodici rigoris amatóribus abunde
satisfiet. E. g. Socrates , Plato , Caius , Titius , li cet aetate , ingenio ,
roribus , conditione , habitu , ceterisque inter se multum distent, habent
tamen commuue corpus organicum , et animain ratione praeditam . Duae hae de
terminationes speciem constituunt , qnae ho m, dicitur. Hinc vides , haec omnia
individua in eo siunilia esse , quod sint homincs. Si plurium specierun pariter
cir cumstantias consideremus videbimus eas in plurimis toto , ut aiunt , coelo
differre ; in aliquibus vero perpetuo similes esse . Atque hae determinaciones
, in quibus spe. cies , licet diversissimae , perpetuo conve . niunt , novam
ideam , eamque supremam , constituunt , quae GENVS vocatur. Genus ergo recte
definitur per similitudinem specierum . E. g . “homo”, “equus”, leo , canis ,
quantumli bet in tot determinationibus invicem diffe rant , habent tamen in
vita et sensione con venientiam. His circumstantiis conflatur genus, cui
animalis nomen inditum . Observes ita que , omnes illas species in hoc esse per
petuo similes , quod animalia nominentur, adcoque legitimam esse definitionem generis
traditam, 31. Quum genus sit similitudo specie rum ( S. 30. ) , idque
constituatur a com plexu circumstantiarum , in quibus species perpetuo
conveniunt ; in speciebns autem aliae determinationes exsistant , quibus il lae
inter se differunt: sequitur 1 , ut non abs se harum proprietatuin di
versificantium summa a Philosophis voce tur DIFFERENTIA SPECIFICA * E. g.
Invidia et commiseratio id habent commune , quod sint taedium . En genus. In eo
ve ro differuut , quod invidia sit taedium ob alte rius felicitatem ;
commiseratio vero ob infelici tatem. Id ipsum constituit differentiam
specificam. 32. Repraesentatio , quae exhibet pro prietates rebus exsistentibus
communes , di citur idea VNIVERSALIS . Et quia notio nes generum et specierum
determinationes continent pluribus speciebus vel individuis communes ( SS. 29.
30. ) : infertur 2. i deas generum et specierum esse universa Jes . Rursus
quoniam hae ideau couficiun tur , si determinationes aliquas ab aliis se paratas
consideremus; unum vero sine altero considerare dicitur AB STRAHERE ; liquido
patet 3. ideas uni versales esse quoque ABSTRACTAS. * Hinc est , ut vulgo
dicatur , ideas esse vel concretas , in quibus omnes simul adsunt de
terminationes ; vel abstractas , quae aliquas tantum exhibent mentis abtractione
ab aliis seiunctas: quod idem est , ac si dicas, omnes ideas vel singulares
esse , vel universales. 53. Ex dictis porro consequitur 4. ideas universales
non exsistere , nisi in singula ribus , nempe speciem ac genus nusquam inveniri
, nisi in individuis ; adeoque 5. plus esse in individuis , quam in specie ;
plus quoque in speciebus, quam in genere. Ex quo patet 6. quam scite Logici pro
puntiaverint : Notionis extensionem esse in retione inversa comprehensionis. *
Regula haec aliter ab aliis enunciatur , sci licet : Ono maiorem habet idea
comprehensio nein , eo minorem habet extensionem , ct con tra. Comprehensio
dicitur complexus determi dationum , quae ideam aliquam constituunt. Ex tensio
vero est consideratio subiectorum , qui bus delerminationes illae tribui
possunt. Vid . la Logique, ou l'art de penser. part. 1. chap. 6. Quum ergo
individuum omnimodas determina tiones complectatur ( 9. 28. ) , ad unum tantum
subiectum extenditur ; genus vero paucissimas comprehendens circumstantias ( 5.
30. ) ad plu rima subiecta referri, nemo non videt. Posita igitur regulae
illius veritate, nullo negotio intelligitur 7 . nec ab individuo ad speciem ,
neque a spe cie ad genus umquam posse duci conclu sionem ; ac proinde 8. non
licere generi tribui , quod speciei convenit , aut ab illo removeri , quod huic
repugnat ; contra vero 9. a genere ad speciem , atque ab hac ad individuum bene
concludi , ideoque 10 . individuo dandum , quod speciei convenit, pariterque
speciei tribuendum esse quidquid generi convenire observatur. ** * T.I. C 50
Logic. Pars I. * Et recte ! nam nam in individuo comprehensio maior est ,
extensio minor , quam in specie, ut et in hac relate ad genus. Quidquid ergo de
individuo enunciatur , eius proprietates differentiales ; si ita loqui fas sit,
respicit , quae in speciem non ingrediuntur: ac proin de de hac enunciari
nequit . Eodem modo , quae de specie dicuntur, differentiam tantum specificam
spectant : genus autem proprieta tes multis speciebus communes continet ; adeo
que speciei attributa nullo modo cum genere coniungi possunt. Res clarior fiet
exemplo. Socrates est individuum , in quo omnimoda invenitur determinatio ; id
vero sub hominis specie comprehenditur. De So crate' recte enunciabis , quod
fuerit philoso phus , quia attributum hoc ei convenit ob scientiam , qua
praeditus erat ( S. 3. 4. ) , quaeque inter Socratis proprielátes individua •
les enumeratur. Possesne id de specie , idest de homine pronuntiare ? Minime
quidem : in determinationibus enim hominis specificis non scientia, sed scientiae
capacitas , nempe ra tio ', invenitur. Contra hanc regulam peccare solent
susurrones quidam , qui vitia vel de fectus in aliquo, vel aliquibus individuis
for san occurrentia toti speciei , coelui , vel clas si imputare non
erubescunt. ** Quum enim genus in specie , species pariter in individuo ,
contineatur ( §. 23. ) : quidquid generi conyepit , cum specie coniungi ; et
quik uid speciei convenit, de individuo quo Cap. I. de Ideis. 51 que enunciari
debet aeque, ac ab his removeri quod ab illis discrepat .E. g. Animal sentit ,
ergo homo sentit : homo est intelligens , quia libet igitur homo intelligens
est etc. 35. Res exsistentes rursus vel inira nos sunt vel extra nos. Prioris
classis sunt omnes animae actiones ; posterioris vero obiecta quaecumque sensibus
nostris obyer santia , vel mutationes in corpore humano ciusque organis
supervenientes . SENSV INTERNO percipiuntur, sive REFLEXIONE , hae contra
SENSIBVS EXTERNIS. Liquet ergo 10 , ideas omnes singulares sola sensionc
adquiri * Illae * Intra nos sunt affectus , et cogilationes vo strae, quae
interno sensu , conscientia refle xione ( haec opinia idem significant ) perci
piuntur. E. g . si quis tristitiam , vel metum sentiat , ciusque idcam sibi
formet , hanc sensu intern :) , sive conscientia , nempe atlen tione ad
proprias actiónes adplicatà , adqui sivisse dicitur. Extra nos porro sunt omnia
alia obiecta etsistentia sensibus obvia . Sic in deas omnes singulares,
quaecumque illae sint, sensibus percipi , nemo ignorat : superfluun enim '
esset id ' exemplis illustrare. ** Cuilibet autem de plebe noturn est , exter
sensus quinque numerari , visum nein pe, auditum , olfactnm , gustum , et
tactum , nos C 2 52 Logic. Pars 1. iisque totidem organa esse destinata ; visui
scilicet cculum , auditui aurem , olfactui na res , gustui linguam , tactui
denique specia tim manus , generaliter vero totam corporis humani superficiem .
36. Quum ergo res exsistentes sensibus percipiantur ; ideoque ideae sin gulares
sensione adquirantur ; ex singula ribus vero universales sola mentis abstra
ctione formentur ( S. 32. ) : liquido infer tuir 11. omnes ideas vel SENSIÚNE,
vel ABSTRACTIONE fieri dooque adeo esse ideas adquirendi mcdos. ** * nem * Et
hoc est , quod a multis docelur , omnes ideas partim SENSIONE, partim ABSTRACTIONE
, partim CONSCIENTIA , vel REFLEXIONE adquiri. Vid . Heinec. Logic. S. 22. Nos
enim sensio cum conscientia et reflexione confundi debere , docuimus supra ſ.
35. ** Addunt alii tertium adhuc ideas formandi modum ARBITRARIAM scilicet
COMBINATIONEM , veluti quum quis ideam hominis cum idea equi componit ,
novamque Centauri notionem conficit : cuius census sunt etiam notiones montis
aurei , intellectus perfectissimi etc. , quae nihil aliud revera sunt, nisi ice
rum prius sensione adquisitarum combinatiores ab intellectu , vel phaniasia in
unum redactae, pro quarum veritate generalem tradunt regulam : Si ideae
arbitrio coniunctae sibi con tradixerint , impossibiles sunt , adeoque fal sae
( quae alio nomine CHIMERICAE , a Scola sticis ENTIA RATIONIS vocantur ) ; si
vero inter se non repugnent , pro possibilibus, adeoque pro veris sunt
habendae. TITIAS esse , 37. Ex quibus omnibus plane consequi tur 12. recte
adfirmari a Philosophis , i deas omnes ex earum origine vel ADVEN. vel
FACTITIAS . * INNA TAE namqne ab omnibus negantur, quid quid de iis praedicent
Plato , Cartesius eorumque asseclae , quorum tamen au ctoritas tanta non est,
ut eorum insomniis a sanioris Philosophiae cultoribus praebea tur adsensus, ut
in Psychologia distinctius adparebit. Per adventitias enim intelligunt notiones
sen sique adquisitas ( $. 36. ) : per fictitias vero illas quae vel
abstractione vel arbitraria combinatione fiunt. Plato namque animas humanas ab
aeterno praeexsistentes posuit singulas singula astra inhabitantes, qnibus Deus
monstruvii universi naturam , ac leges frtales edixit : sed quum a diis
inferioribus Dei ministris mones 'vocat in corpora fatali necessitate inclusa
fuissent eo rum omnium , aeternis ideis prius e rant intuitae, statim ob quos
dae. quae in с 3 51 Logic. Pars I. ' Jitas , non nisi longo sensuum usu , àc
nedita tione pristipam cognitionem recuperare. Plat. in Timaeo. Hinc vulgatum
eius effatum: Stu et discere idem esse , ac reminisci . Cicero Tuscul. quaest.
1. 24. Illas ergo ideas, quas antea habebant , vocavit innatas . Sed quum id
purum putumque sit Platonis som nium , nequaquam erimus de eo refutando
solliciti . Cartesius hoc nomine donavit facul tatem homini competentem omnia
intelligibilia videndi. Tom. I. ep. 99. Respons, ad art. 14: progranm . ann . Sed
pèr hanc rectam rationem intelligi , quisque videt, quam proin de ideam
adpellare est potentiam cum actu confundere. Cartesiani denique per ideas in
natas intellexerunt axiomata quaedam eviden tia , quae ab ipsa cogitaudi
facultate ortum ducunt, veluti : totum csse maius qualibet sui parte ; non
posse idem simul csse , et non esse ctc. At quis rerum omnium ignarus iguo rat
, haec esse pura judicia, quae a termino runi illorum relatione , ac ab ideis
totius et partis , exsisteniiue et non exsistentiae, sen su et abstractione
prius adquisitis immediate pendent ? Quae quum ita sini , ideas invatas nullo
modo dari posse , merito concludimus. 38. Ideae praeterea sunt aliae SIMPLICES
, a quibus nihil mente abstrahere pos sumus, ** aliae COMPOSITAE , bus per
mentis abstractionem plura divi dere , atque invicem separare licet . ** in qui
Ex quo necessaria consequutione conficitur 13. simplices ideas claras esse , at
confu sas ; compositas vero etiam distinctas. Tales sunt ideae omnes colorum ,
sonorum saporum , voluptatis , taedii , quas ideo aliis explicare non possumus
, nec illarum chara cteres invicem discernere , ut ita üs'definien dis omnino
incapaceś simus. ** Sic in idea mensae cuiusdam separatim con siderare possum
matericm , formam , figuram , colorem , magnitudincm , et id genus alia. His
addunt aliqui ideas ASSOCIATAS , si ve coniunctas , eas scilicet , quae ita
simul a nobis adquisitae sunt , ut quum una nobis occurrit , altera quoque
menti obversetur : veluti si rosain olim videns odoris simul no tionem accepi ,
quotiescumque odorem illum sentio , rosae etiam idea menti fit praesens.Denique
quuin vel substantias , vel modos , vel relationes pobis repraesentare queamus
, ideae sunt vel SVBSTANTIARVM, vel MODORVM, vel RELATIONVM. Per SVBSTANTIAM
intelligimus ens, cui atiributa ei accidentia tan quam subiecto , : veluti
inhaerere conci piuntur . . *. , MODI sunt adfectiones , et attributa
substantiis inhaerentia , a qui bus + D4 56 Log. Pars I. sola mentis
abstractione separantur. RE LATIONVM denique ideae sunt , quarum unius
consideratio alterius considerationem includit ita , ut haec sine illa non
possit intelligi. *** figura , * Veluti diximus , ut nostram imbecillitatem adivemus
: id enim in substantiis creatis lo cum habet , non autem in increata , in qua
nulla inter essentiam et attributa , nec inter ipsa attributa realis distinctio
dari potest, ut in Theologia naturali demonstratum ibimus. * MODI vero sunt vel
INTERNI, si in ipsa substantia. occurrant , ut dimensio , color etc. in corpore
; vel EXTERNI, si in hominis mente sint , et tamen substantiae tribuantur,
veluti quum dicimus- virtutem ma sni aeslimatam , quae tamen aestimalio est in
hominum opinione. **** Relationes sunt ideae omnes quantitatum , item Patris,
Domini, Regis, et cetera id ge pus. Videatur abunde ea in re Clericus in Logic.
part. I. cap. 4. § . 2. seqq. , et in Arta Grit. part. 1. cap. Ex quibus plane
colligitur 14. nas in substantiis nihil aliud cognoscere, nisi mo dos, ips4s
vero substantias prorsus ignora re ; idcoque 15. substantiarum ideas esse in
relatione ad mentem nostram omnino sed tantummodo abstractas et confuses, ram
intelligibiles ; . quinisomo ló . rerun natu eo magis agaosci, quo plures modi
nobis innotescunt; maximam adhiben dam esse cautionem in perpendendis re
lationibus , ne vel earum fundamentum non recte considerantes , vel absolute de
relativis ideis enunciantes , praecipitantiae errorisque arguamur, * Quantum
haec doctrina roboris habeat in se dandis hominum adfectibus , dici profecto,
non potest. Exemplo sit is, qui se paupe rem esse dolet , quia divitum opes non
ha bet, et id absolute profert. Si vero relationis pondus expendat, observetque
alterum omnia bus necessariis rebus egentem : declamare de sinet , quia sibi
tantum superflua desunt. Be ne ergo Seneca in Troad . v. 1016. Est mi ser nemo
, nisi comparatus, Schol. Explicatis iam notionum diffe rentiis, ad huius
doctrinae usuin accedamus, quem paucis , iisque perutilibus , include mus
regulis. Quisquis ergo Philosophiae operam navas si solidae cognitionis es
cupidus , sequentes animo infigito. CANONES. i . Curato , ut rerum , quas
pertra ctare cupis ', claram semper et distin ctam cognitionem adquiras :
attentionem proinde , quae ad idearum perfectionem utramque facit paginam , in
omni re adhibeto. Quoniam vero Matheseos studium mirifice at tentionem acuit :
hinc est , ut hodie studio rum initium a Mathesi capiatur , exemplo Platonis .,
qui neminem erudiendum suscipie bat , nisi Geometria instructum . 2. In
studendo praeproperam vitato festinationem ; praecipue in primis scien tiarum
principiis diu haereto , nec, nisi iisiprobe intelleétis, ad cetera pergito .*
* Quantum enim festinatio idearum claritati osobsit, diximus in . 21. adeoque
in adole. soentibus naturalis illa festinatio , et praeci pitantia caute est
obtundenda , ne superficia rie discant et errores saepe labantur. Vnde
VERVLAMIVS opportune docuit : Ius venum ingeniis , non plumas vel alas , sed
plumbum el punderą auditinus. Caveio , ne nimia rerun varietate mentem obruas,
neve plura semel simul que addiscenda putes . - Panca discito , eaque bune
digesta contemplator. * Quum eaim attentio ad plura dividitur, minor fit atque
inepia : proindeque ideae deteriores fiant: ita ut de iis perbelle dicat Seneca
Ep. 2.: Nusquam est , qui ubique est. Qua de re Plinius VII. ep.9 . praeclaram
il lud monitum studiosae iuventuti perutile prae buit : Non multa 7, sed multum
. to 3 * AC 4. Priusquam ulterius progrediaris ad idearum tuarum relationem
attendi si qua sitt :: ne relativa pro absolu tis accipiens in errores incidas,
5. Mentis solitudinem , animique tran quillitaiem amato ; ne affectibus
attentionem iurbes , iran , tristitiam , an liaque pathemata ; adeoque
sodalitates , compotationes ., spectacula fugito. ** * Bene monuit Ovidius
Tristium l. v . 30. Carmina proveniunt animo dédlicta serenos * Comessationibus
enim corporis inertia aus getur , mens obstupescit et habetatur , ani mus ad
voluptates inclinatur s spectaculis ve vero attentio distrahitur, i sensimqué a
studüs 1 C 6 6o Logic. Pars I. animus avertitur , quo fit , ut aut nullae ad
quirantur ideae , vel saltem obscurae, a qui bus errores ortum ducere infra
docebimus. aut mie 6. Quae legisti , audivisti > ditatus es , ita familiaria
tibi reddito , ut eorum notas aliis indicare queas . Ea proinde vel in chartam
coniicito, te ipsum saepe examinaudo , idcarum tuarum distinctionem experitor.
** * vel * Stilum Cicero vocat oplimum , et praest an tissimum dicendi
effectorem , et magistrum. De Orat. l. 33. ** Notum est vulgatum illud ;
docendo disci mus . Rationem huius canonis invenies supra. nes , utpote rei immaterialis a stiones, nullo
modo sensibus percipiuntur: ea non nisi signis, quae in sensus incur ruot;;
abis potefieri possunt. SIGNUM enim est, res quaedam sensibilis quae praeter
sui notionem excitat in mente ideam alterius rei, Sed quum ideae ng ** strae ordinario vel voce, vel scripto patefiant:
binc prioris gencris signa VOCES, posterioris TÈRMINI, ntraqne vero VERBA dicuntur.
Hinc verba per idearum nostrarum signa recte definiuntur, ut et voces signa
quaedam sono articulato prolata, mentis nostrae conceptus indicantia. Signa
quidem generatim appellantur, quia praeter soni vel scripturae; nationum
nostrarum ideam in audientibus vel legentibus excitant. E. g. Lacrimae sunt
signum tristitiae: quia quum hominem videmus lacrimantem, illico eum tristitia
adfectum esse cogitamus. Fumus quoque est SIGNVM ignis, quia eo viso non solum
fumi, sed ignis etiam notionein ad quirimus. Quae de signorum diversitate Scha
Jastici docent utpote ad rem
impertinentia, praetermittimus: astin Ontologia quaedam observatu digna obiter
attingemus. Cave tamen credas, voces esse SIGNA conceptuum necessaria. Quum
enim eaedem res non iisdem vocibus a diversis gentibus exprimatur: liquet, tas
ab hominum ARBITRIO pena der, adeoque esse SIGNA conceptuum arbistraria. Cuique
vero notum est, ad sona nar ticulatum sex requiri, nempe PVLMONES, qui follis
vice funguntur, ORGANUM VOCIS scilicet trachea, eique apposita larynx cum suis
apparatibus; LINGVA, cuius vis Braliones vocem prae ceteris articulatam red
dunt; PALATVM, nempe fornicem, ubi lingua stras vid rationes exercet; quatuor
DENTES incisores dicti, quibus sibilantes litterae efformantur, et in quos nedum
lingua, sed et labia vibrant; ac denique LABIA, quae in se invicem et in
dentes, inpingunt, ut fu sjus coram ostendemus. Ex qua definitione patet verba
et voces inter se differre: quum verba et iam scripto, voces autem non nisi
sono articulato proferri possint. Nos ideo voces adhibere, ut ab aliis
intelligamur; proindeque. Iita loquendum, easque vo ces adhibendas esse, ut
alii, quibuscum loquimur, mentem nostram intelligere pos sint; adeoque non
licere terminis in anibus vet notionem deceptricem continentibus uti; sed
tantum ii , qui ali quam notionem habent adlixam; quitinimo, singulis terminis
eamdem semper ideam, eamque claram, respondere debere; ideo que cos, qui vel
obscuram, vel non semper eamdem exprimunt notionem, om nino esse proscribendos.
Alterius vero mentem intelligere dicimur quum, terminis easdem notiones
adggimus, quas loquens cum iis coniunxit . mus TERMINUS INANIS dicitur, qui
nulla , habet notionem sibi coniunctam: adeoque nis hil, praeter solam soni
ideam, excitare potsest: quapropter vocari solet vor mente case' sâ , vel sonus
sine menie, a Scholasticis terminius insignificativus. Talis est versus ille,
quemia Nimiodo prolatum in infimo Tartari aditu fingit Dyinus Poeta Etruscus:
Raphel mai umech zabi alini. Dant. Inf. cant: Quoties autem vocem proferentes,
aliquid cogitare videinur, quum tamen nihil cogita puldaunque sententiam cum ea
donium ginius: tunc terninus ille NOTIONEM DECEPTRICIM continere dicitur.
Huiusmodi sunt casus Epicuri, sensibilitas physica Hel yetii, historia e rationis
penu depromta Boulangeri et Rousseau, quorum analysin cora , et in Metaphysica
conficiemus. Si nam que vox aliqua vel non eamdem seniper, vel obscuram
notionem habeat adfi xam. In primo casu auditor dubius haerebit, quamnam cum ea
loquens, coniunxerit ideam, adeoque cui non intelligent. In secundo ves ro,
quomodo mentem eius poterit intelligere, qui se non intelligit TERMINVS CLARVS
est, qui claram coiitinet notionem, OBSCVRYS, qui eamdem habet obscuram.
Terminusi qui eamdem semper exprimit ideam, FIXVS vel DETERMINATV ; qui vero
incon der stantem vagunite tabet significatum, VAGVS aut INDETERMINATVS dicitur,
Plurės autem termini eandem rem significantes, SYNONYMA, sive termini synonymici.
adpellantur, Scolasticis eum adpellare placuit univocum, sive unicam rem
indicantem, ut ignis, aqua, A Scholis dicitur “aequivocus”, hoc est plura aeque
significans. E. g. Cultus varios habet significatus: saepe enim pro adoratione
Deo debita: quandoque pro honore: nonnumquam pro corporis, vel animi decore;
non raro quo que pro telluris cultura accipitur, Tales sunt gladius, ensis, qui
idem ar morum genus exprimunt. Eos e Scholis qui dam vocant “paronymos”, id
quod ad intelligendas barbaras huiusmodi loquutiones breviter adnotavimus. Non
heic inquirere licet: utrum in quolibet idiomate revera dentur synonyma?
quaestio namque haec ad philologiam pertinent. Philosophia contra in exprimendis
animae cogitationibus usum loquendi servat, et colit, quem penes arbitrium est,
et ius, et norma loquendi (Horat. De Art. Poet. 8. 27). Terminus CONCRETVS est
qui qualitatem expriinit sabiecto inhaerentem, ABSTRACTUS vero qui qualitatem
illam a subiecto separatam indicat, Terminus PROPRIVS dicitur, quando rem
exprimit, cui significandae est destinatus; IMPROPRIVS vero, sive METAPHORICVS
ad rem aliam indicandam transferatur ob quamdam similitudinem . si Sic “pius”
est terminus concretus, “pietas” terminus abstractus , Concretus porro a
Wolffio dicitur, qui notionem exprimit concretam (sive singularem); abstractus
contra, qui ideam continet abstractam (sive universalem ). Haec autem omnia idem significant. E. g. Vox
oculis proprie sumitur, si organum visui destinatuin indicet. Ubi vero Cicero
Corinthum Graeciae oculum adpellat, eius uippe ornamentum ac pracsidium: improprie
sive metaphorice vocem illam usurpat, Hinc vide , voces improprias esse vagas
et indeterminatas. USVS LOQVENDI est significatio vocum in communi sei mone
propria . At quoniam in familiari sermone voces aliquae occurrunt quas
intelligimus quidem, li, cit ad notiones ipsis adiixas animum non hae voces
dicuntur termini FAMILIARES, et ad usum loquendi non advertamus pertinent, Si
quis ergo oculi vocem ad significandum organum sensorium visui destinatum
usurpet, is loquendi usum servabit. Tales sunt voces omnes, quas frequentissime
proferimus, ac memoriae mandavimus: ees enim intelligimus, sed usu et
consuetudine adeo familiares evaserunt, ut eas proferentes ad sensum
notionesque ipsis adfixas nusquam attendamus. Patet igitur Philosophum servare
debere usum loquendi, adeoque terminis claris, fixis, atque in sensu proprio
usurpatis ei utendum esse. Quod idem est, ac si dicas a terminis vagis,
obscuris, impropriis, et familiaribos esse abstinendum: aliter enim non
intelligeretur. Hic porro. Ex pluribus vocibus inter se apte connexis oritur
SERMO, sive ORATIO sive PROPOSITIO. Definitur autem sermo per nexium plurium
terminorum mentis nostrae conceptıbus exprimendis idoneum . а Logicis dispesci
solet in CIVILEM, et TECHNICVII, sive eruditim, quorum ille in vita civili ab
omnibus; hic in coinmunicandis ideis ad disciplinas pertinentibus, vocabulorum
technicorum pe , ab eruditis adhibetur. Nisi enim ideis nostris explicandis sit
idoneus, non sermo, sed confusus inanium vocum cumulus dici poterit. Dicuntur
autem verba, vel voces technicae, quae ideas scientificas quibusdam disciplinis
peculiares, usu annuente, exprimunt: cuiusmo di non pauca occurrunt in qualibet
disciplina. Schol. Quae hactenus de vocibus dicta sunt, inania faere evaderent,
nisi doctrinae usum auditoribus nostris ostenderenus. Quae igitur de iis observanda
putamus paucis, isque tam familiari quain erudito sermoni inservientibus,
complectemur re gylis. Philosophus ergo noster scquentes observet CANONES. Antequam
oum aliis congrediaris, tecum attente perpendeto, quid cogites: Cogitationes
porro tuas totidem vocibus exprimilo, quot ideas hubes. Quantum adiumenti
adfcrat hic canon adolescentibus, ia promtu est. Quun enim fis familiarissima
sit inanis illa et garrnia loquacitas, fua fit, at persaepe in te veritatis
notam incurant des alimchanab inconsiifera to loquendi puriniz násvatur; facile
parei, cur qui cogitationibus suis atteindlit', nulla , nisi benedigestum ,
emitiere posse verbum . Caveto, ne ideam soni habens, rei quoque notionem
habere te credas ; aut voces coniunctas intelligere quas disiunctas intelligis.
Falluntur enim persaepe homines , quum ter minos inanes, et notionem
deceptricem con. tinentes effutiunt , in quibus solam ideam $ 9 . ni habent, et
nihil cogitantes aliquid se cogitare creduat. E. g. Idea materiae et idea
cogitationis possibiles sunt, pariterque voces, quibus illae exprimuntur
singulae intelliguntur. Coaiunclae vero impossibiles evadunt, atque adeo
intelligi nequeunt. Ecquis enim materiam cogitantem exsistere posse imquam
probavit ? Vid. Inst. nostr. Meiaph. P. 11. Cap. 4. eas 3. sum loquendi semper servato, nec novas
temere cudito voces: quod si ad id quandoque necessitate cogaris, adcurate
definito, ne obscurus fias. In hanc regulam peccatur, si quando vocabula
technica, utut civitate donata, furene novitatis amore mutantur; iis novae
voces substituuntur, quamvis rem, de qua a gitur, adcurate exprimant. Et si
houe termini philosophici, reiecta barbarie, pristinae restituuntur puritati,
ea non novatio dicen et proda est, sed renovatio, idest vocum ad pro prium avitumque
decus restitutio Peregrina vocabula Latino, vel Italico sermoni ne iminisceto,
nisi vel Tocendi, vel amici cuiusdam oblectandi caussa: alias eniin in
paedantismum Empinges. Vid. Heineccium in Fundam . Stil. cultior. Id vero
egisse Ciceronem ex eiusdem scriptis didacticis, et Epistolis ad Atticum abunde
colligitur. Quum eniin paedantismus sit inanis glorio lae cupiditas in minotüs
, ineptisque rebus sectandis quaesita; paedagogi vero , a quibus hoc nomen
obvenit, id quoque habeant in vitio , qnod singulis verbis latinas interse runt
phrases ac textos : ideo hanc notain incurruut quicumque, vel ad ostentandam e
ruditionis niultiplicitatem , vel ob nimium tem poribus inserviendi studium ,
nullum , nisi pe regrino sale conditum , queunt formare ser monem . 5. Si aliis
displicere non vis , quoties cumque loqui oportuerit , modesto vultu atque
amoeno fuam proferto sententiam: ne docere ex cathodrá potius , quam veruin
dicere , videaris. 7Est et haec paedagogorum nota , qui pueris in docendo
imponere adsueti, inagisiral e illud supercilium ubique servant , seque invisos
au dientibus , maximo veritalis detrimento , red dunt. Vid . Buddei Oratio de
bonarum littera rum decrcinento nostra aetate non tenere me tucndo. Dea rei
distincia completa verbis expressa dicitur DEFINITIO. Res vero ipsá , sive definitionis
obiectum, vocatur DEFINITVM. Ordo igitur po stálat, ut post'ideas earumque
signa; bre vein de ddinitionibus tractationem hic sub iungamus, Quid sit idea
distincta , et qua ratione ad quiratur , dixiinus supra . seq. De idea completa
cousule , quae breviter do cuimus g. 25 ; diffusius enim hic , quae de illa dici
merentur , enodabimus.Quemadmodum antem idea voce prolata di citur terminus ,
isque clarus si claram expri mat notionem; ad exprimendam, vero ideami
distinctain , sive ' emuinerando ; il dias characteres , non uno , sed pluribus
claris opus est termiuis : ita complexus ille yocum , * Cap. HI. De
definitionilus. 71 hoc est idea distincta completa sermone expli cata ,
definitio dici consuevit; adeoque non abs re tractatus bic doctrinain sequitur
ter minorum . 2. eas ** ne 49. Ex qua definitione consequitur 1 . in
definitione notas et characteres enume rari oportere , qui sulliciant ad
definiturn in statu quolibet agnoscendum, et ab aliis rebus distinguenduin ;
notas tales esse debere , ut nulli , nisi so li definito in tota eius
extensione , conve niant ; quare 3. merito a Logicis ad firmari , definitionem
neque latiorem que angustiorem sno definito , sed ipsi aco, qualem esse debere
, ut sibi invicem sub stilui possint. *** * Id autem , per quod res ab aliis
rebus distin guitur , eius essentia a Metaphysicis adpellari consuevit : inde
ergojest , ut definitionem Lo gici esse dicant orationem , qua rci essentia
explicatur. Quia vero per extensionem intelligimus quod cuinque subiectum , cui
determinationes ideam aliquam constituentes tribui possunt; perinde est , ac si
dicas , definitionis notas tales esse debere , ut omnibus subiectis, spe ciebus
nempe , et individuis sub definito con tentis conveniant. Porro inter
characteres il los insunt proprietates genericae , et specifi ** Logic. Pars I.
*** Si cae , quae integram definili essentiam expo. nunt , et repraesentant.
Non iniuria igitur adfirmari solet , definitionem ex genere et differentia
specifica constare debere. Si namque definitio talis non sit , ut possit
definito substitui , vel ( ut aliis placet ) cam eo reciprocari , vel illo
latior , vel angustior erit , adeoque deficiens. Substitutio autem in co
consistit, ut definitio pro subiecto , defini tum pro attributo , et contra,
adsumi possit. E. g. Spiritus est substantia intellectu et vo luntate praedita
: contra vero substantia intel lectu et voluntate praedita dicitur spiritus.
90. Ex eodem quoque fluit 4 in defini tionem ingredi non posse , nisi ea , quae
Jei perpetuo et constanter insunt , idest ATTRIBUTA, vel ESSENTIALIA; proin
deque 5. locum in ea non habere ACCIDENTIA , seu MODOS. * * Quaenam sint
essentialia , et attributa , pate bit in Ontologia. Id unum hic notasse sull
ciet , tam essentialia, quam attributa rei cou stanter ac immutabiliter inesse
: nam attributa sunt eiusmodi characteres , quorum ratio suf ficiens cur rei
insint , in eiusdem essentia et natüra continctur : ut sunt tria latera et tres
anguli in triangulo. Quoniam vero definitio est idea rei distincta; haec autem
est no nec tio clara notarum ( 5. 23. )
: sequitur ut ea vocibus claris sit exponenda , obscuri quidquam continentibus;
ideoque 7. nec vagis ( $ . 43. ) , nec metaphoricis nec negativis ** terminis
in illa sit locus. Imo vero 8. eam in vitio poni perspicuum est , si sit
IDENTICA vel CIRCVLVS in definiendo committatur . Si tameu termini definitionem
ingredientes ob scuri quid habere videantur , prius adcurate definiantur , ut
claritatem adquirant. Sic in vidiae definitionein supra allatam nemini proferre
licebit , nisi prius taedii si gnificatus alia definitione sit determinatus.
Terminis negativis concipitur definitio > si explicet quid res non sit : ut
si dicas , invi dia non est commiseratio. Hinc vides, eam esse vagam et
indeterminatam , adeoque defi niti ideane inde oriri confusissim un , quod est
contra definitionis indolem: Exceptio tantum datur in rebus contradicto riis
nullun inedium adinittentibus , quarum una recte definita , altera negativis
terminis explicari potest. Sic ens simplex non immeri to dicitur quod partibus
caret , substantia , quae non exsistit in alio , tamquam in subie *** Definitio
identica est , quae idlem per idem explicat, cuiusmodi suut nonnullae Scholarum
cio etc. definitiones quas confusiones rectius dixeris. Exemplo sit quantitatis
definitio ab iis allata per accidens, a quo res dicitur quanta . Quid , quaeso
, haec verba significant , nisi quod quantitas sit quantitas ? Cui vero usui
definitiones istae esse possint , tironibus ipsis iudicandum relinquimus. ****
Circulus enim Geometris est figura plana linea curva in se redeunte terminata :
in defi niendo ergo circulus committitur, si in evol vendis definitionis
characteribus , eorumque novis definitionibus formandis , in aliquam ipsarum
definitum ingrediatur. Tunc enim per definitum explicaretur id , per quod
defini lum ipsum explicari deberet; adeoque res re diret ad definitionem
idemlicam , quae in vi to posita est . Illa notas et characteres e numerat
sufficientes , quibus definitum ab aliis rebus in siatu quocumque discerni
possit ; haec autem rei definitae genesin et originem exponit, ** unde et
GENETICA dicitur. * Per definitionem nominalem veteres intelligc bant
grammaticam vocis explicationem , qua vel radix sive origo nominis
investigabatur, et tunc Etymologia dicebatur : vel multiplex eiusdem
significatio , eoque casu Homonymia; Cap. III. De definitionibus. 25 vel
denique plures voces eumdem sensum ha bentes, et Synonymiae nomine veniebat.
Quae enim nobis nominalis est , realis inter illos audiebat. ** Nominalis ergo
est definitio spiritus , si eum definiveris per substantiam intellectu et volun
tate praeditam : realis autem , si invidiam definias per taedium ob alterius
felicitatem : in ea enim eiusdem caussa et origo explica tur. Vides hinc ,
nominales definitiones esse arbitrarias : reales contra necessarias. > 53.
Si vero idea rei distincta quidem sit sed incompleta : tunc non definitio , sed
DESCRIPTIO nominatur ; adeoque in descriptione accidentia qnoque locum inve
piunt , qnae quum in individuis tantum concreta observentur, hinc est, ut res
sin gulares describantur, abstractae vero deti niantur; ** proinde illae
Oratorun et Poe tarum hae Philosophorum propriae sint . Descriptio itaque ,
licet plures enumeret no tas ; quam definitio , eas tamen ad rem in sta tu
quolibet agnoscendam exhibet insufficien tes. Tales notae non exsistunt , nisi
in rebus singularibus ;, utpote omnimode determinatis: universales namque ab
iis mentis abstractione erguntur, paucio resque adeo, ac sufficientes ipsis
distinguendis Ꭰ . 76
Logic . pars I. > continent characteres. Inde ergo fit, ut ha definiri
possint, illae tantum describi. Intelligitnr hinc: cum generum et specierum
definitiones apud Philosophos inveniamus, in dividuorum nihil nisi meras
descriptiones Poetis ac Oratoribus familiares , et si ab his definitiones
proferri videmus , eas vel incom pletas novimus, vel magno verborum ambitu
expressas , ubi accidentia attributis , caussas effectibus permixta observamus
, quas tamen Philosopho imitari nefas erit , quippe cui idearum analysis ,
essentiae rerum investiga. tio , verborum praeterea praecisio in deliciis esse
debent. Schol. Superest , ut quae studiosae iu ventuti utilitatem adferre
possunt, ea pau eis exponamus regulis huius doctrinae usum continentibus.
Philosophiae igitur initiatus, si quid a studiis suis commodi percipere cupit ,
sequentes animo imbibat CANONES. 1. Definitiones , utpote rei naturam et
essentiam explicantés , ciim cura disci to , ' ạtque teneto . ' Iudicium porro
cum m moria coniungito : ideoque aliorum definitionibus ne adquiescito ; sed
ope rum dato , ut eas intelligas , et ad tru tiram revoces. re Sunt enim, qui
soli memoriae consulentes , quidquid in aliorum scriptis repererint, id omne
discunt , ac turpe putant ab eo discedere . Hinc fit, ut si memoriae pondus
inutile au feras, nihil, praeter arroquarov quoddam , maneat. Homunciones isti
memoriae dumtaxat exercendae intenti , iudicii vero prorsus ex pertes , libros
quosvis sine delectu memoriae mandare adsueti , innumeris snnt expcsiti er
roribus ; quotcnmque eorum oculis subiiciun tur. Ne igitur adolescentes , qui
memoriam tantum in Scholis huc usque exercuerunt , eamdem premant viam ,
sibique pessime cou sulant : visum est , cautionem hanc eo neces sariam , quo
prima scientiarum hic funda menta sternuntur , ipsis suggerere et inculca re,
ut iudicium excolentes in aliorum senten tiis ad examen rcvocandis , et ad
eruendas inde propria meditatione veritates apti red dantur. ver 2. In legendis
Auctorum libris , prum phrasiumque lenociniis ne conti eto : sed ut sententiam
ipsis subiectam lare , ac distincte intelligas , pro vi ili curato. Ita
vitabitur stupida illa aliorum sententiis adquiescendi consuetudo , quae in
caussa fuit, ut liberculi aliquot ex transmontanis, transma rinisque regionibus
huc appulsi stilo quodam auribus pruriente tot incautos captarint ado D 3 78
Logic. pars. I. lescentes , quos inter crassae incredulitatis te nebras
errabundos non sine magno dolore vi demus. Hi namque culpabili ignorantia
verbis tantummodo adquiescentes, nec sententias in tellexerunt, nec eas ad
trutinam revocare sunt ausi , iudicandi quippe facultate destituti. 3. Rerum,
quas nondum distincte in telligis , definitiones proprio marte con ficito , ut
ex iteratis' actibus , continua que exercitatione habitum in eo adqui ras. Res
quidem non parvi momenti erit, multun que laboris impendendum , pauco forsan
aut irrito eventu . Animo tamen non deficiant a : dolescentes : ab exiguis enim
initiis maxima procedunt , atque experientia tandem , qui sit huius canonis
fructus , addiscent. Poterit autem quisque imitando incipere , experiundo
prosequi , ac notionum analysi sednlam na vans operam felici demum exitu
proficere. Vi de quae docebimus infra. Caveto, ne res omnes definiri pos. vel
debere, credas ; * aut definitio nes verbis diversas re quoque differre putes.
** * Videantur interim a nobis ante dicta G. 27. Gap. III. De definitionibus.
79 ¥ Si namque dantur synonyma , verba nempe et phrases eumdem habentes
significatum, quidni definitiones illae verbis diversae synonymicis erunt
expressae terminis , adeo que re unum idemque significare poterunt ? 5. Si e
Philosopho Orator aliquan dofieri cupis , definitiones pro definitis adhibeto :
tunc enim auditorum animos inani verborum ambitu non fatig abis solidaeque
doctrinae clarissimum dabis indicium . Exemplo sit elegantissima M. Ant. Mureti
pe riodus Part. I. Orat. 1. ubi de laudibus Theo logiae acturus , amplificat
syllogismun quam brevissimum has continentem propositiones : Facultas hominem
Deo con ugens est omnium praestantissima. Egpyas a eius talis est . Nam si
eorum omnium , quae in hac inmensa re rum universitate cernuntur, unumquodque
per ficiendi sui desiderio tenetur ; et animus no ster ad similitudinem
Divinitatis effictus tan to perfectior est, quanto propius ad illud , a quo
ductus et propagatus est , exemplar ac cedit : dubitari profecto non potest ,
quia ea sit omnium praestantissima facultas , quae , quoad eius fieri potest ,
cum humanis divi na copulando , mortalitatem nostram , quantum illius
imbecillitas patitur, Divinae natura e ar ctissima colligatione devincit. Vides
hic Theo D 4 80 Logic. pars 1. logiae definitionem , oratorio licet more pro
latam , multum orationi pulchritudinis ac di gnitatis adferre. 6. Definitionem
tuam , si ab aliis di stingui exoptas , efformare curato ; id que obtinebis, si
intellectuales morales que virtutes tibi comparare studueris. * Hi namque
definitionis characteres esse de bent. Quod ni facias in vulgi turba confu sus
eris , nomenque tuum in tenebris , ob scurumque manebit ila , ut vel patrio ,
vel alio adpellativo nomine indigitari debeas. Notional Otionum analysin in
adaequatarum idearum formatione consistere , snpra iam ostensum est. Porro in
hac o peratione ideam aliquam in partes , sive notas dividi , hasque rursus in
alias disper tiri , quisque novit qui earum naturam habet exploratam . Tunc
igitur idea illa ut totum consideratur , characteres autem ut eius partes :
adeoque non abs re analysis idearum verbis expressa DIVISIO nominatur , * quae
recte definitur , quod sit to tius in partes resolutio . * Quum autem in
divisione novae notarum de finitiones suppeditentur: iure doctrinam hanc
definitionibus subiungimus. 2 55. Quoniam vero quidlibet ut totum considerari
potest : variae totius relationes sunt enatae. Et quidem 1. totum essan tiale
quod constat ex partibus ad ajus essentiam pertinentibus, 2. totum integra le ,
compositum nempe ex corporibus , quorum snmma eius integritatem constituit, 3.
genus, quod plures species suo ambitu comprehendit , 4. subiectum , quod plura
accidentia sustinet , 5. accidens quod pluribus subiectis inhaerere potest, 6.
caus sa , quae plures producit 7 effectus, qui a pluribus potet procedere
caussis. Quidquid tandem pro ratione obiectorum, circa ' quae versatur in tot
partes distribui potest , quot sunt objecta . Inde ergo est , ut va riae a
Logicis tradantur divisionis species veluti TOTIVS sive essentialis , sive in
tegralis , in suas partes, GENERIS in suas species subordinatas , SVBIECTI in sua
Accidentia in suos effectus, EFFECTVS CAVSSAE , ACCIDENTIS in sua snb 7 , D 5
82 Logic. pars 1. iecta , rei in suas caussas , denique caiusvis per sua
OBIECTA. Primae classis est haec : Homo dividitur in animam et corpus ; vel as
dividitur in duo decim uncias. Secundae : Animal dividitur in hominem , et
brutum. Tertiae : Homo est , vel doctus vel indoctus. Quartae : Bonum est. vel
animi, vel corporis. Quintae : Philoso phiae dogmata alia intellectuin
instruunt, a. lia voluntatem dirigunt. Sextae : Veritatis impugnatio, vel ab
ignorantia, vel a malitia procedit. Septimae denique : Philosophia theo retica
alia circa res corporeas, alia circa incorporeas et intellectuales versatur.
56. Totum illud , quod in divisionem cadit , DIVISUM ; partes vero , in quas
dispertitur , MEMBRĀ DIVIDENTIA no minantur. Sin membra haec in novas rur sus
partes resolyamus., SVBDIVISIO di citar. * * E. g. Homo dividitur in partes
suas essentia les animam nempe et corpus ; hoc autem in caput , truncum o et
artus reliquos. En subdivisionem , 57. Ex membrorum itidem dividentiam numero
nova quoque divisionis oritur dif ferentia. Si namque duo fuerint membra Cap.
IV. De divisionibus. 83 dichotomia sive DIMEMBRIS ; si tres ? trichotomia seu
TRIMEMBRIS ; quatuor tetrachotomia hoc est QVA TRIMEMBRIS divisio, appellabitur
. SI Sic bimembris erit divisio lineae in rectam , et curvam , trimembris
trianguli in aequila terum , isosceles, et scalenum ; quatrimembris denique
parallelogrammi in quadratum , rc ctanguluin , rhombum , et rhomboidem ., 58.
Quoniam divisio est totius in par tes resolutio ; totum autem ae quale partibus
simul sumtis esse debet : consequens est 1 . ut membra dividentia simul totum
adaequare debeant divisum adeoqne nec plus illo, nec minus compre hendant ; *
2. ut non sibi coincidant, sed repugnent, sintque per novas definitiones ,
easque oppositas , distincta ; ** 3. ut ex ipsa rei dividendae natura petantur
, scili cet in tot membra totum dividatur , capax est ; 4. denique ut ad
confusio nem vitandam prius idea totalis ab am biguitate liberetur , posteaque
divisio insti tuatur . i quot *** * Contra hanc regulam peccant , qui angulum
dividunt in rectilineum et curvilineum , vel qui lineam esse aiunt , vel rectam
, vel curvam & derari potest: vel mixtam . In primo enim casu membra di
videntia simul sunt diviso minora ; in se cundo autem eodem maiora. ** Huic
quoque regulae adversantur ii , qui bo. num dividunt in honestum , utile , et
iucundum: haec enim membra simul in uno coexistere debent, ut genuinam boni
denominationem tue ri possit : adeoque non sunt repugnantia . Peccant etiam ii
, qui licet totum in membra opposita distribuant , ea tameu definitionibus non
repugnantibus determinant, ut quum cns in simplex et compositum diviserunt, et
hoc esse dicunt, quod partibus constat : illud contra definiunt per id , in quo
nihil consi *** Repréhensionem ergo .eruditorum merito incurrunt Ramistae , qui
tam superstitiose di .chotomiis adhaerent , ut in plura membra totum dividere
irreligiosum putent. Nec ali ter iụdicandum est de iis , qui nimiae mem brorum
multiplicitatis sunt amatores . Idem enim vitii, inquit Seneca , habet nimia ,
quod nulla divisió. Ep. 89. 59. Quum autem divisiones et subdi visiones potionum
analysin contineant, haec autem in idearum adaequa tarum formatione consistat,
ideo que ad maiorem distinctionem in nobis producendam sit comparata : sequitur
5. ut divisionibus aeque , ac subdivisionibus, quae iisdem ' reguntur regulis ,
omnia vi tentur , quae confusionem adferre possunt; proindeque 6. liquido
patet, non licere p? as ter necessitatem subdivisiones multiplicare, ne memoria
fatigetur , ac intellectui veių. ti tenebrae offundantur , Schol. Haec de
divisione . Ad hujus porro doctrinae usum nunc transeamus quem paucissimis inde
nascentibus include mus regulis . Logicae itaque Tiro utilissi mos aeque , ac
necessarios hosce discat CANONES, In dividendo subdividendove non aliorum
systemata , sed naturam tantum consulito . * Confusionem aeque , ac tae dium
vitare curato. * Hoc namque modo nec Ramistarum supersti tiosa restrictio , nec
Scholasticorum nimia di visionum membrorumque multiplicatio locum habebit.
Natura enim omnium optima, et ad curatissima est magistra. 2. Divisiones ne per
saltum facito. * Ordinem ac seriem in unaquaque re ser vato. Dicitur autem
civisio per sattum , quae ordi... nem non scrval , et in qua ea , quae in sub
divisione cxprirai deberent , comprehendun tur : e.g. si ideam diviseris in
claram et ina daequatam , divisionem conficies per saltum; inadaequatam enim
quae in subdivisionem ingredi deberet in divisione locum habere observas.
Series ergo atque ordo ne pertur betur, quisque in studia incumbens cavere stu
deat. CAPVT QUINTVM De iudiciis , et propositionibus , 6o. Hactenus de ideis ,
earumque ana lysi, quantum instituti brevitas tulit, actum . Eas vero si
comparemus , scilicet si duas ideas inter se coniungamus vel separemus, alia
mentis oritur operatio , quae IVDI CIVM adpellatur. Est autem iudicium duarum
idearum comparatio earumque relationis perceptio. Iudicium porro ver bis
expressum dicitur PROPOSITIO vel E NUNCIATIO. ** * E. g . Si ideam spiritus cum
idea indestructibi litaiis conferas , videasque unam alteri conve nire , tunc
spiritum esse indestructibilem ndi cas : contra , si indestructibilitatis ideam
cor Cap. V. De iud . et prop . 87 separas: haec poris notioni non convenire
observes ,corpus non esse indestructibile colligis. In primo ca su ideas
coniungis ; in altero mentis operatio , qua earum relationem ex pendis, iudicii
nomine venit. ** Nonnulli discrimen inter haec duo nomina statuunt: ut prius
locum inveniat, si in syllo gismo spectetur ; posterius vero , si extra id
inveniatur. Sed in re tam parvi momenti diu immorari, foret ineptum. 61.
Quoniam iydicium duas ideas compa rat , et si verbis exprimatur , propositio di
citar ( $ . 60. ) ; idearum vero signa sunt voces seu termini: liquet, quam
libet enunciationem duobus constare termi nis , quorum ille , cui aliquid
convenire vel discrepare ennuciatur, SVBIECTVM ; is vero , qui subiecto
tribuitur vel ab eo removetur , ATTRIBVTVM vel PRAEDICATVM nomiuatur , qui duo
simul pro positionis EXTREMA dici consueverunt. Quumque eorum nexus verbo
substanti vo exprimatur : merito vox illa ex hoc verbo desumta , quae propositionis
extrema coniungit , COPVLA vocatur. E. g. In hac propositione, “Deus est
aeternus,” Deus est subiectum , quia ipsi tribuitur aeternitas ; aeternus
dicitur attributum, quia Deo convenire enunciatur ; vox deniqne “EST”, quae duo
haec extrema coniungit, atque unum al teri convenire indicat , copula , hoc est
coniunctio , adpellatur. Hinc ergo colligitur, quain cumque propositionem
SUBIECTO, COPVLA, et ATTRIBVTO constare debere , ut enunciatio LOGICA PERFECTA
dici pos sit. Si namque horum aliquis lateat , CRYPTICA, vel IMPERFECTA dicilur
, quia naturalis compositio crypsi aliqua tegitur: id autem accidit, quum
verbuin aliquod copulae et attributi vices sustinet e. g. Deus mundum creavit :
idem enim esset ac dicere : Deus est Creator mundi. Est et alia propositionum
crypticarum species , iu quibus sub uno verbo tota enunciationis latet
compositio per ellyp sin eruenda : ut in illis : veni , vidi , vici : hic
namque tres iusunt enunciationes ex iis dem verbis repetendae , nempe: “Ego
fui-ve nens , ego fui videns , ego fui vinccns.” QvanVandoquidem in qualibet idearum
comparatione sex potissimum con fiderari possunt, scilicet: materia , sive
ideae quae comparantur; forma, seu comparatio ipsa ; qualitas comparationis;
eiusdem quantitas ; objectum, 6. denique evidentia relationis : ideo sub
totidem adspectibus propositiones intueri possumus ; videlicet, ratione MATERIAE,
FORMAE, QVALITATIS, QVANTITATIS, OBIECTI, et EVIDENTIAE. Quamvis autem hunc ordinem
divisionis natura suppeditet : liceat nobis in hac tractatione qualitatem ante
omnia perpendere , utpote quae in aliis distributionibus usui esse debet;
quaque postposita , nonnulla obscuritate laborarent. Propositionis QVALITAS
consistit in extremorum combinatione tione. Quum ea coniungimus , scilicet prae
vel separa dicatum subiecto convenire enunciamus ADFIRMARE dicimur; NEGARE
contra, si illa seiungamus, seu unum ab altero discrepare pronuntiemus. Recte
igitur omnis propositio, si qualitatem spectes, dividitur in AIENTEM et
NEGANTEM. E. g. Quum dico, “Mundus est contigens”, praedicatum cum subiecto
coniungo, adeoque de mundo adfirmo esse contingentem. Quando vero enuncio,
“Mundus NON est aeternus”, extrema seiung , idest aeternitatem a mundo removeo
et hoc est quod dicitur negare. Ex quo vides, negationem (“NON”) copulae
praepositam reddere propositionem negantem: quod si non copulam, sed terininorum
ali quem, vel eius partem negatio afficia , non negans, sed INFINITA orietur
enunciate. E. g. Marcus Aurelius Romano Imperio pote ral non nocere, quia
Philosophus. Distinctio haec aliter ab aliis enunciatur, scilicet in
adfirmativam et negativam . Vtrum que apte. 64. Si ad propositionum materiam attendamus,
eae sunt vel SIMPLICES, vel COMPOSITAE. SIMPLEX enunciatio dicitur, cuius
termini plures non sunt sed unuin habet subiectum , et unum prae dicatum; COMPOSITA
vero, quae plura > Cap. V. De iud . et prop 91 continet vel subiecta, vel
attributa; eaque est vel EXPLICITA, si compositio sit mania festa, vel
IMPLICITA, Scholastico nomine EXPONIBILIS , si compositionem habeat latentem ,
et paullo obscuriorem. Addunt alii enunciationem COMPLEXAM eamque haberi aiunt
, quoties terminus ali . quis propositionem contineat incidentem sibi adnexam ,
quae , licet ad essentiam proposi tionis non pertineat , ad eam tamen intelli
gendam plurimum confert , exprimiturque per pronomen relativum QVI. E. g. Plato
, qui divinus fuit dictus , ideas innatas admisit. Propositio illa , qui
divinus fuit dictus , in , çidens est. Sed distinctio haec in Logica aut parvi
, aut nullius fere est momenti. Simplex ergo erit propositio : Deus est ae.
ternus , iten que : aer est gravis. *** In quo vero consistat palens , vel
latens compositio , ex sequentibus abande patebit , ubi de explicitarum
implicitarum que enuncia tionum speciebus sermo erit. Id porro sedulo
observandum , in compositis non unam , sed plures contineri enunciationes , id
quod ex earum analysi poterit elucescere. EXPLICITA enunciatio dividitor in
CONDITIONALEM; CONIVNСТАМ; DISCRETAM; CAVSSALEM; DISIVNCTAM et RELATAM.
Conditionalis, alio nomine hypothetic , est, quae praedicatum habet subiecto
tributum sub aliqua conditione: e . g. “Si mundus est ens contingens , non
exsistit a se” -- in qua prima pars conditionem , altera propositionem continet.
De hac autem observandum. I. conditio existentiam non largitur : visi enim
veritatem adquirat , enunciatio vera esse non potest. Sic si dicas, “Si navis
ex Asia venerit , centum tibi me daturum promitio”: promissio vera non erit ,
nisi navis ex Asia redux fuerit ; 2 . conditio impossibilis habet vim negandi.
Et -recte : nam conditio impossibilis numquam in exsistentem abire poterit ;
adeoque enunciatio nullibi veritatem adquiret. Vnde idem est di cere : si
digito Coelun tetigeris , centum ti bi dabo , ac si diceres : numquam tibi dabo
centum : conditio namque impossibilis est. Coniuncta , sive copulativa dicitur
, in qua termini ita connectuntur, ut de pluribus su biectis idem attributum;
vel plura altributa de eodem subiecto enuncientur. E. g. “Iustitia et prudentia
sunt virtutes”; “Deus est aeternus et omnipotens”. Disiuncta, vel disiunctiva est , in qua uni
subiecto plura tribuuntur praedicata, vel u Cap. V. De iud. et prop. 93 num
attrubutum pluribus subiectis , ut plu ribus unum , vel uni plura conveniant ,
licet indeterminate. E. g. Aut doctus eris , aut in doctus. Quae de hac
observari merentur , con fer in S. 58. cur ( 1 ) Caussalis est , in qua ratio
additur , praedicatum subiecto tribuatur. E. g. Vitia nostra , quia amamus ,
defendimus: Politicas quia prudentiae regulas tradit , sedulo exco lenda, 1 Discreta
dicitur , quae duo de eodem s biecto judicia continet qualitate diversa : ut
illud Horatii. Coelum , nou animum mutant , qui trans mare currụnt. Item illud
Terent. andr. 1. SC. 2 . Davus sum , non Oedipus. Relata , seu relativa est,
cuius una pars ab altera vim sunnit, ad eamque refertur ut il lud Virgilii Georg. II. v . 291. et quantum
vertice ad auras Aetherias, tantum radice in Tartara tendit. IMPLICITAE vero
species sunt EXCLVSIVA; EXCEPTIV; COMPARATA RESTRICTIVA: licet alii quoque
inceptivas , desitivas, et 'reduplicativus adiungant. Exclusiva est, in qua
sensus duplicatur per particulas exclusivas solum, tantum, dumta xat etc. ,
estque vel exclusi praedicati, e. g. oculus tantummodo videt. Exceptiva est, in
qua particulae exceptivae praeter, nisi, et similes, sensum multiplicant. E.
g.: “Omne ens, praeter Deum , est contingens.” Comparata cicitur propositio,
vel particu la quaedam comparativa relationem adferat inter subiectum et
praedicatum, ita ut ge mipus inde emergat sensus e. g., “ira est amore
validior. Restrictiva denique est, quae
multiplicem continet sensum per particulas restrictivas. quatenus , in quantum
, quoad etc. geminatum. E. g.: Ilomo , quoad corpus ', est mortalis. INCEPTIVAS
vocant, quae actionem aliquam in principio enunciante, ut: successio temporum a
creatione incoepi ; DESITIVAS, inquibus ejus cessatio et finis praedicatur, ut:
tutela pubertate finitur: REDVPLICACIVAS denique , in quibus subiectum
geminalum at liud iudicium continet tacitum. E. g. “Corpus, qua corpus est , a
spiritu differt. Sed de his plura coram. Si enunciationis FORMAM spectemus, erit
NECESSARIA, CONTINGENS (fortuitam Cicero adpellat), POSSIBILIS, IMPOSSIBILIS:
in quibus si necessita , contingentia , possibilitas etc. reticeantur, ABSOLVTAE
dicentur ; si vero exprimantur, MENTALES. Necessariam dicimus, cuius extrema
ita contiunguntur, ut aliter se habere non possint. E. g. “Circulus est
rotundus”. Contingens est, cuius termini nullam neces sariam habent
connexionem, sed ita cohaerent, ut aliter esse queant. E. g.: “Crastinus dies
erit serenus”. Possibilem vocamus, in
qua attributum sn biecto non repugnat, ut cera liquescit. Impossibilis dicitur
proposition, cuius termini inter se repugnant, ut, “Circulus est quadratus”.
Ratione OVANTITATIS enunciatio dividitur in VNIVERSALEM, si attri butum
subiecto in tota huins 'extensione conveniat; PARTICVLAREM, si ad aliquas
tantum species, ant individua in subiecti notione contenta extendatur; denique
SINGVLAREM, si individuum subiecto exprimatur, Addunt alii inde finitam, sed
eam non esse ab universali dstinctam, infra abunde patebit. in. Alia universalem
vocant propositionem, qua ratio sufficiens, cur praedicatum subie cio
tribuatur, latet in ipsa subiecti natura, scilicet, si praedicatum sit
attributum essentiale subiecti. Ita haec enunciatio, “Homo est libertatis
capax”, est universalis tum quia subiectum in tota eius extentione sumitur
nullus enim homo invenietur, nullus enim homo invenietur, cui libertate careat;
tum quia ratio sufficiens , cur libertas homini trihuitur, latet in ipsa
hominis ESSENTIA et natura , hoc est, ut Scolastici aiunt, rationalitate.
Signum universitatis in aiente propositione est “OMNIS” (italiano: “ogni”); in
negante NVLLVS. Quae de universalitate metaplıysica et morali Philosophi docent,
ea hic persequi brevitas non patitur, sed in ipsis praelectionibus aliqua no
tabimus. Particularem propositionem alii esse dicunt, in qua ratio sufficiens;
cur praedicatum subiecto naturam est repetenda; E. g. “quidam homines sunt
crudili”. Vides hic subiectum non in tota sua extensione accipi, sed ad aliqua
tantum individua extendi, ita ut ratio sufficiens, cur homini eruditio tribuatur
hominis naturam inveniatur, scilicet in studio aique exercitatione.
Particularitatis nota est QUIDAM, ALIQVIS; in negante vero additur particula
NON. E. g., Livius Romanorun historiam
ad sua usque tempora scripsit. En propositionem singularem : subiectum enim est
terminus singularis. 6g. Ex quibus omnibus consequitur v . ad essentiam propositionis
universalis non reqniri notam uuiversitatis, sed eam pro lubitu exprinii vel'
omitti posse; INDEFINITAM dici propositionen in qua pota reticetur ac proinde
recte a Philosoplus adfirmari, propositiones in definitas aequipollere universalibus;
qui nimmo, signum universale numquam efficere posse, ut enunciatio talis
evadat; falli ergo eos, qui universalem propositio hem defipiunt per eam, cuius
subiectum signo aificitur universali; particula rem facile in universalem commutari
pos se, si subiecto addatur ratio suficiens, cur ei convcniat allributum,
Ecquis enim propositionem hanc: “Omnis homo est doctus”, ideo universalem esse
aufirmabit, quia signo universali subiectum adficintur? Hinc si propositionem
universalem particularibus , vel particularem universalibus terminis signisque
exprimamus a veritate deficiet, ut suo loco dicemus. Sumas e. g. hanc
propositionem: “Quidam homo est philosophus”, habes propositionem particularem.
Adde snbiecto caussam, cur de homine esse philosophum enunciatur. scilicet
scientiam; eamque sequenti modo exprimito: “Omnis homo scientia praeditus est
philosophus”, ex particulari in universalem abibit. Mirum quantum transmulalio
ist haec in scientiis prodest. Ab ea enim pendet propositiomm analysis; puta
earumdem resolutio in hypothesin ct thesin. Nobis in secunda part , ubi de
experientia sermo erit , huius modi commutationis usus erit obiter attingen
dus. Iuvat hic compendii loco addere , veteres harum propositionum differentiam
quatuor vocalibus indicasse: “A”, “E”, “I” et “O”, id quod se quentibus
expressere versiculis: Asserit “A”, negat. “E”, verum universaliter ambae.
Asserit I , negat O , sed particulariter ambo: De rat. et Syll. S E Ć T10 11.
De propositionibus mathematicae methodo inservientibus. Ostrema enunciationum
divisio quae earum obiectum, et evidentiam res spicit, ea est, quae in
recentioribus Phi osophorum et Mathematicorun scriptis pas sim observatur
peculiaribus desiguala nominibus, quaeque a nobis ideo distincte tradenda, quia
me!l dun mathematicas in hisce justitutionibus sequi statuimus. Ratione ilaque
OBIECTI pto positio est vel THEORETICA, in qua a liquid de subiecto enuncialur,
vel PRACTICA, quae aliquid fieri posse aut debere adfirmat. Sic propositio
theoretica est haec, “Omnes ro dii eiusdem circuli sunt aequales”. Practica
vero: “Quovis centro et intervallo circulus describi potest. Vides hinc,
theoreticam propossitionem veritatis alicuius enunciationem; pra cticam vero
operationis faciendae expositiouera continere, Quo ad EVIDENTIAM enunciatio vel
talis est, ut extremorum nexus per se clare pateat, vel quae demonstratione in
digeat. Illa INDEMONSTRABILIS, haec DEMONSTRABILIS dici consuevit. Quibus
enodatis, ad peculiaria propositionum nomina explicanda transcamus. Indemonstrabilis
ergo est enunciation, “Totum sua parte maius est”. Demonstrabilis . contra
haec: “Scientia Philosopho est necessaria”, ea enim ex collatione definitionum
scientiae et philosophi debet demonstrari. Propositio indemonstrabilis
theoretica dicitur AXIOMA. Si vero practica fuerit, POSTVLATVM vocalır. E.g. “Totum est aequale omnibus suis partibus
simul sumti”. D. de Tschirnausen axioma vocat quamcumque propositionem ab unica
definitione immediate deductam ; Euclides au tem illam , quae primo intuitu ab
unoquoque perspici potest. Res eo redit , ut axioma vo cemus enunciationem per
se claram , adeoque demonstratione non indigentem , sive a defini tione , sive
aliunde evideutiam suam repetat: ac proinde nostra definitio utramque
amplectitur sententiam , ut diffusius coram ostendemus. ** E. g Quovis centro
ac quovis intervallo cir culum describere. Coguita enim circuli defini tione ,
postulati huius veritasan. scitur, Cap. V. De iud. et prop. IOL Enunciatio
theoretica demonstrabilis THEOREMA vocatur; practica contra dicitur PROBLEMA. In
Theoremate ergo propositionis veritas ex plurium definitionum collatione
demonstrari debet. E. g., “Deus est aeternus” Huius enim demonstratio ex
definitionibus Dei , et aeter ni inter se collatis peti debet. Hinc est, ut
duabus illud constet partibus , nempe enunciatione, qua veritas șive propositio
theoretica enunciatur, et demonstratione, qua ea dein confirmatur : ideoque in
fine demonstra tionis addi solet Q. E.'D. , hoc est , “quod erat
demonstrandum.” Quum Problema sit propositio practica, pa lam est , illud
tribus absolvi, propositione sci licet, quae quid faciendum proponit,
solutione, quae modum, quo fieri potest, ostendit, et demonstratione, quae rem
bene processis se concludit , addends, “Q. E. F”. idest, “quod erat faciendum”.
Sic problema est haec enunciatio : Commiserationem in altero excitare. COROLLARIVM,
sive CONSEOTARIVM dicitnr quaevis enunciatio, quae ab alia immediate, et
necessariae consequutione oritur. E. g. Cuum demonstraveris propositionem E T.
hanc : Nihil est sire ratione sufficiente , per teris inde eruere corollarium;
Ergo, id omne, quod ratione sufficiente destituitur, nec est , nec esse
potest. SCHOLION, seu SCHOLIVM, est
oratio, qua illustratur quidquid in propositione obscurum videbatur. In eo igitur
doctrinae usus exponitur, historia narratur, auctorum sententiae referuntur
aliorum obiectiones proponuntur et refelluntur, ce teraque observatu digna
enucleantur: ut videre est in omnibus Mathematicorum , et Philosophorum
recentium scriptis. LEMMA est proposititio
ex aliena disciplina desumta, quae tamen ad demon strandum aliquid in doctrina
, quam tra ctamus in subsidium adhibetur. Ita Aritmetici in costructione
quadratornm et cuborum lemmata ab Algebra muluantur, ut est propositio illa :
Cuiuscumque numeri bi partiti quadratum aequatur quadratis parti una cum facio
dupli partis unius in al teram lucti. um Cap. V. De iud. et prop . 103 S E C
T10 lll . De propositionum adfectionibus. HaecAec de enunciationum diversitate.
Superest , ut de earum adfectionibus pau ca dicamus , de quibus quamplurima in
Scholis praecipiuntur laboris quidem plena, vtilitatis autein expertia. Ad
propositionum adfectiones referuntur: OPPOSITIO, SVBALTERNATIO, CONVERSIO, et AEQVIPOLLENTIA. OPPOSITIO
est duarum proposi tionum inter se pugnantium collatio : estque vel CONTRARIA ,
si earura utra que sit universalis in qua propositio nes ambae possunt esse
falsae , sed non ambae verae ; vel CONTRA-DICTORIA, si etiam quantitate
differant , *** in qua enunciationum illarum necessario una ve ra esse debet ,
altera falsa ; vel deni que SVBCONTRARIA , si ambae sint par ticulares , ****
in eaque propositiones am bae verae , at non ambae falsae esse possunt. * Sic
oppositae sunt hae propositiones : Omnis E 4 spiritus cogitat ; nullus spiritus
cogitat: pu. gnant enim inter se , quum de eodem subie cto idem una adfirmet,
altera neget. ** E. g. Omnis homo est ratione praeditus : nullus homo est
ratione praeditus, quarum una vera est , altera falsa. Possunt tamen da ri
casus , in quibus ambae falsae sint , veluti huum unirersaliter enunciatur ,
quod particu lariter proferri debebat. E. g. Omnis homa est eruditres : nullus
homo est eruditus. Om nibus enim tribuere quod quibusdam tan tum convenit , est
falsum dicere dicere, ut infra videbimus. *** Ita propositiones : Omnis
spiritus cogitats quidain spiritus non cogitat , sunt contradi ctoriae , earum
enim una universaliter ait, al. tera particulariter negat. Iure igitur exclusa
altera includitur , et contra : nam falsum est a quibusdam removere quod
omnibus con renit , vel aliquibus tribuere quod nulli com petit. ***** Talis
est sequens oppositio Quidam ko mines sunt divites : quidam homines non sunt
divites : Vides hic ambas propositiones veras esse. Quod si dicas : quidam homo
est liber : quidam homo non est liber, quum haec falsa sit , altera vera esse
debet. Rationem eius re gulae , ne longius provehamur , coram dabi una , mus. 7SVBALTERNATIO
est duarum Cap. V. De iud. et prop. 105 propositionum sola quantitate differen
tium , sed eosdem terminos habeniium mutua quaedam relatio. Vniversalis enun
ciatio SVB-ALTERNANS ; particularis vero SVB-ALTERNATA, a Logicis dici con
suevit. * De qua adfectione duo notanda occurrunt : 1. Veritatem subalternantis
veritas quoque subalternatae consequi tur , non contra ** . 2 : Falsitas propo
sitionis ' subalternatae falsitatem etiam subalternantis arguit , non autem con
tra. E. g. Duarum propositionum : , Omnis homo est eruditionis capax ; quidam,
homo est eruz ditionis capax , illa subalternans , haec subal ternata dicitur.
** Sic quum ia superaddito exemplo verum sit , omnes homines doctrinae esse
capaces , verum quoque erit, quosdam homines doctrinae capa ces esse. Ratio
huius regulae est. Contrariae ambae verae esse non possunt ( S. 78. ). Si ergo
'subalternans vera sit; eius contrará falsa erit. Quum autem huic contradıcat
subalterna ta , et in contradictoriis necessario una sit , altera falsa ( C.
eod. *** ) , liquet subal ternatan necessario verum esse debere ; alias , enim
in contradictione falsitas ex utraque par te daretur , quod est absurdu :n.
Contra ea si verum est , quosdam hom nºs esse eruditos vera E 5 106 Logica
Pars. I. cui quum non certe infertur omnes homines eruditos esse . *** Si
namque subalternata est falsa , eius con tradictoria vera erit; sit contraria
subalternans , haec non poterit non esse falsa , adeoque subalternae falsitatem
necessario sequi. E.g.Falsum est, aliquem spiri tum esse mortalem : falsum
qnoque erit, omnem spiritum esse mortalem . At şubalternantis fal sitas non ita
subalternatae falsitatem includit. Quum enim in subalternante , utpote univer
sali , subiectum in tota sua extensione suma tur ( $. 68. ) , poterit
attributum aliquod extra subiecti naturam rationem sui habere sufficientem ,
adeoque aliquibus tantum spe ciebus , aut individuis conveniens propositio piem
efficere particularem ( f. eod. *** ). Fal sa in hoc casu' erit subalternáns ,
non vero subalternata. Hinc si falsuin est , omnes homi nes ésse doctos, non
ita falsum erit , quosdam homines esse doctas. 80. CONVERSIO est mutua
extremorum salva enunciationis veritate , substitutio Ea fit tribus modis ,
scilicet 1. SIMPLICITER , quum eadem qualitas et quantitas manet ; 2. per
ACCIDENS , quin quan titas sola mutatur ; 3. denique per CONTRA-POSITIONEM ,
quum salva pro, positionis quantitate , terminis additur ne galio , qua fit ,
ut enunciatio lex determi pata in infinitam abeat. Cap. V. De iud. et prop :
107 * Scholerum est ha ec doctrina a nobis recensi ta in gratiam eor um , qui
huiusmodi loquite tiones scire cupiu nt ; sed non caret sua uti litate ; imo
haud raro est necessaria, Sim plex igitur est conversio : Omnis spiritus est substantia
cogitans : omnis substantia cogi tans est spiritus. ** E. g. Omnis doctus est
homo , copyertitur per accidens hoc modo : ergo quidam homo est doctus. *** Sic
: Quidam homo non est. pius , per con trapositionem convertitur : ergo quoddam
non pium est homo. Sed quorsum haec ? ais. Con fer, Dan. Richterum diss. de
convcrs. propo • sition. Halae 1740 AEQUIPOLLENTES denique dicun tur
enunciationes , quae verbis licet di versae , cumdem tamen sensum habent. *
Duae ergo propositiones synonymicis termia nis expressionibusque prolatae
aequipollentes sunt, nempe eumdem valorem habentes. Ego Omne animal vivit et
sentio : nihil tam ani manti proprium est , quam vita et sensie. Quae de his
postremis propositionum adfectionibus laboriosius a Scholasticis traduntur ,
tempus terendum potius , quam ad rationein excolendam sunt adcommodata. Nobis
haec tantum notasse sufficiet. Schol. Quae de iudiciis , ac propositio nibus
cupidae iuventuti observanda arbitra. mur , ea paucis exponenda supersunt. Qua
propter tironi Philosopho sequentes tenea di sunt CANON ES , 1 , Q Voniam
iudicia sunt sapientiae , vel stultitiae fidelia indicia , par cius iudicato ne
aliis sis ludibrio teque in errorem temere coniicias. 4 * Sensus namque
communis a iudicandi peritia scientiam hominis metiri solet. Ea de re quum de
alterius sapientia vel stultitia iudicium proferre volumus eum criterio
pollentem pel carentem adpellamus. 2. De nuila re , nisi cuius adaequa tam ,
aut saltem distinctam habes ideam, iudicium proferto, tuum . Idearum enim confusio
praeiudiciorum mater est fera cissima. * Quum enim rerum , de quibus iudicare
volu mus , distinctatu vel adaequatam habemus ide am : tunc eas undequaque
cognoscimus , re lationesque perpendimus ; adeoque termino rum nexibus optime
coguitis , recte iudiça þimus, Cap. V. De ind . et prop. 109 4. In vel tuo i
quocumque iudicio vel alieno caussam et rationem atten te perspicito , cur
tales ideae tali modo coniungantur vel scparentur , nec alio . * * Etenim infra
abunde patebit , verae prope, sitionis criterium esse , si ratio sufficiens ad.
sit , cur praedicatum subiecto tribuatur , vel ab eo removeatur. Tali ergo
ratione perspem cta , non poterit iudicium non esse verum ; ac proinde errandi
metus procul aberit. 4. Praecipitantiam fugito : ideoque in iudicando tardus ,
in enunciando tardior esto, ne levitalis errorisve arguaris. Me mento Augustini
praeclarum illud : ver IA BIS AD LIMAM , SEMEL AD LINGUAM , Ne cit enim ,
monente Horatio , vox missa Leverti. Notum est responsum illud nescio cui num
quam loquuto , ac pro sapiente seinper habi. to , datum , postquam semel toqui
voluit : Si tacuisses , Philosophus mansisses. 51. De moribus , et viia hominum
num uam iudicato . Nemo enim alterius in er est a Deo constituius: > Hinc
sapientissimum illud Servatoris nostri 110 Logica Pars. I. monitom gauctiope
muniiuin habemus Matth. VII. 1. Nolite iudicare , ut non iudicemini. Qua vero
ratione praeceptum istud homini bus inculeatum sit , ostendemus in Iure Naturae
. Quoniam duarum idearum convenien tia , aut discrepantia non semper unica
intuitu aguosci potest , adeoque dan tur veritates demonstrabites( s 71. ) ; de
monstratio autem ratiociniorum serie absol vitur: ordinis ratio postulat , ut
de ratiocinatione verba faciamus. Est vero RATIOCINATIO, sive RATIOCINIVM , actio
mentis , qua ex duobus iudiciis no tionein communem habentibus tertium eli
citur ; vel practice est duarum idearum cum teriia comparatio', earumque rela
tionis. deductio . Ratiocinium porro verbis expressa dicitur SYLLOGISMVS. *
Quando igitur mens de veritate iudicii alicu ius nouduin certa , eius extrema ,
sive ideas confert cum idea aliqua tertia , et ab earum convenientia vel
discrepantia , tertium elicit Cap. IV . De rat. et Syll. III iudicinm : tunc
ratiocinatur , hoc est rationes conficit , ut veritatem inveniat. E. g. Ut
sciat, an aer sit gravis comparat ideam aeris, et ideam gravis ; cum tertia
idea corporis , ob servatque , num inter eas adsit convenientia : qua comperta
, duas illas ideas inter se quo que convenire concludit hoc modo : Omne corpus
est grave : Aer est corpus ; Ergo aer est gravis. En ratiocivium . Quod si
verbis exprimatur , erit syllogismus. 83. Experientia teste scimus , duas ide
as cum tertia triplici modo comparari pos se : vel enim cum illa conveniunt ,
vel u na convenit , altera discrepat , vel ambae ab ea discrepant. In primo
casu elicitur ter tium iudicium aiens , in secundo negans, in tertio vero nihil
exsurgit. Totum ergo ratiocinii pondus duobus his axiomatis con tinetur : nempe
1. Quae conveniunt cum aliquo tertio ea conveniunt inter se : 2. Quorum unum
tertio cuidam convenit, alterum autem ab eo discrepat , illa in ter se quoque
discrepant * Primum axioma est ratio sufficiens syllogismi aientis ut videre,
est in exemplo supra al lato ; alterum negantis : e g . Qui Deo servit non
servit Mammonae: sed Christianus Deo. 1. servit: ergo Christianus non servit
Mamm onae. Vides hic duaru n idearum Christiani et Mam monae servientis.,
alteram convenire cnm ter tia Deo serviendi , alteram vero ab ea di screpare :
unde infertur a se invicem discrepare. 84. Ex quibus rebus clare consequitur 1.
in omni ratiocinatione tres tantummodo ideas esse debere, adeoque 2. in omni
syllogismo tres tantuin terminus; * unde 3. si plures ad sint tirinini ; guain
tres , syllogisuum es se falsum . ** Quumque tres ideae totidem combinationes
adinittant ( per exper. ) : sequitur 4 : ratiocinium tria quoque iudicia
continere ; ac proinde 5. syllogismum tres, nec plures , enunciationes
admittere) Advertendum hic , tam terminos , quani pro positiones syllogismums,
componentes y pecu liaribus a Logicis ' donata fuisse nominibus. Et ut a
teruninis incipiamus , praedicatum tertiae propositionis ,, quae principalis
dici potest , MATOR adpellatur , subiectum eiusdeni , MINOR ; {erminus vero ,
qui tertiam ideanı ex . primit , quique rationem continet suffizientem
couvenientiae , vel repugnantiae termini ma ioris cum minore, MEDIUS voćatur. E
pro, Cap. V. De iud. et prop. 113 > positionibus etiam illa , in qua medius
cum maiore confertur, MAIOR, vel PROPOSITIO simpliciter ; illa , in qua medius
cum minore comparatur, MINOR vel ASSUMPTIO; ambae vero PRAEMISSAE dicuntur ,
propositio denique, quam principalem supra, adpellavimus CONCLUSIO COMPLE xto ,
a Scholasticis CONSEQUENTIA nos minantur. Sic in primo exemplo gravis est
terminus maior , aer minor , cor pus est terminus medius , adeoque prima pro
positio est maior , altera minor , tertia con clusio . * Solet enim quandoque
quartus irreperę ter. minus , et syllogismum corrumpere , idque raro patenter;
nam saepius in termino aliquo , vel compositione latet. Fieri hoc potest 1 .
per aequivocationem , ut fi terminuin aliquiem yagnum adhibeas in sensu diverso
: eg: Vilpes habet qualuorpedes , Herodes est vulpes ; er go Herodes habet
quatuor pedes. In quo ob servas vocem vulpes prino proprie ; secundo vero
metaphorice suintam ; 3. per supposi tionis mutationem , ut si idem terminus ma
terialiter in una , formaliter in premissarum altera sumatır . E. g. Iinne ens
est generis neutrius: femina est ens, ergo fernina est ge neris ncutrius , in
quo nocens in miori gran . matice ; in minori philosophice anceptum est; 3. per
confusionem termini abstracti cum con creto . E.g. Omnis prudentia est habitus
bo nus : Titius est prudens: ergo Titius est ha bitus bonus. Tres ergo enuuciationes
syllogismi materia dici possunt : forma namque legibus absolvi tur , quas infra
'exibebimus. 85. Quamvis vero ratiocinium tam fa cilis exequutionis primo
intuitu videatur : difficilis tamen admodum est termini me dii , qui communis
idearum mensura est inventio. Sed ut omois difficultas evanescat, experientiam
philosophiae matrem consule re decet. Ea enim duce discimus , mentem postrani
in ratiocinando duplieem ingredi viam : vel enim notionum alteram ad pro prium
genus , vel speciem revocat , et quid quid his convenit , illi quoque tribuit ,
vel definitionis characteres evolvit , eosque al . teri convenire observans
definic tum quoque coniungit. Duplex ergo est medium inveniendi methodus :
altera sub iectum ad genus , vel speciem , sub qua continetur , reducendi,
eique tribuendi , vel adimendi quidquid ideae genericae con vepit , vel ab ea
discrepat ; altera attributi definitionem cum subiecto comparandi , et ab eorum
convenientia vel discrepantia , praedicati quoque cum subiecto coniunctio nem
eruendi. cum ea Cap. IV . De rat. et Syll. Exemplo sit sillogismiis supra adductus.
Scire cupis , aer sit gravis ? Reduc subiectum sub genere corporis , et vide ,
utrum huic conveniat gravitas , eam de aere quoque enunciabis , ita
ratiocinando. Quodlibet corpus est grave , aer est corpus : ergo aer est
gravis. Haec erit prima medium inveniendi methodus. Rursum gravitatis defi
nitionem evolve , eiusque characteres , nem pe corporum inferiorum pressionem
confer cum aere. Quumque ei conveniant , attribu tum cum subiecto coniunges hoc
modo : Quidquid corpora inferiora premit , est grave: Aer premit corpora
inferiora : Ergo aer est gravis Habes hic alteram medium inveniendi me thodum .
Eodemque modo in aliis ratiociniis investigando procedes : quod si adcurate ser
ves , numquam tua te fallet ratiocinatio . 86. Ex hoc principio fluunt
sequentes regulae ratiocinii fundamentales. I. Quid quid convenit generi vel
speciei , conve nit etiam omnibus speciebus , et indivi duis eorum ambitu
conteniis. 2. Quid quid repugnat vel generi specici, repugn it omnibus quoque
speciebus , et individuis sub iisdem contentis. * 3. Cui convenit definitio , convenit pariter definitum : ac
proinde 4. a quo discrepat definitto , di screpat etiam definitum . * Vides
ergo ideam mediam semel universaliter sumi debere , quia ideam universalem , ge
. mus nempe vel speciem , exhibet. Quod si bis particulariter sumeretur ,
ratiocininm vi tio laboraret , ut infra dicetur. Quumque praedicatum tam latc
pateat , quam subiectum cui tribuitur , ut cuique manifestum est : li quet ,
propositionem , in qua medius vicem praedicati sustinet , particularem esse.
Debet ergo medius terminis universaliter sumi in ea propositione , cuius
subiectum constituit Et quoniam propositio , in qua subiectum in tota sua extensione
sumitur , est universalis: liquido infertur , saltem unam praemissaram esse
debere universalem. Variae syllogismorum figurae Scho lasticis fuere in
deliciis , quas barbaris ali quot vocabulis , versibusque distinguere
consueverunt. Nos , missis futilibus tracla tionibus , regulas quasdam
Tironibus ma xime inservituras , quibus syllogismi leges breviter exponuntur ,
hic subiiciinus , quas. sequcntes exhibent. Cap. IV. De rat. et Syll. 119
CANONES. In syllogismo non plures termini sunto , quamtres. Si quartus irrepserit,
vitiosusiesto. Est lex eo magis observanda , quo omnia sophismata , si bene
perpendantur, contra illam peccare observamus. Ecquid enim sunt fallaciae tanto
labore a Scholis evolutae, an liquitatis , amphboliae , dictionis composi
tionis , divisionis , caussae , dicti simpliciter, con e juentis , accidentis ,
cetera, nisi syllogi smi e quatuor terminis conflati , in quibus quarins
cryptice latet ? Veritas hace altcate consideranti baud aegre patescet . Vide
quae de quatuor terminis diximus g. Medius terminus numquam conclu sionem
ingreditor. Monstruosuin enim es set , caussam in effectus constitutionem
immisceri. : * → Intellectus enim in ratiocinando vice Mathe matici fungitur.
Quia vero Mathematicus dua rum magnitudinuin aeqnalitatem ex cniusdam tertii
adplicatione cognoscit , nec , nisi in comparatione , mensuram adhibet : ita et
in tellectus in ratiocinando ex duobus indiciis 118 Logica Pars. I. * tertium
ervit , in quod medium comparatio nis ingredi , valde foret absurdum. Vitiosum
ergo esset ita raziocinati : Omnis bonus Phi losophus est homo : Titius est
bonus Philo sophur : ergo Titius est bonus homo. Medius Damque terminus ex
parte in conclusionem irrepsit. 4. Non esto plus minusve in conclu sione, ac
fuit in praemissis, ne quatuor inde éxoriantur termini. Si nanque praemissae
sunt veluti comparatio nes duarum magnitudinum cụm tertio eisdem adplicato ,
scilicet mersura : iudicium ex comparatione ipsa procedens , perfecte com
parationibus ipsis convenire debet. Quando vero in conclusione plus minusve
continetur, quam in praemissis , idem esset , ac si dice res productum maius
vel minus esse altero, quod ex iisdem factoribus est ortum Plus cotineret
conclusio , si ita diceres: Qui alium l'aesit , puniendus est : Cajus alterum
laesit: Cajus ergo morte puniendus est. Minus con tra , si sic ratiocinaris :
Qui furium commi sit , restitutioni et poenac subiacet : Titius fur tum
commisit : tius restitutioni subiacet. 4. Ex puris particularibus , vel ne
gantibus ( praemissis ) nihil sequi , ius estc . Cap. V. De rat. et Syll. 119 *
Diximus enim f . 86. * , praemissarum unam saltem esse debere universalem :
unde si am hae essent particulares , impingeretur in regulam 1.1 . S. cit.; si
vero ambae negantes , tunc duarum idearum neutra cum tertia conveniret ,
adeoque nihil sequeretur per S. 83. Falsum ergo esset dicere : Quidam bo mines
suni doeti : quidam homines sunt in docti : ergo quidam docti sunt indocti.
Item Nullus impius salvatur : nullus impius est pius : ergo nullns pius
salvatur. 5. Conclusio partem sequatur debilio rem , probe curato , ne in
superiora pecces. * Pars debilior est propositio particularis , vel negativa.
Si ergo una praemissarum fuerit particularis , conclusio quoque particnlaris ,
conclusio quoque particularis esse debet , alias plus esset in conclusione ,
quam in praemissis ; quod est contra regulam 3. : si vero una praemissarum
fuerit negans con clusio adfirmans contra regulam 2. In hoc eniin casu
extremorum conclusionis unum cum medio convenit , alterum ab eo discre pat ; adeoque
ea inter se quoque discrepare concludendum est ; quare conclusio negans esse
dcbet. Quae de diversis syllogismorum figuris regulae vulgo traduntur , eae ad
rem non faciunt ; ac proinde a nobis tuto prae terinittuntur, 120 Logita Pars.
I. CAPVT SEPTIMVM . De aliis ratiocinandi modis. 38. Sunt et aliae ratiocinandi
formae , quae licet a syllogismo diversae adpareant syllogismum tamen continent
vel 1. CRYPTICVM , vel 2., COMPOSITVM , vel 3. MVLTIPLICEM. De his obiter
praesenti ca pite agemus. SYLLOGISMUS CRYPTICVS est , in quo forma ordinaria (
* . 71 * ) quo modolibet périurbatur , aut occultatur. CRYPSIS ergo inducitur i
. per ordinis perturbationem , * . 2. per propositionum aequipollentiam per
propositionis alicuius omissionem , quo casu dicitur ENTHYMEMA , 4. denum per
contractionem. * Ordo perturbatur , ai quando propositiones transponuntnr : ut
si prino conclusionen vel minorem , de nde maiorein vel conclusio riem ponas.
E. g. Quum ira sit adfectus minor ) , debei omnino compesci (conclusio) ; omnis
namque adfectus est compesccn dus ( maior ). ܪ Cap. VII. De aliis rat. " modis. 121 ** E : 8. Adfectus est
attentionem turbare . Quum ergo ira sit molus vehementior appe tus sensitivi ':
infertur , in iracundo attcntio nem mirifice perturbari. *** ENTHYMEMA igitur
est syllogismus dua bus constans propositionibus , quarum prima ANTECEDENS
altera dicitur CONSEQUENS. In hac argumentandi forma praemise sarum aliqua
reticetur , speciatim vero illa , quae cuique patet , ut : omnis adfectus tur
bat attentionem : ergo ira turbat attentionem. Minor deest , utpote quae ab
audiente sup pleri potest. Eodem modo et maior retice ri , minor contra exprimi
solet : e. g. ir & est adfectus: ergo estcompescenda. SYLLOGISMUS
CONTRACTUS dicitur in quo solus maior cum medio termino pro punijatur, relicto
iniuore cum omni combi patione. Talis est Cartesii syllogismus. Cogi 10 , ergo
sum : ubi eogito est medius , est terminus maior ; adeoque minor , scilicet ego
, cum tota propositionum connexione reticetur: integrum enim ratiocinium
lioc,mo do exponendum erat: Quid juid cogitat,exsistit ego cogiio : ego igitur
exsisto. SYLLOGISMVS COMPOSITVS est , in quo adest aliqua' propositio composiía
, estoque vel HYPOTHETICVS ; * vel CO PULATIVUS, ** vel DISIVNCTIVVS , vel
tandem ex hoc primoque coalescens, qui proprio nomine vocatur DILEMMA. Tom . I.
F . Sun : Hypotheticus , sive conditionalis est , eut ius maior est propositio
hypothetica: é g. Si homo est rationalis , sequi tnr , ut sit libertatis capax
: atqui est ratio nalis ; ergo est capax liberatis De hoc te nenda regula :
Adfirmata conditione, adfir matur conditionatum ; et negato conditionato,
negatur conditio. Quum enim in hypothesi contineatur ratio sufficiens veritxtis
proposi tionis , adfirmata caussá adfirmatur effectus contra vero negato
effectu, eius quoque caus sa negari debet.. ** Copulativus , sive coniunctus
est, qui malo. iorem habet duas simul propositiones coniun gentem , et
negantein , quarum unam minor adfirmat , alteram conclusio negat. E. g. Non
potest anima sinni aeternum vivere , et cum corpore perire , atqni aelernum
vivit : ergo non perit cum corpore. ** Disiunctivas est cuius propositio maior
est dis iunctiva. E. &. Aut anima cst ens ' simple: aut compositum : sed
non est cns compositum , ergo est simplex. Notanda crgo regula : Ad firmato uno
disi!ınctionis membro , reliqua negantur ; ct negatis rcliyuis, unuin ad fir
tur. Confer tamen quae de disiunctivis pro positionibus diximus. Si ergo in
maiori propositio bypothetica cum disiunctiva copuletur , DILEMMA con surgit
quod argumentatio bicornis vel crocodilina vocari solet. Id vero definitur :
Syllogismus hypotheticus , cuius mai oris ' al 7 Cap. VII. De aliis rat. mo
dis. Tera pars est disiunctiva , quae in minore negatur , et in conclusione
totum destruitur. E. g. Si ens simplex naturaliter cx alio en te oritur tunc
aut ex alio simplici , aut e composito oriri debet : sed neque ex alio ente
simplici , neque c composito oriri potest : ergo naturaliter ex alio ente non
potest orlum du cere. Mirificum est Dilemma AVGVSTINI Tract. 1. in Joann , quo
Arianorum errorem circa Verbi aeternitatem egregie confutarit Huc referenda
quae diximus de divisione MVLTIPLICEM SYLLOGISMVM , licet imperfecte exhibent
1. EPICHERE MA , in quo alterutri , vel utrique prae missarum probatio additur
; * 2 PROSYLLOGISMVS , in quo ' prioris syllogismi conclusio posterioris eidem iuncti
maiorem constituit POLYSYLLOGISMUS , qui plurium syllogismorum connexionem
contínet, e SORITES, qui plures ita connectit propositiones , ut prioris
aliribu tudi si ! posterioris subicctum . EPICHEREMA ergo rsl syllogisms .
cuius praemissis compendii caussa ralio Quirlitur Exemplum habes iu Cic. pro
Sex Rusc. MAI. Vt quis parricidii sit suspectus , is sce lestissimus ét
audacissimus sit , oporlei. RATIO est enim crimen horrendum. NIIN . Sex Roscius
non est talis PROB. Non est audax , non luxuriosus mon avarus. 124 Loigica
Pars. I. CONCL. Non ergo est parricidii suspectus. ** In PROSELLOGISMO itaque
duo adsunt syllogismi coniuncti , quorum posterior ma iorem habet in prioris
conclusione contentam : quapropter eius minor SVBSVNTA vocatur MAI. Omnis
spiritus est ens simplex , MIN . Anima humana est spiritus : CONCL. Ergo anima
humana estens simplex. MIN . SVBSVMTA. Atqui ens simplex est indestructibile.
CONCL. Ergo anima humana est indestructibilis. Si prosyllogismus uiterius
procedat , aliae que minores subsumtae et conclusiones snb inugantnr , dicetur
polysyllogismus, hoc est plurium syllogismorum connexio legitime fa cta .
Exemplum habebis infra Part. II. Cap.3. Sect. 2. ubi demonstrationis specimen
dabimus. SORITES a Cicerone de Divin . Lib II. cap. 4. acervalis dictus , est
plurium propos sitionum cumulus ita connexarum , ut unius praedicatum sit
alterius subiectum , adeoque tot syllogismos continet , quot sunt propo
sitiones , demptis duabus , eodem fere modo, quo polygonum aa Geometris per
diagonales in tot triangula resolvi potest , quot sunt la tera demtis duobus.
Haec autem argumenta tio nisi cautiones quedam adhibeantur ad fallendum aptior
est. Cautiones istae funt. 1 . Nulla praemissarum diibia sit , aut falsa : >
1 Cap. VII. De aliis rał. modis. 123 coram. ex falso enim antecedente non
potest verum consequens oriri.2. Non insint in Sorite duae propositiones
negantcs. Hoc enim casu in eius resolutione aderit syllogismus ambas praemis
sarum negantes habens , quem vitio laborare supra observavimus ( F. 87. can. 4.
) . En Soritis exemplum . Quodlibet corpus est ali quo loco : quod est in uno
loco , potest etiam esse in alio : quod potest esse in alio loco , potest
rnutare locum : quod potest mutare lo cum , est mobile : ergo quodlibet corpus
est mobile. Eius vero analysis rationem reddemus 92. Syllogismo , eiusque
speciebus . e diametro opponitur INDVCTIO, quse vere ac proprie dici potest
argumentatio a posteriori , quippe quae a singularibus ad particularia , alquc
ab bis ad universa lia procedit. Haec autem syllogismo prior est : nam quum ope
experientiae praemis sas conficiat , indeque conclusiones eliciat universales ,
hac vero syllogismi praemissas constituant , utpote qui ab universalibus ad
particularia , vel ab his ad singularia gra dum facit : hunc sine illa construi
non posse , quisque videt, INDVCTIO itaque est argumentatio , in qua quiquid de
singulis speciebus vel individuis speciation praedicatur , generatim quoque de
toto genere vel speeie enunciatur ; adeoque in ea tot minores adsunt , quot
species vel in F 3 dividua exprimuntnr. E. g. aurum , argentuan orichalcum ,
cuprum , stannum , plumbun , ferrum , igni inieclun liquefiunt : ergo omne
metallum igni ni ectum liquefit. Ad inductio nem ergo duo requiruntur , 1.
plena partium enumeratio , 2. ut quod inferioribus tribuitur, ile superiori
pariter enuncietur. Si ergo par tes omnes enuncientur , inductio dicelur com
pleta , sin aliquae tantum , incompleta erit : si denique una dumtaxat fars
proponatur, EXEMPLUM adpellabitur, quod tamen ad oratores non ad Philosophos
pertinet , quum sit contra 34. S. n. 6. ** Ex iis enim , quae diximus Cap. 1. ,
liquet, ideas universales abstractionis ope a singulari bus erui. Eodem modo
Par. 11. Cap. 4. Sect. I. ostendemus , indicia universalia a sin gularibus
abstrahendo confici. Id vero est , quod Inductionem constituit. Quum autein
praemissarum syllogismi saltem una debeat es se universalis, patet , In
ductionem syllogismo principia praestruere : adeoque illo priorem esse. Schol.
De hụius doctrinae usu tandem pauca delibare juvabit. Quae de universa hac
tractatione homini philosopho servanda sunt , qui sequuntur , exponunt. Cap.
VII. De aliis rat, modis.127 CANONES, QVandaquidem ratiocinando veritas + vi .
innotescit , principia prius con siderato num solida sint et indubia .
Propositiones deinde ad trutinam revo cato , ac denique eurum connexionem adcurate
perpendilo , ne in quolibet r'a riocinandi modo fallaris: “ . Quum enim
syllogismus materia et forma con siet : illan vero propositiones , hanc propo
sitionum connexio , lioc est syllogismi "leges constituant; cuiuslibet
autem rei bonitas materiae soliditate ac formae aptitudine absolvatur : patet;
Philosophum de utraque sollicitum esse debere , ut ratioci . nia sua tulo
proferre possit. 2. Quoniam omnis argumentatio ad unum redit syllogismum , id
agito , ut huius leges nocturna diurnaque manu verses : alioquin loqui scies ,
non ratio cinari. Exploratum namque est , quamcumque ar gumentationem
syllogismuni esse vel crypti cum ", vel compositum , vel multiplicem: nisi
ergo syllogismi probe gnaa rus , nulliusmodi argumenta poterit quisque
proferre. Qua de remiramur, viros alioquin F4 doctissimos , et de Philosophia
optime atque abunde meritos , syllogismo fuisse adeo in fensos , ut eum
inutilem , immo nullins bo ni effectorem esse clamitarint. Infra vero ab unde
patebit , scientificam methodum sola syllogismorum concatenatione absolvi :
unde evidenter proseguisque deducet , syllogismum homini philosopho esse omnino
necessarium Videatur Wolffius in Log. Germ . S. III. seq. , ubi mathematicas
demonstrationes absque illo fieri non posse , experiundo ostendit 3. Si cum
alio res tibi fuerit , omnia eius argumenta in syllogismos resolvito : tunc
enim clare perspicies, cunctane re. cte procedant, an aliquis lateat error , an
sub ambagibus fallacia occultetur. Varii namque sunt fallcndi inodi a Scholasti
cis magno labore evoluti , qui tamen si ad sillogismum eiusque leges , tamquam
ail ly, dium lapidem , exigantur, oppido evanescent, Ut hoc exempli loco
addamus , si soriten duas propositiones negantes habentem in syl logismos
resolvas : 'nonne statim patescet do lus, quum tres negantes propositiones in
ra tiocinio , adeoqoe contra quartam eiusdem " legem peccatum esse ,
observabis. Praeclaro igitur hoc duce uti nolle idem esset , ac in. ventis
frugibus , glandibus vesci. Hucusque usque satis satis.dede mentis mentis ope
ope rationibus actum . Quum autem Logicae sit non contentiones nequicquam
fovere, sed hominum vitae consulere , atque intel lectum in veritatis investigatione
dirigere: doceamus , oportet , qua ratio ne tribus hisce mentis operationibus
in cognoscendo diiudicandoque vero recte uti debeamus. Quod ut commodius effici
pos sit , pauca quaedam de veritate generatim spectata, eiusque genuina tessera
, hic prae mittemus, VERITAS est, vel METAPHYSICA, quum ens aliquod actu
exsistens suam habet essentiam ; vel ETHICA quando quilibet sermo interno
sensųi , F 5 130 Logica Pars. II. scilicet conscientiae , respondet ; ** vel
denique LOGICA , si cogitationes nostrae obiectis suis sint conformes. Quia
vero hic cum Metaphysica atque Ethicą nihil no bis est negotii , de veritate
logica verba tantummodo faciemus. Metaphysice ergo verum dicitur quidquid om
nibus gaudet proprietatibus , quae ad con stituendam eius essentiam sunt
necessariae : adeoque huic falsum opponi nequit , qoia es: sentia entis est
necessaria et immutabilis ut in Metaphysica fusius docebimus , ac proin de
nequit ens exsistere , et sua simul essen . tia carere. Ita aurum est verum
aurum , qu pin omnia auri adsunt requisita. At non_da tur, inquies , falsum
aurum ? Minime. Tunc enim non aurum , sed cuprum , orichalcum , aliudve , aut e
pluribus metallis revera mi xtum erit. Illud autem verum aurum iudica. re , est
nubem po lunone amplecti , atque a veritate Logica aberrare. ** Verę loqui
dicimur , quum secundum cong scientiam loquimur , idest dicimus quae trinsechs
sentimus. Atque ḥaec veritas dicitur moralis sive ethica , cui opponitur
falsilo suium , quod est sermo contra concientiam prolatus , de in Moralibus
agemus. quo 93. VERITATIS LOGICAE vocabulo itelligimus convenientiam
cogitationum no strarum cum rebus ipsis, Quumquç no . De ver. eiusq. crit. 131
stra congitandi facultas tribus tantum mo dis sese exserat , vel in ideis
forinandis vel in iudiciis eruendis vel denique in rationibus conficiendis ( S.
15. ) : liquet , logicam veritatem vel in ideis , vel in iu diciis, vel in
ratiocinatione reperiri. * Hac definitione veritatem abstracto modo con
sideramus : concreto namque definiri posset per cogitationem obiecto suo
consentaneam . Porro veritasa Logicis dispescitur in FORMALEM, et OBIECTIVAM .
Illa est , cuius obiea ctum extra nos vel non existit vel non tale ut a mente
nostra concipitur : quales sunt veritates omnes purae geometricae; haec ve ro ,
cuius obiectum extra nos realiter exsistit. Ham alii INTERNAM hanc EXTERNAM
adpellare consueverunt. Illa est clara , distin cta , et indeficiens , quippe
qua mens de se suisque operationibus iudicat , haec vero ob scura, dubia , et
fallibilis : non enim per eam, scire possumus , utrum cogitatioues nostrae
obiectis suis extra nos positis conveniant necne ? adeoque quum veritatem
habemus in ternam , de reali extra nos obiecti exsistentia iudicare non
possumus ; quum contra veritatis externae compotes certi simus obiectum in
cogitatione exsistens extra eamdem etiam rea liter existere. 96 IDEA VERA
dicitur , si quando nca bis rem , uti in seu est , repraesentemus : *verum est
lyDICIVM , siconiungenda co 2 F 6 132 pulemus , separanda seinngamus ; 've rum
itidem RATIOCINIVŇ , si ' neque in materia , neque in forma peccaverit, * Idea
ergo singularis ( $. 28. ) vera est , si quando eius obiectum extra nos
realiter exsi stat , eoque modo , quo nobis illud reprae sentamus : vera
pariter dici debet idea uni versalis , dum compositio vel abstractio a re rum
natura non recedit , ita ut characteres illam comitantes simul in uno inveniri
pos sint. Vides hinc , ideas deceptrices , chimae ricas , aliasque obiectis
suis nullo modo re spondentes dici non posse veras. Advertas - tamen ,
absolutam obiecti deficientiam , vel ideae ab eo discrepantiam veritati nocere.
Si namque obiectum non sit evidens , nec ideae characteres eum eo conferre
queamus ; con tra vero sufficientibus indiciis de eius verita te certi simus :
notionem illam deceptricem vel terminum eam exprimentem inanem ad pellare , est
contra Logicae regulas , ac pri ma cognitionis humanae principia tnrpissime
peccare. In hunc errorem incidunt quicum que de mysteriis Sanctae Religionis
sermonem instituentes , aliquam credentibus notam inu rere conantur , quod
vocabula mente cassa proferant e id quod alibi diffuse enodabimus. ** Nimirum
si de re quapiam aliquid adfirme mus vel negernus, quod adfirmari aut negari
oporteret : veluti quum soli spendorem iri, buimus vel tenebras ab removemus ?
tunc judícia nostra veritate gaudebunt, f 2 2 eo 2 Cap. I. De ver. eiusq. crit.
133 *** Ratiocinationis , sive syllogismi materiam es se tres illas
propositiones , e quibus confla tur ; formam vero leges . ( S. 87. ) expositas,
supra docuimus ( 6- 84.** ). Si ergo pro positiones fuerint verae : leges autem
adcuras te servatae , ratiocinium non poterit non es se verum : quia , quum
qualis est caussa , ta lis esse debeat effectus , non potest ex veris
praemissis falsa legitime fluere conclusic. Ex quo liquido colligi potest , eum
, qui prae missas concessit, non posse negare conclusio nem ex iis legitimo
nexu fluentem . Cave tas men , ne ex conclusione , licet evidenter ex
praemissis deducta , de hárum veritate audeas áudicare : potest enim conclusio
vera legitime ex falsis ambabus oriri praemissis. Talis es, set sequens
syllogismus : Omnis virtus est fugienda : Avaritią est virtus ; Ergo avaritia
est fugienda, Vides hic veram conclusionem legitime ex fal sis praemissis
deductam . Possesne conclusionis veritate praemissarum quoque veritatem ar 97.
Quoniam iudicium verbis expres sumi propositio dicitur ( § . 60. ) : evi dens
est. propositionem dici veram , quae adfirmanda adfirmat negandaque ne gat ,
servata ubique quantitate. * Sed quia non omnium cnunciationum veritas , nec ab
omnibus distincte perspicitur : criterium aliquod inveniatur , oportet , ad
quod guere? 134 Logica Pars. I1. tamquam ad lydium lapidem , propositio nem
quamcuinque exigentes , eius verita tem dignoscere queamus. ** • Veluti quum
particulariter enunciatur de su biecto quidquid extra illius naturam ; vel uni
versaliter quidquid in eius essentia rationem habet sufficientem . Vid. supra
Part. I. Cap. 5. Sect. 1. . 68 . ** Hoc autem criterium exsistere debet quo
propositiones veras a falsis , a phanta smatis , realitates ab insomniis
discernere pos simus : alias enim homo in perpetua illusia ne versaretur , id
quod est Divinae sapientiae, homini, ipsiqne humanae menti iniurium . Quia de
te Philosophi omnes in eo consenserunt, li cet in adsignanda illa tessera in
contrarias partes opinando ierint, res 98. CRITERIVM VERITATIS est ra tio
quaedam sufficiens , per quam intel. ligitur cur praedicatum subiecto tribua
tur , vel ab eo removeatur . * Nimirum ut cogitationum nostrarum cum obiectis
suis conformitatem perspicere possimus in 93. ), eiusmodi characteres in promtu
haberi de bent , quibus attributi cuin subiecto con venientia vel discrepantia
ita determinetur, nt mens adquiescat , nec ullus de earum veritate supersit
dubitanli locus. ** Qua propter characteres illi REQVISITA ad peritatein recte
dicuntur, *** Cap. I. De ver . eiusq. crit. 135 Variae de veritatis criteriis
omni aetate fuere Philosophorum opiniones , exceptis Academi cis , üsqne, qui
Scepticismum ad furorem usque provehere ausi , atque a Pyrrkone Pyr.
rhonistarum nomine insigniti , nihil a nobis vere sciri posse , temerario ausu
adfirmarunt, quorum insania comploranda potius esset , quam confutanda. PLATO
yeri tesseram es se statuit , evidentiam intelligibilem aeterna rum idearum
mentibus participatarum ; EPI CURUS fidem sensuum. ARISTOTELES medium inter hos
iter tenens , utramque evi dentiam veri criterium posuit : illam nempe in
intelligibilibus ; hanc in iis , quae sensi bus percipiuntur. STOICI , secundum
Laer , tium , veri indicinm aibeant comprehensibilcm phantasiam hoc est ,
evidentiam &maginationum; CARTESIUS cum recentioribus , elaram, et distin
ctam perceptionem : in Medit. 4.; MALEBRANCHIUS cam evidentiam , quam inter na
animi coactio sequitur , ut ei adsensum denegare nequeamus. Lib .I.de inquir.
verit. LEIDNIȚIUS in triplici evia dentia , intellectus , sensus et
auctoritatis criterium illud posuit. Quae vero de his ob servari merentur , in
ipsis praelectionibus ex ponemus. In hac ergo propositione : Aer est gravis ,
qualitas attributi, hoc est gravitas, per no tionem aeris determinatur : in hac
enim inest ratio sufficiens cur ipsi illam tribuatur. Quum enim aer corpora
inferiora premat ; idque > 136 Logica Pars. U. ad costituendam gravitatis
notionem requira tur : clare patescit, aerem esse gravem , adeo que
propositionem esse veram . Et hoc est, quod Wolffius , criterium verae proposi,
tionis ésse determinabilitatem attributi per notionem subiecti. 7 *** E. In hac
propositione : Caius est invia dus , requisita ad veritatem sunt invidiae cha
racterés alibi enumerati , qni in Caio deprehenduntur , quique rationem con
tinent sufficientem , cur Caio to invidum es se tribuatur, Quum igitur
veritatis criterium in ratione sulficiente consistat , et a requisitorum collectione
constituatur sequitur 1. ut inter veritatis crite ria adnumerari debeant
quaecumqne iis de terminationibus praedita sunt , ut a mente, quamvis invita ,
adsensum extorquere pos sint. At quia experientia quotidiana docet, mentem
nostram non convinci , nisi ' sen suun testimonio in rebus sensibilibus, * in
tellectus evidentia in intelligibilibus , auctoritatis deuique pondere in iis ,
quae neque sensu , nec ratione percipi possunt : liquet 2 . criteria illa pro
rerum di. versitate tria statuenda #Y *** esse , intellectus sensuum et
auctoritatis EVIDENTIAM. nempe , Cap.II. De ver. eiusq. crit. 137 * Per res
sensibiles intelligimus non modo cor poreas quae sensibus exsternis , sed et
ipsas animae actiones , quae sensu interno perci piuntur. Quum igitur :Naturae
sa pientissimus Auctor hominem conscientia , sen suque cum omnibns organis
instruxerit , ut : omnium cogitationum suarum obiecta distin gueret , eorumque
conscius esset : non ab re vera esse pronuntiamus, quae internus eter nique
sensus ita se habere testantur. ** Et quidem omnium axiomatum evidentia a primo
cognitionis humanae principio , nempe non posee idem simul esse et non esse ,
ori ginem suam repetit ; hoc vero principium in timo sensu cunctis innotescit.
Quaecumque porro propositiones a veritatibns evidentibus legitimo nexu
deducuntur eamdem evidentiam adquirunt, quam illae habebant , id quod ra tione
duce ac demonstratioris ope conficitur quibus intellectus convincitur ,et mens
adquie scit : evidens ergo est , veritates tam demon strabiles , quam
indemonstrabiles ad Logicae reguias cxactas revera exsistere , ab homini bus
certo cognosci posse , earumque criterium in intellectus adquiescentia reponi
debere nempe ut Malebranchius ait , iu ea 'eviden ' tia , qnae internam
producit coactionem , at que a mente adsensum extorquet. Huiusmodi sunt
propositiones humanum ca ptum superantes , nobisque ideo imperviae , quae quum
ab Ente intelligentissimo tantum agnosci possint , revelatae tandem addiscun
tur , fidemque mereatur : quum entis illius perfectiones sint infinitae , nec
de illarum 2 I veritate addubitari sinant. Eiusdem commatis sunt facta , sive
propositiones singulares , quae in locis temporibusve remotis extiterunt, qnae
que nec. sensibus , nec ratione a nobis una quam erui possunt, quidquid contra
dicat D. Rousseau Disc. sur l ' inegalité parmi les ho mm . ; sed sensibus olim
ab adstantibus coaevis que percepta , ab his vero vel scriptis vel per manus
tiadita ad . nos pervenerunt : ct quia narrantium auctoritas suspecta non est ,
certitudinem , aut saltem probabilitatem in mente producunt. Vides hinc ,
sententiam nostram in intelli gibilibus rationem, in sensibilibus experien liam
, in factis rebusve humanum captum ex superantibus auctoritatem commend.ve ;
adec que eamdem asse cuin Cartesiana , Malebran chiana, et Leibnitiana. Sed
quia tessera haec certitudinem potius , mentis scilicet nostrae statum , quam
rei veritatem respicit , de ea, quam producit , evidentia plura infra , ubi de
veritate certa sermo erit , haud spernen da dicemus. Interim confereudus
Io.And. Osiander Diss. de Crit. Verit. Tubingae 1748. FALSITAS veritati
opposita est di screpantia cogitationum nostrarum ab obiectis. Quumque
oppositorum contrariae sint adfectiones , patet , falsitatem vel in ideis, vel
in judiciis, vel in ratiociniis reperi ii ; * adeoque FALSITATIS CRITERIVM esse
manifestum rationis illius sufficientis defectum . Cap. I. De ver . eiusq. Falsa
ergo est idea , quum aliter se habet a re repraesentata ; falsum iudicium aiens
. , si quando subiecto non conveniat attributum , negans vero quoties boc illi
conveniat ; adeo que falsa propositio , quae neganda adfirmat, adfirmandaque
negat , vel quae universaliter enunciat quod particulariter enunciari
debe . bat ; falsum denique ratiocinium , quod in materia vel forma peccat
: i illa , quando propositiones sunt falsae ; in bac vero , quum syllogismi
leges, violatae sunt. ** Propositionis falsae rera tessera est , si non modo
desit ratio sufficiens, cur praeuicatum subiecto tribuatur , vel non ; verum
adsit rl tio , cur contrariuin enuncietur : tunc enim subiecti notio determinal
qualitatem attribu ti oppositi. Porro in ratiociniorum forma fal sitas esse
potest vel patens , vel latens . Si vitinn sit manifestum , dicuntur PARALOGISMI
; si vero crypsi aliqua tegatur , vo cantur SOPHISMATA A Scholasticis am bo
vocantur FALLACIAE. Paralogismus est sequens: Omne homicidium est vitandum ,
nullum furtum est homicidium ergo nullum furtum est vitandum. In co enim aperto
peccalum est colra Can . 4.6. 87.: me dius enim terminus his particulariter
sumtus est. Sophisma contra crii , si sie ratiocinabea ris : Populus ex terra
crescit : mulliluilo ko. 140 Logica Pars. II. minum est populus : ergo
multitudo hominum ex terra crescit : quatuor namque termini ir repsere per
aequivocationem termini populus, qui in maiori arborem , in minori hominum
multitudinem siguificat. ** Plurima de fallaciis ad nauseam usque a Scho
laflicis tradita invenientur , qui tamen tot tan tisque tractationibus nullum
fecerunt operae pretium. Quia vero in huiusmodi failaciis, fi ve dictionis,
five (ut ipsi aiunt) extra di ctionem , vitium plerumque latet in quarto termino
cryptice tecto : Auditorum nostro rum mentes non ultra fatigabimus : attamen,
si sapient , syllogismi leges memoriae inscul pent, et ad terminorum numerum
semper animum adverlut. Quibens relligiose servatis, aut nihil scimus , aut
numquam , neque de cipi ratiocinando , nec alios deçipere pote runt. Schol. De
huius tandem docirinae usu opus cst , ut aliqua addamus. Ea paucis iisquo baud
spernendis comprehendemus regulis . Qui ergo Philosophi nomen adse qui cupit ,
hos probe teneat. Cap . 1. De ver. eiusq. crit. CANONE S. I Dea , quae
characteres continet si * bi invicem repugnantes, deceptrix est : imaginaria
vero , qua ob similitudinem quampiam nobis fingimus quod non est, ut quasi per
imagniem oculis obiectum praesens sistamus. ** * Hae igitur ideae proprie
loquendo non falsae, sed potius impossibiles dici possunt , quia nihil sumt: ut
' idea circuli quadrati , ligni ferrei , creaturae infinitue', ec. ** Vocantur
istae a Wolffio vicariae realium , quia earum vices gerunt , ut si memoriam ti
bi rapraesentes per receptaculum idearumi : licet enim nulla adsit analogia
inter spiritum el corpus , atque adeo inter eorum proprie lates : ob
similitudinem tamen , quod , sicut in receptaculo plura servamus , quae inde ,
quum opus fuerit , depromiinus , ila memoria plures ideas , quae tamdiu latuere
nobis sug gerit , memória ipsam veluti receptaculum nobis sistinus 2. De eo ,
cuius clare et distincte ra tionem perspicis sufficientem , tuto adfir mato :
negalo vero , quod eidem pari ratione refragari cognoscis. Si eam non adhuc
nosti : licet pro incerto haberi 142 Logica Pars. II. ſas sit , ne temere
iudicato , donec veri tatis eius , falsitatisve criterio polleas. Hoc quidem
modo vitari poterit audax illa in iudicando praecipitaptia , quae incautos
maxime adolescentes quamplurimis subjicit erroribus. Hi ramque sola suarum
virium praesumtione freti iudicia sua nec rationc ful ciunt, nec ad criterium
aliquod exigunt ; quo fit , ut ea praecipitanter nimis prouentiare adsueti ,
ratione tandem destituantur, et quid quid in buccam venerit effutiant. 5. Si
diu in veritate invenienda fru . stra taboraveris , examen reintegrato. Si ne
id qutdem profuerit , ne rem pro falsa , aut impossibili venditato , nitam
ridiculus sis , qui mentem tuam veri ful sigue mensurani esse existimes. * *
Perutilem harc cautionem inculcat Genu eusis noster , quae dici non potest ,
quanto sit omuibus adiumento. Quum enim obscurilas plerumque sit relativa ,
eiusque caussa in - bo mirum n.entibus , raro in re percepta , sit quaerenda (
S. 20. ) : nullum est huiusmo di iudicium , quod non ex praecipitantia fluat .
Qui enim ita se gerunt, ni mia de in tellectus sui viribus praesamtione
laborant, idque agunt , perinde ac si supremum persprie caciae cognitionisge
gradum obtineant, cui an tefcratur remo, pauci pares putentnr. In hanc rigrilam
offendunt quicumque mundi creatio Cap. II De ign. et er. cor. caus. 143 nem iu
tempore , aliasve doctrinas , quas intellectu adsequi nequeunt , proimpossibi
libus venditant , ut fusius in Metaphysica docebimns. Id vero quam ridiculum
sit , nemo non videt. De ignorantia et errore , eorumque caussis. A Ctio mentis
, qua verum ( S. 94. ) agnoscit, resque sibi re praesentat ac percipit , COGNITIO
adpellatur. Eius vero absentia dicitur IGNORANTIA, quae definiri pot est per statum
mentis cognitione desti tulae . * Sic e g. qui disciplinae alicuius veritates
ac praecepta novit , eaque mente tenet , illius cognitione gaudet : contra vero
, si ea cogni lione sit 'destitutus , disciplinam illam igno rare diciiur. 103.
Experientia quisque sna it aliena doceri potest , hominnm plerosque nihil aut
minipium admodum in rebus cogno scere ; plurima quoque nesciri ab iis , qui
acriori se praeditos ingenio jactant : cos vero , qui doctissimorum virorum
nomine gaudent , quo longius sua sese exserit co gnitio , eo plurima se
ignorare comperient. 144 Logic. Pars II. * Ex innumerabili rerum , quae sciri
possunt , puniero ingenii cuiuscumque vires superante, domesticaque experientia
fluxit mos ille lau dabilis ad utilium rerum cognitionem ani mum adplicandi ,
neglectis iis , quae ad cu iusqne statum minime pertinentes, inter su ferflua
et inuțilia referuntur. Recte namque observaverat Seneca necessaria a nobis
igno rari , quia superflua discimus. Id ipsum er go argumento est , homines ,
postquam ad sublimiorem , ut aiunt, cognitionis apicem pervenerint ,
quamplurima adhuc habere , quorum nulla se gaudere cognitione animad vertant,
illoruinqe esse admodum ignaros. 104. Ex quo patet 1. omnes homines in stalu
verae ignorantiae versari , ac ne minem un quani reperiri posse , qui omui moda
rerum cognitione praeditum se tuto adfirmet : quapropter oportere 2. ordine na
in studiorum curriculo servari , ut primo necessaria * deinde ütilia , postremo
iu cunda discantur ; adeoque 3. eruditorum reprchensionem merito incurrere eos
, qui neglecta hac methodo ad superfluarum re rum siudiuin animum adplicant ,
param curantes ea , quae ad interni extervique status suiperfectionem sunt
necessaria. Necessaria dicuntur , quae Dei suique cogni tionem spectant , item
quae facultatem quam quisque profitetur , postremo quae ad socie tatis commoda
promovenda pertinent. Cap. II. De ign. et er. eor. cans. 1.45 ** Suo itaque
officio deesset Medicus , si ne glecta medendi arte, eruditioni, hoc est quid
quid extra Medicinae ambitum est , operam daret. Ignorantiam quoque suam magis
pro moreret Legisperitus , si pro legum codici bus , medicos aliosve sibi
inutiles libros evol veret. Alque utinam nostro hoc aevo Lit teratores isti
extra aleam aberrantes defide, rarentur ! 105. Ad ignorantiae porro caussas de
tegendas nobis lucem quam maximam ail fert experientia. Ea enim duce scimus
igno rantain oriri a 1. DEFECTV IDEARVM , non solum in iis rebus , quae nostrum
si perant captum , sed etiam in iis , quae iu jus limites von excedunt , 2.
MENTIS IMBECILLITATE , sive impotentia co gnoscendi idearum nostrarum
relationem , LABORIS IMPATIENTIA, qua fit, ut attentio minuatur, ideaeque fiant
deterio res, STVDIORVM CONFVSIONE , MEMORIA vel nimia, vel labili, 6. denique
SVBSIDIORVY INOPIA. (t ) Impotentia haec ab idearum mediarum defe ctu pendet :
quo fit , ut communi illa defi ciente mensura , nec conferre inter se nolis nec
propterea vertalem delegere quaemus. ( ones T. 1. ** Confusio studiorum habetur , vel quia fine
attentione aut ordine fiunt , vel quia plurima eodem tempore cursimque
discuntur : ex quo pluribus intentus minor est ad singula sen sus. Hinc nimia
illa sciolorum turba , solis frontispiciis praefationibusque furfuroscrum ,
nostram invasit aetatem, ** Nimia namque memoriae praestantia laboris
impatientiam, adeoque ignorantiam parit ; illius vero infidelitas cognitionis
defectum au get. Ecqua enim cognitio ei , qui unam al teramve propositionein
memoria retinere non valet ? ( + ) Subsidiorum nomine veniunt Magistri, si ve
viventes illi sint , sive mortni, scilicet li bri. Ex horum enim defecte lici
non po test , quot sublimia vilescant ingenia , quae vel mechanicis adeo
artibus, aut otio et libidi ni se addicunt. Elegantissimum est Alciati em blema
, quo ingenia ista iuveni euidam com parat , cuius sinistra manus duabus alis
in Coclum tollitur , dextera vero ingenti pon dere impedita deorsum fertur.
Cujus em blematis dilucidationem reddemus Dolendum autem magnopere est , quod
si quando iuvenes isti litterario furfure vix in crustati Rempublicam invadunt
, societatis perturbatores , bilingues , susurrones , ad pessima demum et
turpissima quaeque , ( si paucos excipias ) parati evadunt. 106. Haec de
ignorantia. Quando au tem propositicni verre dissensim , falsae contra adsensum
praebemus, tunc ERRA coram Cap. II De ign. et ei. cor. caus. 147 RE dicimur,
sive judicia confundere. Qua propter ERROR definiri potest , quod sit confusio
iudiciorun . Error autem in iu dicando commissus PRAEIVDICIVM * adpellatur ,
quod esse dicimus iudicium erroneum praecipitanter et sine maturi tale latum. Dicitur
vero praeiudicium , vel quia sanae mentis praevenit iudicium , vel quia praema
ture et fine criterio profertur. Talia sunt pleraque vulgi praeiudicia ,
veluti: discum solis diametrum habere circiter bipalmarein: cometas esse
bellorum caussas : et alia eius modi. 107. Quum praejudicium sit iudicium
erroneum ; error vero confusio iudiciorun: evidens est s . praeiudicia na sci
ex idearum ob curitate et confusione, adeoque 2. eorum originem ab intellectus
corruptione unice esse petendam . Equidem sunt plerique , qui praeiudiciorum
originem a voluntaté repetunt, eamque pri us emendandam esse aiunt ; ii tamen
io to aberrant coelo : voluntariam namque praeiudiciis adhaesionem vel negligen
liam animum ab iis liberandi , pro praeiudia ciis venditant . Si vero rem probe
per penderint videbunt, ea , quae voluntatis vitia asserunt , ab intellectus
vitiis vel imagin natione pendere : et si qui méntem obun brant ad feclus ,
appetitus quippe sensitiyi * * 7 G 2 148 Logica Pars. It. ** vehementiores
molus , non aliunde , quam ah ideis obscuris et confusis ortum trahunt. Qua de
re legatur Syrbius in Phil. rat p : 5 . 108. Duo intérim sunt praeiudiciorum
genera , AVCTORITATIS scilicet , et NIMIAE CONFIDENTIAE . * Illa sunt , quae
nostris viribus parum confisi , nimi aque oscitantia laborantes ab aliorum ,
quorum apud nos plurimum valet ancio ritas , scriptis vel sententiis kausta
adopta mus , eaque pro sanctis habenda puta mus ; hec vero , quae nostris
viribus niinium fidentes , quamquam praecipitan ter et sine meditatione prolata
. , tainquam vera lamen adsumunus illis firmiter achae remus , et proeiis ,
veluti pro aris et fo . cis , pugnamus. * Addunt alii praeiudicia AETATIS. At
quum illa non sint, nisi opiniones praeconceptae a nutricibus parentibus ,
atque magistris a teneris , ut aiunt , unguiculis haustae : ea ad auctoritatis
praeiudicia referri , nemo non ri det . Illustris VERULAMIUS de augm. scient V.
4. praeiudicia , , quae iilola vocat , in quatuor dividit classes , quarum
prima am plectitur idola tribus, scilicet quae in ipsa hamana natura fundata
sunt ; altera idola specus , hoc est hypotheses a nobis ipsis provenientes ;
tertia i: lola fori , idest prae concept as opiniones , quae ab hominum com
mercio mabant ; quarta denique idola the *** Cap. II. de ign. et er. eor. caus.
149 atri , videlicet erronea iudicia , quae ex Phi losophorum sententiis
bauriuntur. Quae 0 mnia ad duas , quas retulimus , classes com mode referri
possunt , ut coram ostende mus. * Auctoritatis praeiudicia sunt ea , quae a nu
tricibus , magistris ( vivis illis mortuisve ) , aut populo haurimus : eiusmodi
sunt opinio pes omnes aliquibus civitatibus , familiis , vel.: sectis
familiares , quarum cultores illis , tam quam glebae , adscripli , nulloque
utentes iu dicio , eas, tamquam oracula , pronuntiant seque inde dimoveri non
patiuntur. Curio sissima est Galilaei narratio in Systemate co smico , de viro
quodam nobili Peripatheticae philosophiae addicto , qui qunm Venetiis in domo
cuiusdam Medici sectionem anatomicam perfici vidisset , in qua maximam nervorum
stirpem e cerebro exeuntem , per cervicem transire , per spiralem distendi , ac
postea per totum corpus divaricari observasset , nec, nisi tenue filamentum ,
funiculi instar , ad cor pertingere , a Medico rogatus , adhuc in Aristotelis
sententia manere vellet rumque originem a corde repelere? non sine magno
adstantium risu respondit : Equide:n ita aperte rem oculis subiecisti, ut nisi
tex tus . Aristotelicus aperto nervos corde deducens obstaret , in sententiam
tuam per tracturus me fueris. Quis , quaeso , haec au diens a risu ' temperaret
? *** Vocari quoque solent praeiudicia receptae hypotheseos , novitatis ,
similia : ut sunt sy nervo e G 3 750 Logica Pars 11. MAE , stemata omnia ab
eruditis inventa , quibus tam acriter inhaerent , ut uullum sit rationis pondus
, quo ab opinione sua dimoveri pa tiantur. 109. De errorum caussis, restat, ut
paulo ca addamus, Eae vel REMOTAE sunt quae mentem ad errores ac praeiudicia
praeparant et disponunt; vel " PROXI. , quae mentem ipsam ad iudicio rum
confusionem impellunt , erroresque producunt. Remotae rursus in generales
dividuntur , et speciales . Caussae generales sunt ATTENTIONIS DEFÈCTVS, qui
ideas reddit deteriores ADFECTVS , quos attentionem turbare , idearumque
obscuritatem parere supra ob. Servavimus, SCIENDI LIBRO ciun ralurali corporis
inertia, COMPENDIA et DICTIONARIA disciplinarum, in quibus nulla idearum analysis
reperitur MALVS vocabulorum VSVS , quo fit, ut auctorum sensus non intelligatur
denique LI BERTAS PHILOSOPHANDI. Praeiudiciorum cnim origo ab idearum ob scuritate
repetenda est , idearum vero obscuritatem pariunt attentionis defe clus et
adfectus er his ergo caussis praeiudicia nasci , quisque intelligit. Quainvis enim
corporis inertia laboris impa Cap. 11. De ign. et er. Cor. caus. ¥ tientiam
creet , adeoque ignorantiae tantum Caussa esse possit ( * 105. ) : cum sciendi
tamen libidine conjuncta errorum genitrix est: etenim sciendi pruritus efflcit
, ut intellectus tali cupiditate ductus intra ignorantiae fuae te niebras
consistere nolit , opportunisque prae • diis vacuus ea investiget , quibus par
non est , ac proinde in plurimos lahatur errores. ** Libertas enim
philosophandi iuxto maior in receptas hypotheses illidit ; nimis autem con
etricia in auctoritatis praeiudicia nos urget , sel saltem crassam parit
ignorantiam . 110. Speciatim autem AVCTORITA TIS praeiudicia oriuntur harum
trium abaliqua EDVCATIONE, scilicet, CONVERSATIONE [conversazione], et
CONSVETVDINE; ut et praeiudicia NIMIAE CONFIDENTIAE aa nimia INGENII FIDUCIA. Et
ut de educatione quaedam singularia attingamus , id sedulo notandum : praeiu
dicia , quae ab ca procedunt , tribus cha racteribus optime distingui, temporis
BREVITATE, 2. loci RESTRICTIONE , cognitionis DEFECTV. Qui quidem characteres
si desint , propositio non in ter praeiudicia , sed inter veritates com muni
hominum consensione probat as est referenda . Quot mala hominibus adferat
educatio , vix dici potet. Parentes enim tantum abest , ut puerorum intellectum
perficere eorumquemor is mederi curent , ut potius eorum aninum maximis
praeiudiciis, anilibus fabeliis , erro neisque opinionibus imbuant. De
magistrorum educatione nihil dicemus , ab iis enim quam multa hauriuntur
praeiudicia , quum iuvenes in magistrorum verba iurantes quaeuis eo run effata
sancta esse putent , ac de illis veluti de Religione , dimicent ! Conversatio
cuin libris et eruditis , consuetudo cum po pulo quot foveant errores , quum
res sit me ridiana luce clarior , in ea explicanda nihil immorabimur Legatur
interim Tullius Tuscul quaest. Lib. III. cap. 1 . Qui nimium suo indulget
ingenio , fieri non potest , quin in errores incidat, el pacdın tismum vel
contradictionis spirituin induat , quae duo vitia aliorum aversionem odiuinque
conciliant. Praeterquam quod novitatis studi um quanta hominibus mala
produxerit , ii sciunt, qui Ecclesiae vel litterarum vices er annalibus
didicerunt. *** Nimirum educationis praeiudicia tantisper in animo sedent,
donec ad maturitatem ra tionisque perfectionem sit perventum ; nou sunt ubique
earlem , sed quamvis in cuius cumque Regionis gentibus praeiudicia sedeant,
diversa tamen pro educationis morumque di versitate inveniuntur ; rudium tandem
von eti am sapientum mentes occupant ita , ut dum illi inter praeconceptas
opiniones erroresque iacent , hi eorum insipientiam ac ignorantiam destruere
nullo modo valentes vel rideant, vel de ea conquerantur. Cap. II, De ign. ei er.
eor. caus. 253 mus Omnes illae , quas recensuimus caussae praeiudiciorum remotae
sunt ; pro Xima namque est PRAECIPITANTIA . Quae quum ita sint , optimum ,
idqne uni cum , ad praeiudicia vitanda remedium est iudicium suspendere, seu
DUBITARE : est: enim DUBITATIO « prudens iudicii su spensio. Tanc autem
iudicium suspendi quum propositionein aliquam nec adfirmamus neque negamus. *
Cave la nen credas , ad praeiudicia vitandą conferre Scepticismum , vel
Pyrrhonismum insanam nempe illum de onnibus dubitandi miorem , quo hodiernos
incredulitatis fauto . res uii , non sine dolore videmus. Stolidi tas enim ,
nedum temeritas infanda foret sine sufficienti ratione dubitare. Sobriam quip
pe ac prudentem commendamus dubitationem eo fine institutam , ut suspendatur iu
licium , donec mens ad ideas distinctas clarasve per veniat. ** Totum hoc de
rebus intra rationis fines ex sistentibus , nullaque evidentia suffultis est
intelligendum . Etenim quae Divina auctorita te nituntur , aut mathematica
gaudent eviden tia de illis dubitare , impium ; de his ve ro , foret adprime
stullum . Schol. Espositis mentis humanae imbe . cillitate et vitiis , reliquum
est jis praebeanius medelam. Quamvis Feromul, 7 ut aptam ti philosophicarum
rerum Magistri , inter quos Nicolaus Malebranchius , et Antonius Genuensis ,
quamplurima ad id remedia . proposuerint , quibus vel minimum quidem addere ,
non opis est nostrae ; licebit ta men , ad Auditorum nostrorum instructio nem ,
si plura n quimus , eadem saltem ab ipsis tradita paucis repetere. Quisquis
ergo ignorantiam errorenive yitare cupis , hos menti infigito CANONES. MEREntem
sedulo studio attentio ne , meditatione ab obscuritate et confusione liberato.
* In hoc enim in . tellectus perfectio sita est, a qua exsu lant ignorantia et
praeiudicia . * Ut id consequantur adolescentes , prae ocnlis habeant quae in
prima harum Institutionum parte observavimus , ea praecipue , quae de ideis
cap. 1. Schol. adnotavimus. 2. Ad studia praeiudiciis liber ac do cilis , uti
modo in lucem editis infans, accedito . Magistrum eligito optimum ab eoque
necessaria atque utilia disci io , nihil verens ab eius , qui te ad sa pientiam
manuducit, prius ore pendere: Cap. II. De ign, et er. eor. caus. 155 ut
praecepta demum , quum te ignoran tia deseruerit ad examen revocare possis. *
In Magistrorum electione magna cautio adhi benda est : abea namque pendet
cognitionum nostraram soliditas et rectitudo. Ad eorum dotes praecipue
attendendum , de quibus ideo pauca inferius delibabimus. 3. Methodum ubique
atque ordinem cordi habeto. In studiis eapraecedant per quae sequentia
intelliguntur. Ex hujus canonis neglectu oritur studiorum confusio , quam
ignorantiae caus sam haud postremam esse , experientia sensusque com munis evidenter
ostendit Auctoritati nec nihil , nec multum deferto. Nimia namque aliis
adhaesio servum pecus ; sensus vero communi ne glectus audacem efficit ,
omniaque sibi permittentem. 5. De iis , quae vel Divina auctori tate , vel
maxima evidentia destituta sunt , prudenter dubitato , donec certus fias.
Rectam rationem prius, sensum dein de optimorum communem consulito . Quae
captum vero tuum superant ne perqui rito , nisi prius opportunis mediis probę
fueris instructus. * G6 156 Logica Pars. II. * Si vero captum humanum superent
, ca non investigare omnino , recta ratio docet. 6. Laboris patiens , memoriae
ac per spicaciae tuae ne nimis fidens esto . Me mento Poetae illud: ABSQUE LABO
RE.NEMO MUSARUM SCANDIT AD ARCEM. Vides hinc , quam immerito a nostrae aetatis
adolescentibus voluptati ac vanitati deditis laboremque horrentibus cognitio
studiorum que felix exitus expectetur. Compendia et dictionaria , quippe quae
nihil solidi profundique continent, ne multum amato . Paucos habeto libros,
eosque lectissimos. * Cum lectione me ditationem semper coniungito Non nostrum est praeceptum , sed Senecae , qui
ut facilem Lucilio suo viam ad virtutem aperiret , librorum paucitatem diserte
com mendat his verbis : Cum legere non possis quantum habueris , sat est habere
quantum legas. Ep. 2. Vide quae diximns Part. I. 8. Poetas caute legito , ne
inanibus fabellis animunı imbuas. Populum , utpo te pessimi argumentum , ut
anguem fu gito . Senecam audito dicentem : SANA TIMUR , SIMODO SEPAREMUR A
ÇOETU, cap. 1. Schol. Cap. II. De ign. et er . cor. caus. 157 Ad poetas quod
attinet , eorum lectionem adolescentibus vel omnino interdicendan , vel arctissimis
includiendam cancellis cuperernus, quippe qui vivida phanthasia pollentes ima
ginationi retinere potius, quam laxare debent habenas : id quod ia legendis
Poetis contra evenit. Populi porro damna paucis expressit idem Seneca, quum ait
: Inimica est mullorum convcrsatu. Ep. 7. De Veritate ceria , melliisque ad cam
perveniendi. $ 12 . sis ad veritatis investigationem gradum faciamus. VERITAS
vel CERTA est, si in ea adsint omnia veritatis requisita, ut nulla nobis de
illa re maneat suspicio aut dubium , vel PROBABILIS , si propius ad
certitudinem acce dat , nempe quum non omnia insunt re quisita . De illa nunc ,
de hac subsequen ti Capite agemus. CERTITUDO est mentis status veritati adensum
ita praebentis ut nulla de opposito adsit sollicitudo Ex consequitur i , ut si
quam minima adsit suspicio non certitudo , sed INCERTITUDO vocetur. Et quia non
idem est om. nibus mentis status , sequitur 2. eamdem evunciationem uni certam
esse posse , al teri incertam . Tandem quoniam quisque mentis suae statum
agnoscit , consequens est 3. ut nemo aliorum certitudinis sed suae tantum iudex
esse possit. * Quia omne , quod verum est , vel absolute et in se tale est vel
in relatione ad mentem , quae non semper terminorum nexum distincte percipit :
ideo Philosophi certitudinem divide bant in OBIECTIVAM et FORMALEM , il lamque
esse , aiebant , nexum propositionis in trinsecum , hanc mentis nostrae statum
respi cere. Nos illam proprie VERITATEM , hanc CERTITUDINEM adpellamus. E. 8.
Axioma ; Totum est maius sua parte , si absolute et in se spectetur , VERUM
dicitur , si vero ad men tem referatur, CERTUM est , quia talia ad sunt
indicia, ut ipsi absque ulla oppositi formi dine adsensuin praestemus. Quoniam
indicia ad certitudinem ducentia trium generum esse possunt , sci licet vel
absolute infallibilia vel dalis tantum permanentibus caussis naturalibus , vel
denique sccundum huinanae prudentiae leges : evidens est 4. triplicem etiam
esse certitudinem, METAPHYSICAM nempe yel MATIEMATICAM , quae illis ; PHY. Cap.
111. De veritate certa etc. 159 SICAM , quae istis ; MORALEM tandem , quae his
fulcitur indiciis , quaeque alio no mine FIDES HUMANA adpellatur. * Primi
generis sunt axiomata, aliaeque pro positiones nullis obnoxiae vicibus
;alterius haec propositio: corpus non suffultum cadt : pos fremi vero haec :
Augustus fuit primus Ro manorum Imperator. 115. Experientia abunde constat ,
men tem nostram non statim , nec semper , quod verum est , certo cognoscere-
Via ergo quaedam ipsi monstranda est , qua tuto ad certitudinem perveniat :
eaque , pro certitudinis varietate , diversa est ; spe ciatim vero triplex,
EXPERIENTIA sci licet, RATIO seu DEMONSTRATIO , et AUCTORITAS , de quibus
singillatim , et quantum res ipsa furet , breviter agemus. Uidquid a nobis
sciri potest , vel singulare est vel universale ( S. 26. seqq. ) ; itemque vel
effectus, vel caussa . Singulares porro ideas sensibus ad quirimus;
universales' vero in 160 Logica Pars II. tellectus abtractione conficimus. Rursus
quaelibet caussa effecluin salte in natura , praecedit , ut in Metaphysica do.
cebimus. Duae igitur cognoscendi viae no bis aperiuntur , altera , quae a
singulari bus ad universalia ; itemque ab effectibus ad caussas ascendit ,
nemp: a sensibus , si ve experientia incipit ; ideoqne dicitur co gnitio a
posteriori: altera , quae ab uni versalibus ad particularia , a caussis ad ef
fectus rationis ope descendit descendit ,, ac proinde vócatur cogniíio a
priori. De illa nunc ; de hac sequenti sectione agemus. Omue itaque , quod
experientiae ope scimus, dicitur COGNITIO A POSTERIORI. Est autem EXPERIENTIA
cognitio adqui sita ex attentione ad obiecta sensibus obvia, Sic per
experieutiam novi'nus aquam made. facere, ignem col fucere , ceram igni admo
tam liquefieri , ct id genus alia. 117. Quum experientia sit in rebus sen sibus
obviis; sensibus auien percipianlur les exisientes sive indiviadua: patet 1. a
uobis res tan tum singulars experimento addisci , * extra eas nsilium alind
esse experientiae obiectum , adeoque 3. eam in abstractiş 2 2 . Cap. Ill. de
Veritate certa ctc. 161 sensus et universalibus locum non habere, licet haec ab
ipsa deriventur. Igi tur 4. qui demonstrationem aliqu am posteriori conficere
vult , is casum singu larein , allegare debet, dummodo experien tia non sit
cuivis obvia ; 5. denique , ex perientia non datur in iis, quorum n ullam
habenius ideam . * Quoniam vero est vel internus , vel externus experientia
quoque est vel INTERNA, vel EXTERNA. Illa habetur qnum nobis ipsis attendentes
aliquid in anima nostra contingere percipimus : e. g quoties nobis malum
aliquod repraesentamus ; toties taedio nos adfici animadvertimus ; haec ve ro ,
si res in organis nostris mutationem pro ducentes percipimus: ut si manu igui
admota, calorem igui inesse observemus. "Experientia rursus dividitur in
VVLGAREM , quae mnibus aeque patet , ut calor ignis, et ERVDITAM , quae
speciali studio, atque adhi bitis necessariis mediis cooficitur , arleoque so
lis innotescit eruditis , ut ' aeris gravitas , elasticitas ctc. 118. Habitus ,
sive promtitudo aliorum vel propria esperimenta colline andi, et ex iis
conlusiones elicianendi, dicitur ARS EXPERIVNDI. Quae quidem ab experientia tam
longe distat, quantum ba bitus dfert ab actu. * Non ergo sufficit unam
alteramye experientiam peragere , aut aliquot instrumenta s ertractan . 162 Logica
Pars II. di peritiam habere , ut experiundi arte prae ditus quis dici possit ,
sed opus est habitn longa exercitatione adquisito , non solum res experimento
subiiciendi , sed propria aliorum que experimenta ad critices regulas exigendi,
atque ex iis conclusiones scientificas , sive corolla ria legitimo rationis usu
deducendi 119. Quoniam experientia sensibus ni titur; ad sensionem autem duo
requiruntur , scilicet mutatio in or ganis sensoriis ab externis obiectis produ
cta , et repraesentatio in anima huic obie cto conformis ( ut in Psychologia
ostende mus ) : consequens est 6. ut sensus , po sitis ad sentiendam requisitis
quam fallant ; * proindeque 7. nos non & sensibus, sed a iudicio , quod ani
ma praccipitanter fert super experientia , persaepe falli. Rinc. 8. cautiones
quaedam ad errorem hunc vitandum adhibendae > num sunt. et Requisita ad
sentiendum tria sunt , orga norum sensoriorum sanitas 2. attentio , 3. justa
obiecti distantia. Quotiescumque ve ro de visu agitur , et quartum requisitum
adesse debet , nempe èiusdem mcdii in ter obiectum et organum interpositio.
Quum enim in visione radii lucis in corporum superficiem incidentes
reflectantur , et in acre prius , deinde in oculi humoribus ac lente cristalli
ua refracti ad retinam usque pertingaat , u Cap. 111. De Veritatė certa etc.
163 hi motum in nervo optico , quod sensationis caput est , producunt : si
partim in aere partim in aqua aliove densiori medio obie clum ponatur , non
eadem erit lucis refra ctio , adeoque non idem locus obiecti parti ' bus
adsignabitur : unde fit, ut illud fractum vel recurvum adpareat. Si ergo
neglecto hoc requisito adparentiam illam pro realitate sumamus , non sensuum ,
sed judicii defectú id provenire , fatendum est. Cautiones , quas inculcamus
sunt 1. ut sior gana sensoria paullo debiliora fuerint, debi tis armentur
instrumentis , 2. ut obiecta in iusta ab organis distantia posita attente ob
serventur 3. ad tot sensus , ad quot redi gi possunt , redigantur. Si cautiones
istae adhibeantur nullus in percipiendis rebus sensibilibus irrepere poterit
error : si vero quae dicta sunt probe attendantur , non in surgent amplius
difficultates , nec erunt qui vetustissimam cipionis in aqua fracti , turris
que emimus rotundae adparentis cantilenam ad nauseam usque repetentes , sensuum
fal laciam ulterius inculcare velint. 120. Quia vero per experientiam sin
gularia tantum cognoscimus sequitur ut VITIVM SVBREPTIONIS incurrant ii , qui
ea , quae minime ex perti sunt , vel quae imaginationi aut ra tiociniis
experientia deductis debentur , pro experientia obtrudunt. * Tales sunt , qui
pliaenomeni alicuius caussam raperientia constare adserdut. Veluti si quis 164
Logica Pars II. ferrum a magnete altrahi videns , experien. tia compertum esse
diçat , ex magnete efflu - via exire ferrurn attrahendi vim habentia , vitium
subreptionis incurret. Quum ergo res singulares tantum modo experiamur; earum
ve ro repraesentatio dicatur idea singularis: recte infertur 10. notiones expe
rientiae ope immediate formatas esse ideas singulares , ut et 11. singularia
iudicia ipsis innixa . * Quumque his nova deducta iudicia non nisi
ratiocinationis ope eruan tur : evidens est 12. haec nova iu dicia di ci non
posse singularia , sed DIANOETICA sive ratiocinantia.Vocantur huiusmodi iudicia
INTVITIVA , quia in his , quae in rei cuiusdain notione comprehensa intuemur ,
eidem tribuimus : ut ignis est rulidus : aqua madefacit. Scholastici ea
vocabant discursiva : ratioci nium namque ab iis dicebatur discursus. E. g.
ignis est cctivus : vapor est elasticus. Quandoquidem indicia intuitiva
conficiuntur tribuendo rei quidquid in ipsi us potione comprehenditur: sequilur
. 13. ut ea conficianlur accipiendo rem perceptam pro subiecto, eique tribuen I
22 . Cap. III De Veritate certa ete. 165 do quidquid attente consideranti in
ipsa occurrit , vel ab ca removendo quod in aliis , non etiam in illa
observatur. * remove * In primo casu habebis iudicium aiens , in secundo
negans. E. g. Ignem percipis eique calorein inesse observas . Sume ergo ignem .
pro subiecto , calorem pro attributo , et ha bebis iudicium aiens : ignis est
calidus. Contra quia alias observasti aquam madefa cere , id vero in igne non
intueris : ab igne hoc attributum , eritque indiciun negans : ignis non
adefacit. 123. Quemadmodun autem enunciatio . nes particulares in universales
comunitari possunt: ita , quamvis notiones et iudicia ab experientia deducta
sint singularia, commode tamen in u niversalia transmulari possunt , si regulae
sequenies exacte servcolur. 12. Quoniain individua'sunt omnimo de determinata (
$ . 18. , et variis circum stantiis involuta: 14. at tente separari a re
percepta debent acci dentia sive modi ab attributis essentialibus, quibus
tantumu modo est attendendun : 15. allributa haec essentialia onipibus
speciebus vel individuis 166 Logica Pars II. convenientia abstractionis ope
retinenda , atque inde notae characteristicae depro mendae sunt , quae ad rem
illam ab a liis discernendam sulliciant . Hi quidem ermut characteres
definitionis a posteriori ex in dividuis casibus eruendae. 125. Vt antem
operatio recte procedat, oportet 16. tot facere iudicia intuitiua quot res ipsa
percepta suppeditat , 17. ac cidentia omittere , 18. attributa , quae non
seinper eadem sunt , determinationis bus particularibus liberare , ac tandem
19. plura ea in re adducere exempla magna pe sollertia attendere in quibus
perpcluo conveniant , aut inter se discrc pent. * E. g. Vt scias quid sit
commiseratio , ob serva casum aliquem , in quo videas te , aut alium alterius
commiseratione percelli. Ad duc et aliam huius modi speciem , aut plu res etiam
, si id res exigat , videtoque cir cumstantias , quae sunt perpetuo similes.
Hoc modo in notescet tibi commiserationis idea universalis , cuius notae
definitionem suppe ditabunt realem , commiserationem nempe es . se tacdinm ob
alterius infelicitateir. Conf Wolfi. Log. Lat. §. 492. 126. Nunc quo modo
iudicia universa lia a posteriori coulcianlur , observemus. Cap. III. De
Veritate certa etc. 167 Quia ab experientia oriuntur iudicia intuitiva:
videatur primum , num praedicatum sit attributum rei perceptae essentiale : quo
casu enunciatio erit uni versalis ( $. 68* ). Deinde experientiam multoties
repetendo dispiciatur , utjum at tributum illud rei perceptae perpetuo et
costanter insit. Quod si non semper illud inveniatur , investiganda est ratio ,
cur in ea aliquando deprehendatur , eamque biecto addendo , indiciuin enascetur
uni versale ( 5. 69. ): * Ita e . g. esperientia novimus , igni semper calorem
inesse , ceram autem non seinper es se liquidam . Iudicium ergo ignein esse
cali dum erit universale : at non universaliter ius ferre poterimus ceram esse
liquidam ;sed opor tet invenire rationem cera aliquando liguescat , quae quun
sit in igne , cui tunc admovetur , hac subiecto addita , universalis orietur
ennnciatio : cera igni admota li quescit. cur > 1 127. Philosophus interim
in rerum ca ussis et rationibus investigandis studiose versatus regulas quasdam
sequa tur oportet , ut veriiates ex experientia de ducere queat. llae regulae
sunt : 1. Si in obiecto aliquo mutatio observetur , qun ties obiecto alteri
iungitur , idquc con 168 Logica Pars I. stanter : tunc hoc esse illius caussano
3 tuto concludi potest. * 2. Si duo vel plura , licet perpetuo , coexsistere
wel se mutuo sequi observeniur , sta tim inferre licet , unum esse alterius ca
ussam , nisi prius recta rario sic esse convicerit. non * Id clare patet
exemplo cerae liquentis igni , aut solis radiis admotae. ** Si ergo bellum
simul cum cometa existat , vel eumdem sequatur: praecipitantia erit iu dicare ,
hunc esse caussam illius. 21 . 128 Ex quibus omn : bus clare deducitur 20
propositiones ex experientia legitime uistitala confectas esse certo veras ;
quouicumque sensioni omnibus requisitis in stuctae convenit , pro certo haberi
, adeo . que 22. et definitiones experientiae adiu mento legitime efformatas ,
et 23. axio mata vel postulata ex his de ducta itidem certitudine pollere. Rationem definivimus per facile tum distincte
perspiciendi. Il la ergo utimur si qnando enunciationem , de cuius veritate
iudicium ferre volumus , ita cuin aliis connectimus , ut inde ter minorum nexus
ctare perspiciatur : id ve . ro est , quod dicimus COGNITIONEM A PRIORI.
Connexio isthaec vocatur DEMONSTRATIO , cuius est veritates ex certis
principiis per legitimam ratioci nandi seriem eriiere ( š. cod. ) . SERI ES
porro RATIOCINÀNDI habetur , si ex pluribus syllogismis invicem connexis
conclusio prioris sit praemissa sequentis ut inox adparebit: qni quidem
SYLLOGIS MI CONCATENATI dicuntur. 130. Ex quibus nullo negotio sequitue 1. in
omni demonstratione duo requiri , nempe principia demonstrandi certa it in :
dubia , eorumqne cum conclusione coone xionem . Et quia experientiae rite
institu definitiones , axiomata et postulata T. 1. tae , 2 > H 170 Logic .
Pars II. certitudine gaudent ( s. 128. ) : infertur 2. ea ad eiusmodi principia
esse referen da , proindeque 3. illum adserta sua nou demonstrare , qui ea ex
incertis dubiisque principiis deducit. 131. Quia vero duplex cognitio datur , a
priori scilicet , sive per rationem ; et a posteriori , seu per expe rientiam:
sequitur hiec 4 . duplicem quoque dari demonstrationem, earoque vel A PRIORI
confici vel A PO. STERIORI : illam haberi , quando veri tatem aliquam a principiis
legitime connexis deducimus , vel effectum per suas caussas probamus ; si quando
eam ex experientia reete institu ta , vel caussam per suos effectus demon
stramus. ** Quum ergo a priori demonstrare volumus , principia statuamus
necesse est , antequam ad syllogismorum concatenationem deveniamus. Id darius
fiet exemplo. Ponamus hanc proposi tionem : Deus caret adfectibus. Eam a prio.
ri sic demonstrabimus. DEFINITIONES. 1. Deus estens perfectissimun. 2.
Intellectus perfectissimus est , qui omnia * hanc vero , sibi distinctissime
repraesentat, 3. Appetitus sensitivus est. qui oritur ex idea boni confusa. 4.
A'fectus sunt motus vehementiores appe 1. tu sensitivi. Cap . II!. De Veritate
certa etc. 1 . ) : sed era mo AXIOMATA. 1. Ens perfectissimum gaudet in
tellectu perfectissimo. 2. Distinctissima omnium repraesentatio ex cludit quamcumque
idearum confusionem . THEOREMA. Deus caret adfectibus. DEMONSTRATIO . 1. Ens
perfectissimum in tellectu gaudet perfectissimo ( ax. Deus cst ens
perfectissimum ( def. 1 . ) ; go Deus gaudet intellectu perfectissimo. 2.
Quicumque intellectu gaudet perfectissi omnia sibi distinctissime repraesentat.
Deus vero gaudet intellectu perfectissimo ( num. 1. ) : onania ergo sibi
distinctissime repraesentat. 3. Qui omnia sihi distictissime rapraesentat ,
ideis caret confusis ( ax. 2. ) : at Deus om niasibi distinctissime
repraesentat. ( num . 2 ) : ergo Deus caret ideis confusis. 4. Ab ideis boni
confusis oritur appeti !us ser sitivus ( def. ? . ) : quuin ergo Deuts careat
idcis confusis ( num .' 3. ) ; liquet , eum care re quoque appetitus sensitivi.
5. Qui appetău caret sensitivo , is caret adfe clibus ( def. 4. ): atqui Deus
carct appetitie sensitivo ( num . 4. ) : ergo Deus caret adfe ctibus. Vides hic
syllogismorum connexione a principiis ceriis deducta confectam esse
demonstratio nem . ** A posteriori demonstratur animae in nobis exsistentia hoc
modo. EXPER. Si nobis ipsis attendamus , obserica biinus , aliquid in nobis
esse , cuius ope nosa H 2 172 Logic. Pars. II. metipsos ab aliis rebus extra
nos positis , inter eas vero alias ab aliis distinguiinus , boc est nostri
rerumque extra nos positarum conscii sumus. DEFINITIO . Id. ipsum , quod nobis
sui rerumque extra se positarum est conscium , dicitur anima. TIIEOREMA.
Exsistit in nobis anima. DEMONSTRATIO. Experientia enim constat , aliquid in
nobis esse nostri rerumque extra nos positarum conscium : id ipsiin autem est
quod dicitur anima ( per defin. ) : e: c sistit ergo in nobis anima. Demonstratio
iterum est , vel D. RECTA sive Ostensiva * vel INDIRE DIRECTA seu apogogica.
**. Illa est qua ex notione subiecti colligitur eius nexus cum attributo ; haec
autem in qua oppositum tamquam verum assumen tes , conclusionem falsam inde
deduci mus , ut propositionis nostrae veritas elucescat. Directa ergo erit
demonstratio , si ordinem sequatur hactenus explicatum ( $. 131. , si ve a
priori sil , sive a posteriori : ut videre est in superadductis exemplis ( $:
131 " ); ** Indirecta demonstratio vocari quoque solet redactio ad
impossibile vel ard absurdum , quia oppositam propositionem ut veram alla
sumens , ex ea absurdum aliquod , sive cou clusionem impossibilem, eruit. Talis
crit de monstralio scyueas. THEOREMA. Nibil est sine ratione sufficiente.
DEMOSTRATIO. Ponamus aliquid esse sine ratione sufficiente. Ratio ergo , cur id
sit aut fiat , erit in nihilo : adeoque nihilum ex sistet simul , et non
exsistet. Essistet , quia aliter non posset esse caussa alterius : non exsistet
, quia aliter non esset nihilum . Quod quum contradictionem involvat , sitque
ideo impossibile : ergo nihil est sine ratione suffi ciente. 133. Ex hactenus
dictis patet 1. quam cumque propositionem legitime demonstra tam esse certo
veram idest certitudine gaudere metaphysica , proindeqne 2. de inonstrationem
csse viam ad certitudinem perveniendi praestantissimam . Quumque ex perientiae
et demonstraționis excellentiam ostenderimus : ' recie concludi mous 3.
veritatem certain dici . dubia ' sensione , vel evidenti principio ni titur ,
dummodo in demonstrando CIRCU LUS non irrepscrit. In hoc vitiuni incurrunt ii ,
qui propositio nem probantem demonstrant per propositio nem probandam : quia in
tali casu idem per idem demonstratur. Huic adfiuis est illa , quae a
Scholasticis adpellari solet PETITIO PRINCIPII , nempe quum principium de
monstrandi vel nullum est , vel nulla certi tudine aut ' evidentia gaudet. Huiusmodi
sunt pleraeque enunciationes Epicuraeorum , Pla quae in H 3 174 Logic. Pars Ir.
quis tonicorum , Stoicorum , aliorumque, de bus in Metaphysica erit disserendi
locus. 134. Quoniam autem in detegendis per demonstrationem veritatibus ordo ,
sive methodus requiritur : ne longius hic pro grediamur , de ea sequenti capite
, prout res exegerit , breviter enodateque tracta bimus. R Elite ut de AVCTORI
TATE pauca dieamns . Ea non scientiam , ut experientia et rutio ; sed FIDEM
parit. Est autem FIDES : ad sensus propositioni datus , alterius te stimonio
itinixus. Ex quo patet , rationem fidei sufficientem esse narrantis auctorita
tem. Quumque auctoritas vel Divina sit , vel humana : fides quoque in DIVINAM
et HVMANAM recte dispertitur. 136. Ex qnibus liquido infertur 1. fidei
fundamentum in eo consistere , ut narrans taliasit , qui nec falli nec tallere
possit ; ac proinde 2. eo firmiorem esse fidem quo certiores sumus de scientia
et veraci tate narrantis. Et quia Deus est omniscius Gap. VI. De Veritate certa
175 et infinite verax , quippe in quem nulla cadere potest ' imperfectio ( per
princip ; Theo. nat. ) : evidens est 3. fidem Dic vinam parere certitudinem
omni exceptione maiorem ; pariterque 4. Dei loquentis au ctoritatem esse
fundamentum veritatis com pletum , omnibusque numeris absolutum ; adeoqu 5.
debere nos Deo loquenti ad quiescere , nec umqnam Dei testimonio
demonstrationem ullam opponere , utpote vel falsam prorsus , vel indigestam . *
Non potest enim certitudo certitudini adver : sari , quia si id esset , tunc
contrariarum propositionum utraqua vera esset , adeoque idem simul esset et non
esset : quod quum repugnet, non potest ergo fidei Divinae demonstratio ulla
obiici. Quumque Dei verbum sit fundamentum veritatis com pletum ( num . 4. f.
huius. ) : patet , quam cumque demonstrationem ei adversantem esse falsam. Quandoquidem
autem auctoritas humana fidem parit bumanam, et certitudinem moralem : de ea
pauca adhuc addenda supersunt. Et primo quidem , quum fundamentum fidei sit opi
nio, quam de narrantis scientia bitate habemus; eoque fir mior sit fides , quo
certiores sumus de hu et pro H 4 196 Logic. Pars II. jasmodi dotibus ( S. eod.
) : liquet 6. l dem humanam parere in nobis certitudi Nem moralem completam ,
si non adsit ra tio , cur in narrante aut imperitiain , aut malitiam supponere
possimus : veluti si evidentia scientiae probitatisque indicia de derit si
nihil emolamenti ex iis , quae narrat , perceperit , si ' parratio rectae ra
tioni non repugnet ; si denique pro nar rationis suae veritate dimicaverit ,
vel per secntionem passus sit. * Deinde quoniam non omnes homines eadem
praediti sunt scientia et probitate , nec de his semper certo iudicare possumus
, quum id io so la opinione versetur: exsurgit hinc probabi litas, de qua
paullo post praecepta dabimus. * Postremâ haec conditio maius certitudini mo
rali pondus adiungit: si vero deficiat , liu modo priores adfint circumstantiae
, certilu do vim suam non amittit .. Schol. Nunc in eo sumus , ut explica tae
doctrinae usum paucis tradamus. Qua propter Philosophus noster hos , qui se
quuntur, observet. CANON E S. AMD quidlibet erudite experiundum, nisi
necessariis praemunitusa in strumentis me accedito . Si haec desint, Cap. III.
De Veritate certa etc. 177 aliorum experimenta consulito , dummo do eorum
integritatis scientiaeque con stiterit, atque inde tuas deducito con clusiones.
Si per insrumenta liceat , aliorum experimenta ad examen revo cato ut sacriorem
eorum ideam ad quiras , caussasque facilius investigare possis . * Et quidem
experientia erudita instrumentis opus habet , sine quibus experimenta fieri
nequeunt. Si ergo desint , observationes nul lae erunt : ac proinde aliorum
experimenta consulenda , praemissis cautionibus , quae de eorum veritate
dubitare non sinant. Hinc Physicis admodum necessarius est machina rum
instrumentorumque apparatus , ut phaea nomena observari possint , a quibus ad
caus sas proximas rationis ope concludendum est. 2. Ne phantasiae partus, aut
ratiocim nia ex experimentis deducta pro expe rientia venditato ne subreptionis
ar guaris. *. Quidquid enim imaginationi debetur, reale non est, sed
phantasticum. At in experientia realis rerum exsistentia observatur ; adeoque
qui phantas mata pro rebus obtrudunt , su bripiendo a dsensum extorquere
conantur : et tunc evenit , ut cum ratione experientia pu gnare videatue , de
quo infra sermo erit . Quod sem el expertus es , ne teme ? depromito , sed
experimenta saepius H 5 178 Logic. Pars II. repetens, an costantia sint ,
observato; nec , nisi certior omnino factus, de iis enunciato . Saepe enim
accidit , ut effectus aliqui a cir cumstantiis oriatur accidentalibus , vel
caus sae cuidam externae debeantur. Repetenda er go experimenta , ut diiudicari
possit, utrum principali , an accessorüs caussis , effectus il le tribuendus
sit , adeoque non mirum , si facta semel observatione , effectus productio
propriae caussae non tribuatur, 4. Demonstrationes non nisi certis in dubiisque
principiis superstruito. Ratio ciniorum catenam ne interrumpito ; sed
sequentium veritas ex antecedentibus patefiat. * Eo namque modo habebitur
legitima syllo gismorum concatenatio in qua demonstras tionis essentia sita est
, ut supra diximus. Ne ciedito , quamcumque enuncia tionis probationem pro
demonstratione sumi posse : qaamvis omnis demonstra tio sit probatio. Ex
debilibus enim prae inissarum probationibus exilis enervisque exsurgit
demonstratio cui nihil potest roboris accedere . * Nimiruni demonstrationis
robur a praemis stabilitate , legitimaque connexione procedit , adeoque pro;
earum firmitate con clusionis pondus augetur , vel minuitur. sarumriat , 6.
Demonstratio , ut certitudinem ра talis esto , quae neque per mate riam , neque
per formam ulla possit ra tione convelli . Iunc enim adsensum etiam ab invito ,
extorquebis. 7. Si metaphysicae certitudini expe rientia adversetur ,
haecfallax esto. Absurdum namque foret id exsistere , quod rectae rationi
repugnat. * Eo namque casu duas habemus 'propositiones inter se contradicentes
, alteram singularem , quae quidpiam exsistere pronuntiat , univers salem alteram
, quae idem existere posse ne gat ; adeoque duo haec enunciata inter se
pugnantia ita comparata sunt, ut quod pri mum sensibus perceptum fuisse ait,
illud alte rum solidis rationibus intrinsecus impossibile esse demonstrat. Quum
itaque ab impossibi litate ad non exsistentiam conclusio duci pose sit ( per
princ, Ontol, ): recte colligitúc, in hac collisione rationem vincere, ac
proinde experientiam dici debere fallacem , quippe non experientia , sed
subreptionis vitium rea pse adpellanda. Et hoc universali omnium phi losophorum
consensione pro inconcusso axiom mate habendum est: ut ita Genuensis noster
praecipuum inter suos de veritatis criterio cả nones illum posuerit: Si
intellig :bili evidentiae physica adversetur , FALLAX HABETVR PHYSICA , est
enim haecminor , cui proii # 6 180 Logica Pars 11. + de vals dicere, quam de
intelligibili subdubitan re , quae summa est , acmathematicam parit
certitudinem , par est. Cui deinde subiungit : Fingamus ( quaquam id falsum
keputo , ma thematica evidentia demonstrari terram mye veri: si qui sensuum
evidentiam reponeret , non esset audiendus, nisi matorem minori evi dentiae
praeferre velimus. Art. Lozicocrit Lib. IIT. cap. 3. 15. can 1 , Sed quid , in
quies , alienam auctoritatem in re tam evi , denti confulere conaris? Nimirum
quia canon bic a quibusdam , apud quos Genuensis no stri plurimum valet
auctoritas , nigro lapillo notatus est : ut sciant sententiam nostram non
singularem aut phantasticam , sed ratio De aç unanimi hominum ratione utentium
consensione fultam . cum eius quoque Viri ipsis non suspecti adsertione
congruere. 8. Nihil Divinae auctoritatį opponere fas esto, Quum Deum loquutum
esse con stal , cuncta silento . Huic metaphisicą, certitudo numquam refragator
: sed si per rationem liceat , demonstrationes ad calculum revocato ; * vel si
Dei vera bum explicatione egeat , Ecclesiam in , fallibilem eius interpretem
con sulit o . * Referentes nồs ad ea , quae diximns, quia demonstratio Dei
verbo repugnans fal sa est , dummodo intra rationis fines quaer stip sit
rationes ,iterum conficiautur , e de Cap. IX. De. Methodo. 181 monstrationes ad
calculum revocentur , ut adpareat, undenam oppositio illa ortum duxe rit,
principiisne dubiis et incertis, , an a defectu legitimae connexionis ? * Ratio
huius canonis haec est, Onnis lex eiusdem Legislatoris spiritu est explican da
Si enim leges humanae difficultate aut: ob scuritate aliqua laborent, earum
explic atio et interpretatio tantum a Legislatore , eius que Administris est
petenda , non a pri vatis Doctoribus proprio marte cudenda. Quan to magis ergo
Divina lex quae verbo Dei con tinetur, ab eo qui eiusdem Dei spiritu gau det
est explicanda. Ecclesiam autem Dei spi șitum habere , patet ex ipsis
Servatoris no stri verbis Matth. ult , ubi Apostolis ait Ec ce ego vobiscum sum
omnibus diebus usque ad consumationem saeculi. Et loan. XVI. 18. Cum , venerit
ille Spiritus veritatis ( Pa . raclitus ) , docebit vos omnem veritatem . Quid
quid ergo Ecclesia pronuntiat , assistente su premo animarum Pastore Christo ,
et docente Spiritu Sancto pronuntiat ; adeoque per eana Deus ipse suum
interpetatur verbum 182 Logica Pars. Į1. G A PUT QVARTV M De Methodo . 138. Vum
in demonstrationibus con clusiones ex certis principiis per legitimam
ratiociniorum seriem dedu ci debeant; illa vero series arglimentorum METHODVS
dicatur: non abs re brevem hanc de metho do tractationem doctrinae de
demonstrationis bus subiungiinus. 139. Quilibet experiundo agnoscere po - test
, enunciationis cuiusvis veritatem du plici modo detigi posse , scilicet vel
eam dividendo , et ope analyseosed prima simpliciaque principia perveniendo ,
vel componendo idest , principiis ad conclu siones sensim ac legitimo nexu
progre. diupdo . Vnde clare patet , methodum esse vel ANALYTICAM sive
divisionis , vel SYNTHETICAM seu compositionis. * Methodus ergo anulytica a
principiatis ad principia , synthetica a principiis ad princi piata ( uti
Scholae aiunt ) procedit. Dla composita resolvit. haec simplicia componit, Rem
exemplis illustrabimus. Ad demqnstran dam enunciationem alibi ( S. 131, )
allatam ? Deus earet adfectibus : analytice ita ratio cinabimur. 1. Quicumque
caret appeti tusensitivo , caret @ap. IV . De Methodo, 183 etiam affectibus (
per defin. aff. ) : atqui Deus caret appetitu sensitivo ; ergo Deus caret
affectibus. a, Min. prob. Quicumque caret repraesentatio nibus confusis , caret
quoque appetitu sensi tivo ( per defin. app. ) : Deus vero caret
repraesentationibus confusis, ergo Deus ca. ret appetitu sensitivo . 3 Min
prob. Quicumque omnia sibi distinctist sime repracsentat , repraesentationibus
caret confusis ( est axioma ) : sed Deus omnia si bi distinctissime
repraesentat : caret ergo repraesentationibus confasis. 4. Min . prob .
intellectu gaudens perfcctissi mo omnia sibi distinctissime repraesentat ( per
defin . intell. Quum igitur Deus gau deat intellectu perfectissimo : omnia sibi
distictissime repraesentat 5. Min. prob. Ens perfectissimum intellectu gaudet
perfectissimo ( est axioma ) : Deus autem est ens perfectissimum ( per defin.
Dei ) : ergo Deus gaudet intellectu perfe ctissimo Eamdem propositionem
synthetice demonstravi mus ( $ . 131. * ) . At in gratiam Tironum , quos ad
Philosophiam manuducere instituimus , aliam adhuc dabimus demonstrationem , bre
vem illam , at mathematico more confectam hoc modo: THEOREMA, Deus caret
affectibus . DEMONSTRATIO. Est enim ens perfectism simum (defin. 1. ) , cuius
est intcllectu gaudere perfectissimo ( ex 1. ) , qmniaque 184 Logica Pars ir.
sibi distinctissime repraesentare ( defin . 2. ) id quod omnimodam ab eo idearum
confu şionem excludit ( ax. 2. ), Quum itaque ab idearun confusione pendeat
appetitus sen sitivus ( defin. 3. ) ' , cuius vehementiores motus dicuntur
affectus ( defin . 3. ) : iure colligitur, Deum omnino affectibus carere. Vides
hic , quam bene monuerimus in fine primae partis , maximum atque insignem esse
usum syllogismorum in conficiendis mathema ticis demonstrationibus : atque hinc
patet , quam inepti ad demonstrandum sint ii , qui syllogisınıim eiusque leges
negligunt, et igno rata vituperante 140. Quoniam methodus analytica a dif
ficilibus ad facilia , a compositis ad sim. plicia progreditur ( s. 139. );
synthetica vero a principiis ad conclusiones ( S. eod. ) conséquens est 1. ut
illa in veritate inve nienda , haec in alios docendo adhibeatur ; * adeoque 2.
eruditorum reprehensionem in currant qui ip docendo illam potius, quain hanc
sequi amant. Et quia feracior illa est , haec sterilior ** : novit quisque 3.
docendi ordinem id exigere , ut post quan auditoribus synthetice veritas fuerit
explanata , iisdem "analytice modus . indi cetur , quo fuit ab auctore
inventa . Analyticam enim methodum in docendo ad bibere idem esset , aç
opposita et difficili ti 9 Cap. IV . De Methodo. 185 rones ducere via , eosque
ad veritatem vel numquam , vel raro admodum pervenire ** Feracior quidem est
analytien methodus quia singula ad examen revocat , minuta quae que considerat
, atque possibiles omnes fin git casus , inde ab hac quasi sylva conserta ,
enodatis extricatisque ambagibus , ad rem ipsam perveniat ; synthetica vero
sterilior , & generalibus namque principiis brevi atque ex pedita via
pergit conclusiones. Eadem autem ratione illa difficilior , haec facilior est :
adeoqne illa viatori tramitis inscio , qui di vinando et om nia tentando
difficiliter quo tedebat pervenit : haec eidem perito similis , qui brevi
apertaque via iter conficit , et finem ideo suum cito consequitur, 541. Iam ad
melhodi leges , tum utri que communes cum alterotri peculiares , tradendas
accedamus. Eas aliquot complc clemur regulis ; quarni quinque genera les ,
ceterae vero speciales sunt, analyticae praesertim methodo inserviturae. Quicum
que igitur veram : methodum in veritatis investigatione cailere cupit , hos
rigides servet . 186 Logica Pars. II. CANON E S. I. Q Votiescumque ad demonstrandum
accedis , cur ato , ut a facilibus notisque incipias , indeque ad ignota et
difficilia gradatim progrediaris. Prin cipia itaque solida , ideasque selig ito
medias , atque ea semper cordi habelo * Est haec lex , quam inculcavimus ( $.
130. ) et alibi retulimus. In -singulis ratiocinationis gradibus eamdem semper
servato evidentiam , ut altei um ab altero derivari clare sentias. * * Ita
vitabitur paedantismus , hoc est inutile illud memoriae pondus iudicio
destitutum , et in minimis quibusque sectandis vanam quae ritans gloriolam , de
quo vide supra Part. I. Cap . 3. Schol. Can. 4 3. Stilo utitor facili , ac
naturali , non oratorio vel ampulloso. Verborum tantum , quantum ideis clare
exprimen dis satis est adhibeto : nec , nisi in ideis claris , quidquam tentato.
* Verborum enim copia ignorantiae confusioni sve indicium est : quae namque
ignoramus vel confuse scimus , ea nimia verborum cir cuitione explicare
cogimur. Cap. IV. De Methodo. 187 4. Argumentum pertractanduſ ab am biguitate ,
si quafuerit , liberato prius ; deinde in tot membra dividito , quot ca pax est
: singula attente examinato ac definito : * omnia clarissimis explica to verbis
, ac quaestione quam simplicis sime exprimito . * Prae oeulis tamen habeantur ,
quae de de finitionibus diximus Verba : quce obscuritatis aliquid habent ,
adcurata definitione dctermina to , in eoque semper sensu adhibeto. * Confer
quae diximus SS. 5. 46. De methodo analitica livec habeto : 6. Ad veritatem
inveniendam , quae stionemve solvendam , ne nudus princi. piorumque inscius
accedito : num sorida cognitione ad id paratus advenias , se dulo perpendito. *
Sinamque incapax principiisque destitutus rem aliquam adgrederis , fieri non
poterit , quin inepta et ridicula effutias. 7. Quaecumque cum proposita quae
stione aliquam habent connexionem di 古 88 Logica Pars II. ligenter exquirito : omnes possibiles ti
bifingito hypotheses : quaecumque ei lu men adferre possunt , ne rciicito sed
Omnia simul colligito et comparato. 8. Principia quaeque atque ideas mutuo
conferto: omnium relationes perpendito efinesque sectator , eaque , superflua
de mendo in parvum referto numerum . Omnia deinde corrigito diuque considera to
, ut tibi familiaria fiant. * Speciatim vero principiis diu haereto.
Repetitione namque attentio renovatur ius ope ideas meliores fieri docuimus F.
19. Schol. Quas de syudetica methodo tradenda forent , ea partim a nobis incul.
cata sunt, partim infra , ubi de modo alios docendi sormo erit , enodabuntur .
Si quis autem metho dum hanc callere cupiat, is Christiani Wolf fii tractatum
de methodo mathematica , universae Matheseos elementis * praemis-. sibi curet
reddere familiare CU sum * Exstant haec 5. voluminibus in 4. excusa Ha lae
Magdeburgicae. Cap. V. De Veritete Probabili. GA P VT QUIN T V M De Veritate
probabili -542. o 142 Eritatein dici certam mnia adsunt requisita quamcum que
oppositi formidinem excludentia , su pra docuimus. At intellectus nostri
infirmitas persarpe impedimento est, quo minus nobis illa veritatis indicia pa
. teant ita , ut veram absque ulla oppositi suspicione perspiciamus. Hinc ergo
est , cur in praesenti capite de probabilitate , quantum satis erit , dicere
instituerimus. 143. Est autem PROBABILITAS status mentis ex indiciis
insufficientibus verita ti adhaerentis , cum aliqua tamen op positi formidine,
PROBABILIS ergo di cilur enunciatio in quc adest ratio in sufficiens , cur
praedicatum subiecto tri bu atur. * Ita Cicero pro Milon. cap. 10 probabilibus
argumentis probat , Clodium Miloni insidias struxisse. Ait enim : Clodium
dixisse , Milo nem esse occidendum ; 2. eum Miloni neces sarium iter Lanuvium
facienti obviam ivisse , 3. idque itinere effecisse maxime expedito , et
praeter consueludiuem ; 4. servos cu: n les lis ante fundum suum collocasse.
Probat id 190 Logica Pars I. esse > in quidem , sed probabiliter , insufficientibus
quippe indiciis , adeo ut aliqua adhuc adsit oppositi formido. Ex quibus
definitionibus clare de ducitur 1. eo probabiliorem esse proposi tionem , quo
plura adsunt veritatis indicia 2. dici vero DVBIAM , si ex alterutra parte
aequalia fuerint rationum momenta, adeoque 3. IMPROBABILEM qua paucissima
inveniuntur ; quibusque e contrario fortiora indicia opponuntnr ; 4. omne
probabile , esse quoque possibile , quamvis 5. non omne possibile dici pro
babile possit . * Probabilitas enim supponit possibilitatem : quum enim
probabilitas veritatis alicuius exsi sicntiam indicet , exsistere vero nequeat
, cui deest possibilitas , liquet, tunc de pro . babilitate qnaestionem
institui posse quum rei possibilitas firmata sit: ut ita qui eam esse im
possibilem demonstravit , uihil aliud oneris habeat , omnemquede probabilitate
contro versiai tollat . Possibilitas autem non infert probabilitatem : nam quum
possibile sit , quod non involvit contradictionein ( per princ. Onol. ) , non
ideo probabile dici potest , nisi quaedam adsint circumstantiae , quae id
revera exsislere evincant. 145. Quia dantur enunciationes probabi les,
sillogismus autem propositionibusconstat: liquet 6. Cap. V. De Veritate
Probabili. 191 dari quoque syllogismum probabilem . Et quia couclusio
sequidebet partem debiliorem; debilior vero est pro positio probabilis , prae
certa : consequens est 7. ut conclusio sit probabilis, si alte rutra
praemissarum talis sit . Sed quoniam conclusionis vis est aggregatum virium
praemissarum (s . 82. seqq . ), infertur 8. ut si utraque praemissarum sit
probabilis , conclusionis probabilitas minuatur pro sum ma graduum , quibus
illae a certitudine recedunt. * Denique quum demonstra tiones coficiantur ex
syllogismis concatena tis , quorum unus ab altero vim sumit: evidens est 9.
integram de monstrationem , in qua vel una probabi lis propositio irrepsit ,
non esse , nisi 7 pro babilen. * Certitudo namque in philosophicis se habet ,
ut aeqealitas in mathematicis. Sicuti ergo ae qualitatis nulli sunt gradus ,
ita et certitudi nis. Probabilitas autem maior est vel minor provt minus
magisve a certitudine recedit,ut et inaequalitas servata proportione. Ponamus
ergo certitudinem constare gradibus 12. Si una prae missarum tantum certa sit ,
altera duobus gradibus ab ea recedat , habebimus conclu sionem probabilem
duobus dumtaxat gradi 192 Logica Pars II. Io bus a certitndine distantem : tunc
enim ma ior erit Ei , minor - , quibus addie tis , babetur in conclusione summa
= 2. quae duobus tantum gradibus ab unitate , sive certitudine diftat. Ponamus
porro prae missarum unam ita probabilem esse , ut duo bus gradibus a cerit
udine deficiat , altera ve ro tribus ; habebimus conclusionem sive summam
fractorum et E quae quinque gradibus ab uuitate pe a certitudine recedit , quot
deerant in am babus praemissis. Dem . 146. His generatim expositis , ad pro
babilitatis species transeamus. Probabilitas recie dividitur ib HISTORICAM,
PHYSICAM, POLITICAM, PRACTICAM, et HERMENEVTICAM . De singulis pau ca
delibabimus. A probabilitate differt OPINIO , quae est propositio
insnfficienter probata , scilicet a principiis nondum certis , et precariis
dedu cta, quae ideo est mutabilis , ac proinde po test ut plurimum esse falsa :
unde opinio di viditer in PROBABILEM , et IMPROBA, BILEM , prout principia sunt
prout princi pia sunt probabilia , vel precaria , omni nem pe rationis auxilio
destituta. Sap. 7. De Veritate probabili. He completanarratio eae De
probabilitate historica. SISTORIA, est factorum fidelis et . Eius au ctores
sunt homines : fidem ergo parit hu mapam. Homo vero factum aliquod fideliter et
complete narrans , HISTORICUS vel TESTIS dicitur. Sed quia aliorum narrationes
neque experientia , nec demonstratione ad examen revocari possunt ob vitae
intellectusque nostri brevitatem mentisque imbecillitatem , nec de omnium
probitate certo constare potest: quando ` id in sola opinione versetur , non
certitudinem , sed probabilitatem in nobis gignunt. Quumque hominum aucto
ritate freti adsensun historiae praebeamus : evidens est , historicae probabilitatis
funda mentum esse fidem humanam . * Ut autem narratio historia dicatur , dcbet
non modo esse fidelis , hoc est res clare , eoque , quo contigerunt, ordine
narrare , sed completa etian ', omnia scilicet factorum adiuncta ,
circumstantias , relationes , caussas ; et fines amplecti.Hinc Cicero Historici
perinde, ac Oratoris dotes paucis expressit, nempe talem esse debere ne quid
falsi dicere audeat ne quid veri non audeat.Quia fides aliorum testimonio in
nititur, estque fundamentum pro babilitatis historicae; homines autem ob
ignorantiam malitiamve , aut fal li aut fallere possunt , ut experientia testa
tur : consequens est , ut ad adsequendam probabilitatem historicam cautiones
quae dam adhibendae sint , quibus testium an ctoritas , factorum genuinitas ,
natrationuin qucque veritas dignoscatur. eam * Hinc ergo enata est ARS CRITĪCA
, sive habitus aliorum auctoritatem ad trutinam re. vocandi , recte adhibendi ,
factaque scienter ac sine erroris nota dijudicandi:Tapinps 1 namque indicium
notat. Et quamvis artis cri ticae officium , vulgarem sequuti opinionem , infra
ad solum librorum examen atque in terpretationem restringamus ; non ideo no
bilissimam hanc artem cancellis adeo angu stis coarctare volumus ; sed quidquid
de usi auctoritatis , rernm gestarum examine ac in dicio dicenda sunt , ea ad
artem criticam : pertinere , qnisque sciat : id quod semel pro sem per
observandum . 119. Quia ergo in omni narratione tria considerari possunt ;
narrans nempe , bar ratiun , et ipsa narratio : hinc est , ut in fide humana ad
tria potissimum attendi so leat , scilicet i . ad homines narrantes, ad res
narratas , 3. ad modima parran di . * Ab hominibus nunc ordiamur. * Atque in
his , quae sequuntur , regulis tam historicam , quam hermeneuticam probabilita
tem respicientibus , nedum librorum genui nitatem integritatsmve expendentibus
, gene rales totius críticae leges ad singulares spe cies et circumstantias
adplicandae consistunt, in quibus addiscendis eo maiorem operam collocare debet
, qui philosophi nomen tue ri cupit , quo frequentius in evolvendis li bris ,
factisque diiudicandis erit ei , re exi gente , versandum, Quoniam hominibus ,
licet eadem natura , non cadem tamen est perspicacia, mcrumque probitas , nec
omnes iisden sensibus eamdein rem percipere possunt (per cxper. ) ; hoinnes
autem factum aliquod narrantes testes vocantur 147. ) : patet in quolibet teste
tria concia derari posse , scilicet INTELLECTVM, VOLUNTATEM et SENSUS, Si
intellectus spectetur , testesa sunt vel PRVDENTES ac PERSPICACES , yet RVDES et
IGNARI; si VOLVNTAS ,idem sunt vel NEVTRI PARTI, vel VNITANTVM faventes ,
itemque vel PROB!, vel IMPROBI; si denique SENSVS, sunt vel I 2 ATI 196 Logica
Pars II. OCVLATI, qui factum quod narrant ocu lis perceperunt , vel AVRITI ,
qui illud ab aliis audiverunt ; et hi denno vel Co AEVI sunt , qui eodem facti
tempore vi xerunt , vel RECENTIORES qui id postea ab aliis acceperunt. Sic Livius inter testes prudentes est referen
dus : multo namque po!lebat iudicio. Idem tamen Romariorum parti favebat ,
quippe Romanus et ipse. Tandem factorum , quae sua aetate evenerunt , testis
coaevus , eorum autem , quae ante conditam condendanıve urbem , ac per tot
saecula ad sua usqne tem posa accidisse tradebantur , recentior dicen dus est.
152. Ex quibus omnibus patet 1. in fa cti alicuius narratione , quod
attentionem iudiciumque requirit , homines prudentes et perspicaces rudioribus
ignavisque esse antehabendos ; promiscue vero se habe re in rebus solis
sensibus , non etiam iu dicio , indigentibus , dummodo in illis af fectus
partiumve studium non metuatur : tunc enim rudiorum testimonium proba bilius
erit ; 3. testes neutrales alterutri parti faventibus recie pracferri , nec non
4. oculatos auritis , 5. coaevos recentiori . bus , inter auritos autem prudentes ru dioribus ,
eos tamen , ad quos ex oculato Cap. IV . De Veritate Probalili. 197 nullam esse
, fide digno magnaque auctoritate pollente facti fama pervenit , ceteris
incerto alio . quin rumore ductis esse anteferendos , ac denique 8. coaevi
testimonium plurium contestium narratione augeri , cui nescio quidnam ad
probabilitatem ultra deesse possit , 153. Quod altinet ad res ipsas narratas
síve facta ; observandumu 9. probabilitatem si circumstantiae adsint sibi
invicem repugnantes ;nihil enim impossibi le potest esse probabile ( S. 144. )
; 10 . nullam quoque esse probabilitatem , si testis unicus factum aliqnod
insolitum et mira bile narret : licet 11. probabilius id ha bendum sit , si a
pluribus probatae fidei viris unico contesta narretur ; 12. nulla itidem probabilitate
gaudere , narrationem, quae claris rationibus -aperto repugnat ; 13. non idem
tamen dicendum de ea , quae moribus opinionibusque nostris ad versatur , ***
nec 14. si caussa modusque ignoretur , aut vim artemque nostram su peret. Sic
pleraque prodigià ab uno Livio narrata nullam merentur fidem , utpote omni
proba bilitate destituta : veluti quod scribit Lib. 1. ca. 12. post pugnam
Romanorum cum Albanis , Tullo ' Hostrilio Rege 1 factam , I 3 198 Logica Pars.
II. in Monte Albano lapidibus pluisse ; vel quando , Tarquinio Prisco regnante
, Au guris Attii Nevii cotem novacula discissam refert Lib. I. cap. 25. : id
enim mirabile quidem et insolitum , sed a Livio tantum relatum . Qua de re iure
idem Historicus de his , fimilibusque factis improbabilibus vocabulo ferunt
fidem suam sartam tectam servat , non modo singulorum narratione, sed et in
historiae suae proaemio, ubi cas ideo nea adfirmare, nec refellere velle
fatetur , ut potc poeticis magis decora fabulis , quam incor. ruptis rerum
gestarum monumentis confirm mata . nempe Lu nam ** Huiusmodi sunt fabulae illae
, quibus Mu hamedanum scatet Alkorauum , a Muhamede bifarian digito divisam
partemque in vestis manicam delapsam iterum in coelum repositam ; palmae
eiulatus in eius absentia , et id genus alia. > *** Sunt enim , mores pro
regionum ac tem porum varietate , varii. Quidquid ergo mori bus nostris turpe
est , fortasse apud alias Gentes honestum erit , et quod nostro sae culo nefas
habetur id licitum esse alio : tempore potuit. Quis enim ut cum Cornelio Nepote
loquamur , non vitio verteret The bano Epaminondae, saltasse eumcommode
scienterque tibiis cantasse ? Et tamen haec aliaque nostris moribus indecora
inter eius virtutes commemorantur. Nepos. in Proem. Cap. V. De Veritate
probabili. 199 154 Quoad modum narraudi tandem , id sedulo advertendum , facta
stilo simplici non oratorio aut poetico , narrari debere. Si itaque simpliciter
atque historice nar ratio scripta legatur , maiorem meretur lidem , quam quae
poeticis pigmentis aut oratorio fuco lasciviens aures demulcere conatur. SECTIO
II. De Probabilitate physica , politica , et practica. 153.TJAEc de fide humana
, quam qui ritatis praeiudicio occupatus conseri debet . Ad alteram nunc
probabilitatis speciem ac cedamus , nempe PHYSICAM ; quae ha betur , quum ex
pluribus phaenomenis ad caussam aliquam physicani concludimus, cui illos
tribuimus effectus. Gravesandius eas vocat hypotheses. 8 Probabile est , fluxum
maris à lunae solisque attractione pendere: nam ex plurie . bus phaenomenis
hanc illius caussam ess posse , compertum est. Ad physicam probabilitatem eruen
dam quatuor adhibendae sunt cautiories : 1. ut phaenomenon adstumtum sit
certum, eiusque distincta idea , aut clara saltem , habeatur , ne chimaeram pro
re , aut nu bem pro Iunone amplectamur ; 2. si phae nomenon illud sit ab alio
relatum ad historicae probabilitatis regulas, tamquam ad lydium lapidem ,
exigatur : 3. eius porro caussae omnes pose sibiles investigentur , et.cum
phaenomeno conferantur ; ac denique 4. ex iis una plu resvc adsumantur, quae
cum omnibus cir cumstantiis apte conveniant . * Quum autem doctrina haec ad
Physicam fa cultatem pertineat : sufficiat de ea quaedam tantum hic notasse :
commodius enim in Phi. sica tractabitur. POLITICA probabilitas ea est , qua ex
alicujus personae phaenomenis in dolem animi arguimus. ' Quumque in ex
propensiopuni signis ad ipsas propen siones concludamus : evidens est tracta
tionem hanc ad Ethicam potius , quam ad Logicam pertinere : adeoque non mirum ,
si eam inoffenso pede oniittamus. ea Ut clarius politica probabilitas intelligi
pos sit , sumamus e. g. aliquem , in quo vultus hilaritas, iocandi studium ,
corporis mobi litas , laboris impatientia , prodigalitas' , in constantia ,
garrulitas etc. observentur : non ne eum statim voluptati deditum esse con Cap .
V. De Veritate probabili. cludes: Haec erit probabilitas politica. Lega tur
interim Cl. Heineccii dissertatio : Dein cessu animi indice. Quae de
probabilitate PRACTICA dici inerentur , ea fusius persequuti sunt Andreas
Rutigerus in Lib. de sensu peri et falsi. III. 8. , et Ludovic. Mart. Kallius
in Elementis Logicae probabilium Nos paucis rem expediemus. Eam Rudige rus
vocat , qua ex physicis vel moralibus principiis futurum aliquem praedicimus
even tum . Quod quum in practica casuum si milium expectatione consistat ,
eaque ex pectatio vocetur analogia evidens est practicam probabilitatem recte
adpellari ARGUMENTUM AB ANALOGIA ; id quod maximo apud Politicos usui esse
solet . * * Politici namque in gubernandis rebus publi cis probe versati
probabiliter unius aut alterius Regni praedicunt eversionem , propte rea quod
aliae res publicae post easdem cir cumstantias subversae sint : adeoque a simi
Jium casuum exspectatione practicam eruunt probabilitatem . CA habetur , quum a
quibus dam in Auctoris scripto obviis eius sen. surn eruimus . Saepe enim
accidit , ut in auctoris alicuius interpretatione quaedam occurrant , quae
multiplicem sensum ad mittunt : tunc ex auctoris fine , verborum significatione
, locorumque collatione pro babiliter colligitur , quidnam auctor ille voluerit
intelligere, idque fit ope ARTIS HERMENEUTICAE, quae definiri potest per
habitum Auctorum loca interpretan , di , sive eorum sensum eruendi. SENSUS
AUCTORIS est ceptus , quem scriptor vel loquens vult in legentium auditorumve
animis per ver ba produci. Auctorem ergo interpretari dicimur , qumun ex legitimis
principiis eius sensus investigamus. Et quia ars hermes neutica est facultas
auctorum loca inter pretandi; consequens est 1 ., ut eius sit genuinum auctoris
sensum erue Te ; adeoque 2. regnlae tradantur , opor tet, quarum ope sensus
ille quam proba, bilius investigari possit, соп Cap. v . De Veritate,probabili.
203 Quumque in his regulis totius Hermeneuticae adeoque et Criticae artis leges
Auctorum in terpretationem respicientes pofitae fint : non mirum , si a
canonibus huic sectioni subii.. ciendis abstineamus , quippe qui superflui
omnino forent, et loquacitatem potius , quam logicam praecisionem arguerent. Quoniam
Scriptoris sensus perver ba significatur: colligitur in de 3. ut interpres
linguam , qua scriptor conceptus suos expressit , eiusque idiotis, mos probe
calleat : adeoque patet 4. falli eos , qui linguam illam ignorantes aliorum
versionibus translationibusque fidunt ; 5. ut ad scriptoris sectam , finem ,
affectus,mu nus, aetatem , gentis suae mores ' attendat : unde 6. integrum
Auctoris systema prae oculis babeat , ac de eo secu dnm dome sticas notiones ,
non ex propriis opinioni bus , iudicium ferat ., quid > * Praeclare id monet
Clericus Arte Critica Part. Il Sect. 2. cap. 2. $. 7. et 8. Opor tct , inquit
Vir eruditissimus , nostrarum opi nionum veluti oblivisci , el quaerere ,
veteres illi Magistri senserint non quod sentire dcbuisse nobis videniur , ut
sape rent. 162. Ex eodem principio fluit 7 inter pretein affectibus ,
praeconceptisque opinionibns omnino vacuum esse debere ; nee 8. Auctoris verba
extra contextum legere aut considerare , sed antecedentia et con sequentia
attente conferre : multoque ma gis y. loca parallela auctoris eiusdem sol
licite comparare , ut quod obscuritatis ir , repserat , statim evanescat .
Quumque ad cognitionis claritatem ac distinctionem om ne momentum ferat
attentio ( m. 19. ) : sequitur 10. ut qui librum aliquem probe interpretari
vult , eum attente atque ordi ne legat , et codicem habere ' curet quam
emendatissimum. ' * Quantum ad librorum interpretationem con ferat editio ,
ratio in promptu est. Videmus enim , quam multis scateant erroribus edi tiones
quaedam ab indoctis ignarisque con fectae typographis , ut Delio saepe notatore
opus habeant. "Nitidissimae prae ceteris sunt editiones a Viris claris ,
qui id oneris susce perunt, effectae, quibus multum iure merita debet
Respublica litteraria, Cop. V. De Veritate probabili. Uoniam magno
Hermeneuticae adiumento est Ars Critica : non abs re fuerit , pauca de hac
illustri arte haud contemnenda degustare. Quam bene de ea meritus sit Vir
multiplici eruditione praeditus Ioannes Clericus , communi sa pientum consensu
probatur. Nos eius du ctu regulas saltem generales nostris audi toribus
trademus ut quantum fieri pote rit , libros genuinos a nothis , integros a corruptis
discernere valeant. Res quidem foret laboris plenissima et satis prolixa , si
Critices distincte praecepta trade re conaremus. Id adcurate cxsequutus est
Clericus , quo'nemo elaboratius eam pertra ctare , operaeque pretium facere
posset. Nos autem tironibus scribentes , notiones maxime genericas jis
suppeditare adlaboramus ; quia, quum perfectum fuerit ipsorum iudicium , et
matura aetas , omnia, quae hoc super argu mento scienda forent , in eodem
Clerico legent. ARS CRITICA est habitus libro Fum genuinitatem et integritatem
diiudi, 20 Logica Pars I. Candi. * Quae definitio ut intelligatur, oportet
claras notiones genuinitatis , et in tegritatis librorum in legentium animis
excitare . * Notandum tamen hic Crilices vocabulum strictissimo iure usurpari',
regulasque ea in re generales tironibus suppeditari : latiori Damque
significatione tam historicam proba bilitatem , quam hermeneuticam amplectitur,
de quibus per summa capita praecedentibus sectionibus sermonem instituentes
praecepta , yeluti per lancem saluram , ex hibuimus. Earum. LIBER GENUINUS
dicitur , qui ab eo , cuius nomen prae se fert ,-. fuit exaratus ; SUPPOSITUS
autem , qui ab alio , quam cuius nomine insignitúr , scripius est. * Liber
dicitur INTEGER , si tantum contineat , quantum Auctor in eo descripsit ,
CORRUPTUS vero al quid ab alio additub sit , vel demtum: speciatin Viro si
additum INTERPOLATVS ; sin den tuni , MVTILVS appel . latur . si 2 * Dici quoque
solet spurius fictus vel fictitius: liniec vocabula ab aliis distinguantur. Sed
non est idoneus huic quaestioni locus, Cap. V. De Veritate probabili. 2014 *
Huius corruptionis quatuor caussas tradit Clericus: nempe Librarios ( dictantes
perin de , ac scribentes ) , Criticos , impostores , tempus. Satis erit haec
generatim scire guia singillatim percurrerenon vacat. 166. Criticae leges ab
eodein Clerico de cem adisignantur. Eas nos sequentibus ex ponemius regulis ,
quas philosophus nos ter observabit. Sequantur ergo . CANONES t . " S
" ppositum habeto librum , qui in vetuslis codicibus alii tribuitur
Auctori ; interpolatum , si in aliis de sideretur, quod in eo reperitur; muti
lum denique, si quae in ipso desunt in antiquis codicibus inveniantur. 2. Si a veteribus
quaedam a libro ali quo exarata sint , ea vero nunc in li eadem inscriptione.
insignito deside rentur : aut alius esto , aili muiilus. Si aliter legantur,
suspeciels. Si vero omnia aptu cohaereant , genuinus esto et inte ger , nisi
alia adsit ratio dubitandi. 3. Liber , cuius nulla fit inentio in veteribus
catalogis , aut a scriptoribus proxime sequentibus , plerumque fictus esto ,
cut saltem suspectus, . 209 Logica Pars I. > 4. Scriptá a veteribus diserte
reiecta, aut in dubium vocata , nequit recentio, rum auctoritas , nisi
gravissimis rationi. bus, , pro genuinis admittere. 5. Liber dogmata continens
iis con trária , quae scriptor cuius nomen praefert , alibi constanter defendit
, ut plurimum aut spurius esto , aut interpo latus. 6. Idem iudicium ferto de
eo , in quo personae , facta , uut nomina com memorantur Auctore , cui
tribuitur , recentiora . 7. Spurium quoque aut interpolatum iudicato librum in
quo controversiae tractantur post Scriptoris tempora na tae , vel adest
scriporis imitatio . 8. Talis quoque ut plurimum esto si fabulis scatens , aut
ineptus , viro docto minimeque imperito tribuatur. 9. Liber stilo scriptus
diverso a stilo Auctoris aut saeculi , in quo ille vixit, spurius esto ,
eiusque censendus , ius stilo est conformis. In . Vocabula recentiora Auctorem
arguunto recentiorem , aut libri interpo Talioncm : in translatione vero , si
ni hil est quod sapiet linguam , in qua scripsisse constat Auctorem , cui
tribyi: utr , translatio non esto , cu * Cap. V. De Veritatc probabili. 209 *
Pluribus hanc doctrinam persequi deberemus, idoneisque illustrare exemplis :
sed res est maximi momenti, et nimis implicata , nec in stituti brevitas eam
disquisitionem patitur. Quivero plura cupit, adeat Clericum in Ar te Critica ,
ubi plurima inveniet suo gustui . adcommodata. Id interim notasse sufficiet ,
in hisce omnibus ad praxin adplicandis ma gna cautione opus, esse ne in
praecipitan tiam , adeoque in errores prono cursu la bamur CAPVT SE X T V M. De
Veritatis inquisitione. 167. Sendus pecialior Logicae usus nunc evol vendus ,
nempe PRAXIS , qua mentis nostrae operationes sint in verita tis investigatione
dirigendae.Veritas inveni tur vel proprio marte, sive per meditatio nem rite
institutam ; vel ab aliis inventa quaeritur et ud trutinam revocatur. Quia vero
nec meditationi , nec bonae lectioni par est , qui hasce lautitias nondum degus
tavit : Logicae est regulas suppeditare quibus mapuducti adolescentes et recte
mea ditari , et libros cum fructu legere dis cant. Quumque nostrum sit
auditorum nos trorum utilitati studere : de duobus his veri tatem inveniendi
modis hoc capite agemns. MEDEDITATIO est conformis co gitationum nostrarum
bonae methodi legibus adplicatio. Meditamur itaque , quum cogitationes nostra's
bonae methodi legibus g . 138. seqq. ) ita dirigimus , ut veritates ex
veritatibus, co gnitiones ex cognitionibus eruamus. Ex qua definitione sequitur
1 . ait quantum diſfert regula ab eius adplica tione , tantum optima methodus a
medi tatione distet , . meditaturus leges quibus bona methodus absolvitur ( S.
141. ), callere debeat ; adeome 3. eo felicius meditetur , quo exactius leges
illas esequitur ; nec non 3. aliquarum saltem veritatum debeat es se gnarus ,
ut ex ijs veritates aljas erue re legitime possit ( S. 167. ) . 5. Tirones ergo
, aliique bonae methodi , veritaium que ignari ad meditandum sunt inepti . *
Cui enim serei principium deest , nullo mo do seriem ipsam , hoc est veritatum
catenam conficere potest. Pari modo qui concatenationis leges ignorat ,
quantumvis veritatum mente te *} Cap, VI. De Veritat. inquisitione. 211 neat ,
nec illas recte disponere , nec ordina tam seriem formare valet. 170. Quia ad
bonam methodum requi ritur idearum claritas ( 5 141. cap. 3. ); ad claritatem
autem confert attentio ( S. 19. ) ;consequens est 6. ut qui feliciter meditari
vult , attenitonem praecipue colat ; quin 7. et praeiudiciis liber et 8. certis
indubiisqoe principiis ( S. 131 ) praemunitus ad meditandum accedat. Quum que
ad principia referantur praecipue de finitiones ( f. eod . ) : recte consequi
tur 9. ut res de qua institui vult mcdi . tatio , edcurate definiatur , f .
141. cap. 5. ) , ac inde novis definitionibus omnia dividantur. El * Serventur
tamen , quae de definitionibus ( Par. I. Cap. 3. ) , et divisionihu:s ( Cap. 4.
) docuimus , et quomodo definitiones ex ex perientia eruantur. quoniam inter
principia etiam axiomata et postulata enumerantur ( S. 130 ), eaque es
definitionibus legitimue eruuntur: liquido infertur 10. medita turo innotescere
quoque debere modum ex definitionibus axiomata eruendi , * ut om nes
principiorum species probe tencat. Quonam autem modo ex unica definitione ar.
iomata et postulata formentur, hic adden dum . Tribus quidem modis id effici
posse certum est : scilicet PARTIS OMISSIONE , nempe quum genus vel differentiam
specificam omittimus. E. g. ab hac definitio ne : Invidia est taedium ob
alterius felicita tem , omitte genus , et habebitur axioma: Invidia respicit
felicitatem alterius : omitte differentiam , eritque aliud axioma : Invidia est
taedium 2. INVERSIONE , si definitio in definiti locum substituatur. E. g. Qui
er alterius felicitate taedium percipit est invi. dus 3. CONVERSIONE , si
aientes pro positiones in negantes convertamus E. g. Qui ex alterius felicitate
non percipit taedium , -non esi invidus ; vel eum , qui non est in vidus ,
alterius feliciiaiis non taedet. Postu lata eadein ratione conficiuntur , si
nempe modus exprimatur , quo quid fieri potest : sed ea melius ex realibus ,
quam ex nomi nalibus definitionibus deducuntur. Sic ex ea dem definitione
habebis postulatum : Invidia excitatur , si invido alterius felicitas reprae
sentetur. 172. Praestructis ita principiis , opor tet il . ut ex eorum
collatione THEO REMATA , vel PROBLEMATA compo nantur , j 12. et unde
consequentiae im mediatae sese offerunt , COROLLARIA deducantur , vel 13. ubi
maiori explicatio ni locus erit SCHOLIA subiungantur. De Veritatis
Inquisitione. 213 Est enim Theorema propositio theoretica de monstabililis,
demonstratio autem ex principiorum collatione conficitur, ut videre est in
superioribus Cap 3 . Sect. 2. et Cap. 4. Hoc modo ex principiis ( §. 171. *
confectis erui poterit theorema : Invidia oritur ab odio , et similia . Pari mo
do quia Problema est propositio practica , eius solutio et demonstratio ex
eorumdem principiorum collatione petitur. Ita ex eisdem principiis orietur
problema : Juvidiam in altero excitare ; cuius solutio haec erit Invidia ex
odio nascitur. Fac er go ut is, in quo invidiam excitare vis , ala terum odio
prosequatur , cuius inde felicita tem ei ostende: ex ea namque taedium per
cipiet , adeoque in eo invidia excitabitur. Corrollaria vero tam ex
indemonstrabilibus, quam ex demonstrabilibus enunciationibus des duci possunt.
Sic ex superioribus axiomatis varia oriuntur corollaria , veluti ergo qui tae
dii non est capax , invidus esse non potest : item ex postulato: ergo ubi non
adest feli citatis repraesentatio, locum non habet invi dia ex secundo item
theoremate ergo qui alterum amat , ei non invidet ; atque ita porro . 173. Haec
omnia vero praecepta , ut aemoriae infingantur , brevissimis ample temur
regulis , quas , qui sequuntur , shibent 214 Logica Pars II. CANONES. ANicquam
meditationem instituas, ipsam quantum natura ipsa fert , exa cte dividito . 2.
Ex definitionibus axiomata , item postulata deducito , atque ab his per im
mediatas consequutiones corollaria con ficito . 3. Plura principia vel
antecedentes propositiones mutuo conferto , et sic theoremata vel problemata
efformabis , ex quibus , quae haberi poterunt , erues consectaria . 4.
Propositiones - inventas bona me thodo legitimoque nexu comparato , et id agito
, ut omnia per demonstratio nes apte cohaereant. 1 * Ita novae orientur
veritates , novaque semper ratiocinia fluent. Perinde ' vero est , qua met hodo
ratiociniorum series in ordinem rediga tur , modo regulae alias ( $. 141. )
propo sitae rite observeutur. Scol. Sint haee satis de meditatione , ei usque
legibus , quae numerosias protra here non fert instituti compendium. Qui Cap.
YI. Da Veritatis Inquisitione. 115. vero longius et distinctius meditandi re
gulas vellet addiscere , ei Baumeisteri dis sertatio de arte meditandi attente
legen da foret , eaque in syccuin et sanguinem vertenda . Interim ad auditorum
nostrorum instructionem hic brevem subiicere praxin censuimus , quo facilius
artem hanc per discere possint. Qua de re eruditissimiVic ri exemplopi
addncemus pulcherrimum . Si quis AMICI characteres sit exploratu. rus , absque
librornm auxilio , sequentem instituens meditationen , haec habibit. § . I. Ex
casuum sin vularium observa tione g . 124. seq . ) critor Amici DEFI TIO :
Amicus est persona , quae nos amat, f . II . Ad definitionis porro notas atten
dens quisque videt , notionem amoris de. finitione indigere. Eodem igitur modo.
hacc noya definitio eraalur. Sic . amare alierum nihil aliud significat , quam
ex alterius felicitatc volup'atem percipere. 6. JIÍ. Ex his definitionibus eo ,
quo diximus , artificio axiomata de dacantur . Et quidem ex prima definitione (
1. ) fiunt AXIOMATA. 1. Amicus al terum amat. 2. Qui alterum non amat non est
amicus.3.Quicumque obligatur ad ali un amandum , ad amicitiam ei praestan 116
Logica Pars 11. dam obligantur.4. Vbi nullus amor , ibi nulla omicitia. 5.
Quamdiu durat amor , tamdiu durat amicitia . 6. Qui efficit , ut ab alio ametur
, eum sibi red dit amicum. Quidquid amorem in altero excitat amicitiam foret.
8. Quid quid amorem impedit , amicitiam tollit. 5. IV. Ex amoris defimtione ori
untur sequentia . 1. Qui alinm amat , ex illius felicitate deleciatur. 2.
Quicumque obligatur ad volupiatem ex aiterius fe licitate capiendan , obligatur
ad alte rum amandum . 3. Qui iubet , ut volup tatem ex a terius felicitate
capiamus , alterum , iubet , ! ť umemus. 4. Quid quid promovet voluptatem , ex
alterius felicitate capiendain , promovet amo rem . 5. Qui illum impedit , hunc
sis tit . V. Collatis inter se duabus illis de. finitionibus , nascitur.
THEOREMA. Amicus alterius feli. citate delectatur. DEMONSTRATIO. Qui alterum a.
mat , alterius felicitate delectatur ( s. 1. ) : amicus alteruu amat ( §. III.
cud 1. ) ; ergo amicus alte rius felicitaie delectatur. 5. VI . Ex quo
inmediata consequutico ne cequentia fluunt, IV. AX Cop. IV . De Veritatis
Inquisitione. 217 COROLLARIA. 1. Anicus ergo ex amatae personaefelicitate nullo
taedio afficitur. 2. Sed potius ex eius infeli citate taedium sentit. S. VII.
In quibus , quum taedii facta sit mentio , perapte addi potest. SCHOLION. Est
autem invidus , qui, ex alterius felicitate taedium percipit misericors vero , quem
alterius infelici. tatis taedet. $ . VIII . Hinc ergo habentur THEOREMA I.
Amicus non est in vidus. DEMONSTR. Invidus enim est , qili ob'alterius
felicitatem taedio adficitur ( S. VII. ) : Quod quum in amico non reperiatur:
amicus " go non est invidus. THEOREMA. Amicus est mise ' icors. DEMONSTR .
Taedium enim percipit x personae amatae infelicitate ) $ . II. or. 2 : ) : quod
quum dicatur coinmise atio ( 5. VII. ) : amicus ergo commi eratione tangitur
erga personum ama zm . § . IX. Nova rursus inde sequenlur COROLLARIA. 1.
Invidus ergo non si bonus amicus. 2. Qui ergo nescit Tom . 1. 218 Logica Pars.
Ij. > novae r'e commiserari alterius vices , eumque ab infelicitate , dum
potest , non vult eri pere , non se dicat amicum . 6. X. Si meditatio continuetur
inde sequentur veritates. Et quidem defi niendo rursus notas voluptatis et
felicita tis , maxima enunciationum seges adpare bit. Sint ergo . DEFINITIONES.
Voluptas sive delectatio est sensus perfectionis. 2. For licitas est status
durabilis gaudii . . XI . Ex quarum prima oriuntur AXIOMAT'A. 1. Delectutio ex
aliqua supponit eius bonitatem ac per feciionem , earumque repraesentationem .
2. Quicumque obligatur ad sensum per fectionis in altero promovendum , obli
gatur. ad voluptatem in eo excitandum. 3. Oui - iubet primum , praecipit secun
dum . § . XII . Ex altera vero fluunt sequentia AXI. 1. Qui alterius felicitate
dele ctatur , ex eius statu durabilis gaudii voluptatem capit. 2. Qui alterius
statum durabilis gaudii promovet , eius felici tatem promovet. 3. Qui illud
iubet , hoc quoque iubet . 4 Quicumque obligatur ad primum , obligatur ad
secundum. 1. XIII . Conferantur definitiones cum antecedentibus , indeque
nasceutur. Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. THEOREMA I. Amicus alterius feli
citatem sibi , tamquam bonum , reprae sentat. DEMONSTR. Alterius enim felicita
te delectatur ( $ . V. ) : quod quum fie ri nequeat , nisi illam sibi , iamquam
bonum , repravsentet. Ergo amicus alterius felicitatem sibi tamquam bonum ,
repraesentat. THEOREMA II. Amicus delectatur alterius statu durabilis gaudii .
DEMONSTR. Quum enim ex alterius felicitate delectetur; felicitas vero sit
status durabilis gaudii ( S. X. def. 2. ) : ex hoc patet , amicum, quo que va
luptatem percipere, THEOREMA. Amicus alterius gauuium durabile sibi , tamquam
bonum repraesentat. DEMONSTR. Eius namque statu de lectatur ( per theor. 2. ) ,
quod fieri non potest , nisi id , tamquam bonum , sibi repraesentet. Ergo
amicus alterius gaudiun durabile si bi , tamquambonum , repraesentat. § . XIV .
SCHOLION. His praemissio succurrit lex appetitus , qua anima id , quod sibi ,
tamquam bonum repraesen tal , adpetit , et promovere studet. Plurimae hinc
propositiones de duci poterunt. Et quidem THEOREMA. Amicus alterius felici
tatem , idest gaudium durabile , adpe tit , et promovere studet. DEMONSTR. Omne
, quod nobis , tamqnam bonum , repraesentamus , ad petimus et promovere
studemus ( XIV . ) amicus sibi alterius felicitatem statum que durabilis gaudii
, tamquam bonum , repraeseníat: er go ea omnia adpeiit ; et promovere stil det
. *. XVI. Ex quo, sponte manant, COROLLARIA. Ergo amicus om nia cavet , quae
alterum taedio affi ciunt 2. nec ullam omittit occasionem quai personae amatae
iucunditatem et voluptatem promovere possit . S. XVII. Durabilis gaudii porro
notio nem evolvendo occurret. DEFINITIO. Durabile gaudium est voluptas
eminentior ex possessione ve iarum perfectionum grta . 9. XVI. Ex qua ultro
sese off -rt. AXIOMA. Qui alterius gaudium du rabile promovet , eius quoque
proinovet perfectiones. Atque inde exurget novum THEOREMA. Amicus alterius per
fectiones promovet. DEMONSTR. Eius enim gaudium durabile promovet ( $. XV . ) ,
quod idem est ac promovere eius perfections. F. XX. SCHOL. Est autem legis Natu rae iussum
: Tuas aliorumque promove to perfectiones . S. XXI. Jude ergo oriuntur.
COROLLARIA . 1. Amicus ergo legem Naturae observat 2. Nos ergo obligati sumus
ad amicitiam colendam , 3. Adeoque,qui homines sibi reddit ini. micos Naturae
legem violat. 4. Vo. luntati ergo Divinae: conveniens est , ut aliis simils
amici . etc. Haec brevi meditatione compertae sunt veritates, Quod si modilatio
aliquamdiu proferretur , dici non potest , quot novae propositiones exurgerent.
Huic autem exer citationi si adolescentes adsueverint , aut nostra nos fallit
opivio , aut sine multa lectione , brevi tempore , minimoque la bore Philosophi
acutissimi evadent. K 3 2 ? 222 Logica Pars IT S E C T I O. II. De librorum
lectione. Q" non 174 Vum intellectus noster arctis simis sit limitibus
circumscrip tus , atque adeo veritatibus omnibus pro pria meditatione eruendis
incapax :facile est and intelligendnm , cur aliorum scripta le genda sint, ut
quae proprio marte possumus, ab alis detecta inueniamus. Sed quia non omnia ab
omnibus adcurate scri pta , plerique etiam intellectus voluntatis vitio
laborant , ideoque errare possunt: cautio quaedam adhibenda est in legendis
eorum libris , ac proinde Lo gicae interest praecepta tradere , quibns in jis
ad examen revocandis , dijudicandisqne veritatibus ab aliis inventis aut
exaratis mens dirigatur : id quod in praesenti se ctione docendum . 175. LIBER
est aut HISTORICVS , aut ŚCIENTIFICVS .Ille , in quo facta, seu enunciationes
singulares ; hic , in quo pro positiones universales et dogmata traduntor.* *
Hac librorum divisione nulla alia exactior. Quorum eum librorum habemus
notitiam , Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. 223 nihil , nisi duorum , quae
enunciavimus , ar gumentorum alterutrum esse potest obiectum Patet ergo ratio ,
cur libros omnes in histo ricos , et didacticos sive scientificos distri
buerimus. 176. HISTORIA , quum sit rerum quae acciderunt fidelis narratio ( S.
147. ) , facta vero vel Naturae opera , vel Societatem vel fidelium communionem
nempe Eccle siam , vel deniqne litterariam Rempublicain spectent , esse potest
NATVRALIS , ClVILIS, ECCLESIASTICA, vel LITTERARIA . * Rursus quoniam omnium ,
aut quo rumdam , vel alicuius ex quatuor illis , fa cta refert , dividitnr in
UNIVERSALEM , PARTICULAREM, et SINGULAREM. Jarum prima Naturae opera enumerat ,
altera hominum vices et facta commemorat , iertia Ecclesiae vicissitudines et
annalia narrat , po strema vel disciplinarum et librorum , vel eru ditorum
vitas et fata omnia refert. ** Historia Naturalis ergo erit VNIVERSA LIS , si
omnia in ea Naturae opera eno dentur ; PARTICVLARIS si alicuius tantum classis,
veluti ex Regno vegetabili , fossili, ani mali etc. SINGVLARIS si alicuius
tantummo do plantae , lapidis, metalli , aut viventis inventio , usus ,
incrementum etc, narrentur. K 4 224 Logica Pars II. civili , ecclesiastica , et
litteraria , de quibus plura coram 177. Quia libri vel scripta ideo . legun tur
ut veritates ab aliis inventae et dete ctae discántur ( 5. 274. ) ; ea vero
verbis referta sunt , ut auctoris sensus intelliga. tur ( §. 160. ) , idest
eaedem ideae ver bis adsignentur , quas Auctor cum iis con iunxit ( S. eod . )
: per se patet genera lis in legendo servandus. CΑΝΟΝ. IMN legendis , aliorum
scriptis curato , uit easdem notiones cum verbis con iungas, quas Auctor voluit
iisdem adfigi. 178. Ex quo legitima consequutione na scitur i . in cuiuscumque
libri lectione at tendendum esse ad definitiones , quibus sin gularum
significatio determinatur , vel and conceptum ab usu loquendi tributum 11s ,
quae sine definitione adsumuntur. Et quia claras ideas ac distinctas adquirere
si ne attentione non possumus ( 9. 19. ) : se quitur 2. ut ad id potissimum
requiratur attentio , crebriorque repetitio , in libris praecipue historicis ut
facta facilius me inoriae mandentur. * 9 Cap. VI. De Veritatis Inquisitione.
225 * Vide quae de attentione ac repetitione dixi mus in Part. I. cap. 1. Seol.
can. ult. 179. Et quoniam in historia tria potis simum spectantur , nempe
veritas , ordo ac finis , facile patet 3. in libris histori cis legendis
attendi debere ' ad rerum sive factorum veritatem , ad eorum ordinem et
legitimam seriem et ad finem an sci licet liber Auctoris scopo respondeat. >
* Pro diiudicanda rerum VERITATE, bislo ricae probabilitatis regulae traditae
sunt( $ .152. seqq. ). ORDO vero tuin in locorum , tuna in temporis circumstantiis
consistit. Eius ergo legiiimitatem quoad loca suppeditat GEO GRAPHIA , circa
teinporis autem seriem CHRONOLOGIA. FINIS demum ex üsdem scriptis abunde
patebit , adeoque , an ei res pondeant, ex eorum lectione diiudicari pote rit
Historiae nituralis finis est obiecta rario ra adcurate describere , phaenomeni
alicuius cuncta notatıı digna , partiunqne nexum di stincte exponere ; Civilis
est politices civilis que prudentiae regulas exemplis et factis con firmare ;
Ecclesiasticae scopus est , statum Ecciesiae , incrementin , in file
costantiain , in profligandis erroribus - prudentiam Su premi item Numinis , in
ea conservanda au gondaque Providentiam , 2 gelis , ostendere ; Litteraria ?
tandeſ , inveniendi arlena , quam EVRISTICAM vocant , aptis aliaque id K 5 226
Logica Pars II : subsidiis , et veritatum a veteribus invenla rum cognitione
perficere. Cognito itaque libri scopo , restat ut attente legatur ( S. 178. )
statimque innotescet , utrum suo fini respon deat. 1 180. De librorum
scientificorum lectio ne sat erit , si pauca degustemus. Quo niam in scriptis
didacticis methodus reqni rit , ut nullus adsumatur terminus , nisi notionem
habeat sibi adiunctam , atque ut ea praemittantur , per quae sequentia in
telliguntur: consequens est 4 . ut in iis legendis singulae veritates prius in
classes dispescantur , ibique videatur utrum ad principia an ad propositiones
iu de deductis pertincant ; deinde 5. ad sin gulas voces et notiones jis ab
Auctore ad fixas attendatur ; (ac deni que 6. ut legens veritates antecedentes
si bi reddat familiares , nedum demonstratio nes in syllogismos resolvat , in
quibus vi. deat , si quid doli contineatur. 181. In scriptorum porro
didacticorum examine ad eorum dotes potissimum respi ciendum , de quibus
sequenti capite age. mus. Id unum porro meminisse juvabit; ad illorum examen
conficiendum requiri absolụtam et continuatam libri lectionem , Cap. VII. De
l'erit. comm. 227 attenta mque veritatum earumque nexus con templationem : *
quae omnia si desint , le ctio dicetur SUPERFICIARIA . * Ad id ergo ineptissimi
videntur scioli quidam in sola romanensiiim fabellarum lectione ver sati , qui
in dijudicandis per tabernas comoe diis scurrilibus , aut ephemeridibus omnia
studia sua contulerunt ; vel adolescentuli vo culis tantum , phrasibusque meinoriae
infi gendis adsueti , qui vix e paedagogorum fe rula manum subduxerunt: "
Requiritur autem laboris patientia , attentio , mens methodo ac meditationi
adsuefacta , non vero in expen ex . dendis rerum corticibus solo sensuum et
phan tasiae ductu exercita. OVampdoquidem a Platone * monitum non praeclare ,
non est no bis solum nati sumus , adeoque nec nobis sed aliorum commoda pro
movere debemus : veritates a nobis dete ctas, vel quae ab aliis inven tae nobis
ope lectionis innotuerunt, aliis proponere Natura obligamur. Qui vero verbis
alium ad ignotarum veri talum cognitionem perducit , is eum Do 5 K 6 228 Logica
Pars. Ir. CERE dicitur adeoque DOCTOR CO gnominatur. 7 * Ip Ep. ad Archytam
Tarentium . Vid. Cic. de Fin . Lib . II. cap. 14. ** Latius hic patet docendi
vocabulum , qu am a Cicerone de Offic. Prooem . usurpatur. Id ve ro ex
definitione admodum completa prono , ut aiunt , alveo fluit. Ceterum in hoc
usum loquendi sequuti sumus : vulgari namque ser mone tritum est , Magistrorum
alios esse vi VOS , alios mortuos , qui Scriptorum vel Auctorum nomine
distinguuntur , ita ut libros melonymicę magistros mortuos vulgo appel lent.
183. Et quoniam verba vel voce profe runtur , vel scripto exaranțur ( S. 42. )
: patet , duplicem esse docendi modum , vo ce scilicet , atque scriptis ;
adeoque MA GISTRUM dici debere , tam eum qui li þros in lucem edit , quam cum
qui in A cademiis iuventutem instruit. Speciatim autem in sequentibus eum , qui
scripta didactica ( de quibus hic tantum ser mo est ) conficit, SCRIPTOREM vel
AU. CTOREM ; eum vero , qui adolescentes ro ce docet DOCENTEM , DOCTOREM ,
MAGISTRVM dicemus : idque ad evitan dam confusionem , atque inutilem verborum
repetitionem . Sed quia doctrinam hanc in dus as dividere instituimus sectiones
, nt de utri Cap. VII. De Verit. commun . 229 se esse usque virtutibus ac
vitiis aliqua dicere posse mus : nunc , quae utrique communia sunt ,
dispiciemus. Ad calcem denique capitis quae dam de discentium dotibus ae naevis
com pendii loco addemus. 184. Quia vero docents est , alios ad ignotaruin
veritatum cognitiovem prducere; cognitio avlein debet certa et distincta eaque
vel a posteriori vel a priori: consegucas esi 1. ut lectores vel auditores de
veritatibus certi reddendi sint , adeoque 2 , indiciis sufficientibus at que
inf.l.bilibus ad veritatis cognitionem adducendi ( $ . 1 : 4 . ) . quod ut fiat
, 0 portet 5. ut docens ab iis intelligatur , ideoque 4. sit perspicuus , ad
quod requiritur 5. ut artein , in qua versatur , distincte intelligat * ( $ .
24 ) 6. bonam methodum rigide servet ( . 138. seqq . ) , 7. et si quid
implicatum confu suinque occurrat , distincte explicet. > * Criterium enim
notionis distinctae est , si cum aliis eam possimus per verba communi Care:
nisi ergo distincta artis suae docens cognitione gaudeat , fieri non potest ,
ut eius praecepta perspicue aliis proponere queat. CONVICTIO est actio , qua al
terum de veritate certum reddimus. Quod quum fiat demoustrationis ope ( . 133.
) quisque videt , convictionem sola demon stratione absolvi. * Ex quo liquet 8.
do centem alios de veritate , quam docet , debere convincere , ** ac proinde 9.
pro babilibus argumentis uti ei non licere : *** nisi res talis sit , ut sola
probabilita te cognosci possit . * Quoniam ergo convictio demonstratione ab
solvitur demonstratio vero est vel directa vel indirecta , ( 132. ) , vel a
priori vel a poste riori ( $. 131. ) : non abs re convictioni ea dem nomina ,
prout veritates demonstrantur, a Philosophis tributa sunt. ** Vt vero rationis
pondus in convincendo ani mum sese insinuet , oportet , ut iHe sit atten tus ,
in demonstrationibus versatus , et talis ; qui rationum momenta perpendere
possit. Quapropter solidis demonstrationibus , non conviciis , irrisionibus ,
dictisque iniuriam in ferentibus ad veritatem est trahendus. Convi cia nanque
odium iramque pariunt, et atten tionem turbant. *** Dici haec solet PERSUASIO ,
quae quum sit rationibus insufficientibus innixa , convi ctio dici nequit ,
quippe quae a convictione longe multumque distat. " Hinc vides , convictio
sit Philosophcrum propria , perсиг Cap. VII. De Verit. commun. 231 suasio vero
Oratorum , qui in investigatione verosimilium argumentorum versantur , quan tum
sufficiat ad caussam probabilem redden dam , de quo conferendus est Cicero de
In vent. cap. * 186. SOLIDITAS est completa artis, quam profitemur , methodique
cognitio, Hinc ergo patet 10 maximam et praeci puam doceotium dotem esse
soliditatem , adeoque 11. litteratos superficiarios es se ad scribendum aeque ,
ac docendum ineptos . * Vitium vero soliditati oppositum in speciali bus
tractationibus infra explicabimus. Ad eas itaque progrediamur, SECTIO I. De
Librorum dotibus. IBER , in quo veritates continen tur , SCIENTIFICVS dicitur ,
alio nomine SCRIPTUM DIDACTICVM . Eius dotes sunt SOLIDITAS, PERSPICVITAS, METHODVS,
et SVFFICIENTIA. SOLIDITAS consistit in principio rum firmitate , ac
deinonstrationum stabi 232 Logica Pars II. bilate . Solidus ergo dicitur liber
1. si eius dim principia certa fuerint atque indubia ( $ . 150. ) , 3. si
propositiones singulae rig de sini demonstratae , si bona me thodus in
demonstrando adbibita pec in
demonstrando cir culus irrepserit. Si vero bonae methodi leges fuerint negle
ctae , tunc liber SVPERFICIARVS dice tur. Huiusmodi vero libris Rempublicam ca
rere litterariam , foret maguopere optandum . 189. PERSPICVITAS in verborum pro
prietate , iustaque eorum cum ideis pro portione sita est . Verborum PROPRIETAS
es'git , ut voces omnis secundum usum loquendi fixo sign ficatu adbibeantur, adcuratisque
definitionibus deter spineniar. Iusta verborum cum ideis PROFORTIÓ requirit ,
ut liber non sit prolixior , nec brevior , quam scopo SIO conveniat. *
Quemadmodum enim prolixitas verborum mul titudine mentem obruit : ita et nimia
brevi tas Auctoris sensum occultat , adeoque am bae oliscuritatem pariunt,
scilicet vitium per spicuitati oppositum Vid. Heinec. Fundam . Stili culiior.
Part. S. cap. 2 § . 50. Cap. VII.De Verit. comm un. nexu 190. METHODVS in eo
est ut veri tates ex veritatibus et principiata , ut aiunt , ex principiis
legitimo et continuo sint deducta , nihilque confusionis vel perturbationis
inveniatur ; denique si ea praecesserint , per quae sequentia intel. ligi
possunt. SVFFICIENTIA tandem id exigit, ut liber sit COMPLETVS, idest veritates
et propositiones exhibeat Auctoris fin i suf ficientes : qui namque finem non
ahso lvit , INCOMPLETVS adpellatur. * Longum valde foret , si sufficientiae
particu lares characteres , hoc est fines lot tantorum que librorum percurrere
vellemus. Sufficiat tamen generales eiusdem notas evolvisse : id enim ex
attenta cuinsque libri lectione quisque poterit diiudicare. 192. SYSTEVIA est
congeries verita tum inter se connexurum , et a prin cipiis suis legitime
deductarum . Et quia id quatuor , quas recensuimus, dotibus absolvitur : hinc
est , ut Logici dicant , librum quemcumque scien titicum systematice scribi
oportere. * Non omnes tamen qui libros scribunt systema conficere possunt ; sed
ii tantum qui veritates a se detectas , et ad eumdem 234 Logica Pars IT. >
scopum tendentes in libros referunt. Eorum autem , qui alienis laboribus
insudant , alii sunt COMPILATORES , qui aliorum opera hinc inde dispersa
colligunt, atque in lucem edunt , mulla ordinis habita ratione ; E PITOMATORES
qui brevius aliorum scripta prolixiora componunt. Et hi qui dem reprehensionem
numquam , quandoque vero laudem ( illi praecipue ) ab eruditorum universitate
reportant. Sunt vero quidam , qui aliorum scripta suffurantes ea typis man dant
, impudentique fronte suo nomine inscrie bunt , iique PLAGIARII nuncupantur. De
his autem quidnam dicendum , sit , omnes no runt. SECTIO II . De Doctorum
virtutibus et vitis. DOCTO OCTOR appellatur , qui alios voce ad rerum ignotarum
co gnitionem perducit, vcos de veritatibus , qnas tradit , certos reddit, atque
convincit. Eius virtutes partim ab inte !lectu , par tim a natura , partim a
voluntate penden tes , sunt quatuor : ab intellectu SOLIDITAS , et in doendo
PRUDENTIA ; a na tura DOCENDI DONUM ; a volnntate ve ro AMOR. De singulis pauca
disquiremus. Cap. VII. De Verit. Commun. Ex doctoris definitione sequitur 1. ut
generales docentis characte res possidere debeat is , qui doctoris munere fungi
vult ; adeoque 2. prima et praecipua eius virtus sit SOLIDITAS qua fit 3. ut
res abstractas et intellectu difficiles exemplis illustret , at que
propositionum omnium sive a se , si ve ab aliis enunciataruin analysin
instituat. Nisi enim exemplis ac similitudinibus res dif ficiles illustrentur,
aegre ab auditoribus au dietur , quibus abstrahendi ars vel ignota prorsus est
, vel laboriosa : adeoque taedium concipientes attentione carebunt nihilque
intelligentes doctorem fine suo frustrabunt. 195. Quia vero doctor auditores
suos de veritate cerlos reddere debet ( S. 184. ) ; ad certitudinem autem ducit
demonstratio: consequens est 5. nt scientia praeditus, verborum facilitate in
fructus ct ad rationem de omnibus red dendain promlus esse debeat . Et quia au
ditores convincendi sunt, et ad hoc in eis attentio requiritur: patet 6.
Doctorem DOCENDI DONO in. signitum esse debere , idest dicendi promti tudine et
suavitate , quo deficiente , ad proprium munus obeundum ineptus erit. 236
Logica Pars II. parvum in eo 9 a do * Vt enim auditor sit attentus , cavere
debet qui eum docet , ne taedio, eum adficiat. Tae dium autem haud excita bit ,
si verborum inopia , dicendi infelici tate , animique imbecillitate laboret. Eo
nam que casu non modo attentionem minuet sed et illius ludibrio se exponet. Qui
ergo se huiusmodi suavitate ac promtitudine senserit destitutum , ei auctores
fuerimus , ut cendi munere se abstineat , si operae preti um perdere nolit.
196. Quoniam autem non eadein omni bus est adolescentibus perspicacia , que non
tam voce , quam exemplo erudiuntur : liquido infertur 7. ut doctor facoltate
gau deat doctrinas ad discentium captum ge niumgne adcommodandi . ac media ad
fi nem rite disponendi, nec non 8. in ex sequendis praeceptis auditores
manuducat, seque iis pracheat antecessorem : praecipue veio 9. si in moralibus
vitaque civili ver setur institutic , animum ipse prius ad vir tutem instruat,
ut ad hoc vivum exemplar omnes conformari studeant. * Et hoc est, quod dici
soiet PRVDENTIA INDOCENDO. * Si namque docentis actiones a praeceptis dis
crepent , nequicquam laborum suorum fru ctum exspectabit , et adolescentes
exemplum potius malum , quam bonam vocem sequuti Cap. VII. De verit. commun.
237 nihil , praeter praeceptoris imitationem , prae se ferent : quum bene
monuerit Iuvenalis : Omnes duciles sumus pravis ac turpibus imi tandis suos .Postrema
doctoris virtus eaque magni momenti, est AMOR erga Quum enim in erudiendis
pueris aut ado lescentibus permulta opus sit fidelitate inserviendi
promtitudine , patientia patientia , et labore haec auien omma nisi ab iis ,
qui nos amant , sperare non possumus : recte infertur 10. doctorem sincero audi
tores suos amore prosequi; adeoque 11 . et studio ; 7 commoda promoveadi
adfcctum esse debere. eorum * Quam necessaria sit haec in doctore virtus , ex
sequentibus alimde patebii. Si namque amor deficiat , et studium deerit
disceniium utilitati inserviendi : ac proinde pro doctore exsurget mercenarius
vel utilitati , vel existi mationi propriae consulens; et tanc nec morun ratio
umquam habebitur , et omnes lucri fa cendi artes promovebuntur. Si haec omnia
ponantor , habebimns magistrum , vel leo poribus inservientem , in muneris
exercitio ne gligentem , timidum , sui dumtaxat studio abreptum , et ad
vilissima quaeqne facilem ; vel inaccessibilem , clatum , ' omnia sibi per
mitientem , quandoque etiam garrulum , ét e cathedra , tamquam e suggestu , aliorum
no mina lacerantem , quo tutius possit de suis virtutibus declamare. 198. Si
virtutum quas recensuimus opposita evolvautur , illico doctorum vi tia ad
parebunt, quae breviter enumera bimus. Eorum primum et praecipuum est IMPERITIA,
idest artis methodique-igno. ratio . Huius effectus sunt 1. obscuritas , qua
fit , ut talis doctor terminis inanibus , vagis obscuris , nec recte definitis
sit con tentus , resque difficiles exemplis illustrare nequeat : 2. confusio
quae methodi negli gentiam , analyseos ignorantiam , ac con vincendi
impoientiam parit : 3. docendi ineptitudo ; quum enim ars ignoratur et methodus
, deficit prompitudo et suavitas , quibus ducendi donum absolvitur * ( S. 95.)
: 4. molesta prolixilas , aut obscurabre vitas ; ignorata namque arte vocabula
quoque technica ignorantur, quo fit , ut vel inanibus circumloquutionibus, vel
paucis et insufficientibus rei explicandae verbis uta tur: 5. superfluorum
tractatio et necessa riorum omissio , quam veram ignorantiae causam esse ait
Sencea ( S. 103. * ) : 6. ser monis barbarics , cui proxima est obscuri. tas et
taediuin , adeoque ad minuendam ten dit attentionem. Cap. VII. De verit.
commun. 239 * Non desunt equidem , qui naturali quodam suavitatis defectu
laborantes nec genio , nec captui auditorum se accommodare sciunt , li cet
doctissimi sint et omnimoda, eruditione praediti. Naturalis autem haec
imbecillitas non inter vitia sed inter defectus est referen da, adeoque
imperitia dici neqnit. Quamvis enim huiusmodi doctoribus lepor desit : me diorum
tamen excogitatio aliaqne pruden tiae subsidia praesto sunt. Ineptitudinis ergo
caussa non alia adsignari debet , quam impe ritia , scilicet soliditatis
absentia. > 199. Alterum doctoris vitium a primo oilum ducens est
IMPRVDENTIA in do cendo , quae in caussa est , ut auditorum Caplui genioque se
adcommodare , atque media ad finem ducentia excogitare , ac proinde animis
morbo aliquo laborantibus mederi nesciat. * Quae enim prudentia in imperito ?
Imprudentiae quoque debetur illa paedagogo rum imbecillitas , qua inter se
invicem de futilibus inoptisque rebus decertantes , vel aliis invidentes
discentium animos adversus aemulos stimulanti. et ad pueriles irrisiones
dicacitatesque concitant : quo fit , ut ipsi in spretum et abietionem incidant,
adolescentes contra pessimos , audaces , ridiculosque mo res induant. 240
Logica Pars II. 200. Ad voluntatis vitia , quae amorem excludunt, referuntur : AMBITIO
, si ve nimia gloriae laudisque cupiditas , qua fit , ut vana eruditionis, autº
eloquentiae ostentatione , nimioque sermonis fuco di sciplinarum praecepta non
explicentur , sed implicentur , propriaeque existimationi potius , quam
discentium utilitati doctores consulant. - 3. AVARITIA , quae omnia trabit
commodum efficitque , ut sola sit utilitas iusti prope mater et aequi:
VOLVPTATIS CONSECTATIO , quae ignaviam , laboris im pa tientiam oilierique
neglectum parit , atque soliditatis defecium arguit , quum bene monterit
Genuensis .noster : difficile esse reperire hominem vere doctum simul autem et
mollem , ad suum > * * * * Inde quoque fluxit Cynicus iile mos , et ef
fraenis alios lacerandi consuetndo , quae in caussa fuit , ut de quorumdam
adolescentum petnlantia ad satyras proclivium emunctae nae ris homines
conquesti · gint : videbant enim pravam consuetudinen a pessimo doctorum
exemplo vatan in naturam paullatim ac cor ruptionem abituran Ex codem tandem
fons te manat ctiam illa docentium praesumtio , qui , ne discipulus supra
magistrum esse vie deatur , vel aliquot sublimiores doctrinas sla Cap. VII. De
verit: commun . 241 bi solis reservant , vel sublimia auditornm in genia
deprimunt ac despiciunt. Praeterquam quod ambitio in doctoribus novitatis
amorem gignit , eosque opinionum singularium et ab surdarum , saepe etiam
impietatis studiosos efficit : id quod maximo adolescentihus detri mento est ,
praecipue quum auctoritatis prae indicium altius in iis radices agat. Vid Hei
nec. Ethic. l. 77. ** Quando quis avaritiae studet , non aliorum , sed sua
tantum commoda promovet , idque per fas an nefas , nihil sua referre videtur.
Hinc auditorum quosdam opibus pellantes , vel praeceptorum gratiam muneribus
ementes reliquis praeferunt, eos seorsum instruunt , ac speciali cura in
aliquibns reconditis rebus erudiunt, eaque praedilectione prosequuntur , ut se
aliorum odio , invidiae vero illos expo nant, adeoque nihil neque hi pro .
ficiant. *** Art. Logicocritic. Lib. I. cap. Voluptati nanque dediti plerumque
sunt ignavi , desides , et laboris impatientes ; atque inde fit , ut non satis
praeparati ad doces dum accedcntes in lycaeo quidquid in buccain vererit
effutiant, et quia ex abundantia cor dis , ut Servator ait , os loquitur ,
bonos persaepe mores verbis factisme corrumpant. Delicatuli isti suat etiam
meticulosi , adeoque veritatem , quam alias intrepido vultu , si ri te munere
suo fungi vellent , dicere debe ne aliorum indignationen incurruni Tom . I. L
neque illi reni , ) 242 Logica Pars II. aut dissimulant , aut tegunt, aut (
quod val de dolendum ) foede corrumpunt. Praeterea in huiusmodi hominibus
ridicula quaedam et thrasonica reperitur ambitio , scilicet paedan tismus', quo
furentes nusquam , nisi de suis rebus gestis plurima exaggeranti, auditorum ,
que risui se exponunt. 201 • Superest , ut doctrinae usum do etorumque officia
exponamus , ut si qui munus hoc inire cupiunt , bene incipere , feliciusque
prosequi possini. Quicunque cr go ad istruendam iuventutem animum ad. pellis ,
hos diligenter observato : CANON ES. Avditores eligito perspicaces, mui toque
supientiae umore Nagrantes. Eo rum porro attentionem excitato sae pius , ac
vitia , quibus eos laborare per cipis , prudenter sensimque corrigito. 2.
Doctoris munus , nisi solida artis methodique cognitione imbutus , ne te mere
suscipito : idque summa fidelitate, prucuttia , ac sincero erga discentes amore
absolvito. 3. Adolescentes in moralibus civili Cap. VII. De Verit. comm . 243
busque disciplinis non tam voce , quam exemplis erudito. Evidentissimum numiz
que , teste Augustino , docendi genus est subiectio exemplorum . 4. Religionis
amorem , morumque in tegritatem in discentibus foveto , neque te illis
familiarem nimis reddito , ne , excusso subiectionis fraeno , doctores
parvipendentes nihil proficiant, et ad pessima quaeque praecipites ruant.
" , SECTIO III . De Discentium dotibus ac naevisn's 202 , Am de dotibus
IAm vitiisque discça tium pauca apperidicis loco ad damus. Eorum est de veritatibus
certos reddi ; solidache imbui co gnitione, quae non nisi es claris
distinctisque oritur notionibus. Ad claras vero ac distinctas ideas adquirendas
requiritur attentio et libertas a praeiudiciis : Quidquid ergo attentionem tur
bat , vel praeiudicia fovet , ab iis abesse debet . 203. Priina ergo et maxima
discentium dos est BONA NENS, DOCILITAS, ATTENTIO sincerus erga stu. dia et
docentes AMOR, LABORIS PATIENTIA et otii
fuga , + 6. de. nique ANIMI SOLITUDO . It * Bonae mentis vocabulo intelligimus
non mo do naturalem ingenii perspicaciam , cuius de fectus hominem reddit
cognitionis incapacem , verum etiam animum bene educatum vcrae que Relligionis
amantem : quum Divino oracu lo monituin sit initiuin om nis sapientiae esse
timorem Domini. Hoc est libertas a
praeiudiciis ,ut supra di clum est, animique inclinatio ad quaecunque praecepta
ediscenda , et ad pra xin adplicanda. ID adeo * Si namque Doctores et studia
amemus , his sedulam navamus operam , illosque atter te auscultamus : si vero
amor hinc absit , taedium supervenit . , attentio minuitur , que aut parum aut
nihil in studiis profie mus. | Laboris enim impatientia ignorantiae cause est ,
ut dixiinus ; quoniam veri tates vel propria meditatioue vel Aucts rum lectione
inveniuntur, medtatio vero perinde ac lectio laborem cai gunt , ut ex superioribus
abunde constat. De verit. eomm. 245 # Multitudo namque non modo praeiudicio rum
fons est sed at tentionem quoque distrahit aut saltem mi nuit : adeoque solum
oportet esse , qui sa pientiae sentit amorem. Ex iisdem principiis sponte
manant discentium vitia , qualia sunt 1. Religionis spretus , quem conse quitur
voluntaria praeiudiciis adhaesio , 2. mentis hebetudo , 3. attentionis distra
ctio , 4. otium et laboris impatientia a dolescenlibus familiarissima , 4.
aversio a studiis vel doctoribus , 6. denique spe ctaculorum , multitudinis ,
et sodalita tum amor , quo fit , ut attentio distraha tur ( $ . 40. Schol. Can.
5. ) , et ad voluptatem inde ac perditionem praccipiti Cursu ruant. Schol. Quae
de discentium officiis tra lendae forent regulae, eae ab eadem do trina huc
usque exposita facile deduci po erunt. Quapropter hic a canonum addi tione con
mode abstinemus. De litterario certamine. zv ERTAMINIS LITTERARII no Emine
intelligimus quascumque disputationes, quae pro veritatis disquisitione vel
diiudicatione instituuntur. Hae disceptationes similiter vel scriptis , vel vo.
ce liont : et quidem SCRIPTO, vel alio rum errores confutamus , vel nosmet ab
eorum imputationibus defendimus: VOCE autem rationes utrinque conficiuntur , et
ad examen revocantur. Si ergo alterius errores scripto detegantur , actio haec
dicilnr CONFITATIO ; si pro positiones ab alterius impugnatione vindicentur,
DEFENSIO, si denique coram disce platio instituatur, propio nomine DISPVTATIO
adpellatur. De harum qualibet diversis sectionibus agemus qua alium erroris
convincimus. Ex qua definitione patet 1. confutantem de Cdium erroris
convincimus. Ex bere falsitatem propositionis, quam alter pro vera asseruit
demonstrare, idque a priori vel a posteriori, directe aut apogogice indiciis
sufficientibus, hoc est principiis demonstrandi certis ei utendum esse. Etquia
eadem propositio non potest esse simul vera et falsa (alias in contradictionem
inpingeretur ): evidens est. propositio nem legitime denionstratam confutari
non posse, adeoque. eius demonstration, nem esse contrariae confutationem. Antequam
vero confutatio instituatur opore tet STATVM QVAESTIONIS conficere, idest verum
suctoris sensum intelligere, ut propositionem falsam ex ipsius auctoris men le
demonstret. Eo enim ipso vitabitur LOGOMACHIA, qua propositio vera impetitur,
cuius veritas, licet ab adversario sit cognita, aliis tamen verbis expriiuiiur
et impugnatur, adeoquc insurgit quaestio de verbis . Vid . Weienfelsium de
logomachiis eruditorum . Si vero indicia fuerint insufficientia, scilicet principia
probabilia et precaria, tunc non con L'utilis , sed IMPVGNATIO dicetur.
Impugnari tamen potest, nempe dubiis au dificultatibus quisbusdam subiici , ut
eius veritas clarius elucescat, nec ulla remaneat op positi suspicio , id quod
infra in Seet. 3. docebimus. Quoniam confutatio ost convictio; haec autein
requirit , ut con vincendus sit attentus , nec adfectus in eo attentionem turbantes
exciteptur : liquido infertur 5. confutantem ea omnia quae attentionem in
altero per turbant , atque adfectus excitant , vitare debere ; consequenter 6.
a conviciis , ir risionibus, vel consequeniiis periculosis, quae confutandi
famam laetlunt , abstinen dum esse. Sunt autem PERICVLOSAE huiusmodi CONSEQVENTIAE
, quae non quidem ex genui no Auctoris sensi , sed ex confutantis opi nione
eruuntur , quaeque non veritatis de fendendae gratia deducuntur , sed ut adver
sarii fama in discrimen vocetur , isque alio rum ludibrio exponatur. Harum
porro con sequentiaruin confectores proprio nomine CONSEQVENTIARII vocantur.
208. Qaum ergo consequentiae pericu losae aliorum odium Auctori concilient ( $.
207. * , ) eique invidiam creent : non abs re a Philosophis argumenta ab invi
L4 1 + Cap. ult. de titt. cerlamine. 249 * dia fuerunt appellatae. Ex quo patet
ARGUMENTUM AB INVIDIA ductum in confutando sollicite esse vitandum ; a deoque
8.non abs re consequentiarios a Wolfio PERSECUTORES cognominari . * Logic. Lat.
pag. 752. Idque iure merito . Nam confutator vere dicitur , qui veritatem ab al
terius paralogismis vindicare studet. At qui non veritatem , sed adversarii
famam perse quitur , nullo inodo confutator dicendus est, sed alterius persecutor,
quia id non rationis auxilio , sed invidiae stimulo perficit. Schol. Quoniam
itaque in confutante solius veritatis amor exigitur : ut in con futatione nihil
vel minimum peccetur , hos qui sequuntur , servare curato . CAN ONE S. I. A, D
confutandum solo veritatis a more , non odio adversus alte rum ductus accedito
. Adversarium soli dis rationibus non conviciis , dictisve famae nocentibus de
errore et falsitate convincito . 2. Si obscuro impropriove stilo ad edəssarius
scripsit , ut dictionem corriagat , seque intelligendum praestet , ad wertito. Si
quid ab altero in demonstran do peccatum , sive principia falsa sint, sive
connexio illegitima , cuncta distincte modesteque patefacito. Demonstrationis
rigidus custos principiorum diligens investigator esto , ne tibi ab adversario
nota inuratur. E tenim TURPE EST DOCTORI , QUUM CULPA RE DARGUIT IPSUM. DEFENSIO
est propositionis ab alterius impugnatione vindi catio . Ex eadem ergo
definitione sequitur 1. ut propositio legitime confutata defen din non possit ,
ut et 2. ad defensionem propositionis sufficiat eius veritatem solide
demonstrare , aut 3. si de terminis tan tum quaestio sit , eos adcuratis definitio
nibus determinare. Duobus vero modis defensio insti taitur. Vel enim
propositionis veritatem ab alterius impugnatione vindicamus , vel Cap . ult. De
litt. ccrtumine. 251 impugnantis errores itidem detegimus . Pri mae classis
seripla dicuntur APOLOGE TICA ; alterius vero POLEMICA vel E RISTICA. * jin , *
Horum quidem scriptorum minorem num rum Respublica optaret litteraria. His nam
que nec veritas invenitur , nec ratio perfici tur , sed contentiones animique
perturbatio nes aluntur , nulla prorsus utilitate, magno autem Societatis , ac
iuventutis studiosae malo. ? 211. Defendenti ergo , ne a recto. aber ret ,
Sequentes proponimus. , C ANONES. 1 . PhoRopositionem a te légitime demon
Stratam , aut notionem cum ver bis rite ' conjunctam ab alterius cuiusvis
impugnatione ne defendito. Pro të nam que evidentia pugnabito ? ? 2. Eius , qui
te maledictis conviciis que laesit , scriptis modesto respondeto silentio . *
la cedendo victor abibis. * Si namque simili stilo , respondeas , nullum operae
pretium facies , adversarii petulantiam temeritate lua iustificabis , inque
idem vitium incides , quod in alio reprehendis. Quidquid ab altero tibi
impugnari sentis , in eo tua versetur defensio. * Si vero argumentis ab invidia
periculosis que consequentiis ab aliquo persecutore adfectus fueris , sat est
eius malitiam et nocendi studium ostendere teque commiseratione potius , quam
ira per citum perhibere. Si ergo deverborum sensu quaestio sit , eum te
explicasse sufficiet : si principia impugna tor urgeat eorum certitudinem
ostendas oportet : si in demonstrationibus te ar guere velit , earuin legitimam
connexiouem prae oculis ponere ; si vero aliqua consequen tia absurda tibi
imputetur , aut ipsius conse quentiae veritatem , aut eam ab adversario non
recte deductam , demonstrare debebis. Quod si persecutor obscurae famae sit ,
te tacente veritas ipsa loqietur , tuaque mo destia impudeutem adversarium
confusione " obruet. SECTIO III . 7 212. , 18. De Disputatione. A D
veritatis tandem disquisitionem accedamus , quae non scripto , sed voce fit ,
quaeque disputationis no. De litt. certaminemine venit. Est igitur DISPUTATIO
-aru ritatis alicuius discussio voce facta. Ea tribus ' personis absolvitur ,
quarum una propositionem'impugnat , altera eamdem defendit , tertia vero huic
suppetias fert. * Adeoque qui veritatem difficultatibus du bisque implicat ,
OPPONENS ; qui vero eaka ab eiusmodi impugnatione vindicat , DEFENDENS, vel
RESPONDENS ; qui deni que huic aliquid adiumenti adfert , PRAESES aupellatur.
1213. Ex qua definitione liquet 1. di- , sputationem esse impugnationem proposi
tionis veraen eiusque. defensionem ; ideo que 2. , utramque demonstratione
absol vi , ut disputantium alteruter de veri tate convincatur ; quare 3.
quidquid ge neratim de convictione dictum, de disputatione etiam intelligatur ,
prae cipue vero 4. status quaestionis formandus et 5. oportet , ut lingua loquantur clara et
intelligbili, hoc est amboruin captui adcommodata 6. ut u trique nec animus nec
lingua deficiat. Su per omnia autem 7 affectibus carcant , odio , praesertim et
invidia, Non enim ad rixandum , sed ad disputandum. descendunt. At affectus
convicia iniuriasque pariunt , quibus attentio turbatur ( S. 207. ): ac proinde
a disputantibus louge debent ab esse , ne ira odiove perciti tantum absit ut
veritatem inveniant , ut potius .a convicis ad manus transeánt. Ex eadem
definitione fluit 8. di sputantes debere in terminis contradicto . riis versari
, hoc est ut idein ab uno a d. firmetur , ab altero negetur'. Et quia idem
subiectum in contradictione requiritur; eruitur 9. disputantes debere in
terminorum notionibus convenire: quapro pter 10 si verborum sensus- lateat ,
eorum explicationem a respondente peti posse, ut in claris distinctisque rebus
incidat contro versia, ct ' sic logomachiae vitentur. Disputatio vel' ACADEMICA
est , vel DIALECTICA. Illa continuato ac paene oratorio dicendi genere , haeć
syllo gistico more conficitur . In illa opponens disscrtatione quadam propositionis
veritatem impugnat, respondens contra eodemstilo obiectiones diluit , ihesiique
defendit ; in hoc vero syllogisniis aliisque ratiocinandi modis chunciationem
opponens inpugnat , ' et ex Cap. ult. De litt. certamine. adverso respondens
ratio cinia ad trutinam revocans propositiones veras concedit , falsas negat ,
dubiasque distinguit, eoque progre diuntur , donec ad principia perveniant.Addi
potest methodus disputandi SOCRATI CA, quae Opponentis interrogationibus , et
Defendentis responsionibus dialogico stilo ab solvitur. Sed quum ea iam pridem
ab usu recesserit : ab eius explicatione merito ab stinemus : in ipsis tamen
praelectionibus , quae de ill a dicenda forent , paucis expe diemus. Vides ergo
methodum Academicam ad eru ditionis et eloquentiae ostentationem in Aca demiis
prae se ferendam unice inventam esse. In disputando autem , quum homini pede
stanti in uno ñec eruditio , nec verborum copia praesto esse possit , Dialectica
metho dus merito praeterenda, Vtcumque vero disputatio instituatur invabit
disputantiirin munera paucis expo nére : id quol sequentibus exequemur re
gulis. Et primo quidem amborum , dein de opponentis; postremo respondentis mu
nia recensebimus . Quisquis ergo ad dis putandum accedis , hos religiose
castodito : Phim Rimum omnium controversiae sta tum conjici ! ) . Nihil porro ,
nisi terminis claris fixisque expressum , in e am incidito . Obscura quaeque
explica to . 2. Dispu'ans adfectibus vacuus , veria tatis tantum amans, eiusque
invenienda cupidus esto . Cuncta modeste, suaviter , amice proferto . Convicia
et dicta mor dacia , velut angiem , fugito. OPPONENTIS hae fere partes sunto .
3. Quacunque meihodo thesin aliquam adoriris , syllogisticam artem cuidi ha
beto . Argumentu solida non sophismata ineptasve fallacias, proponito . Conclu
sio thesi impugnatae semper e diametro contraria esto 4. Si quid a respondente
tibi propo nitur explicandum , explicato : si vero probandum , tamdiu
syllogismorum , au xilio probato , donec ad principia per veneris. Ad singula
respondentis verba et distinctiones attendito . Si illa obscura sint, illi
explicanda dato ; si vero clara , Cap. ult. De litt. certamine. 257 novas
exceptiones , prout res tulerit , contra formato. Praecipue videto , si ad
versarium ex assertis suis convincere et refutare, proprioque , ut aiunt, gladio
iu gulare possis Et hoc est , quod vocari solet ARGVMENTVM AD HOMINEM, de quo
tamen videa tur lo. Lockius de intell. bum . IV . 17. , qui eius insufficientiam
in vero inveniendo et de bilitatem ostendit. Nos autem tantum in ex
ercitationibus litterariis , quae coram fiunt id commendamus: de veri namque
investiga tione fusius supra tractavimuis. RESPONDENS demum id sibi negotii
sciat praecipue datum. Argumentum opponentis prius repe tito , deinde sedulo
perpendito , num de bila gaudeat soliditate . Praenissarum quae tibi dubiae
videbuntur , probatio nem postulato . 7. Syllogismum in forma peccantem totum
reiicito. Si haec bene processerit materiam ad examen reyocaio. Propo sitiones
falsas negato , veras concedito, dubias vero distinguito : sed de omnibus
rationem reddere memento., ne ridiculas, evadas . 258 Logic. Pars. ii. 本
Perridicula ergo est illa Scholasticorum regula: Semper nega , numquam concede
raro distingue. Si namque casu neges, duo rum alterum exspectare debebis , vel
ut ne gationis caussam adferas , vel ut lucem quo que neges meridianam :
utrumque homini sen sibili acerbissimum . . 8. Si oppositae propositionis
impossi bilitatem demostrare possis ; nihil ultra oneris habebis . Si vero in
auctoritate probatio ' versetur : sat erit adversarii te.ctus obscuros claris
auctoritatibus re fellere . 9. Caveto, ne propositionem concedas, in qua
adversarius struxit insidias : ne cx eius admissione incidas in laqucos. Schol.
Ceterum disputandi regulac usu magis ct exercitio , quam praeceptis , ad
discuntur ' . Si tamen dicendum quod res est , in huiusmodi litterariis
contentionibus von soliditas, sed promtitudo , immo ve ro impudentia valet et
veritas amittitur potius , quam invenitur : Qua de re vide inus
eruditos doctosque viros raro admodum ad disputandum descendere. Legatur
Bud seus Obseru . in Plit. instrum . Pur: III. Cup . 3. g. 11. Giuseppe
Capocasale. Keywords: dialettica, assoc: ‘tears’ are a sign of sadness, but the
kind of sign that ideas are related with are arbitrary, not necessarily natural
signs. The correlation can be iconic, arbitrary, associative, etc. A sign is
not essentially connected with the purpose of communication (smoke means fire).
Grice is into ‘communication,’ not signs as such – a theory of communication,
not a semeiotic. Capocasale does not
expand on the intricacies of the cocodrile’s tears, because he is not
interested, but it woud just take a footnote to his comment on ‘lacrimae’ being
a ‘signum’ traestitiae. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capocasale” – The
Swimming-Pool Library
Grice e Capocci – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Viterbo). Filosofo. Grice: “I like Capocci; he was a Griceian; he
opposed Aquinas on the dependence of will and intellectus – surely they are
independent, and possibly the will is more basic! La ‘volonta,’ as the Italians
call it! -- “That’s how I shall call himothers favour “Giacomo da Viterbo.””
Essential Italian philosopher – Di famiglia nobile, studia a Viterbo. His
monicker was ‘il dottore speculativo”. Insegna a Napoli. Il suo saggio più
conosciuto, “De regimine christiano” Approfondisce
i temi della teocrazia, e del potere temporale del cesare e il suo stato. Altre
opere: “Quaestiones disputatae de praedicamentis in divinis”. “Summa de
peccatorum distinctione” – “there are surely more than seven sins – Multiply
sins beyond necessity --. Dizionario
Biografico degli Italiani.Vi sono in cui Giacomo viene raffigurato con
un'aureola – segno naturale accordo di Peirce del santo.Mariani identified two
manuscripts containing a Summa de peccatorum distinctione: Biblioteca Nazionale
di Napoli, cod. vii G. 101 and Biblioteca di Montecassino, cod. 743, both of
which ascribe the work to James. Ypma does not mention. Summa de peccatorum
distinctione Fratris Jacobi de Viterbio Sacrae Theologiae Professoris , Fratrum
Eremitarum Sancti Augustini , Archiepiscopi Neapolitani. D. AMBRASI , La
Summa de peccatorum distinctione del b . Giacomo da Viterbo dal ms. VII G 101
... D. GUTIERREZ , De vita et scriptis Beati Iacobi de Viterbo , “ Analecta
Augstiniana ” , XVI , 1937 Lectura super IV libros Sententiarum Quaestiones
Parisius disputatae De praedicamentis in divinis Quaestione de animatione caeli
Quaestiones disputatae de Verbo Quodlibeta quattuor
Abbreviatio In Sententiarum Aegidii Romani De perfectione specierum De regimine
christiano Summa de peccatorum distinctione Sermones diversarum rerum
Concordantia psalmorum David De confessione De episcopali officio Like many of his contemporaries, James devotes serious
attention to determining the status of theology as a science and to specifying
its object, or rather, as the scholastics say, its subject. In Quodlibet III,
q. 1, he asks whether theology is principally a practical or a speculative
science. Unsurprisingly, perhaps, for an Augustinian, James responds that the
end of theology resides principally not in knowledge but in the love of God.
The love of God, informed by grace, is what distinguishes the way in which
Christians worship God from the way in which pagans worship their deities. For
philosophers—James has Cicero in mind—religion is a species of justice; worship
is owed to God as a sign of submission. For the Christian, by contrast, there
can be no worship without an internal affection of the soul, i.e., without
love. James allows that there is some recognition of this fact in Book X of
the Nicomachean Ethics, for the happy man would not be “most
beloved of God,” as Aristotle claims he is, if he did not love God by making
him the object of his theorizing. In this sense, it can be said that philosophy
as well sees its end as the love of God as its principal subject. But there is
a difference, James contends, in the way in which a science based on natural
reason aims for the love of God and the way in which sacred science does so:
sacred science tends to the love of God in a more perfect way. One way in which
James illustrates the difference between both approaches is by contrasting the
ways in which God is the “highest” object for metaphysics and for theology. The
proper subject of metaphysics is being, not God, although God is the highest
being. Theology, on the other hand, views God as its subject and considers
being in relation to God. Thus, James concludes, “theology is called divine or
of God in a much more excellent and principal way than metaphysics, for
metaphysics considers God only in relation to common being, whereas theology
considers common being in relation to God” (Quodl. III, q. 1, p.
20, 370–374). Another way in which James illustrates the difference between
natural theology and sacred science is by using St. Anselm's distinction
between the love of desire (amor concupiscientiae) and the love of
friendship (amor amicitiae). The love of desire is the love by which
we desire an end; the love of friendship is the love by which we wish someone
well. The love of God philosophers have in mind, James contends, is the love of
desire; it cannot, by the philosophers' own admission, be the love of
friendship, for according to Aristotle, at least in the Magna Moralia,
friendship involves a form of community or sharing between the friends that
cannot possibly obtain between mere mortals and the gods. Now although James
concedes that a “community of life” between God and man cannot be achieved by
natural means, it is possible through the gift of grace. The particular
friendship grace affords is called charity and it is to the conferring of
charity that sacred scripture is principally ordered.Like all scholastics since
the early thirteenth century, James subscribes to the distinction between God's
ordained power, according to which “he can only do what he preordained he would
do according to wisdom and will” (Quodl. I, q. 2, p. 17, 35–37)
and his absolute power, according to which he can do whatever is “doable,”
i.e., whatever does not imply a contradiction. Problems concerning what God can
or cannot do arise only in the latter case. James considers several questions:
can God add an infinite number of created species to the species already in
existence (Quodl. I, q. 2)? Can he make matter exist without form
(Quodl. IV, q. 1)? Can he make an accident subsist without a
substrate (Quodl. II, q. 1)? Can he create the seminal reason of
a rational soul in matter (Quodl. III, q. 10)? In response to the
first question, James explains, following Giles of Rome but against the opinion
of Godfrey of Fontaines and Henry of Ghent, that God can by his absolute power
add an infinite number of created species ad superius, in the
ascending order of perfection, if not in actuality, then at least in potency.
God cannot, however, add even one additional species of reality ad
inferius, between prime matter and pure nothingness, not because this
exceeds his power but because prime matter is contiguous to nothingness and
leaves, so to speak, no room for God to exercise his power (Côté 2009). James
is more hesitant about the second question. He is sympathetic both to the
arguments of those who deny that God can make matter subsist independently of
form and to the arguments of those who claim he can. Both positions can
reasonably be held, because each argues from a different (and valid)
perspective. Proponents of the first position argue from the point of view of
reason: because they rightly believe that God cannot make what implies a
contradiction, and because they believe (rightly or wrongly) that making matter
exist without form does involve a contradiction, they conclude that God cannot
make matter exist without form. Proponents of the second group argue from the
perspective of God's omnipotence which transcends human reason: because they
rightly assume that God's power exceeds human comprehension, they conclude
(rightly or wrongly) that making matter exist without form is among those
things exceeding human comprehension that God can make come to pass.Another
question James considers is whether God can make an accident subsist without a
subject or substrate. The question arises only with respect to what he calls
“absolute accidents,” namely quantity and quality, as opposed to relational
accidents—the remaining categories of accident. God clearly cannot make
relational accidents exist without a subject in which they inhere, for this
would entail a contradiction. This is so because relations for James, as we
will see in section 3.3 below,
are modes, not things. What about absolute accidents? As a Catholic theologian,
James is committed to the view that some quantities and qualities can subsist
without a subject, for instance extension and color, a view for which he
attempts to provide a philosophical justification. His position, in a nutshell,
is that accidents are capable of existing independently if they are thing-like
(dicunt rem). Numbers, place (locus), and time are not
thing-like and are thus not capable of independent existence; extension,
however, is and so can be made to exist without a subject. The same reasoning
applies to quality. This is somewhat surprising, for according to the
traditional account of the Eucharist, whereas extension may exist without a
subject, the qualities, color, odor, texture, necessarily cannot; they inhere
in the extension. James, however, holds that just as God can make thing-like
quantities to exist without a subject, so too must he be able to make a
thing-like quality exist without the subject in which it inheres. Just which
qualities are capable of existing without a subject is determined by whether or
not they are “modes of being,” i.e., by whether or not they are relational.
This seems to be the case with health and shape: health is a proportion of the
humors, and so, relational; likewise, shape is related to parts of quantity,
without which, therefore, it cannot exist. Colors and weight, by contrast, are
non-relational, according to James, and are thus in principle capable of being
made to exist without a subject.The fourth question James considers in relation
to God's omnipotence raises the interesting problem of whether the rational
soul can come from matter. James proceeds carefully, claiming not to provide a
definitive solution but merely to investigate the issue (non determinando
sed investigando). The upshot of the investigation is that although there
are many good reasons (the soul's immortality, its spirituality and its per
se existence) to say that God cannot produce the seminal reason of
the rational soul in matter, in the end, James decides, with the help of
Augustine, that such a possibility must be open to God. Thus, it is true that
in the order which God has de facto instituted, the soul's
incorruptibility is repugnant to matter, but this is not so in absolute terms:
if God can miraculously cause something to come to existence through generation
and confer immortality upon it (James is presumably thinking of the birth of
Christ), then he can make it come to pass that souls are produced through
generation without being subject to corruption. Likewise, although it appears
inconceivable that something material could generate something endowed
with per se existence, it is not impossible absolutely
speaking: if God can confer separate existence upon an accident—despite the
fact that accidents naturally inhere in their substrates—then, in like manner,
he can confer separate existence upon a soul, although it has a seminal reason
in matter. Scholastics held that because God is the creative cause of all
natural beings, he must possess the ideas corresponding to each of his
creatures. But because God is eternal and is not subject to change, the ideas
must be eternally present in him, although creatures exist for only a finite
period of time. This doctrine of course raised many difficulties, which each
author addressed with varying degrees of success. One difficulty had to do with
reconciling the multiplicity of ideas with God's unity: since there are many
species of being, there must be a corresponding number of ideas; but God is one
and, hence, cannot contain any multiplicity. Another, directly related,
difficulty had to do with the ontological status of ideas: do ideas have any
reality apart from God? If one denied them any kind of reality, it was hard to
see how they could function as exemplar causes of things; but to attribute
full-blown essential reality to them was to run the risk of introducing
multiplicity in God. One influential solution to these difficulties was
provided by Thomas Aquinas, who argued that divine ideas are nothing else but
the diverse ways in which God's essence is capable of being imitated, so that
God knows the ideas of things by knowing his essence. Ideas are not distinct
from God's essence, though they are distinct from the essences of the things
God creates (De veritate, q. 2, a. 3). One can discern two answers to
the problem of divine ideas in the works of James of Viterbo. At an early stage
of his career, in the Abbreviatio in Sententiarum Aegidii Romani—assuming
one accepts, as seems reasonable, the early dating suggested by Ypma (1975)—James
defends a position that is almost identical to that of Thomas Aquinas
(Giustiniani 1979). In his Quodlibeta, however, he moves to a
position closer to that of Henry of Ghent. In the following I will sketch
James' position in the Quodlibeta as it provides the most
mature statement of his views. Although James agreed with the notion that ideas
are to be viewed as the differing ways in which God can be imitated, he did not
think that one could make sense of the claim that God knows other things by cognizing
his own essence unless one supposed that the essences of those things preexist
in some way (aliquo modo) in God. James' solution is to distinguish
two ways in which ideas are in God's intellect. They are in God's intellect,
firstly, as identical with it, and, secondly, as distinct from it. The first
mode of being is necessary as a means of acknowledging God's unity; but the
second mode of being is just as necessary, for, as James puts it (Quodl. I,
q. 5, p. 64, 65–67), “if God knows creatures before they exist, even insofar as
they are other than him and distinct (from him), that which he knows is a
cognized object, which must needs be something; for that which nowise exists
and is absolutely nothing cannot be understood.” But James also thinks that
the necessity of positing distinct ideas in God follows from a consideration of
God's essence. God enjoys the highest degree of nobility and goodness. His mode
of knowledge must be commensurate with his nature. But according to Proclus, an
author James is quite fond of quoting, the highest form of knowledge is
knowledge through a thing's cause. That means that God knows things through his
own essence. However, he does so by knowing his essence as a
cause, and that is possible only by knowing “something (aliquid)
through a cause, not merely by knowing that which is the cause (i.e., God)”.
Although James' insistence on the distinctness of ideas with respect to God's
essence is reminiscent of Henry of Ghent's teaching, it is important to note,
as has been stressed by M. Gossiaux (2007), that James does not conceive of
this distinctness as Henry does. For Henry, ideas possess esse
essentiae; James, by contrast, while referring to divine ideas as things (res),
is careful to add that they are not things “in the absolute sense but only
determinately,” viz., as cognized objects (Quodl. I, q. 5, p. 63,
60). Thus, divine ideas for James possess a lesser degree of distinction from
God's essence than do Henry of Ghent's. Nevertheless, because James did
consider ideas to be distinct in some sense from God, his position would be
viewed by some later authors—e.g., William of Alnwick—as compromising divine
unity. The concept of being, all the medievals agreed, is common. What was
debated was the nature of the commonness. According to James of Viterbo, all
commonness is founded on some agreement, and this agreement can be either
merely nominal or grounded in reality. Agreement is nominal when the same name
is predicated of wholly different things, without there being any objective
basis for the application of the common name; such is the case of equivocal
names. Agreement is real in the following two cases: (1) if it is based on
some essential resemblance between the many things to which
a particular concept applies, in which case the concept applies to these many
things by virtue of the self same ratio and is said of them
univocally; or (2) if that concept is truly common to the many things of which
it is said, although it is not said of them relative to the same nature (ratio),
but as prior to one and posterior to the others, insofar as these are related
in a certain way to the first. A concept that is predicated of things in this
way is said to be analogous, and the agreement displayed by the things to which
it applies is said to be an agreement of attribution (convenientia
attributionis). James believes that it is according to this sense of
analogy that being is said of God and creatures, and of substance and accident
(Quaestiones de divinis praedicamentis I, q. 1, p. 25, 674–80).
For being is said in a prior sense of God and in a posterior sense of creatures
by virtue of a certain relation between the two; likewise, being is said first
of substance and secondarily of accidents, on account of the relation of
posteriority accidents have to substance. The reason why being is said in a
prior sense of God and in a secondary sense of creatures and, hence, the reason
why the ‘ratio’ or nature of being is different in the two cases is
that being, in God, is “the very thing which God is” (Quaestiones de
divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 412), whereas created being is only
being through something added to it. From this first difference follows a
second, namely, that created being is being by virtue of being related to an
agent, whereas uncreated being has no relation. These two differences can be
summarized by saying that divine being is being through itself (per se),
whereas created being is being through another (per aliud) (Quaestiones
de divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 425–6). In sum, being is said of
God and creature, but according to a different ratio: it is said
of God according to the proper and perfect nature of being, but of creatures in
a derivative or secondary way.James' most detailed discussion of the
distinction between being and essence occurs in the context of a question that
asks if creation could be saved if being (esse) and essence were not
different (Quodl. I, q. 4). His answer is that although he finds
it difficult to see how one could account for creation if being and essence
were not really different, he does not believe it is necessary to conceive of
the real distinction in the way in which “certain Doctors” do. Which Doctors
does he have in mind? In Quodl. I, q. 4, he summarizes the
views of three authors: Godfrey of Fontaines, according to whom the distinction
is only conceptual (secundum rationem); Henry of Ghent, for whom esse is
only intentionally different from essence, a distinction that is less than a
real distinction but greater than a rational distinction; and finally, Giles of
Rome, for whom esse is one thing (res), and essence
another. Thus, James agrees with Giles, and disagrees with Henry and Godfrey,
that the distinction between being and essence is real; however, he disagrees
with Giles about the proper way of understanding the real distinction.The
starting point of his analysis is Anselm's statement in the Monologion that
the substantive lux (light), the infinitive lucere (to
emit light), and the present participle lucens (emitting
light) are related to each other in the same way as essentia (essence), esse (to
be), and ens (being). The relation of lucere to lux,
he tells us, is the relation of a concrete term to an abstract one.
To-emit-light denotes light as an act, just as to-be (esse) denotes
essence from the point of view of an act. Now, a concrete term signifies more
things than the corresponding abstract term, e.g., esse signifies
more things than essence, for essence signifies only the form, whereas esse signifies
the form principally and the subject secondarily. By ‘subject’ James means the
actually existing thing, which he also calls the aggregate or supposit (Wippel
1981). Esse and essence thus signify the same thing
principally, but differ in terms of what they signify secondarily. Although
this difference is only conceptual in the case of God, it is real in the case
of creatures. It is this difference that explains why one does not predicate
to-emit-light (lucere) of light itself (lux) or being of
essence: what properly exists is that which has essence, viz., the
supposit. Esse denotes essence as existing in a supposit.The
kernel of James' solution, then, lies in the distinction between what terms
signify primarily and secondarily. To his mind, this is what makes his solution
closer in spirit to Giles of Rome than to either Godfrey or Henry, without
committing him to a conception of the distinction as rigid as that of Giles.
The distinction is real for James, but in a qualified way (Gossiaux 1999).
Because identity or difference between things is determined to a greater degree
by primary rather than by secondary signification, it follows that essence and
existence are primarily and absolutely the same (idem) and
conditionally or secondarily distinct. Yet, although the distinction is conditional
or secondary, it is nonetheless James devotes five of his Quaestiones
de divinis praedicamentis (qq. 11–15), representing some 270 pages of
edited text, to the question of relations. It is with a view to providing a
proper account of divine relations, he explains, that it is “necessary to
examine the nature of relation with such diligence” (Quaestiones de divinis
praedicamentis, q. 11, p. 12, 300–301). But before turning to Trinitarian
relations, James devotes the whole of q.11 to the status of relations in
general. The following account focuses exclusively on q. 11. James in essence
adopts Henry of Ghent's “modalist” solution, which was to exercise considerable
influence among late thirteenth-century thinkers (Henninger 1989), although he
disagrees with Henry about the proper way of understanding what a mode is.The
question boils down to whether relations exist in some manner in extra-mental
reality or solely through the operation of the intellect, like second
intentions (species and genera). Many arguments can be adduced in support of
each position, as Simplicius had already shown in his commentary on
Aristotle's Categories—a work that would have a decisive
influence on James' thought. For instance, in support of the view that
relations are not real, one may point out that the intellect is able to
apprehend relations between existents and non-existents, e.g., the relation
between a father and his deceased son; yet, there cannot be anything real in
the relation given that one of the two relata is a non-existent. But if so,
then the same must be true of all relations, as the intellectual operation
involved is the same in all cases. Another argument concerns the way in which
relations come to be and cease to be. This appears to happen without any change
taking place in the subject which the relation is said to affect. For instance,
a child who has lost his mother is said to be an orphan until the age of
eighteen, at which point it ceases to be one, although no change has occurred:
“the relation recedes or ceases by reason of the mere passage of time.”But good
reasons can also be found in support of the opposing view. For one, Aristotle
clearly considers relations to be real, as they constitute one of the ten
categories that apply to things outside the soul. Furthermore, according to a
view commonly held by the scholastics, the perfection of the universe cannot
consist solely of the perfection of the individual things of which it is made;
it is also determined by the relations those things have to each other; hence,
those relations must be real.The correct solution to the question of whether
relations are real or not, James contends, depends on assigning to a given
relation no more but no less reality than is fitting to it. Those who rely on
arguments such as the first two above to infer that relations are entirely
devoid of reality are guilty of assigning relations too little reality; those
who appeal to arguments such as the last two, showing that relations are
distinct from their subjects in the way in which things are distinct from each
other, assign too great a degree of reality to relations. The correct view must
lie somewhere in between: relations are real, but are not distinct from their
subjects in the way one thing is distinct from another.That they must be real
is sufficiently shown by the first Simplician arguments mentioned above, to
which James adds some others of his own. However, showing that they are not
things is slightly more complicated. James' position, in fact, is that
relations are not things “properly and absolutely speaking,” but only “in a
certain way according to a less proper way of speaking.” A relation is not a
thing in an absolute sense because of the “meekness” of its being, for which
reason “it is like a middle point between being and non-being” (Quaestiones
de divinis praedicamentis, q. 11, p. 30, 668–9). The reasoning behind this
last statement is as follows: the more intrinsic some principle is to a thing,
the more that thing is said to be through it; what is maximally intrinsic to a
thing is its substance; a thing is therefore maximally said to be on account of
its substance. Now a thing's being related to another is, in the constellation
of accidents that qualify that thing, what is minimally intrinsic to it and
thus farthest from its being, and so closest to non-being. But if relations are
not things, at least in the absolute sense, what are they? James answers that
they are modes of being of their foundations. “The mode of
being of a thing does not differ from the thing in such a way as to constitute
another essence or thing. The relation, therefore, is not different from its
foundation” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 33,
745–7). Speaking of relations as modes allows us to acknowledge their reality,
as attested by experience, without hypostasizing them. A certain number's being
equal to another is clearly something distinct from the number itself. The
number and its being equal are two “somethings” (aliqua), says James;
they are not, however, two things; they are two in the sense that
one is a thing (the number) and the other is a mode of being of the number.In
making relations modes of being of the foundation, James was
clearly taking his cue from Henry of Ghent, who has been called “the chief
representative of the modalist theory of relation” (Henninger 1989). For Henry
and James, relations are real in the sense that they are distinct from their
foundations and belong to extra mental reality. However, James' understanding
of the way in which a relation is a mode differs from Henry's. For Henry, a
thing's mode is the same thing as its ratio or nature; it is
the particular type of being that thing has, what “specifies” it. But according
to James' understanding of the term, a mode lies beyond the ratio of
a thing, like an accident of that thing (Quaestiones de divinis
praedicamentis, p. 34, 767–8). In conclusion, one could say that in his
discussion of relations, James was guided by the same motivation as many of his
contemporaries, namely securing the objectivity of relations without conferring
full-blooded existence upon them. Relations do exhibit some form of being,
James believed, but it is a most faint one (debilissimum), the
existence of a mode qua accident. James
discusses individuation in two places: Quodl. I, q. 21
and Quodl. II, q. 1. I will focus on the first treatment,
because it is the lengthier of the two and because the tenor of James' brief
remarks on individuation in Quodl. II, q. 1, despite certain
similarities with his earlier discussion (Wippel 1994), make it hard to see how
they fit into an overall theory of individuation.The question James faces
in Quodl. I, q. 21 is a markedly theological one, namely
whether, if the soul were to take on other ashes at resurrection, a man would
be numerically the same as he was before. In order to answer that question,
James tells us, it is first necessary to determine what the cause of numerical
unity is in the case of composite beings. There have been numerous answers to
that question and James provides a short account of each. Some philosophers
have appealed to quantity as the principle of numerical unity; others to
matter; others yet to matter as subtending indeterminate dimensions; finally,
others have turned to form as the cause of individuation. According to James,
each of these answers is part of the correct explanation though it is
insufficient if taken on its own. The correct view, according to him, is that
form and matter taken together are the principal causes of numerical identity
in the composite, with quantity contributing something “in a certain manner.”
Form and matter, however, are principal causes in different ways; more
precisely, each accounts for a different kind of numerical unity. For by
‘singularity’ we can really mean two distinct things: we can mean the mere fact
of something's being singular, or we can point to a thing qua “something
complete and perfect within a certain species” (Quodl. I, 21,
227, 134–35). It is matter that accounts for the first kind of singularity, and
form for the second. Put otherwise, the kind of unity that accrues to a thing
on account of its being a mere singular, results from the concurrence of the
“substantial” unity provided by matter and the “accidental” unity provided by
quantity. By contrast, the unity that characterizes a thing by virtue of the
perfection or completeness it displays is conferred to it by the form, which is
the principle of perfection and actuality in composites.Although James thinks
he can quite legitimately enlist the support of such prestigious authorities as
Aristotle and Averroes in favor of the view that matter and form together are
constitutive of a thing's numerical unity, his solution has struck commentators
as a somewhat contrived and ad hoc attempt to reach a compromise solution at
all costs (Pickavé 2007; Wippel 1994). James, it has been suggested, “seems to
be driven by the desire to offer a compromise position with which everyone can
to some extent agree” (Pickavé 2007: 55). Such a suggestion does accord with
what we know about James' temperament, namely, his dislike of controversy and
his tendency, on the whole, to prefer solutions that present a “middle way” (Quaestiones
de divinis praedicamentis, q. 11, p. 23, 513; Quodl. II,
q. 7, p. 108, 118; De regimine christiano, 210; see also Quodl. II,
q. 5, p. 65, 208–209). However, James' professions of moderation must sometimes
be taken with a grain of salt, as there are some positions he wants to pass off
as moderate that are quite far from being so, as we will see in Section 7 below.The
belief that matter contains the ‘seeds’ of all the forms that can possibly
accrue to it is one of the hallmarks of James of Viterbo's thought, as is the belief
that the soul pre-contains, in the shape of “propensities” (idoneitates),
all the sensitive, intellective, and volitional forms it is able to take on. We
will look at James' doctrine of propensities in the intellect in Section 5, and
his doctrine of propensities in the will in Section 6. In
this section, we present James' arguments in favor of seminal reasonsOne
important reason for subscribing to the existence of seminal reasons is that
the doctrine enjoys the support of Augustine. Although James is sometimes
quite critical of his Augustinian contemporaries, including his predecessor
Giles of Rome, he is an unreserved follower of Augustine, especially when it
comes to the greater philosophical issues, such as knowledge and natural
causation. However, what is particularly interesting about James is the way in
which he enlists such decidedly un-Augustinian sources as Aristotle, Averroes,
and especially Simplicius in the service of his Augustinian convictions (Côté
2009). James offers a thorough discussion of seminal reasons in Quodl. II,
q. 5. The question he raises there is not so much whether there are
seminal reasons, for this is “admitted by all Catholic doctors” (Quodl. II,
q. 5, p. 59, 16), but rather, how one is to properly conceive of them. A
seminal reason, according to James, has two characteristics: it is (1) an
inchoate state of the form to be, and (2) an active principle. Most of the
discussion in Quodl. II, q. 5 is devoted to establishing the
first point. James thinks that the thesis that forms are present in potency in
matter is consonant with the teaching of Aristotle, who, he claims, follows a
“middle way” on the issue of generation, eschewing both the position that forms
are created, and also Anaxagoras' “hidden-forms hypothesis,” according to which
all forms are contained in act in everything. Now to say that forms are present
in matter inchoately or in potency, according to James, entails that the
potency of matter is something distinct from matter itself.
One argument in favor of this thesis is that matter is not corrupted by the
taking on of a form: it remains in potency towards other forms. Also, potency
is relational, whereas matter is absolute. When James states that matter is
distinct from potency he does not mean to say that they are entirely distinct
or unconnected, quite the contrary: potency is the potency of matter.
However, potency adds three characteristics to the concept of matter. First, it
adds the idea of a relation to a form (matter is in potency towards a form);
second, it adds the idea that the form to which it is related is a form it lacks;
finally, it implies that the form which matter lacks is a form it has the
capacity to acquire, for as James explains, one does not say that a stone is in
potency toward the power of sight merely because it lacks sight. In order for
something to be in potency toward a particular form it must both lack that form
and also possess an aptitude to take it on. James neatly summarizes his views
in the following passage: “[the potency of matter] denotes a respect of the
matter toward the form, attendant upon its lacking that form and having the
aptitude to take it on, so that four properties are included in the concept of
potency, namely matter, lack of form, aptitude toward the form and a respect
toward the form insofar as it is educible by an agent and motor cause” (Quodl. II,
q. 5, p. 69, 359 – p. 70, 363). The originality of James'
position lies in the way in which he conceives matter's aptitudes. The term
“aptitude” has a precise technical meaning, which he fleshes out with the help
of Simplicius' commentary on the Categories. It denotes a certain
incipient or inchoative state of the form in matter. Potency and act, James
tells us, are two states or modes of the same thing, not two distinct things.
What exists in the mode of actuality must preexist in the mode of potency, but
in an inchoate way. James is aware of the several objections that may be
leveled against his conception of aptitudes or propensities. The most serious
of these is perhaps the charge that their existence makes generation, i.e., the
production of new beings, impossible or useless. James replies by suggesting
that those who argue in this fashion misconstrue Aristotle's doctrine of
change. For change, according to Averroes' understanding of Aristotle
(see Quodl. III, q. 14), does not result from an agent's
implanting a form in a receiving subject, for this would imply that forms
“migrate” from subject to subject; it results rather from an agent's making
that which is in potency to be in act. For this to occur, however, more is
required than the mere passive potency of matter: the seminal reason must also
be viewed as an active principle. The activity of potency manifests itself in
the shape of a natural inclination or tendency to attain its completion.
Generation thus requires two things (besides God's general operative
causality): the “transmutative” agency of an extrinsic cause and the intrinsic
agency of the formae inchoativum which inclines the potency
to attain its completion. James' doctrine of seminal reasons would elicit considerable
criticism in the early fourteenth century and beyond (Phelps 1980). The initial
reaction came from Dominicans, e.g., Bernard of Auvergne, the author of a
series of Impugnationes (i.e., attacks) contra
Jacobum de Viterbio, and John of Naples who argued against James'
distinction between the potency of matter and potency. But James' theory would
also encounter resistance from within the Augustinian Order, e.g., from
Alphonsus Vargas of Toledo. James' doctrine of cognition
must also be understood in the context of his thoroughgoing Augustinianism and
against the backdrop of the late thirteenth-century arguments against Thomistic
abstraction theories. According to Thomas Aquinas' theory of knowledge, the
agent intellect abstracts a thing's form or essential information from the
image or representation of that thing. The outcome of this process was what
Aquinas called the intelligible species, which was then taken to “move” the
possible intellect to conceptual understanding. However, as thinkers such as Vital
du Four and Richard of Middleton were to point out (see the articles by Robert
and Noone), the information coming in through the senses is related to a
thing's accidental properties, not to its substance. How, then, could
abstraction from the senses produce an intelligible species relating to the
thing's essence? Although James of Viterbo agreed by and large with the spirit of
this objection and believed that the replies by proponents of abstractionism
were unsuccessful, he had another reason for rejecting the theory. This was
because it implied a view of the intellect which he thought to be profoundly
mistaken, namely, the view that there is a real distinction between the agent
intellect (which abstracts the species) and the possible intellect (which receives
it). If it were truly the case, he reasoned, that one needed to posit a
distinct agent intellect because phantasms are only potentially intelligible,
then, by the same token, one would have to posit an “agent sense”, because
sensibles “are only sensed in potency” (Quodl. I, q. 12, p. 164,
234). But given that no proponent of abstraction admits an agent sense, one
should not allow them an agent intellect. Furthermore, if there were an agent
intellect distinct from the possible intellect, it would be a natural power of
the soul and so would be required for the cognition of all intelligibles,
not just a certain class of them. Similarly, qua natural power, its use would
be required not only in the present life but also in the afterlife. But of
course that would be absurd, as the agent intellect, ex hypothesi,
is only necessary to abstract form from matter, something the mind does only
when it is joined to a corruptible body. James was well aware that by
denying the distinction between the two intellects, he was opposing the
consensus view of Aristotle commentators. Indeed, his views seem to run counter
to the De anima itself, though, as he would mischievously
point out, it was difficult to determine just what Aristotle's doctrine was, so
obscure was its formulation (Quodl. I, q. 12, p. 169, 426—170,
439). He replied that what he was denying was not the existence of a
“difference” in the soul, but merely that the existence of a difference implied
a distinction of powers (Quodl. I, q. 12, p. 170, 440–45). The intellect,
he held, was both in act and in potency, active and passive, but one could
account for its having these contrary properties without resorting to the two
intellect model. This is because intellection is not a transient action (like
hitting a ball), requiring an active subject distinct from a passive recipient;
rather, it is an immanent action (like shining). James' solution, in other
words, was to conceive of the intellect (as indeed the will) as essentially
dynamic, as an “incomplete actuality”, its own formal cause, spontaneously
tending toward its completion, much in the way seminal reasons tend toward
their completing forms—indeed both discussions drew their inspiration from the
same source: Simplicius' commentary on Aristotle's analysis of the second
species of quality. The intellect was described as a general (innate)
propensity made up of a series of more specific (equally innate) propensities,
the number of which was a function of the number of different things the
intellect is able to know: “The intellective power is a general propensity with
respect to all intelligibles, that is, with respect to the actual conforming to
all intelligibles. On this general propensity are founded other specific ones,
which follow the diversity of intelligibles” (Quodl. VII, q. 7,
p. 93, 453–55). Of course, as James readily acknowledged, although the
intellect is its own formal cause, it cannot issue forth an act of intellection
without some input from the senses. However, the type of causality the senses
were viewed as exercising was deemed to be purely “excitatory” or “inclinatory”
(Quodl. I, q. 12, p. 175, 613–16), making the senses not the
principal but rather an instrumental cause of intellection. In all, three
causes account for the operation of the intellect, according to James: 1) God
as efficient cause; 2) the soul and its propensities as formal cause, and 3)
the object presented by the senses as “excitatory” cause. Although,
as we have just seen, James rejected the distinction between the agent and
possible intellects, there was another, equally widely-held distinction in the
area of psychology that he did maintain, namely the distinction between the
soul and its powers.For the purposes of this article, it will suffice to think
of the debate regarding the relation of the soul to its powers as being
motivated at least in part by the need to provide a coherent understanding of
the soul's structure and operations in view of two inconsistent but equally
authoritative accounts of the soul's relation to its powers. One was that of
Augustine, who had asserted that memory, intelligence, and will (i.e., three
powers) were one in substance (De trinitate X, 11), and so
believed that the soul was identical with its powers; the other was
Aristotle's, who clearly believed in a certain distinction, and whose remarks
about natural capacities (dunameis) as belonging to the second species
of quality, in Categories c. 8,14–27, and hence to the
category of accident, making them distinct from the soul's essence, were
commonly applied by the scholastics to the soul's powers. Each view, of course,
had its supporters; and, naturally, as was so often the case, attempts were
made to find a middle way that would accommodate both positions. During James'
tenure as Master at the University of Paris, the majority view was very much
that there was a real distinction. It was the view held by many of the
scholastics whose teachings he studied most carefully, namely Aquinas, Giles of
Rome, and Godfrey of Fontaines. There was, however, a commonly discussed
minority position, one that eschewed both real distinction and identity: that
of Henry of Ghent. Henry believed that the powers of the soul were
“intentionally”, not really, distinct from its essence. James, however, sided
with Thomas, Giles, and Godfrey, against Henry (Quodl. II, q. 14,
p. 160, 70–71; Quodl. III, q. 5, p. 83, 56—84, 63). His
reasoning was as follows. Given that everyone agreed that there was a real
distinction between the soul and one of its powers in act (between the soul
and, e.g., an occurrent act of willing), then if one denied that there was a
real distinction between the soul and its powers, as Henry had, one would be
committed to the existence of a real distinction between the power in act
(e.g., an occurrent act of willing) and that same power in potency (that is,
the will, qua power, as able to produce that act), since the power in act is
really the same as the soul. But as we saw in the preceding section, something
in potency is not really distinct from that same thing in act. This followed
from James' reading of Simplicius' account of qualities in the latter's
commentary on Aristotle's Categories. For instance, seminal
reasons are not really distinct from the fully-fledged forms that proceed from
them, nor are intellective “propensities” really distinct from the fully
actualized cognized forms. Hence, James concluded, the powers must be really
distinct from the soul's essence. The question of the will's
freedom was of paramount importance to the scholastics. Unlike modern thinkers,
for whom establishing that the will is free is tantamount to showing that its
act falls outside the natural nexus of cause and effect, showing that the will
is free, for medieval thinkers, usually involved showing that its act is
independent of the apprehension and judgment of the intellect.
Although the scholastics generally granted that a voluntary act results from
the interplay between will and intellect, most of them preferred to single out
one of the two faculties as the principal determinant of free choice. Thus, for
Henry of Ghent, the will is the sole cause of its free act (Quodl. I,
q. 17), so much so that he tends to relegate the intellect's role to that of a
sine qua non cause. For Godfrey of Fontaines, by contrast, it is the intellect that
exercises the decisive motion (Quodl. III, q. 16). Although James of
Viterbo sometimes claims to want to steer a middle course between Henry and
Godfrey (Quodl. II, q. 7), his preferences clearly lie with a position
like that of Henry's, as can be gathered from his most detailed treatment of
the question in Quodl. I, q. 7. James'
thesis in Quodl. I, q. 7 is that the will is a self-mover and
that the object grasped by the intellect moves the will only metaphorically.
His main challenge is to show is that this position is compatible with the
Aristotelian principle that whatever is moved is moved by another. As we
saw in the previous section, James believes that the soul is made up of what he
calls “aptitudes” or “propensities” (idoneitates), which are the
similitudes of all things knowable and desirable, “before [the soul] actually
knows or desires them” (Quodl. I, q. 7, p. 91, 407 – p. 92, 408). The
pre-existence of such aptitudes implies that the soul is neither a purely
passive potency nor made up of fully actualized forms, but rather an
“incomplete actuality” or, perhaps more correctly, a set of “incomplete
actualities,” which James describes as being “naturally inserted in [the soul],
and thus, remaining in it permanently, though sometimes in an imperfect state,
sometimes in a state perfected by the act” (Quodl. I, q. 7, p. 92,
419–24). In order to show how this view of the soul is compatible with
Aristotle's postulate that every motion requires a mover distinct from the
thing moved, James introduces a distinction between two sorts of motion:
efficient and formal. Efficient motion occurs when motion is caused by a thing
that possesses the complete form of the particular motion caused; formal motion
occurs when the moving thing has the incomplete form of the thing moved.
Heating is given as an example of the first kind of motion; “gravity” or rather
heaviness, i.e., the tendency of heavy bodies to fall, is cited as an example
of the second kind of motion. Aristotle's principle applies only to the first kind
of motion, James asserts, not the second. Things which possess an incomplete
form naturally—i.e., in and of themselves without an external mover—tend to
their completion and are prevented from reaching it only by the presence of an
external obstacle. For instance, a heavy object naturally tends to move
downward and will do so unless it is hindered. Such, mutatis mutandis,
is the case of the soul and especially of the will: the will as an incomplete
actuality naturally tends to its completion; in that sense, that is, formally
but not efficiently, it is self-moved. The difference between it and the heavy
object is that whereas the object moves upon the removal of
an obstacle, the will requires the presence of an object; it
requires, in other words, the intervention of the intellect in order to direct
it to a particular object. However, once again, the intellect's action is
viewed by James as being merely metaphorical, that is, extrinsic to the will's
proper operation. Like Albert the Great and Thomas Aquinas, James of Viterbo
holds that the moral virtues, considered as habits, i.e., virtuous dispositions
or acts, are connected. In other words, he believes that one cannot have one of
the virtues without having the others as well. The virtues he has in mind are
what he calls the “purely” moral virtues, that is, courage, justice, and
temperance, which he distinguishes from prudence, which is a partly moral,
partly intellectual virtue. In his discussion in Quodl. II, q. 17
James begins by granting that the question is difficult and proceeds to expound
Aristotle's solution, which he will ultimately adopt. As James sees it,
Aristotle proves in Nicomachean Ethics VI the connection of
the purely moral virtues by showing their necessary relation to prudence, and
this is to show that just as moral virtue cannot be had without prudence,
prudence cannot be had without moral virtue. The connection of the purely moral
virtues follows from this: they are necessarily connected because (1) each is
connected to prudence and (2) prudence is connected to the virtues (Quodl.
II, q. 17, p. 187, 436 – p. 188, 441). Since the time of Augustine, theologians
had agreed that man needs the gift of grace in order to love God more than
himself, and that he cannot do so by natural means. However, in the early
thirteenth century, theologians raised the question of whether, at least in his
pre-lapsarian state, man did not love God more than himself. That this was in
fact the case was the belief of Philip the Chancellor as well as Thomas Aquinas.
Other authors, such as Godfrey of Fontaines and Giles of Rome, argued further
that to deny man the natural capacity to love God more than himself, while
allowing this to happen as a result of grace, was to imply that the operations
of grace went counter to the those of nature, which was contrary to the
universally accepted axiom that grace perfects nature and does not destroy it.
By contrast, James of Viterbo famously argues in Quodl. II, q. 2,
against the overwhelming consensus of theologians, that man naturally loves
himself more than God. He has two arguments to show this (see Osborne 1999 and
2005 for a detailed commentary). The first is based on the principle that the
mode of natural love is commensurate with the mode of being and, hence, of the
mode of being one. Now a thing is one with itself by virtue of numerical
identity, but it is one with something else by virtue of a certain conformity.
For instance Socrates is one with himself by virtue of his being Socrates, but
he is one with Plato by virtue of the fact that both share the same form. But
the being something has by virtue of numerical identity is “greater” than the
being it has by reason of something it shares with another. And given that the
species of natural love follows the mode of being, it follows that it is more
perfect to love oneself than to love another (Quodl. II, q. 20, p.
206, 148 – p. 149, 165). The second argument attempts to infer the desired
thesis from the universally accepted premise that “the love of charity elevates
nature” (Quodl. II, q. 20, p. 207, 166–67). This is true both of
the love of desire and the love of friendship. In the case of love of desire,
grace elevates by acting on the character of love: by natural love of desire we
love God as the universal good. Through grace God is loved as the beatifying
good. Regarding love of friendship, James explains that God's charity can only
elevate nature with respect to its “mode,” that is, with respect to the object
loved, by making God, not the self, the object of love. In other words, James
is telling us that if we are to take seriously the claim that grace elevates
nature, there is only one way in which this can occur, namely by making God,
not the self, the object of greatest love, which implies that in his natural
state man loves himself more than God. James'
opposition to the consensus position on the issue of the love of self vs. the
love of God would not go unnoticed. In the years following his death, such
authors as Durand of Saint-Pourçain and John of Naples criticized him
vigorously and attempted to refute his position (Jeschke 2009). Although
James touches briefly on political issues in Quodl. I, q. 17 (see
Côté, 2012), his most extensive discussions occur in his celebrated De
regimine christiano (On Christian Government), written in
1302 during the bitter conflict pitting Boniface VIII against the king of
France Philip IV (the Fair). De regimine christiano is often
compared in aim and content with Giles of Rome's De ecclesiastica
potestate (On Ecclesiastical Power), which offers one of the
most extreme statements of pontifical supremacy in the thirteenth century;
indeed, in the words of De regimine's editor, James' goal is “to
formulate a theory of papal monarchy that is every bit as imposing and
ambitious as that of [Giles]” (De regimine christiano: xxxiv).
However, as scholars have also recognized, James shows a greater sensitivity to
the distinction between nature and grace than Giles (Arquillière 1926). De
regimine christiano is divided into two parts. The first, dealing
with the theory of the Church, is of little philosophical interest, save for
James' enlisting of Aristotle to show that all human communities, including the
Church, are rooted in the “natural inclination of mankind.” The second and
longest part is devoted to defining the nature and extent of Christ's and the
pope's power. One of James' most characteristic doctrines is found in Book II,
chapter 7, where he turns to the question of whether temporal power must be
“instituted” by spiritual power, in other words, whether it derives its
legitimacy from the spiritual, or possesses a legitimacy of its own. James
states outright that spiritual power does institute temporal power, but notes
that there have been two views in this regard. Some, e. g., the proponents of
the so-called “dualist” position such as John Quidort of Paris, hold that the
temporal power derives directly from God and thus in no way needs to be
instituted by the spiritual, while others, such as Giles of Rome in De
ecclesiastica potestate, contend that the temporal derives wholly from the
spiritual and is devoid of any legitimacy whatsoever “unless it is united with
spiritual power in the same person or instituted by the spiritual power” (De
regimine christiano: 211). James is dissatisfied with
both positions and, as he so often does, endeavors to find a “middle way”
between them. His solution is to say that the “being” of the temporal power's
institution comes both from God—by way of man's natural inclination—in “a
material and incomplete sense,” and from the spiritual power by which it is
“perfected and formed.” This is a very clever solution. On the one hand, by
rooting the temporal power in man's natural inclination, albeit in the
imperfect sense just mentioned, James was acknowledging the legitimacy of
temporal rule independently of its connection to the spiritual, thus
“avoid[ing] the extreme and implausible view of [Giles of Rome]” (Dyson 2009:
xxix). On the other hand, making the natural origins of temporal power merely
the incomplete matter of its being was a way of stressing its subordination and
inferiority to the spiritual order, in keeping with his papalist convictions.
Still, James' very choice of analogies to illustrate the relationship between
the spiritual and temporal realms showed that his solution lay much closer to
the theocratic position espoused by Giles of Rome than his efforts to find a
“middle way” would have us believe. Thus, comparing the spiritual power's
relation to the temporal in terms of the relation of light to color, he
explains that although “color has something of the nature of light, (…) it has
such a feeble light that, unless there is present a more excellent light by
which it may be formed, not in its own nature but in its power, it cannot move
the vision” (De regimine christiano: 211). In other words, James is
telling us that although temporal power does originate in man's natural
inclinations, it is ineffectual qua power unless it is informed by the
spiritual. Bibliography Modern Editions of James' Works Abbreviatio in
I Sententiarum Aegidii Romani, dist. 36. Edited by P. Giustiniani, Analecta
Augustiniana, 42 (1979): 325–338. De regimine christiano. A Critical Edition
and Translation by R.W. Dyson, Leiden: Brill, 2009. Replaces Arquillière's
edition (see below for complete reference), as well as Dyson's earlier
translation in James of Viterbo, On Christian Government (De regimine
christiano). Edited and Translated by R.W. Dyson, Woodbridge: The Boydell
Press, 1995. Disputationes de quolibet. Edited by E. Ypma, Würzburg: Augustinus
Verlag, vols. I-III, and V, 1968-75. Prima quaestio disputata de Verbo. Edited
by C. Scanzillo in “Jacobus de Viterbio OSA: La ‘Prima quaestio disputata de
Verbo’ del codice A. 971 delle Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna. Edizione
e note,” Asprenas, 19 (1972): 41–61. Quaestiones de divinis praedicamentis, qq.
I-X and XI-XVII. Edited by E. Ypma (Corpus Scriptorum Augustianorum, Vol. V,
1–2), Rome, Augustinianum, 1983, 1986; q. XVIII, Augustiniana, 38 (1988):
67–98; q. XIX, Augustiniana, 39 (1989): 154–185; q. XX, Augustiniana, 42
(1992): 351–378; q. XXI, Augustiniana, 44 (1994): 177–208; q. XXII,
Augustiniana, 45 (1995): 299–318; q. XXIII, Augustiniana, 46 (1996): 147–76; q.
XXIV, Augustiniana, 46 (1997): 339–369; q. XXV, Augustiniana, 48 (1998):
131–163; q. XXVI, Augustiniana, 49 (1999): 323–336. (Fr. Ypma's declining
health and subsequent death in 2007 prevented him from completing the edition
of the remaining Quaestiones.) Summa de peccatorum distinctione. Edited by D.
Ambrasi, Asprenas, 6 (1959): 189–218. Secondary Literature Ambrasi, D., 1959,
“La Summa de peccatorum distinctione del B. Giacomo da Viterbo dal ms. VII G
101 della Biblioteca Nazionale di Napoli,” Asprenas, 6: 47–78, 189–218,
288–308. Anderson, D., 1995, “‘Dominus Ludovicus’ in the Sermons of Jacobus of
Viterbo (Arch. S. Pietro D.213),” in Literature and Religion in the Later
Middle Ages: Philological Studies in Honor of Siegfried Wenzel, R. Newhauser
and J. A. Alford (eds.), Binghamton, N.Y.: Medieval & Renaissance Texts
& Studies, pp. 275–295. Arquillière, F.-X., 1926, Le plus ancien traité de
l'Église: Jacques de Viterbe ‘De regimine christiano’ (1301–1302). Étude des
sources et édition critique, Paris: G. Beauchesne. Bataillon, L. J.,
1989, “Quelques utilisateurs des textes rares de Moerbeke (Philopon, tria
Opuscula) et particulièrement Jacques de Viterbe,” in Guillaume de Moerbeke.
Recueil d'études à l'occasion du 700e anniversaire de sa mort (1286), J.
Brams et W. Vanhamel (eds.), Leuven: Leuven University Press, pp. 107–112.
Beneš, J., 1927, “Valor possibilium apud S. Thomam, Henricum Gandavensem et B.
Iacobum de Viterbio,” Divus Thomas (Piacenza) 30: 333–55. Côté, A., 2012,“Le
Quodlibet I, question 17 de Jacques de Viterbe: introduction, traduction et notes,”
Augustiniana, 62: 45–76. –––, 2010, L'âme, l'intellect, et la volonté, Paris:
Librairie Philosophique J. Vrin. Latin text of James of Viterbo's Quod. I, q. 7
(partial), q. 12 (complete), and 13 (complete), with French Translation,
Introduction, and notes. –––, 2009a, “Le progrès à l'infini des perfections
créées selon Godefroid de Fontaines et Jacques de Viterbe,” in Actualité de
l'infinité divine aux XIIIe et XIVe siècles, D. Arbib (ed.) Les Études
Philosophiques, 4: 505–530. –––, 2009b, “Simplicius and James of Viterbo on
Propensities,” Vivarium, 47: 24–53. Fidel Casado, P., 1951–3, “El pensamiento
filosófico del Beato Santiago de Viterbo,” La Ciudad de Dios, 163 (1951):
437–454; 164 (1952): 301–331; 165 (1953): 103–144, 283–302, 489–500. –––, 1967,
“Quaestiones de quolibet de Santiago de Viterbo (Quodlibeto I, q. 12),” Archivo
Teológico Agustiniano, 2: 109–130. Giustiniani, P., 1979, “Il problema delle
idee in Dio secondo Giacomo da Viterbo OESA, con edizione della Distinzione 36
dell'Abbreviato in I Sententiarum Aegidii Romani,” Analecta Augustiniana, 42:
288–342. –––, 1980, “La teologia studiata secondo le 4 cause aristoteliche in
un'opera inedita di Giacomo da Viterbo,” Asprenas, 27: 161–188. Gossiaux, M.
D., 1999, “James of Viterbo on the Relationship between Essence and Existence,”
Augustiniana, 49: 73–107. –––, 2007, “James of Viterbo and the Late
Thirteenth-Century Debate Concerning the Reality of the Possibles,” Recherches
de Théologie et Philosophie Médiévales, 74 (2): 483–522. Grabmann, M., 1936,
“Die Lehre des Jakob von Viterbo (1308) von der Wirklichkeit des göttlichen
Seins (Beitrag zum Streit über das Sein Gottes zur Zeit Meister Eckharts),”
Mittelalterliches Geistesleben. Abhandlungen zur Geschichte der Scholastik und
Mystik, vol. 2, Max Hueber Verlag, Munich: 490–511. Gutiérrez, P. D., 1939, De
B. Iacobi Viterbiensis O.E.S.A. Vita, Operibus et Doctrina Theologica, Rome:
Analecta Augustiniana. Jeschke, T., 2009, “Über natürliche und übernatürliche
Gottesliebe. Durandus und einige Dominikaner gegen Jakob von Viterbo (mit einer
Textedition von In III Sententiarum, D. 29, Q. 2 des Petrus de Palude),”
Recherches de Théologie et Philosophie Médiévale, 76/1: 111–198. Kent, B.,
2001, “Justice, Passion, and Another's Good: Aristotle among the Theologians,”
in Nach der Verurteilung von 1277. Philosophie und Theologie an der Universität
von Paris im letzten Viertel des 13. Jahrhunderts. Studien und Texte—After the
Condemnation of 1277. Philosophy and Theology at the University of Paris in the
Last Quarter of the Thirteenth Century. Studies and Texts, Miscellanea
Mediaevalia, 28, J. Aertsen, K. Emery, Jr., A. Speer (eds.), Berlin: Walter de
Gruyter, pp. 704–718. Libera, A. de, 1994, “D'Avicenne à Averroès, et retour.
Sur les sources arabes de la théorie scolastique de l'un transcendental,”
Arabic Sciences and Philosophy, 4: 141–179. Mahoney, E. P., 1973, “Themistius
and the Agent Intellect in James of Viterbo and other Thirteenth Century
Philosophers (Saint Thomas, Siger of Brabant and Henry Bate),” Augustiniana,
23: 422–467. –––, 1980, “Metaphysical Foundations of the Hierarchy of Being
according to Some Late Medieval Philosophers,” in Philosophies of Existence:
Ancient and Medieval, P. Morewedge (ed.), New York: Fordham University Press,
pp. 165–257. –––, 1995, “Duns Scotus and Medieval Discussions of Metaphysical
Hierarchy: the Background of Scotus' ‘Essential Order’ in Henry of Ghent,
Godfrey of Fontaines and James of Viterbo,” in Via Scoti. Methodologica ad
mentem Joannis Duns Scoti. Atti del Congresso scotistico internazionale, Roma,
9–11 marzo 1993, vol. I, L. Sileo (ed.), Rome: PAA-Edizioni Antonianum, pp.
359-374. Noone, T., 2011, “The Problem of the Knowability of Substance: The
Discussion from Eustachius of Arras to Vital du Four,” in Philosophy and
Theology in the Long Middle Ages: A tribute to S. F. Brown, K. Emery, R. L.
Friedman, and A. Speer (eds.), Leiden: Brill. Osborne, T. M., 1999, “James of
Viterbo's Rejection of Giles of Rome's Arguments for the Natural Love of God
over Self,” Augustiniana, 49: 235–249. –––, 2005, Love of Self and Love of God
in Thirteenth-Century Ethics, Notre Dame: University of Notre Dame Press.
Phelps, M., 1980, “The Theory of Seminal Reasons in James of Viterbo,”
Augustiniana, 30: 271–283. Pickavé, M., 2007, “The Controversy over the
Principle of Individuation in Quodlibeta (1277-ca. 1320): A Forest Map,” in
Theological Quodlibeta in the Middle Ages. The Fourteenth Century, C. Schabel
(ed.) Leiden: Brill, pp. 17–79. Rigobert, M., 1947, Un traité de l'Église au
Moyen–Âge. Étude historique et doctrinale du “De regimine christiano”, Albi.
Robert, A., 2008, “Scepticisme ou renoncement au dogme? Interpréter
l'eucharistie aux XIIIe et XIVe siècles,” χώρα • REAM, 6: 251–288. Ruello, F.,
1970, “L'analogie de l'être selon Jacques de Viterbe, Quodlibet I, Quaestio I,”
Augustiniana, 20: 145–180. –––, 1974–5, “Les fondements de la liberté humaine
selon Jacques de Viterbe, Disputatio prima de Quolibet, q. VII (1293),”
Augustiniana, 24: 283–347; 25: 114–142. Rüssmann, H., 1938, Zur Ideenlehre der
Hochscholastik, unter besonderer Berücksichtigung des Heinrich von Gent,
Gottfried von Fontaines un Jakob von Viterbo, Freiburg: Herder. Scanzillo, C.,
1972, “Jacobus de Viterbio OSA: La ‘Prima quaestio disputata de Verbo’ del
codice A. 971 delle Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna. Edizione e note,”
Asprenas, 19: 25–61. Schönberger, R., 1986, Die Transformation des klassischen
Seinsverständnisses. Studien zur Vorgeschichte des neuzeitlichen Seinsbegriffs
im Mittelalter, Quellen und Studien zur Geschichte der Philosophie, 21,
Berlin-New York, De Gruyter. –––, 1994, Relation als Vergleich. Die
Relationstheorie des Johannes Buridan im Kontext seines Denkens und der
Scholastik, Leiden: Brill, pp. 132–142. Wéber, E., 1981, “Eckhart et l'ontothéologisme
: histoire et conditions d'une rupture,” in Maître Eckhart à Paris. Une
critique médiévale de l'ontothéologie. Les Questions parisiennes n° 1 et n° 2
d'Eckhart, Z. Kaluza, A. de Libera, P. Vignaux, E. Wéber, E. Zum Brunn (eds.),
Paris: Presses universitaires de France, pp. 21–54. Wippel, J. F., 1974, “The
Dating of James of Viterbo's Quodlibet I and Godfrey of Fontaine's Quodlibet
VIII,” Augustiniana, 24: 348–386. –––, 1981, “James of Viterbo on the
Essence-Existence Relationship (Quodlibet 1, Q. 4), and Godfrey of Fontaines on
the Relationship between Nature and Supposit (Quodlibet 7, Q. 5),” in Sprache
und Kenntnis im Mittelalter, Miscellanea Mediaevalia, 13, Berlin: De Gruyter,
pp. 777–787. –––, 1994, “James of Viterbo (b. ca. 1255; d. 1308),” in Individuation
in Scholasticism: The Later Middle Ages and the Counter-Reformation, 1150-1650,
J.J.E. Gracia (ed.), Albany: State University of New York Press, pp. 257–269.
Ypma, E., 1974, “Recherches sur la carrière scolaire de Jacques de Viterbe,”
Augustiniana, 24: 247–282. –––, 1975, “Recherches sur la productivité
littéraire de Jacques de Viterbe jusqu'à 1300,” Augustiniana, 25: 223–282. –––,
1980, “La méthode de travail de Jacques de Viterbe. L'analyse d'une question,”
Augustiniana, 30: 254–270. –––, 1980, “A propos d'un exposé sur Jacques de
Viterbe,” Augustiniana, 30 : 43–45. –––, 1985, “Jacques de Viterbe, témoin
valable?,” Recherches de théologie ancienne et médiévale, 52: 232–234. –––,
1987, “Jacques de Viterbe, lecteur attentif de Gilbert de la Porrée,”
Recherches de théologie ancienne et médiévale, 54: 257–261. –––, 1991, “La
relation est-elle un être réel ou seulement un être de raison d'après Jacques
de Viterbe,” in Lectionum Varietates. Hommage à Paul Vignaux (1904–1987), J.
Jolivet (ed.), Paris: J. Vrin, pp. 155–162. Zumkeller, A., 1951, “De doctrina
sociali scholae Augustininae aevi medii,” Analecta Augustiniana, 22: 57–84.
–––, 1964, “Die Augustinerschule des Mittelalters: Vertreter und
Philosophisch-Theologische Lehre,”Analecta Augustiniana, 27: 167–262. Giacomo
da Viterbo. Capocci. Keywords: peccatum – sin – holiness – aureola segno
naturale della santita. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Capocci” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690793992/in/photolist-2mKJQb5-2mKTt9f
Grice e Capodilista -- in principio era la conversazione – filosofia
fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Battaglia Terme). Grice: “I like
Capodilista – good vintage (literally)! – Capodilista is difficult to
comprehend, but when I was struggling to find examples of implicatura due to
exploiting ‘be perspicuous,’ he was whom I was thinking! Keywords in his
philosophy are ‘il non-detto,’ ‘homos eroticus’ – filosofia dell’espressione –
metafisica – equilibrio apolineo-dionisiaco, positive-negativo –“ “Un pensiero perfetto in sé non esiste; un
pensiero è perfetto solo nella serie innumerabile dei pensieri che nascono da
esso.» (Quaderni). Appartenente ad una
famiglia veneziana di nobili origini, nacque nella villa di famiglia da Angelo
Emo e da Emilia dei baroni Barracco. Studia a Roma sotto Gentile. Le sue riflessioni
sul nihilismo sono un'anticipazione della filosofia di Heidegger. Debitore dell'attualismo gentiliano. Partendo
da questo, giunse a trasformarlo in una filosofia dove l'atto è la re-figurazione
dell'auto-negazione del nulla che comunque conserva una sua funzione positiva
così come nela religione romana la morte del corpo ha la funzione di salvezza
nella redenzione dello spirito (animo). La forma superiore dello spirito
intristisce e cerca invano di uscire da sé per trovare qualcosa che lo salvi. Un'istanza
di salvezza che trova senso nella religione romana. Dio espia la sua
universalità. Distrugge ogni valore e il proprio, sì che lo sparire, il
nascondersi di Dio nella sua espiazione non è altro che la nuova creazione dei
valori, e così il ciclo ricomincia. Dio si abolisce col suo stesso realizzarsi.
Un altro punto fondamentale di sua filosofia è la figura centrale
dell’intersoggetivita., del rapporto concreto particoare, particolarizato, inter-personale
contrapposto all’astrazioni di una collettività IMpersonale generalizato (universalita,
universabilita, generalita formale, generalita applicazionale, generalita di
contenuto --, sia quella esaltata da uno stato etico (la communita, la
popolazione, la societa). Una diada conversazionale non può essere un dato. Una
diada conversazionale può essere solo un rapposro inter-soggettivo, cioè due
resurrezioni. Il filosofo è assillato da questo fondamentale problema. Il
problema è questo: di quali fedi si nutre e sussiste il mondo? Quale è la fede
autentica che lo sostiene nella vita che gli dà la forza dell'attività e la
convinzione di partecipare con la sua vita (o la sua azione o il suo essere)
alla immortalità, cioè all'assoluto? La diada conversazionale ha bisogno
dell'assoluto (l’universabilita) e pertanto il suo problema è questa
partecipazione all'assoluto. Come raggiungerà l'assoluto le due uomini – le due
maschi -- della diada conversazionale? Quale sarà la sua fede laica? Non certo
quella collettivistica-sociale che ha fatto uso della violenza, la forza, e la
autorita illegitima, e ha fallito ma neppure quella etrusca che ha compresso la
libertà di coscienza. I etruschi sono
nati sotto il segno dello scandalo. Ma il sacro si è allontanato dalla sua scandalosa
azione originaria. Perché in ogni fede
vi è qualcosa di scandaloso e di vergognoso? Perché vi è qualcosa di vergognoso
nella verità e nella vita stessa? Forse l'elemento vergognoso è
l'intersoggetivita pura attorno a cui verte la fede e che si crea con la sua
negazione. L’intersoggetività è sempre nuda e la nudità è scandalosa. I vestiti
sono l'uniforme innecessari della società. Invano due maschi credono di
distinguersi con le vesti; e credono che le due nudità sia uniformità. Le vesti
sono il riconoscimento della società, del sociale. Ma le vesti sarebbero nulla
se non fossero animate dalla vita intersoggetiva di due nudità. Le veste sono
orgogliose delle due nudità che socializzanoa. È quindi con la libertà
degl’entrambi della diada, con le due nudità, con il rifiuto di ogni veste di
uniformità, IM-personalita, ed obbedienza all'autorità ad una dottrina o scuola
di mistica pitagorica collettivizzante, che la diada recupera la sua essenza
duale intersoggetiva interpersonale particolarizata che si fonda sull'amore -- alta
espressione del "singolare duale".
Altre opere: “Il dio negative” (Marsilio, Venezia); “La voce d’Apollo
musogete: arte e religione nella Roma antica” (Marsilio, Venezia); “Supremazia
e maledizione” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Il mono-teismo demo-cratico”
(Mondadori, Milano); “Metafisica” (Bompiani, Milano); Il silenzio (Gallucci,
Roma); “La meraviglia del nulla” Dizionario Biografico degli Italiani. Le parole che si riferiscono a dei valori, si svalutano
progressivamente come le monete, come, appunto, i valori. Quando
pensiamo troppo profondamente, perdiamo l’uso della parola. La parola si può
“usare”, cioè profanare, quando non se ne comprende il significato. Se
comprendessimo il significato delle parole, non usciremmo mai più dal silenzio.
La conversazione è pericolosa per un’idea, per uno spirito, per una
verità che non resiste alla lieve immediatezza (e cioè rapidità) che è l’anima
irriducibile di una conversazione e di una comunicazione tra viventi (e che
altro è l’arte?). E così l’idea è pericolosa per una conversazione.
Conversazione (espressione, comunicazione ecc.) e idea tentano continuamente di
sopraffarsi. Appunto perché l’una non può vivere senza l’altra. È lecito
ad un artista prendere sul serio ciò che scrive? Non decade dalla sua qualità
di artista e di creatore per divenire soltanto un credente? Il torto dei romantici
è stato principalmente quello di prendersi sul serio; i più antichi scrittori
prendevano sul serio il loro argomento, ma sempre conservandosi estranei ad
esso; senza considerare la loro soggettività di creatori come l’oggetto stesso
della loro creazione. I romantici invece prendevano sul serio se stessi, e ciò
li rendeva ridicoli, perché ovviamente non potevano più mantenersi al di sopra
del loro argomento. Si dovette, pertanto, da Baudelaire in poi, ricorrere ad
una forma di ironia. Ciò che distingue la sfera (moderna) del sacro è la
mancanza di ironia; eppure può anche darsi che l’universo che abitiamo sia una
forma dell’ironia divina, manifestatasi come creazione. Nella sfera antica del
sacro, gli Dei di Democrito e di Epicuro ridevano negli intermundi. La sfera
della sacralità antica si differenzia dalla sfera della sacralità moderna
appunto perché gli antichi Dei, grazia alla loro pluralità, conoscendosi l’un
l’altro, ridevano. Un’ilarità che non si addice a un Dio unico e solitario, ma
che potrebbe, se l’Unico non fosse troppo preso da se stesso e dalla sua
onnipotenza, tradursi nel termine più moderno di ironia. A noi uomini accade
appunto di osservare che l’ironia è il solo modo di distaccarci dalla nostra
onnipotenza, di uscire all’esterno della nostra assolutezza. Le opere
d’arte, come tutte le immagini, sono in realtà dei ricordi. Sono la memoria.
Noi amiamo un’opera d’arte perché essa è la nostra memoria che si risveglia,
che riprende possesso di noi, e del suo universo, cioè di tutto. La memoria
talvolta dimentica; ed essa ricorda quando dimentica. La forma letteraria
in cui meglio ci si può esprimere è appunto la lettera (l’epistola). Perché
l’altro è sempre presenta mentre scriviamo e abbiamo la facoltà di creare il
destinatario. Abbiamo la facoltà di creare un pubblico come destinatario? Se
non avessimo la facoltà di creare un destinatario, individuale e universale,
non scriveremmo mai. Forse non penseremmo neppure. Nessuno scrive per sé.
L’immagine e la rappresentazione, che dovrebbero essere la fedeltà
assoluta delle cose rappresentate, sono allora infedeltà altrettanto assoluta,
diversità radicale dal rappresentato? Il rappresentato in quanto oggetto è per
definizione diversità assoluta dal soggetto; come allora, con quale sintesi si
può superare questo iato? In quanto differenza dal soggetto, l’oggetto ne è la
negazione, la pura negazione; e questa negazione, in quanto puramente essa
stessa, è soggetto essa medesima, cioè è il soggetto che si nega; è l’atto del
soggetto, in quanto questo atto è l’atto del negarsi. Quindi noi siamo la
rappresentazione, siamo l’atto in cui tutte le cose sono e vivono, cioè
l’attualità, in quanto siamo autonegazione. La negatività è l’universalità
dell’atto. (Q. 331, 1970) L’eco è la voce del nulla, la parola del nulla,
appunto perché è esattamente la nostra voce e la nostra parola, obiettivata,
ripetuta. L’obiettività è la ripetizione del soggetto che non può mai
ripetersi? (Q. 336, 1970) Tutto ciò che pensiamo o scriviamo è nell’atto
stesso una metamorfosi. Il nostro pensiero non ha altro oggetto che il proprio
nulla. (Q. 336, 1970) L’arte dello scrivere è l’arte di far dire alle
parole tutte le trasmutazioni che esse contengono e sono – tutta la loro
attuale diversità, tutta la negazione che esse sono quando si affermano, e
tutta l’affermazione che viene espressa dalla negazione. Mediante la loro
trasmutazione, che è l’affermarsi dell’attualità di una negazione (cioè
dell’attualità dell’atto che si riconosce come negativo), le parole finiscono
per creare un organismo, un organismo di parole, cioè la frase: L’organismo
della frase e del verbo che trasforma la negatività della parola in un atto. La
parola è la diversità dell’atto. Negarsi e attualità, negarsi e trascendenza e
diversità, sono sempre, e sempre attualmente congiunti; perciò la parola
contiene il seme della frase, del discorso. (Q. 340, 1971) Forse il
nostro nome è soltanto uno pseudonimo; forse anche i nomi delle cose sono
pseudonimi. Ma qual è il vero nome? È più probabile che le cose come crediamo
di vederle siano soltanto gli pseudonimi di un nome; e noi stessi e il nostro
essere siamo pseudonimi; di un nome che forse non conosceremo mai e che appunto
per questo ha una realtà suprema. Una realtà unica. Una sintesi invisibile di
realtà e verità. Una realtà che la conoscenza (la scienza) non può dissolvere,
analizzare. (Q. 244, 1971) Gli scritti di aforismi o di idee
frammentarie, di epigrammi o di formule, sono i modi di esprimere l’assoluto, o
qualche assoluto, qualche verità in forma breve. Ma ognuno di questi frammenti
vuole essere l’espressione dell’assoluto, e quindi non può essere frammentario.
Frammenti e parti che sono relative all’assoluto, senza esserlo, si trovano
nelle opere di una certa ampiezza, ampie come la vita. La vita, essendo
universale, può essere plurale. (Q. 347, 1972) Il Mangiaparole rivista n.
1Il Mangiaparole 6 Mario Gabriele Lo scrivere è una forma silenziosa
(fonicamente) del parlare; ma è un parlare che ha il singolare privilegio di
non essere interrotto, se non dalla propria coscienza; la coscienza è la madre,
l’origine del discorso, ma è anche la coscienza che fa al discorso, cioè a se
stessa, le continue obiezioni. La coscienza è il maggiore obiettore di
coscienza. La coscienza parla per affermarsi o per smentire? (Q. 347,
1972) La nostra scrittura è geroglifica come la nostra parola, che non
coincide con ciò che vuole esprimere, ma soltanto vi allude simbolicamente;
allude a qualcosa di originariamente noto od originariamente ignoto. A qualcosa
di diverso. La parola stessa è originariamente diversità. La Parola è diversità
da se stessa e perciò coincide con la diversità dell’atto, con la diversità
originaria che vuole esprimere? Questa coincidenza era l’ideale, lo scopo, la
fede dell’età dell’autocoscienza. L’età dell’autocoscienza e la tirannia; vi è
sempre un quid al di là dell’espressione, senza questo quid l’espressione non
sarebbe una metamorfosi. La metamorfosi vuole esprimere se stessa con la
negazione; noi alludiamo alla diversità con la negazione, con la identificazione.
(Q. 355, 1973) …Noi siamo la verità; è proprio per questo che ci è
impossibile conoscerla. la conosciamo quando diventa altro da noi. La
conoscenza, l’espressione, la stessa memoria creano l’anteriorità della verità
e della sua attualità. Se la verità è un Eden, noi possiamo conoscerla solo
quando ne siamo fuori, quando ne siamo espulsi ed esiliati. (Q. 359,
1973) L’arte dello scrittore consiste nel creare una complicità nel
lettore; e di quale colpa diviene complice il lettore? Non lo si è mai saputo.
Esistono innumerevoli sistemi di estetica e di spiegazioni complesse e fallaci
di un atto che è la semplicità originaria. Una complicità del lettore con
l’autore. Il delitto (e il diletto) perfetto. (Q. 370, 1975) Soltanto
l’inesprimibile è degno di un’espressione… (Q. 372, 1975) La parola è un
irrazionale ed è strano che essa esista in un mondo razionale e quantitativo;
nel mondo dell’identità. la razionalità è soltanto nel numero; la Parola è
divina, anzi la scrittura ha identificato la Parola (il verbo) e la divinità;
per gli antichi il numero aveva significati simbolici, cioè spirituali. Oggi il
numero privato di ogni significato è identificato dalla sua «posizione» (nello
spazio è o sarà il vero successore della parola – ma troverà in se stesso una
nuova irrazionalità?) Il numero è la massima razionalità e insieme la massima
irrazionalità come serie infinita; non possiamo vivere senza irrazionalità,
appunto perché la vita è essa stessa irrazionalità; il numero può vivere? (Q.
372, 1975) … Noi parliamo, noi scriviamo, senza ricordarci la suprema
scadenza del silenzio… (Q. 372, 1975) L’espressione più perfetta è quella
che crea l’inesprimibile… (Q. 381, 1977) Parola L’aforisma e
l’ironia sono una professione di scetticismo nei confronti della poesia.
L’aforisma è la definizione, l’analisi, la spiegazione, la risoluzione in
termini umani della lirica; l’ironia è la scoperta dei suoi motivi non lirici:
uno sguardo dietro le quinte… (Q. 9, 1921) Come esprimerò io il mio
pensiero, la mia vita, la mia esperienza? Questa dovrebbe essere
l’interrogazione da ogni uomo posta a se stesso. Vero è però che in genere
l’inesprimibile è ciò che per noi ha più valore e importanza; quello verso cui
ci sentiamo più attirati; quello per cui sentiamo come un’antica, istintiva e
simpatica affinità e parentela… (Q. 9, 1929) La quantità di parole
inutili che uno scrittore inserisce nel suo scritto è inversamente
proporzionale all’importanza dello scrittore stesso. Vi sono scritti in cui
nessuna, o quasi, parola può essere tolta senza grave danno per l’opera e per
noi; altri in cui si possono togliere tutte… (Q. 14, 1932). Andrea Emo Capodilista. Emo Capodilista. Keywords:
in principio era la conversazione, filosofia fascista, I taccuini del barone
Capodilista, il taccuino del barone Capodilista. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Capodilista” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51777342436/in/dateposted-public/
Grice e Capograssi – gl’eroi di Vico –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Sulmona). Grice: “I love
Capograssi; at Oxford we’d call him a lawyer, but the Italians call him a
philosopher! My favourite of his tracts is his attempts – linked as he was to
the Napoli area – Vico relevant! Oddly, he stresses the ‘Catholic,’ or RC, as
we say at Oxford, rather than the heathen, pagan, side, of this illustrious
philosopher who Strawson – as along indeed with Speranza -- think as the
greatest Italian philosopher that ever lived – I mean, what can be more Italian
than Vico?!” Si occupa principalmente di filosofia del diritto. Fu membro della
Corte costituzionale. Da un'antica famiglia nobile che vi si era
trasferita da un comune della provincia di Salerno nel 1319, a seguito del
vescovo Andrea. Si laurea a Roma con “Lo stato e la storia", in cui già
affiorano le problematiche connesse alle interrelazioni fra individuo, società
e stato: problematiche che impegneranno tutta la sua filosofia. Insegna a
Sassari, Macerata, Padova, Roma, e Napoli.Nel luglio del 1943 prese parte ai
lavori che portarono alla redazione del Codice di Camaldoli. La sua
filosofia si centra nell’esperienza giuridica ed è rivolta alla
centralizzazione della volontà del soggetto agente, che si imprime nell'azione
stessa, vera fonte di espressione giuridica e di vita. La filosofia dovrebbe
quindi occuparsi della vita e dell'azione, avendo a centro della sua
speculazione la "persona". Il suo pensiero si ricollega al
personalismo. Il ponere al centro della sua filosofia il rapporto essenziale
che intercorre fra il diritto inteso come esigenza giuridica e la vita consente
alla filosofia del diritto di superare il campo della tecnica giuridica per
pervenire ad una visione organica e totale del reale, cioè a Dio. Fede e
scienza; Lo Stato; Riflessioni sull'autorità; democrazia diretta; Analisi dell'esperienza
comune; L’esperienza giuridica; La vita etica; Il problema della scienza del
diritto); Incertezze sull'individuo, Milano, Giuffrè). “Pensieri” sono alcuni scritti vergati su
foglietti e conseglla. Nei Pensieri, poi raccolti e pubblicati, si colgono i
momenti salienti della sua filosofia. La teoria dei valori. Il
personalismo. Il positivismo giurdico in
Italia. Decentramento e autonomie nel pensiero politico europeo. I sentieri dell'uomo comune. Dizionario
biografico degli italiani. Kelsen
avrebbe, invece, potuto utilizzare la stessa idea di una Norma Fondamentale
come un principio etico-politico costituente. Anzi, proprio perché essa è tale,
non si identifica con la pura fatticità della Forza, come, invece, pensa
Capograssi. Ed è rivendicando la funzione costituente della Norma Fondamentale
che Bobbio può osservare: Il Capograssi sostiene che tutta la costruzione
kelseniana è così solida solo perché poggia su alcuni presupposti, e che questi
presupposti non sono soltanto delle ipotesi di lavoro utili alla ricerca, ma si
fondano su una vera e propria concezione della realtà. E che questa concezione
è che il diritto è forza (N. BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p.
24. Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in
«Rivista trimestrale di diritto pubblico», (1952), 4, pp. 767-810, poi in ID.,
Opere, vol. V, Giuffrè, Milano). Le argomentazioni di Capograssi, secondo
Bobbio, rinviano a una concezione giusnaturalistica del diritto che confonde
«il criterio di validità e il criterio di giustificazione del diritto», e
aggiunge che il Kelsen si limita a dire che il diritto esiste
(indipendentemente dal fatto che sia giusto o ingiusto) solo quando la norma,
oltre che valida, è anche efficace (il cosiddetto principio di effettività).
Non si potrebbe mai trarre dalla concezione kelseniana il principio che il
diritto è giusto in quanto è comandato, perché da nessun passo del Kelsen si
può trarre la conclusione che il diritto, il quale esiste in quanto è comandato
(e fatto valere colla forza), sia anche giusto53. Dunque, l’insoddisfazione di
Bobbio per la soluzione kelseniana nasce dal fatto che il giurista viennese
lascia aperto il problema del che cosa fondi e legittimi il sistema normativo e
l’ordinamento giuridico, con la 50 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto e i
suoi critici, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», (1954), 8
pp. 356-377, poi ristampato in ID., Studi sulla teoria generale del diritto,
Giappichelli, Torino 1955, pp. 75-107. Il saggio è ora in ID., Diritto e
potere, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992. Utilizzo quest’ultima
edizione. La citazione è alla p. 39. 51 Cfr. N. BOBBIO, MaxWeber e Hans Kelsen,
«Sociologia del diritto», (1981) 8, pp. 135- 154, ora in ID., Diritto e potere,
cit., pp. 159-177. 52 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p. 24.
Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in «Rivista
trimestrale di diritto pubblico», (1952), 4, pp. 767-810, poi in ID., Opere,
vol. V, Giuffrè, Milano 1959, pp. 311-356. 53 N. BOBBIO, La teoria pura del
diritto, cit., pp. 25-26. 88 ADELINA BISIGNANI conseguenza che la stessa
funzione costituente della Norma Fondamentale non viene esplicitata. L’esigenza
di superare i limiti teorici di Kelsen non comporta, però, il recupero del
giusnaturalismo come ideologia (come idea di una fondazione del diritto su
valori assoluti e trascendenti), ma sollecita il pieno recupero di quelle
ragioni etiche e sociali che, dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale
e dopo l’olocausto, si erano manifestate come una “rinascita del
giusnaturalismo”54. Per queste ragioni Bobbio non si lascerà mai tentare
dal ridurre lo Stato al suo ordinamento giuridico; a quello Stato-Forza che
Capograssi rinfaccia a Kelsen. REFS.: Impressioni su Kelsen. CAPOGRASSI,
KELSEN E IL NICHILISMO GIURIDICO. ASPETTI DELLA CRISI DELLA SCIENZA GIURIDICA.
Le “Impressioni su Kelsen tradotto” come critica all’astratto formalismo
giuridico kelseniano e alla teoria del diritto come “forza e forma”. La “pars
destruens” di Capograssi. Capograssi scrisse le “impressioni su Kelsen
tradotto” poco dopo la traduzione della teoria generale del diritto e dello
stato da Cotta e Treves, edita dalle Edizioni di Comunità. Si tratta di un
saggio denso, in cui la prosa capograssiana e la sua cifra stilistica è mossa,
libera, sinuosa, andante come sempre, ma particolarmente severa, austera,
critica, propositiva, concettualizzante, come dappresso noteremo, sia nella
“pars destruens” che nella “pars costruens” del saggio. La pars destruens è
chiara e persuasiva. La dottrina kelseniana dello stato e del diritto si pone
fuori i reali problemi della scienza giuridica ed una prima immediata
impressione ha il lettore, e deve subito dirla, una impressione singolare di
riposo. Sarebbe così bello se uno potesse accettare questo pensiero. Come si
capisce il successo che ebbe quando nacque, in un’epoca e in un mondo, che ci è
ormai così lontano e che era così facile ad accogliere ogni genere di
illusioni. Qui non ci sono più problemi. Come per un’operazione di magia i
problemi sono spariti. Non ci sono più disordini, incertezze, incoerenze, nel
pensiero e nella realtà. Ogni cosa è sistemata ordinata disegnata in una specie
di piano regolatore, che smista e distribuisce tutto in compartimenti separati.
Se uno potesse accettare. Con tanto più impegno di attenzione il lettore è
indotto a leggere. Il diritto come
concepito e teorizzato dal Kelsen è una scienza esangue. Lo notava pure Pigliaru, in “Persona umana ed ordinamento
giuridico” richiamando proprio in nota il pensiero capograssiano testè citato.
E’ un diritto scisso dall’essere e dalla storia, fondato su un’astratta idea di
dovere contrapposta all’essere, entro una rigida separazione, che Kelsen svolge
nell’opera surriferita, ma anche in altri scritti, tra natura (essere) e
spirito (devere). Si tratta di un’idea di scienza giuridica totalmente formale,
fondata sulla norma giuridica, monade, essenza, fondamento del sistema kelseniano.
Il diritto è un ordinamento coercitivo basato sulla validità, cioè la forza
vincolante e sull’efficacia cioè l’effettiva applicazione delle norme
giuridiche. L’ordinamento giuridico è un sistema di norme connesse fra loro in
base al principio che il diritto regola la propria creazione. Lo stato, il
potere dello stato, i tre poteri dello stato, gli elementi dello stato, sono
soltanto stadi diversi nella creazione dell’ordinamento giuridico. Così come,
in questa intelaiatura teoretica, per Kelsen quelle che per lui sono le due fondamentali
forme di governo, democrazia ed autocrazia, sono modi diversi di creare
l’ordinamento giuridico. Lo stato, entro una simile ed asfittica concezione, è
un ordinamento giuridico espressione di norme giuridiche valide ed efficaci,
collocate in un sistema giuridico gerarchico, in cui ogni norma trae il
fondamento della sua validità dalla norma gerarchicamente superiore e la stessa
costituzione è ridotta a norma sulla normazione, sulle procedure di formazione
della legge. Capograssi nota opportunamente che lo stato è, altresì, un ordinamento
relativamente accentrato, a differenza dell’ordinamento internazionale più
decentrato. Un ordinamento che produce diritto e da cui deriva la
giurisprudenza normativa, che coincide con un sistema di norme valide, che è
l’unico sistema che deve riguardare l’indagine del filosofo della
giurisprudenza. Capograssi osserva, inoltre, che in Kelsen il diritto in senso
sociologico che descrive l’effettivo comportamento umano che rappresenta il
fenomeno del diritto e cerca di predire l’attività degli organi creatori del
diritto e specialmente quella dei tribunali e lo stato in senso sociologico
riguardano la sfera dell’ efficacia del diritto, delle norme, e sono
condizionati dal diritto normative, così come quest’ultimo concerne la sfera
della validità delle norme e condiziona la scienza sociologica del diritto. Ma
scienza delle norme e scienza dei fatti sono scisse, ciascuna vive di vita
propria, sono parallele e non interferenti, sempre rigorosamente distinte ed
eterogenee. In questi due mondi così puri l’uno e l’altro, il filosofo si muove
con la libera facilità con cui l’uccello vola nell’aria. Di conseguenza, la
giurisprudenza normativa non si interseca mai con la giurisprudenza
sociologica, il diritto come tecnica della sanzione ed ordinamento coercitivo
può rivestire qualsiasi contenuto, in una concezione del dovere assolutamente
formale che non ha nemmeno per così dire il contenuto di sé stessa come dovere,
perché questo dovere non ha nulla del
dovere reale. E afferma altresì l’insigne autore, citando Bobbio e comparando
la teoria generale del Kelsen a quella di Carnelutti, che se la teoria generale
è teoria generale del diritto POSITIVO, sicuramente quella del Carnelutti, a
differenza di quella del Kelsen, è relativa alla vita stessa della realtà
giuridica, perché muove dalla nozione di diritto come composizione di conflitti
di interesse. La teoria generale del Kelsen è astratta e resta sulla superficie
della norma e della vita dell’esperienza giuridica comunale, perché il sistema
gerarchico di norme valide trae il suo fondamento da una norma non da un fatto,
da una norma fondamentale, una “Grundnorm”, presupposta ed ipotetica, ricavata
con procedimento interpretativo dal filosofo. Quest’ultima pone una data
autorità, non si fonda su nessuna norma, è valida» in virtù del suo contenuto e
non «perché è stata creata in un certo modo, al pari di una norma di diritto naturale,
a prescindere dalla sua validità puramente ipotetica, ed il suo contenuto è il
fatto storico particolare qualificato dalla norma fondamentale come il primo
fatto produttivo del diritto. La norma fondamentale cioè significa in un certo
senso, la trasformazione del potere in diritto. La perfetta separazione della
forma dal contenuto, la perfetta indifferenza della forma da qualsiasi
contenuto, che è la base di tutto questo sistema, non vale per la norma
fondamentale, che da validità a tutte le norme, che si caratterizzano proprio
perché il contenuto è per esse indifferente…perché è proprio il contenuto a
dare qui validità alla norma fondamentale»[23]. L’«identificazione perfetta»
tra diritto e Stato, inoltre, fondata sulla “Grundnorm” e “l’esteriorità” del
diritto, osserva il Nostro, deriva da una concezione del diritto «come forza»,
come «diritto naturale della forza»[24]. E’sistema di «norme sanzionatorie»
che, formalmente, sono «un aliquid di stabile di fronte al perpetuo oscillare
della forza»[25], ma la cui validità è “emanazione” di una “norma
fondamentale”, la quale trae il proprio contenuto dall’ «evento di forza che si
è assicurato il potere vale a dire il diritto di riempire le forme vuote delle
norme».[26] Questo è il «residuo giusnaturalistico kelseniano»: il «diritto
naturale della forza» che fonda il diritto positivo statale. La prosa
capograssiana sul punto è vibrante, incisiva: «qui il diritto è forza
organizzata, cioè forza e forma; la forza sostiene e riempie la forma, la forma
riveste la forza»[27]. La “pars destruens” del saggio in esame giunge al suo
acme con una metafora corrosiva: «la rappresentazione del diritto che è in
questo libro…richiama la visione di quegli spettri di città e paesi, che i
bombardamenti avevano demolito in modo che erano rimasti in piedi muri e travi:
non c’era più nulla tranne quel tragico scheletro di case nude e vuote,
terribili sotto la luna», «ma che si sarebbe detto di uno di noi che avesse
preso quei “cadavera urbium” per città viventi, per le case dove gli uomini
vivono? Ci sarebbe stato errore pari a questo? E così accade per il diritto,
come è esposto in questo libro»[28]. Il diritto è, in definitiva, confuso dal
Kelsen per «eventi di forza», «dispositivi di sanzioni», «sistemi coercitivi».
2. – La “pars costruens” capograssiana ed il richiamo al pensiero del Vico ed
alla concezione del “diritto come esperienza” La “pars costruens” dello scritto
oggetto delle presenti considerazioni richiama, con riferimenti sintetici ma
convincenti, il pensiero del Vico, sempre presente nella riflessione del
Capograssi, la storia e lo storicismo, la nozione di esperienza. Capograssi
indica come prioritaria la necessità «di non mutilare l’oggetto della scienza
del diritto, cioè l’esperienza», «riducendola tutta al cosiddetto valore o alla
cosiddetta forma o alla cosiddetta forza», alla «nuda forza» e alla «vuota
forma»[29]; la «necessità di vedere l’oggetto, cioè l’esperienza, nella sua
integralità vivente, nella sua natura, cioè vichianamente nel modo di nascere
perenne e quotidiano del diritto come vita e come esperienza, e quindi con
tutto quello per cui nasce, per cui si afferma, per cui si concreta in forme
concrete nella realtà»[30]. Al riguardo si accennano idee di grande importanza
che hanno più ampi sviluppi nell’opera principale del Nostro, “Il problema
della scienza del diritto”: la possibilità della conoscenza della realtà e del
diritto si compie «nella comune coscienza umana di colui che osserva e conosce
e di colui che opera nella realtà che è osservata e conosciuta. In quanto chi
osserva partecipa della stessa vita, degli stessi principi, delle stesse
esigenze di chi opera, è il segreto per cui chi osserva riesce a rendersi conto
di quello che fa colui che opera»[31]. Ne “Il problema della scienza del
diritto” si legge, infatti, ad esempio, che «con tutto il suo lavoro
l’intelletto riflesso che si pone come scienza viene faticosamente e lentamente
, perché fa il suo cammino momento per momento e tappa per tappa, scoprendo
quella che è l’idea viva del diritto, la viene scoprendo traverso tutte le
forme concrete e particolari dell’esperienza che essa forma»[32]. E «l’idea
viva del diritto» si forma come «parte essenziale dell’esperienza», «momento e
parte della vita stessa dell’esperienza» che «conosce sé stessa nella sua
effettiva e determinata puntualità e riesce a conservare la realtà di sé stessa
nelle sue molteplici e puntuali determinazioni»[33]. Capograssi, inoltre,
soffermandosi ulteriormente sull’opera del Kelsen richiama anche «la grande
verità vichiana che il mondo storico lo conosciamo perché lo facciamo…»[34];
richiama il monito, proprio del Vico, di non «mettersi fuori
dall’umanità…»[35]. E rileva che «se uno si mette al mondo supponendolo già
compiuto…e quindi estraneo all’osservatore, necessariamente l’integralità
dell’esperienza gli sfugge»[36]. In tal modo l’insigne autore coglie, dunque,
il punto di maggiore fragilità dell’impianto teorico del Kelsen, cioè la netta,
irriducibile, incolmabile separazione tra la “norma giuridica” e la “coscienza
dell’individuo”, tra l’ “oggetto” ed il “soggetto”, tra la «norma estrinseca al
soggetto e il soggetto estrinseco alla norma»[37]. La “pars costruens”
capograssiana ruota, quindi, intorno al concetto di «unità in perenne movimento
che è tutta la natura dell’oggetto» del diritto[38], «l’esperienza nella sua
vivente umana unità» che è “falsata” (perché l’ “oggetto” è falsato) dai
presupposti e dai postulati della teoria generale del diritto e dello Stato di
Hans Kelsen[39]. E l’illustre autore, perciò, individua la «positività del
diritto» come «coerenza intrinseca al processo di vita», «coerenza interna e
vitale», e non «coerenza formale e artificiale», delle «determinazioni della
vita giuridica», che «vivono nel concreto»[40], ricordando un’opera in tal
senso significativa, gli “Orientamenti sui principi generali del diritto” del
civilista Antonio Cicu. 3. – Sull’attualità del pensiero di Giuseppe Capograssi
e su alcuni aspetti significativi dell’attuale crisi della scienza giuridica
alla luce di recenti saggi monografici sull’argomento. Per una critica del
“nichilismo giuridico” (ontologico) Perché è attuale la critica capograssiana
al formalismo giuridico kelseniano? Perché nell’ “ambiguità del diritto
contemporaneo”, per riprendere il titolo di un notissimo saggio del grande
pensatore abruzzese, del 1953 [41], si parla di frequente di “crisi”, con ciò
indicando, per riprendere il linguaggio dello stesso Capograssi, «una
situazione che non vorremmo», «un elemento di disapprovazione» ed «un elemento
di speranza», il richiamo di una «situazione passata» o «pensata», «che
crediamo migliore, vale a dire che preferiremmo»[42]. Ora, tra gli autori che
hanno approfondito gli aspetti dell’attuale crisi della scienza giuridica sono
di notevole importanza, a parere dello scrivente, tre saggi monografici, il
“Diritto senza società” di Pietro Barcellona[43], il “Nichilismo giuridico” (e
la più recente opera dello stesso autore, “Il salvagente della forma”) di
Natalino Irti[44] ed “Il diritto e il suo limite” di Stefano Rodotà[45].
Ritengo che la sfida più radicale ed invasiva[46], tra le teorie sviluppate in
questi saggi, sia quella del “nichilismo giuridico” ( più precisamente del
“nichilismo giuridico ontologico”, riprendendo la ricostruzione di una recente
monografia di Mario Barcellona, “Critica del nichilismo giuridico”[47], che lo
distingue dal “nichilismo giuridico cognitivo” nordamericano) e quest’idea è
affermata dall’angolo visuale di chi cerca, come lo stesso Rodotà si propone
con lucidità[48], risposte alternative al nichilismo. Il nichilismo, senza
voler entrare nel merito di tutti i suoi significati[49], secondo il filosofo
Emanale Severino ed il giurista Natalino Irti, significa, in un senso specifico
al diritto ed alla tecnica economica, «ricavare le cose dal niente» e
«riportarle al niente»[50]. Franco Volpi scrive che esso è «la situazione di
disorientamento che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti
tradizionali, cioè gli ideali e i valori che rappresentavano la risposta al
“perché”e che come tali illuminavano l’agire dell’uomo»[51]; Friedrich
Nietzsche ne parlava come «il più inquietante tra tutti gli ospiti»[52]. Sul
punto penso al “Dialogo su diritto e tecnica”, scritto in più atti dai due
stessi importanti autori surrichiamati, Irti e Severino, in cui l’Irti afferma
che «l’unica superstite razionalità riguarda il funzionamento delle procedure
generatrici di norme», «la validità non discende più da un contenuto, che
sorregga e giustifichi la norma, ma dall’osservanza delle procedure proprie di
ciascun ordinamento»[53] ed il Severino ritiene che «la tecnica è destinata a
diventare principio ordinatore di ogni materia, la volontà che regola ogni
altra volontà»[54], «la “capacità” della tecnica è la potenza effettiva
(“potenza attiva” nel linguaggio aristotelico) di realizzare indefinitamente
scopi e di soddisfare indefinitamente bisogni»[55]. L’idea di sistema giuridico
unitario e di diritto statale «portatore di valori», in un simile orizzonte, è
ormai destinato al declino irreversibile, sul viale tramonto. Il diritto della
globalizzazione, e questo è il “topos” di crisi più acuta, porta alle estreme
conseguenze quella scissione tra “liberalismo” e “liberismo” che Benedetto
Croce già tracciava negli anni trenta[56]. Lo stesso Irti scrive che «la tecno-economia
non conosce differenze soggettive ma soltanto variazioni di quantità»[57]. Il
“diritto globale”, come nota un altro grande giurista, Francesco Galgano,
fondato sul principio di effettività e non su quello di legalità, è pienamente
funzionale all’ “idea di produzione” che viene dall’economia e, come scrive
l’Irti, «caratterizza l’economia globale»[58], i cui spazi sono fluidi e
sottratti al controllo giuridico e politico degli Stati nazionali sovrani. E’
in crisi, come opportunamente pone in risalto lo stesso insigne autore ne “Le
categorie giuridiche della globalizzazione”, il «dove del diritto», il «dove
applicativo», il «dove esecutivo» delle norme, «l’intrinseca ed originaria
spazialità del diritto», l’idea di “confine” consustanziale allo Stato
nazionale moderno che si afferma con il capitalismo mercantile[59]. Non solo: i
ritmi produttivistici della tecnica e della sua volontà di potenza, posti in
evidenza e criticati, pur se ritenuti ineluttabili da Emanuele Severino[60],
secondo lo stesso Irti «producono un vorticoso succedersi di norme giuridiche…»
che «attesta la “nientità” del diritto, i canali delle procedurequesti che
potremmo chiamare nomo-dotti, poiché conducono le volontà dalla proposizione
alla posizione di norme - sono pronti a ricevere qualsiasi contenuto.Ogni
ipotesi può scorrere in essi: la disponibilità ad accogliere qualsiasi
contenuto è indifferenza verso tutti i contenuti…»[61]. Per cui, l’attuale
crisi del diritto, «nella postmodernità giuridica», è «l’indifferenza contenutistica”
che “sospinge verso il culto della forma” e costituisce perciò realizzazione ed
inveramento dello “Stufenbau” kelseniano, “capace di tradurre in norma
qualsiasi contenuto” (“la Grundnorm di Kelsen – che Severino definirebbe “logos
ipotetico”- spiega la validità di qualsiasi ordinamento»[62], è il trionfo del
vuoto formalismo giuspositivista che «si svela nelle procedure produttive di
norme», nella razionalità tecnica e nell’«autosufficienza della volontà
normativa». Al riguardo si deve porre l’accento su un altro notevole autore, di
diversa formazione culturale, il filosofo marxista Galvano Della Volpe, che in
un saggio dal titolo emblematico, “Antikelsen”, contenuto nel suo volume
“Critica dell’ideologia contemporanea”[63], individuava i limiti propri della
dottrina del diritto e dello Stato del Maestro di Praga, del Kelsen, proprio
riferendosi ad una concezione meramente formale, raffinata e colta espressione
di un’idea borghese del diritto, della democrazia e dell’eguaglianza. Ma sono
altrettanto importanti le profonde ed intelligenti critiche di Nicola
Abbagnano, che ha giustamente parlato del formalismo giuridico nei termini di
una dottrina adattabile a qualsiasi regime politico e quindi sprovvista di
sostanza, di contenuti[64]. Per tornare all’analisi di alcuni rilevanti aspetti
dell’attuale crisi della scienza del diritto, “nichilismo e formalismo” sono i
due aspetti pregnanti di un diritto “tecnico”, “autoreferenziale”[65], “senza
società”, come scrive Pietro Barcellona[66] realizzazione anche, secondo
quest’ultimo autore, delle distorsioni della teoria sistemica di Luhmann[67].
Rodotà nella sua opera summenzionata scrive che «il diritto deve misurarsi con
una tecnica di cui è stata da tempo esaltata l’irresistibile potenza, la
continua produzione di fini, alla quale sarebbe ormai divenuto impossibile
opporsi. Così la tecnica annichilirebbe il diritto, condannato ormai ad una
umile funzione servente. Ma questa è una profezia destinata a realizzarsi solo
se la politica diviene progressivamente prigioniera di una logica che la induce
a delegare alla tecnologia una serie crescente di problemi…e se il diritto,
seguendola in questa deriva, accettasse un’espulsione da sé di valori e scopi,
determinado quella che Michel Villey ha chiamato una “mutilazione del diritto
per ablazione della sua causa finale”»[68]. Per cui viene da chiedersi, in
termini comunque molto problematici, se è possibile individuare una via
d’uscita al declino dei sistemi giuridici e della certezza del diritto, alla
“crisi di razionalità”, per riprendere Habermas, delle società capitalistiche
postmoderne, all’oscuramento dei contenuti essenziali degli ordinamenti
giuridici democratici, tra cui rientrano, anzitutto, i diritti fondamentali (lo
stesso Rodotà ritiene altresì che «la ricostruzione di un fine del diritto
intorno ai diritti fondamentali si presenta così come una guida quotidiana,
come un test permanente al quale sottoporre anzitutto le scelte giuridicamente
rilevanti. E’un impegnativo programma, che mette alla prova politica e diritto.
La politica, considerata non più nell’area dell’onnipotenza, ma del rispetto.
Il diritto, non più vuoto di fini, ma strettamente vincolato a un sistema di
valori, dunque in grado di offrire una guida pur per le scelte
tecnologiche»)[69]. Insomma: qual è oggi lo scopo del diritto?[70] Ed in che
senso l’antikelsenismo vichiano e personalista di Capograssi[71] è attuale e
può costituire, “storicizzato” ed adeguato al “presente storico”, una chiave di
lettura delle asimmetrie e degli scompensi dei sistemi giuridici vigenti e
degli attuali “usi sociali del diritto”?[72] La critica capograssiana al
formalismo costituisce un richiamo al presente. Essa rappresenta una delle più
significative alternative teoriche agli esiti del nichilismo formalista; essa,
per riprendere le parole del Maestro che ricordiamo, è «sforzo per costruire la
storia», per «realizzare la vita nei suoi termini di attualità», e quindi il
diritto «nella profonda vita delle sue determinazioni positive»[73]; anche
perché il diritto, come scriveva un altro importante giurista, Salvatore Satta,
è «dover essere dell’essere» e non «dover essere» contrapposto
all’«essere»[74], “Sollen” staccato dal “Sein”. Capograssi ne “L’ambiguità del
diritto”[75] propone delle conclusioni dense di speranza, affermando che
«quest’epoca…pur muovendosi in un macrocosmo di dimensioni così gigantesche…non
fa che mettere al centro di questo mondo e delle sue creazioni niente altro che
l’uomo». Ed esse possono essere un’alternativa alla “nientità” del diritto
globale contemporaneo ed al liberismo tecnicistico, produttivistico e
massificante; al trionfo dell’ «Apparato tecnocratico», di cui parla Severino
ne “La filosofia futura”[76], che quasi lascia presagire la «fine della storia»
e del «divenire storico» come «farsi dell’esperienza umana» e, per riprendere
Jhering, della “lotta per il diritto”[77]. [1] Il presente testo riprende,
nelle linee essenziali, la relazione presentata al Convegno di studi
internazionale sull’ “Attualità del pensiero di Giuseppe Capograssi”, tenutosi
a Sassari tra il 16 ed il 18 novembre 2006, i cui atti sono in corso di
pubblicazione con la casa editrice “Il Mulino”. V. G. CAPOGRASSI, Impressioni
su Kelsen tradotto, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”,1952/4,
767-810, ora in ID., Opere, Milano, 1959, V, 313-356. [2] V. H.KELSEN, General
theory of law and State (1945), Teoria generale del diritto e dello Stato, tr.
it., a cura di S. Cotta e G. Treves, Milano, 1952. [3] V. P. PIOVANI,
Introduzione a G.Capograssi, Il problema della scienza del diritto, Milano,
1962, VIII. [4] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 314.
Per una differente concezione del diritto critica verso il formalismo
gradualista di Hans Kelsen v. G.WINKLER, Teoria del diritto e dottrina della
conoscenza.Per una critica della dottrina pura del diritto (1990), tr. it. di
A. Carrino, Napoli, 1994, 249 (ove è scritto che «la dottrina pura e generale
di Kelsen è stata…, sin dall’inizio, nelle sue premesse epistemologiche e
gnoseologiche, priva di fondamenta solide…»); 189 (pagina in cui si afferma che
«la dottrina pura del diritto di Kelsen si impiglia inevitabilmente in
molteplici dilemmi. Un aspetto di questi dilemmi risiede nel tipo di
determinazione dell’oggetto, un altro nella concezione della scienza. Un altro
ancora nella ipostatizzazione di un orientamento metodologico che deifica il
concetto teoretico del diritto, lo interpreta nel senso della logica formale,
lo deforma e lo priva al tempo stesso del suo oggetto empirico»). [5] V. A.
PIGLIARU, Persona umana ed ordinamento giuridico, Milano, 1953, 98. Su
quest’opera v. G. BIANCO, Prefazione ad Antonio Pigliaru, Persona umana ed
ordinamento giuridico, in “Diritto @ storia”, n. 5, 2006 =
http://www.dirittoestoria.it/5/Contributi/Bianco-Pigliaru-persona-umana-ordinamento-giuridico.htm
ed in A. PIGLIARU, op.ult.cit., Nuoro, 2008. [6] V. H. KELSEN, Teoria generale
del diritto e dello Stato, Milano, 1984, 35, 121,399. [7] V. H. KELSEN, Teoria
generale del diritto e dello Stato, op.cit., 30 ss., 111 ss., 125ss. [8] V. H.
KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 18 ss. [9] V. H.
KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 29 ss., 123. [10]
V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 111ss. e G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 316-317. [11] V. H.
KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 274 ss. [12] V. H.
KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op. cit., 288 ss. [13]
V.H.KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 126 ss.
Peraltro Kelsen sull’argomento introduce una sua distinzione tra “Costituzione
formale” e “Costituzione materiale” specificando che «presupposta la norma
fondamentale, la costituzione rappresenta il più alto grado del diritto
statale. La costituzione è qui intesa non già in senso formale, bensì in senso
materiale. La costituzione in senso formale è un dato documento solenne, un
insieme di norme giuridiche che possono venir modificate soltanto se si
osservano speciali prescrizioni, la cui funzione è di rendere più difficile la
modificazione di tali norme. La costituzione in senso materiale consiste in
quelle norme che regolano la creazione delle norme giuridiche generali, ed in
particolare la creazione delle leggi formali». Questa distinzione è,
ovviamente, eterogenea rispetto al dualismo “Costituzione formaleCostituzione
materiale” proposta dai “realisti”, in particolare da Costantino Mortati, Carl
Schmitt, Giuseppe Guarino, peraltro con connotazioni peculiari in ciascuno degli
autori richiamati. V. in argomento G. Bianco, Quel che resta della Costituzione
materiale (tra congetture e confutazioni), in “La Costituzione materiale.
Percorsi culturali e attualità di un’idea”, a cura di A. Catelani e S.
Labriola, Milano, 2001, 487-502. [14] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen
tradotto, op.cit., 315. [15] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello
Stato, op. cit., 165 ss. [16] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto,
op. cit., 318. [17] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit.,
319. [18] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 320. [19]
V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 327, nt. 1. [20] V.
G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 322. [21] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 322. [22] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328. [23] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328-329. [24] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 331. [25] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 332. [26] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 332. [27] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 333. Ed il nostro aggiunge
nella stessa pagina, con il consueto tono intelligente ed appassionato, che
«concepito il diritto come forza e come forma, è evidente che l’ordinamento
giuridico ha una doppia faccia, la forza, cioè l’efficacia, la forma, cioè la
validità. La seconda dipende dalla prima ed è condizionata dalla prima; la
prima finchè dura si esprime nella seconda; la validità è l’espressione formale
dell’efficacia, e l’efficacia è la realtà sostanziale della validità. Per
questo i due diritti in senso normativo e in senso sociologico si rispecchiano
e vanno di conserva: sono due facce dello stesso fatto»(p. 333). Dappresso è
scritto che «la forza è il principio del diritto; gli interessi, le passioni,
le ideologie sono il contenuto; e la forma è la norma come puro dispositivo
della sanzione, e l’ordinamento che è il sistema delle norme valide fondato
sull’evento di forza che costituisce il contenuto della norma fondamentale. Si
può dire, può non chiamare nuda, perché non ha in sé nulla di razionale: forza
nuda dall’esterno, poiché s’impone per qualsiasi via e vince se è legittimata,
forza nuda dall’interno di sé stessa, perché non è altro che il (preteso) fondo
irrazionale e cieco dell’azione umana. Rare volte la concezione del diritto
come nuda forza è stata espressa e svolta con più riuscita e più completa
coerenza sia in sé sia nel suo naturale esplicarsi e compiersi nelle forme
vuote delle norme. Abbiamo qui nella forma più razionale e perfetta il diritto
naturale della forza e la sua dogmatica»(p. 335). [28] V. G. CAPOGRASSI,
Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 347. [29] V. G. CAPOGRASSI,
Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353 e 351. [30] V. G. CAPOGRASSI,
Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353. [31] V. G. CAPOGRASSI,
Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353. [32] V. G. CAPOGRASSI, Il
problema della scienza del diritto (1937), Milano, 1962 (con introduzione di
Pietro Piovani), 181. [33] V. G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del
diritto, op.cit., 181. [34] V. G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del
diritto, op.cit., 353. [35] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto,
op.cit., 354. [36] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit.,
354. [37] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 354. [38]
V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 355. [39] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 355. [40] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356. Molto intense e
particolarmente significative sono le vivaci conclusioni del saggio in
considerazione: «Quello che è essenziale è questo riportare a questa unità
vivente, a questa coerenza intrinseca al processo di vita, proprio le profonde
esigenze e funzioni per cui il diritto costituisce un interesse formativo della
vita; quel cogliere dall’interno e come componente il diritto tutta la sostanza
etica del fenomeno giuridico. Qui il giurista è non il tecnico che fa uno
sforza di costruzione puramente formale, per raggiungere una coerenza puramente
formale, ma l’uomo, proprio l’uomo nell’alto senso della parola, che cerca di
cogliere il diritto nella profonda vita delle sue determinazioni positive e
nelle profonde e immutabili connessioni, con i principi e le esigenze
costitutive della vita e della coscienza. Qui il giurista è proprio il
collaboratore della vita, il collaboratore indispensabile del segreto processo
traverso il quale la vita concreta si trasforma in esperienza giuridica, e
l’umanità del mondo della storia viene perpetuamente difesa contro la barbarie
sempre presente e sempre immanente della forza. E se non è questo, che cosa è
il giurista? Che cosa ci sta a fare nella vita? Perché vive?» [41] V. G.
CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, in AA.VV., La crisi del
diritto, Padova, 1953, 13-47, ora in ID., Opere, V, op. cit., 385 ss. [42] V.
G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, op.ult.cit., 387. [43] V.
P. BARCELLONA, Diritto senza società, Bari, 2003. [44] V. N. IRTI, Nichilismo
giuridico, Bari, 2004; ID., Il salvagente della forma, Bari, 2007. [45] V. S.
RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006. [46] Sia
consentito di rinviare a G. BIANCO, Nichilismo giuridico, in Digesto IV,
disc.priv., sez.civ., III vol. di agg., Torino, 2007, 790 ss. [47] V. M. BARCELLONA,
Critica del nichilismo giuridico, Torino, 2006, 181 ss. e 287 ss. [48] V. S.
RODOTÀ, La vita e le regole, op.ult.cit., 9 ss. Si legge, in particolare, tra i
molti spunti presenti nel saggio monografico, che «sullo sfondo scorgiamo la
fine di un’epoca nella quale esistevano valori generalmente condivisi, mentre
oggi viviamo in un tempo caratterizzato da un politeismo dei valori e da
controversie intorno al modo di dare riconoscimento al pluralismo…Si scorge una
frontiera mobile, addirittura sfuggente, tra diritto e non diritto…»(p. 16);
«il percorso tra diritto e non diritto porta al disvelamento progressivo
dell’inadeguatezza della dimensione giuridica tradizionalmente conosciuta
rispetto alla vita quotidiana…nello stesso ordine giuridico possono annidarsi i
fattori che si oppongono al dispiegarsi della personalità, alla pienezza della
vita» (p. 23); «non siamo più di fronte all’astrazione, ma alla cancellazione
del soggetto»(p. 25). [49] V.in modo particolare sul punto M. HEIDEGGER, Il
nichilismo europeo, tr. it., a cura di F. Volpi, Milano, 2003, 108; F.
NIETZSCHE, La volontà di potenza, frammenti postumi ordinati da P. Gast e E.
Forster-Nietzsche, nuova ed. italiana a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Milano,
2005, 7, 8, 17. [50] V. N. IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su
diritto e tecnica, Bari, 2001, 8 ss.; ID., Nichilismo e metodo giuridico, in
“Nichilismo giuridico”, op. cit., 7. [51] V. F. VOLPI, Il nichilismo, Bari,
1996, 4. [52] V. F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, op. cit., 7. [53] V. N.
IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, op.
cit., 8. [54] V. E. SEVERINO, Atto primo, in op. ult. cit., 27. [55] V. E.
SEVERINO, Atto primo, in op. ult. cit., 28-29. [56] Su cui v. B. CROCE,
Liberismo e liberalismo, in “Elementi di politica”(1925), Bari, 1974, 69 ss. v.
al riguardo N. IRTI, Il diritto e gli scopi, in “Esercizi di lettura sul
nichilismo giuridico”, op. cit., 115 ss. Sull’argomento v. pure le riflessioni
contenute in B. LEONI, Conversazione su Einaudi e Croce, in ID., Il pensiero
politico moderno e contemporaneo, a cura di A. Masala e con introduzionedi L.M.
Bassani, Macerata, 2008, 337-374. [57] V. N. IRTI, La rivolta delle differenze,
in “Esercizi di lettura sul nichilismo giuridico”, in Nichilismo giuridico, op.
cit., 144. [58] V. N. IRTI, Nichilismo e formalismo nella modernità giuridica,
in Nichilismo giuridico, op.ult.cit., 25. Sul pensiero del Galgano v. ID., Lex
mercatoria, Bologna, 2001, 234 ss. [59] V. N. IRTI, Le categorie giuridiche
della globalizzazione, in Norme e luoghi. Problemi di geodiritto, Bari, 2006
(2a ed.), 143 ss., 144. [60] v. tra i molti scritti dell’illustre filosofo Id.,
La filosofia futura, Milano, 2006, p.150sgg.; Id., Destino della necessità,
Milano, 1980, p.41sgg.; Id., Essenza del nichilismo, Brescia, 1972, p.227sgg.
[61] V. N. IRTI, Atto secondo, in E. SEVERINO-N. IRTI, Dialogo su diritto e
tecnica, op. cit., 45-46. [62] V. N. IRTI, Atto primo, in op.ult.cit., 8. [63]
V. G. DELLA VOLPE, Antikelsen, in ID., Critica dell’ideologia contemporanea,
Roma, 1967, 91-100. [64] V. N. ABBAGNANO, Stato, in Id., Dizionario di
filosofia, Torino, 1983 (2a ed.), 835. [65] V. P. BARCELLONA, Diritto senza
società, op. cit., 87 ss. e 151 ss. [66] V. P. BARCELLONA, Diritto senza
società, op. ult. cit., 9 ss., 11, in cui si legge che l’epoca della
globalizzazione «appare essenzialmente come definitivo tramonto della società
come istituzione (come tecnica organizzativa), attraverso la quale si realizza
la mediazione tra l’istanza di libertà e l’ordine prodotto dall’autogoverno
della società, e come fine della storia intesa come metamorfosi dell’orizzonte
di senso entro il quale si sviluppa la dialettica sociale…I concetti di Stato
nazionale, che aveva rappresentato la forma dell’organizzazione sociale, e di
sovranità, che aveva individuato nella democrazia, come governo di popolo, la
base di ogni ordinamento, sono inutilizzabili per descrivere e comprendere le
forme della globalizzazione». [67] V. P. BARCELLONA, op. ult. cit., 151 ss.,
ove si afferma che nella teoria surrichiamata «il sistema può fare a meno delle
intenzioni e dei progetti, della volontà e della coscienza e, in definitiva,
degli uomini in carne ed ossa. Perché il suo destino si compie nella perfetta
circolarità della riproduzione auto-referenziale e auto-riflessiva dei suoi
“dispositivi” e della sua logica. Luhmann ha scoperto il segreto del moto
perpetuo e per questo la sua teoria è ormai il nucleo vero di tutte le
rappresentazioni della modernità…»(p. 152). V. al riguardo N. LUHMANN, La
differenziazione del diritto (1981), tr. it., Bologna, 1990, 61 ss. [68] V. S.
RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, op. cit., 35-36. [69]
V. S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, op. cit., 37.
[70] Su cui v. in generale le classiche pagine di RUDOLF VON JHERING, Lo scopo
del diritto, tr. it., con introduzione di M.G. Losano, Torino, 1972, 6, in cui
è scritto che «lo scopo è il creatore di tutto il diritto; non esiste alcuna
norma giuridica che non debba la sua origine ad uno scopo; cioè ad un motivo
pratico». Sul tema è stato opportunamente notato che «là dove si parla di
scopo…si allude a processi intenzionali, consapevoli, voluti» (R. RACINARO,
Presentazione di “La lotta per il diritto” di R.von Jhering, tr. it., Milano,
1989, XX). [71] Sull’attualità del pensiero del Capograssi v. anche il
paragrafo quarto di G. BIANCO, Nichilismo giuridico, op. cit., 790 ss. [72] Al
riguardo v. la ricostruzione contenuta in S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra
diritto e non diritto, op.cit., 9 ss. [73] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su
Kelsen tradotto, op. cit., 356. [74] Sul tema v. S. SATTA, Norma, diritto,
giurisdizione, in “Studi in memoria di Carlo Esposito”, III, Padova, 1973, 1623
ss., 1629; ID., Il giurista Capograssi, in “Raccolta di scritti in onore di
Arturo Carlo Jemolo”, Milano, 1963, IV, 589 e ora in ID., Soliloqui e colloqui
d’un giurista, Padova, 1968, 433 ss. Sull’argomento sia consentito rinviare,
per una più articolata ed ampia trattazione, a G. BIANCO, Crisi dello Stato e
del diritto in Salvatore Satta, in “Clio”, n.4/2003, 703 ss., 709 e 711. [75]
V. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, op. cit., 415. [76] V.
E. SEVERINO, La filosofia futura, op.cit., 150 ss., 155-156 (pagine nelle quali
si afferma che «la volontà che nell’Apparato si vuole sempre più potente e
decide in questa direzione, in ogni momento del suo sviluppo decide
innanzitutto di eseguire quell’insieme determinato di azioni che in quel
momento aumentano determinatamente la sua potenza. In quantoè questa decisione,
la volontà è quindi certa dell’accadimento di tali azioni e pertanto è certa di
esistere nel futuro in cui tali azioni sono compiute. Ma la volontà che si
vuole sempre più potente non è solo questa certezza di esistere in quel momento
del futuro in cui la sua potenza riceve un incremento determinato: è anche la
certezza che in ogni momento futuro essa sarà il tentativo di aumentare la
propria potenza e cioè di trasformare ogni stato dell’essere. E’ certa del
proprio tentativo. Decide che, in ogni momento del futuro in cui essa si
troverà esistente, tenterà di aumentare la propria potenza», pur non essendo
«certa che il divenire sia eterno» perché «la volontà che si vuole sempre più
potente riconosce la possibilità del proprio annientamento»). [77] V. R. VON
JHERING, La lotta per il diritto, op. cit., 71 sgg. Sostiene l’Insigne giurista
che “il diritto ci presenta, pertanto, nel suo movimento storico, il quadro del
tentare, del combattere, del lottare, in breve dello sforzo faticoso…il diritto
come concetto rivolto a uno scopo, posto nel mezzo dell’ingranaggio caotico di
scopi, aspirazioni, interessi umani, è costretto incessantemente a tastare,
saggiare per trovare la via giusta, e, quando l’ha trovata, ad atterrare ancora
innanzi tutto l’opposizione, che gliela preclude” (pp. 91-92). Giuseepe
Capograssi. Keywords: gl’eroi di Vico, positivismo, positivismo giuridico, H.
L. A. Hart, Kelsen, il concetto di stato, stato come forza, stato come
autorita, Capograssi contro Bobbio. La critica di Bobbio a Capograssi,
essere/devere – Capograssi/Hart – Capograssi e il fascismo – in concetto di
stato come medimen – kelsen, positivismo giuridico – l’esperienza giuridica,
azione giuridica, due tipi d’obbedenza: formale (vacua) e materiale (intenzione
inclusa), intenzione, agire, vita etica, intersoggetivita, soggeto, individuo,
interpersonalismo, l’interpersonalismo di Capograssi – Aligheri, Leopardi,
Zibaldone, Rosmini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capograssi” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51778199755/in/dateposted-public/
Grice e Caporali – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Como). Grice: “You gotta (as we say at Berkeley) love (as we
say at Berkeley) Caporali – typically Italian he dedicates his life to
philosophise on Pythagoras (or Pitagora, as he prefers) just because he is
‘italico,’ or ‘Italiano,’ with the capital I that was then in fashion!” Grice:
“What I like about Caporali is that, unlike the 98% of Italian philosoophers,
he detests German philosophy, as represented by Muri – “See how clear the
religion of the Italian anti-clerics is compared to the German obscurity of
Muri!’ And right he is, too!” -- Grice: “For the Oxonians I always recommend
his “epitome di filosofia italiana,’ which, I subtitle it as “From Pythagoras
to Pythagoras, and back!” – His three-part tract on Pythagoras (Natura, Uomo,
Other) is fascinating – especially the other – he also philosophised on
‘scienza nuova.’” -- Enrico Caporali (Como), filosofo. Laureatosi
in giurisprudenza all'Padova, studiò anche storia e geografia presso l'ateneo
bolognese, così come approcciò, sia Italia che all'estero, le scienze naturali
e la matematica. Nel corso dei suoi
viaggi si avvicinò al movimento metodista, tanto che nel 1875 a Milano, dove
l'anno prima aveva dato alle stampe la Geografia enciclopedica, ne ricevette
l'ordinazione a evangelista, mentre quella a diacono la ricevette a Terni nel
1879. E, non a caso, Caporali è stato segnalato fra le menti più eccelse dell'evangelicismo. Dal 1876 a Perugia, e poi come ministro a
Todi dalla fine del 1881, finì per distaccarsi dal movimento metodista. È in
quel contesto che diede vita alla rivista La nuova scienza, uscita in 6 volumi
tra il 1882 e il 1896. La notorietà che ne conseguì gli portò l'offerta di
reggere come titolare, su indicazione di Nicola Fornelli, la cattedra di
filosofia all'Bologna, che tuttavia Caporali rifiutò. Dal 1905 riprese e approfondì le questioni
filosofiche, studiando, in particolare, la dottrina di Pitagora, che avrebbe
ricondotto, da nazionalista qual era, ad una tradizione italica e latina, in
funzione anti-straniera. Secondo Caporali, la formulazione pitagorica del
numero reale consentiva di riconoscere la relazione dell'espressione della coscienza
e della volontà umane con i problemi della vita. Opere principali Geografia enciclopedica
rispondente al bisogno degl'italiani ordinata alfabeticamente, Politti, Milano
1873. Epitome di Filosofia italica della nuova scienza. Vademecum delle persone
colte che vogliono diventare filosoficamente italiane, Tip. dell'Umbria,
Spoleto 1911; La natura secondo Pitagora, Atanor, Todi 1914; L'uomo secondo
Pitagora, Atanor, Todi 1915; Il pitagorismo confrontato con le altre scuole,
Atanor, Todi 1916; La Chiara religione degli anticlericali italiani con la
nebbiosa tedesca di Romolo Murri (della pubblica opinione moderatore), Tip.
Tuderte, Todi 1916. Note L'Enciclopedia
Italiana, vedi , indica il 1841 come anno di nascita. V. Vinay, Luigi Desanctis, Claudiana, Torino
1965240. In tal senso B. Croce,
Pescasseroli, Laterza, Bari 192255, che lo cita con i filosofi protestanti
Taglialatela e Mazzarella. G.B.
Furiozzi, Enrico Caporali tra politica, religione e filosofia, in Idem, Dal
Risorgimento all'Italia liberale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli
1997, 125–136. R. Mariani, Del sommo
filosofo pitagorico Enrico Caporali da Como (1838-1918): da Pitagora ad Alberto
Einstein, Domini, Perugia 1955. Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons
Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Enrico Caporali M.C.C., «CAPORALI, Enrico», in Enciclopedia
Italiana, I Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1938. Luca
Pilone, «Enrico Caporali», in Dizionario biografico dei protestanti in Italia,
Società di studi valdesi, sito studivaldesi.org. Filosofia Filosofo del XIX
secoloFilosofi italiani Professore1838 1918 Como TodiScrittori italiani del XX
secoloPersonalità del protestantesimo. LA NUOVA SCIENZA di ENRICO CAPORALI Alcuni pedanti, non intendendo
la sacra scienza dei Numeri, o dei Principii Universali, che Pitagora fece il
centro del suo sistema, attribuirono a questo grande Maestro teorie confuse e
assurde. Così gli studiosi, i quali non seppero discernere il pensiero
Pitagorico dalle aggiunte e dalle non scientifiche interpretazioni che ne
fnrono fatte dopo Pitagora, supposero che la radice e i rampolli della
Antiquissima Italicorum Sapientia fossero ormai disseccati, e trascurarono
l'Italo Maestro per andare ad abbeverarsi a fonti straniere. Con tutta fede
dunque, e sicuro di fare opera veramente italiana, il Prof. Enrico Caporali,
più di trentacinque anni fa, si ritirò nella misteriosa solitudine della sua
villa presso Todi per dedicarsi tutto alla restaurazione del Pitagorismo tra il
plauso e l'ammirazione dei migliori pensatori nostrani e stranieri. Redasse
allora la Nuova Scienza e in seguito pubblicò altre opere fra le quali i volumi
della Sapienza Italica presso questa Casa Editrice. La quale, avendo ora
rilevato dall'eredità giacente dell'illu stre estinto, quel che rimaneva della
sua prima opera suddetta, la presenta agli studiosi. La Nuova Scienza è
composta di 25 spessi fascicoli in-8°, e va dal 1884 al 1892. Restano
quarantasette copie dell'Obera completa e si vendono al prezzo di L. 125
ognuna. Si vendono anche separatamente alcuni fascicoli che possediamo in
maggior numero, al prezzo di L. 5 ciascuno. Diamo qui i titoli delle principali
dissertazioni contenute nella detta opera La Nuova Scienza: L'odierno pensiero
Italiani (dal 1° al 12° fascic.) — La Formula Pitagorica della Cosmica
Evoluzione ;dal 1° al 23°) — L'Evoluzione anticlericale Germanica nella dispera
zione (7°) — L'Evoluzione anticl. germ. negli errori finalisti (10°) —
L'Evoluzione malin tesa e la sua negazione (dal 13° al 18°) — // Monismo
Pitagorico antico (21°) — Perpetua voce umana— Commedia degli Spiriti (id.) —
La psicogenia pitagorica di M. F. Pauthan (12°) — La sostanza impasticciata del
Prof. Dal Pozzo (23°) — // principio Eraclitico con frontato col Pitagorico
(22°) — // Pitagorismo di Giordano Bruno (23°) — La formula Pitagorica
dell'Evoluzione Sociale (24° e 25°). O. La
Sapienza Italica mmfà i opera insigne del filosofo nella quale facendo rivivere
il Pitagorismo alfa luce dello scibile moderno sì mira alla restaurazione della
nazionale *coltura Casa Editrice " Atanòr „ - Todi 1914 La Natura
secondo Pitagora ossia La progressiva concentrazione e sistemazione delle unità
senzienti. Tov ò\ov oòpavóv àp|iovóav sivat xat àpt&fiov. Tutto l'iTiiiverso
è numero e armonia. Pitagora. Oùx' fircstpog èaxl [isxa^oXr] où5s(iia oì)xs
auvsx^SNiente può cambiare nell'indeterminato e nel continuo. Aristotele (Phys.
Vili. - 8). La Sapienza Italica i La Natura secondo Pitagora opera
insigne del filosofo Enrico Caporali il - nella quale facendo rivivere il
Pitagorismo alla luce dello scibile moderno si mira alla restaurazione della
nazionale coltura Con cenni storici su Pitagora e la sua Scuola Casa
Editrice " Atanòr „ - Todi 1914 3244 PROPRIETÀ LETTERARIA Tutti i diritti
riservati per tutti i paesi compresi la Russia, la Svezia e la Norvegia MI
STORICI SO PITAGORA E LA SUA SCUOLA Pitagora, secondo Teopompo, Aristossene e
Aristarco (citato da Clemente), era figlio di un gioiel- liere etrusco, che
mercanteggiava in Oriente, e di una donna greca chiamata Partenide. Nacque
venticinque secoli fa, 587 anni avanti Gesù Cristo in Samo. La Pitonessa di
Delfo, consultata mentre Partenide era incinta, aveva detto : « Avrai un figlio
che sarà utile a tutti gli uomini, in tutti i tempi». Pitagora, fin dalla sua
prima gioventù avido di scienza, seguì le lezioni di Ermodamate a Samo e quelle
di Ferecide a Siro, poi visitò in Mileto Talete, l'iniziatore della filosofia
greca, e per suo consiglio viaggiò in Egitto. A Memfi, presentato a quei sacerdoti
d'Iside dal Faraone Amasis, al quale, dicesi, era stato raccomandato da
Policrate il tiranno di Samo, fu da essi ricevuto nel loro tempio e iniziato
alle loro dottrine segrete. Così, durante gli anni di questa sua iniziazione,
egli potè bene internarsi in esse, e principalmente versarsi con ardore in
quella sacra scienza dei Numeri, o dei Principii Universali, che egli fece di
poi il centro del suo sistema e formidò in un modo originale. Egli arrivò agli
alti gradi del tempio, ma, essendo avvenuta in — 6 — questa epoca una
ribellione in Egitto, dopo aver assistito al saccheggio dei santuarii e allo
scempio compiuto su le opere millenarie dalle orde della plebe, fu condotto,
secondo alcuni, insieme con altri adepti a Babilonia. A Babilonia accrebbe il
suo sapere ed ebbe rivelati gli arcani dell'antica sapienza Caldea. Da qui
ritornò alla sua isola, che un usurpatore straniero, dissoluto e crudele, ora
tiranneggiava ; e volle subito fuggirne. Venne in Grecia e quindi nella Magna
Grecia, ove si stabilì a Cotrone, nel Golfo di Taranto, che era, con Sibari, la
città più fiorente d' Italia. Ora egli che aveva attinto a sì pure fonti di sa-
pere e acquistato grande esperienza della vita, nauseato dalla
indisciplinatezza delle democrazie, dalla insipienza dei filosofi, dall'
ignoranza dei sacerdoti, dalla dissolutezza che veniva a diffondersi, ebbe vi-
sione di un rinnovamento da effettuare fra gli uo- mini. Onde stabilì di
fondare una scuola di scienza e di vita dalla quale uscissero, non dei
politicanti e dei sofisti, ma dei giovani dall'animo nel vero senso della
parola virile, e che dovesse essere il nucleo, come il punto di partenza per la
trasformazione graduale dell'organamento politico della Città, in cor-
rispondenza al suo ideale filosofico, secondo il quale, affinchè lo Stato fosse
ordinato armonicamente, do- vevasi conciliare il principio elettivo con un
reggimento della cosa pubblica costituito per la selezione dell'intelligenza e
della virtù. Sorse dunque a Cotrone il più grande istituto pe- dagogico di quei
tempi, che è pur da considerarsi come il più nobile tentativo d'iniziazione
laica che sia stato mai impreso ; e in breve ebbe a fiorire in tal modo che,
non solo nella Magna Grecia, come — 7 — a Metaponto, a Taranto, e più tardi a
Eraclea, furono stabilite filiali, ma anche in altre parti d'Italia e
principalmente in Etruria, la sacra terra donde il Maestro era oriundo. Egli si
circondò di scelti discepoli, maschi e femmine, e tutti sedusse, poiché
avviluppò di grazia Vausterità dei suoi insegnamenti. Essi dovevano le- varsi
all'alba, adorare Dio, seguendo una dorica danza, quando il Sole appariva su
l'orizzonte, passeggiare nel parco dell' istituto dopo le abluzioni di rigore,
recarsi nel tempio di Apollo in silenzio, affinchè l'anima, così nella sua
verginità, si raccogliesse all'inizio del giorno. Indi, in ampie sale, venivano
istruiti nella matematica, nell'astronomia, nella medicina e nelle scienze
naturali, o nella politica, nella morale e nella religione, secondo le classi o
gradi d'iniziazione, e in altre ore nella musica istrumentale e corale. A
mezzogiorno, dopo la pre ghiera agli Dei, si faceva un pasto frugale di
pane, mele, noci e olive, e quindi si andava allo stadio per gli esercizi
ginnastici, che tutti, fuor che la lotta e il pugilato, erano tenuti in onore.
Poi si discuteva di amministrazione della città, di morale e di 'po- litica
generale, e in fine si andava a cena, dove si mangiava anche carne in piccola
quantità e si beveva vino, sedendo intorno a ogni tavolo in numero di dieci,
poiché dieci è il numero perfetto. Durante la cena, uno dei più giovani faceva
una lettura ad alta voce, e questa lettura era seguita da libere obie- zioni e
discussioni ; poi si ricordavano le regole dell' Istituto, e, cantando un inno
alle Muse, si andava a letto. Il vestito di tutti i discepoli era di bisso, a
forma egiziana o etnisca. Le fanciulle con vesti bianche egualmente di bisso,
strette leggiadramente al corpo, — 8 — e con la fronte recinta di una bendella
di porpora, erano anch'esse con ogni cura istruite, ma non partecipavano alle
lezioni del mattino, ne agli esercizi ginnastici con i giovanetti, ne ai
dibattiti e alle deliberazioni della sera. Il grande Pitagora a sessantanni si
trovava ancora nella pienezza delle sue forze. Fra le fanciulle dell'Istituto
ve riera una di meravigliosa bel- lezza, chiamata Teano. Teano fu compresa di
grande amore per il Maestro e non volle tener celata a lui la sua passione.
Egli che fino a quel giorno, come tutti gli adepti, aveva rinunciato alla donna
per darsi tutto all'opera sua, fu singolarmente colpito dalla purezza di lei, e
non pose indugio a sposarla, giacche in questo caso l'amore giustificava il
matrimonio, com'egli aveva sempre insegnato. La splendida Teano entrò in breve
completamente nel pensiero del suo maestro e marito ; e divenne abilissima
nell' insegnare alle giovinette dell'Istituto. Ella ebbe due figli, Arimneste e
Telangete, e una figlia, Damo o Mia. Arimneste fu autore di prose e poesie
morali, Telangete divenne più tardi il maestro di Empedocle e a lui trasmise i
secreti della dottrina. Mia andò sposa al più celebre degli atleti, Milone di
Crotone. Dall'Istituto pitagorico uscirono geometri, medici, artisti,
amministratori ed uomini politici ragguardevoli, che portarono, sotto certi
aspetti, la Magna Grecia al disopra della Grecia. Non si concedeva di entrare
nell' Istituto a giovani di famiglie non onorate o di costumi cattivi. Fa per
avere rifiutato un certo Cilone, giovane ricchissimo, il quale desiderava di
far parte dell'Istituto, che Pitagora venne una sera assalito mentre stava in
casa di Milone e di sua figlia Mia. E, cogliendo — 9 — pretesto dal voto
contrario che Pitagora aveva dato sulla distribuzione delle terre di Sibari,
che i Crotoniati avevano conquistate, il suo nemico Olone indusse la plebaglia
a dare l'assalto all'Istituto, uccidendo e ferendo molti giovani alunni. Allora
Pitagora che aveva già ottani' anni, si rifugiò negli istituti filiali di
Locri, di Taramto e di Metaponto, morendo in quest'ultimo nel 497 cioè dieci
anni dopo. Pitagora non credeva nella metempsicosi, ma sol- tanto nella
immortalità dell'anima razionale. Però permise che la metempsicosi dei Misteri
Orfici fosse presentata al popolo come opportuna per spronare alla virtù ed
impedire la delinquenza. Infatti egli non ha collegato in nessun modo la
metempsicosi al suo sistema filosofico. Egli si sforzava sempre di liberare gli
schiavi e di dare agli umili cittadini il sentimento della dignità morale, e
diceva che la virtù non è perfetta se non è accompagnata dalla fede in Dio,
perchè l'ordine universale si regge sulla mente divina ordinatrice e perchè Dio
solo può dare alla morale sanzioni efficaci. Diogene Laerzio narra che Pitagora
scrisse tre libri, uno sulla Educazione, uno sulla Politica ed il terzo più importante
sulla Natura: ma andarono tutti e tre perduti e ne rimangono soltanto i
frammenti citati da Aristotele e da altri filosofi posteriori. Fra i discepoli
di Pitagora si distinsero Archita di Taranto, Timeo di Locri, Ocello di
Lucania, Ecfanto di Siracusa, Filolao, Eudossio, Alcmeone, Epicarmo ed
Hipparco. Quando Platone viaggiò nella Magna Grecia, fu Archita di Taranto che
gì' insegnò la dottrina del Numerante : ma Platone la guastò nell' intrecciarla
alla sua teoria delle Idee Eterne ossia concetti gè- — 10 — nerali delle cose
ch'egli supponeva esistere da se, indipendenti e separati dalle cose. In una
scuola Pitagorica di Agrigento sorse Empedocle, nato quindici anni dopo la
morte di Pitagora, il quale abbracciò con ardore lo studio della Natura comune ai
Pitagorici, ma mentre egli osser- vava da vicino una eruzione del vulcano Etna
soc- combette asfissiato nel 425. Nella scuola Pitagorica di Siracusa brillò
poi Archimede, il fondatore della idrostatica, il quale scoprì anche la
quadratura della parabola, oggi an- cora ammirata dai Matematici. Ma qual era
il carattere del sapere Pitagorico? Pitagora fu Venciclopedista del suo tempo:
fondò la Filosofia Italica, ben diversa dalla Greca. Come fa notare il prof.
Zeller (nella sua introduzione ai cinque volumi di Storia della Filosofia
Greca) gli errori di Platone e di Aristotele erano quelli del popolo greco,
troppo idealista e portato a giudicare le cose con la fantasia, ed a studiare
poco la Natura. Erano artisti e poeti e non scienziati: appena avevano fatto
delle osservazioni superficiali, volavano a stabilire delle massime generali.
Invece Pitagora era in stretto senso uno scienziato, un appassionato scrutatore
della Natura, sicché potè fondare il Naturalismo Italiano. Diede per primo il
nome alla filosofia, come lo diede al mondo, chiamandolo Cosmo, che vuol dire
Ordine, vale a dire che porta in se la gran Legge della tendenza di tutti gli
elementi a formare più alta Unità: in modo che ogni particella sta in ar- monia
col Tutto ed è fatta da una forza numerante. L'Universo, secondo Pitagora, è la
manifestazione della Energia divina, che si contrappone i punti di forza o
Atomi, i quali, derivando da una potentis- — 11 — sima Unità, tendono a
riunirsi ed a ritornare alla Unità primitiva, sicché^ tutte le cose si fanno
dal di dentro al di fuori. E un Monismo del Noumenon vivente in ogni individuo,
che fa i fenomeni della Sensazione e del Moto. Gli Organismi sono governati dal
Sentimento, trovando piacere neWassurgere a più alta Unità, e dolore nello
scomporsi. Anche la Natura inorganica sente e vuole il suo sviluppo, il suo
godimento, benché non sia provvista di nervi: ma è da essa e dalla sua
rudimentale sensazione e vo- lontà, che a poco a poco, attraverso la evoluzione
delle attrazioni molecolari chimiche dei colloidi, si vanno formando, per
successiva divisione del lavoro, gli or- gani ed i nervi. Egli precisò con
ripetuti esperimenti il rapporto fra la lunghezza, il diametro e la tensione
delle corde sonore e la qualità dei suoni ; indovinò per il primo che la terra
è sferica e gira attorno al sole, che le stelle sono altrettanti soli in
movimento ; scoprì il teorema sulle proprietà del quadrato della ipotenusa nel
triangolo rettangolo ; calcolò la teoria degli iso- perimetri, dimostrando non
commensurabile il rapporto fra la diagonale ed un lato del quadrato ; in-
trodusse nelVaritmetica il sistema decimale, e nella musica l'ottava, la quarta
e la quinta. Il filosofo Lucio {in Plutarco Symp. VIII. 7) narra che gli
Etruschi, che stimavano Pitagora quanto i Greci, osservavano i simboli di
Pitagora. Ad un acuto osservatore come Pitagora non poteva sfuggire la legge di
attrazione e coesione che forma e tiene assieme tutti i corpi gazosi, liquidi e
Egli ne supponeva la causa nella tendenza di tutti gli elementi a riunirsi ed a
formare più alta Unità, ed invano i fisici moderni ne cercarono la — 12 — causa
in pretese pressioni dell'etere cosmico. Più tardi Empedocle di Agrigento la
chiamò poeticamente Amore Universale, contraponendovi l'odio o repulsione, che
avviene contro tutto ciò che disturba il piacere dell'unione. Empedocle pensò
la Naturaorganica, piante ed animali, come un processo di crescente
unificazione e sistemazione (benché non conoscesse la cellula) e la malattia e
la morte come un processo di dissoluzione delle particelle senzienti. L'Essere
non è per Empedocle in continuo flusso, il diventare non è un formarsi di cose
nuove (come pretendeva Eraclito d'Efeso che nella Grecia orientale emulava
Pitagora), ma è l'unirsi delle particelle, lo ascendere a pnu alta Unità, il
formarsi dai molti l'Uno: mentre il morire discioglie la Unità nella
Molteplicità. Era bene istruito del pensiero pitagorico Anassagora, il primo
greco che separò lo spirito dalla materia, e che suppose le anime degli animali
e degli uomini come formate di Omeomerie, specie di Numeranti, che separano,
distinguono, scelgono, conoscono le cose utili e respingono le inutili al bene
dell'individuo e della specie. Ma i suoi discepoli Socrate e Platone intesero
poco il Pitagorismo, in modo che dopo Anassagora la filosofìa Greca si
allontanò dalla Italica. Pitagora fu il genio tutelare del pensiero laico
Italiano, e ^diede sempre il midollo alla coltura nazionale. E grazie a
Pitagora che nell'antichità e nel Medio Evo l'Italia non fu una provincia della
filosofia greca. E grazie a Pitagora che un po' alla volta fu sorpassato il
Platonismo e fu vinto l'Aristotelismo. Nel Rinascimento con le invasioni dei
bar- bari si oscurò ogni luce di pensiero, ma la idea pitagorica tornò a
brillare per la prima e a dare — 13 — impulso alla nuova filosofia italiana
grazie al car- dinale Nicolò di Cuza, nato a Treviri, ina educato in Italia.
Egli nel 1440 scrisse: «Ratio est men- « sura quae omnia in multitudinem,
magnitudinem- « que resolvit. Mens est viva mensura quae mensu- « rando alia,
sui capacitatem atiingit » . La mente è la unità che si esplica nella
diversità. Essa discerne confrontando e misurando. L' investigazione della
Natura, che era stata lo scopo principale delle Scuole Pitagoriche venne pro-
mossa dall'Accademia di Cosenza (a 40 miglia da Cotrone) fondata nel 1500 dal
Parrasio - dalla quale sorse Bernardino Telesio che scrisse: « Della natura
delle cose secondo i propri principii » -, dall'apertura in Padova nel 1644 del
primo Orto Botanico, dalla Aliatisi botanica iniziata nei giardini di Alfonso
aVEsie, dalle Accademie dei Lincei a Roma, del Cimento a Firenze, dei Segreti a
Napoli con G. B. Porta, le quali servirono di stimolo e di esempio ai popoli di
oltralpe per la fondazione delle loro Accademie Maggiori. Giordano Bruno
sostenne poi contro gli Aristotelici che gli elementi medesimi della natura si
ritro- vano in terra e in cielo, indovinò la trasformazione degli organi
animali secondo l'uso che se ne fa, notò che la Unità domina nell'uomo e che alla
sua Monade centrale convergono quelle periferiche del corpo, sicché l'organismo
è come un dispiegarsi del- l'anima. Lontano dalla luce del Pitagorismo,
Cartesio trasse per alcuni anni in errore col definire la Materia come Res
extensa, confondendola con lo Spazio, fantasticandola come piena di vortici,
credendola sostanziale. Ma la verità Pitagorica della Attrazione fu dimostrata
da Newton e il newtoniano Boscovich 14 concepì gli Atomi come punti di forza.
Ad essa furono poi aggiunte l'attrazione molecolare chimica, elettrica e
magnetica, le quali diedero ragione agli antichi Pitagorici e ad Empedocle. Nel
libro che segue noi supponiamo che Pitagora siasi istruito dello scibile
moderno, e consideriamo la Natura dal punto di vista pitagorico, che è il più fecondo
per intenderne le leggi. La Nafta secondo Pilajora La progressiva
concentrazione e sistemazioni delie unità senzienti.Noi fondiamo la filosofìa
sopra la totalità del- l'Esperienza, ossia stiamo sempre sulla base dei fatti,
come li prende, li elabora e li interpreta il nostro stromento del conoscere
(lì. Nessuno vorrà ammettere che una volta non ci fosse niente: e che dal
Niente venisse fuori l'Essere. Ex nihilo nihil. UHegelismo, che, invece di
stare ai fatti, fonda la filosofìa sui Concetti, e quindi prende il Concetto
del Nulla come equipollente a quello del- VEssere li ha sposati per farne
uscire il Diventare: ma per noi il Nulla è un vero Niente e lo la- sciamo nei
cervelli che lo pensano come reale. Dunque un Essere vi è sempre stato. Che
questo essere eterno fosse molteplice, nes- suno che guardi il mondo e conosca
la Unità delle forze fisiche che si manifesta, non solo sulla (1) Non bisogna
esagerare il bisogno di gnoseologia al punto di farla precedere ad ogni studio
filosofico. Di gnoseologia parleremo nel Volume L' uomo secondo Pitagora di
prossima pubblicazione. Coloro che non vogliono filo- sofare senza prima
determinare i confini della ragione, somigliano a colui che non vuol entrare
nell'acqua, se prima non ha imparato a nuotare. — 18 — Terra, ma in tutti i 50
milioni di stelle visibili nelle notti serene (anche in quelle più lontane la
cui luce impiega più di diecimila anni per ar- rivarci, quando si studiano
colFanalisi spettrale) nessuno potrà affermarlo. Dunque YEssere eterno era Uno.
Che cosa era questo Essere uno eterno ? Ardigò dice che era la Sostanza
Psicofisica, ossia psiche (unità), e poi forza materiale (molteplicità). E così
può essere. Nel voi. IV. delle sue opere (pag. 270) egli ci dice che questo
primo Essere ha cominciato a sdoppiarsi in Spazio e Tempo, per poter fare la
esteriorità, ossia il Mondo: ed aggiunge che lo spazio era allora convertibile
nel tempo e viceversa, senza dirci a quanti anni, mesi, giorni ed ore
corrisponda un determinato spazio. Noi c'inchi- niamo al prof. Ardigò per
questa bella trovata, la più positiva e la più radicale della sua filosofìa,
così immaginosa, che la bellissima Cerezada, per divertire il potente sultano
Sciariar nelle Mille ed una notte, non avrebbe saputo inventare. Il male si è
che (se fosse vera la convertibilità dello spazio nel tempo e viceversa),
sarebbe impossibile la Natura. Il Senatore B. Croce poi, di natura non ne vuol
sapere affatto e nel gennaio 1909 scrisse nella sua Critica che la filosofia
può abolire la natura (1). Questa è fatta di sensazioni, di senti- menti, di
volontà, di movimenti, dei quali è dif- (1) S'intende che egli non pretende di
abolire la Natura, bensì, come dice a pag. 75, il concetto di Natura. E la
filosofia ha da essere tutta dello spirito, senza impicciarsi di Natura. — 19 —
fìcile formarsi concetti esatti, e si richiede, per intenderla, uno studio
vastissimo e profondo. Sarebbe comodissimo di risparmiarlo. Le scienze
naturali, dice il Croce, sono fatte con concetti sbagliati, e la pratica che ne
consegue, è fatta di volere e di azione, ossia di soggetto fatto oggetto. Sia
come ipostasi della scienza, sia come forma pratica dello spirito, che diventa
volontà ed azione, e quindi oggetto, è meglio tagliar corto, e considerare come
abolito il Concetto della Natura. Fino ad ora nessun filosofo, neppur Hegel, ha
potuto ^fare a meno di tentare una Filosofìa della Natura. E vero che sarebbe
stato prudente abolirla, come la volpe dichiarava non matura quell'uva, alla
quale non poteva arrivare. Se vi è un lettore inimicato contro la Natura, potrà
con essa conciliarsi in questo Libro, nel quale cercheremo di penetrare appunto
nella Natura. Avvertiamo che V Essere eterno ed uno ha dovuto essere attivo
sempre, estrinsecandosi (poiché essere vuol dire essere attivo) pensando prima
i due sistemi di punti e di istanti (lo Spazio ed il Tempo) e poi
contrapponendosi i punti di energia. Dunque il nostro studio
deve cominciare da queste estrinsecazioni primissime dell'Essere Eterno;
vale a dire la matematica in spazio e tempo, e la fisica in atomi eterei ed
atomi ponderali. CAPITOLO I. La prima estrinsecazione dell' Essere Divino
(Spazio e Tempo) La fisiologia dei sensi ha mostrato come dal tatto, dalla
vista, dal senso muscolare sorga in noi l'idea dello spazio e le condizioni in
cui questa intuizione si forma ancora nei bambini. Questa esperienza è sempre
diretta dalla Unità di coscienza. Altro è la intuizione di spazio e il concetto
dello spazio, ed altro è lo Spazio, ossia il fondo eterno. Se un centimetro
quadrato contiene 1.000.000 di punti, mezzo centimetro quadrato dovrebbe con-
tenerne mezzo milione. Ma non si può ficcarvene dentro altri milioni allo
infinito ; altrimenti i punti si toccano e diventano di due o tre un punto
solo. Chi nega la realtà dello spazio, nega la realtà del mondo, che è tutto
esteriorità. Se fosse puramente nostro subbiettivo e continuo, non vi sarebbero
punti fissi, uno fuori dell'altro, non vi sarebbe alcun luogo; quindi il moto,
cioè il passaggio di un corpo da un luogo ad un altro, non avrebbe realtà.
Zenone di Elea infatti negava la realtà del moto, perchè lo riteneva continuo,
come spazio e tempo, e diceva che, se il veloce Achille sta un passo dietro la
tartaruga, non la potrà mai raggiungere. — 22 — Ma quando si considera lo
spazio come un si- stema bene connesso di punti pensati dall'Essere Divino e
quindi reali, e il tempo come un seguito di istanti, divisi da minimi
intervalli, allora si ca- pisce che il moto reale è possibile, perchè il corpo
che si muove va a scatti, cessando di essere nel punto dove era, per cominciare
ad essere laddove non era. Altrimenti un corpo in moto non sarebbe in nessun
luogo. Celere è il moto i cui intervalli o riposi sono brevi. Lento è quel moto
i cui in- tervalli sono meno brevi. Lo spazio ed il tempo non hanno energia
motrice, ma non sono nulli ed hanno una realtà numerica. E siccome il Numero è
la realtà maggiore della Logica, come dimostra Hegel, così la loro realtà è
certa (1). Kant suppose che noi creassimo lo spazio ed il tempo, ossia che
fossero come occhiali colorati o nostre intuizioni che ci obbligassero a vedere
e toccare le cose esteriori in un modo subbiettivo della nostra coscienza.
Ipotesi resa impossibile oggidì, giacche le fotografìe e le fonografìe ci di-
mostrano che le macchine fotografiche vedono le cose come noi e notano così le
divisioni dello spazio come noi, e le macchine fonografiche dividono il tempo
come i nostri orecchi, riproducendo le vibrazioni fonografate e quindi i suoni.
È vero che riconosciamo dapprima lo spazio ed il tempo em- (1) Lo spazio, il
tempo, gli atomi, sono la molteplicità del mondo che non può essere fatta se
non da una Unità spirituale. Se tutte le cose hanno relazioni numeriche tra
loro, la sostanza comune numerica dello spazio, del tempo e delle minime unità
atomiche, va considerata nella Unità Cosmica.piricamente : e che per i bambini
non sono altro che forme della distanza degli oggetti voluti e del moto
necessario per raggiungerli. Più della vista e del tatto è il senso muscolare,
ossia il senso dinamico della forza ricevuta e spesa, il senso del moto, e
della resistenza, che ci dà lo spazio ed il tempo: è questo il primo senso a
comparire nella evoluzione animale e nel feto. La realtà dello spazio è il da
mihi ubi constitam della filosofìa scientifica. Nella « Teoria del cielo » Kant
riconobbe la realtà dello spazio, e lo disse un assoluto, indi- pendente dalla
materia, anzi base della possibilità di sviluppo delle forze, eterno, infinito,
vuoto: e aggiungeva « dubito che se ne sia mai data una « definizione adeguata.
Le determinazioni dello « spazio non sono conseguenze del posto che oc- «
cupano reciprocamente gli atomi, ma queste sono « conseguenze dello spazio, e
le diversità nei corpi si « riferiscono sempre allo spazio assoluto, che non è
« oggetto di sensazione, ma è una idea fondamen- « tale, la quale rende
possibile tutte le altre. Di « modo che non si può percepire un corpo se non in
« relazioni spaziali con altri corpi » . Più tardi però Kant concepì spazio e
tempo come forme subiettive della visione e dell' intelletto, con le quali noi
mettiamo ordine nei fenomeni e fu in questa stra- nezza seguito dallo
Schopenhauer. Non però dagli altri maggiori pensatori della Germania, non da
Jacóbi, da Schelling, da Hegel, da Herbart, da Beneke, da Schleiermacher, da
Bitter, da Weisse, da Ueberweg, da Wundt, da Hartmann, da Zeller, da
Trendelenburg, da Lazarus) da Dilhring, da Baumann. Il danese Kromann ed altri
provarono che le difficoltà che Kant trovava nello spazio obbiettivo, rimangono
anche se lo spazio fosse meramente subbiettivo. Alcuni matematici, come
Riemann, credettero che, oltre al nostro, vi fosse uno spazio a molte
dimensioni. Ma, se lo spazio avesse più di tre dimensioni (larghezza, lunghezza
e profondità), tutti i corpi varerebbero di massa e di volume. Ogni azione a
distanza ritornerebbe sopra se stessa. La gravitazione sarebbe proporzionale
inversamente del cubo, e non già del quadrato della distanza, come dimostrò A.
Wiessner. Le leggi di gravità stabilite dal genio di Isacco Newton ci provano
che lo spazio a tre dimensioni è il solo reale; giacche la irradiazione degli
atomi si ripartisce sulla periferia interna delle sfere; appunto per il
rapporto inverso del quadrato della distanza. E se lo spazio avesse due sole
dimensioni, si ripartirebbe sulla periferia interna dei circoli. In altre
ipotesi la gravitazione sarebbe in rapporto inverso di ogni altra funzione
delle distanze. — Anche i tre assi perpendicolari dei cristalli ed altre leggi
fisiche, ci provano che lo spazio reale ha tre sole dimensioni. E lo dimostra
anche il chiaris- simo professore Federico Enriquez trattando della Geometria
non Euclidea e non Archimedea nei suoi « Problemi della scienza » Bologna 1905.
La realtà dello spazio assoluto a tre dimensioni, è tanto sicura, che il
maggior fisico del nostro tempo sir W. Thomson (creato poi Lord Kelvin), mostrò
che si deve prenderlo per base di tutte le misure (1). (1) Abbiamo riassunto le
ragioni e le proposte del Thomson nel volume quarto della nostra Nuova Scienza
pa- gina 81 a 84. — 25 — La realtà del tempo poi che (come dice Neioton) «
fhixus mutari nequit, equabiliter fhlit » è dimostrata vera da molte leggi. Se
non vi fosse un centro immobile nell'Universo, tutta la meccanica serebbe
fallace. Se non fosse reale il Moto assoluto, addio astronomia. Tutto cangia o
di luogo, o di forma, o di qualità, e nessun cangiamento può av- venire se il
tempo non fosse una realtà. Si potrebbe dubitare della realtà del tempo
soltanto se niente si cambiasse. Non sono inerti spazio e tempo, perchè assoggettano,
come sistemi inalterabili di punti e di istanti , a regole certe i moti, le
azioni e le resistenze. Lo spazio ed il tempo sono così obbiettivi come
subiettivi, sono i due Oceani della possibile espansione di qualsiasi energia.
Il fondo eterno non può essere che uno. Lo implica la interazione delle forze ;
lo implica il coesistere di un numero enorme di scopi e di azioni e di moti che
si incontrano e lottano fra loro senza confusione. Se non vi fosse la
sistemazione dei punti di spazio e degli istanti di tempo, sistemazione che è
tutta dovuta alla Unità Reale eterna {Numerorum Fons di Giordano Bruno)
discontinuando il tempo e lo spazio, il Moto che è l'espansione della Energia
in questi due Oceani, non avrebbe mai precisione ; anzi non sarebbe possibile.
La possibilità dei coesistenti (spazio) e dei successivi (tempo) rende facile
l'azione dei punti di forza. — Spazio e Tempo esistono per se come sistemi di
termini puntuali indivisibili (1) e tra i termini puntuali ci (lì Una
superfìcie è definita lunghezza e larghezza, senza profondità. Una linea
lunghezza, senza larghezza, ne profondità. Un punto, ciò che manca di
larghezza, di — 26 — sono intervalli infinitesimi, ma non nulli. Se fos- sero
nulli non sarebbe possibile il moto e specialmente il moto curvilineo, die si
calcola col diffe- renziale. Infatti una curva cambia continuamente di
direzione, con grandezze infinitesime, che cre- scono o diminuiscono. Il
differenziale è un valore che limita e non una grandezza numerata. Per variare
la direzione in una curva qualsiasi, vi è bi- sogno di un nuovo impulso, sia
pure infinitesimo, ma non nullo. Possiamo pensare come infiniti lo spazio ed il
tempo, ma lo infinito non è mai una realtà. La loro connessione e tale che
sembrano continui e si trattano come tali; nondimeno i punti dello spazio e
gl'istanti del tempo sono realmente fuori gli uni degli altri e quindi
numerabili, senza tener conto degl' intervalli infinitesimi (1). Ogni punto è
numelunghezza e di profondità. Se i punti, le linee, le superficie non avessero
per limiti dei punti indivisibili, questi limiti sarebbero composti di molte
parti, di cui nessuna sarebbe l' ultima ; non vi sarebbe alcuna figura
definita, non vi sarebbe linea lunga e linea corta perchè tutte sarebbero
composte di parti infinite, mentre in realtà la linea corta è quella composta
di minor numero di punti. Ecco la realtà dello spazio: sta nell'essere
numerabile. Il tempo poi è composto di istanti indivisibili, perchè se non si
potesse arrivare alla fine della sua divisione, vi sarebbe un numero infinito
di istanti (ossia di elementi del tempo) contemporaneamente. Locchè è assurdo.
Il tempo è fatto dalla Unità cosmica e intuito dalla nostra Unità intima e non
è un concetto empirico. Senza l'Unità in- tima non riveleremmo il Moto e il cambiamento
delle cose tutte, come lo rilevano anche gli animali, perchè non si confronta
se non vi è l' Uno vivente. Gli istanti sono reali e numerabili e fanno la
realtà del Tempo. (1) Contro questi intervalli Pascal diceva che i punti dello
spazio o si toccano interamente e allora invece di — 27 — rato, ogni istante
del pari, sono tutti diversi e discernibili, hanno tutti una esistenza separata
e permettono di evitare la confusione nel Cosmo e nella Scienza. Cartesio
rinnovò la geometria cambiando la qualità, ossia la forma dei corpi, in
quantità; riducendo la forma alla posizione e determinando la posizione con le
linee coordinate potè sostituire alla misura diretta la indiretta e trovare le
quadrature, le cubature ecc. Egli applicò l'al- gebra alla geometria,
osservando che ogni spazio chiuso può determinarsi dalla lunghezza delle li-
nee perpendicolari abbassate su due linee rette o su tre piani che si taglino
nello stesso punto ad angolo retto. Così le linee e le superfìcie curve possono
determinarsi dalle loro equazioni, in cui le relazioni variabili sono combinate
con quantità costanti, ed i numeri servono a constatare le proprietà dello
spazio. Il che sarebbe impossibile se lo spazio non fosse realmente composto di
punti separati indivisibili. Inversamente, le proprietà dello spazio, può dirsi
che dipendano dalle proprietà del numero; sicché lo spazio si risolve in un
sistema di numeri, pensato dalla Unità suprema del Cosmo. Galilei scoprendo le
leggi d' inerzia, scoprì an- che la necessità del moto assoluto, almeno nel
calcolo, e quindi del Tempo assoluto. — Kuno Fischer ha dimostrato (contro
Trendelenburg) che il moto è preceduto e spiegato dal tempo e non gedue sono
uno : o si toccano soltanto in parte e allora sono divisibili. E sbagliava,
perchè non sono circoli, ma punti e non hanno parti, ma essendo fuori l'uno
dell'altro non si toccano. L'estensione dello spazio deriva appunto da questo,
che non si toccano.nera né il concetto ne la intuizione pura del Tempo. Nei
suoi « Philosophiae naturalis Principia » , 1714, (Def. Vili) Newton scrive :
«Eadem est Buratto seu perseverantia rerum, sive motus sint celeres, sive
tardi, sive nulli » . Il tempo sarebbe il medesimo anche se l' Universo e i
suoi , moti fossero affatto diversi da quelli che sono. È un pensiero della
Eagione eterna di cui Descartes (Lettera a Vatier nov. 1643) scriveva : «
Tempus non est affectio rerum sed modus cogitandi » . Aristotile. Phys. IV. 10
chiama àpi&iioc, x^viqaeos ossia numero del moto. 11 tempo è eguale da per
tutto e questa sua ubi- quità non permette di prenderlo per una linea, benché
sugli orologi e nelle clessidre lo si misuri sopra una linea. Newton dice che
il tempo è un sistema d' istanti che non dipende dalla nostra coscienza. Ogni
fi- nalità si appoggia sulla idea del tempo, senza la quale niente si farebbe,
non potendo aspettarsi effetto alcuno dalle proprie azioni. La legge d' inerzia
prova che il moto è assoluto come lo spazio ed il tempo. Essa è dimostrata vera
da tutte le esperienze (benché sia impossibile la esperienza fondamentale
perché stiamo in un pianeta del sistema solare e non nel centro universale).
Essa prova la realtà dello spazio e del tempo e la loro uniformità. Che lo
spazio ed il tempo per noi sieno concetti a priori o sieno in- tuizioni, poco
importa. Quello che importa di sa- pere è quello che sono in se stessi. Sono
due sistemi di punti e di istanti separati e discernibili, perchè numerati. La
realtà che hanno è minima, mancando di energia, ma se non vi fosse, si avrebbe
il caos e la indeterminazione. Spinoza diceva: « Quo plus realitatis aut Esse
unaquaeque res habet, eo plura attributa ei competunt » e questi due sistemi di
punti e d'istanti non hanno altro attributo che l'ordine, il mimerò, la realtà
dell' Essere puro, del Numero. Lo esigono la Meccanica, l' Astronomia e tutte
le scienze esatte. Al principio delle cose non vi poteva mai essere (come
supposero parecchi Metafìsici, ed anche YArdigò) Vessere indeterminato. Come
prova il grande matematico Cantor, lo spazio ed il tempo sono due oceani di
punti e di istanti nei quali anzitutto si estrinseca l'Essere Uno Reale. Il
Numero è così alla genesi di ogni possibile energia. Pitagora, dando al Mondo
il nome di xoajjto? (ossia ordine) comprese che il generatore dell'ordine era
il Numero. E Leibnitz scrisse che « omnibus ex nihilo ducendis sufficit unum »
. La seconda estrinsecazione dell' Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) Come
non sono continui lo spazio ed il tempo, così non è continua la Materia (come
crede Ardigò)1 e se lo fosse, non opporrebbe resistenza, come dimostrarono
Poisson e Cauchy. La forma sferica non basterebbe all'equilibrio di un corpo di
materia continua ; una siffatta materia si dissi- perebbe nello spazio: sarebbe
una specie di atmo- — 30 — sfera diffusa allo infinito, con strati concentrici,
sempre più rarefatti. Parti di numero indeterminato, mai non potrebbero fare un
tutto di numero determinato, come dimostrò fin dal 1844 Saint-Venant. Nella «
Révue du mois » 1906, Jean Perrin provò la discontinuità della materia con la radioattività
e con altri fatti. Ciò che è sostanziale non può concepirsi come indeterminato
o indefinito, quindi l' indistinto di Ardigò è un concetto inapplicabile in
fìsica. Tutte le leggi fisiche e chi- miche ci provano concordi che gli atomi
serbano sempre proporzioni definite nello scambiare le loro forze (attrazione,
calorici specifici, equivalenti elettrici e chimici, ecc.). Il Secchi ( « Unità
nelle forze fìsiche » ) fa os- servare che teoricamente l'equivalente definito
e multiplo esige che la materia sia composta di centri distinti e semplici.
Questo lo aveva già in- tuito Pitagora, quando distinse nettamente il nu-
merato o numero concettuale dalla Unità Reale o sostanziale : e fu svolto il
suo pensiero da Ecfante di Siracusa, il quale mostrò che le Unità reali erano
Atomi, intendendoli come unità immateriali, esistenti a se, come punti di
energia propria se- movente, prevenendo così le obbiezioni degli Eleatici
contro la possibilità del moto. Spazio e tempo sono le condizioni numeriche
nelle quali ci si presentano la materia e il moto nelle esperienze di forza,
mentre l'energia atomica, come vedremo, sente e vuole e fa il moto opponendo
alle forze incidenti la forza propria della impenetrabilità. L' Essere atomico
non si lascia annichilire. Il dire che persiste la forza, la volontà, ossia una
attività, una realtà indeterminata, è vago e per nulla scientifico, se non si
dice che è la me- — 31 — desima in quantità. Bisogna dire che quello che
persiste è Vertergià, la Unità Reale. Il carattere distintivo della scienza
italica fu di eliminare l'in- determinato, e di cercare il concreto misurabile.
Il Moto non è altro che un rapporto di spazio e di tempo e non ha esistenza in
se stesso. La realtà sta nell' Atomo senziente e volente. Lo ammise il Taine nel
1892 e lo aveva, dodici anni prima, ammesso anche Herbert Spencer scrivendo
nella Revue Philosophique de la France « La forza « cosmica non può somigliare
alla nostra : ma sic- « come la genera, devono essere modi diversi della «
stessa energia. Il potere manifestato in tutte le « cose è alla fine quello che
in noi scaturisce sotto «forma di coscienza. La materia vive in ogni « Atomo
per se stessa. Questo centro, questa Unità « interiore di tutte le cose e
inaccessibile alla nostra « coscienza : le scienze studiano i loro fenomeni « e
non la realtà conscia che li fa. Ma siccome « noi dobbiamo sempre pensare la
manifestazione « esterna nei termini della Energia intima, così, « (conclude
l'eminente filosofo inglese) si arriva « ad un concetto psichico degli Àtomi »
. Quando si dice che gli atomi sentono un tantino, è inutile spiegare che non
si parla dei nostri sensi, che sono frutto di lunghissima evoluzione, nella
quale gradualmente si sono accmnunati il sentire ed il volere di milioni di
Atomi, dividendosi il la- voro fisiologico, e formando così organi
perfezionati. Ma si intende che gli Atomi debbano avere il solo senso dinamico
(o della forza fondamentale che tende a formare più alta unità). Infatti la
coe- sione è universale e non è mai un moto, ne fatta da moti esterni. E se
viene disturbata, fa il moto termico o calorico e la elettricità dinamica. In
al- — 32 — tre parole si parla di quella sensazione primitiva minima dell'
Èssere in se, dalla quale derivano tutte le altre più complicate e più raffinate
della chimica e della biologia. Quando la violenza del verito fa accavallare le
onde del mare, un buon Capitano (come ce lo de- scrive l'ammiraglio francese
Cloué) fa portare in- torno i sacchi di telaforte, pieni di stoppa imbevuta di
olio di pesce, di foche o di marsuini, fa forare con aghi da vele i sacchi,
legandoli alla poppa o alla prora, non mai più vicini di dieci metri fra loro.
Ogni ora escono da tutti i sacchi da due a tre litri di olio, formando quasi
una strada piana, larga 50 a 80 metri, che manda lembi di olio fino a 400 o 500
metri ai due lati della nave. Questa pellicola di olio che si diffonde sul mare
e calma le onde furiose, non può mai essere piegata dal vento, per quanto sia
veemente. Eppure questa pellicola ha lo spessore di i /QQ , 0QQ di millimetro
(poco più delle bolle di acqua saponata), e basta a far cambiare la direzione
alle molecole dell'acqua che arrivano con impeto. E perchè ? Unicamente per la
forza di coesione delle minime molecole dell'olio. Il Cloué ha avuto più di duecento
rapporti concludenti da varie società di salvataggio, da molti capitani di
lungo corso, che attra- versano periodicamente 1' Oceano Atlantico. La coesione
è dunque una gran forza, se in una pellicola poco più grossa della bolla di
sapone può arrestare i marosi in burrasca ! ! Ed è una forza indipendente da
qualsiasi altra, che non deriva da cause meccaniche, ma unicamente dalla
sensazione dinamica, dal piacere di unirsi delle molecole di olio. — 33 —
L'atomo di una goccia di acqua non vede, non ode, non ha ne palato, ne olfatto,
ne udito, né vista, ne tatto; ma ha bensì il senso rudimentale, dal quale (con
lunga evoluzione) uscì il tatto chi- mico e quello delle cellule degli
organismi inferiori. E quando milioni di atomi fanno la goccia di acqua senza esserci
costretti da alcun moto, da nessuna pressione di etere (come fu constatato), la
fanno godendo, altrimenti non la farebbero. Il maggior neocritico tedesco, il
Wundt, con- cepiva gli atomi come volontà elementari, come es- seri attivi che
sentono (benché più semplicemente di noi) : e li aveva concepiti così anche
Antonio Rosmini, come si vedrà nel terzo Volume. Materia inerte non esiste che
in apparenza. « Instar arcus tensi, qui non indigent stimulo alieno, sed sola
suòlatione impedimenti» diceva Leibnitz. La Materia è un Concetto vuoto di una
cosa che la Scolastica credeva sostanziale, che non ha qualità propria, ma si
supponeva servisse di base alle forze, le quali sarebbero state (secondo gli
scolastici) meri accidenti : mentre sono le vere realtà. La Materia (dice il
senatore A. Righi) ha per proprietà distintiva Vinerzia ; e gli elettroni (o
atomi veri), benché non sieno materiali, perchè le loro masse crescono colla
velocità (Moderna Teoria dei fenomeni fisici, 1907, pag. 234), la mostrano in
molti casi, quando stanno fermi, come punti di forza disposti simmetricamente
intorno ad un centro positivo ; ma in moltissimi casi non la mostrano,
cambiando il modo di sentire e di volere. La cosa reale non può essere che un
sistema di punti di energia senziente. Anche nell'urto meccanico, il corpo urtato
si muove per una intiina reazione, ossia perchè le molecole ritornano al posto
in cui trovavano la coesione gradita. Nessuno misura la Materia se non come
peso, massa o volume: di cui i primi due si risolvono in forze e il terzo in
spazio occupato dalle forze. Gli atomi sono punti, ma fanno la massa e la
densità, perchè vi è fra loro dello spazio, anche nei liquidi e nei solidi:
ciascuno esiste in sé, e persistendo in relazioni diverse, si sviluppa in molteplice.
La causa del moto è sempre intima, nella sensazione delle forze. Gli atomi veri
che il prof. Stones ha chiamato Elettroni, non sono estesi, perchè, se fossero
estesi, sarebbero divisibili: ma sono punti di energia, che irradiano
nell'Etere il quale è pure discontinuo e (secondo Helm e Vogt) darebbe origine
agli Elettroni. Invece di Materia, si dica dunque Corpo, vale a dire complesso
di energie: e si lasci la Materia alla scienza morta di Aristotile e degli
scolastici medioevali e moderni. L' Energia di qualsiasi specie si trasforma
con- servando il suo valore numerico : ogni Energia è potenziale rispetto a
quella in cui si trasforma. L'Energia è sempre misurabile ed è l'unica che ci
interessa. Si compra la materia come la- boratorio di energia. L'Elettrica ha
un valore commerciale, dunque è realissima, benché la parte materiale degli
impianti elettrici non si alteri, né diminuisca col consumo. Sembra che il
calore sia energia cinetica, ma non si può trovare la sua potenziale, se non è
nel disturbo della coesione, che è un modo di avvicinarsi godendo l'armonia.
Nessuno sa se la Elettricità sia energia cinetica oppure Energia potenziale:
non è fatta dal mo- — 35 — vimento dagli atomi complessi di Thomson, ma
soltanto dal moto degli Elettroni. Questi sono punti di forza senza nucleo
materiale, senza caput mor- tuum che li porti, come la terra va attorno al sole
senza essere portata dall'Elefante o dalla tartaruga degli Indiani. « Omnis
Ens, aut in se, aut in alio est » diceva Spinoza e gli Atomi sono in se, elementi
psichici che non si lasciano distruggere e se disturbati reagiscono. Lotze
osserva che la reazione non è mai simile all'azione, ne Veffetto somiglia alla
causa, almeno nella qualità. Chi è colpito si difende in modo diverso
(Microcosmos I 165 a 168). E Lasson filosofo di non minor valore del Lotze,
aggiunge : « Non esistono cose meramente oggettive, passive, esterne» . Una
energia reale (osserva Guyau) deve avere un modo interno di essere: un
appetito, una sensazione rudimentale. Così pensarono eminenti fisici (oltre ai
filosofi), quali furono : G. Bruno, Leibnitz, Kant, Boscowich, Maupertius,
Cauchy, Moigno, Ampère, Faraday, Tyndall, Zóllner, Fechner, Wundt, Haeckel,
Delboeuf, Cournot, Cope, Vacherot, Fouillée, Preyer, Ostwald, Mach (1). Nella
sua « Mechanik in ihrer Entwickelung » ossia « La meccanica nel suo sviluppo,
il Mach scriveva che « La mitologia Meccanica è sbagliata. (1) Il Marchesini e
gli altri discepoli di Ardigò credono che gli Atomi siano materiali e si
affannano a combattere la falange dei, veri pensatori di cui qui abbiamo dato
alcuni nomi. E giusto però osservare che hanno male inteso Ardigò, il quale
scrisse che « la Materia è Pensiero ». S'intende non dei sassi, né dell'uomo,
ma della Sostanza Psicofìsica, di quella divinità inconscia dello Schelling
ch'egli chiamò V Indistinto. - 36 - « La nostra fame non è molto diversa dal
bisogno « di combinarsi delle molecole. La nostra Volontà « non è molto diversa
dalla pressione del tetto « sulle pareti di una casa » . E Kromann, filosofo di
Copenhagen (Unsere Natur Erkentniss) osserva : « se l'Atomo fosse ma- «
teriale, non opererebbe se non nel posto ove si « trova, non irradierebbe
energia termica o elet- « trica ; anzi non si continuerebbe il moto dopo « V
urto, se non per alcuni istanti, e andrebbe « estinguendosi per l'attrito.
Avviene l'opposto : « dunque l'Atomo è Energia psichica » . Il considerare la
Fisica come una estensione della Meccanica va bene fino ad un certo punto, per
la comodità dello studio esteriore, ma la filo- sofia non è limitata dagli
orizzonti della Materia estesa e cerca la realtà intima che fa le forze
originali. Bisogna evitare di fare della scolastica positivista una Metafisica
di Materia, di Forza, di Massa, di Moto, di finzioni logiche, che si pigliano
per reali quanto più sono lontane dalla realtà, mentre sono meri simboli, meri
concetti astratti. I fatti reali di coesione, di solidarietà dell'etere e
dell'aria, senza la quale non vedremmo la luce, non ci arriverebbero ne luce,
ne suoni, ci con- vincono che sotto le astrazioni della scolastica
materialista, ci sono le realtà psichiche indivi- duali minime. L'Etere cosmico
forma un tutto solidale ed elastico, è quindi composto di tanti punti di forza
che reagiscono. Quando questi punti di forza si scindono in due elettricità,
l'una positiva al centro e l'altra, composta di elettroni negativi, alla
periferia, fanno gli atomi ponderali, che ten- — 37 — dono ad unirsi, se
vicini, con la coesione, e se lontani colla gravitazione, in ragione inversa
del quadrato della distanza. L'etere è il mezzo che porta istantaneamente
l'attrazione da un punto al- l'altro, per quanto sia lontano, Coesione e
gravitazione, ossia le forze attrattive, ci indicano che la prima tendenza
intima degli atomi è quella di formare più alta unità (1) anzi ce lo indica già
la costituzione degli atomi sferici in due specie di elettricità, il cui centro
è positivo e la periferia è negativa, ossia composta di elettroni negativi (2).
La massa è il numero degli atomi di un corpo, il peso è invece relativo al
corpo celeste sul quale si sta; cosicché un corpo pesante un chilogramma sulla
Terra, peserebbe sul Sole 28 chili, su Marte 4 /2 chilo, sulla Luna 37
centigrammi. Ma il platino pesa 80 volte il sughero di egual volume in
qualunque posto si trovi. Le prime forze dunque sono di elettricità statica.
Quando questa è disturbata, ne segue un moto disordinato e dispersivo che si
dice calorico e sembra spiacevole, perchè appunto è disordinato e ogni corpo
cerca di rigettarlo sui vicini e si di- sperde. Questa è la seconda forza
fondamentale della Natura. Ed è sempre un eccitamento a ri- (1) Ben inteso che
l'attrazione o coesione incomincia a una distanza minima sì ma non quasi nulla,
perchè quel punto che si dice atomo non può essere annichilito. (2) Nella nostra
Nuova Scienza abbiamo lungamente mostrato che i tentativi di Lesage, Secchi,
Isenkrahe ed altri di spiegare la coesione e la gravitazione per pres- sione
dell'Etere, erano falliti; e di questa opinione sono tutti i maggiori fisici,
fra cui l'eminente prof. Augusto Righi. 3 — 38 — tornare all'armonia facendo la
elettricità dinamica, ossia quelle correnti che divennero nella moderna
industria mezzi di grande efficacia. Già nei vecchi esperimenti di Siebeck e di
Nobili il calorico si trasformava in elettrico contrasto. Che dal calo- rico
(moto disordinato) gli atomi appena lo possono, passino all' elettricità ed al
magnetismo (moti ordinati e piacevoli), venne recentemente dimostrato dai
professori Ettingshausen e Nernst, mettendo in un campo magnetico una piastra
di bismuto, perpendicolarmente alle linee di forza: poi riscaldando la piastra
da una parte, si vede dall'altra parte sorgere una corrente galvanica. Una data
quantità di energia termica è sempre equivalente ad una determinata quantità di
ener- gia elettrica (2) qualunque sia la sua temperatura; si ottiene sempre lo
stesso valore trasformando una nell'altra. L' Elettricità che non si manifesta
in tensione (statica) si manifesta in corrente (di- namica) o in rotazione
(magnetica) o irradiando e vibrando. Le proprietà di isolare o di condurre la
elettricità dipendono dall'aggregazione molecolare, p. es. il Carbonio nel
diamante isola, nella grafite conduce; i corpi a molecole bene orientate si
elettrizzano bene scaldandosi poco (come l'ambra, la ceralacca, il vetro); ma i
metalli composti di atomi neutri, avendo le molecole male (1) Avendo Carnot
provato che il calorico non si con- verte in lavoro meccanico se non quando
passa dai corpi caldi ai freddi, Thomson ne dedusse che una parte sempre maggiore
della Energia convertita in calorico si disperde nel cielo e il lavoro scema :
così alcuni credono che l'ener- gia dopo molti milioni di secoli si estinguerà
; ma questo sarebbe già raggiunto (se fosse vero), perchè l'Universo non ha
avuto principio nella sua energia potenziale. — 39 — orientate, si lasciano
molto riscaldare con lo sfre- gamento senza elettrizzarsi, sono
elettropositivi, e si possono jonizzare con poca energia. Un corpo carico di
elettrico, sebbene isolato, produce nei vicini uno stato elettrico di specie
opposta (negativa o positiva) in ragione inversa della distanza. Con una
macchina di induzione si elettrizzano migliaia di cilindri di latta. La
elettricità è un contrasto di correnti bipartite e non si ricompone se non
allora che la positiva è posta in contatto improvviso colla negativa. Niente
passa dal corpo inducente al corpo indotto; ma gli atomi di questo assumono la
corrente, senza che l'e- tere frapposto si elettrizzi ne si polarizzi - e
questo ci prova che non è l'etere che fa la elettricità. La fisica nuovissima
fa oggi sugli elettroni ossia sugli atomi elettrici ricerche perseveranti.
Studiando la conduttibilità della Elettricità attraverso i li- quidi ed i gas,
si vide che era costituita da Elettroni, ossia da Atomi elettrici, rispetto ai
quali le cariche sono multiple, come numeri interi di atomi elettrici.
Helmholtz l'aveva intuito e Lorentz lo dimostrò. Lodge e Righi trovarono che
l'Etere è elettri- cità di forza minima ed il principio di ogni materia, ha una
massa ed una forza viva, che dal punto centrale dell' Atomo fa i vortici
elettrici, l'atomo vorti- coso di sir William Thomson (lord Kelvin) il quale
conteggiò il numero degli Atomi minimi (Elettroni). Gli Elettroni sono emessi
con enorme velocità dal catodo, nei tubi a vuoto (raggi catodici) e dal radio
(raggi beta). Questi risultano da cariche elettriche in moto rapido assai e
sono deviati dalle calamite (1). fi) Kauffmann : La costituzione
dell'Elettrone, 1906. - Annalen der Physik, quarta serie, voi. 19. - 40 — Il
prof. Abraham di Gottinga nel 1902 ha cal- colato la massa apparente
dell'Elettrone per le diverse velocità, supponendo che abbia causa elet-
tromagnetica e che l'Elettrone sia sferico e rigido. Kauffmann confermò che non
vi è nocciuolo materiale nell'Elettrone. Un magnete, ossia una pietra di ferro
sulla quale si scaricò probabilmente il fulmine e nella quale le due
elettricità restano separate ed in contrasto continuo, attrae il ferro, come
tutti sanno. Il magnete non attrae cei*to per la pressione dell'etere, che si
esercita su tutti i corpi. Dopo il ferro, il nikel e il cobalto sono i metalli
più magnetizzabili: un pezzo di acciaio che subisca un forte sfregamento con un
magnete, diventa un magnete e serve a fare altri magneti. I gas e le materie
contenute nelle fiamme sono magnetizzabili e di- vidono le fiamme in due corni.
Jonizzare vuol dire separare da un atomo neutro alcuni suoi elettroni negativi:
e si fa facilmente nei metalli, composti di atomi neutri. Si jonizza sia col
gran calore, sia con urti violenti che scal- dano molto, sia coi raggi
catodici, di Rontgen o di Becquerel. Un filo arroventato jonizza il gas che lo
tocca, ed i gas delle fiamme sono tutti for- temente jonizzati e ridotti ai più
semplici elementi Uberi. Le scariche elettriche sono fatte dai joni dei gas,
urtati violentemente, scomposti in elet- troni negativi. La luce deriva da
vibrazioni elettriche trasversali e perpendicolari ai raggi da destra e da si-
nistra. Se la destrogira o la levogira ritarda, non danno più una riga sola
nello spettro, ma due. I raggi scoperti nel 1895 da Rontgen che partono dai
catodi ossia dai poli negativi in sfere di gas rarefatti, hanno onde quindici
volte più corte di quelle della luce del sole, e non si vedono, ma fotografano
e non si rifrangono, non sono carichi di elettricità come i raggi catodici ; ma
fanno sor- gere l'elettricità nei corpi conduttori. I raggi scoperti da
Becquerel nel 1897 non partono da sfere di gas rarefatti, ma da corpi estratti
dalla pecliblenda (q sono i seguenti: radio, uranio, torio, bario, attimo)
vengono emessi anche nel vuoto ed a temperatura glaciale e sono di tre specie:
alfa, beta e gamma. Gli alfa sono fatti da joni positivi e deviabili e
jonizzano i gas che urtano. I beta più forti anche nel fotografare, si
comportano come raggi catodici e deviano in senso opposto agli alfa. I gamma
sono più veloci e più penetranti degli alfa e dei beta. Trasformano l'ossigeno
in ozono, il fosforo bruno in rosso. Non derivano da scomposizione chimica, ma
da emissione di elettroni. Arrestano le scintille di , una fortissima macchina
elettrica, perchè egualizzano le elettri- cità accumulate, e le scaricano da
se. I raggi Rontgen sono esplosioni elettriche (materia radiante di Crookes, il
quarto stato di Faraday) e scompongono gli atomi dei gas nei loro Elettroni
negativi. Traversano i corpi opachi, fanno vedere le ossa e le palle di fucile
rimaste nelle ferite. I raggi Becquerel dei corpi radio attivi permettono di
scoprire in un miscuglio di gas elementi in proporzioni assai più piccole di quelli
indicati dallo spettroscopio. Intorno agli Elettroni negativi l'Etere è teso in
lunghezza e premuto dalle parti trasversalmente. Le linee di forza magnetica
sono cerchi perpendicolari alla trajettoria centrale. Una corrente elet- trica
è un flusso di Elettroni negativi equidistanti: se il moto non è uniforme si ha
Vinduzione, come dice Righi - (La moderna teoria dei fenomeni fi- sici, 1907,
Bologna, p. 257). Le aurore boreali e le corone dipendono dal magnetizzarsi
della luce. La efficacia della elet- tricità e del magnetismo diminuisce col
quadrato della distanza. Scaricando una corrente elettrica sopra un disco di
vetro, la positiva fa raggi diritti, mentre la negativa fa delle ramificazioni
si- mili alla radice di una pianta. R. Hertz trovò che l'elettricità si propaga
con onde dell'Etere cosmico che nel suo oscillatore erano ridotte a 6
centimetri, ma colle bottiglie di Leyda superano 300 metri e nelle macchine dei
telegrafi senza fili arrivano a 7000 dalla stazione di Coltano. — Le onde di
Hertz dipendono da esplosioni per urto (1). La elettrolisi è la scomposizione
in joni degli elementi delle molecole: p. es. il sale di cucina sotto l'azione
di una pila e di due elettrodi, si di- vide in joni di Jodio positivi che vanno
al polo negativo, o Catodo, e in joni di Cloro, negativi, che vanno al polo
positivo o Ànodo. E l'acqua si scompone in ossigeno, che va al polo positivo, o
Anodo, ed in idrogeno, che va al polo negativo o Catodo. Sulla elettrolisi si
fondano gli accumulatori, o casse cariche di elettricità, ottenuta separando il
(1) Le scariche oscillanti, come quelle fatte negli Oscillatori di Marconi sono
prodotte da molti alternati passaggi, da una serie rapida di flussi che,
urtando violente- mente l'Etere, vi fanno delle onde concentriche assai lunghe.
Il ricevitore o coherer alternando lo stato magnetico permette di far segnali.
— 43 — piombo dall'ossido di piombo (che si adoperano per muovere i tram
elettrici). La genesi degli elementi ossia delle varie specie di Atomi fu
studiata dal Crookes in Inghilterra, dal Mendelejew in Russia e da altri (1).
Dalla in- focata nebulosa, per la irradiazione del calorico, e l'abbassarsi
della temperatura, si formarono dapprima i 14 elementi leggeri (2) e poi, per
successivi raffreddamenti, anche gli elementi pesanti fino all'Uranio che pesa
240 volte l'Idrogeno. Ogni elemento leggero diventò capolista di un gruppo, per
successive differenziazioni e complicazioni. — Raffreddandosi le stelle, la
elettricità ci va for- mando nuovi elementi e si complica la loro strut- tura.
Così nelle stelle bianche non vi è che Idrogeno, e poco Magnesio. Nelle stelle
gialle, come il sole, vi sono i metalli: ma non ancora i metalloidi. Nelle
stelle rosse che si raffreddano poi, come Ercole, ci sono metalloidi, e i
metalli sono (1) Tutti sanno che la piccolezza delle molecole è estrema. Gli
Elettroni non sono che punti di forza. Si può assottigliare l'oro in lamine di
cinque milionesimi di millimetro. Certi infusori provvisti di organi hanno un
diametro minore di un millesimo di millimetro. (2) Idrogeno, Litio, G-lucinio,
Boro, Carbonio, Azoto, Ossigeno, Fluoro, lodo, Magnesio, Alluminio, Silicio,
Fosforo, Solfo disposti in due serie : la elettrizzata positivamente e la
elettrizzata negativamente, ciascuna di 7 ele- menti. (Per gli elementi
seguenti vedi Wendt, Evolution der Elemente, 1891, Berlino). L'analisi
spettrale datante linee quanti sono gli elementi che compongono i corpi
incandescenti. Nei laboratorii chimici è difficile superare 2.400 gradi
centigradi, tuttavia gli atomi di idrogeno vibrano del pari nelle stelle, nel
sole, nelle nebulose o in un tubo di Geissler riscaldato, perchè danno lo
stesso spettro. tutti combinati. Ma ad altissima temperatura gli elementi si
dissociano, perchè gli Elementi non sono gli Elettroni o Atomi veri, ma sono
atomi composti vorticosi, che Thomson mostrò essere circolari, non tagliabili
che vibrano quando sono urtati. Dissociando gli elementi, diventano
radioattivi, come dicemmo sopra, e la dissociazione può arri- vare a tale energia
che, col disgregare un soldo di rame, si avrebbe forza bastante per far muovere
un treno di centinaia di quintali. Il prof. Ramsay vide il radio trasformarsi
con- tinuamente in elio. Le cinque leggi principali della fìsica pura mostrano
la Unità ideale e reale di azione e sono : Inerzia, Indipendenza delle Forze,
Eguaglianza fra Azione e Reazione, Conservazione della Materia e Conservazione
della Forza potenziale (non della manifestata). Del resto il principio di
conservazione della Energia, ha valore per i fatti osservati ; ma è inesatto
l'applicarlo agli altri. Tutti i fatti meccanici, sono nello stesso tempo fatti
elettrici o chimici. La meccanica ne coglie un solo aspetto : risolvere il
mondo in figure è una mitologia. Le forze interne sono le essenziali, sono
psichiche. Il nostro Giambattista Vico diceva che il conato o virtus movendi è
fatto dall'appetito, dal desiderio. Del resto tutte le spiegazioni meccaniche,
quando escono dal problema dei tre corpi, ossia cercano di determinare le
variabili che preponderano, di tro- vare le relazioni funzionali tra loro, per
predire lo stato futuro di un sistema di corpi, non danno mai la certezza e
sono soltanto approssimative. Se si considerano sistemi isolati come
conservativi, vi s' introducono delle variabili, riguardandoli 45 come porzioni
di un sistema conservativo più ampio : ma gli attriti, le viscosità e le
complicazioni dei moti di altri corpi, e sopratutto le rotazioni, rendono la
soluzione impossibile: come ben dice E. Picard (La mécanique classique, 1906).
Laplace, invece di supporre che l' impulso fosse proporzionale alla velocità,
ritenne che fosse una funzione della velocità e variasse con la velocità, come
si è trovato poi per gli Elettroni, le cui masse crescono con la velocità, per
cui non sono materiali. Così bisogna abbandonare le equazioni differenziali e
cercare le equazioni funzionali, se si vuol prevedere l'avvenire di un sistema
di corpi. I corpi non sistemati o che sono in moto lento, sono soggetti a
cambiare direzione e velocità, se vengono urtati. Non è l'urto, ne la pressione
che si converte in calore : bensì l'urto eccita le forze- interne a difendersi
con moto rapido irregolare che dilata e si disperde. Se si urtano due palle
lanciate una contro l'altra, le forze che risultano sono momenti eguali, ma
opposti : così che entra nel corpo urtato la sola differenza. II moto che segue
all'urto non avviene mica per una infusione di moto come suppongono gl'ingenui
: ma esso si verifica sempre per la solidale elasticità delle molecole, che ritornano
al loro stato abituale di coesione, come ha dimostrato fin dal 1887 Todhunier
(nella sua bella Theory of Elasticity). Fin qui abbiamo considerato la Materia
nel minimo, ossia nei suoi Atomi eterei e ponderali, cercando (per quanto era
possibile) le sue forze intime. Se ora la consideriamo nel massimo, dobbiamo
riconoscere che l'Universo non può essere infinito, — 46 — come è sempre
ripetuto nella filosofia del prof. Ardigòy ne in massa, ne in energia
potenziale, perchè allora, come ha provato l'astronomo Olbers, il centro di
gravità sarebbe in ogni punto del mondo e la meccanica e l'astronomia se ne
andrebbero a rotoli: ed anche perchè, come notava Angelo Secchi (Le stelle,
pag. 334 a 336) se il mondo fosse infinito e popolato di infinite stelle, la vòlta
celeste ci comparirebbe lucida come il sole in tutta la sua estensione. Chi
avesse occhi sarebbe subito accecato, ma nessun occhio avrebbe potuto nem- meno
formarsi. Zollner credeva che l'Universo finito evaporerebbe nello spazio : ma
questo è impossibile, perche, alla temperatura di 270 gradi sotto zero, (che è
quella della Via Lattea) e tanto meno ai freddi maggiori delle regioni più
lontane della Via Lattea, nessun corpo può svaporare. Le forze della Materia
sono anzitutto attrattive, e di queste parleremo nel seguente Capitolo. Le
ripulsive sono quelle della impenetrabilità, del calorico, dell'elettricità che
abbia eguale dire- zione e le esplosive dei composti chimici in cui entri
l'azoto e delle cariche elettriche. Derivano dal disturbo del godimento che è
caratteristico delle forze attrattive. La solidarietà degli Atomi in generale
Coi principii delle scienze fìsiche insegnati da Cartesio in poi, non si è
riusciti mai a spiegare l'attrazione e la coesione, che tengono insieme tutti i
corpi e sono le prime forze iniziali (1). Quanto tendano a stare insieme gli
Atomi Eterei lo prova la flessibilità ed elasticità dell'Etere. Quanto tendano
a stare congiunti gli Atomi ponderali, ognuno lo vede nelle goccie di acqua,
nelle colle, nei cementi, nei marmi, nei legni duri, nei corami, nelle corde di
canapa, nei diamanti,. in molti metalli e specialmente nei fili di ferro : anzi
in tutti i corpi liquidi o solidi compreso il proprio. Al di là di una piccola
frazione di millimetro, la coesione diminuisce e si estingue e su- bentra
l'attrazione in ragione inversa del quadrato della distanza, perchè gli Atomi
irradiano sopra superfìcie tanto più grandi quanto più sono lontane. Newton e
Faraday hanno intavolato bene il problema dell'Attrazione Universale. Ma gli Empirici,,
ed anche il gesuita padre Secchi (che non era punto filosofo, e credeva come
tutti i Tomisti, nel Motore immobile divino) lo hanno oscurato. (1) L'amore
degli animali e anche dell'uomo è la su- blimazione di quella tendenza
fondamentale che tiene as- sieme tutti i corpi del mondo. — 48 — Newton per un
quarto di secolo ci meditò so- pra (1) e stabilì due punti vale a dire che
l'agente della gravitazione non può essere meccanico (nella Prefazione ai suoi
Principii 1713), e che l'agente immateriale muove. Dunque è la unità energica
psichica degli Atomi ponderali, che trasmette per l'Etere la tendenza a
congiungersi. Quando questa calma, istantanea irradiazione arriva ad altri
Atomi ponderali è sentita, ed avviene la attrazione reciproca. Faraday commentando
(nel Philosophical Magazine, 1884, pag. 143 del Volume XXIV), scriveva « Nella
gravitazione la forza va per l' Etere alle « maggiori distanze, partendo dai
punti Atomi di « Boscovich. Ogni Atomo irradia dal suo centro a « tutto il
sistema solare » . Newton non ammise che la gravitazione fosse dovuta ad una
causa immateriale (che sarebbe la psichica Unità reale degli Atomi) perchè come
fi- sico diceva « hypothesis non fìngo » ma non lo escluse e lo lasciò pensare
al lettore. Egli vide bene fin dal principio e concluse definitivamente nel
1681 che ogni teoria meccanica sulla gravità non si può sostenere mai, perchè
non si propaga, non si al- tera, non devia per l'interporsi di qualsiasi so-
(1) Newton studiò la ipotetica pressione dell' Etere per spiegare la
gravitazione fin dal 1675, e ne scrisse una Memoria che lesse alla Royal
Society. Ma nel 1686 di- chiarò in una Lettera ad Halley che tale ipotesi non
aveva il minimo fondamento. Sfortunatamente per loro e per la scienza fìsica
alcuni Empirici ed anche il padre Secchi nei due ultimi secoli perdettero il
tempo nel tentare di scoprire come V Etere facesse tale pressione, che già il
genio di Newton, dopo maturo esame, aveva trovata impossibile. — 49 — stanza
gazosa, liquida o solida, non prende mai la direzione di una risultante, non si
rinette, non si rifrange, non si trasforma come la luce, non può essere un
moto, ne derivare da un moto, è istantanea. I tentativi di Lesage, di Schramm e
di Secchi di far derivare la coesione e la gravità dal flusso e dalla pressione
dell'Etere, per quanto ingegnosi, rimasero così imbrogliati da difficoltà
enormi che non persuasero alcun filosofo. Arago in Francia, Maxwell in
Inghilterra ed altri grandi fisici li dimostrarono inani. Clerk Maxwell ne
enumerò così gli assurdi: 1 . — Eichiedono un punto motore che agisca fuori e
al di là dell'Universo. 2. — Esigono che la materia sia ora creata ed ora
annullata, giacche ora la forza è esaurita ed ora acquista una enorme velocità.
3. — Riducono la gravità, che è forza perenne in- distruttibile, ad un semplice
effetto di di- verse forze che ci sono ignote. 4. — Implicano la esistenza di
capitali strabocchevoli di energia nell' Etere, capitali che nes- suno ci ha
trovati. 5. — Se fossero vere, farebbero andare in frantumi varie volte al
giorno tutti i sistemi solari. II padre Secchi altro non fece che generalizzare
per isbaglio un caso speciale di Poinsot (N. Scienza,. IV voi., 282 e seg.)
(1). (1) È molto deplorevole che alcuni giovani, unicamente^ mossi dall'orrore
per la psiche e per ogni interiorità (senza- badare che essi sentono, vogliono
e pensano) e volendo spie- gare tutto il mondo con la esteriorità, ossia
meccanicamente, sprechino oggi il loro ingegno nel cercare a quali squili- — 50
— Newton (nell' Ottica) dichiarò assurdo che la gra- vitazione fosse proprietà
dovuta a moto di materia. Il suo concetto si trova nei Principia (alla fine del
libro) dove suppone che la forza psichica degli atomi faccia la gravità;
benché, come dice- vamo or ora, seguisse la regola del suo tempo, fondata sul
pregiudizio di Cartesio che la Materia nulla avesse di psichico, che « in
Philosophia experimentali hypotheses locum non habent » „ — Egli veramente non
arrivava fino a supporre che gli atomi avessero un germe di sensazione, ma cre-
deva in uno spirito pervadente gli atomi, e lasciò (come Cartesio) la materia
inerte passiva, mossa dallo spirito divino. Fu Voltaire che presentò alla
Francia il Newton della gravitazione universale, considerata come una brìi
dell'etere possano attribuirsi la coesione e la gravita- zione ; dando prova
unicamente della insolubilità del pro- blema. Fra questi va notato l'egregio
ingegnere M. Barbèra nel suo libro «L'Etere e la materia ponderale» uscito a
Torino sulla fine del 1902, nel quale, in meno di 140 pa- gine fa 1400 ipotesi
: ma nella Prefazione del quale egli ha però il buon senso di confessare che il
meccanismo di ogni fenomeno fisico « rimane affatto misterioso, e che i
risultati della ricerca di esso sono quasi sempre concezioni stranissime ed
assurde, ma spera nondimeno che non sieno dannose ». Dal momento cbe fu
riconosciuto da eminenti fisici, fra cui in Italia da Righi ed altri, cbe gli
Elettroni (elementi degli Atomi) non hanno nucleo materiale, sarebbe meglio
fare a meno di scervellarsi per restare materialisti, limi- tandosi a dire : «
Sic volo, sic jubeo : sit prò ratione vo- luntas ». Se non è assurdo cbe io,
cbe sono composto di Atomi, senta, non sarà assurdo cbe un atomo abbia un germe
di sensazione gradita, nella Coesione. proprietà della Materia, e divulgò
quello che Newton dichiarò assurdo, vale a dire che la materia agisse dove non
era. Ma Voltaire non era che un letterato. Nella evoluzione fìsica in grandi
masse, come nella evoluzione chimica in piccole masse, più o meno lentamente,
le parti si rendono solidali nella sensazione rudimentale dinamica (o della
forza): perciò tutti i corpi (siano allo stato gasoso, liquido o solido), sono
elastici. Alla superfìcie di una massa liquida, per 10 a 12 milionesimi di
millimetro, la coesione è massima. Alla profondità doppia è diminuita di 3/4 .
Rucker nel 1885 con esperimenti ottici elettrici confermò questi risultati.
Quincke nel 1887 ha analizzato le pellicole liquide che bagnano i solidi e
disse che a meno di 25 milionesimi di millimetro incomincia la coesione per le
molecole dell'ac- qua. Nelle bolle di sapone la pellicola è costante, se lo
spessore eccede cinque soli milionesimi di millimetro, e torna a crescere, se
lo spessore viene ridotto ad un milionesimo. Un liquido è formato da diversi
strati, cosicché due porzioni di acqua si attraggono quanto più stanno alla
superfìcie: alla distanza di un dieci- milionesimo di millimetro si attraggono
con una forza massima. Thomson nel 1886 disse che l'at- trazione capillare non
è altro che l'attrazione Newtoniana resa più intensa per le molecole
mobilissime che fanno il liquido. La forza di coesione è tanta da resistere a
grossi pesi. Da oltre un secolo Barton prese molti cubi di rame aventi le loro
superfìcie ben levigate e liscie, li mise sul tavolo uno sopra l'altro e vide
che, prendendo in mano il più alto, gli restavano attaccati tutti i sottoposti.
— 52 — I fenomeni della capillarità nei tubi stretti sono ben conosciuti da
tutti. Centinaia di esperimenti svariati della solidarietà furono fatti da Plateau
(Statique expérimentale et théorique des liquides soumis aux seules forces
moléculaires). Facendo ca- dere a goccie certi olii sopra l'acqua, si
distendono come piani : mentre le goccie di altri olii cadendo si dispongono in
forma di lenti più o meno convesse. La coesione delle molecole di olio è tanta
che i marinai calmano le onde furiose del mare vicino alla loro nave col
versarvi sopra un sottile strato di olio nel modo indicato nel Capitolo
precedente. La natura numerica della coesione si può in- vestigare pigliando
certe soluzioni, fortemente colorate, di permanganato di potassa e facendone
cadere alcune goccie sull'acqua, a minima distanza da questa, e lentamente. Si
vedrà che la sostanza colorata, nel suo discendere e nel modificare l'as-
sociazione molecolare assume la forma di anelli vorticosi, cinti da una
pellicola, che, sempre più assottigliandosi, si rompe : ed ogni frammento degli
anelli maggiori, discendendo, assume subito la forma di minore anello vorticoso
e via di se- guito, dando una figura di polipo che genera sempre nuovi e minori
anellini vorticosi fino a che diviene invisibile. — Con una goccia di
inchiostro il fenomeno succede lo stesso ma con tanta velocità che riesce
impossibile di studiarlo. Gli anelli vorticosi sono sempre fatti in questo
esperimento dalla forza di coesione in lotta col peso : prova che molti atomi
simili sempre tendono ad unirsi e uniti una volta stentano a disunirsi, e che
l'unità domina i molti. Per quanto siano caldi i liquidi riescono a for- mare
delle goccie. L'astronomo Young (Il Sole, — 63 — p. 220) dice che il Sole (che
sembra sia in gran parte gazoso) deve formare la sua fotosfera con goccioline
di metalli. Non vi è corpo gazoso che non possa gustare la coesione. Infatti
Cailletet e Wriblowcki, con macchine possenti, sono riusciti a rendere liquidi
quasi tutti i gas. La teoria cinetica dei gas di Clausius, Joule e Maxwell non
si regge più, perchè gli urti obliqui farebbero roteare le molecole, il moto di
traslazione si rallenterebbe e cesserebbe, e perchè la legge di Mariotte e
Gaylussac (essere a temperatura costante il volume di un gas in ragione inversa
della pressione) non si verifica che poche volte, come provò Regnatili: anzi
Hirn variò a piacere la temperatura senza che cambiasse la resistenza (1). Clausius
cre- dette che le molecole dei gas corressero senza vi- brare e spiegava così
la discontinuità degli spettri dei gas, dei liquidi e dei solidi. Ma
recentemente vari fisici hanno attribuito gli spettri lineari dei gas alla
piccolezza delle loro molecole, invece che alla fantasticata loro corsa
vertiginosa, e fu tolto al Clausius l'ultimo suo rifugio che era lo
spettroscopio. Venne allora Hirn a provare che, se le molecole dei gas
corressero in linea retta, non vibre- rebbero e non potrebbero mai dare un
suono. Il suono ci prova che i gas hanno le loro parti solidali e sistemate,
come una corda tesa vibra ; ma se non è tesa, non vibra più. Per vibrare
occorre (1) Tait nel suo bel libro Heat, nell'ultimo Capitolo indicava fin dal
1884 le gravissime difficoltà che presen- tava l' ipotesi cinetica dei gas del
Clausius, che venne accettata per alcuni anni provvisoriamente. 4 che le
molecole ritornino allo stato di prima. L'aria vibra (come le lamine sonore di
Chladni e di Savart perchè è elastica e solidale. D'altronde se l'aria fosse
costituita al modo escogitato dal Clausius, essa non si alzerebbe più di dodici
chilometri, secondo Hirn, mentre si eleva a cento e più. Bisogna anche pensare
che tutti i corpi premuti si riscaldano e così si riscaldano anche le onde di
aria vibrante. Se non si riscaldasse, dice Hirn, il suono si propagherebbe in
un minuto secondo a 288 metri, mentre si propaga a 340, perchè il suono passa
da onda ad onda più calda. Il prof. Hirn conclude che gli atomi dei gas non
corrono, non si urtano, ma formano un sistema elastico solidale, che deriva
dalla stessa tendenza intima che fa la coesione dei solidi, dei liquidi e la
gravitazione. La facilità con cui si mescolano i gas, le leggi della pressione,
si spiegano senza bisogno che cor- rano molti chilometri al minuto e senza che
su- biscano tanti urti. — Il Sisifismo di Clausius può essere eliminato. La
solidarietà non è un moto, è uno stato psichico, in cui si forma un essere
collettivo, una grande unità. E il godimento è evidente in un esperimento che
tutti possono fare, mettendo dei cavalierini di carta sopra due o più corde
vibranti vicine e lontane. Quando due corde danno il medesimo suono, appena si
tocca coll'archetto una corda, si vede che dall'altra i cavalierini saltano
via, anche se la corda è lontana molti metri. Mentre, se non danno il medesimo
suono, anche se sono avvicinate quasi a toccarsi, i cavalierini delle corde non
toccate rimangono fermi ed indifferenti. Dunque l'aria è solidale, di una
solidarietà così intima da far vibrare tutto ciò che vibra nel medesimo tempo e
non ciò che vibra in altri tempi. Così se abbiamo due coristi eguali,
battendone uno, suona anche l'altro; se ne abbiamo cento o mille, tutti vibrano
del pari. Il rinforzo di un suono avviene sempre quando, in vicinanza del corpo
so- noro, ce ne sono altri che dieno lo stesso suono. I fabbricatori di
stromenti musicali applicano con- tinuamente questa legge, che prova la
solidarietà degli Atomi anche allo stato gasoso. Questa solidarietà è evidente
non soltanto fra gli Atomi ponderali allo stato solido, liquido e gasoso. ma
anche fra gli Atomi eterei, che sono infinitamente più piccoli degli Atomi
ponderali. Locke (nel suo Saggio sull'umano intelletto, II, 23) fece notare
quanto sia stupido cercar di spiegare la Coesione degli Atomi ponderali
inventando una pressione dell'Etere, perchè gli Atomi dell'Etere che sono
coerenti e solidali fra loro, esigerebbero per spiegare questa pressione un
secondo Etere che premesse il primo e questo esigerebbe un terzo etere e via di
seguito all'infinito. Sopra un'onda di luce rossa stanno 200 Atomi Eterei.
Faraday provò che il mezzo etereo è elastico, col mostrare che le sue linee di
forza si curvano. Hirn ne dedusse che gli Atomi Eterei sono solidali e formano
un tutto elastico persino nelle suddivisioni infinitesime. Se l'Etere fosse in
flusso continuo, se fosse di densità variabilissima come supponeva il padre
Secchi per poter darsi l'aria di spiegare la coesione, non potrebbe mai
trasmettere la luce con tanta regolarità e delicatezza. Questo è evidente se si
riflette un poco. Secondo Lorentz l'Etere deve — 56 — essere in stato di
relativa quiete e di solidarietà nel suo complesso, per permettere il moto
della Elettricità e della Luce. Senza questa solidarietà non avremmo la luce
del sole e delle stelle, come senza la solidarietà dell'aria non avremmo il
suono : quindi non si sarebbero formati ne occhi, ne orecchi ; ed è alla
solidarietà dell' Etere e dei gas che dobbiamo la civiltà ed i maggiori piaceri
della parola e dell'arti belle. Alla stessa solidarietà dobbiamo le onde
scoperte dal prof. Hertz assai grandi, sulle quali si fondano i telegrafi senza
fili. Quando la coesione degli atomi e la loro solida- rietà vengono
disturbate, sorge il moto irregolare del calorico, che allontana gli atomi gli
uni dagli altri, dilata i corpi, liquefa i solidi, volatilizza i li- quidi,
disperde e non si concentra mai. Hirn schiacciando il piombo (senza accrescerne
la densità) provò che il calore deriva dal disturbo della coe- sione e che è un
moto degli atomi e non delle molecole. Ben a ragione dunque il fondatore della
ter- modinamica Mayer diceva che la coesione e l'at- trazione non sono moti, ma
tengono della natura della sensazione, sicché la Materia bruta inorganica ha un
senso di solidarietà innegabile e l' Unità do- mina la moltiplicità, il
molteplice tende ad unirsi e di questa tendenza sono visibili gli effetti in
tutta quanta la fìsica. Fra le soluzioni separate da membrane permeabili ha
luogo sempre uno scambio, nel quale la più densa assume più che non ceda e la
meno densa perde più che non acquisti; fatto che prova la tendenza ad
associarsi di tutti gli atomi. Il disturbo dell'armonia fa l'allontanamento
degli atomi, la dilatazione dei corpi, la disgregazione. — 57 — La tendenza all'armonia
fa i contrasti elettrici della luce, la solidarità dell'Etere e dei gas, la
coesione dei liquidi e dei solidi, e l' attrazione dei corpi lontani. Così si
manifesta nella fisica la tendenza a for- mare più alta Unità, che si accentra
poi e si rende manifesta nella Chimica, e, ancor meglio, nella Biologia e
nell'Amore delle Piante e degli Animali, sempre per cause intime e non mai per
le forze incidenti dell'Ambiente. Nel succitato libro sul Calore il Prof. Tait
di- ceva bene: senza moto non vi è Calore, ma non ne segue che il Calorico sia
un moto: come senza Fosforo non vi è Pensiero; ma non ne segue che il Pensiero
sia Fosforo. Il Moto che fa la gravitazione, il Calorico e 1' Elettricità,
ossia le forze fondamentali dell'Universo, deve essere fatto dalla
sensazione rudimentale degli atomi e deve essere una manifestazione della loro
volontà primitiva. Come dicea Herbert Spencer: gli specialisti stu- dino pure i
fenomeni fisici come meri movimenti; ma la filosofìa badi alla realtà conscia,
ossia alla Unità interna di tutte le cose. (Vedi sopra Cap. II, pag. 20) (1).
Siamo coerenti e riconosciamo che la (1) Lo stesso Ardìgò scrisse, come
Schelling, che la Materia è una forma del Pensiero (e doveva dire non del
Pensiero, ma della sensazione della Volontà), ma in tutto il suo sistema non
seppe spiegarlo e adottò la fisica che attribuisce agli urti delle forze
incidenti ogni fenomeno. Newton aveva ben capito che della materia si poteva
affermare una forza sola generalissima, cioè la resistenza, scrivendo nei suoi
Principia Definitio IIIa : « Materiae « vis insita est potentia resistendi ».
Egli aveva pure compreso che l'aria e l'etere erano elastici fé quindi
solidali) scrivendo nella sua Ottica (Questione XVIII) che l'aere è assai più
elastico e più attivo dell'Aria. 58 vera filosofìa della Natura non può bandire
la psiche dalla fisica, ma può andare sotto la scorza delle cose e indovinare
la loro intimità. I filosofi che dicessero che noi fin qui abbiamo fatto della
fìsica e non della filosofia, mostrerebbero corto intelletto; perchè abbiamo
stabilito e provato che la Materia sente e che è tutta solidale. E nei seguenti
Capitoli lo vedremo ancor meglio. CAPITOLO IV. La solidarietà geometrica
cristallina Il materiale dei cristalli è chimico : ossia fatto da molecole ; ma
la costruzione è fisica, e conserva le proprietà fìsiche delle molecole,
orientandole secondo le direzioni dei tre assi; e specialmente il calorico, la
elettricità e la luce. Chi non ammette la psiche nella Materia e si affanna a
spiegare la coesione delle molecole di una goccia di acqua, inventando la
assurda pressione dell'Etere, ha bisogno poi di tutt' altra pressione, per
spiegare la formazione di un cristallo e deve fare mille ipotesi di un Etere
più schiacciante (1). (1) L'Illustre Presidente della Società Geologica
Inglese, il prof. Judd diceva che « Each minerai like each plant, or animai,
possess its own individuality ». Le forze a tergo, gli urti, le pressioni non
spiegherebbero mai la gran varietà di strutture che presentano i cristalli
(Sulla formazione dei cristalli parlammo nella nostra Nuova Scienza, voi. IV.
pag. 479 a 481 e in altri siti). La coesione geometrica cristallina indica
chiaramente la tendenza a godere la Eleatica quiete fra i contrasti elettrici.
Evers disse che la preparazione biotica è evidente nei cristalli; è l'alba
della vita che si chiude fra le pareti ; è una vita modesta, casalinga,
incipiente, quella che si rappiatta fra i tre assi di coesione geometrica e
mantiene le loro pareti. Le molecole allo stato liquido, quando si abbassa la
temperatura (se trovano la calma e le soluzioni necessarie) tendono a
cristallizzarsi. E, dalla vescicola centrale che fa il cristallo, gli Atomi
della soluzione vanno disponendosi in tre assi perpendicolari (i quali rivelano
che sono tre e non più le dimensioni dello spazio reale, come nel Capitolo I fu
detto). E prendendo le forme di tetraedri, di prismi, a base triangolare o
parallelopipedi (1) non le prendono per quelle forze esterne a cui lo Spencer e
VArdigò ricorrono, e che non possono riunire altro che detriti, arena, polveri
e spazzature : le prendono per la tendenza delle Unità interne a formare, unite
coi simili, dei sistemi di equilibrio stabile di godimento durevole, fra i
contrasti elettrici. Il punto centrale dove si intersecano i tre assi rimane
indifferente fra le polarità. Scaldando un (1) Ai sistemi cubico, prismatico,
romboidale ecc. si aggiungano le strutture lamellari dei marmi, la granulare
del gres, la ramificata delle miche, del bismuto, del cobalto grigio, la capillare
dell'asbesto, dell'amianto, quella a pagliette o lamine sottilissime degli
scbisti. In qualunque forma gli spigoli opposti si modificano insieme. Il
clivaggio o spaccatura produce polveri della forma medesima a quella di ogni
cristallo. Soltanto il granato e lo smeraldo si rompono in frammenti
irregolari. cristallo, l'asse dominante si dilata per primo e maggiormente ; il
polo positivo si riscalda, il negativo si raffredda. Le proprietà ottiche
variano secondo che la luce segue l'asse principale o gli assi secondari. Nei
cristalli della neve cinque o sei aghi diacciati a forma di stella formano
l'ossatura. Tra questi gli aghetti trasversali formano un ricamo regolare. Si
crede che le forme dei cristalli sieno, se non eguali, almeno analoghe a quelle
delle molecole della medesima sostanza; perciò l'acqua, avendo le molecole
semplicissime, di quasi nove decimi di ossigeno e poco più di un decimo di
idrogeno, cristallizza in forma di aghi. Non cristallizzano i Colloidi, perchè
le loro particelle o molecole sono in moto irregolare e senza centro, e si
ritengono essere reti di cristalli filiformi, entro le quali si organizzano
gruppetti di molecole che tendono ad una elasticità variabile : però si
induriscono facilmente in colle, in pelli, in unghie, in corna. Nella parte non
cri- stallina, non filiforme dei colloidi, ossia nella parte elastica, la
tendenza alla vita è di un altro genere (gomma, amido, colla, destrina,
tannino, albumina ecc.) diverso dal cristallino, ma non an- cora cellulare. Lo
stato colloidale si verifica anche nell'argilla ed in qualche metallo. Le
sostanze amorfe sembrano gelatine compatte, come il vetro, il quale, benché
assai duro, è elastico, probabilmente per la gelatina inserita nella rete dei
minimi filetti cristallini di silice, dai quali derivano le sue proprietà
ottiche di trasparenza. — 61 — Nelle vere gelatine le parti molli si ingrossano
nell'acqua, assorbendola per endosmosi. Nelle roccie cristalline vi sono molti
cristalli. I metalli sono miscugli di cristalli e di sostanze amorfe, che non
lasciano passare la luce e la as- sorbono o la riflettono. Per lo più le terre
sono metalli ossidati. L'interna struttura dei cristalli non è in generale
omogenea: essi sono divisi in magazzini, che contengono acido carbonico, ed
alcuni liquidi ed hanno delle vescicole che si muovono da se. I cristalli si
formano subito nell'acqua ipersaturata, quando vi sia un minimo frammento della
loro specie. Il Thoulet professore di mineralogia a Nancy col signor Germez,
preparavano, ad esempio, soluzioni ipersaturate contenenti del borace
ottaedrico a 5 equivalenti di acqua, e del borace rombico a 10 equivalenti di
acqua e poi vi immergevano corpi di diversa qualità senza che il liquido
perdesse la sua purezza. Ma appena si poneva nella prima un minimo frammento di
bo- race ottaedrico e nella seconda un minimo poliedro di borace rombico, la
vita cristallina si cominciava, la temperatura si elevava, ed in pochi minuti
tutto quanto il borace disciolto veniva cristallizzato. Sicché si può dire che
ogni cristallo imita il tipo della sua famiglia. Nessun cristallo scende verso
gli inferiori ; tutti cercano di innalzarsi, di ascen- dere a più alta Unità. E
se non arrivano ad imitare le forme superiori, vi si avvicinano. Così il
feldspato potassico triclinico si trasforma in monoclinico, l'assofìlite
monoclinica diventa tetra- gona ecc. ecc. (Vedi Nuova Scienza, Voi. II, p. 94).
II principio della inerzia o della eredità, lotta an- che nei cristalli, come
nelle cellule, col principio — 62 — della variazione, secondo le circostanze
valutate dalla Natura che si fa ossia dall'intima Unità. Soltanto la formazione
e lo adattamento e perfezionamento dei cristalli sono molto più lenti e la loro
vita è molto più semplice di quella delle cellule. Link vide che il principio
di ciascun cristallo che si forma in una soluzione ipersaturata, sta in una
vescicola più ipersaturata nella quale le molecole si concentrano meglio.
Attorno alla vescicola si formano globuliti, mentre fanno i tre assi e le
figure geometriche, rivestendosi di pareti. Dalla molecola integrante di Hauy,
alla molecola fìsica di Delafosse, alla maglia cristallina di Bravais, si
elevano, mediante il polimorfismo, a forme più complesse. I cristalli mutilati,
se hanno la soluzione conveniente, si rifanno e si ripresentano intieri. Anche
adulti, essi variano per la pressione, il calore, la luce, e sentono ogni
variazione del- l'ambiente. Ma sempre e tutti si fanno dal di dentro al di
fuori per virtù propria, per la tendenza ad unirsi ed a godere e non per le
forze incidenti dall'ambiente, come pretende il falso Positivismo di Ardigò. La
durezza, la conduttibilità del calorico e delle elettricità, la fosforescenza
ed altre proprietà di- pendono dalla simmetria con cui sono disposte le
molecole del cristallo. La opacità dei cristalli deriva da squilibri termici,
da incipienti efflore- scenze e da disgregamenti molecolari. I minerali giovani
sono molto diversi dagli antichi. La Petrografia è la Paleontologia dei
Minerali. — 63 - I cambiamenti vitali delle rocce provengono dalia- tendenza di
quello che è instabile a divenire stabile. Judd ha visto che esiste una
perfetta gradazione fra le roccie cristalline (granito, diorite, gabbro), i
tipi vulcanici (riobiti, basalti) ed i vetri vulcanici. La temperatura delle
lave uscenti dai vulcani è di 2,000 gradi centigradi. Alla superfìcie si
raffreddano, nell' interno restano semiliquide e vi- scose, solidificandosi
mano mano che corrono giù per il declivio del monte, in masse vitree oscuredi
cui la metà è silice (combinata sotto forma di sili- cati coll'allumina, col
ferro, colla calce, colla magnesia, con la potassa, colla soda). Queste masse
vitree mostrano al microscopio milioni di cristallini inci- pienti chiamati
microliti. Ve ne sono anche di più grossi, formati nell' interno del vulcano,
prima di essere eruttati, ma rotti dal magma infocato. Alcuni geologi scozzesi,
inglesi e francesi ten- tarono di riprodurre artificialmente, da un secolo in
qua, tali eruzioni vulcaniche. Daubrée, Fouqué, M. Levy scaldando i minerali al
bianco abbagliante, abbassandone poco a poco la temperatura al rosso aranciato
(punto a cui si fonde l'acciaio), alzando allora il crogiuolo sul forno e
riducendo la temperatura al rosso ciliegio (punto a cui si fonde il rame) e
ritirando poi dal forno, lasciarono tempo sufficiente alle molecole di
cristallizzarsi (1) in serie. Ed ottennero in tal (1) A rinforzare quanto nella
Introduzione dicevamosulla Unità della Natura, parliamo qualche minuto dei
Cristalli formati fuori della nostra Terra. Chi guarda una Meteorite entrare
nella nostra Atmosfera, a 60 chilometri di altezza, accendersi, correre 30 chi-
modo la leucotefrite del Vesuvio, la onte dei Pirenei, i Basalti e molte altre
roocie, della cui ori- gine ignea non si era ancora ben certi. Le più difficili
ad ottenersi sono le roccie primitive acide che racchiudono quarzo, mica ed
ortosi. Si è tentato recentemente di esperimentare i miscugli di detriti
organici nella formazione dei Cristalli e si sono ottenuti degli accentramenti
misti di forme nuove. Un sale in soluzione amorfa omogenea diede al prof, von
Schrón di Napoli delle petrocellule che si riprodussero per endogenesi. Il
prof. Dubois di Lione, depose sul brodo di gelatina dei cristalli di cloruro,
di bario e di radio, e ne fece sorgere muffe e granulazioni pseudovegetali, che
si dupli- carono. Hennequey di Parigi le disorganizzò presentandole al radio.
lometri al secondo e talvolta il doppio, chi ascolta le de- tonazioni che ne
succedono, crederebbe che si fondano. Invece alle volte si rompono, ma rimangono
solidi e freddi nel loro interno. La più grossa cadde a S. Caterina nel Brasile
e pesa 250 quintali : in termine medio non vanno oltre mezzo quintale. Tre
quarti cadono nei mari; delle altre ben poche in terre coltivate. Le meteoriti
ci mettono nella condizione di un generale che riesce ad impadronirsi di
qualche prigioniero, e lo interroga su tutto quello che si è fatto nel cielo,
perchè ogni minerale testimonia delle circostanze in cui nacque. Ebbene, questi
avanzi condensati delle nebulose, hanno gli elementi delle primitive roccie
Terrestri. Vi si trovano delle specie mineralogiche identiche, che possiedono i
medesimi angoli, le stesse faccie nei loro cristalli, e sono spesso associate
nel medesimo modo. La silice o acido silicico (tanto energico nelle temperature
elevate), ci testimonia l'alto calore in cui furono generate le Meteoriti. Il
Peridoto (il quale si forma allor- ché nelle officine viene ossidato il silicio)
lo si trova an- Nel 1904 BurTce mettendo sopra uno strato gelatinoso del cloruro
o bromuro di radio, guadagnò i primi Radichi, o microbi del radio, in uno, due
o tre giorni. Crescevano fino ad Vìooo ^ m^~ limetro, mai di più, avevano
nuclei oscuri, si segmentavano e si scioglievano nell'acqua. Il radioli
distruggeva e finivano col cristallizzarsi. Ben si vede nella materia
inorganica una ten- denza ad unificarsi sempre maggiore. Essa assuma aspetti
diversi (come li abbiamo ora indicati) nei colloidi, nelle gelatine, nei vetri,
nei metalli, nei cristalli : sempre la intima unità generatrice della forma
cristallina, che dalla vescicola centrale dispone le molecole in contrasti
elettrici, o della forma colloi- dale che fra le reti cristalline dà origine a
gruppi elastici, o della forma pseudocellulare che fa muffe e granulazioni nei
miscugli di detriti organici coi minerali, va assurgendo ad armonie speciali.
che nelle meteoriti e nelle roccie profonde del nostro globo e può dirsi la
scoria universale. La contestura soprafina delle Meteoriti rassomiglia a quella
della neve, ed è do- vuta all' immediato passaggio del vapore di acqua allo
stato solido. Come la neve, e malgrado la loro tendenza ad una
cristallizzazione nettamente geometrica, le combinazioni silicato delle
Meteoriti presentano cristallini confusi e minutissimi. Il silicio che sulla
Terra ha bruciato, formando l'acido silicico, deve essere stato causa di un
gran riscaldamento degli astri quando si combinò con l'ossigeno. Cuocendo il
ferro fuso, per trasformarlo in ferro malleabile od in acciaio, l'ossigeno
dell'aria brucia il carbonio ed il silicio ed una parte del ferro, producendo
una scoria nera che contiene un Peridoto a base di ferro che ha V identica
chimica costituzione e la medesima forma cristallina del Peridoto magnetico
delle Meteoriti conser- vate nei principali Musei. Sono frammenti di vecchi
corpi celesti, errabondi fra i sistemi stellari. — 66 — Sono le forme
primitive, spesso non ancora ben -definite della vita, la quale diventerà poi
libera e forte nell'accentramento Cellulare e più che mai nell'Organico. Ogni
forza attrattiva della Natura è ministra di ordine, che parte dalle Unità
senzienti, le quali non sono essenze incaliginate di una filosofìa nebulosa,
non sono Concetti antitetici da conciliare, uè Indistinti che si vadano
distinguendo colla di- visione delle forze come nello Hegelismo e nell'^lr-
digoismo, ma sono intime cause di fenomeni e di atti della Natura che si fa
coadunando, anno- dando, stringendo, godendo. Non è un lume pallido ed
intermittente quello che mandano i mille fatti fin qui accennati della coesione
e della solidarietà, ma diventa, raffron- tato con altri della Chimica, un
cardine di principii naturali, dei quali la scienza del pensiero è tenuta a
fare indagini nuove. Non si dirà, speriamo, che in queste pagine abbiamo fatto
della cristallografìa, perchè nelle descrizioni e nelle misure degli angoli di
questa non siamo entrati (e di goniometri e di polariscopi non abbiamo fatto
alcun cenno); abbiamo soltanto passato in rivista le diverse tendenze della
materia che si crede morta, stupida ed inerte alla finalità del piacere,
all'esercizio sempre più elevato •e complicato della coesione geometrica. L'ascesa
alle chimiche combinazioni La combinazione chimica è un perfezionamento
notevole e graduale della Coesione. Diciamo graduale perchè prima si fa coi
simili e poscia impara a sposarsi con altri elementi. Così l'ossigeno libero,
il cloro libero, lo idrogeno libero, lo azoto libero, il silicio libero sono
sempre appaiati in molecole di due atomi. Che l'energia chimica non derivi
dagli urti di particelle solide o liquide è dimostrato dal fatto che la energia
di qualsiasi elemento non sta in proporzione delle masse, e che i loro
equivalenti meccanici sono enormi. Ad esempio se si combi- nano per formare
36,5 di acido cloridrico, un gramma di idrogeno con 35,5 di cloro, svolgono
tanto calore da innalzare di un grado la temperatura di venticinque chilogrammi
di acqua (come osserva Stallo). Non è certo per cause meccaniche che V azoto
(il quale forma quasi quattro quinti dell'aria) resta sempre il più inerte ed
il più indifferente di tutti gli elementi, non entra in alcuna combinazione se
non vi è spinto dalla elettricità. Ed è sempre pronto ad uscirne, abbandonando
i compagni. Non è per cause meccaniche che V Ossigeno si combina con quasi
tutti gli elementi con grande facilità od ardore. Unito con poco più di un
decimo di idrogeno fa l'acqua, così benefica in tutta — 68 — la natura. Ma
unito coi metalli fa gli ossidi e le terre. Unito con corpi combustibili
brucia, fa la fiamma del legno, delle candele, dell'olio, ecc. e forma e
conserva e rinnova i corpi organici. Unito coll'azoto fa gli esplosivi, i cui
atomi si spaccano, slanciano i projetti con velocità di chilometri per minuto
secondo (2 la polvere di fucile, 7 ad 8 la nitro manite). Non è per cause meccaniche
che il Carbonio e sempre un elemento di accentrazione, il quale con l'ossigeno,
l'idrogeno e l'azoto serve a comporre i corpi organici, che vogliono
continuamente scambiare i loro elementi. Non è per cause meccaniche che tutti
gli ele- menti i quali si trovano in equilibrio instabile si combinano con
ardore. La polvere da fuoco alla prima scintilla svolge un grande volume di gas
acido carbonico, grazie all'azoto indifferente ed inerte, per cui l'ossigeno ed
il carbonio si trovano in equilibrio instabile. E più ancora nella nitro-
glicerina e nella dinamite. Non e per cause meccaniche che le combinazioni
chimiche cambiano profondamente il modo di sentire e di operare dei loro
elementi. Chi ravviserebbe nel sale di cucina, bianco, cristallino i suoi due
componenti, vale a dire il cloro (gas giallo attivissimo) ed il sodio (metallo
argenteo leggerissimo). Chi riconoscerebbe nell'acqua, composta per quasi nove
decimi di ossigeno comburente, con oltre un decimo di idrogeno, combustibile, i
suoi elementi ? Chi troverebbe nel quarzo che cri- stallizza in aghi esagoni
trasparenti, il silicio nerastro ed il gas ossigeno che lo hanno formato?
~L'Ardigoismo venga un po' qui col suo Indistinto, col suo incrociarsi delle
famose linee del tempo e dello spazio, e con la sua legge di formazione,
dividendo la linea e suddividendo all' infinito. Non è,'col dividere, ma
coll'unire che si trova piacere e si fa l'evoluzione. Lo Hegelismo spieghi un
po' col processo antitetico dei suoi concetti universali e concreti queste
combinazioni chimiche ed i loro effetti, dovuti evidentemente a modi diversi di
sentire e di volere. Non è per cause meccaniche che le sostanze iso- mere, vale
a dire composte della stessa qualità e del medesimo numero di Atomi, hanno
spesso un modo diverso di sentire e di operare. Ad esempio il fosforo bianco è
velenoso; ma, scaldato nel vuoto, fa il fosforo rosso, che è innocuo. Il
cianato di ammoniaca è velenoso, mentre non lo è l'urea. Sono Isomeri molte
glucosi e saccarosi, l'amido, il legno e la destrina. Se le cause meccaniche
facessero le combinazioni chimiche, la atomicità o valenza degli ele- menti
(che si può chiamare la loro dose di energia) avrebbe una legge invariabile.
Questa fu supposta quando nel 1855 il compianto senatore Cannizzaro (allora
professore a Pisa) provò che non esiste contraddizione fra la legge di Avogadro
che determina il peso delle molecole e quella di Dulong e Petit che determina
il peso degli Atomi. Ma la ipotesi svanì ben presto (1). (1) L'idrogeno ed il
cloro valgono 1, l'ossigeno 2, l'azoto 3, il carbonio 4, e pochi elementi hanno
una valenza superiore. Infatti il carbonio si combina con 4 atomi di idrogeno e
con 4 di cloro, o con 3 di idrogeno ed 1 di cloro, o con 3 di cloro ed 1 d'
idrogeno. Invece 2 atomi di ossigeno, che è bivalente, si combinano con 1 atomo
di carbonio. Nelle sostituzioni la valenza ha importanza, p. es. 1 di azoto che
è trivalente, può surro- Anche i pronubi delle nozze (che sono in generale il
calorico e la elettricità) non danno il modo di predire le combinazioni. Quelle
che si fanno sviluppando calorico, dette esotermiche, hanno meno energia della
somma dei loro componenti, essendo rimaste esauste. Quelle invece che si fanno
convertendo subito il calorico in elettricità, senza perdita, dette Endotermiche,
hanno energia maggiore della somma dei loro elementi. Armstrong considera la
chimica affinità come una Elettrolisi rovesciata, in cui l'azione è eguale alla
reazione. L' intimo fattore delle formazioni chimiche pare sia la tendenza a
formare più alta Unità: infatti garsi a 3 di idrogeno, oppure a 1 di idrogeno e
1 di ossi- geno. Se uno di carbonio sposa 3 atomi di idrogeno non è saturato, e
può appetirne e guadagnarne un altro di cloro o di idrogeno. Sempre univalenti
sono idrogeno, cloro, argento, ed i metalli alcalini terrosi. La valenza è di
1, 3, 5, 7 in alcuni gruppi, di 2, 4, 6, 8 in altri. Una combinazione non
saturata serve di radicale per nuove combinazioni. La ipotesi delle leggi di
Atomicità o Valenza svanì quando si vide che l'ossigeno non è sempre bivalente
e si fa valere come tetravalente quando vuol combinarsi con elementi più
pesanti e che l'azoto non è sempre trivalente, perchè nella Urea 2 atomi di
azoto ne sposano 1 di car- bonio ed invertendo l'urea in cianato di ammoniaca
la diversità aumenta con 4 di idrogeno. E si vide pure che il ferro vale 2 nel
bicloruro e vale 4 nel bisolfuro; si as- sodò che il solfo, il selenio ed il
tellurio valgono 2 con l'idrogeno e 4 negli acidi anidri e nelle anidridi, e si
constatò che l'azoto ed il fosforo che in generale sono tri- valenti, in alcuni
casi si fanno valere come 5. Anche il Carbonio che vale 4, quando fa l'ossido
di carbonio, di- venta soltanto bivalente. i fermenti o catalizzatori le
accelerano. La meccanica chimica è fondata sulle leggi di Newton che non sono
meccaniche. I composti binari della chimica organica (idrogeni carburati), i
composti ternari (alcool, olii, grassi, acidi) ed anche i quaternari (amidi,
ligneo, aldeidi, destrine, gomme, gelatine, albumine) esi- gono lungo tempo per
formarsi, moltissime essendo le loro molecole. Quando un tipo è formato, questo
si ripete e si sviluppa in una lunga serie: p. es. il tipo dell' idrato di
potassa, o quello dell' ammoniaca. Quando si presenta un tipo di formazione
superiore, è imitato e moltiplicato. E questo prova il principio pitagorico
dell'ascesa a più alta Unità per godere, insito in tutti gli Atomi. Se non si
frappongono ostacoli, la moltiplicazione dell'azione chimica è continua. Così
nelle fabbriche di acido solforico, pochissimo biossido di azoto basta a
provocare l'unione dell' ossigeno dell' aria con grandi quantità di acido
solforoso. Come è naturale le combinazioni chimiche du- rano e resistono quanto
più sono semplici. Fra i minerali, i protossidi, le terre e gli alcali. Resistono
meno i deutossidi, i tritossidi ed i perossidi nei quali 2, 3, 4 Atomi di
ossigeno stanno congiunti ad un Atomo di metallo o di altro elemento. I sali
poi, che sono composti di 5 o più Atomi, non resistono al forte calore : meno
che mai i sali doppi. Appena 30 o 40 gradi centigradi bastano per danneggiare i
composti organici, come è noto a chiunque : e per poco che si vada oltre i
quaranta si distruggono. — 72 — La vita non sta mai nelle sostanze chimiche, ma
nella morfologia, ossia nella capacità unitaria di fare funzioni ed organi,
scambiando e dominando le sostanze chimiche. Perciò i chimici non arriveranno
mai a fare nei loro laboratori nna cellula. Nondimeno l'analisi e la sintesi
degli elementi organici si è ottenuta da mezzo secolo in qua sempre meglio,
nelle sostanze meno essenziali alla vita. Berthelot sperava di arrivare a
formare gli zuccheri. E. Fischer ottenne le sostanze zuccherine naturali
semplici. Nessuno arrivò ancora a fare le albumine. Hegel definiva la vita e V
idea arrivata alla esi- stenza immediata » ; sicché le forze fìsiche avrebbero,
secondo Hegel, soltanto una esistenza mediata, ossia non esistono in se: non
sentono, non sof- frono, non godono. Ma allora sarebbero esseri puramente
passivi e quindi non esseri. L'Unità assimilafrice cellulare L'acqua alla sua
superficie, di 1 /25000 di milli- metro, tende a colloidare. E sotto una
atmosfera gravida di carbonio, e dopo che un vulcano abbia versato solfo e
fosforo, nel periodo geologico Laurenziano, sembra che alcuni Atomi isolati di
car- bonio si sieno combinati con l'ossigeno, con l'idro- geno dell'acqua e con
un po' di azoto dell'aria, per formare i primi biomori o granuli invisibili, -
73 — i quali poi diedero origine al bioplasma reticolato, visibile eoi
microscopio. Dal bioplasma si formarono i plastiduli ed i citodi che si sono
concentrati in cellule. Concentrazione mille volte disfatta e mille volte
rifatta forse, secondo le intemperie. Grazie alla intima tendenza delle
molecole di formare più alta unità, e di accrescere e rendere durevole il
godimento, acquistando capacità di fare moti volontari, tale concentrazione ha
finito per durare. Da queste prime Cellule è uscita tutta quanta la Natura
organica sopra la Terra. La forma sferica persistette poi in tutta la flora e
la fauna allora quando, abbondando gli alimenti, si moltiplicarono rapidamente
e si concatenarono, formando colonie di cellule. L'acqua rimane, anche negli
organismi superiori, l'elemento necessario ed universale, perchè tutte le
reazioni chimiche vitali avven- gono in essa, essendo essa composta, per quasi
nove decimi, di ossigeno. L'acqua discioglie e mette in circolazione ed in
conflitto le sostanze di ogni organismo, essa dissolve i sali in acidi ed in
basi libere, come lo farebbe un forte riscaldamento, perchè libera il suo
calorico la- tente (Gautier). E quando l'uomo stesso sente diffondersi sostanze
inette alla vita, bevendo ac- qua si prepara ad eliminarle. — I sali, e
specialmente il marino, o cloruro di sodio, rialzano lo scambio vitale,
penetrando da per tutto, per la piccolezza delle loro molecole e determinando
la solubilità o insolubilità di molte so- stanze proteiche. L'agente della vita
non è una pretesa forza vitale staccata dagli Atomi; ma è Velevazione delle —
74 — Unità atomiche ad Unità più alta e a godimenti maggiori (1). Se si
guardano le cellule dal punto di vista della Unità formatrice si intendono e si
penetra nella causa che è la Natura che si fa; mentre, se si guardano dal punto
di vista del molteplice materiale, non si hanno che dei frammenti slegati ed
inerti. Delle prime cellule viventi ci può dare un'idea oggidì il protoplasma o
parte sempre giovine delle piante. La cellula si forma unificando e restando
una nella varietà. Infatti le molecole binarie, ter- narie o quaternarie della
sostanza proteina del protoplasma (per la instabilità dell'azoto), sentono le
variazioni di temperatura, e le vibrazioni elettriche e luminose, come la
coesione e l'attrazione molecolare. Il protoplasma delle piante è colloide,
viscoso, non traversa mai le membrane per diffusione, ed è formato da due o più
sostanze albuminoidi (2), con acqua e sali. Non si scioglie nell'acqua, ma ne
assorbe moltissima, e senza essa non vive. Si muove sempre ed ha granuli (3)
che vanno alle pareti della cellula a prendere aria ossigenata (1) A questo
innalzamento giovano molto gli accelera- menti dei processi chimici che sono
cagionati per Catalisi, ossia per la presenza di una minima quantità del
prodotto della combinazione bramata, che ecciti al piacere della sensazione superiore.
(2) Una molecola di albumina ha 72 Atomi di carbonio al centro, che trattengono
in un solo sistema sociale pa- recchie centinaia di Atomi di idrogeno, di
ossigeno e di azoto. (3) Questi granuli sono per lo più di materie proteiche,
però ve ne sono di grasse e di minerali — 75 — e luce ed a nutrirsi di polveri
e fanno appendici come amebi, variando la vita a seconda delle cir- costanze,
finché queste non sono troppo avverse. Nei nostri laboratorii si studiano le
combinazioni in proporzioni costanti delle sostanze non più viventi, perchè le
viventi variano troppo le loro combinazioni per essere osservate con sicu-
rezza. Con l'acido acetico si scioglie il protoplasma delle cellule, ma non il
loro nucleo. Il protopla- sma staccato dalla sua colonia è sempre morto, ed
assorbe indifferentemente tutte le sostanze, anche il cloruro di sodio ed il
nitrato di potassa. Ma quando è vivente, respinge queste e tutte le sostanze
nocive, e non assorbe se non quelle che può assimilare, provando così che la
Unità interna fa la vita, e che la struttura materiale, ossia la Natura fatta
ne dipende. Infatti il protoplasma perde ogni irritabilità e vitalità se viene
sottoposto all'azione dell'etere e del cloroformio, come se fosse un animale.
Del protoplasma quattro quinti sono acqua, un quinto è formato dalla materia
granulosa vitale della quale ora parleremo. Questa massa granulosa è sempre
molle ed estensibile, ma non è densa se non attorno al nucleo. Ogni varietà di
granuli si assimila le materie opportune. Senza sensazioni gradevoli o
spiacenti, senza figurazioni non si sarebbero mai fatte le cellule del
protoplasma. La funzione precede la struttura; ma il protoplasma rimane sempre
allo stato ameboide. Una macchina a vapore è fatta dal di fuori, unendo pezzo a
pezzo, come l'uccello fa il suo nido e il castoro la sua capanna; se viene
guastata, non — 76 — si accomoda da se, non si provvede da se di ac- qua e di
carbone, ed è indifferente se invece di carbone si ponga materia non
combustibile sotto la caldaia, e se dentro questa si metta dell'arena invece di
acqua, e se invece di vapori arrivi ghiaccio nel suo distributore. Ma il
protoplasma si fa da sé stesso, come una società cooperativa, dal di dentro,
per slancio delle energie chimiche, intente ad accrescere le loro sensazioni
rudimentali di os- sidazione. Perciò è pronto a riparare una ferita, un danno.
Non vi è una forza vitale particolare: ina tutte le forze fisiche e chimiche
cooperano nell'ascesa alla Unità Cellulare. 1j assimilazione è una prima
funzione delle Unità confrontanti, e sta nel fare (come lo dice il nome),
simili alla propria cellula le sostanze diverse che incontra. L'azoto non serve
se non come elemento indifferente, dando agli elementi attivi (carbonio,
ossigeno, idrogeno e sali) la facilità di scomporsi e di ricomporsi, onde
cambiare le molecole inerti e semplici in molecole operose e composte, ascen-
dendo (se l'ambiente è favorevole) a maggior pia- cere di vivere. La cellula
scompone le materie incontrate, trat- tenendo quelle che può appropriarsi, dando
loro il SUO tipo, e respingendo od escretando le altre, conservandosi nella sua
forma e nella sua chimica composizione, nella sua armonia, come un Tutto bene
sistemato. Il protoplasma è una continua affermazione dell'Unità reale, ossia
dell'Essere Uno, per se. Quando una cellula è ben nodrita e si gonfia, la Unità
formatrice si raddoppia, divide le sue molecole in due segmenti, che diventano
ciascuno eguale alla cellula madre, e così di seguito. Ogni cellula ha il suo
nucleo, distinto dai granuli microscopici che lo attorniano. Il nucleo (nel
quale ci è sempre un po' di fo- sforo) è una minima cellula interna centrale,
con sugo alcalino e molti granuli, di cui il maggiore si dice nucleolo. Nella
segmentazione (chiamata Cariocinesi) vi è un centro-soma, ossia corpo centrale,
che fa un citoplasma (rete di fili colorati che contengono il protoplasma). Dal
centro-soma cominciano, nel momento della segmentazione, i due Astri (Aster) o
centri di fibre diramate verso la periferia e contenenti, nella loro rete, materie
contrattili e sostanze nutrienti. Ingrossandosi queste, e formando un solco, la
cellula madre si divide in due parti. Non vi sono genitori ne figli, ma la
Unità del Tutto che determina le parti, si ripete vitalmente migliaia e milioni
di volte. Questo processo di segmentazione continua nella nutrizione delle
piante e degli animali. La Unità cellulare è una legge sociale, che si conserva
in tutte le cellule derivate, con la stessa forza assimilatrice. La spiegazione
meccanica qui è, non solo impotente, ma diventa assurda; giacche tutti sanno
che dall' 1 al 2 non vi è frazione che possa condurre 1 +- V2 + 7^ -b 78 4- 716
ecc. ecc. Ed anche coi Differenziali, non si è mai trovata la costante degli
Integrali. L'agente della Cariocinesi è la Unità sociale ereditata, il tipo
assimilato?^ che sa conservare la sua identità in tutte le cellule che ne
derivano, distinguendosi sempre dall'ambiente. Chi volesse vedere la vita
incipiente non ha che a passeggiare lungo gli stagni. — 78 — Se si raccoglie in
uno stagno una goccia di acqua, e se la si osserva col microscopio, si ve-
dranno cellule non protoplasmiche, ma separate le une dalle altre; cioè Amebi
privi di colore, che si muovono con lentezza e si nutrono di pol- vere
vegetale, facendo una lunga digestione e rigettando il soverchio. I più
sviluppati sono la Terricola, la Guttata, ed il Limax. Benché gli Amebi e le
Molière non abbiano struttura, hanno sensazioni e volontà e rispondono agli
eccitamenti. Guardando col microscopio la materia granulosa delle muffe, degli
Amebi, non presenta cel- lule : è un plasma semifluido con granuli che as-
similano e si nutrono. In questi, come in molti altri esempi, risulta chiaro
che non è il tessuto che fa la vita dal di fuori al di dentilo; ma all'opposto,
la vita, che è tendenza all'unità superiore e al piacere, funzionando dal di
dentro al di fuori fa poco a poco le strutture. Il prof. Verwoorn studiò le
cellule dei Protozoari, prima che divengano animali o piante, e vide che
sentono gli eccitamenti, si nutrono, as- similano, escretano, si adattano
all'ambiente, ed accumulano energia chimica. Cercano di acquistare materiali
per rendersi indipendenti (ecco il principio della vita, l'opposto dello
Ardigojano che fa sorgere gli individui per le forze incidenti dello ambiente) per
rendersi indipendenti nel nutrirsi, nel respirare e nel lottare. Esse
manifestano la facoltà di discernere quello che è utile da quello che è dannoso
nel sistema di armonia che si ven- gono formando, in cui trovano piacere (1).
(1) Nessuna bestia mangia erbe velenose. — 79 — Nella putrefazione della carne,
nascono in un paio di giorni innumerevoli bacteri, i quali nel giorno seguente
fanno cigli e flagelli, ed arrivano alla lungezza di i j iQQ o 2/ l00 di
pollice; poi si gonfiano e seminano un liquido da cui nascono punti vivi, che
diventano granuli e germinano i figli per segmentazione. In alcuni infusori il
protoplasma si differenzia in parte contrattile e sensibile e parte digerente,
che trasforma in clorofilla. In essi si vede la ge- nesi dei due regni animale
e vegetale. Quando la parte nutritiva di una massa di cellule prevale sulla
contrattile, sensibile, la vita ameboide si ri- trae in pochi punti e si
rivivifica solamente nella stagione degli amori. Gli esseri inferiori assumono,
a seconda dell'ambiente, il carattere vegetale o iL carattere animale. Ad es.
le Euglene, benché provvedute di bocca e di apparato digerente, si nutrono come
vegetali, prevalendo in esse la clorofilla. — I Protozoari o Protofiti non sono
organismi, perchè cambiano di struttura: ma sentono il calore, la luce, l'
umidità, il contatto, e si nutrono, si moltiplicano. Alcuni tastano, gustano,
nuotano, vi- vono in società e spiegano i loro pseudopodi, ten- dono ad
impadronirsi dei frammenti vegetali che trovano vicini. Sono i viventi più
piccoli e più allegri e non hanno struttura visibile. I preludi delle azioni
vitali sono per lo piùfatti dai fermenti. I fermenti, figurati o no, aiutano
l'assimilazione nelle piante e negli animali, come Catalizzatori, accelerando o
ritardando le reazioni, senza prendervi alle volte parte attiva,, come fa la
polvere di platino nella fabbricazione dell'acido solforico. — 80 — I fermenti
aerobi respirano l'ossigeno dell'aria. I fermenti anaerobi pigliano l'ossigeno
senza contatto con l'aria, cercandolo nei liquidi dove si trovano. Ogni
fermento è una vitalizzazione od unificazione (animale o vegetale) di succhi, e
l'agente che li fa può essere solubile, ossia senza forma organica, ma la sua
solubilità è però soltanto apparente. Ve ne sono in ogni protoplasma vivente;
ce ne sono dei digestivi, degli idratanti, che sa- ponificano i grassi (come la
steapsina) degli ossi- danti (come la laccasi) dei coagulanti (come la
caseasi), degl' invertivi (sucrosi) che, se affondati nel glucosio, scompongono
lo zucchero per cavarne l'ossigeno, sia nel mosto, sia nei frutti carnosi; se
ne trovano anche nei germogli del grano e della barbabietola. Il fermento
lattico inacidisce lo zucchero del latte; il mycoderma aceti ossida il vino e
l'alcool, il mycoderma vini cambia l'al- -cool in acqua e acido carbonico,
alcune muffe di- struggono aerobicamente lo zucchero e la celluiosi. Il lievito
di birra, secondo le circostanze, è aerobio o anaerobio. Invece il butirico e
la maggior parte dei bacteri sono anaerobi ; tolgono l'os- sigeno agli zuccheri
ed agli amidi e fanno all'oscuro la loro sostanza albuminoide. Quasi tutte le
terre contengono fermenti, i quali trasformano l'azoto dei concimi animali in
azoto nitrico. Le terre di leguminose sono abitate da colonie di bacteri sopra
le radici e nel 1886 furono descritte da parecchi biologi. Nel 1906 l'inglese
Bootmley ha scoperto il modo di modificarli e di renderli adattabili anche ad
altre piante coltivate, sicché ogni coltura diventerebbe capace di ingras- sare
la terra da se, senza sfruttarla mai, come fanno adesso le lupinelle, i
trifogli e le erbe me- — 81 — diche, utilizzando tutto lo azoto che fa quattro
quinti dell'aria e sotto l'azione della elettricità investela terra arativa e
fino ad oggi andava perduto. Si intravvede così la possibilità di rendere
facile la coltura intensiva anche nelle terre inferiori. I batteri di radici
non somigliano affatto a quelli di cui parleremo nel Capitolo seguente, ne a
quelli di cui fu detto nella pagina precedente. Nei diversi modi di essere, di
sentire, di operare delle Cellule, vi sono tre fatti che altamente interessano
la filosofia, vale a dire il Dominio del nucleo sopra le parti circostanti, la
Segmentazione che è chiamata anche Cariocinesi, e VAssimilazione, Il dominio
del nucleo ci prova che le unità delle molecole e dei biomori accentrano il
loro senso* rudimentale, facendo delle moltissime piccole Unità solidali, una
Unità centrale. La segmentazione prova che questo governo centrale non riesce a
dominare un molteplice maggiore, per cui allorché questo supera il numero di
Atomi governabili, la solidarietà si divide in due cellule. Jj Assimilazione
dimostra che la Unità centrale così formata, rende gli Atomi nuovi inesperti,,
(che entrano con gli alimenti), solidali degli Atomi vecchi non soltanto, ma
che li sa ridurre (come lo dice il nome) simili ai precedenti facendo le
medesime chimiche combinazioni; e rigettando le materie inette ad essere
vivificate. Ecco il vero principio della vita. Questa tendenza, differenziata
in apposite funzioni, per diverse specie di cibi, formerà poi, negli organismi
superiori, le-' funzioni digestive. Fatti che non si spiegano certo con le sole
forze chimiche, e tanto meno con le sole forze — 82 — incidenti dell'ambiente,
al modo Ardigojano ; ossia dal di fuori al di dentro; ma che sorgono dalla
forza unitaria del piacere. E sono dovuti al grande progresso che ha ot- tenuto
nella cellula la originaria tendenza a più alta Unità, e ad accumimare
stabilmente il sentire e il volere degli atomi. Così avviene anche nelle
società umane : p. es. la Repubblica Portoghese non fu fatta nell'Ottobre 1910
da forze incidenti, venute dal di fuori al modo Ardigojano per caso; ma dalla
tendenza -a godere la libertà ed a governare dei cittadini più istruiti,
irradiando dall'Accademia a tutta la Nazione la volontà e la forza che rovesciò
la .Monarchia clericale dei Braganza. Come le Unità Cellulari si accentrano
nelle Piante per godere l'amore Nelle grandi associazioni di cellule, le varie
parti hanno sensazioni assai diverse, perchè la Unità generale del
Collettivismo dà a ciascuna parte funzioni specifiche, e quindi si vanno for-
mando differenti strutture. Però la chimica composizione è presso a poco la
medesima. Questa è una prova palmare che le diverse tendenze e funzioni non
dipendono da cause materiali. Ogni cellula dell'organismo (oltre la funzione
nutritiva e la facoltà di segmentarsi in due) ha — 83 — una funzione sociale,
che le viene imposta dalla collettività nell'atto della segmentazione. In
generale le piante sono fatte da idrati di carbonio (amido, zucchero, grassi,
albumine e clorofille). L' amido diventa celluiosi e legno, e nutre le piante
dietro la luce che passa per le parti verdi o clorofille. Anassagora ed
Empedocle insegnarono per i primi che le piante crescono per appetizione
(éTuifruiila) e che la vita incomincia sentendo pia- cere o dolore. In generale
le piante sono colonie o collettivi- smi di amebi protoplasmici che, facendo
prevalere la parte nutritiva sulla semovente, si sono fatte delle costruzioni
sufficienti a ricoverarli moltiplicati, per godere gli alimenti, l'aria,
l'acqua, e la comodità di copularsi senza essere disturbati. In- vece di essere
fatte dall'ambiente (come pretende lo Ardigoismo), cercarono fino dall'inizio
di premunirsi e difendersi contro il medesimo. La natura che si fa cerca sempre
di rendersi indipendente dall'ambiente. Noi vediamo le sole costruzioni e non i
microscopici costruttori. Questi differenziano una parte del protoplasma in
piccoli dischi di clorofilla con pigmento colo- rato in verde, per impedire la
soverchia ossidazione dei carbonati e per moderare la propria respirazione
dell'ossigeno. Della clorofilla due terzi sono carbonio, un sesto è ossigeno,
1' 11 °/ idrogeno, il B °/ azoto. Essa respira in modo contrario della parte
animale delle piante, cioè assorbe il gas acido carbonico, ed emette
l'ossigeno, e serve a proteggere gli amebi. Senza la clorofilla il protoplasma
animale non resisterebbe al sole e si dissolverebbe sotto la pioggia. Le
cellule o dischi verdi sovrapposte sopra le coste dei mari, fecero le Alghe ora
in linee semplici, ora a lamine, ed ora a rami. Si ingrandirono, riunendo le
tre dimensioni, e si ingrossa- rono, mentre il protoplasma animale ascendeva e
le soluzioni saline col gas acido carbonico penetravano per endosmosi
attraverso le membrane di celluiosi. Il protoplasma animale andava intanto
concentrando il senso della coesione e delle chimiche combinazioni in modo
sempre più perfetto, ed ar- rivava così a fare dei punti sintetici di amore ossia
delle spore incipienti. Il diletto dell'unione si affinò e le colonie vegetali
crebbero d' importanza. Come diremo nel Capitolo XIII, non si può chiamare
memoria la riproduzione del collettivismo vegetale, perchè è piuttosto una
legge sociale diventata meccanismo, come nella cellula la segmentazione in due
cellule riproduce raddoppiata la cellula prima, per un modo di associarsi
divenuto abituale a tutte. Le prime specie vegetali andarono così formandosi
dal di dentro al di fuori. Alcune specie di Alghe crebbero fino a cento metri.
E nelle prime Epoche Geologiche non vi furono altri vegetali che questi. Tutti
sanno che le Epoche Geologiche anteriori alla Quaternaria, in cui noi viviamo,
furono quattro, e che si dividono ciascuna in tre Periodi. Forse non tutti
sanno che, ritenendo che, per i detriti delle roccie e le terre portate dai
fiumi, il fondo del mare si alzi di un millimetro al se- colo (in termine
medio) e misurando lo spessore — 85 — dei sedimenti sottomarini che, per le
sollevazioni delle Catene montuose (1) vennero in parte portati alla luce dalla
prima Epoca in poi, si calcola che sono passati 40 milioni di anni divisi così:
PERIODI Nell'Epoca Primitiva o Arcaica Laurenziano — 10 Milioni di anni
Cambrico — 6 » > Siluriano — 7 » » Neil' Epoca Primaria o Paleozoica
Devoniano Carbonifero Permiano 12 Neil' Epoca Secondaria o Mesozoica Trias
Giurese Cretaceo Neil' Epoca Terziaria o Ceiiozoica ) Eocene Miocene Pliocene
(1) Una volta il sollevamento delle Catene montuose veniva attribuito a spinte
verticali date dal magma centrale dal sotto in su. Elia de Beaumont,
Machperson, Suess, Lapparent e molti altri, fra cui Federico Sacco, professore
di Paleontologia nella Università di Torino, dimostrarono che deve attribuirsi
invece al raffreddamento del globo, che obbligò la prima crosta a corrugarsi,
facendo delle catene montuose per la j^ressione laterale. Ripetendosi la causa,
si formarono molte catene parallele una sotto l'altra come nelle Alpi,
nell'Himalaya, nelle Cordigliere delle Ande e nelle Montagne Rocciose : oppure
6 — 86 — In tutto 40 o 41 milioni di anni dopo le roccie primitive della scorza
terrestre, e prima del periodo in cui viviamo (1). Quando le acque si
ritiravano per l' innalzamento graduale di qualche costa, poco a poco le Alghe
mandarono al fondo alcune appendici, che si tra- sformarono in radici. In pari
tempo si andarono complicando e perfezionando gli organi della nutrizione,
della re- spirazione e di difesa. Questi progressi furono lenti e graduali e
sempre la Natura che si fa restò la parte minima, mentre la Natura fatta o
meccanismo fu la parte una a distanza dall'altra in linee arcuate o diritte. E
lungo queste Catene si sprofondarono i mari, il cui fondo, alle volte, veniva
poi sollevato in parte. I vulcani trovansi sopra le linee soggette a movimenti
più pronunciati. I terremoti avvengono dove il corrugarsi continua. L'eminente
geologo prof. F. Sacco ha in molte memorie chiarito queste ed altre leggi di
orogenia, e specialmente nell' « Essai sur l'Orogénie de la Terre», 1895, Turin.
Clausen. Egli segue la nostra filosofìa pitagorica e desi- dera che essa venga
accolta dalla maggioranza degli scienziati - anzi crede che questo dovrà
verificarsi in un tempo più o meno prossimo. (1) Si crede che soltanto al
principio dell'Epoca Terziaria cominciassero i ghiacci ai poli e sopra le più
alte catene di montagne, ossia un milione di anni fa, dice il Falsan « La
période glaciaire », pag. 221. Sicché per 30 milioni di anni la nostra Terra
potè svi- luppare una vegetazione di paesi caldi. Ma i ghiacci si estesero in
Europa soltanto quando il Sahara diventò un mare e quando cambiò il corso del
Gulf Stream dell'Atlantico. E il clima mite nostro ritornò al disseccarsi del
mare sahariano e al modificarsi della cor- rente calda dell'Atlantico dalle Canarie
alla Norvegia ed all'America. — 87 — massima della vegetazione. Però la minima
parte della Natura che si fa bastava a fare l'Evoluzione ed a dare origine a
migliaia di specie diverse, sempre più rigogliose. Ancora oggi nelle Alghe
Desmidie, nelle Diatomee, nelle Spirogire, tutte Alghe unicellulari e
microscopiche, la copula è di semplice condensazione, e il protoplasma viene
scambiato sotto la vecchia scorza e le fa ringiovanire. Per dare un' idea del
numero immenso di queste semplici Alghe basterà dire che la scorza silicea
delle Diatomee (numerosissime in tutte le acque dolci e salate del mondo),
forma quella terra fina detta tripoli che serve a pulire i metalli. Benché una
goccia di acqua contenga delle migliaia di* queste minime Alghe, pure il loro
numero è così grande, che ne sono formati degli strati estesis- simi prima
della Epoca Terziaria. Nelle Alghe composte di molte cellule si formarono le
prime spore come centri dell'Amore. La filosofìa ha trascurato finora lo studio
delle prime manifestazioni dell'amore, che tanti insegnamenti racchiudono. Le
zoospore, animaletti microscopici, riuniscono in se la energia morfologica
delle piante primitive, che non è Memoria come pretendeva Federico Deipino « La
psicologia dell'avvenire » , ma è una legge sociale la cui sintesi s'impone nel
protoplasma animale delle piante. Nelle più semplici Alghe Porfirie, le spore
cadute si muovono strisciando come gli Amebi. In altre Alghe esse si riuniscono
in gruppi di cellule ovoidi, con delle appendici vibranti, le quali, col
fissarsi in terra e col segmentarsi, produssero i primi talli germinanti. Molte
Alghe per le inondazioni morirono nella melma; ma dai loro frammenti privi di
clorofilla, uscirono i Funghi composti di filamenti ramificati. Da quelle poi
che erano più putrefatte si crede che siensi formati i Bacteri, i quali
rimasero sempre minutissimi, ma si moltiplicarono assai, re- stando innocui
finche vivevano all'aria (1). Nelle Alghe superiori cominciò la divisione delle
spore in femmine ed in maschi. I due sessi si as- sociarono per fare gli
Sporangi od Oogoni capaci di germinare. Nei posti dove le Alghe erano prossime
ai Funghi si unirono con questi per formare i Licheni. Ma i Funghi ed i Licheni
(essendosi dati a vita parassita) rimasero piccoli e deboli. Le Alghe Characee
popolarono le acque dolci e gli stagni. (1) È noto che quando i Bacteri
penetrano nel sangue di un animale ferito, avendo bisogno di ossigeno, ne
alterano il sangue, producendo una malattia contagiosa. Sopra di essi venne
studiato il processo di evoluzione con facilità, perchè ve ne sono di quelli
che in due ore si raddoppiano, sicché in pochi anni si possono ottenere molte
migliaia di generazioni. E così si vide che era possibile col variare la loro
ali- mentazione e l'ambiente e di rendere innocue le specie più virulenti.
Pasteur li coltivava nel brodo, che presto si altera e non si coagula che a 0°
gradi. Roberto Koch di Berlino li coltivò nella gelatina, che si solidifica a
16 gradi centigradi e quindi nel clima di Berlino permette quasi tutto l'anno
(meno il breve estate) di fissare i bacteri sopra una lastra di vetro in un
sottile strato di gelatina e di osservarli col microscopio fornito del così
detto « Mare di luce Abbe ». Il Koch arrivò così a scoprire i bacilli della
tisi, del colera, della febbre gialla, della peste ; riformò la teoria Le
Fucacee furono le più diffuse nei mari e formarono delle masse estese dette
Sargassi. Al- cune Alghe come la Macrocystis arrivarono alla lunghezza di
centinaia di metri. Le Alghe dei terreni che andavano asciugandosi, rese
robuste, aspirando bene l'ossigeno, si trasfor- marono poco a poco in Muscinee
o Muschi non più alte di mezzo metro. Nei Muschi acrocarpi le piante femmine
producono degli archegoni o sacchetti in cui si sviluppa l'oosfera che, fecondata,
fa l'uovo che germinerà, mentre le piante maschie fanno le anleridie o
sacchetti dai quali scappano gli anterozoidi, che vanno a fecondare le oosfere
delle sorelle. Dalle Muscinee vennero le Epatiche piene di spore, anch'esse per
lo più divise in piante maschie con anteridie e piante femmine con gli
archegoni, piene di acido malico, che attrae i maschi. delle infezioni ed ebbe
numerosi discepoli, fra cui il nostro Gosio professore a Roma. Anche la muffa
delle cantine (Pennicillum glaucum) le cui spore sono tanto minute che girano
nell'aria, messa nel sangue di un animale senz'altro muore; ma, se viene
coltivata ed abituata poco alla volta a stare nel sangue caldo, può far morire
un coniglio in due giorni. I Bacteri sono a milioni nei paesi tropicali e in
certi paesi sono cospersi o influiti da corpi radioattivi tanto da^ far
luccicare le acque del mare. Se ne raccolgono molti di questi innocenti bacteri
per farne in Germania delle lam- pade a luse verdastra-azzurra, le cui onde
sono molto brevi, e si conservano senza rinnovare l'aria per parecchi mesi,
permettendo di leggere i giornali di notte e di fare qua- lunque lavoro. Invece
nei paesi assai freddi i Bacteri mancano, o sono pochi. Per questa ragione la
carne degli animali uccisi si conserva benissimo nelle terre polari, giacche la
causa della putrefazione delle carni non è il calore, ma sta nei Bacteri. Le
proporzioni crebbero nelle Felci e nelle Preste. I vasi interni lunghi si
moltiplicarono, per mandare in alto i succhi nutrienti e per formare edifìci e
magazzini dove albergare e gustare la vita e l'amore, formando dei 'protalli.
Alle Felci aventi spore, seguirono i protalli a Félce, con generazione
alternante : l'una intenta ad accrescere la nutrizione, riproducendosi senza
nozze; l'altra a gustare l'amore ed a migliorare la morfologia, mediante la
riproduzione sessuale. Nella Età paleozoica le Crittogame avevano raggiunto
proporzioni colossali anche ai poli : ma oggi si sono ristrette alle regioni
tropicali. Nelle Preste dove i maschi erano separati dalle femmine, intorno al
tallo permanente, ne sorsero altri più piccoli, a formare lo sporogono nelle
Ofioglossee. Lo sporogono o sporangio, diventò il più gradito convegno di spore
dei due sessi, e servì alla evo- luzione morfologica delle specie superiori,
fino alle Fanerogame del nostro tempo. Dal periodo Devoniano al Permiano la
vegetazione fu superba in Crittogame ed in Gimnosperme, soprattutto in Pini,
mentre nessuna Angiosperma era ancor nata. Le Crittogame e Gimnosperme si
svilupparono per milioni di anni e lasciarono, laddove si sono fossilizzate, il
Carbon fossile, che contiene quattro quinti di Carbonio puro. Si restrinsero
dopo il periodo Permiano e allora prevalsero le Conifere e le Cicadee. Nel
Trias co- minciarono le Angiosperme. Dopo il periodo giurese prevalsero le
Fanerogame, che prima erano piccole, e crebbero in al- tezza. — 91 — Fin dalle
prime Ofioglossee il tallo dell'amore si era impiccolito e fatto incoloro e
sotterraneo, e si moltiplicarono gli sporogoni o sporangi : il tallo poi fu
ridotto quasi a nulla nelle Rizocarpee, mentre lo sporogono dominando si divise
in spore maschie e spore femmine nei Licopodi. Finalmente nelle Fanerogame
(Gimno ed Angiospermé) lo spo- rogono nascose il tallo facendo spore maschili o
polline e spore femmine od ondi. Il protoplasma maschio non si organizzò più in
corpuscoli, ma attraversò per endosmosi le pareti del tubo pollinico e andò ad
impregnare i corpuscoli dell'ar- chegono. Le foglie dello sporogono furono
trasfor- mate per la festa dell'amore in variopinti e vellutati petali, stami e
pistilli, emulando le spighe a sporangio floreale delle Crittogame. Nelle
Gimnosperme (conifere e cicadee) la macrospora, ossia il sacchetto embrionale
contenuto nell'ovulo (macrosporangio) diede luogo ad un piccolo protallo che
rimase nel- l'ovulo e ad un endosperma con archegoni, che il polline andò a
fecondare; dopo di che YOosporo potè fare il granulo del seme. Il polline è un
surrogato dell'anterozoide delle Crittogame e non ha l'aspetto di ainebo, ma ne
ha la virtù, senza sforzare le piante a perdere la vigoria nutritiva; è un
perfezionamento che fa godere l'amore senza perdere la robustezza. In questa
lunga evoluzione degli organi sessuali riesce evidente che la psicogenia è
fatta dalla sen- sazione piacevole e che la somagenia non è altro che un
risultato della psicogenia ripetuta con per- severanza. La Natura che si faceva
nelle foreste era la parte minima, ma era piena di vita allegra. Nelle antere,
nei pistilli dei fiori è evidente la vita animale : sono relativamente caldi e
respirano - 92 — più ossigeno che il resto della pianta. Uovulo ha molte
cellule irritabili, il cui nucleo si segmenta e fanno il sacco embrionale,
composto di due cellule che ricevono il polline, e sono nodrite dalle vicine :
una di esse farà il germe con due cotile- doni che diverranno la radichetta e
la piumetta. Nella Fanerogame la riproduzione è assicurata in tutte le parti
giovani. I Protonti tendevano a fare un protallo sessuale permanente: ma non vi
riuscirono: e già nelle Crittogame superiori e nelle Gimnosperme il protallo
sessuale era stremato. L' indirizzo assunto dalla maggior parte delle specie
vegetali fu quello invece di fare degli sprorogoni perpetui, nei quali per
spore e per germorgli si gode una riproduzione più diffusa, benché i germogli
non si stac- chino dalla pianta madre, come facevano le spore delle Felci. —
Rosai, Viti, Ciliegi, Peri, Meli, Spine e migliaia di altre specie meno comuni
nel clima temperato, si moltiplicano per germogli, quanto per semi - perchè
spore o germogli di spore sono quasi dapertutto. In generale nelle piante
attuali prevale la generazione agamica o la sessuale ; ed è rara la generazione
alternante (fuorché nelle Conifere-vascolari). Nelle Fanerogame le parti
giovani hanno sempre spore e possono germogliare ; tutti sanno che nelle
Begonie persino ogni foglia fa germogli avventizi, capaci di produrre una
pianta perfetta. Nelle Fanerogame il nodo del picciuolo delle fo- glie parte
dal centro del midollo e dà la morfologia e la chimica delle parti che ne
derivano, poco meno dei fiori. I fiori degli alberi corrispondono alle Meduse
ed ai Polipi idroidi e si individualizzano, mentre i nodi e le foglie si
riproducono senza nozze. — 93 — Nelle miriadi di specie erbose ci sono
individui agami alla radice, e nel fusto : mentre in cima al fusto sorgono
individui fiori. Il fusto risulta dai fusticini posti a capo uno dell'altro,
tutti con ra- dichette, con fibre, con vasi, con trachee. Mirabile
composizione, formata lentamente nell'ascesa a più alta unità del collettivismo
di ogni specie. Nelle Piante (come negli Animali) il fattore delle maggiori
trasformazioni fu l'Amore. L'ambiente, il clima, l'uso e il non uso degli
organi influirono meno della sintesi goduta nei piaceri intimi della Natura che
si fa liberamente. Dorhn variando Fambiente, vide che gli organi restavano a
lungo i medesimi, ma le funzioni variavano subito ; poco a poco la funzione che
era secondaria, diventava primaria, modificando in alcune generazioni tutta la
struttura. Ed oggi il De Vries attribuisce la evoluzione delle piante a rapide
mutazioni. La maggior cernita sta nelle mutazioni del si- stema riproduttivo,
più che nell'adattamento al- l'ambiente: perciò la prima cura dei giardinieri
(come degli allevatori del bestiame) è d' impedire Vincrociamento coi tipi
vecchi e di somministrare all' individuo che si vuol variare una forte
nutrizione. L'Embriogenìà, origine dell'individuo organico, è un raccorcio
della Filogenìa, origine della specie, anche fra le piante. Nelle Fanerogame si
tro- vano reminiscenze delle Thallofiti, delle Muscinee e delle Crittogame.
Dove la pianta ha vita più attiva è aerobia ed animale, come nel seme che
germina, nella gemma che si sviluppa, nella foglia che cresce, nel fiore che
matura: e consumano molto ossigeno riscal- dandosi. I fiori assorbono in 24 ore
tanto ossigeno quanto l'uomo (a parità di volume). — 94 — Le parti più vive
sono sempre più azotater giacche l'azoto, essendo indifferente ed instabile,
favorisce la decomposizione e la ricomposizione delle molecole a seconda dei
bisogni. Queste parti sono le più calde e le più zoidi; però la parte animale
delle piante resta sempre minima, benché diffusa. Le piante più attive, come la
sensitiva, si affaticano e poi dormono. La Dionea chiude le foglie e stringe
gli insetti in trappola. La Drosera segrega in pari tempo un vischio che li
uccide e li digerisce. Sono le piante più azotate di tutte. — In tre piante
insettivore fu scoperto nel 1900 da Huberland un vero organo del tatto,
sopratutto nella Mimosa pudica. Nel 1904 Kollwitz vide il principio di una
struttura nervosa anche in altre piante. F. Hook attribuisce alle piante anche
sentimenti e volizioni (1). La lenta Evoluzione delle varie specie di piante
compiuta in milioni di anni nelle Epoche geologiche indicate fin qui, smentisce
affatto gì' influssi delle idee- eterne del Platonismo e dello Hegelismo e più
ancora la pretesa formazione naturale dell'Ardigoismo, che avverrebbe per lo
incrocio della linea del tempo nei punti dove si tagliano le tre linee fra loro
perpendicolari dello spazio e prova la verità del Pitagorismo, dimostrando che
le piante si sono formate per sensazione e volontà, cercando ed ottenendo il
godimento e la moltiplicazionedelie spore e dei germi di riproduzione. In
generale le radici sono coperte di uno strato di cellule piene di aperture, le
quali (quanto più si trovano verso la punta), assorbono per endo- (1) Sind
Pflanzen und Thiere beseelt? 1906, Lipsia. smosi i succhi minerali disciolti.
L'acqua passa più presto del fluido denso che empie le cellule e dietro essa i
succhi minerali e sopratutto la soda vicino al mare e in terra ferma soda,
potassa, calce, silice e talvolta il ferro. Darwin as- somigliava le radici a
talpe, che volessero andare a cercare il cibo sotterra e col muso procurassero
di stendersi nel terreno umido e grasso, evitando i sassi e all'occorrenza
sciogliendoli nell'acqua un po' alla volta. Alcune arrivano, perseverando, a
sciogliere marmi e silicati. Il moto di circumnutazione di queste radici sembra
fatto dalla intelligenza, per evitare o superare gli ostacoli; poco sopra delle
punte vi sono dei peli, che assorbono sempre succhi minerali. Nei fusti e nelle
foglie il protoplasma fa un moto di circumnutazione che si alza la sera e si
abbassa la mattina, ed è forte sotto i tropici* giovando a diminuire
l'irradiazione notturna. L'energia della pianta viene dalla combustione in
piccola parte, ma assai più dal sole ; perchè i suoi cibi sono inossidabili ed
inerti come lo sono l'acqua, l'acido carbonico, i nitrati ed alcuni sali e
quindi incombustibili. Ma la luce fa operare la clorofilla, che aspirando il
gas acido carbonico, lo scompone e rigettando l'ossigeno (1) mette il carbonio
in grado di far zucchero, amido, grassi e albumine, e anzitutto l'amido (C6 H10
O 5 ) e la glucosi (C6 H12 O 6 ); poi anche molecole azotate, (1) Di notte la
pianta vive come un animale assorbendo cioè l'ossigeno ed emettendo carbonio.
Una foglia, re- stando all'oscuro, prende in un giorno circa 8 volte il suo
volume di ossigeno, mentre l'uomo ne prende 14 vo- lumi ed un passero 200 a
260. pigliando l'azoto dalla terra e non dall'aria, ossia pigliandolo dai
nitrati. Con questi elementi saturati incombustibili la pianta fa molecole
combustibili non saturate e cariche di energia. Lo sviluppo della clorofilla
comincia nei punti gialli dei cotiledoni chiamati leuciti, che alla luce fanno
diventare verde il loro pigmento. Sono glomeruli che dal calore del sole e
dalla luce assumono l'energia termico-elettrica, trasformandola in energia
chimica che assorbe il carbonio. Ogni specie ha una clorofilla apposita, e ad
esempio negli spinacci è fatta di C 40 H62 A2 O 4 , nella erba medica G 42 H63
A2 O 4 . Nelle piante acotile- doni è ancora assai diversa. Assorbendo il
carbonio, i glomeruli verdi formano le aldeidi, gli zuccheri, gli amidi, i
corpi grassi, il tannino e le materie albuminoidi, con un lungo e fecondo
lavorìo. Negli albuminoidi, oltre al carbonio e agli elementi dell'acqua e
dell'aria, entra sempre qualche po' di solfo e alle volte anche di fosforo:
elementi accentratori, che vedremo cre- scere negli animali e di cui vi sono
traccie già nei nuclei delle cellule degli amebi e del protoplasma. L'acqua col
carbonio fa l'aldeide più semplice, il quale polirnerizzando fa lo zucchero. I
fermenti della cellula, sotto la luce del sole fanno nelle foglie zucchero ed
amido. Tenuto al- l'oscuro l'amido si cangia in celluiosi o mucilaggine. La
celluiosi è una sostanza idrocarbonata insolubile negli acidi e nelle basi (che
sotto l'in- fluenza degli alcali può tornare amido) con cui si fanno le parti
più solide delle piante C 12 H10 O i0 . Le piante prendendo l'azoto non
dall'aria, ma dalla terra, riducono i nitrati ad acido cianidrico. — 97 — Nelle
sementi a lungo private di qualsiasi umidità i gruppi di cristalli poliedrici
delle aldeidi, gruppi (che si chiamano i miceli) si toccano. Mase penetra
l'acqua, si rianimano ossigenandosi, e, se la temperatura è dolce, germogliano.
Mettendo del grano di frumento nell'acqua te- pida, non si cambia il suo amido
finche non germina. Ma appena principia a germogliare, l'amido si idrata e si
trasforma in glucosi. Ed ora veniamo alle analogie interne fra le piante e gli
animali. Il liquido assorbito dai succhi digestivi in cui le radici hanno
trasformato i sali ed altre sostanze minerali ascende nel fusto, sciogliendo
alcune so- stanze che trova nel passaggio e diventa linfa. Quanto più questa
ascende, tanto più diviene densa. Essa forma dei canali o arterie capillari,
nei quali scorre, attratta dalle gemme sbocciate sul fusto, ed arriva agli
stomi, ossia alle bocche delle foglie, dove si ossigena, evaporando l'acqua. Da
queste foglie il succhio ridiscende sotto la corteccia, divenuto latice
(piccolo sangue, di cui la parte essenziale si coagula, come il sangue ani-
male). Come latice empie i canali laticiferi ramificati dal parenchima, e fa,
nelle fibre allungate, il così detto Libro. Il latice è pieno di granuli
vitali, che, come i globuli del sangue, circolano e depongono il nutrimento
nelle varie parti, fino alle radici e nel midollo, formando quel deposito di
materie nutritive che sta fra il legno e la corteccia delle piante
dicotiledoni, chiamato Cambio. Nelle piante monocotiledoni mancano le gemme
laterali, e le fibre del libro ed i vasi laticiferi sono contenuti nei fasci
fibrosi vascolari arcuati — 98 — sparsi nel fusto. E perciò nelle
monocotiledoni il cambio si deposita in masse sparse. La gemma terminale unica
di queste Monocotiledoni approfitta del succhio elaborato dalle foglie
precedenti ; e così avviene anche nelle Acotiledoni vascolari. I vasetti
laticiferi abbondano presso le ghiandole e sopratutto in quelle della resina e
delle gomme sotto la corteccia. Vere ghiandole sotto l'epidermide sono quelle
dell'arando, del mirto, della ruta, che secernono olii volatili. Le ghiandole
interne ed opache son fatte da peli gonfiati, come nelle ortiche. Le materie
resinose, la cera impermeabile all'acqua sono vernici utilissime, le quali
moderano la evaporazione, e non sono escre- menti. Così nei pini, nei pioppi,
nei castagni d'India. Nel Chili e nel Perù quasi tutti gli arboscelli hanno il
trasudamento resinoso, perchè il clima è asciutto e senza di esso
svaporerebbero troppo i succhi : la polvere di cera segregata da peli
glandulosi copre le foglie dei cavoli ed altre specie, le prugne, le uve, ed
altri frutti. Molte piante sommerse nell'acqua si rivestono di uno strato
vischioso che impedisce all'acqua di macerarle. Le resine e le gomme non sono
escrezioni: lo sono invece quelle •che escono nelle radici dai fiocchi gelatinosi.
F. Loed (The dinamics of living matter, 1906, .New-York) considera ogni
organismo come una macchina chimica, di colloidi; ma non può spiegare
l'assimilazione e la morfologia senza Vunità senziente collettiva, che provvede
ad ogni bisogno interno ed esterno delU piante. Le albumine vegetali sono
eguali a quelle animali. Tutte si coagulano a caldo, tutte reagiscono del pari
agli acidi, alle basi ed ai sali. — 99 — Le globuline vegetali o Edestine, sono
fatte per metà di carbonio, per un quinto di azoto, per quasi un quarto di
ossigeno: il resto è idrogeno, con pochissimo solfo. I bacteri che (come
dicevasi nel Cap. VI) in- grassano le piante sono fatti di una globulina so-
lubile nell'acqua chiamata myco-proteina. Le caseine vegetali (tutte insolubili
nell'acqua) fanno il glutine e sono affini alle legumine estratte dai legumi.
II protoplasma è alcalino, ma il liquido che lo circonda è acido trasparente.
Le fibrille vive pulsano, e nei vacuoli si depongono sali, acidi, zuccheri,
grassi, amidi, tutti len- tamente segregati. Le glucosi formate nelle foglie di
un albero, scendendo nel cambio sotto la corteccia del fusto, e poi nelle
radici, perdono la loro acqua, e vanno depositando l'amido insolubile e la
celluiosi. Rie- scono polimerizzando a fare alcuni principii aro- matici. Una
parte importante l'hanno i fermenti. Dove la pianta cresce presto, lo si deve a
fermenti ossi- danti detti ossidasi. Ossidando molto le aldeidi si ottengono
gli acidi. Nelle sementi del papavero, del ricino, della canapa, del fico, del
lino, della veccia, del granturco, ci sono le steapsine che sa- ponificano i
corpi grassi ed idratano. Nel latice della pianta a lacca del Giappone ed in
molti Funghi vi è la laccasi, fermento che provoca la ossidazione dei tessuti
ed agisce sui germogli e fu trovato anche nella Dahlia e nella Barbabietola.
Wiirtz trovò la papeina, fortissimo fermento in altre specie vegetali. Vedremo
negli Animali quante funzioni vengano attivate dai fermenti. I fenomeni vitali
aerobi, distruggono nelle piante, come negli animali, i grassi, gl'idrati di
carbonio, con lenta combustione, che riscalda alquanto le cellule. Da per tutto
dove si moltiplicano le cellule in- terne e si organizzano, vi è combustione e
riscal- damento, emettendo gas acido-carbonico ed acqua, precisamente come si
verifica in un animale. Le diverse funzioni interne delle piante che abbiamo
indicate sono dunque analoghe a quelle di certi animali inferiori (meno la
clorofilla o parte verde). Non siamo entrati nella Botanica descrittiva,
limitandoci ad investigare la Natura che si fa delle Piante, le cause intime
della loro formazione ed evoluzione. I Botanici si arrestano quasi sempre alla
Natura fatta delle Piante e trascurano la Natura che si fa. Questa invece
interessa altamente la Filosofìa della Natura, perchè presenta una serie
ricchissima di fatti, che ci convincono che la parte materiale dei Vegetali è
la persistenza ereditata dei movimenti funzionali che, molte volte ripetuti,
diventarono strutture ed organi. Dalla psiche del Proto- plasma, non già
dall'Inconscio Indistinto, né dal caso, uscirono tutte le funzioni : e tutte le
forme mirabili della vegetazione universale, le cui centinaia di migliaia di
specie abbelliscono la faccia della Terra. Tutto si è fatto dal di dentro al di
fuori, all'opposto di quanto insegna VArdigoismo. « E questo fia suggel ch'ogni
uomo sganni ». Origine psichica delle specie animali Ogni forza nella sua
intimità, lo abbiamo visto fin qui nella Natura inferiore, è sentire e volere:
sentire il contatto delle cose esteriori portate nella propria unità; e poi
volere l'allontanamento di ciò che fa male e l'avvicinamento di ciò che fa bene
: e giova a sviluppare la propria vita ed a renderla indipendente. Quindi ogni
forza organica ha la sua finalità, benché si manifesti come Materia. La Natura
che si fa era, ed è ancor sempre nelle specie vegetali ed animali sentire,
desiderare e volere. Il sentire precede il desiderio, il volere e il muoversi
lo seguono. Negli animali più che nelle piante si manifesta la causa evolvente,
cioè la tendenza di elevarsi a sensazioni più armoniche, ad unità più
complesse, operando e dominando in relazione. « Et mihi res, non me rebus
submittere amor ». Orazio. Nel processo chimico la distruzione provoca a
rimettersi; nel processo morfologico la Vita è la evoluzione a forma più alta,
e più sicura di dominare gli ostacoli. Se fosse un mero processo chimico di
combustione, si potrebbe mantenere la vita nei membri mutilati degli animali
superiori, di cui si può conservare per alcune ore la digestione, la
respirazione, la circolazione del sangue e la secrezione delle ghiandole. — 102
— La formazione lenta e perseverante degli Organismi per fuggire il dolore e
procurarsi il piacere è universale. Essa fa le funzioni e le consolida in
organi, dapprima deboli e semplici, poi, con l'esercizio, vieppiù complicati e
robusti. La funzione è la distribuzione della forza che un organismo oppone a
quanto inceppa il suo libero sviluppo, ossia lo sviluppo del piacere. Il
materialista crede che le Turbellarie non re- spirano, perchè prive di
branchie, che i Polipi non sentono, perchè non hanno nervi, che gli Insetti non
hanno circolazione perchè non hanno arterie, né vene; ossia credono che la
funzione dipenda dall'organo, il quale organo poi si sarebbe fatto miracolosamente
per virtù dell'ambiente. Invece secondo Schelling, Hartmann si sarebbe fatto
per virtù dell'Inconscio, Indistinto, Infinito, secondo Ardigò da tutti e due.
Ma il zoologo filosofo sa che le funzioni prive di organi si compiono meno
bene, ma si compiono : e che ci vuole molto tempo a fare gli or- gani. La vita
intensa non si manifesta se non quando le materie azotate si scompongono, per
ricomporsi con atti Unitari Morfologici, che ordi- nano le funzioni e formano
poco alla volta gli organi. Le correnti interne delle Monere fanno le prime
appendici e la contrattibilità: esse non hanno ah tro organo della volontà che
i così detti falsi piedi, formati dal loro protoplasma esterno viscoso : e
quando hanno finito di muoversi, li ritraggono nella massa comune. I cigli
permanenti principiano negli Actiniferi ed irradiano da un centro. Nelle specie
superiori degli Infiisorii (1) si riuniscono in una coda, detta flagello (anche
le spore delle Alghe verdi hanno cigli vibratili). Le larve dei Celenterati ne
sono coperte. Engelmann distinse i moti degli Amebi, che sono sarcodici o ad
appendici brevi, o fila- mentosi, dai moti oscillanti dei Bacteri. Gli animali
sono in generale assai più azotati delle piante; e quindi di composizione più
instabile, più facile ad adattarsi alle nuove circostanze e tendenti a
dominarle. La loro psicogenia fa la somagenia più presto che nei vegetali.
Dalla gelatina che è Valfa delle materie proteiche, essi arrivano in poco
volgere di tempo a far Valbumina che ne è Vomega. L'albumina, con 14 elementi
diversi, forma molecole composte di centinaia di Atomi, la cui struttura si
presta alle più diverse funzioni, grazie alle isomerie, per le quali (con
l'aumento di Atomi della medesima specie nella stessa molecola (polimerie)
oppure con la metameria (che lascia lo stesso numero di Atomi di ogni specie,
cangiandone soltanto la disposizione) si ottengono nuovi adattamenti
all'ambiente e nuove forze per svilupparsi (2). (1) Fin dal 1848 il prof.
Ehrenberg di Berlino scoprì 400 specie di Infusori microscopici che vivono in
diversi strati dell'atmosfera, ed altre centinaia se ne scopersero poi, di una
piccolezza tale da essere invisibili, nella pioggia, nella nebbia, nella neve,
nel mare, negli stagni. La vita ani- male pullula dapertutto dove vi è ossigeno,
anche in forme minutissime. Ci sono animaletti che si muovono con molta
alacrità, sanno evitare gli ostacoli che si oppongono al loro corso : i grossi
vanno a caccia dei piccoli. Se ne sviluppano molti nelle infusioni fredde o
macerazioni vegetali. (2) Queste materie proteiche vengono nei Laboratori delle
Università, cimentate con l'idrato di barite, con poco risul- tato, perchè
l'albumina morta non è più capace di nulla. La sintesi piacevole o dolorosa
guida l'animale a fare le funzioni più adatte, trovando mezzi migliori, e
respingendo, abbandonando i meno utili per nutrirsi, per respirare, per
muoversi e per riprodursi. L'organo deriva dalla funzione, la quale (come
dicevamo) si compie anche se gli organi sono di- fettosi o mancano del tutto,
benché allora si compia meno bene. Così distrutti i reni, l'urea viene estratta
dal sangue nella superficie mucosa dell' in- testino. Quando una funzione
comincia a localizzarsi, è sempre confidata ad un vecchio organo leggermente
modificato. La Natura che si fa, tende sopratutto a modificare opportunamente
la Morfologia. La formazione degli organi di relazione e so- pratutto degli
organi dei sensi, ci mostra che una continua crescente attenzione a determinati
scopi fu rivolta dai più semplici animali. Le successive accumulazioni di
energia e di abilità acquisita, benché piccole negl'individui, da- vano una
grande somma, dopo una lunga serie di generazioni, con la legge ben nota della
diminuzione del lavoro biologico generale a vantaggio di un organo particolare.
Furono certamente figurate con perseveranza le varie maniere di difesa che si
fecero animali di scarsa intelligenza. Quando un atto nuovo, per speciale
combinazione, è trovato utile, i più stu- pidi animali arrivano a farne una
funzione, e ri- petendola per varie generazioni in favorevoli cir- costanze un
organo efficace. Così i Bagni in ori- gine segregavano un liquido viscoso per
farsene bozzoli ; ma discendendo dalle frasche mentre il vento li gettava sui
rami prossimi, videro che ri- - 105 — tornando più volte al primo ramo ed
incrociando i fili, pigliavano mosche, finche impararono a far reti
geometriche, che all'aria si induriscono. Alcune Formiche, il Bombardiere,
alcuni Scarafaggi videro che getti e spruzzi loro servivano ad allontanare i
nemici e ne appresero l'arte. La Seppia imparò ad intorbidare le acque. Le
Torpedini del Mediterraneo, i Siluri del Nilo e del Senegal, il Gimnoto dell'
Orenoco ed altri Pesci, con apparati nervosi pieni di cellule prismatiche di
gelatina, si fecero delle batterie elettriche con le quali danno scosse
violenti a chi li insegue. In un Vademecum destinato alle persone colte in
generale, per far meglio intendere la multiforme attività della psiche, che va
facendo e moltiplicando ogni specie, ci sembrò utile di dare alcuni esempi
caratteristici. Se una divinità inconscia presiedesse alla evoluzione degli
organismi o se questi fossero fatti dalle forze incidenti dell'ambiente (che
YArdigò, seguendo lo Spencer, crede tanto influenti), non sarebbe vero il fatto
osservabile in tutti gli ani- mali e nell'uomo stesso, che le funzioni fatte
con coscienza e ripetute, rendono i moti più facili e più coordinati, omettendo
gli inutili, per insistere sugli utili, con teleologia sempre più
chiaroveggente, interna dell'animale e non esterna dell' Inconscio cosmologico
universale. Quando la funzione, ripetuta per alcune generazioni, ha formato
sarcodi, muscoli, nervi e moti riflessi, cessa il lavoro di convergenza che
atten- deva ad un determinato progresso morfologico : la coscienza se ne ritira,
dirigendosi a soddisfare nuovi bisogni; ma la coscienza e la convergenza
ritornano sopra quei punti, quando cambiano le — 106 — circostanze, e l'animale
tituba sul da farsi, e deve fare nuovi movimenti e quando impara un mestiere.
La convergenza assomma le Unità senzienti come un fiume assomma le acque di
tutta una valle. La convergenza della Natura che si fa, trova i moti migliori e
li combina. La Natura fatta delle cellule associate per fare i moti nuovi, dopo
averli imparati, li continua come una macchina, come i soldati, dopo aver
imparato l'esercizio dagli uffi- ciali, li continuano da se soli e li ripetono
centinaia di volte facilmente. E questo meccanismo si fa poco a poco, perchè,
con la semplice ripetizione di un movimento, l'ani- male, sente fortificarsi i
muscoli che contrae, le ossa sulle quali i muscoli si inseriscono, ed i centri
nervosi che li eccitano. Un animale superiore racchiude in se milioni di
sensazioni delle sue cellule dei suoi organi, che egli, nella sua vita conscia
generale, non avverte. Se le sentisse sarebbe confuso, come un generale
condannato ad udire i discorsi dei suoi gregari. La cenestesia o sentimento
comune, accentra le Unità organiche e fa la sensazione interna sintetica, che
^impone di esercitare o di trascurare le funzioni. È un tatto interno, che
sente la vita scorrere nei visceri, nelle membrane mucose, nelle ghiandole, nei
muscoli, nelle arterie, nei polmoni, nelle articolazioni, nei nervi: è, come
vedremo nel Capitolo XIV, la base dell'anima giacche ne fa i sentimenti, le
sensazioni, i ricordi e le voli- zioni : base psichica, che viene dalle singole
unità delle cellule e degli organi e non dall'ambiente, ne dall'Inconscio,
Infinito, Indistinto. L'eredità ci dà gli organi, senza che il neonato sappia
ancora farli funzionare : la coscienza degli antenati li ha fatti poco a poco,
ma facilmente l'animale diventando adulto impara ad usarli. La funzione va
presto nell'animale nato da poco, da se come un meccanismo : senza nuove
aggiunte: finché non cambino le circostanze e non sorgano ostacoli impreveduti.
Per modificare le funzioni ci vuole la coscienza, l'attenzione, la Natura che
si fa, la sìntesi chiaroveggente, gaudente o sofferente. Essa per fare dei
cambiamenti minimi esige un grande lavoro, come osserva il Pouchet, mentre il
lavoro della psiche inconscia, passiva, che va come un meccanismo, ossia della
Natura fatta, non spende energia visibile, perchè si fa per con- vergenze
particolari, minute e locali, senza cercare nuove combinazioni. I vantaggi
acquisiti da poco tempo, si perdono, se non sono conservati e rafforzati
coll'esercizio, e se la Volontà li abbandona, gli organi si atrofizzano. La
selezione fatale per la sopravivenza dei più adatti a vivere in un determinato
ambiente (the sunnvance of the fittest) propugnata da Carlo Darwin esigerebbe
molti più milioni di anni di quelli che attesta la stratificazione dei
sedimenti geologici. Quindi bisogna con Naegeli dare molto maggiore importanza
alle cause intime, alla Unità noumenica, ossia non fenomenica, la quale
sentendo, desiderando, volendo, cambia le funzioni e le perfeziona. Romanes ha
mostrato che VAmore ha separato le specie animali, perchè, fra certe famiglie
si stringevano alleanze, che escludevano gli altri, e — 108 — le isolava;
cosicché alla fine, le nozze con altre famiglie restavano sterili. Infatti la
prima cura degli allevatori è eli impedire l' incrociamento delle nuove varietà
coi vecchi tipi. — La figurazione amorosa, separando ed isolando, fece e fa le
specie nuove. La umana imaginazione è una piccola parte delle combinazioni di
imagini e di sen- sazioni che ebbero gli Animali, e sopratutto di quelle
relative al miglioramento delle proprie condizioni e dei propri organi ed alle
scelte sessuali. Sembra che le modificazioni degli animali su- periori sieno
avvenute bruscamente, nell'ovario o nella prima fase dell'embrione, quando
erano state lungamente richieste dalle circostanze e vi- vamente figurate e
bramate dai genitori. L' imaginazione della madre ha la più grande influenza
sull'Embrione, non soltanto nel concepirlo, ma anche quando si va svolgendo nel
ventre, come lo provano tanti fatti di cui alcuni ne ci- teremo in seguito
(molti somigliano a mostruosità). Ohi guarda le miriadi di specie minute resta
meravigliato di vedere come siensi fornite di organi così diversi, così
opportuni per la vita, nelle fo- reste, sui monti, sul mare, sulle acque dolci,
correnti o stagnanti. Gli Insetti che volano hanno valvole pulsanti sparse in
tutto il corpo e perfino nelle zampe, ed un intricato sistema di vasi e di
tubetti secretori che fanno sughi gastrici e in al- cune specie (numerosissime
sulle rive del fiume Orenoco in America) veleni per i nemici. GÌ' Insetti hanno
foggiate le membra loro a mille usi per afferrare o masticare i cibi, per
succhiare od incidere le piante e le carni (mandibole, palpi labiali, proboscidi,
trombe, lancette). Alcune specie, come VElater tropicale e le nostre Lucciole,
sono fosforescenti e la fosforescenza è dominata dalla loro volontà. Il verme
di acqua dolce fa le branchie dalla pelle; il Crostaceo phyllopodo le fa dalle
zampe. Nel Gambero gli anelli sono assai diversi : gli uni portano antenne, i
seguenti mascelle, zampe e l'addome. E tra le zampe, ve ne sono di ambulanti,
di prensili, di respiranti e di natanti. Tutti conoscono molte specie di
Molluschi, le quali si fecero un mantello, emettendo, a lamine di carbonato di
calce, una Conchiglia del colore del mantello, piccola casa portatile. Così gli
Uccelli fanno le uova con guscio calcare. In generale le parti mediane cambiano
difficil- mente. Invece le estremità vennero adattate fa- cilmente in tutta la
Fauna ai nuovi bisogni, quando duravano per varie generazioni. Il graduale
innalzarsi (con sentimento, desiderio e volontà) delle specie animali, fu
studiato da C. Darwin e da Haeckel e tenteremo di darne le linee principali
(per quanto si può in un paio di pagine), onde mostrare l'efficacia delle leggi
generali di evoluzione sopra esposte. Haeckel, con mente scrutatrice e geniale
ha li- brato i fenomeni della Embriologia e le testimonianze della
Paleontologia, dando un quadro approssimativo della generale evoluzione
morfologica dalle prime colonie di cellule. Dai Polipi idroidi derivano le
Meduse e stac- candosi, formando la testa, gli Anellidi. Gli Articolati
(Anellidi, Miriapodi, Insetti, Ragni e Crostacei) saldarono i loro muscoli ai
tegumenti esteriori, che in principio erano semplici indurimenti della pelle e
poi si coprirono di chitina. — 110 — Come dagli Articolati venissero i
Molluschi non è deciso, vi sono due spiegazioni. (Vedi Capitolo XIII). Dai
Molluschi si staccarono i Tunicati, animali assai piccoli, per la tunica a
sacco, nella quale chiusero le branchie, gl'intestini, il cuore, ed i vasi
sanguigni (Ascidìe, Bifore, .Pirosome, ecc. a generazione alternante. Si crede
che dai Tunicati, per mezzo dei Cordati e dello Amphioxus (che non ha ancora
cervello) sieno derivati i primi Pesci, alcune specie dei quali sono prive di
ossa ed hanno soltanto cartilagini ancora oggidì. Tutti i Pesci hanno un cuore,
che corrisponde alla metà del nostro, e sangue freddo: tutti hanno molte dita
per nuotare. Se ne staccarono i Dispneusti, nel periodo Devoniano, i quali
resero la loro vescica natatoria capace di funzionare come polmoni, entrando
per molte ore al giorno nelle foreste prossime al mare. Per cacciare animaletti
vivi i Dispneusti ridussero a poche le dita e le accorciarono. Dai Dispneusti
provennero gli Amfibi, i quali nascendo respirano ancora con le branchie, ma
nella età adulta respirano coi soli polmoni, abituandosi a vivere sulla terra.
Essi ridussero a 5 sole le dita di ogni membro e queste rimasero poi 5 in tutti
i Vertebrati, compreso YUomo. Le Rane inghiottiscono l'aria per la bocca.
Perdendo affatto la respirazione bronchiale, complicando il cuore, ed
acquistando quella membrana detta Amnio che riveste il feto e li fece chiamare
Amnioti, si formarono dai più elevati Amfibi gli Stegocefali, che divennero
padri dei Rettili. Come le più energiche forze plutoniche erano necessarie per
dare origine ai basalti ed alle altre Ili roccie ignee della prima scorza
terrestre, così le forze organiche più energiche erano necessarie a dare i
primi abbozzi della Flora e della Fauna. E le Unità intime confrontanti in
tanto carbonio e calore, come ne avevano i mari nell'epoca Primaria o
Secondaria, dovevano aver maggiore facilità di oggi nel cambiare e scegliere le
forme fondamentali. Perciò si trovano fino dalla Età Mesozoica i tipi
fondamentali delle varie specie già pronunciati. Nel periodo Siluriano, ossia
nell'Epoca Arcaica (subito dopo il Cambrico), vi erano già Molluschi superiori
ed anche Pesci. 1 Pesci Ganoidi del Si- luriano avevano un sistema nervoso
dorsale, di molto superiore a quello radiato o bilaterale o centrale dei
Molluschi. Questo ci prova che, fino dall'origine, vi erano diversi tipi
fondamentali e che non è vera la Evoluzione sopra una sola linea. Nel periodo
Cambrico, vi erano già Crostacei di forme gigantesche. Dal Cambrico al
Devoniano, abbondarono le Trilobiti (1), che sembrano essere stati i primi
Crostacei, tanto numerosi da formare coi loro scheletri dei depositi
estesissimi, ma estinte dopo il periodo Devoniano. Si moltiplicarono gli Amfibi
e i Rettili. Alla fine di questo periodo si alzarono le piante terrestri e
formarono grandi foreste che crebbero poi nel periodo Carbonifero. Nel
Devoniano erano Felci arboree colossali, Si- gillane e Lepidodentri) tutte
Crittogame, mentre nelle acque si moltiplicarono i Molluschi, i Cro- (1) H. E.
Ziegler : «Die Descendenz Theorie in der Zoologie », 1902, Iena. -Piate: « Das
Darwinistische Prinzip der Selection», 1905, Lipsia. — 112 — stacci, i Zoofiti,
i Pesci. Parecchi degli Amfibi e dei Rettili raggiunsero dimensioni assai
notevoli. Alcuni Lepidodentri erano alti 30 metri e il loro tronco
aveva un diametro di 3 a 4 metri, che si trovano spesso nei sedimenti di
quel periodo. Le Sigillarle erano anche più alte, fino a 40 metri, con tronchi
enormi e cicatrici alla base delle loro lunghe e durissime foglie; bastino
questi esempi per mostrare in quale magnifica vegetazione si movessero quei
grossi e feroci Vertebrati. Dal Trias al periodo Permiano, Amfibi e Rettili
divennero padroni delle terre boscose e delle ac- que dolci. Il sangue restava
freddo, e si mescolava nel cuore, il venoso con lo arterioso, senza passare per
i polmoni. I più grossi furono gli Ictiosauri, carnivori per lo più, a lingua
secca, con pochissimo senso del gusto. Nel periodo Cretaceo, dalle Lucertole
derivarono i Fisomorfi e gli Ofidi o Serpenti, perdendo per inerzia ed atrofìa
le membra, e facendosi ad ogni vertebra una costola, perchè vivevano sempre
sdraiati e si limitavano a poltrire e strisciare (1) nel fango e fra le alte
erbe. Gli Amfibi antichi erano coperti di squame, mentre i viventi sono ignudi
avendo degenerato. Invece i Rettili antichi erano nudi, per lo più, e i viventi
arrivarono ad agguerrirsi con squame e con corazze. (1) L'apparato velenoso
delle Serpi sta nelle ghiandole salivari, che in parte secernono materia gialla
velenosa, che passa poi per i denti forati superiori, mentre la bestia afferra
la vittima ( Vipera, Aspide, Sonagli, Crotalo o Tri- gonocefalo, Najadi). Dai
Rettili ai staccarono i Draghi, piccole lucertole che rivolsero una parte delle
costole a destra e a sinistra per sostenere due prolungamenti della pelle che,
senza permettere loro di volare, gio- vavano però a sostenerli come paracadute
nel sal- tare da un albero ad un altro lontano alcuni metri. Essi non stanno
quasi mai per terra, ma vi- vono sulle cime degli alberi o si gettano nelle
acque in cui nuotano con grande facilità, per prendere gl'insetti che mangiano.
Ve ne sono molte specie ancor oggi nell'India orientale e nelle Isole della
Sonda. Furono questi i primi Rettili che riuscirono a rendere caldo il loro
sangue. Pare che anche i Dinosauri ed i Plesiosauri avessero il sangue caldo ;
essi vivevano nell'acqua ed erano provvisti di grossa coda, di natatoie
potenti, avevano un collo serpentino assai lungo, per lanciare la testa sopra
le prede, e sbranarle coi loro formidabili denti. Formati nel periodo Giurese
si estinsero nell'Epoca Terziaria. Erano lunghi da 4 a 6 metri. Fra le specie
affini ai Draghi e ai Dinosauri o Plesiosauri ve ne furono al principio
dell'Epoca Terziaria di quelle più piccole, che diedero ori- gine agli Uccelli,
diventando bipedi. A quelli che si appoggiavano sulle gambe di dietro, si
allargarono le membra anteriori, che si coprirono di piume, per far salti e
volate ed in- nalzarsi sulle Piante. Il passaggio dai Rettili agli Uccelli si
vede nel periodo Giurese nello Hesperornis senza ali, che viveva nell'acqua e
mangiava pesce, nello Ictyomis della Creta Americana e nell: "
Archaeopterix di Germania: tutti avevano denti e coda da Rettili. An- oor oggi
gli embrioni degli Uccelli sembrano Rettili, come le Rane neonate paiono Pesci.
Nei Pesci come nei Rettili e così negli Uccelli il cervello manca di
circonvoluzioni. Manca pure ad essi la vescica, e l'orina sbocca in un
prolungamento del retto, detto cloaca. I polmoni degli Uccelli continuano in
tutto il corpo, con le cel- lule membranose, perfino nelle ossa, per il grande
esercizio della respirazione che fanno volando. Lo sterno è grande e solido,
dovendo sostenere le ali. Per cercare sementi ed Insetti o Vermi ridussero la
faccia a due mascelle, formando il becco, ren- dendo così impossibile la
masticazione; per cui in pari tempo modificarono l'apparato digestivo,
incominciando a digerire nel ventricolo succenturiato, per continuare poi nel
ventriglio, dove si forma il chilo. Neil' Epoca Terziaria le specie degli
Uccelli si moltiplicarono assai ed arrivarono a proporzioni enormi. Alcune di
queste poco o nulla volavano come YEpyornis del Madagascar, oggi estinto, che
era alto 4 metri, i Dinorni della Nuova Zelanda alti 2 metri e mezzo, lo
Struzzo dell'Africa e dell' India, alto anche più e più grosso, ma che non vola
più e corre fornito di cosce grosse come quelle di un uomo, colle sue gambe
alte 130 cent, più del cavallo. Vive in truppe e mangia erbe; oggi si alleva
con profìtto. Gli sono omologhi ed analoghi, ina un po' meno alti, il Casoar
nell'isole della Sonda, lo Emù dell'Australia, il Nandù del- l'Argentina. Gli
uccelli rapaci non raggiunsero mai quelle dimensioni: VAquila dell'Europa e
dell'Asia, il Condor delle Ande non superano quasi mai il metro in lunghezza. Essi
rappresentano nell'aria quella caccia fe- roce che è stata continua sulla terra
e nell'acqua, caccia clie si esercita sempre contro altre specie. Fra i membri
di una famiglia, fra quelli di una società animale, regnano l'amore o
l'amicizia, e vi sono esempi numerosi di abnegazione e di sacrificio. Il numero
delle specie di animali che vivono di erbe supera quello delle specie che
vivono di carni, come il numero delle tribù selvaggie pacifiche, supera quello
dei selvaggi feroci, e quello degli uomini civili e laboriosi supera quello dei
delinquenti. E bisogna guardare all' origine dell' egoismo feroce. Come nella
Fisica e nella Chimica le forze fondamentali ed universali sono le attrattive,
e sol- tanto quando l'armonia e l'esistenza è minacciata sorgono le ripulsioni,
così, quando le specie animali imparano a far caccia e guerra, è per lo più
quando sono minacciate nel pacifico possesso dei loro mezzi di vivere, quando
non trovano da sfa- marsi (1). I primi Mammiferi furono i Sauro-mammoli ed i
Monotremi nel Trias e ne vennero 3400 specie, (1) Gli animali domestici ben
trattati restano come fanciulli affezionati, mentre quelli maltrattati perdono
la natura pacifica ereditata. All'opposto gli animali di specie feroce sono più
o meno adatti a diventare domestici. Così si fa con gli orsi nelle locande del
gran Parco Nazionale del Yellowstone negli Stati Uniti, così si fa con gli
alligatori ed i coccodrilli negli Stati meridionali di quella grande
Repubblica, i quali ornai nel Mississipi si allevano per venderli come carne da
macello. delle quali metà sono già estinte. Il periodo glaciale le obbligò a
surrogare alle squame i peli, mandando molto sangue alla pelle a formarvi le
ghiandole pilifere per ripararsi dal freddo; così si fecero anche le lane delle
pecore. Meno gli Equidi e le Antilopi, che impararono a correre più veloci, gli
Ungulati, che tanto si erano moltiplicati, furono tutti mangiati dai Carnivori,
derivati nel periodo Eocene dai Marsupiali, Laddove la persecuzione dei
carnivori era più minacciosa, i Cetacei, che erano e sono ancora Mammiferi
{Balene, Delfini) ed i Pinnipedi (Foche) si salvarono nel mare, lasciando
inerti le membra posteriori, svilupparono in natatoie le membra anteriori ;
ingrossarono la musculatura della coda ed impararono ad allargare sempre più la
bocca, per ingoiare molti pesciolini ad una volta. Invece sui grassi pascoli
del Miocene e del Plio- cene dove i Carnivori non penetravano, i Ruminanti,
riposando quando erano satolli, digerendo lentamente, si fecero quattro
stomachi, risalendo i cibi dal pansé nella bocca per essere macinati, e tornare
poi nel secondo stomaco {cuffia) e nel terzo (centopelli) e passare finalmente
nel caglio che termina la digestione. I più grossi Mammiferi furono i Mammuti
della Russia. Per prendere i cibi nelle paludi, per bere, per sollevare
qualsiasi piccolo oggetto, gli Elefanti prolungarono il naso in proboscide,
onde restare comodamente piantati sulle grossissime gambe poco pieghevoli. Per
scavar la terra le Talpe cambiarono le zampe anteriori in uncini e zappe ; per
mangiare le foglie più alte delle Palme le Giraffe allungarono molto — 117 — il
collo ; per nutrirsi di mosche e di farfalle not- turne il Pipistrello distese
sopra le membra anteriori un mantello, facendo crescere sulle 5 dita assai
lunghe una membrana che serve come di ali; ed anche il Pesce Dattilottero
allargò le natatoie del petto e le allungò in ali. Per difendersi, i Ruminanti
si fecero spuntare sulla testa le corna ; per arrampicarsi sugli alberi le
Scimmie cambiarono le zampe in mani; per armarsi di sassi e di bastoni con le
mani alcune di esse si abituarono a stare dritte sulle membra posteriori e ne
vennero i nostri piedi, e quell'af- flusso di sangue al cervello durante la
gestazione del feto, che aumentò l'intelligenza. Studiando le differenze fra
Scimmie ed Uomini il prof. Keit trovò che 312 caratteri morfologici sono propri
di questi ; 186 sono comuni all'Uomo ed al Gibbone, 272 all'Orangutano, 385 al
Gorilla e 396 allo Scimpanzè. Selenica mostrò che la embriogenià umana somiglia
moltissimo a quella di queste specie. Certo è che l'embrione nostro diventa
successivamente in nove mesi : Monerula, Morula, Blastosfera, Gastrula,
Cordoniano, Acranio, Ictioide, Àmnioto, Mammifero placentato e Primate, giacche
la Ontogenia o evoluzione dell'individuo è un raccorciamento della Filogenia o
evoluzione della specie. Il posto relativo delle parti negli animali di un
medesimo tipo non cambia mai ; benché se ne foggino stromenti tanto diversi
(come ne abbiamo indicati parecchi) a seconda della loro volontà. Bisogna ben
distinguere la Omologia o somiglianza delle forme, dalla Analogia o somiglianza
delle funzioni, giacche la modificazione degli organi — 118 — per farli servire
a funzioni nuove è stata assai frequente in tutti i tipi. Vi sono specie
fluttuanti per i molti incroci (cani, sorci, uomini ecc.). Il sentire-volere ha
fatto tutte le specie estinte o viventi, compendiando le anteriori. Quindi con
perseverante volontà l'uomo può perfezionare il sistema nervoso, il cervello
sopratutto, il sistema vasomotore, il muscolare, il cuore, i polmoni. Tutte le
volte che i figli tendono al medesimo scopo dei genitori, rinforzano la Natura
che si fa e perfezionano il corpo, facendo ereditare capacità fisiche ed
intellettuali migliori. Vi sono famiglie di atleti, di Boxers, di ballerine, e
famiglie di pittori, di musici e di scienziati. La Civiltà è una gara continua
nel far atten- zione a nuovi oggetti, un eccitamento perenne ad osservare, a
pensare, e quindi a sviluppare gli strati corticali del cerebro. L' Inconscio è
sempre un risultato della perse- veranza del Conscio nell'attivare nuove
funzioni. Ne abbiamo addotte in prova centinaia di fatti, mentre nessun fatto
può addursi per dimostrare che dall' Inconscio esca il Conscio. Ex nihilo
nihil. Ciò nullameno Schelling nel 1799 diede all'In- conscio la parte di fare
l'Ordine nel mondo, ed Ardigò lo riprodusse. « Die Materie ist erstarrte
Intelligenz, disse Schelling, la materia è pensiero congelato » . Ed Ardigò
Voi. IV, p. 269 « Il contenuto di ciò che si dice Materia, non è altro che lo
stesso Pensiero del quale è una forma » . «L'Infinito inconscio fa l'Ordine nel
mondo» disse Schelling. Ed Ardigò lo riprodusse, II, 235. « La Unità ordinatrice dello Indistinto
assoluto fa la Natura » , p. 247. « Tutto risulta da urti : lavoro meccanico :
ma in fondo vi è una razionalità sapientissima » , p. 249. « L' Indistinto
Universale, per cui tutto è uno, è la causa dell'ordine » , p. 250. « L'ordine
nel caso, e il caso nell'ordine : ecco la ragione della distinzione o
formazione naturale », p. 129. «Lo Indistinto è Infinito, ed è l'ambiente che
sta sotto ad ogni distinto » , p. 183. E Ardigò conchiude che 1' Indistinto
assoluto esclu- de il sopranaturale. E fa alcune osservazioni al padre Secchi,
cercando di provare che la Natura è infinita e che l'Ordine viene da questa
Infinità. Però noi abbiamo dimostrato nei primi Capitoli di questo Libro che
l'Infinito non è mai una realtà, che non vi può essere materia continua, che il
mondo non può essere infinito. Dalla falsa premessa che il mondo è infinito,
non si può tirar fuori l'ordine; e dal cambiare il sopra naturale in sotto
naturale non si può tirar fuori nulla, perchè l'effetto è lo stesso, che venga
dal di sotto o dal di sopra, V Indistinto è la causa dell'ordine. Però VArdigò
si contradice volendo parere positivista. Ed a tal uopo scrive, p. 249 : « La
Intelligenza viene dopo e non prima dell'ordine e ne è un effetto » . I suoi
discepoli poi ripetono sempre questa seconda parte, e non la prima
schellinghiana, del loro maestro : Marchesini ( « Vita e pensiero di Ardigò » ,
1907, p. 338), scrive : «L'umano pensiero si è formato per la continuazione di
accidentalità infinite, succedentesi ed aggiuntesi a caso, le une alle altre »
. E a pag. 259 ci dà questa bella genesi degli Uccelli : « La specie della
Gallina è un apparato — 120 — « fisiologico riuscito, per aggiunte e
modificazioni « casuali, occasionate dalle azioni e reazioni del- « Vambiente »
. Qui dunque lo Indistinto Inconscio, razionalità sapientissima, non fa più
nulla: è il caso, è l'ac- cidente che fa tutto. E il ritmo che è la semplice
ripetizione di un moto ad intervalli eguali, viene ad aiutare il caso. L'
Indistinto a che cosa è ridotto ? Si vuol ne- gare che venga da Schelling, da
Hegel, da Hart- mann. Si vuol tirarlo fuori dal nostro sentire: « Potendo
invertire le sensazioni che fanno il Me « da quelle del Mondo o Non Me, dice il
Mar- « chesini (pag. 308 a 312) si scopre che la sen- « sazione in se stessa è
indifferente ad essere « oggetto o soggetto, ed abbiamo così lo Indi- « stinto sottostante
ad ogni distinto. Indistinto po- « sitivo trovato per induzione. « Via i
misteri della divinità, avanti la conti- « nuità funzionale della Natura
infinita, che si « manifesta come Materia, come Spirito. La espone rienza della
nostra sensazione ci dà il sottostante « indistinto » . È questo il Positivismo
radicale delVArdigò. È facile osservare che questo sforzo di far apparire come
Positivo lo Indistinto Inconscio è impotente, perchè nessuno ha mai avuto una
sensazione che sia sensazione di nulla, vuota ed indistinta, indifferentemente
Oggetto o Soggetto : nessuno invertisce il proprio Io nelle cose o le cose nel
proprio Io. Ne Ardigò, ne alcun suo discepolo ha mai ten- tato di spiegare
l'ordine e la formazione delle specie vegetali ed animali, fuorché con trovate
come quella della gallina or menzionata. La me- schinità dell' Ardigoismo si
vede dai suoi frutti. L'oscillare continuo fra il Positivismo e l'Indistinto
Infinito ha costretto VArdigò a continue contraddizioni ed oscurità. La verità
è che la Natura che si fa, più o meno conscia e libera, ha fatto nella lunga
evoluzione le varie specie animali, organizzando la psiche inconscia o passiva
Natura fatta che va per necessità come un Meccanismo. Non andiamo a cercare la
causa delle varie specie animali nelle stelle, nelle nebulose, nello ambiente
infinito di Ardigò, nel caso e simili; siamo un po' più modesti e positivi, e
cerchiamola in quella Unità intima che ha fatto le cellule ed i primi viventi,
e che sentiamo capace di modificarci e di svilupparci ancora. Questo è il vero
Positivismo armonico, pitagorico, Italico (1). CAPITOLO IX. Come la psiche fa
la vita interna sana Fa sorridere il vedere Marchesini (nella sua- « Crisi del
positivismo » ) stentar tanto a far venir fuori la sensazione dai corpi
inorganici e il pensiero dagli animali, mentre Ardigò d'accordo con (1) Non è
una divinità inconsapevole, inconscia, che rivolge l'attenzione a determinati
scopi al disopra o al disotto degli animali lasciandoli inerti materie, che si
muovano senza sapere perchè. Ma sono gli animali stessi che senza aspettare il
caso, come la gallina sopralodata, desiderano ed ottengono col perseverare il
proprio sviluppo. lo Schelling (nel Voi. IV sul compito della filo- sofia)
scriveva che la Materia è una forma del Pensiero: e negli altri Volumi insistè
sulla unità del Pensiero con la Materia. Per quanto cerchi di far prevalere
nelle dot- trine contradittorie del suo maestro la parte positivista sulla
parte schellinghiana panteista, pure egli è costretto a dire, p. 250:
«L'Indistinto è « la nebulosa verso il sistema solare, è l' Embrione rispetto
all'animale adulto. 253: L'In- « distinto è la realtà unica fondamentale della
« Unità e molteplicità della Natura. 254 : la realtà «della psiche e della
materia insieme. 260: L'or- « dine si spiega per le due leggi dell' Indistinto
« e del ritmo. Per l'Indistinto ogni accidentalità « è subordinata all'ordine
universale. Per il ritmo « vi è ordine e numero (tautologia). 296 : A sostrato
« dei due mondi psichico e fisico sta l'Indistinto psi- « cofisico che ne è la
ragione esplicativa (mentre « Ardigò diceva che l' Indistinto non si può spie-
« gare, perchè spiegare vuol dire distinguere e « questo è l'art. 6 del suo
Catechismo). 331 : Il « che cosa sia non si rivela che sentendolo e si «
risolve nel Divenire che è VEssenza dell'Essere « (frase presa da Hegel). E il
divenire è per noi « ed in noi necessariamente sensazione » . Marchesini non ha
capito che, se il divenire è sensazione per noi, lo sarà anche per gli animali,
le piante, le cellule e le molecole. Quando Ardigò fu accusato di aver preso il
suo Indistinto dall'Omogeneo dello Spencer ebbe facile la risposta. — Io non
l'ho preso (come Spencer) dalla fisiologia, ma l' ho preso dal ^pensiero
filosofico, e poteva aggiungere tedesco. E in- fatti il Panteismo di Schelling
ed egli non ha — 123 — mai negato di averlo preso dalla Germania: fu sempre
studioso assai della filosofia tedesca, citò nella Psicologia molti autori
tedeschi, per cento pagine, e quando fu accusato di essere Metafìsico, si
schermì evasivamente (come diremo nel nostro III Volume). Se prendiamo V
Indistinto deìYArdigò non verniciato di Positivismo,. non mascherato dal manto
di pontefice dell'Ateismo Italiano, vedremo che è una nebbia panteistica, che
(a quanto egli dice) contiene in sé la ragione della differenziazione e della
continuità fra i differenziati. Infatti il suo discepolo G. Marchesini sostiene
che la gran legge di formazione delle cose è questa: che una linea si suddivida
in punti infiniti (pag. 115). Certo la linea è continua e contiene in se i
punti. Ed è tutto. Questa è la sua gran spiegazione. Chi non se ne contenta,
non ha capito come si sono fatte le piante, le bestie, gli uomini e pretende
troppo dall'Ardigoismo. Ora questo Indistinto nebuloso e vago non ha fatto,
secondo noi, veramente niente. Tutto era preciso e numerato fin dalle prime
nebulose e dall'Etere. Quelle che hanno fatto l'ordine della flora e della
fauna sono le Unità viventi, distin- tissime e precisissime della Natura che si
fa, che cerca di aumentare la sensazione piacevole e di evitare la dolorosa,
formando le più utili funzioni (e con la loro ripetizione, gli organi), della
di- gestione, della respirazione, della sanguificazione o Ematosi,
dell'assimilazione, della generazione. Per poco che noi penetriamo nella genesi
della vita interna, potremo ben convincerci, sulla base dei fatti. Digerire
vuol dire scomporre, macerare, idroliz- zare le materie ingerite e poi
combinarle con le proprie sostanze. Arthus (Nature des Enzymes, 1896) suppone
che i fermenti sieno sostanze non materiali, formate dalla Unità generale
dell'organismo. Nei Protozoi comincia a separarsi la funzione digestiva dalla
motrice. Nei Celenterati si può già distinguere 1' Entoderma che modificando
gli ali- menti accumula energia, dall' Ectoderma che fa tentacoli. Gl'Infusori
hanno bocca, faringe e ca- vità digestiva protoplasmica. Ma nei Polizoari
YEntoderma diventa un canale alimentare, che si divide in esofago, stomaco ed
intestino. Nelle Ascidie il sugo nutriente si separa dalle feci. In principio
il fegato, il pancreas, sono semplici cellule escrementizie biliari: poi si
riuniscono in sacchetti con piccoli canali ramificati. A misura che
l'assimilazione si afferma, vengono segregandosi gli Enzimi o succhi digerenti
come nelle Salpe. Le ghiandole segreganti crescono negli Aneh lidi (1), negli
Echinodermi, negli Artropodi, e nei Molluschi: questi ultimi hanno un vero
fegato. I Crostacei si sono già formato un fegato di cellule peptiche ed
epatiche. In tutte le cellule delle ghiandole, che ricevono dalla unità
generale dell' organismo la funzione di secernere, si compie un delicato lavoro
di scelte feconde, e finiscono alcuni nervettini (i quali provengono negli
animali superiori, sia dal gran simpatico, sia dal sistema cerebro-spinale).
(1) Meno nella Tenia ed in altri parassiti. Il corpo della Tenia riceve
dapertutto gli alimenti, senza farsi un apparato circolatorio, ne digestivo.
Tutte le sue cellule si nutrono e respirano. Sono questi nervettini che
dirigono la funzione speciale del secernere. E non hanno bisogno di essere
animati dallo Inconscio di Schelling e di Hartmann ne dallo Infinito
sottonaturale che, se- condo Ardigò, è la causa dell'ordine. Il parenchima (o
epitelio ghiandolare) attrae dapprima dal sangue l' acqua ed i principi in essa
disciolti : la ghiandola, che era pallida, si ar- rossa, e si riscalda,
elaborando sotto l'azione del sentire - desiderare - volere, mediante i
nervettini, il suo secreto, traendo dal sangue, che filtra at- traverso ai capillari
ed ai tubi porosi, la sostanza specifica. Le ghiandole sono i chimici o
farmacisti del collettivismo organico. Il tessuto retico- lare delle ghiandole
è privo di fibre. Mettendo della pepsina e dell'acido lattico con- tenuto nel
sugo gastrigo in un bicchiere, si può fare una digestione artificiale. Ma non
si può nei laboratori chimici far nascere il sugo gastrico. Per farlo è
necessaria la sintesi organica, non fatta per accidente ad uso Marchesini, ma
per godere la vita. Tutte le secrezioni sono finaliste, tutte si compiono per
atto unitario sintetico, così quella del sugo gastrigo, come quella della
saliva, della bile, della milza, o dei reni. E una finalità fatta poco alla
volta, non venuta giù dall'Indistinto Infinito di Ardigò, provando e riprovando,
insistendo sulle sensazioni piacevoli ed evitando quelle che dispiacciono. Per
eredità della specie la digestione si fa anche nell'embrione, che non è ancora
provvisto di nervi. Negli animali superiori la digestione rende i cibi capaci
di essere assorbiti dalla mucosa inte- stinale ed assimilati nel sangue e nei
tessuti. — 126 — Gli animali, mangiando vegetali, ne desumono Carbonio, Azoto,
Solfo, Idrogeno, Ossigeno, che sono pronti nelle albumine e nei grassi. Se gii
animali dovessero prendersi l'azoto ed il zolfo fuori delle albumine vegetali,
morirebbero : perchè essi non possono cavarli dalla terra, ne dall'aria, come
fanno le piante. La maggiore vitalità e mobilità ottenuta dagli animali,
dipende non già dall'Indistinto della teo- logia germanica o dell'Ardigoismo,
ma dalla facilità di alimentarsi mangiando i vegetali, perchè le Unità
senzienti formano più presto e più gagliarda la unità organica dell'Animale. Il
riassorbimento del chilo nell' intestino, è fatto dalle cellule epiteliali (che
tappezzano la parete interna dell'intestino) che assumono il cibo per
contrazione attiva, come fanno gli Amebi ed i Rizopodi. Una parte più vitale
l'hanno le cellule linfatiche, le quali emigrano dal tessuto adenoide, vanno
fra le cellule epiteliali fino alla superficie dell'intestino, per ghermire le
gocciole di grasso, e non lasciano passare veleni. Va notato che le sostanze
alimentari solubili nell' acqua, non scendono mai dall' intestino al cuore per
il condotto toracico, ma per la vena porta e per il fegato (che le assimila
prima che entrino nel sangue). Le cellule linfatiche assu- mono sole il peptone
disciolto nell'acqua. Le sostanze velenose ingoiate si fermano tutte nella
bile. La linfa empie gli interstizi fra i tessuti ed i vasi linfatici ed è un
complesso di trasudati non utilizzati, composto di plasma liquido e di
corpuscoli, granuli o globuletti bianchi (circa 8.000 per millimetro cubico), e
goccie di grasso. Quando ar- rivano nel sangue questi globuletti, diventano
globuli bianchi (più grossi), e poi rossi. Nella linfa vi sono già gli elementi
chimici del sangue (acqua, siero, albumina, fibrina, grassi, e specialmente 1'
acido butirico, cholesterina, glucosio, leucina, urea, sali, carbonati e
fosfati). Ma la linfa (che aumenta sempre durante la digestione), si coagula
più lentamente del sangue ed è meno alcalina. Contraendosi ritmicamente il
cuore, il sangue inturgidisce le arterie formando il polso. I globuli rossi
trasfusi in animali di altra specie si combattono e si uccidono a vicenda, non
già perchè abbiano una diversa composizione chimica, ina perchè è diversa la
loro sintesi, ossia l'impulso loro dato dalla Unità generale organica, il che
prova ad un tempo la individualità dei globuli rossi, e la psiche passiva loro
imposta dall'Unità generale (1). Le unità dei globuli rossi debbono adunque es-
sere formate da elementi morfologici vitalissimi. Sono clorotici coloro, i cui
globuli rossi sono piccoli (una metà od un terzo del giusto), hanno cuore
piccolo e vasi troppo stretti. — Nelle morti apparenti, il sangue non è morto.
Se si fa entrare per due terzi nelle carni un ago pulito, dopo un'ora, se il
sangue vive, l'ago si può ritirare an- cora pulito : ma se il sangue è morto,
l'ago sarà arrugginito. — L'asfissia uccide i globuli rossi e (1) Va notato che
(come provarono Friedental ed altri), il sangue di un uomo si può mescolare
senza recare grave danno alla salute col sangue dello scimpanzè e viceversa,
mentre non sopporta la mescolanza con altre specie ani- mali, locchè prova una
certa consanguineità fra questo troglodite dell'Africa e l'uomo. — 128 —
l'ossido di carbonio uccide la emoglobina del san- gue ed i tessuti. La
formazione del cuore non si spiega senza sintesi morfologica dell 1 Unità
confrontante perchè nessuna persistenza della forza può formare ventricoli ed
orecchiette, arterie e vene contemporaneamente. Ci vogliono figurazioni e moti
sintetici mirabilmente accordati in tutta la lenta formazione della specie, che
viene accorciata nel feto. Così la formazione del cuore insegna quanto sia
falso at- tribuire l'evoluzione alle forze esterne, come fanno il Positivismo e
\Ardigoismo. Bisogna penetrare nella intima compagine degli Organismi animali
per vedere la sintesi organica nella sua formazione sotto l' impulso del
Noumenon e della Volontà. L'assimilazione collettiva non dipende dalle materie
che furono mangiate, come si credeva dai naturalisti tedeschi mezzo secolo fa,
che scrissero Der Mann ist was er isst, ossia l'uomo è quello che egli mangia.
Che una donna mangi fratti o legumi, carne o formaggio, uova o patate, pasticci
dolci o erbe condite, le materie albuminoidi di questi alimenti si trasformano
nel suo sangue in serina, fibrinogene e globulina, nei suoi muscoli in
muscolina, nelle sue mammelle in caseina, nelle sue ossa in osseina, nel
tessuto congiuntivo in congiuntina, ed in elastina: tutte sostanze chimiche fra
loro differenti. La chi- mica organica ha ornai assicurato queste leggi (dice
Gautier). Se la Evoluzione si facesse dal di fuori al di dentro (come pretende
Ardigò) non vi sarebbe ne digestione, ne assimilazione. Perchè le stesse
albuminoidi, tratte da cibi molto diversi fra loro, si trasformano nelle varie
— 129 — parti del corpo in sostanze chimiche così adatte a sviluppare o il
sangue, o i muscoli, o le ghiandole, o le ossa, o il tessuto congiuntivo ?
forse per le accidentalità del Marchesini? venute non si sa da qual corpo
estraneo ? forse per l' Infinito causa dell'ordine o per l'Indistinto
sottostante ad ogni distinto, il quale non ha altra legge di formazione se non la
divisione della linea in parti infinite? Dividere non è fare nuove sostanze
chimiche. Dividere e suddividere, distinguere e sotto di- stinguere non è fare
da artista morfologo. Dunque bisogna riconoscere che la Unità or- ganica
intima, il Noumenon reale, che cerca il piacere e fugge il dolore esercitando
le funzioni essenziali del digerire, del far sangue, della assi- milazione,
organizza le materie in modo da mantenere e sviluppare il proprio piacere ossia
la propria Vita, combina le molecole in guisa da dar loro efficacia, e
esercitando la funzione si fa la compagine fisiologica, adatta a lottare contro
le dif- ficoltà ed a rendersi indipendente dall'ambiente. Non è dividere e
distinguere: è piuttosto co- struire, riunire, combinare, disegnare nuove forme,
nuovi sistemi di forze: è unificare, in una paro] a r e quindi godere la
varietà nella Unità. La legge della Natura è l'ascesa a più alta Unità e non la
divisione e suddivisione di un Indistinto in pezzettini. Per la stessa forza di
assimilazione, l'animale trasforma gli idrati di carbonio che mangia in
glicogene nel fegato, in glicosi nel chilo e nel sangue, in inosite ed acido
lattico nei muscoli, in lat- tina nelle mammelle, in tunicina nella pelle dei
Tunicati, sempre sotto la influenza del sistema nervoso, che sente il dolore e
il piacere. — 130 — Lo stesso dicasi dei grassi. Qualsiasi cibo prenda un
animale, egli farà (senza aiuto dello Inconscio Indistinto sopra o sotto
naturale) nelle cellule adi- pose della pelle butirina ed oleina, nel tessuto cel-
lulare del ventre stearina oleina e palmitina ; nelle mammelle butirina e
margarina ; nelle api farà della cera, e via dicendo. Eppure nel chilo, nei
gangli del mesentere, vi sono sostanze omogenee: ma questi grassi, quando .sono
arrivati nei diversi organi, si differenziano assai, ossia si specificano in
sostanze nuove. L'assimilazione non. è una scelta dei materiali portati dal
sangue. È piuttosto una metamorfosi operata da ogni cellula, sotto la influenza
del si- stema nervoso, ordinato dalla Unità organica del- l'animale, dando
origine, col medesimo chilo e con lo stesso sangue a nuove sostanze, le quali
nel sangue e nel chilo non esistevano. Anzi l'assimilazione complessiva, sotto
la in- fluenza del sistema nervoso, allorché l' animale non riceve più grassi,
né principi amilacei, lo rende capace di formarsi le sostanze occorrenti,
traendole dai suoi propri albuminoidi, idratandoli, ossidandoli ed arrivando a
farsi nella milza la Emoglobina o materia rossa del sangue, la quale pesa il
doppio della albumina, ed è assai più complicata delle albuminoidi mangiate.
Tra i fattori dell'Ordine secondo VArdigoismo primeggiava dal 1870 in poi
l'Indistinto, pallida luna, la cui luce rifletteva il sole dell'Inconscio di
Schelling. Degenerando (per la sua intrinseca contraddizione di essere in fondo
panteismo germanico e di voler parere ateismo positivista) ha finito col
ridurre lo Indistinto ad una astrazione dalla sensazione indifferente tra
soggetto ed oggetto, tra spirito e materia, e a renderlo così impotente a fare
l'Ordine come da pag. 308 a 312 ci diceva, nel suo tentativo di popolarizzare
l'Ardigoismo, il Marchesini (vedi sopra). Restarono così a far l'ordine in
generale e Vor- dine biotico in particolare il caso ed il ritmo. Ma il ritmo
non è altro che la ripetizione ad intervalli dello stesso moto e non può fare
del nuovo, e il caso è antiscientifico. Così VArdigoismo per la sua intrinseca
contraddizione ed oscurità e per la sua ostinata trascuranza di studiare la
natura vegetale ed animale e le leggi di tutti gli organismi, va isterilendosi
in una ontologia e fraseologia d'indistinto, d'infinito, e di casi. Perciò gli
scienziati Biologi Italiani che non seguono il Pitagorismo oggi si sono dati
alla fi- losofia dell' Inconscio di Schelling e di Hartmann (Die Philosophie
des Unbewussten, 2 voi.) altri- menti, per fare codazzo al rispettabile prof.
Ardigò, sarebbero stati condotti a dare di ogni or- ganismo una origine del
tutto casuale, come quella insegnata dal Marchesini (vedi sopra) (1). Ad ogni
modo, se VIndistinto che sta sotto ad ogni distinto è (come credeva VArdigò) un
pensiero, ci si dica se questo pensiero che opera sotto, en- tra davvero
nélVanimale e lo fa sentire, volere, godere o soffrire. Se sì, allora è inutile
l' Inconscio e si viene nel nostro Positivismo Pitagorico bruniano, ossia nella
filosofìa Italica. (1) Si legga la splendida Conferenza tenuta nell'Acca- demia
dei Lincei dall'illustre fisiologo prof. Giulio Fano di Firenze dinanzi a S. M.
il Re nel 1910. — 132 — Se no, allora l'animale resta un trastullo della
divinità. E nello Ardigoismo (che nega la unità intima di ogni organismo) se
non si ricorre al- l'Indistinto Inconscio divino, manca ogni principio
informatore, e la gallina e l'uomo stesso (compreso il prof. Ardigò) diventano
prodotti del caso cieco e sterile. Nel delicatissimo lavorìo che prepara i
succhi nutritivi, si manifesta la vita sintetica della Unità organica generale,
che determina le funzioni di ciascuna ghiandola. I globuli bianchi sono
preparati dal fegato e dalla milza, la quale può dirsi una doppia ghiandola
linfatica, sierosa, chiusa, piena di vasi sottili, intrecciati in fitta rete,
specialmente nei corpuscoli del Malpighi. Dal fegato, dalla milza, dal chilo,
dalla linfa, escono i globuli rossi nuotando nel siero senza imbeversene,
contrattili, e si chiamano Ematite, Il plasma in cui le Ematie sono sospese
contiene la fibrina (che manca nel siero) e risulta dallo sdoppiamento del
fibrinogene. La trama delle Ematie o globuli rossi è fatta da un albuminoide
ferruginoso detto Emoglobina, da globulina, lecitina, cholesterina e sali
minerali, per assimilazione sintetica senza che intervenga nessun Inconscio
Infinito. Di pari passo con la funzione circolatoria procede quella di
respirazione, che rinnova ad ogni istante il sangue venoso a contatto con
l'ossigeno. La pelle, fatta di tessuto connettivo molle, non contrattile (ossia
privo di muscoli) ma indurito all'aria, emette sempre vapore acqueo, gas acido
carbonico, ed un po' di azoto, assorbe ossigeno, e fa, negli animali inferiori,
quello che nei superiori è affidato alle branchie ed ai polmoni. La funzione
respiratoria si svolge lentamente come la digestiva e la circolatoria. Nei
Vermi marini le branchie sono foglietti di vasi capillari. Nei Vermi superiori
ed in alcuni Crostacei sono a fasci di fili od a pennacchi. Nei Molluschi
maggiori e nei Pesci diventano interne, quasi fogli di un libro. 'NegYInsetti
le trachee conducono l'aria dapertutto e così anche in alcuni Ragni e negli
Uccelli. Negli animali superiori, poi si sono formati quei milioni di alveoli o
sacchetti polmonari, fatti di fibre muscolari liscie che nell'uomo presentano
all'aria penetrata nei polmoni la superfìcie di una sala (circa 200 metri
quadrati) dove il sangue venoso cambia la sua emoglobina in Oxy-emoglobina.
Secondo Smith un uomo sdraiato prende un litro di aria nel medesimo tempo in
cui un uomo seduto ne piglia 1.18, ed un uomo in piedi 1.33, chi cammina lento
1.90, chi va presto 4, chi corre 7 litri. La funzione respiratoria tra le
vitali è quella che si può aumentare e perfezionare con maggiore facilità. In
ogni organismo, oltre gli atti vitali, vi sono quelli non vitali. Ogni cellula
fa prima le sostanze azotate, poi le non azotate, cioè i corpi grassi, la
saccarosi, l'amido, la inosite, il glicogene. Il sangue si depura per atto
vitale nei reni, che spremono fuori dal sangue la orina. Ma non è per atto
vitale (bensì per forze chi- miche soltanto), che le albuminoidi coli'
idratarsi si cambiano in creatina, lisatina, urea ed acido lattico. E per forze
chimiche soltanto che la urea fa il carbonato di ammoniaca. — 134 — Il sangue
sano contiene mezzo grammo per litro di acido urico che si idrata e si ossida e
si elimina nei sani allo stato di urea, di acido os- salico e di acido
carbonico. Tutte le perdite di carbonio, che è l'elemento accentratore, si
fanno per atti non morfologici, non vitali, non diretti dalla Unità organica
generale, appena l'ascesa a più alta unità, ossia al piacere di vivere, si
rallenta in qualche parte. Queste perdite avvengono disassimilandosi, idra-
tandosi, e facendo i rifiuti da espellere. Le funzioni principali della vita
interna sana e specialmente l'assimilatrice sono sempre fatte dalla Psiche poco
a poco e diventano abituali, regolari, quanto più sono ripetute di generazione
in generazione e quanto più la specie ha imparato a rendersi indipendente
dall'ambiente, ed anzi padrona dell'ambiente nel trovare abbondanti cibi, aria
ed acqua salubri e nel perfezionare la facoltà di vitalizzare il chilo, la
linfa, ed il sangue. CAPITOLO X. Come la Psiche fa le guarigioni. Come le
malattie mentali derivano per lo più da disturbi o da irregolarità della
convergenza nervosa che fa l'Unità conscia generale, la Per cezione e la
Memoria, così le malattie del corpo dipendono spesso da disturbi e da
irregolarità nella irrigazione sanguigna. I vasetti capillari sono lunghi
nell'uomo 500 volte più delle arterie e delle vene non capillari. Ogni
capillare è composto di cellule fusiformi con un nucleo in cui arriva il
nervettino vaso- motore. Ogni organo può rendere indipendente dalla
circolazione generale la sua particolare. Vi sono due provenienze dei
nervettini vasomotori: quelli che dipendono dal gran simpatico, nelle emozioni
si restringono e quindi rallentano il corso del sangue; quelli invece che
dipendono dal sistema cerebro-spinale, si allargano, accele- rando il corso del
sangue. Nell'uomo sano, bene equilibrato, queste due azioni si alternano e si
combinano in guisa da mantenere l'armonia fra tutte le funzioni. Nell'uomo
immorale si disturbano a vicenda. I delinquenti ed i pazzi sono più o meno
inetti a regolare i vasomotori: ora la reazione è scarsa ed ora è eccessiva. La
sfiducia e l' inquietudine guastano le ghiandole e l'assimilazione, e quindi
anche la ematosi o sanguificazione e il sistema nervoso, ossia le vie per le
quali corrono la sensibilità e la volontà. Queste sono prove palmari che gli
animali si fanno dal di dentro al di fuori e sono sempre sintetizzati dalla
propria unità generale. I sentimenti di fiducia e di bontà sono i migliori per
regolare la Ematosi e quindi la nutrizione di tutti i tessuti. La psicogenia fa
la somagenia, ossia la psiche fa il corpo. I vasomotori sono i primi ministri
della natura che si fa col sentimento. La immoralità ed il vizio si traducono
in una natura che si fa morbosa. I capillari venosi, col sangue reso inetto,
per avere deposto, nel tessuto che irriga, gli elementi — 136 — dei quali ha
bisogno (1) portano verso le uscite anche i veleni prodotti dalla fatica o
ponogeni (dal greco nóvoc, fatica) che sono l'acido lattico ed i leucomani, i
quali impediscono di rimanere attivi. La circolazione nutritiva della notte
rifa le forze esaurite nel lavoro diurno. I vasi capillari asportano per i
reni, per i polmoni e per la pelle i veleni ponogeni. I vasomotori regolano
sempre la produzione del calore animale. Si restringono se fa freddo, si
dilatano se fa caldo per far sudare e svaporare. Per molte ragioni adunque,
guastare i vasomotori è guastare la salute ; e la Unità disordinata da desideri
immorali e da passioni li guasta. La febbre è fatta dal sistema nervoso del
gran simpatico irritando i nervettini vasomotori ed il cuore, e le arterie ;
alza la temperatura da due a sette gradi sopra la normale, e stanca i muscoli.
È una reazione naturale che eccita gli organi ad eliminare le cause di malattia
esterne ed interne e specialmente le alterazioni del sangue: perciò questa
reazione salutare (a parità di cause) è maggiore nei fanciulli e minore nei
vecchi. La reazione salutare è sempre più benefica quanto più vi è fede,
speranza e piacere e non avviene o resta debole e fiacca in chi ha sfiducia o
paura. Del resto gli animali tengono nella loro milza un serbatoio di fagoceti.
La milza fa (oltre ai globuli bianchi e rossi della linfa e del sangue) anche i
così detti Lenii) Anche calce e fosfati per darli alle cellule del periosto e
per rendere possibile la formazione e lo induri- mento delle ossa, quanto più i
muscoli vi si appoggiano. coceti o Fagoceti che sono amebi atti a fare il tes-
suto congiuntivo attorno alle ferite ed a guarirle, cacciando via le infezioni.
Infatti gli animali privati della milza soffrono di infiammazioni. Nelle
infiammazioni essudative i Leucoceti cor- rono verso la parte che trovasi
minacciata, come i medici corrono agli ammalati. La infiammazione in generale
come la febbre è un processo salutare. Non è un processo fisico chimico, ma è
una reazione di queste guardie sanitarie benefiche che si chiamano Fagoceti o
Leucoceti. I quali corrono a prendere quella parte dei tessuti che si è guastata
per portarla fuori verso le uscite. Nelle malattie acute scendono a milioni a
purificare i tessuti, ed agguerriscono il corpo a procedere sicuro tra le
insidie dell'ambiente ed a rendersene indipendenti, all'opposto di quanto
pretende YArdigoismo. E sono sempre diretti dalla Unità generale dell'organismo
e non dall'Inconscio Infinito sopra o sotto naturale. Grazie alla polizia
sagace che viene esercitata dai Leucoceti, nelle orine dei malati si trovano
leucomani basiche dannosissime. Ma la psiche riesce diffi- cilmente ad impedire
il moltiplicarsi dei bacilli. Moltissime malattie sono formate dal
moltiplicarsi dei Bacteri e specialmente le contagiose : I microbi anaerobi
fanno escrezioni velenose che il prof. Selmi ha chiamate dal greco Ptomaine.
Sono malattie ve- nute dall'esterno, che poco dipendono da disturbi della
irrigazione sanguigna. Sono regali dell'ambiente, che fanno ammalare e mai
guarire. Un'altra causa di gravi morbi è l'eccesso del mangiare e del bere
liquori e vini alcoolizzati, che produce una combustione vitale non completa,
arrivando a quadruplicare l'acido urico. L'inazione, l'inerzia, produce gli
stessi effetti della fatica eccessiva, cioè acido urico, che si depone nelle
giunture, perchè l'ossigeno del san- gue stenta molto ad ossidare le cellule
organiche. Le malattie per combustione incompleta producono erpeti alla pelle,
depositi artritici presso le ossa, guasti epatici ed ingrossamenti del fe-
gato, nefriti e litiasi: e cagionano le così dette diatesi braditrofiche, ossia
malattie croniche per rallentamento della nutrizione. Poco a poco, col
massaggio e la ginnastica, la psiche può libe- rarsene. Tutti conoscono la
riparazione dei tessuti che si opera rimarginando le ferite con tessuti nuovi e
simili, anche il nervoso. L' uomo può riprodurre il cristallino dell'occhio (se
non era stata levata la capsula), può rinsaldare le ossa rotte, e rifarne la
parte che manca (se è rimasto il periosto). Gli animali inferiori riparano
anche più presto. Tagliando la zampa ad un Tritone, i Leucoceti gli fanno un
tessuto embrionale con vasi e pelle. Tagliandogli la coda può rifare le cellule
grigie del midollo, i gangli nervosi ed i muscoli. Se una impressione morbosa
ha cagionato una negmasia che ostruisca i vasi dei tessuti, si fa una
neomembrana, detta Essudato, in cui si or- ganizzano nuovi vasetti capillari,
che riassorbono il male, per espellerlo nel torrente della circola- zione. Se
l'Essudato è soverchio, e non può essere -assorbito, si liquefa, si cambia in
pus, e va verso le cavità sierose o verso la pelle. Se un corpo straniero è
penetrato nell' organismo, provoca una acuta negmasia, con suppurazione per
espellerlo ; se poi il corpo estraneo è penetrato nelle parti profonde, dalle
quali non si può mandarlo via, viene circondato da vasetti capillari nuovi, che
formano una membrana di rivestimento o cisto, isolandolo per proteggere i
tessuti. Anche nei tumori del fegato formati da entozoari, avviene lo
incistimento con membrane apposite. I tumori fibrosi dell' utero si empiono di
concrezioni calcari che loro impediscono di cre- scere. I flemmoni acuti della
fossa iliaca dell'ovario e degli annessi dell' utero vanno nella vescica e
negli intestini, cercando l'uscita. Se un'arteria o una vena si chiude, si
organizza una vascolarità collaterale. Se entrano a piccole dosi delle sostanze
vele- nose, la Unità organica fa poco a poco i contraveleni. L'animale
vaccinato con le antitossine, diventa immune, anche con dosi di un
cinquemilionesimo di grammo (1). (1) Due o tre secoli fa quando moltissimi contadini
inglesi andarono a lavorare nelle fabbriche, la tisi fece strage. Nel secolo
decimonono i loro organismi in poche generazioni divennero resistenti ed oggi
la mortalità per tisi è inferiore in Inghilterra a quella di ogni altro paese,
perchè, come dimostrò il prof. Sanarelli della Università di Bologna, gli
organismi (quando se ne lasci il tempo oc- corrente) tendono ad immunizzarsi.
Così nelle Pelli Eosse e fra i Negri, i germi della tisi portati dagli Europei
fecero morire a centinaia, perchè i loro organismi non erano abituati a lottare
ed a vincere i bacilli di Koch. Tra gli emigranti Italiani che andarono a stare
nelle città industriose dell'America soccombettero alla tisi quelli che
provenivano da provincie Abruzzesi, Calabresi dove la tisi è rara, mentre
quelli venuti dalla Lombardia o dalla Liguria dove è frequente hanno resi-
stito assai meglio.Le malattie croniche sono per lo più cattive abitudini della
natura che si faceva, ossia meccanismi formati da errori e trascuranza
dell'Unità di coscienza. Creighton (Inconscious Memory in di- sease, 1886,
London) attribuisce alle cattive abitu- dini dei tessuti certi moti riflessi
patologici, ed a quelle dei tessuti certe febbri persistenti, certe affezioni
cutanee ed anche catarri cronici. Quando la legge sociale morbosa si è
radicata, si forma una diatesi, che viene ereditata. Ma l'esercizio muscolare e
il sudore guariscono un po' alla volta anche queste, e la Unità generale invita
l'animale a far moto celere per sudare. Il sudore (che traspira per la secrezione
dell'acido lattico, dovuta all'aumento della innervazione e della circolazione,
al riscaldarsi del sangue che corre verso la pelle per raffreddarsi) è il
caccia- mali per eccellenza, portando via ogni acidità e lasciando l'organismo
alcalino e sano. Quante guarigioni ha fatto il sudore! Il maggior vantaggio
dell'esercizio muscolare (sia fatto per lavoro professionale, o sia fatto per
sport), sta nell' accelerare la circolazione sanguigna, e quindi lo scambio dei
materiali inetti coi vitali, giacche in un muscolo che lavora passa 9 volte più
sangue che in un muscolo che riposa, mentre si rende più. facile la
innervazione e la dilatazione dei vasi. E siccome l'esercizio muscolare è
sempre re- golato dalla coscienza dell'individuo, ognuno ha il mezzo più sicuro
per guarire dai suoi mali. Il movimento non è necessario solamente al-
l'apparato circolatorio, respiratorio e al digestivo; ma a tutti gli altri
apparati semplici e locali. Lo stato liscio delle cartilagini, la secrezione
regolare del liquido sinoviale, la flessibilità dei ligamenti, tutte le
condizioni anatomiche, indi- spensabili al funzionare di un'articolazione,
spariscono man mano che si sta fermi, arrivando ad ossificare le fibre dei
ligamenti, a fare delle ossa vicine un solo osso ; mentre chi molto si muove
conserva benissimo le giunture e moltiplica le fibre ligamentose. I muscoli
stessi che, nella inazione si ritraggono, e perdono ogni elasticità,
l'acquistano a misura che vengono esercitati. Però va notato che il moto non è
mai un tocca e sana, un rimedio istantaneo, e produce le sue modificazioni
salutari soltanto un po' per giorno, sicché tardano per settimane e per mesi a
manifestarsi pienamente, dovendosi colla nostra natura che si fa, formare una
natura fatta, cioè un meccanismo che vada poi da se solo, salubremente,
regolarmente. Un poeta inglese disse: Mentre sei nella tua casa di carne
muoviti; ci sarà tempo di riposare poi nella casa di creta. Gli Inglesi se lo
ripetono e nella età matura non poltriscono, ma accrescono gli esercizi. Il
football da ottobre ad aprile è frequentato assai in tutti i prati che rompono
la monotonia dei sobborghi di Londra. Si corre, si salta, si danno pugni non
solo i diritti ma anche gli storpi. E in pari tempo si con- serva la
tranquillità dell'animo, la fiducia e l'al- legria. In America, Mistress Mary
Eddy Baker ha fondato una religione che chiamò « Christian Scientism » , ha i
suoi templi in Boston ed altre città e diffonde la fiducia nella salute;
guarisce anche realmente molti mali e mantiene migliaia — 142 — di Ladies
Cureers (1). A questo proposito non è inutile di ricordare che in tutte le
religioni si sono curate le malattie con la fiducia e che a Cachemire, nella
moschea maggiore, si conser- vano tre peli della barba di Maometto i quali ogni
anno fanno delle cure mirabili. E chi se ne potrà meravigliare, se pensa che in
tutti gli atomi e specialmente in quelli che appartengono ad un organismo, nel
quale hanno accomunato il sentire ed il volere per un certo tempo, vi è un
unanime accordo nelVassurgere a vita più intensa e ad unità più alta? Accordo
delle Unità molecolari cellulari ben inteso, senza che venga giù dal Cielo
Infinito di Ardigò, dalla sotto natura o dalla sopra natura, alcuna di quelle
cause alle quali VArdigoismo attribuisce l'ordine. Si promuove la guarigione
col crederci e col volerla. Spesso gli organismi inferiori che parevano morti,
ma dei quali non si era guastata la morfologia, risorgono (come lo descrisse
fin dal 1860 il Pouchet nelle sue « Récherches et expériences sur les animaux
résuscitants » ). Egli fece risusci- tare fino a dieci volte dei Rotiferi
disseccati col tornare a bagnarli. E così pure fece rivivere degli Ostracodi e
dei Radiati, delle ova di Apus, e delle Anguillide. Gli atomi di ossigeno, di
idrogeno, di carbonio, e d'azoto, si elevano nella mor- (1) Educate nel «
Theological Metaphysical and Psychological College » di Boston. Il Finot nella
sua Revue disse che la volontà ha sopra l'organismo la potenza di
ringiovanirlo, guarirlo, raffor- zarlo. E consiglia di svolgere tutte le forze
con fiducia ottimista, preparandosi robusta salute e vita lunga. fologia
cellulare che trovano, rifacendo la Unità generale degli animali che sembravano
rigidi. Perfino dei Vertebrati offrirono non dubbi esempi di risurrezione. Certe
Rane chiuse da secoli fra le roccie appena ebbero l'aria si mossero. Certi
Pesci agghiacciati dai crudi inverni, quando ri- sentivano l'aria e l'acqua
tepida, poco a poco ricominciavano lo scambio col mondo esterno e ritornavano
sani. Qui non ci entra affatto l'Ipnotismo. Gli organismi si sono fatti un po'
alla volta per il piacere; e se la morfologia non è guastata, appena il piacere
ridiventa possibile {perchè ritorna la umidità od il calore che mancavano)y
ritorna la vita. Sopratutto nelle malattie che dipendono da stasi sanguigne e
in molte altre, la Psiche guarisce agevolmente. In quanti sono i morbi che
affliggono l'uomo poi, i bravi medici cercano sempre di inspirare fiducia e
coraggio, ben conoscendo che questi hanno maggiore efficacia della Farmacopea.
Non mancheremo, terminando questi cenni sulla guarigione, di osservare che la
Natura che si fa per guarire, non è solamente la Unità generale dell'organismo;
ma che vi concorrono le Unità dei singoli organi, essendo tutti intenti, anche
quelli della psiche passiva diventata meccanismo, a conservare e ristabilire la
salute. Come la Psiche fa il Sistema Nervoso. Le due funzioni del sentire e del
muoversi, quando furono ripetute, depositano nelle vie per- corse delle
sostanze più instabili, che sono deli- catissime e dalle quali si formano i
nervi e servono col semplice rivolgersi delle loro molecole, a tra- smettere
sensazioni e volontà. Il sistema nervoso è assai rudimentale nei Celenterati,
nei Polipi e Acalefi, come le Meduse, nelle Pholades (molluschi inferiori).
Diventa visibile nei Vermi inferiori, e cresce bene nei Crostacei, nei Ragni e
negl' Insetti, con- centrandosi in fili bianchi formati da molti fasci e
formando dei gangli o gruppi. I gangli si avvicinano specialmente nel torace e
nella testa. Nei Molluschi Cefalopodi i gangli si accostano tanto da formare
una sola massa attraversata dallo eso- fago. Negli Scorpioni vi è quasi un
piccolo cervello in due lobi, poco separato dal grosso ganglio del petto. Le
larve degli Insetti sembrano Vermi, e con- servano come i Vermi la catena dei
gangli : ma nella metamorfosi il sistema nervoso si concentra in una massa,
tripartita in testa, torace ed addome. I Tunicati e YAmphioxus sviluppano
meglio il sistema dorsale ed il cervello ; e nei Pesci inferiori questo si
divide in midollo allungato o cervelletto, cervello medio (di lobi ottici e
tubercolari) e cervello anteriore, in due emisferi, che ingrandiscono poi nei
Vertebrati superiori. Sotto queste cinque forme (la diffusa dei Protozoari, la
disseminata dei Radiati inferiori, la ra- diata delle Meduse e degli
Echinodermi, la bilaterale ventrale dei Vermi, degli Artropodi e di alcuni
Molluschi e la mediana dorsale dei Tunicati e dei Vertebrati), la composizione
della sostanza nervosa si perfeziona gradualmente e arriva nei Primati e nell'
Uomo ad avere molta lecitina, che è la sostanza la più instabile e la più
adatta a ricevere impressioni. I fili nervosi fanno cilindrassi, chiusi in fo-
dere di Keratina e dal neurilemma. Della sostanza nervosa tre quarti sono
acqua, il quarto che resta solido è per metà di albumina e gelatina, e per
l'altra metà di lecitina, cholesterina, e di altre sostanze grasse e di
fosfati. I fosfati predominano nelle cellule grigie, che stanno alla fine di
ogni nervo sensibile ed al principio di ogni nervo motore, ed hanno l'ufficio
di ricevimento o di trasmissione dei dispacci. Nelle cellule grigie quasi nove
decimi è acqua,, il 12 °/ è solido. La sostanza bianca che arriva nei gangli e
nel cervello non ha che il cilindrasse e la myelina, senza fodere ; è acida,
con poca lecitina. La lecitina si compone di molto carbonio, ed ossigeno, con
qualche grasso, con neurina ed acidi fosforici. La convergenza che fa sorgere
la Unità intima generale dell'organismo va sempre a finire nelle cellule
grigie. La Natura che si fa, col ripetere i moti, li fa andare con crescente
facilità, finche di- ventano moti riflessi, ossia Natura fatta. Nell'uomo il
centro moderatore degli atti riflessi della spina dorsale sta nel cervello,
dietro ai tubercoli quadrigemini. Vi sono nel cervello molti altri riflessi,
grazie ai quali vengono imparati i mestieri e si arriva a parlare presto. Tutti
gli atti riflessi si compiono senza V imagine} e non vengono impediti dal
cloroformio (1), mentre gli atti volontari non solo, ma anche gli abituali, e
quindi di psiche passiva, ma recente, in- dividuale, non ereditata (come lo
scrivere, il nuotare, la scherma, ecc.), esigono V imagine e sono arrestati dal
cloroformio. — Nella scherma si fanno per abitudine istintivamente delle
celerissime parate opportune che, pensandoci avrebbero voluto dieci volte più
tempo, e queste, come i mestieri imparati da lungo tempo da operai provetti,
sono impossibili sotto l'azione del cloroformio. Ma i veri atti riflessi
ereditari non soffrono per il cloroformio (2) e predominano in tutta l'
infanzia e l'adolescenza ed anche negli adulti nelle funzioni interne, quali
sono il deglutire, i moti peristaltici degli intestini, l'animazione dei
globuli rossi, il ritmo della respirazione, la contra- zione dei muscoli, la
defecazione, il parto, la regolazione del corso del sangue che fanno i
minutissimi nervettini vasomotori. (1) L'imperatore Commodo dava nel circo al
popolo Romano lo spettacolo di parecchi struzzi che, presa la corsa, erano
decapitati col lanciare frecce a falce al loro collo : essi compivano gli altri
tre quarti della corsa nell'anfiteatro, per puri atti riflessi della loro spina
dorsale. (2) Gli anestesici, cioè gli Eteri ed il Cloroformio, sono volatili ed
il loro effetto è passeggero. — I nervi motori si avvelenano col curaro, i
sensibili colla stricnina, e questi, essendo contripeti, basta avvelenarne uno
per ucci- dere l'animale. I muscoli si avvelenano col cianuro di potassio. Nei
moti riflessi abbiamo la prova evidente che il Conscio fa l'Inconscio. Questi
moti riflessi sono stati una volta imparati dalla psiche attiva dei genitori,
giacche l'In- conscio non può fare mai il Conscio. Ex nihilo nihil. E dalla
unità generale di coscienza dell'or- ganismo animale deriva la combinazione di tutti
gli scopi assunti nella evoluzione, che esprimono lunghe serie di atti compiuti
per godere la vita, e deriva pure la prevalenza nell'uomo dei nervi sensibili
sui nervi motori (1). La maggior parte dei moti riflessi dipende dal sistema
del gran simpatico, che va dal midollo allungato al petto ed al ventre ed a
tutte le ghiandole. Dipende pure in parte dal medio simpatico detto anche nervo
vago, o pneumogastrico, che regola i moti del cuore. Il midollo allungato o
bulbo, regola la respirazione, la deglutizione, e la voce (nodo vitale). Il
nervo splanchico può inibire l'intestino tenue. Il moto del cuore e quello
degl' intestini è fatto dai gangli delle loro pareti. Gli altri moti riflessi
dipendono dal si- stema rachidiano della spina dorsale, in cui, in-
trecciandosi i due sistemi nervosi (del cerebro e del gran simpatico), vi sono
quattro colonne : due dei nervi sensibili e due dei nervi motori. Anche le
cellule grigie sono doppie. (1) Sherrington mostrò nel 1906 (The integrative
action of the nervous system. New York) che i riflessi maggiori sono composti
di riflessi semplici e successivi, sopra una serie combinata di archi riflessi,
divisi ciascuno in metà efferente e metà afferente ; ossia partendo dalle
cellule grigie ed andando al muscolo o alla ghiandola. Il nervo conduttore è
fatto di neuroni che si toccano, ma non sono mai continui. — 148 — Nel cervello
la sostanza grigia trovasi alla periferia, sotto la corteccia nelle
circonvoluzioni e supera la metà, e la bianca con poca grigia sta nel centro; ma
nel midollo la disposizione è in gran parte contraria, ossia la bianca sta alla
periferia e la grigia nel centro. Però questa si con- tinua nella grigia del
cervello fino allo strato ot- tico e al corpo striato, dove si agglomera nel
mezzo del cervello. Le cellule grigie sono moltipolari, ossia hanno molti poli
o prolungamenti e sono alcaline. Quando una sensazione colpisce una cellula
grigia, segue l'assimilazione nuova. Il nervo in riposo è alcalino: lavorando
diventa acido e le sue sostanze più vitali cominciando a guastarsi, fanno la
cholesterina. Alla filosofìa importa molto la distinzione fra la Natura che si
fa ed i moti riflessi, e tra la scomposizione e la ricomposizione delle cellule
grigie. Herzen credeva che si avesse coscienza quando le cellule grigie si
disintegrano; ma appena si di- sintegrano la convergenza nervosa che fa la co-
scienza le reintegra, con una nuova figurazione. Allora alla negazione di ciò
che sembrava male fondato, ossia alla imagine difettosa, succede l'af-
fermazione di quello che dall'animale o dall'uomo è ritenuto vero, utile o
bello, una imagine cor- retta o nuova. Per sistemare il nuovo, occorre prima
disgregare la formazione erronea. Ritorneremo a parlare della Natura che si fa
sotto quattro nuovi diversi aspetti nel Cap. XII sui Muscoli, nel Cap. XIII
sulla Psiche generatrice, nel XIV sul Sentimento e nel XV sulla Volontà.
Insistiamo sopra questi rapporti, perchè la Natura che si fa è conscia: mentre
la Natura fatta è necessitata e va come un meccanismo, come quegli struzzi
privati della testa, che l'Imperatore Commodo dava in ispettacolo ai Romani.
(Vedi sopra, la noterella pag. 146). Come il midollo spinale ha quattro
colonne, due dei nervi sensibili e due dei nervi motori, così il cervello ha
quattro parti, di cui le due anteriori piò. alte giudicano e muovono in quei
centri che il prof. Flechsig chiamò i quattro centri spirituali; dopo che le
due posteriori e più basse hanno sentito in quei centri che lo stesso fisiologo
ha chiamati i cinque centri sensitivi. La massa delle cellule grigie nel
cervello alto è distribuita intorno sotto le meningi in 9 strati doppi sottili.
Ha circa mezzo miliardo di cellule, ciascuna delle quali mediante 4 fili
comunica con le vicine e con la sostanza bianca e grigia, che sta al centro del
cervello. I cervelli sono magazzini d'imagini che con- servano nelle cellule
grigie le più minute divi- sioni dello spazio e del tempo di quello che si è
veduto, toccato ed udito. La convergenza dei nervi per l'attenzione, si porta
appunto sopra quelle cellule grigie, dove si fa la percezione o che dopo fatta
questa, in- teressano per ravvivare nella memoria alcune determinate imagini.
II punto focale della convergenza generale è la vera Unità dell'organismo, e fa
l' Io che gode, soffre e pensa: e al di là, subito al di là di questo punto
focale, una minutissima divergenza delle stesse linee arrivate colla
Convergenza, lascia sul piano delle cellule grigie l'imagine di quello che si è
percepito e che si può in seguito rammentare, ritornando a convergervi le
forze. Io. Il punto focale della convergenza adunque è mobile, si forma a
seconda dei bisogni di questa o di quella parte. Le cellule grigie dove si
riuniscono le imagini fatte nel cervello basso o strato ottico, stanno negli
strati corticali interni, mentre nei seguenti, fino alle meningi le cellule
grigie diventano sempre più piccole e contengono probabilmente gli estratti dei
simboli delle imagini. Quando si pensa le cellule grigie cerebrali si consumano
e si rinnovano cinque volte più presto di quando non si pensa. Quando si fanno
le percezioni o le astrazioni o si correggono gli errori, si fanno nuove forme
nelle cellule grigie corticali. Mentre quando non si pensa, il rinnovamento
delle cellule grigie av- viene poco a poco per semplice nutrizione e scambio di
materiali, senza cambiare le forme delle impressioni ricevute o dei segni
astratti, i quali ultimi però rimangono sempre in stretta relazione con le
imagini materiali, ossia con le minime suddivisioni dello spazio e del tempo
delle cose vedute, toccate ed udite, ecc. Meno precise sono le imagini prodotte
dai sensi dell'odorato e del palato, anzi non sono imagini, ma reazioni sentite
pensando ai cibi e ai fiori o ad altre cose odorate. Precisissime sono invece
quelle del senso muscolare, che sono sempre collegate con quelle delle cose
vedute, toccate od udite. La Energia pensante ha le stesse origini della
Energia fisiologica e chimica e risulta dalla Convergenza che percepisce,
ricorda, rammenta o combina le imagini confrontando e giudicando. Dunque il
Pensiero è un lavoro che distrugge la sostanza nervosa più delicata, come il
lavoro dei muscoli consuma gli zuccheri ed i grassi che sono nascosti nella
carne contrattile. Il Pensiero ha il suo equivalente meccanico, ma è
impossibile sta- bilire quanto sia, per la difficoltà dell'esperimento. Il
cervello anteriore regola le correnti nervose di tutto il corpo. Il cervelletto
regola il senso muscolare ed il tatto, ed un poco anche l'udito, e ne partono i
cordoni posteriori del midollo. Per agire il cervello abbisogna di sangue arte-
rioso e ci arriva da due parti. Quella meringe che avvolge gli strati corticali
ed è chiamata la pia madre, riceve un gruppo di arterie per il cervello alto,
ed un altro per il cervello basso e posteriore. La rete chiamata nevroglie,
sotto le meningi, protegge i nove strati doppi di cellule grigie, del cervello
alto, i cui vasetti capillari venosi portano via i solfati ed i fosfati
consumati nel pensare. Se si arresta la irrorazione arteriosa del cervello,
avvengono svenimenti, sincopi, vertigini o colpi apopletici. Se la normale
contrazione dei vasetti capillari, per causa di qualsiasi sentimento, cessa ad
un tratto, si dilatano le arterie della faccia umana, che arrossisce.
Basteranno questi pochi cenni, per intendere quanto diremo sul Pensiero nel
Volume Secondo «L'Uomo secondo Pitagora». Il cervello umano pesa un solo
quarantesimo del corpo, ma riceve un sesto del nostro sangue per le due arterie
carotidi e le due vertebrali. Il cervello sta al peso del corpo come 1 a 5600
nei Pesci (che sono i più stupidi fra i Vertebrati), come 1 a 1300 nei Rettili,
come 1 a 212 negli Uccelli, come 1 a 186 nei Mammiferi; numeri soltanto
approssimativi e presi in termine medio fra le varie specie di ogni ordine. Un
cavallo che pesa come sette uomini ha due libbre di cervello. Un uomo ne ha
quattro libbre. Dunque, relativamente, l'uomo ha quattordici volte più cervello
e più pensiero del cavallo. Come la Psiche fa il Sistema Muscolare Nei
precedenti Capitoli abbiamo veduto il progresso graduale mirabile della Natura
che si fa. In questo vedremo come ordina i moti. La Volontà si manifesta senza
aver ancora al- cun organo negli amebi e nei nostri globuli bianchi, il cui
protoplasma contrattile si compone di albumina coagulabile e di sostanze proteiche
non solubili. Il protoplasma contrattile degli Embrioni degli animali inferiori
vi somiglia assai. Tutti i muscoli cominciano nel feto allo stato di sarcodi
amorfi: i nervi li fanno diventar muscoli. Il primo muscolo a formarsi, e V
ultimo a morire, è quello che governa la circolazione del san- gue e non si
arresta mai : è il cuore. Al momento in cui dal sarcode si sviluppa in un
uccello il muscolo che pulsa (fra le ore 26 e 30 dalla incubazione della gallina),
i suoi movimenti sono rari e poco percettibili. Poco a poco si ac- celerano e
si pronunciano : ed allora si formano i vasi, pei quali si caccia il sangue
(arterie) e quelli per cui ritorna (vene) ed un'area vascolare provvisoria, una
vescicola che si allunga in ventricolo di sopra e in orecchietta di sotto:
diventa un cuore di pesce. Poi si contorce, mentre il ventricolo va sotto, la
orecchietta va sopra e diventa cuore di rettile con tre cavità. Finalmente fa
la quarta ca- vità e si completa come cuore di uccello o di mammifero. Come
avviene la contrazione dei muscoli ? Avviene grazie a molecole di protoplasma
assai grosse, chiamate sarcous, che mutano forma con grande facilità, essendo
molto eccitabili e gonfiandosi col prendere il liquido ad esse vicino.
Naturalmente nel gonfiarsi si avvicinano e costringono così le fibrille
intrapposte a contrarsi, come ha dimostrato il prof. Arndt (Psychiatrie). Il
sangue porta continuamente ai muscoli car- bonio, sotto forma di grassi e di
zuccheri (che sono ambedue ossidi di carbonio). Il muscolo contraendosi non
consuma la propria sostanza, ma si bruciano questi materiali portati dal sangue
arterioso ; anzitutto i ternari o idrocarbonati, cioè i grassi ed i zuccheri; e
poi in grado minore i quaternari cioè gli azotati (1). E la combustione non
avviene (1) I prodotti della combustione completa dei ternari sono l'acido
carbonico e l'acqua, e il prodotto della combustione completa dei quaternari è
l'urea. Ma se la combustione fu incompleta, il prodotto dei ternari è l'acido
lattico, e quello dei quaternari o azotati è l'acido urico, la creatina e la
creatinina, cause di grassezza, di artrite, di gotta, di renella, di calcoli
orinari e di nefrite. se non allora che la Volontà fa contrarre i muscoli
gonfiando i sarcous. Il gonfiamento dei piccoli in- visibili sarcous produce
quello dei muscoli visibili. Dunque la Psiche, che ha fatto i muscoli, è quella
che li fa contrarre. La combustione dei grassi e zuccheri è la principale
sorgente del calore animale. La contrazione è atto vitale psichico della Unità
intima volente, esercitata nella syntonina di cui fanno parte i sarcous. Invece
la elasticità, per cui le fibre muscolari ritornano ad allungarsi dopo che
erano contratte, è una proprietà fìsica della fodera delle fibre muscolari
detta sarcolemma. L' Unità intima col ripetere i moti, li fa diventare abituali
ed atti riflessi. Il plasma muscolare dei sarcous, detto myosina o syntonina,
che sta fra le fibre, si coagula come il sangue. I muscoli viventi sono
elastici, mentre i morti sono rigidi. Un muscolo affaticato non si contrae più.
Ma se la Volontà è forte, ed esercitata, bastano 2 minuti per riattivare tutti
i muscoli. I boxers inglesi ogni 3 minuti di lotta ne prendono 2 di riposo e
così continuano per parecchie ore. Ogni 3 minuti l' Unità intima raccoglie la
sua energia per tornare a gonfiare i sarcous. II sistema muscolare è una
batteria di archi intrecciati ; ma chi lancia la freccia è la Volontà, forza
unitaria più delicata. Due uomini della stessa musculatura, lavorano molto
diversamente, secondo la loro volontà. La differenza può andare dall'uno al
dieci. Quando i nervi eccitano i muscoli a contrarsi, il sangue ci corre per
avidità dell' influsso nervoso — 155 — dal quale furono fatti, essendo il
sistema muscolare una continuazione dei nervi motori. E va notato che lo stesso
nervo motore può contrarre il muscolo e può anche inibire il movimento, secondo
che comanda la Unità intima, per il bene del Collet- tivismo organico. Il nervo
motore comincia a deperire nella cel- lula grigia cerebrale, perchè la volontà
è centri- fuga; mentre i nervi sensibili cominciano e deperiscono a partire
dalla periferia, essendo emissari del cervello, che devono prendere le
impressioni dell'ambiente. Perciò le sensazioni si diffondono ; mentre il nervo
motore muove un solo muscolo. I muscoli sono un po' innervati continuamente,
quanto maggiore è la Energia della Natura che si fa ; e sono quindi elastici,
perchè gli estensori ed i Settori si equilibrano. Marey dice che, se i muscoli
non fossero elastici, dovrebbero fare un lavoro decuplo, con un risultato
ridotto al decimo. La loro elasticità si può far crescere con la Volontà e con
l'esercizio, fino al punto da eseguire facilmente quei lavori di equilibrismo,
di acrobatismo, di ballo o di operazioni manuali difficili in alcune professioni,
che si ammirano. La Natura fatta della Volontà si può vedere sui corpi delle
persone addestrate da lungo tempo alle ginnastiche: ed è un complesso di
vasomotori, di nervettini del senso muscolare, di arterie, di vene, di muscoli
collegati, che permettono di fare con prontezza movimenti impossibili a chi non
è esperto, sempre diretti dalla Unità intima Volente. Quando danno spettacolo
di sé le ballerine, gli atleti, gli acrobati, gli equilibristi, questa Natura
fatta è già divenuta un Meccanismo. Allora i prò- — 156 — tagonisti, stanno
attenti con la Natura che si fa soltanto alle nuove circostanze che si
presentano nei loro compagni o nel pubblico. (Vedi Zucca, Acrobatica ed
atletica, 1902). I corpi di essi sono continuamente addestrati ad innervare le
spalle, i fianchi, le braccia, le gambe ed il ventre: e sono incomparabilmente
più elastici di quelli di chi fa vita sedentaria. I muscoli hanno dei
nervettini sensibili nelle loro fibre, che danno il senso muscolare, col quale
noi proporzioniamo tutto quello che facciamo. Le isteriche anestesiche possono
fare dei lavori di ago e di ricamo delicati, con la sola sensibilità muscolare.
Il senso muscolare è il primo ministro della Volontà. Fra i muscoli bisogna
distinguere quelli a fibre striate da quelli a fibre liscie. Le fibre liscie
(lunghe cellule nucleate) stanno nell'uretere, nella vescica, nelle ghiandole,
nello stomaco, nell'intestino, sempre alcaline e si con- traggono ad ogni
improvvisa emozione, avendo nervetti vasomotori assai delicati che vengono dal
gran simpatico, per atti riflessi. Dipendono dal gran simpatico anche i muscoli
che fanno rigettare gli alimenti dannosi (contraendo l'addome ed il diafragma
più dello stomaco). I più utili ad esercitarsi per sviluppare la salute sono i
muscoli psoailiaci del retro venfre, vicini alla colonna dorsale, che sono i
più ricchi di arterie, ed i più prossimi agi' intestini. Piacere e dolore
crescono con le fibre striate. I più dipendenti dal^ cervello sono quelli della
laringe. E evidente la Natura numerica della Unità in- tima quando cantano
Uccelli, Scimmie ed Uomini, perchè, senza una interna ed elevata capacità di proporzionare
la lunghezza delle corde vocali, rie- sce impossibile di emettere i suoni
voluti. A tal uopo la struttura fatta dalla Volontà di cantare deve essere
diventata un Meccanismo. Nell'uomo la laringe ha due corde che fanno le note
basse, vi- brando in tutta la loro lunghezza. La glottide le ravvicina per
farne vibrare una parte soltanto, a misura che il suono si vuol fare più acuto.
Finite le note di petto, la sola parte che vibra dà un falsetto, perchè manca
l'aria. Per fare le note gravi la faringe si contrae, la epiglottide si alza.
Un tenore, un baritono, un basso profondo, un soprano, col muscolo tiroide (se
hanno una Natura fatta esercitata) possono, senza preamboli, emettere quella
Nota che desiderano. Basterebbe osservare questa facoltà di proporzionare i
movimenti muscolari ed emettere le varie Note per far diventare pitagorico
chiunque vi rifletta. Abbiamo indicato alcuni fatti della fisiologia utili a
dar fondamento alla filosofia della vita. Il Pitagorismo esclude
l'indeterminato e vuole che tutto sia definito se è possibile matematicamente,
giacche la matematica è l'ossatura delle forze fìsiche, chimiche e biotiche
come disse il Galilei. In fisiologia questa ossatura è determinata dalla Natura
che si fa della Unità organica distinta e precisa, che numera col numero reale
(e non col concettuale) intenta ad esercitare le funzioni es- senziali:
digerire, respirare, sanguifìcare. assimilare e generare, attenta a cercare il
piacere e fuggire il dolore, bramosa di ascendere a più alta unità e di
affermarsi. Più che in tutti gli altri muscoli, in quelli della laringe, i
nervi nel farli, nell' intrecciarli, nell'educarli, misurano col Numero reale.
Della Parola diremo nel Yol. II. La Psiche generatrice Vedemmo ette gli
organismi sono associazioni collettivismi di cellule, formati sentendo, desi-
derando e volendo. Fra il sentire e il volere, vi è di mezzo non già il
Concetto Hegeliano, ne lo Indistinto Ardigojano, ma una figurazione dell'atto
necessario per svilupparsi. Ripetendo quell'atto, la Natura che si fa lo cambia
in Natura fatta poco a poco. All'individuo bastano pochi giorni per fare
un'abitudine : alla specie abbisognano molte generazioni. Le abitudini di due o
tre generazioni non divengono Natura fatta della specie, ma quelle conti- nuate
da molte generazioni rendono durevole la modificazione. Nel Oap. sul sistema
nervoso abbiamo distinto gli atti riflessi che sono di natura fatta individuale
o di poche generazioni, da quelli di molte generazioni, che si compiono senza
avere la imagine e non vengono impediti dal cloroformio. Le parti più antiche,
cioè i tessuti epiteliali, sono quelle che resistono più di tutte agli
anestesici. 1 muscoli resistono meno assai dei tessuti epiteliali, ma
continuano ad essere irritabili se non sopravvengono gravi guasti
nell'organismo generale. Meno dei muscoli resistono gl'intestini, le ghiandole,
il senso nutritivo, il senso respiratorio, il senso erotico. Invece la
sensibilità conscia è subito abolita, appena vengono somministrati Etere o
Cloroformio. Gli atti della sensibilità conscia progrediscono poco a poco e
sono essi che fanno i piccoli perfezionamenti degli organi digestivi, dei
respiratori, della circolazione, delle secrezioni, della sen- sazione e della
locomozione clie vanno complicando e perfezionando gli organismi, facendoli
passare dallo stato di Protozoari a quello di Animali più evoluti. La Natura
fatta acquisita è una consuetudiner una legge, un esercito addestrato in modo
diverso e proprio di ciascuna specie, in cui si riflettono tutte le sensazioni,
tutte le volizioni, tutti i coefficienti del passato : cosicché ogni dettaglio
nelle forme e nelle funzioni di un animale, ha avuto la sua causa intima.
Questa legge di evoluzione si riproduce rac- corciata nel seme, nell'embrione,
nel suo modo di crescere e di fruttificare — il che si esprime dicendo che la
filogenia (origine della specie) si ricapitola nella ontogenia (origine
dell'individuo). Quindi bisogna precisare che non è una memoria, come la
chiamano molti naturalisti poco filosofi, quella che fa uscire dal seme l'una o
l'altra pianta, e dal seme di un animale l'uno o l'altro tipo zoologico. Non è
una Memoria,, ma è una Legge, una forma di moto, una psiche obbediente,
passiva, inconscia nel suo complesso. Da molte uova di pesci e di uccelli di
specie diversa, escono pesci ed uccelli assai diversi. Da spermatozoidi e da
ovuli di Rettili, di Quadrupedi, di Primati, di Uomini, escono Vertebrati assai
differenti, senza che la psiche sociale inconscia, nel ricapitolare la lunga evoluzione
della specie,. mostri mai una libertà di volere, un qualsiasi arbitrio. Tutto
va meccanicamente, necessariamente ; ed anche le mostruosità, le forme terato-
logiche hanno sempre cause straordinarie di di- sordine. I moti una volta
imparati vanno senza imagine, sono ornai voluti fortemente, organizzati,
diventati meccanici : camminando non pensiamo al moto delle gambe. Non si può
chiamare Memoria se non quella dell'Individuo, al quale ricorda le sue
percezioni, i suoi atti. Non si può avere Memoria senza possedere il sistema
nervoso e specialmente la so- stanza grigia, in cui deporre e conservare le
inda- gini. Hering professore a Vienna è stato il primo a chiamare erroneamente
Memoria questa Legge o statuto sociale, progressivo delle specie che si
-evolgono. Nella sua Dissertazione all'Accademia Viennese 1870 disse che la
Memoria è una funzione generale della natura organica, e questa parola male
applicata ha generato poi molta con- fusione così in zoologia, come in
fisiologia ed in psicologia. La Legge o statuto sociale organico procede sicura
fintanto che l'ambiente non sia troppo av- verso. E intimamente connessa con la
Unità che la figurò. Le filosofìe straniere non spiegano il mistero della vita.
Lo Inconscio di Ed. Hartmann come può far tante meraviglie nella sua
inconsapevolezza? A che servirebbero il dolore ed il piacere degli organismi,
se questi sentimenti non governassero la loro vita e la loro evoluzione e tutto
fosse operato da una divinità inconscia? Tanto più che nello Inconscio di
Hartmann la Volontà lotta sempre con l'Idea. In realtà non vi è affatto questa pretesa
lotta; anzi non vi è neppure l'Idea: ma fra il Sentire e il Volere vi è la figurazione
del moto che può giovare, figurazione che non si può chiamare Idea, Concetto o
Pensiero. Le altre scuole non facendo la distinzione fondamentale fra la Natura
che si fa, libera, e la na- tura fatta, necessitata restano impotenti nei
problemi essenziali della vita e dimenticano la Unità intima che dà il piacere
di vivere, fattore primo ed essenziale. Piacere che è più che mai sentito e
goduto nell'Amore, quando tutte le psichi degli organi si fondono in una grande
unità, ed è sentita colla figurazione delle forme teleologiche del sistema di
forze proprio di ogni specie, ossia della legge o statuto sociale
dell'organismo. Un sentimento finalista, prepara in questa figurazione le
generazioni future. La sintesi del collettivismo organico, agognata e goduta
con sentimento, figurazione e volontà, è la causa della Eredità e somiglianza
dei figli agli antenati, salvo quelle piccole modificazioni che furono
vivamente bramate. I passi più notevoli nella bellezza e nell'utilità della
struttura, si preparano a lungo e si fanno prontamente nella sintesi Erotica, e
nell'Embrione quando il Collettivismo organico è vivamente sintetizzato.
Platone vedeva il divino nell'Amore ses- suale, perchè (egli diceva) prende
tutta l'idea della specie, e la realizza. Possiamo dire che è la tra- smissione
della Legge sociale del Collettivismo. La forza di ogni cellula dell'organismo,
con- verge e concentra sopra poche cellule tale funzione, sia che si faccia per
germinazione, sia che si faccia per fusione di nuclei germinativi sessuali.
Dapprima il piacere di congiungersi si compie senza sessi, ringiovanendo i
nuclei delle cellule, per semplice fusione, come nei Ciliati, nei Rizoidi e nei
Magellati. Le cause meccaniche non bastano per aggruppare intorno ad un
progenitore, per riproduzione senza nozze, individui primordiali, per formare
un individuo superiore, e tanto meno a dar ra- gione delle forme seriate, ossia
disposte in serie, e meno che mai a spiegare la differenziazione autonoma. Sono
necessarie le cause interne vitali (sensazione, desiderio, figurazione,
volontà) a trasfor- mare gli organi. Ci vuole poi gran concentrazione
morfologica per moltiplicare l' individuo e fare le -colonie. E gli animali
inferiori stentano tanto a fare tale concentrazione, che la prole resta impotente
a diventare adulta in breve tempo, ma gli embrioni gradatamente si sviluppano
fino a divenire adulti. Negli organismi inferiori {Celenterati, Crinoidi, Vermi
e Crostacei inferiori) l'uovo non produce quasi mai un organismo uguale al
genitore: ma sviluppa un essere embrionale, che ri- corda il primo individuo
delle colonie lineari (Idromeduse) od il centro dei Corollari, e degli
Echinodermi, che crescono a raggi (Radiati). Quando si muove, diviene un primo
anello, che ne germina dei successivi, ai quali servirà poi di testa nei Vermi
{Trochosphera) e negli Articolati (Nauplius). Nell'Idra di acqua dolce non vi
sono che quattro o cinque individui in colonia, ma nei Polipi idrati sono
migliaia. La Medusa in colonia non fa uova: ma quelle •che si isolano nuotando
per godere le nozze, le — 163 — fanno. Un siconoforo è una federazione
fluttuante di Meduse, divise in prensori, locomotori, riproduttori e nutrici. I
Polipi del Corallo formano grandi co- lonie ; ma anche fra essi vi è VAnemone
che vive isolato. Nei Briozoari e nei Tunicati si vede sempre il rampollo, come
nei Celenterati. Nei Vermi, negli Artropodi non si vede; ma sono formati essi
pure da meridi (ossia parti), derivate rampollando le une dalle altre. Negli
Anellidi la bocca e gli organi dei sensi stanno nella sola testa, ma ogni
anello ha le proprie gambe, il proprio canale digestivo, il suo ganglio
nervoso, e i suoi vasi saguigni, il suo sistema riproduttore. Se si separano,
fanno la generazione alternante, ora a gemme, ora ad uova, come le Salpe, nuotatrici,
tunicate, le une grosse come aranci e dedite all'amore, le altre piccolissime,
associate in catene fosforescenti. Così lo Sciphystoma, alterna le funzioni
riproduttive, in modo che il sessuato fa le uova, ma non le vede nascere, e le
nutrici allevano le larve nate dalle uova. I Vermi si distendono con nuovi
anelli sopra una linea lunga e diritta. Ma in alcuni la progressione si fece
per asse trasversale, obbligando ad accentrare e differenziare, portando al
centro gli organi di nutrizione e di circolazione, e ne vennero i Molluschi,
cancellando i segmenti; eppoi si fecero la conchiglia, per ripararsi dai ne-
mici (come pensano Perrier e Gegenbaur). Però nella loro Embriogenià, non
mostrano mai di es- sere segmentati, e possono anche non essere derivati dai
Vermi, come pensano Rabl e Cattaneo. La facoltà di rigenerare le meridi o parti
ta- gliate è evidente nell'Idra e nella Stella di mare, come nelle Piante. I
Crostacei derivano in gene- — 164 — rale da specie che avevano venti segmenti.
Il Pe- neonauplio aumenta gradatamente i suoi segmenti, mentre il gambero ha 21
segmenti fin dalla nascita. Le larve degli insetti sono Embrioni nati avanti
tempo, ma capaci di svilupparsi con l'aiuto di nutrici, ed anche senza di esse,
quasi sempre con Metamorfosi, come nel Baco da seta. Questo ani- maletto,
finche mangia sul gelso, non ha sessi: farà le ghiandole sessuali quando sarà
crisalide e farfalla, giacche la Muta o Metamorfosi è sem- pre una crisi di
maturità genitale. E per godere l'amore che si chiudono ed elaborano i germi
della loro Unità più alta. Gli Artropodi fanno diverse mute, rigettando il
guscio. Il bruco, con bocca masticante, diventa farfalla, con bocca da
succhiare. Il verme bianco diviene scarafaggio senza mutar bocca. Nelle Api,
nelle Vespe, nelle Pidci, nei Lepidotteri, e nei molti Vermi inferiori, si
osserva la partenogenesi. La partenogenesi artificiale è sempre impossibile
senza le forze che accumulano le ener- gie delle precedenti generazioni (1). La
concentrazione erotica arriva a perfezionarsi negli spermatozoidi e negli
ovidi. I sessi si svolgono in ghiandole ermafrodite, nelle quali il di fuori è
maschile, il di dentro è femminile. Se prevale l'assimilazione si ha la
femmina: se prevale l'azione si avrà il maschio. (Vedi: Thomson Geddes:
Evolution of sex. 1890, Londra). (1) Nella « Biologia taurinensis » di A.
Gìglio 1906, il prof. A. Ceconi dice che chi vuol spiegare fisicamente la vita,
prende sempre per isbaglio delle analogie parziali, come se avessero valore
totale. — 165 — L'ovulo nasce nella donna dall'epitelio dell'ovario, che è uno
dei tessuti più bassi, e più antichi dell'organismo. Anche gli spermatozoidi
nascono dal tessuto epiteliale dell' uomo. L' uovo fecondato del maschio non si
sviluppa in modo molto diverso dalle uova partogenetiche. Loeb e il prof.
Delage della Sorbona 1906, trovarono il modo (con so- luzioni saline e
semidolci miste a tannino), di pro- vocare la fecondazione artificiale delle
uova di al- cuni minuti animaletti marini, alternando la coa- gulazione (con acidi)
e la liquefazione (con alcali) delle albumine dell'uovo. L' uovo femmina ha
molto citoplasma ed un pronucleo privo di corpo centrale. Il maschio ha un
centrosoma, un pronucleo, e quasi nessun ci- toplasma. Il centrosoma maschio si
biparte fecondando la femmina. Ogni organismo superiore esce da uno sper-
matozoide che, nel suo mezzo milione di cel- lule, riunisce l'idea vitale da
svolgere, ossia la psiche passiva degli antenati, in sintesi morfologica, che
incomincia il suo impulso nell'astro del coito. Lo Spermatozoide e quasi uguale
in tutte le specie superiori, ma ben diversa è la psiche passiva che riceve dai
genitori. Entrando nell'ovulo lo irradia e lo vivifica, e ben presto la cellula
uovo principia a segmentarsi ed a sviluppare (con struttura semifluida)
l'embrione, dotato di una psiche passiva uguale a quella dei genitori. L'ovulo
prodotto in una delle vescicole dette di Qraaf, quando è maturo, riceve molto
sangue, gonfiandosi e rompe il follicolo, andando nelle trombe falloppiane,
facendo mestruare la scimmia e la donna (non i quadrupedi). 11 L'uovo dei
mammiferi è piccolissimo, ha quattro parti, cioè la vitellina, o zona pellucida
esterna, il vitello pieno di granuli, e fra queste la vesci- cola germinativa
di Purkinje e quella embrionale di Balbiani. Nelle uova degli Uccelli vi è di
più l'albume ed il guscio calcare, dovendo essere nutrito e riparato fuori
dell'alvo materno, covato tre settimane, mentre nei mammiferi l' uovo prende i
materiali nutrienti dalla placenta (che nella donna è una, nelle pecore e nelle
vacche sono parecchie). Il testicolo è fatto da molti tubetti stretti e lunghi
contorti, che sboccano nel canale eiaculatorio : in ogni tubetto si formano
strati di cellule di cui le più centrali allungano una coda e divengono così
Spermatozoidi. Brown Séquard iniettando sotto la pelle dei neurastenici
l'estratto dei testicoli di giovani animali fatto a freddo, ne guarì molti. La
spermina iniettata sotto la pelle è tonica per due settimane e non fa mai male.
Lo sperma contiene un numero enorme di sper- matozoidi ed uscendo si accompagna
al liquido delle ghiandole del canale eiaculatore, al fluido delle ghiandolette
del prostata ed a quello delle ghiandolette Cooper dell'uretra. Evaporato, lo
sperma cristallizza alla superfìcie il fosfato di spermina. Gli acidi
estinguono i movimenti degli spermatozoidi, gli alcalini a 35 gradi li
conservano. La testa dello spermatozoide è ricchissima di acido nucleinico, il
corpo è fatto da materie albuminoidi con lecitina e ce- rebrina, e il 5 °/ di
fosfati (1). La Psiche ge- (1) Hofmeister vide che le protamine sembrano fatte
dal trasformarsi delle proteine nel dar vita a spermatozoidi. Infatti nel
Salinone, il testicolo cresce a spese della — 167 — neratrice è affidata a
questi elementi chimici, in- vestiti dalla Volontà o Legge o Statuto sociale
ereditario. Quando corre molto sangue all'utero fecondato, incomincia alle
mammelle la secrezione de] latte, umore albuminoso pieno di globuli bianchi e
di cellule nucleate dolci, che dopo il parto diventa un composto di caseina, di
lactosi, di sostanze grasse neutre e di sali. Siccome il sangue non contiene
caseina, ne zucchero di latte, così è certo che vengono segregate nelle
mammelle che gonfiano i loro acini. La caseosi emulsionata ed i globuli
butirici rendono opaco il latte. Nei giorni della mestruazione il latte si
altera : ma presto ritorna normale. Che cosa avviene nell'utero a cui corre il
sangue dopo la fecondazione dell'ovulo? Il suo nucleo, come quello di tutte le
cellule nella cariocinesi (di cui parlammo nal Cap. VI) fa una segmentazione
che si moltiplica, finche si forma la così detta Morula ; un assieme di palline
come mora di gelso. Là si sgomitolano le membra venture dell'uomo. Nel centro
della Morula si apre una cavità, in cui corre un liquido che gonfia e spinge le
pareti, formando la Blastosfera. Questa va pigliando la musculatura del corpo,
intanto che gli animali non mangiano. — Secondo Bang, invece di protamine vi
sono istoni negli spermatozoidi in via di formazione e questi si sviluppano più
tardi in protamine e proteine, che for- mano le teste degli spermatozoidi. Del
resto la composizione chimica importa poco, poiché è la sintesi morfologica di
tutto il collettivismo organico che dà la vita agli spermatozoidi come agli
ovuli. Questa sintesi è del tutto psichica, come è evidente. forma di un ferro
di cavallo, detta Gastrula, ed ha di dentro VEntoderma e di fuori VEsoderma.
Neil' Entoderma (che diventa poi il canal digestivo) si fa un terzo foglio cioè
il Mesoderma in- vaginando : il Mesoderma svolge il cuore ed i vasi sanguigni.
L'Esoderma si sviluppa in sistema ner- voso muscolare, con un primo tubo di
nervettini liquidi viscosi; e questo tubo farà la spina dorsale ed il cranio.
La legge o statuto sociale è così divisa in tre dipartimenti. L'Embrione è un
corpicino animato dalla legge intima ereditaria, che riproduce gli antenati,
fa- cendo ogni giorno crescere la sensazione ed il moto del feto. La Unità che
diventa organica svolge la legge sociale formata nell'atto della fecondazione:
è V anima che fa il corpo, dal di dentro al di fuori, come dal di dentro al di
fuori si è fatta la specie. Lo studio degli embrioni e dei feti presenta molte
difficoltà per determinare nella Ontogenia la Filogenia, ossia per scoprire la
genesi della specie, perchè l'acceleramento embriogenico modifica nel feto gli
organi ed anche perchè si esige un magazzino di materie nutrienti che altera le
forme, come dice il Perrier (Philosophie zoologique). In uno stesso gruppo
zoologico la nascita avviene in stadi diversi; alle volte si saltano delle
fasi, o le cavità e gli organi che esse contengono si costituiscono
diversamente. La funzione generativa conferma adunque tutte le leggi di
formazione delle specie animali che si sono esposte nei capitoli precedenti. La
Unità infima nel Sentimento Il sentimento è il Governo del collettivismo
organico, ed è piacevole o doloroso. Esige più tempo delle sensazioni. La
sensibilità organica (che Rosmini chiama il sentimento fondamentale della vita
animale, tenendone gran conto, a differenza di tutti gli altri Metafisici)
detta in greco Cenestesia, in tedesco Gemeingefiihl, o tatto interno di tutti i
muscoli, nervi, della circolazione sanguigna, delle funzioni digestive, della
respirazione, delle secrezioni ghiandolari, del senso erotico, abituata da
milioni di anni ad unificare il suo tatto interno ed il piacere della vita e
della salute, è il fondamento delle tendenze individuali e del carattere: ed è
ereditata come psiche passiva, che può fare l'attiva convergendo nella Unità.
Il carattere viene dal complesso di tutte le cel- lule nervose, mentre l'
intelletto viene da una piccola parte di esse. Nelle malattie la cenestesia è
dolorosa quanto più vengono disturbate o minacciate le funzioni essenziali.
Nella convalescenza è piacevole, quando si va guarendo ed eliminando le ultime
stasi sanguigne; nella salute si gode fa- cendo una ginnastica, aumentando la
circolazione del sangue, la respirazione e la innervazione delle membra.
Dicemmo che il sentimento esige più tempo delle sensazioni, non però più di due
se- — 170 — condi minuti, dopo l'eccitamento ; tempo necessario per fare il
bilancio dei vari organi e sapere se l'organismo guadagna o perde. Sono
confronti fatti dalla Unità generale, in cui il Numero concettuale non entra
mai, relativi all'ambiente, alla nutrizione, alla salute o malattia, all'età ed
alle forze dell'in- dividuo ; sono dunque calcoli dell' Unità numerante intima.
Il tempo è abbreviato assai nelle gravi ferite. Le sensazioni sono reazioni
localizzate nei sensi speciali dalla cenestesia: ed avvengono in generale in 2
centesimi di minuto secondo dopo l'ec- citamento. La differenza del tempo dal
sentimento alle sensazioni può dunque arrivare al centuplo. Ogni sentimento
eccita il cervello e qualche gruppo di ghiandole. Nella paura quelle
degl'intestini, nella collera quelle del fegato, nelle in- quietudini i reni e
la vescica depuratori del san- gue ; nel dispiacere e nel dolore le lagrimali.
Nei sentimenti che deprimono, il cuore si ral- lenta e nel primo istante si
arresta. In quelli stellici il cuore batte più celere e le arterie si al-
largano, il cuore si vuota più facilmente, nelle emozioni liete, e più
difficilmente nelle emozioni tristi, per cui il popolo attribuisce i sentimenti
al cuore. I sentimenti di piacere e dolore, salute o malattia, coraggio o
paura, simpatia od antipatia esprimono il rapporto in cui stiamo con le cose e
in massima parte dipendono dal sistema nervoso del gran simpatico, operando sui
nervettini vasomotori. Essi promuovono la Evoluzione destando i desideri e
facendo la convergenza sulle sensazioni e sulle imagini che più giovano a
preparare il proprio vantaggio. Esprimono a fondo la Unità numerante, perchè
consistono dal principio alla fine in confronti di proporzioni (benché fatti
senza Numero astratto) e sono comuni agli animali ed all' uomo. Le scelte fatte
fra le varie vie, i cibi, le bevande, le azioni di ogni specie, i diversi modi
di condursi, le risoluzioni importanti prese d' improvviso e anche le meditate
sono suggerite dal sentimento e fatte con lampi di attenzione. Sotto l'azione
del sentimento il sistema vaso- motore modifica la digestione e la secrezione
della saliva, dei reni, delle lagrime, del latte (1) ecc. Il piacere ed il
dolore sono i due modi sostanziali dell'essere noumenico, dell'Intensivo conti-
nuo nella sua intima forza : Varmonia che fa espandere le Energie, la
disarmonia che le co- costringe a soffrire e ad estinguersi. Ogni piacere
aumenta la forza muscolare ; prova che ogni energia vuole ascendere. La
felicità corporea sta nell' accumulare forza nervosa; è salute il condensarla
ed è vizio il dissiparla. Il piacere, in chi non degenera, è una continua
nascita ed è quindi ascendente in ogni specie, in ogni individuo che
progredisce. Ogni Io sorge in condizioni diverse dagli altri, e (come diceva
Góihè) chi gode meno è chi scimiotta i godimenti degli altri. Ogni uomo
intelligente è originale nel modo di godere. Ogni acquisto di nuova sensazione
armonica fa piacere più assai che la ripetizione delle co- (1) La gioia aumenta
la secrezione del latte, la paura la diminuisce e l'arresta. La vacca e la
capra munte da mano straniera non danno latte. — 172 — nosciute e già provate :
e questo è lo stimolo che fa ascendere i piaceri e specialmente quelli
artistici. Ogni allargamento del dominio sopra le cose è piacevole, ogni
restrizione ed asservimento è doloroso. L'ambizione di promovere il bene comune
è sempre piacevole e non è vero quel che disse Bahnsen (nella sua
Charactérologie) che sia mossa dall'egoismo. La gioia giova molto al cuore, ai
vasomotori, allo stomaco, al fegato, a tutto il sistema nervoso e ghiandolare.
L'amor sessuale aumenta molto la circolazione del sangue, la respirazione, il
godimento del tatto, del senso muscolare. Ogni espansione di vitalità e di
forza, che non esaurisca, fa bene: rende l'occhio più vivo, il cuore batte più
celere, le narici si allargano, la respirazione si fa più frequente e profonda,
i muscoli si alzano, il sugo gastrico corre allo stomaco, la saliva alla bocca,
tutto il corpo aumenta la Cenestesia, non soltanto nei piaceri corporei della
tavola, dell'alcova, della ginnastica, ma anche negl'intellettuali, come la
contemplazione di un ca- polavoro dell'arte, di un bel paesaggio alpestre, di
un progetto industriale promettente, o l'ascol- tazione di una musica che
gradevolmente ci molce l'orecchio (1). Le teorie che fanno derivare i
sentimenti benevoli dalla esperienza, dalla utilità sono superflue e false.
L'amore infatti pervade tutto l'uni- verso e dà maggiore piacere che la malizia
ed il calcolo egoistico, anche ai più vili animali. (1) Nei piaceri
intellettuali l'aumento della circolazione, della innervazione è minore in
paragone con i piaceri del corpo. Le carezze eccitano piacevolmente i
vasomotori ed il gran simpatico, aumentano la vitalità, specialmente se sono
variate di modo e di posto. La emozione tenera (da non confondersi con
l'erotica) aumenta le secrezioni, la circolazione, la re- spirazione, e la vita
e dà un piacere calmo e durevole. La gioia se è forte può far piangere per la
pressione sanguigna degli occhi. Anche il pianto cagionato da dolore aumenta la
circolazione del sangue ed è un mezzo indiretto per cacciar via le imagini
tristi. La simpatia deriva da sinergìa di moti, da ammirazione per la bellezza,
la bravura e la bontà (1) per cui si entra nel modo di sentire dell'ammirato e
la Unità intima dell'ammiratore si mette all'uni- sono con quella di colui che
lo incanta. La collera e la gioia aumentano la innervazione dei muscoli,
dilatando i vasi, mentre la paura e la melanconia abbassano V innervazione e
restrin- gono i vasi. La paura fa impallidire perchè re- stringe i vasomotori,
raffredda il corpo, rilascia gli sfinteri, peggiora le malattie. Il terrore
inibisce ed arresta il cuore. La melanconia è l'atonia di spirito deprimente, è
un rinunciamento ad ogni convergenza, e se dura a lungo, sconcerta ogni
funzione vitale e si co- munica altrui, come gli altri sentimenti. Il disgusto
deriva dal palato e dall'odorato, che sono legati al pneumogastrico, promovendo
moti ri- (1) Ed è comune anche fra gli animali. Si sono visti vertebrati di
varie specie rifiutare il cibo e morire d'ina- zione per aver perduto l'amante,
cani desolati per la morte del loro padrone, e persino oche ed anitre zoppe
sostenute amorosamente nel camminare da amanti e da sorelle. flessi intestinali
e del canale digestivo e quindi nausea e vomito. Paura e disgusto hanno un
fondo comune, cioè la tendenza a fuggire e a respingere: sono movimenti di
avversione. La collera astenica è penosa, la stenica non lo è, perchè lotta
sperando di vincere e di farsi giustizia. Quando si intellettualizza, genera
l'in- vidia, e il risentimento, composti dallo istinto ag- gressivo e del
calcolo che inibisce ed arresta gl'impulsi distruttivi, per evitare le vendette
e le pene sociali o religiose. I sentimenti malvagi che hanno le varie specie
di delinquenti non vanno ascritti a necessità ere- ditata (benché si erediti il
carattere) ma assai più a cattivi esempi ed a seduzioni nuove. Esagerando le
ipotesi di Ferraz, Destine, Morel, Lubbock, corredandole di un gran numero di
osser- vazioni personali sui delinquenti e sui pazzi, so- vente male applicate,
Cesare Lombroso ha insegnato e fatto credere a moltissimi italiani viventi che
i selvaggi sieno fatalmente malvagi e che i nostri delinquenti sieno uomini che
ritornano allo stato dei loro antenati selvaggi. Però non è così ; se vi sono e
vi furono popolazioni selvaggie feroci, ve ne sono e ve ne furono molte
pacifiche e buone. La guerra fra tribù e tribù, fra popolo e popolo va ascritta
più che a nativa malvagità, alla debolezza del pensiero ed alla incapacità di
estendere il proprio ideale sociale al di là di certi limiti, di fiumi, di
monti, di laghi, di mari o di razza o di abitudini di lavoro. Infatti (come
osserva l'eminente economista prof. Achille Loria) , i delinquenti convicts,
deportati dalla Grande Brettagna, nell'Australia si trasformarono in una sola
generazione in gentiluomini e diedero impulso alla stupenda democrazia del «
Common Wealih of Australia » dove due città più popolose di Roma e di Napoli
(Sidney e Melbourne) ed altre parecchie accentrano istituti di beneficenza ed hanno
meno delinquenti della madre patria. Non è il corpo che fa l'anima : ma è
l'anima che fa il corpo. I sentimenti si comunicano facilmente : chi è triste
rende tristi i suoi confabulatori, chi è al- legro tiene allegra la brigata, un
buon libro fa buoni i lettori, unibro cattivo li corrompe: le carceri, il
domicilio coatto sono semenzai di delinquenti, ad onta di tutte le
conformazioni dei cranii e di ossa e di altri dettagli morfologici che il
Lombroso ha descritto con tanta diligenza. Queste conformazioni non sono la
causa, ma Veffetto degli animi pravi. La delinquenza, quando non sia
passionale, è un vile mestiere che ha rischi come alcuni mestieri onesti, e che
si sceglie a piacere o per suggestione, per imitazione, come gli altri, che
forma le sue abitudini e adatta i suoi organi e perciò finisce per modificare
la fìsonomia e per abbrutire anche l'aspetto. Ma in principio della loro-
carriera molti delinquenti sembrano, a guardarli,, simili agli onesti. Si
dimentica che la Natura fatta del delinquente è un'abitudine, un meccanismo
fabbricato poco a poco dalla Natura che si faceva e che il primo indizio fisico
del disordine del carattere non è il cranio, ne l'orecchio ad ansa, ma è il
disordine del sistema vasomotore, per cui la reazione ora è ec- cessiva, ora
insufficiente e manca l'equilibrio, la. facoltà di calcolar bene le conseguenze
dei propri atti e di moderarsi. Il valentissimo propagatore delle idee
Lombrosiane, l'eminente penalista prof. Enrico Ferri, le rese più dannose colla
sua dottrina fatalista, at- tribuendo le passioni perverse ed ogni delitto ad
una malattia, di cui l'uomo è irresponsabile ed insegnando che il criminale non
va dispregiato più che non si disprezzino i pazzi e gli appestati. La nuova
scuola penale, quando guarda l'albero genealogico di un delinquente dà la parte
del leone ai parenti malsani e quella del lepre ai parenti sani. Eppure il
Maudsley (Crime et folie, p. 255) dice che allorquando il cervello ha
principiato a degenerare, l'uomo può prevenire o con- tenere la pazzia o il
delitto con lo sviluppare il controllo della volontà e col proporsi un alto
scopo. Non è la morfologia, ne l'atavismo che fa i cri- minosi, ma l'educazione
data al popolo dai cattivi Governi. Nel Veneto la delinquenza è la minima d'
Italia perchè l'Austria amministrava onesta- mente, come la Repubblica Veneta.
Invece nel Lazio dove l' ipocrisia era obbligatoria prima del 1847, dovendo
ogni cittadino comunicarsi a Pasqua, e dove non vi era giustizia, tutto si con-
cedeva per favore a chi obbediva e serviva al clero ; in Sicilia, dove la
polizia dei Borboni stava agli ordini dei Feudatari, e l'autorità sembrava
disonesta e nemica del popolo (il Colajanni assi- cura che facilmente ancor
oggi si depone e si giura il falso in giudizio) ; nel Napoletano, dove a questi
mali si aggiungevano i cattivi esempi, venuti dalle alte classi, la delinquenza
è massima. Bisogna badare alle fonti dalle quali provengono i germi di degenerazione
delle idee e dei sentimenti. A guastare le idee provvede fra noi una filosofìa
balorda, a guastare i sentimenti provvedono i teatrali dibattimenti nelle Corti
di Assise e le cronache giudiziarie dei periodici, la pornografìa, le carceri,
il domicilio coatto ecc. Le missioni cristiane in Africa ed in Oceania
riuscirono a convertire a buoni costumi milioni di uomini che il Lombroso
riteneva inconvertibili. Tutta la storia ci testimonia che, quando le classi
diri- genti erano morali, lo diventavano anche i popolani e viceversa. I
sacerdoti ed i feudatari malvagi hanno diffuso la diffidenza e la ferocia.
L'eroismo e l'esal- tazione, quanto il panico e la paura, e i sentimenti di
odio e di vendetta, passano dai caratteri forti ai deboli, come provarono il
prof. Sigitele ed altri. Chi non ha conosciuto l'ardore di sacrificio dei Mille
? Chi non sa quanto gli occhi dolci, ma al bisogno fulminei, di G. Garibaldi
valessero ad in- fiammare i giovani? Chi non ha respirato l'ideale della patria
libera quando era serva? Come avvenne la comunicazione dell'eroismo, allorché
Medici ed i suoi trecento, difendendo il Vascello, versarono il miglior sangue
come un sol uomo? Dunque i sentimenti, buoni o cattivi, si comunicano. Il
sentimento religioso, come lo ispirano i sa- cerdoti, colla paura dell'inferno,
può trovarsi negli animali domestici verso i loro padroni. Ardigò e Trezza lo
intesero così basso. Certe specie di scimmie fanno atti di ammirazione e di
adorazione al levarsi del sole e seppelliscono i loro morti. Il sentimento
religioso (come lo dice il nome) è quello che fa sentire la parentela che abbiamo
con tutte le cose, con tutti gli esseri, e la derivazione dalla conscia Unità
del Cosmo. Ma non si è sviluppato se non molto tardi nella storia. Vico e Comte
sbagliarono supponendo che la prima età fosse quella degli Dei. Era piuttosto
consacrata al culto dei defunti e delle forze naturali. I selvaggi primitivi
credevano che la Natura fosse un seguito di fatti causati dagli spiriti
incorporati nel sole, nelle stelle, nella luna, nei monti, nei numi, nei mari,
nelle piante, negli animali e persino nelle rupi. Tiele provò che tutte le
religioni più antiche cominciarono dall'adorazione delle forze naturali e dal
culto degli antenati, dei genii protettori, o dei genii malvagi che mettevano
paura. Lo spiritismo odierno ci mostra con quale fa- cilità uomini anche
istruiti, ma inetti a pensare, si danno a credere alla esistenza di spiriti
invisibili ed alla loro influenza. E infatti, in moltissime tribù selvagge,
divengono sacerdoti o maghi coloro che possono ipnotizzarsi ed entrare in
estasi, costringendo i de- moni a desistere dai loro perfidi propositi, ed
invocando l'aiuto dei buoni genii. Le tribù tu- ramene dell'Asia centrale e
settentrionale e quelle di varie parti dell'Africa credevano tutte che, per-
dendo la coscienza e lasciandosi ispirare dalle potenze occulte si trovasse il
rimedio ad ogni male. Del resto gli Dei dei popoli selvaggi, anche se più
evoluti, operano sempre come uomini, capaci d'ira e di vendetta. L'origine dei
miti sta nella combinazione d'idee che è propria dei selvaggi, per cui si rassomigliano
le leggende dei Greci, dei Celti, dei Lapponi, degli Eschimesi, degli Iro-
>ehesi, dei Cafri e dei Boscimani, come li ha confrontati fra loro Andrea
Lang. Il progresso mitologico consisteva nel conside- rare come astratti,
vecchi e privi di attività gli Dei di prima e come realissimi quelli immaginati
dopo. Così al Cielo e Terra dei Turanici, gli Ari opposero Varuna o Ritam che
fa l'ordine; ma poi Varuna tramontò e si fece annanzi Indra il dio della luce.
Allora la religione ascende di grado e diviene più razionale ed intima. Si
fanno sagrine! e scongiuri magici, nel mentre si prega come persona a persona e
già nei più antichi inni Vedici, Varuna è invocato a perdonare i peccati. La
lode della divinità si accende per la speranza nella vittoria dei propri fini
individuali o sociali : e per conseguirla si viene accentuando la potenza e la
generosità del Dio ; gli si fanno offerte, sagrine!, gli si erigono templi, si
stabilisce un culto. Il Cielo degli Indiani è anche il Dyaus Patir, il Padre
celeste; il Tien dei Cinesi è il padre degli Dei e della Natura simbolo del
maggior Dio; in Egitto il sole unificava gli dei locali primitivi, e così fra i
Summeri e Accadi sull' Eufrate e fra i primi Semiti. Il culto del sole prevalse
fra i Malesi, i Baici, primi immigranti nella China, e nei Sinto del Giappone,
ed anche nel Messico e nel Perù, quando passarono in America la magìa e
l'astro- logia dell'Asia. Ra, Dio del sole, ispira a Tot o Ermete i quarantadue
libri sacri degli Egiziani, che insegna- vano la eternità della vita e del
pensiero. Il Dio accadico del fuoco, Kebir, si fuse col Dio iranico del fuoco e
col Bel, Dio del sole. Nell'India andò perduto il carattere personale del Dyaus
Patir degli Ari primitivi e si pensò Brama come spirito assoluto, volontà impersonale
che fa la Maya o illusione del mondo. — 180 — Invece nell'Iran (Sogdiana,
Battriana) fu concepito un Dualismo del Dio buono Ahura Mazda o Yaruna contro
Arimane capo dei demoni. L'idea di un regno di Dio in cui tutti sono solidali e
il merito di alcuni si estende a tutti i fedeli è di Zoroastro. Dalla piccola
città di Ur, dove fio- riva una delle scuole teologiche di Zoroastro uscì
Abramo, capostipite degli Ebrei che conservarono il dualismo iranico, di angeli
e demoni. Il riformatore dell'India si limitò a predicare l' eguaglianza, la
grazia eguale per tutti, anche per le donne, gli schiavi, i criminali,
abbattendo le Caste. Secondo Badda la convinzione di essere peccatori ed il
pentimento rigenerano, e si prova col lenire i dolori degli uomini e degli
animali, liberandosi dalla Maya o illusione del mondo. Il riformatore della
Palestina Gesù fu il maggior genio del sentimento e rese la religione un
affrancamento dalla necessità, una viva fiducia nell'Essere trascendente, una
speranza di vita celestiale, che contrasta coi bassi ideali di ric- chezza e di
potenza dei sacerdoti del suo tempo e di quelli del nostro. I suoi discepoli
avrebbero dovuto essere focolari di rinnovamento della coscienza morale, centri
degli assetati di giustizia, intenti a diffondere luce ed amore; quindi non
potevano abbracciar mai la universalità di un popolo. Il Cristianesimo non si
limita, come il Buddismo, a svincolare da ciò che è illusione, interesse, va-
nità e superbia; ma contempla il sole della vita nella sua unità ed
onnipotenza. Consiste essenzialmente nella comunicazione dei sentimenti di
amore, di abnegazione, di fede, spe- ranza, che aveva Gesù. E stupido quindi
l'abbassare Gesù a livello di profeti volgari. Per operare il bene, per muovere
gli uomini all'altruismo, alla solidarietà, si esige un centro, un faro, un
modello, il maggior genio del sentimento. Risuscitò l'Italia, da Arnaldo di
Brescia a Dante (Vedi Gebhart, «L'Italie mystique», 1890), dandole il
sentimento profondo che i preti non conoscevano. Risuscitò l' Europa, per mezzo
della Riforma e della Rivoluzione francese, che rovesciò quella che Voltaire
chiamava l' Infame, dando al popolo per lievito : Liberté, Egalité, Fraternité.
E sempre sarà necessario, più dei geni della scienza, delle arti belle, della
politica, il genio del sentimento, centro motore dell' umanità buona, perchè i
sentimenti non s'insegnano, non s'imparano da pochi, ma si comunicano a tutti. La Unità Numerante nella Volontà Se il
Sentimento è il Governo di ogni Collet- tivismo organico animale, la Volontà è
il suo ministro esecutore ed ha per ufficiali i nervi motori e per soldati i
muscoli. Nell'uomo, dal sostrato frontale parte l'ordine, e per il fascio
piramidale va alle circonvoluzioni motrici e per il centro ovale arriva alla capsula
interna che penetra nel corpo striato. I corpi striati (sul dinanzi del
cervello basso, nel corno maggiore), sono grossi come due uova 12 di tacchino e
rossi, formati di cellule grandi grigie poligone. Ogni corpo striato dirige i
movimenti del lato opposto. Al corpo striato seguono il peduncolo cerebrale ed
il bulbo, e nel midollo spinale fa agire i nervi motori ed i muscoli.
L'esercizio muscolare volontario è sempre preceduto dalla attività del cervello
e del cervelletto, posto in azione dalla Volontà: Questo fattore psichico è il
yero motore dei muscoli (1). I moti riflessi sono effetto della Volontà degli
antenati diventata meccanismo. I più invariabili dipendono dalla spina dorsale.
I riflessi cerebrali si adattano a complicate reazioni. I sensori motori
vengono dal bulbo, dai corpi striati e dagli strati ottici. Ferrier (The
functions of the Brain, p. 287), vide che i centri inibitori impediscono la
distra- zione. Il moto inibito si disperde in gesti a metà, ed in disturbi
viscerali. Se un moto riflesso non si compie, è sempre segno che venne
contrariato per inibizione, voluta dai lobi frontali. Un ragazzo che impara a
scrivere muove la faccia, le gambe, finche poco a poco si riduce a muovere
solamente gli occhi e la mano. Sempre gli animali sostituiscono alla diffusione
illimitata inutile, una diffusione ristretta e limi- tata al movimento che
serve al loro scopo, e fin qui è Natura che si fa con attenzione. In seguito,
(1) La Volontà non può essere Elettricità: come di- cemmo sopra, perchè va
infinitamente più lenta ; è tutta psichica, e può così bene contrarre, come
rilasciare i vari muscoli. Essa spende la forza nervosa accumulata e chiama
sangue arterioso a vivificare i muscoli che lavorano. quanto più si ripete,
tanto più si moltiplicano le fibrille, i vasi capillari, e si consolida in moto
riflesso, ossia in meccanismo di Natura fatta. Abbiamo esposto la graduale
formazione del meccanismo nei Capitoli XI sul sistema nervoso, XII sul sistema
muscolare, XIII sulla Psiche generatrice, e altrove sotto diversi punti di
vista, perchè la Natura che si fa va sempre distinta dalla Natura fatta che è
necessitata. Non manca, anche ai più semplici animali, la libertà di volere
nella Natura che si fa. La Necessità regna in tutta la Natura fatta, che è la
parte massima, mentre la Natura che si fa è la parte minima, ma è libera. Gli
atti volontari liberi sono assai pochi al paragone degli atti che si fanno per
abitudine e per moti riflessi, anche nell'uomo educato. Un moto che si fa per
abitudine esige ancora l'imagine: mentre un moto riflesso, che è ereditato, non
ha più bisogno della imagine, e si compie macchinalmente. Ogni organismo
esprime quello che gli antenati hanno voluto per il proprio bene, e l'istinto è
una combinazione di processi appetitivi e di atti riflessi. Maudsley (Body and
Will) dice che l'energia volontaria registra le sue esperienze modificando la
struttura nervosa, acquistando nuova potenzialità, tanto nell' operare certi
atti, quanto nello inibire quelli che sarebbero abituali. Nella proporzione che
si arresta la tendenza a diffondere il movimento delle membra, la co- scienza
si va concentrando in un modo specialmente voluto. Tutte le specie animali si
sono svi- luppate coordinando e subordinando i moti secondo che erano utili e
piacevoli. E quanto più questi movimenti venivano ripetuti, tanto più diventavano
facili, finche si resero moti riflessi irresi- Questa genesi della Natura che
si fa e della Natura fatta è di grande luce nella scienza e nella vita pratica.
Ma nelle filosofie dialettiche dello Hegelismo e dell1 Ardigoismo che negano
l'indivi- duo e riducono la coscienza ad un'astrazione, ri- sultato del
processo di antitesi dei concetti per l'uno, e risultato delle forze incidenti
dell'ambiente per l'altro, è ignorata. Anzi YArdigò confonde insieme sentire,
volere e pensare negando sempre il soggetto che pensa e vuole. Nelle sue Opere,
Voi. I, p. 141 a 185 egli scrive che il soggetto è un concetto astratto. « La
coscienza non è altro, egli dice, che l' insieme delle rappresentazioni o esterne
(dalle quali si astrae il il concetto di materia) o interne (dalle quali si
astrae il concetto di spirito o di anima) (pag. 145). Il riferimento delle
sensazioni al soggetto pensante ed agli oggetti esteriori, non ha luogo per
intui- zione immediata: ma è un puro effetto di esperienza, per la quale ne
facciamo poco a poco l'abitudine (pag. 149). Dunque non vi sono schemi a priori
dell'intelligenza: non vi sono elementi primitivi; ma sono tutti, anche il Me,
prodotti da abitudine empirica (pag. 150). La coscienza è un risultato delle
forze incidenti {pag. 151). Non è vero che il fenomeno non si possa pensare
senza il soggetto relativo. Il Soggetto è un concetto al quale si può arrivare,
ma non un dato, dal quale si debba partire. Il Soggetto dei fenomeni psicologici
non è altro che un astratto che si chiama Anima, è in- stabile, e segue le
variazioni logiche per le quali passa l' induzione, dopo lo esame dei fatti »
(pagina 163). « Non vi è differenza radicale fra Sentìmento, Volontà e Pensiero
: Gli atti volontari altro non sono che sensazioni e sono riferiti all'anima
per errore (pag. 180). Le facoltà rappresentative, affet- tive e volitive, sono
solamente combinazioni variate dei medesimi elementi di sensazione, come
altret- tante parole formate col medesimo alfabeto (pagina 181). Le cognizioni,
gli affetti, i sentimenti, i voleri, sono tutte sensazioni o ricordanze di sen-
sazioni, e dipendono dall'organismo » . Così l' Italia non si faceva dal di
dentro al di fuori, da un eroe ai suoi compagni garibaldini e alle masse : no,
erano gli effetti inconsci dell'ambiente che spingevano Garibaldi a Calalafìmi
a rispondere a Bixio : « Non ci ritiriamo : qui si fa l' Italia o si muore » .
E dall'ambiente che i martiri e gli eroi antichi e moderni attinsero il coraggio
e l' entusiasmo : risultati delle forze incidenti, sentire, pensare, volere :
tutto è uguale per Ardigò, ò]xbu xà Travia. Ogni uomo ha i suoi doveri: e se li
segue è come una nave che va al porto, per forza propria, avendo buon capitano,
buona bussola, buona macchina, buone vele, e questo è l'uomo pitagorico
bruniano. Mentre, se non li segue, somiglia ad una nave che non sa andare in
porto se non per caso, e che, quando i venti sono contrari, ed i marosi
minacciano, si lascia travolgere dalle forze inci- denti, come un trastullo. E
questo è l' uomo Ardigotico. Ardigò ha negato la Coscienza, il Soggetto, e la
Natura che si fa. Ed in questo egli non ha fatto altro che seguire il
Positivismo anglo-fran cese e contraddire al suo pensiero fondamentale dello Indistinto
che sta sotto ad ogni distinto e che somiglia allo Inconscio di Schelling.
L'armonia fra la filosofia di Schelling e quella di Feuerbach e di Spencer non
è stata trovata à&WArdigò: né poteva trovarla. Il disaccordo è evidente
nella teoria della Volontà. Chi è che vuole quello che fac- ciamo noi ? Se è
l'ambiente non siamo noi. Se noi andiamo contro l'ambiente (e lo fanno tutti
gli animali) siamo snaturati, delinquenti che vanno contro il loro papà
l'Indistinto. Così il Signor Ardigò non è più Ardigò: e una eco della gente che
lo circonda. Il prof. Giuseppe Sergi poi, nella sua « Psychologie physiologique
» 1888, fa derivare gli atti volontari dai moti riflessi/ e tratta della prima
differenza tra la volizione e l'atto riflesso, nel sospendere dopo
l'eccitamento il moto, per cer- care una via nuova e arrivare così all'atto
spontaneo, il quale, deriverebbe dall'attività automatica (sic) degli elementi
nervosi e muscolari. È inutile proseguire. Intelligenti pauca. Il confusionismo
è madornale. Gli atti riflessi non si sa- rebbero mai formati, se non fossero
stati voluti e ripetutamente voluti dagli antenati degli ani- mali che oggi ne
sono forniti. Se la Volontà uscisse dai moti inflessi, sarebbe perfettamente
inutile, essendo meccanismi che vanno per necessità. Grazie a queste false ed
assurde teorie, oggi nell'antica patria del diritto (che era tutto fondato
sulla libertà), si crede che l'uomo sia schiavo delle proprie passioni: e la
scuola Lombrosiana, attribuendo i delitti, le malattie mentali e anche il genio
alla epilessia larvata, è ^esagerata a tal punto che il Morselli scrisse nella
Cronaca d'arte di Milano che, con tali teorie, si può giungere a chiamare
l'uomo un animale epilettico. La nostra dottrina della Natura che si fa e della
Natura fatta fu, non solo adottata da valenti professori Italiani di filosofia
del diritto, ma approvata anche all'estero e specialmente dallo eminente
magistrato e pensatore francese Tarde, il quale la segnalò nella Reme
Philosophique come «profonde et habituelle distinction » . Essa concilia in
modo strettamente scientifico il sentimento della libertà, i bisogni della
giurisprudenza, della politica, della morale, con le esigenze del Determinismo
; ed è tutta fondata sui fatti. Altri due illustri filosofi francesi più del
Tarde espliciti amici della nostra Nuova scienza cioè B. Perez, «Le caractère
de l'Enfant à l'homme», 1892, e Fr. Paulhan, « Les caractères » , 1894,
opposero egregiamente i padroni di se stessi, ossia gli uo- mini riflessivi,
che sanno sistematicamente inibire i movimenti superflui o dannosi, agi'
incoerenti, agl'impulsivi, ai suggestionabili, ai deboli, ai di- stratti, agli
storditi, ai frivoli, insomma a coloro che si lasciano imporre dalla società e
trastullare dalle forze incidenti (agli uomini ardigotici). Sono questi i mezzi
caratteri o i senza carattere, assai numerosi nelle grandi agglomerazioni
umane. Però i veri caratteri si possono ridurre a tre, cioè quelli in cui
predomina V intelligenza, che sono pochissimi, calcolatori, i quali nulla lasciano
al caso ; i sentimentali che vivono sopratutto nella loro intimità,
suscettibili, meditativi; e i volitivi che vivono molto all'esterno,
nell'azione, audaci ed ottimisti (1). (1) Tutti sanno che gli antichi Greci
distinguevano quattro temperamenti e li dicevano base di quattro ca- ratteri:
il sanguigno leggero, versatile, corrisponde ai 1 veri caratteri sono unificati
e stabili, durevoli, cambiano poco e difficilmente (1). Le divisioni fon-
damentali dei caratteri sono date adunque nella distinzione delle tre facoltà
psichiche : sentimento, pensiero e volontà. Se fosse lecito trovare qualche
analogia nel mondo fisico si potrebbe osservare che gli uomini nei quali
prevale il sentimento corrispondono al Carbonio (elemento accentratoro); quelli
nei quali è maggiore la volontà all' Ossigeno, (elemento che si combina cogli
altri più facilmente) ; quelli senza carattere o di semicarattere all' Azoto
(elemento in- differente ed inerte); quelli finalmente che pen- sano più di
tutti, non hanno naturalmente corri- spondenza nella natura bruta;
corrispondenze che forse hanno poco valore. I grandi capitani, come Napoleone,
i grandi uomini di Stato, i maggiori industriali sanno mezzi caratteri, tipi
misti; il melanconico che Lotze chiamò sentimentale, esitante e profondo; il
collerico che ha molta imaginazione e passioni intense, corrisponde ai
volitivi; e il flemmatico o linfatico molle, di poca imaginazione, freddo,
agisce lentamente, corrisponde ai senza carattere. Cabanis vi aggiunse il
nervoso, che è una varietà del sentimentale, e il muscolare che è una varietà
del volitivo. B. Perez classifica, osservando i moti, in vivi, lenti, ardenti,
e tipi misti. F. Paulhan osservando la legge di associazione delle idee, ossia
l'attitudine di ogni ele- mento, desiderio, idea a suscitarne altri, per uno
scopo comune. Veggasi pure Janet, « Des caractères dans la sante et dans la
maladie ». (1) Le conversioni sincere come quella di S. Paolo, di Lutero,
Agostino ecc. lasciavano stare il fondo del carattere, mutandone solamente l'
indirizzo e gli scopi. I can- giamenti di carattere dovuti a malattie od a
ferite della testa non sono conversioni ma caratteri nuovi, dipendenti da
organismo modificato. combinare questi caratteri, in modo da trarne il maggior
frutto per la guerra, la politica e gli affari: e se mancano il carbonio o
l'ossigeno, Velemento indifferente mette in equilibrio instabile alcune
società, alcune burocrazie, alcuni organismi, che guidati da mano più sapiente
prospererebbero. Il Volere fa tutti i moti. La volontà è la finalità resa
causale, giacche al sentimento ed al giudizio fa seguire l'atto di difesa e di
sviluppo. Maine de Biran vide che il tipo su cui percepiamo le cause esterne è
la nostra volontà, poiché essere vuol dire sentire, volere, agire, ed infatti Schopenhauer
concepì il mondo come fatto da Volontà cieca. Ed il viennese professore
Stricker, che meglio degli altri pensatori lo interpreta, os- serva che la
Volontà è la vera causa (Ursache, Urquelle), che essa è il tipo della forza
universale. Con l'esperimento si provoca, a nostro piacere, un fenomeno, e si
riconosce il modo di agire delle energie cimentate : assimilando le forze della
natura alla volontà nostra. iSTon è tanto il succedersi co- stante dei
fenomeni, che ci assicura sulla vera causa, quanto il cooperarvi col nostro
senso muscolare e con la nostra Volontà. Siamo costretti a considerare ogni
moto come causato e trasferito da una Volontà, da una forza simile alla nostra
Volontà. Huxley e Dubois Reymond credevano che ci fosse un abisso fra la volontà
e il moto, fra la psicosi e la neurosi. Però l'abisso non vi è punto ,se si
pensa che l'Intensivo continuo della coscienza volente è il centro attivo del
moto centrifugo. E la Volontà è misurante in tutto quello che si fa, anche in
una carezza ad un bimbo: se non misurasse, invece di fare una carezza darebbe
uno schiaffo e per farsi la barba si taglierebbe la pelle: ne cucire, ne
scrivere, ne disegnare, né lottare e tirar di scherma, ne eseguire qualsiasi
lavoro si potrebbe se la Volontà col senso muscolare non fosse misurante e non
sapesse continuamente proporzionare i movimenti. La volontà che misura senza
numero concettuale è sopratutto evidente nelle partite di boxe, dove la
direzione e la veemenza dei colpi sono calcolate ad ogni istante con colpo
d'occhio si- curo nei minimi atteggiamenti. Spettacolo interessante la
ginnastica; e specialmente una partita di boxe. Johnson campione della razza
negra del Texas e Jeffries campione della razza bianca dell'Ohio, nel luglio
1910 presso la Università di Reno, città universitaria del Nevada, mostrarono
tutte le risorse della Volontà più esercitata a forza di pugni: e vinse il
Negro, benché meno alto e meno robusto. La Volontà non sta punto in proporzione
della intelligenza. I Batraci sono meno intelligenti dei Rettili, ma non meno
risoluti. Fra i Mammiferi, che superano per intelletto gli altri Vertebrati, la
Volontà è sovente inferiore a quella dei Rettili, e gli Uccelli spesso fra i
tropici si lasciano affascinare. Certi serpenti affascinano uccelli, scimmie,
conigli, col solo guardarli concentrando la loro Volontà. Mentre i piccoli
animali che vor- rebbero divorare stanno sugli alberi, il serpente che sta per
terra, li aspetta, li attrae: ed essi si sentono paralizzati, e mezzi morti di
paura: fin- che vanno nella bocca del tiranno, per un ipnotismo che li conquide
a far loro rinunciare alla propria volontà, alla distanza di alcuni metri, e mentre
potrebbero ancora scappare volando o sal- tando altrove (1). Torneremo sulla
fascinazione nel Voi. II: L'uomo secondo Pitagora, Cap. IX. Spesso un uomo d'
ingegno ha volontà mediocre \ ma viceversa grandi passioni, desideri violenti
sor- gono non di rado in uomini di cervello debole. Oltre ai mille modi di
esercitare la Volontà nel lavoro e nella lotta per la vita, vi è la scarica
leggiera e piacevole del Riso, che non ha alcuno scopo di utilità conoscitiva,
ne economica, ne estetica, ma si fa spontaneamente, come esplosione di libertà,
quando ci colpisce qualche contrasto improvviso di idee che si escludono, o qualche
notizia gradita che promette lo sviluppo del be- nessere nostro o dei nostri
cari o quando si fa un giuoco ginnastico divertente, o quando ci minaccia chi
non può misurarsi con noi. Si comincia col sorriso, che increspa le labbra e
mostra i dentini delle Delle donne; si accresce facendo brillare gli occhi e
mostrando (come disse il Fiorenzuola), l'anima nel suo splendore, si arriva a
scuotere piacevolmente il petto e il diaframma^ ad abbracciare i vicini ed a
saltare. Il giudizio muove il riso : ma è la volontà che scarica la forza
nervosa. Un giovanetto che studia Tlnglese, p. es., e pronuncia Shakespeare ora
come Schiacciaspie, ora come l' immortale Scappavia, desta l' ilarità
irresistibile ; ridono anche le scimmie. (1) Per suicidarsi ci vuole, oltre ad
una forte volontà, un giudizio sentimentale sul minore dei mali inevitabili :
giudizio che in generale manca agli animali. Però gli scorpioni, se messi
vicino al fuoco, si suicidano, alzando la coda e cacciando il loro dardo
avvelenato nel mezzo della testa. Il riso è sempre giovevole: allarga il
torace, fa emettere il gas acido carbonico, ed aspirare os- sigeno, vivifica il
sangue, abbassa il diafragma, dilata i polmoni ed i vasomotori, rischiara le
idee, dà innervazione a tutto il corpo. È una esplosione di libertà, di
superiorità, di vittoria, ed è probabile che nella civiltà possa
generalizzarsi. Certo negli uomini poco civili è più raro, e negli ani- mali
inferiori ai quadrumeni manca. Schopenhauer scrisse che gli uomini volgari si
annoiano stando soli, perchè non hanno la potenza di ridere da sé. La umanità
nel ridere dimostra che è libera, e gode ogni qualvolta s'innalza sopra
l'ambiente, e si svincola da ogni ostacolo, da ogni ceppo, da ogni meschinità.
INDICE Cenni storici su Pitagora e la sua Scuola . . Pag. 5 Introduzione » 17
Capitolo I. - La prima estrinsecazione del- l'Essere Divino (Spazio e Tempo) »
21 Id. IL - La seconda estrinsecazione del- l'Essere Primo (Atomi eterei e
ponderali) » 29 Id. III. - La solidarietà degli Atomi in generale » 47 Id. IV.
- La solidarietà geometrica cri- stallina » 58 Id. V. - L'ascesa alle chimiche
combinazioni » 67 Id. VI. - L'Unità assimilatrice cellu- lare » 72- Id. VII. -
Come le Unità cellulari si ac- centrano nelle Piante per godere l'amore » -82
Id. Vili. - Origine psichica delle specie animali » 101 Id. IX. - Come la
Psiche fa la vita in- terna sana » 121 — 194 — Capitolo X. - Come la Psiche fa
le guarigioni Pag. 134 Id. XI. - Come la Psiche fa il Sistema Nervoso » 144 Id.
XII. - Come la Psiche fa il Sistema Muscolare » 152 Id. XTTI. - La Psiche
generatrice ... » 158 Id. XIV. - La Unità intima nel Senti- mento » 169 Id. XV.
- La Unità Numerante nella Volontà . » 181 ^ LBOL'20 SAN TOMASO D'AQUINO
Della Pietra filosofale e dell'Arte dell'Alchimia, con una Introduzione L. 3,-
MARCO SAUNIER La Leggenda dei Simboli filosofici, religiosi e massonici . . . .
L. 6,- ERMETE TRIMEGISTO Il Pimandro e altri Scritti Ermetici, tradotti dal
greco per il D.r Bonanni, con una Introduzione L. 3,- CIRO ALVI L'Arcobaleno L.
3,50 Frate Elia » 2,— Vangelo (II) di Cagliostro, con una Introduzione di
Pericle Maruzzi L. 3, — Prossimamente : Gr. Uebini - Arte Umbra. L. Fumi -
Eretici e ribelli nell'Umbria. Dr. Keller - Le basi spirituali della Massoneria
e la yita pubblica. Enrico Caporali. Keywords: l’implicatura di Pitagora
– pitagorismo – neo-pitagorismo – epigrafe sulla lapide di Caporali a Todi –
Caporali – il mito di pitagora – la mistica di pitagora – scuola di mistica
pitagorica – reincarnazione – concetto di metempsicosi – filosofia italica –
pitagorismo nella Roma antica – Pitagora e Platone – Pitagora ed Aristotele --
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caporali” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689844459/in/photolist-2mPsXiB-2mKDXUP
Grice e Cappelletti – slle origine della
filosofia antropologica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Grice: “I like
Cappelletti – and so does he! He is into what he calls, in Latin, to show off,
‘philosophia anthropologica,’ which is MY thing – I mean, one can explore the
philosophy of ‘life’ (bios) per se, and Aristotle on the ‘entelechia’ of a
vegetable, but vegetable implicatures are boring (to us); the idea of
‘psychology’ features large, and also ‘vita.’ When Cicero dealt with Aristotle’s
philosophy of life (zoe, bios, psyche) he found himself in trouble: vita, anima
– And then came Ficino and Pico! Cappelletti knows it all, and it shows!”
-- Vincenzo Cappelletti (Roma ),
filosofo. Dopo gli studi liceali
classici, si laurea prima in medicina poi in filosofia. Nel 1967, consegue la
libera docenza in storia della scienza che, dal 1968 al 1971, insegna, per
incarico, all'Perugia, quindi, dal 1972, all'Roma La Sapienza dove, nel 1980,
consegue l'ordinariato; ha successivamente insegnato la stessa disciplina
all'Università Roma Tre fino al 2002, quando è andato in quiescenza. Nel 1956, inizia a collaborare con l'Istituto
dell'Enciclopedia Italiana di Roma, fino a diventarne, nel 1969, vicedirettore generale,
quindi, l'anno successivo, direttore generale, carica che manterrà fino al
1992. Questo periodo, vedrà una progressiva affermazione sia in campo nazionale
che internazionale dell'Istituto, con un forte incremento nella produzione
delle opere nonché l'apertura di nuovi ed innovativi progetti editoriali. Dal 1992 al 2002, è vicepresidente e
direttore scientifico dell'Enciclopedia Italiana, carica rivestita negli anni
trenta da Giovanni Gentile, poi da Gaetano De Sanctis, quindi da Aldo Ferrabino
di cui Cappelletti sarà appunto collaboratore negli anni 50'. Già condirettore
della rivista di storia della scienza Physis (dal 1991) e degli Archives
Internationales d'Histoire des Sciences, dirige, dal 1956, Il Veltro. Rivista
della civiltà italiana (da lui fondata assieme a Aldo Ferrabino), nonché
presiede la casa editrice Studium. È anche socio storico dei "Martedì
Letterari". Dal 1970 al , è
presidente della Domus Galilaeana di Pisa e, dal 1989 al 1997, dell'Académie
Internationale d'Histoire des Sciences. Dal 1999, è presidente della Società
Italiana di Storia della Scienza (presidente onorario dal ) e, dal 1997 al ,
dell'Istituto Accademico di Roma. Inoltre, dal 2001 al 2005, è commissario
straordinario dell'Istituto Italiano di Studi Germanici, quindi presidente dal
2006 al , promuovendone il passaggio da istituzione culturale a ente di
ricerca. Presiede inoltre, dal 1988, la Società Europea di Cultura, fra gli
anni 80' e 90' il Centro Italiano di Sessuologia (CIS), la Fondazione Nazionale
"C. Collodi" dal 1989, il Consorzio BAICR-Sistema Cultura
(Biblioteche e Archivi Istituti Culturali di Roma) dal 1991, la Fondazione FUCI
dal 1996 al . Dottore honoris causa
dell'El Salvador e di Moron-Buenos Aires, è stato socio straniero
dell’Accademia delle Scienze di Bucarest. Nel 1991, riceve il Premio
internazionale Montaigne per le scienze umane. Medaglia d'oro al merito
accademico, è insignito, nel 2003, della medaglia Koiré dell'Académie
Internationale d'Histoire des Sciences e, per due volte, della medaglia d'oro
al merito della cultura italiana, sia per gli sviluppi dell'Enciclopedia
Italiana che per la promozione degli studi di storia della scienza. La sua attività scientifica ha riguardato
inizialmente la storia e l'epistemologia delle scienze biologiche nella
Germania dell'Ottocento, quindi le teorie psicoanalitiche, in particolare la
psicoanalisi freudiana e la psicologia analitica, nei loro rapporti con le
altre discipline socio-umanistiche, fra cui l'antropologia, la politica e la
filosofia. Ha anche curato collectanee su aspetti del pensiero nonché le opere
di alcuni scienziati del Settecento e dell'Ottocento, fra cui Giovanni Battista
Morgagni, Emil Du Bois-Reymond, Rudolf Virchow, Hermann von Helmholtz. Quindi,
dopo aver ulteriormente approfondito gli aspetti storiografici e metodologici delle
scienze esatte e naturali, i suoi interessi di ricerca si sono rivolti verso la
filosofia e la sociologia delle scienze, analizzando, sia dal punto di vista
storiografico che epistemologico, i rapporti storico-dialettici fra scienza e
società, con particolare riguardo alle scienze umane. Pubblicazioni principali Emil Du
Bois-ReymondI sette enigmi del mondo , Firenze, Tip. L'impronta, 1957. Atomi e
vita, Bologna, Edizioni Cappelli, 1958. Entelechìa. Saggi sulle dottrine
biologiche del secolo XIX, Firenze, G.C. Sansoni, 1965. Opere di Hermann von
Helmholtz , Torino, UTET, 1967 (2ª ed., 1995). Rudolf VirchowVecchio e nuovo
vitalismo , Roma-bari, Editori Laterza, 1969. L'interpretazione dei fenomeni
della vita , Bologna, Società editrice il Mulino, 1972. Emil Du Bois-ReymondI
confini della conoscenza della natura , Milano, Giangiacomo Feltrinelli
Editore, 1973. Freud. Struttura della metapsicologia, Roma-Bari, Editori
Laterza, 1973. Epistemologia, metodologia clinica e storia della scienza medica
(), 5 voll. (IV e V curati da V. Cappelletti e Dario Antiseri, 1982), Roma,
Arti grafiche E. Cossidente, 1977-82. La scienza tra storia e società, Roma,
Edizioni Studium, 1978. Saggi di storia del pensiero scientifico dedicati a
Valerio Tonini , Roma, Casa Editrice Jouvence, 1983. Antropologia dei valori e
critica del marxismo , Roma, PWPA-Edizioni dell'Accademia, 1984. Alle origini
della "philosophia anthropologica", Napoli, Guida editori, 1985. De
sedibus, et causis. Morgagni nel centenario (curato assieme a Federico Di
Trocchio), Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1986. L'Enciclopedia
Italiana per l'Europa: le nuove opere Treccani, Roma, Quaderni de Il Veltro,
1992. Le scienze umane nella cultura e nella società odierne , Edizioni
Studium, 1993. Etnia e Stato, localismo e universalismo , Roma, Edizioni
Studium, 1995. Introduzione a Freud, Roma-Bari, Editori Laterza, 1997 (2ª ed.,
2000; 3ª ed. ampliata, ). Filosofia come scienza rigorosa. Edmund Husserl a
centocinquant'anni dalla nascita (con Renato Cristin), Soveria Mannelli (CZ),
Rubbettino Editore, . L'Università e la sua riforma (curato assieme a Giuseppe
Bertagna), Roma, Edizioni Studium, . Natura e pensiero. Percorsi
storico-filosofici, Roma, Aracne Editrice, . Onorificenze Medaglia d'oro ai
benemeriti della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia
d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte — Roma, 28 novembre 1992
Note Notizie bio-bibliografiche
sull'autore si trovano in V. Cappelletti, Natura e pensiero. Percorsi
storico-filosofici, Aracne Editrice, Roma, , Introduzione di G. Cimino ( 9-48),
Appendice ( 247-252). Cfr. V.
Cappelletti, "Attualità della storiografia scientifica", in: La storiografia della scienza: metodi e
prospettive, Quaderni di storia e critica della scienza, N. 5, Domus Galilaeana
(Pisa), CLUEB, Bologna, 1975,
315-329. La maggior parte delle
notizie biografiche qui riportate, sono tratte dalla biografia dell'autore
scritta da G. Cimino per l'Enciclopedia Italiana (cfr. sezioni "" e
""). Istituto Italiano di Studi
germaniciHome page Società europea di
CulturaHome page Guido Cimino,
CAPPELLETTI, Vincenzo, in Enciclopedia Italiana, V Appendice, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1991, vincenzo-cappelletti. Altri progetti
Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Vincenzo
Cappelletti Vincenzo Cappelletti, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. italiana di Vincenzo Cappelletti, su
Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. Registrazioni di Vincenzo Cappelletti, su
RadioRadicale, Radio Radicale. Vincenzo
Cappelletti: La nascita della Psicoanalisi. Aforismi, storia del termine
inconscio, documento video, Rai Scuola.Filosofia Filosofo del XX secoloStorici
della scienza italiani 1930 2 agosto 21
maggio Roma Roma. Il termine entelechia
(entelechìa, dal greco ἐντελέχεια) è stato coniato da Aristotele per designare
la sua particolare concezione filosofica di una realtà che ha iscritta in se
stessa la meta finale verso cui tende ad evolversi. La crescita di
una pianta, con cui essa tende a realizzare la propria entelechia. È infatti
composto dai vocaboli en + telos, che in greco significano «dentro» e «scopo»,
a significare una sorta di «finalità interiore». Aristotele parla di
entelechia in contrapposizione alla teoria platonica delle idee, per sostenere
come ogni ente si sviluppi a partire da una causa finale interna ad esso, e non
da ragioni ideali esterne come affermava invece Platone che le situava nel
cielo iperuranio. Entelechia è quindi la tensione di un organismo a realizzare
se stesso secondo leggi proprie, passando dalla potenza all'atto.[1] È
noto infatti come, secondo Aristotele, il divenire si possa considerare
pienamente spiegato quando se ne individuino le sue quattro cause: Causa
Materiale, Causa Formale, Causa Efficiente e Causa Finale. Per designare il
compimento del fine Aristotele usò appunto il termine entelechia che indica lo
stato di perfezione, di qualcosa che ha raggiunto il suo fine. I
neoplatonici si avvicinarono in parte alla concezione aristotelica secondo cui
la forma di un corpo doveva essere anche immanente ad esso e non solo
platonicamente trascendente, tuttavia trovarono riduttiva l'identificazione
dell'anima con l'entelechia, essendo l'anima per costoro qualcosa di anteriore
al corpo e comunque autonomo rispetto ad esso. Una sintesi tra la concezione
aristotelica e quella neoplatonica si trova in Campanella, per il quale la
natura è un complesso di realtà viventi, ognuna animata e tendente al proprio fine,
ma d'altra parte tutte unificate e armoniosamente dirette verso una meta comune
da una stessa universale Anima del mondo. Anche Leibniz conciliò
l'entelechia aristotelica con la visione neoplatonica, facendone una proprietà
essenziale della monade, cioè di ogni "centro di energia", capace di
svilupparsi autonomamente verso la propria meta o destino: ogni monade non
riceve alcun impulso dall'esterno, ma tutte insieme formano un complesso
unitario, retto al suo interno da un'armonia prestabilita da Dio, Monade
suprema. Esse sono infatti coordinate al pari di tanti orologi, funzionanti per
conto proprio ma sincronizzati tra di loro. Goethe in seguito designò
come entelechia l'archetipo della pianta, cioè il modello ideale di ogni tipo
vegetale che si estrinseca in maniera tangibile nelle sue fasi di sviluppo
esteriore, adattandosi di volta in volta alle differenti condizioni ambientali
in cui si imbatte. Nel Novecento il termine entelechia è stato riproposto dal
filosofo e biologo Hans Driesch per designare la forza vitale da lui ritenuta
immanente agli embrioni e responsabile del loro sviluppo, in opposizione alle
teorie meccaniciste che li consideravano alla stregua di «macchine». Aristotele
ne parlava infatti come di qualcosa che ha la «vita in potenza» (De Anima, II,
412, a27-b1). ^ Così Plotino in Enneadi, IV, 7, 8. ^ Goethe, La metamorfosi
delle piante (1790). ^ Sul concetto di entelechia in Goethe, cfr. il saggio di
Giorgio Dolfini, L'entelechia di Faust, Olschki, 1983. ^ Dizionario di
filosofia Treccani. Voci correlate Aristotele Monade Collegamenti esterni (EN)
Entelechia, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica
su Wikidata (EN) Entelechia, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.
Modifica su Wikidata Controllo di autorità. GND (DE) 4356679-0 Filosofia
Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia
Categorie: AristoteleConcetti filosofici greciNeoplatonismoStoria della scienza.
entelechia Termine usato da Aristotele in
contrapposto a «potenza» (δύναμις), per designare la realtà che ha raggiunto il
pieno grado del suo sviluppo. Il termine fu ripreso da G. Leibniz per indicare
la monade, in quanto ha in sé il perfetto fine organico del suo sviluppo.
Nel campo delle scienze biologiche il termine è stato usato per definire il
principio dirigente dello sviluppo di ogni organismo. In questa accezione il
termine e. fu ripreso da H. Driesch, che nella sua dottrina neovitalistica
ammise l’esistenza di un principio organico individuale avente in sé l’idea
della realtà perfetta, cioè dell’organismo completamente sviluppato.Vincenzo
Cappelletti. Keywords: alle origini della filosofia antropologica, entelechia –
vita – filosofia della vita – Grice, “Philosophy of Life” – Aristotle on
entelechia – storia della scienza – storia dela psicologia filosofica --. Il
concetto di entelechia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cappelletti” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51776877903/in/dateposted-public/
Grice e Capra – del corpo animato –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Nicosia). Filosofo. Grice: “Plato, who
never fought, thought the soul was in the brain; Aristotle, who taught
Alexander, and knew of Alcebiades, a warrior, was aware of the sinews of the
body; he thinks the ‘anima’ was in the heart – ‘enthymema’ – Ryle laughed at
them all, stupidly. The issue is VERY subtle – And Marcello Capra explores the
conceptual intricacies of applying a spatial concept (like ‘sedis,’ the most
general spatial concept, actually) to ‘anima’ – And the good thing is that he
philosophised with his companion while they did peripatetics along the valley
of the river in Nicosia!” “Why is it that philosophers always have to
self-segregate; people spoke derogatorily of the Oxford School of Ordinary
Language Philosophy, but there were THREE schools: mine, Witters’s followers’s,
and Ryleans – and each could not stand the other! Well, Capra, bored of
Palermo, founds in Nicosia his own academy – At Oxford we had unfortunately to
SHARE the town, if not the gown!” – Studia a Padova sotto Montano e Falloppio –
un ginecologo. Tornato a Nicosia, fonda una scuola, societa, gruppo di gioco, o
club di filosofia. In seguito, si trasferì prima a Palermo e poi a Messina.
Divenne assistente di Giovanni D'Austria e medico della flotta del suo 'Impero
per cui partecipa alla battaglia di Lepanto. Tornato in Sicilia, su incarica
del vice-ré Don Diego Enriquez de Gusman studia l'epidemia di peste e
descrisse i risultati dei suoi studi in un volume dal titolo De morbi pandemici
causis, symptomatibus et curatione, pubblicato a Messina. Scrisse anche un
volume sulle proprietà mediche della scorzonera. Pubblica a Palermo saggi
filosofichi. Un saggio filosofico e di dedicato alla sede corporea dell'anima e
considera i principi di Aristotele e i quesiti di Galeno. Per Aristotele,
contro Platone, la sede corporea dell’animo e nel cuore; per Platone alla
testa!Altro saggio tratta dell'immortalità dell'animo alla luce della
psicologia filosofica funzionalista di Pitagora, Aristotele, Pitagora, ed
Epicuro. Di Marcello Capra non si conoscono esattamente il luogo e la data
precisa della morte. Uomini illustri
della Sicilia. Dizionario biografico degli italiani. l'immortalità
dell ' animo umano è considerata come incerta. Ma ciò sia detro di passaggio ;
che noi non vogliamo , ne dobbiam difendere l'Immortalità dell ? animo Umano
con tanto pericolo. E a chi domandi , l'immortalità dell'animo è vita futura ?
rispondiamo , esser futura la sanzione. ftante la lor confufione coll'anima
universale diffusa in tutta la mole corporea · Onde opponendo quegli Antichi
l'immortalità dell'animo alla mortalità del corpo , mostravano , che questa
immortalità intendeano , come una permanenza eterna. La sola immortalità,
dunque, alla quale si possa pensare, e alla quale effettivamente si è sempre
pensato, affermando l'immortalità dello spirito, è la immortalità dell'Io
trascendentale; non quella, in cui si è fantasticamente irretita la mitica. L'uomo
adunque , come egli è creato in mezzo fra l ' Angelo , e la bestia , cosi
alcuna cosa comunica con gli Angeli , cioè l'immortalità dello spirito , e in
alcune cose comunica con le beftie , cioè la . mortalità della carne insino ,
che la carne ... Sulla sede dell’anima e della mente. De Sede Animae et Mentis
ad Aristotelis praecepta adversus Galenum. Primò igicur notandum , quando de
Sede Animæ rationalis disputamus , per Sedem strictè nos non intelligere firum
, qui exigit distinctionem seu divisionem partium in loco , folisque competit
corporibus , sed , ut Scholastici nuncupant ... Dialogus
de instrumento philosophiae. Publication: Messanae : ex typographia Fausti
Bufalini, Marcelli Caprae , ... de Immortalitate rationalis animae juxta
principia Aristot . adversus Epicurum , Lucretium et Pithagoricos quaesitum . —
Panormi , apud J. F. ... De Immortalitate rationalis animae juxta principia
Aristot. adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos quaesitum il Capra,
nicosioto , il quale nel 1589 inandava fuori due Quesili, l'uno De sede animae
et mentis ad Ari stotelis praecepta , adversus Galenum , l'altro De Immortalitate
A nimae rationalis , justa principia Aristotelis, adversus Epicurum , Lucretium
, et Pythagoricos; Caprae Marcelli, nicosiensis , De sede animae et mentis ad
Aristoteles praecepta , adversus Galenum , Quaesitum. Panormi 1580 in 4 . De
immortalitate animae rationalis , iuxta principia Ari stotelis, adversus
Epicurum , Lucretium , et Pythagoricos, Quae situm. Ibi 1589 in 4 . Qualche
relazione con quest'Istituto devono aver avuto le opere pubblicate dal Capra in
quel torno di tempo , come : De sede animae et mentis ad Aristotelis praecepta
, adversum Galenum . Quaesitum ( Panor . , 1859 ) ; — De immortalitate. Capra,
filosofo siciliano originario di Nicosia, può essere considerato un altro
esponente non secondario della quaestio che interessa la sede dell’anima (o
animo) razionale. Studia a Padova sotto Monte e Falloppia, esperienza questa da
cui aveva mutuato l’interesse, tutto padovano, per i problemi di fisiologia
generale e psicologia. Per un’introduzione alla non vasta biografia di Capra,
si vedano PITRÉ e GARIN, GLIOZZI e DOLLO --. Nel “De sede animae et mentis
ad Aristotelis principia adversus Galenum (Palermo) dedicato al viceré don
Diego Enriquez de Guzmán, conte d’Alvadeliste. Infatti, Capra dà ampio saggio
delle sue attitudini filosofiche in campo medico, prende le difese della
psicologia aristotelica. Per Capra la quaestio de sede animae si presenta
immediatamente duplice. In un senso, infatti, la questione riguarda l’anima
come principio di fisiologia generale e soggetto quindi a generazione e
corruzione (quaesitum de sede animae). Dall’altro, invece, riguarda un
principio immateriale, immortale ed eterno (quaesitum de sede mentis).
Disputaturus (ut ad peripateticum pertinet) de animae sede. quoniam una
aeterna, ut in nostro quaesito demonstravimus: altera mortalis. Quibus non
eodem modo sedes convenit. Propterea ut lucidior sit explicatio agam primo de
sede animae quae interitui est obnoxia. Mox agam de sede mentis: hoc est illius
partis quae venit deforis, et post corporis dissolutionem remanet superstes. Quanto
all’impostazione, il saggio si presenta come una serrata fila di quaestiones e
responsiones secondo l’uso scolastico, mentre l’obiettivo polemico è
rappresentato dalla tesi galenica dell’estensione e dislocazione reale dei
principi psichici nel corpo. Capra distingue anzitutto tra “principato”
(principatum) ed “estensione” (extensio) dell’anima. Il principato riguarda
l’organo che per primo si attiva, si modifica o cessa di funzionare in
determinate condizioni. L’estensione, invece, ha a che fare con la reale
presenza dell’anima nelle strutture materiali. In quest’ultimo senso si hanno
due alternative: o l’anima si trova ad essere suddivisa in più parti del corpo,
oppure si trova tutta insieme in una sola di esse. Entrambe le opzioni vengono
però respinte, anche con argomentazioni tratte da esperimenti anatomici. In
generale l’estensione dell’anima viene negata poiché, in ossequio al dettato
aristotelico che vuole l’anima forma del corpo organico, la sede dell’anima
deve essere considerata il corpo nella sua interezza -- principatum
consideramus; cum obtinet in aliqua corporis particula. At si consideramus
extensionem, ea est ubique. Obiectio Et quoniam ad huc quispiam instare posset
per ea quae retuli in praecedenti quaesito. Nam per ligamenta conspicimus
privari membra sensu et motu. Quod non contingeret si anima per totum corpus
esset extensa. Hinc Aristotelem aliquando videtur asserere animam esse in
spiritu. Responsio Dicendum est quod solum ex eis colligimus principatum, et
insuper colligimus spiritum esse id principium, per quod anima iungitur
corpori, et obit munera sua. Non autem accipimus eam non esse extensam, quia
reiicienda est sententia Galeni qui cum censeat animam mortalem esse
temperamentum; cum inquit, septimo de placitis Hyppocratis, et Platonis
vegetalem esse temperamentum epatis. Vitalem vero temperamentum cordis. Nam si
id esset, tunc non ubi vitalis esset anima, ibi reperiretur vegetalis. Nec
essent extensae per universum corpus. Cum itaque animae non conveniat sedes ut
corpori, nec ita si una corporis parte et non alia. Est enim in toto corpore:
et dum quaerimus sedem animae tamquam formae, dicere debemus totum corpus esse
animae sedem. Quanto all’estensione del principato in cui essa si manifesta,
invece, si tratta di un’estensione per accidens, che spetta realmente forse
solamente ai vegetali e ad alcune specie di insetti. Per questa via, distingue
quindi l’estensione spaziale dalla divisione concettuale. La prima compete
all’anima in quanto soggetta alle forme materiali di cui si serve. La seconda
rappresenta la molteplicità delle sue funzioni come espressioni di un'unica
attività. Gli esperimenti sulla legatura dei nervi dimostrerebbero in tal senso
che qualsiasi organo, separato dalla sua connessione con il cuore, diviene
torpido o mal funzionante. Et authoritatibus, et rationibus confirmare
possumus. Et primo nos conspiciamus quod si a corde ad reliquas particulas
claudatur iter, aliae partes vitae privantur: nam et motu et sensu distincte
conspiciuntur. Ut in obstructionibus, in epilepsia, in ligationibus servare
licet. Id minime eveniret si anima esset tota in quavis parte. Ma essi, secondo
Capra, evidenziano anche come l’anima abbia la tendenza a ricostituire
spontaneamente quella totalità che viene interrotta o sopressa con le
operazioni di legamento o incisione, in ciò dimostrando la sua dipendenza da un
principio unico. L’anima, benché estesa nella sua totalità in tutto il corpo ed
ogni sua parte in ogni parte di quello, differisce in questo dalle altre forme
materiali che, quando viene divisa, essa recupera la totalità che tuttavia non
è una totalità di estensione. E ciò avviene in quanto essa possiede un
principio dal quale dipende. E per questo Aristotele afferma che l’anima è una
in atto, e molteplice in potenza. Inoltre è estesa in modo tale da interessare
allo stesso modo ogni parte del corpo e da adattarsi alle forme inferiori, ma
in modo consequenziale e seguendo un certo ordine, poiché tali forme si
osservano nel cuore, e poi negli altri organi, o in ciò che fa le veci del
cuore. Tutte queste cose sono note per il fatto che dimostrano come l’anima sia
forma necessariamente estesa e divisibile. Così, dunque, l’anima è estesa in
relazione all’estensione del corpo, ed è divisibile, dipendendo tuttavia dal
cuore quanto a sviluppo e conservazione, tramite gli spiriti e le parti più
sottili del sangue. Qui si può separare l’anima in motore e mobile a motivo
delle diverse parti, e lo stesso si può fare distinguendo gli spiriti e le specie
dell’anima in rapporto al corpo misto. In primo luogo, dunque, l’anima dipende
dagli spiriti e dalle parti più sottili del sangue che traggono origine dal
cuore, il quale si dice essere la sede dell’anima. Anima ut extensa est tota in
toto, et pars in parte. In hoc differt ab aliis formis materialibus. Quod
quando dividitur post divisionem recipit totalitatem. Non tamen totalitatem
extensionis. Et id evenit. Quoniam habet unum principium a quo pendet. Et ideo
Aristoteles inquit, quod est una actu, plures potestate. Insuper ita extensa
quod aeque Item respicit omnem corporis partem et convenit formis infra animam,
sed cum dependentia, et ordine aliquo. Quia Item considerantur in corde, mox in
aliis, vel in eo quod cordis gerit vicem. Haec omnia ex eo sunt nota, quod
ostendunt animam esse formam tunc necessario extensam, et divisibilem. Sic
itaque anima extensa ad extensionem corporis, et divisibilis, pendens tamen
infieri, et inconservari a corde, mediantibus spiritibus, et subtilioribus
partibus sanguinis. Hinc animam secari in motorem, et mobile ob varias partes:
et spiritus distinctionem, et animae diversitatem ad formam misti. Primum
itaque anima innititur spiritibus, et tenuioribus partibus, et a corde originem
ducunt, quod dicitur esse sedes animae. L’estensione corporea compete dunque
all’anima in virtù di un organo principale, il cuore, e quindi di organi
secondari dei quali per accidens condivide la corporeità, mentre
substantialiter l’anima si comporta come la fiamma che, seppure divisa in molte
parti, resta sempre ed essenzialmente una. In questo senso la sede dell’anima è
l’organo mediante il quale l’anima si unisce primariamente al corpo ed è dunque
l’organo che per primo nasce e per ultimo cessa di vivere. Rispetto ad esso il
cervello si presenta quasi excrementum et pondus iners. Per rintracciare
l’origine del principio fisiologico e la sua sede, Capra fa affidamento alla
dinamica del calore innato -- Ea est censenda animae sedes quae origo, et
principium est huius caloris. Sine quo anima nec esse, nec operari valet. Sed
huiuscemodi est cor: ut experientia docet, et omnes affirmant. Immo Hyppocrates
ait animam spirituum seu calorem esse -- laddove infatti ha origine il calore
naturale – egli argomenta – ha origine anche l’anima quae educitur primo de
potentia materiae. Ma, calore e vita hanno origine dal cuore e si diffondono
attraverso gli spiriti ed il sangue a tutto il corpo: a quanti dicono che gli spiriti
siano sede dell’anima si deve rispondere che è necessario considerare il calore
come sede. Infatti gli spiriti sono necessari in quanto il calore naturale è un
certo tipo di spirito, giacché nello spirito si conserva il calore, la cui
origine non è né il fegato né il cervello, ma il cuore, che è la sua origine
precipua. E se anche alcuni anatomisti hanno attribuito l’origine degli spiriti
alla pulsazione, si sono sbagliati ed hanno fatto affidamento su di una falsa
esperienza. Infatti, il cuore è l’origine del calore e lì, nelle parti più
sottili del sangue, debbono avere origine gli spiriti; non certo dall’aria che
viene attratta. Perciò si deve ritenere che la sede dell’anima sia quella che
possa adattarsi a ciascun singolo vivente. Ma ciò che si adatta ad ogni singolo
vivente è il cuore. Ad id quod dicunt de spiritibus occurrendum est: quia nos
calore considerare debemus. Nam spiritus necessarii sunt: quoniam calor
naturalis quidam spiritus est. Cum in spiritu servatur calor. Non epar non
cerebrum est origo. origo itaque praecipua cor est. Et si Anatomici nonnulli
pulsui. Id tribuerunt. Falluntur, et falsitate experientia nituntur. Nam
caloris origo cor est, et ibi spiritus extenuissimis partibus sanguinis gigni
debent: non autem ex attracto aere. Propterea ea est censenda animae sedes.
Quae singulis viventibus convenire valeat. At singulis convenit cor. Stabilendo
dunque il cuore quale sede dell’anima, prosegue Capra, si riuscirà facilmente a
giustificare i fenomeni di accrescimento, moto, ostruzione o legatura dei
nervi. A questo punto, però, l’autore è costretto a fare i conti con la tradizione
prettamente medica che si richiamava a Galeno ed agli esperimenti relativi alla
separazione dei principi fisiologici nel corpo, ad iniziare dal movimento
dimostrato dal cervello relativamente alla sistole ed alla diastole, affermato
dai medici ed accettato con grande riluttanza da Capra. Et cum cor primo
movetur vere potest esse principium motus aliorum: nam et si moveatur per
sistolem et diastolem: cerebrum a nullo movetur motu, et anima per motum maxime
diiudicatur. Non enim censendum est ut falso putant nonnulli Anatomici medici,
quod cerebrum quoque movetur per sistolem et diastolem: quoniam si id
conspicitur in cerebro id convenit ob arterias per cerebrum distributes. Nel
ritenere che il cervello sia importante tanto quanto il cuore medici falluntur,
scrive il medico siciliano, ribadendo le classiche motivazioni aristoteliche,
esposte da noi nel capitolo secondo, per cui il cervello è di per se stesso
insensibile, freddo ed immobile. Ma ciò ancora non basta. Poiché, come già
visto, gli esperimenti di legatura ed ostruzione delle arterie hanno secondo
Capra il solo scopo di dimostrare che, separati dall’attività di infusione di
calore e vita propria del cuore, tutti gli altri organi vengono privati delle
proprie funzioni, non può far altro che dichiarare false la maggior parte delle
dimostrazioni anatomiche ottenute mediante legamento: Gli anatomisti inoltre
legano un cane, e danno ordine di tagliare velocissimamente il torace. Quindi
legano quattro vasi del cuore e lo asportano, dopo di che sciolgono il cane,
che grida e corre. Questo genere di scappatoie non hanno alcun valore: ed in
primo luogo perché le esperienze che costoro riferiscono sono decisamente
incerte, e forse in gran parte false. Talvolta, infatti, gli uomini vivono
anche dopo che sia stata asportata loro una parte di cervello, e si sono visti
spesso animali camminare anche senza testa. Inoltre, una volta formato il
cuore, le forme che plasmano l’embrione esistono prima che il cervello sia
formato e l’embrione già sente, e se lo si punge si contrae, cosa questa,
invece, che ancora non accade al cervello. Insuper Anatomici quidam canem
ligant, et secare iubent citissime toracem. Mox ligant quatuor vasa cordis. Et
cor eximunt, deinde solvunt canem qui vociferat, et currit. Evasiones hae nullae
sunt: et primo quae ab eis referuntur valde sunt dubia, et fortasse magna ex
parte falsa. Vivunt enim nonnunquam homines quibus aliquid cerebri detractum
fuit. Et avulso capite saepe progredi conspecta sunt animalia. Insuper
informationes embrionis genito corde ante quam sit cerebrum productum, sentit
embrio et si pungitur contrahitur. Non tamen adhuc cerebrum habet. Dunque, in
sede fisiologica, l’instrumentum commune communi sedi resta il cuore, da cui
hanno origine tutte le concoctiones e quindi tutti i temperamenti; attraverso
di esso, inoltre, un’anima immateriale si unisce (copulatur) con le funzioni
vitali dell’organismo attivando in successione tutte le altre: secondo Capra,
infatti, gli esperimenti di legamento indicano che ciascun organo, interrotta
la via che lo collega agli spiriti prodotti dal cuore, cessa pian piano la propria
attività peculiar. Questa strenua difesa del cardiocentrismo aristotelico in
pieno Cinquecento può sembrare arretrata rispetto al clima costituitosi sul
finire del secolo intorno all’intepretazione anatomica del Quod animi mores, e
soprattutto del De placitis, ma si ricollega di fatto anche a sviluppi
successivi, quali quelli di Rudio e Cremonini, in cui il primato del cuore non
necessariamente implica una svalutazione delle funzioni del cervello. Ed, in
effetti, l’importanza del cervello come sede del pensiero verrà in parte
recuperata nella sezione conclusiva dell’opuscolo, De sede mentis. Se la
concezione galenica relativa alla localizzazione delle funzioni psichiche si è
rivelata fallace sia in generale -- l’essenza dell’anima è infatti indivisibile
--, sia nello specifico -- la sede da cui si sviluppa la totalità delle
funzioni organiche è il cuore, non il cervello -- non può tuttavia negare che
gli esperimenti galenici dimostrano come il cervello debba essere considerato
sede almeno di alcune delle operazioni dell’anima razionale. Anche in questo
caso, tuttavia, parlare di sede è improprio, poiché la mente è, in quanto tale,
immateriale e ad essa non conviene quindi alcuna sede. In ogni caso, prove a
favore della localizzazione cerebrale esistono anche secondo Capra e possono
essere articolate almeno secondo quattro ordini di ragioni: 1. il pensiero
richiede l’ausilio di phantasmata che si producono nel cervello; il ribollire o
fervor degli spiriti nel cuore non sempre è causa di un processo analogo nel
cervello; accade invece che, se si è preoccupati o agitati – pur restando
inalterata la fisiologia cerebrale – gli spiriti fervano nel cuore a motivo
della preoccupazione. De sede animae et mentis (Palermo) negli
accessi febbrili non si verificano danni alla ragione, a meno che il calore non
raggiunga la sede del capo (ovvero l’interno di esso); le funzioni
dell’intelletto subiscono mutamenti in relazione alle lesioni del capo o alla
corretta conformazione dello stesso. Per le ragioni esposte, dunque, la
soluzione fornita da Capra è quella di postulare una duplice unione tra anima e
corpo; una secondo natura (coppulatio et sede naturalis), la cui sede interessa
il cuore in qualità di organo principale dell’organismo; l’altra secondo la
natura dell’operazione (“coppulatio et sede operationis”), che avviene in un
organo di per sé secondario come il cervello, nel quale hanno sede tuttavia le
operazioni della phantasia e dunque, metonimicamente, dell’intelletto: Ma
avviandomi alla soluzione della questione, si deve considerare che chiunque dei
Peripatetici ritenga l’anima soggetta nella sua interezza a nascita e morte,
come Alessandro di Afrodisia, dovrebbe affermare in modo assoluto che la sede
dell’intera anima sia il cuore. E perciò Alessandro, fondandosi sulle proprie
premesse, asserì proprio questo. Coloro che, al contrario, affermano che la
mente è eterna, ritengono che essa si unisca a noi in modo duplice (duplici
coppulatione): una per natura, l’altra per operazione e che quest’ultima avviene
nel cervello, dato che il cervello è sede della mente. Se dunque affermiamo che
all’anima si addice una duplice unione con il corpo, resta provato anche che,
in duplice modo, all’anima spetta una sede, l’una per natura, l’altra per
operazione. Per natura la mente si unisce all’anima soprattutto in quel luogo
in cui vengono portate a compimento le azioni <che sono proprie di essa>,
ed in questo senso saranno vere queste conclusioni,vale a dire: conclusione. Alla mente non spetta una sede.
Questa conclusione risulta vera per la ragione già esposta che la mente non
dipende dal corpo o da una sua parte, né richiede un organo particolare. conclusione.
Il cervello è sede della mente. Questa conclusione risulta vera non in ragione
della dipendenza, ma in ragione dell’operazione: nel cervello infatti vengono
portate a termine le operazioni dell’immaginazione, facoltà che è ministra
dell’intelletto. conclusione. Il cuore è sede della mente. Questa conclusion risulta
verà in ragione dell’unione dell’intelletto con noi stessi, che si chiama
unione per natura. 4. conclusione. Il cuore è la sede principale dell’anima.
Sede cioè della facoltà animale. Il cervello è sede dell’anima in quanto
operante e delle sue operazioni. 6. conclusione. Sede dell’anima sono gli
spiriti, dal momento che essi sono come il veicolo delle facoltà ed il loro
strumento comune. conclusione. L’intera specie umana è sede della mente, in
particolare, però, l’uomo in quanto sapiente. 8. conclusione. Sede della mente è
la facoltà immaginativa. conclusione. Il cuore è essenzialmente ed
intrinsecamente membro più importante del cervello. conclusione. Il cervello è
membro divinissimo in modo accidentale ed estrinseco. conclusione. Ma poiché
ciò che è eterno ha necessità di unirsi a ciò che è eterno, si deve dire che
Dio è sede della mente, perché solamente in lui troviamo il riposo ed il fine
ultimo sovrannaturale. Sed me conferens ad quaesiti dissolutionem
considerandum. Quod quicunque ex Peripateticis animam omnem ortui atque
interitui obnoxiam esse afferunt, veluti censuit Alexander. Absolute dicere
deberent totius animae sedem esse cor. Et ideo Alexander innixus suis
fundamentis id asseruit. Qui vero contra. Aeternam dicunt esse Mentem. Isti
censent. Quod ut duplici coppulatione nobis iungitur. Una per naturam. Altera
per operationem nobis coppularetur. Quoniam ea efficitur in cerebro tunc
dicendum. Quod cererbum est sedes Mentis. Si vero ei duplicem asserimus
convenire coppulationem; tunc duplici quoque modo probatum est ei sedem
convenire. Unam per naturam. Alteram per operationem. Per naturam iungitur
animae. Eo praesertim loco ubi opera perficiuntur, et ad hunc sensum erunt
istae conclusiones verae, Videlicet. Conclusio. Menti non convenit sedes. Haec
vera est ea ratione qua diximus. quod mens a corpore, vel corporis partibus non
dependet, nec organo particulari eget. Conclusio. Cerebrum est sedes mentis.
Haec est vera non ratione dependentiae sed ratione operationis. Nam in cerebro
perficiuntur opera imaginativae. Haec autem est ministra intellectus. 3.
Conclusio. Cor est sedes mentis. Haec est vera ratione coppulationis
intellectus nobiscum quae nuncupatur coppulatio per naturam. Conclusio. Cor est
praecipua animae sedes. Sedes inquam virtutis. Conclusio. Cererbum est sede.
Operantis animae, et operationum. Conclusio. Animae sedes sunt spiritus. Cum
sint quasi vehiculum facultatum, eiusque commune instrumentum. Conclusio. Tota
humana species est sedes mentis. Proprie tamen homo sapiens. Conclusio.
Imaginativa est sedes mentis. Conclusio. Cor essentialiter, et intrinsece est
praestantius membrum quam cererbum. Conclusio. Cerebrum accidentaliter, et
extrinsece est divinissimum membrum. Conclusio. Sed cum aeternum aeterno coppulari
debeat dicendum. Deum esse sedem mentis. Quoniam in eo solo conquiescimus et in
ultimo fine supernaturali. Per infinita saecula saeculorum. Amen. Nella serie
di conclusioni che chiudono l’opuscolo, alcuni storiografi ottocenteschi hanno
voluto scorgere una dichiarazione di averroismo. Sembra tuttavia difficile
distinguere la presunta influenza averroistica da una sincera e piena
dichiarazione di fede. Con il De sede animae et mentis Capra si assiste al
tentativo di riportare il problema della localizzazione psichica ad un unico
centro funzionale, il cuore, di contro al poli-centrismo galenico. Ma
l’operazione – di per sé condotta in osservanza del più rigido aristotelismo –
sembra destinata a fallire, poiché la duplice unione con il corpo (“duplex coppulatio”)
cui va soggetta l’anima ripropone in realtà il dual-ismo galenico tra funzioni
che si svolgono al di sotto e al di sopra della rete mirabile, quasi posta,
quest’ultima, a suggello visibile della differenza che intercorre tra
operazioni puramente mentali o psicichee ed operazioni lato sensu “fisiologiche”.
Il suo contributo è interessante, semmai, dal punto di vista
dell’interpretazione che egli fornisce agli esperimenti galenici circa la
legatura di nervi e vasi, come pure delle contro-prove empiriche che adduce a
sostegno della propria tesi. In effetti, in Capra è soprattutto l’idea che il
principio psichico, inteso quale principio basilare della “vita”, debba avere
un centro a tenere banco nella discussione, discussione che pure non può fare a
meno di costanti appelli agli Anatomici, e quindi alla tradizione medica del
proprio tempo. È comunque sullo stesso piano – l’intepretazione di esperimenti
che nel loro orizzonte osservativo si coordinano tutti intorno alla lettura del
De placitis Hippocratis et Platonis, e quindi del Quod animi mores – che si
muove anche la critica antigalenica mossa da Bernardino Telesio nel Quod animal
universum. Marcello Capra. Keywords: del corpo animato, animo, spirito,
l’immortalita dell’animo, l’immortalita dello spirito, incorporeita dell’animo,
incorporeita dello spirito, Method in philosophical psychology, psychic versus
psychological, functionalism, manifestation in behaviour – body/soul – corpore
animo – hylemorphismo, life, soul – Aristotle on soul and life – zoon, vita,
anima – Galeno poli-centrismo – Aristotle monism, dualismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capra” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51777491890/in/dateposted-public/
No comments:
Post a Comment