Carle (Chiusa di Pesio). Filosofo. Grice:
“I like Carle – he is like Hart, only better – his Latin tract on ‘exceptio’ is
eaxactly what Hart means by defeasibility, only that Carle can found it on
Roman law – Like me, he likes the use of ‘principio,’ as when he speaks of a
‘principle of responsibility,’ and his essays on what he calls ‘social
philosophy’ is pretty akin to my concerns on cooperation as the epitome of
joint behaviour.” Insegna a Torino. Linceo. Esponente del positivismo. La dottrina giuridica del fallimento nel
diritto privato internazionale, Napoli, Stamperia della Regia Università); Prospetto
d'un insegnamento di filosofia del diritto. Parte generale, Torino, F.lli
Bocca); “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Studio
comparativo di filosofia giuridica” (Torino, F.lli Bocca); “Le origini del
diritto romano: ricostruzione storica dei concetti che stanno a base del diritto
pubblico e privato di Roma” (Torino, F.lli Bocca); La filosofia del diritto
nello stato moderno, Torino, Unione Tipografico-Editrice); Lezioni di filosofia
del diritto” (Torino). Dizionario biografico degli italiani. Positivismo: ius – fatto – non valore – l’implicatura
di Romolo e Remo. Naturalism – giusnaturalismo – forza – autorita – ius -- LE
ORIGINI DEL DIRITTO ROMANO RICOSTRUZIONE STORICA DEI CONCETTI CHE STANNO A BASE
DEL DIRITTO PUBBLICO E PRIVATO DI ROMA. Fuit haec sapientia quondam Publica
privatis secernere , sacra profanis . HOR., poet Ars . LABOR NOR TORINO
FRATELLI BOCCA EDITORI LIBRAI DI S. M. IL RE D'ITALIA SUOQURSALI ROMA FIRENZE
Via del Corso , 216-217. Via Cerretapi, 8 DEPOSITI PALERMO NAPOLI CATANIA
Università, 12 Piazza Plebiscito , 2 S. Maria al Ros .°, 23 (N. Carosio ) (N.
Carosio )TORINO VINCENZO BONA, Tip . di S. M. Al Rettore Magnifico della
Università di Bologna, 16.11.54 TS home La nobile Università di Bologna ,
commemorando in questi giorni l'ottavo centenario dalla sua fondazione, ci
rammenta anche l'epoca, in cui essa iniziando gli studi sul diritto romano si
rese benemerita di tutto il mondo civile. Agli omaggi, che in questa occa sione
solenne convengono costi d'ogni paese, mi sia consentito di aggiungere quello
di un'opera ispirata al desiderio di mantenere viva nella gioventù studiosa
italiana la tradizione civile e politica di Roma. Di Lei Rettore Magnifico bord
Torino, Devot.mo ed obblimo. Ritornato di proposito allo studio del diritto
romano, in seguito all'incarico affidatomi di insegnarne la storia nella R.Università
di Torino , parvemi di rileggere uno di quei libri, la cui meditazione può
riempiere tutta una vita , perché ad ogni lettura e ad ogni età offrono campo
ad osservazioni, che prima erano sfuggite . Quegli studii di giurisprudenza
comparata , che in questi ultimi anni si vennero facendo sulle istituzioni
primitive di quel periodo gentilizio, nel quale debbono essere cercate le
fondamenta , sovra cui furono poscia edificate le città, mi parvero irradiare
di nuova luce l'antichissimo diritto di Roma, e aprire nuove vie per spiegare
il processo , con cui ebbe ad essere iniziata la formazione del medesimo. È
strano infatti che, mentre il diritto romano, fra le grandi elaborazioni del
genere umano, è certamente quella , che ebbe ad essere mag giormente studiata
nei frammenti che a noi ne pervennero e nei suoi ultimi risultati, continui pur
sempre ad essere un grande mistero il processo , con cui i Romani giunsero ad
elevare un cosi grande edifizio, e il motivo per cui essi e non altri
riuscirono ad innalzarlo. La causa tuttavia di questa singolarità deve es sere
riposta in ciò, che per risolvere il problema delle origini del diritto romano
non può bastare lo studio staccato dei frammenti , VI - nė l'esegesi
applicata ai testi, ma conviene ricomporre le epoche, raccogliere i rottami che
ci pervennero di esse, colmarne le la cune, riportarsi col pensiero alle
condizioni economiche e sociali del primitivo popolo romano, sforzarsi di
rivivere in quel tempo e di pensare in certo modo alla romana, tener conto
delle parti colari attitudini dell'ingegno romano, far procedere di pari passo
la formazione della città e lo svolgimento delle sue istitu zioni pubbliche e
private: conviene insomma ricostruire la vita del diritto nei suoi rapporti
colla vita sociale di Roma, e cercare cosi di decifrare la pagina più splendida
della vita del diritto nella storia dell'umanità . Certo era naturale cosa ,
che uno stu dioso della Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale
mal sapesse resistere alle attrattive di un simile argomento, credendo con ciò,
non di venir meno,madi perseverare in quel l'ordine di studii, a cui si è
dedicato con tutte le forze. Miproposi pertanto di ricostruire il processo
logico e storico, che governò la formazione deldiritto romano, sopratutto nei
suoi esordii, non coll'intento di sostituirmi ai dottissimi nella materia, ma
con quello più modesto di valermi deimateriali che furono raccolti con tanta
diligenza , sopratutto in Ger mania. Miaccinsi poi all'arduo compito con un
entusiasmo, che forse più non conviene alla mia età ,ma che ebbe il van taggio
di rendermi aggradevole la lunga fatica , e che vorrei trasfondere nella
gioventù studiosa , unitamente alla convinzione profonda, che le
grandielaborazioni dell'ingegno umano,mentre cambiarono in maestri dell'umanità
coloro, che giunsero a crearle, hanno anche il pregio di confortare ed elevare
il pensiero di coloro , che si travagliano per comprendere il processo natu
rale, che ne governd la formazione. Debbo tuttavia una confessione al lettore benevolo
: ed è che VII - il presente lavoro , cominciato forse coll idea , non
preconcetta ,ma latente, che il diritto pubblico e privato di Roma fosse il
frutto di una evoluzione determinata dalle condizioni esteriori, in cui si
trovò il popolo romano, riusci invece a conclusioni alquanto diverse . I
Romani, cosi nel formare la propria città, come nel Pelaborare le proprie
istituzioni pubbliche e private, seguirono un processo, che chiamerei di
selezione ; anziché essere dominati dai fatti esteriori, cercarono invece di
dominarli, e di sottomet terli alla logica inesorabile del proprio diritto.
Come le mura della loro città furono costruite coi massi più solidi delle co
struzioni gentilizie: cosi i concetti, che stanno a base del loro diritto
pubblico e privato, furono trascelti nel seno stesso della organizzazione
gentilizia ,ma trapiantati nella città ed isolati cosi dall'ambiente, in cui si
erano formati, si cambiarono in altrettante concezioni logiche, che si vennero
poi svolgendo ed accomodando alle esigenzedella vita civile e politica . Anche
questo fu un processo naturale; ma non è più il processo, che governa la
formazione degli strati geologici, che si sovrappon gono gli uni agli altri e
serbano l'impronta dei bassi fondi sovra cui si vengono precipitando ,bensi il
processo, che governa la formazione dei cristalli, per cui gli elementi affini,
depurati da ogni scoria, si vengono, per dir cosi, ricercando ed attraendo e si
dispongono costantemente secondo quelle forme tipiche , che ne governano la
formazione. Di quiconseguita, che ildiritto romano non èuna produzione
determinata esclusivamente dall'ambiente e dalle condizioni esteriori; ma è già
l'opera in parte consapevole dello spirito vivo ed operoso di un popolo, il
quale, valendosi di attitudini naturali, che in questa parte si possono
chiamare veramente meravigliose, riusci a secernere e ad isolare l'essenza
giuridica dei fatti sociali ed umani , a modellarla in concetti VIII tipici, a
svolgere i medesimi in tutte le conseguenze, di cui po tevano essere
capaci, e a trasmettere cosi alle nazioni moderne un capolavoro di arte
giuridica , che nel proprio genere può essere paragonato ai capolavori
dell'arte greca . Questo è il risultato ultimo,a cui sono pervenuto : per la
prova del medesimo invito gli imparziali amici del vero a leggere il
libro, nel quale, malgrado la varietà immensa dei particolari, ho cercato di
riprodurre quella coerenza organica , che è la carat teristica dello
svolgimento storico delle istituzioni pubbliche e private di Roma. Torino.
Roma e le istituzioni delle genti italiche anteriori all'epoca romana. La
fondazione della città e i varii stadii della sua formazione. 1. Le tradizioni
e le leggende , da cui appare circondata la fonda zione di Roma, presentano a
primo aspetto un carattere singolare di contraddizione. Da una parte Roma non
avrebbe avuto infanzia , ma sarebbe stata fondata di pianta da un avventuriero
di origine latina e di stirpe regia, condottiero di una banda armata , il
quale, dopo aver circondata la città di mura, avrebbe aperto un asilo agli
esuli e ai rifugiati dalle comunpubbliche e private di Roma. Torino. Roma e le
istituzioni delle genti italiche anteriori all'epoca romana. La fondazione
della città e i varii stadii della sua formazione. 1. Le tradizioni e le leggende
, da cui appare circondata la fonda zione di Roma, presentano a primo aspetto
un carattere singolare di contraddizione. Da una parte Roma non avrebbe avuto
infanzia , ma sarebbe stata fondata di pianta da un avventuriero di origine
latina e di stirpe regia, condottiero di una banda armata , il quale, dopo aver
circondata la città di mura, avrebbe aperto un asilo agli esuli e ai rifugiati
dalle comunanze vicine. Sarebbe il fondatore stesso che avrebbe dato a Roma le
sue istituzioni pubbliche e private , mentre il suo successore le avrebbe data
l'organizzazione del culto , finchè da ultimo Roma già ingrandita , mediante
l'incorporazione di popoli e di genti diverse , avrebbe ricevuto una nuova
organizzazione civile , politica e militare per opera di Servio Tullio , che si
sarebbe così meritato il nome di secondo fondatore della città . Per tal modo
la forza dapprima, poi la religione e da ultimo la sapienza civile hanno
posto, le fondamenta dell'eterna città , e le sue istituzioni civili e politiche
appariscono come una creazione personale dei Re, fra i quali la tradizione
avrebbe perfino distribuito il compito . Il suo fondatore è Latino, mentre
invece è Sabino l'organizzatore del culto , e da ultimo è probabilmente di
origine etrusca quegli, che ne ha riformato compiutamente l'organizzazione
civile e politica e ha stabilito quelle istituzioni, che riceveranno poi il
proprio svolgimento durante l'epoca repubblicana. Da un altro lato invece la
stessa tradizione circonda la fonda zione di Roma di cerimonie religiose, di
carattere tradizionale, che suppongono una religione già compiutamente formata,
e fa apparire Roma nella storia con un nucleo di istituzioni pubbliche e
private , che dovranno poi svolgersi con un rigore pressochè geometrico, ma che
intanto suppongono una lunga elaborazione anteriore (1). 2. Di fronte a questa
apparente contraddizione, il maggior pro blema, che si presentava alla scienza
storica contemporanea, era quello di sostituire alla storia leggendaria delle
origini di Roma una storia viva ed organica di essa, ricercando le origini
delle istituzioni pri mitive con cui essa appare nella storia. In questa
ricostruzione la critica moderna dapprima si scosto per modo dalle tradizioni a
noi pervenute da scorgere in queste poco più di una serie di leg
gende;madovette poi riaccostarsi alle medesime, e finì per giungere a questo
risultato, che le istituzioni con cui Roma compare nella storia non possono
esser ritenute come l'opera esclusivamente personale dei Re, ma debbono essere
riguardate come il frutto di una lunga e lenta elaborazione già compiutasi in
un periodo anteriore di or ganizzazione sociale, che sarebbe il periodo
dell'organizzazione gen tilizia o patriarcale. Roma insomma, secondo i
risultati della critica moderna, avvalorati anche dagli studii comparativi
fatti sui popoli primitivi sopratutto di origine ariana , avrebbe continuata
quell'opera di formazione della convivenza civile e politica , che era già
stata iniziata dalle altre popolazioni italiche , le cui memorie risalgono ad epoca
anteriore a quella che è fissata per la fondazione di Roma. Quindi è presso le
genti latine ed italiche, che debbono essere cercate le origini delle primitive
istituzioni di Roma. 3. Secondo il computo più universalmente adottato , Roma è
stata fondata nell'anno 753 avanti l' êra volgare e sarebbe com parsa fra
popolazioni diverse, delle quali alcune in parte già erano uscite
dall'organizzazione gentilizia , e stavano avviandosi ad una vera e propria
organizzazione civile e politica . Senza entrare nella questione dei rapporti,
che possono correre fra ( 1) Per un riassunto esatto delle tradizioni intorno
alla storia primitiva di Roma fino all'anno 283 dalla sua fondazione,
accompagnato da una critica finissima per separare il nucleo primitivo della
tradizione dalle aggiunte che si fecero più tardi, è da vedersi il BONGHI,
Storia di Roma, vol. 1º. Per lo studio delle istituzioni poli tiche importa
sopratutto il libro terzo, che si occupa appunto della costituzione politica di
Roma, secondo CICERONE, Livio, Dionisio , da pag . 513 al fine. Milano, 1884. -
3 le stirpi italiche e le stirpi elleniche e in quella della loro prove nienza
dall'Oriente ( 1), questo è certo che fra le stirpi italiche già erano
pervenute ad un certo svolgimento di civiltà e di potenza le stirpi Umbro -
Sabelliche, Latine ed Etrusche. Scavi di data recente (fatti nel 1874 e nel
1883) hanno dimostrato , che il sito occupato da Roma doveva già essere
popolato da un'epoca assai remota e del tutto preistorica. Sopratutto fu
scoperta sull'Esquilino una vasta necropoli, la cui esistenza dimostra che una
città etrusca di grande estensione ed importanza (Rasena ) sarebbe esistita
anche prima del periodo reale leggendario , e costituisce una prova molto
importante contro quella teoria che, attribuendo a Roma un'origine esclusiva
mente latina e sabina, tenderebbe ad escludere o quanto meno ad attenuare
l'influenza dell'elemento etrusco ( 2 ). (1) Tale provenienza delle stirpi
Italiche dalle razze Ariane e la conseguente loro , parentela colle Elleniche,
colle Germaniche, Celtiche e Slave, è oggidì universalmente ammessa, salvo che
si mantiene ancora sempre una grande oscurità circa l'origine della razza
Etrusca . Tra gli autori recenti ha recato un contributo alla dimostra zione di
tale provenienza il Leist, Graeco-italische Rechtsgeschichte. Jena , 1884 ,
sopratutto nella parte in cui dimostra l'identità di certi concetti primitivi
comuni agli Arii dell'India e alle genti Italiche ed Elleniche. È da vedersi la
parte, che si riferisce alle instituzioni sacrali, in cui discorre dei concetti
di rita , themis e ratio , pag . 175 e seguenti. Quest'origine comune è pure
ammessa dal BERNHÖFT, Staat und Recht der Römischen Königszeit. Stuttgart, 1882
, pag. 33 a 40. Per quello poi che riguarda il vario svolgimento, che le
istituzioni elaboratesi nell'Oriente dagli Arii primitivi ebbero a ricevere
presso gli Arii dell'India , della Persia, e poscia nell'Occi dente presso i
Greci, gli Italici ed i Germani, mi rimetto a quanto ho scritto nell'o pera :
La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Torino , 1880, i cui
primidue libri sono appunto dedicati a tale svolgimento. ( 2) Sono a vedersi in
proposito le notizie sugli scavi, che si pubblicano dall'Ac cademia dei Lincei.
Come riassunto degli studii topografici fatti intorno a Roma fino a questi
ultimi tempi mi sono valso dell'opera di HENRY MIDDLETON, Ancient Rome,
Edinburgh, 1885, il quale parla di questi nuovi scavi e dei resti
dell'antichissima Roma, a pag. 42 e seguenti. Fra gli autori che tendono a
scemare l'influenza del l'elemento Etrusco sopra Roma primitiva, abbiamo il
MOMMSEN , il LANGE, e fra i recenti il Pelham nella sua storia di Roma antica
pubblicata nel volume XX della Encyclopedia Britannica , ninth edition ,
Edinburgh, pag. 731, 1886 , vº Rome. Com batte questa opinione il Taddeinel suo
lavoro : Roma e i suoi Municipii. Firenze, 1886 , pag . 45 e seg . Senza
pretendere di risolvere la questione, è lecito osservare che mal si può
sostenere la niuna influenza su Roma primitiva di un popolo come l'Etrusco che
aveva già delle città in siti vicini, che conosceva quei riti con cui Roma fu
fondata, e che diede a Roma i tre ultimi re, quelli cioè, che rinnovarono più
profondamente non solo l'aspetto esteriore della città, ma anche la costituzione
politica della medesima. 4 Queste varie stirpi, che abitavano il suolo italico
, per quanto ora si ritengano tutte uscite dalla stirpe Aria, avevano però
dimen ticata la provenienza comuneed apparivano distinte fra di loro di ori
gine, di costumi e non avevano fra di loro comunanza di matri monii ; solo
erano ravvicinate da feste religiose e da certi luoghi di mercato, ove tacevano
i conflitti e si praticavano gli scambi ed i commerci. Quanto alla loro
organizzazione sociale, esse , secondo l'opinione del Mommsen , del Leist , del
Lange, si trovavano nel periodo di transizione dall'organizzazione gentilizia
di carattere patriarcale all'organizzazione politica della città e del
municipio . Però anche a questo riguardo si presentavano in stadii e gradazioni
diverse . 4. Le stirpi Umbro -Sabelliche appariscono con un
carattere pro fondamente religioso ; sono dedite ancora più alla pastorizia che
al l'agricoltura ; preferiscono per formarvi le proprie sedi i luoghi montani e
conservano ancora quel carattere di fiera indipendenza, che è proprio degli
abitanti della montagna. Esse non abitano ancora in vere e proprie città , ma
in villaggi aperti, che costituiscono al trettante comunanze rurali, e serbano
le traccie di una potente organizzazione gentilizia , di cui pud trovarsi un
notevole esempio nella gens Claudia . Queste stirpi anche più tardi
dimostrarono poca attitudine alla formazione di un vero e proprio Stato, come
lo provano le sorti dei bellicosi Sanniti, che sono appunto derivati dal ceppo
Umbro-Sabellico (1). 5. Trovansi invece già in condizione più progredita , per
quel che riguarda l'organizzazione sociale , le stirpi Latine. Il Lazio infatti
appare diviso in altrettante comunanze di villaggio aperte, che sono costituite
da una aggregazione di famiglie e di genti, le quali discen dono da un antenato
comune, di cui portano il nome e professano il culto gentilizio . Tali
aggregazioni di genti, che chiamansi tribù , abitano nei vici e nei pagi; ma,
riconoscendo la loro origine co mune, anzichè avere una esistenza del tutto
separata ed indipen dente, entrano già a far parte di un'aggregazione più
vasta, che costi ( 1) In ciò sono d'accordo il Mommsen , Histoire Romaine.
Trad. De Guerle. Paris, 1882, Tome 1er, pag . 140 e seg., ed anche il Lange,
Histoire intérieure de Rome. Trad. Berthelot et Didier. Paris, 1885, Tome 1er,
pag. 13. Quest'ultimo attri buisce alle genti Sabine un carattere più
conservatore che non alle Latine. - 5 - tuisce poi il populus e la civitas.
Questa aggregazione più vasta non solo aveva comune la lingua , il costume e la
religione , ma eziandio le leggi, l'amministrazione della giustizia e la difesa
contro gli attacchi e le aggressioni esterne. Essa quindi abbisognava di un
centro comune, a cui potessero metter capo le diverse comunanze di villaggio ,
il quale centro comune era l'urbs, così chiamata dall'orbita sacra che la
circondava, nel cui recinto trovavasi l'arx o fortezza , a cui riparare nei
momenti di pericolo , il tempio della divinità patrona dell'intiera comunanza ,
il luogo ove si ammini strava giustizia , il sito per il mercato e per le
pubbliche riunioni. Questi stabilimenti pertanto, più che vere e proprie città
quali noile intendiamo, erano piuttosto inizii di città future, in quanto che
esse contenevano sopratutto quegli edifizii, che avevano pubblica desti
nazione. L'urbs era in certo modo il centro della vita pubblica per le diverse
comunanze di villaggio, come lo dimostrano anche le varie porte esistenti nel
muro di cinta, le quali porgevano modo di accedervi agli abitanti dei diversi
villaggi. Si aggiunge che le varie città latine, le quali, secondo la
tradizione, sarebbero state in numero di trenta , erano anche confederate fra
di loro e mettevano capo ad una capitale, che era Alba Longa (1 ). Cid dimostra
come le popolazioni latine già fossero abbastanza pro gredite nella loro
organizzazione sociale, poichè, pur continuando an cora a vivere nelle
comunanze di villaggio , erano pero già pervenute a concepire e in parte ad
attuare quella vita pubblica comune, che doveva poi svolgersi nella città e nel
municipio . 6. Vengono infine le stirpi Etrusche, la cui civiltà è ancora og .
gidi celata nel mistero , perchè le traccie di essa furono in certo modo
cancellate ed assorbite da Roma. Non può tuttavia esser dubbio, che esse già
erano in condizione di maggior progresso eco nomico e civile delle altre
popolazioni italiche, in quanto che posse devano vere e popolose città ,
conoscevano le arti e la moneta, e per essere dedite al commercio si trovavano
in comunicazione mag giore cogli altri popoli e sopratutto coiGreci. Anche
presso di queste era largamente svolto l'elemento religioso, come lo dimostra
la sa pienza loro attribuita nell'arte augurale e nella consultazione degli
auspizii, come pure la tradizione, che presso di essi esistessero libri, ( 1)
MOMMSEN , op. e loc. cit., pag. 44 e seg .; FUSTEL DE COULANGES, La cité an
tique, Paris, 1876 , pag. 274. 6 - che determinavano i riti con cui le città
dovevano essere fondate, e davano le regole secondo cui la loro popolazione
doveva essere ripartita in tribù ed in curie (1). Del resto anche l'antica
costituzione della città etrusca , secondo il Mommsen, si accostava nei suoi
tratti generali a quella della città latina, salvo che in essa il passaggio
dalla organizzazione patriar cale all'organizzazione muicipale già erasi spinto
più oltre , in quanto che le stirpi Etrusche, per essere sopratutto dedite alla
na vigazione eda nei suoi tratti generali a quella della città latina, salvo
che in essa il passaggio dalla organizzazione patriar cale all'organizzazione
muicipale già erasi spinto più oltre , in quanto che le stirpi Etrusche, per
essere sopratutto dedite alla na vigazione ed al commercio , erano state
naturalmente condotte a svolgere di preferenza le comunanze urbane, che non le
comunanze di carattere esclusivamente rurale . I capi Etruschi avevano il nome
di Lucumoni; la popolazione delle loro citt dividevasi in no bili ed in
plebei, come pure in tribù ed in curie , e se al disopra delle singole città
apparivano eziandio delle confederazioni, i vincoli pero che stringevano
insieme le varie città , che entravano a costituirle , non erano co si
intimi e stretti come quelli che esistevano fra le città della confederazione
latina. Esse infine pure presentano le traccie dell'organizzazione gentilizia ,
ma queste sono già alquanto più alterate per il maggior svolgimento a cui è
pervenuta la co munanza civile e politica (2). 7. È a questo punto dello
svolgimento dell'organizzazione sociale e della convivenza civile , che Roma compare
nella storia . Per quanto possano esservi dei dubbi sull'influenza, che su di
essa ab biano esercitato più tardi l'elemento latino e l'elemento etrusco ,
questo è certo che il primo nucleo di essa ebbe ad essere costituito da un
gruppo di uomini armati di origine latina. Sono i Ra mnenses , guidati da
Romolo e usciti come colonia o per secessio da Alba Longa, che hanno fondato
quella Roma palatina, che, per la forma quadrangolare delle sue mura , di cui
sussistono ancora gli avanzi, suole essere indicata col nome di Roma quadrata
(3 ). (1) Festo, v° Rituales: « Rituales nominantur Etruscorum libri, in quibus
prae scriptum est quo ritu condantur urbes, arae, aedes sacrentur; qua
sanctitate muri, quo iure portae, quomodo tribus, curiae , centuriae distribuantur,
exercitus consti. tuentur, ordinentur, caeteraque eius modi ad bellum ac pacem
pertinentia » . ( 2) MOMMSEN, op . e loc. cit., pag. 155. V. il LANGE, op .
cit., pag. 14 , ove cerca di distinguere il popolo dei Rasennae, che sarebbero
secondo lui i veri Etruschi, che egli ritiene di origine Aria ma di provenienza
settentrionale, dagli abitanti del Vicus Tuscus, che apparterrebbero invece ai
Tursci, da lui ritenuti di origine Umbra. (3) È questa la Roma, il cui
pomoerium è stato descritto da TACITO, Ann. XII, 24 . Nulla vi ha di ripugnante
nella tradizione, che questa mano di guerrieri, stabilitasi colla forza in un
sito chiuso e fortificato , siasi dapprima trovata in lotta aperta colle altre
comunanze , che erano stabilite in prossimità del Palatino. Essa però ben
presto esercitò una attrazione potente sulle popolazioni vicine, e si trasformò
in un centro per la vita pubblica di una confederazione di varie comunanze di
villaggio , che erano disperse in quell'antico septimontium , che ci è
descritto dal giureconsulto M. Antistio Labeone, il quale avrebbe compreso il
Palatino, il Fagutale, la Subura, il Cermalo, l'Oppio, il Celio e il Cespio
(1). Cosi pure dovette presto entrare nella federa zione anche una comunanza di
origine sabina, che era stabilita sul Quirinale . Di qui la conseguenza, che le
tradizioni antiche ed anche gli studi recenti, fatti sulla topografia di Roma,
condurrebbero a conchiudere che Roma primitiva avrebbe attraversato nel
periodo, che suole essere assegnato al regno del suo fondatore , due stadii ben
distinti nella propria formazione. Nel suo primo comparire infatti Roma non è
ancora che lo sta bilimento romuleo , il quale, malgrado la denominazione che
già assume di vera e propria città, consiste nella sede fortificata di una tribù
di origine latina , che è quella dei Ramnenses , ancorchè intorno ad essa già
si trovi in via di formazione una plebe, il cui numero sarebbesi accresciuto,
secondo la tradizione, mediante l'asilo aperto ai rifugiati ed agli esuli delle
comunanze vicine (2 ). Più tardi invece questo nucleo agreste di guerrieri di
origine latina entra dapprima in ostilità e poscia viene in alleanza con
comunanze già prima stabilite sui colli vicini, e allora Roma diviene centro e
capo di tale federazione, e mutasi in una vera urbs, secondo il con È pur nota
la questione relativa al pomoerium , che alcuni vorrebbero collocare entro le
mura fondandosi su Livio, I, 44, mentre altri sostengono che fosse al di là
delle mura, come lo indicherebbe la stessa parola post-moerium . La questione
fu di recente trattata con grande corredo di erudizione dal CARLOWA, Romische
Rechtsgeschichte, Leipzig , 1885. Erster Band , § 8, pag . 59 e seg ., dove
sembra propendere per l'opi nione, che il pomoerium servisse di confine fra il
territorio dell'urbs e l'ager circo stante. Cf. MIDDLETON , op. cit., pag . 45
. (1) Il testo di LABEONE è riportato dall'HUSCHKE, Iurisprudentiae anti-
Iustinianeae quae supersunt. Ed. quarta , Lipsiae, 1879. LABEO, n ° 14, pag .
111. (2 ) Un accenno a questo concetto trovasi nel Lange, Histoire intérieure
de Rome, I, pag. 25 : tuttavia non pare che il medesimo consideri lo
stabilimento romuleo come una semplice tribù . 8 cetto latino, ossia nella sede
della vita pubblica di queste varie co munanze . Questi due stadii nella
formazione di Roma primitiva , di cui non si tiene sempre sufficiente conto ,
sono accennati da diversi autori e fra gli altri anche dal giureconsulto
Pomponio , secondo il quale Romolo non sarebbe proceduto alla divisione della
città in curie su bito dopo la fondazione di essa , ma vi sarebbe invece
addivenuto soltanto « aucta ad aliquem modum civitate » , cioè quando altre
comunanze già eransi incorporate o meglio federate con essa nel l'intento di
partecipare ad una vita pubblica comune (1) . 8. Gli elementi primitivi, che
secondo la tradizione sarebbero en trati a far parte della comunanza romana in
questo suo primo pe riodo di ingrandimento , sarebbero dalla stessa tradizione
ridotti a tre tribù, cioè alla tribù dei Ramnenses, che era quella dei fonda
tori, a quella dei Titienses, di origine Sabina, stabiliti sul Quirinale , i
quali sarebbero entrati nella comunanza mediante un foedus aequum , come lo
dimostra il fatto che i capi delle due tribù avreb bero regnato insieme e
poscia i loro successori si sarebbero alternati nel comando, e a quella infine
dei Luceres, coi quali sembra in vece sia seguito un foedus non aequum .
L'origine di questo ultimo elemento è incerta , ma dovette probabilmente essere
etrusca, quando si consideri, unitamente alla loro denominazione, l'esistenza
di un antichissimo Vicus Tuscus, la serie degli ultimi re che furono di origine
etrusca, e si tenga conto del fatto che le recenti scoperte dimostrano come le
genti etrusche già avessero da epoca ante riore fondato delle vere e proprie
città in prossimità del sito , ove Roma fu edificata , Cosi intesa la
formazione di Roma primitiva, si dovrebbe venire alla conclusione, che la
incorporazione delle tre tribù nella comu nanza romana avrebbe dovuto operarsi
fin dal periodo assegnato dalla tradizione al regno di Romolo (2); il che però
non toglie, ed ( 1) POMPONIUS, L. 2 Dig. ( 1, 2 ). (2) Credo doversi accogliere
questa opinione nell' intricatissima questione, perchè non si comprenderebbe la
divisione tripartita della città , che viene attribuita a Romolo, quando il
concorso delle tre tribù non si fosse effettuato durante il suo regno. Vero è,
che nella storia primitiva di Roma havvi un momento storico, in cui per
l'aggiunzione di nuovi elementi si raddoppia il numero dei membri dei collegi
sacer dotali e quello delle centurie dei cavalieri, ma il raddoppiamento si fa
sempre sulla 9 anzi spiega anche meglio come Roma, risultando di elementi
diversi fin dalla propria origine, abbia poi accolte nella comunanza nuove
genti di origine latina, come di origine sabina e di origine etrusca, ed abbia
in certo modo esercitata una specie di attrazione sopra queste varie stirpi
italiche, come lo dimostrano le tradizioni rela tive alla cooptazione delle
genti albane, quelle relative a Celes Vi benna e alla venuta di Tarquinio a
Roma colla sua gente, ed all'in corporazione, avvenuta negli inizii del periodo
repubblicano, della gente Claudia di origine sabina. 9. Intanto però il fatto ,
che Roma avrebbe preso le mosse da uno stabilimento romuleo di origine latina ,
fondato in guisa analoga a quella con cui si fondavano anche più tardi le
colonie e con una analoga ripartizione dal territorio occupato , spiega il
carattere che Roma ebbe poi sempre a ritenere di città eminentemente latina ,
in quanto che gli elementi, che si vennero aggiungendo al nucleo primitivo ,
dovettero entrare nei quadri propri dello stabilimento la tino. Ciò accadde per
mezzo di successive federazioni, una delle quali, quella coi Luceres, sarebbe
stata un foedus non aequum , in quanto che il nuovo elemento sarebbe entrato
nella comunanza in una condizione inferiore (1 ). Conviene quindi conchiudere,
che Roma primitiva, oltre all'essere di origine latina , fu anche foggiata sul
modello delle città latine , e che quindi, al pari dell'urbs delle popolazioni
del Lazio, diventò fin dapprincipio una città federale, che può essere
considerata come il centro della vita pubblica di varie comunanze di villaggio
. È però naturale, che questa tra sformazione, per cui Roma cessò di essere
esclusivamente la sede fortificata di una tribù per diventare centro e capo di
una confe derazione, abbia fatto sentire la necessità di fortificare anche il
Capitolino, e di munire di un vallum od agger l'Aventino, co struzioni queste,
che, secondo Dionisio, si sarebbero compiute dallo stesso Romolo, ma di cui non
rimasero più gli avanzi, che sono base di tre, il che indica che già
anteriormente dovevano esservi tre tribù , che con correvano alla formazione di
Roma. Cfr. Bloch , Les origines du Sénat Romain . Paris, 1883, pag. 13 e seg .,
e per l'opinione contraria Bouché-LECLERCQ , Manuel des institutions romaines.
Paris , 1886, pag. 5, nota 1. (1) Il principio « prior in tempore, potior in
iure è dai Romani applicato non solo in tema di diritto privato, ma anche in
tema di diritto pubblico. Questo con cetto è ancora espressansente enunciato
nella legge 74 , § 1, Cod. Theod . 12, 1 . « Anteriore tempore adscitos ipsa
aequum est antiquitate defendi » 10 - invece notevoli quanto alla primitiva
Roma quadrata . Vero è che questa narrazione di Dionisio fu posta in dubbio
dalla critica contemporanea ; ma egli è certo che in se stessa non ha nulla di
improbabile, in quanto che era ben naturale, essendosi estesa la co munanza
colla federazione di altre popolazioni vicine, che anche il caput ed il centro
di Roma fosse trasportato in un sito, a cui fosse più facile l'accesso dalle
varie comunanze , e che non fosse la di mora pressochè esclusiva di una delle
tribù confederate , come era della città palatina (1). Si comprende pertanto
come, sotto lo stesso Romolo o sotto i Re che lo seguirono, la fortezza della
città e il tempio della divinità patrona comune siansi fondati sul Capitolino e
come a poco a poco gli edifizii pubblici di Roma antica siansi venuti
concentrando fra il Palatino ed il Capitolino, in quel sito appunto in cui
ancora oggidi si ammirano le grandi reliquie degli edifizii pubblici di Roma
antica ; edifizii che al tempo dell'Impero già erano considerati come una
specie di museo, e come tali erano divenuti oggetto di venerazione e di culto ,
ed erano custoditi qual memoria di una vita politica, che ormai aveva cessato
di esistere . 10. A questo periodo però, che può dirsi di semplice
confederazione, ne succedette un altro , in cui cominciò ad effettuarsi una vera
e propria incorporazione delle varie comunanze di villaggio in una città , la
quale, fortificata e chiusa in se stessa , apparisse paurosa e potente alle
popolazioni vicine. – Due cose si richiedevano per una simile trasformazione.
Conveniva anzitutto che alla distinzione delle tre tribù primitive, che
ricordava ancor sempre la loro ori gine diversa, si facessero sottentrare altre
distinzioni, le quali so stituissero al vincolo genealogico il vincolo
territoriale , e che gli elementi diversi, che erano entrati a far parte della
stessa comu nanza politica e militare , fossero anche stretti insieme, mediante
la coabitazione entro le medesime mura. Fu allora, che, secondo la vigorosa
espressione di Floro, cominciò a mescolarsi insieme il sangue di elementi originariamente
diversi, i quali finirono col tempo per costituire un unico corpo ed un
organismo coerente in tutte le sue parti (2 ). (1) Dion., II, 37. Cfr.
MIDDLETON , Ancient Rome, pag . 58 . (2) FLORUS, III, 18: « Quippe cum populus
Romanus Etruscos , Latinos, Sabi nosque miscuerit et unum ex omnibus sanguinem
ducat, corpus fecit ex membris et ex omnibus unus est » . - ll - Questi sono i
divisamenti, che, incominciando da Tarquinio Prisco , già cominciano a
delinearsi nella mente dei re. – È noto infatti che Tarquinio Prisco già
avrebbe tentato , secondo la tradizione, di aggiungere nuove tribù alle tre
primitive e di rompere così il mo dello primitivo, sovra cui Roma erasi venuta
formando. Il suo tentativo però trovò opposizione nell'augure sabino Atto Navio,
che qui evidentemente si fa interprete dello spirito conservatore del pa
triziato romano, e quindi l'opera di Tarquinio Prisco dovette li mitarsi a fare
entrare gli elementi sopraggiunti nei quadri delle tribù primitive. Gli è
perciò , che gli viene attribuito di aver raddop piato il nu mero delle
Vestali, di aver duplicato il numero delle cen turie degli equites ,
aggiungendo alle tre centurie dei Ramnenses, Titienses , Luceres primi le tre
dei Ramnenses, Titienses, Lu ceres secundi, e di avere infine anche raddoppiato
o quanto meno portato a trecento il numero dei senatori con aggiungere ai
patres maiorum gentium quelli minorum gentium (1). Così pure è ormai dimostrato
che i re anteriori a Servio Tullio già avevano iniziato dei lavori di cinta e
di fortificazione, che poi furono com presi nella cinta Serviana, e che la
grande opera di questa nuova cerchia di Roma già era incominciata sotto
Tarquinio Prisco . 11. L'una e l'altra opera fu poi continuata da Servio Tullio
, che forte dell'appoggio della plebe e di parte anche del popolo, sembra aver
fatto a meno anche dell'approvazione dei padri. Egli infatti, senza distruggere
la primitiva organizzazione di Roma, fondata ancora sulla discendenza, riusci a
creare, accanto alla medesima, una nuova organizzazione militare, politica e
tributaria , per cui la popolazione romana ricevette una nuova ripartizione in
classi ed in centurie, e il suo territorio venne ad essere diviso in tribù
locali. Così pure riusci a compiere quell'opera gigantesca della cinta , che fu
dal nome di lui chiamata Serviana , i cui avanzi formano ancora oggi la
meraviglia degli investigatori dell'antichità e dimo strano da soli la
grandiosità e l'unità del concepimento, malgrado che parecchi re avessero
partecipato alla costruzione di quelle mura e di quell'agger , che poi
furono chiamati Serviani; costruzione, che sarebbe pressochè incomprensibile se
non fosse stata compiuta col concorso di quelle plebs, ormai già fatta numerosa
, che con Servio (1) Cic. de Rep., 2, 20. V. LANGE, Op. cit. e loc. cit., pag .
81 e seg . 12 Tullio sarebbe entrata a far parte del Populus Romanus Quiri tium
( 1). È da questo momento che Roma appare chiusa e fortificata nelle proprie
mura, già splendida di edifizii, ricca eziandio di una popo lazione urbana, che
può ancora essere accresciuta senza che occorra di estenderne ilpomoerium . È
da quest'epoca parimenti, che Roma, forte del rigore del proprio diritto e
della propria disciplina dome stica e militare, si mette in lotta aperta con
tutte le tribù o genti, che non siano disposte ad accettarne la superiorità o
l'alleanza . Noi ci troviamo così di fronte alla Roma storica , conquistatrice
e legislatrice prima dell'Italia e poscia dell'universo, degna di essere
studiata nelle sue lotte intestine e nella sua unità compatta di fronte alle
altre genti. Tuttavia , anche dopo Servio Tullio, Roma non giunge mai a
chiudere nelle proprie mura tutta la sua popolazione , ma soltanto le quattro
tribù urbane, mentre è ben maggiore il numero delle tribù rustiche. e lo spazio
dalle medesime occupato . Per tal modo essa continua ancor sempre ad essere il
centro della vita pubblica , a cui mettono capo le popolazioni sparse nelle
comunanze di villaggio o pagi, che la circondano, ed è la sua persistenza in
questo processo già seguito in Roma primitiva e non mai abbando nato anche più
tardi, che spiega come Roma abbia potuto cambiarsi in una città , i cui
cittadini erano sparsi dapprima in tutto il Lazio , poi per tutta l'Italia , e
da ultimo per tutto il territorio dell'impero . 12. Se ho insistito alquanto
lungamente sopra questo concetto, gli è per dimostrare come non possa
accettarsi l'opinione che sull'auto rità del Mommsen e di altri fu pressochè
universalmente accolta e che a mio avviso rende del tutto incomprensibile la
storia primitiva di Roma, secondo cui questa sarebbe stata fin da principio
l'unione, la fusione, l'incorporazione di varie tribù e genti e dei territorii
dalle medesime occupati. Ciò è smentito dal processo seguito nella for mazione
delle città Latine, quale è descritto dallo stesso Mommsen , ed è in
contraddizione con tutta la storia primitiva di Roma. Roma nei proprii inizii
fu modellata sull'urbs dei popoli latini, e come tale non fu che la capitale di
una federazione e il centro della sua vita pubblica , mentre lasciò che le
genti e le famiglie con ( 1) V. in proposito l'articolo del BARATTIERI, Sulle
fortificazioni di Roma all'epoca dei re. Nuova Antologia . Gennaio 1887. - 13
tinuassero la propria vita domestica e patriarcale nelle comunanze di villaggio
, alle quali continud a lasciare i proprii territorii genti lizii. La sua
formazione pertanto non è dovuta ad un processodi aggregazione, ma ad un
processo di selezione, cosa che sarà più largamente dimostrata a suo tempo .
Qui basterà il notare che questo modo di spiegare la formazione di Roma
primitiva conduce a conseguenze molto diverse da quelle, ch e furono
pressochè universalmente adottate. Partendo infatti dall'idea di una semplice
aggregazione si giunge a trasportare le gentes fra le ripartizioni delle città,
come ha fatto il Niebhur; a so stenere col Mommsen che la primitiva proprietà
di Roma fu una proprietà collettiva come quella delle gentes , ciò che è
smentito as solutamente dal diritto primitivo di Roma, a dare collo stesso
autore un carattere assolutamente patriarcale alla primitiva costi tuzione di
Roma, e ad una quantità di altre illazioni, che rendono del tutto inesplicabile
e contradditoria la storia primitiva di quel po polo , che ha usato una maggior
logica nello svolgimento delle proprie istituzioni. Con questo sistema si
dovette necessariamente giungere a considerare la storia primitiva di Roma come
una serie di leg gende, che sarebbero state inventate da un popolo , che in
tutto il 1 resto si è dimostrato invece ben poco fantastico , nell'intento di
combinare l'umiltà delle proprie origini colla grandiosità dello svol gimento,
che ebbe a ricevere dappoi (1). (1) Parrà strano che nella mia pochezza venga a
combattere opinioni, le quali appariscono suffragate da un così gran cumulo di
erudizione e di studii. Nè io l'avrei fatto quando si trattasse di questo o di
quel documento storico, ma dalmo mento che trattasi di ricostruire in base alle
induzioni più probabili il processo, che Roma seguì nella propria formazione,
mi parve di doverlo fare, poichè sono appunto le opinioni inesatte dei grandi
scrittori, che pongono gli altri sopra una falsa via . È incredibile la
quantità di induzioni errate, che produsse nella storia di Roma la confusione
fatta dal Niebuur dell'organizzazione gentilizia coll'organizzazione politica
allorchè volle scorgere nelle dekódeS di Dionisio le gentes, e sostenne così
che queste fossero una divisione politica della città . Tutta la critica
storica tedesca si pose in questa via e tutti vollero scorgere nella città un'aggregazione
di gentes, il che rese del tutto inesplicabile la storia primitiva di Roma. Mi
basterà citare fra gli altri; il MOMMSEN, op. cit. e loc. cit., pag. 77 , ove
dice che le genti erano incorporate tali e quali nello Stato con tutti i loro
territorii e con tutte le famiglie, che contene vano e che il gruppo della
famiglia e della gens continuava a sussistere nello Stato » ; il LANGE, op. cit
., pag. 37 e seg ., ove con uno sforzo mirabile, ma sfortunato, di
sottigliezza, vuol trovare ad ogni costo i caratteri della famiglia nello Stato
romano; 14 - 13. Parmi invece un processo assai più logico e che può condurre a
risultati assai più verosimili quello, che ebbe già ad esser iniziato dal
Bonghi, di prendere Roma, quale essa si presenta nelle tradizioni esa minate
col sussidio della critica . Dal momento che Roma si è veramente staccata da
una popolazione latina , è naturale che essa sia stata dapprima foggiata sul
modello delle città latine, e che abbia continuata tenacemente l'opera già da
queste incominciata di organiz zare , accanto alla vita patriarcale e
gentilizia , quella vita pubblica, che dispiegasi appunto nell'urbs e nella
civitas. Roma si presenta nella storia memore di tutte le tradizioni, che già
si erano formate nel periodo anteriore dell'organizzazione gentilizia , ed è
con queste tradizioni, che si accinge ad organizzare un nuovo aspetto di vita
sociale, che è quello della vita pubblica e municipale. Essa quindi non assorbe
di un tratto nè le tribù nè le gentes, ma lascia che esse continuino ad essere
campo alla vita domestica e patriarcale ; solo richiama a se lentamente e
gradatamente tutti quegli ufficii di carattere pubblico, che prima si
compievano nel seno dell'orga nizzazione gentilizia , ed è in tale intento che
essa intraprende l'ela borazione del proprio diritto pubblico e privato . Una
volta poi che quest'opera è iniziata , Roma, con quella tenacità di proposito ,
che è sopratutto propria del popolo romano , non si arresta nell'opera sua
sinchè non sia pervenuta non solo ad organizzare nel proprio seno una vita
pubblica e municipale,ma a cambiare il mondo allora conosciuto in un complesso
di città , di colonie, di provincie orga nizzate tutte a somiglianza di se
medesima, e gli abitanti dell'impero in cittadini di un'unica città . La qual
opera fu compiuta da Roma seguendo sempre quel medesimo processo , a cui erasi
attenuta nella sua primitiva formazione. 14. È per questo motivo, che era
impossibile comprendere le origini delle istituzioni pubbliche e private di
Roma senza tener dietro alla sua formazione esteriore, quale può ricavarsi
dagli studii topogra e il Sumner MainE, L'ancien droit, trad . Courcelle
Seneuil, pag. 121, dove, dopo aver detto che la gens era una aggregazione di
famiglie, e la tribù un ' aggregazione di gentes, finisce per dire che la città
non è essa stessa che « un'aggregazione di tribù e la repubblica una collezione
di persone legate per discendenza comune all'autore di una famiglia primitiva »
, il che certamente non può ammettersi. Del resto la gravissima questione sarà
trattata più a lungo nel lib. II, Cap. I, quando si discor rerà della
costituzione primitiva di Roma. 15 fici recentemente fatti intorno all'antica
Roma. Si potrebbe poi fa cilmente dimostrare, che questa formazione
progressiva, che risulta dall'estendersi della cerchia stessa di Roma, viene
anche ad essere provata dal formarsi progressivo della sua religione, del suo
senato , dell'ordine dei cavalieri, del suo esercito , dei suoi collegi
sacerdotali, ma cid risulta anche più chiaramente dalla formazione delle sue
isti tuzioni pubbliche e private, poichè ciascun popolo imprime sopratutto il
proprio carattere in quella parte dell'opera sua, in cui giunse senz'alcun
dubbio a maggiore grandezza (1 ). A ciò si aggiunge la considerazione già stata
fatta da un autore assai benemerito della ricostruzione della storia primitiva
di Roma, che è il Rubino, secondo il quale le tradizioni, che a noi pervennero
circa i primi tempi di Roma, debbono distinguersi in due specie . Vi hanno
quelle relative alla costituzione primitiva di Roma ed agli istituti religiosi
e giuridici , che sono collegati con essa , e queste fino a prova contraria
debbono essere ritenute per vere ; perchè trattasi (1) Vi ha questo di
particolare nella storia di Roma, che lo svolgimento di essa , sotto qualsiasi
aspetto sia considerato, presentasi organico e coerente in tutte le sue parti.
Ne derivò che tanto le investigazioni pazienti e minute quanto le ricostru
zioni ardite, che si vennero succedendo, finirono per sussidiarsi a vicenda per
l'intel ligenza di Roma primitiva . Vi conferirono gli studiosi della
topografia di Roma antica , della sua arte militare, della sua letteratura,
della sua filosofia , dei suoi mo. numenti, della sua costituzione politica e
delle sue istituzioni giuridiche. Che anzi la coerenza del suo svolgimento
appare così meravigliosa , che vi sono autori che, se guendo soltanto il
formarsi della sua religione e dei suoi collegi sacerdotali, cerca rono di
inferirne gli stadii della sua formazione progressiva , come tentò di fare il
Bouché-LECLERCQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome, Paris, 1871, e Manuel des
institutions romaines, Paris , 1886 ; altri, che tentarono di venire allo
stesso risultato, seguendo lo svolgimento di un istituto particolare, come
sarebbe quello del Senato , come il WILLEMS, Le sénat de la république romaine,
Paris, 1878 , 2 vol. , come pure il Blocu, Les origines du sénat romain, Paris,
1883, od anche quello dell'or dine dei cavalieri, come tentò di fare il Belot,
Histoire des chevaliers romains, Paris, 1866 , 2 vol. — Non può però esservi
dubbio che penetrarono più profondamente nella vita primitiva di Roma quelli
sopratutto, che, come il Vico ed il Niebuur, ne ricercarono la storia nelle
lotte degli ordini, che entravano a costituirla e nello svol gimento delle
istituzioni giuridiche e politiche. Il diritto è la grande occupazione di Roma,
e quindi è quello che conserva meglio le vestigia di un'epoca pre-romana. Esso
formò il pensiero costante non solo dei sacerdoti, dei patrizi, e dei giurecon sulti,
ma ancora dei poeti, per modo che fuvvi un autore, il quale raccogliendo, come
egli dice, < ... disiecti membra poetae » potè giungere a ricostruire in
parte l'edifizio giuridico di Roma, anche nei particolari minuti della sua
procedura . Henriot, Maurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome, Paris,
1865 , 3 vol. 16 d'un argomento che aveva un carattere pressochè sacro per il
po polo Romano, e in cui concentrava tutta la propria vita , per guisa che esso
continuò sempre a svolgere con pertinacia e con co stanza quei concetti e
quelle istituzioni, che furono posti durante lo stesso periodo regio . Hanvi
invece le tradizioni, che si riferi scono a racconti di guerre e ad incidenti,
che le avrebbero accom pagnate, a vicende di uomini illustri, a quei
particolari insomma che dånno vita ed attrattiva alla storia romana, e queste
rimasero per lungo tempo affidate alla leggenda popolare e poterono cosi essere
alterate sia dalla vanità nazionale che dalla vanità delle grandi famiglie di
Roma. Bene è vero , come osserva il Bonghi, che anche nella prima parte possono
essersi introdotte delle altera zioni, che furono causate dal partito diverso ,
a cui appartengono gli scrittori (1), ma siccome trattasi di istituzioni, che
ebbero un pro cesso storico non mai interrotto , cosi egli è ben più facile di
rista bilire la verità , che non quando trattasi di semplici incidenti della
storia di Roma, che, non collegandosi così strettamente col resto, potevano
dare argomento ad altrettante leggende, che si arricchivano di nuovi
particolari, a misura che si veniva ripetendone la narrazione. Dopo aver cosi
seguita la formazione progressiva della comunanza romana vediamo ora gli
elementi, che si trovano in lotta nell'in terno della medesima. (1) È da
vedersi al riguardo Bonghi, La fede degli storici superstiti di Roma antica ,
capitolo desunto dalla 2a parte del II volume, che anche ora non è pubbli cato,
malgrado il desiderio che l'illustre autore e gli Italiani tutti hanno di
vedere pubblicata un'opera, che egli solo è in condizione di compiere. Rirista
storica italiana. Torino, 1886. Fascicolo 1º, pag. 25 e seg . - 17 - CAPITOLO
II. Il patriziato e la plebe in Roma primitiva. 15. Una delle circostanze più
accertate della condizione di Roma primitiva si è , che nella popolazione della
medesima cominciò fin dai primordii a manifestarsi un dualismo potente, quello
cioè fra il patriziato e la plebe. La tradizione cercò di spiegare questo
dualismo dicendo, che Romolo avrebbe aperto un asilo , ove si potessero rifu
giare coloro, che per qualunque ragione avessero dovuto abbando nare la propria
città . Ciò farebbe credere che la distinzione fra il patriziato e la plebe
fosse in certo modo nata con Roma, quando non fosse certo , che cotale
distinzione già esisteva in altre città , e non vi fossero formole antiche ,
che accennassero al doppio elemento coi vocaboli di populus et plebes (1).
Sembra anzi che le stesse tribù primitive, che entrarono nella costituzione
della più antica comunanza romana, già avessero con sè una propria plebe,
indipendentemente da quella che si sarebbe rifugiata nell'asilo aperto da
Romolo, in quanto che, secondo il racconto di Dionisio, uno dei primi
provvedimenti di Romolo sarebbe stato quello di affidare ai plebei la coltura
dei campi, l'allevamento del bestiame e l'esercizio delle arti manuali, e di
collocarle sotto la clientela dei padri, il che sarebbe anche con fermato da
Cicerone come pure da un luogo di Festo , secondo cui i senatori sarebbero
stati chiamati patres, in quanto che erano incari cati di fare distribuzione di
terre ad un ordine inferiore di persone (tenuioribus) (2). ( 1) La distinzione
fra il populus e la plebes trovasi ancora in un documento im portantissimo,
cioè nella lex latina tabulae Bantinae, ove è ripetuta più volte la frase « quisque
eorunt sciet hanc legem populum plebemve iousisse » formola che ha certo grande
importanza quando si consideri che era tradizione romana quella di conservare
le formole arcaiche nel tenore delle proprie leggi. Quella formola dimo stra
che populus e plebes dovevano dapprima essere distinti e che, quando i due
elementi si fusero insieme nella comunanza , per qualche tempo ancora i due
voca boli serbarono rispettivamente la primitiva loro significazione. V. la lex
latina tabulae Bantinae nel Bruns, Fontes, pag. 51-53. Ed. 54. Friburgi, 1887.
(2 ) Quanto al testo di Dionisio, esso è riportato in greco e nella traduzione
latina nel Bruns, Fontes, pag. 3 e nota 2. Quanto a quello di Festo, vº Patres,
è bene di G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 2 18 - 16. Questo è certo
che il patriziato e la plebe, anche quando giungono a considerarsi come parti
della medesima comunanza e a far parte dello stesso popolo , il che è accaduto
molto tempo dopo l'epoca della fondazione, come si dimostrerà a suo tempo, continuano
sempre a costituire due ordini e pressochè due caste compiutamente distinte,
fra le quali non esiste ne identità di istituzioni, nè comu nanza di
tradizioni, nè il diritto di connubio . — Mentre il patriziato si presenta
colle tradizioni di un passato, le cui origini si perdono nel l'oscurità dei
tempi e debbono forse essere cercate nello stesso Oriente, e con una
organizzazione potente, le cui traccie si mantengono ancora durante il periodo
storico ; la plebe invece presentasi dapprima come una massa mobile, composta
di elementi eterogenei e diorigine probabilmente diversa ( 1). Essa ha
pochissima importanza negli inizii di Roma,ma viene sempre più crescendo in
numero e in potenza, anche perchè, a differenza del patriziato , può
continuamente acco gliere nel proprio seno nuovi elementi. Durante il periodo
regio la plebe non sembra ancora essere in condizione di affrontare la lotta
col patri ziato , ma cominciando dalla repubblica i conflitti si fanno
pressoché quotidiani, cosi in materia di diritto pubblico che di diritto
privato, e dalle discussioni, che seguono fra idue ordini, si può raccogliere
che le differenze essenziali, che servivano a distinguerli, erano
essenzialmente le seguenti. I patrizi anzitutto erano e si ritenevano i
fondatori della urbs e i soli membri della civitas, mentre la plebe era un
elemento , che trovavasi in condizione inferiore e che per la maggior parte era
sopravvenuto più tardi, nè poteva quindi, secondo le idee del patriziato ,
pretendere ad un pareggiamento completo . Quelli avevano un'organizzazione
potente, che era quella per gentes, la cui forza veniva ancora ad accrescersi
mediante l'istituto della qui riportarlo : a Patres senatores ideo appellati
sunt, quia agrorum partes attri buerant tenuioribus, ac si liberis propriis » .
V. Bruns, p. 351. Questi passi unita mente a quello di CICERONE, De rep., 2, 9
: « Romulus habuit plebem in clientelas principum descriptam » rispondono
abbastanza all'opinione di coloro, che come il LANGE, Histoire intérieure de
Rome, I, pag . 59 ed il Padelletti, Storia del dir . rom ., pag . 19 ,
sostengono, che l'origine della plebe sia posteriore alla fondazione della
città , ed abbia solo avuto origine « coll'ammissione di persone libere nella
cittadinanza e nel territorio dello Stato ,avvenuta per atto pubblico e
accompagnata dalla concessione in proprietà di terreni da coltivare » .
PADELLETTI, op . e loc. cit. (1) Cfr. MUIRHÉAD, Hist. Introd ., pag. 10 . 19 --
clientela ( 1). Il patriziato quindi poteva indicare la serie dei proprii
antenati e dimostrare che i medesimi eran sempre stati ingenui e che niuno di
essi erasi trovato in condizione servile. La plebe invece, se si deve credere
alle ragioni poste innanzi molto più tardi dagli oratori patrizii, allorchè
trattavasi nel 309 di Roma di respingere la legge Canuleia diretta a togliere
il divieto dei connubii fra i due ordini , non conosceva ancora la famiglia or
ganizzata in base al potere del padre ed al culto degli antenati, per cui le
unioni plebee non erano dai patrizii considerate come iustae nuptiae, nè
santificate dalla partecipazione al medesimo culto ; ma erano semplici
matrimonia , in cui il vincolo di parentela era determinato piuttosto dalla
cognazione materna, che dall'agnazione paterna. Di qui la conseguenza, che
ancora dopo la legge delle XII Tavole il patriziato non poteva comprendere una
comunanza di connubio fra esso e la plebe, come lo dimostrano le parole di
Livio relative al plebiscito Canuleio : rogationem promulgavit, qua con
taminari sanguinem suum patres confundique iura gentium rebantur (2). – Da
ultimo una differenza importantissima consisteva anche in questo , che solo il
patriziato possedeva gli auspicia , cosicchè tutti gli atti, che lo
riguardavano, assumevano un carattere solenne e religioso; mentre la plebe, pur
avendo una religione e feste ( 1) Gellio , Noc. Att., 10 , 20 chiama la plebe
quella parte della popolazione ro mana, nella quale « gentes patriciae non
insunt ». È poi noto che, secondo Livio, nelle discussioni fra patrizii e plebe
( X , 8 ) gli oratori di questa attribuivano ai primi di vantarsi di esser soli
ad avere le gentes con parole, che riassumono i titoli di superiorità del
patriziato: « semper ista audita sunt eadem : penes vos solos au spicia esse,
vos solos gentes habere, vos solos iustum imperium et auspicium domi
militiaeque ecc. » . Pare tuttavia che non possa affatto escludersi l'esistenza
di gentes plebeiae, le quali però costituivano una eccezione. La causa di
questo fatto può essere duplice ; —o queste gentes potevano derivare dalle popolazionidelle
città latine, che già avevano un'organizzazione simile a quella delle genti
patrizie, seb bene non fossero più state ammesse nel patriziato, – o la
formazione di queste gentes dovette accadere più tardi, quando una parte della
plebe, entrata a far parte della nobiltà, cercò essa pure di imitare
l'organizzazione gentilizia , il che cominciò ad es sere possibile dopo le
leggi Licinie Sestie, colle quali la plebe fu ammessa al con solato. Così
Cicerone ci attesta, che la famiglia dei Marcelli erasi staccata dall'antica
gente patrizia dei Claudii (De Orat., I, 176). Così pure egli ci parla di una
gens Minucia, che sarebbe stata plebea (In Verr., I, 45 ). Fra gli autori
recenti sull'ar gomento sono da vedersi il Voigt, XII Tafeln , Leipzig , 1883 ,
I, pag . 262 e seg . e il KARLOWA, Röm ., R. G., I, pag . 36 e 37. (2 ) Liv .,
Hist., IV , 1. - 20 popolari, non possedeva gli auspicia , nè aveva un proprio
culto gentilizio (sacra gentilicia ). Queste differenze erano tali, che sebbene
le circostanze conducessero col tempo i due ordini a far parte della stessa
comunanza, era pero naturale , che essi non potessero entrarvi alle stesse
condizioni. 17. Dalle differenze sovra enumerate questo intanto si può inferire
, che in Roma primitiva la superiorità , che si attribuiva il patriziato sulla
plebe, trova sopratutto la propria causa in ciò, che esso era già era più
progredito nell'organizzazione sociale , ed era prima uscito dallo stato di
confusione, di privata violenza e di promi scuità primitive, che esso riteneva
in parte essere ancora proprie della plebe. Esso sapeva indicare i proprii
antenati, aveva con servato gelosamente le proprie tradizioni, ed era già
pervenuto al l'organizzazione di un culto gentilizio. Di più erano le gentes,
che aggruppandosi insieme avevano dato origine alla tribù, come pure erano le
tribù, che, confederandosi insieme in conformità di certi riti e dopo aver
assunto solennemente gli auspicii, erano pervenute a fondare la città , in cui
provvedevano ai comuni interessi ed ob bed no ad una legge, espressione della
volontà comune (1 ). Bene è vero che, per accrescere la forza della loro città
del loro eser cito, era spediente di incorporare in essi anche le plebes cioè
le molti tudini, che naturalmente si venivano raccogliendo ove era fondata e
fortificata un'aggregazione di genti patrizie , ma chi tenga conto della umana
natura , che in questa parte non sembra ancora essersi modificata , non può
certo meravigliarsi se le genti patrizie abbiano applicato colla plebe la
massima : prior in tempore, potior in iure, e si siano cosi prevalse del
vantaggio , che loro somministrava una più antica esperienza delle cose civili
ed umane, per conservare a lungo una posizione privilegiata nella comunanza
civile . Piuttosto è da am mirarsi la tenacità e perseveranza di una plebe, la
quale, composta (1) Quinto all'origine ed al carattere del patriziato primitivo
di Roma, contiene delle buone ed acute osservazioni l'articolo del FREEMAN
nell'ultima edizione del l'Encyclopedia Britannica , pº Nobility , ove il
patriziato romano è posto a para gone cogli Eupatridi di Grecia, colla nobiltà
feudale, coi Pari Inghilterra ecc. È pure a vedersi il Duruy, Histoire des
Romains. Paris, 1870, I, pag . 10, ove parla del patriziato come di
un'istituzione propria delle società primitive e nota le analogie e le
differenze fra i patrizii di Roma e i bramani dell'India . Cfr. Muir HEAD, op.
cit., pag. 5-8 . - 21 dapprima di elementi eterogenei e priva di qualsiasi
organizzazione sociale, seppe col tempo in tutto e per tutto imitare
l'organizzazione propria del patriziato, creare genti plebee accanto alle genti
patrizie, contrapporre le tribù alle curie, i tribuni ai veri magistrati, e
che, appena potè ottenere il riconoscimento di un diritto , di quello cioè
della proprietà quiritaria , riusci a valersi delmedesimo come di stru mento e
di mezzo per ottenere a poco l'uguaglianza giuridica e po litica , e perfino
l'ammissione a quegli auspicia , a quei sacerdotia , e a quella scienza del
diritto , che solo molto tardi vennero ad es sere comunicati ai plebei ( 1).
18. Questo intanto può aversi per certo, che la formazione del patriziato e
della plebe costituisce in certo modo la questione fon damentale della storia
politica e giuridica di Roma. Vero è che accanto ai plebei trovansi pur anche i
servi ed i clienti, ma questi due elementi non hanno certo l'importanza della
plebe, che dovrà poi avere tanta parte nella storia di Roma, in quanto che i
servi entrano a far parte della famiglia ed i clienti rientrano anch'essi
nell'organizzazione gentilizia . Di più tanto gli uni comegli altri, al lorchè
riescono a svincolarsi dal padrone o dal patrono, entrano a far parte della
plebe, che è quella veramente , che sostiene e vince la lotta per il
pareggiamento giuridico e politico col patriziato . Quindi è che nè i clienti,
né i servi come tali riescono ad avere una piena personalità giuridica e
civile; poichè i primi scompariscono a poco a poco o si trasformano in semplici
salutatores, ed i secondi si man tengono bensì, ma non giungono mai, durante il
predominio di Roma, ad essere riconosciuti come capaci di diritto . La
questione limitasi pertanto al patriziato ed alla plebe , ed è quindi l'origine
di questi due elementi, che è il maggior problema, che offra la storia
primitiva di Roma. Cið non ostante, sinchè non siansi esaminate
l'organizzazione del patriziato e la composizione della plebe , non pud certo
affrontarsi il problema della origine delle due classi. – Basterà unicamente,
per l'intelligenza di ciò che verrà dopo, di osservare che le differenze, che
esistevano fra di esse negli inizii (1) Queste lotte per il pareggiamento sono
largamente esposte dal LANGE, Hi stoire intérieure de Rome, I, pag. 111 a 218.
I risultati poi della lotta sono riassunti nel dotto lavoro del GENTILE, Le
elezioni e il broglio nella repubblica romana, Milano, 1879, e sopratutto nel
cap . I, Le assemblee elettorali, p. 1-135 . 22 di Roma, la superiorità
pressochè incontestata dei patrizii e l'ossequio pressochè servile dei plebei
nei primi tempi della città dimostrano ab bastanza, che la loro distinzione non
potè certamente essere opera della legge, nè delle circostanze storiche
speciali, in cui Roma ebbe a tro varsi ; ma dovette essere il frutto di una
lunga evoluzione storica , la cui preparazione deve essere cercata in un
periodo anteriore di orga nizzazione sociale. Non può esservi dubbio, che
l'origine di una di stinzione, così altamente radicata nel costume e nelle
abitudini delle due classi, deve essere cercata in quei cataclismi, che
dovettero avverarsi nell'urtarsi e nel sovrapporsi delle stirpi italiche, di
origine Aria, sovra altre stirpi, che già abitavano il suolo , sovra cui esse
si arrestarono nelle proprie migrazioni. Essa è una distinzione, che deve certa
mente rannodarsi ad una divisione ben più antica , e le cui traccie si
mantengono sempre nella storia dell'umanità , che è quella fra la classe dei
conquistatori, dei vincitori, dei primi pervenuti a sta bilirsi in un
determinato suolo , e quella dei soggiogati, dei vinti, e dei sopraggiunti più
tardi a porre la propria sede in un suolo, che altri aveano prima occupato e
sovra cui i medesimi già si erano stabiliti e fortificati. Egli è certo, che
nel sopraggiungere delle stirpi italiche mi granti dall'Oriente dovette
certamente avverarsi un periodo di privata violenza non dissimile da quello,
che accadde più tardi allorchè le popo lazioni germaniche invasero l'Impero
Romano. Anche allora dovettero esservii vincitori ed i vinti, e frammezzo a
quella promiscuità di genti e a quella prevalenza della forza , che ci
ricordano ancora gli scrittori latini quando ci parlano di connubia more
foerarum e di viri duro ex robore nati, dovette sentirsi urgentissimo il
bisogno di una prote zione giuridica e di una forte organizzazione sociale (1).
Dovettero ( 1) Sono sopratutto i poeti latini, come interpreti delle primitive
tradizioni e leg gende, che alludono frequentemente a questo stato primitivo ,
in cui dovettero tro varsi le genti italiche, ora descrivendo una età dell'oro,
che assegnano al regno di Saturno, che sembra corrispondere al Savitar degli
Arii, ed ora accennando eziandio a un periodo, in cui avrebbe imperato la forza
e la violenza. È veramente preziosa in proposito e riflette mirabilmente la
coscienza primitiva delle genti italiche la raccolta , che l'Henriot ebbe a
fare dei testi dei poeti latini, che possono avere qualche attinenza col
diritto, nella sua opera col titolo : Mæurs juridiques et judiciaires de
l'ancienne Rome d'après les poètes latins. Paris, 1865, 3 vol. I testi, che ram
mentano la presunta età dell'oro, si possono vedere nel tomo I, pag. 5 a 7 e
quelli relativi all'imperio della forza da pag . 32 a 38. È poi notabile come
tutti i poeti accennino al concetto di un diritto naturale, preesistente alla
formazione del civile consorzio, e tutti esprimano con grande efficacia
l'altissima importanza, che dovette avere per l'umanità l'origine delle leggi.
23 allora succedere fra le popolazioni italiche dei cataclisminon minori di
quelli, che si attribuiscono al nostro suolo , e furono questi cataclismi, che
condussero necessariamente alla formazione di un aristocrazia territoriale,
militare e patriarcale ad un tempo, che era il solo ed unico mezzo per uscire
da uno stato di promiscuità e di violenza. Fu questa aristocrazia , che
comprese i padri nella famiglia , i pa troni nella gente e i patrizi nella
tribù, ed abbracciò cosi tutte quelle genti, le quali, memori forse di
istituzioni che eransi altrove elaborate, trapiantarono frammezzo al disordine
ed alla lotta la potente or ganizzazione gentilizia, che una volta formata si
chiuse in certo modo in se stessa e riguardo come di origine inferiore tutti
coloro che non appartenevano alla medesima. Fu questa aristocrazia po
tentemente organizzata per gentes, che costituì la classe privilegiata e che
meritava dapprima anche di essere considerata come tale ; ma accanto alla
medesima dovette naturalmente formarsi una classe subordinata , i cui gradi
corrispondono precisamente ai varii stadii dell'organizzazione gentilizia, in
quanto che comprende i servi nella famiglia , i clienti nella gente , ed i
plebei, che cominciano a compa rire colla tribù . Per tal modo nelle
popolazioni, che si vengono così organizzando, si disegnano per spontanea e
naturale formazione, due strati, che si corrispondono fra di loro , e mentre in
una lunga e lenta evoluzione, di cui non sopravisse alcun ricordo, salvo nella
lingua e negli og getti trovati nelle tombe, i padri della famiglia si cambiano
in pa troni nella gente e quindi in patrizi nella tribù, anche i servimano messi
dal padrone mutansi in clienti del patrono ed i clienti rimasti senza patrono
formano il primo nucleo della plebe . Padri, patroni e patrizi sono i sedimenti
successivi della classe dei vincitori, dei pro prietari delle terre, dei primi
organizzatori di una vita sociale; mentre i servi, i clienti ed i plebei
rappresentano i varii stadii, per cui passa la classe inferiore dei vinti, e di
quelli che, per avere una prote zione, si accalcano intorno allo stabilimento
delle casate patrizie. I primi possono indicare i proprii antenati ed escludere
qualsiasi origine servile; mentre i plebei, se giunsero col tempo ed essere
indi pendenti dal patriziato , appartennero probabilmente alla classe dei servi
e dei clienti, e non ebbero dapprima quelle giuste nozze, che ac certavano la
discendenza per la linea maschile. È in questo modo che il patriziato venne
formandosi l'alto concetto della propria su periorità e che giunse fino a dire,
se non a credere, che discendeva dagli dei (il che del resto non era
intieramente falso dal momento 24 - che avevano elevato a divinità i proprii
antenati) (1) ; mentre la plebe, memore forse della servitù antica, trovasi
dapprima in una abbie zione pressochè servile , da cui non venne a liberarsi
che quando ebbe ad essere rigenerata da un nucleo potente di famiglie latine,
che appartenevano alle città conquistate da Roma. Intanto perd fra le due
classi vi ha questa differenza , che la prima tende a tir coscriversi, anche
per la difficoltà di far entrare nuovi elementi in una organizzazione così
gerarchica , eome era l'organizzazione genti lizia, la quale non poteva
accogliere degli individui ma soltanto delle altre genti ; mentre la plebe,
appena viene ad affermare la propria esistenza, tende invece ad incorporarsi
nuovi elementi, senza vagliarne l'origine, per modo che essa pud accogliere i
vinti che non siano ridotti in ischiavitù , gli emigranti che non siano
ricevuti come clienti, e non solo può aggregare nel proprio seno delle famiglie
, ma anche individui, che essendosi disgiunti dal gruppo, a cui erano uniti,
abbisognino di protezione e di tutela . Intanto pero fra l'uno e l'altro ordine
, la grande differenza è questa , che nelle origini solo il patriziato ha una
vera posizione di diritto,mentre la plebe non ha dapprima cheuna posizione di
fatto . Il patriziato e il popolo da esso costituito è un ordine ; mentre la
plebe non è che una moltitudine , una folla non ancora or ganizzata ; quello ha
tradizioni militari , religiose , giuridiche , mentre questa non ha dapprima
che quelle costumanze e quegli usi, che possono formarsi in una folla di
provenienza diversa e di for mazione del tutto recente ; quello ha una
religione gentilizia, for matasi nel suo seno mediante il culto degli antenati,
mentre questa non ha che un complesso di credenze popolari, che ancora abbiso
gnano di ricevere una forma religiosa . Ben si comprende quindi, che la
distanza era grande e che doveva essere assai malagevole di raccogliere i due
elementi nella stessa comunanza, elaborando un diritto, che potesse essere
comune ad en trambi. Fermi cosi i caratteri generali dei due ordini, importa di
ricer care più particolarmente l'organizzazione già formata del patri ziato , e
quella ancora in via di formazione, che dovrà poi compren dere la plebe. (1)
Liv., X , 8. « En unquam fando audistis patricios primo esse factos, non de
caelo demissos, sed qui patrem ciere possunt, id est nihil ultra quam ingenuos
! » . 25 – CAPITOLO III. Il patriziato e la sua organizzazione gentilizia . sl.
Sguardo generale all'organizzazione delle genti patrizie e ai diversi gradi
della medesima. 19. Non può esservi dubbio, che a costituire il patriziato
primitivo di Roma concorsero elementi diversi, usciti per la maggior parte da
quelle tre stirpi di popoli, che secondo la tradizione entrarono a for mare la
comunanza romana. Sonvi quindi genti di origine latina, e fra queste sonovi
quelle che figurano come più antiche, genti di origine sabina, ed
altre , in numero forse minore, di origine etrusca (1). L'origine
diversa poi facilmente persuade, che le loro istituzioni tradizionali dovevano
anche essere dissimili , e che quindi quella completa analogia di istituzioni,
che in esse apparisce più tardi, do vette essere l'effetto di una lenta
assimilazione , che vennesi ope rando gradatamente mediante la loro
partecipazione ad una stessa comunanza civile e politica (2 ). 20. Tuttavia,
malgrado le differenze che potevano esservi nelle sue tradizioni, il patriziato
romano, comunque fosse originariamente composto, presenta fin dalle origini
della città le traccie di un'or ganizzazione potente di carattere patriarcale,
che è l'organizzazione gentilizia . Non è qui il caso di cercare, se questa
organizzazione per genti sia stata una necessità storica per uscire da quello
stato di conflitto e di privata violenza , che dovette avverarsi all'epoca
delle migrazioni, e se sia stata invece una istituzione, che le stirpi migranti
già avevano elaborata altrove e che loro servi per sovrap porsi alle
popolazioni indigene, il ehe sembra essere più probabile ; ( 1) L'enumerazione
delle primitive genti patrizie col riassunto delle opinioni di. verse intorno
alla loro origine e alle molteplici dirainazioni, che partirono da cia scuna di
esse, può trovarsi nel Bonghi, Storia di Roma, vol. 1°, Appendice al lib. II,
pag . 472 a 512. (2) Cfr. MUIRHEAD, Hist. Introd., in princ. Ivi l'autore cerca
perfino di determi nare la parte, che nel diritto privato dovrebbe attribuirsi
alle varie stirpi. 26 questo in ogni caso deve aversi per certo , che è in
virtù di questa organizzazione, che le primitive genti patrizie, per quanto
potessero essere diverse di numero e di potenza, appariscono perd foggiate sul
medesimo modello . Tale organizzazione tuttavia nel periodo storico già trovasi
in via di dissoluzione ; ed anche quello che ne rimane già presentasi alquanto
alterato nelle sue primitive fattezze per essersi confuso coll'elemento civile
e politico, dal quale è assai difficile sce verarlo . Ciò non ostante dalle
vestigia , che ne rimangono e che sono dovute sopratutto allo spirito eminentemente
conservatore del popolo romano, si può dedurre che l'organizzazione gentilizia
dovette nel patriziato romano presentarsi in gradazioni diverse , tutte stretta
mente connesse fra di loro. Esse sono : la famiglia fondata sull'a gnazione, la
gente accresciuta ed afforzata dalla clientela , e da ultimo la tribú , in cui
già compare nei proprii inizii la distinzione fra il patriziato e la plebe (1).
21. Sarebbe certo cosa di grande interesse il ricercare qui se nelle prime
origini l'organizzazione gentilizia abbia prese le mosse dalla famiglia, o
dalla gente , o dalla tribù; ma ciò ci recherebbe a quel l'epoca e a quel sito
, in cui le stirpi Arie ponevano le prime basi dell'organizzazione patriarcale,
cominciando probabilmente dal più piccolo e più naturale dei gruppi, che era la
famiglia (2 ). Qui perd non sarà inopportuno il mettere innanzi, almeno a
titolo di con gettura, che dei varii gradi dell'organizzazione gentilizia
quello, che probabilmente servi per la migrazione delle varie stirpi dall'Oriente
all'Occidente, dovette essere il gruppo della gens. Ciò è dimo (1) Questa
stessa gradazione è accolta dal SUMNER MAINE, Ancien droit, p. 121 , ma non è
invece quella seguita dal Leist, Graeco- Italische R. G., § 18 a 36 , il quale
parmi non distingua sempre abbastanza due cose affatto diverse fra loro, che
sono l'organizzazione gentilizia e l'organizzazione politica, considerando come
altret tante divisioni del populus, non solo le tribus e le curiae, ma anche le
gentes. (2) Senza voler quientrare in una questione, chemi trarrebbe troppo per
le lunghe, non posso però tralasciare di notare, che la così detta famiglia
patriarcale non deve ritenersi come la famiglia veramente primitiva, poichè
essa è già una famiglia, le cui fattezze vengono ad essere trasformate a causa
del suo entrare a far parte della organizzazione gentilizia. È nota in
proposito la discussione, anche oggi non defi nita , fra il SumnER MAINE, Early
law and custom , London, 1883 , c. VII, pag . 192 a 232 da una parte, ed il
MORGAN ed il Mac-Lennan dall'altra , come pure la cri tica fatta, alla teoria
patriarcale del SUMNER Maine, dallo SPENCER , Principes de sociologie, II, pag.
317 a 348. 27 strato dal fatto , che è dalla gente che il patrizio romano
deriva quel nome, che esso ha ricevuto dall'antenato comune e che deve trasmet
tere poi ai proprii discendenti, e che, anche nei tempi storici di Roma,
allorchè accade qualche nuova incorporazione nel patriziato mediante la
cooptatio, questa non si effettua nè per famiglie, nè per tribù, ma per genti
(1). Mentre la famiglia è il gruppo più ristretto ed unificato in tutte le sue
parti e la tribù è già una vera e propria comunanza di villaggio, in cui si
preparano gli elementi costitutivi della città , la gente invece è il gruppo
intermedio , che då giusta mente il suo nome e la propria impronta
all'organizzazione genti lizia, perchè di sua natura è un gruppo più elastico e
pieghevole di tutti gli altri, e che può meglio accomodarsi a qualsiasi
evenienza in un periodo di migrazione. La gens infatti è più forte e nume rosa
della famiglia , perchè continua a stringere insieme le famiglie, che per
discendere da un comune antenato sono anche unite tra di loro da un medesimo
culto , e intanto è più compatta della tribus, la quale essendo già l'aggregazione
di più genti, che o sono di ori gine diversa o hanno già dimenticata l'origine
comune , può già fornire argomento a dissidii fra i capi delle varie genti, che
entrano a costituirla . La gente poi è per sua natura tale, che ora può cam
biarsi in una carovana in migrazione, ora attendarsi e stabilirsi in un
determinato sito, ed ora anche raccogliersi a guisa di un ma nipolo di soldati,
e tutto ciò senza che possa mai sorgere questione di preminenza , perchè è la
consuetudine, che designa chi debba esserne il capo e perchè il vincolo della
comune discendenza fa sì che tutti i suoi membri ne subiscano volenterosi il
comando. In tanto è nella gente, che si vengono formando e distinguendo le
famiglie, come pure sono le genti che, aggregandosi intorno ad una preminente
fra le altre, dånno origine alla tribù , la quale è già più atta ad arrestarsi
in un determinato sito e ad essere così di avviamento alla convivenza civile e
politica . I tre gruppi tuttavia sono sedimenti di una spontanea e naturale
formazione, che si ven gono sovrapponendo l'uno all'altro per modo, che
appariscono tutti foggiati sul medesimo modello , che è quello del gruppo
patriarcale , e si vengono reciprocamente influenzando per guisa, che tutti
appa riscono come strati diversi di un'unica organizzazione. Di qui la (1) Cfr.
Willems, Le droit public romain , 56 édition. Paris, 1883, pp. 25 , 30 , 31 e
48 . 28 conseguenza , che tutti questi gruppi, dal momento che difetta an cora
una vera convivenza civile e politica , compiono l'uffizio ad un tempo di
convivenza domestica e di convivenza civile , colla diffe renza tuttavia , che
nella famiglia prevale ancor sempre il vincolo del sangue, e nella tribù già si
fa strada il vincolo civile e politico , mentre la gente è quella, che ha il
carattere più schiettamente pa triarcale ( 1) 22. Cid premesso quanto ai
caratteri generali della organizzazione gentilizia, cerchiamo di ricostruirne
le principali fattezze, desumen dole dalle traccie che ancora ne rimangono
nella storia primitiva di Roma, nella quale vi ha questo di particolare che,
anche quando un'istituzione si dissolve, si sanno mantenere le forme esteriori
della medesima. In cid sarà bene incominciare dalla famiglia, come quella che
ebbe ad esser meglio conservata e intanto costituisce il gruppo più ristretto
dell'organizzazione gentilizia . $ 2 . La famiglia come parte
dell'organizzazione gentilizia . 23. Per quanto sia vero che la famiglia ,
quale presentasi più tardi nel diritto quiritario , sia una istituzione comune
così al patriziato che alla plebe, sonvi tuttavia forti argomenti per credere
che la sua primitiva organizzazione fosse di origine patrizia . Fra gli altri
argomenti l'importantissimo è questo , che una moltitudine come la plebe, che
era di provenienza diversa e di formazione ancora del tutto recente, non poteva
possedere fin dai suoi inizii una organizzazione famigliare , che presuppone
una lunga serie di antenati e perciò una lunga elaborazione anteriore. Ciò del
resto è anche dimostrato da che nelle origini il vocabolo di patres indicava
sopratutto i capi delle famiglie patrizie, e perfino gli stessi senatori, che
certo usci ( 1) Quanto ai caratteri comuni al gruppo patriarcale degli Arii,
alla gens romana ed al révos dei greci ed alla letteratura copiosissima
sull'argomento , mi rimetto alla mia opera: La vita del diritto nei suoi
rapporti colla vita sociale. Torino , 1880. Lib . I, cap. I, ed all'opuscolo :
Genesi e svolgimento delle varie forme di con vivenza civile e politica .
Torino, 1878. Recarono un nuovo contributo allo studio comparativo delle
istituzioni primitive presso le genti di origine Aria , oltre le opere già
citate del Sumner Maine, il BERNHÖFT, Staat und Recht der röm . Königszeit,
Stuttgart, 1882 e il Leist, op. cit. 29 vano dal patriziato, al modo stesso che
il vocabolo di patricii in dicava i figli dei patres. Lo stesso provano
eziandio le nozze con farreate , certamente proprie del patriziato , che nelle
leggi attribuite a Romolo ed a Numa sembrano essere il solo modo con cui si po
tevano contrarre le giuste nozze (1 ). Si aggiunge infine il carattere
agnatizio della famiglia primitiva di Roma, il quale non è e non può essere un
carattere originario , ma è una conseguenza della stessa organizzazione
gentilizia , di cui la famiglia entrava a far parte. Dal momento infatti, che
in questo periodo non esisteva ancora una vera comunanza civile e politica ,
diveniva inevitabile che l'organizzazione gentilizia ne assumesse le funzioni e
le veci , e che perciò anche la famiglia, in quanto ne faceva parte, venisse a
ricevere un'organizzazione piuttosto fondata sul potere del padre, che non sul
vincolo del sangue . È questa la causa per cui la fa miglia primitiva Romana
sembra , almeno in apparenza, soffocare i naturali affetti del sangue, per
guadagnare in forza ed in potenza , unificandosi sotto la potestà del proprio
capo. Una volta poi che il fondamento della unione domestica si riponeva nella
potestà del padre, era una conseguenza logicamente inevitabile , che come il
padre prevaleva nella costituzione e nel governo della famiglia , cosi
l'agnazione, ossia la discendenza dal padre, per la linea maschile, dovesse
prevalere nella composizione diessa . È in questo senso , che la famiglia
primitiva Romana viene a costituire un organismo potente, che può essere
considerato come il primo anello e come ilnucleo più ristretto
dell'organizzazione gentilizia . Essa infatti ha una costi tuzione
eminentemente monarchica, perchè tanto le persone, che la costituiscono, quanto
le cose , che ne formano il patrimonio , dipen dono esclusivamente dalla
potestà del padre. 24. La famiglia patrizia poi è un vero e proprio organismo,
che può considerarsi in due momenti diversi. Finchè infatti vive il padre, nel
cui potere essa trovasi unificata , la famiglia è un vero corpo vivente , che
può andar soggetto a continui mutamenti, in quanto che vi hanno persone che
possono uscirne ed altre che pos sono entrarvi. Quando poi il padre muore,
quelli che un tempo erano soggetti alla sua potestà possono ancora continuare a
tenere (1) Dion ., 2 , 25 e 2, 63, il cui testo è riportato dal Bruns, Fontes «
Leges Re giae » , pag. 6 e 9 . 30 indiviso il patrimonio comune, assecondando
un antico costume ro. mano, che si esprimeva colle parole conservateci da
Gellio « ercto non cito » le quali significano in sostanza che non si dovesse
pro cedere alla divisione immediata del patrimonio (1). In tal caso si mantiene
fra gli agnati un di soggetti alla patria potestà una specie di società
universale di tutti i beni, per cui sembra in certo modo che si perpetui ancora
l'esistenza della famiglia , e si ha così quella famiglia in largo senso , di
cui ci parlano ancora i classici Giureconsulti, che la chiamavano « familia
omnium agnatorum » . Questa indivi sione dovette certamente essere frequente
nei tempi primitivi e fu questa la causa per cui, oltre la famiglia nel vero
senso della pa rola , che comprende tutti quelli che sono soggetti alla patria
potestà, venne delineandosi una famiglia più vasta , che è quella degli agnati,
la quale sebbene abbia cessato di essere unificata dalla potestà del padre,
continua tuttavia ancora ad essere unita insieme e a costituire un tutto (
consortium ), stante l'indivisione del patrimonio . Ciò però non toglie che il
concetto della famiglia agnatizia siasi poscia cam biato e che si siano compresi
col nome di agnati tutti coloro, che (1 ) Mi fo lecito di mettere innanzi
questa interpretazione delle parole arcaiche « ercto non cito » e ciò in base a
quello che ci attesta Servio , il quale interpre tando questa espressione, dice
appunto, che essa significa « patrimonio vel hereditate non divisa » , Serv.,
in Aen ., VIII, 642 (Bruns, Fontes, pag. 403). Queste parole furono poi
applicate per indicare in genere la « societas omnium bonorum » in virtù della
quale , secondo l'attestazione di Gellio : comnes simul in cohortem recepti
erant, quod quisque familiae, pecuniae habebat in medium dabat, et coibatur
societas in separabilis, tamquam illud fuit antiquum consortium , quod iure
atque verbo romano appellatur cercto non cito » . - Che poi queste parole siano
in certo modo un'antica clausola testamentaria , con cui il padre proibiva la
divisione immediata appare da ciò, che ercto deriva certamente da ercisco e
cito è un avverbio che deriva da cieo e significa « prontamente » . Vedi BRÉAL
e Bailly, Dictionnaire étymologique latin , Paris, 1886 , pº Ercisco e Cieo .
Che poi veramente presso gli antichi romani fosse consuetudine di mantenere,
per quanto fosse possibile, l'indivisione, appare dal seguente testo, che trovo
citato dal KARLOWA, Röm . R. G., pag. 93, ricavato dalle PETRI, Excep. legum
romanarum , lib . I, cap . 19, De vendenda hereditate: « Consuetudo antiquorum
esse solebat, ut frater de rebus suis immobilibus non venderet nisi fratri,
propinquus propinquo, nec consors nisi consorti, si emere vellent » . È questo
forse il motivo, per cui presso i Romani un heredium potera conservarsi integro
nella stessa famiglia per parecchie generazioni, e un vicus poteva essere
costituito per in tiero di famiglie appartenenti alla stessa gens, senza mescolanza
di elementi estranei. Cid sarà meglio dimostrato nel seguente capitolo ove
trattasi appunto prietà nel periodo gentilizio > . della pro -- - - 31 erano
stati sotto la patria potestà della stessa persona, come quelli che avevano
formato parte di una medesima casa ed erano usciti dalla medesima gente (1) .
25. Tuttavia, per ben comprendere il carattere della famiglia patrizia
primitiva , vuolsi sempre aver presente , che essa non è già un orga nismo
isolato , ma è parte di un organismo maggiore di cui costituisce il nucleo più
ristretto . Diqui la conseguenza che quel potere del padre , che giuridicamente
considerato sembra essere senza confini, trovasi nella realtà limitato sia dal
tribunale domestico , che circonda il capo di famiglia, sia dal consiglio dei
padri, che trovasi nella gente e nella tribù , per guisa che i temperamenti,
chenon vi sarebbero nella natura del potere paterno, si incontrano invece nel
costume e nell'organiz zazione gerarchica , di cui la famiglia entra a far
parte . È per questo motivo, che tutti gli atti, che toccano in qualche modo
l'organizzazione gentilizia, quali sarebbero l'adrogatio, che serve a
perpetuarla quando manca una prole diretta , il testamento , che modifica le
regole con suetudinarie relative alla successione, ed anche il matrimonio per
confarreatio di uno dei membri della famiglia, devono essere fatti coll'
intervento , colla testimonianza e perfino coll'approvazione dei capi di
famiglia , che entrano a formare la gente e la tribù ; il che ancora appare
dalle formalità, che accompagnarono questi atti nei primitempi di Roma. Intanto
è incontrastabile, che anche la successione legittima e la tutela assumono un
carattere del tutto gentilizio , in quanto che l'una e l'altra , sebbene non
stabiliscano delle differenze per causa del sesso o per causa di primogenitura
, mirano però fino all' evi denza a conservare il patrimonio e
l'amministrazione di essa nella ( 1) Leg. 195 , $ 2 e 196 , Dig ., De verb .
signif. (50, 16 ): « Communi iure, scrive Ulpiano, familiam dicimus omnium
agnatorum , nam , etsi patre familias mortuo, sin guli singulas familias
habent, tamen omnes, qui sub unius potestate fuerunt, recte eiusdem familiae
appellabantur, quia ex eadem domo et gente proditi sunt » . Qui viene ad essere
evidente, che la giurisprudenza classica , che non poteva più favorire quella
indivisione che era tanto accetta agli antichi romani, conservò però sempre il
concetto della famiglia degli agnati, non più desumendolo dalla indivisione del
patrimonio famigliare, ma dalla circostanza che gli agnati erano un tempo
dimorati nella stessa casa ed erano stati sotto la patria potestà del medesimo
capo. È da vedersi sull'agnazione l'articolo del prof. SEMERARO , Enciclopedia
giuridica italiana , vº Agnazione, vol. I, parte 2*, pag . 720 . 32 linea
agnatizia ; il che può scorgersi ancora nella legislazione de cemvirale, la
quale, come si vedrà a suo tempo, in questa parte riusci a far prevalere
pressochè intieramente il sistema di succes sione e di tutela , che dovevano
essere in vigore presso il patriziato durante il periodo gentilizio . — Quanto
al testamento , esso era certa mente conosciuto in questo periodo, ma collo
spirito che prevaleva nell'organizzazione gentilizia si può affermare con
certezza, che esso , dovendo essere fatto coll'approvazione del consiglio degli
anziani e nelle riunioni gentilizie della tribù, anzichè servire qual mezzo per
sottrarre l'eredità alla gente , dovette invece servire per ritardare od
impedire la soverchia divisione dei patrimoni (1). 26. Intanto è pure da
notarsi il carattere speciale, che assumeva la famiglia primitiva nel periodo
gentilizio , in quanto essa compren deva eziandio nella propria cerchia un
numero più o meno grande di servi, che in antico erano anche detti famuli, dal
vocabolo famel, che in lingua osca significa appunto servo ; dal quale, secondo
Festo , sarebbe anche derivato l'antico vocabolo famuletium , che avrebbe
significato servitium (2 ). È infatti per mezzo dei servi, a cui era ( 1) Da
quanto è esposto nel testo si può ricavare l'importantissima conseguenza, che a
suo tempo servirà a spiegare molte istituzioni del diritto romano primitivo,
che il concetto di comproprietà , in virtù del quale i figli durante la vita
del padre sono comproprietarii dell'heredium , e dopo la morte di esso in certa
guisa eredi di se stessi (heredes sui), come pure quello, in virtù di cui è dal
novero degli agnati, che si debbono ricavare i tutori delle femmine, degli
impuberi e dei furiosi, sono tutti concetti, la cui origine rimonta ed è anzi
un effetto della stessa organizzazione gentilizia , di cui la famiglia entrava
a far parte. Quanto al testamento fra le genti patrizie non doveva certo essere
applicazione del principio : a uti paterfamilias super familia tutelave suae
rei legassit, ita ius esto » , ma doveva mirare sopratutto all'ercto non cito .
Il testamento esisteva ,ma nell'intento di serbare il patrimonio indiviso e di
trasmetterlo tale di generazione in generazione. L'importante concetto di
questa comproprietà famigliare già trovasi nettamente espresso in uno degli
ultimi lavori del compianto Ernesto Dubois, alla cui memoria mando qui un
riverente saluto , nel suo ultimo diligentissimo lavoro col titolo : La saisine
héréditaire en droit ro main , Paris, 1880, da lui pubblicato nella Nouvelle revue
historique de droit fran çais et étranger, ove, combattendo il Maynz ed altri
autori, dimostra che gli eredi suoi erano immediatamente investiti dell'eredità
, senza che occorresse accettazione della medesima e ciò appunto in base a
questa comproprietà famigliare. Al concetto del DuBois è solo da aggiungersi,
che cið era un effetto dell'organizzazione genti lizia prima esistente, idea ,
che egli già aveva in germe, come lo dimostrano le pa role con cui egli
conchiude il suo lavoro, ma che non ebbe più campo di svolgere. (2) V. Festo,
vº Famuli (Bruns, Fontes, pag. 338 ). 33 affidato il servizio rustico od urbano
( familia rustica , familia ur bana) che la famiglia primitiva veniva ad essere
organizzata per modo da bastare a qualsiasi bisogno ed emergenza. Cio diede un
carat tere speciale alla vita economica dell'antichità e cooperò a dare alla
famiglia antica il carattere di un tutto organico e coerente in tutte le sue
parti. La servitù ebbe per effetto, come ben nota il Padelletti, di fare in
guisa che i prodotti non venissero a cambiare di possessore in tutto il corso
del loro processo produttivo, perchè i servi erano impie gati non soltanto
nella produzione, ma benanche nella trasformazione e nel trasporto dei
prodotti. Per tal modo ogni famiglia tendeva a supplire a tutti i suoi bisogni,
e intanto ogni capo di famiglia poteva apparire come possessore difondi, essere
ricco di greggi ed armenti, che costituivano in certo modo il primo capitale, e
intanto attendere eziandio al commercio dei proprii prodotti (1). Pud tuttavia
affer marsi con certezza, che durante il periodo gentilizio le genti patrizie
fossero sopratutto ricche di greggi ed armenti, come lo dimostra l'uso
frequentissimo di vocaboli anche di carattere giuridico de rivanti
dall'industria pastorale ( quae ex pecoribus pendent), il che, secondo Festo e
Varrone, deriva appunto da cid, che presso imaggiori le ricchezze ed i
patrimoni si componevano sopratutto di greggi e di armenti ( 2 ) . e (1)
PADELLETTI, Storia del dir. rom ., pag. 15. Sull'importanza della servitù nella
famiglia primitiva è da vedersi il PERNICE, M. Antistius Labeo , Halle, 1873,
I, pag. 110 e seg., ove parla dei rapporti degli schiavi colla casa di cui
fanno parte, sopratutto il MARQUARDT, Das Privatleben der Römer , Leipzig, 1879.
Erster Theil, pag. 133 a 191. (2) Fra questi vocaboli basti citare quello, che
ebbe poi tanta parte nel vocabo lario giuridico, di agere, che, secondo il
BRÉAL, nel suo significato primitivo suo nava « spingere, stimolare » , e si
applicava sopratutto al gregge ; quello di grex talvolta applicato al popolo ;
quello di ovilia adoperato per significare i recinti (septa ) ove il popolo era
distribuito per dare il voto nei comizii ; i vocaboli di abgregare, adgregare,
congregare citati appunto da Festo come vocaboli di origine pastorale ( Bruns,
Fontes, pag. 331); quelli di pecunia , di peculium , di peculatus, di ager
compascuus, e molti altri i quali spiegano come VARRONE ( Bruns, Fontes, p. 388
) finisca per esclamare : « Romanorum populum a pastoribus esse ortum , quis
non dicit ? Mulcta etiam nunc, ex vetere instituto, bubus et ovibus dicitur, et
aes anti quissimum , quod est flatum , pecore est notatum » . Si vedrà invece a
suo tempo che mentre la ricchezza del patriziato primitivo consisteva di preferenza
in greggi, in mandre ed armenti, che pascolavano nei compascua della tribù , e
poscia nell'ager pubblicus della città , la plebe invece fin dagli inizii diede
sopratutto opera all'agri coltura, concentrandosi nella coltura del proprio
heredium o mancipium . Questo G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 3 - 34
27. Del resto quello , che qui importava, era sopratutto di mettere in evidenza
il carattere gentilizio della famiglia ; poichè essa, fra le isti tuzioni
anteriori alla comunanza, è certamente quella che conservò più lungamente il
suo carattere primitivo . Quindi anche nel periodo storico si troveranno nel
patriziato romano quelle stesse formalità so lenni e quelle cerimonie religiose
, che dovevano accompagnare gli atti relativi alla famiglia durante il periodo
gentilizio . La sola differenza consisterà in questo, che all'approvazione dei
padri del gruppo gen tilizio nella comunanza civile e politica sottentrerå - o
la testimo nianza dei dieci Quiriti che rappresentavano le curie in cui divi devasi
la tribù e l'intervento dei Pontefici , siccome accade nelle confarreatio, - o
l'approvazione delle curie, coll'intervento pure dei Pontefici, siccome accade
nella adrogatio e nel testamento , che per il patriziato verranno a compiersi
davanti all'assemblea delle curie, cioè in calatis comitiis (curiatis). Credo
ad ogni modo, che anche questa breve esposizione dei ca ratteri della famiglia
del patriziato romano dimostri abbastanza che essa non deve essere riguardata
come una istituzione del tutto pri mitiva, come alcuni vorrebbero considerarla
(1 ), in quanto che la medesima già erasi scostata in parte dalle sue primitive
e naturali fattezze , a causa della influenza, che ebbe ad esercitare su di
essa l'organizzazione gentilizia , di cui era entrata a far parte. Essa in
sommanon è più la famiglia, quale dovette uscire dagli istinti e dalle tendenze
naturali del genere umano ; ma è già una famiglia che in parte ha soffocato i
naturali affetti onde fortificarsi per la lotta per l'esistenza e per entrare in
un'organizzazione, che funge da associa zione domestica , religiosa,militare e
politica ad un tempo. Ed è anche questa la ragione, che la renderebbe a noi
pressochè incomprensi bile, se non fosse riportata nell'ambiente in cui ebbe a
formarsi. svolgimento storico pertanto conferinerebbe il risultato, a cui
giunsero lo SPENCER ed altri sociologi, secondo il quale sarebbe stato
sopratutto il periodo della vita pa storale, che avrebbe determinato la
formazione e l'afforzamento di quell'organizza zione gentilizia, che trovasi
così profondamente radicata presso il primitivo patri ziato romano ( V. SPENCER
, Principes de sociologie, Paris, 1879, II, pag. 338 e seg .). (1) Tale è ad
esempio l'opinione del Sumner Maine , che in questa parte fu com battuto dallo
SPENCER , op. e loc . cit. - 35 - $ 3 . La gens e la sua importanza per il
patriziato di Roma. 28. Se la famiglia , quale comparisce più tardi nel diritto
Quiri tario, riproduce pur sempre i caratteri dell'antica famiglia patrizia,
altrettanto invece non può dirsi della gens, la quale perciò è assai più
difficile a ricostruirsi nelle sue primitive fattezze. Sebbene in fatti la gens
mantengasi ancora lungamente durante la comunanza civile e politica , viene
tuttavia fin dalle origini della convivenza civile e politica , ad essere
sottoposta ad un processo di dissolu zione, in quanto che una parte delle sue
funzioni di un tempo , quelle cioè che avevano un carattere politico o militare
o legisla tivo , finiscono per essere a poco a poco assorbite dalla città . A cid
si aggiunge, che in questa parte la grande autorità del Niebhur, sulla fede di
un testo di Dionisio , a cui diede una interpretazione che non può essere
ammessa , pose gli investigatori della storia primi tiva di Roma in un
indirizzo erroneo, in quanto che condusse a cre dere per lungo tempo, che la
gens non fosse che una ripartizione politica della città (1). Per tal modo
l'organizzazione politica della (1) NIEBHUR , Histoire romaine, trad . Golbery,
Paris, 1830, Tome II , ove parla : des maisons patriciennes et des curies e
specialmente a pag. 19. Ivi l'illustre sto rico, avendo trovato che Dionisio
divideva in dekádec le curie , pensò che queste decurie non potessero essere
che le gentes e trasportò così l'organizzazione genti lizia nella città, concetto
, che d'allora in poi ha dominato le ricerche contempo ranee intorno a Roma
primitiva , per guisa che occorre pressochè universalmente di trovare che la
città di Roma si divideva in tribù , queste in curie e queste ul time in
gentes. Così, ad esempio, anche gli autori più recenti, pur avendo modifi cato
il concetto della gens con ritenerlo un ampliamento naturale della famiglia,
continuano pur sempre in questa distinzione. Citerò fra gli altri il KARLOWA,
Röm . R. G., I, § 2, il quale continua ad essere intitolato : Das Volk und
seine Glie derungen (tribus, curiae, gentes), quasi che il popolo romano sia
stato mairipartito in gentes ; ed il Leist, Graeco- Italische R.G. che segue
pure la stessa distinzione, $ 23, pag. 144. Così pure il WILLEMS, Le droit public
romain , Paris, 1883, pag. 36 , che continua ancor esso a dire, che le curie si
suddividono in gentes . Questa distin zione non fu mai accennata dagli antichi
scrittori, i quali soltanto ebbero a dire con Gellio, che i comiziä сuriati si
raccoglievano ex generibus hominum , il che significa solamente, che nella
composizione delle curie si teneva conto della discen denza, mentre invece nei
comizii centuriati si badava al censo e nei tributi alle lo calità. Il populus
insomma è ricavato dalle gentes,ma non fu mai diviso in gentes. 36 città venne
ad essere confusa con quella patriarcale della gente e i due elementi
gentilizio e politico si confusero per modo che per qualche tempo fu
impossibile riuscire a sceverarli, ed anche oggi si scorgono evidenti, anche in
dottissimi scrittori, le conseguenze di tale confusione. Allora soltanto le
indagini furono rimesse in una via , che poteva condurre a qualche risultato,
allorchè gli studii , che si vennero facendo sul gruppo patriarcale
nell'Oriente, dimostrarono che anteriormente alla città era lungamente durato
un altro pe riodo di organizzazione sociale , che riceveva appunto il suo carat
tere fondamentale dalla gens, la quale, formatasi nell'Oriente , era poi stata
trasportata nell'Occidente tanto dalle stirpi Elleniche, quanto dalle stirpi
Italiche ( 1). Fu quindi collo studiare il gruppo patriar cale nell'Oriente,
ove per circostanze storiche speciali erasi mante nuto stazionario ed immobile
nelle sue principali fattezze, che si cominciò a comprendere e a ricostruire
nel suo carattere primitivo quella gente, che in Grecia ed in Roma era stata in
parte trasfor mata colla creazione dell'urbs e della civitas. Questo lavoro di
ricostruzione poté per le genti italiche essere agevolato da ciò, che Quanto
alle dekádes di Dionisio , il MUELLER ebbe a dimostrare che esse sono invece
una divisione delle centurie degli equites, al modo stesso, che esse erano pure
una divisione del senato (MUELLER, Philologus, XXXIV , p. 96-104 , 1874). Si
può infatti comprendere che i senatori, che erano cento prima e trecento
dappoi, si dividessero in decurie, e che così pure si facesse delle tre
centurie primitive degli equites, ma non si può veramente capire come le curie,
divisione dei Quiriti, che erano uomini di arme, potessero suddividersi in
gentes, le quali , essendo un ampliamento della fa miglia , comprendevano
maschi e femmine,maggiori e minori di età e così di seguito. (1) Il merito di
aver richiamato l'attenzione sul gruppo patriarcale presso le stirpi Arie, è da
attribuirsi sopratutto al SumnER MAINE, L'ancien droit, chap. V. La so ciété
primitive et l'ancien droit, pag. 107 a 163. Tuttavia mi pare giustizia il far
notare, che il primo che abbia, se non provata , almeno intuita questa
organizzazione patriarcale delle genti primitive fu sopratutto il nostro Vico,
il quale per compro varla ebbe a citare quegli stessi versi di Omero, in cui
parlasi delle istituzioni pri mitive dei Ciclopi (V. 22, Scienza nuova, lib.
II, ediz. Ferrari, Milano, 1836. Opere, vol. V , p. 269 , ove parla
dell'economia poetica e dice che i Polifemi furono i primi padri di famiglia
del mondo), dai quali prende appunto le mosse il SUMNER Maine (pag . 118 );
versi del resto, che già erano stati citati da Platone nel dia logo delle
Leggi, quando voleva appunto dimostrare che il patriarcato era stata
l'organizzazione sociale primitiva non solo presso i Greci,ma anche presso i
Barbari. Plato , Leges, III, Ed. Didot, Paris, 1848. Del resto che
l'organizzazione gentilizia sia stata comune a tutti gli Arii e quindi anche
aiGreci e agli Italici è cosa, che oggidì non forma più argomento di
discussione. (Per maggiori particolari vedi Carle, La vita del diritto , lib .
I e II, e sopratutto a pag . 90 e seg .) i 37 esse più di tutte le altre stirpi
hanno saputo attribuire al gruppo gentilizio quei contorni precisi e
determinati, che solo si rinvengono presso quelle popolazioni, che svolgono le
proprie istituzioni sotto un aspetto essenzialmente giuridico . Di qui la
conseguenza, che, a parer mio , i veri caratteri dell'organizzazione per gentes
possono più facilmente essere trovati nelle poche reliquie delle primitive
genti del Lazio , che non nella stessa India, ove l'elemento religioso
preponderante fini per assorbire e soffocare ogni altro aspetto della vita
primitiva. 29. Intanto questo ormai si può affermare con certezza, che la
gente, anzichè essere una divisione artificiale della città , deve invece es
sere considerata come il perno, intorno a cui si esplica l'organizza zione
gentilizia . Essa è un naturale ampliamento della famiglia pa triarcale, in
quanto che non comprende più soltanto coloro, che dipendono dalla stessa patria
potestà , maabbraccia tutte le famiglie, che, memori dell'antenato comune, da
cui sono discese, non solo ne portano il nome, ma ne professano e perpetuano il
culto. Però oltre questo carattere, che la gens latina ha comune colle genti
Arie, essa ha eziandio un carattere suo peculiare, ancorchè comune forse alle
genti elleniche, il quale consiste in ciò che le gentes sono considerate come
proprie di quelle aggregazioni domestiche, che oltre all'avere uno stipite
comune, sono riuscite a mantenersi perennemente ingenue, immuni cioè da
qualsiasi rapporto di servitù e di clientela. Delle gradazioni del gruppo
patriarcale, la gens è quella che possiede elasticità maggiore, perchè talvolta
può avere le proporzioni soltanto di una famiglia, col qual vocabolo infatti è
talora indicata la stessa gens: (1) e talvolta invece può avere già dato
origine a tante pro (1) Il vocabolo ad esempio di familia è adoperato per
significare la gens nel se guente passo di Festo : « Familia antea in liberis
hominibus dicebatur, quorum dux et princeps generis vocabatur pater et
materfamilias ; unde familia nobilium Pompi liorum , Valeriorum , Corneliorum
(Bruxs, Fontes, pag . 338 ). Si possono vederne molti altri esempi nel Voigt,
Die XII Tafeln , Leipzig, 1883, II, pag . 760. In ciò si ha una nuova prova che
la familia e la gens fanno parte della stessa organizzazione, per guisa che i
due vocaboli si scambiano fra di loro . Mentre è difficile trovare negli
antichi scrittori il vocabolo di familia per indicare il populus , loro pare
invece di essere più esatti, paragonandolo ad un grez e dividendolo al pari di
questo in altrettanti capita . Del resto sono abbastanza noti i significati
molteplici, che ha il vocabolo familia nel diritto primitivo di Roma, ove
significa ora un complesso di persone o 38 paggini diverse da prendere quasi le
proporzioni di una grande e numerosa tribù, come la tradizione ci narra essere
accaduto della gens Claudia , da cui sarebbe originata la tribù dei
Claudienses, e della gens Fabia, le cui proporzioni pervennero a tale che essa
poté colle sole sue forze affrontare , secondo la tradizione o leggenda che
voglia chiamarsi, una impresa militare , che in tristi circostanze ap pariva
ardua alla intiera città. 30. Non è dubbio tuttavia , che le popolazioni
italiche e sopratutto quelle del Lazio dovettero avere un criterio per scindere
la gens propriamente detta dalla familia in stretto senso e se fosse lecita una
congettura avvalorata da una quantità notevole di indizii, la stregua dovette
essere la seguente. Non vi ha dubbio che i caratteri distintivi della famiglia
primitiva erano due, cioè la patria potestà del suo capo e l'esistenza di un
patrimonio , probabilmente chiamato here dium , che apparteneva esclusivamente
alla famiglia nella persona del proprio capo . Di qui la conseguenza , che
tutti i discendenti nella linea maschile (comprese anche le femmine non ancora
uscite dal gruppo per matrimonio e quelle entrate in esso per la stessa causa )
che dipendevano da un solo capo costituivano la famiglia in stretto senso ; ma
questa poi continuava ancora a mantenersi e a considerarsi tale, anche dopo la
morte del padre, finchè il pa trimonio indiviso di essa perpetuava in certo
modo l'unità fami gliare . Che se invece i fratelli, dipendenti un tempo
dall'autorità di un solo padre, venivano a dividersi il patrimonio famigliare e
a rompere così anche quanto ai beni l'unità primitiva , in allora venivano ad
esservi altrettante famiglie , di cui ciascuna aveva un proprio capo, ma che
tutte facevano parte di una medesima gens, perchè continuavano ad avere il
medesimo nome e il culto comune per il proprio antenato. La gens comincia
pertanto quando cessa l'unità indivisa della famiglia , e quindi nel periodo
gentilizio quelli che erano agnati e che come tali costituivano ancora la
famiglia omnium agnatorum , finchè il loro patrimonio era indiviso,
costituivano già il primo grado della gentilità , allorchè questa divisione era
seguita . È di qui che provenne la difficoltà, ancora non superata , per distin
di cose, ora un complesso di persone, ora soltanto un complesso di cose (fa
milia pecuniaque) – ed ora infine il complesso dei servi (familia rustica ed
urbana). Cfr. Voigt, Op. cit. II, pag. 8 e segg. - 39 guere gli agnati dai
gentiles, perchè colla divisione del patrimonio gli uni si potevano convertire
negli altri e fu solo posteriormente allorchè diventò più rara questa
indivisione, che si chiamarono agnati tutti coloro, che un tempo si erano
trovati sotto la patria potestà della stessa persona, ai quali si aggiunsero
poi anche quelli, che lo sarebbero stati se il comune capo non fosse premorto .
Non è quindi il caso di dover supporre col Muirhead , che l'ordine degli
agnati, cosi nella successione che nella tutela legittima, sia stata una
creazione artificiale della legislazione decemvirale per provvedere alla
successione e alla tutela dei plebei, che mancavano di genti. Gli artificii
nelle epoche primitive sono meno frequenti che non si creda, e non si possono
supporre che quando ve ne siano prove dirette, quale è quella, ad esempio , che
abbiamo quanto alla fin zione di postliminio ed altre analoghe . Per contro il
gruppo degli agnati può benissimo essere attribuito ad una formazione spontanea
durante il periodo gentilizio, poichè era cosa naturale , come notd più tardi
il giureconsulto, che l'essere stati un tempo sotto la patria potestà della
stessa persona e l'aver partecipato al godimento dello stesso patrimonio dovesse
distinguere il gruppo degli agnati da quello più remoto dei semplici gentiles,
che solo avevano comune la discen denza da uno stesso antenato , ma che non
avevano mai dimorato nella stessa casa, nè avevano mai formato parte della
stessa famiglia. D'altronde sarebbe veramente strano ed incomprensibile, che la
le gislazione decemvirale avesse dovuto essa creare il concetto degli agnati,
mentre è appunto quest'agnazione, che sta a base delle or ganizzazioni
domestica e gentilizia, le quali certo già esistevano pre cedentemente (1) . C
( 1) Che l'ordine degli agnati sia stata una creazione della legislazione
decemvi. rale, è uno dei concetti veramente nuovi enunciati dall'illustre
autore dell'Historical Introduction . Egli quindi insiste più volte sul medesimo
e dopo averlo accennato a pag. 43 nel testo e nelle note 2 e 3 vi ritorna sopra
a pag. 121 e 172 e note relative. Il solo suo argomento però consiste nei due
testi di Ulpiano da lui citati , ove il giureconsulto mentre dice che : lege
duodecim tabularum testamentariae hereditates confirmantur » , usa invece,
quanto alla successione legittima, l'espressione che « legitimae hereditatis
ius ex lege duodecim tabularum descendit » , espressione che pure adopera
altrove quanto alla tutela legittima. È però evidente , che qui il
giureconsulto non parla solo della successione degli agnati, ma di tutta la
succes sione legittima, e quindi anche degli heredes sui, e dei gentiles, per
guisa che, se stesse il ragionamento del MUIRHEAD , converrebbe dire, che secondo
il giureconsulto tutto il sistema della successione legittima discende dalle
XII tavole. E questo ve 40 31. La gente intanto, dopo essere partita dal gruppo
degli agnati, che avevano diviso il patrimonio paterno, poteva poi prendere uno
svol gimento grandissimo, in quanto che essa poteva abbracciare tutte le
diramazioni per la linea maschile , che si staccavano da ciascuno di questi
agnati e non cessava mai di costituire una sola aggregazione gentilizia ,
finchè tutte le famiglie continuassero ad avere lo stesso nome e a professare
il culto del medesimo antenato . Potevano perd darsi dei casi, in cui la gente
cosi pervenuta ad un numero stragrande di persone venisse a ripartirsi essa
stessa in diramazioni diverse; tuttavia anche allora il nome primitivo della
gens è sempre conservato , ma ciascuna delle diramazioni prende un proprio
agnomen o cognomen , che ne costituisce in certo modo la caratteri stica , ed è
seguendo la serie dei cognomina, che si possono seguire le propaggini tutte
della stessa pianta . Cosi accadde, ad esempio, della gens Claudia , la quale
già numerosissima conservava ancora una sola denominazione, ma che più tardi
venne assumendo una quantità di cognomina diversi, che indicano in certo modo
il punto , in cui sopra un unico ceppo cominciarono ad apparire diramazioni
diverse. Lo stesso è a dirsi della gens Cornelia e di molte altre, il che
serve, anche a spiegare come nel tempo in cui anche quella parte della plebe,
che già era pervenuta alla nobiltà cercava di imitare l'antica or ganizzazione
gentilizia , si veggano delle gentes plebeiae staccarsi da un fusto patrizio.
Ciò infatti deve probabilmente indicare un antico vincolo di clientela , che
stringeva l'antenato, da cui parti la forma zione della gente plebea, ad
un'antica gente patrizia . 32. Bastano queste considerazioni per spiegare
l'energia vitale, che ramente fu quello, che volle dire il giureconsulto ;
poichè furono appunto le XII tavole, che, nell'intento di appoggiare
l'organizzazione gentilizia, trasportarono di peso la successione legittima
esistente nelle tradizioni patrizie anche alla plebe, nel che può vedersi uno
dei motivi, per cui il cittadino romano, per sottrarsi ad un sistema di
successione, che era disadatto alla città e conduceva all'esclusione di per
sone care, credevasi quasi dimorire disonorato, se moriva senza testamento. Fu
quindi tutta la successione legittima e non soltanto l'ordine degli agnati, che
fu creazione dei decemviri, i quali la tolsero dipeso dell'organizzazione
gentilizia ; in cui già eranvi le distinzioni di heredes sui, di agnati e di
gentiles, come appare dal fatto, che tutta l'organizzazione gentilizia è
fondata sull'agnazione, il che è pure ammesso dal MUIRhead. Ciò del resto sarà
meglio comprovato quando si tornerà sul gravissimo argomento , discorrendo
della successione legittima in base alle XII tavole. Quanto all'agnazione e ai
caratteri di essa è pure da vedersi il Voigt, Die XII Tafeln , II, pag. 15 e
seg. - 4 ) - poteva avere un gruppo , che, ad una compattezza pressochè uguale
a quella della famiglia , accoppiava talvolta il numero e la forza della tribù,
sopratutto allorchè essa era capitanata da uomini di energia tenace e di
propositi costanti, come furono per parecchie genera zioni quelli, che
guidavano la gens Claudia o la gens Valeria , e come in essa potessero anche
perpetuarsi tradizioni diverse , ostili o favorevoli alla plebe dapprima e poi
al partito popolare. È questo carattere della gens, che spiega la perennità di
un numero origi nariamente piccolo di genti patrizie, malgrado una quantità di
influenze, che tendevano a dissolverle e a circoscriverne l'azione. Così pure
deve spiegarsi il fatto che, mentre le tribù primitive , di fronte alla potenza
assorbente della città , finirono per scompa rire fin dal periodo regio con Servio
Tullio , le genti invece per . durarono per parecchi secoli, sostennero in
poche una lotta lunga e pertinace con una plebe, il cui numero veniva facendosi
sempre maggiore, ed anche vinte continuarono sempre a dare un contri buto
larghissimo a quegli onori e a quelle magistrature, che per secoli erano stati
loro privilegio esclusivo, finchè da ultimo anche l'impero fini per
consolidarsi per un certo tempo nei discendenti di antiche genti patrizie, che
si erano imparentate fra di loro. Del resto questa potenza del gruppo
gentilizio fu anche sentita da quella parte della plebe, che mediante
l'ammessione agli onori fini per costituire una nuova nobiltà , come lo
dimostra il fatto , che essa per afforzarsi non trovò mezzo più efficace di
quello di ricorrere al ius imaginum e di imitare cosi una organizzazione, che
ormai trovavasi in decadenza . 33. Intanto i due caratteri fondamentali della
gens, quali si pos sono raccogliere dalle vestigia che ci rimangono delle
antiche genti italiche,malgrado le divergenze, che possono esistere nella
descrizione dei particolari minuti, si riducono essenzialmente ai seguenti,
cioè : 1 ° alla discendenza da un antenato comune, la quale rivelasi nel nome,
nel culto , e nel sepolcro comune; 2° ed alla ingenuità perenne dei membri, che
entrano a costituirla , per modo che essa deve essersi ser bata immune da
qualsiasi mescolanza con persone di origine servile. Il primo di questi
caratteri è quello che costituisce la forza, la compattezza e la perennità
dell'organizzazione gentilizia, ed il se condo, che il Pontefice Q. Muzio
Scevola volle si aggiungesse alla deffinizione dei gentiles serbataci da
Cicerone, è quello che spiega la superiorità delle genti patrizie di fronte
alla plebe . Esse ave - 42 vano attraversato un lungo periodo di lotta e di
privata violenza vincitrici sempre e non vinte mai, e quindi la loro gentilitas
era indizio, che esse appartenevano alla classe dei vincitori, il cui sangue
non erasi mai mescolato con quello dei vinti, dei servi e dei clienti, donde la
conseguenza eziandio , che il vocabolo patricii in sostanza non significava che
gli ingenui, il quale ultimo vocabolo allude ap punto alla niuna mescolanza del
loro sangue con quello servile. 34. Questi due caratteri sono dimostrati
anzitutto dalle varie diffini zioni della gens stateci trasmesse da Varrone, da
Festo, da Isidoro e da altri, le quali accennano tutte alla discendenza dei
gentili da un antenato comune, e da quella anche di Cicerone, il quale,
parlando di un nome comune (qui inter se codem nomine sunt) non esclude
certamente , ma conferma il carattere della comune discendenza e in tanto vi
aggiunge quello della ingenuità non interrotta dei gentiles. Questa del resto è
pur confermata da ciò , che la plebe stessa nelle sue discussioni coi patrizii
se non ammetteva la loro discendenza dagli Dei riconosceva però , che il
vocabolo patrizii nelle sue origini do veva significare ingenui (1). - Di qui
intanto si comprende come dapprima il patrizio e poscia tutti i cittadini
romani avessero tre appellazioni, di cui la prima (praenomen ) indicava
l'individuo, l'altra che era il vero nome (nomen) designava la gente , a cui
egli appar teneva in quanto la gente era in certo modo il gruppo che conte neva
le diverse famiglie , e la terza infine ( cognomen) designava la famiglia, in
quanto questa era una particolare diramazione, della gente (2 ). A queste
appellazioni si potevano poi anche aggiungere (1) Festus, vo Gentilis : «
Gentilis dicitur ex eodem genere natus, et is qui simili nomine appellatur » .
Bruns, Fontes, pag . 339; VARRO, De lingua latina, VIII, 4 : « Ut in hominibus
quaedam sunt agnationes ac gentilitates, sic in verbis ; ut enim ab Aemilio
homines horti Aemilii ac gentiles, sic ab Aemilio nomine declinatae gen
tilitates nominales » . Bruns, Fontes, pag. 389 ; Isiporus, IX , 2, 1 : « Gens
est mul. titudo ab uno principio orta , appellata propter generationes
familiarum , id est a gi gnendo uti natio a nascendo ». Bruns, pag. 409 ;
CICERO, Top. 6 : « Gentiles sunt qui inter se eodem nomine sunt. Qui ab ingenuis
oriundi sunt. Quorum maiorum nemo servitutem servivit. Qui capite non sunt
deminuti » . V. anche Liv., X , 8 . (2 ) Per ciò che si riferisce ai nomi
romani è da vedersi il MICHEL, Du droit de cité romaine, Paris, 1885 ; e
sopratutto la trattazione veramente magistrale del Mar QUARDT, Das Privatleben
der Römer, Erster Theil, p . 7 a 25. Ivi egli nota come vi fossero gruppi, che
non avevano cognomen , come gli Antonië, i Duilii, i Fla minii ecc., pag. 13 ,
not. 2. Quanto agli esempi citatinel testo a pag.40, è pare a ve. dersi il
Bonghi, Storia di Roma, I, Appendice sulle primitive genti patrizie, nella
parte, che si riferisce alla gens Claudia e Cornelia , pag. 490-91. 43 uno o
più soprannomi (agnomina), che servivano a contraddistin guere l'individuo stesso
o per essere egli stato adottato da altra fa miglia , o per impresa da lui
compiuta, o per indicare le suddistin zioni operatesi nella stessa famiglia (
1). Può darsi che in antico potesse esservi anche qualche indicazione della
località abitata dalla gente, a cui apparteneva l'individuo, come lo dimostrano
i sopran nomiprimitividi Regillensis, Collatinus e simili (2 ). Di questo avreb
besi un indizio nel fatto, che allora quando il territorio di Roma fu veramente
distribuito in tribù locali, anche la indicazione della tribù comparve a
completare le denominazioni del cittadino romano, e precedette anzi il
soprannome suo particolare. Del resto questi caratteri particolari della gens
sono anche com provati dalla radice gen, comune alla gens latina e al révos dei
Greci, che significa generare e produrre; come pure da ciò , che i nomi
gentilizii sono nomi di persona piuttostochè di luoghi, e che i diritti
gentilizii, come il ius hereditatis, il ius curae, il ius sepul chri sono di
carattere eminentemente privato . Così è pure dei sacra gentilicia , i quali da
Festo sono annoverati fra i sacra privata , che sono a spese delle singole
genti, e contrapposti ai sacra pub blica, che si compiono invece a pubbliche
spese (3 ). Solo sembra far eccezione il ius decretorum ; ma oltrecchè questo
diritto sembra nel periodo storico esercitarsi di preferenza in cose d'ordine
privato , il medesimo pud facilmente essere spiegato quando si consideri, che
la gente aveva compiuto un tempo funzioni politiche, che non po terono scomparire
di un tratto anche colla formazione della città (4 ). (1) Tali sono le
appellazioni di Publius Cornelius Scipio Aemilianus, di Lucius Cornelius Scipio
Asiaticus, di Publius Cornelius Lentulus Spinther, ecc. V. Mar QUARDT, op.
cit., p . 15. (2 ) VARRO, De ling. lat., VIII, 82: « In hoc ipso analogia non
est, quod alii no mina habent ab oppidis, alii aut non habent, aut non , ut
debent, habent » . BRUNS, pag . 387. (3 ) FESTUS, p Publica : « Publica sacra ,
quae publico sumptu pro populo fiunt, quaeque pro montibus, pagis, curiis,
sacellis, et privata , quae pro singulis homi nibus, familiis, gentibus fiunt »
. Bruns, pag . 358 . (4 ) I casi ricordati dalla storia , in cui le gentes si
sarebbero valse del ius decre torum , sarebbero i seguenti: la gens Fabia vietò
ai suoi membri il celibato e la esposizione degli infanti (Dion. IX , 22 ) ; la
gens Manlia proscrisse il prenome di Marcus (Liv., VI, 20), e la gens Claudia
quello di Lucius (Svet., Lib. I), che ri chiamavano per esse tristi ricordi.
Più tardi però fu il Senato, che prese simili prov vedimenti, vietando il
prenome di Marcus agli Antonië (Plut., Cic., 19), e quello 44 35. È invece
assai più difficile l'argomentare quale potesse essere l'organizzazione interna
della gens da quelle poche traccie, che ne rimangono nel periodo storico . Non
si può anzitutto accertare, se la gens avesse sempre e costantemente un proprio
capo (princeps gentis) (1), o se il medesimo invece fosse eletto dal consiglio
dei padri o indicato dall'anzianità di nascita, solo allorchè trattavasi di
qualche impresa da compiere, come quando, ad esempio , Atto Clauso avrebbe
abbandonato Regillo per recarsi a Roma. Questo però è certo , che la gente
dovette avere un consiglio di anziani o di padri, che raccoglieva in sè la somma
dei poteri, e conservava e trasmetteva le tradizioni della gente . Era nel suo
seno , che si sceglievano gli ar bitri e gli amichevoli compositori delle
controversie, che potevano sorgere fra i varii capi di famiglia, che
appartenevano alla mede sima gente . Era questo consiglio parimenti, che
sull'ager gentilicius faceva degli assegni di terre ai clienti,
ed attribuiva gli heredia alle nuove famiglie che si formavano nel seno
della gente ; era ilmede simo ancora , che poteva richiedere il servizio militare
non solo dei suoi membri (gentiles), ma anche dei dipendenti da essa
(gentilicii ). Cosi pure era questo consiglio, che sovra intendeva alla
pubblica e privata condotta dei singoli capi di famiglia, preveniva e reprimeva
gli abusi dell'autorità domestica, ed impediva eziandio che i capi di famiglia
, contro il buon costume della gente, disperdessero quei beni (bona paterna
avitaque) di cui in certo modo erano custodi nel l'interesse proprio e della
famiglia e che, potendo, dovevano trasmet . tere ai proprii eredi. Era la gente
infine che , in mancanza di prossimi agnati, era chiamata a succedere al capo
di famiglia morto senza eredi suoi, e che doveva perciò anche provvedere alla
tutela perpetua delle femmine e a quella dei figli, che fossero rimasti or di Cnaeus
ai Calpurnii Pisones ( Tac., Ann., III, 17). Partivano eziandio dalla gens i
provvedimenti, che riguardavano la sepoltura. È da vedersi in proposito l'opera
di Henri DANIEL LACOMBE, Le droit funéraire à Rome, Paris , 1886 , n . 114 , p.
97, dove dice che la gens conservò il suo sepolcro gentilizio, finchè si
mantenne la sua organizzazione e l'unione stretta fra i suoi membri, cioè fin
sotto l'impero. Fu al lora che incominciarono i sepolcri di famiglia od
ereditarii. Secondo quest'autore ($ 118 , pag. 99), mentre i liberti
partecipavano ai sacra gentilicia , e quindi proba bilmente anche al sepulchrum
gentilicium , essi invece erano esclusi del sepolcro della famiglia, al quale
avevano diritto soltanto gli agnati. (1 ) In proposito del princeps gentis o
magister gentis è da vedersi il Voigt , Die XII Tafeln , II, pag. 771 e seg .,
ove parla dei poteri al medesimo spettanti. - 45 - fani prima di essere
pervenuti alla pubertà , come pure doveva es sere essa , che facevasi vindice
delle offese , che fossero recate ad alcuno dei membri che entravano a
costituirla. Da ultimo fra i membri della gente esisteva l'obbligo della
reciproca assistenza, per cui dovevano essere alimentati se indigenti,
riscattati se prigionieri, sostenuti nelle loro controversie , e vendicati se
fossero stati uccisi od ingiuriati (1).Se a tutto ciò si aggiunga il vincolo
del nome, quello del culto, e quello del sepolcro, sarà facile il comprendere
come un gruppo così intimamente connesso , unito nel passato e nell'avvenire,
in vita e dopo la morte , nelle cose divine ed umane non potesse essere
facilmente distrutto dalle influenze contrarie che si vennero svolgendo nella
città (2 ). Esso continud, durante il periodo storico, ad avere una quantità di
istituzioni tutte sue proprie , come lo dimo strano i vocaboli di gentilis e di
gentilicius, l'esistenza anche nel periodo storico di un ager gentilicius,
quelli dei sacra gentilicia , del sepulchrum gentilicium , per modo che, anche
prima del for marsi della città, dovette svolgersi tutto un ius gentilicium ,
che governava appunto i rapporti fra le varie persone, che entravano a
costituire il gruppo gentilizio . Esso quindi non deve confondersi col ius
gentilitatis , che indica il complesso dei diritti spettanti ai gentiles, al
modo stesso che il ius civitatis indicherà poi i diritti spettanti al civis.
Così pure non può esservi dubbio , che il vocabolo di iura gentium , che poscia
ebbe a prendere un così largo svolgi mento, dovette nascere già in questo
periodo per indicare appunto i rapporti, che intercedevano fra le varie genti e
i capi delle mede sime ( 3 ) . (1) Quanto ai poteri della gens, tanto sui
gentiles quanto sui gentilicii, è a vedersi il Voigt, Die XII Tafeln , II , pag
. 774 . (2) La bibliografia copiosissima intorno alla gens può vedersi nel
BOUCHÉ-LECLERCQ , Institutions romaines, pag. 7 in nota , come pure nel
WILLEMS, Le droit public romain , pag. 36, nota 4 . ( 3) Fra gli autori
recenti, che tentarono la ricostruzione del ius gentilicium , sono a vedersi
sopratutto il KARLOWA, Römische R. G., pag . 35, il MUIRHEAD, Histor. Introd .,
pag. 5 a 8. Parmi tuttavia importante il distinguere il ius gentilicium , che
comprende anche i rapporti fra la classe superiore dei gentiles e quella dei
dipen denti da essi o gentilici , il ius gentilitatis che significa il
complesso dei diritti spettanti ai membri di una stessa gente (gentiles), e i
iura gentium , che governano i rapporti fra le varie gentes . - 46 $ 4. – Il
patronato e la clientela nell'organizzazione gentilizia . 36. Fra gli istituti
di questo ius gentilicium , quello che più me rita di essere preso in
considerazione è certo quello della clientela , essendo essa una delle cause
del numero e dell'importanza , a cui giun sero gli antichi gruppi gentilizii. I
clienti, durante il periodo storico , costituiscono una classe in feriore di
persone, che appare vincolata al patriziato da certe obbligazioni di carattere
ereditario, in contraccambio della protezione e difesa che esso gli accorda
(1). Le due persone, fra cui intercede questo vincolo ereditario , sono
indicate coi vocaboli di patrono e di cliente , il quale ultimo vocabolo ,
secondo l'opinione ora general mente adottata , deriva da cluere, che significa
audire nel senso di essere obbediente (2). Come tali , i clienti entrano a far
parte della gente, a cui appartiene il loro patrono, ma non assumono perciò la
quantità di gentiles ; ma quella soltanto di gentilicii e costituiscono cosi
nel gruppo gentilizio una classe di uomini, di condizione infe riore, che in
una posizione già alquanto migliorata corrisponde al l'ordine dei servi e dei
famuli in seno dell'organizzazione domestica . Essi non partecipano al ius
gentilitatis, ma sono sotto la tutela del ius gentilicium (3 ). 37. È lo
storico Dionisio quegli, che ci ha conservato l'enumera zione più
particolareggiata delle obbligazioni e dei diritti, che inter cedono fra il
patrono ed il cliente , attribuendo l'istituto della clien ( 1) Cfr. Willems,
Le droit public romain , pag . 26. Non potrei però convenire in ciò , che egli
considera i clienti come una classe speciale di cittadini di diritto inferiore
, perchè la clientela in ogni tempo fu sempre considerata come un rapporto di
diritto privato e non mai come un rapporto di diritto pubblico , che bastasse
ad attribuire da solo la qualità di cittadino. I clienti poterono poi avere
tale qualità quando ebbero degli assegni in terre dal proprio patrono ,
mediante cui poterono figurare nel censo, ma non si capisce veramente come
potessero essere considerati come cittadini e avere il diritto di suffragio
persone, le quali non potevano nep far valere direttamente le proprie ragioni
in giudizio, ma abbisognavano perciò del patrono. Questa è ancora sempre una
conseguenza della confusione fra l'organizzazione gentilizia e l'organizzazione
politica . (2 ) V. BRÉAL, Dict. étym . lat., vo Clueo . (3 ) Cfr. MUIRHEAD ,
Encyclopedia Britannica, vº Patron and client, vol. XVIII. 1 47 tela allo
stesso Romolo ; ma egli è evidente , che anche la sua descri zione già altera
alquanto le primitive fattezze della clientela, stante lo sforzo fatto per
trasportare nella convivenza civile e politica un'istituzione, che era nata e
si era svolta nell'organizzazione gen tilizia . Secondo Dionisio , il cliente
aveva delle obbligazioni, nelle quali si può scorgere un carattere, che noi
chiameremmo semi feudale. Egli infatti deve al patrono riverenza e rispetto ;
deve ac compagnarlo alla guerra ; soccorrerlo pecuniariamente in certe occa
sioni, come nel caso di matrimonio delle proprie figlie, e di riscatto di sè e
dei figli se siano prigionieri, come pure deve concorrere con lui a sostenere
le spese di giustizia , ed anche quelle dei sacra gentilicia . Ciò tutto fa
credere, che i clienti ottenessero dai loro patroni delle terre a titolo di
precario, dalla cui coltura potevano ricavare dei proventi che loro
appartenevano, e che le terre loro assegnate facevano parte dell'ager
gentilicius , proprietà collettiva della gente ; il che non rende esatta ,ma
spiega l'antica etimologia as segnata al vocabolo di clientes, che si dicevano
così chiamati « quasi colentes » ,perché avrebbero coltivate le terre dei padri
(1). Infine Dio nisio parla perfino dell'obbligazione del cliente di non poter
votare contro il patrono, la quale dimostrerebbe come la clientela , adatta al
gruppo gentilizio, veniva ad essere un'istituzione ripugnante al carattere di
una comunanza civile e politica (2 ). Alla sua volta poi il patrono doveva al
cliente protezione e di fesa , e quindi era tenuto a provvederlo diciò , che
fosse necessario per il sostentamento di lui e della sua famiglia , il che
facevasi me diante concessione di terre, che il cliente coltivava per suo
conto. Esso doveva di più assisterlo nelle sue transazioni con altre persone,
rappresentarlo in giudizio , apprendergli il diritto (clienti promere iura ),
ottenergli risarcimento per le ingiurie patite, averlo in certo (1) È Servius,
In Aeneidem , 6 , 609 , che vuol derivare il vocabolo di clientes da quasi
colentes in quanto che scrive : « Si enim clientes quasi colentes sunt, pa
troni quasi patres, tantundem est clientem quantum filium fallere » . Bruns, op
. cit., pag. 403. Parmi tuttavia che, tenendo conto del contesto della frase di
Servio, qui il vocabolo quasi colentes non accenni tanto al coltivare le terre,
quanto piuttosto all'osservanza ed alla riverenza del cliente verso il patrono,
per guisa che anche l'e timologia di Servio confermerebbe quella oggidì
adottata . (2 ) Diox . 2 , 10. Questo passo di Dionisio, in cui egli riporta le
obligazioni rispet tive del patrono e del cliente, attribuendo in certo modo
l'origine della clientela a Romolo, è riportato in greco ed in latino dal
Bruns, Fontes, pag . 4 . 48 modo in considerazione di membro della gente,
ancorchè in con dizione inferiore, in quanto che nella gerarchia gentilizia il cliente
veniva bensì dopo gli agnati, ma era prima dei cognati e degli affini, i quali
appartenevano ad un altro gruppo ( 1). Questi obblighi poi scambievoli, in
mancanza di sanzione giuri dica, erano collocati sotto la protezione del fas
come lo dimostra la legislazione posteriore delle XII Tavole, la quale,
sanzionando un obbligazione certo preesistente, ebbe a stabilire « si patronus
clienti fraudem fecerit, sacer esto » , ed al pari di tutti gli altri rapporti
gentilizii avevano un carattere ereditario . Infine, siccome patrono e cliente
appartengono entrambi allo stesso gruppo gentilizio , ancorchè in posizione
diversa , cosi Dionisio va fino a dire, che essi non possono proseguirsi
reciprocamente in giudizio , condizione anche questa, che , consentanea al
carattere dell'organiz zazione gentilizia, ripugna invece a quello della
convivenza civile e politica , ove ognuno deve avere il mezzo di poter far
valere le proprie ragioni davanti ad un'autorità , che accorda a tutti la
propria protezione (2 ). 38. Basta questa breve esposizione per dimostrare,
come la clientela fosse un istituto nato e svolto nell'organizzazione
gentilizia prima esistente, che continuò ancora per qualche tempo a produrre i
proprii effetti nella città , ove tuttavia si trovò compiutamente disadatto ,
perchè ripugnava a quell'uguaglianza di posizione giuridica , che deve esservi
fra coloro , che partecipano alla medesima cittadinanza. Essa quindi era
destinata necessariamente a scomparire o quanto meno a trasformarsi, in quanto
che nella città le persone, che tro vansi in condizione inferiore, possono
essere aggruppate nella plebe e fare a meno della protezione del patrono,
essendovi un'altra autorità che li tutela. Di qui la conseguenza , che la
clientela potè ancora mantenersi finchè i due ordini in lotta fra di loro si (
1) MASURIUS SABINUS, « In officiis apud maiores ita observatum est; primum tu
telae, deinde hospiti, deinde clienti, tum cognato , postea adfini » . HUSCHKE,
Jurisp . ante-iust. quae sup., pag. 124. Aulo Gellio invece accenna ad un'altra
opinione, che dà la preferenza al cliente sull'ospite. Noct. Att., V, 13. Che
poi il cliente entri in certo modo a far parte della famiglia è affermato da
Festus, yº Patronus. « Pa tronus a patre cur ab antiquis dictus sit ,
manifestum ; ut quia ut liberi , sic etiam clientes numerari inter domesticos
quodammodo possunt > ; Bruns, pag. 351. (2) Cfr. Karlowa, Römische R. G., I,
pag . 39. 49 attennero ancora strettamente alla propria organizzazione e rappre
sentarono in certo modo due elementi fra di loro contrapposti nella medesima
città ; ma dopo il pareggiamento invece dei due ordini, la clientela riusci
solo più a mantenersi di nome, anzichè di fatto ; senza più importare quegli
obblighi di carattere religioso ed ereditario , che ne conseguivano un tempo. I
clientes si scambiarono cosi in semplici aderenti, che accompagnavano il
patrizio od anche l'homo novus nella piazza e nel foro e ne costituivano in
certo modo il corteo , e diventarono anche semplici salutatores ; il che
tuttavia non tolse , che il vocabolo cliente sopravvivesse alla istituzione da
esso indicata , e rimanesse ad indicare il rapporto di colui che si affida al
patrocinio legale di un'altra persona, ricordando così uno dei primitivi
uffici, che il patrono aveva certamente avuto verso il proprio cliente.
Tuttavia, anche dopo il pareggiamento dei due ordini, allorchè la vera
clientela già scompariva nei rapporti fra i cittadini Romani, noi la vediamo
sopravvivere nei rapporti dei cit tadini Romani colle altre genti, in quanto
che trovansi le traccie di un ius applicationis, la cui origine rimonta alle
tradizioni gen tilizie, col quale un individuo, un municipio , un Re od un
popolo straniero ricorrevano al patronato di un cittadino Romano per far va
lere o avanti al Senato o davanti ai magistrati di Roma ragioni e diritti che
essi non sarebbero stati in caso di far riconoscere (1) . Così pure
nell'interno della città , la clientela, ancorchè scomparsa come istituzione
giuridica , continua pur sempre ad esercitare una grandissima influenza
sopratutto nel periodo delle elezioni, nel quale tutte le aderenze si mettono
in movimento e quindi anche quelle che ricordano uno stato di cose ormai
scomparso . (1) Accenna al ius applicationis CICERONE, De orat. 1, 39, ma
sembra che già ai suoi tempi fosse assai oscuro il carattere di questa
istituzione. Sonvi però autori, che, come il MISPOULET, vorrebbero scorgere
nelmedesimo la forma contrattuale della clientela . Les institutions politiques
de Rome, Paris, 1882, I, pag. 22. In ogni caso converrebbe pur sempre dire, che
il ius applicationis poteva essere la forma, che rivestiva il rapporto della
clientela nell'epoca romana, ma non si potrebbe affer mare altrettanto
dell'epoca gentilizia . Le formole epigrafiche, da lui citate in nota , si riferiscono
alla così detta pubblica clientela, che era già stata creata a somi glianza di
quella prima esistente. Del resto punto non ripugna, che anche la clien tela
potesse assumere un carattere contrattuale e che la formola di essa potesse
anche essere analoga a quella ricostrutta dal Voigt. « Te mihi patronum capio .
At ego suscipio poichè noi troviamo qualcosa di analogo anche nella deditio. G.
CARLE, Le origini del diritto di Roma. 4 50 39. Quanto alla clientela , fu
sopratutto disputata ed ha veramente grande importanza la questione intorno
alla origine di essa . Si è sostenuto in proposito che i clienti fossero i
primi plebei stati ripartiti da Romolo sotto il patronato dei patrizii; che
essi fos sero i primi abitanti del Lazio ridotti a vassalli; che fossero gli im
migranti in Roma in seguito all'asilo aperto da Romolo ; che essi infine
fossero antichi servi manomessi, la quale opinione, posta in nanzi dal Mommsen,
si appoggerebbe sull'analogia, che corre fra gli obblighi primitivi del cliente
verso il patrono e quelli che ancora si mantengono durante il periodo storico a
carico dei liberti verso il patrono (1) Di queste varie opinioni, quella che
andrebbe a sorprendere la clientela nella sua prima formazione e che sembra
essere più con sentanea al carattere dell'organizzazione gentilizia è
l'opinione soste nuta dal Mommsen, per cui i primi clienti della gente
sarebbero stati i servi, i quali, manomessi dopo un lungo e fedele servizio nel
seno della famiglia , sarebbero diventati clienti nel seno della gente, a cui
apparteneva il proprio patrono. Ciò era non solo naturale, ma indispensabile
nell'organizzazione gentilizia in quanto che , se cosi non fosse stato , i
servi manomessi si sarebbero trovati abban donati a se stessi e staccati da
quel gruppo, al di fuori del quale non poteva esservi protezione giuridica,
finchè non fu costituita una vera autorità civile e politica . Si aggiunge che
l'organizzazione gentilizia è una formazione naturale e spontanea , che cerca
in ogni suo stadio di bastare a se stessa , e tende così a ricavare dal proprio
seno tutti i suoi successivi sviluppi. Viene quindi ad essere na turale e serve
anche a dare una certa elasticità ai varii gruppi gentilizii e a permettere il
passaggio da uno ad un altro la costu manza per cui coloro, che erano stati
famuli o servi nella famiglia, potessero essere accolti come clienti o
gentilicii nella gente . La clien tela in tal modo veniva a costituire una
condizione relativamente più elevata a cui poteva aspirare il servo , e si
comprende eziandio come la sua coabitazione in una famiglia potesse da una
parte disporre la gente a renderlo partecipe del culto e del sepolcro
gentilizio, mentre dall'altra la sua fedeltà ed obbedienza nella qualità di
servo era preparazione all'ossequio ed alla riverenza del cliente , (1)
L'esposizione più particolareggiata delle varie opinioni, colla indicazione
degli autori, che ebbero a professarle , occorre nel .WILLEMS, Le droit public
Romain , pag. 28 ; e nel Borché-LECLERC, Instit. Rom ., pag. 9. - - 51 - 40. È
in questo senso che il concetto del Mommsen può essere accettato ; ma il
medesimo vuol essere reso compiuto col ritenere che qui dovette verificarsi un
processo , che è comune a tutte le isti tuzioni primitive, per cui, una volta
creata la configurazione giuri. dica della clientela per mezzo di elementi
usciti dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia , si poterono poi fare
entrare in essa tutti coloro, che essendosi per qualsiasi causa staccati da un
gruppo abbisognavano di collegarsi ad un altro e di mettersi sotto la pro
tezione o difesa di esso . Come quindi era stato naturale , che il servo
affrancato dal capo di famiglia diventasse cliente della gente a cui esso
apparteneva, così dovette pure essere naturale , che una volta creato il
rapporto religioso, giuridico ed ereditario della clientela fossero compresi
nella medesima anche gli immigranti, che si rifu giavano presso la gente,
vincolandosi mediante il ius applicationis ad uno dei membri di essa , che ne
diventava il patrono ; quelli, che per un diritto di guerra universalmente
riconosciuto fra le varie genti, essendo posti nella condizione di dediticii,
venivano ad esser privi di religione, di territorio, e di mezzi di sussistenza
; quelli, che erano soggiogati e vinti da una gente o tribù, che sopravveniva e
si imponeva nel sito da essi occupato; quelli che, fermata la propria sede
accanto ad uno stabilimento di casate patrizie, ne ottenevano con cessioni di
terra e riconoscevano così il patronato delle medesime; tutti quelli insomma,
che in un'epoca di lotta e di privata violenza cercavano protezione e difesa
presso la gente, e che questa, per affi nità di stirpe o per altro motivo,
riteneva di poter accogliere nella comunanza gentilizia , assegnando perd ai
medesimi una posizione subordinata (1). 41. Cid intanto dimostra come la
clientela fosse una istituzione indispensabile in questo periodo di
organizzazione sociale , poichè serviva ad incorporare nel gruppo gentilizio
persone, che altrimenti si sarebbero trovate nell'isolamento e percid prive di
diritto , e quindi, mentre da una parte accresceva il numero e la forza delle
genti, dall'altra procurava al cliente una protezione giuridica, di cui sa
rebbe stato altrimenti privato. In questo senso non è certamente (1) Questa più
larga estensione data all'origine della clientela ,che, senza escludere
l'opinione del MOMmsen, la comprende , sembra essere giustificata dal seguente
passo di Gellio, V , 13 : « Clientes, qui in fidem patrociniumque nostrum sese
dediderunt » . 52 destituita di fondamento la potente intuizione del nostro
Vico , il quale riteneva che la clientela o come egli la chiama il famulato
fosse un mezzo indispensabile per giungere ai governi civili , in quanto che
essa fu effettivamente il primo mezzo,mediante il quale individui e famiglie di
origine diversa poterono, coll'accettare una posizione dipendente e
subordinata, essere aggregate ad un gruppo , a cui non appartenevano per
nascita, senza tuttavia essere assorbiti in tieramente nel gruppo stesso nella
qualità di famuli e di servi (1) . Non può quindi essere accolta l'opinione di
coloro, che vorrebbero collocare il cliente in una posizione intermedia fra il
servo ed il plebeo, poichè sebbene sia vero che l'uno poteva trasformarsi nel
l'altro, tuttavia la clientela e la plebe sono istituti, che compariscono in
stadii diversi dell'organizzazione sociale. Mentre la clientela appartiene
ancora totalmente all'organizzazione gentilizia , il com parire invece della
plebe segna già l'iniziarsi della vita civile e politica in seno della tribù ,
donde la conseguenza che la città for mandosi soffocherà la clientela , mentre
verrà invece a somministrare il terreno, sovra cui la plebe potrà dispiegare la
propria attività ed energia . $ 5 . La tribus come il gruppo più ampio
dell'organizzazione gentilizia . 42. Al disopra della gens compare infine nella
organizzazione delle genti Italiche un'aggregazione più vasta , che è quella
della tribú , come lo dimostra il fatto , che, secondo la tradizione, sarebbe
dal confederarsi delle tribù dei Ramnenses, dei Titienses e dei Luceres, che
sarebbe uscita la città di Roma, allorchè essa cesso di essere il primitivo
stabilimento romuleo. La tribù tuttavia, delle istituzioni anteriori alla
città, è certo la più difficile a ricostruirsi nelle sue primitive fattezze.
Siccome infatti essa, per le funzioni eser citate , era tra le varie
aggregazioni quella , che più si accostava alla città propriamente detta , così
è anche quella, che per la prima fu assorbita dalla medesima, per modo che il
nome stesso delle tre tribù primitive di Roma sarebbesi forse perduto, se non
l'avesse (1) Vico, Seconda scienza nuova , Lib. II . Della famiglia dei famoli
innanzi delle città , senza la quale non potevano affatto nascere le città .
Op. comp. Ed. Milano, 1836 , vol. V , pag. 296. 53 conservato la curiosità
investigatrice di qualche antiquario, e non ne fossero rimaste le vestigia
nelle sei centurie degli equites (sex suffragia) composte dei Ramnenses,
Titienses e Luceres primi et secundi (1). 43. Gli è perciò che come fu assai
difficile il discernere la gente dall'aggregazione più ristretta dalla famiglia
, cosi non è meno dif ficile il constatare in qual modo alle genti venga a
sovrapporsi la tribù e come, riunendosi le prime, venga ad apparire la seconda
. Di questo pero possiamo essere certi, che le tribù primitive di Roma
risultavano composte da una aggregazione di genti, le quali si venivano
raggruppando intorno al capo di una gente preva lente fra tutte le altre, da
cui desumevano il loro nome com plessivo, il quale percið era ricavato dalla
persona, che guidava la tribù, più che dal luogo, ove questa era stabilita .
Così, per arre starsi alle due tribù primitive, la cui origine è meglio
accertata , si può essere certi, che la tribù dei Ramnenses ricava il proprio
nome complessivo da Romolo e da Remo, che erano a capo di essa, se condo la
tradizione ; il che è pure di quella dei Titienses, il cui nome deriva da Tito
Tazio capo della tribù sabina, stabilita sul Quirinale ; nel che è anche a
notarsi, che il nome della tribù viene ad essere composto in guisa diversa da
quello della gens, per guisa che mentre parlasi di una gens Romilia , Titia è
Claudia , le tribù invece vengono ad essere dei Ramnes o Ramnenses, dei Ti ties
o Titienses, e dei Claudienses. (2 ). Di qui pud indursi, che la (1) Non
mancano negli autori delle trattazioni anche relativamente alla tribù ; ma di
regola essa suol essere considerata come una ripartizione della città , nè cer
casi di ricostruire la tribù primitiva, che sola può porgere il mezzo di comprendere
la formazione della città . Tutti però concordano in riconoscere, che altre
sono le tribù primitive, fondate sul vincolo genealogico, ed altre quelle
posteriori introdotte da Servio Tallio , desunte invece dalle località , ove
erano stabilite. Cfr . CARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, pag . 79 e seg .
(2) Non può certamente essere accettata l'etimologia di VARRONE, De ling . lat.
55 (Bruns, pag . 378 ), il quale vorrebbe in certa guisa far derivare il nome
delle tre tribù dalle tre parti dell'agro, che sarebbe stato fra esse
distribuito. « Ager Ro manus, primum divisus in partes tres, a quo tribus
appellatae Titiensium , Ramnium , Lucerum » . Infatti l'opinione di Varrone in
questa parte è contraddetta da Livio , da Servio , da Dionisio , che fanno invece
derivare il nome delle tre tribù non dalle località, ma dal nome dei loro capi.
È quindi evidente, che qui VARRONE confuse in certo modo le tribù primitive con
quelle di Servio Tullio, come lo dimostra il 54 tribù comincia a delinearsi,
allorchè viene ad avverarsi un'aggre gazione di gentes, le quali, non essendo
più strette dal vincolo della comune discendenza , si raggruppano intorno al
capo della stirpe pre valente fra di esse e mentre conservano in particolare i
proprii nomi gentilizii, assumono in comune un nome, che desumono dal proprio
capo. 44. Questa formazione novella viene poi ad essere determinata ogni
qualvolta un'impresa o spedizione qualsiasi può porgere oc casione a questo
aggregarsi delle gentes . Di qui la conseguenza che la tribú - o può assumere
un carattere pressochè militare, come accadde della tribù dei Ramnenses, che
sarebbesi formata fra le genti albane in occasione di una spedizione di
carattere militare, o può invece avere il carattere di una vera e propria
comunanza di villaggio , come era di quella dei Titienses già stabilita sul Qui
rinale . Tanto nell'uno quanto nell'altro caso essa assume immedia tamente un
carattere religioso, ponendosi sotto la protezione di una divinità, comune
patrona, perchè fra le genti primitive non si pud comprendere un'aggregazione
qualsiasi senza un vincolo religioso che la stringa insieme (1). Qui intanto
l'unificazione del gruppo diventa indispensabile , anche per l'intento che la
tribù si propone di con seguire, e quindi viene ad accentuarsi assai più che
nella gente la figura di un capo, che potrà prendere il nome di praetor o di
dic . fatto, che egli dopo continua con dire: « Ab hoc agro quatuor quoque
partes urbis tribus dictae ab locis , Suburana, Palatina, Esquilina, Collina,
etc. » . Del resto non pud neppure ammettersi, che occorresse una divisione
dell'agro fra le tre tribù, dal momento che ciascuna continuava ad avere il
proprio terrritorio , salvo che si trat tasse, non di una ripartizione di
territorio, ma di una divisione meramente ammi nistrativa , come dovette
appunto essere. (1) Secondo il Bouché-LECLERCQ, la cui competenza è
incontrastabile nella parte, che si riferisce alla religione di Roma per i suoi
studii sui Pontefici e sull'arte della divinazione, il culto delle tribù de' Ramnenses
sarebbe stato quello di Marte e Quirino ; quello della tribù dei Titienses
sarebbe stato quello di Quirino e di Giano e quello infine della tribù de'
Luceres sarebbe stato quello di Giove, sebbene queste varie divinità sembrino
talvolta confondersi fra di loro, il che accade quanto a Marte e a Quirino,
come pure diGiove e di Giano. Si può aggiungere, che della triplice divinità
rimasero ancora le traccie nei tre flaminimaggiori, che erano quelli diMarte,
di Qui rino e diGiove (Gaius I, 112). Di qui LECLERCQ ricaverebbe indizi dei
diversi stadii, che Roma ebbe a percorrere nella sua formazione progressiva.
Institutions Romaines, pag. 477 a 494 . 55 tator, se la tribù trovasi avviata
ad una spedizione ; di iudex in tempo di pace; di magister pagi, se trattisi di
una comunanza di villaggio già ferma in un determinato sito ; dimeddix , come
accadeva presso gli Osci, ed infine anche di rex , sebbene questo vocabolo ,
sembri comparire di preferenza quando trattisi del capo di una città
propriamente detta . Tuttavia questo capo suol essere nella tribù ancora
designato di preferenza dalla nascita , che non dall'elezione; come lo dimostra
il fatto , che i due duci della tribù dei Ramnenses sono entrambi di stirpe
regia e per essere gemelli debbono cono scere mediante gli auspicii quale di
essi sia chiamato a fondare la città , o meglio il primo stabilimento romuleo
sul Palatino. Quando invece da capo della tribù dei Ramnenses, Romolo debba già
trasfor marsi in reggitore della civitas, formatasi mediante la confedera zione
di varie tribù , in allora , secondo Dionisio, sarà già necessaria
l'approvazione dei padri e la creazione del popolo (1 ). Però accanto al capo
si mantiene ancor sempre un consiglio, che può continuarsi a chiamare dei
patres , perchè è effettivamente composto dei capi delle singole genti, e a cui
probabilmente già viene data la deno minazione di senatus. Infine nella tribù
già può avverarsi la riunione (comitium ) degli uomini, che colle armi (
iuniores) o col consiglio (seniores) possono provvedere alla comune difesa od
al comune in teresse ; donde la conseguenza , che già nella stessa tribù può ve
nirsi iniziando il concetto eminentemente concreto ed organico del populus,
salvo che gli elementi per costituirlo si ricavano ancora direttamente dalle
varie genti (ex generibus hominum ), cosicchè la sua classificazione continua
ancora sempre ad avere un carattere prettamente gentilizio . 45. Questa
naturale formazione della tribù dimostra , come la me desima corrisponda fra le
genti Italiche a ciò che per l'Oriente suol essere indicato col vocabolo di vîc
o comunanza di villaggio , e fra iGreci col vocabolo di dñuos (2). Essa
costituisce in certo modo (1 ) Dion. II , 3. (2 ) V. HAUSSOULIER, La vie
municipale en Attique. Pref., 3. Devo però far no tare che, secondo l'autore,
il dñuos dei Greci sarebbe già una vera associazione civile e politica e
corrisponderebbe alla curia e più soventi al pagus, sebbene a mio avviso la
curia ed il pagus siano due cose compiutamente diverse. La curia infatti è una
divisione politica delle città , mentre il pagus sarebbe la località, in cui
dimora la tribus. Crederei quindi più esatto che il dñuos corrisponda a
quest'ultima. 56 il più largo sviluppo, a cui pervenne l'organizzazione
patriarcale , perchè mentre il suo elemento costitutivo e il modello, a cui si
in forma, è pur sempre il gruppo gentilizio , da essa pero già si vengono
elaborando quegli elementi, che, trasportati nella comunanza civile e politica
, finiranno per dare origine ad un rapporto del tutto nuovo, che è quello della
civitas , il quale più non dispiegasi nel pagus come la tribù , ma bensi
nell'urbs. Ben si potrebbe osservare contro questo tentativo di ricostruzione,
che la tribù mal pud essere stata l'ultimo stadio dell'organizzazione
patriarcale, mentre essa ricompare poi come la prima ripartizione della città ;
ma anche ciò può essere facilmente spiegato quando si consideri, che era dalla
tribus, che si erano ricavati i primi ele menti, in base a cui si costituiva la
città , come lo dimostrano anche i vocaboli di tribunus, tributum , tribunal, i
quali tutti richiamano l'antica tribù, e quindi era conforme al processo
costantemente seguito nelle formazioni Italiche, che l'edifizio novello della
città si ripartisse nell'interno sul modello degli elementi primitivi, che con
correvano a costituirlo . D'altronde è noto , che le tribù di Servio Tullio
hanno un carattere di preferenza locale e non già genealogico come le tribù
primitive (1 ). 46. Intanto, senza volere per ora trattare a fondo dell'origine
della plebe, non sarà inopportuno indicare, che è certamente colla formazione
delle tribù , il cui nucleo è ancor sempre composto di genti patrizie, che può
essersi iniziata la formazione della plebs, essendo naturale che attorno ad uno
stabilimento di genti patrizie, che già riconoscono un capo , si venisse
formando una comunanza plebea, che provvedesse al proprio sostentamento, o
coltivando terre concesse dalle genti o dal capo di esse, o esercitando i
mestieri e le professioni diverse. Il bisogno di questo nuovo elemento poteva
essere sentito dalle stesse genti, per quanto esse coi loro servi e coi loro
clienti fossero organizzate in guisa da poter bastare da sole a tutte le loro
esigenze. Ciò è comprovato eziandio da quelle Quanto al diverso svolgimento di
questi varii elementi nell'India , nella Persia , in Grecia e in Roma, vedi
Carle, La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita so ciale. Lib . I e II,
come pure : Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza civile e politica
, colle opere ivi citate. ( 1) La distinzione è fatta nettamente da Dionisio (4
, 15), il quale chiama la tribù primitiva qulai revikai e quelle di Servio
Tullo qulai totikaí. - 57 antiche formole , in cui parlasi di populus et
plebes, dualismo il quale fa credere che dovette esservi un tempo, in cui si
chiamo populus l'assemblea politica e militare ricavata dal seno delle genti,
secondo il rito e l'ordine prescritto dalle consuetudini e dalle tra dizioni,
mentre invece si chiamd plebes dapprima e poscia plebs (da pleo , riempire)
quella moltitudine ragunaticcia , che dopo essersi cominciata a formare con
clienti rimasti senza patrono e che come tali venivano ad essere esclusi dal
gruppo gentilizio , potè poi una volta formata accrescersi in guise varie e
molteplici. Questo infatti risulta dalla storia delle primitive istituzioni
sociali , che il compito più difficile nella grande povertà delle idee
primitive è la forma zione di un nuovo gruppo ; ma quando esso è formato e
corrisponde alle esigenze dei tempi, viene ad essere un potente richiamo per
tutti gli elementi, che per questo o quel motivo si vengono stac cando
dall'organizzazione prima esistente , e che abbandonati a se cercano un nucleo
novello a cui possano aderire. § 6 . Sguardo sintetico ai varii gruppi
dell'organizzazione gentilizia . 47. Riassumendo questa lenta e faticosa
ricostruzione dell'orga nizzazione sociale delle genti Italiche anteriore alla
città , credo che la medesima abbia abbastanza dimostrato, come
l'organizzazione stessa siasi venuta svolgendo mediante un processo di naturale
e spontanea formazione, costituita in certo modo da altrettanti sedimenti, che
si vennero sovrapponendo l'uno all'altro, in modo pero che gli ele menti, che
formansi in ciascuno di essi, subiscono delle trasforma zioni allorchè passano
in quelli che vengono dopo. Infatti, anche lasciando in disparte la grave
questione della pro venienza delle genti Italiche , è molto probabile, che esse
già re cassero con sè l'organizzazione gentilizia, quantunque la medesima non
avesse forse assunto quelle determinazioni precise, che acquisto più tardi.
Furono i conflitti delle genti colle stirpi già stabilite sullo stesso suolo ,
le lotte fra vincitori e vinti, e quelle eziandio fra le stesse genti migranti,
che presto dimenticarono la discendenza comune, che produssero un irrigidirsi
dei varii gradi dell'organizza zione gentilizia e condussero alla formazione di
una potente ari. stocrazia territoriale, militare e religiosa ad un tempo, che
attrasse 58 anche i vinti nei quadri del proprio ordinamento , collocandoli
però in una posizione subordinata a quella dei vincitori. Ne consegui che la
famiglia , per rendersi atta a sostenere i con . flitti cogli altri gruppi, si
venne concentrando e raggruppando sotto il potere del proprio capo, il quale
sembra quasi perdere l'aureola di padre per assumere quella di sacerdote, di
giudice , di uomo di guerra e di fondatore di una schiatta destinata a
perpetuarsi. Intanto le per sone, cheda lui dipendono, si dividono in liberi o
figli e in servi o fa muli, due vocaboli che si contrappongono fra di loro ed
indicano due classi di uomini, che per molti secoli rimarranno distinte per
contrassegnare in certo modo la discendenza dei vincitori e quella dei vinti.
Di qui quel carattere eminentemente monarchico della costi tuzione della
famiglia gentilizia , che tenacemente conservato nella famiglia quiritaria fini
per attribuire alla medesima quella speciale impronta , che i giureconsulti
romani più non ravvisavano nelle istituzioni famigliari degli altri popoli. La
gente invece continua sempre a ritenere alquanto dell'ela sticità primitiva, nè
giunge ad una concentrazione uguale a quella della famiglia ; ma intanto,
memore del culto del proprio antenato , custode gelosa delle proprie
tradizioni, riunita e resa compatta dai comuni pericoli, accresciuta dai
clienti, si cambia anch'essa in una specie di corporazione potente, che
continua ad essere il perno del l'organizzazione gentilizia, e mentre da una
parte tiene unite le famiglie, dall'altra , aggruppandosi con altre genti, dà
origine alla tribù . Intanto però anche in essa continua quel dualismo, che già
erasi rivelato nella famiglia , salvo che i rapporti fra quelli, che un di
furono i vincitori e quelli che furono i vinti, rimettono al quanto della
propria rigidezza , e vengono cosi a trovarsi di fronte i gentiles ed i
gentilicii, i cui rapporti. prendono un carattere pres sochè giuridico nel
patronato e nella clientela . Così pure nella gente , accanto all'elemento
monarchico della famiglia , già viene a svolgersi un elemento, che potrebbe
chiamarsi aristocratico , il quale costituisce un consiglio degli anziani, che
concentra in sè medesimo le principali funzioni, che appartengono alla gente.
Da ultimo nella tribu havvi pur sempre un'aggregazione di genti, ma intanto fra
le medesime già distinguesi una gente , che predo mina su tutte le altre e
viene così ad essere ritenuta come di stirpe regia . Di qui la conseguenza ,
che in essa compare la figura di un capo, che è il principe della gente, che
predomina su tutte le altre, conservasi il consiglio degli anziani, che già
mutasi in senato , 59 perchè è già composto dei capi di genti diverse , ma
intanto aggiun gesi l'elemento democratico o popolare , che componesi di tutti
gli uomini, che, ricavati dalle varie genti, possono valere come uomini di armi
o come uomini di consiglio . Cid però non toglie, che continui sempre il
dualismo, che già esi steva negli altri gruppi in quanto che accanto al popolo
formasi la plebe, la quale trovasi dapprima al di fuori della comunanza gentilizia
e ha percid più un'esistenza di fatto , che non un'esistenza di diritto . Essa
è dapprima riguardata con disprezzo dal patriziato, perchè esce dai quadri
consacrati dalla religione e dal diritto delle genti; ma cið non toglie, che
passandosi dall'organizzazione gentilizia alla città essa sia l'unico elemento,
che possa sostenere la lotta coll'antico ordine di cose . Per tal modo si
avverò nel periodo gentilizio una vera forma zione naturale delle varie
condizioni di persone e dei varii elementi, che entrarono più tardi a
costituire la comunanza civile e politica. Che anzi, mentre dura ancora il
periodo gentilizio, già si vengono lentamente e gradatamente elaborando quei
concetti, che serviranno poi di base alla futura città : Tantae molis erat
romanam condere gentem . Non è già che questo processo di naturale formazione
sia proprio soltanto delle genti Italiche, in quanto che le traccie di essa ap
pariscono evidenti presso tutte le stirpi di origine Aria ed anche presso
quelle di origine Semitica e Camitica (1). Nessuna però giunse a racchiudere i
varii stadii di questa formazione in forme più determinate e precise delle
stirpi italiche, e furono esse parimenti che, gettando nel crogiuolo i
materiali tutti elaborati e conservati nel periodo gentilizio, seppero
ricavarne le basi e il fondamento del l'eterna città . (1) Ciò è stato provato
largamente dal SUMNER MAINE, L'ancien droit , pag. 107 a 163. È poi
interessantissima a questo proposito la comparazione, che viene facendo il
Revillout fra l'organizzazione domestica dei Romani e quella che vigeva presso
gli Egiziani nella sua opera col titolo : Cours de droit égiptien , Paris,
1884, della quale può considerarsi come un compimento, per ciò che si riferisce
alle forme di celebrazione del matrimonio, il lavoro del suo allievo PATURET,
La condition juri dique de la femme dans l'ancien Egipte, Paris, 1886. - 60
CAPITOLO IV . La proprietà nel periodo gentilizio e gli istituti attinenti alla
medesima. S 1. – Dubbii circa l'origine della proprietà nella storia primitiva
di Roma. 48. Fra i problemi, che presenta la storia delle istituzioni primitive
di Roma, uno fra i più difficili per comune accordo degli autori è certo
quello, che si riferisce all'origine di quella forma di proprietà , che suol
essere indicata col nome di proprietà quiritaria, la quale in certo modo venne
ad essere il modello, sovra cui si foggið la proprietà presso la maggior parte
dei popoli civili. A questo proposito le tradizioni a noi pervenute sembrano
presen tare alcune contraddizioni a prima giunta inesplicabili. Da una parte
infatti, anche dopo la formazione della città , si rinvengono ancora le traccie
di una proprietà collettiva , conosciuta sotto il nome di ager gentilicius e di
ager compascuus,mentre dall'altra la proprietà qui ritaria si presenta fin dai
proprii inizi con un carattere cosi assoluto ed esclusivo, che sembra perfino
escludere la possibilità dell'esistenza anteriore di una proprietà collettiva.
A cið si aggiunge, che mentre da una parte la storia primitiva di Roma ci dipinge
il patriziato fin dai più antichi tempi in condizionitali da concentrare nelle
sue mani tutto il capitale (pecunia ) allora esistente, e come il proprietario
pressochè esclusivo di una gran parte del territorio , dall'altra la tradizione
parla di una ripartizione fatta da Romolo del territorio Romano e di un assegno
da esso fatto di soli due iugeri (bina iugera) ai capi di famiglia, che lo
avevano seguito, il quale assegno avrebbe co stituito il primo patrimonio
(heredium ) del più antico patriziato , che era quello della tribù dei
Ramnenses (1). (1) Ecco i principali passi di antichi scrittori che si
riferiscono all'argomento : VARRO, De re rustica, 10, 2 : « Bina iugera , quod
a Romulo primum divisa viritim , quae heredem sequerentur, heredium appellarunt»
. Plinius, Hist. nat., 18, 2 , 7: « Bina tunciugera populo romano satis erant,
nullique maiorem modum attribuit (Romulus) » . Lo stesso Plinio poi, 18 , 3, 10
scrive : « M. Curii nota dictio est, perniciosum intel legi civem , cui septem
iugera non essent satis . Haec autem mensura plebi post ex ictos reges
adsignata esto. Brons, Fontes, pag. 387. Se ne ricaverebbe pertanto - 61 49.
Non è quindi meraviglia se le congetture a questo proposito siansi avviate in
direzioni compiutamente diverse. Alcuni riten nero che la proprietà privata in
Roma sia stata una creazione dello Stato , ma contro questa opinione si è
giustamente osservato , che l'idea di una sovranità territoriale fu affatto
ignota ai Romani, per guisa che un'imposta fondiaria qualsiasi sarebbe loro
parsa un segno di soggezione odioso tanto, che fino all'Impero Roma e l'Italia
ne furono escluse ( 1). In senso contrario si fa perd notare, che non può
ammettersi che la proprietà in Roma siasi potuta sottrarre a quella evoluzione
storica , che sarebbesi avverata presso tutti i popoli, in quanto che Roma
avrebbe esordito con un concetto della proprietà , che presso gli altri popoli
non si rinviene che quando essi sono pervenuti al termine della loro
evoluzione. Ne deriva che, lasciando in disparte le gradazioni diverse delle
opi nioni intermedie, le teorie estreme si potrebbero ridurre essenzial mente
alle seguenti. Vi ha l'opinione del Niebhur, del Mommsen , seguita anche da
molti altri, fra cui noterd il De Ruggero, secondo cui la proprietà in Roma,
come presso gli altri popoli, sarebbe prima esistita sotto forma collettiva e
non sarebbesi cambiata in proprietà esclusivamente privata ed individuale , che
colla ammessione della plebe alla cittadinanza e cogli assegni di terre fatti
dallo Stato ai che ai primi fondatori dello stabilimento romuleo l'assegno non
fu che di due iugeri, mentre poi più non parlasi di altri assegni fatti anche
al patriziato. Per contro gli as segni posteriori, incominciando da Numa,
appariscono fatti ai plebei ed anzi aipiù po veri della plebe. Solo fa
eccezione Cicerone, il quale direbbe che Numa avrebbe diviso fra i cittadini
l'agro pubblico conquistato sotto Romolo « agros divisit viritim viribus » « De
rep. II, 14 » , ma in ciò è contraddetto da Dionisio , il quale parla di una di
stribuzione da Numa fatta ai più poveri, II, 62. Quanto agl'assegni attribuiti
ai re, che vennero dopo, sono tutti fatti alla plebe, ed è dopo le leggi
Licinie Sestie, che i medesimi furono portati a sette iugeri. Ciò è attestato
fra gli altri da Columella, De re rustica , 1, 3, 10 , « Post reges exactos
Liciniana illa septem iugera , quae plebi tribunus viritim diviserat,maiores
quaestus antiquis retulere, quam nunc nobis praebent amplissima vetereta » . Ho
citato questi varii testi per provare, che il solo assegno fatto ai primi padri
o capi di famiglia fu quello di due iugeri attribuito a Romolo, mentre gli
altri sono fatti alla plebe; il che dimostra che i padri dovettero continuare
ad avere i loro agri gentilizii. (1) V. PADELLETTI, Storia del diritto Romano,
con annotazioni del prof. Cogliolo , Firenze, 1886, pag. 214, ove si sforza , e
a parer mio, inutilmente, a dimostrare che il piccolo heredium di due iugeri
poteva bastare ai bisogni della famiglia , stante la coltura intensiva
applicata al medesimo. - 62 singoli cittadini (1 ) ; e vi ha quella invece,
sostenuta con ardore dal nostro Padelletti, secondo cui sarebbe affatto esclusa
questa origine collettiva dalla proprietà, in quanto che l'istituto della
medesima, quale si è svolto fin dai più antichi tempi di Roma, per usare le sue
stesse parole, avrebbe assunto un carattere spiccatamente pri vato ed avrebbe
segnato il grado più perfetto, a cui sia pervenuto il regime della proprietà
(2). 50. È poi degno di nota che siccome oggidi la ricerca intorno all'origine
delle proprietà assunse le proporzioni di una questione economica e sociale, in
quanto che ad essa si rannodano teorie diverse intorno all'ordinamento delle
proprietà , così la ricerca delle sue origini presso un popolo , le cui istituzioni
esercitarono tanta influenza sopra tutti gli altri, ha assunto eziandio il
carattere di un problema economico e sociale . Sonvi infatti coloro che, come
il Laveleye ed altri autori più o meno apertamente favorevoli ad un ordinamento
collettivo della proprietà , vogliono trovare, anche presso ( 1) L'autore, che
primo approfondì i concetti dell'ager publicus e dell'ager pri vatus, è
certamente il Niedhur, Histoire romaine, III, pag. 175 a 222. Egli però sembra
partire dal preconcetto, che anteriormente a Roma non esistesse proprietà
privata, e che questa fosse stata costituita mediante gli assegni stati fatti
alla plebe. La sua opinione fu seguita dal Puchta , Corso delle Istituzioni.
Trad. Turchiarulo, $ 285 , dal MOMMSEN, Histoire romaine, I, chap. XII et XIII,
pag . 189 e seg. Segue pare questa opinione il De-RUGGERO nei suoi dotti
articoli sull'ager publicus-privatus, e sulle agrariae leges, inserti
nell'Enciclopedia giuridica italiana , come pure nel suo precedente lavoro, La
gens in Roma avanti la formazione del comune. Napoli, 1872. (2 ) PADELLETTI, op
. cit., pag . 220. Nota 1°. La questione dell'origine collettiva della
proprietà cominciò dall'essere posta in campo dal Sumner Maine, L'ancien droit,
chap. VIII, Histoire de la propriété primitive, pag . 231 a 288. Essa poi fu
allar gata dal Laveleye del suo libro, La propriété et ses formes primitives,
dove si oc cupa della proprietà presso i Romani da pag . 177 a 193. Di recente
poi la discussione -surse di nuovo, a proposito della proprietà primitiva
presso i Germani, in occasione di una dissertazione letta dal FUSTEL DE
COULANGES all'Accademia di Scienze morali e politiche di Parigi, in cui egli
sostiene che anche i primitivi Germani avrebbero conosciuta la proprietà
famigliare e privata. Alla discussione presero parte il GEFFROY, il Glasson,
l'AucoC e il Ravaisson, e ne uscì una specie di studio comparativo fra la
proprietà e la famiglia romana e la proprietà e la famiglia dei primitivi
Germani. Compte rendu de l'Académie des sciences morales et politiques, 1885,
1er vol., pag. 705 a 812 e 2me vol., pag. 1 a 66. L'opinione del FusTEL DE
COULANGES, quanto alla proprietà privata già conosciuta dai Germani, era stata
già sostenuta in modo anche più esclusivo dal Denman W. Ross, The early of
Land-holding among the Germans. Boston, 1883, pag. 40. 63 i Romani, le traccie
di una proprietà collettiva,mentre altri, soste . nitori invece della proprietà
privata ed individuale, cercano di avere per sè l'autorità di un grande popolo
per giustificare la forma di proprietà che è loro prediletta . Il vero si è che
tanto l'una come l'altra teoria solleva dei grandi dubbi. Da una parte infatti,
quando si riconosca presso i Romani solo una proprietà originaria mente
collettiva , viene ad essere inesplicabile come un popolo , che suole procedere
così gradatamente nella trasformazione delle proprie istituzioni giuridiche,
abbia potuto senza altro operare una rivolu zione così radicale nel concetto
della proprietà . Dall'altra , se si sostiene che la proprietà Romana fu senz'altro
una proprietà asso luta ed esclusiva , non è men vero che il popolo Romano
sembre rebbe appartarsi da tutta l'evoluzione della proprietà , quale almeno
sarebbe stata formolata da coloro , che si occuparono delle forme pri mitive
dalla medesima assunte. In questa condizione di cose non pud negarsi la gravità
e la im portanza del problema, e questo è certo che il medesimo non potrà mai
essere risolto , finché non si ricerchino le condizioni della pro prietà presso
le genti del Lazio, per mettersi cosi in caso di ap prezzare le trasformazioni,
che esse ebbero a subire nel passaggio dal periodo gentilizio alla comunanza
civile e politica . 51. Tuttavia, prima di inoltrarsi nella ricerca, non sarà
inopportuno di premunirsi contro alcune idee, che, sopratutto in questi ultimi
tempi, si vennero introducendo intorno alla legge di evoluzione sto rica, che
governa la proprietà. Il Laveleye, in una notevole opera sua , ha cercato di
stabilire sopra una grande quantità di fatti una legge storica, secondo cui la proprietà
avrebbe cominciato dall'e sistere sotto forma collettiva e poi sarebbe venuta
assumendo un ca rattere sempre più individuale, lasciando così sottintendere,
che l'u nico rimedio di ovviare a questa individualizzazione soverchia della
proprietà sarebbe quello di richiamare l'istituzione ai propri inizii ( 1). (1)
L'opera del LAVELEYE è quella già citata col titolo: La propriété et ses formes
primitives. Paris 1874, e la legge storica ricordata nel testo è da lui
formolata nello stesso primo capitolo, pag. 4 ,il che giustifica alquanto la
censura fattaglidal PADELLETTI di essersi sforzato a dimostrare una tesi. Del
resto le idee del LAVELEYE hanno tro vato molti seguaci e possono anche essere
accettate in certi confini, con che non si voglia cambiare in una legge storica
generale un fenomeno, che ebbe solo a veri ficarsi in un periodo dell'umanità
stessa, cioè nel periodo gentilizio. Di più si potrebbe 64 Senza entrare ora
nella discussione di questa legge, devesi però notare, che ricerche di altri
investigatori imparziali, fra i quali lo Spencer, hanno già dimostrato , che
una legge di questa natura non pud essere ammessa, in quanto che presso popoli
del tutto primitivi già si trovano le traccie di una proprietà privata ed
individuale (1 ). Quindi è che l'unica legge storica , relativa all'evoluzione
della pro prietà , che allo stato attuale degli studi possa formolarsi, sarebbe
che la proprietà , essendo una istituzione eminentemente sociale, ebbe in tutti
i tempi ad assumere tante forme, quanti sono gli stadii per corsi
dall'organizzazione sociale . Sopratutto poi la storia delle isti tuzioni
giuridiche presso i varii popoli dimostra, che le sorti della proprietà si
presentano strettamente connesse con quelle della fa miglia , cosa del resto
che può essere facilmente compresa quando si consideri, che il primo bisogno
della famiglia fu certamente quello di assicurare il proprio sostentamento .
Siccome perd la famiglia nel periodo, che suole essere chiamato patriarcale ,
entra essa stessa a far parte di un organizzazione maggiore, che è
l'organizzazione gentilizia , cosi anche la proprietà finisce per assumere
tante con figurazioni diverse, quanti sono i gradi di questa organizzazione
sociale. Ciò può scorgersi anche presso quei popoli, i quali sono recati come
esempio da quelli, che sostengono che nelle origini sa rebbe prevalso il regime
collettivo della proprietà , quali sarebbero le antiche comunanze dell'Oriente
e anche dell'Occidente, il cui ter sempre notare al LAVELEYE e con esso al
SUMNER MAINE che, finchè non sia provato che l'organizzazione patriarcale è
l'organizzazione veramente primitiva, non si potrà neppure sostenere che la
forma di proprietà , che trovasi durante l'organizzazione gentilizia , sia la
forma veramente primitiva . Quanto alla letteratura copiosa sull'argo mento,
può vedersi il dotto lavoro del VioLLET, Précis de l'histoire du droit
français. Paris, 1886 , pag. 481 e 482. L'autore ritiene, che la proprietà
privata e la collettiva possano essere ugualmente antiche, ma che nella origine
abbia avuta prevalenza la proprietà collettiva, mentre la proprietà individuale
sarebbe stata ristretta a qualche cosa mobile di uso esclusivamente personale.
Questa proprietà collettiva si sarebbe poi venuta frazionando ed avrebbe
assunto un carattere sempre più individuale, in quanto che la proprietà
famigliare e privata avrebbe prevalso su quella più estesa della tribù.
L'autore però non spiega , come ciò abbia potuto accadere,mentre il pas saggio
può invece essere seguìto presso i Greci ed i Romani. VIOLLET, op . cit., pag .
71 e 72. (1) V. SPENCER , Principes de sociologie, vol. III, Paris, 1883, pag .
717, ove egli parla « de la fausseté de la croyance mise en avant par certains
auteurs, à savoir que la propriété individuelle était inconnue aux hommes
primitifs » . - - 65 ritorio , secondo consuetudini antichissime, suole essere
ripartito in varie parti, di cui una viene ad essere assegnata alle singole fa
miglie ; l'altra è lasciata a prato ed a pascolo, ove i singoli capi di
famiglia possono pascolare un numero determinato di capi di be stiame; e
l'altra infine è considerata come proprietà della intera comunanza, ancorchè
sovra di essa continuino ancora ad esercitare certi diritti i singoli comunisti
(1). Or bene se la legge dell'evoluzione storica della proprietà è contenuta in
questi, che sono i suoi veri confini, credo di poter af fermare in base ai
fatti, che la storia della proprietà romana non solo non costituisce
un'eccezione alla medesima, ma è quella invece, che conserva le traccie più evidenti
di tale evoluzione. § 2. – La domus, il vicus ed il pagus e i loro rapporti
colle varie forme di proprietà . 52.Non è dubbio anzitutto , che presso i
Romani le sorti della pro prietà e quelle della famiglia procedettero
strettamente connesse fra di loro . Basterebbe a dimostrarlo il fatto, che il
Quirite, come si vedrà a suo tempo , entrò nella comunanza civile e politica
nella sua doppia qualità di capo di famiglia e di proprietario sopratutto del
suolo , e che nel diritto primitivo di Roma i poteri del capo di famiglia sopra
le persone e le cose si presentano così strettamente uniti fra di loro , che un
solo vocabolo , quello appunto di familia , comprende le une e le altre (2). A
ciò si aggiunge che è un prin cipio, costantemente applicato dai Romani, quello
per cui non può esi stere nè alcuno stadio di organizzazione sociale , nè
alcuna corpora zione anche di carattere sacerdotale senza che le debba essere
asse gnato un patrimonio , il quale, indicato col vocabolo generico di ager,
(1) V. LAVELEYE, op. cit., Chap . II, V , VI, come pure il SUMNER Maine,
Village Communities. London , 1872 ; Early history of institutions. London ,
1875. Early law and custom . London, 1883. (2 ) Questa è la significazione che
il vocabolo « familia > riceve nell'antico diritto, come lo dimostrano le
espressioni familia habere , emere, mancipio dare e simili. Che anzi essa
talvolta significa direttamente la proprietà, come può vedersi nella Lex latina
tabulae Bantinae. Le varie significazioni del vocabolo familia , coi testi che
loro servono di appoggio, possono vedersi nel Roby, Introduction to Justinian's
Digest. Cambridge, 1884. Notae ad Tit. « de usufructu » , pag. 48, vº Familiae.
G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 5 - 66 può essere chiamato , secondo
i casi, ager privatus, gentilicius, compascuus, publicus, communis, peregrinus
e simili (1). Ciò prova fino all'evidenza , che il Romano primitivo, allorchè
si presenta nella storia, ha già il concetto profondamente radicato , che non
possa quasi esservi la famiglia senza una proprietà , che le serva di sede e le
fornisca i mezzi di sostentamento , e che questo con cetto fu da esso applicato
a tutte le altre corporazioni, le quali tutte furono primitivamente modellate
sulla famiglia . Non è quindi pos sibile il sostenere, che la proprietà privata
o meglio famigliare possa , presso i Romani, considerarsi come una creazione
dello Stato, ma conviene necessariamente ammettere che fosse conosciuta già
prima, se appena fondato lo Stato, il primo atto che esso compie , secondo la
tradizione, è quello di assegnare una proprietà ai singoli capi di famiglia. È
questo il motivo per cui anche qui, per comprendere l'istituto della proprietà
quale comparisce in Roma, conviene cer carne l'origine presso le genti, fra cui
Roma si è formata . Vero è che sono pochissime le vestigia veramente genuine,
che ci riman gano dello stato di cose, che esisteva anteriormente a Roma ; ma
tuttavia anche con pochi frammenti non è impossibile la ricostru zione di
questa condizione anteriore, quando si tenga conto del pro cesso costantemente
seguito dai Romani, anche nel periodo storico , che è quello di trasportare nel
periodo seguente i concetti e le istituzioni, che ebbero ad elaborarsi nel
periodo anteriore. 53. Intanto un primo sussidio può aversi in questo carattere
del l'organizzazione gentilizia , per cui essa, a misura che giunge a produrre
un nuovo gruppo, che si sovrappone e si intreccia al pre cedente , viene ad
essere naturalmente condotta a creare una sede esteriore, in cui il gruppo
stesso possa trovare il proprio svolgimento . Come più tardi la sede esteriore
della civitas è stata l'urbs (2 ) , così le sedi esteriori dei varii gruppi
gentilizii sembrano, presso le an tiche genti italiche, essere state indicate
coi vocaboli certo antichis simi di domus, di vicus e di pagus (3 ). (1) Cf.
De-RUGGERO, Enciclopedia giuridica italiana , vº Ager publicus-privatus. Vol.
I, Parte II“, pag. 604. ( 2) L'antichità di questi vocaboli è dimostrata dal
fatto, che già nel sanscrito si trovano i termini corrispondenti. Ciò può
vedersi nel Pictet, Origines Indo Européennes ; Paris, 1877, II, pag . 305 ,
come pure nel BRÉAL, Dict. étym . lat. ai vocaboli indicati. (3) Non vi è
dubbio , che tutti questi vocaboli già esistevano anteriormente alla - 67 Domus
è la sede del capo famiglia coi proprii figli e coi proprii servi, sede, che
può anche avere un cortile ed essere circondata da un piccolo orto e forse
anche da un piccolo ager, che uniti colla casa costituiscono un tutto , che con
un vocabolo non meno antico poteva es sere chiamato heredium da herus, od anche
mancipium , perchè di pendeva direttamente dalla manus del capo di famiglia,
intesa come la somma dei poteri al medesimospettanti, o infine anche familia ,
perchè comprendeva tanto i liberi quanto i seroi (1 ). Non vi ha poi dubbio che
è dalla domus, che si staccherà più tardi il concetto di domi nium e si capisce
anche che di questo dominium , il quale potrà poi acquistare una larghissima
estensione, la parte più sacra, più preziosa, quella , da cui il capo di
famiglia si separerà più a malincuore e che egli vorrebbe perpetuare nella
famiglia , continuerà sempre ad essere riposta in quel nucleo primitivo, che
costituiva l'heredium , e che nel diritto quiritario prese poi il nome di
mancipium . 54. La riunione poi delle abitazioni di diverse famiglie ,
provviste di un cortile e cinte da uno spazio , a somiglianza diquelle che
Tacito ci descrive presso i primitiviGermani (2 ), viene a costituire il vicus,
il quale di regola nella organizzazione gentilizia suole comprendere le
abitazioni delle familiae, che dividono il medesimo culto e appar tengono alla
medesima gente . Il vicus quindi ha ancora un carattere del tutto patriarcale e
si comprendono cosi le circostanze attestateci da Festo : che i vici si trovavano
di preferenza presso quei popoli, che non avevano ancora delle città , quali
erano i Marsi ed iPeligni;che essi erano stabiliti fra i campi (in agris); e
che se essi già avevano un luogo di mercato , non avevano però sempre un luogo,
dove si am ministrasse giustizia, nè sempre nominavano un magister vici, a
somiglianza del magister pagi, che ogni anno si nominava invece nel pagus (3).
Cid dimostra , che se il vicus poteva svolgersi formazione della comunanza, e
quindi dalla loro esistenza si può argomentare che dovevano pur conoscersi le
istituzioni, che con essi erano indicate. (1) Quanto alle domus familiaque è da
vedersi il numero stragrande dei passi raccolti dal Voigt, Die XII Tafeln , II,
pag . 6 e 7 , nota 2 . (2 ) TACITUS , Germania, XVI. (3) Festo , vº Vici, fa,
quanto al vocabolo di vicus, ciò che suol fare per ognialtro vocabolo, la cui
significazione siasi venuta trasformando, indica cioè le significazioni
diverse, che ilmedesimo ebbe ad assumere. Egli quindi esamina il vicus, finchè
trovasi ancora fra i campi (in agris), ed è a proposito di questo primo vicus,
che egli dice « sed ex vicis partim habent rempubblicam , et ius dicitur,
partim nihil eorum et 68 talvolta in guisa da prendere le proporzioni ed avere
le esigenze del pagus, nei casi ordinarii però era la sede di una comunanza
puramente gentilizia. Era poi naturale, che come le singole fa miglie in esso
avevano il proprio heredium , cosi anche il vicus, sede della gente , fosse
circondato dal proprio ager gentilicius, sul quale si potevano anche fare gli
assegni ai clienti (1 ). 55. Viene ultimo il pagus, ove esiste un sito per il
mercato , ma che contemporaneamente può anche servire per amministrarvi
giustizia , sito, che probabilmente può già essere chiamato forum (2),almodo
stesso che in esso già trovasi il magister pagi, dal cui nome ebbe a derivarsi
senza alcun dubbio quel vocabolo di magistratus, che tamen ibi nundinae
aguntur, negotii gerendi causa » ; poi trova il vicus nel seno degli oppida , e
dice che comprende « id genus aedificiorum , quae continentia sunt his oppidis,
quae itineribus regionibusque distributa inter se distant, nominibusque
dissimilibus discriminis causa sunt distributa » . Tuttavia , anche nella città
, il vicus indica ancora qualche cosa di privato, cioè quei vicoli privati, che
dànno accesso esclusivo ad abitazioni contigue. V. Bruns, Fontes, pag. 375. (1)
L'interporsi di un elemento estraneo nel seno del vicus era poi naturalmente
impedito da quella antica consuetudine romana, per cui il fratello vendeva al fra
tello, il vicino al vicino, il consorte al consorte. V. sopra pag. 30, nota 1.
Che poi esistesse veramente una proprietà spettante al vicus e destinata ad uso
comune degli abitanti di esso lo dimostrano certe iscrizioni, in cui il vicus
quale persona giuridica fa contratti di compra e di vendita, Corpus inscrip.
latin . I, 603; del resto anche il Digesto ammette il vicus a ricevere
donazionie legati. L. 73, 1 Dig. (30 , 1). È da vedersi, quanto ai vocaboli con
cui ebbe ad essere indicato il vicus nelle lingue Indo-Europee, il Pictet,
Origines Indo-Européennes, II, pag . 308. Quanto al con cetto del vicus e delle
vicinitas presso i Germani vedi il DENMAM W.Ross, Land holding among the
Germans. Boston , 1883 , pag. 46. (2) Il vocabolo di forum è uno di quelli, che
ci indica il processo col quale le genti latine, trovato una volta il vocabolo,
venivano trasportandolo a tutte quelle significazioni, che corrispondevano al
concetto ispiratore del medesimo. Noi sappiamo da Festo, che forum significd il
vestibolo di un sepolcro, ove convenivano i parenti per dare l'estremo saluto
al defunto. V. Bruns, Fontes, pag. 339; poi sappiamo da VARRONE, De lingua
latina , V , 145, che le genti latine « quo conferrent suas con troversias et
quae vendere vellent quo ferrent, forum appellarunt » ; infine l'abbre viatore
di VERRIO Flacco colla sua consueta diligenza ci dice che « Forum sex modis
intellegitur ; primo negotiationis locus ; alio, in quo iudicia fieri, cum
populo agi, contiones haberi solent; tertio cum is , qui provinciae praeest,
forum agere dicitur, cum civitates vocat et de controversiis earum cognoscit,
ecc .) Brons, loc. cit. Per tal modo il luogo di convegno per i parenti, che
piangono un defunto, viene col tempo a convertirsi nel sito , ove il magistrato
romano risolve le controversie fra le città ed i popoli. 69 servirà ad indicare
tutte le cariche della città . Nel pagus per tanto havvi già un accenno alla
vita civile, e quindi si può rite nere con certezza, che esso è già la riunione
di più vici e comprende il complesso delle abitazioni occorrenti per un'intera
tribù . Ciò del resto è dimostrato dal fatto , che le tribù rustiche di Servio
Tullio presero il nome di tanti pagi, che prima esistevano nella stessa
località . Così pure, nota il Lange , è dimostrato che il pagus Succusanus fu
sostituito dalla tribus Suburana, che è una delle quattro tribù urbane dello
stesso Servio, come pure vi sono iscri zioni, che parlano di un pagus
Aventiniensis e di un pagus lanicu lensis, nei quali nomi è anche degna di nota
la terminazione di essi, che è analoga a quella, con cui si indicano le
popolazioni, che com pongono le tribù (1). È poi anche naturale , che questo
pagus abbia pur esso un ager, certamente situato a maggiore distanza, perchè in
prossimità vi sono gli agri gentilicii, e che questo ager chiamisi compascuus,
e che comprenda talvolta eziandio , oltre il sito vera mente destinato per il
pascolo , anche delle siloae e dei saltus (2 ) . $ 3 . L'ager privatus,
gentilicius, compascuus. 56. Intanto da questa configurazione esteriore
dell'organizzazione gentilizia si può inferire che , almodo stesso che questa
venne forman dosi per una naturale sovrapposizione di varii gruppi, così anche
le varie forme di proprietà si vennero assidendo l'una sull'altra . L'ager (1)
LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 23. (2 ) Cfr . NIEBHUR, Histoire
Romaine, III, pag. 112. Del saltus è da vedersi la diffinizione di Elio GALLO
conservatasi da Festo , pº Saltus. I saltus potevano essere oggetto di
proprietà collettiva del pagus e della città , ed anche di proprietà privata .
È poi degno di nota, che il vocabolo saltus, allorchè già si venivano formando
i lati fondi permodoche, secondo Plinio , sei persone possedevanometà
dell'Africa (Hist. nat., XVIII, 7), finì per significare quegli immensi
dominii, posseduti da privati e soventi anche dall' Imperatore, sovra cui
dimorava una popolazione, di carattere pressochè colonico, che dipendeva più
dall'arbitrio del possessore o del suo procurator, che non dalle leggi
dell'Impero. Riguardo ad uno di questi saltus, situato appunto nell'Africa e
chiamato Saltus BURANITANUS, si scoperse di recente nel 1880 una importante
iscri zione, che contiene una petizione della popolazione del saltus
all'Imperatore. Fondan dosi su di essa l'ESMEIN , sostiene che in questi saltus
abbia cominciato a formarsi l'istituzione del colonato. — Mélanges d'histoire
du droit et de critique. Paris, 1886 , pag. 293 a 322. V. pure FUSTEL DE
COULANGES, Le colonat romain . Paris, 1885. - 70 si viene, per dir così,
atteggiando in tante guise, quanti sono i gruppi che si vengono sovrapponendo.
Presentasi anzitutto la casa (domus od anche tugurium , se nel con tado) colla
sua corte, coll'orto e col campicello attiguo, che appar tiene alla famiglia
nella persona del suo capo, e ne costituisce l'heredium , la familia , il
mancipium (1); ma siccome ogni capo di famiglia , oltre questa parte
sostanziale del suo patrimonio, può anche avere un capitale circolante,
composto di greggi e di armenti e di altre cose mobili, così è naturale , che
accanto al concetto dell'here dium si formi quello del peculium , accanto a
quello della familia quello della pecunia e accanto a quello del mancipium
quello del nec mancipium ; distinzione, che tornerà poi in acconcio per
spiegare a suo tempo la famosa divisione del diritto quiritario fra le
resmancipii e le res nec mancipii( 2).Che veramente questa forma di proprietà
già preesistesse alla comunanza romana viene ad essere provato da cid , che fin
dal primo formarsi di questa occorrono i concetti di herus, di heredium , di
heres, il qual ultimo vocabolo ha pur la stessa origine di herus e scrivesi
talvolta anche semplicemente eres, per guisa che anche questo vocabolo in
antico significava , se non il vero proprietario, al meno il comproprietario,
come lo prova la testimonianza di Festo , secondo la quale « heres apud
antiquos pro domino ponebatur » . Non vi ha poi dubbio , che con questi
vocaboli ha eziandio strettis sima attinenza il vocabolo di herctum o erctum ,
che significa ripar tizione da erciscere, donde proviene la denominazione
certamente antica dell'actio familiae erciscundae. Tuttavia, comegià si
accennd, è un costume antichissimo quello indicatoci dall'« ercto non cito » di
Aulo Gellio, la cui significazione letterale è, a mio avviso, quella di non
venire ad una pronta divisione e che indica il più antico dei con (1) Trovo
confermata la descrizione sovra esposta dell' heredium dal dottissimo lavoro,
di recente pubblicato dal Voigt, così benemerito degli studii sull'antica Roma,
col titolo , Die römischen Privataltertümer und römische Kulturgeschichte,
estratto dall' Handbuch der klassischen Altertumswissenschaft , pubblicato dal
Beck in Nördlingen , pag. 750 a 931. Quivi il Voigt, pag . 772, ritiene che
l'heredium com . prenda l'hortus, l'ager , la cohors o chors, il pomatum , più
tardi detto anche pomarium , e di più la casa, detta anche tugurium , che
comprende il granarium , il foenilium , il palearium ecc. Ivi poi si trova
citata tatta la letteratura sull'argomento, compresa anche la italiana , così
spesso trascurata . (2 ) Anche il Voigt, op. cit., pag. 782, sembra accostarsi
alla significazione qui attribuita al dualismo di familia pecuniaque, senza
però accennare alla correlazione, che sembra esistere eziandio fra heredium e
peculium ,mancipium e nec mancipium , 71 sorzii e delle società , che è quella
fra i fratelli e gli agnati, che lascia vano indivisa l'eredità ed il
patrimonio ( 1). Intanto la conseguenza viene ad essere questa , che i vocaboli
di mancipium e di manceps, quelli di familia e di pater familias rimontano
tutti al periodo gen tilizio, e segnano, insieme con herus ed heredium ,
l'atteggiamento diverso sotto cui poteva essere considerata la figura
molteplice del capo di famiglia . Diquesti vocaboli però quello che significava
meglio il potere giuridico del capo di famiglia era quello certamente di man
ceps e di mancipium , ed è questa forse la causa , per cui il vocabolo , che
prevarrà più tardi neldiritto quiritario sarà quello di mancipium , al quale
solo più tardi sottentrerà quello di dominium ex iure Qui ritium . 57. Non vi è
poi dubbio, che all'heredium ed all’ager privatus si sovrapponesse l'ager
gentilicius, che era quello spazio, non com preso negli heredia , che trovavasi
nei dintorni e nelle circostanze del vicus e ritenevasi come proprietà
collettiva della intiera gente. Era su quest'ager gentilicius, che potevansi
fare degli assegni ai clienti, i quali però non avevano una vera proprietà, ma
ritenevano e godevano le terre loro assegnate a titolo di semplice precario (
2). Dell'esistenza diquesto ager gentilicius e del modo di ripartirlo noi
troviamo ancora un esempio durante il periodo storico , in occasione della
venuta a Roma di Atto Clauso , e della sua gente. Questi veniva di Regillo per
porre la propria dimora nel territorio stesso di Roma, senza che vi siano
elementi nè per affermare nè per negare, che egli con ciò avesse rinunziato
all'agro gentilizio, che doveva certamente essere posseduto colà da una gente
che, come la Claudia all'epoca (1) Questa induzione, a cui già ebbi occasione
di accennare, parlando della familia omnium agnatorum , trova una conferma nel
diligente lavoro del POISNEL , Les sociétés universelles chez les Romains,
specialmente in quella parte ove si occupa del pri mitivo consortium , accennato
da Aulo Gellio, il quale avveravasi tra fratelli ed agnati, stante
l'indivisione del patrimonio .(Nouvelle revue historique de droit français et
étranger, 1879 , I, pag. 443 a 462). È anche degna di nota l'attinenza fra i vo
caboli di consortium e di consors con quello di sors, che dapprima indicava la
quota di eredità spettante a ciascuno. V. BRÉAL, Dict. étym . lat., vu Sors.
Ciò è anche con fermato dall'antica espressione di familia inercta nel
significato di indivisa , ricordata da Paolo Diacono 118, 8 . Cfr. in proposito
i passi citati dal Voigt, Die XII Ta feln , II, pag . 112, nota 18 . ( 2)
Festo, v° Patres. Tale è pure l'opinione dell'Esmein , Les baux de cinq ans en
droit romain . (Mélanges d'histoire de droit, Paris, 1886 , p. 222). - 72 della
sua venuta a Roma, avrebbe, secondo la tradizione, compresi ben cinque mila
clienti. Questo è certo, che dal momento che egli abbandonava la sua sede
originaria e veniva accolto nel patriziato romano, mediante la cooptatio , gli
fu dato un tale spazio di ter reno oltre l'Aniene, che egli potè assegnare due
iugeri in godimento a tutti i suoi clienti, oltre al che gli sarebbero ancora
rimasti 25 iu geri per sè e la sua gente . Questo assegno di territorio ,
mediante il quale fu la gente Claudia, chediede il nome a quella tribù rustica,
non impedi, secondo Dionisio, che fosse eziandio assegnato ad Atto Clauso un
sito nel circuito stesso di Roma, ove potesse abitare egli e la sua famiglia
(1). È facile il vedere, che qui occorrono i concetti tanto dell'heredium ,
quanto dell’ager gentilicius, e si ha pur anche la prova , che
nell'organizzazione gentilizia era alla stessa gensod al con siglio di essa ,
che si apparteneva di fare il riparto fra le singole famiglie ed anche gli
assegni ai clienti. Di qui deriva la conseguenza , che, fra le varie forme
della proprietà nel periodo gentilizio, quella che predomina sopra tutte le
altre è la proprietà della gente, ossia l'ager gentilicius; perchè almodo
stesso che è nella gens, che si formano le famiglie , cosi è pure dall'ager
gentilicius, che si ricavano gli heredia . Cosi pure è anche probabile che, in
mancanza di eredi suoi,i quali possono in certo modo essere considerati quali
comproprietarii dell'heredium , e in difetto eziandio di agnati prossimi, che
mantengano ancora indiviso l'asse paterno, questi heredia tornino all’ager
gentilicius, cioè alla sorgente stessa , da cui essi furono staccati. 58. Da
ultimo sonvi eziandio molti indizii dell'esistenza di una proprietà , che
consideravasi come spettante alla intiera tribù , e che prendeva il nome di
ager compascuus, di compascua,di pascua, presso le genti del Lazio piuttosto
dedite alla pastorizia , e di communia o communalia nell'Etruria (2 ). Pud
darsianzi, che un ager compascuus potesse esservi già nello stesso vicus, come
lo dimostrerebbe la def finizione di Festo : compascuus ager relictus ad
pascendum com muniter vicinis ; ma in ogni caso non vi ha dubbio , che questo
com . pascuus ager certo esisteva nel pagus e già dava origine ad una ( 1)
Dion., V , 40. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 283, 84 . (2) L'esistenza
di questi compascua è dimostrata da diversi passi, sopratutto di agrimensori.
Basti il seguente di FRONTINO: « Est et pascuorum proprietas, pertinens ad
fundos, sed in commune, propter quod ea compascua communia appellantur, qui
busdam provinciis pro indiviso » . Bruns, Fontes, pag. 334 . 73 specie di
pubblico reddito (vectigal), consistente nel contributo, che dovevano dare gli
abitanti, che ivi pascolavano i proprii greggi ed armenti, contributo , che
all'epoca romana viene poi ad essere indicato col nome di scriptura (1). Una
prova dell'esistenza di questi pascua e di ciò, che essi costituirono forse le
prime sorgenti di reddito pub blico, può ricavarsi da un testo prezioso di
Plinio , il quale, dopo aver detto che pecunia a pecude appellatur , cosa del
resto che è attestata da tutti gli antiquarii, aggiunge questo particolare im
portantissimo : etiam nunc in tabulis censoriis PASCUA dicuntur omnia , ex
quibus populus reditus habet, quia diu hoc solum vectigal fuerat (2 ); il che
vuol dire in sostanza , che i Romani, in questa parte conservatori come in
tutto il resto, finirono per indicare col vocabolo primitivo dei pascua, che
costituivano la proprietà collet tiva della tribù , tutta quella parte della
proprietà collettiva del po . pulus, ossia dell’ager publicus, da cui il popolo
stesso ricavava qualche reddito . Del resto l'esistenza di questo ager
compascuus sarebbe anche accennata in quel tradizionale riparto , che Romolo
avrebbe fatto fra i Ramnenses, quando aveva fondata la Roma Palatina, poiché
delle tre parti una sarebbe stata assegnata al Re ed al culto ; l'altra alle
singole famiglie e avrebbe costituito gli heredia ; e la terza sarebbe stata
appunto l'ager compascuus, che fu anche la prima forma di ager publicus, in cui
le genti patrizie, probabilmente de dite ancora in parte alla pastorizia,
potevano far pascolare i proprii greggi ed armenti (3 ). i 59. Credo che le
cose premesse dimostrino abbastanza : 1. Che, anche anteriormente alla formazione
della città , la proprietà già esi stesse in tante gradazioni, quanti erano i
gruppi, che entravano nella stessa organizzazione gentilizia , per modo che vi
era una proprietà privata o meglio famigliare , una proprietà gentilizia , e
una proprietà spettante alla comunanza della tribù ; 2º Che di queste varie
forme di proprietà , quella che predominava era la proprietà gentilizia ,
perchè da essa uscivano e ad essa ritornavano gli heredia , come poi erano
anche i capi di famiglia delle varie genti, che avevano il godimento dei
compascua ; nel che può forse trovarsi l'origine pro (1) NIEBHUR , Histoire
romaine, III, pag . 212 ; Voigt, Die römis. Privataltert., pag. 787 ; LANGE,
Histoire intér. de Rome, pag . 150. (2) Plinio , Hist. nat., 18 , 3, 11. (3) Dion.,
II, 7. Cfr. NIEBHUR, Hist. rom ., III, pag. 211. - 74 - babile di quel fatto
importantissimo nella storia di Roma, per cui le genti patrizie riputarono per
qualche tempo di avere da sole il diritto di occupare l'ager publicus, il quale
nella città non è che una tras formazione ed un ampliamento per mezzo della
conquista del primitivo ager compascuus (1); 3. Che queste varie formedi
proprietà nel periodo gentilizio si intrecciano insieme per modo, che si
vengono tempe rando e limitando scambievolmente per guisa, che il potere
giuridi camente illimitato del capo di famiglia sul proprio heredium nel co
stume gentilizio viene ad essere trattenuto da una quantità di tem peramenti,
che ne impediscono qualsiasi abuso per parte del capo di famiglia ; 4º Che quindi
anche quel potere, che più tardi fu affidato al pretore di interdire nel
iudicium de moribus quel padre di fa miglia che disperdesse i bona paterna
avitaque, dovette certamente rimontare alle consuetudini gentilizie e che
probabilmente appartenne al consiglio degli anziani della gens di frenare
queste dispersioni e prodigalità del capo di famiglia con un iudicium , che era
veramente de moribus e con una formola, che certo dovette essere analoga a
quella più tardi adoperata dal Pretore (2 ). S 4. – Di alcune questioni del
diritto primitivo attinenti alla proprietà gentilizia . 60. Le cose premesse
intanto ci mettono anche in condizione di poter risolvere in poche parole
alcune questioni grandemente agitate fra gli interpreti del diritto romano
primitivo . La prima di esse sta in vedere se gli antichi heredia , ossia quei
bina iugera, che Romolo avrebbe distribuito ai capi di famiglia e di cui
Varrone dice che erano così chiamati in quanto che heredem sequerentur, debbano
o non ritenersi inalienabili, e se i figli debbano considerarsi come com
proprietarii del patrimonio del padre. Senza occuparci per ora della
trasformazione, che subi l'heredium ossia la proprietà famigliare e (1) Questa
esclusione dei plebei dall'agro pubblico, almeno nei primi tempi della
Repubblica , è attestato da un testo di Nonio MARCELLO, riportato dagli Annali
di qualche autore più antico, « Quicumque propter plebitatem agro pubblico
eiecti sunt ,, Bruns, Fontes, pag. 391; il che è pur confermato da un passo di
Sallustio , Hist. I, 9: « regibus exactos servili imperio patres plebem
exercere, agro pellere » . (2) Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd., pag . 32, il
quale accenna per nota, che anche in Grecia vi era un' eguale sollecitudine per
i beni aviti. 75 privata colla formazione della città , noi possiamo perd
affermare con certezza ; lº che questo concetto dell'heredium esisteva già
anterior mente ed erasi naturalmente formato durante il periodo gentilizio; 2º
che l'heredium doveva potersi alienare dal capo di famiglia, perchè, se questa
alienazione non fosse stata possibile , non si comprenderebbe il concetto e
l'esistenza di un commercium , come pure non si compren derebbe l'esistenza
certo antichissima di un iudicium demoribus, di- a retto appunto ad impedire
l'imprudente e prodiga dispersione di questo patrimonio , che nel suo concetto
informatore era destinato ad essere trasmesso dai genitori nei figli e da
questi ai nipoti ; 3º che tuttavia questa alienazione, durante il periodo
gentilizio , dovette essere gover nata da solenni formalità e dovette forse
anche compiersi colla ap provazione o quanto meno colla testimonianza dei
notabili del vil laggio ; 4º che infine nella primitiva organizzazione
gentilizia i figli si riputavano comproprietarii sopratutto di quella parte del
patri monio paterno che costituiva l'heredium , il che sarebbe in certo modo
indicato dal vocabolo heres, che in antico avrebbe significato comproprietario
, e che posteriormente continuò a significare la mede sima cosa mediante
l'espressione più completa di heredes sui (1). 61. Insomma nel concetto
primitivo il padre è come custode e deten tore del patrimonio famigliare
nell'interesse suo e della sua prole. È questo probabilmente il motivo, per cui
non dovette nei primitempi di Romaavere nulla di ripugnante almodo dipensare e
diagire del tempo quel concetto giuridico del diritto quiritario primitivo ,
che ora a noi appare cosi ostico e pressochè inesplicabile, per cui tutto ciò
che ap. partiene od è acquistato dalla moglie, dai figli, dai servi, finisce
per essere considerato come di spettanza del padre e tutto ciò, che essi
stipulano od acquistano, deve in certo modo ritenersi fatto per conto e
nell'interesse del capo di famiglia . Questo concetto infatti, mentre indica
l'unificazione potente della famiglia romana sotto l'aspetto giuridico, prova
eziandio la comunione ed intimità di vita, che do veva esistere nel costume
della medesima ; comunione ed intimità di cui il diritto non si occupa , perchè
non doveva occuparsene, ma che sono largamente attestate da tutti gli
scrittori, che richia (1) Ciò è anche confermato dalla nota proposizione di
Gaio, II, 157: « Qui quidem heredes sui ideo appellantur, quia domestici
heredes sunt et vivo quoque parente quo dammodo domini existimantur » . 76 mano
la memoria della primitiva famiglia , governata dal mos pa trius, ac disciplina
(1). Ad ogni modo la conseguenza ultima della nostra ricerca è questa, che, se
gli heredia erano alienabili allorchè l'individuo era ancora legato nei vincoli
strettissimi dell'organizza zione gentilizia , per maggior ragione dovettero
esser tali, quando egli venne ad essere libero cittadino di una libera città .
62. Intanto se si ammette che nell'organizzazione della proprietà nel periodo
gentilizio la forma prevalente è quella della proprietà gentilizia, in quanto
che essa da una parte origina la proprietà pri vata e famigliare e dall'altra
si estende al godimento della proprietà collettiva della tribù, è facile il
dedurne la conseguenza , che il sistema di successione, allora introdotto dal
costume e che fini col tempo per cambiarsi in successione legittima, dovette
proporsi essenzial mente per iscopo di mantenere e perpetuare la proprietà
nella gente con impedire che la medesima potesse passare ad estranei. Si com
prende pertanto , che in base al costume gentilizio la proprietà vada ai figli
, che ne sono comproprietarii, ed anche agli agnati prossimi, finchè essi
mantengono indiviso il patrimonio paterno, ma appena questi manchino, dovranno
succedere i gentiles e questi non indivi dualmente, come alcuni credono, ma
collettivamente in quanto cioè formano la comunanza gentilizia . Ed il motivo è
questo , che se la legge di una città pud favorire il riparto immediato fra gli
eredi, il co stume invece di una comunanza gentilizia favorisce invece per quanto
esso può l'ercto non cito , come dicevano gli antichi Romani, cioè
l'indivisione e la comunione dei patrimonii; perchè essa mira , non a favorire
lo svolgimento dell'individualità del capo di famiglia , ma a rendere compatto
per quanto è possibile il gruppo, in cui gli individui vengono ad essere
pressochè assorbiti. Parimenti è certo incontrastabile , che la successione,
quale com pare nei primitivi tempi di Roma e quale esisteva anteriormente , non
ammetteva nè distinzioni di primogenitura , nè distinzioni di sesso , quanto
alle persone che erano chiamate a succedere ; ma si può anche (1) Cic., Cato
maior, 11, 37, parlando di Appio Claudio il cieco scrive: « Quatuor robustos
filios, quinque filias, tantam domum , tantas clientelas Appius regebat et caecus
et senex ... Tenebat non modo auctoritatem , sed etiam imperium in suos ;
metuebant servi, verebantur liberi, carum omnes habebant; vigebat in illa domo
mos patrius ac disciplina o . - 77 - essere certi, che il costume dovette
certamente dirigersi costantemente , se non a favorire il primogenito, almeno
ad impedire, che si venisse alla divisione del patrimonio, ed anche ad evitare,
che le femmine colla libera disposizione della parte di sostanza , che loro
apparteneva , potessero compromettere gli interessi della gente . Ciò infatti
viene ad essere comprovato dalla tutela perpetua , a cui le donne erano
soggette per parte degli agnati ; tutela che aveva sopratutto lo scopo di
sottrarre alle femmine la libera disposizione delle proprie cose , e che col tempo
diventò per modo odiosa, che esse, aiutate dai giu reconsulti, trovarono modo
di sottrarvisi mediante quell'espediente giuridico , di carattere eminentemente
romano, che è la coemptio fiduciaria (1) 63. Quanto alle istituzioni
dell'adrogatio e del testamentum , non può esservi dubbio , che esse dovettero
certamente esistere nel costume antico dei maggiori, anche anteriormente alla
formazione di Roma, in quanto che esse sono istituzioni, che compariscono
compiutamente formate , come appare da ciò che le XII tavole , nei frammenti a
noi pervenuti, non parlano dell'adrogatio e quanto al testamento non fanno che
confermare una istituzione preesistente. Di più era ben naturale , che il
concetto dell'una e dell'altro dovessero presentarsi naturalmente a capi di famiglia
, che da una parte erano tutti in tesi al culto dell'antenato e dall'altra
erano fissi nel pensiero di perpetuarsi in una posterità , che continuasse il
proprio culto genti lizio. Istituzioni quindi, come l'adrogatio e come il
testamento, erano acconcie e indispensabili ad una organizzazione come la
gentilizia , ma intanto cosi l'una che l'altra non potevano nella medesima ser
vire come mezzo per soddisfare ad un affetto o ad una predilezione capricciosa
, ma dovevano avere l'unico scopo di provvedere alla per petuazione della
famiglia e del suo culto (2 ). (1) Questa coemptio fiduciaria, in virtù della
quale la donna passa in manu di una persona che non diventa marito di lei,
nell'intento solamente di farsi manomet tere da lui per essere liberata dalla
tutela degli agnati, è ricordata da Gaio, I, 137. Fu questa coemptio, che fece
dire a CICERONE, pro Murena, 12, 27, che i tutori, anzichè essere i protettori
delle donne, si erano cambiati in un mezzo per liberarle da ogni tutela . (2)
Cfr. MUIRHEAD, op . cit., pag . 45 e 46. Potrà sembrare poco logico, che io qui
discorra , trattando della proprietà , anche dell'adrogatio, che ha piuttosto
rapporti coll'organizzazione della famiglia, ma ho creduto di poterlo fare in
quanto anche l'ad rogatio mira a fare in guisa che il capo famiglia abbia un
erede, che ne perpetui 78 64. Questo carattere è incontrastabile per ciò , che
si riferisce al l'antica adrogatio, la quale era una istituzione gentilizia ed
aveva in certo modo per intento di perpetuare una famiglia ed un culto , che
sarebbero andati perduti per difetto di prole maschile, togliendo da un'altra
famiglia l'elemento che in questa sovrabbondava. Trattavasi quidi un vero
affare di stato e quindi, se si debba giudicare dalle for malità, che furono
poscia seguite dal patriziato nella comunanza ro mana (dove per compiere
un'adrogatio volevasi, comeper una legge, l'intervento dei pontefici e
l'approvazione del popolo radunato in curie ) conviene certamente inferirne,
che solennità non minori dovettero ri chiedersi nel periodo gentilizio. Se
questo trapianto dell'innesto di una famiglia sul ceppo sterile di un'altra si
operava fra le famiglie della stessa gente, poteva forse bastare l'approvazione
del consiglio della gente , ma se seguiva invece fra famiglie, non appartenenti
alla stessa gente ma alla stessa tribù, doveva certo esservi l'approvazione dei
padri delle tribù. 65. La cosa invece potrebbe lasciar luogo a qualche dubbio
per ciò che si riferisce al testamento , ma se si considera , che in so stanza anche
il testamento patrizio in comitiis calatis, cioè davanti all'assemblea delle
curie, compievasi con formalità del tutto analoghe a quelle proprie
dell'adrogatio, converrà inferirne ,che lo spirito infor matore del testamento
in questo periodo gentilizio doveva essere del tutto analogo a quello , che
ispirava l'adrogatio . Il testamento per sua natura è tale che, come può essere
un mezzo per far valere, dopo la propriamorte, l'impero di una volontà
arbitraria , così può anche es sere ilmezzo per impedire, che si avveri fra gli
eredi quella riparti zione e quell'uguaglianza di parti, che può essere
introdotta o dalla legge o dalla consuetudine. Ora è certo , che la successione
invalsa nel periodo gentilizio , secondo cui succedevano prima i figli, poi gli
agnati prossimi, e infine la gente collettivamente considerata era bensi già
intesa a conservare il patrimoniu nella gente, ma intanto aveva an cora due
inconvenienti dal punto di vista gentilizio . L'uno di essi con sisteva nel
diritto , che i figli avevano di venire ad una ripartizione immediata dell'asse
paterno in porzioni uguali, divisione che face i sacra , e in ciò ha
un'attinenza anche col testamento. Di più in questo periodo la proprietà e la
famiglia sono ancora strettamente connesse fra di loro, per modo che non può
essere il caso di scindere affatto le istituzioni che le riguardano . 79 vasi
per stirpi e non per capi, e l'altro era quello dell'uguaglianza fra maschi e
femmine, il che faceva si, che ana femmina, passando a matrimonio, sottraesse alla
famiglia una parte del patrimonio uguale a quella di un maschio . Queste
conseguenze, che sono per noi da approvarsi, non potevano sembrare tali a capi
di famiglia , che miravano sopratutto a conservare integro il patrimonio e a
perpe tuarlo come tale nella famiglia . Si può quindi essere certi, che i capi
di famiglia, che si ispiravano a questo concetto e che nel fare testamento
dovevano anche avere l'approvazione degli anziani, che pure avevano la stessa
tendenza, non potevano certamente servirsi di esso per sottrarre la loro
sostanza alla famiglia od alla gente. Essi invece dovevano servirsene o per
impedire la pronta ripartizione del patrimonio , usando le antiche parole «
ercto non cito » – o per accentrare per la maggior parte il loro patrimonio in uno
soltanto dei figli, – o infine per scemare la quota spettante alle femmine,
come quella , che doveva essere riguardata come una sottrazione fatta al
patrimonio vero della famiglia perpetuantesi nella linea mone della famiglia e
del suo culto (2 ). (1) Questa coemptio fiduciaria, in virtù della quale la
donna passa in manu di una persona che non diventa marito di lei, nell'intento
solamente di farsi manomet tere da lui per essere liberata dalla tutela degli
agnati, è ricordata da Gaio, I, 137. Fu questa coemptio, che fece dire a
CICERONE, pro Murena, 12, 27, che i tutori, anzichè essere i protettori delle
donne, si erano cambiati in un mezzo per liberarle da ogni tutela . (2) Cfr.
MUIRHEAD, op . cit., pag . 45 e 46. Potrà sembrare poco logico, che io qui discorra
, trattando della proprietà , anche dell'adrogatio, che ha piuttosto rapporti
coll'organizzazione della famiglia, ma ho creduto di poterlo fare in quanto
anche l'ad rogatio mira a fare in guisa che il capo famiglia abbia un erede,
che ne perpetui 78 64. Questo carattere è incontrastabile per ciò , che si
riferisce al l'antica adrogatio, la quale era una istituzione gentilizia ed
aveva in certo modo per intento di perpetuare una famiglia ed un culto , che
sarebbero andati perduti per difetto di prole maschile, togliendo da un'altra
famiglia l'elemento che in questa sovrabbondava. Trattavasi quidi un vero
affare di stato e quindi, se si debba giudicare dalle for malità, che furono
poscia seguite dal patriziato nella comunanza ro mana (dove per compiere
un'adrogatio volevasi, comeper una legge, l'intervento dei pontefici e
l'approvazione del popolo radunato in curie ) conviene certamente inferirne,
che solennità non minori dovettero ri chiedersi nel periodo gentilizio. Se
questo trapianto dell'innesto di una famiglia sul ceppo sterile di un'altra si
operava fra le famiglie della stessa gente, poteva forse bastare l'approvazione
del consiglio della gente , ma se seguiva invece fra famiglie, non appartenenti
alla stessa gente ma alla stessa tribù, doveva certo esservi l'approvazione dei
padri delle tribù. 65. La cosa invece potrebbe lasciar luogo a qualche dubbio
per ciò che si riferisce al testamento , ma se si considera , che in so stanza
anche il testamento patrizio in comitiis calatis, cioè davanti all'assemblea
delle curie, compievasi con formalità del tutto analoghe a quelle proprie
dell'adrogatio, converrà inferirne ,che lo spirito infor matore del testamento
in questo periodo gentilizio doveva essere del tutto analogo a quello , che
ispirava l'adrogatio . Il testamento per sua natura è tale che, come può essere
un mezzo per far valere, dopo la propriamorte, l'impero di una volontà
arbitraria , così può anche es sere ilmezzo per impedire, che si avveri fra gli
eredi quella riparti zione e quell'uguaglianza di parti, che può essere
introdotta o dalla legge o dalla consuetudine. Ora è certo , che la successione
invalsa nel periodo gentilizio , secondo cui succedevano prima i figli, poi gli
agnati prossimi, e infine la gente collettivamente considerata era bensi già
intesa a conservare il patrimoniu nella gente, ma intanto aveva an cora due
inconvenienti dal punto di vista gentilizio . L'uno di essi con sisteva nel
diritto , che i figli avevano di venire ad una ripartizione immediata dell'asse
paterno in porzioni uguali, divisione che face i sacra , e in ciò ha
un'attinenza anche col testamento. Di più in questo periodo la proprietà e la
famiglia sono ancora strettamente connesse fra di loro, per modo che non può
essere il caso di scindere affatto le istituzioni che le riguardano . 79 vasi
per stirpi e non per capi, e l'altro era quello dell'uguaglianza fra maschi e
femmine, il che faceva si, che ana femmina, passando a matrimonio, sottraesse
alla famiglia una parte del patrimonio uguale a quella di un maschio . Queste
conseguenze, che sono per noi da approvarsi, non potevano sembrare tali a capi
di famiglia , che miravano sopratutto a conservare integro il patrimonio e a
perpe tuarlo come tale nella famiglia . Si può quindi essere certi, che i capi
di famiglia, che si ispiravano a questo concetto e che nel fare testamento
dovevano anche avere l'approvazione degli anziani, che pure avevano la stessa
tendenza, non potevano certamente servirsi di esso per sottrarre la loro
sostanza alla famiglia od alla gente. Essi invece dovevano servirsene o per
impedire la pronta ripartizione del patrimonio , usando le antiche parole «
ercto non cito » – o per accentrare per la maggior parte il loro patrimonio in
uno soltanto dei figli, – o infine per scemare la quota spettante alle femmine,
come quella , che doveva essere riguardata come una sottrazione fatta al
patrimonio vero della famiglia perpetuantesi nella linea maschile . Si può
quindi conchiudere, che per lo genti patrizie il testamento non dovette
certamente essere un mezzoper. disporre liberamente e a capriccio delle proprie
cose, come fu poi il testamento nel di ritto quiritario ; ma dovette servire
alle medesime per conseguire quello scopo , che anche oggi si propongono bene
spesso i capi delle famiglie, anche non patrizie ma solo ricche ed agiate,
allorchè , dettando il loro testamento , cercano d'accentrare la loro fortuna
in una od in poche persone, nell'intento di assicurare ciò che con linguaggio
antico e moderno suole essere chiamato il decoro e la dignità della famiglia .
66. Pervenuto a questo punto, parmi di aver dimostrato in un modo, che avendo
convinto me potrà forse anche persuadere gli altri, che le genti patrizie ,
anche anteriormente alla formazione della città , già conoscevano una proprietà
privata , attribuita al capo di famiglia . Ciò perd non toglie, che
quest'ultimo fosse ben lontano dall'avere quella libera disposizione delle
proprie cose per atto tra vivi e per testamento , che trovasi invece
riconosciuta senza alcun confine nel diritto quiritario, e ciò perchè lo
spirito dell'organizza zione gentilizia si informava tutto all'intendimento di
serbare in tegro il patrimonio alla famiglia, ancora indivisa, degli agnati dap
prima e in mancanza di essa alla gente. Come dunque potrà essersi operata presso
un popolo , di spirito 80 così eminentemente conservatore, una trasformazione
cosi radicale nel carattere della proprietà da cambiare la medesima di
proprietà gentilizia in quiritaria , allorchè esso passò dal periodo gentilizio
alla convivenza civile e politica ? Ecco il gravissimo problema, al quale non
credo che siasi data ancora una soddisfacente risposta , a causa del l'idea
universalmente accolta sull'autorità delNiebhur e del Mommsen , che lo Stato
romano siasi formato mediante la fusione e l'incorpo razione di varie genti e
tribù. Secondo questi autori infatti, lo Stato costituendosi avrebbe in certo
modo incorporato in sè la proprietà gentilizia , cambiandola cosi in territorio
nazionale, e sarebbe poi addivenuto al riparto di una parte di esso a favore
dei singoli capi di famiglia, ritenendo il restante come ager publicus. Fra gli
au tori, che trattarono largamente e di recente il gravissimo tema, mi limito a
citare il De-Ruggero, come quegli che riassume nettamente la opinione
universalmente seguita . Egli, dopo di aver premesso che prima della formazione
dello Stato esisteva soltanto la proprietà col lettiva o gentilizia, la quale
apparteneva alla gens e non alle sin gole famiglie , viene alla conclusione
seguente : « Fondatosi quindi « il comune e lo Stato con la unione di più
genti, esso sarebbe « divenuto , come la gente stessa nel periodo della sua
autonomia, « proprietario del territorio generale di tutte le genti romane,
cioè * del territorio nazionale. E come la gens lascia alle sue singole «
famiglie la coltivazione e l'uso di alcuni terreni ( fundi), rima « nendo gli
altri proprietà comune ; cosi anche lo Stato lascia ai privati una parte del
territorio come proprietà (adsignatio ro « mulea) e ritiene per sè un'altra
parte destinata a tutta la citta « dinanza (ager publicus) » ( 1). Di fronte ad
una teoria così recisa, conforme del resto alla opinione generalmente seguita ,
mi sia lecito osservare , che anzitutto non è provato , che prima della
formazione dello Stato non vi fosse che la proprietà gentilizia , e che la
gente non lasciasse alle famiglie, che la coltivazione e l'uso di alcuni ter
reni. I vocaboli certamente preesistenti di herus, heres, heredium , che senza
alcun dubbio si applicavano al capo di famiglia, provano invece che il concetto
di una proprietà privata già preesisteva fra (1) DE- RUGGERO, V° Ager
publicus-privatus, nella Enciclopedia giuridica italiana , vol. I, parte 2*,
pag. 604. Del resto queste sono le idee che l'autore aveva già sostenute
nell'opuscolo La gens avanti la formazione del comune romano, Napoli, 1872, e
che stanno pure a base del suo dotto ed interessante articolo sulle Agrariae
leges nella stessa Enciclopedia giuridica italiana . 81 le genti del Lazio ;
poichè se così non fosse stato non sarebbesi trovata la parola già preparata ed
acconcia per indicare gli assegni fatti ai capi di famiglia , e gli assegni si
sarebbero fatti alle genti, alle tribù e non ai singoli capi di famiglia , o
meglio a ciascun individuo, che seguiva Romolo nella sua intrapresa. Viha di
più , ed è che, tenendo conto del carattere delle genti latine, in cui l'idea
del mio e del tuo presentasi in ogni tempo cosi profondamente radicata , non
può essere probabile che le gentes e le tribù , che potevano essere ed erano in
effetto in condizioni disuguali quanto ai loro possedimenti, come continuarono
ancora ad esserlo dopo , si siano contentate dimettere tutto in comune,
malgrado la loro origine diversa , per starsi paghe ai bina iugera, assegnati
da Romolo. Si aggiunge, che se tutta la fortuna del pa triziato primitivo
Ramnense si riducesse soltanto ai due iugeri, non si saprebbe veramente
comprendere come la medesima potesse bastare per la famiglia coi servi e coi
clienti. Del resto non consta , che siavi veramente alcun autore antico , che
accenni a questa specie di societas omnium bonorum , per cui si sarebbero messi
in comune tutti gli agri gentilicii. Noi sappiamo soltanto, che Romolo , in
base ad un costumetradizionale fra le genti latine, che doveva già esistere
prima e che fu applicato anche più tardi in occasione dell'impianto di colonie,
divise il territorio da lui occupato in parte fra i proprii seguaci, mentre
un'altra parte ritenne per sè e per ilculto , ed un'altra riservò a titolo di
pascolo comune. Intanto perd le varie genti, che parteciparono alla fondazione
della città , dovettero continuare a te nere i proprii agri gentilicii, come lo
dimostra il fatto , che anche all'epoca di Servio Tullio le varie tribù
rustiche continuarono a prendere il nome da quelle genti patrizie , che
dovevano avere più larghi possessi nel territorio delle medesime. Vi ha di più
, ed è che la tradizione accenna a due testamenti, fatti durante il regno
stesso di Romolo , a favore del popolo Romano, coi quali questo avrebbe
ereditato dei campi presso Roma, ed anche quello stesso campo Marzio ,che
avrebbe poi costituito il primo nucleo dell'ager publicus; fatti e tradizioni
queste, che sarebbero del tutto incomprensibili, quando lo Stato romano nella
propria formazione fosse diventato il proprietario di tutti i territorii
gentilizii, e li avesse poi distribuiti ai singoli privati (1) . Inoltre se
Romolo , come dicesi, avesse imitato (1) I testamenti, a cui qui si accenna ,
sono quelli ricordati da Aulo Gellio, Noct. Attic., VII, 7, 4 , 6, e che egli attribuisce
l'ano ad Acca Laurenzia, la quale fino G. CARLE , Le origini del diritto di
Roma. 6 82 il sistema gentilizio, i capi di famiglia avrebbero dovuto soltanto
avere la coltivazione e l'uso dei fondi loro assegnati, mentre la pro prietà
avrebbe dovuto spettare alle genti; e ciò mentre noi sap piamo, che non vi fu
mai proprietà più assoluta, che la proprietà quiritaria fin dai proprii inizii.
Del resto convien dire, che l'opinione, di cui si tratta, è per sè una
conseguenza logica ed inesorabile del rite nere col Mommsen, che Roma primitiva
sia risultata dall'incorpora zione e fusione delle varie genti e tribù ; poichè
è naturale che con un tale sistema lo Stato avrebbe dovuto incorporare ogni
cosa nelle proprie mani e farne poi il riparto ai singoli capi di famiglia .
Solo sarebbe a spiegarsi come lo Stato, creando esso la proprietà fami gliare e
privata , l'avesse costituita senz'altro cosi illimitata , senza confini e
senza alcuna sua ingerenza , quale appare essere stata la proprietà quiritaria
. Tutte queste incoerenze invece scom pariscono quando si ritenga che il comune
romano, a somiglianza delle altre città latine, sul cui modello era costituito
, non assorbi nè le tribù, nè le genti, nè le famiglie, ma intese solo a
costituire fra di esse un centro di vita pubblica, e non distribui quindi ai
privati altre terre, salvo in parte quelle , che da esso furono conquistate sul
nemico. Quanto alla divisione dell'agro fra le tre tribù , a cui ac cenna
Varrone, la medesima non potè essere che una divisione pu ramente
amministrativa, con cui si riconobbe alle varie tribù la parte del territorio ,
che già loro apparteneva, prima che entrassero a far parte della stessa
comunanza. Di qui la conseguenza, che la proprietà quiritaria , ed anche la
famiglia, con cui essa appare stret tamente congiunta , non possono essere che
quella proprietà e quella famiglia , che già esistevano nell'anteriore
organizzazione gentilizia , salvo che le medesime, staccate dall'organizzazione
stessa , apparvero con un carattere di assolutezza, che prima era temperato
dall'am dall'epoca romulea avrebbe lasciato allo Stato certi campi siti presso
Roma, e da lei ereditati dal proprio marito ; e l'altro alla vestale Gaia
Taracia , che avrebbe lasciati al popolo romano tutti quei campi presso il
Tevere, che presero poscia il nome di Campus Martius, dove si radunarono più
tardi i comizi centuriati. Pongasi pure che i due racconti siano leggendarii;
ma essi certo hanno un fondo di vero ed indicano quanto meno, che'i cittadini
romani non hanno mai creduto che lo Stato fosse il proprietario di tutto il
territorio. I due testamenti sono anche citati dal De Rug GERO, V ° Ager
publicus privatus, nell'Enc. giur. it ., pag. 609 e 610. Devo però di chiarare
che questa divergenza di opinione nulla toglie alla stima che ho grandis sima
per l'autore, così benemerito per gli studi di diritto pubblico romano. 83
biente in cui si erano formate . La causa poi, per cui gli assegni di terre
furono fatti ai singoli capi di famiglia , o meglio ai singoli seguaci di Romolo
proviene da ciò che essi entrarono nella comu nanza non come membri delle genti
ma nella loro qualità di capi di famiglia , donde la conseguenza, che di fronte
alla nuova forma zione della convivenza civile e politica , mediante una
federazione fra le varie tribù , più non si trovarono di fronte che la
proprietà del capo di famiglia (ager privatus) e la proprietà dell'ente col
lettivo (ager publicus). Continuano però ancora sempre a mantenersi nel fatto
gli agri gentilizii, i quali però sono naturalmente destinati a scomparire, a
misura che si dissolve l'organizzazione gentilizia, in quanto che a costituire
il populus primitivo non entrano già i membri delle genti, come tali , ma
soltanto i capi di famiglia in quanto sono ad un tempo proprietariidi terre ;
il qual carattere del populus viene ancora ad accentuarsi maggiormente colla
costituzione Serviana, in base a cui ognuno partecipa ai diritti ed agli
obblighi di cittadino (munera), in proporzione del censo . Del resto si dovrà
più tardi ritornare su questa questione fonda mentale della storia primitiva di
Roma, e allora si avrà la più ampia dimostrazione, che questo e non altro fu il
processo seguito nella for mazione della città , e per conseguenza anche nella
formazione della famiglia e della proprietà, quali comparvero nel diritto
quiritario . § 5. – Sguardo sintetico allo svolgimento delle varie forme di
proprietà nel diritto romano. 67. Per ora intanto , prendendo le mosse
dall'ordine logico dei fatti e delle idee, che si vennero svolgendo fin qui,
cercherò di riassu mere logicamente e sotto forma di ipotesi quello svolgimento
del l'istituto della proprietà , che più tardi apparirà comprovato nell'or dine
dei fatti. Pongasi che una mano di uomini forti ed avventurosi, apparte. nenti
a genti diverse ma tutte di stirpe latina (nomen latinum ), si raccolgano
intorno ad un duce di stirpe regia e sotto la sua guida abbandonino la loro
residenza gentilizia , per recarsi a fondare uno stabilimento fortificato sul
Palatino. Essi, lasciando per ora in disparte il rito religioso seguito nella
fondazione, cominciano dall'occupare il suolo necessario per erigervi il loro
stabilimento, e cercano anche di fortificarsi in esso , per essere in caso di
difendersi dalle popola 84 zioni vicine, le quali, per appartenere forse a
stirpi diverse, non pos sono vedere di buon occhio quest'ospite novello e
pericoloso . Quanto al suolo conquistato ed occupato , è naturale che si
cominci dal ripar tirlo , secondo le regole tradizionali seguite dai maggiori e
che con tinueranno ad essere applicate anche più tardi nel fondare nuove
colonie (1). Del suolo quindi sono fatte tre parti: una è assegnata al loro
capo, al culto , ai publici edifizi ; l'altra è divisa fra i singoli capi di
famiglia in altrettanti piccoli heredia di due iugeri, i quali po tranno essere
ritenuti sufficienti quando si consideri, che questi capi di famiglia
continuano ancor sempre ad avere i loro agri gentilizi nei dintorni, e solo
abbisognano di uno spazio per costruirvi le loro case , con un cortile ed un orto
; e l'altra infine è lasciata a pascolo comune per i singoli capi di famiglia ,
che possono immettervi i proprii greggi ed armenti, pagando un corrispettivo
(scriptura), che costi tuirà il primo reddito pubblico . — Fin qui però noi non
abbiamo an . cora, che la tribù dei Ramnenses e lo stabilimento romuleo da essa
fondato sul Palatino . 68. Pongasi ora, che, in seguito ad ostilità seguite con
altre comu nanze stanziate sui colli vicini, gli uomini atti alle armi e abili
per consiglio di queste varie tribù , rappresentati dal proprio capo, con
vengano sotto forma di foedera, di entrare nella loro qualità di capi di
famiglia e di proprietarii di terre a far parte della stessa comunanza civile e
politica. È naturale allora, che il centro e la ( 1) Cfr. De RUGGERO, V ° Ager
pub. priv ., op. cit ., pag. 603 e 604 , ove considera appunto questo riparto
attribuito a Romolo « come una istituzione fondamentale romana che,
conservatasi nei tempi posteriori, poteva naturalmente essere attribuita ,
nella ricostruzione che si faceva posteriormente della storia e del diritto
primitivo di Roma, anche al fondatore e al legislatore di questo » . Ciò lascia
credere che l'autore vegga in questo riparto, che pur è attestato da tanti
autori e che d'altronde non ha nulla d'improbabile, in quanto che lasciò anche
le sue traccie nella centuria in agris e nel centuriatus ager, ricordati da
Festo e da VARRONE, una invenzione di tempi poste riori. Non mipare che siavi
motivo per un dubbio di questa natura, solo che si spieghi la formazione di
Roma primitiva, come veramente è accaduta . Che poi il centuriatus ager e la
centuria in agris non comprendessero tutto il territorio romano, nè tutto
l'ager romanus conglobando in esso anche gli agri gentilizi, ma solo la parte
di esso , che era conquistata sul nemico, risulta oltre che dalla definizione
datane da VARRONE e da Festo, anche da un testo di Siculo Flacco, citato dallo
stesso DE RUGGERO, vº Ager pub. priv., pag . 604, nota 1 : « Antiqui agrum ex
hoste captum victori populo per bina iugera partiti sunt. Centenis hominibus
ducentena iugera dederunt» . Cfr. NIEBHUR, Histoire romaine, III, pag. 329. -
85 fortezza dell'urbs si trasportino in un sito , a cui possano avere facile
accesso gli abitanti delle varie comunanze, quale sarebbe il sito, che è fra il
Palatino ed il Capitolino, il quale verrà così ad essere la comune fortezza e
servirà per la costruzione dei pubblici edifizi e sacri. È perd a notarsi, che
per eseguire un simile accordo , siccomei capidi famiglia entrano come tali nella
comunanza e non quali membri delle genti e delle tribù, così non sarà punto il
caso , che si mettano in comune gli agri gentilizii e i pascoli delle varie
tribù. Quindi se le genti e le tribù erano prima ricche ed agiate e possedevano
larghi spazii di suolo, sopra cui disperdevano i proprii servi e clienti,
continueranno ad essere tali e a poterlo fare anche dopo. Ciò che viene ad
essere comune fra di esse è soltanto l'urbs, in quanto essa comprende i pub
blici edifizii, i templi consacrati alle divinità , che la proteggono, non che
l'arx o fortezza , che serve per assicurare la comune difesa . Intanto , di
fronte a questa nuova specie di comunanza, teatro ed organo della vita civile,
politica e militare, non esistono che capi di famiglia proprietarii di terre e
quindi le sole istituzioni, che abbiano un'im portanza giuridica , politica e
militare negli inizii della città, sono la proprietà e la famiglia unificate
sotto il proprio capo . Pongasi ora, procedendo innanzi, che questa mano di
uomini forti raccolta in esercito entri in lotta con altre comunanze e che, in
virtù di un diritto delle genti universalmente riconosciuto, venga soggiogan
done le popolazioni e conquistandone il territorio; allora sarà na turale, che
questa comune conquista appartenga dapprima al popolo stesso e sia cosi
considerata come un ager publicus, che verrà con trapponendosi a quell'ager
privatus, che già prima apparteneva ai singoli capi di famiglia . Questo
infatti è il dualismo, che domina tutta la storia economica di Roma. 69.Però, a
misura che si accrescono le conquiste, l'ager publicus pud anche crescere
permodo da sopravanzare ai pubblici bisogni e quindi si comprende, che quelli,
che cooperarono alla sua conquista, ne do mandino la ripartizione almeno
parziale. Dapprima tali assegni sul l'agro pubblico (adsignationes viritanae)
sono fatti ai più poveri, i quali sono per tal modo posti in condizione di
avere quella pro prietà , che è riputata necessaria per partecipare alla
comunanza ; ma poscia , di fronte all'incremento sempre maggiore dell'ager pu .
blicus, si comincia anche a disporne in guisa diversa. Continua sempre ad
esservi una parte dell'ager , che è distribuita fra i più poveri della città e
fra quelli, che partono per fondare una 86 colonia, e si ha cosi l'ager adsignatus,
che serve per somministrare ai cittadini poveri quella proprietà , quel censo ,
quell'ager privatus censui censendo, che è ritenuto necessario per far parte
della vera cittadinanza. — Un'altra parte invece sarà venduta ai pubblici
incanti (ager quaestorius), o sarà data in affitto, mediante il pagamento di un
corrispettivo, detto scriptura (ager vectigalis). Il primo di questi continuerà
ad accrescere l'ager privatus, ma non più quello della classe povera, ma di
quella ricca ed agiata , che possiede già il ca pitale per acquistarlo ; ed il
secondo, quello cioè dato in affitto , finirà col tempo per dare origine a
quelle lunghe locazioni, che quasi si assomigliano a vere compre- vendite,
dalle quali uscirà poi una nuova forma di contratto, che è l'enfiteusi. Infine
dell'ager pu blicus pud ancora rimanervene una parte, la quale, o per essere
sterile o scoscesa (propter asperitatem ac sterilitatem ), non trovi compratori
nè affittavoli, o che il consiglio dei padri non abbia rite nuto opportuno di
mettere in vendita (1). Questa parte continua na turalmente ad appartenere
all'ager publicus e ancorchè immensa mente ampliata colle conquiste corrisponde
in certa guisa ai pascua o compascua , che esistevano nelle antiche tribù.
Quindi si comprende come i padri delle genti patrizie, memori ancora del
diritto che ave vano di slargare nei pascua i proprii greggi ed armenti
(compascere), affermino il loro diritto di occupare questa terra in certo modo
abban donata e di spargere in essa le tormedei clienti e dei servi ed anche dei
liberi, che siano alla loro mercede. Sorge per tal modo il concetto dell'ager
occupatorius, il quale, non essendo stato acquistato, non può certo essere
oggetto di proprietà privata , ma costituisce le cosi dette possessiones, le
quali, dopo essere durate per qualche tempo, acquistano un carattere pressochè
giuridico e dånno occasione di ( 1) Tutto questo processo ci è attestato dagli
agrimensori romani, dei quali sap piamo, che avevano grande autorità anche
nelle provincie. L'autore, che primo mise in evidenza l'importanza dei loro
scritti , fu il NIEBHUR, che loro dedicò una speciale dissertazione, che può
vedersi nell' Histoire romaine, IV , pag. 442 a 474. Ora poi sta preparando un
lavoro di lena sugli agrimensores i l prof. Biagio Brugi. Quanto alle
affermazioni, che sono contenute nel testo , sono esse abbastanza giustificate
da quegli estratti degli agrimensores, che sono raccolti dal Bruns, Fontes. Qui
infatti io non mi proponeva di entrare in particolari discussioni, ma bensì di
mettere in evidenza il processo , che i Romani ebbero ad applicare
costantemente nella distribuzione di un agro, che veniva crescendo colle loro
conquiste. 87 svolgersi alla protezione pretoria , la quale fa cosi entrare
nelius honorarium l'istituto giuridico del possesso (1) . 70. Intanto tutta
questa parte dell'ager publicus, che è cosi lasciata alla occupazione, viene ad
essere come una sottrazione alle ripar tizioni gratuite fra quelle classi
inferiori, che non hanno mezzi e capitali per tentare una occupazione, e che,
anche avendoli, non sa rebbero dal Senato autorizzati a farla , e quindi tra il
patriziato antico , a cui si aggiunge col tempo la nuova nobiltà plebea , e la
plebe minuta viene ad esservi una opposizione di interessi. Da una parte si ha
interesse a provocare nuovi riparti per impedire le occu pazioni e per limitare
le occupazioni stesse , che col tempo minac ciano di trasformarsi in latifondi;
e dall'altra parte ogni ripartizione, se riguarda terreni già occupati, appare
in certa guisa come una usurpazione di possessi lungamente durati, e se
riguarda terreni solo conquistati di recente, appare come una sottrazione a
quel diritto di occupazione, che il patriziato attribuisce a sè stesso . Di qui
le lotte intorno alle leggi agrarie, le trasformazioni del concetto ispiratore
delle medesime, e infine la insufficienza di esse per risolvere la grande
questione sociale dell'epoca , allorchè l'antico patriziato e la nuova nobiltà
plebea si strinsero insieme contro una plebe minuta, che già cominciava a cambiarsi
in una turba forensis , e che incapace di durare in lunghi e persistenti sforzi
già si era as suefatta a preferire alle conquiste legali gli spettacoli del
circo e le distribuzioni di frumento . (1) Con cid non intendo però di
ammettere l'opinione del Niebhur, del SAVIGNY e di altri, che farebbero nascere
il concetto della possessio coll'ager pubblicus. Io credo anzi, come dimostrerò
a suo tempo, che la possessio, come istituzione di fatto più che di diritto,
avesse origini ben più antiche, e che la medesima sia stata anzi il modo, con
cui i plebei occuparono le prime terre nei dintorni della città patrizia, il
che però non toglie che la prima tutela giuridica del possesso abbia anche
potuto cominciare colle possessiones nell'agro pubblico : cosicchè accade del
possesso, come di un grandissimo numero di altre istituzioni, che prima
cominciano ad esistere di fatto e solo più tardi entrano a far parte del
diritto civile di Roma. Che anzi, dacchè sono in quest'ordine di idee ,
aggiungerà ancora che il concetto dell'ager occupaticius già erasi formato
anche prima delle occupazioni del patriziato sull'ager publicus. Lo dimostra
Festo, vº Occupaticius, ove scrive: < occupaticius ager dicitur qui desertus
a cultoribus frequentari propriis, ab aliis occupatur ». (Bruns, Fontes, pag.
348, la qual deffinizione dimostra che anche fuori dell'ager publicus poteva
formarsi l'ager occupaticius, il quale perciò differisce dall'occupa torius. 88
71. Intanto è sempre da questo ager publicus, che ricavansi eziandio gli assegni,
che si sogliono fare alle colonie , alle città benemerite del popolo romano, e
infine alle stesse provincie. Trattandosi di colonie , questi esemplari di
stabilimenti che Roma crea a somiglianza di sè stessa , traendone la
popolazione dal proprio seno, si applica quel medesimo sistema, che si applica
per la popo lazione della città , il sistema cioè delle adsignationes
viritanae, fatte ad ogni capo di famiglia, ed hannosi così quegli agri, che gli
agrimen sori chiamano divisi et adsignati, i quali sono fuori di Roma una
imitazione di quegli assegni di piccoli heredia, che facevansi un tempo ai
cittadini poveri di Roma. Se trattisi invece di città benemerita , a cui il
senato e il popolo sovrano intendano di dare un segno di soddisfazione ed un
cor rispettivo ad un tempo per i servizii prestati, havvi l'ager mensura
comprehensus, il quale, essendo assegnato come proprietà collettiva ad una
città , non è determinato che nella sua generale misura. Infine se trattasi di
delimitare in modo almeno generico i confini del territorio di una popolazione
si ricorre alle indicazioni delle valli, dei fiumi, dei torrenti, delle grandi
strade, dell'acqua pen dente , a quelle indicazioni insomma, che in un periodo
ancora molto remoto serviranno poi ad indicare il territorio , che dalla natura
stessa sembra essere segnato ai singoli stati e alle nazioni, e si avrà così
quell'ager , che gli agrimensores chiamano arcifinius (1). Infine anche nelle
porzioni di agro pubblico , che sono vendute all'incanto o date in affitto (ager
quaestorius,ager vectigalis), pos sono esservidelle parti,che, per essere
scoscese o sterili, non possono trovare da sole nè compratori, nè affittavoli ,
e in allora questi siti si aggregano a quelli, che già furono venduti o a
quelli dati in af fitto « in modum compascuae » , il che significa che essi , a
somiglianza dei primitivi compascua, si ritengono appartenere per la proprietà
o per il godimento ai più vicini fra quelli, che hanno comprato od affittato
gli altri. Di qui la creazione di una specie di proprietà o dipossessione
privata , con pertinenze consistenti in pascoli accessorii, la cui proprietà e
il cui godimento possono dare occasione a ques tioni fra i giureconsulti per
vedere se , vendendosi od affittandosi il fondo principale senza parlare del
pascolo accessorio , anche questo debba ritenersi compreso nella vendita o
nell'affittamento , sul che (1) V. Frontinus, De agrorum qualitate et
condicionibus , lib. I, 1, 2 , 4 , 5 . BRUNS, Fontes, pag. 411. 89 i
giureconsulti risponderanno affermativamente, quando non consti dell'intenzione
contraria dei contraenti (1) . 72. Pongasi infine, e anche quest'ultima
supposizione è stata una realtà , che la piccola tribù del Palatino,mutatasi
poi nella città dei sette colli, divenga conquistatrice dell'universo allora
conosciuto, e quindi anche legislatrice del suo suolo; ma essa continuerà pur
sempre ad applicare, nel piccolo e nel grande, entro l'Italia e fuori di essa ,
nella proprietà e nel possesso , nel territorio italico e nel suolo pro
vinciale, quei concetti, che ebbe ad applicare nelle proprie origini, e che noi
abbiamo dimostrato essersi già preparati in un periodo anteriore alla
formazione stessa della città . Certo questi sono svolgimenti logici, che
precorrono la serie dei fatti, ancorchè siano fondati sopra di essi; ma non
sono inopportuni per mettere ordine in una materia , che le minute indagini
hanno tal volta resa intricatissima, e dånno anche un esempio sensibile del pro
cesso semplice, ma sempre logico e coerente , che Roma ebbe ad applicare non
solo nell'estendere il concetto della sua proprietà a tutto il territorio da
essa conquistato ,ma anche nell'estendere la sua cittadinanza e l'impero della
sua legislazione al mondo allora cono sciuto . Sono i grandi popoli che con
mezzi semplici e pressochè tipici applicati in proporzioni e in condizioni
diverse sanno conse guire i grandi effetti. È questo un esempio di quella
dialettica po tente e pressochè celata , che senza apparire negli scritti dei
giure consulti, i quali sembrano talvolta smarrirsi nei casi singoli e nelle
fattispecie , trovavasi tuttavia nei loro intelletti, ed era certo nella mente
del popolo da essi rappresentato . Più tardi non mancheranno le occasioni di
scorgere altre applicazioni di questo processo dialet tico , che, mentre non
appare allo sguardo, stringe però con una coerenza meravigliosa le parti più
disparate della giurisprudenza romana . (1) V. Higinus, 117. « In his igitur
agris quaedam loca , propter asperitatem aut sterilitatem , non invenerunt
emptores ; itaque in formis locorum talis adscriptio facta est in modum
compascuae ; quae pertinerent ad proximos quosque possessores, qui ad ea
attingunt finibus suis » . Bruns, pag. 414 . Frontinus poi, De controversiis
agrorum , soggiunge: « Nam et per haereditates aut emptiones eius generis
(pascuo rum ) controversiae fiunt, de quibus iure ordinario litigatur ». Bruns,
pag. 415. È da vedersi a proposito di tali controversie lo scritto del Brugi,
Dei pascoli acces sorii a più fondi alienati . Bologna, 1886 . 90 - CAPITOLO V.
I concetti fondamentali direttivi della vita pubblica e privata durante il
periodo gentilizio . § 1 . Sguardo generale all'argomento . 73. In una
organizzazione come quella che ho cercato di ricostruire, così nelle persone
che entravano a costituirla , che nei territorii che le servivano di sede,
sarebbe affatto fuor di luogo il ricercare delle norme direttive della vita
pubblica e privata , che potessero meritarsi il nome di leggi nella
significazione, che noi sogliamo attribuire a questo vocabolo. Ormai il lavoro
di secoli ha strettamente legato il vocabolo di legge e la significazione sua
propria alla convivenza civile e politica . Senza negare che un tempo l'uomo
abbia ricavato l'idea di una legge direttiva delle cose umane dalla
contemplazione dell'ordine, che governa l’universa natura, questo è certo che
il vocabolo di legge, nella sua significazione originariamente romana, che poi
fu adottata da tutti gli altripopoli, significa ormai« l'espressione di una
volontà collettiva, che si imponga alle singole volontà indi. viduali » . Esso
quindi suppone la distinzione fra l'ente collettivo ed i singoli, fra lo Stato
organo ed interprete della volontà comune eimembri che entrano a costituirlo .
È quindi inutile cercare delle leggi, nel senso proprio della parola, in
un'organizzazione, in cui lo stesso gruppo compie ad un tempo le funzioni
domestiche e le funzioni politiche, e nel quale pertanto non si può rinvenire
la di stinzione fra il tutto in sè e le parti, che entrano a costituirlo e
neppure quella fra la vita pubblica e la vita privata . 174. Siccome tuttavia
qualsiasi stadio di organizzazione sociale sup pone di necessità delle norme,
che lo governino, cosi noi possiamo indurre, che queste norme non dovettero
mancare nel periodo gen tilizio . Anzi si può anche aggiungere, che fra le
varie forme di or ganizzazione sociale quella , che tende più di qualsiasi
altra a strin gere in certe regole precise cosi i rapporti domestici, che
quelli della vita esteriore, è certo la comunanza gentilizia , la quale,
essendo esclusivamente fondata sulla eredità , finisce per trasmettere , di
gene razione in generazione, non solo il sangue degli antenati, non solo 91 il
patrimonio e il territorio da essi conquistato, ma anche il nucleo delle
tradizioni dei maggiori. Si aggiunge, che al modo stesso che le genti, fisse
nell'esempio dei proprii antenati, finiscono per mutarli in oggetto di culto ,
cosi anche le loro tradizioni tendono, non per impostura di uomini ma per un
naturale processo di cose umane, ad assumere un carattere sacro e religioso,
per cui qualsiasi atto anche meno importante finisce per acquistare una
significazione re ligiosa. È questa tendenza , cheha condotto tutte le
comunanze gen tilizie a diventare pressoché immobili e stazionarie, e che
avrebbe prodotto forse il medesimo effetto fra le genti italiche, come lo pro
dusse fra le genti indiane, che appartengono alla medesima stirpe , quando fra
esse non si fosse formato un nuovo focolare di vita, che fu quello che brucid
nel tempio di Vesta, cambiatasi in patrona della città (1) . Che anzi non
dubiterei di affermare, che quello stesso spirito conservatore , che appare in
Roma primitiva, sopratutto per parte del patriziato , non è che una
trasformazione di questa ten denza naturale delle comunanze gentilizie a
diventare immobili e stazionarie , quando sono pervenute a quel maggiore
sviluppo, che può comportare il principio informatore di esse . Dal momento in
fatti, che questa tendenza all'immobilità e a fare entrare ogni ele mento in
quadri precisi, determinati dal costume e consacrati dalla religione, male può
accomodarsi ad una città piena di vita , i cui elementi nuovi più non possono
ad un certo punto entrare nei quadri antichi, è ben naturale, che la tendenza
stessa riducasi a trapiantare nel nuovo terreno quanto più si possa dell'antico
ordine di cose ed a lottare per la conservazione di esso , come chi è pro
fondamente convinto di lottare per uno scopo religioso e santo . È questo culto
del passato, che contraddistingue le genti italiche (1) È abbastanza noto come
in quella guisa che la famiglia aveva per centro il focolare, che le serviva
anche di altare, così la città aveva pur essa un pubblico focolare nel tempio
di Vesta , la quale per tal modo di dea del focolare domestico venne a
cambiarsi in custode e patrona del focolare della città. Questo invece è da
essere notato, che le recenti scoperte intorno al locus Vestae hanno
dimostrato, come questo focolare si trovasse a piedi del Palatino presso il
Foro e fuori della Roma quadrata ; il che serve a provare sempre più, che la
vera città , di cui doveva essere centro il tempio di Vesta , non era già lo
stabilimento romuleo primitivo , ma bensì la città dei Quiriti, che risultò
dalla confederazione delle varie comunanze. In una casa poi attigua altempio di
Vesta dimorava, secondo la tradizione, il Re (domus regia Numae), il quale,
come custode della città, doveva pur trovarsi nel centro di essa . Cfr. LANGE,
Histoire intérieure de Rome, I, pag . 39. 92 dalle elleniche. Mentre queste
colla loro intelligenza acuta e pro fondamente critica, appena ebbero
analizzate le proprie tradizioni, rivestite anch'esse di carattere religioso ,
le abbellirono e trasforma rono colla propria fantasia e finirono per ridurle
in frantumi, la credula e religiosa Italia invece colla sua intelligenza più
tarda, ma colla sua volontà più tenace le conservo a lungo e potè cosi rica
varne tutto il succo vitale, che contenevasi in esse (1). 75. Questo intanto è
certo , che appena noi possiamo arrestare lo sguardo, non sulle gesta primitive
delle genti italiche, che solo più tardi furono argomento di storia , ma sul
linguaggio di esse e sulle traccie della loro civiltà , che sopratutto ci serbd
il culto per i tra passati, noi riconosciamo immediatamente , che tutte le loro
tradizioni, le cui origini sono celate in un remotissimo e misterioso passato ,
hanno già assunto un carattere sacro e religioso . Una religione, per nulla
immaginosa ed estetica come la ellenica, ma eminente mente pratica ed applicata
con cura minuta a tutte le emergenze della vita, ha già consacrato le basi
della organizzazione gentilizia , per modo che le genti italiche, sempre
occupate da divinità , che sovraintendono a ciascun atto della vita, cercano
con tutti i mezzi di riconoscere i segni della benevolenza o malevolenza
divina. Per gli atti della vita quotidiana questa volontà potrà essere indicata
anche dai piccoli incidenti della vita ;mentre per i fatti di importanza mag
giore per il gruppo, è la volontà del cielo, che deve essere consul (1) Osserva
giustamente il SUMNER Maine, L'ancien droit, pag. 72 « che mentre
l'intelligenza greca colla sua mobilità e la sua elasticità era incapace di
chiudersi nella stretta veste delle formole legali ; Roma invece possedette una
delle qualità più rare nel carattere delle nazioni, che è l'attitudine ad
applicare e a svolgere il diritto come tale, anche in condizioni non favorevoli
alla giustizia astratta, non scompagnata tale attitudine dal desiderio di
conformare il diritto ad un ideale sempre più elevato » . Del resto il primo,
che con occhio veramente acuto abbia scrutato le attitudini mentali diverse dei
Greci e dei Romani, è il nostro Vico, De uno et universo iuris principio et
fine uno. Proloquium . D'allora in poi il para gone non è più venuto meno. Lo
fanno gli storici, come il Mommsen, il LANGE ed altri; lo fanno parimenti gli
studiosi della giurisprudenza comparata, comeil MAINE, op. cit ., il Freeman,
Comparative politics, London , 1873, l'Hearn , Arian Household , London , 1879,
il IHERING, L'esprit du droit Romain . Per maggiori particolari in proposito
mirimetto al libro : La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale,
. ove ho tentato di richiamare alle facoltà psicologiche prevalenti presso i
due popoli il diverso svolgimento, che i medesimi ebbero a dare alla religione,
al diritto, ed alle istituzioni sociali e politiche. Libro II, cap . I, pag .
85 e seg . - 93 tata . Di qui quella osservazione antichissima del volo degli
uccelli, che è d'origine latina, e l'altra dell'osservazione delle viscere degli
animali da sacrifizio , che è di origine etrusca, e quel concetto per noi
pressochè incomprensibile degli auspicia , che appartengono al magistrato e che
danno al suo potere una consacrazione religiosa e giuridica ad un tempo (1) . $
2 . Del carattere religioso inerente ai concetti primitivi del mos, del fas e
del jus. 76. Per attenersi tuttavia a quel complesso di norme, che riflet tono
la vita pubblica e privata, intesa questa distinzione in un senso che possa
applicarsi al periodo gentilizio , noi troviamo che anche in questa parte le
genti italiche mostrano fin da principio decisa tendenza a racchiudere le loro
tradizioni in forme certe e precise, e a designarle con vocaboli di
significazione determinata , la cui semplicità primitiva sembra indicarne l'antichità
remota. Questi vocaboli per le genti latine sono quelli dimos, di fas e di jus,
i quali tutti nelle origini sembrano presentarsi con una significazione, che
tiene del religioso e del sacro. Del mos infatti noi abbiamo una definizione
conservataci da Festo : mos est institutum patrium , id est memoria veterum
pertinens maxime ad religiones caerimoniasque antiquorum . Qui è nota bile
anzitutto la significazione larghissima, attribuita al vocabolo, per cui tutte
le patrie tradizioni sarebbero inchiuse nel medesimo, come pure l'esplicazione
che viene dopo, la quale , restringendo in appa renza il contenuto del vocabolo
, indica in sostanza che la parte ( 1) V. BouchÊ-LECLERCQ, Histoire de la
divination dans l'antiquité, IV, p . 180-183; e lo stesso autore, Institutions
romaines , pag . 533 a 540. Questo ricorrere agli auspizii in ogni affare
pubblico e privato è attestato da Servio, In Aen . I, 346: « Romani nihil nisi
captatis faciebant auguriis et praecipue nuptias » , e da CICE RONE, De divin .
I, 16 : « Nihil fere quondam maioris rei nisi auspicato ne privato quidem
gerebatur , quod etiam nunc nuptiarum auspices declarant » . Per quello poi,
che si riferisce agli auspicia , alle varie loro specie , alla procedura so
lenne, da cui erano accompagnati, ed alla importantissima distinzione fra
auspicia privata e publica, distinzione, che fu anch'essa un effetto della
formazione della città, non ho che a riferirmi alla trattazione magistrale del
Mommsen, Le droit pubblic romain . Trad. Girard , Paris, 1887 , pag. 86 a 135.
94 prevalente nelle istituzioni dei padri era sopratutto quella, che si
riferiva alla religione ed alle cerimonie di essa ( 1). Questo carattere
religioso non ha poi bisogno di essere provato quanto al vocabolo di fas;
poichè il fas delle genti italiche è para gonato dagli stessi scrittori latini
alla Oeuis dei Greci, e col tempo fu questo vocabolo di fas, che,
distinguendosi sempre più da ogni altro elemento estraneo , fini per
significare quelle norme di carat tere esclusivamente religioso , che si
riferiscono agli auspicia , al l'arte augurale ed alle cerimonie del culto ( 2
). Infine i più recenti investigatori del significato primitivo del jus, quali
il Leist, il Bréal, al quale aderisce anche il Muirhead, sareb bero diavviso ,
che il medesimo nelle proprie origini avesse eziandio una significazione
religiosa . Cosi il Bréal ritiene, che il ious antico dei latini, cambiatosi
poscia in ius, sia perfettamente conforme al iaus, che occorre nel sanscrito
più antico , vocabolo, la cui significazione è alquanto vaga ed incerta, ma che
egli ritiene essere quella di « volontà, potenza, protezione divina » (3).
Questa primitiva signifi (1) Festo, vo Mos. È poi notabile come lo stesso
Festo, confermando il carattere religioso , comune al mos ed al fas,
definisca il ritus dicendolo un « mos compro batus in administrandis
sacrificiis » . Bruns, Fontes, pag. 343. (2) Festo, v° Themin , scrive: «
Themin deam putabant esse, quae praeciperet ho minibus quid fas esset, eamque
id esse existimabant, quod et fas est ». Bruns, Fontes, pag . 372. Lo stesso
concetto ebbe ad esprimere il poeta Ausonio , Edyl. 12 : Prima deum Fas Quae
Themis est Graiis ..., Per altri passi è da vedersi il Voigt, Die XII Tafeln ,
I, pag . 102. È poi degno di nota, che nelle formole antiche occorre sovente la
frase « secundum ius fasque » , la quale indica in certo modo il bisogno di
dare al diritto anche l'appoggio del fas. (3) II BRÉAL trattò la questione in
un suo articolo « Sur l'origine des mots dési gnant le droit et la loi en latin
» , pubblicato nella Nouvelle revue historique de droit Français et étranger,
1883 , pag. 603, la cui conclusione è la seguente : « Pour nous résumer, le
droit, qu'on a appelé la création la plus originale du génie « latin , et qui a
l'air de sortir tout d'une pièce de la tête des décemvirs, comme la « poésie
épique de la tête d'Homère, a ses origines dans le passé le plus lointain ; «
il est inséparable des premières idées religieuses de la race » . Questo è pure
il concetto del LEIST, Graec. Ital. R. G., pag . 175 a 211. Il MUIRHEAD, Hist.
Introd ., pag . 18 , segue l'opinione del Bréal. Parmi però, che questa
etimologia non debba fare abbandonare intieramente quella dalla radice
sanscrita < iu , che significa stringere, legare, unire, la quale indicherebbe
la funzione, che il diritto compie di vinculum societatis humanae. Questo è
certo , ad ogni modo, come nota il Bréal, che le parole mos, fas e ius debbono
essere considerate come caposti pite, e quindi, più che derivare da altre, sono
esse che diedero dei derivati, quali. 95 cazione del vocabolo spiega poi come
tanto i Greci quanto i Latini attribuissero un carattere religioso e sacro al
vóuoç ed alla lex , sebbene questi due vocaboli siano di più recente
formazione, e ri tenessero la legge come un dono degli dei; come pure spiega
quel sentimento , le cui traccie occorrono ancora in Roma, per cui si ama
meglio di lasciar cadere in dessuetudine il diritto costituito, che non di
abrogarlo espressamente . 77. Intanto questo carattere comune a questi diversi
vocaboli e ai concetti inchiusi neimedesimi, conduce ad inferire, che dovette
forse esservi tempo, in cui furono contenuti in qualche concetto più vasto e
comprensivo, del quale essidebbono perciò considerarsi come specifi cazioni ed
aspetti diversi. Questo concetto , secondo il Max Müller ed anche secondo il
Leist, sarebbe stato dagli antichi Arii significato col vocabolo di rita , il
quale esprime ora l'ordine che regge l'uni verso , col suo alternarsi del
giorno e della notte , ed ora l'ordine stesso della natura, in quanto governa
il generarsi, il crescere e il disparire degli esseri viventi (1). A questo
vocabolo di rita corrispon dono perfettamente i concetti del ritus, del ratum e
della ratio dei latini, ed anche quello , che essi indicano coll'espressione di
rerum natura , per guisa che anche il concetto di « ius naturale » nel senso
che ebbe ad essergli attribuito da Ulpiano di un « ius quod natura omnia
animalia docuit » potrebbe rannodarsi a questi primitivi con cetti (2 ). Lo
stesso Leist poi osserva, che al concetto fondamentale di rita o di ratio la
sapienza antichissima degli Arii associa altri con sarebbero quelli di fari,
iubere , iustitia, iudes , iurgium , iniuria e simili. Una trat tazione poi di
questo elemento etico e religioso dell'antico diritto, sussidiata da una
larghissima erudizione, occorre nel Voigt, Die XII Tafeln , I, cap . I, p. 97 a
125. ( 1) Leist, op . cit., pag . 187 . (2 ) Ciò confermerebbe l'asserzione
contenuta nelle Institut. Justin . II, 1, 12 , « palam est autem vetustius esse
ius naturale, quod cum ipso genere humano rerum natura prodidit: civilia enim
iura tunc esse caeperunt, quum et civitates condi, et magistratus creari,et
leges scribi caeperunt » . Questo è certo poi, che a questo diritto naturale
primitivo anteriore alle leggi accennano soventi i poeti latini. Cfr. Henriot,
Meurs jur. et judic. Vol. I, in princ. Conviene quindi indurne che il concetto
di un diritto naturale cominciò in certo modo ad essere sentito dall'universale
co scienza , e solo più tardi diventò anch'esso argomento di una elaborazione
filosofica , che si operò sopratutto in Grecia . V. in proposito la classica
opera del Voigt, Das ius naturale, bonum et aequum et ius gentium der Römer, 4
vol., Leipzig , 1856-76 . - 96 - cetti, che sono espressi coi vocaboli di orata
, a cui corrisponde il fas e il ratum dei latini, due vocaboli che sovente
procedono uniti : di dhāma, che egli dice analogo alla Oeuis greca e infine
quello di svadhā, che corrisponderebbe all'čnog od neos dei Greci e quindi anche
al mos dei latini, mentre infine il concetto di dharma già si accosterebbe,
quanto alla sua significazione, al vocabolo latino di lex , il quale sarebbe
però sopravvenuto più tardi (1). 78. Parmi tuttavia che la parentela ed
analogia fra questi varii concetti possa essere facilmente spiegata , quando si
consideri che fra i latini il vocabolo di ratum e quello più astratto di ratio
, si asso ciano talvolta al fas, al ius ed anche al mos. Si può quindi
inferirne con fondamento, che il ratum , da cui derivò poi ratio , significava
l'ordine, che governa il corso delle cose divine ed umane, mentre il fas, il
mos ed il ius, che dapprincipio si presentano tutti circondati da un'aureola
religiosa , significherebbero i diversi aspetti, sotto cui si manifesta questa
forza o volontà operosa , che muove e regge l'u niverso (2 ). Il fas
quindisarebbe la stessa volontà divina, in quanto si estrinseca nei fenomeni
della natura, ed è interpretata da coloro che sanno conoscerne il significato
riposto. È quindi dal fas, che derivano i riti e le cerimonie del culto, le
quali sono appunto intese a rendere propizia agli uomini la volontà divina, e
che presso le genti italiche assumono anche esse il carattere contrattuale del
« do ut des » (3 ). Il mos significa la stessa volontà divina, ma non più in (
1) Leist, Op. cit. e loc. cit. (2) Questo scindersi dal concetto primitivo
appare nelle parole di Virgilio « Fas et iura sinunt» , che Servio commenta con
dire « id est divina humanaque iura per mittunt; nam ad religionem fas, ad
homines iura pertinent » . In Aen . I, 269 (Bruns, Fontes, pag. 405). La
parentela poi fra i vocaboli di ratum e di ratio è dimostrata dal Leist con una
quantità di passi da lui citati a pag. 199 dell'opera : Graec. It. R. G. ( 3)
Ciò appare da tutte le formole primitive, che si indirizzavano agli dei di una
città nemica , per ottenere che i medesimi abbandonassero la città stessa . V.
HUSCHKE, Iurisp . anteiust. quae supersunt, pag. 11. Nota in proposito il
Bouche-LECLERCQ, Institutions romaines, pag. 461, che il culto romano era una
procedura del tutto analoga a quella delle « legis actiones > che i
pontefici trasmisero poi più tardi ai giureconsulti. Che anzi per i Romani il
sacrifizio è una offerta fatta in uno scopo interessato e la preghiera, che necessariamente
l'accompagna, è una stipulazione, il cui effetto è infallibile, se essa sia
concepita nei termini sacramentali, fissati dal costume (rite ). Ciò significa
che è per tal modo immedesimata coi Romani l'idea secondo la quale il diritto
formasi mediante la convenzione e l'accordo, che essi in ogni argomento
scorgono una specie di contratto. - 97 quanto si rivela con segni, la cui
interpretazione è lasciata ai sacer doti; ma bensì in quanto si palesa in
quella tacita hominum conventio, che dà appunto origine al costume ed alla
consuetudine . Infine il ius è sempre questa stessa volontà divina , ma in
quanto viene ad essere interpretata e statuita espressamente dagli uomini, che
ap partengono alla comunanza , nell'intento di provvedere alle esigenze della
medesima. Per tal modo da un unico ceppo sonosi staccate propaggini diverse ;
ma siccome esse continuano ancora sempre ad essere in comunicazione fra di loro
, così è molto difficile il preci sare la significazione di ciascuna ,
sopratutto nel periodo geatilizio , allorchè vindice di questi varii aspetti
della volontà divina era l'au torità patriarcale del padre e del consiglio
degli anziani. 79. È poi'degno di nota, che questi varii concetti, negli inizii
di Roma, si presentano come patrimonio esclusivo delle genti patrizie come
appare da ciò , che queste chiamano le usanze plebee non già col vocabolo di
mores, ma con quello di usus; ed anche da ciò che la cognizione del fas e del
ius fu per lungo tempo un privilegio del patriziato ed una causa della sua
superiorità sopra la plebe. In ciò può con fondamento scorgersi una prova , che
queste nozioni dovet tero elaborarsi in altro suolo ed essere trapiantate da
genti migranti dall'Oriente sul suolo italico , ove hanno poiservito per
l'educazione di stirpi, che si trovavano in condizioni inferiori di civiltà .
Sebbene qui non possa essere il caso di cercare in quale ordine questi varii
concetti siansi venuti formando, non è tuttavia inoppor tuno di avvertire, che,
nelle origini, il primo a prodursi, almeno nell'ordine dei fatti, dovette
probabilmente essere il mos, il quale, dopo essersi formato pressochè
inconsapevolmente nel seno delle co munanze patriarcali, viene poi mutandosi in
una tradizione, che si trasmette di genitore in figlio e che col tempo assume
un carattere sacro e religioso . È poi nel seno di questo mos primitivo, che si
opera una distinzione, in virtù della quale una parte di esso riceve una
sanzione religiosa, e l'altra una sanzione giuridica , mentre una parte
continua sempre ad avere un carattere puramentemorale e costituisce ciò che le
genti latine chiamano i boni mores. Intanto egli è certo , che le genti
italiche si presentano con questi varii concetti, già com piutamente formati, e
che fra essi ha già acquistata una incontesta bile prevalenza quello del fas.
Fu il fas, che primo ebbe a ricevere vera elaborazione e a concretarsi in certe
massime, riti e pratiche, che tendono a diventare immutabili e ferme, come la
vo G.CARLE, Le origini del diritto di Roma. 98 im lontà divina, di cui si ritengono
essere l'espressione. È poi sotto la . protezione del fas, che si vennero
elaborando i concetti del ius e e dei boni mores, al modo stesso che più tardi
sarà sul modello del ius pontificium , che verrà a formarsi il ius civile.
Quasi si direbbe che, mancando ancora un'autorità abbastanza salda per porsi
alle passioni dell'uomo in un periodo di lotta e di violenza , siasi sentita la
necessità di porre sotto la protezione divina anche quelle regole, che
appariscono indispensabili per il mantenimento della convivenza sociale .
Intanto queste considerazioni intorno ai concetti fondamentali, che
costituiscono il substratum della sapienza popolare delle genti ita liche, ci
preparano la via a comprendere il processo storico, secondo cui venne
svolgendosi ciascuno di essi. $ 3. — Il fas e il mos e la loro importanza nel
periodo gentilizio . 80. Il vocabolo di fas esprime per le genti italiche, ciò
che i Greci, più fantastici ed immaginosi, giunsero perfino a personificare nei
concetti di Themis ,Nemesis , Adrasteia (1). Esso è l'espressione della volontà
divina, in quanto impone e regge l'ordine delle cose divine ed umane, e vendica
in modo irresistibile le violazioni, che l'uomo rechi al medesimo colle proprie
azioni. Nel fas pertanto non è solo compresa una parte , che si riferisce ai
riti e alle cerimonie del culto, ma una parte eziandio , che contiene delle
norme che ri guardano l'umana condotta. Che anzi, siccome la riverenza per la
divinità non è propria di questa o di quella gente, ma è comune alle varie
genti, cosi è anche sotto la protezione del fas, che si trovano tutti quei
rapporti fra le varie genti, senza di cui sarebbe stato impossibile, che esse
potessero entrare in comunicazione le une colle altre. È quindi il fas, che
determina i modi in cui debba es sere dichiarata una guerra, e copre della sua
protezione coloro, che sono inviati a trattare le alleanze e le paci. È esso
parimenti che dà un carattere sacro a quell'istituzione dell'ospitalitá (hospi
tium ), che ebbe un così largo sviluppo presso le genti primitive , e che poi
ricompare, come hospitium publicum , dopo la formazione ( 1) Per una più larga
prova di questa analogia, vedi CARLE, La vita del di ritto, pag . 111 , cogli
autori ivi citati. 99 della città, come pure è il fas che consacra le
obligazioni, che inter cedono fra il patrono ed il cliente . È esso, che
condanna le violenze dei figli verso i genitori, le nozze incestuose, il falso
giuramento e il venir meno ai voti fatti alla divinità , e alle promesse, che
sotto il suggello della fides siansi fatte anche ad uno straniero. Esso in
somma nei primordii sembra abbracciare i rapporti fra i membri della famiglia ,
quelli fra le varie genti, e quelli infine fra le varie tribù ; donde la
conseguenza, che anche più tardi, allorchè si tratto di patti fondamentali fra
il patriziato e la plebe, questa per assicu rarne l'adempimento non trovò altro
mezzo , che di porre i medesimi sotto la protezione di quel fas, che esercitava
tanto impero fra le genti patrizie, come lo dimostra il concetto ispiratore
delle cosi dette leges sacratae (1). 81. Chi poimanchi a questo complesso di
norme, sopratutto allorchè lo faccia di proposito (dolo sciens), mentre offende
gli uomini reca pure offesa alla divinità , e quindi deve espiare il proprio
fallo ,me diante certi sacrifizii, le cui traccie occorrono ad ogni istante nel
ius pontificium e negli scritti dei più antichi giureconsulti, che si erano
formati sullo studio di esso ; i quali sacrificii prendevano il nome di
piacula, e dovevansi anche fare, allorchè altri cadeva in fallo per semplice
imprudenza (imprudens). Di qui si raccoglie, che già dall'epoca più remota , a
cui rimontino le tradizioni, trovasi la distinzione, almeno fra le genti
patrizie, fra colui che abbia compiuto un delitto di proposito (dolo malo ,
dolo sciens, prudens), e quello invece, che l'abbia compiuto solo per
imprudenza (imprudens), nel che si avrebbe una prova, che queste genti già
erano pervenute a tale da analizzare l'atto umano e scrutare perfino
l'intenzione dell'agente, sebbene più tardi il diritto quiritario abbia dovuto
fare un passo in dietro , come quello che doveva applicarsi a classi, che non
erano tutte giunte allo stesso grado di sviluppo ( 2). Che se il fallo sia tale
( 1) Sul carattere delle leges sacratae è da vedersi la dissertazione del
Lange, De sacrosanctae tribuniciae potestatis natura, eiusque origine. Lipsiae,
1883. Sono poi diversissime le guise, mediante cui le promesse, che non avevano
ancora san zione giuridica , si mettevano sotto la protezione del fas. Sopratutto
a ciò serviva il giuramento, la cui larghissima applicazione, nel periodo
storico , appare dal dili gente lavoro del Bertolini, Il giuramento nel diritto
privato romano. Roma 1886, Cap. II, pag. 43 a 78 . (2 ) Cid è dimostrato dal
fatto , che la distinzione fra l'omicidio commesso di pro posito e quello
commesso per imprudenza già occorre nelle leges regiae attribuite 100 da non
potersi espiare in questa guisa , in allora il reo viene assogget tato ad una
specie di espiazione sacrale , la cui forma tipica consiste nella capitis
sacratio . Questa doveva essere pena gravissima durante il periodo gentilizio,
poichè il colpevole veniva con essa ad essere sot toposto ad una specie di
scomunica religiosa e domestica , che lo stac cava dal gruppo gentilizio, di
cui faceva parte, e lo poneva in certo modo fuori delle leggi divine ed umane,
per guisa che sebbene il sa crifizio della sua vita non potesse essere accetto
agli dei, esso poteva perd essere ucciso impunemente da chicchesia . Di qui il
carattere di espiazione sacrale , che informa ancora tutto il diritto penale
pri mitivo di Roma, durante il periodo esclusivamente patrizio, come pure i
vocaboli e i concetti di expiatio, supplicium , di consecratio bonorum , di
interdictio aqua et igni, i quali confermano l'osser vazione del Voigt, secondo
la quale le primitive genti patrizie avrebbero ravvisato nei delitti più
un'offesa alla divinità , che non agli uomini, a differenza delle plebi, che
risentivano di preferenza l'offesa e il danno materiale ( 1) . Non potrei
quindi ammettere l'opinione di coloro, i quali, suppo nendo le genti italiche
in una condizione del tutto primitiva e come nella loro infanzia, mentre sotto
un certo aspetto erano già nella loro età matura , vogliono ad ogni costo
trovare nel diritto penale pri mitivo di esse le traccie della vendetta privata
. Se cið intendasi nel senso che erano i singoli capi di famiglia, che dovevano
essere essi i vindici del proprio diritto e proseguire le offese, che loro fos
sero recate, in mancanza di un'altra autorità che lo facesse per essi, ciò può
essere facilmente ammesso . Che se invece si intenda che nella stessa comunanza
gentilizia dovessero spesseggiare le rea zioni violente e le vendette, cio più
non può conciliarsi col rat tere patriarcale di una comunanza, ove tutto è già
regolato dalla a Numa. V. Bruns, Fontes, pag. 10. Tale distinzione poi
incontrasi frequentemente in ciò , che a noi pervenne degli scritti dei
pontefici dei veteres iurisconsulti. Che anzi pare, che, secondo il Pontefice
Quinto Muzio Scevola , i fatti commessi contro il fas allora soltanto potessero
espiarsi colla piacularis hostia , quando fossero com piuti per imprudenza ;
mentre non ammettevano espiazione, quando fossero commessi di proposito. Ciò
appare dal seguente passo tolto da VARRONE, De ling . lat., 6 , 4 , § 30 : «
Praetor, qui diebus fastis tria verba fatus est, si imprudens fecit, piacu lari
hostia piatur; si prudens dixit, Quintus Mucius ambigebat eum expiari non posse
» . Altri esempi occorrono in Huschke, Iurisp. anteiust. quae sup ., pag. 15 .
( 1) Voigt, XII Tafeln . I, pag. 484. 101 religione e dal costume. Non potrebbe
certo affermarsi che anche le genti italiche non abbiano attraversato uno
stadio, in cui dovette dominare la forza, la vendetta e la privata violenza ;
ma l'organiz zazione patriarcale e i vincoli strettissimi di essa erano già un
mezzo per uscire da tale condizione di cosa . Quindi, se si deve giu dicare dal
diritto primitivo di Roma patrizia , sarebbero così poche le traccie , che
rimangono in esso della privata vendetta , nel senso che suole attribuirsi a
questo vocabolo, da doverne inferire che nel pe riodo gentilizio la religione,
compenetratasi in ogni atto della vita , ne aveva già cacciata la vendetta ed
aveva esclusa perfino la com posizione a danaro , almeno nella cerchia delle
genti patrizie. Che se il padre di famiglia può incrudelire contro la moglie e
la figlia adultera e contro l'adultero (sorpresi in flagrante ), o contro il
ladro, egli lo fa più come giudice e come investito di un carattere
sacerdotale, che non come uomo, che si abbandoni all'impeto della collera e
della vendetta . La religione ha già incatenato le passioni dell'uomo, ed è
solo più fra la plebe, che ancora si trovano le traccie della privata vendetta
e della composizione a danaro , le quali poi ricompariscono in qualche parte
nella legislazione decemvirale , come quella che era comune ad entrambe le
classi (1). (1) Fra gli autori, che cercano di dare una larga parte alla
privata vendetta nel primitivo diritto Romano, havvi il MUIRHEAD ,
Hist.introd., pag. 52. Egli argomenta da ciò , che colui il quale commetteva un
omicidio per imprudenza doveva fare l'of ferta di un ariete agli agnati
dell'ucciso ; da ciò che il vendicare la morte di un congiunto ucciso era un
dovere per i superstiti per acquetare i mani di lui ; dal diritto del padre e
del marito di uccidere la figlia o la moglie sorprese in adulterio unitamente
all'adultero; dal taglione, le cui traccie ancora rimangono nella legisla zione
decemvirale, e perfino dal diritto del creditore di chiudere nel carcere
privato il debitore, chemancasse ai proprii impegni. Parmi tuttavia, che di
questi fatti alcuni indichino invece la preponderanza dell'elemento religioso,
e gli altri siano concessioni, che il diritto decemvirale fece al modo di
pensare e di agire proprio della plebe, presso la quale avevano ancora
certamente una più larga parte la privata vendetta, il taglione e la
composizione a danaro. Cfr. Ihering, L'esprit du droit Romain . Trad.
Meulenaere. Paris, 1880, I, pag. 131 a 168, ove discorre della giustizia
privata e delle forme, con cui essa era esercitata . Finchè quindi si dice, che
sono i singoli capi di famiglia, che, in mancanza di una autorità investita dal
pubblico potere, perseguono essi stessi le ingiurie e le violazioni di diritto,
di cui furono vittima, si afferma una verità indiscutibile; ma ciò non deve più
confondersi coll'esercizio sregolato di una privata vendetta, che non prende
norma che dalla violenza della passione, dal mo mento che la religione e la
consuetudine già hanno determinato la procedura solenne, a cui egli deve
attenersi per ottenere soddisfazione dell'ingiuria o del danno sofferto, e che
l'organizzazione gentilizia aveva appunto per iscopo di porre termine alla pri
vata violenza fra coloro che appartenevano alla medesima gente o tribù . 102
82. Accanto però a queste regole dell'umana condotta , che già sono munite di
sanzione religiosa , sonvene delle altre che, appoggiate unicamente al costume,
costituiscono, per cosi esprimerci, una specie di morale primitiva . Esse
vengono indicate col vocabolo di mos patrius, di mores maiorum , di boni mores,
e costituiscono un complesso di norme direttive della pubblica e privata
condotta , le cui traccio si trovano più tardi ancora nel iudicium demoribus,
at tribuito al Pretore , e sopratutto nel regimen morum , affidato alla
custodia dei censori. Anche questi mores maiorum si sono venuti formando
durante il periodo gentilizio , nella cerchia sopratutto delle familia e delle
gens, e sono quelli, a cui deve essere attribuito l'obsequium e la reverentia
verso gli ascendenti, la pudicitia delle mogli e il mantenimento della fides ,
anche per quelle promesse, che non fossero munite di sanzione giuridica e che
fossero fatte anche ad uno straniero (1) . Erano questi boni mores, che da una
parte contenevano in certi confini il potere delle varie autorità , le quali,
giuridicamente considerate, apparivano senza alcun confine ; e che dal l'altra
colpivano colla sanzione efficace della disistima generale della comunanza
coloro , che mancavano a certi doveri, i quali non erano muniti di sanzione
giuridica . Così, ad esempio , furono i bonimores, che ancora molto più tardi
condussero l'opinione pubblica dei citta dini Romani a condannare al disprezzo
quei prigionieri di Annibale che, lasciati liberi sotto la condizione del
ritorno, credettero di libe rarsi dalla promessa mediante lo stratagemma di
ritornare imme diatamente nel campo e di sostenere di aver così attenuta la
loro (1) Questo concetto trovasi espresso da Publio Siro , allorchè scrive :
Etiam hosti est aequus, qui habet in consilio fidem . Del resto sono
diversissime le guise, con cui i poeti esprimono l'efficacia moralmente
obbligatoria delle promesse. È qui che compariscono i concetti del pudor humani
generis , del foedus, che talvolta significa anche il patto e la convenzione
privata, il concetto della casta fides, quello della santità inerente alle
parole, in quanto che .. immutabile sanctis Pondus inest verbis; concetto che
trovò poi la sua espressione giuridica nell' « uti lingua nuncupassit, ita ius
esto » . Così pure nell'Andria di Terenzio trovasi elegantemente espresso il
concetto, che l'obbligazione è un vincolo che la volontà impone a se stessa
colle parole : ..... coactus tua voluntate es; ..... concetto che trovò pur
esso forma nell'assioma giuridico : « quae ab initio sunt vo luntatis ; ex post
facto fiunt necessitatis » . Per altri esempi può vedersi l'HENRIOT, Meurs
juridiques et judiciaires, I, pag. 439 , e III, in princ. • . -- 103 promessa.
Del resto è sempre questo concetto del buon costume, che tornerà poi a
penetrare, per opera della classica giurisprudenza,nella compagine
soverchiamente rigida del diritto civile romano, come lo dimostrano le
considerazioni di ordine morale, che talvolta occorrono nei grandi
giureconsulti, l'influenza che esercitò mai sempre l'existi matio anche sulla
capacità di diritto , e l'introduzione dell'infamia , della ignominia, della
levis nota, che danno in certo modo una configurazione giuridica alle varie gradazioni
della publica disistima, in cui sia incorsa una determinata persona (1 ). Al
qual proposito non sarà inopportuno di osservare, che quella separazione fra
l'ele mento esclusivamente giuridico ed il morale, che tardò così lunga mente
ad operarsi nella scienza, presentasi invece con una meravi gliosa nettezza nel
diritto primitivo di Roma, il quale, dopo essersi separato dal fas e daiboni
mores, continuò logicamente la propria via , e assunse così quel carattere di
rigidezza e di logica pressochè inumana, che solo più tardi fu temperato nella
classica giurispru denza, la quale di nuovo richiamò in esso quell'alito morale
, da cui almeno in apparenza erasi dapprima compiutamente disgiunto (2). 83.
Intanto , per ciò che si riferisce ai bonimores, non è più la religione, che si
incarica di punirne le violazioni, ma sono i capi stessi dei diversi gruppi,
che vegliano sovra quel retaggio del buon costume, che loro ebbe ad essere
trasmesso dagli antenati. Sono quindi il padre nella famiglia, il consiglio
degli anziani nella gente ed il magister pagi nella tribù , che sovraintendono
almantenimento di questa morale primitiva ; mentre è poi la disistima generale
della comunanza, che condanna al disprezzo e all'isolamento coloro, che abbiano
esercitato professioni ignominiose , o abbiano mancato alla fede promessa , o
abusato del potere loro spettante , o abbiano infine commessa alcuna di quelle
azioni, che , senza senza essere colpite (1) Cfr. Muirhead, Hist. Introd., pag
. 31-34 . Basta leggere le commedie di Plauto, e fra le altre specialmente il
Trinummus, per scorgere la significazione lar ghissima, che davasi al vocabolo
di boni mores, e come fosse altamente sentita l'im portanza di essi di fronte
alle leggi e l'impotenza di queste, quando quelli comin ciavano a venir meno .
(2 ) Ciò verrà ad essere largamente provato , allorchè si parlerà della
formazione del ius Quiritium , e si dimostrerà come il medesimo sia dovuto ad
un ' astrazione potente, mediante cui si riuscì ad isolare l'elemento giuridico
da tutti gli elementi affini. 104 dalla sanzione religiosa o giuridica,
incorrono però nella disappro vazione generale . Se il modo in cui formasi
questa generale opi nione e l'influenza , che essa esercita, male possono
scorgersi ancora in una grande città, in cui già scomparve ogni traccia della
vita patriarcale, possono invece essere anche oggidi facilmente compresi quando
si arresti lo sguardo ad una comunanza di villaggio, ove tutti si conoscono e
debbono necessariamente essere in rapporto fra di loro, ed ove le colpe dei
padri pesano più duramente sulla riputa zione dei figli. § 4. – Le origini del
ius nel periodo gentilizio . 84. Se ora si vogliano cercare le origini del ius
nel periodo gentilizio , apparisce fino all'evidenza, che fu soltanto ,
collocandosi in un posto intermedio , fra il fas da una parte ed i boni mores
dall'altra , che potè riuscire e farsi strada quel ius, che doveva poi ricevere
cosi largo sviluppo durante il periodo della comunanza ci vile e politica .
Sonvi in una comunanza certi modi di operare e di agire, che, per essere
costantemente ripetuti in modo uniforme, fini scono per acquistare un carattere
pressochè obbligatorio per tutti coloro, che trovansi in una determinata
condizione sociale, e danno cosi origine non più al mos propriamente detto, ma
a quella for mazione giuridica, che viene poi ad essere indicata col vocabolo
ef ficacissimo di consuetudo, il quale in certo modo contiene in sè la propria
deffinizione (1). Colui che manca a queste regole non offende solo la divinità
e non viola solamente il buon costume, ma viene meno ad obbligazioni, che sono
imposte dalla convivenza, cui appar tiene e si sottrae cosi alle esigenze della
vita sociale. Fra i fatti irreligiosi ed immorali viene così formandosi una
categoria di fatti umani, in cui appare soltanto in seconda linea l'offesa alla
religione ed alla morale, mentre viene ad essere evidente sopratutto l'offesa
(1 ) Servius, In Aen . 7.601: « VARRO valt morem esse communem consensum omnium
simul habitantium , qui inveteratus consuetudinem facit » . Del resto questo
passaggio del costume, che ha carattere morale , in consuetudine, che ha
carattere giuridico, è indicato anche da molti passi dei classici
giureconsulti, che possono trovarsi raccolti nell'Heumann, Handlexicon zu den
Quellen des römisches Rechts. Jena, 1879, Va Mos e Consuetudo. - 105 alla
comunanza , a cui altri appartiene e il danno che vengono a soffrirne gli altri
membri della comunanza (1 ) . Di qui la conseguenza, che comincia già ad
operarsi, nel seno delle comunanze anche patriarcali, comeuna specie di
selezione, per cui dal complesso dei precetti religiosi e morali se ne vengono
sceverando alcuni, che assumono il carattere giuridico propriamente detto . Na
turalmente questo lavoro di selezione non può ancora spingersi molto oltre,
fino a che trattasi di una comunanza, che adempie a funzioni domestiche,
religiose e civili ad un tempo; ma intanto già comincia ad avvertirsi il
carattere particolare di certi precetti, che appariscono più rigidi di quelli
puramente morali e religiosi, per ot tenere l'adempimento dei quali non può più
bastare una sanzione meramente religiosa , né la disistima generale , ma vuolsi
una specie di sanzione coattiva da parte della intiera comunanza e
dell'autorità che la governa. Al modo stesso , che già fra le genti e le tribù
si vengono gradatamente svolgendo quelle arces, quegli oppida, quei
conciliabula , quei fora , che sono il primo nucleo , intorno a cui verrà poi a
svolgersi l'urbs e la civitas; cosi, anche frammezzo ad una con vivenza , i cui
precetti hanno ancora sopratutto un carattere religioso e morale, già
cominciano a presentarsene alcuni, che assumono un carattere civile e politico
. Che anzi, per continuare nello stesso pa ragone, al modo stesso che la città,
limitata dapprima ad essere il rifugio degli abitanti dei villaggi, viene poi
ad essere il luogo, ove si amministra la giustizia e si tengono le riunioni, e
viene infine ad abbracciare nella sua cerchia anche le abitazioni private , e a
sot trarre all'organizzazione domestica e gentilizia tutte quelle funzioni di
carattere civile e politico, a cui essa prima adempiva; così anche (1) Questo
concetto , per cui chi manca al diritto offende non solo l'individuo , ma reca
un danno alla intiera comunanza , che ora noi diremmo danno sociale , è un con
cetto profondamente sentito dai Romani primitivi, il quale ebbe ad essere
variamente espresso dai poeti latini. Basti riportare dall'Henriot, op. cit .,
vol. III, pag. 10 e segg. questi versi di Pubblio Siro : Multis minatur, qui
uni facit iniuria : Tuti sunt omnes, ubi defenditur unus ; Omne ius supra omnem
iniuriam positum est ; e quello di Orazio : « nam tua res agitur, paries quum
proximus ardet » , come pure le frequenti scene di Plauto e di TERENZIO, in cui
una persona ingiuriata chiama gli altri testi in testimonio e chiede aiuto con
formole, che hanno una precisione giuridica : « Obsecro vos, populares, ferte
misero atque innocenti auxilium » , ovvero : Obsecro vestram fidem , subvenite
cives » . - 106 - questo primo nucleo di precetti giuridici, che negli inizii
abbisogna ancora dell'appoggio della religione e del costume e si modella sul
fas, viene col tempo accrescendosi sempre più , e richiamando a se una quantità
di precetti, i quali nell'organizzazione anteriore non avevano che un carattere
religioso e morale . Per tal guisa il ius viene in certo modo accrescendosi a
spese degli elementi, da cui si è staccato; quando poi sentesi forte abbastanza
per procedere per proprio conto , afferma senz'altro la propria indipendenza, e
assume, per opera sopratutto dei Romani, un processo tutto speciale nel proprio
svolgimento , che chiamasi appunto iuris ratio, mediante cui finisce per
qualche tempo per isolarsi anche troppo da quegli elementi, da cui ricavò il
suo primitivo nutrimento . Quel carat tere pertanto di rigidezza , che suole
condannarsi nel diritto primi tivo dei Quiriti, è la miglior prova della sua
potenza ed energia ; perchè indica come l'elemento giuridico ormai fosse giunto
a tale da potersi svolgere senza più tener conto delle considerazioni reli
giose e morali, al modo stesso che la città, teatro del suo svolgi mento, ormai
era pervenuta a tale da cercare ancor essa di spo gliarsi di ogni traccia della
influenza gentilizia e patriarcale. 85. Questo è poi degno di nota , che anche quando
il ius viene ad affermare la propria esistenza separata continua pur sempre a
svolgersi sotto due forme, che corrispondono alle due sorgenti da cui esso ebbe
a derivarsi. Havvi infatti la parte, in cui il diritto cerca in certo modo di
imitare la solennità del fas, ed è quella in cui esso viene ad essere rivestito
della forma di lex ; quando cioè il popolo, interrogato dal magistrato , dà una
forma solenne ed espressa alla propria volontà (iubet atque constituit) ,
creando cosi il ius legibus introductum . Intanto si mantiene sempre un altro
aspetto del ius, in cui la volontà collettiva del popolo si manifesta nella
formazione lenta delle proprie consuetudini, che i Romani conside ravano come
il frutto di una tacita civium conventio ( ius moribus constitutum ). Ad
ognimodo però il ius, prenda esso il carattere di una regola , che il popolo
pone a sè stesso, o di una norma, che for misi tacitamente nel costume, è pur
sempre il frutto di un ac cordo espresso e tacito dei cittadini, e deve essere
considerato come l'espressione di una volontà comune, che si sovrappone alla
volontà dei singoli individui. Finchè esso è in via di formazione può essere
argomento di discussioni, le quali hanno luogo nelle riunioni meno solenni del
popolo, che chiamansi contiones ; ma allorchè la - -- 107 legge viene ad essere
posta e costituita con quei riti solenni, che accompagnano i comizii, la vox
populi viene ad essere considerata come vox dei, e debbono ubbidirvi tutti
coloro, che cooperarono a formarla , non eccettuati quelli che erano di avviso
contrario . Vi ha di più, ed è che accanto a questo dualismo se ne delinea ben
presto un altro , per cui distinguesi una parte del diritto , che si riferisce
all'interesse generale della comunanza, e chiamasi ius publicum ; e una parte
invece, che si riferisce all'interesse parti colare delle famiglie e delli
individui, che entrano a costituirla , e chiamasi ius privatum . Il primo si
forma sulla piazza e nel foro, fra gli urti ed i conflitti delle varie classi,
lascia le sue traccie nella storia politica della città, e si esplica mediante
gli accordi e le transazioni, cheavvengono fra patriziato e plebe; mentre
l'altro viene elaborandosi pressochè tacitamente nella coscienza generale del
popolo, e trova i suoi interpreti nei pontefici dapprima e nei giu reconsulti
più tardi. Intanto però l'uno e l'altro sono in certa guisa atteggiamenti
diversi di un medesimo diritto, in quanto che il di ritto pubblico è in certo
modo il palladio , sotto la cui protezione può nascere e svolgersi il diritto
privato (1). 86. Insomma al modo stesso , che l'urbs fu il frutto di una lenta
formazione, mediante cui si vennero sceverando dalle abitazioni pri vate gli
edifizii aventi pubblica destinazione, e che il formarsi della civitas e del
populus si dovette al raccogliersi e al riunirsi di tutti gli uomini (viri) che
col braccio o col consiglio potevano provve dere alla difesa ed all'interesse
comune ; cosi anche la formazione del diritto primitivo deve essere attribuita
ad una specie di elabo razione, che venne operandosi nella coscienza generale
di un po polo, e all'attrito dei varii elementi, che entravano a costituirlo ,
(1) È da vedersi, quanto alla distinzione fra diritto pubblico e privato, il
Savigny, Sistema del diritto privato romano, vol. 1', $ IX , trad. Scialoia,
pag . 48 e segg. Sopratutto importa il notare, che il diritto pubblico e il
privato, nel concetto romano, sono due atteggiamenti diversi del medesimo
diritto (duae positiones), e non deve essere dimenticato il detto, che Bacone
certo ricavò dallo spirito del diritto romano, secondo cui « ius privatum sub
tutela iuris publici latet », De augm . scient., lib . VIII, proem . al
trattato de iust. univ., afor. 3. Quanto alle altre suddistinzioni, che
presentansi nel campo del diritto, è da consultarsi il Voigt, Die XI] Tafeln ,
I, pag . 115 a 124, come pure lo stesso autore, Das ius naturale, gentium etc.
Leipzig , III, A , pag. 347. 108 mediante cui da tutti gli elementi etici e
religiosi, che già si erano formati durante il periodo gentilizio , si vennero
sceverando tutti quelli , che potevano ritenersi indispensabili per il
mantenimento della convivenza civile e politica. La città insomma che, piccola
dapprima e limitata a pochi edifizii, si venne però sempre ingran dendo a spese
delle comunanze di villaggio, che erano entrate a costituirla , deve essere
considerata come il crogiuolo , in cui si get tarono indistintamente tutti gli
elementi della vita patriarcale, per sceverarne ed isolarne quella parte, che
aveva un carattere essen zialmente giuridico , politico e militare. Fu questa
una specie di chimica scomposizione, che un popolo mirabilmente atto a
sceverare nel fatto umano tutto ciò, che in esso si presenti di giuridico, e a
concretarlo in forme tipiche e precise, venne in certo modo com piendo a
benefizio del genere umano. Espresse quindi una grande verità il poeta
coll'esclamare : Fuit sapientia quondam Publica privatis secernere sacra
profanis (1); poichè tale veramente fu il compito delle città primitive e
quello sopratutto di Roma. 87. Il nucleo di questi precetti, di carattere
esclusivamente giuri dico , fu dapprima assai scarso , e si ridusse a quel poco
che una città , ancora nei proprii esordii, poteva sottrarre ad
un'organizzazione come la gentilizia , che ancora aveva tutta la sua vitalità
ed energia . Poscia però col crescere della città , coll'estendersi delle sue
mura , col fondersi insieme degli elemeuti, che entravano a costituirla ,
coll'in corporarsi di nuovi elementi nel populus , quel ius, che prima aveva
solo una posizione subordinata , si cambiò invece in tutore e custode della
vita pubblica e privata , e fu riconosciuto come sovrano nel seno della
comunanza civile e politica. Fu allora che, consapevole della propria forza e
dell'ufficio , che gli era affidato , si riaccostò di nuovo a quell'elemento
religioso e sopratutto etico , da cui aveva dovuto disgiungersi, allorchè nel
periodo della propria formazione non riconosceva più altra guida, che una
logica esclusivamente giu ridica (iuris ratio ) . Di qui intanto deriva la
conseguenza, che Roma, pur ricevendo ( 1) HoR ., Ars poetica . 109 le proprie
istituzioni dal passato , ci fa però assistere alla formaz one lenta e graduata
di un diritto, che venne adattandosi alle esigenze della convivenza civile e
politica , e differenziandosi sotto molteplici aspetti. Questo diritto tuttavia
può essere logicamente spiegato in tutto il suo processo , ed anche nelle
distinzioni che comparvero in esso , in quanto che è stato veramente una
costruzione logica e coe rente in tutte le sue parti, che venne svolgendosi «
rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente » . 88. Che questo sia stato
veramente il processo , con cui si esplicó il diritto in Roma, risulterà poi
con tanta evidenza dallo svolgersi della comunanza romana, che per ora non
occorre altra dimostra zione. Bensi importa, ed è assai più difficile
determinare, quali siano i rapporti, che primi ebbero ad assumere un carattere
giuridico, e quali siano stati gli aspetti essenziali, sotto cui si presentó
questo primitivo diritto presso le antiche genti italiche. Finchè noi siamo
nelle mura domestiche e nel seno della fa miglia la religione comune, la
riverenza verso il proprio capo, il suo carattere patriarcale, il suo potere
pressochè senza confini, non che l'autorità moderatrice di quel consiglio o
consesso di parenti, da cui egli è circondato , creano un'organizzazione di
tale natura, che può bastare a qualsiasi emergenza, senza che occorra perciò di
ri correre al diritto propriamente detto . Che anzi, se il diritto cer casse di
penetrare nelle mura domestiche, la fiera indipendenza dei padri riguarderebbe
ciò come una violazione del proprio domicilio ed una usurpazione della propria
autorità , come lo dimostra ancora il padre dell'Orazio , uccisore della
sorella, allorchè osserva che se il proprio figlio non avesse a ragione uccisa
la sorella (iure caesam ) sa rebbe toccato a lui di provvedere (1). Se quindi
la moglie, i figli, gli schiavi manchino a quei doveri, che sono fissati dal
costume e con sacrati dalla religione, sarà il padre stesso , che sarà vindice
dei loro (1 ) Liv., Hist., I, 24. Di qui si può' raccogliere, come non possa
ammettersi l'o pinione di coloro , i quali vorrebbero senz'altro attribuire ai
re, come primimagistrati di Roma, la giurisdizione per giudicare di qualsiasi
misfatto. V. CLARK's, Early roman law , pag. 54 - 108. Deve invece ritenersi a
questo riguardo col MuiruEAD , Histor. Introd ., pag. 69 e seg., che la
giurisdizione criminale del re o magistrato venne gradatamente svolgendosi
frammezzo alla giurisdizione dei capi di famiglia , e a quella che apparteneva
alle singole genti, quanto ai delitti , che erano commessi da membri, che
entravano a costituirle. 110 falli , salvo che in certi casi di maggior gravità
, come quando trat tisi della moglie adultera , non stata sorpresa in
flagrante, egli dovrà circondarsi del tribunale domestico e pronunziare la
condanna, dopo averne sentito l'avviso . Allorchè poi l'azione, che recò danno
altrui, sia stata compiuta da un altro capo di famiglia, o da persona soggetta
al potere del medesimo, sarà fra i due capi di famiglia, che la questione dovrà
essere risolta , e se quest'ultimo non intenda di riparare il danno arrecato
dal suo dipendente, non avrà nulla di ripugnante al modo di pensare dell'epoca
, che egli consegni la per sona, che ha recato il danno, al capo di famiglia,
che ebbe a soffrirlo, mediante l'antichissimo istituto delle noxae deditio (1).
Cosi pure (1) È noto a questo proposito come nell'antico diritto, distinguasi
fra noxia e noxa, per cui mentre il vocabolo noxia in sè avrebbe significato il
danno, veniva anche dai poeti adoperato per significare la colpa , mentre il
vocabolo noxa si adope rava per significare il peccato, il delitto, ed anche la
pena di esso ; donde la espres sione di noxae deditio , la quale trovava poi
una larga applicazione, tanto nei rap porti fra i capi di famiglia , quanto
eziandio nei rapporti fra le varie genti e tribù, come si vedrà trattando del
ius pacis ac belli nel periodo gentilizio. V. Festo, vº Noxia (Bruns, Fontes, pag.
346). Intanto dalla estesa comprensività del vo cabolo di noxa o di nocia ,
nella sua significazione primitiva , parmi di poter infe rire con fondamento,
che nelle origini uno stesso vocabolo significò ad un tempo la colpa , che
cagionava il danno, e il danno, che derivava da essa , e che non dovette
esservi distinzione fra colpa e danno di carattere civile e colpa e danno di
carattere penale, come neppure dovette distinguersi fra colpa contrattuale ed
extra-contrat tuale od aquiliana. I concetti e i vocaboli sono sinteticamente
potenti nel diritto primitivo, sopratutto romano , ed è solo col tempo, che in
essi si osservano quegli atteggiamenti diversi, che costituiscono poi
altrettante configurazioni giuridiche di un unico concetto fondamentale. Un altro
carattere del diritto primitivo si è anche questo, che esso prende di regola le
mosse da un vocabolo di significazione mate riale, e poi gli attribuisce una
significazione sempre più estesa e perfino traslata . Abbiamo un esempio di ciò
nel vocabolo rupere, che nella sua significazione primi tiva dovette certo
significare il rompere materialmente un membro, od altra cosa ; ma fu poscia
recato ad una significazione traslata , attestataci da Festo , per cuiru pere
significa damnum dare, al modo stesso che rupitias e ruptiones finiscono per
significare ogni maniera di danno. È uno dei processi più consueti nel diritto
primi tivo di Roma, quello per cui una volta formato un concetto od un vocabolo
giuridico non si teme di estenderlo a tutte le configurazioni affini. Come si
estese il parrici dium ad ogni uccisione di un uomo libero, il che si vedrà più
sotto ; così il membrum rupere o la rupitias, essendo stato il danno, che prima
ebbe ad essere configurato giuridicamente, passò poi ad indicare qualsiasi
danno. Rimando in proposito al dot tissimo lavoro del collega G. P. Cuironi, La
colpa nel diritto civile odierno. Torino, 1887, 2 vol. Di quest'opera credo di
poter dire, senza offendere la modestia dell'a mico, che servirà a rimettere in
onore fra noi quel mirabile magistero, che ha fatto la - 1 - 111 gli è tenendo
conto della posizione rispettiva , in cui in questo pe riodo si trovano due
capi di famiglia , che si può comprendere il nascere e lo svolgersi di certe
procedure, che più tardi appariscono strane e pressochè incomprensibili. Tale
è, per dare un esempio, quella del furtum lance lincioque conceptum , in cui
abbiamo un capo di famiglia, che ricercando una cosa statagli derubata può
ottenere di entrare nella casa del vicino , in cui teme sia stata nascosta; ma
cid a condizione di fare anzitutto una libazione propiziatoria ai lari della
casa , in cui egli si inoltra, il che è dimostrato dal piatto, che egli tiene
fra mano (lance), e intanto deve stringersi la persona con un cingolo (lincio
), che gli impedisca di nascondere qualsiasi oggetto. Sembra però, che questa
perquisizione domiciliare dovesse per un senso di pudicizia arrestarsi dinanzi
al cubiculum della moglie, con che però il capo di casa giurasse che nulla di
deru bato vi era stato nascosto (1). Del resto in questa primitiva condi
grandezza della giurisprudenza romana, secondo cui, una volta che si è formata
una configurazione giuridica , la medesima non deve più essere perduta di vista
nelle in definite trasformazioni e distinzioni, che pud subire nelle
vicissitudini delle legisla zioni e della giurisprudenza , ma deve sempre
essere richiamata alle proprie origini e seguita nella sua dialettica
fondamentale . L'autore tratta dei concetti di rupere, di rupitias, di culpa
nel primo volume della 2a parte, cap . I, § 1°, della lex Aquilia , pag. 6 e
segg. (1) L'Esmein in un suo recente scritto col titolo: La poursuite du vol et
le serment purgatoire, trova le traccie di una procedura analoga a quella, che
seguivasi per il furtum lance lincioque conceptum , anche presso il popolo di
Israele nel fatto di Rachele, che avendo sottratti gli idoli di Labano, li
aveva poi nascosti sotto le coperte del cammello , sovra cui essa si era
seduta; come pure nel fatto narrato da MACROBIO , Saturnalia , I, 1, cap. VI in
fine, ove si narra di un Tremellio, a cui sarebbesi imposto il soprannome di
Scrofa , perchè avendo rubata una scrofa uccisa, aveva poi fatto sedere sopra
di essa la propria moglie, e aveva giurato, in via di purgazione, che colà non
eravi altra scrofa, fuori di quella. Ciò dimostra come questa procedura
primitiva siasi naturalmente formata presso popoli diversi ; ma non potrei
convenire nell'apprezzamento dell'autore, per cui nelle epoche primitive non si
guarderebbe che all'adempimento delle forme esteriori della procedura; poichè
nel fatto stesso citato da MACROBIO, noi abbiamo l'opinione generale, che segna
a dito colui, che ricorse a quell'ignobile stratagemma, imponendogli il
soprannome di Scrofa ( V. Esmein , Mélanges d'histoire de droit, Paris, 1886,
pag. 233 et suiv.). L'autore poi, il quale avvertì che il piatto , tenuto fra
mani da colui, che ricercava la cosa derubata nel furtum lance lincioque
conceptum , ricorda in certo modo la liba zione propiziatoria ai lari e ai
penati, che dovevasi fare prima di metter piede nella casa altrui, è il Leist,
Graec. Ital. R. G., pag. 241. Sul furtum lancie lincioque conceptum è da
vedersi la dissertazione del Gulli, Del furtum conceptum se condo la legge
delle XII Tavole . Bologna, 1884. - 112 zione di cose, mancando ancora
un'autorità , che siasi fatta ella stessa investigatrice e punitrice dei
misfatti, si comprendeche sia il derubato che prosegue il ladro , il marito
offeso che tenga dietro all'adultero e sorpreso l'uccida, e si richiederà
ancora lungo tempo prima che in Roma l'autorità pubblica si incarichi
direttamente della punizione di questi e di altri misfatti ( 1). Che se la
riparazione non venga ad essere accordata all'offeso , sarà anche naturale ,
che impegnisi una lotta fra le due famiglie , e che associandosi alle medesime
le genti, a cui esse appartengono, il duello privato mutisi talvolta in un
conflitto fra le due genti, ed anche in una guerra fra le tribù, di cui esse
entrano a far parte . 89. Cosi è pure dei rapporti interni fra i diversi membri,
che entrano a costituire la gente, quali sarebbero i rapporti fra il patrono ed
il cliente, ed anche i doveri della ospitalità , poichè essi cadono sotto la
protezione religiosa, e le violazioni di essi sono punite me diante la pubblica
disistima, e coll'intervento dell'autorità patriar cale e del consiglio degli
anziani, custodi e vindici delle tradizioni dei maggiori. Siccome però nella
gente già vengono ad esservi di versi capi di famiglia, che hanno una propria
familia , un proprio heredium , un proprio peculium ; cosi comprendesi come nel
vicus già possano sorgere delle controversie di carattere giuridico fra i
diversi padri: controversie che talvolta possono anche essere rese più accanite
dal vincolo stesso di parentela , che intercede fra le famiglie che
appartengono alla medesima gente. È tuttavia ancora sempre verosimile, che
l'interporsi di qualche anziano , che goda la fiducia comune dei contendenti,
possa indurli ad un amichevole com ponimento ; il che spiega come nei vici
siavi sempre un luogo per il mercato, in quanto che la distinzione del mio e
del tuo già rende possibile il commercium , manon vi si rinvenga sempre il
luogo per amministrare giustizia (2). Infatti il carattere esclusivamente
patriar cale dei rapporti, che intercedono fra i membri di essa , rendono ( 1)
Ciò accade sopratutto, quanto all' adulterio , che cominciò a formare oggetto
di un iudicium publicum solo colla legge Iulia , De adulteriis, che fu una di
quelle con cui Augusto cercò , ancorchè con poco frutto, di far rivivere il
buon costume. V. in proposito l'interessante articolo dell'Esmein , Le délit
d'adultère à Rome e la loi Iulia , De adulteriis (Mélanges d'histoire de droit,
pag . 71). (2) Quanto al vicus e al difetto , che talora trovasi in esso di un
magistrato per amministrarvi giustizia, vedi sopra pag . 67. 113 ripugnante
l'idea di una vera e propria lite, non solo fra patrono e cliente, ma anche fra
i padri o capi di famiglia , che discendono dal medesimo antenato e hanno per
mettersi d'accordo fra di loro l'autorità dei proprii anziani. 90. Nella tribù
invece, già si trovano di fronte capi di famiglia , che appartengono a genti
diverse e che più non discendono dal mede simo antenato , nè partecipano allo
stesso culto gentilizio : quindi già viene ad imporsi il bisogno di provvedere
in qualche modo all'am ministrazione della giustizia, più non essendovi
un'autorità di ca rattere esclusivamente patriarcale , che possa imporsi ai
capi di famiglia, che sono di discendenza e d'origine diversa . Dovette quindi
probabilmente essere questa necessità di provve dere all'amministrazione della
giustizia , che suggerì l'idea di una autorità chiamata a dirigere e ad
amministrare il pagus (magister pagi), la cui primitiva destinazione è ancora
indicata dai nomi di iudex e di praetor, ed anche da quello di tribunal
(derivato cer tamente da tribus), che significava dapprima il seggio, più
elevato sovra cui collocavasi quegli che era chiamato ad amministrare giu
stizia, e indicava così anche esteriormente la posizione cospicua , in cui egli
trovavasi di fronte agli altrimembri della comunanza ( 1). Queste controversie
intanto non possono naturalmente sorgere che fra i varii capi di famiglia, i
quali, memori delle loro tradizioni, sono dapprima troppo altamente compresi
del proprio diritto , perchè sia necessario che intervenga una legge a
dichiarare quello che loro appartenga; ma hanno piuttosto bisogno di essere
contenuti nell'esercizio violento delle proprie ragioni e di conoscere il
processo , che debbono seguire per ottenere giustizia, senza dover ricorrere
alla privata violenza . È questo il motivo, per cui presso tutti i popoli
primitivi la prima forma che giunse ad assumere il diritto fu quella dell'actio
, che è il complesso degli atti e dei riti solenni, che si debbono compiere per
far valere il proprio diritto davanti al magistrato : atti e riti solenni, che
presso genti come le latine, le quali imitano coi gesti e coi riti (1) La
posizione elevata del tribunal, sovra cui trovasi assiso il magistrato, perchè
« sedendo quiescit animus, et sedendo ac quiescendo fit animus prudens »
trovasi soventi accennata dai poeti latini, come indizio della dignità , a cui
era assunto colui, che era chiamato ad amministrare giustizia. V. Henriot,
Mæurs juridiques et judi ciaires de l'ancienne Rome, III, pag. 14 et suiv.). G.
CARLE, Le origini del diritto di Roma. 8 114 giudiziarii, ciò che un tempo
dovette seguire nei fatti, finiranno per contenere una storia simbolica dei
varii stadii, per cuidovette pas sare l'amministrazione della giustizia, prima
di giungere ad essere accettata e riconosciuta dallo spirito fiero ed
indipendente dei primi capi di famiglia . 91. Che se si volesse spingere anche
più oltre questa ricostru zione del diritto primitivo, che ebbe a svolgersi nel
seno della tribù, potrebbe affermarsi con certezza , che le due prime figure di
rei, contro cui la giustizia umana abbia dovuto associare i proprii sforzi
colla giustizia divina e colla esecrazione della generale opinione , do vettero
essere quella del parricidas e del perduellis. Ivi infatti è sopratutto
l'uccisione del padre di famiglia , che per il carattere pa triarcale della
comunanza viene ad essere considerato come padre rimpetto a tutti i membri di
essa, i quali talvolta continuano ancora a chiamarsi col nome di fratelli (1),
che è il grande misfatto contro le leggi divine ed umane, il quale pudmettere
in lotta le famiglie fra di loro , ed anche rimanere impunito , quando
l'autorità comune non si mettesse in movimento contro di esso. Nèripugna al
carat tere della comunanza patriarcale, che la punizione del parricida
acquistasse in certo modo un carattere tradizionale e fosse accom pagnata da
certe pratiche, che possono anche avere un significato simbolico , e che
potrebbero anche essere state portate dall'Oriente. Tali sono quelle, che più
tardi ancora accompagnano la punizione del parricida ; pratiche tradizionali,
che anche oggi in parte sopravvi vono e non possono dirsi compiutamente
abbandonate anche presso le nazioni civili (2 ). Così pure dovette essere un
processo del tutto natu (1) Questa circostanza , che tutti i membri della
comunanza patriarcale si chiamino fratelli, è attestata dal Sumner MAINE quanto
al villaggio Indiano: The early hi story of institutions, pag. 238, e qualche
cosa di analogo dovette accadere ancora nella tribù italica , ove non vi ha
dubbio, che i capi di famiglia erano generalmente indicati col vocabolo di
patres ; poichè di questo stato di cose rimasero ancora le traccie in Roma
primitiva . (2) È nota la punizione tradizionale contro il parricida, ricordata
ancora nella L. 9 , Dig. (48 , 9) Poena parricidii more maiorum haec instituta
est, ut parri cida , virgis sanguineis verberatus, deinde culleo insuatur cum
cane, gallo gallinaceo et vipera et simia ; deinde in mare profundum culleus
iactatur » . Qui il giurecon sulto lascia travedere, che la pena del parricidio
era stata conservata nel costume e trasmessa per via tradizionale (more maiorum
). Essa pertanto dopo essersi man tenuta nel costume più che nella legge,
contro i parricidi in senso stretto, ebbe poi ad essere sanzionata dalla lex
POMPEIA, De parricidiis. 115 rale, che condusse l'opinione generale di una
comunanza patriarcale a ravvisare un nemico in colui, che gettava la
perturbazione nella comunanza stessa e si disponeva a tradirla coi nemici di
essa ; co sicchè non dubitarono di applicargli il nome stesso , che davano al
nemico , con cui erano in guerra, il qual nome era quello appunto di
perduellis. Cið intanto darebbe una spiegazione molto proba bile e naturale del
fatto, che fece meravigliare gli stessi Romani, per cui Romolo prima e Numa
dopo avrebbero chiamato col nome di par ricidas anche l'uccisore di un uomo
libero, non che di quello per cui le prime e sole autorità incaricate di
perseguire e punire i mi sfatti in Roma primitiva avrebbero assunto il nome di
quaestores par ricidii e di duumviri perduellionis. Anche qui la legislazione
della città avrebbe cominciato dal riconoscere come pubblici reati quelli, che
già avevano cominciato ad assumere questo carattere nello stesso periodo
gentilizio , e a questi sarebbe poi venuta aggiungendo man mano quelli la cui
repressione appariva necessaria ; madi ciò si avrà campo a discorrere
lungamente in luogo più opportuno (1). 92. Ma vi ha di più , ed è che nella
tribù , come noi abbiamo visto a suo tempo, già si incomincia la formazione di
due ordini diversi di persone, che sono i patrizi e i plebei, i quali ultimi
più non entrano nei quadri dell'organizzazione gentilizia , ma già cominciano
ad es sere indipendenti dal patriziato , sebbene ancora si trovino in con
dizione assai inferiore e non abbiano potuto ancora dimenticare la loro antica
origine servile. Di fronte a questa condizione parmi non sia temeraria la
conget tura, che mi permetto di avventurare, secondo cui, nel periodo della tribù
e nel seno del pagus, non dovette soltanto cominciarsi lo svol gimento
dell'elemento giuridico, ma questo diritto primitivo dovette assumere due forme
essenziali ; in quanto che altro dovette essere il diritto , che governava i
rapporti fra i padri, che appartenevano alla stessa comunanza gentilizia,
ispirato all'idea della loro parità ed uguaglianza di condizione; ed altro
invece il diritto , che venne a svolgersi nei rapporti, che necessariamente
dovettero stabilirsi fra l'ordine superiore dei padri e quello inferiore della
plebe , il quale non potè a meno di ritenere qualche traccia della superiorità
che (1) La questione del parricidium e della perduellio sarà trattata nel lib.
II, di scorrendo delle leges regiae. 116 si attribuivano i primi e dell'inferiorità
di condizione, in cui sape vano di trovarsi i secondi. È solo col dare la
debita parte a queste due forme del diritto primitivo, le quali del resto
trovano la loro base nelle condizioni di fatto dei due ordini, che si possono
spiegare certe istituzioni pri mitive del diritto romano, quali sarebbero
quelle del mancipium , del nexum , della manus iniectio e simili; le quali, a
mio avviso, come dimostrerà a suo tempo, sono tutte forme giuridiche, che non
trovarono applicazione nei rapporti fra i padri e i loro discendenti patrizii,
ma soltanto nei rapporti fra i patrizii ed i plebei. Se si comprende infatti
che un plebeo, il quale non aveva dapprima altra garanzia da dare che quella
della propria persona, fosse co stretto a dare a mancipio sè stesso o la
propria figliuolanza, o ad obbligarsi con quella severità , che era propria del
nexum primitivo , e che il patrizio insoddisfatto potesse mettere la mano sopra
di lui e trascinarlo nel suo carcere privato , mediante la procedura della
manus iniectio ; questi modi di procedere non si possono invece comprendere fra
due capi di famiglia appartenenti alle genti pa trizie. Nè serve il dire, che
queste istituzioni passarono poi effet tivamente nel diritto quiritario ;
poichè anche questo fu l'opera dei patrizii, i quali, dettandolo, avevano
sopratutto per iscopo di gover nare e di reggere le plebi. Di più è un processo
del tutto romano quello per cui, quando si è creato un vocabolo o un concetto,
non si dubita di trapiantarlo in condizioni anche diverse da quella in cui ebbe
a formarsi ( 1 ). Sarà quindi opportuno tentare la ricostruzione dell'una e
dell'altra forma di questo primitivo diritto per trovare in esso la spiegazione
alcune singolarità del tutto peculiari al diritto quiritario . (1) Lo
svolgimento di questa teorica può vedersi in questo stesso libro Capo X , ove
si tratta appunto di alcuni primitivi concetti del diritto quiritario. Di
alcuni caratteri generali del diritto primitivo delle genti patrizie. 93. I
giureconsulti classici col dire che il ius hominum causa constitutum est,
enunciarono una verità , che trova una piena con ferma nei fatti , quando
seguasi il processo , con cui il diritto primi tivo vennesi formando fra le
genti del Lazio . Credo di aver dimostrato , che finchè trattavasi di persone,
che appartenevano al medesimo gruppo, il fas, il mos e l'autorità pa triarcale,
stabiliti in seno delle varie aggregazioni, potevano bastare a qualsiasi
emergenza. Così invece non era, allorchè i capi di fa miglie, appartenenti ai
diversi gruppi, venivano a mettersi in rapporto fra di loro ; poichè in allora
, mancando la comune discendenza e l'autorità patriarcale di un capo, conveniva
di necessità porre le reciproche obligazioni sotto l'impero di un comune
diritto. Di qui provennero alcuni caratteri importantissimidel diritto
primitivo, che possono spargere molta luce sulla formazione del diritto
quiritario , e dileguare una quantità di sottigliezze, che furono immaginate
per spiegare quel diritto , senza cercarne la causa nelle condizioni sociali, che
ne determinarono la formazione. 94. Il primo di tali caratteri sta in questo,
che i rapporti giuri dici, nel vero senso della parola , sorsero dapprima fra i
capi di gruppo , anzi che fra i singoli individui, che erano assorbiti ed uni
ficati nel medesimo. Di qui le solennità, che dovevano necessaria mente
accompagnarne gli atti, come quelli che non riguardavano gli interessi
particolari di questo o di quell'individuo ; ma si riferi vano all'interesse
dell'intiero gruppo da lui rappresentato , e così avevano, per usare il
linguaggio moderno, un'importanza pressochè internazionale. Non fu pertanto
amore di formalismo, che guido un popolo così eminentemente pratico, come il
romano, nella forma zione del proprio diritto ; ma questo , nei suoi esordii
apparve ingombro di formalità e d i finzioni, solo perchè , dopo essere
stato preparato in un periodo di organizzazione sociale, fu trapiantato 118 in
un altro dallo spirito conservatore del popolo romano. Anzichè archittettare
formalità artificiose, i romani si valgono invece di quelle, che si erano
formate nella realtà dei fatti in un periodo anteriore, e con piccole
modificazioni, che sono rese necessarie dalle nuove esigenze, fanno entrare in
esse i rapporti, che si vengono svolgendo più tardi nella comunanza civile e
politica (1). Nel che se guono un processo, che non abbandonarono neppure più
tardi; quello cioè dinon creare giammai una forma novella, finchè quella già
prima (1) Il formalismo è certo uno dei caratteri più salienti del diritto
primitivo di Roma. Si comprende quindi, che gli autori contemporanei se ne
siano largamente occupati e fra gli altri il SUMNER Maine, L'ancien droit ,
Chap. II, in cui si oc cupa delle finzioni legali, e sopratutto poi il JHERING
, che ebbe a dedicarvi buona parte del III volume della sua opera : L'esprit du
droit Romain , da pag. 109 fino al fine. La conclusione, a cui sarebbero venuti
questi autori, sarebbe,che questo forma lismo del diritto primitivo di Roma
debba essere attribuito alla predilezione del popolo romano per l'elemento
esteriore ; carattere, che Roma avrebbe comune con tutti i popoli primitivi, e
proveniente da ciò , che i medesimi riguardano più alla forma che alla
sostanza. Senza voler qui entrare in una discussione, che mitrarrebbe troppo in
lungo, mi limito unicamente ad osservare, che il formalismo non è un fenomeno,
che comparisca presso i popoli veramente primitivi;ma che esso compare
soltanto, al lorchè istituzioni formatesi in un'epoca si trasportano in
un'altra, in cui più non si comprenda la significazione delle medesime. Dei
popoli primitivi non si può dire , che essi siano amici della formalità ;
perchè essi cercano di esprimere ciò che sentono col gesto, cogli atti e colle
parole ad un tempo, e quindi hanno una mimica , la quale, anzichè essere artificiosa
ed architettata , tende ad essere l'espressione effettiva e reale delle loro
sensazioni ed emozioni. Quindi il formalismo, anzichè essere l'indizio di un
popolo primitivo, è invece l'effetto dello spirito conservatore, che trasporta
forme create in un periodo ad un altro, in cui esse hanno perduto qualsiasi
significazione . Tutte le forme, che si conservano come tali, sono
sopravvivenze di un'epoca trascorsa , che sono trapiantate in un'altra , la
quale più non le capisce, e quindi si limita ad osservarle pressochè
materialmente. Ciò accade nella religione, nella morale , nel di ritto, e
accadde certamente nel diritto di Roma, il quale, se diventò formalista, fu
perchè il patriziato romano volle conservare le vestigia del passato e fare
entrare nelle forme preparate nel periodo gentilizio i nuovi rapporti , che
erano creati dalla convivenza civile e politica. Non è quindi da ammettersi,
che la forma esteriore del diritto si elabori prima della sostanza di esso ; nè
che i popoli primitivi diano maggior importanza alla forma, che alla sostanza.
Forma e sostanza invece si presentano dapprima indissolubilmente congiunte, ed
è solo più tardi, allorchè si vorrebbero conservare le forme antiche, e fare
entrare nelle medesime una sostanza nuova , che si viene alla conseguenza, per
cui a forma dat esse rei. » Ciò che accade nel diritto, avverasi eziandio nel
linguaggio, il quale nella sua prima formazione adatta la parola al concetto;
il che non impedisce perd , che più tardi, trasportandosi la stessa parola ad
un altro concetto, si venga alle significazioni traslate , la cui origine può
talvolta essere poi difficilmente compresa . 119 esistente possa ancora bastare
al bisogno. Del resto non può neppure dirsi, che negli inizii di Roma questo
diritto fosse veramente disac concio, dal momento che allora soltanto si usciva
da una condizione di cose , in cui il padre rappresentava effettivamente quel
complesso di persone e di cose , che dipendevano da esso . Quindi era natu
rale, che per qualche tempo il diritto primitivo conservasse quel medesimo
carattere, che aveva acquistato durante il periodo genti lizio ; solo cominciò
a diventare artificioso e disadatto alle nuove condizioni sociali il diritto
primitivo di Roma, quando al padre si venne sostituendo il cittadino, e più
ancora quando al cittadino si sostitui l'uomo libero. Del resto non è poi
difficile il ricostruirsi nel pensiero un'organizzazione, in cui sia veramente
il padre, che compia tutto ciò, che si riferisce al gruppo da lui rappresentato
, per guisa, che esso sia padre quanto ai figli, padrone quanto ai servi,
patrono quanto ai clienti, e rappresenti il gruppo da lui governato , ogni
qualvolta trattasi di entrare in rapporto con altri gruppi. Di questo padre
antico ci hanno conservato la imponente figura non tanto gliscrittori di cose
giuridiche, che lo irrigidiscono di troppo perchè lo riguardano sotto l'aspetto
esclusivamente giuridico ; ma gli altri scrittori latini, allorchè ci
dipingono, ad esempio, Appio Claudio, capo di una grande famiglia , custode
geloso dell'antico costume, il quale continua, ancorchè vecchio e cieco, ad
esercitare, venerato e temuto ad un tempo, la propria autorità sui figli, sui
servi, e sopra un nu mero grandissimo di clienti ( 1). Del resto anche il
diritto lascia di quando in quando travedere quest'aureola patriarcale , che
circonda il capo di famiglia , come lo dimostrano le seguenti parole attribuite
ad Ascanio : « Moris fuit,unumquemque domesticam rationem sibi totius vitae
suae per dies singulos scribere, quod appareret quid quisque de reditibus suis,
quid de arte, de foenore lucrove sepo suisset, et quo die, et quid idem sumptus
damnive fecisset.» (2 ). Tuttavia anche questa descrizione tende già a dare
all'autorità del padre un carattere essenzialmente giuridico;mentre invece ,
riportan doci al periodo gentilizio , questa figura primitiva presentasi anche
(1) Cic., Cato maior, II , 37. È poi sopratutto nei poeti latini, e
specialmente nei comici, come Plauto, che si può facilmente scorgere la
differenza fra la patria po destà, quale era giuridicamente concepita é quale
invece esisteva nel fatto. È da vedersi in proposito l'Henriot, Moeurs
juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome, tome 1er , pag. 347 a 356 . (2 )
V. Bruns, Fontes juris romani antiqui. Edit. V , Friburgi, 1887 , pag. 397 .
120 più imponente col suo carattere patriarcale e religioso ad un tempo ; e
quindi si può comprendere come l'acceptum , l'expensum , lo spon sum , lo
stipulatum , l'actum , il iussum del capo di famiglia si cam biassero in
altrettanti atti solenni, che diventarono poi il substratum di altrettante
configurazioni giuridiche in un periodo posteriore (1). 95. Un secondo
carattere poi sta in questo , che il diritto primitivo presentasi fra questi
capi di famiglia appartenenti a genti e a tribù diverse , come il solo mezzo
per stabilire e mantenere la pace fra i medesimi. Se infatti il suo impero non
fosse riconosciuto non avreb besi altro espediente , che quello di ricorrere
alla manuum consertio , la quale, allargandosi dalla famiglia alle genti, e da
queste alle tribů , manterrebbe le medesime in uno stato di guerra permanente,
i cui ran cori si verrebbero poi perpetuando di generazione in generazione (2).
(1) Accenno qui ad un concetto, che sarà svolto più largamente altrove.
Diregola si suol cercare nel diritto quiritario il complesso di tutti gli atti
e dei negozi giu ridici, che potevano essere richiesti dalle condizioni sociali
del popolo, fra cui esso vigeva. Esso invece non comprese dapprima tutti i
rapporti giuridici, che già esi stevano nel costume e nella consuetudine ; ma
cominciò dal comprendere quelli, che erano resi più urgenti dalle esigenze
della vita civile e politica. Fu in questo modo, che esso comincia dall'essere
un ius quiritium , che si aggira su pochissimi concetti fondamentali, i quali
si adattano a tutte le possibili evenienze; poi trasformasi nel ius proprium
civium romanorum ; quindi assorbisce anche nella propria cerchia le istituzioni
del ius gentium ; e da ultimo giunge ad informarsi persino al iusnaturale; concetti
questi che, se non avevano ancora una configurazione scientifica, vivevano però
già nella coscienza generale del popolo romano, fin dal proprio esordire nella
storia . (2) Ciò mi conferma in una antica convinzione , che ho già avuto
occasione di esporre nell'opera : La vita del diritto nei suoi rapporti colla
vita sociale. Lib. I, Cap. I, pag . 38 e seg., la quale consiste in ritenere,
che anche nelle epoche pri mitive il diritto non confondesi colla forza ; ma
compare invece qual mezzo per reprimere la forza e la violenza . So che questa
opinione ebbe ad essere combattuta da egregi giovani, che si occuparono
dell'argomento, e fra gli altri dallo Zocco-Rosa, Preistoria del diritto.
Milano 1885, pag. 31, e dal Puglia , L'evoluzione storica e scientifica del
diritto e della procedura penale, pag. 42, nota ; ma i fatti mi in ducono a
persistere nella medesima. Non è già che io neghi, che siavi stato un periodo,
in cui abbia predominata la forza e la privata violenza : ma quando pre sentasi
il diritto, esso non solo non confondesi colla forza, ma si propone senz'altro
di reprimerla, obbligandola a seguire certi processi, che ne impediscono le
esagera zioni e gli eccessi. In questo senso aveva ragione il poeta di scrivere
: Nam genus humanum . Ex inimicitiis languebat; quo magis ipsum Sponte sua
cecidit sub leges arctaque iura . Lucretius, De rerum natura, Lib . V , v .
1144-46. 121 Cid è anche dimostrato dal carattere del tutto particolare, che
assu mono le guerre in questo periodo, e che si mantiene ancora per qualche
tempo nella storia primitiva diRoma. Tali guerre infatti il più spesso prendono
le mosse da qualche controversia, di carattere pressochè famigliare, che viene
poi estendendosi mediante le aderenze e le pa rentele, e riduconsi in sostanza
a scambievoli scorrerie, che le varie tribù e genti vengono facendo nei
rispettivi loro territorii; scorrerie , che si sospendono mediante le induciae
nella cattiva stagione, e vengono poi ad essere riprese nell' anno seguente.
Ciò fece quasi credere, che queste genti primitive fossero in uno stato
perpetuo di guerra; il che non può essere ammesso , perchè è contraddetto dalle
solennità stesse, che accompagnano così le dichiarazioni di guerra, come la
formazione delle tregue, delle alleanze e delle paci, il che apparirà meglio a
luogo più opportuno. 96. Un ultimo carattere infine, sta in ciò, che la
formazione del primitivo diritto non si avvera dapprima nei rapporti interni
dei sin goli gruppi; ma piuttosto nei rapporti fra le famiglie, fra le genti,
fra le tribù, o almeno fra i loro capi, per guisa che i primi vocaboli di
significazione eminentemente giuridica contrappongono sempre l'uomo all'uomo,
ed indicano dei rapporti amichevoli od ostili, che vengono a svolgersi fra i
diversi capi di gruppo . Di qui la conse guenza in apparenza strana, ma
certamente fondata sui fatti, che la formazione di un diritto , che governava i
rapporti fra le varie genti, dovette precedere la formazione del diritto
privato propria mente detto : il che è dimostrato anche dalla considerazione,
che negli antichi scrittori si discorre dei iura gentium , prima ancora che si
discorra del ius quiritium e del ius civium romanorum . Infatti: i iura gentiun
, i foedera, le sponsiones fra i capi delle varie genti erano già rapporti, che
si erano svolti anteriormente alla formazione della comunanza romana, mentre il
ius quiritium dapprima e il ius civile più tardi nacquero e si svolsero colla
stessa città di Roma; il che appare eziandio dal processo delle cose sociali ed
umane, che ci è descritto dagli antichi poeti latini. Intanto fu sopratutto sui
mercati, ove comparivano i varii capi di famiglia , ed ove, oltre gli scambi,
si potevano anche trattare le alleanze e le paci, che cominciò la formazione di
un vero e proprio diritto ; il quale, esplicandosi fra capi di famiglia, che
appartenevano a genti diverse, e che non erano ancora soggetti al medesimo
diritto , dovette necessariamente essere dapprima piuttosto un ius gentium ,
che non un diritto , che - 122 potesse chiamarsi ius civile. Questo anzi non
potè formarsi altri menti, che col trasportare fra i cittadinidella medesima
città quelle forme, che si erano prima elaborate nei rapporti contrattuali fra
i capi delle varie genti e famiglie ( 1). Si può quindi affermare, che anche
quel diritto primitivo di Roma, che appare nella storia con caratteri di
maggior rozzezza e violenza, non trovi sempre la pro pria origine nella forza,
come molti sostengono ; ma che in parte abbia avuto invece un'origine
essenzialmente contrattuale, come la città , in cui esso era chiamato a
ricevere il suo svolgimento . Il diritto , anziché doversi confondere colla
forza, compare invece, allorchè si comincia ad uscire da uno stato di privata
violenza , e se la forza continua ancora nei rapporti fra le varie tribù, gli è
perchè esse non riuscirono ancora a sottoporsi, mediante accordo, all'impero di
un medesimo diritto . Fu solamente più tardi, allorchè la città co minciò ad
essere abbastanza forte e potente, per imporsi ai singoli gruppi, che
l'autorità civile potè penetrare eziandio nelle mura do (1) Non mi dissimulo
l'arditezza di una idea, che conduce in sostanza a dire, che si formò dapprima
il ius gentium , che non lo stesso ius civile , e che il ius quiri tium fu un
diritto, formatosi dapprima fra le genti e i loro capi, e poscia trapiantato
fra i quiriti: ma questo processo è per tal modo confermato dai fatti e ne
appari ranno man mano prove così evidenti , che mi sembra impossibile il
poterlo negare. Del resto la ragione di esso trovasi in questo, che mentre la
famiglia poteva fare a meno del diritto nei suoi rapporti interni; questo
invece era indispensabile nei rapporti fra le varie famiglie e fra le varie
genti. Che anzi , dacchè sono nel do minio delle induzioni, aggiungerò ancora ,
che ai iura gentium dovette precedere il senso di quei iura naturalia , quae
natura omnia animalia docuit ; per guisa che il diritto nel suo svolgimento di
fatto sarebbe prima uscito dalle tendenze spontanee dell'umana natura ; poi
sarebbe stato elaborato nei rapporti fra le varie genti; e solo più tardi
sarebbe comparso nell'interno della città . Esso insomma nei fatti seguì un
processo del tutto opposto a quello che seguì la scienza del diritto in Roma;
la quale cominciò invece dalle cautele del ius civile; poi venne ad abbracciare
anche l'equità del ius gentium ; e più tardi soltanto giunse ad innalzarsi
all'umanità del ius natu rale. Vi ha però questa differenza , che i iura
naturalia primitivi sono l'opera in consapevole degli istinti dell'umana natura
, e i primitivi iura gentium consistono in un complesso di pratiche fra le
varie genti, imposte dalle necessità di fatto ; mentre il ius gentium accolto
dal pretore e il ius naturale dei giureconsulti sono già nozioni astratte , a
cui essi pervennero, mediante la riflessione ed il ragiona mento, e forse
neppure da soli, quanto al ius naturale, ma col sussidio della filosofia greca
, più atta a svolgere questi concetti speculativi ed astratti. Mi rimetto,
quanto allo svolgimento del concetto di ius gentium e di ius naturale, a ciò
che ho scritto nella Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, pag
. 179 a 194 , lasciando a chi legge di notare le modificazioni, che qui sonovi
arrecate. 123 mestiche, e sostituirsi a poco a poco alle norme di carattere
esclusi vamente religioso e morale, imponendo un diritto , a cui tutti devono
inchinarsi, perchè è l'espressione della volontà collettiva e comune. $ 2 . Il
connubium e il commercium nel periodo gentilizio . 97. I caratteri del diritto
primitivo, che ho fin qui cercato di ricavare dall'esame dei fatti, appariscono
eziandio dai vocaboli più antichi, che presso le genti latine abbiano avuta una
portata ve ramente giuridica, quali sono quelli di connubium , di commercium e
di actio, e dalla significazione, che questi vocaboli ebbero ante riormente
alla formazione stessa della città . Infatti non può esservi dubbio , che tutti
questi concetti già avevano un contenuto preciso , allorchè comparve la
comunanza romana; ma essi non indicano ancora un complesso di diritti, che
appartenga a questa od a quella per sona, ma piuttosto dei rapporti, di
carattere pressochè contrattuale , che esistono fra le famiglie , le genti e le
tribù e i capi rispettivi delle medesime. La stessa actio , nel suo significato
giuridico, ha un'origine pressochè contrattuale, come lo dimostra il fatto, che
essa suppone il rimettersi di due persone ad un'autorità accettata da entrambi,
ed una reciproca scommessa fra i contendenti, con cui entrambi affermano di
essere nel buon diritto . Fu solo più tardi, che questi vocaboli, i quali
significavano primitivamente deirapporti, che inter cedevano fra le varie genti
e i loro capi, trapiantati fra i cittadini della medesima città vennero a
costituire altrettanti capi saldi, da cui si staccarono le forme essenziali,
sotto cui ebbe poi a svolgersi il diritto quiritario . È poi degno di nota,
come questi vocaboli, che primi acquista rono una significazione giuridica,
abbiano questo di particolare , che contrappongono l'uomo all'uomo, indicando
per tal modo come il diritto sia veramente nato colla società umana, e sia
chiamato ad essere il vinculum societatis humanae. Nel connubium infatti ab
biamo una persona, che esce da una famiglia per entrare in un'altra ; nel
commercium abbiamo una persona , che, obligando se stessa od alienando la sua
proprietà , addiviene a quelle molteplici relazioni di affari e di negozii
giuridici, di cui si intesse la vita sociale sotto l'aspetto economico;
nell'actio infine, abbiamo parimente una persona che, ritenendosi lesa in
questo o in quel diritto da un'altra persona, 124 - lo afferma e lo fa valere
di fronte alla medesima, appigliandosi a quei mezzi, che possono conciliarsi
colle esigenze della vita sociale . Per tal modo il ius pone l'uomo di fronte
all'altro uomo, e si può af fermare con ragione che hominum causa constitutum
est. Intanto ciascuno di questi concetti è eminentemente sintetico e compren
sivo per modo che ognuno può servire come punto di partenza a tutto un
complesso di diritti ; il che apparirà ancora , allorchè Gaio, riassumendo
l'elaborazione scientifica di molti secoli, finirà per con chiudere, che : omne
ius vel ad personas, vel ad res, vel ad actiones pertinet (1). (1) Non ignoro
come questa classificazione sia stata di recente combattuta sopra tutto in
Germania , e fra gli altri. dallo stesso SAVIGNY, il grande iniziatore del
movimento contemporaneo negli studii storici intorno al diritto, il quale
giunse fino a sostenere, che la distinzione di Gaio non aveva nè valore
storico, nè valore intrinseco . Traité de droit Romain . Trad . Guexoux, Paris
1840 , I, pag. 387 a 404. Parmi tuttavia, che chi consideri la correlazione
perfetta, che vi ha fra la classifi cazione teorica di Garo, e i concetti, da
cui il diritto quiritario ebbe a prendere le mosse, e tenga conto di quella
dialettica potente, che stringe insieme le varie parti della giurisprudenza
romana, malgrado i quattordici secoli, per cui durò l'ela borazione di essa ,
possa difficilmente ammettere, che qui trattisi, come il SAVIGNY dice a pag.
390, dell'opinione individuale di un giureconsulto, e che come tale sia priva
di qualsiasi valore storico ed intrinseco . Essa invece ha valore storico ed in
trinseco ad un tempo, perchè compenetra tutta la giurisprudenza romana ; in
quanto che sarà facile il dimostrare a suo tempo, che nel diritto civile romano
tutta la parte relativa ai diritti di famiglia e quindi alle persone non fu che
uno svolgi mento del concetto primitivo del connubium ; tutta quella relativa
alle cose non fa che una deduzione dal concetto di commercium ; e infine quella
, che si riferisce alle azioni, non fu che il frutto di un'elaborazione lenta e
non mai interrotta del concetto primitivo di actio. Cfr. al riguardo Carle , De
exceptionibus in iure Ro mano. Torino, 1873, pag . 13. L'autore , che pose
meglio in evidenza la correlazione fra connubium , commercium ed actio , fu il
LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 13, in nota . Che anzi i
giureconsulti proseguirono lo svolgimento di queste forme essenziali del
diritto, senza mai confondere lo svolgimento dialettico dell'una con quello
dell'altra; per modo che certe singolarità del diritto romano solo si pos sono
spiegare, in quanto che la dialettica giuridica non consentiva di confondere
due ordini diversi di idee. Di più se fosse qui lecito di porre innanzi una conside
razione, che potrà parere troppo filosofica , non dubito di affermare, che nel
con cetto romano la distinzione seguita da Gaio esprime tre atteggiamenti
diversi del diritto compreso in tutta la sua larghezza, il quale appartiene
alla persona, si spiega sulle cose, e infine violato affermasi mediante
l'azione. È da questa concezione sintetica e potente del diritto in Roma, che
procede la primitiva indistinzione fra il diritto personale , il diritto reale
e l'azione, che serve a difenderli. 125 98. Fra questi concetti presentasi
anzitutto quello di connubium , che nella sua significazione primitiva indica
la facoltà, che appar tiene ad individui, i quali appartengono a genti diverse,
di impa. rentarsi fra di loro, mediante quelle nozze , che dalle genti sono
rico nosciute come giuste e legittime (1). Esso ha per effetto di mescolare le
stirpi, e quindi si comprende, che nell'alto concetto, che avevano le genti
patrizie dei proprii an tenati e del sangue, che correva nelle loro vene,
questo dovesse essere un rapporto, in cui tendevano piuttosto a restringersi,
che non ad estendersi. Solo le genti, che appartenevano al medesimo nomen,
fosse questo il latino, il sabino o l'etrusco, avevano fra di loro comunanza di
connubii, il che è anche provato dalla tradi zione, secondo cui, se i Ramnenses
vollero avere il connubium coi Titienses, dovettero ricorrere alla violenza ed
alla forza ; il che perd non tolse, che il mescolarsi del sangue delle due
tribù sia stata la causa del loro successivo affratellarsi per formare una
medesima città . Furono infatti le donne di origine sabina che (secondo una
tradizione, la quale se non è vera è certo ben trovata ) si interposero fra i
mariti ed i fratelli e riuscirono così ad affratellarli nella stessa città ,
dando perfino il loro nome alle curie, in cui essa è ripar tita (2). Cosi pure
si comprende, che anche fra le genti, che ap partenevano allo stesso nomen e
facevano anche parte della stessa tribù , il connubium non potesse esistere fra
i due elementi, di cui (1) È questa la significazione primitiva , che si
attribuisce al vocabolo, allorchè parlasi di connubium fra le varie genti, o
fra il patriziato e la plebe. Fu solo nel diritto quiritario, che il ius
connubië passò a significare il diritto di addivenire alle iustae nuptiae , e
venne così a dare origine a tutti quei rapporti giuridici, che si riferiscono
alla famiglia. È da esso infatti, che deriva la manus, che fonda la fa miglia;
la patria potestas, che spiegasi, allorchè nascono dei figli ; e infine la
stessa successione legittima, la quale si avvera , allorchè , morendo il capo
di famiglia , si discioglie quel gruppo, e si riparte quel patrimonio, che in
lui trovavansi unificati. (2 ) Questa tradizione è riferita da Livio e da
Dionisio : ma non sembra essere confermata dai fatti, perchè alcuni dei nomi
delle curie primitive, che giunsero fino a noi, sembrano essere tolti più dai
luoghi che dalle persone . V. LANGE, Hist. intér. de Rome, I, pag . 48. Ad ogni
modo questa è una tradizione, che se non è vera , è certo ben trovata, in
quanto che dimostra l'importanza, che dovette avere un avvenimento che la
rompeva col passato , e rendeva possibile il connubium fra persone, che non
appartenevano al medesimo nomen , preso nel senso di stirpe e di schiatta. Fu
questa prima mescolanza del sangue latino col sabino, che rese possibile la
potente attrazione esercitata da Roma su tutte le stirpi italiche, il che è
riconosciuto da CICERONE, De Rep., II, 7. 126 l'uno in origine rappresentava la
classe dei vincitori e l'altro quella dei vinti. Non poteva quindi esservi
connubio, nè fra i liberi ed i servi, nè nè fra i patroni ed i clienti, e
neppure fra i patrizii ed i plebei. Queste varie gradazioni costituivano
pressochè due caste diverse, il cui sangue non doveva confondersi, come lo dimostrano
le lunghe lotte, che si dovettero sostenere anche più tardi per ac comunare i
matrimonii fra il patriziato e la plebe ( 1). Intanto pero questo connubium ,
frammezzo a genti, che costitui vano per così dire altrettante piccole potenze
, riducevasi in realtà a staccare una donna da un gruppo, di cui prima faceva
parte , per trasportarla in un altro ; il che importava eziandio un cam
biamento nel culto gentilizio , perchè essa abbandonava quello dei suoi padri
per diventare partecipe di quello del marito. Di qui la necessità per le giuste
nozze di una cerimonia religiosa, come quella della confarreatio, a cui
assistevano i capi di famiglia della gente e delle tribù , a cui apparteneva lo
sposo e la moglie , e che importava la comunione delle cose divine ed umane (2
). Di qui la conseguenza eziandio , che quanto era dalla moglie recato con sè
dovesse diventare ( 1) A chi chiedesse col linguaggio ora adottato, se le genti
italiche praticassero l'endogamia o l'excogamia (V. SPENCER , Principes de
sociologie, II, Chap. IV , pag. 225 a 250 ), si dovrebbe rispondere, che esse
sotto un certo aspetto erano exogame, perchè ritenevano nefarie le nozze fra
persone strette da un certo vincolo di paren tela, fra quelle persone cioè, fra
cui esisteva, secondo l'antico linguaggio , il ius osculi, ossia fino al sesto
grado; mentre poi erano endogame nel senso, che il patrizio per scegliere la
propria compagna non poteva uscire dalle genti, che appartenevano allo stesso
nomen. Pare però, che questa consuetndine tradizionale siasi modificata dagli
stessi romani, i quali, misti fin dalla origine, furono anche in seguito i più
facili a me scolare il proprio sangue con altre stirpi. Cfr. PANTALEONI, Storia
civile e costitu zionale di Roma. Torino, 1881, pag. 46 . (2) Parmi allo stato
attuale degli studii incontrastabile l'opinione, che considera la confarreatio
, come esclusivamente propria delle genti patrizie. Tra gli autori re centi
seguono tale opinione : l'EsMein nella sua dissertazione: La manus , la pater
nité et le divorce , pubblicata nei Mélanges d'histoire de droit, Paris, 1886 ;
il Glasson, Le mariage civil et le divorce, Paris, 1884, pag. 154 a 180 , e
pare anche il nostro Brininel suo bel lavoro sul Matrimonio e divorzio nel
diritto romano , Bologna , 1886, pag. 49. Del resto varii indizii di questa
origine patrizia della con farreatio si hanno nel carattere religioso della
cerimonia, nei dieci testimonii che ricordano le dieci curie delle tribù , e in
ciò che le leggi regie da Dionisio attribuite a Romolo ed a Numa, non ricordano
che le nozze confarreate . V. Bruns, Fontes, pag. 6 e 9. Per ciò che si
riferisce alla famiglia romana è fondamentale l'opera dello SCHUPFER, La
famiglia nel diritto romano. Padova, 1866 . 127 proprietà del marito, o di
colui, sotto la cui potestà trovavasi ancora il marito ; e che la medesima, per
entrare nei quadri del gruppo, a cui veniva ad aggregarsi, cadesse sotto la
manus del capo di famiglia , ed acquistasse la posizione migliore, che poteva
esservi nella mede sima, che era quella di figlia ( filiae loco). 99. Viene in
seguito il commercium , il quale in questo periodo non significa ancora quel
complesso di diritti, che scaturiscono dal dominio , ma ha il suo vero e
proprio significato di rapporti com merciali,che possono intervenire fra i capi
di famiglia , appartenenti a genti diverse ( 1). Qui il rapporto è assai più
superficiale, ed è per sua natura tale , che può essere di reciproco vantaggio
per i con traenti. Il commercium pertanto prende un più largo sviluppo ; ed
esiste non solo fra il patriziato e la plebe, fra cui era reso in dispensabile
dalla coesistenza sul medesimo suolo , ma anche fra coloro, che appartengono a
stirpi diverse . Che anzi fra queste sonvi anche le stirpi, che, per avere
attitudine maggiore ai commerci, fan nosi in certo modo intermediarie dei
medesimi fra le varie genti e tribù; il quale ufficio fra le genti italiche
sembra essersi compiuto sopratutto per opera dell'elemento etrusco . Sono
questi commerci, che vengono ravvicinando le varie genti, e conducono
gradatamente a cambiare certi siti neutrali in luoghi di riunione ad epoche de
terminate e fisse (conciliabula , fora) (2 ). È poi un grande vantaggio (1)
Anche qui la significazione primitiva del vocabolo commercium appare da ciò,
che Roma fin dagli inizii trovasi circondata da popolazioni, con cui pratica il
com mercium . È solo per opera del diritto quiritario , che il concetto di
commercium , applicato fra i cittadinidi una medesima città, dà origine al ius
commercii,il quale poi, sviscerato negli elementi , che entrano a costituirlo,
viene a scindersi; nel ius emendi ac vendendi , che in antico operavasi colla
mancipatio ; nel nexum , da cui deriverà la teoria delle obbligazioni; e infine
nella testamenti factio, che comprende la facoltà di fare e di ricevere per
testamento, e quella perfino di essere testimonio nel medesimo. Cfr . Lange,
Histoire intérieure de Rome, I, pag. 13. Per tal modo nello svolgimento
dialettico del diritto quiritario la successione legittima e la te stamentaria
vengono a spiegarsi in un diverso ordine di idee in quanto che la prima dipende
dal connubium (V. sopra pag. 125 , nota 1), e l'altra deriva dal commercium .
Questa forse è la vera ragione della massima: « Ius nostrum non patitur eumdem
in paganis testato et intestato decessisse , earumque rerum naturaliter inter
se pugna est. » Pomp., I, Dig. (50 , 17). È proprio infatti dei giureconsulti,
che essi una volta , che hanno separato due ordini di idee, non li confondano
più insieme, il che apparirà più chiaramente altrove. (2) Secondo il SUMNER
Maine, qualche cosa di analogo sarebbe anche accaduto fra 128 per una comunanza
incipiente, se la medesima sia posta in tal sito da richiamare alle proprie
fiere ed ai proprii mercati le popolazioni vicine ; vantaggio , che fu una delle
cause , per cui Roma, diventata ben presto un emporio per il commercio delle
popolazioni latine , potè esercitare sovra di esse un'attrazione ed
assimilazione potente ( 1). le antiche comunanze di villaggio dell'Oriente ;
fra le quali esistevano degli spazii di terreno neutrali, che servivano per
trattare le paci e per il mercato (Village Communities, pag . 188 e seg.).
Secondo l'autore, si avrebbe un indizio della primi tiva associazione del
commercio e della neutralità negli attributi di Mercurio, dio comune alle
stirpi di origine aria , che da una parte sarebbe il dio dei termini, il primo
dei messaggeri ed ambasciatori, e per ultimo anche il patrono del commercio ,
dei confini, e un poco anche dei furti e dei ladronecci. Intanto da questa
circostanza in apparenza di poco rilievo, per cui nel medesimo sito si facevano
gli scambii e si trattavano le alleanze e le paci fra le varie genti, derivò
questa importantissima conseguenza , che come in quest'epoca non si distingueva
il diritto privato dal pubblico, così non distinguevasi il diritto commerciale
, da quel diritto, che ora si chiame rebbe internazionale. L'uno e l'altro
erano compresi nel ius gentium , il che spiega come questo vocabolo talvolta
indichi soltanto dei rapporti fra cittadini e stranieri, e talvolta comprenda
anche i rapporti di carattere pubblico fra varii popoli. Non pud però esservi
dubbio , che il ius gentium , allorchè viene a penetrare nel diritto romano,
per opera del pretore, appare circoscritto ai rapporti privati fra cittadini e stranieri
, ed ha quindi un carattere essenzialmente commerciale. Ciò è molto bene
dimostrato dal Fusinato nel suo accurato lavoro : Dei Feziali e del diritto
feziale, pubblicato negli atti dell'Accademia dei Lincei. Memorie della Classe
di scienze mor. stor. filol. ; del quale credo di poter dire, senza offendere
la modestia di un collega ed amico, che ha cominciato ad introdurre qualche
concetto direttivo in una materia , che certo ne aveva grande bisogno. È poi
noto, che la grande autorità sull'argomento è il Voigt, Das ius naturale, bonum
et equum , gentium , etc. Leipzig , 1856-76 ; Vol. 4 , dei quali il 2° si
occupa pressochè esclusivamente del ius gentium . Fra il modo di vedere di
questi autori e quello qui esposto corre però questa differenza, che essi ri
tengono il concetto ed anche la denominazione del ius gentium , come opera
riflessa dei giureconsulti ; mentre per me il ius gentium esisteva nel fatto e
nella parola anche anteriormente e solo più tardi riuscì a trovar posto anche
nel diritto civile di Roma. Sembra tuttavia che prima fossero adoperate le
espressioni di iura gentium , e di iura naturalia , mentre dopo i vocaboli
adottati sono quelli di ius gentium e di ius naturale, i quali indicano
l'unificazione, che vi si è operata . (1) I1 MOMMSEN, Histoire Romaine, I,
Chap. 4, diede tale importanza alla posi zione eminentemente commerciale di
Roma, da ritenere la popolazione primitiva di essa comededita al commercio e
Roma come una città commerciale. Il PADELLETTI ha combattuta tale opinione (Storia
del diritto romano, pag . 17) e parmi in verità che il fatto, per cui Roma
diventò l'emporio delle genti del Lazio, possa essere spie gato senza dire, che
essa fosse una città sopratutto commerciale ; poichè anche per una città
agricola e militare ad un tempo, come era Roma nei propri inizii, po teva
essere grandemente utile di essere in tal sito, da richiamare il commercio -
129 100. Fu sui mercati, dove convenivano persone appartenenti a co munanze
diverse, che dovettero formarsi quelle convenzioni più semplici, fondate
unicamente sul consenso dei contraenti, e fra le altre anche la compra e
vendita , che alcuni vorrebbero far nascere solo, quando Roma era già divenuta
una grande città . Solo deve avver tirsi, che questa compra e vendita
primitiva, avverandosi talvolta fra capi di famiglia, che appartenevano a
comunanze diverse , fra cui non esisteva forse comunione di diritto, non
dovette naturalmente ritenersi perfetta , se non era accompagnata dalla
tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo, come ebbe a stabilire anche
più tardi la legislazione decemvirale. Fu qui parimenti, che dovette na scere e
svolgersi quella sponsio o stipulatio, la quale, allorchè poi ottenne di essere
riconosciuta dal diritto quiritario, venne ad essere il mezzo più semplice e
più acconcio per dar forma giuridica ad ogni maniera di convenzioni (1). Furono
eziandio queste fiere , che die delle popolazioni latine. Può darsi anzi, che
anche questa posizione eminentemente commerciale l'abbia resa meno esclusiva
nell'accogliere nuovi elementi. Del resto anche i Romani sentivano l'eccellenza
della posizione della loro città, e ce ne parla CICERONE, De Rep. II, 5 . (1)
Non può quindi , a parer mio, essere giustificata l'opinione di coloro , i
quali ritengono, che solo più tardi si fosse introdotta in Roma l’emptio
venditio, e che la sponsio e la stipulatio , che certo già esistevano nei
rapporti fra le varie genti, fossero state invece importate di Grecia , per ciò
che si riferisce alle convenzioni private. L'opinione erronea proviene dal
credere, che il diritto quiritario comprendesse dap prima tutto il diritto in
uso presso i romani; mentre invece esso fu una codifica zione e un adattamento
progressivo del diritto già esistente nelle consuetudini. Esso quindi comincid
dal comprendere solo quella parte di esso, che era confermata da una lex
publica , come lo dimostrano le antiche espressioni di agere per aes et libram
, di facere testamentum , nexum , mancipium secundum legem publicam . Quindi,
ac canto al ius quiritium , visse sempre in Roma un ius gentium , che, senza
aver rice vate le forme quiritarie, era però sempre adoperato e forse anche
applicato nelle controversie dai recuperatores, anche anteriormente
all'istituzione del praetor pere grinus. Ciò è provato dai poeti latini e
sopratutto da Plauto, che ne dànno come usuali e frequenti certe forme di
negozii e di atti, che non risultano ancor sempre penetrati nel diritto
quiritario. Ciò poi è indubitabile per la sponsio o stipulatio, atto romano per
eccellenza , dai romani applicato nei trattati pubblici e nelle con venzioni
private. Può darsi quindi, che le genti italiche l'avessero comune colle el
leniche, e che la espressione spondeo fosse anche comune ai due popoli; ma i
romani non ebbero certo bisogno di apprenderlo dai greci , nè aspettarono ad
adoperarlo solo verso la metà del V secolo , come sostengono fra gli altri il
MurueAD, Histor. Introd., pag . 227 e 228, e il Leist, Graeco- Italische Rechts
geschichte , p.465-470 . Solo può ammettersi, che, dopo aver vissuto lungamente
nell'uso e davanti ai recuperatores, la sponsio o stipulatio penetrò anche
nello stretto diritto civile e fu adottata come forma propria del medesimo. G.
CARLE, Le origini del diritto di Roma. 9 130 dero più tardi occasione al
giureconsulto Manilio di concretare in poche parole delle formole acconcie per
concepire quelle vendite, che sono più frequenti per una popolazione agreste ;
delle quali formole alcune pervennero a noi e potrebbero trovare riscontro in
formole, ancora oggi usate nelle stesse occasioni, salvo che queste non hanno
più la sobrietà e precisione antica (1). È qui infine, che dovette prepararsi
la formazione di un ius gentium primitivo, che ha dapprima un carattere
commerciale , come il commercium da cui esso deriva, e che, accanto al diritto
proprio di ogni singola gente o tribù, era indispensa bile per le transazioni
commerciali fra i capi di famiglia , appartenenti a genti ed a tribù diverse.
Sia pure, che solo più tardi questo modesto ius gentium , formatosi sulle fiere
e suimercati, richiami l'attenzione del pretore, e gli dia animo per scostarsi
dalle formalità ormai divenute soverchie del ius proprium civium romanorum (2)
: cid però non toglie , che le origini di quelle lente formazioni, che si
verificano nella coscienza generale di un popolo, si debbano talvolta anche
cercare in un'epoca di gran lunga anteriore, come accade delle piccole
sorgenti, che solo appariscono degne di osservazione e di ricerca , quando si
scorge il corso maestoso del fiume, che ebbe a derivarsi da esse . $ 3 .
L'actio e la sua storia primitiva. 101. Da ultimo non può esservi dubbio che,
già nel periodo gen tilizio , dovette essersi formato il concetto dell'actio,
ma questa non significava ancora un mezzo accordato dalla legge o dal pretore,
per far valere in giudizio un proprio diritto , ma era , per dir cosi, il
diritto stesso , che mettevasi in azione, estrinsecandosi in quel complesso di
atti, che erano indispensabili per ottenere il proprio riconoscimento (3) . (1)
Il poco, che pervenne a noi delle formole Maniliane, trovasi riportato dall'Hu
SCHKE, Iurispr . anteiust. quae supersunt, pag. 5, ed è una prova
dell'attitudine dei veteres iurisconsulti a sceverare da un fatto tutto ciò,
che in esso eravi di giuridico, modellandolo in una formola tipica, che potrà
poi servire per tutti i casi dello stesso genere. (2 ) Cfr. sopra , pag . 128 ,
nota 1. (3 ) Accostasi a questo concetto dell'actio, nella sua significazione
primitiva , l'OR TOLAN, Histoire de la legislation romaine, XI Edit., Paris,
1880 , pag. 139, ove scrive, parlando dell'azione nel periodo decemvirale: «
Action, sous cette période, est une dénomination générale ; c'est une forme de
procéder, une procédure considérée 131 - È a questo punto, che si può trovare
la ragione, per cui il diritto primitivo di tutti i popoli e quindi anche il
romano si è sviluppato dapprima sotto forma di azione e di procedura , che non
come legge , che determini i diritti rispettivi dei cittadini. Finché il capo
di fa miglia è esso il sovrano nella propria casa , egli non ha bisogno, che la
legge venga a ricordargli quali siano i suoi diritti. Questo diritto egli porta
con sè e ha profondamente impresso nella sua coscienza: quindi, se il medesimo
venga ad essere violato, egli non può aspet tare che uno Stato, che quasi ancora
non esiste, si metta in moto per ottenere la riparazione dal torto, che ebbe ad
essergli arrecato . Come quindi è il capo di famiglia, che vendica l'adulterio
, che corre sui passi del ladro , che lo ha derubato, e ne perquisisce la casa,
mediante certi riti, che sono determinati dal costume e a cuiniuno oserebbe
ribellarsi, perchè sono sotto la protezione del fas: così è pur egli che,
quando si vede occupato un fondo, od usurpato uno schiavo, o sottratto un
figlio, si mette in movimento ed in azione e afferma in presenza ed a scienza
della intiera comunanza, che è suo quel fondo , quello schiavo, quel figlio .
Quindi è, che l'azione viene ad essere naturalmente la prima manifestazione del
diritto . Prima esso esisteva allo stato latente , ed ora si produce, si
afferma, perchè incontro una persona, che ebbe a violarlo . Quest'azione
tuttavia, non è an cora la legis actio ; perchè in compierla l'uomo offeso non
ispirasi ad una legge, che forse non esiste ancora, ma ispirasi al senso in
timo e profondo del proprio diritto. Tuttavia è in questo momento sopratutto ,
sotto la sferza dell'offesa e sotto l'impeto dell'indignazione, che il capo di
famiglia può anche trascendere nel far valere il proprio diritto, e ricorrere
anche alla violenza ed alla vendetta . Quindi è , che se per avventura verrà a
formarsi nel seno della comunanza qualche forma di procedura, la quale, mentre
da una parte rispetta la fiera indipendenza dell'uomo, consapevole del proprio
diritto , dal l'altra contenga il prorompere violento di colui, che ebbe ad
essere dans son ensemble, dans la série des actes et des paroles, qui doivent
la constituer. » Qui però l'autore parla già della legis actio ;ma se noi
andiamo più oltre nei tempi, allorchè essa non è ancora legis actio,ma
semplicemente actio, questa non è ancora un modo di procedere, ma è soltanto un
modo di agire, ed è anzi il diritto stesso in azione (Cfr. Carle , La vita del
diritto, pag. 40 ). È poi notabile, come per i latini il vocabolo agere indichi
un'azione continuata, che può scindersi in parti di verse ; mentre facere si
adopera di preferenza invece per indicare un'azione, la quale compiesi, per
così dire, in un unico contesto. 132 offeso nel proprio diritto , l'occasione
non dovrà certamente essere trascurata . Sarà quindi prima il mos, che comincia
coll'additare la via consuetudinaria , a cui debbe appigliarsi colui, che vuol
far valere il proprio diritto ; poi sarà il fas, che interverrà anch'esso e
dichiarera empio chi non segua quel determinato rito ; ed infine sarà anche il
ius , che verrà notando in certo modo i varii stadii, per cui passò quella
procedura , e obbligherà i contendenti a passare, almeno per forma (dicis
gratia ), per ciascuno di questi stadii. Sarà in tal modo, che all'actio
violenta, rozza, avida, appassionata dell'individuo sottentrerà la legis actio,
consacrata dalla legge, compassata e lenta , quasi per attutire le passioni
irrompenti dei contendenti; ma che intanto ricorderà ancora gli stadii
dell'anteriore violenza , quasi per ricordare che a quella dovrebbe farsi
ritorno, quando la legge non fosse rispettata. Non è quindi da approvarsi, a
mio avviso , l'opinione di coloro , i quali ritengono che il prevalere delle
norme procedurali nel primitivo diritto , e quindi anche nel romano, sia
prevenuto da ciò , che sarebbesi prima badato alla forma, che alla sostanza. La
ragione di questo fatto è molto più profonda e deve essere cercata nelle
origini stesse della convivenza civile e politica . La causa del fatto sta in
ciò , che l'opera della legge negli inizii fu sopratutto necessaria non tanto
per assicurare il diritto , quanto per reprimere le reazioni violente, a cui
abbandonavasi colui, il cui diritto era violato . In questa parte diritto
privato e diritto penale seguirono analoghe vicende. Al modo stesso , che le
leggi penali non mirarono dapprima tanto a punire i misfatti, quanto piuttosto
a porre dei confini alla privata vendetta , e resero cosi obligatoria quella
composizione a danaro, che dapprima dipendeva dall'accordo delle parti : cosi
anche le norme procedurali comparvero le prime, non tanto perchè i popoli
primitivi comprendessero più la forma che la sostanza ; ma perchè il primo e
più urgente bisogno di una società , in via di formazione, era quello di
impedire fra i consocii la manuum consertio, ossia l'esercizio violento delle
proprie ra gioni ( 1). (1) Per lo svolgimento parallelo della vendetta e della
pignorazione privata, è da vedersi: Del GIUDICE , La vendetta privata nel
diritto Longobardo, Milano, 1876 . Sembra poi attribuire la precedenza delle
norme di procedura , presso i popoli pri mitivi, alla prevalenza , che presso
di essi ha la forma sulla sostanza, lo stesso Sumner Maine, The early history
of institutions , Lect. IX , ove, discorrendo della forma primitiva dei rimedii
legali, scrive « che in uno stadio delle cose romane i - 133 102. Intanto non
vi ha forse nel vocabolario giuridico parola , che presenti al giureconsulto
filosofo e storico una più lunga storia di cose sociali ed umane, dei vocaboli
di agere e di actio , e che lo faccia rimontare più oltre nelle tenebre e nella
oscurità del passato . Nella loro significazione primitiva di « stimolare » e
di « spingere » , questi due vocaboli sembrano ancor richiamare gli antichi
abitatori del Lazio, che, pastori di greggi, prima di diventare reggitori di
popoli, spingevano al largo le proprie mandre e i proprii armenti (1). Me mori
e quasi alteri della propria origine, non dubitarono di applicare il medesimo
vocabolo a significare l'attività del magistrato, che si spiega in rapporto col
popolo (ius agendi cum populo ), ed anchequella di colui, che forte della
convinzione nel proprio diritto intraprende quella specie di conflitto e di
lotta , che dovette in quei primi tempi essere necessaria per ottenere il
riconoscimento delle proprie ragioni. Questo è certo, che fra capi di famiglia
dal carattere fiero ed in dipendente non dovette esser così facile il
conseguire, che essi si sottoponessero ad un'autorità per la decisione delle
loro controversie, e non è quindi meraviglia se l'avvenimento dovette loro
apparire così importante, che ritennero opportuno di conservare la memoria dei
diversi stadii, che hanno dovuto attraversare per giungervi. 103. Allorchè
sorgeva una controversia fra capi di famiglia , ap partenenti alla medesima
tribù , il modo più naturale di risolverla dovette certamente essere quello di
rimettersi ad uno o più arbitri ed amichevoli compositori, che dovevano essere
concordati fra le parti, come lo dimostra un antico costume, che gli scrittori
latini attribuiscono ai proprii maggiori (2 ). Era poi naturale, che queste
persone, chiamate a risolvere la controversia , dovessero essere scelte fra i
padri ed anziani del villaggio ; del che rimasero le traccie anche in Roma, ove
i iudices furono per secoli tratti dall'ordine dei padri diritti ed idoveri
sono piuttosto un'aggiunta della procedura , che non la procedura una mera
appendice aidiritti ed ai doveri. » (1) V. BRÉAL, Dict. étym . latin ., v°
Agere. (2 ) Cic., Pro Cluentio, 43: « Neminem voluerunt maiores nostri, non
modo de existimatione cuiusquam , sed ne pecuniaria quidem de re minima esse
iudicem , nisi qui inter adversarios convenisset » . Del resto, anche secondo
la legislazione decemvi rale, sembra che alla discussione della causa
precedesse un tentativo di componi menti, come lo dimostra il fram ., Rem , ubi
pacant, orato , tavola II, legge 14, se condo la ricostruzione del Voigt, Die
XII Tafeln , p . I, pag. 696. 134 o senatori, e solo dopo una lunga lotta, che
si avvero già sul finire della Repubblica fra il partito degli ottimati e
quello popolare, po terono anche essere scelti fra gli equites (1). 104. La
cosa però veniva a farsi più grave, allorchè i contendenti non si mettevano
d'accordo per un amichevole componimento. Non vi ha nulla di ripugnante, che
essi, compresi vivamente del proprio diritto , trovandosi sul fondo stesso o
davanti allo schiavo , oggetto della controversia, cominciassero dall'affermare
altamente il proprio diritto sul fondo o sullo schiavo. Che se niuno di essi
cedeva, lo studio della natura umana ci insegna anche ora , che non è punto
improbabile, che essi potessero addivenire a quella vis realis , a cui secondo
Gellio fu poi sostituita la vis festucaria , e che si effettuasse cosi fra di
essi una vera e propria lotta, che prese il nome dimanuum consertio (2 ). È
però consentaneo eziandio al costume patriarcale che, quando due persone sono
cosi in lotta fra di loro, possa anche in terporsi fra di esse una persona
autorevole, la quale goda la comune fiducia, e che loro imponga di separarsi
colle parole, che più tardi sa ranno pronunziate dal pretore nella procedura
quiritaria : « mittite ambo hominem » . Tace allora la lotta: i contendenti,
fatti umili dal l'autorità stessa di chi intervenne fra di loro e dallo stato
stesso di violenza , in cui furono sorpresi (3), chiamano entrambi a testimoni
la divinità , che la ragione è dalla parte loro, e per dare energia mag giore
alla propria affermazione aggiungono alla medesima una scom messa , la quale,
per essere accompagnata dall'affermazione giurata di rimettersi al giudizio
della persona intervenuta fra di essi, può prendere il nome di sacramentum . Si
ha cosi una successione di fatti, che conducono naturalmente la persona
autorevole, che si è in (1) La legge che trasportò dall'ordine dei senatori a quello
degli equites la ca pacità ad essere giudici fu la lex SEMPRONIA iudiciaria del
632 di Roma, proposta da C. Gracco, la quale dovette però dar luogo a gravi
lotte ed agitazioni, che sono fatte manifeste dalle leggi giudiziarie degli
anni, che vengono dopo. È da vedersi in proposito ORTOLAN, Histoire de la
législation Romaine, $ 283, pag. 228 e seg . (2) Aulo Gellio , Noct. attic.,
XX, 10 , $ 8 10 . (3) Questo sentimento veramente sociale ed umano del pudore,
che guadagna colui che si appigliò alla violenza , trovasi maravigliosamente
espresso da OVIDIO , Fasto rum III: « Et cum cive pudet conseruisse manus. » È
però a notarsi, che il poeta limita quel senso di pudore alle violenze fra i
cittadini: con quelli che non sono tali sarebbe tutt'altra cosa . - 135 -
terposta , ad essere giudice non tanto della ragione o del torto dei
contendenti, quanto piuttosto della scommessa intervenuta fra i me desimi;
sebbene però venga ad essere naturale conseguenza del suo giudizio, che debba
ritenersi aver ragione chi vincerà la scommessa e torto colui, che perderà la
medesima. Fin qui pertanto , non si ha che un processo di cose sociali ed
umane, di cui si potrebbero trovare le traccie anche ai nostri giorni, e che
dovette certo essere frequente, allorchè le contese erano so stenute dai capi
di gruppo, che non conoscevano altra autorità supe riore, salvo quella, che
avessero accettata di comune accordo. Pongasi ora, che questo processo di cose
si ripeta più e più volte frammezzo a genti, che, come le italiche, siano use a
modellare in formole ed in gesti solenni tutti gli atti tipici della loro vita
giuridica , e allora si potrà facilmente comprendere, come siasi venuta
formando quel l'actio sacramento , che costitui poi l'azione fondamentale di
tutto il diritto quiritario , e fu dai quiriti conservata con cura così gelosa,
che, già abolite le altre azioni delle leggi, l'actio sacramento continud
ancora a celebrarsi davanti al tribunale quiritario per eccellenza, che è il
tribunale dei centumviri. Non è quindi il caso di ridurre questa primitiva
azione ad una pantomina incomprensibile , nè di cam biare il popolo maestro al
mondo nel diritto in un architetto di for malità e di sottigliezze senza scopo
; ma è il caso piuttosto di leggervi la storia delle vicende, che ebbe a percorrere
l'amministrazione della giustizia , riportandola in quell'ambiente patriarcale,
nel quale soltanto si può riuscire a ricostruirla nelle sue primitive fattezze
(1). 105. Qui tuttavia non posso passare sotto silenzio l'opinione messa
innanzi da una grande autorità , quale è il Bekker, e che fu poi anche divisa
da molti altri autori, secondo cui dovrebbero ritenersi più an (1) È già da
qualche tempo, che rivelasi negli scrittori la tendenza a dare una spiegazione
naturale della formazione dell'actio sacramento . Se ne possono vedere degli
accenni nel Maynz, Cours de droit Romain , Bruxelles , 1876. Introduction, $
20, Vol. I , pagg. 59 e 60 ; nel SUMNER MAINE , Early history of institutions,
Lect. IX ; nel MUIRIEAD, Historical Introduction , pag. 191 e 192 ; nel
BUONAMICI, Storia della procedura romana. Pisa , 1866 , vol. I, in princ. Non
credo tuttavia che essa sia stata studiata nell'ambiente stesso, in cui ha
dovuto formarsi, nè che siasi dimostrato che essa debba riguardarsi come una
sopravvivenza di un'epoca anteriore. È però noto, che Omero nell'Iliade, Canto
XVIII, v. 690 a 705 , descrive, sopra uno dei compartimenti dello scudo di
Achille, una procedura del tutto analoga a quella dell'actio sacramento. 136
tiche della stessa actio sacramento, quelle altre forme di azioni, che sono
indicate col vocabolo di manus iniectio e di pignoris capio , in quanto che le
medesime ricorderebbero più direttamente l'uso della forza per far valere il
proprio diritto (1) . Lasciando per ora in disparte la pignoris capio , che ha
solo una importanza secondaria , per i pochi casi in cui fu ammessa , importa
anzitutto notare, che il vocabolo di manus iniectio può essere tolto in due
significazioni diverse, anche secondo la legislazione decem virale . Havvi
anzitutto la manus iniectio , a cui ricorre colui che, dopo aver invitato
inutilmente il debitore a seguirlo avanti al magi strato , gli pone addosso la
propria mano e lo trascina in ius, som ministrandogli però quei mezzi di
trasporto, che possano esser neces sari per lo stato dimalattia , in cui egli
si trovi (2 ). In questo senso però non havvi ancora una vera legis actio , ma
solo un mezzo per otte nere la comparizione del convenuto davanti al
magistrato. Invece la vera manus iniectio, in quanto costituisce una legis
actio , consiste nel potere, che appartiene al creditore di porre la sua mano
sopra il nexus, l'aeris confessus, ed il iudicatus per trascinarlo nel suo
carcere privato, e costringerlo così al pagamento del proprio debito od a
lavorare per lui finchè sia soddisfatto (3 ). ( 1) BEKKER, Die Actionen der
römisches Privatrechts, Berlin , 1874-75 , 2 vol. V. particolarmente vol. 1,
pag. 18-74 . Del resto un tale concetto è stato in parte enunziato anche dal
JHERING , L'esprit du droit romain , Trad. Maulenaere, Paris, 1880, salvo che
egli dà poi alla manus iniectio, come legis actio, una significazione del tutto
speciale. Vedi vol. I, § 14 , e vol. III, § 56. (2) A questa manus iniectio
accennasi nella prima legge delle XII Tavole : « Si in ius vocat, ito. Ni it,
antestamino : igitur em capito. Si calvitur pedemve struit, manum endo iacito.
, (3 ) Sonvi persino degli autori, i quali dubitano che la manus iniectio possa
es sere considerata come una vera legis actio , in quanto che essa non
richiederebbe l'intervento del magistrato e avrebbe solo luogo quando trattasi
di esecuzione. Fu questo il motivo, che indusse il JHERING , op. e loco cit., a
dare una significazione speciale alla manus iniectio. Quanto alla letteratura
sull'argomento e alle discus sioni, che di recente sorsero intorno alla
questione, se la manus iniectio debbe rite nersi come una vera legis actio , è
da vedersi il MUIRHEAD, Histor. Introd ., Sect. 36 , pag. 201 e seg. Parmi
tuttavia , che il dubbio non possa esistere, quando si tenga conto della
significazione larghissima, che ha il vocabolo di legis actio nell'antico
diritto; nel quale esso indicava in sostanza i diversi genera agendi in
conformità di una les publica , per modo da comprendere la stessa in iure
cessio , allorchè ser viva per effettuare una adozione, una emancipazione, una
manomissione, od un trasferimento di proprietà . V. quanto alla manus iniectio
il Voigt, Die XII Tafeln , I, pag. 616 . 137 Or bene la manus iniectio , cosi
intesa, non può certamente essere considerata , come di formazione anteriore
all'actio sacramento. Per verità mentre questa contiene la storia delle varie
peripezie, per cui passò lo stabilimento dell'umana giustizia, e quindi
richiama ancora un'epoca , in cui non eravi amministrazione di giustizia ; la manus
iniectio invece, quale appare nelle XII Tavole , suppone già stabilita una
amministrazione della giustizia , in quanto che essa è un modo di procedere
all'esecuzione contro colui, che o siasi ob bligato colla solennità del nexum ,
o abbia confessato il proprio de bito davanti al magistrato , o sia stato
condannato al pagamento . Nè serve il dire, che la manus iniectio primitiva,
essendo un mezzo per il privato esercizio delle proprie ragioni, dovette essere
applicata anche in altri casi ; mentre la legislazione decemvirale l'avrebbe
circoscritta ai casi da essa determinati, nell'intento di im pedirne gli abusi.
A ciò infatti si può facilmente rispondere, che se fra i capi di famiglia delle
genti patrizie si può comprendere una procedura solenne, come quella dell'
actio sacramento , in cui le due parti sono eguali fra di loro e finiscono per
accordarsi nell'accettazione di un giudice della loro scommessa, è invece
affatto ripugnante una procedura, come sarebbe quella della manus iniectio. Non
è un'eguale che può sottomettersi ad una procedura di questa specie, per quanto
egli possa essere profondamente convinto del proprio torto . Fra due eguali,
che siano in contesa, può compren dersi la manuum consertio , e in seguito
l'accettazione di un arbitro; ma non mai che uno obbedisca pecorilmente al
cenno dell'altro , e si lasci cosi stringere nei ferri e nelle catene del suo
carcere privato. 106. Con ciò tuttavia non voglio dire, che la manus iniectio
sia stata direttamente introdotta dalla legislazione decemvirale, e che non
esistesse anteriormente alla medesima. Ritengo anzi, che essa doveva già
esistere da lungo tempo : ma intanto a questo proposito mi fo lecito di
avventurare la congettura , che la manus iniectio dovette essere una speciale
forma di procedura , che non si adoperava già nei rapporti fra i capi di genti
patrizie, ma bensì unicamente nei rapporti, che intercedevano fra il creditore
patrizio ed il debitore plebeo . Si comprende infatti, comeun'aristocrazia
territoriale, come quella delle genti patrizie, potesse anche adoperare modi
simili di procedura verso una classe , che nei primi tempi non aveva ancora
dimenticato l'o rigine servile . Quindi è, che la manus iniectio deve essere
con 138 siderata comeuna delle istituzioni, che non appartiene al diritto , che
dovette formarsi nei rapporti fra i capidelle genti patrizie, ma bensi a
quello, che dovette formarsi nei rapporti fra la classe dominante e la classe
inferiore: il che spiega eziandio come la legislazione decemvirale l'abbia solo
ammessa contro i nexi, gli aeris confessi e i iudicati, e come la plebe abbia
lottato cosi lungamente per l'abolizione del nexum , il quale forse era ancora
un segno dell'antica sua sogge zione servile , come sarà dimostrato a suo
tempo. Per quello poi, che si riferisce all'esercizio privato delle proprie
ragioni, mi limito ad osservare, che esso nel dominio del diritto pri vato
corrisponde alla vendetta privata nel campo dei delitti e delle pene. Quindi,
come è esistita la vendetta privata anche fra le genti italiche, così dovette
anche esservi un tempo, in cui fra queste esi steva l'esercizio privato delle
proprie ragioni. Questo tuttavia può affermarsi con certezza , che l'intento
supremo dell'organizzazione gentilizia fu quello di impedire fra i membri di
esse cosi la pri vata vendetta , che l'esercizio privato e senza confini delle
proprie ragioni. Fu a questo scopo, che il fas, il ius e il mos riunirono i
proprii sforzi, e solo a forze riunite riuscirono a cacciare dalla co munanza
la privata violenza, che continud a dominare fra le per sone, che non
appartenevano alla medesima e quindi non avevano fra di loro comunanza di
diritto . Quindi non è più nell'organizza zione gentilizia, che deve cercarsi
l'esercizio privato delle proprie ragioni, dal momento che in essa tutto è
regolato dal mos e dal fas, e che il suo intento supremo fu quello dimettere
termine allo stato anteriore di privata violenza . Fin qui si considerarono
soltanto le norme direttive dai rapporti giuridici, che intercedono fra i capi
dei diversi gruppi, norme le quali finiranno per dare in parte origine a quel
diritto , che sarà poi chiamato ius quiritium dapprima e ius civium romanorum
più tardi; ora importa cercare invece , quali rapporti corressero fra i varii
gruppi collettivamente considerati, e quale sia stata l'origine del primitivo
ius pacis ac belli. - 139 CAPITOLO VII. La formazione di un ius pacis ac belli
durante il periodo gentilizio . $ 1. Sguardo generale ai rapporti fra le genti
primitive. 107. Anche i rapporti fra le varie genti, collettivamente
considerate, hanno nel periodo gentilizio un carattere esclusivamente
patriarcale , e appariscono modellati sui rapporti, che possono intercedere fra
i varii capi di famiglia . E a questo proposito parmi anzitutto opportuno di
rettificare un concetto, che ormai suole essere ripetuto come un dogma, mentre
in verità non merita di essere considerato come tale. Di regola suol dirsi, che
lo stato naturale delle antiche genti fosse lo stato di guerra . Esse invece
non erano nè in uno stato di pace, nè in uno stato di guerra; ma si
consideravano come indipendenti le une dalle altre e non avevano fra di loro
comunanza di diritto . Era quindi facile , che fra loro scoppiasse la guerra ,
ma questa non era però lo stato naturale di esse . Ciò sarebbe come dire, che
due per sone che non si conoscano e non abbiano fra di loro alcun rapporto
giuridico siano fra di loro in lotta . Potrà darsi che esse siano in reciproca
diffidenza , e che stiano in guardia : ma non percid pud dirsi che siano in
guerra effettiva fra di loro. Ci vorrà pur sempre qualche causa , od anche
semplicemente un pretesto, perchè l'una si arresti minacciosa contro dell'altra
(1) . (1) Sarebbe qui inutile citare tutti gli autori, che professano questa
opinione; mi basterà ricordare il LAURENT, Histoire du droit des gens, nei tre
primi volumi relativi all'Oriente, Grecia , Roma; il JHERING, L'esprit du droit
romain , I, il quale attribuirebbe a questo stato di guerra il concentrarsi
delle genti antiche nella città , a cui esse appartengono ; il che è certamente
vero, ma non proviene unicamente dalle guerre esteriori , ma anche da ciò, che,
creandosi una nuova forma di connivenza sociale, era naturale, che tutte le
forze ed energie vitali si concentrassero in essa. Anche il Fusinato sembra
dividere la stessa opinione nel suo lavoro : Dei Feziali e del di ritto feziale
, Roma, 1884, « Atti della R.Accademia dei Lincei » , Memorie, Classe scienze
mor. stor. filologiche , vol. XIII , Introd ., Cap. I , al quale io mi rimetto
quanto alla bibliografia completissima sul tema di questo capitolo. Egli
tuttavia già trova, che il popolo Romano sarebbe stato, fra le altre genti, il
meno esclusivo su questo punto, a differenza del PADELLETTI , Storia del
diritto romano, pag . 67, 140 108. Che questi fosse lo stato dei rapporti fra
le genti primitive è provato dalla distinzione, che nell'antico linguaggio già
viene fatta fra hostis e perduellis. Hostis chiamavasi quello straniero , con
cui non eravi rapporto di diritto , e contro il quale il popolo romano si riservava
piena ed intera la propria autorità giuridica e la propria libertà di azione ;
mentre perduellis, nella sua significazione arcaica , come lo indica lo stesso
vocabolo , era colui con cui era scoppiato il dissidio , e col quale , per
mancanza di un comune diritto , veniva ad essere necessità di appigliarsi alla
guerra . Fu solo più tardi, che il vocabolo di hostis assunse una
significazione più dura e significò effet tivamente il nemico. In allora le
significazioni accettate furono le seguenti: peregrinus chiamasi colui, col
quale non havvi nè ami cizia , nè ospitalità , nè alleanza ; hostis quegli, con
cuiRoma trovasi in guerra aperta ; perduellis infine colui, che nell'interno
dello Stato cerchi di recare perturbazione e conflitto, mettendosi in lotta coll'in
teresse della patria sua. Questa trasformazione si opera però lenta e note
relative , il quale attribuirebbe al popolo romano una esclusività maggiore
degli altri popoli,per trattarsi di un popolo agricoltore, conservatore e
guerresco ad un tempo . Per parte mia ritengo, che i Romani in questa parte si
governassero colle norme stesse delle altre genti italiche, come lo dimostra il
fatto che il primitivo ius foeciale è loro comune cogli altri popoli, da cui
sono circondati. Non posso però ammettere che essi, sopratutto nei primi tempi,
si ritenessero in stato naturale di guerra cogli altri popoli ; perchè in tal
caso tutte le formalità dell'antico ius foe ciale si convertirebbero in una
commedia inesplicabile e in contraddizione col prin cipio direttivo dei
rapporti fra le varie genti. Quanto agli argomenti, che sono messi in campo,
essi consistono in sostanza nella primitiva significazione di hostis e nel
passo di Pomponio, Leg. 5 , § 2 , Dig. (49, 15 ). Del vocabolo hostis, si
discorrerà più sotto, e quanto al passo di PomPONIO , egli, anzichè affermare
che gli stranieri fossero nemici, dice anzi espressamente che « si cum gente
aliqua neque amicitiam , neque hospitium , neque foedus amicitiae causa factum
habemus, hi hostes quidem non sunt » . Tuttavia siccome con questa gente non vi
ha comunione di diritto, così contro di « aeterna auctoritas esto » , donde la
conseguenza, che se le cose nostre cadono in loro mano, diventano loro proprie,
e così pure se le cose loro vadano in mano dei romani: certo la conseguenza è
grave , ma essa non è una conseguenza dello stato di guerra , ma bensì di ciò
che fra i due popoli non esiste comunanza di di ritto . Nè vorrei si dicesse,
che la questione sia soltanto di parole, poichè se la guerra fosse lo stato
naturale, non si saprebbe veramente come CICERONE abbia potuto scri vere: «
nullum bellum esse iustum , nisi quod aut rebus repetitis geratur, aut de
nuntiatum ante sit , et indictum » , De off , I , II , e De Rep., III , 23. Del
resto anche questa opinione è una conseguenza del ritenere, che le cerimonie
del diritto feziale fossero semplici formalità esteriori, il che certamente non
dovette essere, allorchè questa procedura fra le genti venne ad essere
introdotta. essa - 141 mente, e nella stessa legislazione decemvirale, che,
come tutte le leggi, tende a conservare i vocaboli nella loro significazione
arcaica , il vo cabolo di « hostis » , continua ancora sempre a significare
colui, col quale non esiste comunione di diritto , come lo dimostrano le espres
sioni ricordate da Cicerone di « status dies cum hoste » e l'altra « adversus
hostem aeterna auctoritas esto » . Del resto , che il vo cabolo hostis negli
esordii non suonasse nemico , nella significazione, che noi siamo soliti
attribuire a questo vocabolo , viene anche ad essere dimostrato dall'analogia
evidente , che corre fra i vocaboli di hostis e di hospes, il quale ultimo
sarebbe una sincope di hosti-pes, che significherebbe « o protettore dello
straniero o straniero ricevuto in protezione » ; donde anche i vocaboli di
hospitium e di hospitari(1). 109. Fermo questo concetto dei rapporti, che
intercedevano fra le genti, che non entravano a far parte della medesima
tribù e non avevano perciò comunione di diritto fra di loro, viene ad essere
facile il comprendere come qualsiasi rapporto giuridico fra di esse dovesse
derivare dalla convenzione e dal patto; per modo che anche il pri mitivo ius
pacis ac belli dovette avere un'origine contrattuale, analoga a quella , che
abbiamo riscontrato nei rapporti privati fra i diversi capi di famiglia .
Infatti al rapporto di carattere negativo, che intercede fra le varie genti,
per cui sono estranee le une alle altre, pud poi sottentrare il rapporto
positivo di pace o di guerra. Tanto l'uno come l'altro in dicano, che le genti sono
già uscite da quello stato di indifferenza reciproca, in cui si trovavano fra
di loro . Quindi perchè siavi lo stato di pace, già occorre che fra le genti
sia intervenuta una conven (1) V. BRÉAL, Dict. étym . lat., Paris. 1886, vº
Hospes e Hostis. Del resto questo trasformarsi dalla significazione di hostis
viene ad essere indicato con una mirabile chiarezza da CICERONE , allorchè
scrive : « Hostis enim apud maiores nostros is di cebatur, quem nunc peregrinum
dicimus.....; quamquam id nomen durius iam effecit vetustas; a peregrino enim
recessit, et proprie in eo , qui contra arma ferret, re mansit » . De off., I,
12. Ciò è poi confermato da VARRONE, De ling. lat., V , I (Bruns, Fontes, p.
377). Intanto l'analogia , che vi ha fra hostis straniero, ed hospes, che signi
fica e lo straniero ricevuto in protezione » , come pure il fatto, che nelle
origini per duellis significava il nemico esterno ed interno ad un tempo,
costituiscono una nuova prova, che in quei primordii non distinguevasi la
guerra pubblica dalla privata, nè i dissidii interni delle guerre esterne. Fu
solo più tardi, nel seno della città e nei rap porti delle città fra di loro,
che potè operarsi questa distinzione, e in allora talvolta i reggitori della
città si appigliarono alle guerre esterne per sopire le lotte interne. 142
zione od un patto (come lo dimostra l'analogia fra il vocabolo di pax e quello
di pactum ) ; al modo stesso che, accid siano in istato di guerra, occorre, che
siavi una dichiarazione della medesima, tanto più se trattisi di genti che,
senza essere in rapporto giuridico fra di loro, riconoscano perd l'impero del
fas. Si può quindi affermare con certezza, che anche il ius pacis ac belli già
erasi formato anterior mente alla formazione della comunanza romana , e che la
medesima in questa parte non fece che attenersi a pratiche e a riti, i quali,
prepa ratisi in un periodo anteriore ed affidati alla custodia di un collegio
sacerdotale, furono poi applicati con qualchemodificazione ai rapporti, che
vennero a svolgersi più tardi fra i popoli e le città . Di qui in tanto, derivd
la conseguenza, che il diritto, che suol essere chiamato foeciale , essendo
stato trapiantato da uno in altro periodo di or ganizzazione sociale, acquistò
un carattere artificioso , che lo fece talvolta apparire come un ostentazione
puramente esteriore, diretta non a provare che le guerre si facessero per una
giusta causa , ma piuttosto a dissimulare l'ingiustizia intrinseca della
guerra. Non può tuttavia esservi dubbio, che essó, trasportato nell'ambiente, in
cui ebbe a formarsi, ha dovuto essere una procedura viva e reale, la quale ebbe
ad essere determinata dalle condizioni, in cui si trova . vano le genti
primitive. Il ius pacis , ossia l'amicitia , l'hospitium , la societas nel
periodo gentilizio. 110. Siccome nel periodo gentilizio i rapporti di pace, che
si ven gono a stabilire pressochè contrattualmente fra le varie genti, si
riducono in sostanza a rapporti fra i capi delle medesime; cosi essi finiscono
per modellarsi e per ricavare la propria denominazione dai rapporti stessi, che
possono intercedere fra i loro capi. In altri termini quei vocaboli stessi, che
indicano le gradazioni diverse, in cui pos sono trovarsi i capi delle varie
genti, sono pur quelli, che desi gnano il vincolo più o meno stretto , in cui
possono essere le varie genti o i varii popoli, fra cui intervenne una
convenzione dipace; cosicchè i vocaboli anche qui vengono a dimostrare, come in
quei primi tempi non esistesse la distinzione fra i rapporti pubblici dei varii
gruppi ed i rapporti privati fra i capi, da cui essi erano rap presentati. I
vocaboli, intanto , che indicano questi rapporti pubblici e privati ad un
tempo, sono quelli di amicitia , di hospitium societas. Prima presentasi
l'amicitia , che indica quel rapporto contrat. tuale, che intercede fra due
genti diverse o meglio ancora fra i capi di esse, senza che il medesimo imponga
obbligo reciproco di difesa e di aiuto in tempo di guerra. La gente amica è
quella , a cui si potrà , in caso di bisogno, ricorrere per un favore e con cui
si intenda di intrattenere amichevole commercio . L'amicizia quindi conduce già
ad un riconoscimento del diritto della gente amica, e quindi se una persona, od
una cosa venga a cadere in mano di una gente amica , questa non potrà
appropriarsela ; il che sarebbesi potuto fare, allorchè non fosse esistita fra
di loro alcuna comunanza di diritto . Possono tuttavia esservi dei casi, in cui
i reciproci commerci, fra individui, che appartengono a tribù diverse, porgano
occasione al sorgere di controversie . Quindi fra i patti , che accompagnano i
trattati di amicizia, dovette essere frequente quello, che più tardi noi
troviamo indicato col vocabolo di actio e specialmente con quello di
reciperatio ; il quale è certamente bene appropriato per significare il rapporto
, a cui intendeva di accennare, malgrado le difficoltà di in terpretazione a
cui esso diede luogo. È nota in proposito la definizione di Elio Gallo :
Reciperatio est, cum inter populum , reges, natio nesque et civitates
peregrinas lex convenit, quomodo per recipe ratores reddantur res
reciperenturque, resque privatas inter se persequantur. La sua interpretazione
non può dar luogo a dubbio , quando diasi al vocabolo di lex la sua
significazione primitiva di con venzione e di patto ; interpretazione, che del
resto è anche imposta dall'espressione di « lex convenit » . È evidente
infatti, che qui trat tasi di un patto intervenuto prima fra le tribù e più
tardi fra i popoli, le nazioni e le città, nell'intento di permettere ai membri
delle genti, delle tribù e delle città di far valere rispettivamente le proprie
ragioni presso la gente, tribù o città , con cui trovansi in rapporto di ami
cizia ; come pure è evidente la correlazione, che intercede fra questo vocabolo
e quello di rerum repetitio , che costituiva, come si vedrà fra poco, uno dei
preliminari, che precedevano la vera dichiarazione di guerra. Questo vocabolo è
poi meglio spiegato da quello di reci procare, il quale, secondo Festo ,
significa « ultro citroque poscere » cioè far valere rispettivamente le proprie
ragioni: vocabolo , che anche oggidi conserva l'antica sua significazione in
quei trattati fra gli stati e le nazioni, che chiamansi di reciprocità e
direciprocanza . Ciò infine spiega eziandio , come si chiamassero recuperatores
quei giudici od arbitri, che erano chiamati a risolvere le controversie degli
stranieri fra di loro e dei cittadini cogli stranieri. Infine si 144 viene
anche a darsi ragione, come in una città come Roma, che fu sempre un emporio di
tutte le genti, i recuperatores abbiano finito per essere una autorità
giudiziaria , pressochè permanente, la quale, mentre decideva le questioni con
stranieri, poteva anche essere chiamata a risolvere delle controversie fra i
cittadini, in quei casi sopratutto , in cui non si trattasse di applicare il
ius quiritium , ma piuttosto quei iura gentium , che fin dai primi tempi
dovettero almeno di fatto esistere accanto al medesimo. A proposito dei re
cuperatores, si è poi lungamente disputato se i medesimi fossero chiamati
soltanto a risolvere controversie di diritto privato, o se potessero essere
chiamati eziandio a risolvere controversie di carat tere pubblico fra i popoli
e le genti. La definizione di Elio Gallo sembra comprendere le une e le altre ,
in quanto che essa accenna alla ricupera delle cose tolte da un popolo ad un
altro , e alla prose cuzione delle cose private. Se quindi fosse lecito
avventurare una congettura, misembrerebbe essere probabile, che in quell'epoca
, in cui ancora mal si distingueva la ragion pubblica dalla privata , i recu
peratores, che erano persone scelte fra le due genti amiche, potes sero essere
arbitri dell'uno ed un altro genere di controversie , perchè queste tenevano
del pubblico e del privato ad un tempo . Allorchè invece , al disopra delle
genti, venne a formarsi la città , e per tal modo cominciò a distinguersi la
cosa pubblica dalla privata , i re cuperatores ebbero circoscritta la propria
competenza alle contro versie di carattere privato . Fu in allora che i
recuperatores si man tennero per le controversie di indole privata, e che i
fetiales furono creati invece per le controversie, che insorgevano fra i varii
popoli; fu allora parimenti che la recuperatio fu ilmodo, con cui gli individui
res privatas inter se persequuntur, mentre la rerum repetitio di ventò un
preliminare della guerra; fu allora infine che i iura gentium si vennero
biforcando, e mentre da una parte il vocabolo di ius gen tium rimase ad
indicare un complesso di norme, che governava i rap porti diindole privata,
quello invece di ius foeciale o di ius belli ac pacis fu adoperato per indicare
i rapporti di carattere pubblico fra i popoli e le città . Anche qui insomma
non si fece che applicare un processo , le cui traccie sono evidenti in ogni
argomento, il quale consiste nel « publica privatis secernere, sacra profanis
Di qui derivò quell'incertezza di significazione, che questi vocaboli sem .
brano avere nelle proprie origini; incertezza, che non dovette recare imbarazzo
a coloro , che avevano operate queste distinzioni; ma che complica invece
grandemente l'opera di coloro che tentano - 145 - fondarsi sovra pochissime
vestigia di ricostrurre l'opera com - piuta (1). 112. Almodo stesso poi, che
nei rapporti fra i privati dopo l'amico viene l'ospite, il quale già viene
accolto nella casa e per qualche tempo entra in certo modo a far parte della
famiglia ; cosi nei rap porti fra le varie genti, al disopra dell'amicitia ,
viene a comparire l'hospitium . L'ospitalità , che diventa un ufficio di
cortesia presso le nazioni civili, è invece una vera necessità presso tutti i
popoli pri mitivi, i quali senza di essa si troverebbero isolati gli uni dagli
altri. Non è quindi meraviglia, se i doveri dell'ospitalità , oltre al fon
darsi sul costume, entrino eziandio sotto la protezione del fas , e se la medesima,
presso le genti primitive, tenda ad acquistare un ca rattere ereditario .
L'ospite entra in un certo senso a far parte della stessa famiglia, come lo
dimostra il fatto che gli antichi giurecon sulti disputavano perfino, se gli
ufficii verso l'ospite dovessero pre cedere o susseguire quelli verso il
cliente : nella quale questione, (1) V. quanto alla definizione della
recuperatio, HUSCHKE, Jurisp . ante-iust. quae sup., pag . 97 , n ° 13. Questa
congettura , che d'altronde è molto semplice, ha il van taggio di risolvere
parecchie controversie, che furono largamente trattate dal Voigt, Das ius
naturale, gentium , etc., II, e dal Fusinato , Dei Feziali e del diritto
feziale . Essa spiega anzitutto come un solo vocabolo, quello di ius gentium ,
possa presentarsi con un duplice significato (V. FusInATO, Op. cit., Introd . ,
Cap. I, § 1, pag. 463 , dove egli combatte in parte l'opinione del Voigt). Essa
spiega in secondo luogo, come la recuperatio, che più tardi trovasi solo
applicata alle controversie private, nell'antica sua definizione comprenda
invece anche quelle di carattere pub blico. Di qui una divergenza fra il
Fusinato da una parte, che vorrebbe negare ai recuperatores « ogni competenza
giudiziaria in interessi di pubblica natura » , Op. cit ., Cap. V , § 2º, e il
SelL ed il Rein da lui citati , che sostengono invece un'opinione diversa .
Credo poi chenon possa essere posta in dubbio l'analogia stret tissima fra
recuperatio e rerum repetitio , sebbene i due vocaboli abbiano ciascuno una
propria significazione, poichè recuperatio significa reciproca actio, mentre
rerum repetitio significa il tentativo, che un popolo fa per riavere ciò che
gli fu tolto, prima di appigliarsi alla guerra . Del resto questa stessa
analogia compare fra le noxae datio del diritto privato e le noxae deditio dei
cittadini colpevoli contro il diritto delle genti, di cui discorre lo stesso
Fusinato al Capo V , § 3º. Ciò significa pertanto, che noi ci troviamo di
fronte ad un processo logicamente applicato in tutte le di stinzioni, che si
vennero introducendo fra i rapporti pubblici e privati, e quindi la coerenza
stessa dei risultati, in varii argomenti ad un tempo, dimostra come sia fondata
la congettura di cui si tratta. Come poi i recuperatores fossero in Roma
an’autorità giudiziaria , pressochè permanente, appare da ciò , che essi non
erano ignoti alla stessa legislazione decemvirale, il cui impero era ristretto
ai soli cittadini. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 10 - 146 mentre vi
era chi collocava prima le persone affidate alla tutela del capo di famiglia,
poi il cliente, quindi l'ospite ; Masurio Sabino invece preponeva l'ospite al
cliente. Tutti però erano concordi nel ritenere, che l'ospite dovesse avere la
precedenza sui cognati e sugli affini. Non pud quindi essere temeraria la
congettura, che l'ospitalità e la clientela fossero nell'organizzazione
gentilizia due istituzioni, che avevano una correlazione fra di loro ; colla
differenza, che la ospi talità importava solo una difesa e protezione
provvisoria, mentre la clientela importava un rapporto di protezione
permanente. Sotto quest'aspetto pertanto , si poteva dire che il cliente veniva
prima del l'ospite; maquando invece si consideri che la clientela importa subor
dinazione e dipendenza , mentre l'ospitalità può alternarsi in guisa che
l'ospitato di un giorno sia l'ospite in un altro , ben si pud com prendere il
motivo, per cui Masurio Sabino concedesse sotto questo aspetto la precedenza
all'ospite sopra il cliente, in quanto che l'ospite e l'ospitato erano in rapporto
di uguaglianza fra di loro , il che non accadeva del patrono e del cliente (
1). 113. Così il concetto dell'amicitia , che quello dell'hospitium , do
vettero nel periodo gentilizio avere un carattere pubblico e privato ad un
tempo. Fu solo posteriormente, quando dalle genti e dalle tribù uscirono le
città, che cosi l'amicitia come l'hospitium subirono quella distinzione , che
si operò in qualsiasi altro argomento, per cui si ebbero l'amicitia e
l'hospitium pubblico e privato. Che anzi nella transizione fuvvi un periodo, in
cui la casa stessa del re dap prima e del magistrato dappoi servì per
accogliere gli ospiti del popolo romano ; ma, a misura che si venne
distinguendo l'ente collettivo dello Stato dalla persona dei singoli cittadini,
si dovet tero anche distinguere l'amicizia e l'ospitalità in pubblica e in
privata . Cosi fu un effetto della pubblica amicizia , che il cittadino romano,
quando era fatto prigioniero di guerra , godesse senz'altro del diritto di
postliminio , appena ponesse il piede nel territorio di un re alleato od anche
solo amico , poichè da quel momento comin ciava ad essere « pubblico nomine
tutus » (2). Parimenti l'hospitium pubblicum , allorchè fu accordato non solo
ad un individuo, ma alla intiera popolazione di una città, venne a cambiarsi in
certo modo nella ( 1) V. sopra il passo di Masurio Sabino a pag. 48, nota 2 . (
2) L. 19 , $ 3 Dig . (49 , 15 ) . 147 concessione della civitas sine suffragio
: il che rende non desti tuita di fondamento l'opinione di coloro , i quali, dietro
l'autorità del Niebhur, vogliono trovare nel concetto dell'hospitium pubblicum
la primitiva significazione, che, secondo Festo, sarebbe stata attri. buita al
vocabolo di municipium (1). 114. Infine al disopra dell'amicizia e
dell'ospitalità , presentasi la societas. Qui non trattasi più di semplici
officii di cortesia , ma di obbligazioni che già assumono un carattere
giuridico; poichè la 80 cietas fra le genti, al pari della societas fra i
privati, è un acco munare le proprie forze per il conseguimento di un intento
comune, e per ripartire i vantaggi, che si possono ricavare dall'opera insieme
associata . I patti e le condizioni di questa societas possono essere molto
diversi; ma di regola essa importa alleanza difensiva ed offen siva delle
genti, fra cui interviene, e una conseguente ripartizione del bottino. Di qui
la conseguenza, che mentre l'amicizia e l'ospita lità possono anche trovare
origine nel fatto e nella consuetudine ; la societas invece suppone una
convenzione espressa fra le genti ed i popoli, fra cui interviene: quindi con
essa viene a sorgere il con cetto del foedus, il quale ebbe larghissimo
svolgimento e diede luogo ad importantissime conseguenze nel periodo gentilizio
. $ 3 . - N foedus e le sue svariate applicazioni nel periodo gentilizio . 115.
Per quanto sia dubbià l'origine della parola, questo è certo , che l'essenza
del foedus sta nella fides, che stringe quelli che entrano in confederazione
fra di loro, e che il medesimo, nei rapporti fra le varie genti, compie quello
stesso ufficio , a cui adempie il contratto fra i singoli capi di famiglia .
Infatti, sebbene di regola sogliano ado perarsi come sinonimi i due vocaboli di
societas e di foedus , è pag . 104. (1) NIEBhur, Histoire romaine, III, pag. 79
e seg . Questa opinione fu di recente sostenuta dal TADDEI, Roma e i suoi
municipii , Firenze, 1886, 8 31, Senza negare che possa esservi esistito un
qualche rapporto fra l'hospitium pubblicum e il municipium , nella prima delle
significazioni che è attribuita a quest'ultimo vo cabolo da Festo , vº
Municipium , vuolsi però avere presente che l'hospitium è isti tuzione di
origine gentilizia, mentre il municipium suppone già esistente e svolta la
convivenza civile e politica . 148 però facile l'avvertire, che i medesimi,
sopratutto negli inizii, dovet. tero avere significazione diversa . Mentre
infatti la societas indica il rapporto, in cui entrano le genti ed i popoli, il
vocabolo di foedus invece significa di preferenza l'accordo, la convenzione,
con cui questo rapporto viene ad essere stipulato . Che anzi, siccome fra le
genti non si distinguono i rapporti di carattere pubblico da quelli di
carattere privato : cosi il vocabolo foedus si presenta dapprima con una
larghissima significazione, instesse convenzioni e stipulazioni private e, sopratutto
nei poeti, significa persino quelle convenzioni tacite, che sembrano strin gere
tutti i popoli, che si trovino in analoghe condizioni di civiltà : convenzioni
e rapporti, che sono appunto indicati col vocabolo di foe dera generis humani,
poichè il popolo che vi venisse meno sem brerebbe in certo modo uscire dal
novero dalle umane genti. Tali erano fra gli antichi l'inviolabilità e
l'immunità dei legati, senza la quale sarebbe stata impossibile qualsiasi
trattativa fra genti, che non avevano fra di loro comunione di diritto ; tale
era eziandio quel costume veramente umano per cui, terminata la battaglia, ad
divenivasi ad una breve tregua, acciò i due eserciti potessero addi venire alla
sepoltura dei morti. Di più , anche nei rapporti fra le genti, il foedus non
significava soltanto la confederazione o l'al leanza; ma poteva significare
qualsiasi accordo , che venisse a seguire fra due popoli, sia per conchiudere
la pace, sia per rimettere la decisione della guerra ad un duello fra individui
scelti negli eser citi che si trovavano di fronte, ed anche quell'accordo, in
base a cui si addiveniva alla deditio di un popolo ad un altro e se ne fissa
vano le condizioni. Il foedus insomma indica il momento, in cui l'elemento
contrattuale comincia a penetrare nei rapporti fra le varie genti; ed è perciò
, che, malgrado tutti i dubbii che possano avere gli etimologi, non so
trattenermi dall'esprimere la persuasione profonda, che il vocabolo di ius
foeciale, con cui si indicava il complesso delle pratiche e delle trattative,
che poterono seguire fra i varii popoli così in pace, come in guerra, non può
essere che una corruzione ed una sincope di ius foederale (1) . (1) Gli
etimologi non possono accertare che foedus origini da fides, nè che foeciale
derivi da foedus : ma questo è certo, che le parole di fides , foedus,
foeciale, come sembrano avere una parentela materiale, così hanno una
strettissima attinenza , quanto al concetto dalle medesime espresso, ed è
questo il motivo, per cui continuo a scri vere ius foeciale a vece di ius
fetiale. Quanto alla larghissima significazione pri 149 116. Intanto il foedus
è il rapporto fra le genti e le tribù , che suppone un maggiore progresso
nell'organizzazione sociale . Qui infatti non è più il caso di un semplice
ufficio di amicizia e di ospitalità ; ma trattasi già di un rapporto che assume
il carattere giuridico , in quanto che il foedus impone alle genti e alle
tribù, che vi addiven gono, delle vere e proprie obbligazioni giuridiche,
sebbene queste continuino ancora sempre ad essere sotto la protezione del fas.
Gli è perciò, che col foedus già comincia a comparire quell'istituto della
stipulazione giuridica , che le genti latine recarono non solo nelle con
venzioni private, ma eziandio nelle convenzioni di pubblica natura ;
stipulazione che, a mio avviso , dovette probabilmente essere prima adoperata
per i rapporti di carattere pubblico, che non per quelli di carattere privato .
Quanto alle formalità solenni, che accompagnavano il foedus, ritengo, che se
più tardi potè essere attribuita importanza sopratutto all'elemento esteriore,
che serviva per dargli il carattere di iustum , come lo dava al testamento,
alle nozze e a qualsiasi altro atto ; questo è però certo, che le cerimonie,
che accompagnavano la conclu sione del foedus nel periodo, in cui si vennero
formando, dovettero avere una reale ed effettiva significazione . Non doveva
quindi nel periodo gentilizio esservi un pater patratus, che addivenisse alla
formazione dell'alleanza : ma erano i padri o capi effettivi delle genti, che
da essi erano rappresentati, quelli che conchiudevano il patto. Così pure
dovette anche avere una efficace significazione l'obtestatio deorum , per cui
chiedevasi la divinità in testimonio del patto , che interveniva fra di essi, e
si poneva il trattato sotto la protezione del fas, chiamando la collera del
cielo contro colui, che venisse meno al patto intervenuto , e simboleggiando,
col ferire con un coltello di selce la vittima, il modo, con cui la divinità
avrebbe col pito il violatore del patto (1). mitiva di foedus, essa appare
sopratutto dall'uso che ne fanno i poeti latini, pei quali indica dapprima
qualsiasi patto fra gli individui e fra le genti; quindi anche qui abbiamo una
parola , che si riferì dapprima ai rapporti pubblici e privati ad un tempo;
argomento questo che gli uni non si distinguevano dagli altri. Questo
significato primitivo di foedus fu presentito dal nostro Vico, allorchè chiamò
le re ligioni, le sepolture ed i matrimonii i foedera generis humani. Il
duplice significato pubblico e privato di foedus occorre poi nel seguente passo
di Liv., Hist., I, 1: « Aenean apud Latinum fuisse in hospitio : ibi Latinum ,
apud penates deos, dome sticum pubblico adiunxisse foedus, filia Aeneae in
matrimonium data ». ( 1) Questo è provato anche da ciò , che nel primo caso
narratoci di un patto se 150 117. Questo ad ogni modo è fuori di ogni dubbio,
che il concetto del foedus, vincolo religioso e giuridico ad un tempo fra le
varie genti e le tribù, ebbe certamente a precedere la formazione della
comunanza romana, e dovette anche prima ricevere applicazioni molteplici e
diverse, durante il periodo .gentilizio . Il foedus può essere anzitutto il
mezzo, con cui si pone termine allo stato di guerra fra diverse tribù, e
siccome al momento, in cui si addiviene al medesimo, le sorti delle armi
possono essere diverse per i contendenti, cosi è probabile, che già ,
anteriormente a Roma, dovesse esservi quella distinzione, di cui essa poi fece
così larga ap plicazione fra il foedus aequum ed il foedus non aequum . Eranvi
infatti dei casi, in cui il foedus, nella significazione di convenzione e di
trattato , serviva, come ricorda Gellio , per dettare la legge ai vinti; altri
in cui, senza opprimere affatto quello dei contendenti, per cui volgessero
sfavorevoli le sorti della guerra, il medesimo in una posizione di ossequio e
di subordinazione verso quello che stava per vincere, il che costituiva appunto
il foedus non aequum e dava origine ad una specie di clientela di un popolo
verso un'altro , che nell'epoca romana fu poi indicata coll'espressione « at
maiestatem Populi Romani coleret » ; altri infine, in cui, essendo incerte le
sorti della guerra , si poneva termine alla medesima con un aequum foedus e si
veniva, secondo i patti, alla reciproca restituzione dei prigionieri di guerra
e all'abbandono del territorio occupato (1). si poneva 118.Per quanto poi si
riferisce a quella distinzione fra foedus e spon sio, stata invocata qualche
volta dai Romani, sembra che la mede sima costituisca già un'applicazione, eminentemente
giuridica , trovata dallo stesso popolo romano e posteriore alla formazione
della città . È noto in proposito, che i Romani ritenevano per foedus il
trattato guìto secondo il ius foeciale , che è quello relativo al combattimento
degli Orazii e dei Curiazii, DIONISIO ci narra, che il medesimo fu solennemente
stipulato , e che due cittadini eletti a ciò, facendo le veci di padri dei due
popoli, lo sancirono a nome di ciascuno d'essi. Dion ., III, 5. Cfr. Bonghi,
Storia di Roma, I, pag. 99. Ritengo poi verosimile l'opinione del senatore
Pantaleoni, ricordata dal Fusinato , Le droit in ternational de la République
Romaine, Bruxelles, 1885. Extrait de la Revue de droit international, pag. 18 ;
secondo cui il coltello di selce rimonterebbe all'età della pietra, poichè
questo studio di conservare anche materialmente l'antico è ve ramente nel
carattere romano. (1) Quanto alle varie specie di foedera fra le città ed i re
è da vedersi Livio , XXXIV, 17. Esempii poi di foedera non aequa possono
vedersi in Gellio , Noc .att., VI, 5 , e nello stesso Livio, XXX, 15 e II, 25.
151 - stipulato coll'intervento del pater patratus e colle cerimonie tutte del
ius foeciale, mentre sponsio era la pace giurata soltanto dal generale . Mentre
il primo obbligava direttamente il popolo Romano, l'altra invece , quando non
fosse ratificata dal senato , obbligava solo a fare la consegna del generale,
che aveva giurato la pace. Ora è evidente, che questa distinzione cosi
ingegnosa e sottile presuppone già il passaggio dall'organizzazione gentilizia
alla città propriamente detta. Finchè trattasi di tribù o di genti, è il pater
o capo effettivo della tribù, che la guida nelle sue imprese militari, e quindi
è egli stesso, che tratta la pace circondato da altri capi, ed adempie alle cerimonie
tutte di carattere religioso , che devono accompagnare la stipulazione del
foedus. Non occorre quindi ancora l'artificio del pater patratus, nè
l'intervento dei feziali, perchè esso possa obbligare direttamente il proprio
popolo . Quando invece trattasi di una città , tanto più se retta a repubblica
, il generale non può più dirsi che rap presenti il popolo e il senato , e
quindi egli non può addivenire che ad una semplice sponsio, la quale, per
essere cambiata in un vero trattato , abbisogna della ratifica del senato e
dell'adempimento delle cerimonie del diritto feziale. Intanto perd, siccome il
generale è colpevole per aver giurata una promessa, che non mantiene o per aver
obligato il popolo oltre i limiti del suo mandato ; cosi il senato , che non ra
tifica il suo operato , si appiglia alla noxae deditio del generale stesso.
Intanto si comprende, che altri popoli, come i Sanniti, al tempo della pace
delle forche caudine, i quali non erano ancora pervenuti ad un eguale sviluppo
della loro organizzazione civile e politica, stentassero a comprendere questa
sottigliezza giuridica dei Romani: poichè per essi il loro generale era anche
il loro capo ef fettivo , e quindi poteva obbligare direttamente il popolo da
lui rap presentato (1). (1) Non parmi quindi, che possa essere il caso di
introdurre qui la triplice distin zione, a cui accenna il Mommsen, Le droit
public romain , pag. 281, fra la semplice sponsio del capitano, il foedus
foeciale e il foedus del solo capitano; poichè è di chiarato abbastanza chiaramente
da Livio , che tanto il foedus che la sponsio , se siano fatte iniussu populi ,
non possono obbligare il popolo Romano, Livio, IX , 4 , 5 , 8. Quindi la vera
distinzione viene ad essere questa : o la convenzione è opera del solo
capitano, iniussu populi ac senatus, che sono quelli che inviano i feziali, e
in allora abbiamo una semplice sponsio ; o invece vi ha il iussus populi ac
senatus, che inviano i feziali e abbiamo il vero foedus: donde la prova che la
distinzione dovette essere un effetto del passaggio dall'organizzazione
gentilizia all'organizza zione politica . Cfr. Fusinato, Dei Feziali e del
diritto feziale, Cap. IV, § 3º. 152 - 119. Non credo poi si possa ammettere col
Mommsen , che sulla forma del foedus abbia esercitata una visibile influenza la
teoria del contratto , in quanto che nel foedus sarebbesi adoperata per
analogia la forma della stipulazione, come quella che era considerata come il
modo generale e di diritto comune per contrarre le obbliga zioni. Ciò è del
tutto impossibile : perchè è certo che esistevano già il foedus e la sponsio
nei rapporti fra i varii popoli e che l'uno e l'altra già si stipulavano con
quella forma determinata, assai prima che i giureconsulti costruissero la
teoria della stipulazione e ne fa cessero applicazione alle convenzioni private
. Del resto la forma della stipulazione, adoperata dai Romani nei rapporti
colla divinità , nella formazione della legge, nella conclusione dei trattati
di pace, solo più tardi sembra essere stata accolta nel diritto civile romano
ed applicata alle convenzioni private; per guisa che vi sono autori, che
ritengono la stipulazione nelle convenzioni private come di impor tazione greca
. Il vero si è, che nel diritto primitivo trovasi sempre un'analogia fra i
rapporti di diritto pubblico e quelli di diritto privato ; la quale deriva da
ciò , che nel periodo gentilizio tanto gli uni come gli altri sono rapporti tra
capi di gruppo, e quindi le stesse forme, che servono nei rapporti fra le varie
genti, possono poi anche servire nei rapporti contrattuali e privati. Sonvi
però molte pratiche comuni agli uni e agli altri e fra le altre havvi quella
della sponsio , che sembrano aver acquistato forma ed efficacia giuridica prima
nei rapporti fra le genti, che nei rapporti dicarattere privato. Del resto cid
è anche attestato da Gaio , che chiama sottigliezza il voler applicare la
teoria della stipulazione privata alla sponsio del generale romano ; poichè, se
si venga meno al patto, non ex stipulata agitur, sed iure belli res vindicatur
( 1). (1) V. Mommsen, Le droit public romain , pag. 281, il quale , secondo la
tradu zione Gérard , di cui mi valgo, scrive : « En ce qui concerne la forme,
le principe du droit civil a fait employer ici par analogie les formes de la
stipulation , parce qu'elle était considérée comme le mode général et de droit
commun de contracter des obligations » . Parmi, con tutta la riverenza al
dottissimo autore, che questa proposizione non possa essere accolta , e che
sarebbe vera piuttosto la proposizione inversa . Infatti secondo il MUIRHEAD ,
Hist. Introd., pag . 227, e molti altri , la sponsio o stipulatio nelle
convenzioni private non sarebbe penetrata di Grecia in Roma, che verso la metà
del V secolo : epoca, in cui la teoria della sponsio e del foedus, nei rapporti
fra le città ed i popoli , aveva già ricevuto tutto il suo svi luppo. Quindi è
che pur non ainmettendo l'opinione del MTIRHEAD, in quanto che ritengo che la
sponsio fosse romana fino dalle origini e vivesse nel costume, anche - 153 120.
Un'altra applicazione del foedus era anche quella , per cui tribù e genti, che
potevano anche non essere in guerra fra di loro , stringevano fra di loro
un'alleanza, i cui patti potevano essere molto diversi, ma che il più spesso
costituiva una lega difensiva ed offensiva ad un tempo ; la cui idea tipica pud
essere ricavata dal foedus latinum , detto anche foedus Cassianum , il cui
tenore ebbe ad esserci conservato da Dionisio . È poi notabile , che queste
specie di alleanze fra tribù e popoli vicini, siccome per lo più dipendevano da
relazioni ed aderenze fra i capi di gruppo , cosi si venivano for mando e
disfacendo con grande facilità, per cui bene spesso l'alleato di oggi poteva
essere il nemico di domani. Il che tuttavia non toglie, che la forza e
l'efficacia del patto d'alleanza sia cosi profondamente sentita, che
stipulavasi talvolta che essa dovesse durare eterna ed im mortale, come lo
erano i popoli, fra cui interveniva. Ciò è dimostrato dall'energica espressione
adoperata nel foedus latinum , secondo la quale la pace e l'alleanza fra romani
e latini doveva durare : « dum coelum et terra eandem stationem obtinuerint »
(1) . 121. Infine un'altra importantissima applicazione del foedus nelle epoche
primitive, è quella , in virtù della quale più tribù , che possono anche essere
di origine diversa , societatem ineunt fra di loro, nel l'intento di formare
una stessa civitas e di partecipare così ad una vita pubblica comune. È stato
questo il foedus, che ha servito per la formazione dell'urbs e della civitas
dei latini, e che fu anche il tipo , sovra cui ebbe ad essere foggiata Roma
primitiva; il qual ca rattere è importantissimo, in quanto che induce ad
affermare che Roma nei suoi inizii ebbe un carattere federale e pressochè con
trattuale . Dal momento infatti, che fra le varie tribù mancava il vincolo
della comune discendenza , non poteva esservi che quello della fides, e quindi
è nel foedus, che deve essere cercata l'origine prima dientrare nel diritto,
conviene pur sempre riconoscere che la teoria della sponsio si svolse prima nei
rapporti fra le genti, che non nel diritto civile di Roma. Giu stamente quindi
Gaio voleva tener distinte le due cose: poichè, dalmomento che la sponsio nei
trattati fra i popoli erasi distinta da quella nelle convenzioni private, non
era più il caso di confonderle insieme(Gaius, Comm . III, 94). Da questa
nasceva l'actio ex stipulatu , mentre dalla violazione di quella nasceva la
guerra. I due isti tuti, che nella origine potevano essere uniti, ora seguono
invece ciascuno la propria via, come la recuperatio e la repetitio rerum , il
ius gentium e il ius belli ac pacis e simili, e più non debbono essere insieme
confusi. ( 1) Dion., VI, 95. 154 della città . Se la tribù può ancora essere
una formazione del tutto naturale, perchè è l'effetto del primato , che una
gente acquista sopra le altre che la circondano ; la città invece suppone di
necessità l'accordo delle varie tribù , che entrano a costituirla , accordo,
che riveste appunto la forma di un foedus (1). § 4. — Dei mezzi per
l'annessione e per il distacco degli elementi , che partecipano alla stessa
comunanza . 122. Intanto egli è evidente, che allorquando le cose sono per
venute a tale, che nell'organizzazione gentilizia , in cui prima do minava
esclusivamente il vincolo di discendenza, già comincia a pe netrare l'elemento
federale e contrattuale , questo non può a meno di attribuire
all'organizzazione stessa una elasticità e pieghevolezza , che essa prima non
poteva avere. Infatti egli è sopratutto da questo punto , che nel seno della
tribù e della città , costituita mediante la federazione di varie tribù,
cominciano a comparire dei mezzi, i quali o servono ad aggregare alla comunanza
un nuovo elemento , o ser vono invece a staccarne un elemento, che prima ne
faceva parte per trasportarlo altrove. Fu in questa guisa, che, già anterior
mente alla formazione della comunanza romana, si erano venuti svolgendo gli
istituti della cooptatio, della concessio civitatis sine suffragio , della
secessio e della colonia ; la cui nozione è indispen sabile per comprendere la
storia primitiva di Roma. 123. In virtù della cooptatio le genti, che già
entrarono a far parte di una medesima comunanza civile e politica, possono
accoglierne delle altre a far parte della medesima. Essa fu applicata più volte
in Roma primitiva; come lo dimostra la cooptazione delle genti Al bane, dopochè
Alba fu , secondo la tradizione, distrutta da Tullo Ostilio , e fu applicata
eziandio alla gente sabina, capitanata da Atto Clauso . ( 1) Questa origine
federale delle città costituite sul tipo latino pud servire a spiegare il
fatto, per cui i Latini nella loro qualità di socii coi Romani abbiano messa
innanzi la pretesa , che Roma e il Lazio dovessero dare origine ad una comu
nione ed unità di governo ; per cui dei consoli uno dovesse essere nominato dal
Lazio e l'altro da Roma, e il senato dovesse comporsi in parti eguali dai due
popoli. Vedi Liv. VIII, 3, 4, 5. Cfr . WALTER, Storia del diritto di Roma, Trad
. Bollati, Torino , 1851, I, S 85 e seg ., pag . 108 ). 155 È poi questa
istituzione, che ci dà la ragione per cui, durante il periodo di Roma patrizia
, la cittadinanza non era conceduta ad in dividui, ma a genti collettivamente
considerate, in quanto che la cooptatio era per sua natura applicabile
all'intiero gruppo gentilizio e non ai singoli individui ( 1). Non pud poi
esservi dubbio, che questa cooptatio, per essere una istituzione eminentemente
patrizia , doveva certainente essere accom pagnata da cerimonie religiose ;
perchè la gente , che era ammessa nella tribù o alla città, diventava eziandio
partecipe della religione di esse, ne aveva comuni gli auspicia , ed il suo
capo poteva anche conseguire un seggio nel senato . Quasi si direbbe, che la
cooptatio di una gente nella tribù o città corrispondeva alla adrogatio per la
famiglia . Quindi si comprende, come al modo stesso che l'adrogatus, per essere
disgiunto dalla gens, di cui faceva parte, doveva prima addivenire alla
detestatio sacrorum ; così anche il gentile, per uscire dall'ordine delle genti
patrizie e passare, ad esempio , nella plebe, il che chiamavasi transitio ad
plebem , doveva pure appigliarsi ad una specie di abdicatio o detestatio
sacrorum ; alla quale dovette appunto assoggettarsi Clodio , allorchè abbandono
l'ordine patrizio e passò alla plebe per poter essere nominato tri buno (2 ) È
poi degno di nota, che questa cooptatio ebbe pure ad essere applicata ai
collegi sacerdotali, finchè i medesimi furono esclusiva mente tratti
dall'ordine patrizio , e fu solo più tardi, allorchè anche la plebe fu ammessa
ai sacerdozii pubblici del popolo romano, che ad alcuni fra essi fu applicata
l'elezione popolare, la quale anzi fini per essere affidata ai comizi tributi.
124. Quando poi la città cesso di essere esclusivamente patrizia , in allora
noi vediamo svolgersi, qualmodo di accrescere la popola zione, la concessione
della civitas sine suffragio , in virtù della quale gli abitanti di una città
vicina, che venivano a prendere il ( 1) Dion ., III, 29 ; Liv ., 1, 30. Cfr.
Willems, Le droit public romain , pag. 25 ; CARLOWA, Römische Rechtsgeschichte,
I, pag. 34. (2) La necessità di una specie diabdicatio, anche per uscire da una
gens, è provata dal seguente passo di Servio, In Aen . 2, 156 : « Consuetudo
apud maiores fuit, ut qui in familiam vel gentem transiret , prius se abdicaret
ab ea , in qua fuerat, et sic ab alia reciperetur ». Quanto alla transitio ad
plebem , è da vedersi Cic., Brut., 16 , e Aulo Gellio, XV, 27 . 156 nome di
municipes (a munere capiendo), recandosi a Roma, erano ammessi a partecipare ai
diritti e alle obbligazioni del cittadino, esclusa però la partecipazione al
godimento dei diritti pubblici, che consistevano nel ius suffragii e nel ius
honorum . Fu con questo mezzo, che Roma incominciò a mettere le basi di quel
sistema mu nicipale , per mezzo del quale tutti gli abitanti prima delle città
del Lazio e poi quelli delle città italiche, finirono per essere considerati
come cittadini di Roma, che era la patria communis; il che però non impediva,
che ogni città avesse una propria amministrazione municipale. Questo carattere
dei municipia , i quali in sostanza erano città per sè esistenti, che venivano
ad essere associate alle sorti di Roma, fu espresso da Gellio con dire , che
imunicipia , a differenza delle colonie, veniunt extrinsecus in civitatem et
radicibus suis nituntur. Ciò però non tolse , che il concetto del municipium
abbia subito poi delle trasformazioni profonde, le quali sono indicate dalle
significazioni diverse, che Festo attribuisce a questo vocabolo ( ). i 125. A
questi duemezzi, con cui veniva accrescendosi il numero di coloro, che
partecipavano alla stessa civitas , se ne contrapponevano invece degli altri,
che servivano piuttosto a trasportare altrove una parte della popolazione, sia
che ciò occorresse per il vantaggio della stessa città , come accadeva nella
colonia , sia che una parte di essa si trovasse in condizioni incompatibili col
rimanente, nel qual caso si ricorreva alla secessio e all'expulsio. Non può
esservi dubbio, che il sistema delle colonie, che prese poi cosi largo sviluppo
in Roma, esisteva già prima nel costume delle genti italiche, ed era anzi loro
comune colle genti elleniche, sebbene il suo scopo potesse essere diverso. Ciò
è dimostrato dal fatto, che, secondo la tradizione, la tribù dei Ramnenses non
dovette essere dapprima, che una colonia di Alba Longa. Le colonie poi sono
gruppi di famiglie, le quali, collettivamente considerate, si staccano dalla
madre patria , colla approvazione di quelli che rimangono, la quale si
manifesta nella lex coloniae deducendae, e colla buona volontà di coloro che
partono, i quali debbono perciò farsi iscrivere nel numero dei coloni. Ciò ebbe
ad essere espresso da Servio con dire, che le (1) I principali passi degli
autori, relativi almunicipium e alla colonia , possono trovarsi raccolti nella
eruditissima opera del Rivier, Introdution historique au droit romain ,
Bruxelles, 1881, pag. 135 a 140 ; la quale contieneun numero grandissimodi
passi di autori e questi raccolti con molta sagacia. 157 colonie « ex consensu
pubblico, non ex secessione conditae sunt » . Di qui la conseguenza, che la
colonia porta con sé la religione, la lingua, le tradizioni della tribù o della
città , dalla quale si stacca e si organizza a somiglianza di essa, per guisa
che, secondo la efficace espressione di Gellio, le colonie sono quasi effigies
parvae, simula craque della madre patria, e sono quasi propaggini della città,
da cui sonosi staccate , comequelle , che continuano ancor sempre a mantenersi
in rapporti con essa (ex civitate quasi propagatae sunt) (1). Punto non ripugna
, che le colonie nelle loro origini siansi cosi chiamate a colendo ; in quanto
che può darsi benissimo, che esse fossero in certo modo delle spedizioni
agricole, che partivano da una tribù , sta bilita sopra un territorio , per
trasportarsi sopra un altro suolo , quando quello prima occupato più non
potesse bastare ai bisogni della intiera popolazione. Però anche in questa
parte, allorchè riuscì a delinearsi l'istituto della colonia , nulla impedi che
esso potesse essere rivolto ad intenti di diversissima natura, marittimi,
militari, commerciali, e che servisse anche a diminuire il numero soverchio
della plebe, quando essa , raccolta nella sola città, già cominciava a
cambiarsi in una factio forensis e a diventare pericolosa . 126. La secessio
invece sembra contrapporsi alla cooptatio, colla differenza che questo
vocabolo, in cui non havvi accenno ad alcun rito religioso , sembra aver
trovato origine piuttosto nei rapporti fra patriziato e plebe, che non in seno
all'ordine patrizio . Ad ogni modo la secessio , intesa in largo senso , ha
luogo allorchè un ele mento già ammesso nella comunanza , trovandosi
incompatibile colla medesima, se ne stacca volontariamente e recasi altrove a
porre la propria sede . Lasciando anche a parte i tentativi di secessio per parte
della plebe, i quali non ebbero mai un esito definitivo , può forse scorgersi
un esempio di secessio , ancorchè dissimulato dalle tradizioni, nel fatto della
gens Fabia, che abbandonava Roma coi suoi numerosi clienti per stabilirsi alla
Cremera, ove poi fini per essere distrutta dai Sanniti, lasciando un solo
superstite , che entrò di nuovo a far parte della cittadinanza romana (2 ). (1)
Servio, In Aen ., I, 12 ; Gellio , XVI, 13. L'importanza delle colonie nel
periodo gentilizio fu già messa in evidenza dal Vico, Prima scienza nuova, Lib.
II, Cap. 42. Intorno alle colonie ed alle varie loro specie, è accurata la
trattazione del WALTER, Storia del Dir . Rom ., Trad . Bollati, $ 204-212. (2)
Quanto alla tradizione circa la gens Fabia , vedi Bonghi, Storia di Roma, I ,
pag. 418 . 158 Alla secessio , che è volontaria , si contrappone invece
l'expulsio , quale fu quella , che ebbe ad avverarsi per la gens Tarquinia ;
espul sione, che per la intimità del vincolo , che stringe insieme i membri di
una medesima gente, dovette poi essere estesa a tutti coloro che portavano quel
nome, non escluso quel Tarquinio Collatino , marito a Lucrezia , il cui
oltraggio , secondo la tradizione, era stata occasione allo scoppio di quella
rivoluzione patrizia e plebea ad un tempo , che condusse alla trasformazione
del governo regio in repubblicano. Intanto questi varii istituti, unitamente
all'amicitia , all'hospitium , alla societas e al foedus, che serviva a dar
forma giuridica e so lenne a tutti i rapporti amichevoli fra le varie genti e
tribù, avendo in gran parte avuto origine nel periodo gentilizio , dimostrano
abba stanza come la città , la quale era uscita dalla federazione e dall'ac
cordo, potesse anche subire dei mutamenti, che si operavano nella stessa guisa
. Essa aveva mezzi diversi per accrescere o scemare il numero di coloro, che
partecipavano alla stessa comunanza. Finchè infatti la città fu esclusivamente
patrizia , potevano bastare la cuoptatio o la expulsio, mediante cui una gente
poteva essere ac colta o respinta dall'ordine patrizio , e cosi entrare od
uscire dalla partecipazione alla stessa comunanza. Quando poi patriziato e
plebe si fusero insieme ed entrarono così a far parte dello stesso esercito e
dei medesimicomizii, in allora si svolgono la secessio da una parte e la
concessio civitatis dall'altra , e quest'ultima potè essere consen tita cum
suffragio o sine suffragio . 127. Infine havvi la colonia che, adoperata prima
dalla tribù e poscia dalla città , serve a questa per trapiantare le sue
propaggini altrove; mentre il municipium viene a convertirsi in un mezzo,me
diante cui popolazioni,che avevano altrove la propria sede ed avevano anzi una
propria amministrazione ed una propria vita, vengono ad es sere ammesse a
partecipare alla vita pubblica della città , senza però essere ammesse agli
onori ed al suffragio. Sarà solo più tardi, allorchè il sistema municipale sarà
svolto in tutte le sue conseguenze, che le città latine prima e le città
italiche dappoi, pur serbando il diritto di partecipare alla amministrazione
della loro patria originaria , otter ranno tuttavia la partecipazione alla
piena cittadinanza di Roma, che comincierà cosi ad essere considerata come la
communis patria . Così viene preparandosi l'organismo della città per guisa,
che essa possa essere capo e centro di qualsiasi vasto impero, e mentre le -
159 popolazioni, ammesse alla cittadinanza romana, avranno ancor esse interesse
al mantenimento della grandezza romana, sarà però sempre in Roma, dove si
decideranno le sorti del mondo e si eleggeranno i magistrati chiamati a
governarlo (1). Solo più ci resta a vedere , se anche le varie forme, sotto cui
ebbe a svolgersi il ius belli, già aves sero avuto origine nello stesso periodo
e come siansi venute formando. $ 5 . - Il ius belli durante il periodo
gentilizio . 128. In proposito già si è dimostrato , come non possa ammettersi
il concetto, pressoché universalmente accolto, che la guerra debba essere
considerata come lo stato naturale delle genti italiche . Esse invece si
considerano come straniere le une alle altre e non hanno fra di loro comunione
di diritto . Quindi al modo stesso che occorrono degli accordi, perché si
trovino in condizione di amicizia e di pace; cosi è necessario che intervenga
qualche fatto speciale, che le faccia uscire da questo stato di reciproca
indifferenza, accið esse possano essere considerate come in stato di guerra .
Quanto alle cause , che possono far scoppiare una guerra, esse sono determinate
dalle condi zioni sociali, in cui si trovano le tribù ed i popoli diversi.
Appena uscite da uno stato nomade, in cui dovette dominare la privata vio
lenza, le genti si fissarono in territorii, i cui confini non erano an cora ben
determinati, e quindi dovettero essere frequenti le questioni di confine e le
reciproche usurpazioni di territorio. Di più pud ac cadere, che una comunanza
nella sua totalità (populus da populari) o gli uomini singoli ,che appartengono
alla medesima (homines Her munduli) abbiano commesso devastazioni e saccheggi
nel territorio della comunanza vicina. Così pure può avvenire, che una contro
versia insorta fra due famiglie, appartenenti a tribù diverse, ingros sandosi
mediante le parentele e le aderenze dell'una e dell'altra , come avvenne
appunto in occasione della cacciata da Roma di Tarquinio e della sua gente,
prenda le proporzioni di una vera e propria guerra . Siccome poi le varie genti
e tribù sono in questo pe ( 1) A questo proposito però fu giustamente notato,
che una delle cause della de. cadenza di Roma fu l'impossibilità, in cui erano
le popolazioni delle città italiche di prendere parte effettiva alla vita
politica di Roma,.in cui finiva perciò per pre valere la turba forensis. Vedi a
questo proposito GENTILE, Le elezioni e il broglio nella Repubblica Romana. 160
riodo rappresentate dai proprii capi; cosi punto non ripugna che le sorti della
guerra siano anche rimesse ad un combattimento singolare fra individui, col
patto che l'esito della guerra dipenda dalle sorti di un privato duello. Così
pure, è nel carattere del tempo che, quando si incontrano i due capi, essi
vengano fra loro ad un combattimento non dissimile da quello, che la tradizione
attribuisce a Giunio Bruto e ad Arunte, il più forte fra i figli di Tarquinio ,
e che la moltitudine dei combattenti si arresti a contemplare la lotta fra i proprii
capi. Niuna maggior gloria potrà ottenersi, che quando uno dei capi potrà avere
le spoglie dell'altro, ed è a questo concetto certamente che rannodasi il
culto, che ancora trovasi così radicato in Roma, per cui le spoglie opime, che
erano quelle appunto che dal capo di una tribù erano state tolte a quello
dell'altra , erano appese nel tempio di Giove Capitolino, ed i fasti e gli
annali ricordavano le volte in cui rinnovavasi il memorabile fatto (1). 129.
Per quanto questimodi di pensare e diagire possano riuscire singolari per noi,
che siamo giunti a scorgere nella guerra un rap porto fra due Stati; questo è
però certo , che i medesimi trovano una naturale spiegazione nel fatto , che
durante il periodo gentilizio i rap porti fra le stesse tribù non riescono
ancora a distinguersi da quelli fra i capi, che le rappresentano. Diqui
conseguita, che il concetto della guerra fra i popoli ancora si confonde col
duello fra i capi che lo rappresentano; il che è dimostrato fino all'evidenza
dall'origine co mune dei vocaboli duellum e bellum , come appare dal vocabolo
perduellis, che mentre ancora accenna al duellante significa già il pubblico
nemico (2 ). Ciò spiega eziandio le traccie, che occor rono anche in Roma di
duello giudiziario, poichè in esso noi abbiamo quel mezzo , che serve per
risolvere le controversie fra i popoli appli (1) È ovvio osservare l'analogia
,che presentano le primitive guerre di Roma con quelle, che Omero ci descrive
nell'Iliade, ove soventi gli eserciti si arrestano spetta tori delle gesta dei
proprii capi. Quanto alla spiegazione del culto per le spoglie opime parmi così
naturale, che mi meraviglio di non averla trovata negli autori, che da me
furono letti. (2) A questo proposito osserva il BRÉAL, Dict. étym . lat., vº
Duo, che il cambia mento di duellum in bellum è analogo a quello di duonus in
bonus, di Duilius in Bilius, di duis in bis, per guisa che come da duo derivd
duellum , così da bis potè derivare bellum . Del resto il vocabolo di duellum
per bellum occorre ancora sovente nei poeti latini e fra gli altri Plauto
chiama i Romani « duellatores optimi » . - 161 - cato a risolvere una
controversia privata fra individui; il che in so stanza costituisce il processo
inverso di quello , in cui il duello fra due individui viene ad essere adoperato
qual mezzo per risolvere la guerra fra due popoli, e dipende perciò dal
medesimo ordine di idee, cioè dal sostituirsi dei rapporti pubblici ai privati
e viceversa . È nello stesso modo, che possiamo riuscire a darsi ragione di
quella analogia costante , che non può a meno di essere notata fra le
formalità, che accompagnano la dichiarazione di guerra, e quelle , che
accompagnano l'azione che il capo ili famiglia propone in giudizio . 130. È
solo infatti questo modo di riguardare le cose, fondato sulla realtà dei fatti
ed ispirato al modo di pensare degli uomini e dei tempi, che può condurre a
dare una spiegazione del tutto naturale di quella procedura grandiosa e
solenne, che accompagna appunto la dichiarazione di guerra . Per quanto tale
procedura, tras portata dallo spirito conservatore dei Romani in un'epoca
diversa da quella in cui erasi formata, possa apparire artificiosa e siasi
talvolta considerata come un complesso di formalità esteriori, archi tettato
per celare l'ingiustizia e la prepotenza di un grande popolo; questo è però
certo , che essa , ricondotta col pensiero all'ambiente in cui ebbe a formarsi,
viene ad essere l'immagine di modi di pen sare e di agire veri e reali, che
intanto poterono essere espressi in modo così vigoroso ed efficace, in quanto
furono a quell'epoca profondamente sentiti (1 ). 131. Questo intanto è fuori di
ogni dubbio , che i varii stadii del dramma corrispondono mirabilmente alla
realtà dei fatti, quali dovet tero svolgersi in un'epoca patriarcale . Una
popolazione vicina o uomini appartenenti alla medesima in vasero il territorio
della comunanza , saccheggiandone i raccolti ed (1) Le formole grandiose del
ius fociale ci furono conservate sopratutto da Livio, nel libro primo delle sue
storie , ove descrive il processo per la dichiarazione di guerra al cap. 32;
quello per la conclusione di un'alleanza al cap. 24 ; e quello per la deditio
al cap . 38. Come è notabile la solennità di esse , così è degna di attenzione
la coerenza che esiste fra queste varie procedure, le quali perciò appari scono
come lo svolgimento di un medesimo concetto. Quanto alle divergenze circa la
loro interpretazione e ai tentativi di ricostruzione di formole, che a parer
mio appariscono del tutto complete, mi rimetto all'opera del FusinaTO, I Feziali
ed il diritto feziale , Cap. 3 , 4 e 5 . G. CARLE, Le origini del diritto di
Roma. 11 162 esportandone mandre ed armenti. La comunanza ne è profonda mente
commossa , e il capo di essa , che è pur sempre il padre co mune di tutti,
accompagnato da altri capi di famiglia , recasi in persona sul confine del
territorio, che appartiene al popolo unde res repetuntur; quivi, chiamando in
testimonio le divinità patrone della sua comunanza , quella che protegge il
confine e il fas, protettore comune ditutte le genti, espone l'ingiuria e il
danno sofferto , e questo ripete a chiunque incontri per la via , e da ultimo
sulla piazza del villaggio, spergiurandosi di dire il vero. Questa parte
preliminare chiamasi clarigatio, da questo dichiarare ad alta voce e ripetuta
mente il torto sofferto, e repetitio rerum , dal chiedere la restituzione
delmal tolto. Se le cose, che eglidomanda, sono restituite , egli ritorna con
esse, e cogli uomini, che hanno compiuto il saccheggio, che gli sono
consegnati, mediante la noxae deditio ; ma se egli non ottiene soddisfazione,
ha luogo l'obtestatio deorum , con cui chiede in testi monio le divinità del
suo popolo e tutti gli altri Dei, che il popolo , di cui si tratta , è ingiusto
e vienemeno al diritto ( populum illum iniustum esse , neque ius persolvere).
Viene infine l'ultima parte della dichiarazione di guerra, in cui il capo del
popolo offeso , dopo essersi consultato coi suoi, dichiara al popolo offensore
la guerra, get tando entro i confini del suo territorio un dardo intriso di
sangue accompagnato dalle parole : « bellum indico facioque » , e si ha così in
un solo atto l'indictio belli e l'initium pugnae. 132. È fuori di ogni dubbio,
che questa procedura, eminentemente patriarcale, dovette assumere alcun che di
artificioso per essere adat tata ad un popolo , come il romano: poichè il
medesimo aveva una co stituzione politica molto complicata, in base alla quale
i feziali, che si erano recati per la rerum repetitio , dovevano poi tornare
per avere l'avviso dei padri, e forse anche la deliberazione del popolo intorno
alla guerra , che trattavasi di fare; ma questo è certo, che anche così
trasformata essa non perde le sue primitive fattezze . Tolgasi il pater
patratus, che, anche essendo una finzione, richiama pur sempre l'im poneute
figura del patriarca primitivo ; tolgansi i feziali, che erano sacerdoti, i
quali, al pari di ogni altro collegio sacerdotale del popolo románo, avevano
solo per compito di custodire le tradizioni, relative al diritto di guerra e di
pace , senza avere alcuna competenza intorno alla giustizia intrinseca della
causa, per cui si addiveniva alla guerra o all'alleanza ; e non si potrà a meno
di riconoscere, che tanto la repetitio rerum , accompagnata dalla clarigatio,
quanto l'obtestatio 163 deorum , quanto infine l'indictio belli, sono
altrettante procedure, che serbano il colore e il carattere di un età
patriarcale e richiamano scene vive e reali, che dovettero seguire in quella
primitiva condi zione di cose. Ciò però non toglie, che le procedure del
diritto fe ziale , al pari delle antiche procedure dell'actio sacramento e
simili, allorchè furono trapiantate nel seno di un organizzazione sociale di
altra indole e natura , affidate alla custodia di un collegio sacerdotale ,
rese complicate dei varii congegni di una costituzione politica , che più non
consentiva un perfetto adattamento delle medesime, assun sero di necessità un
carattere alquanto artificioso , e apparvero come forme, vuote di contenuto e
conservate solo per imitazione dell'an tico, da un popolo , che in sostanza si
era già spogliato di ogni ca rattere patriarcale , ed era venuto nel proposito
tenace di conquistare e di sottomettere le altre genti. Il diritto feziale
tuttavia rimane an cora sempre ad attestare, che in un'epoca remotissima
dovette già essere conosciuto un tentativo di amichevole accomodamento nelle
controversie, non solo fra i privati, ma anche fra le varie genti. Era pero
naturale , che questa sopravvivenza dell'epoca patriarcale fosse destinata a
scomparire, a misura che diventava più difficile di pene trarne l'intima
significazione. Tuttavia, anche in questa parte , appare sempre lo spirito
conservatore del popolo romano , che continuò a conservare e a tenere in onore
l'istituto dei feziali, anche allorchè il diritto , di cui essi erano i
depositarii ed i custodi, era andato compiutamente in disuso . 133. Intanto non
pud essere negata eziandio una certa analogia fra questa procedura e quella ,
che abbiamo visto svolgersi nell'actio sacramento . Siccome però queste
procedure non sono invenzioni di pontefici e di giureconsulti, come alcuni le
avrebbero ritenute , ma sono forme tipiche di fatti , che un tempo dovettero
seguire nella realtà : cosi, per essere il processo effettivo veramente diverso
nel venire al duello od alla guerra fra due popoli, e nel sorgere di una
controversia fra due privati, ne derivò, che le due procedure non poterono
essere perfettamente conformi, comevorrebbe sostenere il Danz, ma dovettero di
necessità riuscire diverse. Nell'actio sa cramento noi abbiamo la storia di una
controversia fra due capi di famiglia , i quali, stando già per venire alle
mani, piuttosto che ab bandonarsi alla forza ed alla violenza, accettano
l'interposizione di una persona autorevole , scommettendo di essere dalla parte
della ragione e chiamando lui a giudice della scommessa. Fra due genti 164
invece non può esservi altro giudice che la divinità, e quindi, dopo aver
reclamato il mal tolto, è questa, che chiamasi in testimonianza del
l'ingiustizia, che quel popolo ha commessa , e a nomedella medesima divinità
gli si dichiara la guerra « extremum remedium expedien darum litium » . Quello
è il processo , che si è seguito per strappare i contendenti alla privata
violenza e per indurli ad accettare l'au torità di un arbitro o di un giudice :
questo è il processo , che deve seguirsi prima di cedere alla triste necessità
della guerra (1). 134. Che poi vi fossero buone ragioni, perchè una procedura
solenne precedesse una dichiarazione di guerra , appare dalle dure conseguenze,
che il consenso delle genti aveva attribuito al diritto di guerra. Questa nel
periodo gentilizio era un vero duello fra due popoli, che non doveva cessare,
finchè uno non avesse portato nel proprio tempio le spoglie opime dell'altro .
Era guerra di uomini e guerra anche fra gli Dei dei due popoli, come lo provano
le for mole che ci furono conservate , con cui quel popolo , che faceva delle
stipulazioni e dei contratti « do utdes » anche cogli Dei, cercava di attirare
a se il favore delle divinità del popolo , con cui era in guerra (2). Una volta
poi, che questa era intrapresa ben potevasi dire, che la guerra diventava lo
stato naturale dei due popoli; perchè se si tol gono le tregue (induciae), o
per seppellire imorti o a causa della cattiva stagione, la guerra si continuava
finché non si veniva ad un trattato di pace, o non si avverasse la dedizione di
uno dei popoli in guerra . La deditio era per un popolo ciò , che per un
privato il darsi a (1) È mirabile lo sforzo di sottigliezza fatto dal dotto e
compianto Danz, prof. a Iena, per trovare una identità, che non esiste. I suoi
ragionamenti sono riportati dal Fusinato nell'opera più volte citata , Cap.
III, § 4. Intanto tutto questo sforzo di acutezza è ancor esso una conseguenza
dell'aver ritenuto il diritto primitivo di Roma, e quindi anche il diritto
feziale, come una costruzione essenzialmente formale e non basata sulla realtà
dei fatti. Se invece si ritenga, che tutto il diritto primitivo di Roma dovette
in altri tempi essere up complesso di reali ed effettive procedure, non si
potrà certo pretendere che l'actio sacramento e l'indictio belli, avendo com
piuto un ufficio diverso , potessero essere pienamente identiche fra di loro.
Quanto alle loro analogie esse sono facilmente spiegate, stante l'indistinzione
fra il diritto pubblico e privato,durante il periodo gentilizio. (2) Queste
formole ci furono conservate da MACROBIO, Saturn ., 3, 9 , $ 8 6 a 13 , il
quale dice di averle ricavate da un libro antichissimo di un certo Furio (cuius
dam Furii), che l'HUScake ritiene possa essere un A. Furio Anziate , scrittore
di diritto sacro e di annali in versi. Esse sono riportate dall' HUSCHKE,
Iurisp . an teiust. quae sup ., pag. 11. - 165 mancipio , cioè un perdere
famiglia, patria, territorio, religione, libertà e non avere altra speranza,
che quella della clemenza del vincitore. Erano le sue divinità , che l'avevano
abbandonato, e a lui non rimaneva, che di accettare rassegnato la propria
sorte, entrando in quella classe dei vinti, che formava un eterno dualismo con
quella dei vincitori (1). Che anzi i Romani applicavano anche a se stessi quel
medesimo diritto di guerra, e fu soltanto colla fin zione del diritto di
postliminio, che riuscirono ad attribuire effi cacia ad atti, che il cittadino
romano aveva compiuto, mentre era prigioniero di guerra , e a fare astrazione
dal tempo , che egli aveva trascorso in tale qualità presso il nemico . 135.
Sono queste dure conseguenze del diritto di guerra , che spiegano quanto
dovesse essere profondo il solco, che erasi venuto scavando fra la classe dei
vincitori e quella dei vinti, e come fra essi non potesse esservi, nè comunione
di matrimonii, nè di reli gione , salvo dopo una lunga convivenza nei quadri
dell'organizza zione gentilizia , in cui i vinti formarono la classe dei servi,
dei clienti e per ultimo quella dei plebei, mentre i vincitori costituirono
quella dei padri, dei patroni e dei patrizi. Intanto di tutto questo periodo,
in cui le genti italiche vennero elaborando la religione, il diritto , la
famiglia , le istituzioni, il co stume, non un solo nome proprio è
sopravvissuto : dei veri grandi uomini, dei veri fondatori di una convivenza
sociale non si conosce nè la patria , nè il nome, nè l'epoca precisa , in cui
siano vissuti; ma se la memoria degli uomini è perita, sopravvissero perd le
isti tuzioni e tutti i concetti fondamentali, che costituirono poi la base
della futura grandezza di questi popoli. Fin qui del patriziato e delle sue
istituzioni, di cui dovette essere lungo il discorso, perchè era lungo il suo
passato ; ora importa stu diare le condizioni della plebe , la quale se non ha
per sè il passato , dovrà perd avere una gran parte nell'avvenire della
città . (1) La formola della deditio ci fa conservata da Livio, I, 38. È
notabile : che in essa intervengono anche i Feziali ; che si domanda se il
popolo che fa la deditio è in sua potestate ( il che prova che un popolo , al
pari di una persona, poteva essere sotto la potestà di un altro); e che è
serbata affatto la forma contrattuale della stipu lazione: « Deditisne vos
populum Conlatinum , urbem , agros, aquam , terminos, de « lubra , utensilia,
divinaque humanaque omnia, in meam populique romani ditio « nem ? – Dedimus. At
ego recipio » . 166 CAPITOLO VIII. Le origini della plebe e la sua prima
organizzazione. 136. Le cose premesse intorno all'organizzazione ed alle
istituzioni proprie delle genti patrizie ci pongono finalmente in condizione di
prendere in esame la questione della origine della plebe e della sua posizione
giuridica di fronte al patriziato negli inizii della comu nanza romana. La
genesi di questo elemento, che, poco importante dapprima, fini per esercitare
tanta influenza sull'avvenire della città , è certo il più importante problema
della storia primitiva di Roma, e quindi si comprende che gli autori tutti
siansi travagliati intorno al medesimo ed abbiano anche proposto opinioni
compiutamente di verse (1). Sonovi alcuni, fra i quali il Lange, che vorrebbero
rannodare l'origine della plebe alla caduta di Alba e alla conquista di altre
città latine, la cui popolazione sotto Anco Marzio sarebbe stata tras portata a
Roma (2 ). Certo un tale avvenimento non potè a meno di avere grande importanza
per accrescere il numero ed assicurare l'avvenire della plebe romana; ma egli è
impossibile riconoscere in questo fatto l'origine primitiva della plebe,
dappoichè, secondo la tradizione, la medesima sarebbe già esistita all'epoca
della prima fondazione di Roma; cosicchèRomolo prima e Numa dappoi già avreb
bero preso dei provvedimenti per l'ordinamento di essa . (1) L'enumerazione delle
varie opinioni circa l'origine della plebe colla indicazione degli autori, che
le professano, può vedersi nel Willems, Le droit public romain , pag. 31, e nel
Bouchè-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, pag. 11, né 3; come pure
nell'opera , ancora in corso di pubblicazione , del prof. LANDO LANDUCCI, col
titolo : Storia del diritto romano dalle origini fino a Giustiniano. Corso
scola stico. Padova , 1886 , pag. 274 ; opera che,mentre nel testo offre
riassunti i risultati, a cui son pervenuti gli studii sulla storia del diritto
romano, nelle note porge no tizia agli studiosi della ricchissima letteratura
sull'argomento. (2) Il Lange, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 56 e segg.,
tratta largamente la questione e considera la plebe primitiva di Roma, come una
moltitudine di pe regrini dediticii , il cui nucleo più importante sarebbe
uscito dalle città latine. A suo avviso, essa è dapprima affatto estranea al
popolo delle curie, la quale opinione è pure seguita dal KarlowA, Römisches
Rechtsgeschichte, I, § 9, pag. 62 e segg ., -- -- 167 Non può parimenti
ammettersi col Vico, che la plebe fosse origina riamente costituita da clienti
ammutinati contro l'ordine dei padri ( 1), in quanto che, durante il periodo
regio , la plebe non trovasi an cora in condizioni tali da impegnare la lotta
col patriziato ; lotta che, sebbene siasi forse iniziata al tempo dei re,
cominciò solo ad essere argomento di racconto e di storia col periodo
repubblicano. A ciò si aggiunge, che anche durante la lotta i clienti ed i plebei
appariscono in opposizione fra di loro , comeappare dai richiamidella plebe
contro la clientela , che costituiva la forza maggiore dell'or dine patrizio.
Tuttavia questo fatto, che condusse taluni a con siderare la plebe e la
clientela , come due termini inconciliabili ed opposti fra di loro, non ha
impedito, che più tardi sianvi state delle famiglie, che originariamente erano
in condizione di clienti, e che poi il quale considera anzi la plebe comeuna
popolazione residente fuori della cerchia della Roma primitiva, e nota che il
Celio , l’Appio e il Cispio , secondo una osservazione stata fatta di recente ,
hanno un nome identico a quello proprio di genti plebee . Anche il Voigt, Die
XII Tafeln , I , pag. 258, viene alla conclusione che i plebei non solo non
partecipassero alle curie ; ma che essi costituissero una corporazione distinta
, la quale, dopo l'istituzione del tribunato della plebe, si sarebbe
organizzata nei comitia tributa . La corporazione esercitava sui suoi membri un
potere di coerci zione, ne quid ex publica lege corrumpent. Il suo magistrato
era il tribunus plebis ; al modo stesso che i suoi giudici non sarebbero stati
dapprima i centumviri, ma i decemviri , che sarebbero stati tratti dalla plebe.
È quindi questa l'opinione, che contrappone più apertamente il populus e la
plebes, e ci fa assistere alla lenta fu sione dei due elementi, anche dopo che
entrarono a formare parte della stessa comu. nanza. Questo è certo, e cid
apparirà meglio a suo tempo, che quella singolare isti tuzione del tribunato
della plebe , che non riesce mai ad inquadrarsi perfettamente nella
costituzione politica di Roma, dimostra abbastanza, che se colla legislazione
decemvirale i due ordini cominciarono ad essere governati da un comune diritto;
essi continuarono però ancora per lungo tempo a costituire due classi sociali
com piutamente distinte, e recarono un contributo molto diverso sia nello
svolgimento della costituzione politica , che in quello del diritto privato di
Roma. Cfr. al riguardo PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 19 , e la
nota del prof. Cogliolo, in cui pare che l'annotatore si scosti dall' opinione
certamente troppo recisa del Padel LETTI, il quale sostiene che patriziato e
plebe siano stati, fin dalle origini, ammessi a far parte della assemblea delle
curie. (1) Il luogo, in cui il V100 svolge più chiaramente questo suo concetto,
è nella prima Scienza nuova, lib. II , Cap. XXXII, dove scrive : « che le prime
repubbliche sorsero dagli ammutinamenti dei clienti, attediati sempre di
coltivare i campi per li signori, dai quali essendo fino all'anima malmenati,
gli si rivoltarono contro ; e dai clienti così uniti sorsero le prime plebi;
onde, per resister loro, furono i nobili dalla natura portati a stringersi in
ordini » : Di qui appare, che anche il Vico fa rimontare l'origine della plebe
ad epoca anteriore alla formazione della città. 168 recarono un contributo
potente alla plebe nella sua lotta col patri ziato ; donde si può argomentare,
che anche nella plebe primitiva possono essere entrati degli antichi clienti,
che per circostanze di varia natura erano stati prosciolti dal vincolo della
clientela . Cosi stando le cose , ha molto del verosimile l'opinione del
Mommsen, che in qualche parte si accosta a quella del Vico , secondo cui il
nucleo primitivo della comunanza plebea si sarebbe venuto formando per mezzo di
clienti, che di fatto si trovavano svincolati dal loro patrono per l'estinzione
della gente, da cui essi dipendevano (1). Se non che si presenta ovvia
l'osservazione, che quando questo fosse stato il solo mezzo per costituire la
plebe, la medesima diffi cilmente avrebbe potuto, fin dal periodo regio ,
prendere così grandi proporzioni da imporsi al patriziato e farsi accogliere
nella città . Quindi è, che l'opinione del Mommsen trova forse un opportuno
compimento nella teoria del Niebhur, il quale , tenuto conto del modo, in cui
le comunanze plebee si erano formate in condizioni sto riche analoghe a quelle
in cui trovavansi i primitivi stabilimenti delle genti patrizie, venne a
considerare come una legge storica costante, quella per cui accanto ad uno
stabilimento di casate pa trizie, chiuso e fortificato in sè stesso , formasi
naturalmente una specie di comunanza plebea ; la quale, senza partecipare
dapprima agli onori, ai suffragi, e ai matrimonii della città patrizia , pud
tut tavia giungere ad una certa indipendenza dalla medesima, mediante il
possesso e la coltura delle terre, e mediante l'esercizio dei mestieri e delle
professioni diverse (2 ). Tuttavia anche l'opinione del Niebhur ( 1) MOMMSEN ,
Histoire romaine, I, Chap. V , pag. 103 e segg. Questa opinione fu poiadottata
dal WILLEMS, Le Sénat de la République Romaine,Paris, 1878, pag. 15 . (2)
Ritengo che anche oggi il Niebhur sia l'autore, che è pervenuto a studiare con
vedute più larghe l'origine della plebe. Di regola esso è annoverato fra
coloro, i quali ritengono che la plebe sia stata composta delle popolazioni
vicine a Roma, state dalle medesima sottomessa . Tale è, ad esempio,
l'opinione, che gli è attribuita dal WILLEMS dal Bouchè-LECLERCQ, op. e loc.
cit. La lettura invece del capitolo intitolato : « La commune et les tribus
plébéiennes » della Histoire romaine, mi ha convinto che il NIEBHUR si è fatta
una idea più larga della questione. Le conquiste, secondo lui, hanno bensì
contribuito ad accrescere e a trasformare la plebe romana, sopratutto
coll'incorporazione delle popolazioni latine; ma intanto essa già preesisteva
nelle stesse tribù primitive, costituiva una specie di vera comunanza separata
e distinta dal patriziato, composta mediante l'ammessione di cives sine
suffragio, e di clienti rimasti senza patrono (op. e loc. cit ., pag . 149).
Tuttavia misia pur lecito di constatare, che l'autore, il quale ha meglio
compreso quel carattere 169 lascia ancor sempre senza spiegazione quello stato
di inferiorità e di abbiezione , pressochè servile, in cui una parte almeno
della plebe trovasi di fronte al patriziato negli inizii di Roma; cose tutte,
che non si comprenderebbero quando si trattasse di possessori e di cul tori di
terre, che fossero stati sempre indipendenti dal patriziato . 137. Tutte queste
considerazioni mi confermano nell'opinione già altrove manifestata , che il
fenomeno della formazione primitiva della plebe debba cercarsi nella
sovrapposizione delle genti italiche di origine aria sovra altre razze già
preesistenti. In quel periodo di privata violenza, che non dovette essere
dissimile da quello, che ebbe poi ad avverarsi, allorchè le razze germaniche
invasero l'Impero, gli elementi in urto ed in lotta fra di loro dovettero
dividersi in due classi, cioè, in quella dei vincitori e in quella dei vinti ;
in quella di coloro, che erano tenuti compatti dalla potente organizzazione
genti lizia , e in quella di coloro, che non erano ancora cosi progrediti nella
loro organizzazione domestica e sociale. Quelli costituirono la classe
dominante dei padri, dei patroni, dei patrizii e si vennero sempre più
fortificando nella loro ferrea organizzazione gentilizia , e tentarono di fare
entrare nei quadri della medesima anche la classe dei vinti, ponendola nella
condizione subordinata di servi e di clienti. È in quest'epoca di lotta e di
conflitto , che è mestieri di cercare l'o rigine prima di quella distinzione di
classi, che si trova agli inizii della comunanza romana; al modo stesso , che è
nell'epoca feudale , che deve essere cercata l'origine di quelle distinzioni di
classi, le cui traccie simantennero a lungo dappoi, e la cui lotta diede
eziandio origine al movimento democratico odierno. Per trovare quindi la prima
origine della distinzione converrebbe poter scomporre le po polazioni italiche
primitive, conoscere le stirpi diverse da cui esse provennero, e determinare la
posizione, in cui i vinti ebbero a tro varsi di fronte alla potente
organizzazione dei vincitori ; problemi tutti, per la cui risoluzione ci
mancano per ora gli elementi necessarii. particolare della città antica, per
cui essa suppone il concorso di due elementi, di cui l'ano superiore e l'altro
inferiore, le cui lotte danno vita e movimento alla città, è certamente il
nostro Vico . La città patrizia non è ancora che un ordine e una cor porazione
di padri; mentre è la città patrizio-plebea , che ci porge lo spettacolo della
lotta tra quelli, che intendono sopratutto a conservare l'antico ordine di cose
, e quelli che abbisognano di innovare per migliorare la condizione presente.
170 138. Forse tali indagini potrebbero anche condurre al risultato , che fra
le varie comunanze di villaggio ve ne erano di quelle dedite alle armi ed
organizzate per genti e che come tali appartenevano al patriziato e
costituivano una specie di aristocrazia territoriale;mentre poi ve ne erano
delle altre, prive di tradizioni, dedite soltanto al lavoro dei campi e
all'esercizio delle professioni e dei mestieri di versi (quale sembra essere stato
ad esempio il vicus Tuscus), che costituivano delle comunanze plebee . Quest'
ultime naturalmente dovevano trovarsi in una specie di dipendenza e pressochè
di vas sallaggio , rimpetto alle prime; il che potrebbe spiegare in certi con
fini quei forcti ac sanates, di cui ci parla Festo , che comprende vano le
popolazioni superiori ed inferiori a Roma e trovavansi in dipendenza rimpetto
alla medesima, la quale tuttavia già accomunava ad essi una parte del proprio
diritto , cioè il ius nexi manci piique ( 1). Tuttavia , se ciò può esser vero
delle plebi rurali, questo si può affermare con certezza , che certamente un
buon dato della plebe primitiva e sopratutto della plebe urbana di Roma ebbe ad
uscire dalla classe, che trovavasi in condizione inferiore nell'orga nizzazione
gentilizia . Cid soltanto può spiegare la superiorità incon trastata del
patriziato e l'abbiezione pressochè servile di una parte della plebe, che
tradisce ancora quel sentimento di rispetto e di paura, che ha il servo
affrancato per il suo antico padrone (2 ). (1) La questione intorno alla
condizione dei forcti ac sanates è una delle più difficili, che presenti la
storia primitiva di Roma, per la povertà ed anche la muti lazione dei passi
degli autori, che vi si riferiscono (V. Festo , vº Sanates , quale è riportato
nel Bruns, Fontes, pag . 364, nella Va edizione, pubblicatasi in quest'anno dal
Mommsen). Io credo tuttavia , che la medesima, dandoci un concetto del tratta
mento giuridico , che i Romani usavano colle popolazioni circostanti a Roma,
possa porgerci dei dati preziosi per argomentare quale fosse la condizione
della plebe, du rante il periodo esclusivamente patrizio. Rimetto quindi
l'esame della questione al Capitolo I di questo stesso libro. (2) Ecco quindi
la conclusione, a cui parmi di poter venire. Nella plebe primitiva di Roma
voglionsi distinguere due correnti: una uscita dalla stessa organizzazione
gentilizia forma il primo nucleo di una popolazione , che ha sede contigua allo
stabili mento patrizio, ma non è più compresa nei quadri del medesimo; l'altra
invece, per conquiste o per immigrazione, viene ad incorporarsi in questo
nucleo primitivo, e l'accresce per modo da richiamare l'attenzione sopra di
esso . Questi due elementi appariscono accennati dalla tradizione stessa intorno
alla plebe primitiva, poichè altra è la plebe, che già appartiene alle varie
tribù, e che viene ancora ad essere col locata sotto la clientela dei padri ,
ed altra è la plebe, che la tradizione dice rac -- - 171 - 139. La formazione
poi di questa plebe dovette cominciare, allorchè i vincoli dell'organizzazione
gentilizia già cominciavano a rallentarsi. Ciò accadde quando alla gente , che
era ancora stretta insieme dal vincolo della discendenza, cominciò a
sovrapporsi la tribù; la quale comprendendo elementi, che potevano essere di
origine diversa, fini per non riuscire sempre a chiudere nei suoi quadri,
consacrati dalla religione, tutti gli elementi, che si venivano affollando
intorno alla medesima. Cominciò cosi a formarsi al di fuori dell'organizza zione
gentilizia , che era l'unica riconosciuta dalle genti patrizie , una
moltitudine ed una folla, il cui primo nucleo può essere uscito dal seno stesso
della medesima, ed essere anche costituito da clienti rimasti senza patrono ;
al modo stesso, che le comunanze popolari del medio Evo erano in parte
costituite da famiglie , che un tempo erano vassalle del feudatario . Siccome
però nell'epoche primitive ciò che è più difficile è il creare l'elemento
novello , mentre il mede simo, una volta formato, può poi accrescersi in varie
guise ed acco . gliere tutti coloro, che , per questa o quella considerazione,
si trovano spostati nell'anteriore organizzazione: cosi questo primo nucleo ,
dopo essersi staccato dalla stessa organizzazione gentilizia , venne richia mando
e quasi attraendo a sè rifugiati di altre comunanze ; servi fuggitivi;
immigranti, che non amavano di porsi sotto la protezione del patriziato , o
che, per motivi religiosi o di altra natura, non erano ammessi alla medesima;
popolazioni di vinti, che perdevano territorio , religione e famiglia ;
abitatori di vici, che si erano dati all'esercizio dei mestieri e delle
professioni diverse ; cultori di terre, che di fatto si erano stabiliti sul
territorio situato nelle circostanze dello stabilimento patrizio ; popolazioni
stabilite superiormente od inferiormente a Roma, a cui per necessità di
commercio si dovette dapprima accordare quel ius nexi mancipiique, di cui
parlano le dodici Tavole, quanto ai forcti ac sanates. Ciò spiegherebbe anche
come queste popolazioni, il cui nome era diventato inesplicabile per gli stessi
antiquarii romani, abbiano col tempo perduta la loro an tica denominazione, in
quanto che, a misura che estendevasi la do minazione romana, tutte queste
popolazioni vennero ad essere com prese nella plebe, e non fu cosi più il caso
di attribuire ad esse una colta mediante l'asilo offerto da Romolo. È parlando
di questo asilo, che Livio, I, 8 , ebbe a scrivere : « E. (asylo) ex finitimis
populis, turba omnis , sine discrimine liber seu servus esset, avida novarum
rerum , perfugit ; idque ad caeptam magnitu dinem roboris fuit » . 172 speciale
posizione giuridica. Per tal guisa il nucleo primitivo si venne ingrossando, e
quando le genti patrizie volgero lo sguardo at torno a sè videro in esso una
plebs, che nel significato primitivo suona moltitudine o folla. Il nome
pertanto , che le fu dato , corrisponde alla impressione, che questa folla deve
aver fatto sopra una classe di uomini, che non conosceva altra organizzazione
fuorchè la gentilizia . Le genti infatti non potevano scorgere in essa
dapprima, che ceti di uomini riuniti in una guisa , che per esse non aveva quel
carattere religioso e sacro , che avevano tutte le loro istituzioni. Non
potevano infatti chiamarla un populus, perchè non era nè divisa in curie , nè
aveva consiglio di anziani, nè aveva un magistrato , che la diri gesse , nè era
insomma un « coetus hominum iuris consensu et uti. litatis comunione sociatus »
, e quindi la chiamarono plebes. Di qui il dualismo fra populus et plebes, che
trovasi in alcune formule arcaiche ; dualismo, che per essere l'effetto di
cause naturali viene a presentarsi non solo in Roma, ma in tutte le comunanze
delle genti italiche. Di queste tuttavia , se ne hanno di quelle, in cui
quest'elemento è tenuto in umile stato , come sarebbero le città etrusche, ed
altre invece, in cui esso già ottiene qualche concessione, quali sarebbero
appunto le città latine. Il primo senso del patriziato per quest'elemento
novello , che prendeva ad esistere fuori dei quadri della propria gerarchia ,
dovette essere di un disprezzo non dissimile da quello, che più tardi i
patrizii manifestarono per quei concilia plebis, che pur dovevano trasformarsi
nei comizii tributi ; ma al lorchè il numero di questa plebe venne facendosi
sempre più grande, si comprende come questo elemento dovesse di necessità
essere te nuto in conto, sopratutto in una comunanza di carattere belligero,
quale era la romana . 140. Narra infatti la tradizione, per bocca almeno di
Dionisio e di Cicerone, che il fondatore della città avrebbe collocata la plebe
nella clientela del patriziato , e incaricato i padri di farle assegnidi terre,
a titolo di precario , non dissimili da quelli, che essi facevano ai clienti.
In verità per una città eminentemente patrizia , come era Roma primitiva, il
miglior modo per organizzare la folla , che aveva seguito l'esercito del
fondatore o che erasi accalcata intorno allo stabilimento da essa fondato , era
quello di farla entrare nella ge rarchia dell'organizzazione gentilizia. Fin qui
pertanto la plebe non è ancora veramente tale , ma è costretta ancora nei
quadri della clientela. Pero a misura che la fortuna nascente di Roma od 173
anche l'apertura stessa di un asilo ai rifugiati e agli esuli dalle altre città
(questo vetus urbis condentium consilium , che non è poi cosi improbabile, come
ebbe a farlo la critica storica ) cominciarono a richia mare nei dintorni della
città una quantità di individui e di capi di famiglia di provenienza diversa ;
anche la clientela venne ad essere insufficiente per comprendere nei proprii
ranghi questa folla di uo mini, di cui una parte potè forse essere di origine
ellenica ed etrusca, ed avere tradizioni e credenze diverse da quelle dai
fondatori della città . Era stata la lunga coabitazione come servi e famuli
nella famiglia , che nell'anteriore organizzazione gentilizia aveva servito a
preparare la clientela delle genti patrizie . Questa preparazione invece
mancava nel nuovo elemento , che accorreva nei dintorni di Roma; per tal modo
l'antica istituzione religiosa ed ereditaria della clientela venne ad essere
inadeguata e disacconcia al bisogno ed inetta a dare un'organizzazione al nuovo
elemento . Quasi si direbbe che , collo svolgersi della città , l'antica forma,
sovra cui si era modellata l'anteriore organizzazione sociale, che colla tribù
già erasi alquanto sgretolata , venne a rompersi affatto . Quindi mentre tutto
prima era compreso nella gerarchia gentilizia , colla città in vece comincia a
farsi palese e a colpire lo sguardo questo ele mento novello , che guadagna e
richiama a sè tutto ciò , che sfugge all'antica organizzazione. Dapprima il
fatto dovette colpire l'ordine stesso dei padri, e loro parve strano di dover
riconoscere, che l'or ganizzazione gentilizia più non potesse bastare ad ogni emergenza.
Ma col tempo fu necessità arrendersi all' evidenza, e l'elemento nuovo non
poteva essere trascurato per una comunanza come la Romana di carattere
eminentemente belligero , e che abbisognava perciò di un contingente sempre
nuovo per riempire le file del proprio esercito . Sopratutto il nuovo elemento
doveva apparire im portante per il re, il quale da una parte poteva trovare in
esso un sussidio potente per la formazione dell'esercito, e dall'altra, as
sumendo la qualità di patrono non dei singoli plebei, ma dell'in tiera classe ,
poteva anche trovare in essa un appoggio per bilanciare la soverchia influenza
dei padri. Questi infatti, memori, che il re era il loro eletto ed il
rappresentante , a cui avevano affidato i proprii auspicia , lo volevano naturalmente
ligio ai proprii interessi e mira vano a valersi di esso per trasportare anche
nella città l'organiz zazione per genti e per tribù , per quanto la medesima
male si accon ciasse alla nuova condizione. 174 - 141. Gli è questo il motivo,
per cui noi vediamo, secondo la tra dizione, prendersi dai re, che vengono
dopo, una serie di provve dimenti nell'intento di organizzare la plebe. Mentre
Romolo , dopo avere, secondo Dionisio, affidato alla plebe la coltura delle
terre e l'esercizio delle arti manuali, si limita a porla sotto la clientela
dei padri, e si vale cosi di un istituto vecchio per comprendere un ele mento
nuovo (1), Numa invece già prende quanto alla plebe due importantissimi
provvedimenti. Il primo è quello di distribuire direttamente ai più poveri, che
sono appunto quei tenuiores, di cui parla Festo, e che appartengono alla plebe,
l'ager conquistato da Romolo, e che era venuto ad ac crescere l'ager publicus ;
il quale provvedimento produsse l'effetto , che la plebe da questo momento, almeno
in parte, cesso di essere sotto il patronato dei patres. Però siccome i
cambiamenti sono e devono essere lenti; cosi al patronato dei patres sembra
sottentrare una specie di patronato del re, il quale fa alla plebe quegli
assegni di terre, che dapprima erano affidati ai patres (2). Forse può darsi
che dapprima questi assegni di terre, fatti dal re alla plebe sull'ager
publicus, fossero soltanto a titolo di semplice precario, come quelli che erano
fatti dai patres ai clienti sull'ager gentilicius ; ma in tanto è già un passo
importante per la plebe quello di non dipen dere più direttamente dai capi
delle genti, ma di essere sotto il patronato o almeno sotto la protezione
diretta del re, custode e ma gistrato della città . L'altro provvedimento,
ricordato da Plutarco , e che egli dice essere stato altamente lodato, fu
quello per cui Numa avrebbe di (1) Dion., 2 , 9 : « Romulus postquam potiores
ab inferioribus secrevit ;mox legem tulit et quid utrisque faciendum esset
disposuit : patricii sacerdotiis et magistra tibus fungerentur et iudicarent,
plebeiï vero agros colerent et pecus alerent etmer. cenarias artes exercerent »
(Bruns, Fontes, pag. 3 ). (2 ) Quanto a questa ripartizione fatta da Numa, vi
ha divergenza fra CICERONE, De rep ., II, 14, secondo cui la ripartizione si
sarebbe fatta viritim ai cittadini in genere, mentre DIONISIO vuole che siasi
fatta ai più poveri , II , 62. Cfr. Bongur, Storia di Roma, I, pag. 85. - Per
quello che si riferisce al patronato del re sopra la plebe, ritengo col
KARLowa, che ilmedesimo non possa essere preso nella signifi cazione giuridica
attribuita al vocabolo (Röm . R. G., I , pag . 63 ). Ciò tuttavia pon toglie ,
che la plebe, dopo essersi resa indipendente dal patriziato, abbia trovato nel
re il suo protettore naturale, e siccome tale protezione non si comprendeva al
lora che sotto la figura di clientela, così gli autori considerarono il re come
patrono o la plebe come sua cliente . - 175 - stribuito quella parte della
plebe, che era dedita alle arti manuali e all'esercizio delle professioni
diverse, in corporazioni di arti e mestieri (collegia ), che furono nove:
quella cioè dei suonatori di flauto, degli orefici, dei muratori, dei tintori,
dei calzolai, dei cuoiai, dei fabbri, dei vasai e l'ultima di tutte le altre professioni,
dando alle medesime proprie riunioni e i proprii riti. Vero è, che questo
provve dimento ebbe ad essere posto in dubbio dalla critica e fra gli altri dal
Mommsen , e che probabilmente i collegi, la cui formazione si attribuisce a
Numa, potevano già esistere precedentemente, sopra tutto nel vicus Tuscus, la
cui popolazione fu una delle prime ad essere compresa nella plebe romana : ma
non è punto improbabile che, come erasi cercato di provvedere alla plebe dedita
alla coltura delle terre , cosi si cercasse di dare un'organizzazione alla
plebe dedita agli esercizi delle arti e professioni diverse , o di consacrare
almeno l'organizzazione, che già esisteva precedentemente o che tro vavasi in
via di formazione ( 1). Non è quindi il caso di respingere la tradizione, dal
momento che non vi ha nulla di meglio da sosti tuirvi ; almodo stesso che è
meglio accettare anche le figure alquanto leggendarie dei re , piuttosto che
sostituirvi qualche cosa, che non ha neppur più della leggenda, la quale è pur
sempre intessuta sopra un fondo di vero. 142. Intanto questo si può affermare
con certezza, che fin dagli inizii di Roma cominciò ad apparire un dualismo
nella plebe ro mana, che, accennato fin dall'epoca di Romolo con affidare alla
plebe la coltura delle terre e l'esercizio delle arti manuali, già comincia a
delinearsi con Numa, il quale ad una parte della plebe fa assegni di terre e
l'altra distribuisce per arti e mestieri, e che più tardi finisce per
accentuarsi molto più recisamente. Havvi infatti in Roma, fin dai proprii
esordii, una plebe rurale, composta di piccoli possidenti , ed (1) PLUTARCO,
Numa, 17 : « De ceteris eius institutis maximam admirationem « habet plebis per
artificia distributio ; haec vero fuit: tibicinum , aurificum , fabrorum «
tignuariorum , tinctorum , sutorum , coriariorum , fabrorum aerariorum ,
figulorum ; « reliquas artes in unum cöegit , unumque ex iis omnibus fecit
corpus ; consortia et < concilia et sacra cuique generi tribuens
convenientia » (V. BRUNS, Fontes, pag. 11 ). L'autore , che sembrava porre in
dubbio questa distribuzione della plebe in arti e mestieri, sarebbe lo stesso
MOMMSEN , De collegiis ac sodaliciis ; Liliae, 1843, citato dal MUIRHEAD ,
Histor. Introd., pag. 11 ; ma pare che nella Storia Romana accetti la ripartizione
stessa come una verità di fatto. - 176 - una plebe, composta di artieri,
commercianti, esercenti le arti e le professioni diverse . L'ideale della prima
è quello sopratutto di mu tare le sue possessioni di terre in una proprietà
indipendente, che la ponga in condizione di provvedere al sostentamento di sè e
della propria famiglia ; quello insomma di avere quell'heredium o man cipium ,
che pur appartiene al capo della famiglia patrizia . A questa plebe, che non
abita nelle mura di Roma, ma nelle circostanze di essa , dovette probabilmente
dalla città patrizia essere riconosciuto quel diritto , che più tardi da Roma
fu pure riconosciuto alle popo lazioni vicine, che sono indicate col nome di
forcti ac sanates , cioè il ius nexi mancipiique. Cid pud essere argomentato da
cid, che Roma di regola suole seguire gli stessi processi in condizioni anaa
loghe e quindi è probabile, che questa plebe, che risiedeva fuori della città,
e costituiva in certo modo una popolazione circostante alla medesima, fosse
trattata nel modo stesso , in cui da essa furono poi trattate le altre
popolazioni vicine. L'altra parte della plebe invece, mancando di altra
organizzazione , cerca di rafforzarsi, come farà più tardi anche la popolazione
commerciante dei comuni del Medio Evo, mediante le corporazioni di arti e di
mestieri. Quelli, che apparten gono alla plebe rurale, convengono in Roma i
giorni di mercato per vendervi i loro prodotti, e per conoscere anche i
provvedimenti, che siano presi nell'interesse comune ; mentre gli altri, che
apparten gono alla classe dei piccoli commercianti ed artieri, formano fin
d'allora il primo nucleo di quella plebe urbana, nel seno della quale si
formerà più tardi quella forensis factio, che già comincia ad apparire sotto la
censura di Appio Claudio, e getta il discredito sulle tribù urbane. 143. Già
erasi così delineata la distinzione fra plebe rurale ed urbana, quando
sopraggiunse un avvenimento, il quale diede una grande compattezza
all'organizzazione della plebe romana, e mentre ne accrebbe il numero e la
potenza , le diede anche un nuovo indi rizzo e ne assicurò l'avvenire. Questo
avvenimento fu l'aggregarsi alla plebe romana della parte più povera della
popolazione di Alba, la cui distruzione è attribuita a Tullo Ostilio, e quella
del trasporto od anche, come pare più probabile, della riunione alla plebe di
Roma per opera di Anco Marzio, della popolazione di varie città latine da lui
conquistate. Questo nuovo contributo venne ad accrescere la forte plebe rurale,
vivamente affezionata al fondo da essa coltivato, e disposta a porre la vita
per la difesa di esso, e fece entrare nella - 177 plebe un elemento , la cui
origine era analoga a quella del patriziato , e che aveva già un'organizzazione
domestica, non dissimile da quella del medesimo. Fu il rifiuto del corpo chiuso
del patriziato primitivo di Roma di ricevere nel proprio seno queste famiglie
delle città la tine, che assicurò l'avvenire della plebe romana, incorporando
in essa un elemento , che portò nella lotta per il pareggiamento giuri dico e
politico una tenacità e perseveranza, non dissimili da quelle, che
contraddistinguono il patriziato romano. Di qui la conseguenza, che come era
stata latina l'organizzazione del patriziato romano, poichè gli elementi
sopraggiunti erano entrati nei quadri della città latina ; così fu sopratutto
latina la massa più forte della plebe ro mana, quella massa, di cui una buona
parte entro più tardi a costi tuire la nuova nobiltà. Senza questo elemento la
plebe primitiva, di origine diversa e che in parte era forse di origine
servile, avrebbe molto probabilmente continuato lungamente a mantenersi tale
;mentre questo innesto di famiglie latine, che nel loro paese nativo tenevano
già un certo grado, per cui loro dovette riuscire grave di vedersi respinte dai
quadri dell'ordine patrizio, portò forza , organizzazione , tenacità nella
plebe e ne assicurò l'avvenire, fino a che questo ele mento vigoroso e vitale
non fini per uscire dalla plebe stessa, che aveva resa potente , e aggregandosi
alla nobiltà abbandonò la plebe minuta agli spettacoli del circo e alle
distribuzioni di frumento . 144. Per comprendere però un avvenimento di questa
natura , importa farsi un'idea chiara della lotta, che vi era fra Alba da una
parte e Roma dall'altra . Erano entrambe due città latine, cioè due centri di
vita pubblica fra varie comunanze di villaggio , ed erano troppo vicine per
poter coesistere. L'una o l'altra doveva cedere, e la conseguenza era per la
soccombente di dover scompa rire come città e come urbs, per modo che le
comunanze, che mettevano capo ad essa, dovessero invece fare capo a quella ,
che riusciva vittoriosa . Il patto quindi che, secondo la tradizione, ebbe ad
essere suggellato fra i capi dei due popoli, con tutte le cerimonie del diritto
feziale, era che, trattandosi di popoli fratelli, si dovessero rimettere al
combattimento di tre per parte le sorti della guerra (1) . (1) Questo intento
della guerra Albana è messo in evidenza dalle parole, che Livio, I, 27,
attribuisce a Tullo Ostilio nella concione tenuta avanti ai due popoli prima di
condannare allo squartamento Metto Fuffezio : « Quod bonum , faustum G. CARLE,
Le origini del diritto di Roma. 12 178 La lotta quindi leggendaria fra Orazii e
Curiazii era lotta di pre dominio fra le due città, la cui parentela era ricordata
e riconosciuta , ed era una specie di giudizio di Dio per sapere quale dovesse
preva lere : senza che occorra di sforzarsi col Lange a volere che il numero
dei tre corrisponda alle tre tribù, e che il nome di Curiazi provenga dalle
curie (1). Conseguenza dell'esito del duello fu , che la città soccombente
perdette la propria esistenza separata e fu distrutta come urbs, e quindi le
genti patrizie albane furono aggregate al patriziato romano, a cui si
aggiunsero cosi i Tullii, i Servilii, i Quinzii, iGe ganei, i Curiazii, i
Clelii, le cui genti pero, per essere sopraggiunte più tardi, furono poi
collocate dallo stesso Tullo Ostilio o da Tar quinio Prisco nel novero delle
gentes minores . Tutta la popolazione invece, che, nelle condizioni, in cui
allora si trovava, non poteva entrare nel patriziato entro in massa nei ranghi
della plebe, e una parte di essa , cioè la più povera, ebbe anche degli assegni
di terre. Cid pure accadde, quando Anco Marzio vinse altre comunanze latine , e
ne aggregò la popolazione alla plebe romana; il che fu dalla tradi zione
espresso con dire, che Anco Marzio aveva trasportata a Roma la popolazione di
quattro città latine (2 ). 145. È a questo punto pertanto , che la plebe
acquista in Roma una vera importanza, e che viene ad essere indispensabile di
trovare un modo per farla entrare, ancorchè a condizioni disuguali, nella
cittadi nanza romana; tentativo cominciato con Tarquinio Prisco , e condotto a
compimento da Servio Tullio (3). Mentre Tarquinio Prisco non riesce felixque
sit populo romano ac mihi,vobisque, Albani; populum omnem Albanum Romam
traducere in animo est; civitatem dare plebi; primores in patres legere : unam
urbem , unam rempublicam facere » . (1) Lange, Histoire intérieure de Rome, I,
pag . 35. (2) Questi fatti attestati dalla tradizione e da tutti gli storici
rendono a parer mio non accoglibile l'opinione sostenuta con molta erudizione
dal PANTALEONI nella sua Storia civile e costituzionale di Roma, lib . I, cap.
6 , pag. 97 a 113, Torino, 1881, secondo cui il partiziato romano sarebbe stato
Sabellico , mentre la plebe sarebbe stata Latina. Questi fatti invece
dimostrano, che la popolazione delle città latine era essa pure divisa in
patriziato ed in plebe, cosicchè quel dualismo che presentasi in Roma già
preesisteva nel Lazio . Del resto l'ipotesi del dotto au tore sarà poi presa in
esame quando si tratterà della legislazione regia , Lib. II, cap . IV,
discorrendo del contributo recato dalle varie stirpi italiche alle istituzioni
giuridiche di Roma. (3) L'importanza grandissima per l'avvenire della plebe
romana di quest' innesto 179 che a conglobare i rappresentanti di queste varie
genti nei sacer dozii, nel senato e nell'ordine dei cavalieri , raddoppiandone
il numero, e continua a lasciare la plebe nella condizione, in cui prima si
trovava ; Servio Tullio invece inizia una organizzazione novella, che può
comprendere così nelle file dell'esercito, che nelle riunioni dei comizii
quella plebe, che è già pervenuta a tale po sizione economica e sociale, da
interessarla alla cosa pubblica . È da questo punto parimenti, che la plebe
rustica di Roma comincia ad essere più apprezzata che la plebe urbana, e che
principia ad avverarsi fra i due ordini la possibilità della formazione di un
diritto comune ai medesimi. Il motivo di questo ravvicinamento deve anche
essere riposto nel fatto , che le istituzioni del patriziato e quelle del nuovo
elemento , aggiuntosi alla plebe, non erano a grande distanza fra di loro ;
poichè l'uno e l'altro avevano la medesima organizza zione domestica , ed oltre
a ciò fra queste famiglie latine ve ne erano di quelle che un patriziato , meno
esclusivo e geloso dei suoi privilegi, avrebbe potuto accogliere nel proprio
seno (1). Ferma quest'origine della plebe e questa primitiva organizzazione
della medesima, veniamo a ricercare quali fossero le istituzioni giu ridiche,
che essa poteva possedere all'epoca, in cui entrò a far parte della comunanza
romana. di forti popolazioni latine sulla plebe primitiva , in parte di origine
servile , è un fatto riconosciuto da tutti gli storici. Cominciò a notarlo il
NIEBHUR, e dopo di lui il Mommsen, il Lange e molti altri. (1) Nota molto
accortamente a questo proposito il Gentile , Le elezioni e il bro glio , pag .
142, che « quella nobiltà, che poscia fu chiamata nuova e che in gran parte
esce di ceppo latino, non era tanto nuova , quanto sembra alla prima; perchè
discendeva dalle vecchie aristocrazie di comunità italiche, venute ad
aggregarsi allo stato romano, e che avevano aspirato agli onori in quella
cittadinanza , a cui più o meno recentemente erano ascritte ». Di qui la
conseguenza , a cui egli allude a pag. 150, che « la costituzione romana ,
eminentemente democratica nei principii, colla piena sovranità popolare nel
nome, lasciava il reggimento della cosa pubblica , immobile nella mano di pochi
» . - 180 CAPITOLO IX . La posizione giuridica della plebe di fronte al
patriziato . 146. Se posta questa origine della plebe e questa primitiva or
ganizzazione della medesima, si domandasse ora in che consistesse la plebe
all'epoca, in cui essa appare nella storia di Roma, sarebbe necessità di
rispondere con una deffinizione di carattere negativo . La plebe infatti è
negli esordii di Roma tutto quel nucleo di indi. vidui e di famiglie di origine
diversa, che di fatto trovasi stabilita nel territorio romano, nei dintorni
della città patrizia ; ma che intanto è priva ancora di qualsiasi posizione
giuridica, perchè non entra a far parte dell'organizzazione gentilizia . Essa
è, come dice Gellio, quella parte di popolazione, che è stabilita di fatto sul
suolo romano, ma in cui « gentes patriciae non insunt » (1); o meglio an cora
quella parte di tale popolazione, che, non essendo compresa nei quadri della
organizzazione gentilizia, non può dapprima entrare nelle curie e negli ordini
della città patrizia . Al modo stesso , che più tardi si chiamerà peregrinus
chiunque non sia cittadino di Roma, o non sia in guerra con essa, e per passare
anche ad un altro ordine di idee si chiameranno con Gaio nec mancipii tutte
quelle cose, che non appartengono alla cerchia prima formatasi della res
mancipii, e anche più tardi si diranno in bonis tutte quelle cose, che appar
tengono ad una persona senza appartenerle ex iure quiritium ; cosi alla domanda
in che consista la primitiva plebe di Roma si pud solo rispondere , che essa è
quell'elemento, che esiste accanto al po pulus, ma che non entra nei quadri di
esso , consacrati dalla reli gione; quell'elemento, che esiste di fatto sul
territorio della città patrizia, ma che non è compreso nell'organizzazione
giuridica e politica di essa . Ora e sempre sarà questo il punto di vista , a
cui si colloca il popolo romano, il quale ferma il suo sguardo sopra di sè,
sopra il suo culto , sopra la sua religione, sopra la sua urbs, la sua civitas,
sopra il suo diritto , e in base al medesimo classifica e dispone tutto il
rimanente dell'universo , secondo la posizione, che esso tiene riguardo a sè e
alle proprie istituzioni. Questo modo di (1) GELL., Noct. att., X , 21, 5 . -
181 - procedere del resto non sembra esser proprio soltanto dei Romani, che
chiamano tutti gli altri popoli hostes o peregrini; ma anche dei Greci, che
hanno una sola qualificazione per tutti gli altri, che è quella di Barbari;
anche dei cristiani del Medio Evo, che chia mano tutti gli altri col nome di
infedeli; ed in genere sembra es sere proprio di tutte le stirpi Ariane, anche
nell'Oriente, le quali cre . dono di avere il diritto di sovrapporsi a tutte le
altre. Che anzi questo modo di procedere può anche ritenersi comune a tutto il
genere umano, sopratutto nelle epoche primitive, in cui ogni popolo , chiuso in
sè stesso, mal conoscendo il rimanente, giudica ed ap prezza ogni cosa ,
facendo sè il centro dell'universo (1). È sempre applicando questa logica
superba, ma ad un tempo ingenua e del tutto conforme alla natura dell'uomo, che
il popolo formato dalle genti patrizie, chiamò plebe tutto ciò , che non era
compreso nei suoi ordini, cioè nelle sue genti e nelle sue curie, e che poscia
il populus romanus quiritium , dopo che già comprende va la plebe , vide una
folla e moltitudine di peregrini e di hostes in tutti quelli , che non erano
compresi nei quadri della città romana. Di qui con seguita , che la definizione
di quell'elemento, che è il solo ad essere tenuto in conto , implica eziandio la
deffinizione negativa di quello , che ne costituisce il contrapposto . 147. Se
quindi è solo il populus delle gentes, che possiede un diritto , ne verrà
comeconseguenza , che la plebe non può negli inizii avere rimpetto ad esso che
una posizione di fatto, e continuerà ad esser sempre in questa condizione,
finchè il populus non le verrà facendo qualche concessione, o la plebe stessa
troverà modo di ac costarsi all'organizzazione del populus, e di penetrare ,
sotto questo o quell'aspetto , nei suoi ordini e nei suoi quadri, consacrati
dalla religione e tutelati dal diritto . La plebe insomma è un elemento, che ha
una posizione di fatto , e che si viene avviando alla conquista di una
posizione di diritto . Essa è nella stessa posizione, in cui saranno poi i Latini
e gli Italici, allorchè formeranno già il grosso dell'e sercito romano, e
intanto non saranno ancora ammessi alla cittadi. (1) Fo qui applicazione di un
concetto del Vico, il quale certo vide molto addentro alla natura dell'uomo
primitivo. Tale concetto costituisce anzi la prima degnità della sua Seconda
scienza nuova, secondo cui: « L'uomo per l'indefinita natura della mente umana,
ove questa si rovesci nell'ignoranza, egli fa sè regola dell'universo » . Solo
è a notarsi, che i Romani ciò non facevano per ignoranza ,ma perchè veramente
attri buivano a se stessi una superiorità sugli altri. 182 nanza romana :
mentre questi ricorreranno in tale intento alla guerra sociale, la plebe
ricorrerà invece alle lotte civili, finchè non avrà ottenuto il pareggiamento
civile e politico . Qui, comenel resto , il processo della logica romana è
sempre il medesimo; incomincia da tanti cerchi, che si vengono formando
nell'interno della città , e che poi si vengono sempre più allargando, finchè
non giungono a comprendere tutto l'universo conquistato dalla eterna città .
148. Ciò premesso si può comprendere, quale potesse essere lo stato delle
istituzioni giuridiche presso la plebe primitiva di Roma. Esse erano
istituzioni, che avevano un'esistenza di fatto : ma a cui il patriziato non
annetteva effetti e conseguenze giuridiche. Tuttavia , anche considerate sotto
questo aspetto , le istituzioni plebee non po tevano certo avere fra di loro un
' analogia , che possa paragonarsi con quella , che esisteva fra le istituzioni
delle genti patrizie, la quale erasi fatta più intima, stante la loro
partecipazione alla stessa co munanza civile e politica . Anzitutto si
cercherebbero indarno presso la plebe quei concetti fondamentali, che abbiamo
trovato cosi nettamente delineati presso le genti patrizie coi vocaboli di fas,
di mos e di ius. Alla plebe invece non si applica dal patriziato che il
vocabolo di usus, che riceve però presso di essa una larghissima applicazione.
Per verità è coll'usus, che si vengono a rivelare esteriormente le unioni ma
trimoniali della plebe, le quali non importano comunione delle cose divine ed
umane. Parimenti è col mezzo dell'usus, che nelle consuetudini plebee potè
avverarsi l'appropriazionedelle cose esterne. Non essendovi presso di essa
quelle forme, che a giudizio del patriziato sono indispensabili per l'acquisto
ed il trasferimento dei beni; così è solo, mediante l'usus, che appartenga ad
una persona, a scienza e pazienza di tutti gli altri, che viene a manifestarsi
non tanto la pro prietà , quanto la possessio , che dapprima tiene luogo di
essa . In fine sarà eziandio , mediante l'usus, che, allorquando verrà a morire
un capo di famiglia plebea , i suoi figli prima, e in sua mancanza i suoi
congiunti ed anche i suoi vicini verranno a mettersi a possesso dei beni da
esso lasciati; e avrà così origine quella singolare istitu zione dell'usucapio
pro herede, che il buon Gaio trovava disonesta ed immorale, perchè non era
coerente al principio dell'agnazione posto a fondamento della successione
quiritaria (1). Tutto ciò insomma, (1) GAIO , Comm ., II, 53, 54. 183 in cui
predomina l'usus auctoritas (per usare l'efficacissimo voca bolo adoperato
dalla legislazione decemvirale), piuttosto che il ius propriamente detto, tutto
ciò che si fonda di preferenza sul fatto che sul diritto , è da ritenersi di
origine plebea , e solo più tardi entrò a far parte del diritto quiritario
sotto il nome di usucapio, di usureceptio, di possessio e simili. Cid spiega
anche il motivo, per cui , allorchè la legislazione decemvirale attribuì
carattere giuridico a queste istituzioni, essa abbia dovuto imporvi delle limi
tazioni e prescrivere delle condizioni, alle quali poi si aggiunsero quelle
richieste più tardi dalla giurisprudenza , perchè siavi usu capione, e perchè
il possesso possa ottenere protezione giuridica . Ciò del resto era una
conseguenza delle condizioni reali, in cui trovavasi la comunanza plebea;
poichè se in un patriziato, dalle an tiche tradizioni, tutto era preveduto e
regolato con norme e regole fisse, le quali se non avevano sempre un carattere
giuridico , avevano almeno un carattere religioso e morale ; in una comunanza
invece, composta di individui e di famiglie di origine diversa , priva di tra
dizioni e di recente formazione, i rapporti fra i singoli individui non
potevano essere governati, che dall'usus. Credo non occorra qui di richiamare
l'attenzione sulla grandissima importanza, che ha questa induzione per spiegare
l'origine dimolte istituzioni primitive di Roma, e sopratutto quell'usucapione,
che appare introdotta dalla legislazione decemvirale. Colla medesima viene ad
apparire l'unità di concetto, a cui si informarono idecem viri, allorchè
introdussero contemporaneamente l'usus auctoritas per l'acquisto della manus,
per l'acquisto della proprietà immobile e mobile, e per l'acquisto anche del
l'eredità. L'usucapio infatti era l'unico mezzo per mutare al più presto la
posizione di fatto, in cui trovavasi la plebe, in una posizione di diritto. Ciò
spiega eziandio come la primitiva possessio non dovesse richiedere nè giusto
titolo, nè buona fede, e come sia stata necessaria una lunga elaborazione ,
perchè potesse uscirne la teorica del possesso e quella a un tempo
dell'usucapione, le quali hanno fra di loro strettissima attinenza . Così pure
si spiegano le definizioni di Ulpiano e di Modestino, secondo cui : <
Usucapio est dominii adeptio per continuationem possessionis anni vel biennii »
, senza che richiedasi altra condizione. Lo stesso è a dirsi degli sforzi dei
decemviri per trattenere l'istituzione da essi accolta in limiti tali , che non
la rendessero pe ricolosa per la convivenza sociale, escludendola per le cose
rubate, e consentendo alla moglie , che coabitava colmarito, di interrompere
l'usucapione della manus, mediante il singolare istituto del trinoctium .
Intendo però di riconoscere, che un avviamento a questa spiegazione già può
ravvisarsi nel MUIRHEAD , Histor. Introd., pag. 48 e 179, nella sua ingegnosa
congettura intorno all'origine della usucapio pro haerede, e nell' Esmein nel
suo recente articolo sull' « Histoire de l'usucapion » che si trova nei suoi
Mélanges d'Histoire de droit, Paris, 1886, pag. 171 a 217. Solo credo di 184
149. Parimenti, è sempre sotto l'influenza di queste speciali con dizioni, in
cui trovasi la plebe, che i suoi commercii non possono essere governati da
forme solenni, simili a quelle che si erano for mate fra i padri delle famiglie
patrizie; ma dovettero svolgersi con forme semplici, quali erano suggerite dai
bisogni di una comunanza, in seno a cui non era ancora organizzata una vera
propria pro tezione giuridica . Fu quindi certamente nei rapporti della comune
plebea , che dovette anche svolgersi l'emptio-venditio , accompagnata dalla
tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo, e questo fu forse anche il
motivo, per cui presso gli antichi, secondo Festo , emere pro accipere
ponebatur, in quanto che emere era vera mente prendere la cosa comperata (1).
Fu in essa parimenti, che dovette aver origine quel singolare istituto della
fiducia , il quale serve qual mezzo per accordare una efficace garanzia al
proprio creditore, lasciando a sua mano la cosa , che deve servirgli di malle
veria (2 ). Fu parimenti in essa , che dovette svolgersi quel modo aver
allargato il concetto riunendo istituzioni, che potevano apparire disparate , e
dimostrando, che l'opera dei decemviri fu in questa parte indirizzata a dare
carat tere giuridico ad istituzioni, che avevano solo un'esistenza di fatto
presso la comu nanza plebea. (1) Sarebbe infatti pressochè incomprensibile, che
un popolo nelle condizioni eco nomiche, in cui trovavasi allora il Romano, e
del quale una parte aveva già attra versato, e non inutilmente, tutto un
periodo di organizzazione sociale, potesse igno rare contratti , come l'emptio
venditio, la locatio conductio , e simili. Essi dovevano certamente esistere,
quand'anche non fossero per avventura penetrati nel diritto qui ritario. Cfr.
MUIRHEAD, Histor. Introd., COGLIOLO , Prefazione, pag. XI, alla traduzione del
GOODWIN , Le XII Tavole , eseguita dal Gaddi, Città di Ca stello, 1887. È poi
noto, che la disposizione della legge decemvirale, per cui la ven dita non è
perfetta, che col pagamento del prezzo, è anche coinune alla Grecia ; il che
dimostra , che dovette essere determinata da comuni necessità , in quanto che
la vendita seguiva talora fra persone, che appartenevano a genti e a comunanze
diverse, e non sarebbe stato facile riavere la cosa, quando non ne fosse stato
pagato il prezzo. (2 ) Anche l'istituto della fiducia è uno dei più antichi e
dovette nascere nella comunanza plebea , perchè fuorusciti ed immigranti senza
posizione giuridica non potevano ricorrere che a quella . Si spiega pertanto il
largo uso , che se ne fece nel diritto primitivo di Roma, in quanto che vi si
ricorre nel testamento, per la nomina di un tutore, per la concessione di un
pegno e forse in molti altri casi ancora, che dovettero verificarsi pel costume
e non penetrarono nel diritto quiritario propria mente detto. Ciò è dimostrato
dalla frequenza, con cui nei poeti latini e sopratutto nei comici occorre il
caso, in cui una persona, allontanandosi, affida il patrimonio e la
figliuolanza (mandat familiam pecuniamque suam ) ad una persona di sua confi
denza . Questo costume è anzi il perno, intorno a cui si aggira il Trinummus di
PLAUTO . 185 - semplicissimo di fare testamento , che ci venne più tardi ancora
de scritto da Gaio nelle sue forme primitive ed arcaiche, e che dovea servire
più tardi come base al testamento quiritario per aes et li bram , per cui il
plebeo , che muore senza figliuolanza , affida ad un amico il suo patrimonio e
le sue sostanze, indicandogli la maniera in cui dovrà poi distribuirli, quando
egli sarà morto . Del resto è questo il modo che ancora oggidi torna opportuno
all'emigrante , che, trovandosi in pericolo di vita ed essendo lontano dalla
patria e dalla famiglia, affida ad un amico , che avrà la fortuna di tornare in
patria, tutto ciò, che egli ha potuto risparmiare , perchè lo riporti a coloro,
che gli sono cari. Che anzi, dacchè siamo nella ricostruzione di quest'ordine
di idee, parmi che a questo modo pri mitivo di fare testamento si rannodi
senz'alcun dubbio quella istitu zione del fedecommesso , che, mantenutasi per
certo nel costume, senza poter penetrare nella cerchia rigida del diritto
civile romano , fini tuttavia per trionfare negli inizii dell'Impero e trionfo
, perchè popu lare erat (1) . Quel testamento quindi, che per un capo di
famiglia patrizia doveva essere fatto coll'approvazione dell'assemblea della
tribù dapprima, e poi davanti ai comizii della città e serviva sopra tutto a
perpetuare l'heredium nelle famiglie , e ad impedire che il patrimonio uscisse
dalla gente ; per i membri invece della comunanza plebea non poteva essere che
un atto di fiducia , un rimettersi, (1) Il testamento primitivo, a cui
accennanoGaio, Comm. II, 102 , ed anche Gellio , XV, 27, 3, è una specie di
mancipatio cum fiducia, in virtù della quale una persona « si subita morte
arguebatur, amico familiam suam , id est patrimonium suum ,mancipio dabat,
eumque rogabat, quid cuique post mortem suam dari vellet » . Ciò indica che la
prima forma, sotto cui comparve il vero testamento, quello che poi si svolse
nel testa mento per aes et libram , fu il fedecommesso,malgrado tutte le
difficoltà che il mede simo incontrò poi per passare dal costume nel diritto
civile romano. È poi degno di nota, che i Romani più tardiritennero di aver
ricevuto dai peregrini questa istituzione del fedecommesso , che certo già
esisteva nella primitiva comunanza plebea. Gaio in fatti, Comm . II, 285,
scrive : « ut ecce peregrini poterant fidem commissam facere et ferre : haec
fuit origo fideicommissorum » ; il che mi conferma nell'induzione, che il
primitivo diritto plebeo , di fronte al diritto già elaborato delle genti
patrizie, dovette compiere quello stesso ufficio, che più tardi il diritto
delle genti verrà a compiere di fronte al diritto civile di Roma. Che il
fedecommesso poi, ancorchè non accolto nel diritto quiritario, abbia sempre
continuato a mantenersi nel costume, è provato ad evidenza dai comici latini.
Fra gli altri esempi basti il seguente tolto dall'Andria di TERENZIO , I, 5 : «
Bona nostra tibi permitto et tuae mando fidei » . È da vedersi in proposito
l’Henriot, Mours jurid . et judic., I, pag. 411 e segg . 186 che altri faceva
ad un amico o ad congiunto , acciò egli distribuisse le sue cose per il tempo,
in cui avrebbe cessato di vivere. 150. Lo stesso infine è a dirsi dei modi di
procedere contro il debitore in questo primitivo diritto plebeo . Sarebbe
inutile cercarvi la forma solenne dell'actio sacramento , che era nata e si era
svolta fra capi di famiglia , che sentivano la loro superiorità ed indipen
denza ; ma è più facile che trovisi fra la plebe l'uso della manus iniectio ,
ed anche quello della pignoris capio, istituzioni che sa rebbero incomprensibili
fra capi di famiglie patrizie , ove sono già penetrati il fas ed il ius, ed
hanno escluso, almeno nei rapporti fra i capi famiglia , l'uso di farsi ragione
colla forza e l'esercizio della pignorazione privata (1). Così pure è naturale,
perchè conforme alle condizioni della plebe, che in essa ancora si rinvengano
le traccie della privata vendetta, del taglione, come pena di colui che ha
recato un danno, della composizione a danaro per un furto sofferto, e perfino
anche per un adulterio ;perchè queste sono tutte istituzioni, che sono
consentanee col modo di agire e di pensare di una comunanza plebea, mentre ri
pugnerebbero all'organizzazione gerarchica e di carattere religioso , che era
così fermamente stabilita presso il patriziato ( 2). La plebe (1) L'origine
plebea dell'actio sacramento è esclusa dal carattere religioso inerente alla
medesima ed anche dalla circostanza, che noi la troviamo comune alle genti
italiche ed elleniche, come lo dimostra la descrizione, che ne troviamo in
OMERO , Iliade, Canto XVIII, ove descrive lo scudo di Achille, il che può
indurre a credere, che essa fosse già importata dall'Oriente. Quanto alla manus
iniectio , essa poteva esistere fra la plebe, come esercizio privato delle
proprie ragioni; ma non poteva avere la significazione giuridica , che vi
attribuì il patriziato. In questo senso ritengo, che la manus iniectio fosse
una procedura usata dai padri contro i debitori plebei, il che cercherò di
provare nel capitolo seguente. ( 2) Questa varia concezione del delitto presso ceti
di persone, che erano in con dizioni sociali compiutamente diverse , può essere
facilmente compresa . Il patrizio sente di far parte di una corporazione
religiosa e civile ad un tempo, e quindi può scorgere nel delitto un'offesa al
costume dei maggiori, una violazione del fas, ed un danno alla comunanza: non
così il plebeo, che è ancora soltanto un individuo, o un capo di famiglia,
pressochè isolato in una comunanza in via di formazione. È quindi naturale, che
egli nel delitto senta sopratutto il danno materiale che gliene deriva , che
consideri la noxa (colpa ) come una noxia (danno) : che quindi reagisca contro
quel danno; ricorra al taglione; venga alla composizione a danaro; e così
riverberi in modo più schietto l'impressione, che dovette fare il delitto nelle
epoche primitive. Quegli vede già ogni cosa attraverso al gruppo di cui fa
parte, e quindi comincia 187 primitiva nel delitto sente sopratutto il danno e
reagisce contro di esso ; mentre il patriziato già vi scorge un peccato contro
la divinità e già comincia a ravvisarvi un danno, che colpisce l'intiera comu
nanza . Tutte le istituzioni insomma, che non presuppongono una lunga
preparazione anteriore , che non hanno una storia nel passato , ma che trovano
direttamente la propria radice nelle tendenze naturali dell'uomo e nei bisogni
immediati di una comunanza, che è soltanto in via di formazione, e in cui entra
ad ogni istante un nuovo ele mento , che si viene aggregando, debbono essere
ritenute di origine plebea . Non chiedansi alla plebe nè i iura gentium colle
cerimonie solenni, da cui sono circondati, né le procedure, che contengono una
storia del passato, nè gli auspicia , che ad ogni atto pubblico e pri vato
imprimono un carattere religioso ;ma solo chiedasi ad essa il senso di quel ius
naturale, quod natura omnia animalia docuit. Sarà anzi questo connubio di un
elemento onusto di tradizioni con un altro vergine di esse , che potrà rendere
possibile la formazione di un di ritto , che finirà per dar forma giuridica a
tutta l'immensa suppel lettile dei rapporti derivanti dalla civil convivenza.
Come quindi esistevano , fin dagli inizii di Roma le traccie del ius gentium ;
cosi vi erano anche quelle del ius naturale, non come idea filosofica, pre
sente alla mente di un giureconsulto, ma come un complesso di forze e di
energie inerenti all'umana natura, che spingevano una comu nanza in via di
formazione a provvedere a tutti i bisogni e a tutte le esigenze , che si
venivano presentando. Per talmodo ciò che più tardi verrà ad essere nozione
astratta , negli inizii è forza ed energia , che spinge, come direbbe il Vico ,
l'uomo ad celebrandam suam so cialem naturam . Basta questo per dimostrare,
come anche negli usi della plebe potesse esistere un materiale greggio , che
potè a poco a poco ricevere forma giuridica nel diritto quiritario. Per tal
modo certe istituzioni, che compariscono solo più tardi, poterono già esi stere
, come usi, da un'epoca ben più antica . Cid serve intanto a spiegare come nel
diritto quiritario non trovisi dapprima una quan tità di atti e di negozii,
senza cui sarebbe stato impossibile ogni com già a scorgere nel delitto
un'offesa collettiva ; mentre questi non sente ancora che il danno privato, che
possa derivargliene. È questa la ragione, per cui i delitti nel diritto
quiritario si presentano dapprima col carattere di offese private, e solo a
poco a poco si convertono in delitti pubblici. Cfr. Voigt, Die XII Tafeln , I,
pag. 434. 188 mercio per un popolo , le cui istituzioni giuridiche e politiche
già dimostrano assai progredito . Qui intanto , per non spingere questa
ricostruzione a particolari troppo minuti, arresterò l'attenzione alle due
istituzioni fondamentali del diritto privato , che sono la famiglia e la
proprietà . 151. Se noi consideriamo la plebe riguardo all'organizzazione della
famiglia , quale è giudicata dai patrizii, noi troviamo che essa non ha le
iustae nuptiae,madei semplici matrimonia , quasi ad in dicare che i plebei
potevano bensi indicare le loro madri, ma non potevano indicare con certezza i
loro padri. Al qual proposito si deve ammettere col Muirhead, che, trattandosi
di persone, alcune delle quali erano di origine servile, potesse anche esistere
una certa qual rilassatezza nelle unioni matrimoniali dell'infima plebe. Non
sembra tuttavia , che la congettura possa spingersi fino al punto , a cui la
spinge il Bachofen, secondo il quale, fra gli elementi che entra vano a
costituire la plebe, avrebbero dovuto esservene di quelli (e sarebbero quelli
di origine etrusca , abitanti nel vicus Tuscus) i quali avrebbero solo
conosciuta la parentela dal lato delle femmine, e si sarebbero cosi trovati
nella condizione del matriarcato (1 ). Senza affermare, nè negare il fatto,
perchè mancano gli elementi per decidere, credo pero didovere osservare che,
quando questo fosse stato , ne sarebbero rimaste maggiori traccie ed indizii.
Il vocabolo dima trimonia per sè significa soltanto, che la plebe riconosceva
la pa rentela dal lato di madre, ossia la cognazione, mentre l'organizza zione
della famiglia patrizia fondavasi esclusivamente sul vincolo dell'agnazione.
Quindi quello solo , che noi possiamo affermare con certezza, si è che nella
plebe primitiva quanto che serve talora ad indicare leesisteva una famiglia,
costi tuita sulle sue basi naturali, cioè fondata sulla cognazione e sulla
affinità . Ed è anche facile trovare la ragione di questo fatto , la quale
consiste in questo, che la famiglia plebea, appunto perchè non era ancora
entrata a far parte dell'organizzazione gentilizia , cosi non aveva ancora
potuto subire quell'artificiale ordinamento , che veniva ad essere necessario
per una famiglia, che doveva servire di convivenza domestica e politica ad un
tempo. Era quindi naturale , che la plebe , non avendo l'organizzazione
gentilizia fondata sull'a (1) Cfr. Muirhead, Histor. Introd ., pag. 34 e 35 ; e
il Bachofen, Das Mutterrecht Stuttgart, 1861, pag. 92. 189 gnazione, cercasse
modo di rafforzarsi mediante vincoli più natu rali e più facili a comprendersi,
quali sono appunto quelli della co gnazione e dell'affinità . Non è quindi il
caso di contrapporre alla famiglia patriarcale una famiglia matriarcale ; ma
solo di dire, che la plebe, non avendo la famiglia fondata sull'agnazione,
aveva in vece quella fondata sulla cognazione, in quanto che quella potrà aver
valore per le genti dalle antiche tradizioni, mentre questa pud essere capita e
sentita da chicchessia . 152. Qui però si potrebbe opporre che, così essendo ,
male si com prende come nel diritto quiritario a vece della famiglia , fondata
sul vincolo del sangue, che certo dal nostro punto di vista avrebbe do vuto
essere preferita , abbia invece avuta prevalenza la famiglia, fon data
sull’agnazione, e come solo più tardi la cognazione sia riuscita a correggere
almeno in parte la famiglia primitiva romana. Cid tuttavia può essere
facilmente compreso, quando si consideri, che la città , in cui trattavasi di
entrare, era stata fondata dai patrizii; che questi erano i forti ed i ricchi,
mentre i plebei erano, almeno negli esordii, i deboli ed i poveri ; che quelli
avevano una posizione di diritto , e che questi erano solo tollerati per la
loro posizione di fatto. Era quindi naturale, necessario , che la plebe,
sopratutto quando fu for temente compenetrata dall'elemento latino, la cui
organizzazione domestica era analoga a quella delle genti patrizie, si
sforzasse di imitare anche in questa parte il patriziato, e che anzi col tempo
le famiglie plebee, che erano pervenute al ius imaginum , si sforzassero di imi
tare perfino l'organizzazione per gentes in un'epoca , in cui essa åveva già
certamente perduto della propria importanza. 153. Del resto è incontrastabile,
che di questo fondamento cognatizio della famiglia plebea rimasero delle
traccie nella legislazione pri mitiva di Roma, sopratutto in quelle istituzioni
domestiche, che dovettero probabilmente essere di origine plebea . Così, ad
esempio, è notabile che la legislazione decemvirale, mentre assegna la suc
cessione legittima e la tutela legittima agli agnati, lascia invece al gruppo
dei cognati e degli affini (cognati et adfines ) il diritto ed il dovere di
proseguire e porre in accusa l'uccisore di un parente , quello di appellare da
una sentenza capitale pronunziata contro un congiunto : disposizioni, che
possono considerarsi come sopravvivenze 190 e quasi accenni di vendetta privata
, la quale, come si è visto sopra, sussisteva sopratutto in seno alla plebe (1)
. Insomma la conclusione ultima sarebbe questa , che Roma, fin dai suoi
esordii, non ignorò la famiglia fondata sulla cognazione e la possedette anzi
sotto la umile apparenza di un'istituzione plebea ; che tuttavia questa
famiglia naturale, nel periodo di formazione del di ritto civile di Roma, fu in
certo modo soverchiata dalla famiglia agnatizia, propria del patriziato ; e
solo riusci di nuovo più tardi, comemolte altre istituzioni, a rientrare in
modo indiretto nella cer chia del diritto romano, sotto la protezione del
pretore e del diritto delle genti. Nè questa è conseguenza di poca importanza ,
perchè colla famiglia si connette tutto il sistema della successione e della
tutela legittima, le quali perciò penetrarono eziandio coll'organizza zione
gentilizia della famiglia nel diritto quiritario . Cid intanto spiega eziandio,
come in via di reazione nello stesso diritto quiritario abbia preso così largo
svolgimento l'istituzione del testamento , perchè questo era il solo mezzo per
sottrarsi alle conseguenze di un sistema di successione legittima, ispirato
ancora al concetto di serbare in tegro il patrimonio nelle gentes; sistema, che
una piccola minoranza di genti patrizie era riuscita ad imporre ad un numero
assai mag giore di famiglie , e che col tempo , col dissolversi della organizza
zione gentilizia, fini per divenire grave allo stesso patriziato . 154. Per
quello poi, che si riferisce alle condizioni economiche della plebe, è assai
probabile che la medesima, prima di giungere ad una vera proprietà di diritto,
abbia cominciato dall'occupare di fatto quella parte di suolo, sovra cui i
plebei venivano a stabilirsi nelle vicinanze di Roma insieme colla propria
famiglia . Dapprima queste possessioni figuravano, od erano in effetto assegni
loro fatti o dai padri o dal re come loro patroni, od erano anche terreni
incolti , sovra cui si arrestava la famiglia plebea, per fondarvi il proprio
tugurium e dissodarvi attorno un piccolo ager. Questo stato primitivo di cose
può essere indotto da alcuni passi di Festo, che si riferiscono a questi
primitivi possessi ed all'occu pazione di agri, che, per mancanza di
coltivatori, fossero stati ab bandonati. Egli infatti scrive: Possessiones appellantur
agri late patentes, publici privatique , quia non mancipatione sed usu ( 1)
Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd ., tenebantur, et ut quisque occupaverat, colebat
(1). Qui infatti è evidente, che non si parla solo di possessioni nell'agro
pubblico , ma anche di possessioni di carattere privato , e furono queste , che
do vettero appunto essere le prime possessioni della plebe. Ciò è pure
confermato dallo stesso Festo, ove scrive : occupaticius ager di citur, qui
desertus a cultoribus frequentari propriis, ab aliis occupatur ( 2), indicando
cosi l'esistenza di una consuetudine, per cui, se l'agro era abbandonato dai
suoi cultori, ne sottentravano degli altri. Del resto che le possessioni
dovessero acquistarsi in questo modo, in seno alle comunanze plebee , lo
dimostra l'importanza , che presso di esse acquistò l'usus auctoritas. Tale
importanza appare dal fatto, che secondo le leggi decemvirali bastava il
possesso di un anno per l'acquisto delle cose mobili e quello di due anni per
quello delle immobili ; disposizione questa, che dovette uscire dagli usi
proprii della plebe. Mentre infatti, presso le genti patrizie, tutto era
governato dal mos e dal fas; in una comunanza plebea, che era soltanto nella
propria formazione, non poteva esservi altra autorità , che quella dell'usus, e
doveva apparire proprietario quegli, che in effetto usucapiva la cosa od il
fondo, del quale si trattava. La pro prietà non poteva ancora in questa
condizione di cose distinguersi affatto dal possesso , e quindi si comprende
che il giureconsulto più tardi ancora dicesse: dominium rerum ex naturali
possessione cae pisse , Nerva filius ait ; eiusque rei vestigium remanere de
his , quae terra , mari, coeloque capiuntur ; nam haec protinus eorum fiunt,
qui primi possessionem eorum apprehenderint (3). Si com prende parimenti,
comein una comunanza di questa natura, che dap principio era costituita da una
massa mobile ed eterogenea, dovesse ri. tenersi sufficiente il breve termine di
un anno per l'usucapione delle cose mobili, e di due anni per l'usucapione di
quelle immobili ; e cið nell'intento di poter trasformare con celerità lo stato
di fatto in stato di diritto, il possesso in proprietà. Se in una comunanza già
formata importa di allungare il termine dell'usucapione, acciò essa non serva
come mezzo per usurpare il diritto esistente; in una co (1) V. Festo, v°
Possessiones ( Bruns, Fontes, pag. 354): la qual definizione è ri portata tal
quale anche da Isidoro (BRUNs, pag. 411). (2 ) V. Festo , Occupaticius. Di qui
già il RUDDORF ebbe ad indurre che l'ager occupatorius non doveva confondersi
coll'ager occupaticius (Bruns , Fontes, pag. 348, nota 6). Vedi per l'opinione
contraria Karlowa, Röm . R. G., I, pag. 95 . (3 ) Paulus, L. 1, § 1, Dig . (41,
2 ). 192 munanza invece, la quale sia in via di formazione e attragga in sé
nuovi elementi, importa di abbreviare il termine di tale usuca pione, acciò lo
stato di fatto mutisi al più presto in uno stato di diritto . Con tale sistema
una famiglia plebea, quando fermava il piede sopra un suolo incolto od
abbandonato ( possessio, da pedum quasi positio) aveva appena tempo a metterlo
in coltivazione, che già ne diventava proprietaria ex iure quiritium , e
intanto , appena un posto rimaneva vacante, veniva ad esservi quello, che lo
occu pava, e dopo breve tempo era considerato ancor esso come legittimo
proprietario . Certo non poteva esservi un migliore sistema per po polare
immediatamente il territorio circostante a Roma, e per popo larlo di famiglie
che, affezionandosi al suolo, finissero per prendere interesse alla grandezza e
all'avvenire di quella città patrizia, sotto la cui protezione e tutela la
plebe aveva potuto diventare anch'essa proprietaria del suolo (1 ). Ciò però
non dovette accadere di un tratto; ma solo a misura che i commerci fra Roma patrizia
e la popola zione circostante conducevano alla formazione di un comune diritto
. 155. Fu quindi solo col tempo, che queste possessioni, tollerate dai padri,
od anche dai medesimi o dal re assegnate ai plebei a titolo di precario,
poterono cambiarsi in una specie di proprietà di fatto più che di diritto,
sovra cui essi vivevano colla propria famiglia . Intanto questo piccolo podere
coi frutti, che se ne potevano ricavare e che portavansi al mercato , porgeva
anche alla plebe occasione di entrare in commercio col patriziato. Si comprende
quindi, che quando le cose furono a tal punto , che i re sentirono la conve
nienza di aggregare la plebe alla cittadinanza romana , anche per afforzare
l'esercito della città patrizia , dovesse sorgere naturalmente l'idea , attuata
poi da Servio Tullio , di ammetterli alla comunanza, in quanto erano capi di
famiglia , e avevano uno spazio di terra, sovra cui potevano vivere colla
propria famiglia . Siccome poi la plebe non conosceva altra proprietà , che la
privata , o meglio quella , che ap (1) Trovo in Gellio, Noc. Att., XVI, 11 un
passo, che dimostra come i Romani comprendessero l'importanza, che aveva la
proprietà per interessare la plebe alle sorti della Repubblica : « Sed quoniam
res pecuniaque familiaris obsidis vicem pignorisque esse apud rempublicam
videbatur, amorisque in patriam , fides quaedam in ea, firmamentumque erat » .
Fu questo , aggiunge Gellio, il motivo, per cui i prole tarii, e i capite
censi, solo tardi e quando non se ne potè fare a meno, furono chia inati a far
parte dell'esercito. 193 partiene al capo di famiglia , non aveva agro
gentilizio , e non doveva neppure dapprima essere ammessa ad immettere i
proprii greggi nell'ager compascuus della tribù, al modo stesso che più tardi
non fu ammessa all'occupazione dell'ager publicus, la quale occupazione
dapprima ritenevasi come un privilegio dell'ordine pa trizio ; cosi ne derivò
la conseguenza , che l'unica proprietà , che poteva essere riguardata come
posta a base della comunanza patrizio-plebea, perchè era la sola, che fosse
comune ai due or dini, era la proprietà privata . Cid può servire a spiegare il
fatto , che da Servio Tullio in poi quasi più non si discorre degli agri
gentilicii, che pur continuavano sempre ad appartenere alle genti: ma solo più
dell'ager privatus, delmancipium , dei praedia censui censendo, e dell'ager
publicus . Questi sono l'unica proprietà della plebe ; mentre l'occupazione
dell'agro pubblico è una gran sor gente della ricchezza del patriziato . Quindi
si comprende l'affetto tenace, con cui la plebe si attacca alla propria terra,
il suo sotto porsi al duro vincolo del nexum , piuttosto che alienarla, e la
lotta , che essa sostiene per ottenere quelle ripartizioni dell'ager publicus,
che le porgevano mezzo di entrare nella vera cittadinanza di Roma. Intanto
siccome questa proprietà e il commercio , che derivava da essa , erano gli
unici diritti, che la plebe avesse comuni col patri ziato : così viene eziandio
a spiegarsi, come gli atti tutti del primitivo diritto quiritario assumano un
carattere essenzialmente mercantile , e siano tutti fatti entrare forzatamente
sotto le figure del nexum e del mancipium , come meglio apparirà più tardi.
156. Dalle cose premesse si può raccogliere la conclusione se guente , quanto
ai rapporti, che intercedono fra il patriziato e la plebe negli esordii della
comunanza romana. Per quanto debba ri tenersi, che il primo nucleo della plebe
siasi costituito mediante ele menti,che si vennero staccando dalla stessa
organizzazione gentilizia, perchè più non potevano essere compresi nei quadri
della medesima; tuttavia la plebe, avendo richiamati a sè tutti coloro , che si
trovarono spostati nell'anteriore organizzazione, crebbe per modo in numero ed
importanza da costituire di fronte alla città patrizia una vera e propria
comunanza plebea , che doveva di necessità essere presa in considerazione.
Siccome tuttavia la plebe è fuori di quella organiz zazione, che è l'unica
riconosciuta dal patriziato ; così essa viene dapprima ad essere lasciata a se
stessa ed è considerata come una moltitudine ed una folla , la quale ha bensì
una esistenza G. CARLE , Le origini del diritto di Roma. 13 194 di fatto, ma
che è priva di qualsiasi posizione giuridica di fronte al patriziato . Di qui
il dualismo fra i due ordini, che, nato già nella tribù , viene a costituire il
gran dramma della comunanza civile e politica . In questa infatti son chiamati
a convivere due elementi: di cui uno ha una posizione di diritto , ha la città
, ha gli auspicii, le magistrature, gli onori; mentre l'altro non ha che una
posizione di fatto , più tollerata che riconosciuta, e non può fare as
segnamento , che su quello spazio di terra, sovra cui si è stabilito colle
proprie famiglie, ed è solo poggiandosisopra di esso , che potrà entrare a fare
parte della comunanza. Per quello poi, che si riferisce alle loro istituzioni
religiose, giu ridiche e politiche, non corre una minore differenza fra i due
or dini. Mentre il patriziato è nei vincoli delle tradizioni e del culto dei
suoi antenati, dei concetti, che forse ha recati dallo stesso Oriente, e
trovasi fra le strette dell'organizzazione gentilizia , che dopo aver fatta la
sua forza, comincia ora ad impedirne il naturale sviluppo e a cambiarlo in
un'aristocrazia chiusa in se stessa ; la plebe invece ha l'inconveniente, ma al
tempo stesso il vantaggio di en trare nella vita politica , senza la memoria
dei maggiori ed il culto di essi, senza essere vincolata dalle proprie
tradizioni, e trovasi cosi in condizione di ubbidire al proprio interesse, alle
proprie esi genze, ai bisogni e alle necessità della nuova organizzazione so
ciale. A ciò si aggiunge, secondo la profonda osservazione del Kar lowa, che
nell'uomo della plebe per la prima volta compare la nozione per cui l'uomo
libero, sciolto da ogni vincolo sociale e gen tilizio , deve essere riguardato
come persona, ossia come capace di diritto e di obbligazioni; per guisa che
anche il maggior concetto , a cui abbia saputo elevarsi il diritto romano, che
è quello di rico noscere l'uomo libero come capace di diritto, ebbe in parte a
svol gersi sotto l'influenza dell'elemento plebeo (1). 157. Per tal modo Roma
si trovò di fronte al problema di far convivere nelle stesse mura, e di
sottoporre all'impero delmedesimo (1) KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, pag
. 64. L'autore, che ebbe giusta mente a notare che il più alto concetto, a cui
giunse il diritto privato di Roma, è quello che l'uomo libero , come tale, sia
capace di diritto, è il compianto Bruns, Geschichte und Quellen des römisches
Recht's, $ 3, in HoltZENDORFF's, Encyclo pädie , I, pag. 105, 4.ed . — È da
vedersi in proposito il Brugi, Le cause intrinseche della universalità del dir.
rom ., Prol., Palermo, 1886 . 195 diritto due ordini, di cui uno era ricco di
tradizioni e stretto nei vincoli del passato , mentre l'altro , per le speciali
sue condizioni di fatto , non aveva per sè che il presente e sopratutto
l'avvenire. Il problema per la plebe era quello di mutare la sua posizione di
fatto in una posizione di diritto , e per il patriziato quello di dare alla
plebe un diritto e di farla entrare nei quadri della sua città , senza
comunicarle che gradatamente quel fascio di tradizioni reli giose , giuridiche
e morali, di cui esso era gelosissimo conservatore. Certo il problema era di
difficile risoluzione, ma la logica giuri dica di Roma seppe risolverlo in un
modo, che può veramente dirsi meraviglioso . La conseguenza venne ad essere
questa, che il di ritto, che venne formandosi in Roma, si presenta antico sotto
un aspetto e nuovo sotto un altro. È antico nei concetti, nelle forme, nei
vocaboli stessi, che già tutti esistevano precedentemente ed erano stati
elaborati dal patriziato nel periodo dell'organizzazione genti lizia ; ma è
nuovo in quanto che nelle forme antiche penetra uno spirito nuovo e si fa entrare
tutta una nuova vita civile e poli tica , che più non poteva essere contenuta
nei quadri dell'organiz zazione gentilizia . Nella formazione di questo diritto
tutto ciò che è di forme solenni, di concetti già elaborati, di istituzioni
aventi carat tere religioso e morale, viene ad essere di origine patrizia ;
mentre tutto ciò , che trova origine nel semplice usus, nella semplice pos
sessio, nel fatto più che nel diritto , e non è avvolto ancora in forme solenni
e tradizionali, deve ritenersi piuttosto di origine plebea . La distanza stessa
poi, a cui trovavansi i due elementi, che dovevano entrare a far parte della
medesima città, obbliga il diritto quiritario a prendere le mosse nella propria
formazione dai concetti elemen tari della proprietà e della famiglia , che
erano i soli, che fossero comuni ai due ordini, per venire poi all'elaborazione
lenta e graduata di tutti gli altri istituti giuridici. Per tal modo nella
formazione del diritto pubblico e privato di Roma noi abbiamo un nucleo co
piosissimo di tradizioni, di concetti e di vocaboli, già preparati in un
periodo anteriore, che viene in certo modo a fondersi nel cro giuolo della
comunanza civile e politica , per guisa che, precipitando e cristallizzando
lentamente e gradatamente, finisce per dare origine ad un diritto, del quale si
può dire con ragione, che si è formato rebus ipsis dictantibus et necessitate
exigente . Solo resta a spiegare , come in questa condizione di cose siasi de.
terminata la prima formazione del diritto quiritario nello stretto senso , che
suol essere attribuito a questo vocabolo. 196 CAPITOLO X. Le prime origini del
Jus Quiritium nei rapporti fra patriziato e plebe. 158. Non può certamente
negarsi, anche da uno schietto ammi ratore della logica, che ha governata la
formazione e lo svolgimento del diritto privato di Roma, che esso nei proprii
esordii presentasi con un carattere di rozzezza e di violenza , che desta
un'impressione sfavorevole e pressochè di ripugnanza, e spiega anche
l'affermazione di coloro, che ebbero a considerarlo , come l'opera esclusiva
della forza . Tale impressione è prodotta specialmente da certi vocaboli e
concetti, che occorrono nel primitivo jus quiritium : vocaboli, che portano con
sè l'impronta della forza e della violenza. Fra questi vocaboli non deve essere
annoverato quello di manus, che nel di ritto quiritario significò il potere
spettante al capo di famiglia sulle persone e sulle cose, che da esso
dipendono, in quanto che questo vocabolo se da una parte indica la forza e la
potenza , che si impone; dall'altra può anche significare la protezione e la
difesa, che la manus accorda a tutti coloro , che da essa dipendono. Si
aggiunge, che questo vocabolo di manus o qualche altro , che corrisponda al me
desimo, sembra essere stato adoperato nella stessa significazione dalle altre
stirpi di origine ariana (1). Sonvi invece nel primitivo ius quiritium altri
vocaboli, come quelli di mancipium , di nexum , di manus iniectio , che non
solo si ispirano al concetto della forza , (1) È abbastanza noto in proposito
che alla manus del capo di famiglia romano corrisponde anche nella sua
significazione materiale il mund ed il mundium del capo di famiglia germanico ;
il che però non toglie che i due istituti abbiano rice vuto un diverso
svolgimento presso i due popoli, sopratutto per ciò che si riferisce al potere
del padre sui figli . V. in proposito : VIOLLET, Histoire du droit français,
Paris, 1886, pag . 412, cogli autori citati a pag. 447. Del resto fra il
primitivo diritto romano e il primitivo diritto germanico vi hanno ben altre
istituzioni, che si corrispondono, e fra le altre potrebbesi forse fare un
interessante raffronto fra il ius applicationis dei Romani, e il comitatus e la
commendatio presso i popoli Germanici. 197 ma, applicandosi anche alle persone,
sembrano recare con sè l'idea di soggezione e di dipendenza di una persona da
un'altra. È quindi assai difficile a spiegarsi, come mai dal mos e dal fas
delle genti patrizie, e dall'usus, che veniva formandosi nel seno della plebe,
abbiano potuto scaturire concetti di questa natura , a cui manca non solo
quell’aureola religiosa , da cui sono circondate le istituzioni gentilizie, ma
perfino quel carattere di fiera indipendenza, che con traddistingue le
istituzioni primitive dei popoli italici. 159. Ritengo tuttavia , che questa
apparente contraddizione fra questi concetti del primitivo ius quiritium e gli
elementi, che avreb bero contribuito alla sua formazione, possa essere
spiegata, quando si ammetta la congettura, a cui ho accennato più sopra
parlando dell'actio sacramento e della manus iniectio , e sulla quale importa
qui di insistere più lungamente. La congettura sta in questo, che nelle
istituzioni del diritto quiritario vene hanno alcune, che si erano formate nei
rapporti fra i capi delle famiglie patrizie, e perciò nel seno stesso delle
genti e delle tribù; ma ve ne hanno eziandio delle altre, le quali dovettero
invece formarsi ed assumere un contenuto preciso nelle lotte e nei conflitti
fra la classe dei vincitori e quella dei vinti. Il ius quiritium primitivo non
governo solo rapporti fra capi di famiglia uguali fra di loro e appartenenti
alla stessa tribù ; ma dovette eziandio reggere i rapporti fra le genti
organizzate nella tribù e la moltitudine e la folla, per la maggior parte di
origine servile, che ancora circondava i primitivi stabilimenti patrizii.
Quindi se era naturale, che la prima parte del ius quiritium portasse le
traccie della fiera indipendenza di quei capi di famiglia, dei quali nemo
servitutem servivit ; la seconda invece doveva portare quelle della soggezione,
a cui era ridotta la classe inferiore. Non può cer . tamente presumersi, che
questi due ordini di persone potessero en trare in rapporti giuridici fra di
loro , sopra un piede di assoluta eguaglianza . Quindi mi sembra naturale, che
il primitivo ius qui ritium , a somiglianza del diritto feudale, che ebbe poi a
formarsi in una condizione di cose non dissimile da questa , debba in qualche
parte portare le traccie della superiorità, che si attribuivano i vincitori, i
conquistatori, i primi organizzatori di una convivenza sociale, e
dell'abbiezione invece, a cui erano ridotti i vinti, i con quistati e quelli,
che, non essendo ancora pervenuti ad una organize zazione sociale,
abbisognavano perciò di protezione e di difesa . 198 160. Questo è certo che
anche più tardi noi troviamo una disu guaglianza di condizione giuridica fra
Roma e le popolazioni, da cui essa è circondata ; come lo dimostra ancora
l'accenno, che più tardi è fatto dalla legislazione decemvirale dei forcti ac
sanates, ai quali, secondo Festo , sarebbe stato accordato unicamente il ius
nesi man cipiique. Da questo peculiare rapporto giuridico , che intercede fra
Roma e le popolazioni circostanti, mi sembra di poter dedurre con fondamento,
che quel nexum e quel mancipium , che poscia vennero a significare dei rapporti
privati fra i cittadini, abbiano potuto un tempo indicare dei rapporti, che
correvano fra le genti patrizie e le popolazioni di diritto inferiore e
pressochè vassalle , che abitavano nel territorio circostante a Roma. Che anzi
qui mi pare opportuno di dare svolgimento ad un concetto , che fino ad ora potè
solo essere accennato, ma non svolto . Il medesimo consiste in ritenere , che
la condizione primitiva della plebe, di fronte alla città patrizia , dovette essere
analoga a quella , in cui ci vengono descritti posteriormente i forcti ac
sanates, in base alla legislazione decem virale . È un magistero eminentemente
romano quello di seguire sempre il medesimo processo, allorchè si avverano le
stesse condizioni di fatto. Ora non è dubbio, che la plebe in Roma primitiva
era costituita da popolazioni circostanti, superiori ed inferiori a Roma, in
condi zioni quasi del tutto simili a quelle, in cui Festo ci descrive essersi
poscia trovati i forcti ac sanates . È quindi naturale e del tutto pro babile,
che Roma abbia fatto dapprincipio alle popolazioni, che lo erano più vicine, e
che costituivano così la prima plebe, la posizione stessa, che fece poi ai
forcti ac sanates ; che cioè abbia loro rico nosciuto dapprima il ius nexi
mancipiique, il diritto cioè di obbli garsi, di acquistare e di trasferire la
proprietà nei modi riconosciuti dal suo stesso diritto . Ciò era necessità ,
perchè fossero possibili i commercii fra patriziato e plebe ; e intanto spiega
eziandio , come i primi concetti, che compariscano nel diritto quiritario,
comune ai due ordini, siano appunto quelli del nexum e delmancipium , i quali
perciò , al pari di quello del commercium , al quale corrispondono, si svolsero
dapprima fra popolazioni diverse, e poi furono portati nei rap porti interni
fra i membri di una stessa città. Roma patrizia insomma avrebbe in questa parte
usato il più semplice dei processi. Dapprima avrebbe considerata la plebe come
una popolazione circostante alla città , con cui non poteva a meno di essere in
commercio, e perciò avrebbe accordato alla medesima quel ius nexi mancipiique,
che anche più tardi continuò ad accordare ai forcti ac sanates. Quando 199 -
poi la plebe fu anch'essa incorporata nella città, e coll'ampliamento delle
mura serviane una parte delle abitazioni dei plebei si trovò entro il recinto
dell'urbs, quel diritto , che prima governava i rap porti, che intercedevano
fra due popolazioni distinte, continud natu ralmente a governare i rapporti dei
due ordini, in quanto essi fa cevano parte della stessa comunanza; quello , che
era dapprima un diritto esterno, divento diritto interno, e fu il punto di
partenza dello svolgimento del ius quiritium . Certo questa non è che una
congettura fondata sul processo solitamente seguito dai Romani; ma fornisce una
spiegazione così naturale delle cose, e così conforme al metodo romano, che non
mi sembra temerità di aggiungerla alle altre, che già si escogitarono al
riguardo. Intanto , come ho già altrove avvertito (1), viene eziandio a
comprendersi il motivo, per cui questa speciale posizione giuridica dei forcti
ac sanates, poscia sia scomparsa per guisa da non sapersi più comprendere il
signifi cato della medesima, poichè col tempo anch'essi entrarono a far parte
della plebe romana, e quindi mancò ogni ragione per serbare loro questa
peculiare condizione giuridica. & neaco (Il solo passo, che a noi pervenne
intorno ai forcti ac sanates, è di Festo , ed il medesimo è ancora in tale
stato, che fu assaidifficile la ricostruzione di esso. L'OFFMANN, Das Gesetz d
. XII Tafeln von den Forcten und Sanaten . Vienna, 1866, ritiene che il passo
delle XII Tavole , a cui Festo accenna , vº Sanates (Bruns, Fontes, pag . 664),
fosse così concepito : mancipatoque ac forcti sanatique idem iuris esto » .
Questa lezione stata adottata dal LANGE, Hist. intér. de Rome, I, pag . 171, fu
respinta dal MOMMSEN, sulla conside razione che qui trattavasi di determinare
la condizione dei forcti ac sanates in sè considerati, e non di metterli a
comparazione coi nexi ac mancipati, dei quali non si saprebbe poi dire , quale
potesse essere la speciale posizione giuridica . Il Voigt, Die XII Tafeln,
I,pag. 273 e 733 , Tab. XI,6 , ricostruirebbe invece la legge in questa guisa :
e nexum mancipiumque, idem quod Quiritium , forcti sanatisque supra infra que
urbem esto »; ma non pare che sia nell' indole della legge decemvirale di en
trare in particolari così minuti. Parmi quindi di adottare piuttosto il testo
della legge, quale sarebbe accettato dal MOMMSEN ; ~ Nexi mancipiique forcti
sanatesque idem iuris esto » ; il che significherebbe in sostanza ciò, che pure
dice il Voigt, che cioè i forcti ac sanates possono obbligarsi e trasferire il
proprio mancipium nel modo riconosciuto dal diritto quiritario, cosicchè
verrebbe ad essere probabile, che la loro posizione fosse precisamente quella
della plebs, allorchè era già ammessa in questi confini al commercium ,ma non
aveva ancora il connubium . Quanto alle varie lezioni proposte è da vedersi il
Mommsen nella nota al Bruns , Fontes , pag. 365 ; ed anche il MUIRHEAD, Histor.
Introd ., pag. 111, nota 12, ove proporrebbe la se guente ricostruzione: «
nexum mancipiumque forcti sanatisque idem esto » ; pure avrebbe la medesima
significazione. Non conosco però che altri abbia cercato di . la quale 200 161.
Del resto , checchè si possa dire di questa induzione, questo deve certo essere
ammesso, che il ius quiritium , il quale, sebbene comparisca con Roma, pud
tuttavia avere le sue radici, in epoca di gran lunga anteriore, almeno in parte
si formò in un periodo di lotta e di violenza fra gruppi e ceti di persone, che
si trovavano in condi zione affatto diversa , in quanto che alcuni di tali
gruppi e ceti già erano pervenuti alla formazione di consorzii civili ed umani:
mentre gli altri ancora vivevano in uno stato di promiscuità e confusione, che
le genti patrizie riputavano nefario. Non può quindi essere mera viglia , se
alcuni dei resti, che giunsero fino a noi, portino ancora i segnidelle lotte e
dei conflitti, che vi furono fra vincitori e vinti, non che della soggezione e
della dipendenza , in cui erano le classi inferiori. Al modo stesso , che i
ruderi delle costruzioni primitive di mostrano, colla rozzezza e coll'enormità
delle loro proporzioni, quali edifizii in quell'epoca fossero necessarii per
ripararsi contro i cataclismi del suolo : così i resti, che ancora ci rimangono
del primitivo ius qui ritium , in questi vocaboli, che sono sopravvissuti ai
tempi, in cui si sono formati, dimostrano quali specie di vincoli si potessero
richiedere per richiamare da una condizione pressochè nefaria , per usare l’es
pressione del Vico , le moltitudini e le folle ad celebrandam suam socialem
naturam . Gli uomini in questa epoca dovettero sentire l'impotenza loro di
fronte ai terrori della sconvolta natura, ai pe ricoli delle fiere, e agli
scontri continui con genti di origine stra niera, e quindi non poterono
preoccuparsi tanto della loro libertà , quanto sentire il bisogno di ripararsi
sotto la protezione di quelle genti, che prime erano riuscite ad organizzarsi e
a fortificarsi sotto il potere dei loro capi. Cid spiega come l'antico vocabolo
di « iobi lare » abbia potuto significare il gridare salvezza per l'aperta
campagna e come i deboli fossero nella necessità di fare appello alla fede ed
alla protezione dei forti, e disposti ad accettare la posizione portata dal
mancipium e dal nexum , pur di averne la protezione e la difesa. Non era perciò
un diritto mite ed umano e pieno di grada zioni delicate e sottili , che poteva
nascere in questi inizii dell'organiz zazione sociale, sopratutto nei rapporti
fra classi, di cui una era su periore e l'altra inferiore ; ma bensi un diritto
rozzo e violento , che risentisse in certo modo della lotta , da cui esso
usciva, e che da una inferire da questa disposizione la condizione giuridica
primitiva , in cui si trovò la plebe di fronte alla città patrizia. - 201 parte
avesse l'impronta della superiorità dei vincitori e dei forti e dall'altra
dell'abbiezione, a cui erano ridotti i vinti ed i deboli (1). 162. Si comprende
quindi come in questo periodo , la manus, armata di lancia , pronta da una
parte ad atterrare il nemico, a seguirlo fuggi tivo e a farlo prigioniero di
guerra , e dall'altra disposta a difendere tutti i proprii dipendenti, potesse
presentarsi come l'espressione più , naturale e più energica ad un tempo per
significare il potere giu . ridico, che spetta al capo di una famiglia sopra
tutte le persone, che da lui dipendono, e per significare eziandio l'unità
della famiglia nei rapporti esteriori. Genti come le italiche, le quali,
secondo l'at testazione di Servio, avevano nella loro ingenua personificazione
di tutte le energie proprie dell'uomo dedicato ad un nume le varie parti del
corpo, cioè l'orecchia alla memoria, la fronte all'ingegno , la destra alla
fede, le ginocchia alla pietà e alla misericordia, perchè abbracciano le
ginocchia coloro che implorano , non avevano che ad applicare il medesimo
processo per dedicare la manus ad espri mere il potere unificatore della
famiglia (2). Non era forse la manus che atterrava il nemico e lo faceva
prigioniero di guerra e che intanto proteggeva moglie , figli, clienti e servi?
Non era essa , che riuniva e stringeva la famiglia nella sua compagine interna,
e che serviva a renderla forte e compatta contro le aggressioni esterne ?
Intanto però è evidente, che la manus, intesa in questo significato , poteva
solo spettare a quei capi di famiglia, che avevano serbata intatta la loro
autorità di diritto, perchè non erano mai stati sotto ( 1) Buona parte di
questi concetti trovasi accennata qua e là dal Vico ; na è avvolta in una forma
fantastica , proveniente dall'idea preconcetta di voler conside rare i Romani
come i rappresentanti di quell' epoca eroica , che, secondo le sue teorie,
avrebbe susseguito quei tempi,che egli chiama divini, e preceduto quelli, che
egli chiama umani; idea , che finì per condurlo a considerare come una leggenda
tutta la storia primitiva di Roma, fino alla prima guerra Cartaginese. Ciò però
non impedisce che le sue divinazioni, anche non essendo vere, se applicate a
Roma sto rica, possano contenere del vero, se riportate all'epoca veramente
patriarcale ed eroica, che avrebbe preceduta la fondazione di Roma. In
proposito è da vedersi il MORIANI, La filosofia del diritto nel pensiero dei
Giureconsulti romani, Firenze, 1856 , pag. 14 e segg., ove parla dell'origine
del diritto e dell'etimologia del vocabolo ius. (2) Servius, In Aen., 3, 607 :
« Phisici dicunt esse consecratas singulis numinibus singulas corporis partes :
ut aurem Memoriae, frontem Genio, dexteram Fidei, genda Misericordiae , unde
haec tangunt rogantes. Iure pontificali , si quis flamini genua fuisset
amplexus, eum verberari non licebat » . 202 posti a servitù, e primi erano
pervenuti a fondare una vera organiz zazione sociale. Il concetto quindi di
manus, in quanto è l'unificatore della famiglia e dà alla medesima la
compattezza necessaria per re spingere ogni aggressione , dovette prima
formarsi nei rapporti fra le famiglie, le genti e le classi diverse, che non
nei rapporti interni della famiglia ; perchè la causa , che determino questo
irrigidirsi della famiglia , non fu interiore alla medesima, ma bensì esterna ,
ossia la necessità di provvedere alla lotta per l'esistenza . Dal momento per
tanto, che il concetto di manus ha un'origine, che potrebbe chia marsi
pressochè esteriore ed internazionale, ne consegue eziandio, che nel conflitto
delle genti il concetto della manus, in quanto indica un potere, che non ebbe
giammai a soccombere sotto la schiavitù, non potè essere applicato che ai capi
delle famiglie patrizie, e non già alla folla e alla moltitudine, di cui erano
circondati gli stabili menti dei padri. Si comprende pertanto, come nel diritto
quiritario primitivo continuamente comparisca la manus, la quale è quella , che
lotta nella manuum consertio ; che rivendica nella vindicatio ; che trascina il
debitore nella manus iniectio ; che distendendosi lascia in libertà lo schiavo
(manu emittit) ; che obbliga la propria fede nella dextrarum iunctio; e da
ultimo è anche quella, che afferrando il vinto, lo trasmuta in mancipium . Essa
quindi non ha soltanto una significazione relativa alla costituzione interna
della famiglia, ma dap prima ha sopratutto una significazione, quanto ai
rapporti esteriori in cui la famiglia può trovarsi, essendo la manus, che la
rende unita e compatta nel respingere ogni aggressione. Sarà solo più tardi,
che essa verrà a significare il complesso dei poteri giuridici, che ap
partengono ai quiriti, in quanto essi costituiscono una specie di ari stocrazia
fra la moltitudine e la folla , da cui sono circondati. Però almodo stesso ,
che la manus in questa significazione è già il frutto di una specie di
astrazione, cosi deve pur dirsi del concetto del qui rite . Senza entrare
nell'etimologia della parola e senza discutere se la medesima venga da quiris
lancia, o da curia , come vorrebbe il Lange; questo è certo che in ogni caso il
vocabolo di quiriti non significa i membri delle genti patrizie individualmente
considerati; ma li indica in quanto appartengono ad uno stesso populus, che ora
ra dunasi nelle curie , ed ora costituisce un esercito . Come tali i qui riti
trovansi in una posizione privilegiata e quindi sono essi sol tanto, a cui
appartiene la manus, come simbolo del diritto quiritario; sono essi soli, che abbiano
le iustae nuptiae ; che sappiano consul 203 tare gli Dei cogli auspizii ; e che
partecipino direttamente al bene fizio delle istituzioni proprie della città
(1) . 163. Malgrado di ciò è improbabile, che nel periodo anteriore alla
fondazione della città , e in quello della città esclusivamente patrizia non
intercedano dei rapporti fra la classe dominante e quelle inferiori, da cui
essa è circondata . Sarebbe tuttavia a meravigliarsi, se in questi rapporti
essi si trattassero alla pari, e se le istituzioni, che dovettero nascere in
questa condizione di cose, non portassero le traccie della disuguaglianza di
condizione, in cui si trovavano le due classi . Il plebeo , che non ha una
posizione giuridica , e che quindi non può offrire garanzia di sorta al patrizio
, quando voglia entrare in rapporto con esso , non può avere altro mezzo che
quello di darsi a mancipio o divincolarsi col nexum , per guisa che, se esso
non paghi, possa essere ridotto alla condizione di mancipio , assoggettandosi
cosi alla manus iniectio. Di qui la conseguenza , che i durissimi concetti del
mancipium , del nexum , della manus iniectio, prima di diventare istituti
proprii del diritto quiritario , in cui presero poi una significazione
speciale, dovettero significare dei rapporti, che si stabilirono fra patriziato
e plebe, prima che entrassero a far parte della stessa comunanza ; il che
spiega appunto quel carat tere di soggezione e di dipendenza di una persona ad
un'altra, che è loro inerente . Che anzi, siccome le origini di certi concetti
primitivi debbono talora cercarsi in un periodo anteriore a quello , in cui
essi appari scono e cominciano a prendere una forma determinata e precisa ,
cosi anche questa significazione dei vocaboli di mancipium , di nexum , di
manus iniectio non è ancora quella assolutamente pri mitiva ; ma conviene
cercarne le origini nelle lotte, che dovettero esistere in epoca più remota fra
i vincitori ed i vinti, fra i con quistatori ed i conquistati. In questa
indagine non può esservi altra luce fuori di quella, che viene dalla
significazione diversa, che as sunsero i vocaboli, di cui si tratta . 164.
Nella povertà del linguaggio giuridico primitivo il vocabolo mancipium ebbe ad
assumere significazioni molto diverse , che però riduconsi a due essenziali ; a
quelle cioè per cui significa : - o ciò (1) LANGE, Hist. inter. de Rome, I,
pag. 29. 204 che è soggetto al potere del capo di famiglia – o il modo per
trasfe rirlo di una ad altra persona. Nel primo significato mancipium in dica
anzitutto il prigioniero di guerra, stato ridotto in schiavitù ; poi indica
eziandio tutto cid , che può essere preso e assogettato colla manus : quidquid
manu capi subdique potest,uthomo, equus, ovis ; infine indica eziandio,
allorchè il diritto quiritario è già formato, il complesso delle persone e
delle cose, che dipendono dalla manus del capo di famiglia. Questa serie di
significazioni, che si vengono sempre più estendendo, contengono in compendio
la storia dell'istituzione. Non può esservi dubbio, che il primo mancipium
dovette essere lo schiavo ed il vocabolo era anche acconcio ad esprimerlo , in
quanto che questo era stato veramente manu captum e poi ridotto in schia vitù ;
poscia l'analogia lo fece estendere eziandio alle cose e persone, che erano
assoggettate in modo analogo al potere della persona, quali erano i cavalli e i
buoi, allorchè domati cominciavano a dipendere dalla mano dell'uomo; infine,
quando la manus prese la significazione traslata , per cui essa designa il
potere del capo di famiglia , tanto le persone, che le cose soggette al
medesimo, poterono essere indi cate col vocabolo di mancipium . Giunge però
tempo, in cui questo vocabolo sembra per la sua stessa origine essere disadatto
a signi ficare tanto le persone, che le cose soggette al capo di famiglia, ed
in allora esso scompare in questa significazione, ma continua ancora sempre a
mantenersi nella sua significazione primitiva, che era la vera ; come lo
dimostrano le disposizionidell'editto degli edili curuli col titolo de
mancipiis vendundis, ove il vocabolo continua sempre a significare lo schiavo (
1 ). (1 ) Quanto al tenore dell'Editto curule vedi Bruns, Fontes , pag. 214.
Non potrei ciò stante ammettere la significazione, che il MUIRHEAD ebbe di
recente a proporre per i vocaboli di mancipium e di mancipatio , colla quale
egli direbbe , che mancipium significa eziandio il potere, ossia la padronanza
del manceps, e che perciò debba ritenersi come sinonimo di manus; donde egli
deriva, che mancipare non deriverebbe da manu capere, ma piuttosto da manum
capere (Histor . Introd ., pag.61). Oltrecchè questa etimologia non servirebbe
veramente a spiegar meglio la significazione primitiva del vocabolo ; parmi
eziandio che contraddica all'uso, che i giureconsulti fecero di questo
vocabolo, attribuendo costantemente al medesimo una significazione passiva , la
quale indica piuttosto la soggezione di una persona o di una cosa , che non il
potere che appartiene sulla persona o cosa soggetta. Noi ve diamo infatti, che
mentre occorrono talvolta le espressioni di habere manum , habere potestatem ,
habere dominium , i giureconsulti invece non direbbero mai habere man cipium
nel senso di significare un potere, che spetti ad una persona,al modo stesso -
205 Se non che il vocabolo mancipium non significa soltanto ciò , che è soggetto
al capo di famiglia , ma indica eziandio il trasferimento , di cui possono
essere oggetto le cose , che entrano a costituirlo . Ciò è dimostrato
dall'espressione vigorosa della legislazione decemvirale, nella quale si dice
facere mancipium , facere nexum , al modo stesso, che direbbesi facere
testamentum . Or bene non vi ha dubbio , che anche il facere mancipium deve
avere subito delle trasforma zioni profonde nel proprio significato . Facere
mancipium infatti dovette negli inizii indicare il darsi o il prendere a
mancipio, la dedizione del vinto o la presa del vincitore, per cui quello viene
in tutto ad essere a disposizione di questo. Ciò è dimostrato da questo che i
servi, che erano chiamati mancipia ex eo , quod ab hostibus manu capiuntur,
sono anche chiamati servi dediticii, in quanto che essi provenivano da una
specie di resa o di dedizione del vinto al vin citore (1). Cid però non tolse ,
che il concetto del facere mancipium si applicasse eziandio a persone libere,
che potevano dare se stesse a mancipio , od anche a persone, che dipendevano da
esse , come accadeva nella noxae deditio . Che anzi è molto probabile , che nel
periodo, in cui i plebei non erano ammessi a far parte della citta dinanza, il
solo mezzo, che essi avessero per trovare protezione e difesa, fosse quello di
darsi a mancipio . Infine, allorchè il mancipium prese quella significazione,
eminentemente giuridica, per cui significa il complesso delle persone e delle
cose, soggette al capo di famiglia , anche il facere mancipium ricevette una
larghissima applicazione, per modo che la mancipatio verrà ad essere come il
perno, sovra cui si modellano tutti gli atti, che modificano in qualche modo il
potere del capo di famiglia (2 ). che non adoperano mai il vocabolo di nexus
per indicare il creditore, ma sempre per designare il debitore. Convien quindi
dire, che mancipium significò sempre la cosa soggetta o la trasmissione della
medesima, ed è anche questo il significato , che ha sempre conservato dipoi,
allorquando accade ancora di usare il vocabolo di mancipio. A ciò si può anche
aggiungere, che il vocabolo di capio nella sua significazione giuridica suole
sempre essere accompagnato dall'ablativo, come accade nell'usucapio ,
nell'usureceptio e simili. (1) A questo proposito è notabile il seguente passo
di Festo, Vº Quot.: Quot servi tot hostes in proverbio est, de quo Sinnius
Capito existimat esse dictum initio quot hostes tot servi» quod tot captivi
fere ad servitutem adducebantur » , BRUNS, Fontes, pag. 359. (2) Per la
larghissima esplicazione della mancipatio nel diritto quiritario è da vedersi
il Longo, La mancipatio, parte 14, Firenze, 1886. 206 165. Passando ora alla
manus iniectio , noi riscontriamo nella medesima un processo del tutto analogo.
Non può esservi dubbio che essa dovette essere dapprima il modo effettivo , con
cui il vinci tore afferrava il vinto , in base al diritto di guerra e lo
riduceva in schiavitù . Il suo concetto quindi nacque anch'esso nella lotta e
nella violenza ; ma poscia dai rapporti fra vincitori e vinti fu tra sportato
anche fra le persone, che appartenevano alla stessa co munanza e significò
l'esercizio privato delle proprie ragioni, come lo dimostra la seguente
deffinizione di Servio : manus iniectio di citur, quotiens, nulla iudicis
auctoritate expectata , rem nobis de bitam vindicamus. Pare però, che
quest'esercizio privato delle proprie ragioni, che non si può conciliare
coll'esistenza della pubblica autorità , non fosse riconosciuto dal diritto
quiritario, che in alcuni casi soltanto . Infatti nel diritto quiritario noi
troviamo la manus iniectio in due significazioni. Essa è il modo per trascinare
avanti al magistrato colui che invitato a venirvi siasi rifiutato ; ma in ciò
non havvi ancora un esercizio privato delle proprie ragioni, bensì un mezzo per
ottenere la presenza del convenuto avanti al magistrato . La manus iniectio
poi, nella legislazione decemvirale, è anche un mezzo di esecuzione contro il
proprio debitore ; ma in questo senso è solo ammessa in alcuni casi, cioè :
contro coloro che o abbiano confes sato il proprio debito (aeris confessi) ;
contro coloro che siano stati condannati (iudicati); o infine contro coloro,
che si siano ob bligati mediante il nexum (nexi). Ora di queste varie
applicazioni del diritto di esecuzione privata contro il debitore, quella, che
ri guarda gli aeris confessi ed i iudicati, suppone già un intervento
dell'autorità giudiziaria ; mentre quella, che riguarda il nexum , ri monta
certamente ad epoca anteriore alla formazione della comu nanza , il che fa
credere che la manus iniectio nelle proprie origini abbia avuto una stretta
attinenza col nexum (1). Cid miporge quindi occasione di discorrere brevemente
di esso e di dimostrare, che anche l'istituto del nexum è una di quelle
istituzioni primitive, che trovo solo applicazione nei rapporti fra il
patriziato e la plebe, e che poi entró a far parte del diritto quiritario. 166.
Il nexum è certo uno degli istituti, che diffonde una triste aureola sul
diritto primitivo di Roma. La sua origine è ignota ; ma (1) V.sopra , Cap. VI,
§ 3, n . 105-6, pag. 135 e seg . - 207 si può affermare con certezza , che essa
rimonta ad epoca anteriore alla formazione della comunanza romana: poichè la
tradizione già attribuisce a Servio Tullio dei provvedimenti diretti a limitare
gli effetti, che derivavano da esso . Lo stesso è a dirsi della legislazione
decemvirale, che lo suppone già esistente e si limita a trattenere in certi
confini i maltrattamenti contro il debitore. Fu poi notato a ragione dal
Niebhur, che il nexum con tutti i tristi suoi effetti apparisce soltanto nei
rapporti fra il patriziato e la plebe; per guisa che la sua abolizione si
riduce ad una specie di questione sociale fra le due classi; come è anche
dimostrato da ciò , che Livio consi derd l'abolizione di esso come una vittoria
della plebe sopra il pa triziato . Vero è, che questo fatto può anche essere
spiegato con dire che solo il patriziato era in condizione di fare degli
imprestiti alla plebe , e che perciò esso solo aveva interesse al mantenimento
di questo « ingens vinculum fidei » ; ma parmiche il carattere vero di questa
istituzione possa essere più facilmente spiegato , quando si cer chino le cause
, che vi hanno dato origine. Il nexum dovette essere un modo di obbligarsi di
colui, che , non avendo altre garanzie da offrire al proprio creditore,
obbligava direttamente la propria persona. Ora è questa appunto la condizione,
in cui si trovò il plebeo di fronte al patrizio , anteriormente alla
formazionedella comunanza romana, allorchè, sprovvisto di qualsiasi diritto ,
non aveva altro mezzo , per trovare protezione o credito , che o di dare a
mancipio se o la fa miglia , o di vincolarsi col nexum . Quello era una specie
di dedizione di se stesso e questa era una specie di ipoteca, che egli
consentiva sulla propria persona . Siccome poi, come si vedrà a suo tempo e
come del resto fu già ritenuto dal Niebuhr, il nexum non obbligava che la
persona, e non attribuiva qualsiasi diritto sui beni di esso ; cosi in parte si
comprende che il diritto del creditore sul debitore , sia stato spinto a quelle
estreme esagerazioni, che a noi riescono pressochè inesplicabili ( 1). 167.
Quanto al vocabolo poi non può esservi dubbio , che esso ebbe ad assumere
significazioni molto diverse. (Liv. VIII, 28 , in princ.: « Eo anno plebi
romanae velut aliud initium liber tatis factum est, quod necti desierunt » ; e
più sotto : « victum eo die ingens vin culum fidei. Cfr. Niebhur, Hist. Rom .,
III, pag. 375. Della portata e degli effetti del nexum , come pure del
mancipium , si discorrerà più sotto; poichè qui importava solo di cercare
l'origine dei vocaboli e dei concetti coi medesimi significati. 208 Anche qui è
probabile , che il nexum nella sua primitiva signifi cazione indicasse
veramente i vincoli, a cui sottoponevasi lo schiavo fuggitivo ; ma che poscia
dalla significazione letterale siasi fatto pas saggio alla significazione
giuridica . Tuttavia rimangono ancor sempre le traccie delle due
significazioni, in quanto che gli storici chiamano col vocabolo di nexi, ora
quelli che si trovano già condotti nel car cere privato del debitore, ed ora
invece i debitori, che si sono ob bligati colle forme solenni del nexum . Del
resto anche questo vo cabolo, al pari di quello dimancipium , significa non
solo il vincolo fisico o giuridico, a cui altri si sottopone, ma eziandio
l'atto con cui egli contrae il vincolo stesso (nexum facere). La conclusione
intanto viene ad essere cotesta, che tutti questi istituti più rozzi, che
appariscono nel primitivo ius quiritium , dovet tero aver avuto origine nei
rapporti fra i vincitori e i vinti, i quali trasformati in varia guisa furono
poi estesi anche ai rapporti fra il patriziato e la plebe. Sarebbe insomma
anche qui accaduto cið, che pure accadde delle altre istituzioni del diritto
quiritario , che esse si svolsero dapprima fra le varie genti o almeno fra i
diversi capi di gruppo e furono poiapplicate nei rapporti dei quiriti fra di
loro . Al modo istesso , che i concetti di connubium , di commercium e
dell'actio sacramento si spiegarono dapprima fra le varie genti ed i loro capi,
e solo più tardi si svilupparono nel diritto quiritario ; così i concetti del
mancipium , del nexum , e della manus iniectio , dopo essersi formati fra la
classe dei vincitori e quella dei vinti, ed essersi poi applicati ai rapporti
fra il patriziato e la plebe, si tra sformarono in istituzioni proprie del
diritto quiritario . Di qui il carattere di rozzezza, di violenza, inerente ai
medesimi, che rese necessaria la loro trasformazione ed anche il cambiamento
dei vo caboli, con cui furono indicati, a misura, che vennero sempre più
pareggiandosi le due classi, dopo che entrarono a far parte della stessa
comunanza civile e politica. 168. Che se, riassumendo, si volesse ora dare uno
sguardo sinte tico a quelle istituzioni esistenti fra le genti italiche,
anteriormente alla fondazione della città , che si vennero ricostruendo a poco
a poco , noi possiamo scorgere fin d'ora, che già si erano poste le basi
fondamentali del diritto pubblico, privato ed internazionale, che ebbe poi a
svolgersi in Roma. Quanto al diritto pubblico infatti, già erasi elaborato il
concetto del potere monarchico, di cui avevasi il modello nel capo di famiglia
; - 209 quello di un elemento aristocratico , che era rappresentato dal con
siglio degli anziani, proprio della gente; e quello infine di un ele mento
popolare e democratico, il quale già aveva cominciato a svolgersi nelle tribù e
a presentare quel dualismo fra patriziato e plebe, che doveva poi ricevere
nella città tutto lo svolgimento , di cui poteva essere capace. Furono questi
elementi che, accomodati alle esigenze della vita civile e politica, servirono
di base alla co stituzione primitiva di Roma e condussero naturalmente allo
svolgi mento dei poteri, che furono attribuiti al re , al senato ed al popolo.
169. Così pure quanto al diritto privato, già erano in pronto gli elementi
diversi, i quali,amalgamandosi insieme, dovevano porre le basi del diritto
civile di Roma. Eravi infatti un diritto proprio delle genti patrizie, che,
appoggiandosi da una parte sull'elemento religioso del fas e dall'altra sopra
l'elemento morale del mos, già aveva dato origine ai concetti fondamentali del
connubium , del commercium e dell'actio sacramento , ed aveva elaborato tutte
quelle forme tradizionali e solenni, in cui si fecero entrare a poco a poco i
nuovi rapporti giu ridici, ai quali diede occasione il formarsi e lo svolgersi
della convi venza civile e politica . Esisteva parimenti, ancorchè solo in via
di formazione, un diritto proprio della comunanza plebea , fondato so pratutto
sull'usus auctoritas, il quale, per essere più semplice nella sua forma, più
alieno dalle solennità , più libero da ogni influenza del passato poteva meglio
adattarsi alle esigenze della vita civile e po litica . Da ultimo già
cominciava ad elaborarsi un diritto , che non poteva dirsi proprio, nè del
patriziato, nè della plebe, mache ten deva a racchiudere in forme rozze e
primitive i rapporti, che inter cedevano fra di essi. Questo diritto era tutto
uscito dal concetto fondamentale della manus, in quanto esprime il potere del
capo di famiglia patrizio , ed aveva dato origine ai concetti del mancipium ,
del nexum e della manus iniectio, i quali, debitamente trasformati, si dovranno
poi convertire in altrettanti concetti fondamentali del diritto quiritario . È
quest'ultimo elemento, che attribuisce al ius qui ritium quel carattere di
rozzezza e di forza, che lo contraddistingue. Tuttavia fu esso che, isolando
l'elemento giuridico dall'elemento re ligioso e dal morale, con cui prima
trovavasi confuso , viene a for mare il primo nucleo di quel ius quiritium il
quale , assimilando col tempo istituzioni patrizie e costumanze plebee , finirà
per conver tirsi in un ius civile, che poteva convenire alle due classi, che
erano chiamate a far parte della stessa comunanza civile e politica . G. CARLE,
Le origini del diritto di Roma. 14 210 170. De ultimo, anche per quello che si
riferisce a quei rapporti, che con vocabolo moderno si potrebbero chiamare
internazionali, già erausi poste le basi di un ius belli ac pacis, e si erano elabo
rati i concetti dell'amicitia, dell'hospitium ,della societas, e del più
importante fra tutti , che era quello del foedus, il quale poi doveva
somministrare il mezzo per far partecipare più tribù alla stessa vita politica
, militare e giuridica, e per dare cosi origine alla città . Questa parimenti,
traendo profitto dagli istituti della cooptatio, della co lonia , della
concessio civitatis sine suffragio , del municipium , pos sedeva anche i mezzi
per accrescere la sua popolazione e per esten dere il proprio impero . I
materiali quindi erano in pronto : solo rimane a vedersi il pro cesso , col
quale Roma, gittandoli tutti nello stesso crogiuolo, abbia saputo scegliere ciò
, che in essi eravi di vigoroso e di vitale , e sia così riuscita a ricavarne
lentamente e gradatamente la propria co stituzione politica, e quel diritto
privato, il quale svolgendosi sempre sul medesimo modello e sempre
arricchendosi di nuovi elementi, finirà per diventare tale da poter essere
accettato da tutte le genti. Intanto una delle cause, che condurrà a questo
risultato , sarà la distanza stessa , a cui trovansi i due ordini, che debbono
insieme con tribuire alla formazione della città . Sarà tale distanza infatti,
che forzerá la costituzione di Roma a percorrere tutte le gradazioni, di cui
possa essere capace, e che obbligherà il diritto privato di Roma a riconoscere
la capacità di diritto ad ogni uomo, purchè libero . Per tal guisa tutte le
gradazioni del senso giuridico , dalle più semplici e naturali alle più sottili
e raffinate, cadranno sotto l'elabo razione dei giureconsulti, e l'universalità
del diritto romano dovrà sopratutto essere attribuita a ciò, che esso è la più
completa e pre cisa espressione di un complesso di sentimenti eminentemente
sociali ed umani, che nacquero e si svolsero insieme colla convivenza ci vile e
politica. - 1 LIBRO II. Roma e le sue istituzioni nel periodo esclusivamente
patrizio ("). CAPITOLO I. Genesi e carattere della città primitiva. 171.
Nella storia non vi ha forse avvenimento , il quale abbia eser citata maggiore
influenza sulle sorti dell'umanità che il passaggio dall'organizzazione
gentilizia alla comunanza civile e politica . Sotto quest'aspetto non sarà mai
abbastanza approfondita la storia pri mitiva di Roma, perchè non vi ha
certamente altro popolo , che abbia più vivamente sentito, e quindi più
profondamente scolpito nelle proprie istituzioni questa importantissima
trasformazione, che (* ) Pervenuto a questo punto della trattazione, trovomidi
fronte ad una lettera tura così copiosa , che mi sarebbe impossibile di poter
indicare la bibliografia , che può riferirsi ad ogni singolo argomento. Siccome
quindi l'intento del libro è quello unicamente di tentare una ricostruzione
delle istituzioni giuridiche e politiche di Roma primitiva ; così mi limitero
ad indicare in nota gli autori, di cui prendo in esame le opinioni, e i passi
di antichi scrittori, sui quali si fonda l'opinione da me sostenuta, e non mi
fard anche scrupolo di citare una traduzione, quando non tenga l'originale,
sopratutto di autori tedeschi. Quanto alla bibliografia , essa potrà essere
facilmente trovata nei recenti trattati di storia del diritto romano, o di
introduzione storica allo studio del diritto romano, quali sono in Francia
quelli dell' ORTOLAN, del Bouché -LECLERCQ, del Maynz, del MISPOULET, del
Roblou et Delaunay, del MORLot, ecc.; nel Belgio quelli del Maynz, del Rivier,
del WILLEMS, ecc.; in Ger mania quelli del Bruns, del BARON, del KARLOWA, del
Voigt, dell'HERZOG , ecc.; in Inghilterra quelli del MUIR EAD e del Roby; e
nella nostra Italia quelli del PA DELLETTI-Cogliolo, e del LANDUCCI, ecc.;
trattati, che ho citato già , o che mi occor rerà di citare in seguito. Mi
perdoni il lettore: ma la sola bibliografia, fatta un po ' a dovere , mi
avrebbe assorbito il volume. 212 accadde nell'organizzazione sociale . A ciò si
aggiunge , che lo spirito conservatore del popolo Romano ha fatto si , che esso
, modellando e svolgendo la città primitiva, abbia sempre conservato le traccie
delle istituzioni preesistenti, e dei periodi diversi, per cui passò la nuova
formazione. Di qui la conseguenza , che quando si riesca a penetrare il
processo logico , stato seguito dai Romani nella fondazione della loro città,
si potranno determinare con rigore geometrico non solo l'orientamento materiale
di essa, e il modo , con cui furono costrutte le sue mura ; ma eziandio la
serie di quei concetti fondamentali, che , preparati in un periodo anteriore,
ricevettero poi nella città tutto lo sviluppo, di cui potevano essere capaci.
Già si è veduto , come nella organizzazione gentilizia siasi svolta la famiglia
colla sua distinzione fra i padroni ed i servi, la gente con quella fra patroni
e clienti, e infine la tribù con quella fra patrizii e plebei. È da questo
punto dell'evoluzione sociale e da questo dualismo costante, che incomincia la
formazione della città . Trattasi pertanto di vedere in qual modo, con questi
elementi, che si erano naturalmente formati e sovrapposti gli uni agli altri,
abbia potuto essere iniziata la convivenza civile e politica. Fu questa una
continuazione del medesimo processo formativo dell'organizzazione gentilizia ,
o fu invece il risultato di qualche nuova energia o forza operosa , che si
introdusse nell'organizzazione sociale ? 172. Le teorie, che furono escogitate
in proposito dagli studiosi della storia primitiva di Roma, sono molte in
numero e diverse nei risultati a cui giunsero ; quindi per noi sarà necessità
di arrestarsi alle principali. Per il Mommsen, il Sumner Maine, e per la
maggior parte degli autori moderni, la città primitiva avrebbe nei proprii
esordii un ca rattere eminentemente patriarcale, e non sarebbe in certo modo,
che un ulteriore svolgimento della stessa organizzazione gentilizia ; essa
sarebbe un edifizio, le cui proporzioni si sono fatte più grandi, ma che è
foggiato sempre sul medesimo modello . A quel modo, che la famiglia ingrandita,
dando origine a diramazioni diverse, avrebbe costituita la gente , e che le
genti, riunendosi insieme, avrebbero dato origine alle tribù ; cosi
l'aggregazione delle tribù in un numero determinato, che sembra essere diverso
secondo i varii popoli, avrebbe dato origine alla civitas. Afferma pertanto il
Mommsen, che la famiglia e la gente non solo avrebbero somministrati gli
elementi, da cui fu costituita , ma anche il modello, sovra cui sarebbesi fog
--- - - 213 giata la comunanza civile e politica . Il re della città sarebbesi
mo dellato sul capo di famiglia, e avrebbe i poteri patriarcali al mede simo
spettanti; il senato non sarebbe che un consiglio di anziani, come lo prova il
nome di patres, dato per tanto tempo ancora ai senatori, e compierebbe nella
città quella medesima funzione, che il tribunale domestico compieva nella
famiglia , e il consiglio degli anziani nella gente e nella tribù ; il populus
non sarebbe che la riu nione delle gentes , per guisa che sarebbe cittadino
ogni individuo , che appartenga ad una di tali gentes ; e da ultimo il
territorio ro mano comprenderebbe i territorii riuniti, che appartenevano alle
varie gentes, le quali pertanto sarebbero incorporate nello Stato nella
condizione stessa, in cui prima si trovavano , e con tutte le fa miglie , che
entravano a costituirle ( 1). Tale a un dipresso sarebbe eziandio la teoria del
Sumner Maine, il quale si limita a dire , che come la tribù era stata una
riunione di gentes, cosi la città era dovuta all'incorporazione di varie tribù
(2). Il Lange invece, mentre si studia in tutti i modi per dimostrare, che lo
Stato e il suo ordi namento è fondato sulla famiglia , e che il diritto
pubblico di Roma sarebbe in certo modo uscito dal seno del diritto privato, e
sareb besi modellato sul medesimo, viene poi a riconoscere, che la città
primitiva è già fondata sopra una specie di contratto , il quale avrebbe
modificato i poteri patriarcali del re, e al principio dell'e redità avrebbe
fatto sottentrare quello dell'elezione (3 ). Il Jhering invece scorge nella
costituzione primitiva di Roma un carattere essenzialmente militare. Per lui il
re sarebbe un condottiero, un capitano , e il suo potere sarebbe, in sostanza,
un militare im perium , destinato sopratutto a mantenere la disciplina
nell'esercito , e percid accompagnato dal ius gladii ; la curia da conviria sa
rebbe una riunione di uomini armati, che si chiamano quiriti da quiris, asta ,
che è il contrassegno del potere aimedesimi spettante ; il populus romanus
quiritium sarebbe l'assemblea complessiva dei guerrieri, portatori di lancia ;
e infine le gentes stesse , in cui egli ritiene ancora che si dividano le
curiae, sarebbero gruppi naturali, basati bensì sulla discendenza , ma già
raffazzonati secondo le esi ( 1) Mommsen, Histoire Romaine. Trad . DeGuerle.
Paris, 1882, I, pag. 77 et suiv . (2 ) SUMNER MAINE, L'ancien droit. Trad .
Courcelle Seneuil. Paris, 1874, pag . 121. (3) Lange, Histoire intérieure de Rome.
Trad . Berthelot et Didier, Paris, 1885 , pag . 37 . 214 - genze di un esercito
; donde quel numero fisso di trenta curiae , in cui sarebbe ripartito il popolo
primitivo di Roma, le quali poi sareb bero suddivise in trecento gentes (1). A
queste vuolsi eziandio aggiungere la teoria , così splendidamente esposta dal
Fustel de Coulanges, secondo la quale quella religione, che avrebbe fondata la
famiglia e la proprietà , la gente e la tribù, sarebbe pur quella , che avrebbe
fondata e cementata la primitiva città. La civitas pertanto sarebbe per lui
l'associazione religiosa e politica delle famiglie e delle tribù ; mentre
l'urbs sarebbe il luogo di riunione, il domicilio, e sopratutto il santuario di
questa associa zione, nella quale ogni istituzione assumerebbe un carattere
essen zialmente religioso ( 2 ). 173. Non è a dubitarsi, che queste varie
opinioni contengano tutte alcun che di vero, e che ognuna possa invocare delle
analogie e degli argomenti, che le servano di appoggio ; ma intanto ciascuna di
esse , collocandosi ad un punto di vista esclusivo, mal pud riuscire a spie
gare in modo coerente la natura cosi varia e complessa della costi tuzione
primitiva di Roma: il cui concetto sembra sbocciare da una sintesi potente , la
quale non può altrimenti essere ricostruita , che riportandoci nell'ambiente
stesso , in cui essa ebbe a formarsi . È questo il motivo, per cui è
impossibile spiegare quel carattere di unità e di varietà ad un tempo, con cui
Roma compare nella storia , senza seguire la lenta e progressiva formazione
della città, e tener conto delle necessità reali ed effettive , a cui le genti
primitive cer carono di soddisfare, creando la comunanza civile e politica . Or
bene io non dubito di affermare che, collocandosi a questo punto di vista ,
apparisce fino all'evidenza, che la città per le po polazioni latine non può
essere considerata come una continuazione del processo formativo
dell'organizzazione gentilizia prima esistente ; ma inizia un nuovo ordine di
cose sociali, e segue un indirizzo ( 1) V. IHERING , L'esprit du droit romain .
Trad. Maulenaere. Paris, 1880, I, $ 20, pag . 246 e segg.; dove mette molto
bene in evidenza il carattere militare della primitiva costituzione romana, e
l'influenza che esso esercitò anche sullo svolgersi del suo diritto; alla quale
opinione in parte anche si accosta lo SchweGLER , Rö mische Geschichte, I, pag
. 523. ( 2) FUSTEL DE COULANGES, La cité antique. Paris, 1876. Liv . III, Chap.
IV , p . 155. È però a notarsi, che l'autore è a un tempo fra quelli, che a
ragione insistono sul carattere confederativo della città primitiva . Cfr. pag.
147. 215 . compiutamente diverso, il quale doveva logicamente condurre alla
dissoluzione dell'organizzazione sociale preesistente. Per verità si è veduto
più sopra, come le popolazioni latine, che avevano preceduta la fondazione di
Roma, già fossero pervenute ai concetti dell'urbs, del populus, della civitas.
Che anzi tali concetti, per le popolazioni del Lazio, erano già stati il frutto
di una lunga evoluzione. Esse avevano cominciato dal costruire dei siti
fortificati (arces, oppida ), in cui le comunanze rurali potessero cercare
rifugio nei momenti di pericolo , e in cui potessero ricoverarsi coi proprii
greggi e coi proprii armenti in un'epoca , in cui erano quotidiane le scorrerie
e le depredazioni nei rispettivi territorii delle varie co munanze. Il primo
bisogno pertanto , a cui le genti del Lazio ave vano cercato di soddisfare, era
stato quello di provvedere alla co mune difesa . Poscia, siccome la sicurezza è
condizione, che favorisce gli scambi ed i commerci, così fu naturale, che,
accanto a questi luoghi fortificati, si siano formati dei siti ( fora ), a cui
le genti convenivano per scopo di commercio , e dove, occorrendo, si tratta
vano anche le alleanze e le paci. Col tempo infine questa mede sima località
apparve anche sede opportuna così per l'amministra zione della giustizia, che
per la trattazione di quegli affari, che riguardassero l'interesse delle varie
comunanze (conciliabula ) (1). Per genti poi, in cui era vivo il sentimento
della religione, era naturale, che questa comune fortezza e questo luogo di
convegno (comitium ) fossero posti sotto la protezione di una divinità , non
propria di questa o di quella gente, ma comune alle varie genti ; e fu anche in
questa guisa, che le menti giunsero a concepire una reli gione collettiva al di
sopra di quella propria delle singole famiglie e genti. 174. Per tal modo il
concetto della città non sboccið di un tratto , ma ebbe ad essere provato e
riprovato in varie guise sotto forma di arces , di oppida , di fora, di
conciliabula , di comitia , e infine di urbes; e fu soltanto, allorchè questa
lenta costruzione ebbe ad essere compiuta, che i riti, secondo cui le città
dovevano essere fon date e la loro popolazione doveva essere ripartita ,
assunsero un (1) Questa idea , che è fondamentale nella presente trattazione,
ebbe ad essere accennata e dimostrata più sopra, nei suoi varii aspetti, nel
lib . I, ai numeri 5, 14 , 66 , 99 . - 216 - carattere sacro e religioso , per
modo che ogni fondazione di città ebbe ad essere accompagnata da cerimonie
religiose . L'urbs venne così ad essere il frutto di una lunga evoluzione, che
già erasi inco minciata in seno alla stessa organizzazione gentilizia . Essa
per tanto, fin dai suoi primordii, non si presenta sotto l'aspetto di una
aggregazione di gruppi gentilizii, come vorrebbero il Mommsen e gli autori
sopra citati; ma piuttosto come il frutto di una specie di selezione, per cui
dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia , si viene sceverando ed
isolando tutto ciò , che si riferisce alla vita pub blica . Quindi la città
primitiva viene ad apparire come un centro e un focolare di vita pubblica , fra
varie comunanze di villaggio, la cui vita domestica e patriarcale continua a
svolgersi nei vici e nei pagi. Di qui la conseguenza, che se essa sia
materialmente consi derata, cioè come urbs, non si presenta, nelle proprie
origini, come la riunione delle abitazioni private; mapiuttosto come la
riunione in una orbita sacra degli edifizi, aventi pubblica destinazione, come
la fortezza, il santuario comune, la dimora del re (custos urbis ) e dei
sacerdoti (sacerdotes populi), il luogo ( forum ) ove si tiene il mercato e si
am ministra la giustizia , il sito ove si tengono le riunioni (comitia ) per
deliberazioni di pubblico interesse ; donde la curia , il qual vocabolo designa
tanto il luogo di riunione, quanto il complesso delle persone che vi si
riuniscono . Che se poi la città primitiva sia riguardata negli ele menti, che
entrano a costituirla , essa non è più l'organizzazione delle gentes o delle
tribù , nelle quali si comprendevano anche le donne, i vecchi ed i fanciulli;
ma è solo il complesso di quegli uomini, ricavati dalle gentes e dalle tribù ,
che possano aver partecipazione attiva alla vita pubblica ; di quegli uomini
cioè, che possano difendere la cosa pubblica come soldati (iuniores), o che col
proprio consiglio possano giovare alla medesima nelle deliberazioni, che la
riguardano (se niores). L'urbs insomma è il risultato di una selezione, in virtù
della quale si raccolgono in uno stesso sito tutti gli edifizi, che hanno
pubblica destinazione; il populus è una selezione, per cui fra i membri delle
gentes si organizzano, in esercito ed in comizii ad un tempo , coloro, che
siano in età e in condizione di provvedere alla difesa ed all'interesse comune;
la civitas infine, è quel rapporto speciale, che intercede fra le persone, che
compongono il populus, in quanto esse appartengono alla medesima cittadinanza ,
e parteci pano alla stessa vita politica e militare . 175. La città latina
pertanto , e quindi anche Roma, che è un 217 esemplare tipico della medesima,
anzichè essere un'aggregazione di gentes e di tribus, corrisponde invece a un
nuovo aspetto di vita sociale: cioè al nascere ed allo svolgersi di una comune
vita poli tica , frammezzo a popolazioni rurali, che continuano ancora a svol
gere la loro vita domestica nelle comunanze patriarcali. Allorchè essa compare
, quella organizzazione gentilizia, che aveva prima com piuto le funzioni di
associazione domestica e politica ad un tempo, si viene biforcando : mentre la
vita privata continua a spiegarsi nelle pareti domestiche, ed in gruppi
concentrati sotto l'autorità del capo di famiglia , la vita politica invece
prende a svolgersi nella piazza e nel foro, e dà cosi origine a quelle
discussioni e a quelle lotte, che costituiscono la vita e il movimento della
città. Di qui la conseguenza, che la città , dopo aver ricavato gli elementi,
che entrano a costituirla , dalle comunanze che la circondano, finisce per
preparare la via alla estinzione dell'organizzazione gentilizia , e sopratutto
di quelle gradazioni di essa , che prima compievano eziandio una funzione
politica , quali sarebbero la gente, la tribù e la clientela . Le istituzioni
invece, che colla sua formazione vengono ad affermarsi e a costituire le due
basi dell'organizzazione sociale , sono i due elementi estremi, cioè: la
famiglia da una parte, la quale finisce per richiamare a sè medesima tutto
quello, che si riferisce alla vita domestica ; e la città dall'altra , poichè
essa , essendo la meta e l'aspirazione comune, tende ad attirare nella propria
cerchia tutte le energie naturali e sociali, che possono conferire a darle
forza e con sistenza . Di qui la conseguenza, che le due figure preponderanti,
negli inizii della città , vengono ad essere il pater familias, il quale è il
solo, che abbia piena capacità di diritto, ed il populus, il quale richiama a
sè tutti gli elementi vigorosi e vitali, che esistono nelle comunanze, che
colla propria federazione hanno dato origine alla città. Siccome perd l'opera
si viene compiendo gradatamente; cosi sarà necessario un lungo svolgimento ,
prima che la città si possa affatto spogliare di quelle forme, che essa ricava
ancora dall'orga nizzazione gentilizia , e prima che la famiglia possa perdere
quel carattere pressochè civile e politico , che essa aveva assunto durante il
periodo gentilizio . 176. Si può quindi conchiudere, che il processo formativo
della organizzazione gentilizia e quello della città si avverano in guisa com
piutamente diversa , e sono avviati in senso pressochè contrario ed opposto. -
218 Mentre il processo formativo dell'organizzazione gentilizia , in tutte le
sue gradazioni, consiste in una stratificazione di gruppi natu rali, che si
sovrappongono gli uni agli altri, e intanto continuano sempre ad essere
foggiati sul medesimo modello , che è quello della famiglia patriarcale; la
città invece non deve più la sua esistenza ad un processo di aggregazione , ma
ad un processo, che potrebbe chiamarsi diselezione. Essa non comprende più
tutta la vita sociale , come la tribù; ma tende invece ad isolare l'elemento
giuridico , po litico e militare dagli altri aspetti di vita sociale, che si
spiegavano strettamente uniti, e pressochè confusi gli uni cogli altri
nell'orga nizzazione patriarcale . Di qui derivano alcune importantissime
conseguenze. – Mentre l'organizzazione gentilizia , per quanto abbia già in sè
qualche cosa di artificiale, in quanto che in essa la famiglia deve anche
compiere funzioni politiche, può tuttavia ancora considerarsi come una pro
duzione naturale , come quella che è composta di gruppi uniformi, che si
sovrappongono gli uni agli altri, e il cui vincolo, vero o supposto, è pur
sempre quello della discendenza da un antenato comune; la città invece viene
già ad essere il frutto dell'accordo, del contratto , della federazione insomma
di varii elementi, che si associano per costituirsi un centro comune di vita
politica, e per provvedere così alla comune utilità ed alla comune difesa. Mentre
l'organizzazione gentilizia , comprendendo persone, che si suppongono derivare
da un medesimo antenato , tende a mantenere una proprietà comune e collettiva;
la città invece, uscendo dalla federazione e dall'accordo, tende ad assicurare
ai singoli capi di famiglia le possessioni e le terre, che loro appartengono,
solo se parandone quel complesso di beni e di interessi, che riguarda l'uni
versalità dei cittadini, il quale costituisce così un patrimonio co mune, che
col tempo sarà indicato col vocabolo di res publica. Mentre infine il principio
informatore dell'organizzazione gentilizia consiste nell'eredità e nella
discendenza , per guisa che in essa tutto tende ad acquistare un carattere
ereditario; il principio in vece informatore della comunanza civile e politica
, appena essa compare , viene ad essere quello della capacità e dell'elezione.
177. Tutto questo svolgimento della città primitiva, che solo erasi iniziato
presso le popolazioni latine, potè spingersi con Roma a tutte le conseguenze,
di cui poteva essere capace. Allorchè essa compare, il periodo di incubazione
della città può 219 . già ritenersi compiuto , e quindi le cerimonie, che ne
accompagnano la fondazione, già hanno assunto un carattere sacro e religioso .
È cogli auspizii, che incomincia la fondazione di Roma, per conoscere a quale
dei due fratelli debba essere affidata la fondazione e il reg gimento della
città . Tuttavia la Roma Palatina , finchè è contenuta. nei limiti dello
stabilimento romuleo, non pud ancora chiamarsi una vera e propria città ; ma è
piuttosto lo stabilimento fortificato di una aggregazione di genti, dedita di
preferenza alle armi, che è la tribù dei Ramnenses. Tutto è ancora patriarcale
nella medesima; il suo re, che è il sacerdote, il capitano, e che non è ancora eletto,
ma è designato dalla propria nascita e dagli auspizii ; i suoi anziani, i quali
non sono che i padri delle genti, che entrano a costituire la tribù ; e infine
anche il suo populus, che è composto ancora di persone, che si ritengono unite
dal vincolo della comune discendenza , come lo dimostra la loro stessa
denominazione di Ramnenses, derivata dal nome del proprio capo. Non è quindi
appena stabilitosi sul Palatino, che Romolo, secondo la tradizione, procede
alla costituzione politica della città . Secondo Livio, ciò accade soltanto
dopo la guerra coi Sabini, e secondo Ci cerone aspettasi perfino la morte di
Tito Tazio, capo dei medesimi(1 ). È da questo momento, che la città assume un
carattere federale e pressochè contrattuale. Le singole tribù infatti
continuano a risie dere ciascuna sopra il proprio colle, e ad avere delle
proprie forti ficazioni; ma è il Capitolium , che mutasi nella fortezza delle
varie comunanze, come pure gli edifizii pubblici si vengono raccogliendo nel
sito , che trovasi fra il Palatino ed il Capitolino. È quivi che è collocato il
locus Vestae, la domus regia Numae, le novae cu riae, da non confondersi colle
curiae veteres (2 ), il cui sito era sul Palatino, edifizii tutti, che, secondo
il rito , dovevano trovarsi nel cuore stesso della città . Non consta quindi
che le tribù confederate abbiano abbandonate le proprie possessioni e le
proprie terre; ma ciò, che esse ebbero comune fu soltanto la città ed il
governo di essa, come lo dimostra il fatto , che secondo la tradizione vi
sarebbe stato un breve periodo di tempo, in cui Romolo e Tazio avrebbero
(Livio, I, 13; Cic., de Rep. II, 8. Cfr. più sopra, i numeri 85, 86 . « Novae
curiae (scrive Festo) proxime compitum Fabricium aedificatae sunt, quod parum
amplae erant veteres a Romulo factae » . Tuttavia vi restarono an cora sette
curie, che continuarono a compiere i loro sacra nel sito antico (Bruns, Fontes,
pag . 346 ). 220 regnato contemporaneamente: il che significa , che ciascuno di
essi avrebbe conservato la qualità di capo della propria tribù. Non è quindi
meraviglia , se la città primitiva presenti ancora per qualche tempo le traccie
dell'organizzazione gentilizia, perchè il trapasso dalla semplice tribù ad una
vera e propria città si operò solo gra datamente . Intanto però la
trasformazione viene ad essere iniziata e proseguita senz'interruzione fin da
quel momento, in cui al vin . colo della discendenza si sostituisce quello
della federazione e del l'accordo, e alla trasmessione ereditaria sottentra il
principio del l'elezione. 178. A ciò si aggiunge, che Roma, fin dai proprii
esordii, si trovo in una condizione diversa da quella delle altre città latine
, da cui trovavasi circondata . Essa infatti non costitui soltanto un centro di
vita pubblica, frammezzo a varie comunanze rurali; ma diventò ben presto un
centro di vita urbana, contrapposta alla vita rustica dei campi. I suoi primi
fondatori, pur conservando i proprii agri genti lizii, avevano ottenuto nel
recinto stesso della città uno spazio di terra, ove avevano potuto costruirsi
una casa , circondata da un orto . Per tal guisa in Roma non eravi soltanto
l'elemento, che conveniva nei giorni di festa, o di pubbliche riunioni, o per
causa di fiera e di mercato; ma eravi una parte eziandio , e questa era quella
dell'antico patriziato, che, pur conservando la propria dimora gentilizia ,
aveva posta sede permanente dentro la città , o in prossimità di essa. Fu in
questa guisa , che Roma diventò ben presto , secondo l'espressione del Mommsen,
l'emporio del Lazio, e che, dopo aver cominciato , al pari delle altre città
latine, dall'essere un centro di vita pub blica fra diverse comunanze ,
cambiossi ben presto eziandio in un centro urbano , la cui vita si contrappose
a quella dei campi, e venne cosi accrescendosi costantemente, mediante
quell'attrazione, che i centri urbani esercitano anche oggi sulle popolazioni,
da cui tro vansi circondati. È questo che spiega come, durante lo stesso
periodo regio , Roma da sola già potesse conchiudere un foedus aequum con tutta
la confederazione latina, e come l'intento costante dei re sia stato quello di
estenderne la cerchia per guisa da comprendere in essa anche le abitazioni
private dei cittadini. Intanto agli altri dua lismi, che presenta Roma fin dai
proprii inizii, debbe anche aggiun gersi quello, per cuidistinguesi la vita
urbana dalla vita rustica; come lo dimostra il fatto che il patriziato romano
ha serbata sempre la consuetudine di passare un periodo di tempo fra le mura
della città , 221 e un altro invece alla campagna (ruri), frammezzo alle
proprie pos sessioni gentilizie : consuetudine, che anche oggi può dirsi
mantenuta dal patriziato romano. 179. Di qui la conseguenza , che Roma, in una
lunga e lenta evoluzione, poté compiere in ogni sua parte quello svolgimento ,
che solo erasi iniziato presso le altre popolazioni latine . Essa riusci a
sceverare la vita pubblica dalla privata , l'elemento sacro dal pro fano, la
vita urbana dalla vita rustica , la vita militare dalla vita civile; ed effigid
questi atteggiamenti diversi della vita sociale ed umana con un linguaggio così
efficace e scultorio, che nessun'altra città può in questa parte competere con
essa . Di queste varie distin zioni, quella , che cominciò ad effettuarsi fin
dal periodo di Roma esclusivamente patrizia, fu la distinzione fra la vita
pubblica e la vita privata; mentre la distinzione fra l'elemento sacro ed il
profano cominciò solo ad operarsi, allorchè la plebe, che non era partecipe del
culto gentilizio , fu anche ammessa a far parte della cittadinanza romana; e da
ultimo la distinzione fra la popolazione rustica ed urbana, solo prese a farsi
evidente, allorchè la città si accorse di essere in parte dominata dalla turba
forense . Infine il dualismo fra la vita militare e la vita civile è anche uno
di quelli, che appariscono costantemente nella storia di Roma, e che rimontano
fino agli inizii di essa . Il suo populus è un'assem blea ed un esercito ad un
tempo ; il suo magistrato ha l'imperium domi, militiaeque; i suoi cittadini
hanno un periodo di età , in cui partecipano al servizio attivo, e un altro, in
cui entrano a formare l'esercito di riserva ; gli atti stessi più importanti
della vita , quale sarebbe, ad esempio , il testamento , possono farsi in guisa
diversa , secondo che trattisi di cittadini in tempo di pace , o di soldati in
procinto di venire a battaglia ; la quale distinzione poi mantiensi co stante
per modo, che anche con Giustiniano il testamento pud distin guersi in comune
ed in militare. Per tal modo il cittadino di Roma è uomo di toga e di spada ad
un tempo , e si acconcia alle esigenze della pace e a quelle della guerra
(rerum dominos, gentemque togatam ). 180. Sopratutto qui importa di mettere in
evidenza quel dua lismo, che colla formazione della città venne ad introdursi
fra la vita pubblica e la privata ; in quanto che fu questo il grande intento ,
a cui si ispirò Roma primitiva, e a cui accennano costantemente i 222 poeti
latini, i quali non trovano espressione più efficace per indicare la corruzione
del costume, e il perdersi delle buone tradizioni, che l'accennare alla
confusione della cosa pubblica colla privata ( 1). È questo il dualismo
veramente fondamentale , che, una volta in trodotto, finisce per riverberarsi,
con un processo logico non mai in terrotto, in una quantità di altri dualismi,
che compariscono costan temente nelle stesse circortanze sociali, e che
potrebbero essere paragonati ad una voce, che con gradazioni diverse viene ad
es sere ripercossa e ripetuta dall'eco. 181. Per verità è ovvio il considerare,
come in seguito alla forma zione della città, accanto alla gentilitas, che era
il rapporto, che stringeva i varii membri dell'organizzazione gentilizia, si
svolga la civitas, la quale è il rapporto , che unisce coloro, che appartengono
alla stessa comunanza militare e politica. Quindi è, che alla distin zione fra
liberi e servi, fra gentiles e gentilicii, viene ad aggiun gersi e ad
acquistare un'importanza sempre maggiore quella fra cives e peregrini. Cosi
pure, accanto ai genera hominum , che sono sparsi nei pagi e nei vici, e che
comprendono senza distinzione tutti coloro, che si suppongono discendere da un
medesimo antenato, si svolge il concetto del populus, che dapprima non
comprende ogni ordine di persone, ma solo il complesso degli uomini validi ed
ar mati, che col braccio e col consiglio possono partecipare alla difesa ed al
governo della cosa pubblica . Procedendo ancora innanzi, accanto al concetto
della res fami liaris, che comprende il complesso degli interessi privati di
una de terminata persona, si esplica il concetto della res publica , il quale,
per essere più astratto, compare più tardi, che non quello del popu lus; ma
finisce anch'esso per esprimere con potenza ed efficacia il complesso degli
interessi comuni alla intiera città , ed a tutto il popolo (res populi).
Intanto così la res familiaris, come la res pu blica debbono avere un'autorità
che le governi, e mentre questa per la famiglia sarà indicata col vocabolo di
manus, nella sua signi ficazione più larga, per la repubblica invece sarà
indicata col vo cabolo di publica potestas. Che anzi i due poteri sono cosi
distinti ( 1) Per dimostrare l'importanza , che nel concetto romano ha la
distinzione fra il pubblico e il privato , basti citare il Trinummus di Plauto
, questa commedia, così profondamente morale, in cui, ogni qualvolta occorre
una censura contro i corrotti costumi, si lamenta sempre questo mescersi del
pubblico col privato . 223 fra di loro, che la subordinazione più estesa nel
seno della famiglia non toglie, che altri possa esercitare tutti i suoi diritti
come cit tadino, e partecipare come tale agli onori ed alle magistrature. La
distinzione poi, che è nella natura dei rapporti, viene natu ralmente a
riflettersi eziandio nel diritto , che è chiamato a gover narli. Di qui la
distinzione che, iniziata fin dalla formazione della città , viene col tempo
facendosi sempre più netta e precisa fra il diritto pubblico ed il diritto
privato; il quale ultimo, secondo il con cetto romano, non deve già essere
soffocato ed assorbito dal diritto pubblico , ma trovasi invece collocato sotto
la tutela e la protezione di esso . Non può quindi essere ammesso il concetto
del Lange, che in parte è anche quello del Mommsen, secondo cui il diritto
pubblico verrebbe in certo modo a modellarsi sul diritto privato : poichè il
processo che si segui in Roma si avverd invece in senso contrario ed opposto.
Non fu il diritto pubblico, che si modello sopra il pri vato; ma fu il diritto
privato, che venne svolgendosi in quella guisa e in quei confini, che erano
consentiti dalla costituzione politica della città . Quindi è che il diritto
privato di Roma non si formo di un tratto, ma venne svolgendosi gradatamente, a
misura che le esigenze della vita civile fecero sentire il bisogno del suo
ricono scimento . Ciò ci è dimostrato dal fatto , che fin dalle origini di Roma
noi possiamo trovare poste le basi di tutto il diritto pubblico di Roma, mentre
la vera elaborazione del diritto civile romano, co mune alle due classi del
patriziato e della plebe, incomincia solo più tardi. Prima si fondò la città ,
e poi si pensò alla formazione del suo diritto, ed è anche questo uno dei
motivi, per cui il diritto di Roma potè riuscire tipico ed esemplare per tutti
i popoli. Intanto, in prosecuzione del medesimo processo, anche la legge , che
è l'espressione delle volontà riunite e concordi, viene a distin guersi in les
privata ed in lex publica (1), di cui quella esprime l'accordo di due o più
contraenti, mentre la lex publica invece è l'espressione della volontà
collettiva del popolo, che si impone alla volontà dei singoli individui. Anche
i sacra vengono a subire la medesima distinzione; la quale pure si verifica per
cid, che si rife (1) La distinzione fra la lex publica e la lex privata è
accennata più volte da Garo in formole, che da lai ci furono conservate. Comm .
I, 3 ; II , 104 ; III, 174. Una delle modificazioni state introdotte dal
MOMMSEN nell'ultima edizione, Friburgi, 1887, da lui curata del Bruns, Fontes
iuris romani antiqui, fu quella di intito larne il capo terzo : Leges publicae
populi romani post XII Tabulas latae. 224 - risce agli auspicia (1). Lo stesso
infine deve dirsi dei crimina, i quali, a misura che si vengono delineando,
sono pure richiamati alla distinzione fondamentale di publica e di privata ,
secondo che il danno, che ne deriva , e quindi la prosecuzione di essi appar
tenga ai singoli individui, oppure colpisca ed interessi l'intiera co munanza ;
distinzione, che riflettesi eziandio nei iudicia , i quali fin da Servio Tullio
cominciano a dividersi in iudicia publica e pri vata . A queste si potrebbero
aggiungere ancora molte altre distin zioni, che son tutte il riverbero di un
medesimo concetto, che una volta accettato percorre l'intiera vita sociale e
lascia dapertutto le traccie del suo passaggio . È in questo senso , che le
proprietà si distinguono in due categorie, indicate coi vocaboli di ager pri
vatus e di ager publicus ; che i rapporti stessi, che possono correre fra
cittadini e stranieri, subiscono la stessa distinzione, cosicchè la societas,
l'amicitia , l'hospitium , il foedus si distinguono anche essi in pubblici e in
privati . Non è quindi meraviglia, se parlisi eziandio di costume pubblico e
privato, di virtù pubbliche e private , e se la distinzione si inoltri nei
particolari più minuti della vita , co sicchè anche i servi stessi si
distinguono in publici e privati, e chiamasi publicus l'equus, che è
somministrato dallo Stato agli equites, che vengono così ad essere denominati
equo publico . 182. Conviene quindi ammettere, che la distinzione dovesse es
sere profondamente sentita , se essa lasciò le proprie traccie in qual siasi
argomento . Non occorre poi di notare, che l'esplicazione dia lettica dei due
concetti, che qui si compendia in pochi tratti, dovette naturalmente essere il
frutto di una lunga evoluzione ; ma se questa potè accadere colla fondazione
della città , mentre prima non erasi avverata , la causa di un tal fatto deve
trovarsi in ciò , che la città non si propose di agglomerare genti e famiglie,
ma intese fin dapprincipio a sceverare la vita pubblica dalla privata . Che se
si volesse spingere più oltre lo sguardo sarebbe anche facile il dimostrare,
che la formazione della città cooperò eziandio allo svol gersi di sentimenti e
di affetti, che prima non riuscivano a sceverarsi (1) Quanto alla distinzione
dei sacra publica ac privata , è da vedersi Festo , vu Publica sacra ( Bruns,
Fontes pag. 358), stato già citato a pag. 43, nota nº 3 . Quanto alla
distinzione poi fra gli auspicia publica e gli auspicia privata , è da vedersi
Mommsen, Le droit pubblic romain . Trad . Girard . Paris, 1887, I, pag. 101,
cogli autori ivi citati in nota . 225 dagli affetti domestici e patriarcali. Fu
infatti la città , che, accanto agli affetti di famiglia ed al culto per gli
antenati, suscitò l'affetto per la propria terra , e il culto per coloro, che
si sacrificavano per essa , e quell'illimitato amore di patria, che informa
tutta la storia e tutta la letteratura di Roma, e che fece esclamare al
cittadino ro mano: dulce et decorum est pro patria mori. Fu essa parimenti, che
accanto al culto per i mores maiorum riusci a svolgere il concetto di una
legge, espressione della volontà comune, che doveva a tutti essere nota , e
costituire in certo modo la base e il fonda mento della comunanza civile . Fu
essa ancora , che, accanto alle tradizioni, che si serbavano gelosamente nelle
famiglie e nelle genti e si trasmettevano di generazione in generazione , diede
origine a quella narrazione dei fasti e degli avvenimenti notevoli per la città
, da cui doveva poi uscire la storia ; al modo stesso che, accanto al comando
del padre ed alla persuasione degli anziani, fece svolgere l'arte oratoria e
l'eloquenza, le quali più non si impongono per l'au reola religiosa, da cui
sono circondate, ma commuovono e trasci nano la moltitudine e la folla , a cui
si indirizzano . Fu essa infine, che, accanto alla narrazione delle gesta degli
eroi e dei principi, cantate nelle epopee primitive, rese possibile la storia
militare e po litica della città e del popolo, e pose anche in evidenza l'impor
tanza politica di quell'elemento, che chiamavasi plebe (1 ). 183. Dopo cið
parmi di poter conchiudere, che non può essere accolta l'opinione di coloro,
che considerano Roma primitiva come uno Stato patriarcale. « Lo Stato romano,
noi diremo con un re. cente autore, che è il Pelham , appartiene, quanto alla
sua struttura, ad uno stadio già molto più inoltrato dello sviluppo della
convivenza sociale e suppone innanzi a sè una lunga preparazione storica .
Certo esso conserva ancora le traccie di un più antico e più pri mitivo ordine
di cose; ma queste sono traccie di un periodo ormai trascorso , le quali
tendono sempre più a scomparire » (2). La supre (1) Per una più larga
trattazione dei mutamenti, che recò nella vita sociale il surrogarsi della
città all'organizzazione patriarcale, mi rimetto all'opera : La vita del
diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880 , nº. 34, pag. 94 e
segg., e alla dissertazione : Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza
civile e po litica . Torino, 1878 . (2 ) Pelham , vº Rome (ancient),
nell'Encyclopedia Britannica , ninth edition . Edinburgh, 1886 , vol. XX, pag.
731. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 15 - 226 - mazia dello Stato è
ormai stabilita sopra ciascuno dei gruppi, dalla cui confederazione esso è
uscito, e ciascuno di questi gruppi più non si mantiene, che come una
corporazione di carattere esclusivamente privato . In questa parte pertanto «
lo Stato Romano, come ben nota il Gentile , lascia a grande distanza la
monarchia delle popolazioni Orientali, ed anche quella delle primitive società
greche, la quale è ancora stretta da intimo vincolo colla divinità , da cui
ritiensi pro cedere, e che trasmettesi per eredità nei discendenti per sangue,
e signoreggia con assoluta potestà il populus od il demos, il quale è solo convocato
ad udire le decisioni sovrane e non mai a deliberare. Il principio invece della
sovranità popolare ed il diritto a partecipare all'amministrazione della cosa
pubblica con un voto direttamente esercitato , e il diritto anche di voto
nell'elezione dei reggitori dello Stato è fin dalle prime origini inerente alla
cittadinanza romana » (1). Il Re, fin dagli esordii della città, è la suprema
magistratura dello Stato , e questo è l'opera del volontario accordo dei
cittadini e dei capi di famiglia, che concorsero alla sua formazione, i quali ,
nella propria elezione, più non badano esclusivamente alla nascita ed alla
stirpe, ma cominciano a riguardare al valore ed alla sapienza dei proprii
reggitori. Sarà collocandosi a questo punto di vista , che non segue questo o
quell'elemento esclusivo, ma cerca di riguardarli tutti ad un tempo nel loro
progressivo sviluppo, che potrà riuscire più facile di com prendere i primitivi
elementi dello Stato romano, ed il carattere dei poteri, che lo governano. (1)
GENTILE, Le elezioni e il broglio nella repubblica romana , Milano, 1879, pag .
2 e 3. 227 CAPITOLO II. Gli elementi costitutivi del primitivo Stato Romano. §
1. – Cause del rapido svolgimento di Roma e della sua primitiva costituzione.
184. Le cose premesse hanno abbastanza dimostrato , come nella formazione
primitiva dell'organizzazione sociale domini una legge di evoluzione, non
dissimile da quella , che governa le formazioni naturali. Le traccie di essa
apparirono evidenti, allorchè fra i gruppi gentilizii si veniva lentamente
preparando e quasi sperimentando in varie guise la convivenza civile e politica
. Tuttavia questo concetto deve essere completato con osservare, che nella
storia delle cose sociali ed umane, ogni qualvolta sono preparati gli elementi
di una formazione novella , e questa trovi un terreno acconcio al proprio
sviluppo, gli elementi, di cui si tratta , sembrano richiamarsi l'un l'altro,
attirarsi scambievolmente, riunirsi per guisa , che la nuova formazione sboccia
tanto più rigogliosa e potente, quanto è più matura la preparazione di essa.
Per tal modo ad una lenta incuba zione può anche succedere una pronta e rapida
formazione: il che talvolta accade ancora a ' nostri tempi, e accadde
senz'alcun dubbio nella storia primitiva di Roma, allorchè la nuova città ,
dopo essere stata lungamente preparata , presentasi nella storia pressochè con
sapevole della propria destinazione. Tutte le incertezze sembrano essere
scomparse, e quasi si potrebbe dire con ragione, che la co stituzione primitiva
di Roma, al pari di Minerva, sembra uscire compiutamente armata dal cervello di
Giove. Se infatti si possono ancora scorgere delle incertezze, in quanto
riguarda la formazione di una religione, comune alle varie tribù, perchè questo
non è lo scopo essenziale, a cui Roma intende ; la costituzione politica di
Roma invece sembra in certo modo essere il frutto di una intuizione po tente,
tanta è l'armonia dell'edifizio , tanta l'efficacia e l'acconcezza dei
vocaboli, con cui si esprimono le singole istituzioni, tanto è il sentimento,
che ciascun organo del nuovo Stato ha di sè medesimo. e del contributo, che
deve recare all'opera comune. Noi ci troviamo 228 di fronte ad un popolo , che
con uno sforzo collettivo giunge a mo dellare ne' fatti un edificio, al quale a
stento potrebbe riuscire un pensatore, che raccolto nelle proprie meditazioni
cercasse di isolare da una quantità di materiali, posti a sua disposizione,
tutto ciò , che si riferisce alla vita politica , giuridica e militare. Tutte
le energie naturali e sociali sembrano concentrarsi in un'opera sola , e ben
può dirsi con Ennio e con Cicerone, che fin dai propri esordii : Moribus
antiquis res stat romana virisque. Secondo la tradizione, bastó un solo regno
per porre le basi di una costituzione , che richiese poi parecchi secoli per
svolgersi in tutte le sue parti (1): nè la tradizione pud essere così
facilmente respinta, come vorrebbe la critica moderna, in quanto che noi
difficilmente possiamo comprendere l'entusiasmo potente, da cui poterono essere
stimolati re, senato , sacerdozii e popolo, allorchè erano intesi tutti
all'attuazione di un grande concetto . 185. L'urbs, dopo la federazione delle
varie tribù , viene ad essere collocata in un sito , a cui hanno facile accesso
le diverse comunanze e trovasi così in tale posizione da potersi cambiare nel
l'emporio del Lazio. Essa per la prima, fra le comunanze italiche, da cui
trovasi circondata , l'ha rotta colle tradizioni, e si è formata mediante il
connubio di genti, che appartengono a stirpi e a nomi diversi. I padri, che si
riunirono per costituirla, hanno parentele ed aderenze nei territori contigui,
e probabilmente continuano a tenervi delle possessioni, e possono così
esercitare un'attrazione potente sulle popolazioni vicine, a qualunque stirpe
esse appartengono. Se a tutto ciò si aggiunge la fortuna della nascente città ,
la fortezza della sua posizione e delle sue mura, il carattere tenace e
perseverante de' suoi cittadini, che tutto aspettano dall'avvenire di essa ,
potrà lasciarci ammirati, ma non increduli il suo rapido incremento . Anche
lasciando in disparte il provvedimento, che viene attribuito a Ro molo , di
aver aperto un asilo ai rifugiati delle altre città , era na turale, che essa
dovesse cambiarsi in un asilo per tutti coloro, che « Vi. (1) Cic., de Rep .,
V, 1. È lo stesso CICERONE, che insiste più volte sul rapido svolgimento di
Roma all'epoca romulea , e fa dire fra le altre cose a Scipione: detisque
igitur, unius viri consilio non solum ortum novum populum , neque ut in
cunabulis vagientem relictum , sed adultum iam pene et puberem ? » (De rep.,
II, 11). Lo stesso pure appare dal racconto di Livio e di Dionisio. 229 si
trovassero spostati nella propria terra o nella propria organiz zazione
gentilizia . Il grande scopo dei fondatori era quello di fon dere insieme
questi elementi diversi e di unificare così la città , tanto nelle mura, che la
circondano, quanto nei concetti giuridici politici e militari, che servono a
stringerne insieme le parti diverse. 186. La cerchia delle mura e la sua compagine
interna sembrano cosi procedere di pari passo . I suoi fondatori già hanno una
lunga esperienza di cose civili e non ignorano anche i riti religiosi, da cui
deve essere accompagnata la fondazione di una città . Cominciasi pertanto dagli
auspizi, per conoscere « quod bonum , felix , faustum , fortunatumque siet
populo Romano» , e per tal modo anche la re ligione viene ad essere posta a
base della nuova formazione. Quanto alla sua costituzione interna, tutto sembra
essere preparato ed ac concio . I concetti politici di Roma primitiva, nella
loro sintesi po tente , possono essere paragonati a quei massi rozzamente
modellati, che sovrapposti gli uniagli altri formano la cerchia delle sue mura,
e che per il proprio peso e la propria quadratura non abbisognano di essere
cementati gli uni con gli altri. Essi non escono da una costituzione scritta :
ma erompono dalla stessa realtà dei fatti, e sono altrettante costruzioni
logiche e coerenti in tutte le loro parti, le quali, una volta accolte nella
costituzione, potranno essere svolte con rigore dialettico , fino a che non
abbiano ricevuto tutto lo svi luppo , di cui possono essere capaci. Le forme
esteriori delle istituzioni politiche di Roma sono bensì ricavate da
istituzioni analoghe, esi stenti nell'organizzazione anteriore , ma il
contenuto di esse viene ad essere determinato dalle esigenze della nuova città.
Quanto all'in tento, che la città si propone, esso è universalmente sentito , e
quindi non è meraviglia , se la nuova città proceda verso il proprio scopo con
l'ordine, con cui si dispiegherebbe un esercito , e se dei suoi fondatori possa
dirsi col poeta : cui lecta potenter erit res, nec facundia deseret hunc, nec
lucidus ordo (1). Per tal modo il concetto della città presentasi determinato
in tutte le sue parti, e si esplica con un rigore geometrico , che rende pos
sibile di rifare i diversi stadii, che ha dovuto percorrere. (1 ) ORAZIO, Ars
poetica. 230 187. La città è un edifizio nuovo, costruito con elementi tolti
dall'organizzazione gentilizia preesistente , i quali però, mirando ad un
intento novello , ricevono uno svolgimento compiutamente diverso . L'urbs è una
selezione dalle comunanze di villaggio circostanti, per cui tutti gli edifizii,
che hanno pubblica destinazione, sono con centrati in un medesimo sito; il
populus non è tutta la popolazione delle comunanze, ma il complesso dei viri,
che col braccio e col consiglio possono cooperare all'interesse comune; la
civitas non è più un vincolo di sangue, ma è determinata dalla partecipazione
alla medesima vita pubblica sotto l'aspetto politico e militare ad un tempo ;
il munus non è il complesso delle obbligazioni, che incom bono all'uomo come
tale, ma il complesso dei diritti e delle obbli gazioni, che derivano
dall'ubbidire al medesimo diritto e dal par tecipare alla stessa comunanza
civile e politica (1); la res publica non è la somma degli interessi de'
singoli cittadini,ma il complesso degli interessi, che riguarda l'universalità
dei cittadini, considerata come un tutto organico e coerente ; infine la lex
publica è il com plesso dei patti ed accordi votati nei comisii, in base ai
quali si conviene di partecipare alla stessa vita pubblica , e quindi per la
formazione di essa debbono concorrere tutti gli elementi costitutivi della
città . 188. Intanto perd nella formazione della città non può aversi altro
punto di partenza, che quello delle istituzioni preesistenti, per guisa che il
nuovo edificio richiama pur sempre l'antico, ma intanto la sua base è mutata ;
poichè mentre quello si reggeva sull'eredità e sulla discendenza, questo invece
si fonda sulla capacità e sull'ele zione ; mentre quello si fondava sul vincolo
del sangue, questo invece pone la sua base salda sopra un determinato
territorio, nel quale si fortifica e si chiude; mentre in quello ogni cosa
veniva ad essere determinata dall'età e dalla posizione naturale, che altri
tiene nella famiglia e nella gente, in questo invece le funzioni degli (1) «
Munus (scrive Festo, quale è restituito dal Mommsen nell'ultima ediz. del
Bruns, Fontes, pag. 344 e 3-15 ) dicitur administratio reipublicae, magistratus
alicuius, aut curae, imperiive, quae multitudinis universae consensu , atque
legitimis in unum convenientis populi comitiis, alicui mandatur per suffragia ,
ut capere eum eamque oporteat, et statim , certove ex tempore, certum usque ad
tempus administrare » , Qui però il vocabolo munus è preso in una
significazione più ristretta , che non quella che lo stesso autore vi
attribuisce, quando discorre del municipium . - 231 individui vengono ad essere
determinate dalla cooperazione, che possono recare alla città . Giovani debbono
esserne i soldati; anziani debbono esserne i consiglieri. — Solo potrebbe
trarre in inganno quel l'aureola religiosa , che sembra ancora circondare la
formazione della città ; maanche questa religione non deve più confondersi con
quella preesistente ; essa non è nè il fondamento , nè l'intento supremo, a cui
la città intende, come sembra sostenere il Fustel de Coulanges ( 1); ma è
soltanto una consacrazione dello scopo , che viene a proporsi la nuova
comunanza, politica e militare ad un tempo, e quindi anche la sua religione, i
suoi sacerdozii, i suoi auspizii hanno un carattere pubblico, e come tali si
contrappongono alla religione, ai sacerdozii, e agli auspicii delle singole
genti. $ 2 . Il populus e le sue ripartizioni (tribus, curiae, decuriae) . 189.
Anche le divisioni, che compariscono nella città, a prima giunta appariscono
come un riverbero di quelle , che esistevano nel periodo precedente e quanto
alla loro conformazione esteriore, sono veramente tali ; ma se si riguardano
più da vicino, si presentano con un contenuto, che già comincia ad essere
diverso e che tende a diventarlo sempre più . Così è certamente vero, che la
città viene ad essere divisa in tribu ; ma è evidente , che questa divisione in
tribů, trasportata nell'interno di una stessa comunanza , non può più
considerarsi come una distinzione del populus, ma tende di necessità a cam
biarsi in una ripartizione del suo territorio . Le tre tribù primitive,
ancorchè serbino per qualche tempo la denominazione antica , ten dono
necessariamente a trasformarsi in altrettante divisioni territo riali ; poichè
col mescolarsi degli elementi riuniti in una stessa co munanza, la distinzione
delle stirpi primitive finisce per non più corrispondere alla realtà dei fatti.
Come si potrà ancora parlare di una tribù di Ramnenses, di Titienses e di
Luceres, quando, per la comunanza di connubio e di diritto, le varie genti si
vengono me scolando insieme e nulla pud impedire, che le persone di una stirpe
possano anche trasportare la propria sede nel territorio dell'altra ? Si (1 )
FUSTEL DE COUlanges, La cité antique, liv. III, chap. 5 , 6 , 7. 232 comprende
pertanto, che fin dapprincipio i re tentassero di togliere di mezzo questa
distinzione, che solo ebbe a mantenersi ancora per qualche tempo in conseguenza
di quello spirito conservatore, che dimostrasi tenace sopratutto fra le genti
di stirpe Sabina, alle quali appunto apparteneva l'augure Atto Nevio . La sua
opposizione tut tavia non mutasi che in una dilazione, e la soppressione delle
an tiche tribù , se non di diritto , verrà ad essere operata di fatto da Servio
Tullio, che alla tribù fondata sulla discendenza sostituirà la tribù di
carattere territoriale , e sarà cosi conservato il nome antico per indicare una
istituzione compiutamente nuova. In questo modo infatti si sostituisce il
vincolo territoriale , a quello della discendenza, che prima era il solo ad
essere riconosciuto ( 1). 190. La distinzione invece, che è veramente
fondamentale per il populus, è quella per cui il medesimo viene ad essere
ripartito in curiae. Un tempo si è dubitato circa il carattere originario delle
curiae , e sull'autorità del Niebhur si è soventi sostenuto , che esse non
fossero , che aggregazioni di gentes, e che si ripartissero anzi in gentes (2
). Ora però comincia ad essere universalmente ammesso , che la curia può essere
una istituzione, la cui origine è forse an teriore alla comunanza romana, e che
poteva già essere conosciuta alle genti latine ed etrusche; ma che essa deve ad
ognimodo essere considerata come la base di tutte le divisioni politiche e
militari della città, finchè questa si mantenne esclusivamente patrizia . Essa
, al pari del populus, di cui è una suddivisione, costituisce una cor porazione
religiosa, politica e militare ad un tempo ; ha un proprio capo (curio); un
proprio sacerdote (flamen curialis ); un proprio culto , che fa parte dei sacra
publica ; un proprio santuario ( sacel um ); e tutte insieme riunite hanno
proprie assemblee, che pren dono il nome di comitia curiata . L'esattezza
stessa del loro nu mero già dimostra come questa divisione abbia un carattere
del tutto artificiale , e miri a uno scopo preordinato , che è quello di dare
(1) Del resto anche VARRONE, De ling . lat., IX, 9, parla della divisione
primitiva in tribù , come di una divisione piuttosto dell'ager che del populus.
Cfr. Karlowa, Röm . R. G., I, pag. 31, il quale anzi nota che la distinzione in
tribus, secondo Livio I, 13, si applicherebbe di preferenza agli equites . (2)
Niebhur , Histoire Romaine. Trad . Golbery. Paris, 1830 , II, pag. 19. Vedi in
proposito ciò, che si è detto parlando delle gentes nel lib . I, cap . III, al
nº. 28 e seg. e nelle note relative. 233 - ai quiriti, posti sotto la
protezione della religione, un ordinamento politico e militare ad un tempo, per
modo che essi sotto un aspetto possano costituire un'assemblea di quiriti, e
sotto un altro un eser cito di Romani. Quello viene ad essere il loro nome nei
rapporti interni (domi), e questo è quello, con cui sono designati nei rapporti
esterni ( foris, militiae). Nulla vieta, che imembri di una medesima curia
siano anche stretti da vincoli gentilizi fra di loro , e che essi, come attesta
Aulo Gellio , siano anche tratti ex generibus homi num (1) ; ma le curie sono
già composte di uomini scelti, di viri, diguerrieri armati di lancia (quiris),
di persone comprese in certi limiti di età , e quindi non possono più avere
colle gentes altro rapporto , salvo quello che da esse ricavasi il contingente,
che entra a costituirle . È quindi incomprensibile , che le curiae possano
ripartirsi in gentes, le quali comprendono indistintamente tutti coloro, che
derivano dal medesimo antenato, senza riguardo nè all'età , né al sesso . Solo
può dirsi, che i membri della curia possono essere considerati sotto un doppio
aspetto : o in rapporto colle famiglie , colle genti, colle tribù , da cui
ebbero a staccarsi, e sotto quest'aspetto essi continuano ad essere dei
gentiles ; o rimpetto al populus ed alla civitas, di cui entrano a far parte ,
e sotto questo aspetto sono dei viri, dei quirites, degli uomini di arme e di
consiglio , che non debbono avere altro pensiero , che quello della res publica
. 191. Quanto alla suddivisione in decuriae, che è solo accennata da Dionisio ,
essa non può certamente essere confusa colla riparti zione in gentes, come
avrebbe voluto il Niebhur ; ma può essere facilmente compresa, quando si
ritenga, che dalle curie usciva poi quel contingente, scelto e nominato dal re,
che doveva poi entrare a costituire le centurie dei cavalieri e le decurie dei
senatori. I (1) Aulo Gellio, Noctes Atticae, lib. XV, 27, ci conservò in
succinto tutta una teoria intorno ai comizii, che egli dice di aver ricavata
dal libro di Laelius Foelix , ad Quintum Mucium , e sarebbero parole testuali
di quest'ultimo le seguenti : « cum ex generibus hominum suffragium feratur,
curiata comitia ; cum ex censu et aetate, centuriata ; cum ex regionibus et
locis , tributa » . Fu anche fondandosi su questo passo, che si è sostenuto per
lungo tempo, che le curiae si dividessero in gentes ; ma parmi evidente, che,
anche ammettendo che genus in questo caso suoni gens, il medesimo non potrà mai
condurre ad altro risultato salvo a quello, che il contingente delle curie era
ricavato dalle genti e in base alla discendenza , mentre quello delle cen turie
era ripartito in base al censo , e quello dei comizii tributi in base alle
località o alle tribù , a cui erano ascritti i cittadini. 234 senatori (
patres) ed i cavalieri (celeres , equites) nella città primi tiva appariscono
come due corpi scelti nel seno stesso delle curie , e corrispondono in certo
modo alla divisione dei iuniores e dei se niores. I primi sono l'elemento
giovine, splendido nell'armi, che costituisce il corteggio del re e l'ornamento
della città (civitatis or namentum ), sotto il comando di un tribunus celerum ,
o di un magister equitum ; mentre il senato , nella concezione estetica ed
armonica della città primitiva , rappresenta l'elemento più maturo negli anni,
più saggio nel consiglio , e costituisce veramente il con siglio, da cui il re
è circondato (regium consilium ). Non vi ha poi dubbio, che l'uno o l'altro
elemento viene ad essere ricavato dal seno delle curie, e quindi è assai
probabile, che, nell'ordinamento simmetrico della città primitiva, ogni curia
potesse anche sommini strare un numero eguale di cavalieri e di senatori,
numero che dovette appunto essere quello di dieci per ogni curia ; donde il con
cetto , che anche le curiae si dividessero in decuriae. Del resto non avrebbe
nulla di ripugnante, che questa suddivisione esistesse vera mente nel seno
delle curie : mentre sarebbe in ogni caso incom prensibile, che le curie si
potessero suddividere in gentes (1 ). 192. Conchiudendo si può dire: che la
ripartizione in tribù , qualunque potesse esserne la significazione primitiva,
tende a cam biarsi in una divisione territoriale, ossia in una ripartizione del
l'ager; che il populus, ricavato per selezione dalle genti e dalle tribù,
dividesi in curiae, che sono corporazioni religiose, politiche e militari ad un
tempo, i cui quadri sono regolari, come quelli diun esercito , cosicchè riunite
possono costituire sotto un certo aspetto un esercito e sotto un altro aspetto
un'assemblea politica, e sotto altro assumono eziandio un carattere sacerdotale
, che fu quello (1) Che le decuriae non debbano confondersi colle gentes, ma
debbano invece ri cercarsi piuttosto negli equites e senz'alcun dubbio anche
fra i patres del senato, è provato anzitutto da ciò , che il senato fin dai
primi tempi si divideva senz'alcun dubbio in decuriae, il che dovette pure
essere degli equites, il cui corpo , secondo OVIDIO , Fast., III, 130
dividevasi appunto in dieci squadroni o turme, così chia mate « quasi turimae,
quod ter deni equites, ex tribus tribubus Titiensium , Ramnium , Lucerum
fiebant » ( V. Festo , vº Turmam ). Del resto la divisione del senato in de
curiae fu ancora mantenuta nelle coloniae e nei municipia , dei quali si sa ,
che erano organizzati sul modello stesso della metropoli. Cfr. in proposito
Belot, His toire des chevaliers romains, I, pag. 151, 152 ; e il Bloy, Les
origines du Sénat romain . Paris , 1883, pag . 102-105 . 235 - che serbarono
più a lungo, allorchè già avevano perduto le altre funzioni politiche e
militari ; che da ultimo il corpo scelto degli equites e dei patres dividesi in
decuriae. Questo è certo ad ogni modo, che nel populus non deve più essere
cercata la riparti zione in gentes, delle quali solo si può dire ciò , che
Cicerone disse più tardi della famiglia , che esse cioè erano il seminarium
reipublicae, perchè da esse ricavavasi il contingente, che entrava a costituire
le curie . § 3. — Il pubblico potere e gli aspetti essenziali del medesimo
(regis imperium , patrum auctoritas, populipotestas). 193. Intanto questo esame
del populus e della sua composizione può facilmente condurci a spiegare in qual
modo abbia potuto sboc ciare nel seno del medesimo il concetto del pubblico
potere , ed in quali forme esso siasi venuto manifestando. I vocaboli sono qui
una guida incerta , poichè il potere in genere viene ad essere indicato , ora
col vocabolo di potestas, ed ora con quello di imperium ; ma l'in certezza, che
è nei vocaboli, può essere tolta di mezzo, se si riesca a ricostruire il
processo logico , che in questa parte seguirono i Romani. Anche a questo
riguardo esistevano degli elementi , che già erano preparati
nell'organizzazione preesistente. Per unificare la città , presentavasi
acconcia la figura del padre; per consultarsi nei momenti più difficili , eravi
il consiglio degli anziani; e in fine per deliberare intorno alle cose, che
riguardavano il comune interesse, già si conosceva l'assemblea della tribù .
Erano così in pronto l'elemento monarchico, l'aristocratico e il democratico ;
nė ai fondatori della città patrizia poteva ripugnare, che queste con
figurazioni dell'organizzazione gentilizia fossero trasportate nella nuova
comunanza. L'imitazione dell'antico avrebbe conciliato rive renze alle
istituzioni novelle, e quindi tutte queste estrinsecazioni del potere, preesistenti
nell'organizzazione anteriore, ricompariscono nella città ; ma intanto il
concetto ispiratore viene ad essere com piutamente diverso . Il re infatti non
è più tale per nascita , ma è creato dall'elezione ; il che deve pur dirsi del
senato , e fino anche dei comizii del popolo, i quali non sono una moltitudine,
ne una folla , in qualsiasi modo congregata, ma costituiscono un esercito di
uomini di arme, ed un'assemblea , debitamente organizzata , di uomini di senno
e di consiglio . Il re, il senato ed il popolo, adu 236 nato nei comizii,
vengono così ad essere i tre organi essenziali, in cui si estrinseca il
pubblico potere nella costituzione primitiva di Roma. 194. Quanto al vocabolo
adoperato per significare questo supremo potere, la cosa è dubbia, poichè
occorrono in significazione generica ora quello di potestas, ed ora quello di
imperium . Dei due vocaboli tuttavia quello , che a mio avviso appare più largo
e comprensivo, è certamente il vocabolo di potestas, il quale , per la propria
ge neralità , può facilmente adattarsi ad indicare qualsiasi gradazione del
pubblico potere. Esso quindi si applica talora per significare il potere del
magistrato (potestas regia , consularis, censoria ); quello del popolo (populi
potestas) e talvolta eziandio quello del senato , al modo stesso che può anche
adoperarsi per significare il potere domestico e privato . Potestas insomma,
nella sua significa zione più larga, indica il potere, riguardato in tutte le
sue mol teplici manifestazioni; il che però non toglie , che, contrapponen dosi
talvolta lo stesso vocabolo a quello di imperium , possa anche assumere una
significazione più circoscritta (1). L'espressione quindi ( 1) Questa
incertezza di significazione fra potestas ed imperium è notata, fra gli altri,
dal KARLOWA, Röm . R. G., I, pag. 84, il quale trova eziandio, che il voca bolo
di potestas ha una significazione più generica. Così pure la pensa il MOMMSEN ,
secondo il quale il vocabolo di potestas esprime l'idea più larga , e quello di
impe rium la più ristretta ; sebbene ciò non tolga, che nel linguaggio corrente
il vocabolo di imperium siasi poscia riservato alle magistrature
maggiori,mentre si adoperò quello di potestas per i magistrati, che non avevano
imperium . Ciò risulta dal passo di Festo ivi citato : « Cum imperio dicebatur
apud antiquos, cui nominatim a populo dabatur imperium ; cum potestate est,
dicebatur de eo , qui negotio alicui praeficiebatur » . Le droit public romain
, I, pag. 24. Lo stesso autore poi osserva , che quel vocabolo di imperium , che
in un senso tecnico indicava in genere il potere del magistrato, in un senso
ugualmente tecnico e più frequente indicava il comando militare. Op. cit., I,
pag. 135. Parmi tuttavia, che queste apparenti incoerenze nella significazione
di questi vocaboli vengano a dileguarsi, quando si ritenga, che il vocabolo di
potestas indicava il potere pubblico in genere, mentre quello di imperium
usavasi di prefe renza per il potere del magistrato, e più specialmente ancora
per l'imperium militiae. Anche nell'indicazione del potere privato del capo di
famiglia accadde alcun che di analogo . Questo potere infatti in origine era
indicato col vocabolo generico dimanus o di potestas ; ma ciò non tolse, che
questi vocaboli abbiano poi designato i singoli aspetti di questo potere, cioè
la manus il potere del marito sulla moglie, e la po testas quello del padre sui
figli. Ciò significa , che i vocaboli presentansi dapprima con una
significazione più larga, che corrisponde al vigore sintetico di quei concetti
primitivi, di cui sono l'espressione ; ma quando poi questi concetti si vengono
diffe renziando nei varii loro aspetti, il vocabolo primitivo suol sempre
essere mantenuto per significare in modo più specifico uno di tali aspetti. 237
- più generale del potere viene ad essere quella di publica potestas; ma
siccome poi esso può atteggiarsi sotto aspetti diversi , così ben presto nella
indeterminazione primitiva , compariscono i vocaboli, che esprimono gli
atteggiamenti diversi, che il medesimo viene ad assumere. Tali sono i vocaboli
di imperium , che applicasi di prefe renza al potere del magistrato ; quello di
auctoritas, che sopratutto si accomoda al senato; e quello infine di potestas,
che, applicato al popolo , indica il potere di esso , in quanto iubet atque
constituit (1), Tutti questi concetti sono ancora vaghi ed indeterminati: ma
intanto sono concepiti in una sintesi potente , che renderà possibile a cia
scuno di ricevere uno svolgimento pressochè indefinito . 195. Ciò può scorgersi
anzitutto quanto al concetto di imperium , che indica di preferenza il potere
del magistrato. Il medesimo, nel concetto romano, non esce dalla nascita , nè
dalla investitura divina; ma esce dall'accordo delle volontà, che concentrano
ed unificano in esso il potere, che prima era disperso fra i singoli capi di fa
miglia , alla cui potestà trovasi talvolta applicato il vocabolo stesso di
imperium . Per esprimere un tal concetto non poteva esservi im magine più
efficace, che quella di raccogliere e di riunire quelle aste, che sono
l'emblema del potere spettante ai singoli quiriti (2 ). (1) Che il potere del
re e degli altri magistrati maggiori, che a lui sottentrarono più tardi, sia di
regola indicato col vocabolo di imperium , è cosa che appare da tutti gli
antichi scrittori. È poi sopratutto CICERONE, che accenna a queste varie distin
zioni, allorchè afferma che « potestas in populo, auctoritas in senatu est » .
De le gibus III, 12, § 28 ; distinzioni, che egli fa rimontare fino agli inizii
di Roma, in quanto che, parlando di Romolo, scrive : « vidit singulari imperio
et potestate regia tum melius gubernari et regi civitates, esset optimi
cuiusque ad illam vim do minationis adiuncta auctoritas » , nel qual passo il
potere regio viene efficacemente chiamato vim dominationis, mentre quello del senato
è indicato con quello di au ctoritas. De rep ., JI, 8 . (2) Magistratus, scrive
a questo proposito il Mommsen, è l'individuo investito di una magistratura
politica regolare, in quanto essa emana dall'elezione del popolo ( Le droit
public romain, I, pag. 8 ) ; e aggiunge poi a pag. 10 , che il magistrato ,
quanto alle forme esteriori, è appunto colui, che ha diritto di portare i fasci
dentro la città . Ora se il magistrato è l'eletto del popolo, e se i fasci, che
simboleggiano i poteri riuniti dei quiriti, sono l'emblema del suo potere, non
so veramente com prendere, come siasi potuto sostenere, in parte dallo stesso
Mommsen , che il re non riceva il proprio potere dal popolo : tanto più , che
gli scrittori antichi parlando del popolo usano le espressioni di imperium
dare, magistratum creare, iubere, sibi ad scire e simili. 238 Per tal guisa ,
dal fascio delle armi usci il fascio dei littori, e si frapposero in esso anche
le scuri, che simboleggiano quel ius vitae et necis, il quale apparteneva al
capo di famiglia , e non poteva perciò essere negato al capo della città . È
tuttavia degno di nota, che questo imperium , formatosi mediante la riunione
dei poteri spettanti a ciascuno , appena costituito apparisce pauroso per
coloro stessi, che ebbero a conferirlo, in quanto che le sue stesse insegne
esteriori ( fasces) indicano, come al disopra del potere dei singoli siasi
formato un potere collettivo, a cui tutti debbono inchinarsi. È questa la
causa, per cui, davanti ai fasci dei littori, si apre la molti tudine e la
folla per lasciare il passo a quel magistrato, il quale , mentre è il frutto
dell'elezione di tutti, viene ad essere imponente e pauroso per ciascuno ; e
che se il magistrato ordini al littore « col liga manus » , il cittadino non
osa sottrarsi al comando. 196. Intanto in questa prima concezione del potere
del magi strato , non si potrebbe certamente aspettare, che siano determinati i
confini, in cui il medesimo debba essere contenuto. La necessità di un elemento
unificatore è universalmente sentita , trattandosi di una città , che fin dalle
proprie origini era il frutto della con federazione di elementi eterogenei e
diversi ; né si può aspettare, che un popolo , il quale non pose dapprima alcun
limite al potere giuridico del capo di famiglia , possa cercare di mettere dei
confini alpubblico potere del magistrato. Il medesimo percid compare senza
limitazione di sorta ; è potere religioso, militare, politico e civile ad un
tempo ; ed è concepito in una sintesi cosi potente, che, secondo il Mommsen , per
ricostruire il potere primitivo del re, con viene in certo modo ricomporre quei
poteri, che si vennero poi di stribuendo fra tutte le magistrature più elevate
di Roma, quali sono il console , il pretore, il dittatore ed il censore ( 1).
Fu solo l'esperienza, che venne dopo, che fece conoscere come del potere possa
abusare anche un eletto dal popolo, e in allora si assiste ad una singolare
scomposizione del potere primitivo del re, per cui ogni sua particolare
funzione finisce per dare origine ad una ma gistratura speciale . Tuttavia ,
anche allora, cercherebbesi indarno una circoscrizione netta di qualsiasi
potere, cosicchè il magistrato ro mano, che può talvolta essere reso impotente
per un atto di minima ( 1) Mommsen, Op. cit., pag . 5 e 6 . 239 importanza,
viene ad avere un potere pressochè senza confini, al lorchè trovasi appoggiato
e sorretto dalla pubblica opinione. 197. Lo stesso è a dirsi della patrum
auctoritas. Anche qui occorre un vocabolo, che come quello di potestas ,
presentasi con significazione alquanto vaga ed indeterminata , e che trovasi
applicato eziandio, cosi in tema di diritto pubblico che di diritto privato .
Chi ben riguardi tuttavia non potrà a meno di notare, che il vocabolo
auctoritas, nella varietà delle significazioni, che sogliono essergli
attribuite, significa costantemente l'appoggio, l'approvazione, la ga ranzia ,
che si arreca o si assume per un determinato atto . Tale è la significazione
fondamentale di questo vocabolo, sia quando parlasi di iuris auctoritas, di
usus auctoritas, sia anche quando è questione di tutoris auctoritas, o del
venditore, il quale, dovendo garentire l'evizione al compratore, auctor fit
dirimpetto al medesimo. Or bene anche questa è la significazione del vocabolo
di patrum auctoritas. Da una parte havvi il re, che agisce ed esercita
l'imperium , dal. l'altra il popolo, il quale iubet atque constituit ; mentre
il senato trovasi nel mezzo, e cosi da una parte dà i suoi consilia almagi
strato, dall'altra auctor fit , cioè accorda la propria approvazione alle
deliberazioni del popolo (1). Esso componesi di persone, alle quali, per la
loro età e per il loro grado, si appartiene non tanto l'agere, quanto il
consulere, e quindi, senza avere propria iniziativa, completa in certo modo
l'opera dell'uno e dell'altro ; poichè per mezzo del senato le misure prese dal
re vengono ad avere l'autorità e l'appoggio del suo consiglio , e le delibera
zioni del popolo ricevono consistenza ed autorità , mediante la sua
approvazione . Finchè dura il periodo regio, il concetto si man tiene ancora
vago ed indeterminato ; ma durante il periodo repub blicano quest'autorità ,
essenzialmente consultiva , riceverà una lar ghissima esplicazione, e finirà
per penetrare in qualsiasi argomento; e quindi può affermarsi a ragione, che la
grandezza di Roma non fu (1 ) L'ufficio consultivo, che il senato compie
rispetto al re, è bellamente espresso da CICERONE, allorchè dice di Romolo : «
Itaque hoc consilio et quasi senatu fultus » . De rep., II, 8. Quanto poi
all'auctoritas, che il senato esercita rimpetto al populus, essa non può
certamente pareggiarsi coll' auctoritas tutoris dirimpetto al pupillo , perchè
non trattasi qui di integrare una personalità incompleta; ma bensì di recare il
sussidio e l'autorità, che viene dall'età e dall'esperienza , ai provvedimenti,
che ri guardano il pubblico interesse. Cfr. Karlowa, Röm . R. G., I, pag . 47 .
240 solo opera della fortezza del suo popolo , nè dell'energia del suo ma
gistrato, ma benanco della sapienza del suo senato. Per i Romani ebbe importanza
l'agere e il iubere; ma l'uno e l'altro dovettero essere temperati dal
consulere. 198. Intanto, dacchè sono in quest'argomento, importa qui di accen
nare alla questione tanto controversa , fra gli autori, circa la signifi
cazione da attribuirsi al vocabolo di patrum auctoritas : col qual vocabolo
alcuni intendono l'approvazione del senato ; altri invece l'approvazione, che,
durante i primi secoli della repubblica, i pa trizii delle curie dovevano dare
alle deliberazioni prese negli altri comizi; mentre altri infine ritengono, che
con esso intendasi l'ap provazione dei senatori esclusivamente patrizii (1 ).
Sembra a me, che la questione possa essere risolta in modo assai più naturale e
più verosimile, quando si abbia presente che, in una lunga evoluzione storica ,
quale è quella della costituzione politica di Roma, una stessa espressione può
in varii periodi di tempo anche assumere significazioni compiutamente diverse .
Durante il periodo regio , il vocabolo di patrum auctoritas significò
senz'alcun dubbio l'approvazione del senato; perchè nella città esclusivamente
patrizia erano chiamati col nome di patres i senatori, mentre gli altri capi di
famiglia costituivano il populus e l'assemblea delle curie . Più tardi invece,
allorchè, accanto ai comizii curiati, si vennero for mando anche i comizii
centuriati, ed anche i comizii tributi, il vo cabolo di patres o patricii potè
naturalmente comprendere tutto l'ordine patrizio, il quale costituiva veramente
l'ordine dei patres e dei patricii di fronte al rimanente del popolo , ed aveva
ancora una propria assemblea, che era quella appunto delle curie. Di qui (1)
Questa è una delle questioni più controverse, che presenti la storia politica
di Roma, e credo veramente, che la causa del dissenso provenga dalla supposizione,
che un medesimo vocabolo in una lunga evoluzione storica debba sempre avere una
medesima significazione. Le opinioni diverse sostenute dagli autori possono
vedersi riassunte dal WILLEMS, Le droit public romain , 5me éd ., Paris 1883 ,
pag . 208 e dal Bouché-LECLERCQ , Manuel des institutions romaines, Paris 1886,
pag. 16 , nota 1. Di recente la questione ebbe ad essere trattata con grande
chiarezza ed eradizione dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum nell'antica Roma
nelle sue diverse forme (Rivista di filologia , 1884, pag . 297 a 395. Così
pure ebbe nuovamente a trattarla il KARLOWA, op . cit ., pag. 42 a 48; il quale
finisce per associarsi all'opinione già soste nuta dal Rubino, che l'auctoritas
patrum debba ritenersi per l'approvazione dei se natori patrizii. 241 la
conseguenza , che d'allora in poi, per indicare l'approvazione del senato si
usd di preferenza il vocabolo di senatus auctoritas, in quanto , che il senato
aveva già cessato di essere composto esclusi vamente di veri patres, e
cominciava a raccogliersi fra gli equites e più tardi fra i magistrati uscenti
di uffizio (patres et conscripti); mentre il vocabolo di patrum auctoritas potè
servire acconciamente per indicare la ratifica, che i comizii curiati, composti
ancora dell'ele mento patrizio , dovevano dare alle leggi ed alle altre
deliberazioni, che fossero state votate nelle altre riunioni comiziali; il che
è dimo strato da ciò , che si usano promiscuamente le espressioni « patres o
patricii auctores fiunt » . Siccome però in questo periodo, il senato è ancora
essenzialmente l'organo del patriziato, così si comprende come posteriormente,
allorchè la necessità della patrum auctoritas era stata abolita , l'espressione
siasi talvolta adoperata per significare l'una o l'altra approvazione ( 1). ( 1)
Nella gravissima questione, che è tuttora aperta , gli unici argomenti, vera
mente saldi, di cui possiamo valerci, sono i seguenti: 1° Che l' auctoritas
patrum , durante il periodo regio esclusivamente patrizio, non potè significare
che l'approva zione del senato, come risulta dal racconto di Livio , relativo
all'elezione di Numa, ove i patres, qui auctores fiunt, non possono essere che
i senatori. Hist. I, 17 , ed anche da Cicerone, il quale, comesopra si è visto,
attribuisce l'auctoritas al senatus ; 2° Che colla Repubblica il senato
continuò senz'alcun dubbio ad approvare le deli berazioni curiate e centuriate,
ed anche tribute, in quanto che parlasi più volte di senatus auctoritas, come
risulta da Livio, XXXII, 6 ; IV , 46, ove i colleghi di Sestio di chiarano :
nullum plebiscitum nisi ex auctoritate senatus passuros se perferri ; 3º Che
oltre a questa approvazione del senato si parla sovente di patres o di patricii
auctores sopratutto da Livio , ogni qualvolta trattasi di proposta di un
interrex , o di qualche provvedimento voluto dalla plebe. Hist. III, 40 , 55 ,
59; IV , 7, 17, 42 , 43 ecc. Ora quest'ultime parole non possono più riferirsi
al senato, e quindi l'unica conclusione probabile viene ad essere, che, siccome
l'assemblea delle curie, composta di patricii, era in certo modo stata esclusa
dalla formazione delle leggi, la quale era passata invece ai comizii
centuriati, che erano la vera riunione del populus, così essa , accid ritenesse
sempre una parte nella formazione delle leggi, è stata chiamata a dare la
patrum o patriciorum auctoritas, che venne così ad essere distinta dalla
senatus au ctoritas. Cid fu una conseguenza della modificazione introdottasi
nella costituzione colla introduzione dei comizii centuriati, e del principio
ispiratore della costituzione primitiva , secondo cui, per la formazionedella
legge, richiedevasi il concorso di tutti gli organi politici dello stato . Ciò
che è accaduto dell'auctoritas patrum , si è pure verificato della lex curiata
de imperio, ed anche della proposta dell' interrex , che pure appartengono
all'assemblea esclusivamente patrizia , quale fu per qualche tempo ancora
quella delle curie; mentre il Senato, avendo anch'esso accolto in parte l'ele
mento plebeo, aveva seguito lo svolgersi della costituzione , e aveva così
cessato di G. CARLE , Le origini del diritto di Roma. 16 - 212 199. Viene
infine la potestas populi, e a questo riguardo io non dubito di affermare, che
essa nel concetto della costituzione pri mitiva di Roma, debbe essere
considerata come la sorgente di ogni altro potere . Alcuni autori trovano
ripugnante, che Roma sia sen z'altro pervenuta al concetto della sovranità
popolare, e quindi cercano di dare, come fondamento all'imperium del
magistrato, il concetto degli auspicia , che essi considerano come una specie
di investitura divina (1 ). Parmi invece, che la genesi dello Stato romano
essere esclusivamente patrizio. Insomma, coll'accoglimento della plebe nel
populus quiritium , il vero potere legislativo viene a portarsi nei comizii
centuriati; ma in tanto l'assemblea delle curie conserva l'auctoritas patrum ,
la lex curiata de imperio, e la proposta dell'interrex. Certo è una congettura
anche questa , ma mentre essa non contraddice ai passi degli antichi autori,
corrisponde allo spirito della costitu zione primitiva , in cui ogni organo
politico deve aver parte nella formazione delle leggi e nell'elezione del
magistrato, ed al sistema romano, che, pur introducendo un nuovo organo
politico, suole ancora mantenere per riverenza e per culto quelli, che
esistevano precedentemente. Il vero intanto si è, che queste varie funzioni
dell'as semblea delle curie non avevano più una vera ed effettiva influenza,
poichè la lex curiata de imperio divenne una semplice formalità, la proposta
dell'interrex era una reliquia del principio, che auspicia ad patres redeunt, e
la patrum auctoritas soleva solo essere negata, quando trattavasi di
opposizione d'interessi fra patriziato e plebe. Dovrò ritornare sull'argomento
nel Capitolo III, al § 1° e 2°, discorrendo dello svol gimento storico del
concetto di lex , e di quello dell'interregnum . Del resto delle opinioni poste
innanzi dagli autori quella, che parmi la meno probabile, è quella adottata dal
KARLOWA, che intende per patrum auctoritas l'approvazione dei soli senatori
patrizii, perchè essa non si concilia coll'espressione dei patricii auctores
fiunt, patricü coeunt, interregem produnt e simili, e perchè crea una divisione
nel senato, che è incompatibile col carattere di unità coerente, che ebbe
sempre questo corpo. Mentre l'assemblea delle curie diventava una soprav
vivenza dell'antica' costituzione, il senato invece si mantenne sempre vigoroso
e vi tale, e subì modificazioni analoghe a quelle del populus, senza mai
portare le traccie di dissidii che fossero nel suo seno , poichè la nobiltà
plebea , che entrava in esso, aveva già le stesse tendenze dell'antico
patriziato. Che poi il vocabolo di patres, in questo periodo, fosse venuto a
significare in genere l'ordine patrizio, è dimostrato in modo incontrastabile da
quella disposizione della legge decemvirale: « connubium patribus cum plebe ne
esto » , dove il vocabolo patres non comprende certo soltanto i senatori, ma
tutti i patrizü ; come pure dal fatto, che gli storici parlano soventi dei
iuniores patrum , la cui intransigenza è condannata dal senato. (1) Parmi, che
questa proposizione sia abbastanza provata dalle espressioni ado. perate dagli
autori per significare il potere del popolo. CICERONE, ad esempio, parla di
questo potere, dicendo che il populus regem sibi adscivit, creavit, iussit,
constituit ; espressioni, che indicano abbastanza, che la potestà suprema, a
suo avviso, risiedeva presso il popolo. Lo stesso è da lui confermato ,
allorchè nel discorso de lege agraria 2 , 7, 17 dice: « omnes potestates, imperia
, curationes ab universo populo romano 243 dovesse logicamente condurre al
risultato di riporre la sorgente del pubblico potere nella sovranità popolare,
circondandola però di quel l'aureola religiosa, che occorre in tutte le
primitive istituzioni di Roma. Lo Stato romano esce dalla confederazione e dal
contratto , e quindi al modo stesso , che la patria riceve la sua denominazione
dai patres; così il potere pubblico si forma mediante la riunione del potere,
che appartiene ai singoli quiriti, e che è rappresentato dalla lancia , di cui
essi sono armati. Quanto agli auspicia , che appar tengono al magistrato, essi
non mirano, che a dare una consacra zione religiosa al potere stesso, e a
metterlo in condizione di sapere giudicare, se questo o quel provvedimento , da
prendersi nel pubblico interesse, possa essere o non accetto agli dei. Che anzi
gli auspicia publica del magistrato debbono considerarsi essi stessi come una
trasmessione, che i padri fanno al magistrato di quegli auspicia , che
appartengono a ciascuno di essi. Cid è dimostrato dal fatto che, du rante
l'interregno , gli auspicia ritornano ai padri (ad patres re deunt auspicia );
il che significa, che in origine dovevano appartenere ai padri stessi, i quali,
nell'interesse delle loro genti e famiglie , as sumevano quegli auspicii, che
il magistrato romano doveva invece consultare , quando si trattasse di qualche
deliberazione importante per il popolo stesso . Tuttavia se ai patres tornano
gli auspicia , è però sempre al populus, che spetta di creare il magistrato ,
che debba succedere nell'imperium , come lo dimostra la tradizione, per venuta
fino a noi, della elezione diNuma. Si aggiunge, che è solo dopo il conferimento
dell'imperium , fatto mediante la lex curiata de imperio, che il re dapprima e le
magistrature, che gli sottentrarono più tardi, possono entrare nell'adempimento
del proprio uffizio. Ri tengo pertanto, che a questo proposito non possa essere
accolta l'opi nione del Mommsen, la quale riesce pure inammessibile per il Kar
proficisci convenit ». Lo stesso è indicato da Festo, allorchè parlando del
magi stratus cum imperio, dice, che esso è quello al quale « a populo dabatur
imperium » . Malgrado di ciò convien dire, che l'opinione contraria, come si
vedrà in seguito, ha la prevalenza presso gli autori anche recenti, che si
occuparono dell'argomento. Si accostano però al concetto da me sostenuto il
Mainz, Introd . au cours de droit romain . Bruxelles, 1876 , nº. 6 , pag . 33,
ed il GENTILE, Le elezioni e il broglio nella repubblica romana, il quale fino
dapprincipio afferma molto chiaramente e giusta mente, a parer mio , che « i
pastori della leggenda riconoscono Romolo per capo supremo; ma, pur
conferendogli la somma autorità , riguardano ancor sempre se stessi quali
depositarii, e quasi natural sorgente della sovranità » . 244 - lowa, secondo
la quale la lex curiata de imperio non conferirebbe l'impero , ma soltanto
vincolerebbe il popolo verso il re (1). Se cosi fosse infatti, il magistrato
dovrebbe poter esercitare il proprio ufficio , anche prima di aver ricevuto
questa specie di giuramento di fedeltà , che servirebbe ad obbligare il popolo
, ma nulla aggiungerebbe al suo potere. Il vero invece si è , che anche in
questa appare il carattere eminentemente contrattuale della costituzione primitiva
di Roma, per cui anche il conferimento del potere supremo si opera colla forma
propria della stipulazione, in quanto che havvi il magistrato , che prima di
entrare in ufficio rogat imperium , ed havvi il popolo, che con una legge glie
lo conferisce: e intanto l'uno e l'altro co noscono i diritti e le
obbligazioni, che una legge di questa natura può loro conferire. Una prova poi
di questo riconoscimento della sovranità popolare l'abbiamo per parte del
patriziato , in quel fatto di Valerio Pubblicola , che in tempo di pace e
dentro la città ordinava ai littori di abbassare i fasci, e di togliere
daimedesimi le scuri, come pure nel fatto , che gli imperatori, quando già si
erano fatti onnipotenti, sentirono il bisogno, per rispettare un tradizionale concetto
, di essere investiti dell'imperium dal popolo. 200. Intanto però il concetto ,
che il potere supremo risiedesse nel popolo , non poteva in nessun modo
affievolire l'imperium : poichè al modo stesso che il popolo doveva ubbidire
alle leggi, che si erano (1 ) Che il magistrato non possa entrare in ufficio ,
e tanto meno esercitare l'im perium , prima della lex curiata de imperio, è
provato da due passi di CICERONE, nei quali si dice : « consuli, si legem
curiatam non habet, rem militarem attingere non licet » (De lege agraria, II,
12, 30 ) e più genericamente ancora : « sine lege cu riata nihil agi per
decemviros posse » ( Ibidem , II, 11, 28). Dal momento quindi, che il concetto
dell'imperium dei consoli è in tutto identico a quello del regis im perium ,
non si comprende come il Mommsen , Staatsrecht, I, 588 s. possa ridurre la lex
curiata ad un semplice giuramento di fedeltà, che vincola i soli sudditi, e
meno an cora , che il Karlowa, op. cit., I, pag. 52 e 82 possa sostenere, che
la lex curiata de imperio non sarebbe entrata in azione, che colla costituzione
Serviana, ossia colla in troduzione dei comizii centuriati, i quali avrebbero
conferita la potestas, mentre i comizii curiati avrebbero poi conferito
l'imperium . Ciò è contraddetto ripetutamente da CICERONE, de Rep . II, 10, 17,
18 , 20, che parla appunto della lex curiata de imperio a proposito dei primi
re. Non solo deve negarsi , che questa lex entrò in azione solo colla
costituzione Serviana ; ma deve dirsi piuttosto, che essa da quel momento perde
della propria importanza e riducesi ad una semplice sopravvi venza dell'antico
ordine di cose, in cui erano i patres, che investivano il re del. l'imperium ,
e a cui ritornavano gli auspicia . - 245 da lui votate nei comizi, così esso
doveva eziandio inchinarsi al potere, che aveva conferito al magistrato per
mezzo di una pro pria legge. Che anzi questo potere riusciva tanto più efficace
ed imponente, in quanto si fondava sopra una volontà collettiva , che ve niva a
sovrapporsi alla volontà dei singoli. Ed è anche questo il mo tivo , per cui il
potere del magistrato romano veniva in certo modo ad essere senza confini,
finchè aveva l'appoggio della pubblica opinione . Fermo cosi il concetto della
costituzione primitiva di Roma, quale esce dalla logica delle istituzioni
(logica , che nel fatto dovette anche essere più rigorosa e coerente di quella,
che a noi possa esser riu scito di ricostruire ), riescirà più facile di
ricomporre insieme i cenni, che gli autori ci conservarono di questa primitiva
costituzione e di comprendere il vero ed intimo significato della
medesima. § 4 . Il re ed il regis imperium . 201. Dei concetti politici
del periodo regio, quello che presentasi modellato in modo più vigoroso e
potente è certamente il potere del rex . Tutti i poteri infatti, che nel
periodo anteriore, presso le genti latine, erano indicati coi vocaboli di
magister populi, di magister pagi, di dictator , di praetor , di iudex
appariscono fusi e concentrati nella concezione sintetica del regis imperium .
Per tal modo il con cetto del rex da una parte inchiude la sintesi di tutte le
manifestazioni del potere , che eransi avverate nel periodo gentilizio , e
dall'altra è il punto di partenza,da cui prendono le mosse tutti i poteri, che,
durante il periodo repubblicano , saranno poi affidati alle diverse
magistrature maggiori. Il rex nel concetto romano è l'unificazione potente del
populus; accoglie in sè la somma dei poteri, che possono essere necessarii
nell'interesse della cosa pubblica ; nė vi ha costituzione scritta , che gli
prescriva alcun limite nell'esercizio dei medesimi. Cid però non toglie, che
questi limiti esistano di fatto nel costume pubblico e privato; nel bisogno
incessante, che il re ha dell'appoggio della pubblica opinione; ed anche negli
imbarazzi, che gli possono creare i padri, ogni qualvolta egli volesse spingere
troppo oltre la propria azione. Capo del populus, egli è custode eziandio della
città spiega la vita pubblica (custos urbis), e deve avere la propria casa nel
cuore stesso della città , accanto al sito , ove deve bru 246 ciare perenne il
focolare della vita pubblica , che si conserva nel tempio di Vesta . Che se,
per provvedere al pubblico interesse , debba abbandonare la città , dovrà
lasciare nella medesima un proprio delegato , che prenderà il nome di
praefectus urbis. È quindi anche il re , che provvede al lustro esteriore della
città , che progetta e costruisce quelle opere grandiose, che già rimon tano
all'epoca regia , e che non furono le meno durature fra quelle costruite
nell'eterna città . È nella successione dei re parimenti, che può scorgersi una
continuità nel grandioso intento di ampliarne le mura e le fortificazioni;
lavori tutti, le cui reliquie dimostrano abbastanza, come trattisi di un
concepimento, che già presentatosi ai primi re , ebbe poi ad essere continuato
da quelli, che vi suc cedettero, non eccettuato quello , che aspird alla
tirannide . 202. Cid quanto alla custodia materiale dell'urbs. Che se si con
sidera dirimpetto al populus, il re, condottiero di un popolo , che è ripartito
in curie, le quali hanno un carattere religioso, militare e politico ad un
tempo, riunisce in sè tutti questi caratteri. Finché dura il periodo regio, il
magistrato non è solo il capo dell'esercito (impe rator) od il magister populi,
o il giudice cosi in tempo di pace che in tempo di guerra, ma è anche il sommo
sacerdote del popolo romano. Esso è augure sommo, e tale appare Romolo stesso ;
è pontefice massimo, come lo dimostra il fatto, che questa ' magistratura sacer
dotale del popolo romano compare soltanto colla repubblica , allorchè sentivasi
già il bisogno di limitare in qualche modo il sovrano po tere, disgiungendone
la parte che si riferiva alla religione, la quale ebbe ad essere ripartita fra
il pontifex maximus ed il rex sa crorum ; e fino a un certo punto esso è ancora
il pater patratus del popolo romano, come lo dimostra il fatto, che nelle
descrizioni dei più antichi trattati sono i capi dei due popoli, che vengono
alla stipu lazione del foedus e al compimento solenne delle cerimonie del ius
foederale o foeciale, mentre gli eserciti si limitano a salutarsi re
ciprocamente, e così approvano tacimente l'opera dei proprii capi (1). Verò è ,
che già fin dal periodo regio noi troviamo l'istituzione dei collegii
sacerdotali, ma questa creazione è opera del re stesso , nè essi hanno, anche
nella città patrizia, alcuna partecipazione diretta all'e (1) Ciò appare dal
seguente passo di Livio, I, 1, a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri :
« inde foedus ictum inter duces, inter exercitus salutationem factam » . - -
247 sercizio del pubblico potere; ma sono soltanto, come si dimostrerà a suo
tempo, depositarii e custodi delle tradizioni giuridiche, politiche ,
internazionali delle genti e delle tribù , da cui essi sono tolti, e aiu tano
così il re nella opera di unificazione legislativa , che dovette essere urgente
cosa e difficile negli inizii di Roma, per trattarsi di città , che risultava
dalle confederazioni di genti, che appartenevano a stirpi diverse (1). Vero è
parimenti, che durante il periodo regio già appariscono altre cariche, quali
sono quelle del tribunus celerum , dei quaestores parricidii, e deiduumviri
perduellionis ; ma anche questi non sono che ufficiali dipendenti dal re, e da
lui nominati . Di qui la conseguenza, che è solo il re o qualche suo delegato ,
che può essere preceduto dai fasci dei littori e dalle scuri, simbolo del
pubblico potere. È esso parimenti, che solo può convocare il popolo e il senato
, salvo che egli deleghi questo potere al tribunus celerum o al praefectus
urbis (2) . È quindi vero , che colla creazione del regis imperium si rias
sumono in una sintesi potente tutte le manifestazioni del magi stratus nel
periodo gentilizio, e si inizia lo svolgimento di tutti i poteri, che possono
convenire ad una comunanza civile e politica. Nel rex insomma, per usare una
espressione dello Spencer, termina l'integrazione del potere preparatasi nel
periodo gentilizio , e da esso incomincia quella differenziazione del potere
pubblico , che dovrà poi operarsi nella città . 203. Per quello poi, che si
riferisce ai poteri che sono inchiusi nell'imperium regis , indarno si
cercherebbero quelle decise ripar tizioni, che compariranno più tardi.
L'imperium regis è una con cezione logica , più che l'opera di una costituzione
scritta, e quindi egli può compiere tutto ciò , che può essere indicato coi
vocaboli di agere, di ius dicere, di rogare, di imperare. Egli deve pren dere
norma più dalla funzione, che è chiamato a compiere nella città , che non da
una precisa e particolareggiata determinazione del ( 1) Quanto al compito dei
collegi sacerdotali in Roma primitiva , mi rimetto a quanto avrò a dirne in
questo stesso libro, capitolo IV , § 2º. (2) Secondo il LANGE, Histoire
intérieure de Rome, pag . 115, sarebbe, valendosi di questo potere, che Giunio
Bruto , come tribunus celerum o Spurio Lucrezio Trici pitino , quale praefectus
urbis, avrebbero convocato il popolo, dopo la cacciata dei Tarquinii:
quantunque sia probabile, che in circostanze del tutto eccezionali non siasi
forse pensato all'adempimento di tutte le formalità. 248 proprio uffizio.
Tuttavia già fin da quest'epoca nel potere regio si possono distinguere
atteggiamenti diversi , che cominciano a diffe renziarsi mediante i vocaboli di
auspicia, di imperium domi, e di imperium militiae . A lui quindi si appartiene
di assumere gli au spicii , allorchè trattasi di qualche deliberazione, che si
riferisca al pubblico interesse , cosicchè, già fin da questo periodo, gli
auspicia publica si vengono a distinguere dagli auspicia privata . Nell' as
sumere tali auspicii potrà valersi dell'opera degli auguri , ma a questi solo
si appartiene la custodia dei riti e il compimento delle cerimonie
tradizionali; mentre è al re stesso, che si appartiene di giudicare se essi
siano favorevoli o non lo siano (1). Così pure ha l'imperium domimilitiaeque,
col quale incomincia una distinzione, le cui traccie si perpetuano per tutta la
storia politica e militare di Roma. Per verità , se i Romani credettero di
porre dei confini al l'imperium nei confini della città , e vollero che i
consoli, entrando nella medesima , facessero togliere le scuri dai fasci , e
facessero abbassare anche questi , allorchè concionavano il popolo, compresero
però la necessità, che le scuri fossero rimesse nei fasci, e che la provocatio
ad populum fosse tolta di mezzo , allorchè si trattava di mantenere la
disciplina dell'esercito ; quasi si potrebbe dire, che a Roma il re o il
magistrato rogat in tempo di pace, e imperat in tempo di guerra . In virtù
dell'imperium militiae, egli fa la leva (delectus) ed è capitano supremo in
tempo di guerra (2 ): nè può ammettersi l'opi nione, secondo cui il re sarebbe
il duce della fanteria , mentre il tribunus celerum sarebbe quello della
cavalleria, in quanto che quest'ultimo non è che un ufficiale da lui stesso
nominato, e quindi, sebbene guidi il proprio drappello, che forma il corteggio
militare del re, deve però sempre dipendere dagli ordini del capo supremo. In
virtù poi dell'imperium domi, il re convoca i comizi : ra duna il senato ; amministra
giustizia , non nella propria casa, ma all'aperto , in cospetto della
cittadinanza ; propone le leggi; e (1) Cfr. Mommsen, Le droit public romain , I
pag. 119, ove discorre della proce dura seguìta nel prendere gli auspicia , e
del compito affidato agli auguri. (2 ) Sulla distinzione fra l'imperium domi e
l'imperium militiae è da vedersi la trattazione magistrale del Mommsen, op. cit
., I, pag. 68 e 69 e sui poteri compresi nell'imperium militiae, ivi, pag . 135
e 157. Non occorre però di notare, che tutti questi poteri nell' epoca regia
sono, per dir così, allo stato embrionale, e solo più tardi ricevono tutto lo
sviluppo, di cui possono essere capaci. 249 infine nomina i cavalieri e i
senatori. Al qual proposito mi fo lecita la congettura, già accennata più
sopra, che nella costituzione primitiva di Roma i senatori ed i cavalieri , i
quali finirono poi per mutarsi in due classi o ordini sociali, indicati coi
vocaboli di ordo senatorius e di ordo equestris, furono due corpi scelti , in
base a un numero determinato , dall'assemblea delle curie . I primi scelti fra
i giovani, splendidi nella propria armatura, formano la corte militare del re;
mentre i secondi, scelti fra gli anziani, ne costitui scono il consiglio ;
donde la naturale distinzione, in cui vennero ad essere posti l'uno e l'altro
ordine, e le lotte perfino di prevalenza, che poterono esservi fra i medesimi,
allorchè l'uno e l'altro già eransi profondamente trasformati. Un indizio di
cið l'abbiamo in questo , che negli inizii di Roma sembra esservi una
correlazione fra il numero degli equites e quello dei patres , col numero delle
curie ; correlazione , che non tardd a scomparire, in quanto che il numero
degli equites si accrebbe coll'aumentare delle legioni, mentre il numero dei
patres si arrestò a trecento, fino agli ultimi anni della Repubblica. Di più il
senato costituisce un organo politico dello Stato, il che non può dirsi degli
equites , i quali hanno solo il pri vilegio di essere i primi chiamati a dare
il proprio voto (sex suf fragia ) nei comizii centuriati, al modo stesso, che
anche più tardi hanno, al pari dei senatori, un posto distinto nel circo per
assi stere ai pubblici spettacoli ( 1). 204. Questo è certo ad ognimodo, che
nella costituzione primitiva di Roma il re appare come l'elemento più operoso
ed intraprendente, per modo che la tradizione finisce per attribuire tutto
all'opera personale del re. Egli impone tasse , distribuisce terre , costruisce
(1) Parmi di scorgere un accenno all'idea qui svolta nel PANTALEONI, Storia ci
vile e costituzionale di Roma, I, nel IV ed ultimo appendice, ove discorre
dell'isti tuzione dei cavalieri a Roma e dell'ordine equestre. È poi Livio , I,
35, che parla dei « loca divisa patribus equitibusque » nel circo; altra prova
questa, che essi formavano fin dagli inizii due ordini distinti dal resto del
popolo delle curie. È poi degna di considerazione l'idea dello stesso
Pantaleoni, secondo cui gli equites costituiscono non solo un militaris ordo,
ma anche un ordo civilis, in quanto che ciò serve a spiegare, come essi abbiano
poi potuto trasformarsi nel l'ordo equestris. Del resto questo carattere
militare e civile ad un tempo è inerente a tutto il popolo delle curie, e a
tutte le istituzioni primitive di Roma, eccettuato il senato ; sebbene siavi
chi attribuisce anche al senato un'origine militare. LATTES, Della composizione
del senato (Mem . Istituto Lombardo, 1870 ). 250 - edifizii . Può darsi, che la
tradizione colla sua tendenza a semplifi care e a sintetizzare i processi
seguiti, e a concentrare in un solo l'opera dei molti, abbia in questa parte
esagerata l'opera personale del re ; ma ad ogni modo, quando si consideri che
il primo periodo di Roma fu essenzialmente un periodo di unificazione dei varii
ele menti, che concorrevano alla formazione della città , si dovrà sempre
riconoscere, che la parte più operosa nel compito comune doveva appartenere a
quell'elemento , che era chiamata ad unificarle . Allorchè trattasi della
formazione di una città ( e si potrebbe anche dire di uno Stato e di una nazione),
importa sopratutto l'agere; soltanto si potrà fare una parte maggiore al
consulere, allorchè si tratterà di provvedere all'amministrazione interna, o a
quella delle provincie; sarà infine soltanto , allorchè saranno ferme le basi
della grandezza dello Stato , che potranno svolgersi largamente il iubere e il
constituere. Cid intanto prova ad evidenza che il potere del re in Roma pri
mitiva aveva già assunto un carattere essenzialmente politico e mi litare, come
quello , che conteneva in germe tutti quei poteri essen zialmente politici, che
furono poscia affidati a magistrature diverse . Nelle forme esteriori può
ancora assomigliarsi ad un padre : ma nella sostanza è già un principe, ossia
il primo del popolo ( prin ceps), è il duce dell'esercito , e il magistrato
della città . § 5. — Il Senato e la patrum auctoritas. 205. On carattere
analogo può riscontrarsi eziandio nel senato , quale appare nella costituzione
primitiva di Roma. Può darsi benis simo, che il nome stesso di senatus sia una
sopravvivenza dell'or ganizzazione gentilizia , come lo è certamente quello di
patres , che fu dato ai senatori, e che essi conservarono anche più tardi,
allorchè certamente avevano cessato di esser tali. Può darsi eziandio , che il
primo concetto del senatus potesse essere suggerito da quel consi glio
domestico, che temperava talvolta il potere del primitivo capo di famiglia, od
anche dal consiglio degli anziani, che provvedeva all'interesse comune della
gente . Questo ad ogni modo è fuori di ogni dubbio, che il senato romano assume
fin dai proprii inizii un ca rattere eminentemente politico, e che presentasi
come l'applicazione di un concetto , che i Romani avevano profondamente
radicato, il quale consisteva in ciò , che tanto il regis imperium , quanto il
iussus po 251 - puli abbisognassero di un ritegno in quell'autorità , che viene
ad essere attribuita dall'esperienza e dall’età (1). Di qui conseguita , che la
patrum auctoritas, allorchè comparenella costituzione primitiva di Roma, non è
un'autorità , i cui limiti siano stabiliti e determinati; ma è anch'essa una
costruzione logica , che potrà col tempo rice vere tutto quello svolgimento, di
cui può essere capace il concetto ispiratore della medesima. Di essa, come
dell'imperium regis, non potrebbe dirsi quale sia l'influenza , che verrà ad
esercitare sulle sorti di Roma; solo si conosce la funzione che , in base al
proprio concetto informatore, è chiamata ad esercitare nella costituzione
politica della città . Saranno poi gli eventi, che additeranno al senatus la
via che dovrà seguire, i limiti in cui dovrà contenersi, e i casi eziandio , in
cui dovrà forzare il proprio ufficio e spingerlo perfino oltre i confini, in
cui la logica dell'istituzione dovrebbe contenerlo . 206. Siccome perd la
funzione del consulere, per essere una fun zione intermedia , ha per sua natura
una indeterminatezza molto maggiore, che non quella dell'agere e del iubere ;
così ne viene, che i poteri del senato presentano negli inizii ed anche nello
svolgi mento posteriore un carattere vago ed indeterminato , che dipenderà
dall'influenza effettiva e reale , che i membri, che lo compongono, saranno in
condizione di esercitare sull'andamento della cosa pubblica . Possono esservi
dei consigli che, per le persone da cui vengono, si cambiano in ordini ed in
comandi, per quanto siano accompagnati dalla formola « si eis videbitur » ; al
modo stesso , che possono esservi dei responsi e degli avvisi, che, per
l'autorità della persona, da cui partono, possono anche valere come sentenza ,
contro cui non sia consentito di appellare . Queste esplicazioni sono frequenti
nella lo gica romana, e sono esse, che possono spiegare in qual modo il se nato
, pressochè lasciato in disparte dallo spirito intraprendente dei re, che
dovevano preferire l'appoggio dell'elemento popolare e quello anche della plebe
, abbia potuto , senza romperla affatto col concetto ispiratore della propria
istituzione, cambiarsi colla Repubblica nel l'organo più potente della
costituzione politica di Roma, per guisa da attribuire ai proprii avvisi (consulta
) l'autorità di vere leggi ; (1) Parmi di trovar espresso questo concetto , a
proposito di Romolo, in CICERONE, de Rep. II , 8 . 252 mentre invece
coll'Impero viene ad essere ridotto a concedere la propria autorità ai decreti
di un principe , al cui arbitrio non era più in caso di poter resistere. 207.
Del resto questo carattere non è proprio solo del senato, ma di tutti gli
organi della costituzione politica di Roma, nella quale, ad esempio , occorre
un magistrato, come quello del censore, che in caricato dapprima di una
funzione, che sembrava non adatta alla di gnità di un console, quale si era
quella della compilazione del censo , cambiasi poi in censore del pubblico e
del privato costume, in elet tore supremo del senato, e per la dignità finisce
in certo modo per essere considerato come superiore allo stesso console. Nè
altrimenti accade anche delle magistrature plebee, e sopratutto dei tribuni
della plebe, i quali negli inizii non hanno che il ius auxilii, e non mirano
che a difendere i debitori dai maltrattamenti dei creditori, e i plebei dai
maltrattamenti del console ; ma poi da ausiliatori si mutano in organizzatori
della plebe, in accusatori del patriziato , e nell'organo certamente più
efficace del pareggiamento giuridico e politico della plebe ; finchè da ultimo
il potere tribunizio , che continua pur sempre ad essere circondato dal favor
popolare , mutasi ancor esso nella base più salda, sovra cui poggi ildispotismo
imperiale. È quindi sopratutto in Roma, che qualsiasi aspetto del potere sovrano
tanto vale quanta è la tempra della persona, che trovasi investito di esso , e
quanto è l'appoggio , che esso trova nella pubblica opinione, con quest'unica
limitazione, che esso deve trattenersi nei limiti del concetto, a cui si
informa dai proprii inizii. Questo concetto da una significazione materiale
potrà passare ad una significazione morale e politica, sic come accadde del
censore, che da compilatore del cengo si cambiò in censore del costume, dalla
difesa potrà anche passare all'accusa , in uno scopo di difesa , siccome fecero
i tribuni della plebe;ma intanto nel proprio sviluppo sarà costantemente
percorso da una logica interna, a cui i Romani seppero mantenersi fedeli, non
solo nelle istituzioni giuridiche, ma anche in quelle politiche. Questo
carattere perd so pratutto si appalesa nell'istituzione del senato . Potere
consultivo nelle proprie origini trovò opposizione nel partito popolare,
allorchè cerco di cambiare i proprii senatusconsulti in leggi ; ma anche in
quei senatusconsulti, che ebbero autorità di vere leggi, esso si propose
costantemente di esercitare sulla comunanza un ' autorità di carat tere
consultivo e pressochè di protezione e di tutela: come lo pro 253 vano il
senatusconsulto intorno ai Baccanali, ed i senatusconsulti Macedoniano e
Velleiano. Intanto per tornare all'argomento , questo è certo che tutti gli
autori sono concordi nel descrivere il senato come elettivo fin dagli inizii di
Roma. Festo anzi ci attesta , che la nomina attribuita al re era più libera di
quella , che più tardi appartenne al censore, in quanto che l'essere lasciati
in disparte dal re (praeteriti sena tores) non era riputato ignominia ; il che
fu invece di quei ma gistrati, uscenti d'uffizio, che, avendo le condizioni per
entrare nel senato , non vi fossero chiamati dal censore, o fossero rimossi dal
medesimo, se già ne facevano parte ( 1). 208. L'incertezza invece è grande,
quanto alle funzioni, che da esso furono effettivamente esercitate; il che
provenne probabilmente da ciò, che, trattandosi di un potere di carattere vago
ed indeterminato , gli autori, e fra gli altri Dionisio , non potendo
attribuirgli dei poteri determinati da una costituzione scritta , dovettero
sforzarsi ad asse gnargli quei poteri, che sembravano convenire alla funzione,
che esso era chiamato ad esercitare. Questo è certo ad ogni modo, che le sue
funzioni, anche durante il periodo regio , furono essenzialmente con sultive.
Esse anzi sembrano ancora tenere del patriarcale, come quando i senatori son
chiamati a fare ripartizioni di terre fra le popolazioni di classe inferiore ,
e quando ad essi viene affidata , almeno secondo Dionisio , la punizione dei
delitti meno importanti, mentre il re sarebbesi riservata la giurisdizione sui
più gravi (2). Non può invece ammettersi, perchè ripugna al carattere
dell'istituzione, che il re, dopo aver chiesto l'avviso del senato , fosse
obbligato ad attenervisi: inquantochè, se questo fosse stato il carattere degli
avvisi dati al re , che da solo aveva per tutta la vita quei poteri, che poscia
furono non solo suddivisi fra magistrati diversi, ma anche attenuati e limitati
quanto alla propria durata , per maggior ragione i senatusconsulti avrebbero
conservato e spinto anche più oltre questo carattere, allor chè, durante il
periodo repubblicano, il senato venne ad essere pres sochè onnipotente. Sembra
invece, per quello che risulta dagli avveni menti,cheil senato, durante il
periodo regio , non abbia potuto esercitare tutta quella influenza , che spiego
più tardi; cosicchè, quando volle (1 ) Festo , V ° Praeteriti senatores ( Bruns
, Fontes, pag. 355). (2 ) Dion. 2 , 12 , 14 , il cui testo è riportato in greco
ed in latino dal Bruns, Fontes, pag. 4 e 5 . 254 - contrastare alla
intraprendente operosità del re ed alle innovazioni dal medesimo tentate, dovette
ricorrere all'intermezzo degli auguri e dei sacerdoti, come lo dimostra la
tradizione relativa all'augure sabino Atto Nevio, all'epoca di Tarquinio
Prisco. Il suo potere con sultivo trovavasi inefficace di fronte ad un re a
vita , che aveva per sè l'appoggio del popolo non solo,ma anche della plebe ,
la quale già cominciava ad esercitare un'influenza, se non di diritto , almeno
di fatto . Quindi fu solo colla cacciata dei re, che il senato , consesso
permanente fra magistrati, che mutavano ogni anno, e che usciti dalla
magistratura entravano a farne parte , divenuto così custode della politica
tradizionale diRoma, sopratutto nei rapporti esteriori, potè dare al concetto
ispiratore dell'istituzione tutta la portata logica , di cui poteva essere
capace, e forse spingerla anche oltre i confini, che dalla logica erano
consentiti. 209. Sopratutto sono gravi i dubbii e le incertezze intorno alla
composizione ed al numero dei senatori, durante il periodo esclusi vamente
patrizio ; al qual riguardo parmi impossibile di ricomporre e coordinare i
pochi e non concordanti accenni, che pervennero fino a noi, senza ricostrurre
il processo logico , che segui la politica dei re nel formare e nell'accrescere
il senato primitivo di Roma. In proposito tutti gli autori sembrano essere
concordi nell'atte stare, che Roma, nella sua primitiva formazione, non fece
che imi tare, quanto al senato, l'organizzazione delle altre città latine;
quindi il suo senato appare dapprima limitato al numero di cento , che sembra
appunto essere il numero adottato per le altre città latine , e per gli stessi
municipii, che ebbero poi ad essere organizzati sul modello ro mano ( 1).
Tuttavia la politica di Roma, che nel periodo regio non pensa ancora a
chiudersi in sè stessa ,mapiuttosto ad aggregarsi nuovi ele menti, condusse in
questa parte a modificare il modello latino. Al lorchè trattavasi di associare
nuove popolazioni alle sorti di Roma, il processo a seguirsi non poteva offrire
difficoltà , finchè trattavasi soltanto di famiglie o di individui , che
appartenessero alla plebe . Questa non era ancora organizzata o almeno lo era
in guisa tale , che poteva accogliere , senza difficoltà , qualsiasi nuovo
elemento . Di più (1) Liv. I, 8 ; Dion., II, 12 ; Cic ., De Rep ., II, 12. Che
il senato o meglio l'ordo decurionum delle colonie e dei municipii si
componesse solitamente di cento, appare da ciò , che essi talvolta erano
perfino chiamati centumviri. Cfr . Willems, Le droit public romain , pag. 535 .
255 l'Aventino, che sembra essere il colle, sovra cui accentrasi di prefo renza
la comunanza plebea, è ancora spopolato, e fu anche più tardi lasciato fuori
della cinta Serviana, in modo da poter offrire territorio e spazio, ove le
nuove famiglie si possano stabilire . Tutto al più oc correrà di far loro concessioni
di terre, che sotto la tutela del ius mancipii porgano loro un mezzo sicuro di
provvedere al proprio sostentamento . Cosi invece non accade, allorchè trattasi
di famiglie , che già abbiano ottenuta posizione elevata nella comunanza, a cui
esse appartengono, e tanto più se trattasi di quelle, che,mediante l'orga
nizzazione gentilizia e le numerose clientele , siano in condizione tale da
offrire un contingente poderoso alla crescente popolazione romana. Allora anche
Roma deve venire a patti, in quanto che genti nume rose e potenti difficilmente
si disporrebbero ad abbandonare la pro pria sede gentilizia, quando non fossero
accolte nell'ordine patrizio , mediante la cooptatio , e quando non potessero
ottenere, che i loro capi entrassero nel senato, e i gentili, che entrano a
costituirle , non fossero ammessi a far parte delle curie . Quanto a quest'ul
time, non occorre dimutare l'ordinamento primitivo della costituzione romana,
nè di aumentarne il numero, poichè, non essendo determinato il numero dei componenti
ciascuna curia , le curie costituiscono dei quadri, che possono anche
accogliere gli elementi, che si vengono aggiungendo. Cosi non è invece del
senato ; la consuetudine latina vorrebbe che il medesimo fosse limitato al
numero di cento , e tale esso fu veramente nelle origini, secondo la
tradizione, e lo fu anche più tardi nei municipii e nelle colonie : ma, una
volta completato questo numero, sarebbe stato necessario arrestarsi, salvo di
appigliarsi al partito di aggiungere un determinato numero disenatori, ogniqual
volta si avverasse in una sola volta una considerevole aggregazione di genti
patrizie . Tuttavia non è nel costume dei romani di abbandonare senz'altro il
numero prefisso , poichè tutto ciò, che viene daimaggiori, è sacro per essi. Quindi,
siccome Roma risulta in certo modo dalla confederazione di un triplice elemento
: così il senato potè essere portato fino a trecento, il qual numero aveva
anche il vantaggio di essere in esatta correlazione con quello delle curie, e
di non contrastare cosi colla composizione simmetrica della città . 210. Come e
quando siasi fatta quest'aggiunta , non è bene atte stato . Alcuni, ritenendo
che Roma avesse successivamente incorpo rato nelle sue curie le tre tribù
primitive, direbbero , che i primi cento senatori furono tolti dalle tribù dei
Ramnenses, gli altri, che 256 vengono dopo, dai Titienses , e gli altri infine
dai Luceres : la cui aggregazione sarebbe accaduta sotto Tarquinio Prisco , al
quale ap punto si attribuisce di aver portato a trecento il numero dei sena
tori (1). Questa spiegazione sarebbe abbastanza verosimile , allorchè non fosse
contraddetta dalla tradizione , che fa rimontare fino al regno di Romolo la
federazione delle tre primitive tribù. Di più se veramente quest'aumento si
fosse fatto , allorchè una nuova tribù veniva aggregata , non si comprenderebbe
come potesse parlarsi di Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi; la
quale distin zione appare essere stata introdotta nelle centurie dei cavalieri,
il cui aumento sembra, quanto alle epoche, in cui è seguito, corrispondere
all'aumento nel numero dei senatori. Di qui deriva la conseguenza , che la
spiegazione più verosimile del processo , che è stato seguito in questo
argomento, sia quella stessa , che ci viene additata dalla tradi zione. Le tre
piccole tribù, che costituirono Roma primitiva , non potevano essere tali da
offrire il numero di trecento senatori, e Livio ci dice appunto , che il numero
del senato primitivo fu di cento , per chè Romolo non ne trovò un numero maggiore
che fosse degno di sedere nel senato (2). Ma intanto, dopo la primitiva
costituzione romulea, che sarebbesi avverata in seguito alla federazione delle
tribù dei Titienses, sono due sopratutto gli avvenimenti, che, du rante il
periodo della città esclusivamente patrizia , contribuirono ad un forte aumento
del patriziato romano. 211. Il primo di questi avvenimenti consiste nella
sconfitta di Alba, in seguito al combattimento degli Orazii e dei Curiazii, il
quale, come ho già notato altrove, più che una vera e propria scon fitta , deve
piuttosto essere considerato comeuna specie diduello giu diziario , a cui si
rimisero i due popoli fratelli per sapere quale delle due città dovesse essere
centro della vita pubblica per le po polazioni, che ne dipendevano. In quella
circostanza infatti la (1) Tale è l'opinione sostenuta dal WILLEMS, Le Sénat de
la république romaine, Paris, 1878 , I, pag. 21 e segg.; dal Bloch, Les
origines du Sénat romain , Paris, 1883, pag. 43 e 55 ; i quali pure accennano
alle diverse opinioni professate in proposito. (2) Liv., I, 8. È però a
notarsi, che Livio farebbe rimontare la composizione del senato per opera di
Romolo, ad un'epoca anteriore all'aggregazione coi Sabini, mentre parla invece
della formazione delle trenta curie, come avvenuta posteriormente. In ciò è
però contraddetto da CICERONE, che accenna alla formazione del senato, dopo la
federazione coi Sabini. De Rep., II, 8 . (3 ) V. sopra , lib . I, Cap. VIII, nº
144. 257 tradizione narra , che la parte povera della popolazione latina entrò
a far parte della plebe, ed ottenne delle concessioni di terre. Quanto alle
genti patrizie, noi sappiamo, che uno dei patti era quello, che esse dovessero
venir accolte nel patriziato romano, e noi sappiamo in effetto , che così
accadde. Ora l'effetto naturale di questa coo ptatio era , che i capi di queste
genti dovessero essere ammessi nel senato , il che non avrebbe potuto essere
fatto , senza aumentare il numero dei senatori. Se quindi ci mancassero anche
le testimo nianze di un tale aumento in questa occasione, non sarebbe invero
simile il supporlo ; sonvi invece degli storici, i quali, senza accennare
espressamente alle proporzioni di tale aumento , attestano però che esso
dovette aver luogo . Così, ad esempio, Livio attribuisce a Tullo Ostilio di
aver duplicato il numero dei cittadini; di aver accolto nei patres i principali
cittadini d'Alba ; di aver costrutto in quell'occa sione la curia Ostilia ; e
di aver aggiunto dieci torme di cavalieri, acciò a ciascun ordine si recasse un
contributo dal nuovo popolo . Così pure Dionisio parla di un aumento fatto nel
patriziato e nel senato all'epoca di Tullo , in occasione della distruzione di
Alba, seb bene poi non accenni le proporzioni dell'aumento (1). Il numero tut
tavia si può argomentare da ciò, che entrambi affermano più tardi, che
Tarquinio Prisco elesse altri cento senatori, e ne portò così il numero a
trecento , il qual numero non avrebbe potuto essere raggiunto, se nel frattempo
e precisamente all'epoca di Tullo Ostilio non si fossero aggiunti gli altri
cento (2). Alcuni, e fra gli altri il Pantaleoni, vor rebbero , che il secondo
centinaio si fosse aggiunto coll'aggregarsi della tribù Tiziense ; ma ciò non
può essere ammesso , in quanto che l'ordinamento politico della città , per
opera di Romolo , era già se guito dopo l'aggregazione di questa tribù , come
lo dimostra la tra dizione, che le trenta curie avrebbero perfino ricevuto il
loro nome dalle donne sabine ; inoltre , cid ammettendo, rimarrebbe inesplicato
quell'aumento, che certo ebbe a verificarsi sotto Tullo Ostilio (3 ). 212.
Quanto all'ultimo aumento , la tradizione e concorde nell'attri ( 1) LIV., I,
30 ; Dion., III, 29. ( 2) Liv., I, 35 dice di Tarquinio Prisco « centum in
patres legit » ; e Dion., III, 62: « Et tunc primum populus tercentos senatores
habuit, qui ducentos tantum ad eam usque diem fuerant » . ( 3) PANTALEONI,
Storia civile e costituzionale di Roma. Appendice III, pag . 645 a 672. G.
CARLE, Le origini dil diritto di Roma. 17 258 buirlo a Tarquinio Prisco; ma vi
ha divergenza nel modo, in cui sa rebbesi operato . Cicerone dice, che egli
avrebbe duplicato il numero dei senatori, e portatolo cosi a trecento, il che
farebbe supporre, che anteriormente fossero soli cento cinquanta , il qual
numero non può essere ammesso, perchè non risponde ai numeri comunemente
seguiti dai Romani, e dai quali non solevano scostarsi. Resta quindi la testi
monianza concorde di Dionisio e di Livio, che l'aumento da lui fatto sia stato
di cento senatori. Questi nuovi senatori, alcuni vogliono che fos sero delle
genti Albane : ma è ovvio l'osservare, che non può essere probabile, che genti,
entrate nella comunanza fin dall'epoca di Tullo Ostilio , siano rimaste tutto
questo tempo senza rappresentanti nel se nato . Altri invece, come il Pantaleoni,
sostengono che i nuovi senatori aggiunti fossero tratti dalla tribù dei
Luceres, i quali, a suo avviso , deriverebbero il proprio nome da Lucer , che
in Etrusco corrisponde rebbe a Lucius (1) ; ma contro quest'opinione vi ha
sempre la consi derazione, che se questi entravano per la prima volta nella
comunanza romana, non poteva esservi motivo, perchè le nuove centurie di equi
tes , ricarate da essi, si chiamassero Luceres posteriores o secundi. Ciò
indica , che dovevano esservi i Luceres primi, i quali erano en trati prima
nella comunanza ; il qual fatto potrebbe forse essere spie gato colla
tradizione, serbataci da Varrone, secondo cui Romolo in guerra coi Sabini
avrebbe avuto soccorso dai Lucumoni Etruschi, uno dei quali (forse Celes
Vibenna, che dette nome al Celio, già compreso nell'antico Septimontium )
avrebbe anche preso parte alla confede razione, che segui allora fra i due
popoli, sebbene le sue genti siano state forse collocate in condizione
inferiore (2). Bensi è probabile, che le genti, da cui si trassero i nuovi
senatori, potessero essere altre genti, pure di origine Etrusca , come i
Luceres primi, le quali fossero venute a Roma al seguito di Tarquinio e della
sua gente: il che spiega molto meglio , che non la leggenda di Tanaquilla ,
comemaiTarquinio , appena giunto a Roma, abbia potuto avere un seguito e un
appoggio così forte nella popolazione romana, da aspirare e da ottenere colle (
1) PANTALEONI, op. cit., pag . 660. (2 ) L'opinione di VARRONE a questo
proposito è ricordata da SERvio , in Aen ., V , ove scrive: « nam constat tres
fuisse partes populi Romani. Varro tamen dicit, Romulum dimicantem contra Titum
Tatium , a Lucumonibus, id est Tuscis, auxilia postulasse; unde quidam venit
cum exercitu ; cui, recepto iam Tatio, pars urbis data est » . Del resto anche
Livio , I, 13, fa rimontare a Romolo l'aggregazione dei Lu ceres primi, solo
mettendo in dubbio la loro origine. 259 forme tradizionali la dignità regia .
Egli tuttavia non potè passar sopra almetodo essenzialmente romano, che è quello
di porre come primi quelli , che veramente sono tali, e quindi dovette
collocare i nuovi senatori nel novero dei patres minorum gentium ;
quest'appellazione tuttavia non sembra tanto indicare la minor dignità delle
medesime, quanto il loro essere entrati più tardi a far parte della comunanza .
È questo il motivo, per cui dovevano essere chiamati gli ultimi a dare il
proprio avviso ; al modo stesso , che anche più tardi nei co mizii centuriati
erano chiamati primi a dare il loro suffragio i se niores, ossia i maiores natu
, e soltanto dopo venivano i iuniores, che erano i minores natu . Cid dimostra,
che, trattandosi di un processo costantemente seguito, non può ricavarsene
indizio di minor dignità di questi senatori, ma solo della costanza romana in
appli care il principio : « prior in tempore, potior in iure » . 213. Le genti
insomma, che, a nostro avviso , si vennero ag giungendo , escono da quelle
stirpi, a cui appartenevano le tribù, la cui confederazione primitiva aveva
dato origine alla città dei quiriti, e per tal modo si spiega come esse abbiano
potuto esservi attirate dalle aderenze e parentele , che già potevano avere in
Roma, e come, offrendosi ad entrare nella nuova città, abbiano po tuto esservi
accolte. A misura però, che esse erano conglobate, do vevano pure avere una
rappresentanza nel senato, e così il numero di questo venne ad essere portato a
trecento ; il quale , essendo in correlazione con quello delle curie , non ebbe
ad essere più superato fino all'epoca dei dittatori, che prepararono l'Impero.
D'altronde le occasioni di aumento vennero mancando dappoi: perché quando la
città patrizia ha riempiuto il vuoto dei suoi quadri, essa comincia a
rinchiudersi in sè stessa , e a vece di farsi grande, mediante le federazioni e
le cooptazioni, si propone invece di affermare la pro pria superiorità sugli
altri popoli, e di associare la comunanza ple bea, di cui trovasi circondata ,
all'avvenire della sua città . Bene è vero , che si verifica ancora più tardi
la cooptazione della gente Claudia : ma essa avverasi, quando erano troppi i
vuoti nel senato , perchè bisognasse aumentarne il numero , e poi trattavasi di
una gente soltanto , la quale, per quanto numerosa , non poteva occupare tanti
seggi nel senato, da richiedere un aumento nel numero. La spiegazione, che mi
son fatto lecito di proporre, quanto ai suc cessivi incrementi nel numero dei
senatori, parmi, fra le moltissime che si posero innanzi , che si concilii più
facilmente colla tradi 260 zione e col processo eminentemente romano di far
procedere di pari passo gli aumenti, chesi introducono nel senato, con quelli
dell'or dine dei cavalieri e di tutti gli ordini della popolazione; non poten
dosi negare, che nel concetto primitivo della città tutte le parti di essa
debbono essere simmetriche, proporzionate e coerenti fra di loro . La medesima
intanto ci prepara anche la via a risolvere la questione, intorno alla
composizione del senato nel periodo regio. 214. Gli storici, al modo stesso che
parlano talvolta dei comizii curiati, come se essi abbracciassero l'intiero
popolo , il quale all'e poca, in cui essi scrivevano, comprendeva anche la
plebe, così sem brano talvolta accennare a nomine, che i re avrebbero fatte di
se natori, che non sarebbero stati tolti dalle genti patrizie ; e cid fra gli
altri attribuiscono allo stesso Tarquinio Prisco. Un tale fatto sembra
anzitutto essere smentito dalla circostanza, che anche questi nuovi senatori
sono chiamati patres minorum gentium , denomina zione, che poteva solo
accomodarsi all'ordine patrizio, il quale consi derava come un suo privilegio
la gentilità . A ciò si aggiunge, che in quest'epoca la distanza era ancora
troppo grande fra i due ordini, perchè deimembridella plebe potessero essere
ammessi nell'ordine più elevato della cittadinanza romana, tanto più se i
plebei, come dimo strerò a suo tempo, non erano ancora ammessi a far parte
delle curie . Ritengo quindi in proposito , che l'opinione più probabile e più
conforme al processo solitamente seguito nello svolgimento politico di Roma,
ove i cambiamenti, più che da arbitrio di uomini, sogliono derivare dal
processo naturale delle cose, sia quella , che l'ammessione della plebe al
senato dovette essere una naturale conseguenza del l'ammessione di essa a far
parte del populus delle classi e delle centurie ; poichè, modificandosi la
composizione di uno degli organi essenziali della costituzione, che erano i
comizii, anche il senato dovette subire un'analoga trasformazione (1 ). Più
tardi poi, allorchè (1 ) Il WILLEMS, nella sua opera : Le Sénat de la République
romaine, I, 19, 28 e poi anche nel Droit public romain , pag . 46, sostiene
invece che i plebei non sareb bero stati ammessi nel senato, che a misura che
furono ammessi alle magistrature ed agli onori. Tale opinione trovasi in
contraddizione col fatto, che gli storici attri buiscono a Giunio Bruto od a P.
Valerio di aver colmato i vuoti lasciati nel senato da Tarquinio il Superbo,
mediante persone tolte dalla plebe più ricca ed agiata (ex primoribus equestris
gradus); la qual tradizione ha nulla di ripugnante, perchè il cambiamento nella
composizione del popolo richiedeva una modificazione correlativa - - 261 - i
senatori cessarono in realtà di essere nominati esclusivamente fra i patres
delle antiche gentes , ma furono scelti fra i magistrati, uscenti di ufficio :
ne consegui per una naturale evoluzione di cose, che anche i plebei, che un
tempo non avrebbero potuto esservi am messi per nascita , poterono esservi
ammessi per la dignità, che avevano coperto . Probabilmente fu poi in questo
secondo periodo, e in conse guenza di questa trasformazione, per cui la dignità
e gli onori con seguiti cominciano a tener luogo della nascita, che i capi
delle grandi famiglie plebee, che erano già pervenute al ius imaginum , e ave
vano così imitata l'organizzazione gentilizia, poterono perfino entrare a far
parte delle curie ; le quali, se avevano perduta ogni loro im portanza
politica, continuavano però sempre ad avere una impor tanza grande sotto
l'aspetto religioso e sacerdotale, sopratutto per coloro, che già eguali in
influenza e in ricchezza al patriziato pri mitivo, potevano desiderare di
apparire loro eguali , anche nella no biltà di origine. § 6. – I comizii
curiati e la populi potestas. 215. Anche i comizii curiati, che furono l'unica
assemblea del popolo romano, finchè durò la città esclusivamente patrizia ,
appa riscono vigorosamente tratteggiati nella costituzione primitiva di Roma.
Per quanto i medesimi abbiano poscia perduto della propria importanza e siansi
ridotti ad un'assemblea di carattere gentilizio e sacerdotale , che può quasi
considerarsi come una sopravvivenza dell'antico ordine di cose ; ciò però non
toglie, che essi siano stati il modello, sovra cui più tardi si vennero
foggiando tutte le altre assemblee del popolo romano. Fu quindi solo più tardi,
allorchè si videro privati di ogni importanza politica e militare, che essi si
circo scrissero a funzioni meramente gentilizie e sacerdotali: manel loro
comparire essi hanno un carattere religioso , militare e politico ad anche nel
senato; ed anche perchè in tal modo il patriziato sottraeva alla plebe i capi
delle più potenti ed agiate famiglie. La questione della composizione del
senato all'epoca regia fu dottamente trattata dal Lattes nelle Memorie
dell'Istituto Lom bardo di scienze e lettere, vol. XI, Milano, 1870, il quale
inclina a credere che il numero primitivo fosse quello di 300 , come quello,
che corrispondeva già al numero delle 30 curie. È poi degno di nota , che egli
attribuirebbe anche al senato primitivo un carattere militare. 262 un tempo ( 1).
Essi, nella costituzione politica della città , corrispondono all'assemblea
patriarcale della tribù, che accorre al cenno del proprio capo , per accordarsi
con esso intorno alle cose , che possono interes sare la comunanza . In questo
però le curie già differiscono da quella , che non comprendono tutta la
popolazione delle varie tribù, ma solo la parte eletta della medesima, ossia
coloro, che col braccio o col consiglio possono giovare alla cosa pubblica.
Esse quindi hanno per iscopo di far partecipare, sopra un piede di uguaglianza
, alla vita pubblica le varie tribù , la cui confederazione è concorsa a
formare le città (2 ). 216. I membri delle curie, come tali, chiamansi
quirites, e sono noti i dubbii intorno all'origine di questa denominazione.
Sonvi coloro, che fanno discendere il vocabolo da quiris, asta , che sa rebbe
stata l'arma del quirite, il simbolo del potere al medesimo spettante ; nè
l'etimologia può dirsi inverosimile , quando si consideri, che nei carmi
saliari il popolo ramnense è chiamato populus pi lumnus, ossia il popolo del
pilo, e viene così ad essere qualificato anch'esso dall'arma, che lo
contraddistingue (3). Altri invece, fra i (1) Il carattere non solo politico,
ma anche essenzialmente militare dei comitia curiata , è stato posto in
evidenza sopratutto dal IHERING , L'esprit du droit romain , $ 20. Esso è poi
provato dal seguente passo di Livo, V , 32 : « comitia curiata , qui rem
militarem continent » , e da un altro di Cicerone, De lege agraria , II, 12,
30, ove è detto, che il console, finchè non abbia ottenuta la legge curiata ,
non può as sumere il comando militare (rem militarem attingere non licet). È
però notabile, che il carattere militare di quest'assemblea, che dapprima fu il
più accentuato, come lo indica il nome stesso di quirites, e l'asta di cui
erano armati, fu anche il primo ad essere perduto coll' introduzione dei
comizii centuriati, che assunsero di preferenza questo carattere militare :
poscia i comizii curiati vennero perdendo anche il carattere politico, allorchè
la lex curiata de imperio fu ridotta ad una semplice formalità e la patrum
auctoritas fu tolta di mezzo dalla lex Hortensia o dalla lex Moenia . Il carat
tere invece, che sopravvisse più a lungo nelle curie, fu il carattere religioso
e sacer dotale, in quanto che fu in esse, che si mantennero gli auspicia , come
lo dimostra la nomina dell'interrex , la quale viene ad essere loro affidata ,
in quanto i patres o pa tricii delle curie sono i soli depositarii dei
primitivi auspicia , e sono le curie, che presiedute dal pontefice, continuano
ad avere la custodia dei culti gentilizii e fa migliari. Ciò spiega, come anche
nell'età moderna, il vocabolo curia sia sopravissuto con una significazione
pressochè sacerdotale. (2) Cfr. il Bouché-LECLERCQ, Manueldes institutions
romaines, Paris, 1886 , pag. 6 e 7 , e il BourgeaUD , Le plébiscite en Grèce et
en Rome, Paris, 1887, pag . 39. ( 3) Cfr. PANTALEONI, Storia civile e
costituzionale di Roma. Appendice II, pag . 617. 263 quali, il Niebhur,
vogliono che fossero così chiamati da Curium o da Quirium , città sabina, e che
avessero ricevuto un tal nome, allorchè ai Ramnenses si unirono per
confederazione i Titienses (populus romanus et quiritium ) (1); la quale
opinione non pare si possa ac cogliere per il modo diverso , con cui sarebbero
indicati idue popoli insieme uniti, ed anche perchè il vocabolo di quirites,
più che l'origine, sembra indicare l'ufficio , il compito , a cui essi sono
chia mati di fronte alla città , poichè il nome loro nei rapporti esteriori
continua sempre ad essere quello di Romani. Altri infine, come il Lange, fanno
provenire il vocabolo da ciò , che essi facevano parte delle curiae, cosicchè
quiriti significherebbe per essi gli uomini delle curie (2). È perd facile il
vedere, che il vocabolo quirite, derivi da quiris o da curia , esprime pur
sempre il medesimo concetto , poichè è la lancia , che è il simbolo del potere
di chi appartiene alle curie, e sono i portatori di lancia , che sono i membri
delle curie . I quiriti quindi in ogni caso son chiamati tali , in quanto hanno
partecipazione effettiva al governo della cosa pubblica , mentre nei rapporti
esterni continuano ad essere Romani; cosicchè anche questa distinzione sembra
corrispondere, sotto un certo aspetto , a quella indicata coi vocaboli domi,
militiaeque. 217. I comisii poi sono la riunione solenne dei quiriti, allorchè
sono chiamati ad esercitare il loro sovrano potere. Finchè trattasi di semplici
notificazioni, che il re o i suoi delegati debbono fare al popolo, o di
discussioni intorno a qualche proposta di legge ba stano le semplici contiones.
In queste possono anche sentirsi gli oratori in pro e in contro ; intervenire i
patres , quali moderatori del populus ; e tenersi anche orazioni (conciones),
le quali, senza essere precisamente quelle da Dionisio e Livio attribuite ai
personaggi della loro storia , dovettero però essere ispirate alle circostanze
, in ( 1) NIEBAUR , Histoire romaine, I, 407. Questa opinione fu poi seguita
dal WALTER e da molti altri autori. Nella inedesima però vi ha questo di vero ,
che il vocabolo di Quirites fu assunto dopo la confederazione coi Sabini, il
che ci è attestato espres samente da Festo. Vº Quirites : « Quirites autem ,
dicti post foedus a Romulo et Tatio percussum , comunionem et societatem populi
factam indicant » . ( 2) LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag . 29. Inering
, L'esprit du droit ro main , 1, $ 20, pag . 20. Secondo il Lange, il vocabolo
quirites non è però da con fondersi con quello di curialis; poichè quelli sono
gli uoniini delle curie in genere, mentre questo è colui, che appartiene ad una
determinata curia . 264 cui venivano pronunziate. Allorchè invece sono
convocati i comizii, tutti questi preliminari già sono compiuti, e il popolo,
ordinato a guisa di un esercito, si avvia unito al luogo della riunione, donde
il vocabolo di comitium (1 ). Quasi si direbbe, che nelle pubbliche de
liberazioni il popolo romano primitivo osservi un processo analogo a quello da
lui seguito nelle sue transazioni private. Finché trattasi di mettersi di accordo,
è lecito discutere e può anche adoperarsi quel dolus bonus, che mira a porre
sotto l'aspetto più favorevole la transazione proposta ; ma allorchè il periodo
delle trattative è finito , più non occorre che una interrogazione ed una
risposta , so lenni, ed allora : « quod lingua nuncupassit, ita ius esto » . È
in questo senso soltanto , che deve essere inteso, ciò che attestano gli
storici, che nei comizii, il popolo non poteva nè discutere, nè di videre o
modificare le proposte fattegli, ma solo accettare o respin gere il candidato
propostogli o la legge, oppure condannare od as solvere. Già nelle adunanze
anteriori erano seguite le discussioni, e queste ripetute nei comizii avrebbero
impedito quella solennità e quel silenzio , che ritenevansi indispensabili
nelle deliberazioni, che ri guardavano l'interesse pubblico, e che avevano per
i Romani primitivi alcunché di religioso e di sacro ( 2 ). 218. I comizii
pertanto erano preceduti dagli auspizii, per cono scere se la volontà divina si
palesasse favorevole , o non alla delibera zione, che si stava per prendere ;
si radunavano in un luogo con sacrato, che chiamavasi templum ; e si tenevano
in certi giorni, che i riti ritenevano adatti alle pubbliche deliberazioni, i
quali perciò chiamavansi dies comitiales. (1) Quanto alla distinzione fra
comitium e contio , vedi il KARLOWA, Röm . R. G. I, pag. 49. È però a notarsi,
che anche la contio non è una riunione qualsiasi del popolo, ma suppone
anch'essa una convocazione del magistrato, il che appare dal seguente passo di
Paolo Diacono : « Contio significat conventum ; non tamen alium , quam eum ,
qui a magistratu vel a sacerdote publico per praeconem convocatur » . Ciò pur
conferma Liv., 39, 15 . (2 ) Combatto qui l'opinione universalmente seguìta
dagli autori, specialmente ger manici (v . fra i recenti Karlowa, Röm . R.G.,
pag . 52), che riduce i c omizii ad una funzione puramente passiva nella
formazione delle leggi, in quanto che la medesima, a mio avviso, altera il
carattere del populus primitivo ; il quale, composto di capi di famiglia e di
persone esperte negli auspicii e ricchedi tradizioni, poteva benissimo anche
prender parte viva alla discussione delle leggi, come dimostrerò più larga
mente nel capitolo III, § 2º, discorrendo della lex, e nel capitolo IV, § 1º,
parlando delle leges regiae. - 265 Il modo poi, in cui doveva essere proposta
la deliberazione, di mostra fino all'evidenza, come il magistrato fosse
consapevole del potere, che apparteneva al popolo, e come questo conoscesse
l'impor tanza del proprio uffizio . Da una parte eravi il re o magistrato, che,
dopo aver premessa la formola : quod bonum felis , etc., invitava il popolo
(rogabat) ad esprimere il proprio volere (iussus populi ) sulla proposta
fattagli colla formola : velitis, iubeatis, quirites ; e dall'altra vi erano i
membri delle curie , che rispondevano affermando (uti rogas), o negando
(antiquo). Quanto al processo, che seguivasi nella votazione, già appare nelle
assemblee curiate quel sistema, che ebbe poi ad essere mantenuto negli altri
comizii. I singoli quiriti votano viritim nella propria curia, e in questa
prevale il voto della maggioranza, ma intanto la decisione definitiva dipende
dal voto complessivo delle curie ; nel che abbiamo un indizio del vincolo
potente, che stringeva l'indi viduo alla corporazione, di cui faceva parte, in
quanto che non era il voto degli individui, che prevaleva , ma quello dei
gruppi, a cui appartenevano. Cid da una parte è un concetto trapiantato dalla
stessa organizzazione gentilizia , in cui non si può comprendere l'in dividuo,
che aggregandolo ad un gruppo ; ma dall'altra dovette anche condurre alla
disciplina del voto . I membri delle curie non atomi vaganti, ma parti vive di
un organismo, senza del quale sa rebbero ridotti all'impotenza ; disciplina questa
, che ebbe pure ad essere mantenuta più tardinei comizii centuriati, ed anche
nei tri buti, salvo che alla curia si sostituirono la centuria , e la tribů .
Intanto anche nella votazione appare il carattere religioso e per fino
superstizioso del romano primitivo, che da qualsiasi avvenimento suole trarre
un pronostico, in quanto che il voto della prima curia si ritiene come un
augurio (omen ) ; donde la denominazione di curia principium , che viene ad
essere imitata anche negli altri comizii, e che è conservata nell'intitolazione
stessa delle delibera zioni comiziali . sono 219. Sopratutto poi importa
determinare, quali fossero le funzioni affidate ai comizii curiati ; il che
riesce assai difficile, in quanto che anche il potere dell'assemblea popolare presentasi
dapprima piuttosto abbozzato, che non compiutamente formato . Secondo Dio nisio
, il quale talora si sforza a precisare i contornidelle istituzioni primitive
di Roma, sarebbe già l'assemblea delle curie, che, me diante una lex de bello
indicendo, avrebbe deciso della pace o della 266 guerra ; sarebbe essa , che
conferirebbe la cittadinanza non ad indi vidui, ma ad intiere popolazioni o
gentes , mediante la cooptatio ; sarebbe essa parimenti, che voterebbe le
leggi, e nominerebbe il magistrato supremo (1). Che se invece si tiene conto
dei fatti, dei quali ci pervenne notizia , ben poche sarebbero state le
occasioni, in cui l'assemblea delle curie avrebbe esercitato queste funzioni.
Cid vuol dire, che anche il potere dei comizii curiati non dovette dap prima
essere determinato da una costituzione scritta ; ma deve ri guardarsi come un
potere in via di formazione, che poi si svolgerà, a seconda delle occasioni e
degli avvenimenti, mantenendosi perd sempre fedele al proprio concetto
informatore. Esso tuttavia, come si vedrà più sotto (2 ), già contiene in germe
tutti quei poteri, che l'assemblea del popolo acquisterà colle altre forme di
comizii. È esso infatti, che nomina il Re e si ha così il germe del potere
elettorale ; è esso che, secondo la tradizione, sanziona le leges re giae, e si
ha così l'inizio del suo potere legislativo ; è esso infine, che già avrebbe
avuto l'occasione di esercitare una specie di giu risdizione criminale, come lo
dimostra la provocatio ad populum , che si fa rimontare all'epoca dei primi re,
e si sarebbe dispiegata , secondo la tradizione, nel fatto dell'Orazio ,
uccisore della propria sorella . 220. Sopratutto poi è notabile nei comizii
coriati uno speciale ca rattere, che, a parer mio, è la prova più evidente del
passaggio dall'organizzazione gentilizia alla comunanza civile e politica, e
che non parmi siasi tenuto in conto sufficiente dagli autori. Questo ca rattere
consiste nella doppia competenza della assemblea delle curie ; la quale , sotto
un certo aspetto , è ancora sempre una riunione di ca rattere gentilizio, e
coll'intervento dei pontefici provvede alla con servazione delle genti e delle
famiglie , e del loro culto , e sotto un altro aspetto è una riunione di
carattere eminentemente politico. Quasi si direbbe, che il quirite, al pari di
Giano, protettore della città , deve avere lo sguardo rivolto in due opposte
direzioni: da una parte egli è ancora un rappresentante della gente e della
tribù , ( 1) DION ., 2, 14 , scrive in proposito : « populo vero haec tria concessit,magistratus
creare, leges sancire, et de bello decernere, quando rex rogationem ad eum
tulisset » . (2) Rimando la prova di ciò al capitolo seguente, ove si considera
la costituzione primitiva di Roma nelle sue principali funzioni. 267 da cui
discende, e come tale è ancora strettamente vincolato al l'organizzazione
gentilizia , e deve curare che il culto di essa non venga ad interrompersi, e
che il suo patrimonio non sia disperso ; dall'altra invece è membro del
populus, e come tale deve obbe dire ai cenni del magistrato, e deve aver
presente sopratutto il pubblico interesse, in quanto che « salus populi suprema
lex esto » . Questa doppia qualità del quirite si appalesa nell'indole diversa
delle riunioni, di cui esso è chiamato a far parte. Accanto ai veri comizii,
convocati dal magistrato, per mezzo dei littori, e in cui si votano le cose
attinenti al pubblico interesse , sonvi i comitia ca lata , convocati dal
pontifex maximus, per mezzo dei suoi calatores, nei quali si compiono quegli
atti, che possono toccare in qualche modo l'organizzazione gentilizia . Nei
primi si votano le leggi; si deliberano le guerre e le paci; si nomina il
magistrato ; si assolvono o condannano coloro , che appellarono al popolo . Nei
secondi invece, che rivestono di preferenza un carattere religioso , i quiriti
si ra dunano, in quanto hanno un culto, a cui debbono provvedere. È quindi in
essi, che compiesi l'inauguratio regis, ed anche quella dei flamines ; come
pure è in essi, che si compiono quegli atti, che possono alterare in qualche
modo l'organizzazione gentilizia , e com promettere l'avvenire del culto. È
perciò in questa specie di co mizii, che deve essere approvata l'adrogatio di
una persona sui iuris, come quella che ha per effetto di fare entrare un capo
di famiglia sotto la podestà di un altro; il che significa sopprimere una
famiglia e il suo culto , per continuare invece un'altra famiglia e il culto
della medesima. È in essi parimenti, che ha luogo la detestatio sacrorum , che
è la rinuncia al proprio culto gentilizio , per causa di adrogatio o di
transitio ad plebem ; come pure è ivi, che segue la cooptatio di una gens
nell'ordine patrizio : cooptativ, che si opera per l'intiero gruppo, e non per
i singoli individui, che entrano a costituirla . È in essi infine, che deve
seguire quel testamen tum , che vien detto appunto in calatis comitiis ; il
quale , secondo il concetto delle genti patrizie, costituiva materia di diritto
pubblico, come quello , che alterava le norme relative alla successione genti
lizia , e quelle riferentisi alla trasmessione dei sacra . Cid è provato dal
fatto , attestatoci da Cicerone, che il ius pontificium , nell'intento
d'impedire l'interruzione dei sacra, fini per porre i medesimi a ca rico di
coloro, che avevano gli utili dell'eredità ; donde l'espressione popolare , che
occorre soventi nei comici latini, di haereditas sine - 268 sacris , per
significare un vantaggio conseguito senza i pesi inerenti al medesimo (1). 221.
Intanto questo speciale punto di vista , sotto cui debbono , a parer mio,
essere considerati i comitia calata , ci spiega quel carattere singolare e
pressochè contraddittorio del diritto primitivo di Roma, il quale, mentre da
una parte dà al quirite il più illi mitato arbitrio di disporre delle proprie
cose per testamento ; dal l'altra vuole, che i testamenti, le adrogationes e
simili atti, che pur riguardano interessi privati, siano compiuti in cospetto
dell'intiero popolo , e li ritiene come relativi ad argomenti di diritto
pubblico . Gli autori vollero spiegare la cosa con dire, che in Roma primitiva
tutti questi atti costituivano altrettante leges publicae, e che, come tali,
dovevano essere fatti in cospetto e coll'approvazione del po polo . Riterrei
invece, che in questa istituzione dei comitia calata si debba ravvisare, se mi
si consenta l'espressione, il rudere meglio conservato, che dall'organizzazione
gentilizia sia stato trasportato nella costituzione primitiva di Roma. Si è
veduto a suo tempo, che il grande intento dell'organizzazione gentilizia era
quello di perpe tuare le famiglie e il loro culto , e di impedire la
dispersione dei patrimoni; donde la conseguenza , che il testamentum e
l'adrogatio dovevano farsi coll'approvazione dell'assemblea della gente o della
tribù (2 ). Or bene così continuò ancora ad essere, finchè la città fu
esclusivamente patrizia : quindi questi atti continuarono ad essere fatti
coll'approvazione delle curie, e di quei collegi sacerdotali, che erano
incaricati di serbare integri non solo i sacra publica , ma ancora i sacra
privata . Quindi conviene ammettere, che le curie non prestassero soltanto la
loro testimonianza a questi atti, ma fossero chiamate a darvi la loro
approvazione, dopo aver sentito l'avviso dei pontefici; il che viene ad essere
provato dalla formola , conserva taci da Aulo Gellio, relativamente
all'adrogatio (3 ). Una volta poi, (1) La teoria dei comitia calata ci fu
conservata sopratutto da Aulo Gellio , Noc. Att.. XV, 28 e 3, il quale dice di
averla ricavata da un'opera di Laelius Felix. Quanto alla ripartizione dei sacra
, in proporzione della sostanza ricevuta dagli eredi, è attestata da CICERONE,
De legibus, II, 19, SS 47, 49. ( 2) Vedi libro I, cap. IV , $ 4 , nº. 61 a 65.
(3 ) Aulo Gellio , Noc. Att., V , 19. Ivi si dice che a adrogatio per
rogationem populi fit » , ed è riportata la formola , che è quella della vera e
propria legge, in quanto che comincia colle parole velitis , iubeatis, quirites
» e termina coll'espres. sione « Haec ita, uti dixi, ita vos, quirites, rogo »
. 269 che una istituzione di questa natura sia penetrata nella primitiva
costituzione romana, noi oramai conosciamo abbastanza il tempera mento del
popolo romano per poter affermare, che esso non l'abban donerà così presto . Si
comprende pertanto, che quando si introdussero i comizii centuriati, anche
questi, secondo la testimonianza di Gellio, abbiano avuti i proprii comizii
calati, salvo che nei medesimiil po polo, radunato due volte all'anno, più non
dovette approvare il te stamento , ma solo prestare la propria testimonianza .
Ciò è dimostrato dal fatto , che il testamento in calatis comitiis potè poi
essere surro gato da quello per aes et libram , in cui i quiriti sono chiamati
non per approvare, ma solo per testimoniare (testimonium mihi perhi bitote).
Intanto però , anche quando l'adrogatio e il testamentum furono atti di
carattere intieramente privato, rimane però sempre la traccia dell'antico stato
di cose nel concetto , ricordatoci da Papiniano, secondo cui la testamenti
factio pubblici iuris est (1). A questo riguardo poi, è ancora degno di nota ,
che quando l'as semblea delle curie fini per perdere ogni importanza politica e
mi litare, e si ridusse ad essere una riunione di trenta littori, presie duta
dai pontefici, serbò però ancora sempre e forse esagero perfino questa
competenza , per ciò che si riferisce agli atti, che riguardano
l'organizzazione gentilizia , e sopratutto , quanto all'adrogatio. Questa fu
praticata ancora, davanti alle curie, dagli imperatori Augusto e Claudio , i
quali, non avendo dimenticata la loro antica origine dalle genti patrizie,
seguirono le forme tradizionali nella arrogazione di Tiberio e di Nerone. Cosi
le primitive istituzioni vengono anche esse perdendosi a poco a poco in Roma,ma
ne rimane ancora sempre un'eco lontana. Resterebbe qui ad esaminarsi la questione
fondamentale se la plebe sia stata ammessa a far parte della assemblea delle
curie ; ma ( 1) Papin., L. 4 , Dig. (28, 1). La conclusione sarebbe questa ,
che il carattere di lex del testamento primitivo è una reliquia dell'antica
organizzazione gentilizia . Tale carattere poi in parte avrebbe cominciato a
dileguarsi, allorchè accanto ai comizië curiati calati, si introdussero anche i
comiziï centuriati calati, la cui esistenza ci.è attestata da Aulo Gellio, XV,
27, 2, e che probabilmente dovettero essere quelli, i quali, secondo Gaio ,
Comm ., II, 101, si radunavano due volte l'anno,acciò in essi po tessero farsi
i testamenti. Il fatto stesso della loro riunione periodica dimostra , che
molti testamenti si potevano presentare ad un tempo, e che perciò in essi il
popolo doveva limitarsi a prestare la propria testimonianza . Fu questo il
motivo , per cui il testamento in calatis comitiis potè poi essere sostituito
dal testamento per aes et libram , ove i quiriti si riducono ad essere dei
classici testes. Gaio, Comm ., II, 103. 270 credo opportuno rimandarne l'esame
ad un capitolo speciale, in cui cercherò di determinare la posizione dei
clienti e della plebe, cosi sotto l'aspetto del diritto pubblico , che sotto
quello del diritto pri vato ; premettendo però fin d'ora , che seguo
l'opinione, secondo cui la plebe non potè, durante il periodo regio e nei
primisecoli della Repubblica, essere ammessa all'assemblea delle curie (1 ). $
7 . Sguardo sintetico allo svolgimento storico dei comizi in Roma. 222. Le cose
premesse sarebbero sufficienti per formarsi un con cetto del carattere speciale
della primitiva assemblea curiata : ma intanto per scoprire certe relazioni,
che difficilmente potrebbero es sere afferrate , quando non fossero sorprese
alle origini, ed anche per rendere intelligibili gli svolgimenti, che verranno
dopo, e dimo strarne la continuità , ritengo opportuno, a costo anche di precor
rere gli avvenimenti, di dare uno sguardo sintetico allo svolgimento che ebbero
i comizii in Roma. Roma antica, simile in cið alla moderna Inghilterra, ci
presenta bene spesso l'esempio di congegni della costituzione politica ed am
ministrativa, la cui creazione rimonta ad epoche compiutamente di verse , ma
che intanto funzionano contemporaneamente. Ciò è vero sopratutto per quello ,
che si riferisce ai comizii. Roma patrizia , e forse anche Roma, durante tutto
il periodo regio , non conosce altra assemblea del popolo , che quella delle
curie. Essa è un'assemblea, di carattere religioso e sacerdotale, politico e
militare ad un tempo: è la riunione del primo populus romanus quiritium , di
quello cioè, che era ristretto al populus, che usciva esclusivamente dalle
genti patrizie. In base alla costituzione Serviana, che ammette la plebe a far
parte delle classi e centurie, sulla base del censo, intro ducesi un' altra
assemblea del populus romanus quiritium , già inteso in senso più largo , che è
la centuriata . Anch'essa è mo dellata sulla prima, e secondo Gellio, imita
perfino i comizii calati, come pure è anche preceduta dagli auspicii;ma
intanto, accogliendo già un elemento , che non partecipava al culto gentilizio
, che era quello della plebe, perde ogni carattere religioso e sacerdotale, e (
1) La questione qui accennata sarà presa in esame in questo stesso libro , cap.
V. 271 assume un carattere essenzialmente militare, e poscia anche poli tico .
Da questo momento l'assemblea per curie più non può rap presentare l'intiero
populus, perchè una parte di questo, cioè la plebe, non entra a farne parte.
L'assemblea curiata quindi diventa , dirimpetto alla centuriata , un' assemblea
di patres , perchè com prende coloro , che discendono sempre dalle antiche
genti patrizie. La vera rappresentanza dell'intiero populus (comitiatus
maximus) viene quindi ad essere l'assemblea per centurie ; perchè essa soltanto
comprende tutto il popolo, organizzato sulla base del censo. Siccome però i
patres o patricii, cioè i discendenti delle antiche genti pa trizie ,
continuano ancora sempre a formare un nucleo separato del populus, cosi essi
sono ancora chiamati a dare alle deliberazioni dei comizii centuriati la patrum
auctoritas, la quale viene, come sopra si è veduto , a distinguersi dalla
senatus auctoritas. Così pure l'antico populus, composto appunto dai patres,
continua ancora sempre a con ferire l'imperium colla lex curiata de imperio ,
sebbene l'una e l'altra funzione tendano naturalmente a perdere della loro im
portanza , e l'assemblea curiata si limiti sempre più a funzioni di carattere
puramente gentilizio e sacerdotale (1). 223. Fin qui lo svolgimento della
costituzione primitiva procede ancora regolarmente : ma la cosa si fa più
malagevole, quando, fra i congegni della costituzione politica di Roma, compare
un nuovo elemento , che è quello delle assemblee proprie della plebe (concilia
plebis). La plebs forma già parte del populus e partecipa alla civitas; ma la
sua civitas è ancora minuto iure, in quanto che essa non ha ancora nè il ius
connubii col patriziato, nè il ius honorum . È quindi naturale in essa
l'aspirazione al pareggiamento, e sorge una opposizione di interessi fra il
patriziato e la plebe. Quest'ultima, che, uguale sotto un aspetto, aspira a
diventarlo anche sotto gli altri, viene naturalmente a costituire sotto un
certo riguardo una fazione nello Stato , poichè i suoi interessi si contrappongono
a quelli del patriziato, il quale continua ad essere il vero reggitore dello
Stato, essendo il solo ammesso alle magistrature e agli onori. La plebe però ha
già un proprio magistrato, sotto cui si organizza , che è il tribuno della
plebe, il quale, in base alla costituzione, può (1) È da vedersi, quanto
all'auctoritas patrum , questo stesso capitolo, § 3º, n° 198 , pag. 240 e seg .
colle note relative . 272 convocarla per prendere deliberazioni nel proprio
interesse. Sorge cosi spontaneamente l'istituto dei concilia plebis, i quali
dapprima hanno più un'esistenza di fatto , che non di diritto : ma che intanto
, fatti forti dal numero e dalla intraprendenza dei tribuni, tendono
naturalmente a prendere dei provvedimenti, che mirano a prepa rare l'uguaglianza
giuridica e politica fra la plebe e il patriziato . Essi perciò mettono in
accusa patrizii avversi alla plebe e gli stessi consoli, allorchè escono di
ufficio . Proibirli è impossibile, perchè è principio riconosciuto dalle XII
Tavole , che ogni sodalizio, che abbia un capo (magister ), possa dettarsi una
propria legge, e perchè in ogni caso sarebbe impossibile vietare le riunioni di
un elemento, che ha per sè il numero e la forza , e che, ricorrendo ad una
secessio , potrebbe mettere a repentaglio l'avvenire della città ( 1). L'unico
partito pertanto , che rimanga al patriziato ed al senato, che lo rap presenta
, è quello di riconoscere queste riunioni e di farle entrare , per quanto sia
possibile , nei quadri legali della costituzione politica di Roma, trasformando
a poco a poco i concilia plebis in comitia tributa : in comizii, cioè, che
comprendano eziandio tutto il popolo, ma non più in base al censo , come
l'assemblea delle centurie, ma in base alle tribù locali, in cui è raccolta
tutta la cittadinanza ro mana. È questa la trasformazione, che incomincia col
tribuno Pu blilio Volerone, il quale , nel 283 U. C., dopo lunghe lotte ,
ottiene che la plebe possa nominarsi i suoi tribuni nei proprii comizii ; ma
con ciò questi non possono ancora prendere che provvedimenti riguar danti la
sola plebe, e che possono soltanto essere obbligatorii per essa . Quindi
incomincia da parte di questa uno sforzo inteso a pareggiare i comizi tributi
agli altri comizii, e a fare si che i plebisciti obbli ghino anche il
patriziato , il che si opera per mezzo delle leggi Va leria -Orazia, Publilia e
Ortensia ; le quali, sebbene, per il poco che a noi ne pervenne, mirino tutte
allo scopo di rendere obbligatorii i plebisciti per tutto il popolo, segnano
però , come si vedrà più sotto, pag. 728, (1) La proibizione dei concilia
plebis sarebbe stata contraria a quelle disposizioni della legge decemvirale,
secondo cui « Sodalibus potestas esto , pacionem , quam volent, sibi ferre, dum
ne quid ex publica lege corrumpant. V. Voigt, die Tafeln , I, che attribuisce
tal legge alla Tavola VIII, n . 12. Qualcosa di analogo ci è pure accennato da
Livio , 39, 15 : « ubicumque multitudo esset, ibi et legitimum rectorem
multitudinis , censebant maiores debere esse » ; ed è questo forse il motivo ,
per cui i concilia plebis cominciano a diventare potenti, quando la plebs ha
trovato un proprio rector o magister nel tribunus plebis. - 273 discorrendo del
concetto romano di lex , i varii stadii, per cui passò la risoluzione del
gravissimo problema (1) . 224. Giungesi cosi ad un periodo della costituzione
politica di Roma, in cui nei quadri di essa trovansi tre specie di comizii. I
primi e i più antichi sono i comizii curiati,ma essi vengono ad essere sempre
più ridotti a funzioni puramente gentilizie e sacerdotali, e anzichè essere in
effetto ancora le riunioni delle curie , si riducono ad essere la riunione dei
trenta littori, che le rappresentano, e diven tano così una sopravvivenza
dell'antico ordine di cose. Accanto ad essi sonvi i comizii centuriati, che
sono sempre la vera assemblea del popolo romano, e continuano a conservare in
qualche parte il pri mitivo carattere militare: ma anch'essi si fanno più
democratici, come lo dimostrano le riforme, che sappiamo essere state
introdotte , senza saperne precisare il come ed il quando, e debbono dividere
in parte le proprie funzioni colla nuova assemblea tributa , più fa cile a
convocarsi e più intraprendente nella propria iniziativa. Certo si richiedeva
il genio pratico dei Romani per far procedere di pari passo assemblee, che
rappresentavano un principio diverso , cioè la nascita, il censo, ed il numero.
Dapprima ciascuna di queste istituzioni potè serbare intatto il proprio
carattere primitivo ; ma poscia la fusione sempre maggiore dei due ordini
condusse al ri sultato, che poterono esservi plebei di grandi famiglie, che
furono accolti nelle curie, e che vi ottennero anche la dignità sacerdotale di
curio maximus ; al modo stesso , che i pochi discendenti delle an tiche genti
patrizie poterono anche intervenire ai comizi tributi, i quali ricevettero cosi
anche la consacrazione religiosa , e poterono essere presieduti da magistrati,
che un tempo erano esclusivamente patrizii. Quando le cose pervennero a questo
punto, il vero populus trovasi raccolto nei comizii centuriati, e nei comizii
tributi. Quelli sono organizzati in base al censo, e questi in base alle tribù
lo cali, a cui i cittadini trovansi ascritti ; quelli serbano ancora un
carattere specialmente militare e radunansi al campo Marzio, fuori delle mura
Serviane, e questi invece hanno un carattere civile e (1) Rimetto la
discussione gravissima relativa a queste tre leggi al capitolo se guente § 2º,
n ° 232 e seg . dove si discorre del concetto romano di lex . Quanto alla
proposta di Publilio Volerone e alla portata della medesima è da vedersi il
Bonghi, Storia di Roma, pag. 439 a 451, come pure a pag . 593, ove parla
dell'elezione dei tribuni nei comizii tributi. G. CARLE, Le origini del diritto
di Roma. 18 274 radunansi nel fôro, cosicchè il vero movimento della
costituzione politica di Roma ondeggia fra l'una e l'altra assemblea. Tuttavia
, a ricordare l'antico dualismo, sopravvivono ancora sempre i comizii curiati
ridotti ad essere la riunione di trenta littori, presieduti dal pontefice, e
circoscritti a funzioni di carattere essenzialmente reli gioso , e i concilia
plebis, che ricordano ancora quel tempo, in cui la plebe costituiva un dualismo
col patriziato , e nei quali continuano a nominarsi le magistrature
esclusivamente plebee (1). Intanto è ancora degno di nota , che la
trasformazione, che si opera nei comisii tri buti, accade anche nei tribuni
della plebe, i quali, sebbene debbano sempre essere trattidalla plebe ,
diventano però a poco a poco magi strati urbanidel popolo romano; comepure
accade nei plebisciti, i quali a poco a poco vengono ad essere pareggiati alle
leggi propriamente dette, il che sarà meglio dimostrato nel capitolo seguente .
Questo è il solito processo , seguito dai Romani, nello svolgimento delle
proprie istituzioni, ed è la logica che lo governa, che per mette di poterlo
ricostruire, malgrado le lacune, che possono esservi nel racconto storico , che
a noi pervenne. Questa logica è, per così esprimersi, intensiva ed estensiva ad
un tempo , e quindi si può es sere certi, che se un concetto entri nella
compagine romana non scomparirà , se prima non siasi ricavato da esso in
profondità ed estensione tutto ciò , che contenga di vigoroso e di vitale.
Studiata cosi la costituzione primitiva di Roma negli organi, che entrano a
costituirla , importa ora di considerarla nell'esercizio delle sue principali
funzioni. (1) È questo, a parer mio, il solo modo per risolvere la questione
così contro versa relativa alle analogie ed alle differenze, che possono
intercedere fra i comitia tributa ed i concilia plebis. È noto in proposito,
come il Niebhur non ammettesse che un'unica assemblea tributa (Histoire romaine
, III, 283), la quale, esclusivamente plebea dapprima (concilium plebis),
avrebbe più tardi compreso anche il patriziato, e sarebbesi così cambiata in
comitium tributum . Il Mommsen invece (Römische For schungen , Berlin , 1864,
I, 151 a 155) sostenne, dai decemviri in poi, l'esistenza di due assemblee
tribute : l’una patrizio-plebea (comitia tributa ); l'altra esclusivamente plebea
(concilium plebis). Ritengo che quest'ultima opinione possa essere accolta , ma
limitando le funzioni dei concilia plebis a cose di interesse esclusivamente
plebeo , quali erano la nomina dei tribuni e degli edili plebei, mentre il vero
potere legisla tivo , elettorale e giudiziario appartiene ai comitia tributa ,
i quali soli possono con siderarsi come un vero organo della costituzione
romana. Cfr. BOURGEAUD, Le plébi scite dans l'antiquité, Paris , 1887, pag. 57
a 76 ; Karlowa , Röm . R. G., pag. 118 ; MORLot, Précis des instit. polit. de
Rome. Paris, 1886 , pag. 80 e segg. 275 CAPITOLO III. La primitiva costituzione
di Roma nelle sue principali funzioni. $ 1. - Carattere generale della medesima
. e 225. La costituzione primitiva di Roma, finchè si mantenne esclusivamente
patrizia , si presenta con un carattere di unità e di coerenza, che indarno si
cercherebbe più tardi nelle istituzioni po litiche di Roma. Vero è che la
plebe, entrando a far parte della comunanza politica , recò nella medesima il movimento
e la vita , rese possibile per Roma un avvenire, che non avrebbe mai conse
guito la città esclusivamente patrizia , la quale da sola tendeva più a
chiudersi in se stessa, che ad estendersi; ma è vero eziandio , che colla plebe
penetrò il dualismo in ogni aspetto della costituzione primitiva di Roma.
Dirimpetto ai comizii disciplinati del popolo rac colto nelle curie , si
svolsero i concilii talvolta tumultuosi della plebe; ai magistrati del popolo
si contrapposero quelli della plebe; ed alle leggi votate nella solennità e nel
silenzio dalle curie si so vrapposero i plebisciti. Fu in tal guisa, che la
costituzione primitiva di Roma venne in certo modo ad essere forzata a
spingersi oltre il concetto ispiratore della medesima, e fini per assumere un ca
rattere del tutto peculiare, in quanto che dovette stringere insieme due
popoli, che politicamente erano associati, ma che non erano intimamente uniti
fra di loro , di cui uno pretendeva di avere per sè la priorità ed il diritto ,
mentre l'altro aveva per sè il numero e la forza . Nè conseguita che, per
comprendere lo spirito della primitiva costituzione di Roma, conviene in certo
modo isolarla dagli elementi, che sopravvennero coll' ammessione della plebe
alla cittadinanza , e quando ciò si faccia non si può a meno di rima nere
ammirati di fronte all'unità ed alla coerenza, che presenta la costituzione
esclusivamente patrizia . Essa è un vero organismo, che componesi di varie
parti, delle quali ciascunaè chiamata ad adempiere la propria funzione : ma che
tutte intanto si suppongono e si completano a vicenda. La potestas in largo
senso si ritiene bensi appartenere al popolo , ma questo non potrebbe
esercitarla , se 276 non fosse posto in azione dall'imperium del magistrato ; e
intanto fra di loro si interpone l'auctoritas del senato, il quale da una parte
modera col suo consiglio il regis imperium , e dall'altra da la consistenza e
l'appoggio della propria autorità ai iussa populi. 226. Questa coerenza poi
appare anche più evidente, allorchè i congegni della costituzione siano
considerati nel loro movimento ; poichè mentre ciascun aspetto del pubblico
potere non ha altra norma e altro confine, che il proprio concetto ispiratore,
niuno di essi però può compromettere l'interesse comune, senza che vi
concorrano tutti gli altri. Questo carattere della costituzione politica di
Roma ha fatto dire a Polibio , che essa appariva mo narchica, aristocratica e
democratica ad un tempo, secondo che altri la considerava rimpetto a questo o a
quell'aspetto del pubblico potere ( 1) ; ma se altri poi la consideri in
movimento ed in azione, essa si presenta con tutti questi caratteri ad un tempo
. L'imperium regis, la senatus auctoritas, la populi potestas sono altrettante
concezioni logiche , destinate col tempo a ricevere tutto lo sviluppo , di cui
possono essere capaci; ma intanto son disposte per modo, che si contengono e si
limitano a vicenda, non già perchè esista fra di essi una ripartizione o
circoscrizione di poteri, ma perchè nessuno di questi elementi puo
compromettere la pubblica salute senza la cooperazione di tutti gli altri.
Onnipotente ciascuno coll'appoggio degli altri, viene ad essere impotente,
quando trovi opposizione o contrasto in alcuno fra essi ; donde l'importanza,
che ebbe nella costituzione romana l'istituto dell'intercessio , la quale viene
atteg giandosi in guise molteplici e diverse , in quanto che tale intercessio ,
o può esercitarsi a nome della religione, o frapponendo la par ma iorve
potestas, o contrapponendo anche quelli, che esercitano la medesima
magistratura (2 ). Questo è, a parer mio, il carattere fon (1) Polibio,
Histor., lib . VI. (2) È mirabile il partito, che Roma seppe trarre dal
concetto dell'intercessio nello svolgimento storico della sua costituzione,
come appare dalla magistrale trattazione dell'argomento nel Mommsen, Le droit
public romain , pag. 230 a 329. Non potrei tuttavia accettare la sua
affermazione recisa, che l'intercessio non esistesse nel periodo regio. Certo
essa non ebbe occasione di svolgersi, perchè i tre elementi od organi della
costituzione erano potentemente unificati; ma intanto la cost ituzione
primitiva inchiudeva già allo stato latente il germe di tutta la teoria
dell'intercessio, in quanto che in essa niun provvedimento, che possa
compromettere il pubblico interesse, pud 277 damentale della costituzione
primitiva di Roma, per cui essa ora apparisce conservatrice fino allo scrupolo
, ed ora invece diventa operosa ed intraprendente fino all'audacia , secondo
che essa abbia o non l'appoggio dell'opinione generale . 227. Intanto quando
trattasi della res publica , ossia di cosa, che possa interessare l'intiera
comunanza, tutti questi elementi sono chia mati ad arrecare il proprio
contributo. È infatti almagistrato (rex , interrex , tribunus celerum ,
praefectus urbis) che si appartiene l'agere, quando trattasi di convocare il
popolo o il senato ; il ro gare, quando importa di ottenere l'approvazione di
qualche proposta ; l'imperare, allorchè nei pericoli di una guerra il suo
imperium si spinge fino alla maggiore estensione, di cui possa essere capace .
E invece al senato , che si appartiene il consulere, quando trattasi di dare il
proprio avviso al magistrato , o di richiamare l'attenzione di lui su qualche
imminente pericolo , « ne res publica detrimenti capiat » ; e l'auctor fieri,
se è questione invece di appoggiare le de liberazioni del popolo. È infine al
popolo, che spetta il iubere e lo statuere, quando trattasi di una lex , sotto
la qual forma si manifesta di regola la volontà collettiva del quando
trattasi della elezione dei magistrati. Intanto però, siccome queste gradazioni
dell'azione collettiva debbono tutte concorrere in sieme per costituire un atto
compiuto , cosi niun elemento pud da solo prendere un provvedimento, che possa
compromettere l'interesse comune (1 ). Ciò sopratutto appare nel compimento di
quegli atti, che, per propria natura , interessano l'intiera comunanza, quali
sarebbero: la formazione di una legge, l'elezione del magistrato , e
l'amministra zione della giustizia ; dai quali poi discendono le tre
manifestazioni essere preso senza il concorso di tutti. L'intercessio nel
periodo repubblicano non fu che uno svolgimento di questo concetto, e toccò il
suo massimo sviluppo per opera dei tribuni, stante il carattere negativo del
potere spettante aimedesimi. È poi notabile, come essa si applichi al decretum
, alla rogatio , ed al senatus consultum , il quale, se colpito
dall'intercessio , non può più essere posto in esecuzione: ma tuttavia deve
essere perscriptum , perchè è sempre una espressione dell'auctoritas senatus,
col quale vocabolo viene appunto ad essere indicato. Cfr. MOMMSEN, op . cit.,
(1) Ho già insistito su questo concetto, che può essere considerato comela
chiave di volta della primitiva costituzione di Roma, in una prolusione al
corso di Storia del diritto romanu col titolo : L'evoluzione storica del
diritto pubblico e privato di Roma, Torino , 1886 , pag. 13 . pag. 317. 278 del
potere sovrano nella città antica , che sono il potere legislativo, il potere
elettorale, ed il potere giudiziario. È quindi sopratutto a proposito di questi
atti , che vuolsi cercare in qual modo entri in movimento ed in azione la
primitiva costituzione di Roma, dando al tempo stesso un popolo, o ilo sguardo
allo svolgimento storico , che dovrà poi ricevere ciascuno di questi poteri. $
2 . Il concetto romano di lex nei suoi rapporti colla patrum auctoritas e col
plebiscitum . 228. Nel considerare il concetto primitivo della lex in Roma si
riman magistratum creare,e anzitutto colpiti dalla larghissima significazione,
colla quale si presenta questo vocabolo . Esso significa dapprima qualsiasi ac
cordo di più individui in una stessa volontà , e viene così, fin dagli esordii,
a distinguersi in lex privata , che significa una convenzione od una norma, che
altri si impone relativamente ad interessi privati (lex contractus, lex
mancipii, lex testamenti), ed in les publica , che significa la volontà
collettiva e comune, che si sovrappone alla volontà dei singoli individui.
Quando poi il concetto di lex privata viene ad essere assorbito da quello di
convenzione o di contratto , quello di lex publica continua ancora ad avere una
estesissima si gnificazione; poichè esso comprende in certo modo qualsiasi
delibera zione solenne del popolo . Parlasi infatti di una lex belli indicendi,
foederis ineundi, coloniae deducendae , agri adsignandi e simili ; e fino a un
certo punto la nomina stessa del magistrato , o almeno il conferimento
dell'imperium , spettante al medesimo, viene ad essere argomento di una legge.
Gli è solo più tardi, che il vocabolo di legge viene a significare un generale
iussum populi, che si rife risce alla generalità dei cittadini, e si distingue
così da qualsiasi de liberazione , relativa ad una persona o ad un fatto
particolare (1). Ciò ( 1) Insomma il concetto dominante è sempre quello, che la
lex è il risultato di un accordo. Quindi la lex publica, essendo il risultato
dell'accordo di tutti gli organi dello Stato , viene ad essere una communis
reipublicae sponsio, e deve da tutti essere rispettata ; donde la conseguenza ,
che il ius publicum privatorum pactis mutari non potest. La lex privata invece
è l'accordo di due o più individui in tema di loro interessi privati: non è
quindi la legge pubblica, che deve occuparsene, secondo il principio della
stessa legge decemvirale, privilegia ne inroganto: donde conseguita, che la
legge cambiasi a poco a poco in un generale iussum . È in questa guisa , che
279 vuol dire, che anche la nozione di lex subisce in Roma una lunga evoluzione
: ma intanto il concetto, che la pervade in ogni tempo, è quello di un accordo
di più volontà in un medesimo intento . Tale significazione sembra pure essere
indicata dall'etimologia del vocabolo di lex a legendo od a colligendo , la
quale perciò non indica tanto la forma scritta , assunta dalla legge, come
vorrebbe il Bréal, quanto piuttosto il collegarsi delle volontà in un medesimo
intento (1 ). 229. Un altro carattere della lex , secondo il primitivo concetto
romano, si è quello di un'aureola religiosa, che la circonda, come lo
dimostrano le cerimonie solenni, da cui son precedute le deliberazioni
comiziali, e la reverenza e il culto , di cui la legge viene ad essere
l'oggetto in Roma primitiva, dopo che essa fu solennemente votata dal popolo .
Di qui alcuni autori ebbero a ricavare la conseguenza , che la forza
obbligatoria della legge, anche per Roma, non deri vasse tanto dal suffragio
del popolo, quanto piuttosto da questo carat tere religioso, da cui essa appare
circondata. Se con ciò si vuol dire , che la legge solennemente votata dal popolo,
dopo aver assunto gli auspicii, doveva in certo modo considerarsi come una
interpreta zione della stessa volontà divina, questo concetto pud essere facil
mente ammesso, essendo il medesimo una conseguenza di ciò, che il ius, come si
è dimostrato a suo tempo, aveva nei suoi primordii un carattere religioso , e
impotente a sostenersi da solo cercava di mettersi sotto la protezione del fas.
Ma se con ciò si intende in la legge e il contratto, uniti nell'origine, più
tardi si vennero separando, e quasi si contrapposero fra di loro , lasciando
perd sempre una traccia nel concetto, che « il contratto costituisce legge per
i contraenti » . ( 1) L'etimologia di lex a legendo nel senso di « leggere ,
suole appoggiarsi al testo di Varrone, De ling. lat., VI, 66 : leges, quae
lectae et ad populum latae, quas ob servet; ma egli è evidente, che qui
Varrone, non sempre felice nelle sue etimologie , non ha punto l'intenzione di
proporne una. Se quindi è vero, come del resto insegna lo stesso BRÉAL, Dict.
étym . latin , vº lego , che il vocabolo di legere ebbe anche la antica
significazione di raccogliere, di scegliere, di riunire, parmi sia molto più
acconcio di dare questa etimologia al vocabolo di lex . Così si potrà anche
compren dere la lex privata , la quale certo non pud essere derivata da ciò ,
che i contratti fossero scritti; ma da cid , che le volontà si accordavano e si
riunivano. Cfr. BRÉAL et BAILLY, Dict. étym ., vº lex . Un passo , in cui il
vocabolo « legere » prende questa an tica e larga significazione, è il seguente
di Virgilio : Iura , magistratusque legunt, sanctumque senatum . (Aen ., I, v.
431). - 280 vece , che la sua efficacia obbligatoria provenga direttamente
dalla volontà divina, se questo può forse ancora ammettersi per il vóuos de'
Greci, più non può ritenersi vero per la lex romana ( 1). Questa non potrà
essere votata senza che prima si assumano gli auspicii ; ma intanto, fin dal
periodo esclusivamente patrizio, essa è già l'espres sione della volontà
collettiva del popolo, come lo dimostra il fatto , che assume la forma di una
vera e propria stipulazione fra il ma gistrato che propone (rogat), e il popolo
che vota (iubet atque con stituit) ; come pure il concorso nella formazione di
essa di tutti gli organi della costituzione politica di Roma, per cui essa, fin
dagli esordii della città , deve essere considerata come una « communis rei
publicae sponsio » . Essa sarà ancora riguardata come una volontà divina ; ma
il popolo già si attribuisce facoltà d'interpretare questa volontà, ogni
qualvolta trattisi, non di cosa relativa al culto, ma di provvedimenti, che
riguardano l'interesse generale della comu nanza. Anche la definizione dei
Giureconsulti classici : « lex est, quod populus, senatorio magistratu rogante
, iubet atque con stituit » , può già essere applicata alla legge, durante il
periodo regio ; salvo che in questa definizione più non compare l'elemento
della patrum auctoritas, che nella città patrizia era ancor ritenuto
indispensabile, e che era poi stato tolto di mezzo dalla legge Ortensia . Vero
è , che più tardi il patriziato cercò di dare sopratutto prevalenza
all'elemento religioso, che accompagnava la legge; ma ciò accade unicamente,
allorchè l'assemblea patrizia delle curie perdette ogni importanza politica ;
poichè in allora la religione e gli auspicii diven tano pressochè il solo
titolo di superiorità del patriziato sopra la plebe, e fu naturale che si
cercasse di accrescerne la importanza . 230. Intanto questo carattere,
eminentemente contrattuale della legge, che corrisponde all'origine federale
della città , ed anche la necessità , secondo il concetto primitivo delle genti
patrizie, che, a formare la legge, dovessero concorrere tutti gli organi dello
Stato, servono a spiegare naturalmente certe singolarità del diritto primitivo
( 1) V. in senso contrario il FUSTEL DE COULANGES, La cité antique, liv. III,
chap . XI, pag. 221 e segg., e fra i recentiilBourgeaud, Leplébiscite dans
l'antiquité, Paris , 1887, pag . 91 e segg . Quest'ultimo nega il carattere
contrattuale alla legge, anche per la considerazione, che essa non potrebbe
obbligare quelli, che non vi hanno consentito ; ma egli è evidente, che
l'accordo in una pubblica votazione non può aversi, che dando prevalenza al
maggior numero. 281 di Roma, che ebbero a verificarsi, allorchè la plebe entrò
a far parte della comunanza politica . Allora infatti venne ad essere
necessità, che il potere legislativo si portasse ai comizii centuriati, in
quanto che questi soltanto erano l'assemblea plenaria del populus romanus
(comitiatus maximus). Siccome però, accanto ai comizii centuriati, si manteneva
pur sempre l'assemblea curiata dei patres o dei patricii: così, per ubbidire al
principio che tutti gli organi politici dello Stato dovevano concorrere alla
formazione della legge, fu necessario che vi contribuisse eziandio l'assemblea
dei patres ; donde la conseguenza , che la legge centuriata dovette dapprima
essere proposta dal magistrato , votata dal popolo , e poscia ancora approvata
non solo dal senato , ma anche dall'assemblea delle curie. Di qui dovette
provenire la distinzione della patrum o patriciorum auctoritas dalla senatus
auctoritas, ancorchè le due approvazioni si riducessero in sostanza ad una
medesima cosa , perchè in questo periodo il senato può riguardarsi sopratutto
come l'organo del patriziato ; il che spiega appunto la confusione, che gli
storici vengono facendo fra l'una e l'altra auctoritas, in un'epoca , in cui
erano già scomparse e l'una e l'altra ( 1). 231. Se non che il mantenersi
fedeli a questo principio diventò assai più difficile , allorchè alle altre
fonti legislative venne ad ag giungersi eziandio il plebiscitum , che
costituiva in certo modo una lex inauspicata . Questo dapprima non può
obbligare tutto il popolo , perchè è l'opera soltanto di una parte di esso ; e
quindi, al pari dei concilia plebis, in cui viene ad essere votato, ha più
un'esistenza di fatto, che non di diritto. Intanto però la plebe ha per sè il
nu mero e la forza, e valendosi di essi cerca talora di forzare la mano al
senato . In questa condizione di cose viene ad essere nell'interesse stesso del
patriziato di fare rientrare nell'ordine legale tanto i concilia plebis,
trasformandoli in comitia tributa , allorchè trattisi di provvedimenti, che
possano interessare tutto il populus, quanto eziandio di riconoscere l'autorità
dei plebisciti, con che essi subi scano le condizioni richieste per obbligare
tutto il popolo . È in questa occasione, che nella storia politica di Roma
compa riscono successivamente tre leggi ad epoca diversa, il cui contenuto , conservatoci
dagli scrittori, sembra essere identico (ut plebiscita ( 1) V. sopra capitolo
II, § 3 , n ° 198, pag . 240 e segg. e le note relative. 282 omnem populum
tenerent) ; ma che intanto sembrano indicare tre successivi stadii di una
importantissima trasformazione. La difficoltà di conciliarle, che formò oggetto
di lunghe discussioni e che anche oggi suole essere considerata come una delle
più gravi questioni, che presenti la storia politica di Roma (1), pud, a parer
mio , essere supe rata , quando abbiasi presente il concetto della primitiva
costituzione di Roma, secondo cui qualsiasi vera legge suppone il concorso di
tutti gli organi politici dello Stato . 232. Occorre anzitutto la legge Valeria
Orazia , dell'anno 304 di Roma; la quale è la prima a dichiarare, che i
plebisciti obblighino tutto il popolo (ut quod tributim plebs iussisset omnem
populum te neret) (2 ); ma ancorchè la legge nol dica , questo è certo che,
secondo il concetto informatore della costituzione politica di Roma, ciò poteva
solo accadere , allorchè i provvedimenti, che erano di iniziativa della plebe,
avessero subite tutte le prove, a cui erano sottoposte le stesse ( 1) Così si
esprime il Soltau, die Gültigkeit der Plebiscite, Berlin , 1888 , pag . 107. La
bibliografia sulla questione pud vedersi nel BOURGEAUD, Le plébiscite dans
l'anti quité, Paris, 1887, pag. 121, il quale sosterrebbe, che il plebiscito
sia stato in ogni tempo una deliberazione presa dalla sola plebe, esclusi i
patrizii. Non potrei divi dere tale opinione, poichè vi fu un tempo , in cui la
differenza fra plebiscito e legge si ridusse unicamente alla persona diversa ,
che ne prendeva l'iniziativa , secondo che essa fosse un tribuno, od un altro
magistrato . Vero è che il vocabolo di plebs signi fica il populus, esclusi i
senatori ed i patrizii;ma il motivo , per cui i patrizii non si tenevano legati
dai plebisciti non consisteva già in ciò, che essi non potessero inter venire
ai comizii tributi, essendo anch'essi iscritti alle tribù, ma in ciò, che essi
soste nevano « plebiscitis se non teneri, quia sine auctoritate eorum facta
essent » ,Gaio, Comm. I, 3. Tolta poi la necessità della patrum vel patriciorum
auctoritas, i plebisciti divennero obbligatorii per tutto il popolo, e anche i
patrizii poterono certo intervenire ai comizii tributi. Difatti dopo la legge
Ortensia le due espressioni di leo e di plebi scitum diventano fra di loro
equipollenti, e occorrono perfino le espressioni populum plebemve iussisse,
come nella lex tabulae Bantinae (Bruns, Fontes, pag. 51). (2) Secondo il
Mommsen, è da questa legge, che parte l'istituzione dei comizii curiati , e
quindi egli riterrebbe, che nei termini conservatici da Livio , III, 55, come
proprii della legge Valeria Orazia, si dovrebbe sostituire il vocabolo di
populus a quello ivi adoperato di plebs, e leggere quindi: quod tributim
populus iussisset, omnem populum teneret (Römische Forschungen , I, pag . 164-5
). Non parmi, che questa opinione possa essere accolta , sia perchè tutti i
giuristi fanno partire il pareggiamento del plebiscitum colla lex dalla legge
Ortensia, e non dalla legge Valeria Orazia, ed anche perchè poste riormente la
denominazione di lex o di plebiscitum non sembra più dipendere dalla
composizione dei comizii, ma piuttosto dal magistrato, da cui sono convocati,
il quale come dava il suo nome alla legge, così poteva anche attribuirvi il
carattere di lex o di plebiscitum : tanto più che la sua efficacia veniva ad
essere uguale . 283 - leggicenturiate. Questa legge pertanto significo
solamente, che anche i tribuni della plebe potevano prendere l'iniziativa di un
provvedi mento , che potesse obbligare tutto il popolo ; ma che il medesimo,
per avere un tale effetto, doveva poi essere approvato dal Senato, ed ottenere
anche la patrum auctoritas, come lo dimostrano gli sforzi, che in questo
periodo si fanno dai tribuni per ottenere l'ap provazione del senato a
plebisciti , come quelli di Canuleio, di Icilio e altri ancora . Quasi si
direbbe, che questo è il periodo delle seces sioni, a cui ricorre appunto la
plebe, quando non può ottenere dal senato l'approvazione di un provvedimento da
essa desiderato . Suc cede quindi una seconda legge, che è la legge Publilia
del 415 di Roma, la quale, mentre in un capo statuisce, che la patrum
auctoritas doveva precedere le leggi centuriate , ripete in un altro
l'ingiunzione già fatta che « plebiscita omnes quirites tene rent (1). È però
evidente, che la portata di questa legge verrà ad essere diversa , perchè in
virtù di essa i plebisciti, al pari delle leggi centuriate, non dovevano più
essere susseguiti, ma preceduti dalla patrum auctoritas, che comprende
probabilmente anche la senatus auctoritas. Noi abbiamo quindi un secondo
periodo, in cui tutte le proposte di provvedimenti, per parte dei tribuni della
plebe , sogliono esser precedute da trattative ed accordi fra il senato e i
tribuni della plebe, per guisa che il senato si vale talvolta di questi per
ottenere , che essi prendano la iniziativa di una determinata proposta (2 )
233. Da ultimo infine apparve, che anche questa previa approva (1) È lo stesso
Livio, che ci conservò i termini di questa legge, VIII, 12. (2 ) Secondo il
WILLEMS, Le Sénat, II, chap. I, l'espressione di patrum auctoritas sarebbe
equipollente a quella di senatus auctoritas . Tale opinione è divisa dal Bour
GEAUD, op. cit ., pag. 135, ed è combattuta invece dal Soltau, die Gültigkeit
der Ple. biscite, pag . 135, come pure dal Pantaleoni nella 3a parte della sua
dissertazione : Dell'auctoritas patrum nell'antica Roma (< Rivista di
Filologia » , Torino, 1884 , pag. 350 a 395). Di fronte ad una quantità di
passi di scrittori antichi, citati da quest'ultimo, in cui si usano le
espressioni di patricii auctores, mentre altre volte si parla invece della
senatus auctoritas, fra cui è notabile il passo di Livio , III, 63, parmiche
l'opinione del WILLEMS non possa essere accolta . Ritengo tuttavia, che gli
storici, mossi forse dall'identico interesse, che potevano spingere le curie
dei patrizii e il senato a fare opposizione ad un provvedimento di iniziativa
della plebe, possano talvolta aver comprese le due cose col vocabolo alquanto
incerto di patrum aucto ritas. V. in proposito ciò , che si è detto nel
capitolo precedente 83, n ° 198, pag . 240 e note relative. 284 zione dei
padri, senza sempre riuscire nell'intento , finiva per essere causa di dissidii
e di secessioni. Fu quindi, in seguito ad una di queste secessioni, che sulla
proposta del dittatore Ortensio , uscito dalla no biltà di origine plebea,
sopravviene una legge Ortensia, nel 467 della città, che ripete pur sempre la
stessa formola ; ma intanto toglie di mezzo la necessità della previa
approvazione dei padri e produce, se condo Pomponio, l'effetto, che « inter
plebiscita et legem species con stituendi interessent, potestas autem eadem
esset ( 1) » . Fu neces saria una secessione e ci volle un dittatore per
vincere questa legge ; ma ve ne era ben donde, poichè, a mio avviso , non vi ha
forse nella storia della costituzione primitiva di Roma una rivoluzione più ra
dicale di questa . Con essa infatti l'antico concetto di lex , quale era stato
concepito da Roma patrizia, viene ad essere sovvertito ; in quanto che potrà
esservi una legge, alla cui formazione non coope rino tutti gli organi politici
dello Stato ; poichè d'allora in poi anche un solo elemento , la plebe, può
dettare leggi, che sono obbligatorie per tutto il popolo . Strappo più grave
non poteva essere arrecato alla costituzione patrizia : ma tentasi ancora di
rimarginarlo nel senso , che fu da questo tempo probabilmente , che la nobiltà
plebea co minciò a penetrare nelle curie , e che il patriziato antico si valse
* della sua iscrizione alle tribù per intervenire anche ai comizii tri buti, i
quali poterono anche esser presieduti da magistrati patrizii, e furono anche
essi preceduti dagli auspizii. Per tal modo i concilii un tempo della plebe
diventarono anch'essi comizii del popolo, e solo cambiò il criterio, che doveva
essere di base alla riunione, in quanto che i comisii centuriati si adunavano
in base al censo, e i comisii tributi in base alle tribù . Da questo momento il
senato trovossi (1) Che il pareggiamento fra la lex e il plebiscitum parta
veramente dalla legge Ortensia, la quale deve aver tolta dimezzo la patrum
auctoritas, risulta dai seguenti passi di scrittori e giureconsulti, che erano
meglio in caso di apprezzare il valore tecnico delle parole. Pomponio L. 2 , 8,
Dig. ( 1, 2 ), oltre l'espressione già riportata nel testo, scrive : « pro
legibus placuit et ea plebiscita observari » , e aggiunge al $ 12 : «
plebiscitum , quod sine auctoritate patrum est constitutum » , con che accen
nerebbe all'abolizione della patrum auctoritas per i plebisciti. Così pure Gaio
, Comm ., I, 3 : « lex Hortensia lata est, qua cautum est, ut plebiscita omnem
populum tene rent, itaque eo modo legibus exaequata sunt; Giustin ., Instit.,
I, 2 : « sed et plebi scita , lege Hortensia lata, non minus valere, quam
leges, coeperunt » . Lo stesso confermano Aulo Gellio , Noc. Att., X , 20 e XV,
27 ; come pure Plinio, Hist. nat., XVI, 15 , 10. — Cfr. ORTOLAN , Histoire de la
législation romaine, pag. 161, n . 178 et suiv. e il Madvig , L'État romain ,
trad. Morel, Paris, 1882, I, pag. 260. 285 costretto ad invitare frequentemente
i tribuni a presentare dei pro getti di riforme o di misure amministrative alla
plebe (agebat cum tribunis, ut ferrent ad plebem ), e quindi il tribunato viene
a for mare l'elemento riformatore , ed attivo nell'organizzazione dello Stato .
Che anzi i comizii tributi possono anche essere presieduti da magi strati
patrizii, trattandosi di leges praetoriae , o di elezioni dimagi strati minori.
Accanto ai medesimi, si mantengono perd ancora i concilia plebis : ma si
limitano a provvedimenti, che riguardano la sola plebe, e alla nomina di
magistrati esclusivamente plebei. 234. Intanto però eravi sempre l'organo
politico più potente in questo periodo, che era il senato, il quale veniva ad
essere lasciato in disparte nella formazione della legge, in quanto che non era
più richiesta la sua approvazione. È in allora che il senato, non avendo più in
questo argomento una parte proporzionata alla effettiva sua influenza, non
potendo sempre bastargli di far dichiarare gli au spicia vitiata e di rifiutare
l'esecuzione dichiarando « ea lege non videri populum teneri » viene ad essere
condotto a forzare la propria funzione consultiva. È quindi da quell'epoca, che
cominciano a compa rire dei senatusconsulti con autorità di leggi (1 ). Indarno
i seguaci del partito popolare protestano contro questa violazione della logica
inerente all'istituzione del senato , poichè questo ha influenza suffi ciente
per far valere la propria pretesa . Si capisce quindi come più tardi i
giureconsulti finiscano per esclamare « non ambigitur senatum ius facere posse
» ; indicando così colla stessa loro affermazione, che il dubbio era veramente
esistito (2 ). Siccome però le trasgressioni alla logica di una costituzione
non si fanno impunemente : cosi in questa stessa epoca, anche gli editti dei
magistrati e sopratutto quelli del pretore ,avendo l'appoggio dalla pubblica
opinione, finiscono ancor essi per costituire un ius non scriptum , che viene
poi a conver tirsi in un ius scriptum e in una copiosa fonte legislativa. A
questo punto lo Stato romano è ormai un organismo troppo (1) Cfr. Madvig,
L'État romain , I, 260; WILLEMS, Le Sénat, II, chap . III. Però è sopratutto il
PUCATA, che hamesso in evidenza l'importante rivoluzione introdotta della legge
Ortensia (Cursus der Institutionen, I, $ 75 ). Solo mi pare di dover ag
giungere, che la rivoluzione stessa sta nell'aver cambiato il primitivo concetto
di lex , e di aver così iniziato l'esercizio di una specie di potere
legislativo per parte dei singoli organi politici dello Stato . (2 ) ULP., L.
8, Dig . (1, 3 ). 286 grande , perché possa mantenersi ancora il rigoroso
principio del l'antica costituzione patrizia, che a formare le leggi debbono
con correre tutti gli elementi costitutivi dello Stato ; conviene di ne cessità
lasciare, che ciascuno di questi elementi possa dal suo canto prendere
l'iniziativa . È per questo motivo, che i comizii tributi di ventano la
sorgente legislativa più copiosa , durante gli ultimi secoli della repubblica,
e che i pretori, di magistrati preposti all'ammini strazione della giustizia ,
si mutano in certo modo in legislatori (ius honorarium ): al modo stesso che
più tardi anche i giureconsulti sa ranno autorizzati a dare dei responsi, che
avranno autorità di leggi (responsa prudentum ). Tuttavia siccome tụtti questi
fattori con tinuano pur sempre a procedere sulle traccie antiche ; così
l'edificio non solo potrà mantenersi saldo, ma per qualche tempo si innal zerà
tanto più rapido e grandioso , quanti più sono gli artefici, che cooperano alla
costruzione. Sarà invece quando mancherà il senso del pubblico bene, e quando
scomparirà la distinzione antica fra l'interesse pubblico e il privato , che,
per salvare un edifizio, il quale tende a scompaginarsi, sarà necessario di
rimettere ogni cosa nelle mani di un solo , la cui volontà, in base ad una
apparente investi tura del popolo , legis habet vigorem (1) . Questo sguardo allo
svolgimento storico del concetto di legge, pro lungato oltre i confini, che
misarebbero prefissi, deve essermi per donato ; perchè era soltanto
sorprendendo il concetto alle origini, che poteva comprendersene l'incerto ed
irregolare sviluppo, come lo dimostrano le divergenze di opinioni, che ancora
oggi dominano l'ar gomento . (1) Ulp., L. 1, Dig . ( 1, 4 ) « Quod principi
placuit, legis habet vigorem ; utpote quum lege regia , quae de imperio eius
lata est, populus ei et in eum omne suum imperium ac potestatem conferat ». Per
tal modo la lex , che era un tempo il frutto dell'accordo di tutti gli organi
politici, diventa ormai l'opera di un solo ; ma intanto si mantiene sempre il
concetto, che la sorgente di ogni potere sia il popolo ; altra conferma dell'opinione,
fin qui sostenuta, relativamente alla populi potestas. Questo svolgimento
storico della legge in Roma sembra essere compendiato da POMPONIO , allorchè,
dopo aver discorso delle lotte fra la plebe, il patriziato ed il senato, con
chiude dicendo : « Ita in civitate nostra aut iure, id est lege, constituitur,
aut est proprium ius civile, quod sine scripto in sola prudentum
interpretatione consistit ; aut sunt legis actiones, quae continent formam
agendi; aut plebiscitum , quod sine auctoritate patrum est constitutum ; aut
est magistratuum edictum , unde ius hono rarium nascitur; aut senatus consultum
, quod solum senatu constituente inducitur sine lege; aut est principalis
constitutio, id est, ut quod ipse princeps constituit, pro lege servetur » , L.
2 , 12, Dig . (1 , 2). 287 $ 3.- L'elezione del rex , l'interregnum , e la lex
curiata de imperio. 235. Per quello che si riferisce al magistrato supremo del
popolo romano, il concetto, a cui si informa la primitiva costituzione pa
trizia , consiste nel ritenere che, come è immortale il popolo, cosi non
debbano mai essere interrotti nè gli auspicia , nè l'imperium , indispensabili
entrambi per la prosperità della repubblica. È questo concetto, che spiega,
come, morto il re , auspicia ad patres re deant; è questo parimenti, che
condurrà più tardi a fissare il co stume per cui i magistrati annui succeduti
al re, debbono, prima di uscire di ufficio e finchè ritengono ancora gli
auspicia , proporre il proprio successore; è questo infine , che può
somministrare il mezzo per comprendere quella singolare istituzione
dell'interregnum , non che la procedura solenne per l'elezione del re, che,
introdotte fin dagli inizii di Roma, si perpetuano ancora col medesimo nome e
colle stesse formalità sotto la repubblica, allorchè i re sono aboliti, e che
in questi ultimitempi ebbero ad essere argomento di tante e cosi erudite
elucubrazioni. 236. Un recente autore , il Bouchè Leclercq , ebbe a scorgere
nel l'interregnum e nella procedura per l'elezione del re , « un capo lavoro di
casuistica , in cui appare lo spirito sottile e formalista degli antichi romani
» (1). Ciò darebbe a credere, che le due pro cedure siano una creazione
architettata dai pontefici, i quali in que st'argomento avrebbero dato prova
del loro acume teologico e giuridico . Parmi invece assai più semplice e più
verosimile il ri tenere, che i romani, in questo , come in altri casi, non si
compiac ciano nella creazione di formalità , come tali, ma intendano piuttosto
a conservare le tradizioni del passato. Le formalità infatti , che accompagnano
l'interregno e la elezione del re, non dimostrano l'investitura divina del re,
come alcuni vorrebbero : ma provano sol tanto , che i romani avevano altissimo
il concetto della continuità ideale dello Stato, alla guisa stessa , che prima
avevano avuto quello della perennità della famiglia e della gente. Esse provano
parimenti, (1) Bouché-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, Paris, 1886,
pag . 15 . 288 che, secondo il concetto primitivo della costituzione romana, al
l'elezione del magistrato , per trattarsi dell'atto forse più importante per la
comunanza , dovevano prendere parte tutti gli elementi costi tutivi dello Stato
. Ciò stante , anche in quest'elezione riscontrasi quel carattere contrattuale,
che abbiamo trovato nella legge, in quanto che il re, già nominato e
consacrato, deve ancora sottoporre all'assemblea della curia la lex curiata de
imperio, e solo dopo la medesima può compiere gli uffici a lui affidati, come
capo civile e militare della comunanza. Infine queste formalità possono anche
considerarsi come un indizio , che in un anteriore periodo di orga nizzazione
sociale gli auspicia risiedevano nei patres, ai quali perciò dovevano
ritornare, allorchè il re veniva a mancare . 237. Per conchiudere, questa istituzione
dell' interregnum , ar gomento di tante discussioni, deve essere considerata
anche essa come un naturale processo , che dovette spontaneamente formarsi in
una comunanza primitiva , uscita allora dal seno dell'organizzazione gentilizia
: processo , che è perd rivestito di quel carattere religioso e solenne, che i
romani attribuivano ad ogni loro atto, e sopratutto a quelli, che riguardavano
il pubblico interesse. In una comunanza infatti di carattere gentilizio ,
formatasi mediante una confederazione, riverente verso l'età e memore delle
tradizioni del passato , era na turale, che, mancando il capo comune, il suo
potere religioso , civile e militare dovesse passare al padre più anziano della
più antica decuria del senato , e da questa trasmettersi successivamente ai
principes delle altre decurie, che venivano dopo , in base all'an zianità ,
accið non venisse ad essere offeso il senso geloso , che i capi di famiglia
avevano della propria uguaglianza , e non potesse neppur nascere il timore, che
uno di essi « regni occupandi consilium iniret » . Era naturale parimenti, che
la proposta del successore dovesse partire da uno dei padri, ed anzi dal più
anziano fra essi, sebbene sia pur consentaneo all'indole di questa comunanza,
che la sua proposta potesse essere anche comunicata agli altri padri, e che
fosse anche sentito in famigliari concioni l'avviso del popolo, ancora composto
esclusivamente di membri delle genti patrizie . Maturata così la proposta , è
l'interrè , che deve farla ; le curie, che debbono approvarla ; la presa degli
auspicii, che deve inaugurarla ; e infine fra l'eletto e la comunanza deve
intervenire quella specie di con venzione e di accordo , che avverasi mediante
la lex curiata de imperio; la quale, sotto un aspetto, costituisce l'investitura
del ma 289 gistrato per parte del popolo , e dall'altro vincola quest'ultimo
alla obbedienza verso di quello. Infine questo processo naturale di cose viene
come al solito gittato e fuso in certe forme solenni, che si trasmettono ad
epoche, le quali mal sanno apprezzare i motivi, che le fecero adottare;
cosicchè viene ad apparire artificiosa ed architettata in modo casuistico e
sottile quella procedura, che dovette un tempo essere la naturale conseguenza
del modo di pensare e di agire di coloro , che concorrevano alla formazione di
essa . 238. Ad ogni modo il caso , di cui ci fu serbata memoria parti
colareggiata, e in cui appare in tut a la sua solennità questa pro cedura
solenne, è la elezione di Numa, il quale fra i re primitivi si presenta ancora con
un carattere pressochè patriarcale. Sparito Romolo e collocato fra gli dei col
nome di Quirino, gli auspicia e l'imperium erano passati ai capi delle decurie
del senato, che se ne trasmettevano di cinque in cinque giorni le insegne
(decem imperitabant, unus cum insignibus imperii et lictoribus erat). I padri,
che non parevano troppo soddisfatti del regis imperium , agitano il partito se
non fosse il caso di non più nominare il re : ma di lasciare, che il potere si
venga cosi avvicendando, senza che alcuno possa essere re per tutta la vita .
Il partito non prevale fra il popolo , il quale non ama di avere cento capi, a
vece di un solo , e quindi a re si sceglie Numa di stirpe sabina . È l'interrè,
che è chiamato a proporlo (rogat), ed è il popolo che è chiamato a crearlo,
mentre sono i padri, che approvano l'elezione (quirites, regem create : deinde,
si dignum crearitis, patres auctores fient). Segue poscia l'inauguratio , che è
descritta in modo particolare da Livio ; e viene ultima la proposta della lex curiata
de imperio , la quale, non ri cordata da Livio , è invece ricordata e ripetuta
da Cicerone ad ogni elezione di re , quasi ad indicare l'importanza, che la
medesima doveva avere. Ci attesta poi Livio , che questta procedura, che egli
descrive come introdotta per quel caso determinato, ma che Dionisio farebbe già
rimontare allo stesso Romolo , non è stata abbandonata più tardi: « hodieque in
legibus magistratibusque rogandis usurpatur idem ius, vi adempta » , cioè
esclusa la violenza , a cui dovette dal popolo ricorrersi in quel caso, accid i
patres procedessero alla proposta del nuovo re ( 1) (1) Livio , I, XVII; Cic .
De Rep., II, 13, 17, 18 , 20 ; Dion ., II, 57 ; PLUTARCO , Numa, 2. Di fronte a
queste testimonianze concordi, non può esservi dubbio, che du G. Carle , Le
origini del diritto di Roma. 19 290 239. Il concetto informatore dell'elezione
del magistrato non po trebbe qui essere più chiaro ; essa deve essere l'opera
di tutti gli organi dello Stato , ed assume un carattere pressochè contrattuale
fra magistrato e popolo, al pari di qualsiasi altra legge. Cacciati i re, il
concetto si mantiene, poichè anche con magistrati annui la con tinuità degli
auspicia e dell'imperium non deve essere interrotta ; quindi è l'antecessore ,
che è chiamato a proporre il successore, e se egli per qualche motivo non possa
farlo, si ricorre alla nomina di un interré, anche quando i re già sono
aboliti. Tuttavia, anche in questa parte , l'accoglimento della plebe nel
populus delle classi e delle centurie produce una modificazione nella primitiva
costituzione ; modificazione, che in questi tempi diede argomento a gravissime
discussioni, e che, in coerenza alle cose sovra esposte, pud a mio avviso
essere spiegata nel modo seguente. Non può esservi dubbio che, durante il
periodo regio , l'interres era uno dei patres del senato , ai quali redibant
auspicia . Colla repubblica invece, al modo stesso che nel populus delle classi
e delle centurie fu compresa anche la plebe, così anche il senato venne ad
essere non più composto esclusivamente di patrizii, ma anche di nobili plebei;
del che alcuni scorgono un indizio nella de nominazione data ai senatori di
patres et conscripti. Comunque stia la cosa , questo è certo , che il senato,
divenuto patrizio -plebeo , non poteva più rappresentare gli antichi patres o
patricii, che erano stati i fondatori della città , e ai quali redibant
auspicia . Erano le curiae invece, le quali continuarono ancora per lungo tempo
ad essere esclusivamente patrizie, e di cui potevano fare parte anche i senatori
di origine patrizia, che di fronte al rimanente del popolo rappresentavano
l'antico ordine dei patres o dei patricii, e alle quali perciò dovevano
ritornare gli auspicia . Di qui la conseguenza, che furono i patricii, o in
altri termini le curiae, a cui venne a devolversi la proposta dell'interrex ,
come lo dimostrano le espres sioni « patricii coeunt ad interregem prodendum »
, « patricii rante il periodo regio l'interrea era tolto , secondo certe regole
tradizionali, dal se nato, e che dallo stesso senato partiva la patrum
auctoritas. Anche quanto alla lex curiata de imperio, ancorchè solo ricordata
da CICERONE, di fronte alla sua atte stazione ripetuta, manca ogni motivo di
ragionevole dabbio. Non potrei quindi, come sopra già si è accennato, nº 199,
pag. 244 , in nota , consentire col Karlowa, Röm . R.G., pag. 52 e 82 e segg.,
il quale ritiene che la lex curiata de imperio sia entrata in azione soltanto
colla costituzione di Servio Tullio . 291 interregem produnt» e simili, e ciò
perchè l'interrex , facendo in certa guisa ancora rivivere la figura del rex
primitivo, ed essendo depositario e custode degli auspicia , durante il periodo
della va canza del magistrato, non poteva esser nominato che da patrizii e fra
i patrizii, come espressamente ci attesta Cicerone allorchè af ferma: « cum
interrex nullus sit, quod et ipsum patricium et a patriciis prodi necesse est »
(1). Come sia accaduto questo cambiamento , se cioè per legge o per il logico
sviluppo delle isti tuzioni, il che è più probabile, non si può affermare con
certezza; ma certo dovette essere questo il processo logico , che governo tale
modificazione. In questo modo infatti si vengono a rannodare insieme tre
istituzioni, che furono argomento di lunghe discussioni, e di cui tutti
riconoscono la strettissima attinenza , che sono la patru patriciorum
auctoritas per le leggi, la lex curiata de imperio per la elezione dei
magistrati, e la proposta dell'interrex , accið l'im perium e gli auspicia non
siano interrotti, durante la vacanza del magistrato . Tutte queste istituzioni
non sono che conseguenze ed ap plicazioni dell'antico principio, che « auspicia
penes patres sunt» ; dal qual concetto conseguiva, che nè una legge, nè un
magistrato , nè un interrex potevano ritenersi bene auspicati per lo Stato ,
senza l'intervento dell'ordine patrizio , il quale, di fronte al nuovo popolo ,
corrispondeva ai patres del periodo regio. In questo senso viene ad essere
spiegato quanto ci afferma Cicerone che « curiata comitia , tantum auspiciorum
causa , remanserunt » , come pure si com prende, che col tempo i medesimi si
siano ridotti ad una imitazione od adombramento dell'antico per mezzo dei
trenta littori, che rap presentavano le trenta curie (ad speciem atque ad
usurpationem vetustatis per XXX lictores) (2 ). Intanto però , anche coll'
introduzione dei comizii centuriati, la nomina dei veri magistrati cum imperio
continua ancora sempre ad essere l'opera di tutti gli organi politici dello
Stato, in quanto che vi ha sempre il magistrato o interrè, che lo propone
(rogat) ; il popolo delle classi o centurie, che lo elegge (creat) ; il senato
, che continua a dare la propria auctoritas alla elezione (auctor fit) ; e da
ultimo l'assemblea delle curie, che lo investe degli auspicia e dell'imperium
mediante la lex curiata de imperio, per modo (1 ) CICERO, Pro domo sua, 14 . (
2) CICERO, De lege agraria , II, 11, 27 e 28 . 292 che il magistrato non può
entrare in ufficio, e compiere sopratutto atti di carattere militare, prima di
aver ottenuta la legge stessa (1). 240. Se non che anchequi lo svolgimento
armonico e coerente della primitiva costituzione romana comincia a dar luogo ad
un dualismo, allorehè compariscono i magistrati plebei, e sopratutto il
tribunato della plebe, il quale, pur essendo la magistratura urbana più operosa
del periodo repubblicano , non riesce però mai ad inquadrarsi per fettamente
nella costituzione politica di Roma. Dapprima infatti i tribuni della plebe non
sono ancora veri magistrati, ma piuttosto ausiliatori della plebe, e non si pud
neppure affermare con certezza dove fossero nominati, in quanto che gli storici
parlano di una no mina fatta dalla plebe per curie, di cui non si comprende il
signifi (1) Ho cercato qui di riunire e di risolvere, mediante i concetti
informatori della primitiva costituzione di Roma, e dei cambiamenti, che in
essa si vennero operando, alcune questioni, che furono oggetto di gravi e
lunghe discussioni. La patrum au ctoritas, la lex curiata de imperio, la
proposta dell'interrex furono spiegate in varia guisa. Havvi l'opinione del
Niebhur , seguìta anche dal Becker , Röm . Alterth ., vol. II, pag. 314-332,
che pareggia fra di loro la patrum auctoritas e la lex curiata de imperio, e
quindiattribuisce l'una e l'altra alle curie fin dal periodo regio ; vi ha
quella del WILLEMS, Le droit public romain , pag. 208 a 212, che invece
attribuisce al vocabolo di patrum auctoritas la significazione costante di
senatus auctoritas, affi dando al senato anche la proposta dell' interrex ;
sonvi il Rubino , e fra i recenti il Karlowa, Röm . R.G., I, p . 44 e seg., i
quali sotto le espressioni di patrum aucto ritas e di patricii interregem
produnt scorgono i senatori patrizii, e quindi affidano ad essi così la patrum
auctoritas, come la proposta dell'interrex . Vi banno infine quelli, i quali
sostengono, che la primitiva costituzione dovette certo subire qualche modi
ficazione, allorchè la formazione delle leggi e la elezione dei magistrati dal
popolodelle curie passò al popolo delle classi e delle centurie, e che il
senato diventò pa trizio-plebeo ; poichè in allora tutte le funzioni, che si
rannodavano agli auspicia , dovettero di necessità passare alle curie, che
erano il solo corpo esclusivamedelle curie passò al popolo delle classi e delle
centurie, e che il senato diventò pa trizio-plebeo ; poichè in allora tutte le
funzioni, che si rannodavano agli auspicia , dovettero di necessità passare
alle curie, che erano il solo corpo esclusivamente pa trizio. Tale è l'opinione
sostenuta con molta dottrina dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum nell'antica
Romu (Rivista di Filologia , Torino, 1884, pag . 297 a 395). Se guendo un
processo diverso, sono riuscito ad una conclusione analoga a quella soste nuta
dal Pantaleoni, e intanto ho cercato di richiamare ad un unico concetto i varii
aspetti, sotto cui presentasi la questione. Ritengo poi, che tanto il
pareggiamento della patrum auctoritas e della lex curiata de imperio (BECKER),
quanto quello della patrum auctoritas e della senatus auctoritas (WILLEMS),
quanto infine il con cetto di un senato patrizio, diviso dal plebeo, che
darebbe l'auctoritas e proporrebbe l'interrex (KARLOWA), per quanto sostenute
con ingegno e con erudizione, siano in contrasto coi passi degli antichiautori,
e collo svolgimento storico della costituzione romana . 293 cato (1 ). Più
tardi nel 283 U. C. da Publilio Volerone si ottiene, che la plebe possa
nominare i suoi tribuni nei proprii concilii, i quali cosi vengono ad essere
legalmente riconosciuti. Come quindi con tinua ad esservi sempre un magistrato
esclusivamente patrio, il qualedeve essere nominato dai patrizii delle curie,
che è l'interrex ; così vengono ad esservi deimagistrati, esclusivamente
plebei, quali sono appunto i tribuni e gli edili della plebe, che debbono esser
sempre nominati nei concilia plebis. Per quello poi, che si rife risce ai
magistrati veri del popolo romano, e comuni ai due ordini, si viene ad operare
una specie di divisione del potere elettorale fra i comizii centuriati, che
continuano sempre a nominare i magi strati maggiori, ei comizii tributi, che
finiscono per attirare a sè la nomina dei magistrati minori ; di quei
magistrati cioè, che un tempo erano nominati direttamente dal magistrato
maggiore. Per talmodo anche qui sonvi i poteri, in cui i due ordini si
confondono e si ripartono gli uffizii, ma rimangono ancor sempre le traccie del
l'opposizione , che un tempo esisteva fra patriziato e plebe (2 ). Infine è
ancora degno di nota in quest'argomento il processo, che i romani seguirono
nella creazione dei pro-magistrati nelle pro vincie, secondo cui i magistrati
di Roma, allorchè avevano terminato il proprio ufficio nella città, diventavano
pro-magistrati nelle pro vincie . Per noi la cosa può sembrare singolare : ma
pei romani era un processo regolare e costante , in quanto che essi, al modo
stesso che avevano prese le istituzioni gentilizie e le avevano tra piantate
nella città , così presero i magistrati di Roma, e li tras portarono nelle
provincie , prorogandone l'imperio e chiamandoli pro-magistrati, poichè i veri
magistrati dovevano essere quelli di (1) È Dionisio, IX , 41, il quale dice,
che i tribuni furono dapprima eletti nelle curie, ma in verità non si riesce a
comprendere come i difensori della plebe potes sero essere eletti
coll'intervento del patriziato ; salvo che con ciò si voglia dire, che la
plebe, per la nomina dei suoi primi tribuni, siasi raccolta nel luogo stesso,
ove si riunivano le curiae. La proposta di Volerone ebbe poi grandissima
importanza in quanto che è con essa, che incomincia il riconoscimento legale
dei concilia plebis. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, pag . 593 e segg . Non parmi
tuttavia, che si possa far rimontare a quest'epoca l'esistenza dei comitia
tributa , poichè i tribuni della plebe, anche più tardi, furono sempre nominati
nei concilia plebis. (2) Questa è una prova , che in questo periodo della
costituzione politica di Roma i veri comizii del popolo romano erano i comiziï
centuriati e i comizii tributi ; mentre i comizii curiati erano solo più
conservati auspiciorum causa, ed i concilia plebis per provvedimenti di interesse
esclusivo alla plebe. 294 Roma (1 ). Veniamo ora all'esercizio del potere
giudiziario nel periodo regio . § 4. – L'amministrazione della giustizia , la
distinzione fra ius e iudicium , e la provocatio ad populum nel periodo regio .
241. Per quello che si attiene all'amministrazione della giustizia durante il
periodo regio, la questione fondamentale , intorno a cui vi ha grande
divergenza fra gli autori, è quella che sta in vedere se l'esercizio della
giurisdizione, cosi civile come penale, apparte nesse esclusivamente al re,
oppure vi avessero anche partecipazione il senato ed il popolo . Questo è però
fuori di ogni dubbio, che in questo periodo si cercherebbe indarno una
delimitazione precisa fra la giurisdizione civile e la criminale , sebbeue già
sianvi dei reati, che sono pubblicamente proseguiti, come si vedrà più tardi,
discor. rendo del parricidium e della perduellio , e delle autorità incari cate
della prosecuzione e punizione di essi (quaestores parricidii e duumviri
perduellionis ) ( 2). Senza pretendere di volere risolvere le gravissime
questioni, che si agitano in proposito , mi limito unicamente ad osservare ,
che anche in questa parte la costituzione primitiva di Roma contiene il germe
di tutte quelle istituzioni, che son chiamate a determinare lo svolgimento
ulteriore del potere giudiziario in Roma. Queste isti tuzioni primordiali, che
gli antichi fanno già rimontare al periodo regio , sono: la potestà di
giudicare, che appartiene al re ; la distin zione fra il ius e il iudicium ,
per cui, accanto al magistrato qui ius dicit, già compariscono i iudices , gli
arbitri, i recuperatores in materia civile, ed i duumviri, ed i quaestores in
materia crimi nale ; e da ultimo l'istituto della provocatio, che col tempo
sarà quello , che finirà per trasportare la giurisdizione penale dal magi
strato ai comizii. Questi istituti sono in certo modo altrettanti abbozzi, che
svolgendosi a poco a poco finiranno per determinare l'evoluzione del potere
giudiziario, durante il periodo repubblicano. 242. Che la potestà del ius
dicere sia compresa nella concezione (1) Non occorre di notare, che qui si
parla dei pro-magistrati, che dopo essere stati consoli o pretori in Roma,
diventavano proconsoli o propretori nelle provincie . Cfr. in proposito
MOMMSEN, Le droit public romain , I, pag. 11 e segg. (2 ) Cfr. Muirhead, Histor
. introd ., Sect. 15 , pag. 59 . 295 - sintetica del regis imperium , sebbene
non esista ancora la sepa razione recisa fra la iurisdictio e l'imperium , è
cosa a parer mio chenon può essere posta in dubbio . Non può quindi essere
accolta l'opinione del Maynz, che quasi vorrebbe fin dal periodo regio
attribuire la giurisdizione criminale al popolo (1 ). Tuttavia in pro posito
occorre di rettificare un concetto , che sembra essere general mente adottato ,
secondo cui si vorrebbe in certo modo riconoscere nel re il potere di giudicare
di qualsiasi controversia e di qualsiasi misfatto . Questo concetto ripugna col
processo seguito nella forma zione della città , e dell'imperium regis. Almodo
stesso , che la ci vitas non assorbi tutta la vita delle genti e delle famiglie
, ma è dovuta ad una specie di selezione, che si viene operando di quelle
funzioni civili, politiche e militari, che prima erano esercitate dalle singole
comunanze patriarcali ; così anche il potere regio venne for mandosi, mediante
lente e graduate sottrazioni, che si vennero ope rando da quei poteri, che
prima appartenevano ai capi di famiglia e delle genti. Di qui la conseguenza ,
che negli esordii dovette per lungo tempo mantenersi vigorosa, accanto al
potere del re, la giu risdizione propria dei capi di famiglia e delle genti, e
che per lungo tempo ancora i capi di famiglia curarono essi la prosecuzione
delle proprie offese e continuarono ad essere i vindici della disciplina, che doveva
essere mantenuta nelle famiglie ; come lo dimostra il fatto stesso dell'Orazio,
quale ci viene narrato da Livio . Tut tavia in questa progressiva formazione
del potere del magistrato fu la stessa realtà dei fatti e l'intento della
comunanza civile e po litica , che somministrò il concetto direttivo, che ebbe
a determi narla . Questo concetto consiste in cid , che il re primitivo non si
impone ai membri delle genti e delle famiglie come tali, ma bensi ai medesimi ,
in quanto sono quiriti , cioè in quanto partecipano alla stessa convivenza
civile e politica . Quindi il re dapprima non è il custode dell'ordine delle
famiglie, nè il vindice delle offese tutte, che possono patire i membri di esse
; ma è il custos urbis , ed è incaricato sopratutto di provvedere al
mantenimento di quelle leges publicae, che sono in certo modo la base della
confederazione ci vile e politica , a cui addivennero le varie comunanze . Nel
resto continuano ad essere competenti i singoli padri e capi di famiglia , V.
Maynz, Introd. au cours de droit romain , n. 20, pag. 60, ove sostiene, che
anche in tema di giurisdizione criminale la sovranità appartenesse alla
nazione. 296 ed anche i capi di tutti gli altri sodalizii di carattere
religioso o civile (magistri): i quali, secondo il concetto primitivo, hanno
giuris dizione sui membri tutti del sodalizio , come lo dimostra , fra le
altre, la giurisdizione del pontefice sui sacerdozii, che da esso dipendono (1
). Sarà quindi solo più tardi, ed a misura che nella cerchia delle mura cittadine
saranno anche comprese le abitazioni private , che la giu risdizione del
magistrato perderà questo suo carattere, e si potrà esten dere anche a fatti,
che, quantunque compiuti fra le pareti domestiche e da persone dipendenti
dall'autorità del capo di famiglia , potranno tuttavia produrre una pubblica
perturbazione. 243. Di questo carattere speciale della giurisdizione, spettante
al magistrato primitivo di Roma, abbiamo una prova eloquente in quella
distinzione fondamentale per l'antica amministrazione della giustizia , così
civile come penale, fra il ius ed il iudicium . Sono note le discussioni, che
seguirono in proposito , e non mancarono anche coloro , che attribuirono la
divisione stessa alla separazione, che l'ingegno sottile dei romani avrebbe tentato
di fare, fin d'allora , fra il diritto ed il fatto : cosicchè il magistrato
avrebbe decisa la que stione di diritto , mentre il giudice avrebbe poi
applicato il diritto al fatto . Una simile distinzione non si cercò mai dai
Romani, perché essi professarono sempre, che ex facto oritur ius ;ma furono
invece i fatti stessi e le condizioni reali, fra cui vennesi formando la città
, che condussero naturalmente a questa distinzione. Pongasi infatti un centro
di vita pubblica, che stia formandosi fra varie comunanze patriarcali.
L'effetto , che dovrà risultare da questo stato di cose, sarà quello di
produrre , fra le giurisdizioni, che con tinuano ad appartenere ai capi delle
famiglie e delle genti, una giurisdizione di carattere pubblico, che appartenga
al capo ed al (1) Cfr. Maynz , op. cit., n. 20, pag . 60, e MOMMSEN, Le droit
public romain , I, pag. 187 : « Magistri (scrive Festo, po magisterare), non
solum doctores artium , sed etiam pagoram , societatum , vicorum , collegiorum
, equitum dicuntur, unde et magi stratus (Bruns, Fontes, pag. 341). È da
vedersi a questo proposito quanto ebbi ad esporre nel lib. I, Capo V , n ° 88 ,
pag. 109 e nota relativa . ( 2 ) Fra gli autori, che in questa distinzione
videro in certo modo una separazione fra il diritto ed il fatto havvi il
Bonjean, Traité des actions chez les Romains, Paris, 1845 , vol. I, § 29. Cfr.
Carle, De exceptionibus in iure romano, 1873, pag. 11. Di tale distinzione
tratta il BuonAMICI, Storia della procedura civile romana, Pisa, 1866, I, $ 5 .
297 custode della città . Di qui la conseguenza, che la questione pre liminare,
che questo magistrato sarà chiamato a risolvere, ogni qual volta gli sia
sottoposta un'accusa od una controversia , consisterà nel decidere , se il
fatto , del quale si tratta, sia uno di quelli, che debbono essere lasciati
alla giurisdizione domestica, od invece attribuiti alla giurisdizione di
carattere pubblico , che a lui appartiene; come pure dovrà cercare, se al fatto
, del quale si tratta, siavi qualche lex pu blica , che debba essere applicata
. Se quindi, ad esempio, l'Ora zio avrà uccisa la sorella , e sarà trascinato
innanzi al re in ius, la questione, che questi è chiamato a decidere, sta in
vedere, se il fatto in questione debba essere lasciato alla giurisdizione del padre,
che afferma che la sua figlia è stata iure caesam , o se trattisi invece di tal
fatto, alla cui repressione provveda una lex publica . Ed è questa appunto la
questione, che risolve Tullo Ostilio , il quale, secondo Livio : « concilio
populi advocato : duumviros, inquit, qui Horatio perduellionem iudicent,
secundum legem fació » ( 1). Che se in vece di un misfatto si fosse trattato di
una controversia di carattere civile, la questione a risolversi sarà pur sempre
quella di vedere , se trattisi di un caso contemplato da una legge pubblica , e
se perciò si dovrà accordare diritto di agire secondo la legge . Solo allora il
magistrato gli dirà di agire secundum legem publicam : oppure più tardi,
allorchè vi sarà una speciale magistratura per l'amministrazione della
giustizia , questa pubblicherà nel proprio editto quali siano i casi
particolari , in cui actionem dabit. Non è perciò da ammettersi il concetto per
tanto tempo ricevuto , che, secondo il diritto civile romano, vi fossero dei
diritti, che erano senz'azione ; ma soltanto si deve dire , che il diritto in
Roma si venne lentamente e gradatamente formando, e che toccava al ma gistrato
di esaminare e di risolvere la questione , se in quel caso determinato dovesse
, o non , essere accordata l'azione. Spettava quindi al magistrato ( in iure)
di decidere in ogni caso particolare, se il caso stesso fosse stato tale da
richiedere, in base alle leggi, l'intervento e l'appoggio del pubblico potere :
ma, una volta decisa affermativamente una tale questione, il magistrato aveva
compiuto (1 ) Liv., I, 26. Dalle espressioni, che Livio attribuisce a Tullo
Ostilio , si ricava , che la questione, che egli si propose di risolvere,
consisteva nel decidere, se vi era una legge, e quale fosse la legge, che
colpiva il delitto del quale si trattava. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e
costituzionale di Roma, I, pag. 317. 298 il proprio ufficio , e quindi poteva
rimettere il giudizio o ai quae stores parricidii , o ai duumviri
perduellionis, se trattavasi di ac cusa penale , od anche ad un iudex e perfino
ai recuperatores , se trattavasi di una controversia civile, intorno a cui le
parti non si fossero poste d'accordo innanzi al magistrato . Questo è certo ,
che già nel periodo regio vi furono queste varie maniere di giudici ; ed è anzi
probabile , che già esistessero i iudices selecti, il cui albo do veva
probabilmente ricavarsi dal novero dei padri o senatori ; come lo dimostra la
testimonianza di Dionisio , ed anche il fatto, che fu così anche dopo , e che
in una comunanza, che aveva ancora del patriarcale, era ovvio , che i padri
fossero i naturali giudici delle controversie. È certo parimenti, che quando
trattavasi di delitti ca pitali, il re doveva essere circondato da un consilium
; come ap pare dal fatto , che, secondo Livio, a Tarquinio il Superbo fu mossa
l'accusa che « cognitiones capitalium rerum sine consiliis per se ipsum
exercebat » . Era poi naturale, che anche questo consilium fosse tratto
dall'albo dei patres o senatori, e per tal modo abbiamo anche qui un ricordo del
re patriarcale, che, circondato dagli an ziani, amministra la rozza patriarcale
giustizia (1). Per quello poi, che si riferisce all'intervento dell'elemento
popo lare nell'amministrazione della giustizia civile , sembra che il mede simo
debb a attribuirsi soltanto all'epoca serviana , alla quale puo con molta
verisimiglianza farsi rimontare l'istituzione del Tribunale dei centumuiri,
come si vedrà a suo tempo . 244. Intanto è sempre dal modo, in cui la città si
venne formando, e dall'essere essa l'organo e il centroella vita pubblica, che
ven gono ad essere determinati i caratteri della procedura, che dovette essere
seguita negli esordiidella città , così nei giudizii civili come nei giudizii
penali. È infatti nel foro, ossia nella piazza , che deve essere amministrata
giustizia , come lo dimostra il fatto, che una delle ac cuse, mossa contro
Tarquinio il Superbo, fu quella appunto di essere venuto meno al tradizionale
costume, amministrando giustizia nell'in terno della propria casa (2 ). Così
pure si comprende come questa (1) Il testo è citato da Livio, I, 49. Abbiamo
poi Dionisio, II , 14, che dice parlando del re: « de gravioribus delictis ipse
cognosceret ; leviora senatoribus committeret ; donde si può inferire, che
anche il consilium regis dovesse, trattandosi di delitti ca pitali, ricavarsi
dal senato. Cfr. Karlowa, Röm . R. G., pag. 54 . (2 ) Liv., I, 49. 299
procedura dovesse essere orale, ed ispirarsi al concetto di una assoluta parità
di condizione fra i contendenti, come quella che doveva imi tare, cosi nei
giudizii civili come nei penali, quella specie di lotta e di certame, che un
tempo dovette seguire fra i contendenti. Se si trat terà di un misfatto , sarà
il cittadino che accuserà il cittadino e cer cherà egli stesso le prove, sovra
cui si appoggia la propria accusa , e se si tratterà invece diazione civile,
sarà seguita la procedura solenne dell'actio sacramento, od anche quella della
iudicis postulatio. Di queste si è veduto come la prima già si era formata
nella stessa tribù patriarcale : mentre un tempo essa era il modo di pro cedere
del capo di famiglia contro il capo di famiglia nel seno della tribù , venne
poi ad essere trapiantata nella città, unitamente alle formalità , che
ricordano l'antica procedura patriarcale, e cominciò cosi ad usarsi dal quirite
contro ' il quirite (1 ). La seconda poi, ossia la iudicis postulatio, fu
l'effetto necessario di quella separazione del ius dal iudicium , che, come si
è dimostrato più sopra, era una con seguenza del formarsi di una giurisdizione
pubblica , accanto alle giurisdizioni di carattere domestico e patriarcale, in
quanto che, toc cando al magistrato di risolvere la questione se in quel caso
dovesse o non ammettersi un cittadino ad agire secundum legem publicam ,
conveniva di necessità ricorrere a lui, accid delegasse un iudex o un arbiter
per la risoluzione della controversia ; donde l'antica de nominazione della
iudicis arbitrive postulatio (2 ). Questa conget tura ha la sua base in ciò ,
che all'epoca decemvirale già si trovano stabilite queste due maniere di
procedura , senza che si possa deter minare, quando le medesime siano state
introdotte. Cotali procedure tuttavia, passando dai rapporti fra capi di
famiglia , pressochè indi pendenti e sovrani, ai rapporti fra i cittadini di
una medesima città , hanno già cessato di essere semplici actiones, e sono
diventate legis actiones , in quanto che sono altrettanti modi riconosciuti
dalla legge pubblica per far valere in giudizio le proprie ragioni. 245.
Soltanto più ci resta a discorrere di una istituzione, che era ( 1) Quanto
all'origine gentilizia e alla naturale formazione dell'actio sacramento vedasi
sopra lib . I, n . 104 . (2 ) La iudicis arbitrive postulatio è ricordata da
Gaio, come una delle più antiche legis actiones, Comm . IV , § 12 , sebbene poi
il manoscritto di Verona sia stato il. leggibile nella parte, che vi si
riferisce. V. quanto alla medesima il Murhead, Hist. introd., Sect. 35, pag.
197 , e il BuonamiCI, Storia della procedura civile romana. I, Cap. VII, pag.
43 a 57. 300 poi chiamata a ricevere una larga applicazione, durante il periodo
repubblicano, e che è indicata colla denominazione di provocatio ad populum .
Si dubita dagli scrittori, se questa istituzione già potesse esistere fin dal
periodo regio, ed alcuni lo negano, perchè ritengono, che in questo periodo le
funzioni del popolo si riducessero esclusivamente a quelle, che il re credeva
di dovergli affidare. Per parte nostra , di fronte alla testimonianza di
Cicerone, che, augure egli stesso, ebbe a dire , che della provocatio ad
populum parlavano i libri pontificii e gli augurali, il dubbio non dovrebbe più
presentarsi (1 ). Quanto alle considerazioni desunte dagli stretti confini
della populi potestas, durante il periodo regio , ed anche dalla narrazione di
Livio, che nel caso dell'Orazio parla di una provocatio ad populum , accordata
da Tullo « clemente legis interprete » , parmi che esse non possano condurre ad
escludere un diritto di provocatio ad populum , che in effetto sarebbe stato
invocato e fu fatto valere dallo stesso Orazio. Pud darsi, che in quel caso
particolare potessero esservi dei motivi per dubitare, se dovesse o non essere
ammessa. Ma se l'Orazio vi ricorre, egli lo fa in base ad una consuetudine, le
cui origini dovevano rimon tare ad un'epoca anteriore . Si aggiunge , come
appare dalle cose premesse , che la costituzione primitiva di Roma dovette
essere più liberale negli inizii, quando vi era un populus, tutto composto di
padri uguali fra di loro e consapevoli del proprio diritto , che non
posteriormente , allorchè il populus cominciò ad essere composto di due classi
disuguali fra di loro, cioè del patriziato, che era il populus primitivo , e
della plebe ; di una classe dirigente e di una classe , che trovavasi in
posizione inferiore. In base ad una tale costituzione primitiva , secondo cui
la populi potestas era la sorgente di tutti i pubblici poteri ed anche del
regis imperium , veniva ad essere naturale e logico , che se il ius dicere
apparteneva al re , il con dannato dovesse poter ricorrere in appello al potere
supremo che era il popolo, mediante la provocatio . Per verità di questo
diritto alla provocatio fa cenno la stessa lex horrendi criminis, i cui termini
ci furono conservati da Livio « duumviri perduellionem iudicent : si a
duumviris provocarit, provocatione certato » . Era poi naturale, che questa
provocatio, al pari dell'azione e del giudizio , venisse a canıbiarsi in quella
specie di certame o di combattimento (1) Cic ., De Rep., II, 35 : «
Provocationem etiam a regibus fuisse, declarant pon tificii libri, significant
nostri etiam augurales » , 301 legale , che viene appunto ad essere descritto
da Livio , a proposito del giudizio dell'Orazio , in quanto che ogni procedura
patriarcale prende naturalmente questo carattere. I duumviri, che avevano pronunziata
la condanna, dovevano essi sostenere l'accusa davanti all'assemblea del
populus. Eravi cosi una specie di certamen fra essi e l'accusato, che
simboleggiava quel combattimento vivo e reale, che un tempo aveva dovuto
effettivamente seguire. Che anzi, già fin d'al lora, il populus, trattandosi di
reato di carattere politico , quale era la perduellio , poteva anche passare
sopra alla questione puramente giuridica , per giudicare invece ex animi
sententia , e assolvere, come avrebbe fatto nel caso speciale dell'Orazio,
«admirationemagis virtutis, quam iure causae » (1). Vero è, che posteriormente
nel primo anno della repubblica tro viamo una legge Valeria Orazia de
provocatione, che riconobbe solennemente al popolo questo suo diritto , il
quale fu anzi conside rato come il palladio della libertà del cittadino romano
(unicum praesidium libertatis) ; ma allora le circostanze erano cambiate ,
perchè il populus non comprendeva solo più i patres e i patricii, ma anche la
plebs , e quindi volevasi una legge, che accomunasse e consacrasse una
istituzione, forse solo consuetudinaria , a tutto il nuovo populus quiritium ,
comprendendo in esso anche la plebe (2). 246. Intanto è evidente la influenza,
che questa istituzione della provocatio ad populum , solennemente consacrata ,
doveva esercitare sul futuro svolgimento della giurisdizione criminale , in
quanto che essa doveva condurre al risultato di trattenere il magistrato dal
pronunziare una condanna, da cui poteva esservi appello al popolo, e
trasportare cosi in definitiva la giurisdizione criminale dal magistrato al
popolo . Tuttavia anche qui lo svolgimento regolare e graduato ebbe ad essere
per qualche tempo interrotto , allorchè i tribuni della plebe presero a portare
accuse contro i patrizii avversi alla plebe, e contro i consoli uscenti di
ufficio davanti ai concilia plebis. Fu ( 1) Liv ., I, 26 . (2) Non potrei
quindi ammettere l'opinione del KarlowA, Röm . R. G., pag. 53 e segg., il
quale, argomentando da ciò, che le leggi Valeriae Horatiae avrebbero introdotta
la provocatio ad populum , vorrebbe inferirne, che questa sotto i re non
esistesse che per la perduellio. CICERONE parla di provocatio in genere, e
quindi non vi ha motivo di restringerla, ma vuolsi ammetterla in genere per i
reati a quella epoca puniti di pena capitale, cioè tanto per la perduellio,
quanto per il parricidium . 302 allora , che la legislazione decemvirale ebbe a
stabilire il principio che soltanto i comizii centuriati potessero pronunziare
una condanna capitale (1 ). Ciò però non impedisce, che i tribuni della plebe
conti nuino ancora ad eserc itare il proprio diritto di accusa ,
sopratutto per i delitti di carattere politico, e per quelli che sono puniti di
sole pene pecuniarie. Di qui deriva la conseguenza, che anche quanto alla giurisdizione
criminale viene a ripartirsi il compito fra i comizii centuriati, che giudicano
dei delitti capitali , e dd i comizii tributi, che giudicano dei delitti, che
debbono essere puniti con pene pecuniarie, finchè l'incremento della città ed
anche dei delitti perseguiti per legge non renderà necessario di ricorrere alla
istituzione delle quaestiones perpetuae, ossia di tribunali speciali per
giudicare delle diverse categorie di delitti (2 ). Parmi con ciò di aver
abbastanza dimostrato non solo l'unità e la coerenza della primitiva
costituzione patrizia ; ma di aver provato eziandio , come essa debba essere
considerata come il modello e l'esem plare , sovra cui si foggiò tuttoil
posteriore svolgimento delle istituzioni politiche diRoma. Essa fu tale dameritarsi
il grande elogio diCicerone, allorchè scriveva , che la costituzione politica
di Roma formatasi « non unius ingenio, sed multorum , nec una hominis vita ,
sed aliquot saeculis et aetatibus » , era tuttavia riuscita superiore in
eccellenza alle costituzioni greche, che erano l'opera meditata dei filosofi e
dei sapienti. L'opera collettiva di un popolo, proseguita con logica tenace e
coerente, e accomodata ai tempi, riusciva per talmodo superiore all'opera
individuale dei più grandi ingegni del l'umanità : nam , dice lo stesso
Cicerone, facendo intervenire Sci pione, neque ullum ingenium tantum exstitisse
dicebat, ut quem res nulla fugeret quisquam aliquando fuisset ; neque cuncta in
genia , conlata in unum , tantum posse uno tempore providere , ut omnia
complecterentur, sine rerum usu ac vetustate ( 3). Veniamo ora alle leges
regiae. ( 1) Cic ., De leg . 3 , 4 : « De capite civis nisi per maximum
comitiatum ne fe runto » , disposizione questa , attribuita alla
legislazionedecemvirale, la quale mirava con ciò ad impedire, che le cause
capitali contro i patrizii e contro i consoli fossero dai tribuni della plebe
recate innanzi ai concilia plebis. ( 2 ) Cfr. Esmein , Le délit d'adultère à
Rome e la loi Iulia , de adulteriis, nei Mélanges d'histoire du droit, Paris ,
1886, pag . 71 et suiv. (3 ) Cic., De Rep ., II , 1. -- 303 - CAPITOLO IV . La
legislazione regia durante il periodo esclusivamente patrizio . $ 1. - Del
contributo delle varie stirpi italiche alla primitiva legislazione di Roma.
247. Dal momento che a costituire la città patrizia concorsero comunanze, le
quali erano di origine diversa , era naturale , che, anche esistendo una certa
analogia fra le loro istituzioni, non potesse perd esservi una identità
perfetta fra le medesime. È quindi evidente , che col partecipare di diverse
stirpi alla medesima città dovette ope rarsi fra di loro una assimilazione
lenta e graduata delle loro isti tuzioni giuridiche. Che anzi, a questo
proposito , un recente autore, a cui deve assai la ricostruzione del diritto primitivo
di Roma, il Muirhead, andrebbe fino a dire, che le varie stirpi, come recarono
un diverso contributo alla costituzione politica di Roma, cosi deb bono pure
aver portato un contributo diverso alla formazione del diritto privato di Roma;
contributo, che egli cercherebbe di riassu mere nei seguenti termini: « La
patria potestas spinta fino al ius vitae et necis sulla figliuolanza ; la manus
ed il potere del marito sulla moglie ; il concetto per cui « maxime
sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio , IV, 16 ); il diritto
del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e
se occorre anche di ridurlo a schiavitù ; tutto ciò insomma, che deriva dal
concetto , che la forza generi « maxime sua esse credebant, quae ex
hostibus caepissent » (Gaio , IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la
mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo
a schiavitù ; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto , che la forza
generi « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio ,
IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga,
di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù ; tutto ciò
insomma, che deriva dal concetto , che la forza generi « maxime sua esse
credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio , IV, 16 ); il diritto del credi
tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre
anche di ridurlo a schiavitù ; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto , che
la forza generi il diritto , sarebbe dovuto all'influenza latina : « Le
cerimonie religiose invece, che accom pagnano il matrimonio , il riconoscimento
della moglie, quale padrona della casa e partecipe delle cure religiose e
domestiche; il consiglio di famiglia dei congiunti, cosi paterni che materni,
che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la
pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e
di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei
congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della
sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di
prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle
preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni,
che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la
pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e
di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei
congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della
sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di
prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle
preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni,
che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la
pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e
di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii necessarii per
il riposo delle loro anime, sarebbero evidentemente uscite da un diverso ordine
di idee, e sarebbero perciò a ritenersi di provenienza sabina. - « Quanto
all'influenza etrusca non si sarebbe sentita che ad una data più recente ;ma
dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto
riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole
solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1).
Non può certam ma dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla
medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza delle
cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica
e privata » (1). Non può certamma dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito
alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza delle
cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita
pubblica e privata » (1). Non può certamente negarsi , che la ricostruzione
dell'in signe giureconsulto appare come una verosimile congettura , quale del
resto è annunciata dallo stesso autore. Alla sua mente acutanon poteva sfuggire
la stretta attinenza, che dovette esservi fra il diritto pubblico e il privato
nello svolgimento delle primitive istitu zioni : e ciò lo condusse a questa
ripartizione di parti, che pure si appoggia al carattere e alle opere, che la
tradizione attribuisce ai re, che provengono dalle varie stirpi. Tuttavia , con
tutta la reverenza all'opinione di un insigne , crederei che questa
ricostruzione del diritto primitivo di Roma non possa essere accettata ,
neppure come ipotesi e congettura , perchè è in contraddizione col modo, in cui
Roma e il suo diritto si vennero formando, e colle tradizioni, che a noi
pervennero . 248. Non credo anzitutto , che la costituzione, anche politica di
Roma, possa considerarsi in certo modo come una composizione di elementi
diversi recati da questa o da quella stirpe . In proposito ho cercato di
dimostrare che l'ossatura della città primitiva fu essen zialmente latina, e
che, al pari delle altre città latine, Roma usci da un foedus, ossia
dall'accordo di varie tribù per partecipare ad una stessa comunanza civile e
politica. Quindi è che gli elementi, che sopravvennero, entrarono tutti nei
quadri della città latina , la quale fu anzi concepita sopra un'unità cosi
organica e coerente , che non può essere riguardata, come il frutto del
contemperamento di ele menti diversi (2 ). Re, senato e popolo esistono fin
dagli esordii di Roma, e a misura che nuovi elementi si aggiungono, il re potrà
sce ( 1) MUIRHEAD, Historical introduction to the private law of Rome,
Edinburgh. 1886 , pag. 4 . (2 ) In questa parte divido perfettamente l'idea del
MOMMSEN, che condanna l'opi nione di coloro « che han voluto trasformare il
popolo, che ha dimostrato nella sua lingua, nella sua politica e nella sua
religione uno sviluppo così semplice e naturale, in uno amalgamarsi confuso di
orde etrusche, sabine, elleniche e perfino pelasgiche » . A suo avviso sono i
Ramnenses, di origine latina, che non solo fondarono e diedero il proprio nome
alle città , ma che posero eziandio quelle linee primitive, in cui entra rono
poi tutte le istituzioni, che furono assimilate più tardi » Histoire Romaine,
I, liv. I, Chap. 4 , pag. 54. Questa opinione, fra gli autori recenti, è pur
sostenuta dal Pelham , Encyclopedia Britannica , XX , vº Rome (ancient), ove
rinviene in Roma tutti i caratteri di una città latina. 305 gliersi da un'altra
stirpe, il numero dei senatori e dei cavalieri potrà essere aumentato, e
potranno anche accrescersi i coll egi sacerdotali, ma l'ossatura primitiva
sarà sempre conservata. Vero è che un re sabino, cioè Numa, secondo la
tradizione, fu organizzatore del culto e del collegio dei pontefici, ma
auspicii e cerimonie religiose ed au gurali sono già attribuite allo stesso
Romolo ; nè tutto ciò , che si riferisce all'organizzazione domestica, può
ritenersi di origine sabina, dal momento che già una legge, attribuita a
Romolo, riguarda il matrimonio per confarreationem (1). Lo stesso è a dirsi del
tribunale domestico e della tendenza delle famiglie a perpetuarsi, che il Mui
rhead vorrebbe pur ritenere di origine sabina, mentre ne troviamo le traccie in
tutti i popoli di origine Aria, e in tutti quelli parimenti, che hanno
attraversato lo stadio dell'organizzazione patriarcale (2) . Cid pure deve
dirsi del cerimoniale esteriore e dell'uso di parole so lenni nei contratti e
negli atti, che il Muirhead attribuirebbe alla in fluenza etrusca, poichè, se
stiamo alla tradizione , questo cerimoniale esteriore rimonta alla fondazione
stessa della città , e quindi sarebbe anteriore all'epoca , in cui, secondo il
Muirhead , si sarebbe comin ciata a sentire l'influenza etrusca. Si aggiunge,
che le solennità di parole, di atti e di gesti non sono anch'esse un privilegio
di questa o di quella stirpe ; ma sono comuni a tutti i popoli, che attraver
sarono l'organizzazione gentilizia, e trovano anzi, come si è dimo strato , una
causa naturale in ciò , che in questa condizione di cose , gli atti ed i
contratti, seguendo in certo modo, non fra individui, ma fra capi di gruppo,
acquistano una solennità , che ora direbbesi internazionale, la quale si
conserva poi eziandio negli inizii della co munanza civile e politica . Infine
non pud neppure affermarsi, che quella serie di istituzioni, che mette capo al
concetto , che il diritto scaturisce dalla forza , debba considerarsi come di
provenienza latina, in quanto che questo concetto deriva piuttosto
dall'attitudine emi nentemente guerriera, che prende il populus romanus
quiritium ( 1) Dion. II, 25 (BRUNS , Fontes , pag. 6 ). (2) Che questo sia un
carattere comune a tutti i popoli , che trovansi nell'orga nizzazione
patriarcale, o che escono dalla medesima, è stato dimostrato dal SUMNER MAINe ,
nelle varie opere sue , e di recente dal Leist , Graeco-italische Rechtsge
schichte. Jena, 1885. Io stesso credo di averne data la prova nell'opera : La
vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale , lib. I e II , seguendo
le migrazioni delle genti Arie, e dimostrando come esse abbiano trapiantato
nell'Occidente quelle istituzioni, che avevano preparato nell'Oriente) nelle
sue origini, attitudine che è comune a tutte le stirpi, che lo costituiscono ;
come lo dimostra il fatto, che vi hanno genti di origine sabina (come, ad es.,
la Claudia ), ed altre di origine etrusca (come la Tarquinia), le quali
appariscono non meno amiche della forza , e fino anche della prepotenza,
di quelle di origine veramente latina, alle quali appartengono di regola le
genti, che come la Valeria, appariscono nelle tradizioni più favorevoli alla
plebe, e più disposte ad equi e a miti consigli. 249. Del resto non è un esame
delle singole affermazioni del Muirhead , che io qui intendo di fare ; ma
piuttosto dalle cose pre messe intendo inferire , che, trattandosi di genti,
che probabilmente erano tutte di origine Aria, e si trovavano pressochè nel
medesimo stadio di organizzazione sociale , le istituzioni fondamentali del di
ritto privato , salvo le divergenze nei particolari minuti, dovevano essere
essenzialmente comuni alle varie stirpi. Tutte avevano isti tuzioni, in cui
prevaleva il carattere religioso ; tutte compievano i loro atti con solennità e
cerimonie esteriori, che richiamavano un precedente periodo di organizzazione
sociale ; e tutte possedevano l'organizzazione patriarcale della famiglia , e
gli istituti della gente, della clientela e della tribù. Cið tutto si può
affermare con certezza , dal momento, che questi caratteri sono comuni al
diritto primitivo, quale ebbe a modellarsi nell'Oriente, durante il periodo,
chepotrebbe chiamarsi della comunanza del villaggio . La stirpe tuttavia , che
diede il primo modello, in cui furono poi fuse le istituzioni analoghe, che
erano già possedute dalle varie genti , fu anche, quanto al diritto privato ,
la stirpe latina, la quale appare come fondatrice della città ; il che punto
non tolse , che, stante il comporsi dei varii elementi, si allargasse poi il
concetto della divinità , patrona comune della città , e si ammettessero man
mano anche istituzioniproprie di altre stirpi, ma sempre foggiandole, come Roma
fece anche più tardi, sul l'impronta latina. Che anzi credo perfino di dover
affermare , che quella potenza di assimilazione, che contraddistingue Roma,
appena compare, deve sopratutto ritenersi propria alla stirpe latina, da cui
Roma ebbe la sua prima origine. Per verità , anche prima della fondazione di
Roma, le popolazioni latine erano quelle , che avevano già mag giormente svolto
il concetto di federazione, e che perciò si di mostravano anche meno esclusive
, e perfino anche più favorevoli alle plebi, e più disposte a ricevere altri
elementi nel proprio seno, - 307 e ad apprendere in conseguenza anche dalle istituzioni
degli altri popoli . Ciò è tanto vero , che nella storia primitiva di Roma
l'ele mento etrusco fu dapprima tenuto in più basso stato , e più tardi, quando
diventò potente ed aspird alla tirannide, ne fu cacciato ed espulso ;
l'elemento sabino fu quello , che , essendo ancora più tena cemente vincolato
nell'organizzazione gentilizia , si dimostrò il più esclusivo e il meno
favorevole alle plebi; mentre invece l'elemento latino fu quello che, dopo
essere stato il primo a modellare la città , entrò anche dopo in copia maggiore
a riempire tanto i quadri della città patrizia, quanto le file di quella plebe
operosa e battagliera , che ebbe tanta parte nella grandezza di Roma. Una prova
di ciò pud ravvisarsi nel fatto, che Roma, elevandosi gigante fra le altre co
munanze italiche , combattè ad oltranza cogli Etruschi, coi Sabellici e coi
Sanniti, e non si arrestd finchè ebbe quasi cancellata ogni traccia di loro
civiltà ; mentre quanto ad Alba , la considerò come sua madre patria , e
anzichè estinguerla e soffocarla , dopo averla vinta , pre feri di accoglierne
il patriziato e la plebe, e di essere erede della medesima , continuando quel
processo nell'organizzazione sociale , che da essa erasi iniziato . Fra Roma da
una parte e l'Etruria e la Sabina dall'altra , vi fu pressochè una guerra di
sterminio , sopratutto fra le due prime , mentre fra Roma e il Lazio vi fu
soltanto una lotta di precedenza ; perchè due città foggiate sullo stesso
modello , come Roma ed Alba , non potevano coesistere l'una in prossimità
dell'altra ( 1). (1 ) La questione dell'origine di Roma e dell'organizzazione,
da cui essa prese le mosse, forma tuttora argomento di discussioni fra gli
eruditi. Fra gli altri il PAN TALEONI, Storia civ . e costituz. di Roma, I, nei
primiquattro capitoli, e nella 1a appen dice aggiunta in fondo del volume,
avrebbe sostenuta l'origine sabellica di Roma e di quella organizzazione
patriarcale, di cui essa ritiene ancora le traccie, cosicchè per esso anche i
Ramnenses sarebbero Sabellici, mentre la plebe sarebbe da lui ritenuta di ori
gine latina, poichè, a suo avviso, le popolazioni latine già erano maggiormente
use alla vita della città. Credo di aver abbastanza dimostrato, che Roma
primitiva si formò sul modello latino, e che nelle stesse città latine già eravi
la distinzione fra patriziato e plebe, e quindi non sembrami che la dottrina
certo grande dell'autore possa far preva lere un'opinione,che contraddice a
tutte le testimonianze degli storici e alle tradizioni stesse del popolo romano
circa le proprie origini. Di recente poi il Casati in una nota letta alla
Académie des inscriptions et de belles lettres di Parigi, nell'ottobre del
1886, sostenne che la gens fosse di origine Etrusca . Anche questi nuovi studii
mi confermano nella conclusione : che l'organizzazione gentilizia sia stata un
tempo comune a queste varie stirpi, e che, all'epoca della formazione di Roma ,
la stirpe - 308 250. Del resto la causa di questa divergenza col Muirhead ed il
motivo, per cui ritenni di dover qui combattere la sua teoria , devono essere
cercati in un'altra divergenza ben più grave, che sta nel modo diverso di
comprendere e di spiegare la primitiva formazione di Roma. Per il Muirhead
(ancorchè, a mio avviso , egli sia fra gli autori re centi uno di quelli, che
ha posto meglio in vista il contributo diverso recato alla formazione del
diritto Romano , dal patriziato e dalla plebe), la città di Roma continua ancor
sempre ad essere il frutto dell'unione di genti appartenenti alle stirpi
latina, sabina ed etrusca , ed è ancora questo il concetto , che egli pone a
fondamento della sua ricostruzione del diritto primitivo di Roma. Era naturale
quindi che, fondendosi ed incorporandosi le varie stirpi, ciascuna dovesse
recare il proprio contributo , anche alla formazione di un comune diritto , e
che egli cercasse di discernere in questa composizione la parte , che a
ciascuna stirpe dovesse essere attribuita. Ben è vero , che alcune volte egli
si trova imbarazzato del fatto , che il diritto quiritario primitivo si
presenta del tutto insufficiente a governare tutti i rapporti di una comunanza
anche primitiva , e lascia senza norma una quantità di relazioni, che dovevano
già certamente esi stere: ma intanto il punto suo di partenza gli impedisce pur
sempre di spiegare come ciò abbia potutoaccadere (1). Che se invece si ammetta
, come ho cercato di dimostrare , che Roma è una città formata sul modello
della città latina, e che essa, uscita dalla federazione e dall'accordo ,
costituisce dapprima un centro di vita pubblica, frammezzo a varie comunanze di
villaggio, in allora Sabellica non avesse ancora superata tale organizzazione,
ma le avesse dato il mag. giore svolgimento, di cui era capace, come lo
dimostrano le genti Claudia e Fabia : che la stirpe Latina fosse invece già
p ervenuta al concetto della città federale ; e che da ultimo l'Etrusca
fosse già pervenuta alla città , che potrebbe chiamarsi corpora tiva . Roma
partì dal tipo latino e quindisi costitui fin dapprincipio in un centro di
federazione : poi sotto l'influenza etrusca diventò anche una città unificata ;
ma serbò tuttavia anche in seguito il carattere latino, per guisa che cambiossi
in certo modo in un centro di vita pnbblica del mondo allora conosciuto. (1)
Tale difficoltà occorre al MUIRHEAD , per esempio, allorchè a pag . 50 parla
del. l'opinione di coloro , che sostengono che Roma non conoscesse dapprima che
la pro prietà degli immobili, ed anche a pag. 54, ove, parlando dei delitti e
delle pene, trova non parlarsi di delitti, che non potevanomancare anche in una
città primitiva. Questi fatti invece sono facilmente spiegati, se si ammette la
formazione progressiva e gra duata, così della città , come del suo diritto
civile e criminale, non che della giuri sdizione spettante ai suoi magistrati.
309 sarà facile il comprendere come, nella formazione del suo diritto pub blico
e privato, Roma, dopo aver preso lemosse da quelle istituzioni di origine
latina, che potevano già confarsi colla comunanza civile e politica , sia poi
venuta lentamente assimilando tutte le istituzioni, che già si erano formate
nel periodo gentilizio, anche presso le altre stirpi, quando le medesime
potessero conciliarsi coll'impronta primi. tiva , che essa aveva data al suo
diritto . Questo è stato certo il me todo, che Roma seguì anche più tardi nella
trasformazione del suo diritto privato ; nè, conoscendo ormai per prova la sua
costanza nei processi seguiti, possiamo averemotivo di dubitare, che essa abbia
dovuto esordire nella stessa guisa . § 2 . Della esistenza di vere e proprie
leggi (leges rogatae) durante il periodo regio. 251. Intanto questo modo di
considerare la formazione di Roma e del suo diritto mi conduce ad apprezzare la
legislazione primitiva di Roma in guisa diversa da quella, che suole essere
generalmente adot tata dalla critica, e ad accostarsi invece a quella , che, ci
verrebbe ad essere indicata dalla tradizione. Mentre la critica infatti , dopo
aver resi leggendari i re, nega pressochè ogni fede alla legislazione, che suol
essere indicata col nome di regia , e la riduce esclusiva mente ad essere opera
dei collegi sacerdotali, o a semplice raccolta di consuetudini e di tradizioni
anteriori, la tradizione invece ci dipinge il periodo regio, anteriore anche a
Servio Tullio, come un periodo di grande attività legislatrice. Or bene, a mio
avviso, si deve andare a rilento nel respingere in questa parte il racconto
della tradizione. Se la città latina in genere, e Roma sopra tutte le altre, fu
dapprima un organo di vita pubblica fra comunanze , in cui continuavasi la vita
domestica e patriarcale, viene ad essere evidente, che come la città fu il
frutto di una specie di selezione, cosi dovette pur essere del diritto, che
governo i primi rapporti fra i membri della mede sima. Le esigenze della vita
civile e politica sono diverse da quelle di una vita di carattere patriarcale :
quindi se questa poteva som ministrare i concetti religiosi, morali ed anche
giuridici, già prima elaborati, questi però non potevano essere trasportati
tali e quali, ma dovevano subire un lavoro di scelta e di coordinamento , ed è
questo appunto , che dovette compiersi durante il periodo regio . Ne ripugna il
credere, che ciò siasi potuto fare, dal momento, che si è 310 abbastanza
dimostrato , come le genti, che fondavano la città , erano lungi dall'essere
del tutto primitive, ma avevano una suppellettile copiosa di concetti e di
tradizioni, che già si erano prima formati. Esse non erano più nello stadio
della primitiva formazione del di ritto : ma erano già in quello della
elaborazione e dell'adattamento di un diritto già formato alle esigenze della
vita cittadina. Ammet tasi, che in parte siano leggendarie le figure dei primi
re; ma questo è certo che, leggendarii o no, essi dovettero sottostare alla
neces sità di quella convivenza, di cui erano i capi, e quindi dare opera vigorosa
a quella selezione ed unificazione legislativa , che era il più urgente bisogno
per una città , che risultava di elementi diversi. Conviene aver presente, che
la città in genere e sopratutto Roma, (che fra le genti italiche fu forse la
prima ad iniziare il processo di accogliere persone di discendenza diversa a
partecipare alla stessa vita pubblica ), si presentava come una istituzione
novella, destinata ad un grande avvenire. Era mediante la città , che l'uomo o
meglio il capo di famiglia cominciava ad essere qualche cosa, anche fuori della
propria famiglia o gente , e quindi non è punto a maravigliare, se un senso
pubblico energico e potente abbia potuto penetrare re , senato , sacerdoti e
popolo. Quelsenso di devozione e di abnegazione, di cui diedero prova più tardi
le grandi famiglie plebee , allorchè giunsero finalmente ad essere ammesse come
eguali nella città , do vette dapprima essere provato dagli uomini, usciti
dalle genti patrizie, allorchè sentirono di costituire un populus , malgrado la
loro ori gine diversa : e quindi non è punto probabile , che essi abbiano
dovuto mantenersi del tutto estranei alla elaborazione di quel diritto , che
doveva governarli, e che tutto lasciassero ai collegi sacerdotali ed al re loro
capo. Se essi eleggevano il re e per tale elezione si ra dunavano nei comizii,
non si comprende veramente come essi abbiano potuto essere affatto esclusi
dall'opera legislativa , che era una con seguenza inevitabile della formazione
della città (1). (1) L'opinione, qui combattuta, posta innanzi dal DIRKSEN ,
Die Quellen des röm misches Rechts, Leipzig, 1823, pag. 234 e segg ., in
un'epoca , in cui tutta la storia primitiva di Roma erasi convertita in una
specie di leggenda, trova ancora oggidi molti seguaci. Basti annoverare, tra i recenti,
il PANTALEONI, op . cit ., pag. 309 ; il KARLOWA, Röm . R. G., pag. 52,ed anche
il Murrhead, Hist. Introd., pag . 20. L'ar gomento da questi due ultimi
invocato consiste sopratutto nella nota espressione di Livio : « vocata ad
concilium multitudine, quae coalescere in populi unius corpus, nulla re ,
praeterquam legibus, poterat , iura dedit » . Essi argomentano dal iura 311
252. A ciò si aggiunge che in una piccola comunanza , formata da persone, che
poco prima ancora vivevano patriarcalmente, do vette essere frequente e
quotidiano il contatto fra elementi, che ora a noi appariscono grandiosi per
l'età remota e per il grande avve nire, che ebbero di poi. È quindi assai
probabile, che i rapporti fra re, padri , pontefici , auguri e popolo fossero
continui , e che perciò potesse anche formarsi una specie di pubblica opinione
in torno a ciò , che potesse esservi di comune interesse per una città, che era
uscita dalla volontà comune, e che era la creazione di tutti. Senza voler
sostenere che le concioni, da Livio e Dionisio attribuite ai personaggi della
loro storia , siano state veramente quelle, non è però inverosimile, che
concioni siansi veramente fatte , e che in tutti i casi, in cui trattavasi di
qualche pubblico interesse, potesse vera mente accadere, che i padri
intervenissero fra il popolo ed anche fra la plebe, e interponessero nei
rapporti quotidiani un'autorità di persuasione, non dissimile da quella, che
entrò a far parte sostan ziale della costituzione primitiva di Roma, sotto il
nome appunto di patrum auctoritas. Se il rispetto, che quegli uomini avevano
per l'età , e la loro disciplina domestica spiegano la solennità , con cui essi
votavano nei comizii , e il loro limitarsi a rispondere, appro vando o negando
; non possono però escludere, che quelle discussioni, che erano inopportune al
momento della votazione, potessero anche essere indispensabili e frequenti in
seno ad un popolo , che senti con tanta energia la vita pubblica , e
l'influenza della medesima. Il popolo romano, fin dalle proprie origini, non fu
un popolo nè di asceti, nè di anacoreti, che seguissero una regola conventuale
: ma fu un popolo, i cui membri appresero ben presto a dire la verità nella
vita pub blica , quantunque i suoi membri continuassero ad essere ligii ed
ossequenti all'autorità del padre nella vita domestica. dedit, adoperato invece
di iura tulit; ma è facile il notare, che le espressioni di iura dare et
accipere sono talvolta sinonime di quelle di iura ferre , come lo dimostra fra
gli altri Aulo GELLIO , XV, 28, 4, che deffinisce i plebiscita « quae ,
tribunis plebis ferentibus, accepta sunt» . Si aggiunge che Livio in quello
stesso passo insiste sulla necessità di vere leggi per incorporare elementi
eterogenei e diversi, e usa quel vo cabolo di legge, che pei Romani significò
sempre un provvedimento proposto dal magistrato e accettato dal popolo. Ad ogni
modo questa proposizione si riferisce an cora all'epoca anteriore alla
confederazione coi Sabini, e quindi, trattandosi ancora del capo patriarcale di
una tribu militare , si comprende che egli potesse iura dare ; mentre si
dovettero richiedere vere leges rogatae, allorchè le varie tribù entrarono a
partecipare alla medesima città. 312 253. La loro caratteristica prevalente non
è nè la religiosità, né l'indole guerriera , ma piuttosto quell'equilibrio e
contemperamento di facoltà umane, in cui consiste il senso giuridico e politico
. La qualità , che prepondera in essi fra le facoltà affettive, è la volontà
pertinace , costante , e fra le facoltà intellettuali è una logica, che
analizza con un acume senza pari i varii elementi dell'atto umano, e che quando
ha afferrato un concetto non lo abbandona, finchè non abbia dato tutto cid, che
da esso può ricavarsi ; due qualità queste, l'una pratica e l'altra teorica ,
che si corrispondono perfettamente fra di loro, e che spiegano come la storia
giuridica e politica di Roma si riduca all'applicazione costante delmedesimo
processo, che inizia tosi con essa, non fu più abbandonato fino alla completa
formazione del diritto pubblico e privato di Roma. Di qui la conseguenza , che
tanto nella politica , quanto nel diritto ,Romanon procedette maiper semplice
agglomerazione ed incorporazione, ma per selezione, cosicchè apprese da tutte
le genti, ma accettò solo queimateriali, che potevano entrare nei quadri del
proprio edificio . Roma nella storia dell'umanità rap presenta , per cosi
esprimersi , un crogiuolo, in cui sono gettate tutte le istituzioni anteriori
del periodo gentilizio , e quelle che fu rono poi da essa rinvenute presso gli
altri popoli conquistati, nel l'intento di isolare dagli altri elementi della
vita sociale l'elemento giuridico e politico , e questa selezione e questo
isolamento essa cominciò ad operare fin dai proprii esordii. 254. Credo quindi
che per comprendere Roma primitiva convenga guardarsi dall'esagerare quella,
che suole essere chiamata, la reli giosità del popolo romano. Non è già che
possa negarsi ai Romani un sentimento profondamente religioso ; ma essi non si
trovano punto sotto il dominio di quel terrore superstizioso della divinità ,
che soffoca l'operosità umana; ma scorgono in essa una potenza, la quale
invocata e resa benevola con determinati riti , doveva condurre il popolo
romano ad insperata grandezza . Si aggiunge, che questa carattere religioso , finchè
Roma fu esclusivamente patrizia , era co mune a tutti i membri del populus, i
quali tuttiavevano un culto da perpetuare e tradizioni da conservare. Non era
quindi possibile fra essi la formazione di una classe esclusivamente
sacerdotale, che con ducesse al risultato , a cui si giunse in Oriente , di
fare preponderare per modo l'elemento religioso da soffocare affatto l'elemento
politico e il giuridico. Quanto alla differenza, sotto il punto di vista
religioso, fra le razze Arie del 313 A questo proposito pertanto è opportuno di
tener distinti eziandio due periodi in Roma primitiva: quello cioè di Roma
esclusivamente patrizia , in cui ci troviamo di fronte ad un popolo, i cui
membri, uscendo dalle genti patrizie, conoscono tutti i riti, gli auspizii e le
cerimonie religiose, e se ne servono nell'interesse comune; e quello invece, in
cui fu ammessa anche la plebe alla cittadinanza . In questo secondo periodo
infatti il populus viene a comprendere due classi : l'una, poco numerosa, ricca
di tradizioni, dotta nelle cose reli giose, esperta nelle civili e politiche ;
e l'altra, che ha per sè il nu mero e la forza , ma che è nuova alla vita
civile, priva di tradizioni, e si trova nella necessità di ricevere modellato e
formato il proprio diritto dall'ordine patrizio. È solo in questo secondo
periodo, che la conoscenza degli auspicia e delius viene a cambiarsi in un ti
tolo e in un mezzo di superiorità per il patriziato , il quale se ne vale per
tenere in rispetto e in riverenza le masse . È solo allora che il diritto, le
cui origini erano già celate nell'oscurità dei tempi, e le cui formalità erano
già divenute inesplicabili per la generalità dei cittadini, viene ad essere
chiuso negli archivii dei pontefici, che sono in certo modo incaricati della
custodia e della elaborazione di esso ; mentre quest'arcano e questa segretezza
non poterono certo esi stere negli esordii della città , allorchè la conoscenza
del diritto e degli auspizii era ancora comune a tutti i capi di famiglia (1).
Cid mi induce a credere, che la parte da attribuirsi al populus, nella
formazione del diritto primitivo di Roma, sia maggiore di quella , che suole
generalmente essergli assegnata ; ma per riuscire in qualche modo a
determinarla , importa ricercare anzitutto la funzione, a cui furono chiamati i
collegii sacerdotali in Roma primitiva, quanto alla formazione del diritto .
l'India e quelle trasportatesi nell'Occidente, mirimetto ai concetti svolti
nell'opera : « La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale » ,
pag. 92 , n ° 33, e agli autori, che ivi sono citati. (1) Vedasi a questo
proposito il MACHIAVELLI, Discorsi sulle deche di Tito Livio, Libro I, Cap. XI,
XII, XIII e XIV, e il MONTESQUIEU, Dissertation sur la politique des Romains
dans la religion . 314 $ 3. – I collegii sacerdotali in Roma e la loro
influenza sulla formazione del diritto primitivo . 255. La caratteristica di
Roma è una mirabile coerenza nel pro cesso, che essa ebbe a seguire nei diversi
aspetti della propria for mazione. Si può quindi essere certi che come la città
fu il frutto di una selezione della cosa pubblica dalla privata , cosi anche la
re ligione pubblica di Roma non potè essere il frutto dell'agglomera zione dei
culti e delle credenze proprie delle varie genti ; ma fu an ch'essa il
risultato di una selezione, per cui, mentre le singole genti e tribù
continuarono nel proprio culto gentilizio, vennesi formando nella città un
culto pubblico , il quale alla sua volta assunse poi una doppia forma, quella
cioè di culto pubblico ed ufficiale (sacra pu blica ), e di culto popolare
(sacra popularia ). Ciò è dimostrato dal fatto , che fra la quantità degli Dei
riconosciuti dai Romani, quelli al cui culto intendono i flamini maggiori sono
Marte, Quirino e Giove, di cui il primo, secondo la tradizione, è il padre del
fondatore, l'altro il fondatore stesso della città , e l'ultimo infine sembra
talvolta con fondersi coll'antica divinità italica di Giano, rivestita alla
Greca (1). 256. Intanto una pubblica religione richiedeva pure un pubblico
sacerdozio . Questo concentrasi dapprima nello stesso re , il quale è augure
sommo e pontefice massimo ; ma poscia il re stesso , pur conservando gli
auspicia del magistrato supremo, costituisce intorno a sè dei collegii
sacerdotali , i quali hanno un carattere del tutto peculiare, in quanto che
essi non hanno un compito esclusivamente religioso ,ma anche una vera
importanza civile e politica . Cotali sono sopratutto gli auguri, i feziali e i
pontefici, i quali,mentre hanno un carattere sacerdotale, che dà un'aureola
religiosa al loro ufficio , compiono ad un tempo una funzione importantissima
per le genti patrizie, che è quella di essere i custodi e gli interpreti delle
tra ( 1) La triade di Giove, Marte e Quirino si fa dalla tradizione rimontare a
Numa, il quale avrebbe già istituiti i tre flamini maggiori, dando però la
prevalenza al fila mine di Giove (Liv., I, 20). Fu più tardi però, che la
religione si rivestà alla Greca e ciò sopratutto sotto l'influenza etrusca ,
ossia sotto gli ultimi tre re, in quanto che fu allora che venne costituendosi
la triade Capitolina di Giove, Minerva e Giunone. Cfr. Bouché-LECLERCQ, Manuel
des instit. romaines, pag. 456 a 562. 315 dizioni,non solo religiose, ma anche
giuridiche e politiche, e sopra tutto di quella parte di esse, che era indicata
col vocabolo di fas, ed era considerata come l'espressione della volontà
divina. Quelle tradizioni , che in Grecia furono lasciate ai poeti , i quali in
antico avevano ancor essi un carattere sacerdotale , in Roma invece sono
affidate a collegi sacerdotali , i cui membri sono scelti nel novero stesso dei
padri, memori dei riti e degli auspicii religiosi, i quali, malgrado il loro
carattere sacerdotale, continuano pur sempre a prendere parte alla vita civile
e politica , e sono i custodi fedeli del patrimonio tradizionale delle genti
patrizie. Cid spiega come le varie tribù primitive , a quella guisa che erano
concorse in parti eguali sotto l'aspetto politico e militare , così sembrano
pure avere na propria rappresentanza nei varii collegii sacerdotali, come lo
dimostrano il numero di tre, poscia di sei, e quindi di nove auguri e
pontefici, ed anche il numero di venti, che sembra essere stato quello dei
feziali. Intanto se un posto facevasi vacante , il vuoto veniva a riempirsi con
quella stessa cooptatio , mediante cui una nuova gente doveva essere accolta
nell'ordine patrizio . Cosi es sendo composti i collegii sacerdotali , essi
erano in condizione di contemperare e coordinare le tradizioni proprie delle
varie tribù, che erano concorse alla formazione della città ; e potevano col re
, che era il loro capo , contribuire potentemente all'unificazione e al
coordinamento legislativo . Quindi è che il culto, di cui essi sono i
sacerdoti, non è un culto speciale di questa o di quella tribù , ma un culto
ufficiale del popolo romano, come lo dimostrano le appel lazioni di augures
publici populi romani quiritium , di fetiales populi romani, non che la
qualificazione data ai pontifices di sacerdotes publici populi romani. Per
quello poi, che si riferisce alle tradizioni, della cui custodia essi sono
incaricati, senza voler pretendere, che in cið potesse esservi uno scopo
preordinato, questo è però certo, che si effettud fra essi una ripartizione, la
quale corri sponde ai varii aspetti, sotto cui il diritto può essere considerato
(1) . (1) Non ho creduto qui di dovermi occapare specialmente dei quindecim
viri sa cris faciundis, poichè questo collegio, iniziato da Tarquinio Prisco
colla nomina di due sacerdoti per la custodia dei libri sibillini, si cambid
col tempo nel custode dei culti, che erano di provenienza straniera . Esso
quindi non esercitò alcuna diretta influenza sul diritto specialmente privato ;
sebbene sia una prova evidente del con tinuo studio dei Romani per assimilarsi
le istituzioni anche religiose degli altri po poli. È a vedersi, quanto al
medesimo, il Bouché- LECLERCQ, op. cit .,pag . 555 a 560, e il Villems, Le
droit public romain, pag. 323-24 . 316 257. Vengono primi gli auguri, i quali,
secondo la tradizione, sem brano costituire il più antico di questi collegii,
in quanto che Roma stessa sarebbe stata fondata coll'osservanza delle cerimonie
prescritte dall'arte augurale. Essi sono i custodi dei riti, che debbono prece
dere e accompagnare tutte le deliberazioni, che possono riferirsi al pubblico
interesse, e costituiscono cosi nella religione pubblica della città una
imitazione degli stessi augurii privati : come lo dimostra l'at testazione di
Cicerone, che l'abitudine di consultare la volontà divina era universale, e che
i capi delle famiglie e delle genti non tenevano meno dello Stato ai loro
auspizii privati (1). È indubitabile, che essi ebbero dei libri augurales , in
cui serbavano le proprie tradizioni e la propria giurisprudenza , e senza voler
penetrare nei concetti, a cui poteva ispirarsi l'arte loro , egli è certo, che
essa fu una crea zione originale, propria sopratutto alle stirpi latina e
sabellica , che dimostra lo spirito religioso e giuridico ad un tempo del
primitivo popolo romano. È al collegio degli auguri, che devesi la teoria sot. tile
e complicata degli auspicii, che dovevano essere osservati, la distinzione fra
quelli, che potevano essere favorevoli o sfavorevoli, e la precedenza che certi
segni dovevano avere sopra altri. È ad essi parimenti, che devesi
l'orientamento del templum , ossia la delimi tazione di un sito senza ostacoli
e in cui potesse spaziare la vista , per modo che gli auspizii potessero essere
osservati; delimitazione, che do vette probabilmente anche esercitare influenza
sulla scelta e sull'o rientamento dei luoghi, in cui le città dovevano essere
edificate (2 ). 258. È però notabile, che se gli auguri sono incaricati
dell'osser vanza dei riti e della custodia delle tradizioni e decisioni
augurali, è pur sempre il magistrato, che è investito dei publica auspicia , il
quale deve giudicare se i medesimi siano o non favorevoli, e può così eser
citare una influenza decisiva sulle deliberazioni relative al pubblico
interesse ( 3).Era poinaturale , che gliauguri, i quali, nella città esclu (1 )
Ciò è attestato da Cicer ., De div., I, 16 , 28. — Cfr. MOMMSEN , Le droit
public romain , I, pag. 100 e 101. (2 ) Il vocabolo di arte augurale prendesi
talvolta in senso così largo, da com . prendere non solo l'avium inspectio
(donde l'auspicium ),ma eziandio l'ispezione delle viscere degli animali, donde
l'aruspicium . Questo però è da avere presente, che l'ar spicium era di origine
latina, mentre l'aruspicium era di origine etrusca. È da ve dersi in proposito
il PANTALEONI, Storia civ . e cost., appendice III , relativa ai Luceres. (3 )
Cfr. MOMMSEN, Op. cit., I, pag . 119 . 317 sivamente patrizia, erano i custodi
di riti e di tradizioni, che erano noti a tutto il populus, posteriormente ,
allorchè nel populus entro anche la plebe, finissero per acquistare una grande
autorità nelle lotte fra patriziato e plebe, e per recare al primo un
potentissimo sussidio mediante riti, la cui significazione era ormai divenuta
inesplicabile, anche per persone che uscivano dalle stesse genti patrizie . La
loro po tenza ed autorità ci è sopratutto attestata da Cicerone, il quale
scrive: « maximum autem et praestantissimum in re publica ius est au gurum cum
auctoritate coniunctum » , e lo prova dicendo, che essi potevano disciogliere i
comizii, rimandarli ad altro giorno, dichiararli viziati, anche dopo che eransi
tenuti, mentre intanto niuna delibera zione di pubblico carattere poteva essere
presa senza il loro inter vento (1). Però questa loro apparente onnipotenza, di
fronte allo Stato, scompare, quando si consideri, che il giudizio relativo agli
auspizii favorevoli o non appartiene al magistrato, e che gli auguri emettono
il loro avviso sulla osservanza del rito , con cui siansi tenuti i co mizi,
solamente quando siano interrogati dal senato o richiesti dal magistrato stesso
. 259. Quanto al collegio dei feziali, esso è il custode e il deposi tario del
ius foeciale ; ma non è certo il creatore del medesimo, come lo dimostra il
fatto , che questo erasi già formato durante il periodo gentilizio , ed era
comune ad altri popoli, pure di origine la tina e sabellica (2 ). L'istituzione
del collegio è dagli antichi attribuita ora a Tullo Ostilio , ed ora ad Anco
Marzio, ma tutti fanno rimon tare il ius foeciale ad epoca anteriore, poiché
Tullo Ostilio vi sa rebbe ricorso, anche prima che il collegio fosse da lui
istituito. Narra. infatti la tradizione, che il fatto di rimettere le sorti
della guerra fra Roma ed Alba ad un singolare combattimento fu solennemente sti
pulato coi riti proprii del ius foeciale. « I due cittadini eletti a cid, cosi
riferisce il Bonghi la tradizione, facendo le veci dei padri dei due popoli, lo
sancirono a nome di ciascuno di essi. L'uno e l'altro giurarono, invocando
Giove, che l'uno e l'altro popolo l'a vrebbe osservato . Quello dei due popoli,
che primo vi fosse ve (1) Cic., De legibus, II, 12. (2 ) Il processo di
naturale formazione , durante il periodo gentilizio, di quel ius belli ac pacis
, che costituì poi il ius foeciale dei Romani, fu esposto nel Lib. I, Cap. VII,
pag. 139 a 166 . 318 nuto meno, Giove lo ferisse, come l'uno e l'altro ferivano
il porco , che sacrificavano ; anzi con tanta più forza , quanto era la forza
di lui » ( 1) . Ciò significa che il collegio dei feziali non è stato mai il
giudice della giustizia intrinseca della guerra o della opportunità della pace
; l'una e l'altra son trattate dal senato e sono deliberate dal popolo ; mentre
i feziali sono incaricati dell'osservanza dei riti o custodiscono le tradizioni
relative al ius pacis ac belli. Anche essi sono messi in azione dagli organi
del potere civile e politico , e potranno talora essere chiamati a decidere
delle questioni, ma queste non si riferiscono alla giustizia intrinseca , nè
almerito delle cause di guerra , ma sono di preferenzaquestioni di rito e di
procedura (2). I feziali sono in numero di venti ; riempiono i posti vacanti,
mediante la cooptatio ; non hanno un capo permanente, ma scelgono caso per un
pater patratus nel proprio seno ; il che è un altro indizio come veramente il
pater patratus fosse un cittadino eletto a fare le veci del popolo, e che
ricordasse così l'antico patriarca della gente e della tribù. Il ius foeciale
pertanto è in ogni sua parte una sopravvivenza del periodo gentilizio ; indica
lo stadio più pro gredito , a cui erano pervenuti i rapporti anteriori fra le
genti e le tribù ; dimostra come già allora vi fossero degli esperimenti di
amichevole componimento , prima di addivenire alla guerra ; ed è una prova di
più, che i fondatori della città non erano popolazioni primitive nello stretto
senso della parola , ma avevano anche in questa parte un tesoro di antiche
tradizioni, le quali, serbate dallo spi rito conservatore dei Romani, furono
mantenute fino a che non di ventarono pienamente disadatte e incompatibili
colla convivenza civile e politica (3 ). 260. È poi probabile , e l'ho dimostrato
a suo tempo, che la distinzione fra foedus e sponsio fu una conseguenza del
passaggio dall'organizzazione gentilizia alla costituzione politica della città
, il (1) Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 79 . (2) Tale è pure l'opinione
sostenuta dal FusiNATO , Dei Feziali e del diritto fe. ziale, Cap. III. (3 ) Il
numero dei venti feziali, che non corrisponde a quello degli auguri e dei
pontefici, può forse essere un indizio, che il diritto feziale , comune ancora
ai Latini e ai Sabini, che erano più vicini ancora all'organizzazione
gentilizia, non apparteneva invece agli Etruschi, che, più avanzati nella vita
cittadina , già si erano maggior mente discostati da pratiche di carattere
eminentemente patriarcale. - - 319 – che rendeva tale distinzione incomprensibile
per popoli, che non erano ancora pervenuti a questo punto di svolgimento (1).
Così pure è un effetto di tale passaggio la distinzione netta, che viene
operandosi fra l'amicitia , l'hospitium ,i quali si dividono in pubblici e in
privati; ancorchè sia facile di scorgere, che nel primo periodo le amicizie
sono ancora curate specialmente dallo stesso re; il qual sistema fu seguito
sopratutto dalla politica dei Tarquinii , che intrattenevano relazioni coi capi
delle comunanze vicine, e macchinavano proba bilmente un cambiamento nella
forma di governo, che doveva es sere generale (2 ). Era poi una conseguenza
logica della politica seguita da Roma nella propria formazione, che essa in
questo primo periodo non si chiudesse ancora in se medesima, ma venisse in
certo modo at traendo a sè le popolazioni vicine. Roma continua in questa parte
la politica dell'asilo, dalla tradizione attribuita a Romolo , e in ciò
presenta un carattere del tutto opposto alla formazione delle città greche, e a
quella della stessa Atene. Giovano a questo intento l'isti tuto dell'hospitium
publicum , la concessione della civitas sine suf fragio, l'istituzione del
municipium , singolare istituzione, per cui altri, pur restando nella propria
terra , e partecipando alle cose amministrative di essa, pud tuttavia prendere
parte viva alla gran dezza della patria communis, e recarsi a darvi il prorio
voto, allorchè trattisi di quelle deliberazioni, che possono interessare
direttamente anche gli abitanti dei municipia. È poi notabile il profitto, che
Roma seppe ricavare dall'istituzione , graduando e differenziando le con
cessionida essa fatte ai municipii, e svolgendone il concetto in guisa da
cominciare colla concessione di una civitas sine suffragio per giungere sino
alla concessione di una cittadinanza compiuta, il che pure a dirsi
dell'istituto della colonia (3 ). Intanto però anche qui è ( 1) V., quanto al
foedus e alla sponsio, il Lib . I, Cap. VII, nº 118 . ( 2) Cid è attestato da
Livio, I, 49, allorchè scrive di Tarquinio il Superbo : « La tinorum maxime
sibi gentem conciliabat , ui peregrinis quoque opibus tutior inter cives esset
; neque hospitia modo cum primoribus eorum , sed adfinitates quoque iungebat »
. (3) Inteso in questa guisa, il sistema municipale per Roma non è che l'applica
zione del sistema stesso , che essa aveva seguito nella propria formazione,
quello cioè di interessare alle sorti della patria comune tutti i popoli, che
da essa dipendevano, facendo sempre più larghe concessioni a quelli, che le
erano più vicini, e di cui quindi poteva avere maggiore bisogno. V. sopra , Lib
. I, Cap. VII, nº 127. 320 appare, che la politica estera di Roma non
appartiene punto ad un collegio di sacerdoti,ma che nel periodo regio
appartenne al re, e nel repubblicano al senato, il quale , essendo un consesso
permanente ed accogliendo nel proprio se noi magistrati uscenti di ufficio ,
poteva mantenere quella continuità tradizionale non interrotta, di cui porge un
mirabile esempio la storia politica di Roma. Infine si comprende eziandio , come
il collegio dei feziali, custode di tradizioni, che si riferivano ai rapporti
colle altre genti, non abbia avuta l'influenza effettiva , che appartenne agli
auguri e ai pontefici, perchè il nucleo delle tradizionida esso serbate non
poteva trovare applicazione nelle lotte fra patriziato e plebe. Tuttavia
allorchè i due ordini erano ancora distinti, vi furono patti fra essi,
stipulati coi riti del diritto feziale, e accompagnati, a richiesta della
plebe, dalla capitis sacratio di colui, che li avesse violati (leges sacratae)
(1) . 261.Non vi ha poi dubbio, che il collegio sacerdotale più importante
nell'organizzazionedella città patrizia è, senza alcun contrasto , quello dei
pontefici. È questo collegio che riverbera nel proprio seno le istituzioni primitive
di Roma. Esso infatti, a differenza degli altri collegi, ha una costituzione
monarchica, ed ancorchè composto di più membri, è presieduto nel periodo regio
dal re , e poscia dal pontifex maximus, il quale raffigura il capo religioso
del popolo romano, in quanto costituisce una famiglia religiosa . Cid appare da
questo , che il pontefice massimo, durante la repubblica , e quindi anche il re
,nel periodo anteriore, ha una vera patria potestà sui sa cerdoti e sulle
vestali, che da esso dipendono, le quali ultime sono da lui captae in quella
stessa guisa, in cui lo sarebbe una figlia dal proprio padre o marito ( 2). Il
collegio dei pontefici poi, al pari del popolo dei quiriti, di cui esso ha la
direzione religiosa , ha un potere, che spiegasi in doppia direzione. Da una
parte esso costituisce il vero sacerdozio del po polo romano, e quindi prima il
re e poscia il pontifex maximus, da cui dipende lo stesso rex sacrorum ,
compiono i sacrifizii proprii della religione pubblica ed ufficiale del popolo
romano. Da un altro ( 1) Cfr. LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 134,
e la sua dissertazione : De sacrosanctae potestatis tribuniciae natura.
Lipsiae, 1883. (2) Cfr. Bouché-LECLERCQ , Les Pontifes de l'ancienne Rome.
Paris, 1871 ; Ma nuel des Instit. romaines, pag . 510 a 533 . 321 - canto
invece il collegio dei ponteficideve eziandio curare, che i culti delle genti e
delle famiglie non siano interrotti (sacra privata ): e sotto quest'aspetto
raduna le curie in quanto costituiscono una religiosa famiglia nei comitia
calata , per mezzo dei proprii cala tores . Quindi è pure col suo intervento ,
che compiesi la cerimonia solenne della confarreatio, la quale dà origine alle
iustae nuptiae delle genti patrizie, e consiste in una cerimonia religiosa, che
si compie avanti ai pontefici coll'intervento di dieci testimonii , che
rappresentano le dieci curie delle tribù, a cui appartiene quegli, che
addiviene alle medesime. È esso parimenti, che presiede a quei co mitia calata
delle curie, in cui i membri del popolo primitivo addiven gono all'adrogatio e
al testamentum , i quali , durante il periodo della città patrizia , dovettero
ottenere un ' approvazione analoga a quella , a cui erano sottoposte le leggi,
come lo dimostra la formola conservataci da Aulo Gellio , relativa
all'adrogatio , la quale senza dubbio doveva essere analoga a quella del
testamentum . Per verità ho già cercato di dimostrare a suo tempo come per le
genti patrizie tanto l'uno che l'altro atto dovevano subire la pubblica
approvazione, in quanto che i medesimi potevano alterare quell'organizzazione
gentilizia, che aveva costituita la forza e la superiorità del patriziato , e
che in Roma primitiva volevasi conservare ad ogni costo . Intanto ne veniva,
che i Pontefici sotto quest'aspetto potevano anche eser citare un'influenza
sulla successione per quella parte, che si rife risce alla trasmissione
dell'obbligazione relativa ai sacra . 262. Tuttavia l'importanza maggiore del
collegio dei pontefici provenne sopratutto da che questo collegio ebbe l'altissimo
ufficio di serbare le tradizioni relative al mos, al fas ed al ius, e proba
bilmente dovette anche compiere quella prima elaborazione, me diante cui il
diritto , che, erasi formato fra le genti e i loro capi, potè poi essere
applicato fra i quiriti, ossia fra i membri che par tecipavano alla medesima
comunanza civile e politica (1). Essi dovet ( 1) Questa funzione,
essenzialmente conservatrice degli antichi riti e tradizioni, che sarebbe stata
affidata ai pontefici, parmi provata dal seguente passo di Livio , I, 20 : «
Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit: ne
quid divini iuris, negligendo patrios ritus, peregrinosque adsciscendo,
turbaretur » . Per quello poi, che si riferisce all'adrogatio ed al testamentum
, è da vedersi ciò, che si disse per l'epoca gentilizia nel Lib. I, Cap. IV, n
° 65, e per il periodo dei primi re in questo stesso libro, Cap. II, nº. 220.
G. Caeli, Le origini del diritto di Roma . 21 322 tero essere in questo periodo
i trasformatori dei iura gentium nel pri mitivo ius quiritium , e furono in
condizione di poterlo fare, come quelli, che erano probabilmente ricavati dalle
varie tribù , ed erano cosi in condizione di coordinare e di richiamare ad
unità le istitu zioni, che in qualche particolare potevano essere diverse .
Durante il periodo regio non può quindi essere dubbio, che il collegio dei
pontefici, presieduto appunto dal re , dovette essere un cooperatore potente di
quell'unificazione legislativa , di cui sentivasi urgente bi. sogno, e dovette
anche essere il custode e depositario della primitiva legislazione, come lo
dimostra la tradizione con attribuire a un pon tefice Papirio la prima
collezione della medesima (ius Papirianum ). Ad ogni modo era naturale,
trattandosi della legislazione di un popolo , i cui componenti prima quasi non
conoscevano altra autorità , che quella del fas, che anche questo primitivo
diritto dovesse essere ri vestito di quell'aureola religiosa, che è propria di
tutte le istituzioni, durante il periodo gentilizio . Intanto però in questo
periodo i pontefici, uscendo ancor essi dal novero delle genti, non avrebbero
potuto attri buire al diritto quel carattere di segretezza e di arcano, che
potè as sumere più tardi, in quanto che le tradizioni, di cui essi erano i
custodi, vivevano ancora fra i capi di famiglia, da cui era costituito il
populus primitivo, distribuito per curiae, corporazioni religiose e politiche
ad un tempo. 263. Era invece naturale, che col passare dal periodo regio ad una
repubblica, il cui populus non era più composto di uomini, ri cavati
esclusivamente dalle genti di origine patrizia , le funzioni del collegio dei
pontefici dovessero subire una trasformazione profonda. Essi sono sempre i
sacerdoti del popolo Romano : ma intanto non escono che da una parte di questo
populus, e sono anzi i depositari e i custodi delle tradizioni proprie di
questa parte eletta del populus, la quale continua da sola ad avere gli
auspicia e ad essere la reggi trice della città . Si aggiunge, che il potere
religioso del pontifex ma ximus, che prima apparteneva al re , viene poscia
attribuito ad una specie di magistratura sacerdotale, la quale finisce per dar
sempre più al diritto un'aureola religiosa ; sebbene sia vero che questa se
parazione del potere civile dal religioso cooperò a preparare la distin zione
del ius sacrum dal ius civile . Intanto però , cosi l'uno come l'altro sono
conservati dapprima negli archivii dei pontefici (in pene tralibus pontificum
), sopratutto in quel periodo, che corre fra la cac ciata dei re e la legislazione
decemvirale , durante il quale sono i pontefici, che compiono
quell'elaborazione giuridica , che sarebbe stata impossibile permagistrati
annui, i quali ad un tempo erano chiamati a cure compiutamente diverse . Sipud
quindi affermare con certezza, che i primi elaboratori di un ius, comune al
patriziato ed alla plebe, fu rono i pontefici ; cosa del resto, che è
concordemente attestata da Pomponio , da Valerio Massimo, da Cicerone e da
altri, e che era una naturale conseguenza dello stato delle cose e dei
rapporti, che in tercedevano fra i due ordini, allora in lotta fra di loro (1).
Di qui la conseguenza , che la divulgazione del diritto venne in certa guisa a
procedere di pari passo col pareggiamento politico delle due classi ; ma
intanto la prima scuola dei giureconsulti fu certamente il ius pontificium ; nè
è a credersi, che tutta l'opera loro potesse solo ri ferirsi al diritto sacro ;
poichè i pontefici di Roma, come si è ve duto , essendo una magistratura
sacerdotale , erano i veri rappresen tanti delle genti patrizie, la cui
religiosità non escludeva il senso giuridico e politico, e neppure lo spirito
militare. Intanto ne de rivava eziandio, che, per essere resi partecipi di
questa scienza del diritto , conveniva anche ottenere l'ammessione nel collegio
dei pontefici, i cui libri e commentarii contenevano un tesoro di con cetti,
molti dei quali passarono certamente nei primi giureconsulti, che furono essi
stessi pontefici massimi(2 ). Vero è, che i frammenti, che a noi pervennero del
diritto pontificale , sembrano riferirsi esclu sivamente a prescrizioni di
diritto sacro ; ma ciò proviene da che la parte relativa al ius civile passò
nei giureconsulti, ed entrò nel l'organismo vivo della giurisprudenza , mentre
quella , che aveva un carattere sacro, fini per ridursi a concetti, che poscia
più non furono compresi, e venne cosi ad essere argomento di curiosità per gli
ar cheologi e per i grammatici. Un'altra causa di questo fatto deve pur ( 1)
Questa influenza dei Pontefici sul diritto, sopratutto nei primi periodi della
Repubblica , è attestata da VALERIO Massimo, II, 5 ; Livio, IX , 46; Cic ., pro
Mu rena, 11 ; De legibus, II , 8 , 9 ; De oratore, III, 33. I passi relativi
sono raccolti dal Rivier , Introd . histor., pag. 121 e segg. (2 ) Basta perciò
il considerare, che i primi giureconsulti, di cui sia a noi perve nuto il nome,
come Papirio (donde il ius Papirianum ), Appio Claudio (il cui segretario Gneo
Flavio avrebbe propalato il ius Flavianum ) e Tiberio Coruncanio, che appare
come il primo giureconsulto di origine plebea , furono pontefici massimi, o
quanto meno aggregati al collegio dei pontefici. Quelli poi, che più non erano
tali, presero pur sempre le mosse dal ius pontificium , come appare ad evidenza
dalle reliquie degli antichi giureconsulti raccolte dall ' HUSCHKE, Jurisp .
anteiustin . quae supersunt. Lipsiae, 1879. 324 - riporsi in questo , che a
misura che la scienza del diritto venne a concentrarsi nelle mani dei
giureconsulti e del pretore, il diritto pon tificale venne naturalmente restringendosi
al ius sacrum , e fu in questa guisa che alla separazione , che già erasi
operata nella città patrizia fra il pubblico ed il privato , venne poscia
aggiungendosi la distinzione fra il diritto sacro e il diritto civile
strettamente inteso. Intanto perd vuolsi avere per fermo, che questo ritirarsi
del diritto negli archivi dei pontefici, durante il primo periodo della
repubblica , venne ad essere l'effetto dell'ammessione nel populus di un nuovo
ele mento, che non possedeva queste tradizioni giuridiche, e che sotto questo
aspetto doveva dipendere da un'altra classe : il qual concetto ci conduce a
combattere l'opinione, pressochè universalmente accolta , circa quella
legislazione , che suol essere compresa col vocabolo di « leges regiae » . § 4 .
Delle leges regiae e della fede da attribuirsi alle medesime. 264. È abbastanza
noto come qualsiasi demolizione ne provochi un'altra ; tanto più se trattisi di
un edifizio armonico e coerente. Ciò videsi sopratutto della storia primitiva
di Roma. Dopo aver resi leg gendarii i re, per guisa che si riuscì a fare la
storia, senza pur nominarli ; anche la legislazione, che era aimedesimi
attribuita dalla tradizione, dovette essere considerata come una invenzione di
tempi posteriori. Parve che un popolo , il quale era solo chiamato ad ap
provare o a respingere le proposte fattegli, non potesse avere una parte
effettiva nella formazione di leggi, di cui alcune avevano un carattere
essenzialmente religioso, e che la collezione di leggi regie, accennate dagli
scrittori, e attribuite ad un pontefice Papirio, dell'e poca regia, dovesse
ritenersi come opera di tempi posteriori (1). (1) Questa opinione, che prevalse
col DIRKSEN : Die Quellen des römisches Rechts , Leipzig, 1823, trovò uno
strenuo oppositorenel Voigt: Über die leges regiae. Leipzig, 1876, la cui opera
è divisa in due parti, nella prima delle quali egli investiga la sostanza e il
contenuto delle leges regiae , mentre nella seconda si occupa dell'au tenticità
e delle fonti delle medesime. Secondo il FERRINI, Storia delle fonti del
diritto romano. Milano, 1885, pag. 3, nota 2 , l'opinione del Voigt, se in
qualche parte deve temperare le esagerazioni della scuola del NIEBHUR ,
dall'altra per ade rire troppo alla tradizione, non potrà forse piacere a
molti. Cid si capisce, trattan . dosi di persone educate a tutt'altra scuola ;
ma intanto abbiamo un altro contri buto allo studio veramente positivo della
storia primitiva di Roma. 325 Sembrami che in questa parte la critica siasi
spinta troppo oltre, in quanto che il processo seguito da Romanella propria
formazione ac cadde invece in guisa tale, che se una legislazione regia non
fosse ram mentata dagli scrittori, dovrebbe essere pur supposta, perchè era una
necessità dei tempi. Il populus primitivo di Roma era composto di persone
appartenenti a genti patrizie , memori delle antiche tradi. zioni, e quindi non
è punto ripugnante, che il medesimo, alla guisa stessa che eleggeva il re e
conferiva l' imperium con una lex cu riata de imperio, cosi fosse pur chiamato
a dare approvazione alle leggi, che rappresentavano i patti e gli accordi, in
base a cui le varie tribù entravano a formar parte della stessa comunanza
civile e politica. Ciò non potè accadere , come narra Pomponio, finchè Romolo
fu solo capo della tribù Ramnense, stabilita nella Roma pa latina ; ma dovette
divenire indispensabile, allorchè la città , la no mina del suo re , la sua
religione, il suo diritto cominciarono ad essere il frutto della confederazione
e degl'accordi seguiti fra diverse comunanze. La stessa varietà degli elementi,
che concorrevano a costituirle, rendeva opportuno, quanto ai provvedimenti, che
riguar. davano il comune interesse , di adottare la forma della legge, la
quale, elaborata e coordinata dal collegio dei pontefici, proposta dal re, appoggiata
dai padri del senato , approvata dalle curie , poteva veramente ritenersi come
l'espressione della volontà comune. In questa parte ha tutte le ragioni Livio ,
allorchè ci dice , che il popolo romano era cosi composto , che « nulla re ,
nisi legibus, in unius populi corpus coalescere potuisset » . Era solo a questa
condizione, che capi di tribù e di genti, fino allora indipendenti e sovrani,
potevano sottoporsi all'impero di uno stesso magistrato e di un medesimo
diritto. Lo stesso carattere religioso della le gislazione regia non può
costituire un argomento in contrario ; perchè il primitivo populus diRoma era
composto di persone esperte anche nei riti e nelle cerimonie religiose , che
ciascun capo di fa miglia compieva nel seno della propria famiglia . Del resto
a voler anche ammettere, che quella parte della legislazione regia , la quale
ha un carattere esclusivamente sacro, potesse , fin da quella prima epoca,
essere lasciata intieramente alla elaborazione del collegio dei pontefici ;
egli è però certo, che l'altra parte invece, la quale ha un carattere civile,
giuridico e politico ad un tempo, dovette essere il frutto del concorso dei
varii organi della costituzione primitiva di Roma, e deve perciò aver presa la
forma di vere e proprie leges rogatae. Certo possono darsi dei casi, in cui
questa procedura regolare 326 non sarà stata effettivamente adempiuta in tutte
le sue parti, al modo stesso , che , secondo gli storici, non fu sempre
osservata in ogni sua parte la procedura relativa alla nomina dei re : ma in
man canza di prove in contrario, di fronte all'attestazione concorde degli
autori, che non avevano alcun motivo di alterare le cose , e cono scendo il
carattere del popolo, osservatore costante della legalità e facile a
commuoversi, quando questa non fosse osservata, non si può essere in diritto di
negare l'esistenza di vere e proprie leggi, anche in questo periodo, in quella
parte, che si riferisce a cose di pubblico e di privato interesse (1). 265. Pur
ammettendo che in questa primitiva condizione di cose , la maggior parte dei
rapporti giuridici abbia continuato ad essere lasciata all'impero della
consuetudine e del costume, dovevano perd anche esservi quelle parti, in cui le
divergenze, esistenti fra le varie comunanze, presupponevano una unificazione
ed un coordina mento , che doveva di necessità operarsi, mediante quelle leges,
che a ragione si chiamavano publicae, perchè erano la base della comune
convivenza civile e politica . Che anzi dovettero esser queste leges, che
costituirono il nueleo primitivo di quel ius quiritium , che cominciava a
sceverarsi dal fas e dai bonimores. Siccome perd questo ius venne formandosi «
rebus ipsis dictan tibus et necessitate exigente » ; cosi esso non potè
formarsi di un tratto , nè essere fin dapprincipio un organismo coerente, che
provvedesse a tutti i rapporti; ma dovette lasciare la maggior parte di questi
rap porti alla consuetudine, limitando l'opera sua a concretare quei prov
vedimenti, la cui necessità facevasi urgente e palese, a misura che la convivenza
civile venivasi svolgendo. Niun dubbio parimenti, che anche i concetti e
sopratutto le forme di questa primitiva legislazione dovessero essere tolti dal
periodo anteriore : ma il fatto stesso , per cui essi erano trapiantati in
terreno diverso , dovette far sì, che essi mutassero carattere .
266. Se intanto potesse essere lecito anche solo tentare di rico struire il
processo , con cui dovette formarsi il primo nucleo delle istituzioni e dei
concetti quiritarii, in base alla formazione progres siva della città ,
crederei di poter rich iamarlo alle seguenti leggi fondamentali : ( 1)
Liv., I, 8 . - 327 l• Un primo effetto di questa grande trasformazione, per cui
i capi e membri delle varie genti venivano ad essere cittadini della medesima
città , dovette esser quello di far trasportare nella città e nei rapporti fra
i quiriti quelle istituzioni e quei concetti giuridici, che si erano formati
nei rapporti fra le varie genti e specialmente fra i capi delle medesime. Tutti
i concetti pertanto, che apparte nevano ai iura gentium , diventarono proprii
del ius quiritium ; cosicchè il commercium , il connubium , l'actio, da
rapporti fra le varie genti e i loro capi, diventarono rapporti fra i quiriti ;
donde la spiegazione di quelle solennità di carattere gentilizio, che ancora si
mantengono nel diritto primitivo diRoma. Processo più naturale di questo non
sarebbesi potuto seguire , poichè colla formazione della città i capi di
famiglia e delle genti, che prima erano indi pendenti, vennero a cambiarsi in
quiriti, e quindi il loro diritto di internazionale ed esterno, quale era
prima, doveva cambiarsi in di ritto quiritario ed interno. 2º Una seconda
conseguenza poi dovette essere eziandio che questi concetti, così trapiantati
dai rapporti fra le genti, nei rapporti fra i quiriti o membri della stessa
civitas, i quali prima avevano solo avuto uno svolgimento estensivo, poterono
ricevere uno svolgimento inten sido , e cambiarsi in altrettante propaggini, da
cui scaturirono le varie forme del ius quiritium . Dal connubium potè uscire il
ius connubii con tutte le conseguenze delle iustae nuptiae, che consistono
nella manus, nella potestas, nel mancipium , nella successione e nella tutela
legittima: le quali naturalmente non poterono in questo periodo ispi rarsi, che
ai concetti dell'organizzazione gentilizia. Il commercium parimenti si esplico
nel ius commercii, con tutte le sue varie gra dazioni del comprare e del
vendere (mancipium ), dell'obbligarsi (nexum ) e del poter ricevere o disporre
per testamento (testamenti factio). Così pure l'actio sacramento , che era una
procedura fra i capi di famiglia indipendenti, nel seno delle tribù , potè
conver tirsi in una procedura fra quiriti , e siccome eravi un magistrato , a
cui si apparteneva di pronunziare circa il ius, che si manteneva distinto
dall'iudicium , così fu naturale, che accanto all'actio sacra mento si
svolgesse eziandio la iudicis postulatio (1). 3º Infine una terza conseguenza
di questa trasformazione dovette (1) È da vedersi in proposito quanto si disse
nel capitolo precedente nº. 244, pag. 298 e segg. 328 consistere in ciò , che
le istituzioni, cosi trapiantate nella città, es sendo staccate dall'ambiente ,
in cui si erano formate, si trovarono libere dai vincoli , in cui prima erano
trattenute , e poterono cosi ricevere tutto lo svolgimento , a cui le portava
il proprio concetto informatore. Ciascuna di esse si ridusse in certo modo ad
essere una concezione astratta ; e potè così essere sottoposta a quegli
speciali processi e a quelle analisi, che sono proprii della logica giuridica
(iuris ratio ). Per tal guisa venne ad essere un'astrazione il quirite, perchè
esso non è più tutto l'uomo, ma è l'uomo considerato sotto l'aspetto speciale
dei diritti e delle obbligazioni, che gli incombono come cit tadino ; fu un '
astrazione il potere giuridico (manus) attribuito al medesimo, in quanto che
esso è concepito senza le limitazioni esi stenti nel costume. Di qui la
conseguenza, che egli come capo di famiglia ( pater familias) giuridicamente la
riassume in sè stesso, e ha il ius vitae et necis sulla moglie , sui figli,
sugli schiavi; come proprietario può disporre in qualsiasi guisa delle proprie
cose ; come creditore può appropriarsi e perfino dividere il corpo del debitore
. Per tal guisa tutto il diritto primitivo di Roma è già il frutto di
un'astrazione, cioè di una specie di isolamento dell'elemento giuridico dagli
altri elementi della vita sociale, per cui ogni istituzione può ricevere quello
svolgimento logico e dialettico, che costituisce la ca ratteristica del diritto
romano, e ne costituisce la superiorità sopra tutte le altre legislazioni. Il
diritto romano infatti, fin dai proprii esordii, è uscito bensi dalla realtà
dei fatti, ma fece ben presto astrazione da essi e diede uno svolgimento logico
alle proprie istitu zioni, le quali perciò diventarono istituzioni tipiche , e
poterono essere portate dapertutto , perchè la logica è di tutti i popoli e di
tutti i tempi. Fu mediante questo processo ; che i Romani poterono essere per
il diritto ciò , che i Greci furono per l'arte, e questo segreto essi già lo
possedevano fin dalla prima formazione della propria città , e continuarono
sempre ad applicarlo, senza curarsi di darne nelle opere loro una spiegazione,
che sarebbe stata inutile, perchè trattasi di un genio originario e nativo, che
può essere intuito , ma non insegnato . Tutte queste conseguenze del nuovo
stato di cose poterono rica - varsi senza bisogno di apposita legislazione ,
per opera di una logica istintiva e naturale , sentita universalmente da un popolo,
che mi rava diritto al proprio scopo , e che, poste le premesse, sapeva deri
varne le conseguenze . 329 267. Intanto però eranvi altri argomenti, intorno a
cui potevano esistervi divergenze nelle istituzioni particolari delle varie
tribù, ed in questi argomenti appunto, secondo la tradizione, verrebbero ad ap
parire le traccie di una legislazione regia, la quale potrà forse non esserci
pervenuta nelle sue fattezze genuine : ma che intanto non merita punto di
essere senz'altro respinta, come una creazione di tempi posteriori ( 1). Essa
porta in sè un'impronta efficace di verità , in quanto che si presenta con un
carattere del tutto consentaneo ad un populus, che esce dall'organizzazione
gentilizia , e le cui isti tuzioni sono ancora tutte circondate di un ' aureola
religiosa ; del che sarà assai facile persuadersi, ricostruendo e componendo
insieme i rottami, che ci pervennero di questa legislazione, per la parte, che
si riferisce al diritto privato e al diritto penale primitivo di Roma. § 5 . –
La famiglia e la proprietà secondo la leges regiae. 268. Quanto al diritto
privato l'istituzione, che presentasi più ri gorosamente delineata nelle
reliquie delle leges regiae, è l'orga nizzazione della famiglia . È evidente,
che essa riducesi in sostanza ad un rudere della stessa organizzazione
gentilizia , che viene ad essere portato nel seno della città . Ma intanto
separata dall'orga nizzazione gentilizia , in cui erasi formata , e dalla quale
era tempe rata in qualche parte, presentasi con linee così rigide e precise ,
da riuscire a noi pressochè incomprensibile, se non riportisi nell'ambiente, in
cui dovette formarsi . Dei varii modi, in cui questa famiglia potrà essere
fondata, le leggi regie non ne ricordano che un solo , e questo è la cerimonia
re ligiosa della confarreatio, la quale già conosciuta probabilmente alle genti
delle varie tribù può benissimo essere stata adottatta come la forma solenne e
riconosciuta per il matrimonio quiritario. Dio nisio infatti dice , che Romolo
avrebbe condotto all'onestà le donne con un'unica legge, con cui avrebbe
stabilito : « uxorem , quae nuptiis (1) La vera causa di questa critica , che
tutto nega, relativamente alla storia pri mitiva di Roma, sta nel presupposto,
che il popolo fondatore della città fosse un popolo del tutto primitivo. Ho
cercato di dimostrare il contrario, e quindi non trovo nulla di improbabile,
che un popolo, che si presenta con una quantità di tradizioni e di concetti già
elaborati, fosse in condizione tale da prendere una parte effettiva , anche nella
formazione delle leggi. 330 sacratis (confarreatione ) in manum mariti
convenisset, commu nionem cum eo habere omnium bonorum ac sacrorum » . Noi ab
biamo qui il matrimonio primitivo , esclusivamente patrizio , accom pagnato da
una cerimonia religiosa ; esso compiesi coll'intervento dei pontefici e colla
testimonianza di dieci testimonii, che rappresentano le dieci curie, in cui è
ripartita ciascuna tribù primitiva ; produce la comunione delle cose divine ed
umane; e intanto riduce in certo modo la moglie in posizione di figlia,
rimpetto al marito ; il che però non toglie, che essa gli sia compagna nel
culto domestico . È al marito , che appartiene la giurisdizione sulla moglie
pei delitti, che essa compie ; anzi due fra essi, l'adulterio ed il bere vino (per
causa che proba bilmente può riferirsi a qualche rito religioso ) possono
essere puniti di morte : ma egli deve perciò essere circondato dal tribunale
dome stico , il quale è ancora una istituzione eminentemente gentilizia (1). Il
vincolo matrimoniale , stretto coll'intervento della religione, è per per sua
natura indissolubile , in quanto che non potrebbe compren dersi, che una
moglie, che è figlia al marito, possa far divorzio da esso . Di qui una legge,
che Dionisio chiama dura , la quale nega alla moglie difar divorzio dal marito
;ma intanto questi può ripudiarla ,ma solo per cause determinate, quali
sarebbero il venefizio commesso a danno della prole , la sottrazione delle
chiavi e l'adulterio . Che se il marito abbandoni la moglie per altre cause, dei
suoi beni si faranno due parti, di cui una andrà alla moglie, l'altra sarà
sacra a Cerere : che se egli la venda, dovrà essere immolato agli dei infernali
(2 ). Qui pertanto il potere del marito sulla moglie ha ancora tutti i
caratteri del periodo gentilizio ; ma le cerimonie religiose, che forse
potevano essere diverse presso le varie tribù, già vengono ad essere unificate
e son tutte ridotte alla confarreatio ; son fissati i casi per il ripudio ; e
sono anche posti certi confini ai poteri del marito sulla (1) Le disposizioni
attribuite alle leges regiae, che sono qui riprodotte, ci furono conservate da
Dionisio , II, 25; il loro testo può vedersi nel Bruns, Fontes, pag . 6 . (2)
Questa legge, attribuita a Romolo relativamente al ripudium , è ricordata da
PLUTARCO, Romulus, 22. Gli autori, che studiarono di recente l'argomento, già
co minciano ad ammettere la probabilità, che nell'antico matrimonio per
confarreatio nem non potesse essere consentito il divortium , nel senso vero
della parola ; il quale dovette avere origine dal divertere della moglie dalla
casa del marito nel matri monio sine manu , e poi si concretò in una
istituzione giuridica , che si estese allo stesso matrimonio cum manu. Cfr.
Esmein, La manus, la paternité et le divorce, nei Mélanges d'histoire du droit,
pag . 3 a 37. 331 moglie. A queste leggi se ne aggiunge una di Numa, che assume
un carattere più sacro , la quale è cosi concepita : « paelex aram Iunonis ne
tangito ; si tanget, Iunoni, crinibus demissis, agnum foeminam caedito » : la
qual legge (se si accetta la significazione attribuita al vocabolo di paelex da
Festo , secondo cui suonerebbe la donna « quae uxorem habenti nubebat » ),
significherebbe, che il matrimonio doveva essere monogamo, e che altra donna
non poteva entrare nella casa , ed accostarsi all'altare di Giunone,
protettrice appunto delle giuste nozze ; in caso contrario doveva sacrificarsi
una piacularis hostia (agnum foeminam caedito) (1). 269. Lo stesso è a dirsi
della patria potestas, la quale, secondo una legge attribuita a Romolo, duráva
tutta la vita e importava il potere di vita e di morte sul figlio , e la
facoltà di venderlo fino a tre volte per trarne profitto ; alla qual legge se
ne aggiunge un'altra di Numa, secondo cui il padre , che abbia consentito alle
nozze confar reate del figlio, le quali importano la comunione delle cose
divine ed umane, più non è in facoltà di venderlo . Devono poi i padri educare
tutta la prole maschile e le figlie primogenite, e non possono mettere a morte
niun feto minore di tre anni, se non sia mostruoso o mutilato , nel qual caso
deve prima essere mostrato ai vicini, e questi deb bono approvare il suo
operato ; disposizione questa , che richiama ancora le consuetudini proprie
della vita patriarcale del vicus e del pagus, ove i vicini mutansi talvolta in
giudici ed in consi glieri (2). Alle leggi relative a quest'ordine di idee può
eziandio ri chiamarsi quella , attribuita a Numa, secondo cui se una donna
fosse morta in istato di gravidanza, non doveva essere seppellita, se prima non
se fosse estratto il feto : alla quale disposizione il Voigt rannode rebbe, con
molta verisomiglianza , quel passo di lex regia , conserva toci da Paolo
Diacono, secondo cui: Si quisquam aliuta (aliter ) faxit, lovi sacer esto (3).
(1) Festo, v ° Paelices ( Bruns, Fontes, pag. 350). Tutti i passi relativi
possono vedersi raccolti dal Voigt, über die leges regiae. Leipzig , 1876 , §
2º, pag . 8. (2 ) Tutte queste leggi regie, relative alla patria potestà , sono
ricordate da Dio NISIO, II, 26, 27: II, 15 ; II , 27. Quella attribuita a Numa
è pur ricordata da Plu TARCO, Numa, 17. Il testo delle medesime trovasi nel
Bruns, Fontes, pag. 7 e 9. (3) A questa legge accenna il giureconsulto MARCELLO
, L. 2, Dig. (11, 8) : mentre l'altra parte sarebbe ricavata da Festo, pº
aliuta . Il Voigt ritiene doversi combinare i due frammenti in una sola legge,
Über die leges regiae, 8 13, pag. 75 . 332 Iatanto però tutto quest'ordinamento
religioso e politico della fa miglia primitiva è ancora sempre sotto la
protezione del fas , in quanto che i figli, i quali maltrattino i genitori, e
la nuora , che venga a cattivi trattamenti verso la suocera , mettendo cosi in
non cale il rispetto dovuto all'età , incorrono nella capitis sacratio ; la
quale è pure la pena, in cui incorre il patrono , che faccia frode al proprio
cliente, e ogni altro, che venga meno alle disposizioni re lative
all'ordinamento della famiglia (1) . 270. Per quello poi, che si riferisce alla
proprietà , nulla ci fu con servato circa il carattere intimo della medesima ;
ma dalle disposi zioni, che Dionisio attribuisce a Romolo relativamente alla
clientela , e dall'incarico, che secondo Festo sarebbesi da Romolo affidato ai
patres o senatori, di fare assegni di terre agli uomini di bassa condizione
(tenuioribus), è lecito di inferire, che la proprietà con tinua in parte ad
avere un carattere gentilizio , e che in questo periodo ancora si mantengono
quelle proprietà o possessioni collet tive, sulle quali si possono fare degli
assegni ai clienti (2). Tuttavia nell'interno della città vediamo già comparire
netta e decisa l' isti tuzione della proprietà privata . In virtù di una legge
attribuita a Numa, quel dio Termine, che un tempo separava i confini fra i ter
ritori delle varie genti e delle varie tribù , viene a ripartire e a consacrare
la proprietà fra i quiriti, i quali hanno già una proprietà individuale e
privata, rappresentata dal proprio heredium . Per tal modo la terminazione, che
prima esisteva fra i territorii gentilizii, come lo dimostra l'accenno, che si fa
nel ius foeciale alle divinità patrone dei confin ., viene a cambiarsi
anch'essa in una istituzione quiritaria , e si introduce così la terminazione
fra le proprietà private . Tutti quindi son tenuti a porre dei termini al
proprio campo, e questi sono consacrati a Giove Termine ; colui, pertanto che
li ri. muova o li trasporti da un sito all'altro , sarà soggetto alla capitis
sacratio (3 ) . ( 1) Così,ad esempio, secondo il Mommsen in Bruns, Fontes, pag.
7 , nota 6 , una legge, attribuita a Tullo Ostilio, sarebbe così concepita <
si parentem puer verberit, ast olle (ille) plorasset, puer divis parentum ,
sacer estod ; si nurus, sacra divis pa rentum estod . » Per i divi parentum si
intendono poi i diï manes, Cfr. Voigt, Op. cit., § 7 , pag. 41. (2) Dion., II ,
9 ; Cic., De rep., II, 9; Festo, vº Patres (Bruns, pag. 372). (3) Dion., II, 74
; Festo, pº Termino. Cfr. Voiat, Op. cit., $ 9, pag . 48. 333 Certo queste son
tutte disposizioni di legge, che consacrano isti tuzioni, che vivevano nella
consuetudine e nelle tradizioni; ma punto non ripugna , che, trattandosi di
genti, le cui istituzioni nei partico lari potevano essere diverse , le
medesime abbiano anche potuto fare argomento di disposizioni legislative ,
elaborate dai pontefici , pro poste dal re, appoggiate dal senato , ed
approvate dalle curie . Quanto alla sanzione religiosa, che accompagna ciascuna
legge, essa si spiega facilmente , se si tiene conto del carattere religioso
del popolo delle curiae , il quale esce allora allora dall'organizzazione gentilizia,
in cui tutte le istituzioni erano rivestite di un ' aureola religiosa e sacra .
Solo ci resta a vedere quali siano le traccie , che ci pervennero della
legislazione penale primitiva di Roma patrizia , alla quale occorre una
trattazione speciale per il peculiare svolgimento, che ebbe a ri cevere, e per
le molte discussioni, a cui diede occasione. § 6. – Le origini della
legislazione criminale in Roma e specialmente del parricidium e della
perduellio. 271. Per quanto la legislazione criminale primitiva di Roma sia
quella parte del suo diritto , dicui giunsero a noi più scarse reliquie,
tuttavia anche queste poche sono tali, che ricomposte possono ad ditarci, come
anche in essa siasi effettuato un lento e graduato pas saggio
dall'organizzazione gentilizia alla convivenza civile e politica . Anche
il delitto nel periodo regio ritiene ancora quel carattere, che aveva assunto
presso le genti patrizie; esso è un'offesa contro gli uomini e contro
l'aggregazione gentilizia, a cui essi appartengono, ma è poi sopratutto
un'offesa contro la divinità . Chi l'abbia com messo di proposito (dolo
sciens), di regola è punito colla capitis sacratio ed anche colla consecratio
bonorum ; mentre se altri l'abbia compiuto per imprudenza (imprudens) egli e la
famiglia di lui sono tenuti ad offerire una piacularis hostia alla famiglia
dell'of feso (1). Ciò vuol dire , che il concetto gentilizio del delitto e
della ( 1) La più notabile distinzione fra il reato doloso e colposo, che
occorra nella legislazione regia , è quella che si desume dalle due leggi
attribuite a Numa, rela tive all'omicidio volontario (parricidium ), e quella
relativa all'omicidio involontario, che è ricordata da Servio nei seguenti
termini: « In Numae legibus cautum est, 334 pena viene ad essere trapiantato di
peso nel seno della città . Sono tuttavia ancora in piccol numero i misfatti, a
cui accennano le leges regiae ; in quanto che non parlasi nè del furto ,nè
dell'ingiuria, nè di quegli altri misfatti, che sono più tardi minutamente
preveduti dalle XII Tavole. Ciò non significa certamente , che questi misfatti
fossero ignoti, nè che i medesimi fossero impuniti : ma soltanto, che le leges
publicae (quelle almeno che giunsero fino a noi) non avevano ancora richiamato
alla pubblica giurisdizione la repressione di essi ; ma avevano continuato a
lasciarli alla prosecuzione dell'offeso , che doveva perciò seguire le pratiche
tradizionali, formatesi nelle tribù , le quali già avevano ricevuta una
consacrazione religiosa ( 1). 272. Tuttavia fra i fatti criminosi, accennati
nelle leges regiae , già può introdursi una distinzione ; sonovi dei delitti,
che possono essere ritenuti contro l'ordine delle famiglie , comprendendo anche
fra questi quello contro la proprietà , consistente nella rimozione dei
termini; altri , che sono contro la religione , quale sarebbe l'incesto della
Vestale e l'abbandono dei sacra '; e altri infine, che già possono ricevere il
nomedi crimina publica , in quanto che, fin dagli inizii della città , sonovi
autorità incaricate dalla pubblica pro secuzione di essi. Quanto ai primi
mantiensi ancora nella propria integrità l'auto rità e la giurisdizione del
capo di famiglia, il quale in certi casi è tenuto a circondarsi del tribunale
domestico ; come pure sono san cite contro di essi pene di carattere sacro e
religioso , comela capitis sacratio e la consecratio bonorum . Quanto ai reati
contro la religione, appare invece la giurisdizione dei pontefici ;
giurisdizione, che alcuni autori, fondandosi sul carattere sa crale del delitto
e della pena in questo periodo , avrebbero creduto, che dovesse essere prima
estesa in più larghi confini. Il carattere, che ab biamo trovato nella
istituzione del collegio dei pontefici, per cui esso appare come depositario e
custode delle tradizioni gentilizie, ci impe disce di seguire una tale
opinione, in quanto che il carattere sacrale del delitto e della pena in questo
periodo non è creazione dei pon ut si quis imprudens occidisset hominem , pro
capite occisi, agnatis eius in contione offerret arietem » . Bruns, Fontes,
pag. 10. Cfr., per ciò che si riferisce all'omicidio involontario, il Voigt,
Op. cit., § 11, pag. 64 a 72. (1) Cfr. MUIRIEAD , Histor. Introd., pag . 54 a
55 . 335 - tefici, ma è un carattere proprio di tutte le istituzioni
gentilizie, che si mantiene ancora nel la città esclusivamente patrizia.
Del resto la sola giurisdizione criminale, che gli antichi scrittori
attribuiscono ai pontefici, è quella relativa alle Vestali, la quale per giunta
sembra essere una conseguenza della patria potestà , di cui essi sono rive
stiti riguardo alle medesime. Sono quindi i pontefici, che secondo una legge,
che la tradizione attribuisce a Tullo Ostilio, giudicano dell'in costo delle
Vestali, il quale è considerato come un delitto , che da una parte contamina i
sacra publica, e dall'altra provoca la ven detta di Vesta sopra il popolo.
Quindi da una parte sacrificavansi alla dea la Vestale , nei tempi più antichi
col gettarla nel fiume e più tardi seppellendola viva, e l'amante,
flagellandolo fino alla morte , e dall'altra si facevano sacrifizii di
purificazione per la città . Da questo caso in fuori non trovasi traccia di
giurisdizione criminale più ampia, che sia mai spettata ai pontefici ; nè vi ha
motivo di credere, che po tesse essere più estesa, dal momento che presso i
romani pareva già enorme questo potere accordato a una magistratura sacerdotale
( 1). 273. A noi però importa sopratutto di cercare come siasi venuto svolgendo
il concetto del pubblico delitto ; perchè è con esso , che incomincia
l'esercizio del magistero punitivo, per parte dell'autorità sociale . Già ho
accennato altrove, che la giurisdizione del magistrato in Roma quanto ai
misfatti non presentasi svolta fin dai propri inizii ; ma viene invece
estendendosi, a misura che la potestà pubblica si viene rafforzando di fronte
alla giurisdizione domestica del capo di famiglia . Qualche cosa di analogo
accade eziandio nello svolgersi della nozione del pubblico delitto. I due primi
misfatti, perseguiti dalla pubblica autorità , compariscono coi nomi di
parricidium e di perduellio ; e per perseguirli fin dal periodo regio sarebbero
istituiti due speciali magistrati, coi nomi di questores parricidii e di duum
viri perduellionis ; fra i quali intercede perd questa differenza, che mentre i
primiappariscono quali magistrati permanenti, i secondi invece sembrano essere
nominati, caso per caso (2 ). (1) Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain , I,
pag. 187 . (2 ) Ciò è dimostrato dal racconto di Livio, I, 26 , relativo al
fatto dell'Orazio, in cui i duumviri perduellionis son nominati per quel caso
dal re , mentre dei quae stores parricidii abbiamo una definizione di Festo, pº
Quaestores, che parla di essi, come di autorità permanenti, create « ut de
delictis capitalibus quaererent » . 336 Son pochi i passi, che si riferiscono
all'uno e all'altro misfatto , donde la conseguenza, che non solo gli autori
moderni, ma anche gli storici antichi attribuiscono significazione diversa ai
due vocaboli. È noto infatti, che mentre Dionisio e Festo ritengono colpevole
di parricidium l'Orazio, uccisore della propria sorella , Tito Livio parla
invece di perduellio (1). In questa condizione di cose occorre ripren dere in
esami e passi di antichi autori, che sono a noi pervenuti ; esa minare le
opinioni principali emesse dagli autori in una questione, che ha una
copiosissima letteratura ; e poi cercare di ricomporre i testi che si
riferiscono all'argomento per ricavarne il processo logico e storico , che
dovette essere seguito nella configurazione di questi primitivi misfatti. 274.
Quanto al parricidium , i pochi passi a noi pervenuti indicano in sostanza una
certa quale meraviglia, per parte degli au tori, che Romolo, mentre aveva
lasciato senza pena e neppur rite nuto possibile il parricidium , nello stretto
senso della parola, avesse poi chiamato ogni omicidio col vocabolo di
parricidium , il che sa rebbesi pur fatto da Numa, al quale si attribuisce una
legge, secondo cui: « si quis hominem liberum ,dolo sciens,morti duit ,
parricidas esto » . Quanto poi alla perduellio si sa con certezza, che questo
vocabolo deriva certamente da perduellis, che in antico significava il nemico,
con cui erasi in guerra, e che il medesimo comprendeva, tanto il tradimento
verso la patria, mediante pratiche tenute col ne mico esterno di essa ,
tradimento, che suole essere indicato special mente col vocabolo di proditio ;
quanto eziandio le perturbazioni ed i sovvertimenti contro la cosa pubblica ,
tentati all'interno, per i quali era specialmente adoperato il vocabolo di
perduellio. Circa quest'ultima però abbiamo una descrizione abbastanza completa
di un primitivo processo per causa di perduellio in Tito Livio , il quale in
questa parte, come ben nota il Bonghi, « sembra dare al proprio racconto un
colorito particolare e diverso dal rimanente, in quanto che cerca di mostrarsi
espositore preciso delle forme antiche e solenni, con cui sarebbe seguito
questo primitivo giu dizio » ( 2 ). Furono questa scarsità di passi e questa
incertezza negli antichi au tori, che provocarono molte indagini per spiegare
il fatto, per cui negli (1) Dion ., III, 22; Festo, vº Sororium tigillum ;
Livio , I, 26. ( 2) Liv., 1, 26 ; Bongai, Storia di Roma, I, pag. 102 e pag.
129 e segg . 337 inizii col vocabolo ili parricidium sarebbesi indicato ogni
omicidio , ed anche le cause, per cui gli antichi autori in un medesimo fatto
poterono ora ravvisare il carattere di parricidium , ed ora quello di
perduellio (1). Fra le molte congetture fattesi in proposito sono degne di nota
sopratutto le seguenti : quella messa prima innanzi del Gebauer, ed ora anche
seguita dal Voigt, e pressochè dalla universalità degli au tori tedeschi,
secondo la quale a vece di leggere parricidium si dovrebbe leggere paricidium ,
cosicchè il vocabolo verrebbe a signi ficare l'uccisione di un pari o di un
eguale (2 ) ; quella messa in nanzi dal Rubino e dal Rein, secondo cui il
vocabolo parricidium significherebbe fin dagli inizii l'uccisione di un
congiunto, ossia un parentis excidium (3 ); quella sostenuta con molta dottrina
dal Brüner e poi seguita damolti altri, in base a cui parricidium avrebbe
dapprima da molti altri significato soltanto l'uccisione di un pater delle
genti patrizie, e sarebbe poi stato esteso a designare l'uccisione di qualsiasi
uomo libero (4 ) ; e da ultimo quella sostenuta , fra gli altri ,dalWalter e dal
Maynz, secondo cui idue termini di parricidium (1) La questione non è recente,
ma fu già trattata dagli antichi criminalisti, e fra gli altri dal Sigoxio, De
iudiciis, Cap. XXX, dal Mattei, dall'UBERO e da altri, che possono vedersi
citati dal CARRARA, Programma di diritto criminale , Parte speciale, vol. I,
pag. 137 , $ 1138 . (2 ) Il primo, che sostenne « paricidam esse, qui parem
occidit fu il GEBAUER, Dissertationes academicae , vol. I, pag. 64, § XI, il
quale si fondava sul detto di Ulpiano, che giunse veramente molto più tardi, «
omnes homines esse aequales. » L'opinione era nuova , e fu accolta come osserva
il CARRARA, op. e loc. cit., pressochè universalmente in Germania . Di recente
poi il Voigt aggiunse a questa opinione anche il peso della sua autorità : Über
die leges regiae, pag. 11 a 64, e sopratutto a pag .57, nota 130. L'opinione
stessa fu seguita fra noi anche dall'ARABIA , Princ. di diritto penale , III ,
pag. 258. Quanto al CARRARA, egli sostiene, che in questo caso l'espressione «
paricidas esto » significasse « capital esto » , cioè condannabile a morte ; ma
tale opinione non trovò seguito (Op. cit., § 1139). (3) Tale fu l'opinione
messa innanzi dal Rubino: Untersuchungen über römische Verfassung und
Geschichte. Casellae, 1839, pag. 433-466 ; e dal Rein, Das Crimi nalrecht der
Römer. Lipsiae, 1844, pag. 401 e segg. (4 ) L'autore, che a mio avviso sostenne
con grande erudizione, e con un senso vero di romanità, quest'opinione è il
BRÜNER in una dissertazione col titolo « De parricidii crimine et quaestoribux
parricidii » , letta il 2 marzo 1857 e riportata negli Acta societatis
scientiarum Fennicae, Helsingforsiae, 1858, pag. 519 a 569. Quest'o pinione è
anche seguìta dal GORRIUS, in una dissertazione di laurea : « De parricidii
notione apud antiquissimos romanos », Bonnae, 1869, notevole per la rassegna,
che fa delle opinioni professate daglialtri autori. G. CARLE, Le origini del
diritto di Roma . 22 338 e di perduellio sarebbero fra loro pareggiati, e
significherebbero qualsiasi delitto , che per sua natura sia tale da chiamare
la pub blica vendetta , e da eccitare una ripulsione universale ( 1). 275. Or
bene con tutta la riverenza , che deve certo aversi per un autore cosi
benemerito degli studii sul diritto primitivo , quale è il Voigt, non ritengo,
che possa adottarsi l'opinione da lui seguita , secondo cui parricidium
significherebbe il paris excidium . Anzi. tutto è malagevole di trovare negli
esordii di Roma l'idea di questa parità e di questa uguaglianza giuridica , in
quanto che, se si tol gano i capi di famiglia, non vi sono altre persone, che
abbiano un'assoluta parità di diritto. Vi ha di più , ed è che, mettendo il
concetto della parità a fondamento della figura criminosa del pa ricidium , ne
verrebbe come conseguenza, che allora soltanto vi sa rebbe paricidium , quando
un pari uccidesse un altro pari, cioè quando cosi l'uccisore che l'ucciso
fossero in condizioni uguali fra di loro ; il che certo non può richiedersi.
Infine male si comprende, come questa figura primitiva di reato si venga
foggiando sopra un con cetto puramente astratto, come è quello della
uguaglianza , mentre vediamo, che tutte le altre distinzioni di reati, ed anche
le confi gurazioni giuridiche di altra natura, che compariscono nell'antico
diritto , vengono piuttosto ad essere determinate da circostanze este riori di
fatto , come accade dal furtum manifestum , nec manife stum , conceptum , ed
oblatum , ed anche della distinzione della res mancipii e nec mancipii, come
pure delle mancipationes, vindi cationes, e simili. Cið anche per il motivo,
che nel linguaggio pri mitivo si passa di preferenza da una significazione
fisica ad una mo rale , o da una concreta ad un astratta , di quello che non
accada il contrario . Quanto al fatto , che il vocabolo parricidium e parricidas
in certi antichi codici trovisi scritto paricidium e paricidas, non può avere
importanza, quando si consideri, che nelle leggi arcaiche trovansi soventi le
lettere semplici, a vece delle doppie, come lo di mostra l'antico
Senatusconsulto de bacchanalibus » in cui occor rono le parole esent, velent,
bacanal per essent, vellent, baccanal ; quest'argomento del resto è anche
distrutto da ciò , che son vi pure (1) Questa opinione enunziata prima dal
WALTER , Storia del diritto romano . Trad . BOLLATI, 8 766 , vol. II, pag. 450,
fu di recente anche sostenuta dal Maynz , Introd ., $ 18, 1, pag. 55. Essa però
fu vigorosamente confutata dal Koestlin : Die perduellio unter der römischen
Königen . Tubing, 1841, pag. 10-14 . 339 dei codici, in cui occorrono le parole
patricidium e patricidas, le quali attestano cosi anche la materiale
derivazione dei due vocaboli da patris excidium . Vero è, che anche, fra gli
antichi autori, se ne trovano di quelli, che sembrano accennare a questa
origine del vocabolo ; ma non è punto improbabile, che, allorquando la figura
del parricidium aveva già presa altra significazione nella lex Pom peia de
parricidiis , siasi anche allora cercato di spiegare nello stesso modo, cioè
col ricorrere all'analogia delle parole, il vocabolo primitivo, con cui erasi
indicato l'homicidium (1). 276. Non può del pari ammettersi, che il vocabolo
parricidium abbia significato dapprima un parentis excidium , ossia l'uccisione
di un congiunto in certi limiti di parentela , e che poscia siasi esteso a significare
l'uccisione di qualsiasi concittadino , anche per quella specie di parentela ,
che viene ad esservi fra i cittadini di una me desima città. Per verità ,
quando così fosse, il vocabolo di parrici dium avrebbe avuto fin dapprincipio
una significazione, che non cor risponde alla parola , in quanto che , come
nota il Voigt stesso, nella precisione primitiva del linguaggio, per indicare
l'uccisione di un congiunto, si sarebbe adoperata piuttosto l'espressione di
parentici dium , che non quella di parricidium , in cui compare evidente l'idea
dell'uccisione di un padre ( 2 ). Lo stesso è a dirsi dell'opinione, secondo
cui parricidium avrebbe, nelle origini della città, significato l'uccisione di
un pater delle genti patrizie, e solo più tardi sarebbesi estesa all'uccisione
di ogni uomo libero. Questa opinione, sostenuta con logica ed erudizione dal
Brüner, sarebbe di tutte la più probabile, e quella che meglio spiega i passi a
noi pervenuti, quando non contrastasse colla testi monianza di Plutarco : singulare
est, quod Romulus, cum nullam in parricidas statuerit poenam , omne homicidium
appellavit parricidium . Qui infatti si direbbe, che Romolo fin dagli inizii
(1) Lo scrittore latino, che sembra far derivare l'antico parricidium dalla
parità fra uccisore ed ucciso, sarebbe ISIDORO, De orig ., X , 225, il quale
scrisse : « parri cidium et homicidium , quocumque modo intelligi possunt, cum
sint homines homi. nibus pares » ; ma qui è evidente, che l'autore non cerca di
dare la vera origine del vocabolo, ma solo di dare una spiegazione, che poteva
apparire probabile all'epoca sua . Del resto quest'opinione fu già combattuta
dall'OSENBRUEGGEN, Das altrömische parricidium . Kiel, 1841, pag. 59. (2) Cfr.
Voigt. Op. cit ., § 10, pag. 57, nota 130, in fine. 340 - della città avrebbe
chiamato parricidium ogni omicidio , e che quindi non vi sarebbe stato periodo
di tempo, in cui, dopo la for mazione della città , la parola fosse stata
ristretta a significare l'uccisione di un padre delle genti patrizie (1). 277.
Resta ancora l'opinione sostenuta fra gli altri dal Walter e dal Maynz, secondo
cui parricidium e perduellio sarebbero due espres sioni, usate promiscuamente,
ad indicare i più gravi misfatti, che si potessero commettere nella comunanza.
Vero è , che soventi nel lin guaggio primitivo presentansi di questi vocaboli
sintetici, e comprensivi, che più tardi vengono in certo modo suddividendosi in
guisa da espri mere solo più uno degli atteggiamenti, sotto cui presentasi il
concetto primitivo ; ma qui la cosa non ha potuto accadere, poichè i due
concetti si svolgono in certo modo paralleli l'uno all'altro , ei due crimini
sono perseguiti da ufficiali diversi. Se si guarda poi all'ori gine dei due
vocaboli, anche questa viene ad essere completamente diversa ; poichè, per
formare la figura del parricidium , si riguarda alla persona dell'offeso ,
mentre, per formare invece quella della per duellio , si parte invece da quella
dell'offensore, ossia dal vocabolo di perduellis, che nelle origini significava
nemico . Nel parricidium si ha un'offesa contro un privato, che è sottratta
alla privata per secuzione, ed attribuita alla pubblica autorità ; mentre nella
per duellio compare già personificata la stessa comunanza collettiva , la
quale, trovando nel proprio seno chi cerca di comprometterne la sicu . rezza,
scorge in esso una somiglianza coi nemici esterni della città , e perciò lo
qualifica col nome stesso, che darebbe al nemico , con cui trovisi in aperta
ostilità . 278. Ritengo invece, che anche queste due figure di crimini, che
compariscono in Roma primitiva , possano essere spiegate in modo assai più
verosimile, quando si tenga conto , che la città risulto dalla confederazione
delle tribù , e che percid, colla sua formazione, i con cetti, che già
esistevano nelle tribù , vennero a trapiantarsi nella città , colla differenza,
che quei concetti, che prima erano intergen tilizii , per cosi esprimersi ,
diventarono invece concetti interqui ritarii, e ricevettero cosi una
significazione diversa , per il diverso punto di vista, sotto cui vennero ad
essere considerati. Cid è provato ( 1) PLUTARCO, Romulus, 22. - - - 341 - da
questo che, appena Roma è fondata, già presentansi formati così il concetto del
parricidium , che quello della perduellio ; poichè il primo è già attribuito a
Romolo, e l'altro a Tullo Ostilio, ma durante il regno di questo già esiste
formata la lex horrendi criminis, rela tiva alla perduellio. Ciò significa ,
che queste due figure di reati eransi già delineate nella stessa organizzazione
gentilizia , e che il parricidium significava l'uccisione di un padre, ossia
del capo di una famiglia o di una gente : la quale uccisione costituiva l'unico
misfatto , che non dipendesse dalla giurisdizione domestica , e che dovette per
il primo essere punito, perchè era origine diguerre private nelseno stesso
della tribù e di guerra fra le genti ; e che la perduellio significava la
nemicizia e l'ostilità fra gente e gente (1). Fu quindi naturale dal momento,
che i capi di famiglia entrarono per confederazione nella medesima città, che
il vocabolo parricidium si trovasse natural mente portato a significare
l'uccisione di chiunque partecipasso alla comunanza , tanto più che i partecipi
di essa dapprima erano veri padri, e che la perduellio , mentre prima
significava le ostilità fra le genti, venisse ad indicare l'ostilità, che
sorgeva nel seno stesso della città, poichè i capi delle varie genti e famiglie
ne erano di ventati i cittadini. Allorchè poi fra i cittadininon furonvi solo
più i capi di famiglia , ma anche altri uomini liberi fu naturale e lo gico,
che l'uccisione volontaria di qualsiasi uomo libero rientrasse nella figura
primitiva del parricidas. Viene cosi ad essere natural mente spiegato ciò , che
ci attesta Plutarco: che Romolo , senza indurre pene contro i parricidiin senso
stretto, abbia tuttavia chia mato ogni omicidio parricidium : in quanto che
quello, che era parri cidio nei rapporti fra le varie famiglie e genti, venne
ad essere uccisione di un quirite, allorchè questi padri furono cittadini della
medesima città ; al modo stesso , che il perduellis fra le varie genti venne ad
essere il nemico dell'intiera comunanza, nel seno della città . Solo potrebbe
notarsi, che non si deve ammettere una siffatta trasposizione di vocabolo da
una significazione ad un'altra : ma è facile il rispondere, che la
trasposizione dapprima fu pressochè in sensibile, perchè i primi quiriti erano
veramente padri, e che simili trasposizioni sono frequentissime presso i
Romani, i quali, ogni qual volta hanno formata una figura giuridica, non temono
di traspor tarla da un caso ad un altro ; come lo dimostra il ius Latii, che
(1) V. Festo, vº Hostis (Bruns, Fontes, pag. 340). 342 trovato pei latini fu
poi dai Romani applicato a popoli ed a genti, che non avevano più nulla a fare
con essi. Era poi naturale, che quell'estendersi, che aveva luogo nella
significazione del parricidium , a misura che la figura del cittadino e quella
dell'uomo libero si ve nivano sostituendo a quella del padre, dovesse pure
avverarsi quanto ai quaestores parricidii, il cui compito si viene così
allargando, finchè più tardi il vocabolo apparisce disadatto , ed in allora
sembra siansi sostituiti ai medesimi i tres viri capitales (1). 279. Intanto
però nulla potè impedire, che, accanto alparricidium pubblicamente perseguito e
che mutasi a poco a poco in homicidium , potesse ancora sussistere la
configurazione tradizionale del massimo dei misfatti, che consiste
nell'uccisione di un genitore, operata per mano di un figlio o di una figlia .
La sua stessa enormità ed infre quenza spiega come negli esordii Romolo, al
pari di Solone, non l'abbia contemplato : ma intanto , se per avventura
accadeva, veniva ad essere punito con pene tradizionali, che cogli accessorii
stessi, da cui erano accompagnate, cercavano di simboleggiare l'enormezza del
delitto . Fu soltanto allorchè questo triste misfatto diventò ab bastanza
frequente per la corruzione dei costumi, che la punizione di esso, prima
conservata nella tradizione e nel costume, penetro anche nella legge, che
dovette anche punire il parricidium in senso stretto , dandogli tuttavia una
significazione più larga, comprenden dovi cioè qualsiasi uccisione di un
parente o di un congiunto in certi confini di parentela , e a tal uopo far
rivivere l'antica pena tradizionale . Fu allora , che il vocabolo di
parricidium abban donò il semplice omicidio per venire ad indicare l'uccisione
di un parente e di un congiunto , il che appunto si fece colla legge Pom (1)
Questa trasformazione non è ammessa dal BRÜNER, Dissert. cit., 8 7. Parmi
tuttavia , che essa fosse una naturale conseguenza dell'estendersi della
competenza dei quaestores parricidië , e del processo seguito dai Romani nello
svolgimento delle proprie istituzioni. Essa poi sembrami anche una conseguenza
della diffinizione da taci da Festo: « quaestores parricidii, appellantur, qui
solebant creari causa rerum capitalium quaerendarum » . Non sarebbe poi qui il
caso di entrare nella questione, se i quaestores parricidii del periodo regio,
ed i questores aerarii della Repubblica possano avere la medesima origine : ma
ritengo, che questa identità di origine non abbia nulla di improbabile,
allorchè si tenga conto della primitiva indistinzione delle funzioni, che erano
talora affidate allo stesso magistrato. Cfr . al riguardo il Villems, Le droit
public romain , pag. 303, nota 3. - 343 peia de parricidiis. Tuttavia , per il
vocabolo di parricidium , alla significazione più ristretta , che esso viene ad
assumere, sopravvive ancora un'altra significazione, non compiutamente
giuridica , ma piut tosto oratoria , per cui parricidas viene ad essere
chiamato il tradi tore della patria , l'oltraggiatore dei templi, quegli
insomma, che col proprio delitto abbia violato uno di quei doveri, che hanno un
ca rattere sacro per l'umanità ( 1). 280. Solo più resta a spiegare il fatto ,
per cui un medesimo de litto, quello cioè dell'Orazio, uccisore della propria
sorella , abbia po tuto essere qualificato come perduellio da Livio, e invece
sia riguar dato qual parricidium da Festo e da Dionisio. A questo propo sito è certo
, che il fatto dell'Orazio, quale ci è narrato dalla tradi zione, presentava un
carattere molto dubbioso . Da una parte eravi per certo l'uccisione di una
persona libera , e quindi occorrevano gli estremi della legge attribuita a Numa
; ma dall'altra l'uccisione era stata commessa , allorchè il popolo seguiva in
massa l'Orazio vinci tore, e l'uccisione, sempre secondo la tradizione, sarebbe
stata da lui inflitta , come pena contro coloro , che piangevano la morte di un
nemico della patria . L'Orazio in certo modo, fra gli applausi della vittoria,
aveva usurpato un ufficio, che al re, ed al popolo sarebbe spettato, e in quel
momento aveva operato, come un perduellis , come una persona , che si era posta
al disopra delle patrie leggi. È questo il motivo, per cui il popolo, che
plaude il vincitore, trascina tuttavia il ribelle davanti al re, ed è questi,
che, in base a quella distin zione fondamentale della primitiva procedura nel
ius e nel iudicium , viene ad essere chiamato a giudicare di qual misfatto si
tratti. In darno il padre dell'Orazio cerca di richiamare a sè la giurisdizione
per trattarsi di un misfatto , che erasi compiuto da un suo figlio contro una
sua figlia ; qui il re ravvisa prevalere il carattere pubblico del misfatto, e
quindi ritiene trattarsi di perduellio e conchiude : « duum viros, qui Horatio
perduellionem iudicent, secundum legem facio » . Dura era la legge relativa al
perduelle , in quanto che, se condo i termini di essa, il condannato doveva
avere avvolto il capo , essere sospeso arbori infelici, e poi essere ucciso a
colpi di verghe, (1) Cfr. BRÜNER , Dissert. cit., $ 526. È poi CICERONE, che
parla di parricidium patriae, civium , e scrive : « sacrum , sacrove
commendatum , qui clepserit rapsitve parricida esto » . Cfr. CARRARA,Op. cit .,
§ 1139. 344 « intra pomoerium vel extra pomoerium » . Il tenore della legge era
quindi tale, che i duumviri dovettero condannarlo, e uno di essi già ordinava
al littore « colliga manus» quando l'Orazio propone appello al popolo , il
quale l'assolve in memoria del fatto compiuto , e sotto l'e sortazione del
padre stesso, che viene esclamando fra la folla , che la propria figlia era
stata iure caesam . Tuttavia l'Orazio , anche assolto , fu costretto a passare
sotto il giogo , donde l'erezione del tigillum sororium , e la sua gente,
secondo Dionisio, dovette anche offrire una piacularis hostia in base alla
legge di Numa, che prevedeva il caso di un omicidio commesso per imprudenza .
Anche in ciò abbiamo un indizio del dubbio , che si era presentato intorno al
carattere del misfatto, poichè il passare sotto il giogo era certo la pena, a
cui era sottoposto il nemico vinto , e il sacrifizio dell'ariete era imposto
alla gente per causa dell'omicidio involontario ( 1). 281. Tuttavia , a mio
avviso , la ragione che rende più verosimile la spiegazione premessa intorno
alle origini del diritto criminale in Roma, sta sopratutto in ciò, che in
questa parte sarebbesi seguito quel medesimo processo , che abbiamo potuto
constatare in tutto il rimanente. I concetti già elaborati nella tribù sono
trapiantati dalla città, al modo stesso che più tardi dalla città saranno
portati ed estesi a tutto il mondo conquistato , e per tal modo di concetti
intergentilizii, diventano concetti quiritarii, al modo stesso che più tardi i
concetti quiritarii, ricevendo un nuovo contenuto , di venteranno poi di nuovo
universali e comuni a tutte le genti. (1) A questo proposito tolgo dal Bongai,
Storia di Roma. I, pag. 132, nota 1, una citazione dello SCHOEMANN, che sembra
confermare l'opinione qui sostenuta : « Horatium , quum supplicium de sorore
indemnata sumpsisset , eaque caede et ius regis ac populi imminuisset, visum
esse adversus ipsam rempublicam adeo deliquisse, ut perduellionis, non modo
parricidii, teneretur » . Osserverò poi per mio conto la singolarità del fatto,
per cui il perduelle, considerato come nemico interno, viene ad essere
assoggettato alla pena stessa del nemico esterno, cioè fatto passare sotto il
giogo, quasi in segno di sottomissione forzata alle leggidella patria ; altra
prova , che non solo si tolse dall'ostilità esterna la figura della perduellio
, ma in parte anche la pena, con cui essa era punita . Insomma perduellis
significava il nemico nei rap porti fra le varie genti; ma quando i membri
delle genti diventarono cittadini della stessa comunanza , diventò il nemico
interno della medesima, e il nemico esterno si chiamò hostis . 345 Intanto
anche in questa parte il parricidium e la perduellio sono due nozioni, il cui
contenuto non è ancora ben determinato , ma al pari di tutti i primitivi
concetti quiritarii appariscono come due co struzioni logiche, che si verranno
svolgendo col tempo. Di qui con seguita , che il parricidium finirà per
allargarsi per modo da com prendere tutte le offese contro il libero cittadino,
che giungono a produrre la morte di lui: mentre la perduellio finirà per
compren dere tutti i reati contro lo Stato , e quando questo si concentrerà
nella persona dell'imperatore si cambierà nel crimen lesae maie statis. È
quindi fino da quest'epoca , che comincia ad apparire la di stinzione fra il
reato comune e il reato politico ; ed è fin d'allora , che si sente
l'opportunità di lasciare una parte al popolo nel giu dizio dei reati politici
propriamente detti. L'uno e l'altro nel loro comparire sono come la sintesi dei
reati pubblici, dopo i quali verranno poi anche ad essere repressi i delitti
privati: la qual distin zione, iniziata da Servio Tullio , diventerà poi
fondamentale nella legislazione decemvirale . Intanto le cose premesse bastano
per dimostrare in qual modo siasi effettuata la formazione di una giurisdizione
e di un diritto criminale in Roma primitiva. La giurisdizione criminale fu il
risul tato di una sottrazione lenta e graduata , che l'autorità pubblica venne
facendo alla giurisdizione domestica e patriarcale; e i primi pubblici delitti
furono due figure di misfatti, che già preesistevano nell'organizzazione
gentilizia , le quali, sebbene continuino ad essere indicate cogli stessi
vocaboli, assumono però una significazione di versa . Di più anche nella
primitiva concezione del delitto in Roma occorre quella potenza sintetica, che
già abbiamo riscontrata nei concetti fondamentali della costituzione politica,
e che apparirà anche più evidente nei concetti primitivi del diritto
quiritario. Ciò indica che tanto il diritto pubblico e privato che il diritto
penale, allorchè appariscono in Roma, sono già il frutto di una potente
selezione ed elaborazione, fatta sui materiali somministrati dall'anteriore
orga uizzazione gentilizia . I concetti del diritto primitivo di Roma sono
altrettante sintesi potenti, in cui i fondatori della città cercano di
scegliere e di con densare ciò , che hanno appreso nel periodo precedente. Ora
più non ci resta che ad esaminare le condizioni della plebe cosi in tema di
diritto pubblico , che di diritto privato . - 346 CAPITOLO V. La condizione dei
clienti e della plebe in Roma prima della costituzione Serviana. 282. Le cose
premesse dimostrano ad evidenza, che tutta la primitiva costituzione politica
di Roma, e quella legislazione, che dalla tradizione è attribuita ai primi
cinque re, debbono ritenersi di origine esclusivamente patrizia , in quanto che
si riducono in so stanza a concetti già elaborati nel periodo gentilizio, i
quali, trapian tati nella città, vengono a ricevere un nuovo atteggiamento , ed
a prendere una nuova significazione nella medesima. Solo più rimane a
determinarsi quale potesse essere in questo periodo la condizione giuridica
delle classi inferiori, al qual pro posito importa di tenere assolutamente
distinti i clienti dalla plebe propriamente detta. 283. Per quello, che si
riferisce ai clienti , la loro posizione giu ridica , in questo primitivo
stadio della città , non viene ancora ad essere modificata , in quanto che essi
continuano sempre ad apparte nere più alla gente , che alla città : perciò
essi, per quanto si può ricavare da quella enumerazione dei diritti e degli
obblighi fra patrono e cliente, che ci fu trasmessa da Dionisio , continuano ad
avere gli stessi diritti e le medesime obbligazioni, che loro appar tenevano,
durante il periodo gentilizio (1). Essi quindi non hanno ancora una vera
proprietà , ma continuano a ricevere dalle genti degli assegni a titolo di
precario sugli agri gentilizii ; ne pos sono parimenti far valere direttamente le
proprie ragioni davanti al magistrato della città , ma perciò debbono valersi
della protezione e degli uffici del patrono. Per maggior ragione non può
ammettersi, che in questo primo stadio essi possano intervenire nell'assemblea
delle curie, comesostiene un gran numero di autori (2 ). Le curie sono ( 1)
Dion., II, 10. Cfr. quanto si espose intorno alla clientela, nel Lib . I, Cap.
III , § 3º, pag . 46 a 52. (2) Tale è l'opinione del Willems, Le droit public
romain , pag. 46 e seg . e del PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 48 e
seg ., nota 2. Il prof. COGLIOLO nella sua nota nº d, pag. 50, non approva
intieramente l'opinione del Padelletti. 347 il sito di riunione pei quirites,
per i gentiles, per i viri, il cui potere è simboleggiato dalla lancia, e non
possono in nessun modo essere state aperte a quelli, che nell'organizzazione
gentilizia trovinsi in condizione subordinata , anche per il semplice motivo ,
che, quando così fosse stato , il numero dei clienti, i quali avrebbero pur
essi avuta parità di voto , avrebbe di gran lunga soverchiato quello dei
patroni. Pud darsi che in occasione di guerra anche i gentilicii seguano il
loro patrono, ma i medesimi dipendono ancora più dal cenno di esso , di quello
che dipendano direttamente dallo Stato . Sarebbe in fatti strano ed
incomprensibile, che quelli, che non possono ancora stare in giudizio,
potessero concorrere direttamente alla elezione del re ed alla votazione delle
leggi, e giudicare di coloro, che abbiano interposto appello al popolo. Sarà
soltanto la costituzione Serviana, che, ponendo il censo a base della
partecipazione ai ca richi civili e militari, obbligherà i padri delle genti a
fare conces sioni di terre in proprietà ai propri clienti, per avere cosi un ap
poggio nelle votazioni dei comizii centuriati, ed è da quest'epoca che
cominciano a sentirsi le lagnanze dei plebei, perchè i padri appoggiati dai
loro clienti riescono a dominare le votazioni nei co mizii centuriati (1). In
questo senso la costituzione Serviana fu quella , che diede il gran colpo alla
clientela, e con essa alla organizzazione gentilizia, perchè da quel momento
anche i padri furono tenuti a fare concessioni di terre in proprietà ai proprii
clienti, i quali acqui starono così una indipendenza economica dai patroni, che
fu anche il principio della loro indipendenza politica ; donde la conseguenza
chemolti fra essi sono poi venuti ad allargare anche le file della plebe e ad
appoggiare le pretensioni di essa . 284. Intanto peró la questione, la cui
risoluzione è assolutamente indispensabile per comprendere la storia politica e
giuridica di Roma primitiva , è quella relativa alla condizione giuridica della
plebe sotto i primi re, così sotto l'aspetto del diritto pubblico , che sotto
quello del diritto privato . Il grande avvenire della plebe romana rese per gli
storici di Roma assai difficile il comprendere, come quell'elemento, che ai
tempi ( 1) Che le lagnanze dei plebei contro i clienti, per la preponderanza,
che essi re cavano al patriziato, si riferiscano ai comizii centuriati , appare
dal seguente passo di Livo, II, 64: « irata plebs inesse consularibus comitiis
noluit ; per patres, clien tesque patrum consules creati sunt Titus Quintius et
P. Servilius » . 348 - loro era ormai divenuto il dominatore della piazza e del
foro, po tesse, nelle origini, essere affatto escluso dal suffragio. Ond'è
che essi, trovando ai loro tempi la plebe ammessa in parte agli stessi comizii
curiati, e compresa nel populus, e una parte di essa anche pervenuta alla
nobiltà potevano difficilmente riuscire colla mente loro a ricostruire quella
primitiva distinzione fra populus e plebes, che ormai era scomparsa . Essi
quindi parlarono nel loro racconto deglian tichi comizii curiati, come se essi
avessero compreso tutto il populus, quale allora era costituito , cioè
inchiudendovi anche la plebs. Tuttavia , malgrado quest'attestazione concorde,
dubitarono i critici moderni, e quelli sopratutto, che al pari del Vico e del
Niebhur, ave vano penetrato più profondamente l'indole e il carattere primitivo
della città patrizia . La loro opinione trovò favorevole accoglimento ; ma in
questi ultimi tempi, essendosi dal Mommsen trovato , che vi fu un tempo, in cui
dei plebei furono elevati alla dignità di curiones maximi, sorse nuovamente il
dubbio , che la plebe abbia potuto essere am messa anche alle curie . Che anzi,
siccome mancava notizia di una legge, che avesse proclamata quest'ammessione,
vi furono anche degli autori, i quali, come il Paddelletti, giunsero a
sostenere, che questa ammessione dovesse risalire fino agli inizii della città
. Conviene però aggiungere, che gli autori, i quali direcente investigarono
sulle fonti le origini della città , come il Voigt, il Karlowa, il Bernöft, il
Pantaleoni, il Muirhead, il Gentile, ritornarono di nuovo al concetto di una
città esclusivamente patrizia , ed alla esclusione della plebe primitiva dal
far parte dell'assemblea delle curie ( 1). 285. Non è qui il caso di entrare in
discussioni erudite sull'argo ( 1) L'opinione sostenuta dal PADELLETTI è anche
seguita dal WILLEMS, Op. cit., pag. 47 e segg .; dal LANDUCCI, Storia del
diritto romano, pag. 357 , nota nº 2 ; dal Peluam, Encyclop. Britann ., vol.
XX, pº Rome (ancient), i quali però non entrano nella discussione degli
argomenti in pro e in contro. Quanto al PADELLETTI debbo far notare , che se la
sua autorità è grande quanto al periodo storico, non può dirsi altrettanto
quanto al periodo delle origini, e ciò perchè l'autore, fin dagli inizii
dell'opera , col suo solito fare reciso ed alieno dalle dubbiezze, afferma e che
lo studio delle origini può essere interessantissimo ed utile al mitologo ed
allo storico, ma è molto sterile per il giurisprudente » (pag. 4 ). Ciò spiega
come l'autore, essendosi accinto all'opera sua con un tale concetto dello
studio delle origini , sia caduto in gravi equivoci, ogniqualvolta toccò
quell'argomento , come può scorgersi quanto alle origini della famiglia , della
proprietà, dei delitti e delle pene, ed al sistema delle azioni. Nell'o pera
sua il diritto romano compare bello e formato, senza che si sappia , donde pro
ceda . Ciò comprese il suo annotatore Cogliolo , che intese a supplirvi colle
proprie note. 349 mento ; mibasterà il dire, che se si tenga conto del processo
, che do minò la formazione della comunanza romana, è del tutto improbabile ,
che la plebs abbia potuto essere ammessa , fin dagli inizii , alla civitas e
quindi anche alle curiae, le quali erano una ripartizione della me desima. I
cambiamenti sono troppo lenti nelle organizzazioni primitive , perchè un
elemento, che trovavasi in una condizione del tutto infe riore, potesse di un
tratto, e fin dal tempo, in cui era ancora debole e privo di qualsiasi
organizzazione, essere ammesso a far parte di una nuova consociazione, sovra un
piede di uguaglianza , in guisa da entrare a far parte della civitas e della
curiae, le quali, oltre al l'essere corporazioni politiche , erano anche
corporazioni strette dal vincolo di una religione , chenon era ancora
accomunata alla plebe . È affatto improbabile, che quel gentile o patrizio, che
è sopratutto altero di poter indicare i suoi antenati, senza che alcuno fra
essi fosse mai stato servo nè cliente , potesse diun tratto accettare un voto
del tutto eguale con un plebeo , che poteva forse essere stato prima suo
cliente o suo servo, e che ad ognimodo era di un'origine diversa dalla sua, e
non poteva indicare i propri antenati. Ciò ripugna al modo di pen sare delle
genti primitive, che non conoscendo altro vincolo , che quello del sangue,
dånno sopratutto importanza alle discendenza ed alla nascita. Sarebbe strano,
che quei patrizii, i quali, allorchè più tardi accoglievano nuove genti, le
collocavano fra le gentes mi nores, potessero concepire un pareggiamento
completo del loro ordine colla moltitudine o folla , da cui si trovavano
circondati. Questa pa rità , secondo il modo di pensare dell'epoca, nè poteva
essere am messa dal patriziato , nè poteva essere chiesta dalla plebe, la quale
trovavasi ancora in condizione troppo umile per potervi aspirare; nè è a
credersi, che il patriziato primitivo , fondatore della città , volesse per
generosità accordare spontaneamente cid , che era ancora in condizione di
negare, e che non concesse, che quando vi fu compiutamente forzato. Ciò è tanto
più improbabile , in quanto che la curia , come abbiamo dimostrato a suo tempo,
era chiamata eziandio a deliberare sopra una quantità di affari, che si
riferivano direttamente all'organizzazione domestica e gentilizia loro
esclusivamente propria ; poichè il quirite in questo periodo da una parte
guarda ancora alla gente , da cui esce, e dall'altra alla città , di cui
entra a far parte. 286. Quanto al fatto, che più tardi i plebei, almeno in
parte, siano 350 anche stati ammessi alle curie , esso può essere facilmente
spie gato . La lunga convivenza nelle stesse mura, e nello stesso esercito
ravvicinò i due elementi ; anche i plebei vennero imitando l'or ganizzazione
del patriziato ; e non mancarono anche le famiglie, che, pur essendo di origine
plebea, poterono, per importanza politica , eco nomica e per servigii resi alla
repubblica, stare a fronte anche delle poche famiglie, originariamente patrizie
. Quindi al modo stesso , che più tardi anche i patrizii poterono entrare a far
parte dei comisii tributi ; cosi non è meraviglia, se anche la plebe, ormai
ammessa agli onori, agli auspicii ed ai sacerdozii, abbia potcui esce, e
dall'altra alla città , di cui entra a far parte. 286. Quanto al fatto, che più
tardi i plebei, almeno in parte, siano 350 anche stati ammessi alle curie ,
esso può essere facilmente spie gato . La lunga convivenza nelle stesse mura, e
nello stesso esercito ravvicinò i due elementi ; anche i plebei vennero
imitando l'or ganizzazione del patriziato ; e non mancarono anche le famiglie,
che, pur essendo di origine plebea, poterono, per importanza politica , eco
nomica e per servigii resi alla repubblica, stare a fronte anche delle poche
famiglie, originariamente patrizie . Quindi al modo stesso , che più tardi
anche i patrizii poterono entrare a far parte dei comisii tributi ; cosi non è
meraviglia, se anche la plebe, ormai ammessa agli onori, agli auspicii ed ai
sacerdozii, abbia potuto essere am messa anche alle curie, la cui importanza
non era più che religiosa. Un tal fatto venne certo ad essere possibile più
tardi ; ma l'ammet terlo fin dagli inizii , è uno sconvolgere ed invertire
ilmodo di pensare dell'epoca e l'ordine degli avvenimenti. Sarebbe infatti
un fare co minciare l'unione del patriziato e della plebe dal partecipare ad
una stessa corporazione religiosa ; mentre i fatti dimostrano, che questa fu
l'ultima parte delle loro tradizioni, che si decisero ad accomunare alla plebe.
Se quindi la plebe riuscì a penetrare nella civitas ciò non dovette essere
mediante le curiae, che avevano ancora un ca rattere religioso , ed erano
formate ex hominum generibus; ma bensi per mezzo delle classi e delle centurie
, che avevano piuttosto un carattere militare, e si fondavano sulla proprietà e
sul censo . Le cause , che cooperarono più tardi a ravvicinare i due ordini,
furono sopratutto i comuni pericoli, che obbligarono la città patrizia ad
arruolare nell'esercito i plebei, al modo stesso che dovette arruolare più
tardi anche i liberti ; come pure vi cooperarono la proprietà, che fu pure
acquistata dalla plebe ed i conseguenti commerci, che ne deri varono fra essa e
il patriziato ; ed è forse questo il motivo, per cui la costituzione Serviana
assunse dapprima un carattere militare ed eco nomico ad un tempo. Quanto al
fatto allegato dai sostenitori del l'opinione contraria , che il vocabolo
populus romanus quiritium abbia più tardi compresa eziandio la plebe, esso può
essere facilmente spiegato , in quanto non è questo il solo caso, in cui i
Romani, man tenendo la parola, ne mutassero il significato . Del resto il
vocabolo populus per Roma era una concezione e forma logica, al pari di tutte
le altre concezioni giuridiche e politiche ; esso comprendeva l'uni versalità
dei cittadini, e quindi, come era naturale, che non com prendesse la plebe ,
finchè questa non faceva parte della città , cosi doveva comprenderla , allorchè
essa , in base al censo, entrò a far parte delle classi e delle centurie
Serviane. 351 287. Ferma così la risoluzione delmaggior problema della storia
primitiva di Roma, solo resta a ricercare brevemente, quale potesse in questo
periodo essere la posizione della plebe in tema di diritto privato ; il qual
compito ci è reso facile da ciò, che si venne fin qui ragionando. È noto, come
il ius quiritium , allorchè giunse al suo completo sviluppo , mentre in tema di
diritto pubblico comprendeva il ius suf fragii e il ius honorum , che entrambi,
a nostro avviso , furono dapprima negati alla plebe, in tema invece di diritto
privato si rias sumeva nel ius connubii e nel ius commercii . Quanto al primo
di questi diritti, abbiamo troppi argomenti nella storia per affermare con
certezza , che solo più tardi i plebei furono ammessi al ius connubii col
patriziato ; il che però non significa , che essi non potessero contrarre fra
loro delle unionimatrimoniali, ma soltanto che queste unioni non potevano, di
fronte al patriziato , produrre gli effetti della iustae nuptiae. L'opinione
quindi, che suol essere comunemente accolta , è quella secondo cui la plebe
sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo ius commercii ( 1). Così avrei
ritenuto ancioni non potevano, di fronte al patriziato , produrre gli effetti
della iustae nuptiae. L'opinione quindi, che suol essere comunemente accolta ,
è quella secondo cui la plebe sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo
ius commercii ( 1). Così avrei ritenuto anch'io nell'inizio di questo studio, e
può darsi che nel corso del libro cid apparisca in qualche parte ; ma ora il
processo logico , che domind la formazione del diritto romano, in mancanza di
ogni informazione diretta , mi conduce ad affermare, che non dovette essere il
ius commercii, che la città patrizia riconobbe alla plebe circostante, ma bensì
il ius neximancipiique, il quale, come si è veduto più sopra , è quello stesso
diritto , che Roma, dopo es sersi incorporata la primitiva plebe, ebbe ad
accordare alle altre popolazioni circostanti, che vengono sotto il nome di
forcti ac sa crates. Anche il concetto di commercium , nella larga
significazione che ebbe pei Romani, in guisa da comprendere il diritto di
comprare e di vendere, di obbligarsi e di fare testamento ex iure quiritium ,
suppone una certa parità di condizione fra le persone, fra cui in tercede.
Siccome quindi le genti patrizie erano per modo organizzate da provedere
compiutamente ai loro bisogni : così non poteva dap prima essere il caso , che
riconoscessero ad una classe inferiore un ius commercii, sopra un piede di
eguaglianza, ma loro dovettero riconoscere soltanto il diritto del mancipium ,
ossia quello di avere una proprietà , che poteva essere alienata, e il ius
nexi, ossia il di (1) Tale è, ad esempio, l'opinione del LANGE , Histoir.
intér. de Rome, I, pag . 61. 352 ritto di potersi obbligare, mediante il nexum
. Le conseguenze pra: tiche nella sostanza potevano essere le stesse ; ma
intanto la supe riorità delle genti e il vassallaggio della plebe venivano ad
essere riconosciute . Ed è questo il motivo, che allorquando la plebe fu
ammessa nella città , il nexum ed il mancipium , come accadde anche in tutto il
resto , cessarono di significare dei rapporti fra le genti patrizie e la plebe,
che le circondava , per diventare rapporti interni, e costituirono cosi i primi
concetti quiritarii, comuni alle due classi. Più tardi però, anche questi
vocaboli, che ricordavano una disugua glianza di condizione fra le due classi,
apparvero disadatti, e nella successiva elaborazione del diritto quiritario
furono sostituiti da altri (1) . Non può dirsi pertanto , che in questo periodo
siasi già cominciata l'elaborazione di un vero ius civile , ispirato ad un
concetto di ugua glianza fra patriziato e plebe, ma continua sempre ad esistere
un diritto proprio delle genti patrizie , che parteciparono alla formazione
della città, e che costituisce il primitivo ius quiritium ; ed un di ritto che
governa i rapporti fra la città patrizia e la plebe, che la circonda , il quale
si risente ancora delle condizioni disuguali, in cui essi si trovano. È questo
il motivo, per cui la plebe nelle proprie tradizioni fece sempre rimontare la
sua esistenza giuridica alla costi tuzione Serviana; colla quale lo sviluppo
del diritto pubblico e privato di Roma prende un indirizzo del tutto peculiare
, che influi potente mente su tutto lo svolgimento , che ebbe ad avverarsi più
tardi, e merita perciò di essere particolarmente e profondamente studiato . (
1) Non mi trattengo più a lungo su questo punto, perchè ho già dovuto accen
narvi nel Lib . I, Cap. X , nº 160 , pag. 193 e seg., e perchè la prova delle
cose qui enunziate apparirà anche più evidente , quando si tratterà della
costituzione Ser viana e della sua influenza sul diritto privato di Roma. LIBRO
III. Il diritto pubblico e privato di Roma dalla riforma Serviana alle XII
Tavole. CAPITOLO I. La costituzione di Servio Tullio . § 1. – Cenno degli
avvenimenti che la prepararono. 288. Colla venuta dei Tarquinii a Roma, si
inizia nella medesima una trasformazione profonda, la quale potè in parte
essere travisata dalle tradizioni e dalle leggende, ed anche dissimulata
dall'amor patrio degli storici latini, ma i cui principali tratti si possono di
scernere nelle serie degli avvenimenti e dei fatti, di cui ci fu con servata
memoria . Fino a quell'epoca, delle varie stirpi, che erano concorse a co
stituire la città , avevano sempre avuta una incontrastabile prevalenza le
latine e le sabine, fra le quali erasi venuto alternando il ma gistrato supremo
; mentre i Luceres non avevano somministrato alcun re , nè forse avevano avuto
nella formazione dei primitivi sacerdozii. Or bene, regnando Anco Marzio, di
origine latina, la gente Tarquinia , di origine etrusca, ricca di capitali e
numerosa per clientele, viene a porre la propria sede in Roma, per conseguirvi
quello stato, che le era conteso nel luogo nativo (Tarquinia ). Il capo di essa
è uomo abile ed intraprendente, e dopo aver consi gliato in vita Anco Marzio ,
ne guadagna per modo la fiducia , da diventare dopo la sua morte tutore dei
figli di lui, o ottiene in breve colle sue ricchezze e collo splendore della
propria vita tale un seguito, da essere assunto al trono , mediante il
suffragio del G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 23 354 popolo e coll'autorità
dei padri : « eum , scrive Livio , ingenti con sensu populus romanus regnare
iussit » (1). Nè sembra essere il caso di supporre col dottissimo
OldofredoMüller, che questa immigrazione di genti etrusche corrisponda alla
supre mazia , che la città di Tarquinia avrebbe conquistata su Roma, su
premazia, che gli storici latini avrebbero cercato di dissimulare (2 ): poichè
le nuove genti appariscono in concordia con tutti gli ordini della città , e il
capo di esse , chiamato con tutte le formalità al trono, raccoglie in effetto
tutte le sue cure sulla patria novella, e l'arricchisce di pubblici edifizii,
che allo splendore delle costruzioni greche ed etrusche sembrano associare quel
carattere di grandiosità e di forza , che è proprio delle costruzioni latine.
Sembra quindi più verosimile, che alcune fra le città etrusche in quell'epoca
fossero pervenute a quel periodo di crisi, che occorre eziandio nelle città
greche , durante il quale, sorgendo lotta di superiorità e di predo minio fra i
capi delle grandi famiglie , vengono ad esservene di quelle, che sono forzate a
cercare altrove miglior sorte e fortuna. Per un tale intento offerivasi
opportuna la città di Roma, la quale in quel periodo di tempo era ancora
disposta ad accogliere nuove genti nei proprii quadri, e mentre da una parte ,
per la fortezza già sperimentata dei proprii abitanti, poteva aspirare ad un
grande avvenire, dall'altra aveva ancora molto ad apprendere, sia quanto allo
splendore dei pubblici edifizii , sia quanto all'ordinamento mi litare e
civile. Di più essa già conteneva nel proprio seno delle genti di origine
etrusca , cosicchè la nuova immigrazione poteva avervi parentele ed aderenze,
che spiegano l'appoggio e il seguito , che vi trovarono in breve la gente
Tarquinia e il proprio capo (3). 289. Questo è certo ad ogni modo, che in Roma
si manifestano ben tosto i segni di una trasformazione potente. - Infatti,
secondo la tradizione, la sua popolazione viene ad essere come raddoppiata , ed
il nuovo elemento sembra dare alla città un indirizzo mercantile , come lo
dimostra il fatto, che dopo la dominazione dei Tarquinii ( 1) Liv., 1, 34 ;
Dion., IV , 2 . (2 ) Müller O., Die Etrusker. Cfr . PANTALEONI, Storia civile e
costituz .di Roma, pag . 134, ove si impugna appunto l'opinione del Müller. (3)
L'opinione qui accettata è conforme a quella, che ho cercato didimostrare più
sopra , relativamente agli aumenti nel numero dei senatori. Lib . II, cap. II,
§ 5 , nn. 212 e 213, pag. 258 e segg . 355 Roma è già in condizione di
conchiudere, anche come rappresen tante del Lazio , un trattato di navigazione
con Cartagine (1). Mentre poi fino a quell'epoca Roma aveva ancor sempre conser
vato il suo carattere primitivo di federazione fra diverse comunanze, con
Tarquinio invece sembra iniziarsi il periodo, che potrebbe chia marsi di
incorporazione. Narra infatti Livio, che Tarquinio avrebbe distribuito spazi
intorno al foro , accið i privati vi potessero costruire le proprie abitazioni,
e che in lui era già sorto il pensiero di cin gere la città di mura, adottando
così il tipo delle città etrusche, le quali, essendo dedite ai commerci,
solevano chiudersi e fortificarsi nelle proprie mura ( 2 ). A compir l'opera
sarebbesi richiesto, che i quadri della città pri mitiva fossero modificati, e
che alle divisioni di carattere gentilizio se ne sostituissero altre di
carattere territoriale e locale . Cid secondo la tradizione avrebbe pur tentato
Tarquinio, quando non si fosse op posto il patriziato per mezzo dell'augure
sabino Atto Nevio , osser vando che la primitiva città erasi fondata mediante
gli auspicii, e che perciò i quadri di essa consacrati dalla religione dovevano
essere mantenuti (3). Non vi fu quindi altro mezzo che di fare entrare il nuovo
elemento nei quadri antichi, il che Tarquinio avrebbe cercato di conseguire :
lº aggiungendo alle centurie dei cavalieri, altre centurie, che serbarono il
nome antico, ma presero la deno minazione di Ramnenses, Titienses , e Luceres
secundi; 2º ac crescendo il senato di cento nuovi senatori, che si chiamarono
patres minorum gentium ; 3º raddoppiando il numero dei pontefici e degli
auguri, e destinando anche alla custodia ed alla interpretazione dei libri
sibillini i duoviri sacris faciundis , i quali, portati poscia a dieci e più
tardi a quindici, finirono per cambiarsi in un collegio sacerdotale , che
sovraintendeva și culti di provenienza straniera (4 ). (1) La memoria di questo
trattato di navigazione, conchiuso nel primo anno della Repubblica , ci fu
serbata da POLIBIO, III, 22, 24 , il quale l'avrebbe tradotto da un latino
arcaico, che ai suoi tempi era già diventato difficile a comprendersi. (2) Liv
., I, 35, 36, 38. Egli anzi attribuisce a Tarquinio di aver già intrapresa la
cinta , che prese poi il nome di Serviana. (3 ) Liv ., I, 36 ; Dion., III, 70,
72. (4 ) Dron ., III, 67; IV , 62. L'istituzione dei duoviri sacris faciundis
ora è attri buita a Tarquinio Prisco ed ora a Tarquinio il Superbo. Quanto allo
svolgimento storico di questo collegio sacerdotale è da vedersi il
Bouché-LECLERCQ, Histoire de la divination , Paris, 1882, IV , pagg. 286-317,
come pure il Manuel des institu tions romaines, Paris, 1886 , pag. 545 e segg .
356 Intanto anche la religione subì l'influenza del nuovo elemento , ma in
proposito fu giustamente osservato , che la religione, importata da questa
immigrazione etrusca, non ha quel carattere misterioso ed arcano, che vuole
essere attribuito ai riti etruschi, ma si risente invece dell'influenza greca,
come lo prova la triade capitolina di Giove, Minerva e Giunone (1) ; il che
sembrerebbe confermare, che i Tarquinii, pur venendo da una città etrusca ,
potessero remotamente provenire da una città greca, che secondo la tradizione
sarebbe stata Corinto ( 2 ). Della plebe quasi non si occupa la tradizione; ma
si può affer mare con certezza che come le immigrazioni latine avevano ac
cresciuta la plebe rurale, dedita alla coltura delle terre, così quella etrusca
dovette trascinare con sè un grande numero di artieri, di commercianti, di
uomini esperti nell'arte della costruzione, che con corse ad accrescere la
plebe urbana (3). Intanto si accrebbero i mo tivi di ravvicinamento fra
patriziato e plebe, poichè la plebe del con tado era divenuta un elemento
indispensabile per rafforzare l'esercito , e la cooperazione della plebe urbana
era anch'essa necessaria per compiere quelle opere pubbliche grandiose, che
sono la caratteri stica di questo periodo della storia di Roma, e che erano
natural mente richieste dall'ingrandirsi della città e dal nuovo indirizzo
preso dalla medesima. 290. Le cose quindi erano venute a tale, che
coll'ampliarsi della città , anche i quadri del populus dovevano essere
allargati in guisa da potervi comprendere quella parte della plebe, che ormai
per venuta a qualche agiatezza, ed affezionata al suolo da esso col tivato ,
poteva avere interesse all'incremento e alla difesa della città . Fu questa
l'opera, che la tradizione ha attribuito a Servio Tullio ; altro re , che
appare come trasfigurato dalla leggenda, la quale probabilmente ha finito anche
qui per attribuire all'opera di un solo ciò che ha dovuto essere l'effetto del
concorso di varii elementi, e delle nuove energie e forze operose, che vennero
a ( 1) Questa osservazione è del PANTALEONI, op. cit., p . 149 . (2) È noto
che, secondo Livio I, 34, Tarquinio Prisco, pur provenendo diretta mente da
Tarquinia , sarebbe tuttavia figlio di un Demarato Corinzio . (3 ) Quanto
all'incremento della plebe sotto il regno del primo Tarquinio, è da ve dersi
Herzog, Geschichte und System der römischen Staatsverfassung . Leipzig, 1884,
I, pag. 32 e segg . 357 scaturire dal nuovo stato di cose e dal nuovo
indirizzo, che veniva prendendo la città di Roma. È dubbia la origine di Servio
Tullio : mentre la tradizione latina , unitamente al carattere della sua
riforma, che appare più una evoluzione che una rivoluzione, lo la scierebbero
credere di origine latina , una tradizione invece, che vigeva presso gli
Etruschi, e che ci fu conservata dall'imperatore Claudio nel preambolo ad un
senatusconsulto, lo direbbe di origine etrusca , e gli attribuirebbe il nome di
Mastarna (1). Tutta l'antichità ad ognimodo è concorde nel riconoscere l'impor
tanza della sua costituzione, poichè è certo che, debbasi ciò attribuire alla
sapienza del principe autore di essa , o alla tenacità del popolo che ebbe a
svolgerla , essa corrisponde a un graduato sviluppo e segna comeun nuovo stadio
nella formazione della città . Essa chiude il pe riodo esclusivamente patrizio
, in cui domina ancora la discendenza e la nascita, ed inizia quello patrizio
-plebeo , in cui i due ordini, dopo essere entrati a far parte del medesimo
popolo, sulla base del censo , finiscono per avviarsi fra le lotte ed i
dissidii al pareggia mento giuridico e politico . Può darsi, che anche altre
città abbiano avuta una costituzione analoga , come, ad esempio, Atene per
opera di Solone (2 ); ma non ve ne ha certamente un'altra , che per la tenacità
e la perseveranza degli ordini, che si trovarono di fronte, abbia saputo
ricavarne un più sicuro e graduato sviluppo . Ben è vero, che anche per Roma vi
fu un periodo, in cui l'evo luzione è stata interrotta da un tentativo di
tirannide ; ma nel resi stervi tutti gli ordini furono concordi, e il rimedio
fu estremo, quello cioè di cacciare dalla città l'elemento, che ne aveva poste
a repen (1) L'oratio, che precede il senatusconsulto Claudiano dell'anno 48
dell'êra vol gare de iure honorum Gallis dando può vedersi nel Bkuns, Fontes,
ed . V , p. 177. Ivi l'erudito imperatore, volendo accogliere nel senato anche
dei Galli, fa la storia degli elementi, che Roma avrebbe assorbito nei suoi
varii stadii, e trova così occa sione di accennare alle due tradizioni relative
a Servio Tullio, di cui una lo farebbe nascere da una prigioniera di nome
Ocresia, mentre l'altra lo direbbe di origine etrusca . Le diverse opinioni
degli eruditi sulla fede, che merita il racconto di Claudio, e la conferma
indiretta, che esso avrebbe ricevuto da alcune recenti scoperte archeologiche,
sono riportate dal Bonghs, Storia di Roma, I, pag . 201, nota 14. (2) Quanto
alle analogie fra la costituzione di Solone e quella Serviana e fra le
condizioni storiche, che poterono determinare l'una e l'altra, è sempre a
consultarsi il GROTE , Histoire de la Grèce. Trad. De Sadous, Paris, 1865, tome
IV , chap. 4me, pag. 137 a 216 , come pure l'appendice allo stesso capitolo, in
cui discorre della con dizione dei nexi e degli addicti in Roma antica . - 358
al taglio le libere istituzioni, malgrado le difficoltà gravissime, in cui
venne allora a trovarsi la città . L'interruzione però non impedì che, superata
la crisi, lo svolgimento storico fosse ripreso punto stesso , a cui erasi
arrestato, cosicchè lo spirito della costituzione serviana pervade non solo
l'elaborazione del diritto pubblico , ma ancora quella del privato . Fu il non
averne tenuto conto sufficiente che, a mio avviso , ha impedito di dare una
spiegazione plausibile dei più singolari caratteri del diritto primitivo di
Roma. § 2. – Il concetto ispiratore della riforma Serviana eimezzi che
servirono ad attuarla . 291. Fu abbastanza dimostrato , che la formazione della
città pri mitiva non è un'opera di semplice agglomerazione, che piglia i ma
teriali quali si presentano e li amalgama confusamente insieme; ma un'opera di
selezione, che solo li accetta in quanto entrano nel suo ordinamento simmetrico
e coerente ; donde la conseguenza, che se un mutamento si introduce in una
parte essenziale di essa, questo deve pur riflettersi e riverberarsi nelle
altre parti. Ciò apparve nella città patrizia , e appare ugualmente nella
costituzione serviana. Il problema era quello di unire due popolazioni, che si
trovavano, come si è veduto , in condizioni sociali compiutamente diverse, e di
farle entrare a far parte della stessa comunanza civile , politica e militare.
Il fonderle insieme era per il momento impossibile, perchè la distanza fra di
loro . era ancora troppo grande, e certi istituti, come la religione e i
connubii, erano ancora troppo gelosamente custoditi per poter essere
accomunati. Le sole istituzioni, comuni ai due ordini, erano la proprietà e la
famiglia , e il solo inte resse , che li aveva condotti ad avvicinarsi, era
quello di prov vedere insieme alla difesa di sè e delle proprie terre. Queste
sol tanto potevano essere le basi della loro partecipazione alla medesima città
: quindi è che la costituzione serviana, sebbene allarghi le file del populus,
comprendendovi un elemento , che era escluso dalla città patrizia , finisce
però per dare una base più ristretta alla par tecipazione dei due ordini alla
stessa comunanza civile e politica . Mentre il popolo delle curie aveva comune
l'elemento religioso , l'organizzazione gentilizia , e il culto per le antiche
tradizioni; il popolo invece, che esce dalla costituzione di Servio , viene ad
essere composto di capi di famiglia e di proprietari di terre, che entrano 359
a far parte del medesimo esercito , e più tardi anche della medesima assemblea
, in base alla sola considerazione del censo , e nell'intento esclusivo di
provvedere alla difesa di quegli interessi, che loro potevano essere comuni. La
nuova comunanza pud in certo modo essere paragonata ad una società , in cui
ciascuno viene ad aver diritti ed obbligazioni proporzionate al proprio censo ,
il quale viene così ad essere considerato come una garanzia dell'interesse ,
che altri può avere all'avvenire e alla grandezza della città (1). Il nuovo
popolo pertanto non ha nulla a fare colle curie dei patrizii , ai quali
continuano ad essere riservati gli auspizii, i sacerdozii, le magistrature e
gli onori; ma viene ad assumere negli inizii una organizzazione di carattere essenzialmente
militare, in cui la parte cipazione ai diritti e alle obbligazioni della
cittadinanza sotto l'aspetto militare, politico e tributario viene ad essere
determinata esclusiva mente dal censo . In apparenza quindi l'organizzazione
per curie delle genti patrizie è lasciata integra ed intatta ; ma intanto a
lato della medesima sorge un nucleo novello , che per essere più numeroso e più
forte finirà per richiamare in sè ogni energia civile, politica e militare,
lasciando col tempo alle curie la sola custodia delle tradi zioni e dei culti
gentilizii. 292. È questo il motivo , per cui la costituzione serviana potè
essere apprezzata in guisa compiutamente diversa , anche dagli an tichi
scrittori, i quali la descrivono, ora come favorevole al patri ziato o almeno
alle classi più elevate, ed ora invece come favorevole alla plebe ( 2). Essa
era tale, che da una parte doveva essere accetta al patriziato, il quale ,
mentre riteneva ciò , che era esclusivamente suo proprio , trovava poi più
forte il proprio esercito, più ricco il proprio erario, più ampia la città , di
cui continuava ad avere le magistrature e gli onori; dall'altra doveva anche
essere gradita alla plebe, perchè essa , ancorchè sulla base esclusiva del
censo , veniva (1) Che questo fosse il concetto informatore della costituzione
serviana appare da Aulo Gellio , XVI, cap . 10, n ° 11, il quale dice
espressamente che « res pecuniaque « familiaris obsidis vicem pignorisque esse
apud rempublicam videbatur, amorisque « in patriam fides quaedam in ea ,
firmamentumque erat » . Il paragone poi della comunanza quiritaria , in base
alla costituzione serviana, ad una società di azionisti già occorre nel
NIEBHUR, Histoire romaine, II, p . 193. (2 ) Il diverso apprezzamento ,che gli
antichi fecero della riforma serviana, apparisce da Cic., De rep ., II, 22 ;
Liv., 1, 42, 43; Dion ., IV, 20. Cfr. in proposito il Bonghi, op. cit., I, pag.
548 e segg. 360 ad acquistare una posizione giuridica, che prima non aveva, ed
è abbastanza noto , che quando trattasi di un'aggregazione sociale , il passo
più difficile è quello di potervi penetrare, poichè dopo la forza stessa delle
cose condurrà ad avervi una posizione adeguata al pro prio valore. Questo è
certo , per quanto appare dalla tradizione, che i due ordini sembrano essere
concordi nell'accettare la costituzione di Servio Tullio, per guisa che ad
opera compiuta gli riconoscono re golarmente quel potere, che prima aveva
esercitato più di fatto , che non di diritto ; tantoque consensu , quanto haud
quisquam alius ante, rex est declaratus (1). Intanto la nuova costituzione
appare informata anche essa ad un unico concetto, che è quello di dare a
ciascuno nella città una parte proporzionata all'interesse, che egli può avere
per l'incremento della medesima : interesse, che si ritiene dover essere
misurato dal censo . Quest' unico concetto poi viene incarnandosi nel fatto con
mezzi e con istituzioni diverse, fra i quali sono sopratutto importanti e degni
di nota l'ampliamento delle mura, la ripartizione del territorio in tribù o
regioni locali, l'istituzione del censo e l'organizzazione del nuovo popolo in
classi ed in centurie ; istituti questi, che abbozzati negli inizii da mano
maestra , dovranno poi ricevere dalla logica tenace del popolo romano tutto lo
sviluppo, di cui possono essere capaci. 293. Coll’ampliamento delle mura la
città, che prima riducevasi ad un complesso di edifizii , aventi pubblica
destinazione e riuniti in un piccolo spazio , a cui mettevano capo le varie
comunanze, viene a comprendere nella propria cerchia buona parte di tali
comunanze , le loro rispettive fortezze, ed una quantità grande di abitazioni
pri vate . Cresce così il nucleo della popolazione urbana di fronte a quella
del contado ; il contatto fra il patriziato e la plebe diviene più intimo e frequente
, e la vita della città concorre così a dissol vere quell'ordinamento per genti
e per clientele, che forse sarebbesi mantenuto stazionario o almeno più
duraturo in seno alle comunanze di villaggio . La città intanto , chiusa e
fortificata nelle proprie mura , difesa da un esercito, il cui contingente
viene ad essere più volte moltiplicato, abitata da un popolo pressochè
militarmente organizzato , assume anch'essa un carattere più decisamente
militare e apparisce ( 1) Liv ., I, 46 . 361 paurosa ed imponente alle
popolazioni vicine (1). Così pure è da questo momento , che la vita fra le
stesse mura conduce a mescolare e a confondere il sangue delle varie stirpi,
fino a che per mezzo di re ciproci adattamenti finiranno tutte per concorrere a
formare un or ganismo unico e coerente (2). Quasi poi si direbbe, che i
fondatori della nuova città abbiano una certa consapevolezza dell'avvenire di
essa ; poichè il nuovo circuito comprende non solo il Palatino, il Capitolino,
il Quirinale, il Celio , il Gianicolo , ma anche l'Esquilino e il Viminale ,
alcuni fra i quali sono ancora spopolati (3 ); cosicchè il pomoerium della
città non dovette più essere ampliato, durante il periodo repubblicano,
malgrado gli incrementi, che si verificarono nella popolazione. A questo
riguardo vuolsi però osservare , che sebbene la città dal tipo latino sembri
far passaggio al tipo etrusco, tuttavia essa au menta bensi il suo nucleo
centrale , ma serba ancor sempre i ca ratteri primitivi della città latina.
Infatti non tutta la sua popola zione viene ad essere accolta nelle sue mura,
ma buona parte di essa continua ad essere dispersa per le campagne e fuori
delle mura ; cosicchè la città continua sempre ad essere un centro di vita pub
blica per popolazioni, che possono avere altrove la propria resi denza. Cosi
pure in tutta questa trasformazione punto non parlasi di nuove ripartizioni di
terre, se si eccettuano i soliti assegni, che per consuetudine invalsa i re
sogliono fare alla plebe ; il che si gnifica che le famiglie, le genti e le
tribù dovettero continuare a ritenere le proprie terre ( 4 ). 294. Intanto è
evidente, che in una città cosi concepita diveniva necessario , che all'antica
distinzione fondata sull'origine e sulla discen (1 ) L'intento eminentemente
militare della cinta serviana è dimostrato anche dal fatto, che gli
intelligenti delle cose militari ritengono che dall'orientamento di essa si
possa perfino argomentare alla situazione delle porte in essa esistenti. V.
BARAT TIERI, Sulle fortificazioni di Roma antica, « Nuova Antologia » , 1887,
fascic. 10. (2 ) Questo concetto trovasi efficacemente espresso da Floro nel
passo citato al lib . I, cap. I, nº 10 , pag. 10, nota 1. (3) MIDDLETON,
Ancient Rome, pag. 59 e segg . « L'ampliamento delle mura, scrive NIEBIUR, fu
il pensiero di un genio, che confidava nella eternità e negli alti destini
della città , e che aperse la via ai suoi futuri progressi o . Op. cit., II,
123. (4 ) Questi assegni fatti da Servio Tullio alla plebe sono attestati da
Livio, I, 46, più chiaramente ancora da Dionisio , IV , 9, allorchè scrive: «
agrum publicum di « visit civibus romanis , qui ob rei domesticae difficultates
aliis, mercedis causa , ser viebant » . e 362 denza si aggiungesse una nuova
ripartizione di carattere locale e ter ritoriale, la quale potesse anche essere
di base per constatare la po polazione, che vi avesse la propria residenza , e
per fissare il tributo , a cui dovesse essere soggetta (tributum ex censu ).
Cid si ottenne col ri partire il territorio in tribù o regioni locali, le quali
si suddivisero poi in rustiche ed urbane. Le urbane sono quattro e prendono
senz'altro il nome dalle località, e chiamansi così Suburana, Esquilina ,
Collina e Palatina : mentre le rustiche continuano per la maggior parte a
prendere il nome dalle genti patrizie , quali sarebbero l'Emilia , la Cornelia
, la Fabia, la Galeria , l'Orazia , la Menenia , Papiria, Pollia , Sergia,
Romilia , Voturia , Voltinia , ed altre ; solo eccettuata la tribù Crustumina,
che sarebbe stata la prima ad essere denominata dalla località . Cid indica che
nel contado continud la prevalenza delle genti, che vi tenevano le loro
possessioni. Il numero origi nario delle tribù rustiche non è ben noto , ed
anzi, secondo alcuni storici, fra i quali Livio , le tribù rustiche comparirebbero
solo più tardi. Questo è certo pero , che la ripartizione, anche del ter
ritorio rustico, era una conseguenza del concetto informatore della
costituzione serviana, e che il numero delle tribù, dopo le guerre a cui diede
occasione la cacciata dei Tarquinii, e forse per la diminuzione del territorio
, che ne fu la conseguenza, appare ri dotto a quello di venti. La
cooptazione della gente Claudia porto le tribù a vent'una, e da quel punto la
storia ricorda tutte le date, in cui la conquista di un nuovo territorio
conduce alla for mazione di nuove tribù , fino al numero di trentacinque, che
poi si mantenne immutabile (1). Non è già con ciò , che Roma non abbia fatte
nuove concessioni di cittadinanza, ma i nuovi cittadini si fecero rientrare
nelle antiche tribù, le quali, dopo aver avuto una base locale , si mutarono
cosi in altrettanti quadri, a cui poterono essere ( 1) Mentre Livio, I, 43
attribuisce a Servio Tullio soltanto la ripartizione della città nelle quattro
tribù urbane, Dionisio , IV, 15 , invocando la testimonianza di Fabio , gli
attribuisce eziandio la divisione dell'agro in 26 tribù, cosicchè il numero
complessivo delle tribù sarebbe stato di 30. Di qui la difficoltà di spiegare
comemai queste tribù negli inizii della Repubblica fossero ridotte al numero di
20 soltanto . Anche oggidi la spiegazione più probabile sembra essere quella
data dal Niebhur, secondo cui l'ager romanus avrebbe sofferto la diminuzione di
varii pagi o tribus, in seguito alla guerra cogli Etruschi guidati da Porsena .
Op. cit., II, 154. Quanto all'epoca , in cui si vennero aggiungendo le altre
tribù fino al numero, che poi si mantenne, di 35, sono a vedersi il Willems, Le
droit public romain , pag. 34 e segg. e il Morlot, Institutions politiques de
Rome, Paris, 1886 , p . 71 e segg . 363 ascritti tutti i cittadini romani,
senza tener conto della effettiva residenza dei medesimi ( 1). 295. Sopratutto
poi il concetto informatore di tutta la costitu zione serviana fu l'istituzione
del censo ; poichè è in proporzione del censo , che vengono ad essere
determinati i diritti e gli obblighi dei cittadini. Vuolsi però aver presente ,
che nel censo di Servio Tullio non intervengono tutti gli individui, ma solo i
capi di fa miglia , quelli cioè , che per non essere soggetti a potestà altrui
possono giuridicamente essere considerati come padri di famiglia , ancorchè in
realtà non siano tali. La dichiarazione poi del capo di famiglia deve essere
duplice , cioè comprendere tanto le persone quanto le cose , che da lui
dipendono ; donde provenne la conse guenza, che in questo periodo le persone e
le cose, dipendenti dalla stessa potestà , si presentarono come un tutto
indistinto , che suol essere indicato coi vocaboli di familia o di mancipium .
Il padre di famiglia pertanto, o meglio colui, il quale, per non essere sog
getto a potestà altrui, ha diritto di contare per uno nel censo , deve
dichiarare anzitutto , ex animi sententia , il suo stato civile, cioè il suo
nome, il prenome, il nome del padre o del patrono , la tribù a cui trovasi ascritto
, l'età , il nome della moglie , il nome e l'età dei figli. Esso deve
dichiarare eziandio il patrimonio , che a lui ap partiene in proprio ; non
quello cioè, che appartenga alla sua gente , ma quello che è collocato in suo
capo , che gli appartiene ex iure quiritium , che fa parte del suo mancipium ,
il quale in significa zione più ristretta comprende appunto il complesso dei
beni, che deb (1) È solo in questo modo, che a parer mio si può risolvere
la questione tanto agitata fra gli autori se le tribù di Servio fossero
divisioni di territorio , oppure di visioni di persone. Non parmi poi che possa
ammettersi l'opinione del NIEBHUR, secondo cui le tribù dapprima non avrebbero
compreso che i plebei, e solo dopo il decemvirato avrebbero compreso anche i patrizii
(Op. cit., IV , 16 ); poichè il loro stesso nome derivato da quello di genti
patrizie ed anche lo scopo della ripartizione del territorio in tribù o sezioni
dimostrano ad evidenza il contrario. Che anzi, in base alla narrazione di
Dionisio , IV , 15 , il re Servio non solo avrebbe diviso il ter ritorio in
tribù , ma nei siti montani avrebbe costrutto dei pagi, che dovevano ser vire
come luogo di rifugio, e avrebbe obbligato tutti quanti gli abitatori (omnes
romanos) a consegnarsi nel censo « addito et urbis tribu et agri pago, ubi
singuli habitarent » ; il che fa credere, che le tribù rustiche serviane
fossero un rimaneggia mento dei pagi, che già prima esistevano nel territorio
circostante a Roma. Cfr . il Morlot, op. cit., pag . 57 e seg ., ove espone le
varie opinioni degli autori intorno al carattere locale o personale delle
tribù. 364 bono essere valutati nel censo . Sarà poi in base a questo censo ,
che sarà designata la classe del popolo, a cui deve appartenere, tanto per sè
che per i figli, che abbiano raggiunta l'età di diciasette anni, e verranno
cosi ad essere determinati i suoi diritti e le sue obbliga zioni sotto
l'aspetto politico , militare e tributario ad un tempo (1 ). 296. Basta questa
semplice indicazione per comprendere l'im mensa importanza, che dovette,
sopratutto negli esordii, esercitare una istituzione di questa natura sopra il
popolo forse più tenace che presenti la storia in quella che il Jhering
chiamerebbe la lotta per il diritto . Per la città serviana la formazione del
censo ha quella stessa importanza, che ha per una società di carattere
mercantile la determinazione del contributo , che altri deve arrecare alla for
mazione del capitale sociale, il quale contributo dovrà poi servire di base per
la ripartizione dei profitti e delle perdite. Essa costrinse a considerare ogni
individuo come un caput, il quale tanto vale quanto è il numero dei figli e
l'ammontare delle sostanze, in base a cui egli contribuisce alla comunanza . In
essa l'uomo non è solo contato, ma in certo modo è anche pesato , e viene ad
essere isolato da ogni altro suo rapporto, per essere considerato
esclusivamente sotto il punto di vista delle persone e delle sostanze, che in
lui vengono ad unificarsi. Vi ha di più, ed è che la proprietà, che conta nel
censo serviano , non è la proprietà gentilizia , che apparteneva al solo pa
triziato , ma è la proprietà famigliare e privata , che era la sola , che fosse
comune al patriziato ed alla plebe. Di qui la conseguenza , che tutte le altre
forme di proprietà vengono di un tratto ad essere lasciate in disparte,
cosicchè se le genti patrizie vorranno 284 ' e seg (1) Quanto alle operazioni
relative al censo cfr. WILLEMS, op. cit., pag. Per me è sopratutto notabile la
circostanza , che il capo di famiglia doveva denun ziare persone e cose ,
che da lui dipendevano, poichè essa serve a spiegare come i due vocaboli di
familia e di mancipium potessero talvolta scambiarsi fra di loro, e as
sumessero una significazione così larga da comprendere le persone le cose ad un
tempo . Cid non accadeva già , perchè si confondessero persone e cose, ma
perchè le une e le altre apparivano nel censo come dipendenti dalla stessa
persona . Tale doppia consegna è attestata espressamente da Dion.,. IV , 15 ,
verso il fine. Parmi che in questo modo si possano conciliare le due opinioni
contrarie del MARQUARDT, Das privat leben der Römer, pag . 2 e quella del
Voigt, Die XII Tafeln, II, pagg. 6 e 83-84, quanto alla significazione
primitiva dei vocaboli manus, di mancipium e di familia. Cfr. in proposito il
Longo, La mancipatio, Firenze, 1887, pag. 5, nota 8 , ed il BONFANTE, Res
mancipi e nec mancipi, Roma 1888, pag. 100 , nota 1. 365 avere nelle classi
l'appoggio dei proprii clienti, dovranno dividere fra essi i proprii agri
gentilizii, e fare a ciascuno un'assegno di terra in proprietà quiritaria , che
valga a farli ammettere in una delle classi. Da questo momento viene solo più
ad essere questione di mancipium o di nec mancipium , perchè è solo il primo,
che conta nel censo di Servio Tullio , e se il medesimo non giunga ad una certa
misura , altri non potrà essere censito , che per il proprio capo (capite
census ), o verrà ad essere confinato nei proletarii, senza poter far parte
delle classi e delle centurie, in cui si raccoglie l'eletta del popolo romano,
ossia coloro (adsidui, locupletes) i quali avendo una terra di loro proprietà
esclusiva, si possono ritenere aver interesse alla difesa della patria comune.
Si comprende quindi l'affezione tenace, con cui il plebeo, ammesso a questa
condizione nella città , si attacca al proprio tugurio e al campicello, che lo
circonda, perchè è questo , che gli assicura una posizione giuridica ,
militare, economica per sè e per i proprii figli , quando siano perve nuti ai
diciasette anni; il che spiega eziandio come il plebeo ami meglio di vincolare
se stesso e la propria figliuolanza col nexum , che di privarsi della sua
piccola terra. 297. Noi stentiamo naturalmente a ricostruire col pensiero tutte
le conseguenze, che una istituzione di questa natura può avere pro dotto sovra
un popolo, come il romano, in un momento storico , in cui la grande opera, a
cui si intendeva, era la formazione della ' città . Quando si pensi tuttavia ,
che trattavasi di un popolo, il quale una volta ammesso un principio sapeva
trarne tutte le conseguenze di cui poteva essere capace, che possedeva una
mirabile potenza, che chiamerei di astrazione giuridica, la quale consiste
nell'isolare l'ele mento giuridico da tutti gli altri con cui trovasi
intrecciato , e che questo popolo fu costretto per secoli a misurare la propria
posizione politica, militare e tributaria attraverso il crogiuolo del censo ,
si pud in qualche modo giungere a comprendere il punto di vista rigido ed
esclusivo , a cui esso fu costretto di collocarsi e le con seguenze , che
possono esserne derivate nella elaborazione del suo diritto . Ciò spiega
intanto l'importanza immensa , che si diede per tutto il periodo dalla
repubblica alla istituzione del censo ; le cerimonie religiose, da cui esso era
preceduto ed accompagnato ; le cure, che pose nel medesimo lo stesso Servio ,
il quale, secondo la tradizione , ebbe a farlo per ben quattro volte; le pene
gravissime, cioè la vendita al di là del Tevere, da lui stabilite contro
coloro, 366 che non si fossero fatti iscrivere nel censo (incensi) ;
l'opportunità , che si senti più tardi di creare talvolta un dittatore per la
sola for mazione del censo , e di affidare poscia la formazione del censo ad
una speciale magistratura (censura), a cui potevano esservene delle altre
superiori in imperio , manessuna che fosse superiore in dignità . Ciò spiega
infine la singolare evoluzione, che venne ad avere in Roma il concetto del
censo, il quale negli inizii comincia dall'essere una valutazione, che potrebbe
chiamarsi puramente economica dei singoli capi di famiglia , e poi finisce per
cambiarsi in una specie di valutazione politica e morale di tutti i cittadini.
Cid infatti è comprovato dalla trasformazione, che accade nel censore, che isti
tuito dapprima per la materiale formazione del censo , reputata in degna delle
cure dei consoli, finisce per acquistare tale un potere, da eleggere senatori,
fare la ricognizione dei cavalieri, imprimere note di ignominia su chi venga
meno al pubblico o al privato co stume, prendere le persone da una classe per confinarle
in un altra, e trasportare a suo beneplacito tutta una classe di popola zione
dalle tribù rustiche alle urbane o viceversa , e ad essere cosi l'arbitro
sovrano della cooperazione effettiva , che i varii individui e le varie classi
recano al benessere delle città . 298. Infine è anche il censo , che serve di
base alla classificazione del populus nelle classi e nelle centurie. Non è già
, come alcuni credettero , che coloro, i quali non avevano un certo censo, non
fossero contati ed iscritti a questa o a quella tribù ; ina essi vi erano
iscritti solo nel capo (capite censi), oppure nella classe dei proletarii, la
quale secondo Aulo Gellio , « honestior aliquanto et re et nomine quam capite
censorum fuit » . Gli uni e gli altri non facevano di regola parte
dell'esercito , perché né la repubblica avrebbe avuto garanzia dell'interesse ,
che essi avevano a combattere per essa , nè essi avrebbero avuti i mezzi per
far fronte alle spese per il proprio equipaggio . Quelli invece, che giungevano
ad un certo censo appartenevano agli adsidui, per l'assiduità appunto a
compiere il loro ufficio civile e politico (munus), sia pagando le imposte (ab
asse dando), sia ubbidendo alla leva , sia per la sede fissa , ove po tevano
essere cercati e dove avevano i loro possessi (locupletes) ( 1). (1) Il
criterio , che servì a distinguere i varii ordini di persone indicati coi voca
boli di capite censi, proletarii, adsilui e locupletes, si può ricavare
sopratutto da Aulo GELLIO, XVI, 10. È pure lo stesso Gellio, il quale ci attesta
che la proprietà 367 I vocaboli di classi e di centurie , ed anche il luogo,
ove si riu nirono i comizii centuriati (Campo Marzio ), il modo di convocazione
di essi (per cornicinem ), e il vessillo rosso inalberato sul Gianicolo o in
arce durante le riunioni di questi comizii, rendono verosimile il concetto
stato svolto sopratutto dal Mommsen , che questa riparti zione siasi presentata
dapprima con un carattere principalmente militare. Cið poteva anche essere
opportuno per ovviare a quella opposizione del patriziato e degli auguri, che
aveva incontrato l'an tecessore di Servio ; e sembra anche corrispondere
all'intento , che si propone la comunanza serviana , che è quella di provvedere
so pratutto alla comune difesa . Egli è però certo, che se la costituzione per
classi e per centurie è negli inizii organizzata per guisa da presentare
l'aspetto di un esercito, essa è però in condizioni tali da cambiarsi
facilmente nell'assemblea di un popolo; perchè i suoi quadri possono essere
allargati in guisa da non comprendere solo un esercito , ma tutta la
popolazione di una città ( 1). 299. Ad ogni modo nel loro primo presentarsi le
classi e le centurie di Servio costituiscono un vero esercito , di cui venne ad
allargarsi la base , in quanto che nella sua composizione più non si ha
riguardo all'origine ed alla discendenza , ma unicamente al censo . Nelle sue
file possono essere compresi tutti i liberi abitanti del ter ritorio di Roma,
distribuito per quartieri o regioni, senza riguar tenuta in conto nel censo era
quella famigliare e privata, poichè egli parla di res, pecuniaque familiaris, e
dice che i proletarii si arrolavano nell'esercito solo in caso di necessità , e
che i capite censi vi furono solo arrolati da Mario nella guerra contro i
Cimbri o in quella contro 'Giugurta. Tutte queste distinzioni poi fondate sul
censo spiegano le espressioni di Livio, I, 42, che dice il censo « rem
saluberrimam tanto futuro imperio , e chiama Servio a conditorem omnis in
civitatem discriminis ordinumque, quibus inter gradus dignitatis fortunaeque
aliquid interlacet » . (1) Pur ammettendo col Mommsen, Hist. rom ., I, cap. VI,
e col Peluam , v° Rome, « Encych . Britann.., XX , pag. 731 che lo ha seguito,
che l'ordinamento per classi e centurie, tanto più se posto a raffronto con
quello delle curie, avesse un carattere eminentemente militare, non
parmituttavia, che anche nei suoi inizii si possa escludere affatto la sua
attitudine alle funzioni civili. Ciò ripugna al carattere delle istitu zioni
primitive, le quali di regola hanno del civile e del militare ad un tempo, ed
alla circostanza, che mal si saprebbe comprendere comemaiuna base, come quella
del censo, non dovesse servire ad altro, che ad indicare il modo con cui le
varie classi aves sero ad equipaggiarsi. Del resto questo carattere
esclusivamente militare mal potrebbe conciliarsi con ciò che scrive Livio, I,
42: «tum classes centuriasque, et hunc ordinem ex censu descripsit, vel paci
decorum , vel bello » . 368 dare se essi entrino o non nelle antiche divisioni,
e senza più tenere conto delle formalità e delle cerimonie religiose proprie
delle riunioni esclusivamente patrizie. La sua unità è la centuria , che
nominalmente dovrebbe comprendere cento uomini; le centurie poi vengono ad
essere aggruppate in classi, che sono in numero di cinque, e che alcuni
vorrebbero collocate nell'ordine stesso della falange. Le centurie, che vengono
prime, sono composte dei più ricchi cittadini, che possono procacciarsi un
completo equipaggio indispen sabile per coloro, che primi debbono sostenere
l'urto del nemico . Esse in numero di 80 costituiscono la prima classe . Dopo
vengono le centurie della seconda e terza classe , in numero di 20 per ogni
classe , le quali sono già meno completamente armate, ma costituiscono con
quelle della prima classe la fanteria pesante. Ultime vengono le centurie della
quarta e della quinta classe, di cui quella composta di 30 e questa di 20
centurie , reclutate fra i cittadini meno ab bienti, e che serviranno come
fanteria leggiera. L'intiero corpo degli uomini liberi è poi diviso in due
parti eguali, cioè in un numero eguale di centurie di seniores (da 47 ai 60
anni), che costituivano l'esercito di riserva, ed un uguale numero di centurie
di iuniores (dai 17 ai 46 anni) per il servizio attivo . Ciascuno di questi
corpi viene cosi ad essere composto di 85 centurie (8500 uomini) ossia di
due legioni di circa 4200 per ciascuna, che costituiva appunto la forza normale
della legione consolare durante la repubblica. In sieme colle legioni, ma non
inchiuse con esse, vi erano 2 centurie di fabbri e di legnaiuoli ( fabri,
tignuarii) e 2 di suonatori di tromba e di corno (tibicines et cornicines ),
circa le quali non vi è accordo quanto alle classi a cui erano assegnate . Per
quello poi che si riferisce al censo richiesto per ciascuna classe , il
medesimo ci pervenne calcolato in assi, ma è probabile che nelle origini
dovesse essere valutato in iugeri (1) . (1) È abbastanza noto, che il censo per
la prima classe era di 100 mila assi, per la seconda di 75 mila, per la terza di
50 mila, e per la quinta classe di 11,000 secondo Livio e di 12,500 secondo
Dionisio ; ma il difficile sta in determinare, se negli inizii la fortuna dei
cittadini non fosse piuttosto valutata in iugera , e in de terminare qual fosse
il valore dell'asse. Il MOMMSEN afferma come fuori di ogni dubbio , che
l'iscrizione alle varie classi era dapprima determinata dal possesso delle
terre , argomentando anche dalle denominazioni di adsidui e locupletes. Hist.
rom ., chap. VI. Di recente poi il Karlowa ha pur seguìta la stessa opinione e
ha rite nuto che il iugerum debba ritenersi rispondere a cinque mila assi,
cosicchè il patri monio della prima classe corrisponderebbe a 20 iugeri, quello
della seconda a 15 , 369 Intanto però in questa organizzazione militare del
populus con tinuano a tenere un posto distinto le centurie degli equites . Di
queste 6 ritengono ancora i vecchi nomi di Ramnenses, Titienses e Luceres primi
et secundi, e sono ancora composte esclusivamente di patrizii. Esse quindi
stanno a parte, son determinate dalla na scita , e costituiscono i sex
suffragia ; poichè è da esse che si trae a sorte la centuria principium ,
quella cioè, che sarà chiamata a votare per la prima nei comizii centuriati. Ad
esse poi furono ag giunte da Servio altre 12 centurie, le quali sono reclutate
dai più ricchi ordini di cittadini, sia patrizii che plebei (1 ). Da questi
brevi cenni appare che , pur ammettendo il carattere essenzialmente militare di
questa organizzazione, basterà però sop primere nella centuria il limite di
100, per togliere alla medesima tutta la sua rigidezza militare, e per fare
entrare nei suoi quadri tutta la popolazione della città ; trapasso , che non
offrirà gravi diffi coltà quando si consideri la facilità, che è propria delle
organizzazioni primitive di passare dalle funzioni militari alle civili, e il
nessun scrupolo , che si fecero i Romani di mantenere costantemente il vo
cabolo antico, facendo anche entrare in esso un contenuto diverso da quello ,
che sarebbe indicato dal medesimo. Queste sono le istituzioni fondamentali di
Servio ; ora importa di vedere lo svolgimento storico , che esse ebbero a
ricevere e la con seguente influenza che esercitarono sul diritto pubblico e
privato di Roma. quello della terza a 10, della quarta a 5 iugeri , e quello
della quinta a 2 iugeri incirca , ritenendo con Livio, che il censo della
medesima ammontasse a soli 11,000 assi. Röm . R.G., I, pag . 69-70 . Sono a
vedersi, quanto al valore dell'asse, il WILLEMS, op . cit., pag . 58 e segg.,
dove son riassunte le diverse opinioni al riguardo , e il Voigt, Die XII Tafeln
, I, pag. 16 a 23. (1) Quanto agli equites e ai loro rapporti coi primitivi
celeres, richiamo volentieri i due recenti lavori del BERTOLINI, I celeres e i7
tribunus celerum , Roma, 1888, e del TAMAssia, I Celeres, Bologna , 1888. - Par
ammettendo col primo che gli equites non siano che uno svolgimento dei
primitiviceleres (p. 31) e col secondo che i celeres possano anche essere un
ricordo di qualche istituzione, che occorre presso tutti i popoli di origine
Aria (p. 19), continuo però a ritenere, che nell'ordinamento simmetrico della
primitiva città patrizia vi fosse una rispondenza fra i celeres, che
costituivano la corte militare del Re primitivo e il senato, che ne costituiva
il consiglio, donde quella correlazione, che per qualche tempo si mantenne fra
gli aumenti nel senato e quello degli equites , e la distinzione così del
senato come degli equites in decuriae. V. sopra, nº 191, pag . 233 e 234 . G.
CARLE, Le origini del diritto di Roma. 24 - 370 - CAPITOLO II. Influenza della
costituzione Serviana sul diritto pubblico di Roma. 300. L'influenza della
costituzione Serviana sullo svolgimento, che ebbero le istituzioni politiche di
Roma, durante l'epoca repubbli cana, non può essere posta in dubbio , e non
mancano i lavori ché la posero in evidenza (1). Ne ebbero consapevolezza anche
i Romani, come lo provano le tradizioni, che attribuirono a Servio Tullio di
aver voluto abdicare per istituire due consoli annui, e che fanno ricorrere i
due primi consoli della repubblica ai commentarii di Servio Tullio, per
ricavarne le norme secondo cui dovevano adu narsi i comizii per centurie (2).
Le due tradizioni possono anche essere non vere : ma dimostrano ad ogni modo in
coloro, che le trovarono e le custodirono, la persuasione, che la costituzione
repubblicana metteva capo alle istituzioni serviane , e che, appena superato il
peri colo della tirannide, si dovette riprenderne lo svolgimento al punto
stesso , a cui era stato interrotto . Ad ogni modo se si tenga dietro alla
evoluzione storica , quale si rivela negli avvenimenti , si può affermare con
certezza , che le istituzioni politiche di Roma per tutto il periodo
repubblicano implicano uno svolgimento continuo e non mai interrotto dei
concetti informatori della costituzione patrizia , combinati perd e modificati
dalle istituzioni fondamentali della co stituzione serviana . 301. Fra queste
modificazioni è fondamentale e determina tutte le altre trasformazioni, che
derivarono dalla costituzione serviana, quella , in virtù della quale venne a
mutarsi nella sua stessa base il concetto del populus romanus quiritium .
Questa espressione (1) NIEBHUR , Histoire romaine, II, pag . 91 a 255; Huscke,
Die Verfassung der Königs Servius Tullius, Heidelberg, 1838; Maury, Des événements
qui portèrent Servius Tullius au trône. « Mém . de l'Acad. des Inscript. et
belles lettres » , année 1866, vol. 25, pag . 107 a 223: Herzog , Geschichte
und System der römischen Staats verfassung, Leipzig , 1884 , I, § 5 , pag. 37 a
48 ; KarlowA, Röm . Rechtsgeschichte, I, SS 11, 12 , 13, pag. 64 a 85. (2 )
Liv., Hist., I, 48; I, 60. È però a notarsi, che queste tradizioni non sono con
fermate da Dionisio. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag . 242. - 371 infatti,
che un tempo aveva indicato esclusivamente il popolo delle curie , venne
secondo il metodo romano ad essere trasportata al popolo delle classi e delle
centurie, come lo dimostrano la denomi nazione di quirites , che d'allora in
poi è applicata appunto a tutti i membri del popolo delle centurie, non che ai
testimonii ricavati dal medesimo per gli atti di carattere quiritario (classici
testes ), ed è anche adoperata nelle formole di convocazione dei comizii
centuriati, stateci conservate da Varrone (1). Quanto ai membri delle curie pri
mitive essi, in quanto entrano nelle classi e nelle centurie, sono anche
compresinel vocabolo generico di quirites, ma in quanto hanno delle proprie
assemblee, in quanto ritengono per sè le magistrature, gli onori, gli auspizii,
i sacerdozii, in quanto insomma formano ancora un nucleo separato del populus
romanus quiritium , prendono il nome di patres o di patricii, come già si è
veduto discorrendo della patrum au ctoritas, della lex curiata de imperio e
dell'interrex (2 ). Mentre quindi prima i termini non erano che due, quelli
cioè di populus e di plebes ; dopo Servio i termini vengono ad essere tre, cioè
quello di patres o patricii, che indicano i primitivi fondatori della città , i
ritentori degli auspicia e dell'imperium ; quello di plebes, che designa
l'elemento , stato di recente ammesso nella medesima ; e quello infine di
populus, che comprende l'uno e l'altro elemento, sopratutto in quanto entra a
far parte delle classi e delle cen turie (3 ). In questo senso vuolsi ammettere
col Mommsen , che uno dei significati di populus sia stato quello di leva
plebeo-patrizia ; ma certo non può dirsi, che questa sia stata la
significazione primi tiva del vocabolo ; poichè nulla vi è di ripugnante al
processo ro mano , che la stessa parola abbia indicato prima la riunione degli
(1) Le formole di convocazione delle classi, conservateci da VARRONE, De ling .
lat., VI, 86 a 95 , sono riportate dal Bruns, Fontes, pag. 383 e segg. I
classici testes sono poi ricordati da Festo, pº classici, come testimoni
adoperati nei testa menti; ma è probabile che questo nome si estendesse a tutti
i testimonii dell'atto per aes et libram , di cui il testamento non era che
un'applicazione, come si vedrà a suo tempo al cap. IV , § 4 di questo libro.
(2) V. sopra, lib . II, nº 198 , pag. 240 e seg. e le note relative . (3) È
questo appunto il concetto di populus, quale appare più tardi anche nei
grammatici e nei giureconsulti. Aulo Gellio infatti, Noct. Att., X , 20,
attribuisce al giureconsulto Ateio Capitone di aver distinto il popolo dalla
plebe, « quoniam « in populo omnis pars civitatis , omnesque eius ordines
contineantur: plebes vera, ea < dicitur, in qua gentes civium patriciae non
insunt » , il qual concetto poi ricompare in GaJo, Comm ., I, 3 e ancora nelle
stesse Institut. di GIUSTINIANO, I, 2 . 372 uomini validi ed armati della tribù
gentilizia, poi il populus confe derato della città patrizia , e da ultimo il
popolo patrizio - plebeo della città serviana ( 1) . Questo populus intanto
perde in gran parte quel carattere reli gioso e patriarcale del popolo delle
curie, e assume invece il ca rattere, che è proprio di coloro, che entrano a
costituirlo ; viene cioè ad essere un popolo di capi di famiglia e di
proprietarii di terre , che da una parte sono uomini di arme e dall'altra sono
de diti alla coltura delle terre, e i quali si considerano come isolati da
tutti quei rapporti gentilizii, in cui possono trovarsi vincolati. I quiriti
dell'epoca serviana vengono ad essere considerati come indivi dualità
indipendenti e sovrane; hanno l'asta come simbolo del pro prio diritto ;
ritengono come proprie le cose sopratutto che riescono a togliere al nemico, ed
il loro potere appare senza confine cosi rispetto alle persone, che alle cose ,
che da essi dipendono ; donde le caratteristiche peculiari del ius quiritium ,
che viene formandosi in questo periodo, come cercherò di dimostrare a suo tempo
(2). 302. Modificato così il concetto del populus, cioè l'elemento es senziale
della costituzione primitiva, da cui escono tutti gli altri, era naturale , che
anche questi dovessero lentamente e gradatamente trasformarsi in correlazione
col medesimo. E così accade appunto del senato , il quale accompagnando lo
svolgimento lento e graduato della costituzione romana, comincia ad accogliere
fin dagli inizii della repubblica i principali dell'ordine equestre , i quali
per tal modo vengono ad essere conscripti coi patres , donde la formola patres
et conscripti , finchè più tardi esso viene a ricevere tutto l'elemento , che
siasi reso benemerito della repubblica, sostenendone degnamente le magistrature
e gli uffizii, o che abbia così quell'età e quell'esperienza, che valgono ad
assicurare la repubblica della au torità del suo consiglio (3 ). Cosi invece
non accadde del magistrato , poichè questo continud (1 ) MOMMSEN, Rötnische
Forschungen , I, pag . 168. (2 ) V. il cap. seg. in cui si discorre
dell'influenza della costituzione serviana sul diritto privato. (3 ) Le
trasformazioni introdotte nella composizione del Senato in base alla les Ovinia
che deferì ai censori la senatus lectio sono brevemente riassunte dal Lan
DUCCI, nel suo scritto sui Senatori Pedarië, Padova 1888, pagg. 7-8 , colle
note re lative. - 373 ancora per qualche tempo ad essere ricavato
esclusivamente dalla classe dei patrizii; donde la conseguenza, che è
sopratutto contro l'imperio dei consoli, che spiegansi le prime sedizioni della
plebe, le quali più non si arrestano fino a che la plebe non abbia ottenuta ,
anche nelle magistrature e nei sacerdozii, quella parte, che già aveva
conseguita negli altri aspetti della costituzione politica. Cið era na turale,
perchè non vi sarebbe stata coerenza in un organismo, in cui il popolo e il
senato già potevano essere tolti dai due ordini, che concorrevano a formarlo ;
mentre il magistrato poteva essere scelto in un ordine soltanto e quindi veniva
ad apparire piuttosto come un custode dei privilegii del patriziato, che come
un rappresentante imparziale del popolo . Di qui la conseguenza , che anche le
lotte, che vennero ad esservi fra patriziato e plebe, possono in gran parte
ritenersi determinate dalla costituzione serviana, come meglio sarà dimostrato
a suo tempo (1 ). 303. Mentre si avverano queste modificazioni negli organi
essen ziali della costituzione politica , e quindi si trasformano a poco a poco
le loro principali funzioni, che, come si è veduto , consistono nella
formazione delle leggi, nella elezione del magistrato e nella amministrazione
della giustizia , tutte le istituzioni serviane, che negli inizii erano
soltanto abbozzate, vengono prendendo tutto quello svol gimento , di cui
potevano essere capaci. Cid appare quanto al censo, il quale , come già si è
accennato, incomincia dal presentarsi come una valutazione economica dei cit
tadini, e poi cambiasi a poco a poco in una valutazione politica e morale dei
medesimi. Il punto di partenza viene ad essere quello di dare a ciascun
cittadino una parte di diritti e di obblighi, che sia proporzionata al suo
censo , mentre lo svolgimento posteriore conduce a dare ai singoli individui e
ai varii elementi del popolo una parte, che vorrebbe essere proporzionata alla
cooperazione, che essi recano al pubblico bene. Abbiamo quindi i magistrati
uscenti di ufficio, che somministrano il contingente per la formazione del
senato e poscia dell'ordo senatorius ; abbiamo gli equites , che perdono il
carat tere essenzialmente militare, che avevano nelle proprie origini, e
finiscono per formare un ordine distinto di cittadini, che chiamasi ordo
equestris , e costituiscono una specie di aristocrazia del censo , ( 1) V. il
cap . IV del presente libro, in cui si tratta appunto delle lotte fra il
patriziato e la plebe. 374 da cui esce poi la nuova nobiltà , la quale, dopo
aver lottato coll'an tica , finisce per confondersi con essa (1). Di qui la
conseguenza, che col tempo quel populus, che erasi formato, mediante la
riunione del patriziato e della plebe, finirà un'altra volta per subire un
nuovo dualismo, che è quello del partito popolare e del partito degli otti
mati. Queste però sono conseguenze remote dell'ordinamento ser viaño, fondato
sul censo, mentre è assai più facile tener dietro alle trasformazioni, che
subirono le centurie e le tribù introdotte col medesimo. 304. Le centurie
infatti, allorchè perdettero il loro carattere es senzialmente militare,
finirono per cambiarsi in altrettanti quadri, in cui potè essere compreso tutto
il popolo romano, che avesse rag . giunto certi limiti nel censo , il quale,
fissato dapprima in iugeri di terra, sembra essersi più tardi calcolato in una
somma di denaro. Si formarono così quei comisii centuriati, che ebbero tanta
impor tanza sopratutto nei primi secoli della repubblica, e che furono per
certo una delle assemblee meglio organizzate , che offra la storia politica dei
popoli civili. È tuttavia notabile, che anche in questa parte si conserva sempre
mai l'antico modello, per guisa che i con cetti informatori dell'assemblea
delle centurie sembrano essere tolti e trasportati da quella più antica delle
curie . Anch'essi quindideb bono essere preceduti da cerimonie religiose, ed il
magistrato , che li convoca in giorni prestabiliti (dies comitiales), essendo
investito degli auspicia , debbe prima investigare se gli dei si dimostrino fa
vorevoli alle deliberazioni, che debbono essere prese dai comizii. Anche la
precedenza nella votazione deve seguire l'antico costume, e quindi precedono le
sei centurie di cavalieri, le uniche cioè che rappresentino ancora il
patriziato primitivo, fondatore della città ; quindi è fra esse, che chiamansi
i sex suffragia , che viene tratta a sorte quella che dovrà essere la centuria
principium , il cui voto continua ad essere considerato come un augurio (omen).
Dopo aver così attribuita la debita parte alla nascita e ai primi fondatori
della città , viene il riguardo all'età , in quanto che i seniores (dai 47 ai
60 anni) hanno in ogni classe un numero di centurie eguale a quello dei
iuniores (dai 17 ai 46 ), malgrado il numero certo maggiore di questi ultimi, e
le loro centurie negli inizii erano probabilmente le (1) Queste trasformazioni
sono accuratamente seguìte dal Madvig, L'État romain , trad. Morel, Paris 1882
, tome 1er, pag . 135 e segg. 375 prime chiamate a dare il proprio voto . Viene
poscia la considera zione del censo , in quanto che le centurie, che votano per
le prime sono, dopo le diciotto centurie degli equites, quelle della prima
classe e queste sono in numero tale, che se siano concordi, possono da sole
avere la maggioranza , senza che più occorra di passare alla chia mata delle
altre classi (1). Intanto perd nel seno di ogni centuria ogni individuo ha il proprio
voto, e tutti contano egualmente ; ma, come già accadeva nelle assemblee
curiate , l'esito definitivo dipende dalla maggioranza delle centurie . Qui
parimenti si presentano le distinzioni fra comitia e contiones ; come pure
dovette introdursi eziandio la distinzione fra comizii propriamente detti e i
comizii calati, in cui si compievano pei quiriti i testamenti e le arroga
sioni, ma questi non sembrano essere durati lungamente , perchè erano una
semplice imitazione dell'antico , senza che avessero lo scopo dei comizii
calati delle curie, che era quello di mantenere salda ed integra anche nella
città la primitiva organizzazione delle genti patrizie (2). Così pure sopra i
nuovi comizii, i padri, antichi fondatori della città , continuano ad
esercitare una specie di prote zione e di tutela, sotto il nome di patrum
auctoritas, dalla quale i comizii centuriati riescono ad emanciparsi soltanto
molto più tardi (3 ). 305. Nella realtà però questa imitazione dell'antico non
impe disce che tutte le principali funzioni vengano a concentrarsi nei co mizii
centuriati. Sono essi infatti che votano le leggi fondamentali dello stato ,
come le leggi Valerie-Orazie , la legislazione decemvirale, le leggi Licinie
Sestie, e da ultimo la legge Ortensia ; sono essi parimenti, che nominano i
magistrati maggiori, come i consoli, i pretori, i censori, quei magistrati
insomma, il cui potere può essere considerato come una suddivisione di
quell'imperium , che trovavasi un tempo con centrato nel re. Da ultimo fu
davanti alle centurie, che dovette essere interposta quella provocatio ad
populum , che un tempo pro ponevasi dinanzi al popolo delle curie ; il che
spiega comeun ma (1) Sono queste gradazioni e distinzioni che fecero dire a
CICERONE , De leg., III, 19 , 44 : < descriptus enim populus censu ,
ordinibus, aetatibus plus adhibet ad suf « fragium consilii, quam populus fuse
in tribus convocatus » ; concetto che ripete con altre parole nel De rep., II,
22 . (2) L'esistenza di comizii calati, proprii delle centurie , è attestata espressamente
da Aulo Gellio, XV, 27, 1. ( 3) V. quanto alla patrum auctoritas ciò che si è
detto al nº 198, pag. 240 e segg. 376 gistrato annuo, come il console, abbia
finito per rinunziare a poco a poco a pronunziare condanne, da cui poteva
esservi appellazione al popolo , il quale venne cosi ad essere direttamente
investito della giurisdizione criminale ( 1) . Intanto si comprende eziandio
come la lotta fra i due ordini, finchè non furono ancora del tutto pareggiati,
abbia dovuto concentrarsi so pratutto nei comizii centuriati, e come quindi il
patriziato per assi curarsi una prevalenza nel seno delle centurie, abbia
dovuto dividere i proprii agri gentilizii fra i clienti, acciò i medesimi
potessero essere collocati nelle classi e possibilmente nella prima di esse, la
quale aveva una prevalenza sopra tutte le altre. Per talmodo la
disorganizzazione delle genti, che erasi già iniziata colla costituzione di
Servio , con tinud necessariamente collo svolgersi delle istituzioni da lui
intro dotte ; poichè quei clienti , che sotto l'impressione immediata del
benefizio ricevuto stavano ancora agli ordini dell'antico patrono, se ne
emanciparono ben presto , allorchè il censo loro assicurò una indipendenza ,
mediante cui poterono talvolta aggregarsi alla stessa plebe. Conviene tuttavia
riconoscere, che la plebe negli inizii del l'organizzazione per centurie male
poteva riuscire nella lotta contro un patriziato reso forte e numeroso mediante
l'appoggio dei proprii clienti. Di qui la conseguenza, che la plebe resa impotente
alla lotta nei comizii per centurie, dovette appigliarsi a riunioni che non
avessero più la loro base nel censo , ma bensì nel luogo di residenza e nel
numero. A tal uopo la plebe, guidata ed organizzata dai proprii tribuni, seppe
trarre profitto di un'altra istituzione ser viana , che è quella della tribù
locale, ricavando da essa uno svolgi mento , che probabilmente non doveva
essere nella intenzione di quegli, che l'aveva istituita . 306. La tribù nella
costituzione serviana non era che una ripar tizione locale , fatta in uno scopo
essenzialmente amministrativo, cioè per fare il censo , per fare la leva
militare e per ripartire i tributi. Essa però aveva il vantaggio su tutte le
altre ripartizioni, che mentre le curie non comprendevano dapprima che i patrizii,
e le centurie e le classi non accoglievano che i locupletes od adsidui, le
tribù invece comprendevano anche i proletari, i capite censi, gli aerarii ;
quindi in essa esisteva un germeessenzialmente democratico, (1) Cfr. ciò che si
è detto più sopra intorno alla provocatio ad populum nel pe riodo regio, n °
245 e 246 , pag. 299 e segg. 377 che non poteva mancare di svolgersi col tempo.
Era infatti naturale, che i tribuni della plebe, per radunare la medesima, non
potessero indirizzarle il proprio appello, che per tribù (tributim ), e che
quindi si facessero già in questa guisa quelle prime riunioni, che appellavansi
concilia plebis. Intanto le tribù, che avevano dapprima un carattere
essenzialmente locale e comprendevano realmente le persone, che dimoravano in
quel determinato quartiere, si cambiarono in effetto in altrettanti quadri, in
cui poterono essere compresi tutti i cittadini romani, senza tener conto del
sito effettivo , in cuiavessero la propria residenza. Si avverò anche in questo
, ciò che è accaduto in molte altre istituzioni di Roma, che cominciano
dall'avere una base reale nei fatti, ma col tempo si cambiano in concezioni
teoriche ed astratte, e in forme tipiche, in cui può farsi entrare un
contenuto, che nella realtà loro non potrebbe appartenere . Per tal guisa la
ripartizione delle tribù diventò la più comprensiva di tutte; cesso quasi di
essere locale per diventare personale ; la indicazione della tribù entrò a far
parte della denominazione stessa del cittadino romano, e fu in tal modo, che
essa potè riuscire di base alla più democratica delle riunioni, che siasi
conosciuta in Roma, che fu quella appunto dei comizii tributi. Questi non hanno
più il carattere militare dei co mizii centuriati, ma hanno un'impronta
essenzialmente cittadinesca ; si tengono perciò nel foro e nei primitempi si
riuniscono nei giorni di mercato, in cui la plebe del contado ha occasione di
convenire nella città (1 ). 307. Tuttavia anche i comizii per tribù, allorchè
entrarono nei quadri regolari della costituzione politica , finirono per
modellarsi sulle assemblee precedenti. Essi infatti , quando sono giunti al
pieno loro sviluppo, sono anche preceduti dagli auspizii, quando siano
convocati da un magistrato , a cui questi appartengano, e sono convocati
solennemente dal medesimo, per mezzo degli araldi, in giorni, che non saranno
più chiamati comitiales, ma che debbono però essere nel novero dei dies fasti.
È analoga parimenti la pro cedura per la votazione, salvo che il voto si dà per
tribù, la prima delle quali viene ad essere tratta a sorte, e prende anche il
(1) È degno di nota a questo proposito il {passo diMACROBIO, Saturnales , I,
16, $ 34, in cui, riferendosi ad uno scritto del giureconsulto P. Rutilio Rufo
, parla dei giorni dimercato, in cui « rustici, intermisso rure, ad mercatum
legesque accipiendas Romam venirent » . Husche, Jurisp . antijustin ., pag. 11.
378 nome di tribus principium . Nel seno poi di ogni tribù il voto è dato
viritim , e l'esito definitivo viene ad essere determinato dalla maggioranza
delle tribù . Questi comizii hanno però il vantaggio della più facile
convocazione , in quanto che possono essere convocati da magistrati patrizii e
da magistrati plebei, come i tribuni, al modo stesso che i provvedimenti, che
essi prendono, possono essere o vere leggi o semplici plebisciti , secondo
l'autorità che li propone (1) ; il che spiega come i comizii tributi si siano
gradatamente cambiati nell'organo legislativo più operoso nell'ultimo periodo
della repub blica . Mentre essi infatti richiamano a sè la sola elezione dei
magi strati minori, e la giurisdizione per i reati punibili con sole pene (1)
Per lo svolgimento pressochè parallelo dei comizii centuriati e dei comizii tri
buti mi rimetto a ciò che ho scritto più sopra al n ° 224 , pag. 273 e segg. e
per il pareggiamento che venne facendosi fra le leggi ed i plebisciti ai numeri
231, 232 e 233, pag. 281 e seg . Solo mi limito ad aggiungere che negli ultimi
tempi dagli stessi comizii tributi potevano emanare vere leggi, allorchè erano
convocati da veri magistrati, come consoli e pretori, oppure plebisciti ,
allorchè erano convocati da tri buni della plebe. Trovo una prova di ciò
paragonando le intestazioni di due leggi riportate dal Bruns. L'una è la lex
agraria del 643 dalla fondazione di Roma, la cui intestazione è così concepita
: « tribuni plebei plebem ioure rogarunt, plebesque ioure scivit » , sebbene in
tale occasione abbiano preso parte alla votazione anche i patrizii come lo
dimostra il fatto, che ivi si aggiunge : « Tribus principium fuit , pro tribu
Q. Fabius, Q. filius, primus scivit » , il quale Fabio dovette probabilmente
essere un patrizio della gens Fabia (Bruns, Fontes, pag., 72). L'altra legge
invece è la les Quinctia, de aqueductibus, dell'anno 745 di Roma, che è così
intestata : « T. Quinctius Crispinus populum iure rogavit, populusque iure
scivit, in foro pro rostris Aedis divi Iulii pridie K. Iulias. Tribus Sergia
principium fuit ; pro tribut Sex ... L. F. Virro primus scivit » . Bruns,
Fontes, pag. 112. — Diqui infatti appare ad evidenza, che quando la
convocazione parte dal tribuno della plebe parlasi di plebes e di plebiscitum ,
ancorchè la riunione comprenda anche i patrizii : mentre quando trat tasi di
convocazione fatta dal console esso chiama ai comizii tributi il populus e il
provvedimento emanato viene così ad essere un populiscitum , ossia una lex nel
senso primitivo dato a questo vocabolo. La cosa è pur confermata da quella
parte, che ci pervenne della intestazione alla lex Antonia, de Tarmessibus,
dell'anno 683 di Roma, in cui la riunione dei comizii tributi, essendo
provocata dai tribuni della plebe, ancorchè in base ad un parere dato dal
senato (de senatus sententia) parlasi perciò di convocazione della plebes e
quindi di plebiscitum (Bruns, Fontes, p. 91). In questo periodo quindi tanto le
leges quanto i plebiscita emanano da comizii tributi e la loro differenza
deriva dall'essere l'iniziativa presa da un vero magistrato (console, pretore)
che convoca il popolo, o da un tribuno della plebe, che convoca invece la plebe,
sebbene anche in queste ultime riunioni intervengano anche i patrizii. Viene
così ad essere vero ciò che dice Pomponio , che « inter plebiscita et leges
species constituendi interesset, potestas autem eadem esset » . L. 2, 8 , Dig .
1, 21. pecuniarie, finiscono invece per assorbire tutto il potere legislativo .
È a notarsi tuttavia , che mentre la legislazione dei comizii centu riati aveva
avuto un carattere specialmente politico e costituzionale, perchè è con essa
che si vennero pareggiando gli ordini, quella in vece , che usci dai comizii
tributi, ha un carattere eminentemente sociale, e in parte già si riferisce ad
argomenti di diritto privato (1). 308. Si può quindi conchiudere, che la
costituzione serviana per vade le istituzioni politiche di Roma per tutto il
periodo repubblicano. I concetti della medesima cominciano dall'avere una base
nella realtà , ma finiscono per cambiarsi in altrettante costruzioni logiche, a
cui si dà tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. In questa guisa il
censo di economico divien morale , le centurie di militari si con vertono in
politiche, le tribù di ripartizioni locali mutansi in quadri, in cui tutta la
cittadinanza può essere compresa , per quanto la me desima dimori eziandio
fuori della città . Per tal modo la costitu zione di Servio Tullio , al pari
delle mura che ne portano il nome, poté bastare a tutti gli incrementi e a
tutte le trasformazioni, che Roma ebbe a subire per parecchi secoli, e per
tutto quel tempo, in cui essa tenne ancora in pregio le antiche virtù ed
istituzioni. Vero è , che le forme esteriori sembrano sempre essere foggiate su
quelle, che erano prima adoperate ; ma conviene dire che « spiritus intus alit
» , e che questo nuovo alito spira per modo entro le forme an tiche, da far
loro capire un contenuto ben diverso dal primitivo, e da spezzarle anche,
quando siano diventate disadatte, nel qual caso però se ne foggiano delle
nuove, ma sempre sul modello delle an tiche. Questo è il magistero, che Roma
seguì costantemente nello svol gimento delle proprie istituzioni politiche. Un
analogo processo ap pare anche più evidente nella elaborazione più lenta e
graduata , che ebbe a ricevere il diritto privato di Roma , sovra il quale la
costituzione serviana ha certamente esercitata una influenza di gran lunga
maggiore di quella che soglia essergli attribuita, come spero di poter
dimostrare nel seguente capitolo. ( 1) Quanto alla legislazione comiziale e ai
caratteridella medesima, cfr. FERRINI, Storia delle fonti del diritto romano,
Milano, 1885, pag. 9-16 . 380 CAPITOLO III. La costituzione serviana e la sua
influenza sull'elaborazione del ius Quiritium . 309. Se fu agevole il mettere
in rilievo gli effetti della costitu zione serviana sul diritto pubblico di
Roma, non può dirsi altrettanto della influenza tacita , ma non meno importante
, che essa esercito sulla elaborazione del diritto privato . A questo proposito
poco o nulla ci dicono gli storici, come quelli che naturalmente si arrestarono
alle mutazioni più appariscenti, che si erano avverate nelle istituzioni
politiche. Solo Dionisio si limita a dire di Servio , che egli pubblico ben
cinquanta leggi sui delitti e sui contratti ; che egli distinse i giudizii
pubblici dai privati ; e che prese anche dei provvedimenti a favore dei
debitori, senza però ricordare il contenuto preciso dei medesimi (1). La
probabilità ed anche la necessità di una legislazione all'epoca serviana non
può certo essere negata, non potendo essersi avverata una trasformazione cosi
profonda nell'organizzazione civile e politica, senza che si riflettesse
eziandio nel diritto privato . Tut tavia è certo , che le mutazioni nel diritto
privato non dovettero tanto operarsi per mezzo di leggi, quanto piuttosto
mediante quella tacita elaborazione di un diritto comune alle due classi, che era
la naturale conseguenza dei nuovi rapporti , in cui esse venivano a trovarsi. È
quindi negli scritti dei giureconsulti, che si devono cer care le reliquie
delle istituzioni scomparse, e in essi sono sopratutto a cercarsi quelle
distinzioni, quei concetti, quegli atti simbolici, che sopravvissero ancora in
epoche, in cui più non se ne comprendeva il significato , e che possono in
qualche modo rannodarsi al concetto informatore della costituzione serviana.
Sono le hastae, le vindictae, i procedimenti simbolici, gli atti per aes et
libram , i concetti primi tivi del caput, della manus, del mancipium , la
distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, tutti quei concetti
insomma, (1) Dron., IV, 10, 13, 25. Quanto ai debitori Dionisio, IV , 9 , 11, attribuisce
a Servio di aver perfino pagato del proprio i creditori, e di aver voluto che i
beni e non la persona del debitore fossero vincolati al creditore; ma ciò forse
non è che un effetto di quella tendenza , che fa riportare a Servio tutti i
provvedimenti, che potevano apparire favorevoli alla classe servile ed alla
plebe. 381 di cui ignorasi la vera origine e che sono sopravvivenze di un'e
poca anteriore, che possono servire come materiali per la ricostru zione del
primitivo diritto . Gli è soltanto col ricomporre insieme tutti questi rottami,
che spargono talvolta dei vivi sprazzi di luce , quando siansi collocati nel
sito , ove debbono trovarsi, e coll'avere presente il carattere del popolo , le
sue istituzioni politiche , il suo metodo di serbare i vocaboli , cambiandone
anche il contenuto , ed il criterio informatore della riforma serviana, che si
pud riuscire a ricostituire il diritto privato, che dovette iniziarsi in questo
periodo, se non nei particolari minuti, almeno nelle sue linee generali e nella
logica fondamentale, da cui dovette essere percorso . 310. Fu questo paziente
lavoro di ricomposizione, che mi mette in condizione di porre innanzi a questo
proposito una congettura , la quale a prima giunta potrà apparire ardita, ma
che risulterà sempre meglio comprovata, a misura che , procedendo innanzi,
tutte le reli quie, che ci pervennero, dell'antico diritto , finiranno per
prendere senza sforzo quel posto, che loro compete, e ci porgeranno cosi una
spiegazione naturale, logica e verosimile dei caratteri primitivi del medesimo.
La congettura sta nell'affermare, che almodo stesso che con Servio Tullio si
posero le basi della Roma storica, e si formd quel populus romanus quiritium ,
che riempi poi la storia del racconto delle proprie gesta, così fu eziandio da
quel punto, che dovette iniziarsi la vera e propria elaborazione di quel ius
quiritium , che fu ilnucleo primitivo di tutto il diritto privato di Roma, e
che quest'ultimo, malgrado il posteriore suo svolgimento , non perdette più mai
quella speciale impronta, che ebbe ad assumere sotto l'influenza della costi
tuzione serviana . Non si vuole già dire con ciò, che prima non vi fossero i
quirites ed un ius quiritium ; ma quelli non comprendevano che i membri delle
curie, e questo indicava il complesso delle istituzioni di carattere gen
tilizio , che erano proprie del popolo delle curie , e che perciò avevano
ancora un carattere pressochè feudale e patriarcale (1). Con Servio (1) Cid
parmi abbastanza dimostrato dall'analisi, che ho fatta della legislazione
attribuita ai Re nel periodo della città esclusivamente patrizia, dalla quale
risulta che la famiglia , la proprietà , il delitto e le pede continuavano
ancora in parte a conservare quei caratteri, che avevano nel periodo
gentilizio. V. sopra lib. II, cap. IV, 88 5 e 6, pag . 329 e segg. 382 Tullio
invece incomincia l'elaborazione di un diritto comune ai due ordini, e siccome
i medesimi, riuniti nelle classi e nelle centurie , prendono il nome di
quirites , così incomincia la formazione di un vero e proprio ius quiritium ,
in cui i vocaboli e le forme proprie del diritto formatosi nei rapporti fra le
genti patrizie e la popo lazione di condizione inferiore , da cui esse erano
circondate , ven gono a ricevere una nuova significazione, e ad essere applicati
ai rapporti , che erano l'effetto della nuova condizione di cose . Si
conservano pertanto ancora i vocaboli di manus per indicare nel loro complesso
i poteri, che appartengono al quirite, quale capo di famiglia e come
proprietario di terre ; quello di nexum per indicare l'obbligazione di
carattere quiritario ; quello di mancipium per in dicare il complesso delle
cose e delle persone, che dipendono dal quirite: ma intanto questi vocaboli ,
che dapprima designavano il diritto proprio della classe superiore di fronte
alle popolazioni vas salle, da cui era circondata , vengono a significare i
concetti pri mordiali del vero ius quiritium , comune alle due classi, e si
mutano in altrettante concezioni logiche ed astratte, in cui può farsi entrare
un nuovo contenuto. A quel modo insomma che colla formazione della città
patrizia quei concetti di connubium , di commercium e di actio , che prima si
erano spiegati nei rapporti fra le varie genti, vennero invece a governare dei
rapporti fra quiriti, e cambiandosi così in concetti quiritarii furono il punto
di partenza di altret tante istituzioni proprie dei quiriti (ex iure quiritium
) (1) ; così quel ius nexi mancipiique, che prima governava i rapporti fra i
padri della gente patrizia e la plebe circostante, per l'accoglimento di
quest'ultima nel populus romanus quiritium , venne a cam biarsi eziandio in una
istituzione di carattere quiritario . Fu in questa guisa, che accanto a quella
parte del diritto quiritario, che si ispira ad un'assoluta uguaglianza fra i capi
di famiglia, fra i quali intercede, se ne presenta un'altra , che tradisce
l'inferiorità di con dizione di una delle classi, che entró a costituire il
populus, alla qual parte appartengono appunto i concetti del nexum , del manci
pium , della manus iniectio (2). 311. Si aggiunge che il contenuto di questi
concetti viene anche (1) Questo è ciò che ho cercato di dimostrare più sopra al
nº 266, p. 326 e segg . (2 ) Cfr. a questo proposito ciò , che si è detto
intorno alla condizione giuridica della plebe, anteriormente alla sua
ammessione nella città, al n ° 287, pag. 351 e seg. 383 a risentirsi delle
circostanze sociali , in cui essi vennero a consolidarsi. Siccome quindi il
concetto ispiratore di tutta la riforma ser viana consisteva nel censo, quale
misura e stregua dei diritti, che appartengono ai quiriti, cosi il censo venne
in certo modo ad essere un crogiuolo , che servi ad isolare l'elemento
giuridico e politico di questi varii istituti dagli elementi di carattere
diverso con cui trovasi confuso . Il diritto perdette cosi alquanto del suo
carat tere religioso e venne invece ad esseremodellato in modo rozzo o
sintetico sul concetto del mio e del tuo ; esso inoltre assunse un'im pronta di
rigidezza pressochè militare , quale poteva convenire ad un popolo , che
presentavasi nell'atteggiamento di un esercito, i cui membri riguardavano
l'asta come simbolo del proprio diritto , e « ma xime sua esse credebant, quae
ab hostibus caepissent » . Il censo viene in certo modo a misurare il
contributo , che ciascuno reca in questa specie di società , e quindi, mentre
esso è la stregua per giudicare dell'interesse, che ciascuno ha nella medesima,
serve anche per determinare la parte, per cui ciascuno deve contribuire alla co
mune difesa. Il popolo romano venne così a compiere collettivamente quel
lavoro, che dovrebbe fare anche oggi il giureconsulto per con siderare le
persone sotto il punto di vista esclusivamente giuridico , facendo astrazione
da tutti gli altri aspetti, sotto cui esse potreb bero essere considerate . Per
tal modo il quirite , come tale, non è più nè patrizio nè plebeo , ma viene ad
essere isolato da tutti i suoi rapporti gentilizii ; si considera come un caput
; conta come uno nel censo , e compare nel medesimo, in quanto unifica in sè le
per sone e le cose, che da esso dipendono . Di qui l'immedesimarsi dei diritti
di famiglia e di proprietà , che è il carattere più saliente del primitivo ius
quiritium , e la significazione comprensiva e sintetica dei vocaboli in esso
adoperati, che lo indicano ad un tempo come capo di famiglia e quale
proprietario di terre, ed hanno in certo modo l'apparenza di altrettante
rubriche , che esprimono disgiuntamente i varii atteggiamenti sotto cui il
quirite può essere considerato (1). ( 1) Ritengo che questo sia il solo modo
per spiegare in modo plausibile quel ca rattere peculiare al diritto primitivo
di Roma, per cui persone e cose, proprietà e famiglia sembrano confondersi ed
immedesimarsi insieme. Non è sostenibile infatti, che i Romani a quest'epoca
confondessero il diritto del marito sulla moglie e del padre sui figli con
quello del proprietario sopra una cosa ; ma siccome persone e cose figuravano
nel censo, come dipendenti dal medesimo caput, così esse al punto di vista
giuridico comparvero dapprima come se entrassero a far parte del medesimo
mancipium o della stessa familia . 384 - 312. Sarebbe naturalmente difficile
trovare un autore, che accenni a questa tacita elaborazione , ma la medesima
risulta da diverse circostanze , le quali insieme riunite provano che tale ha
dovuto essere il processo logico, che domino la formazione del ius quiri tium
all'epoca serviana. Così, ad esempio, noi sappiamo dal Momm sen , che una delle
significazioni più certe dell'espressione « populus romanus quiritium » è stata
quella di indicare la « leva patrizio plebea » , leva che ha cominciato appunto
ad effettuarsi in quest'e poca (1). Noi sappiamo parimenti, che da quest'epoca
cominciarono ad essere lasciate in disparte le espressioni di iura gentium , di
iura gentilitatis, di ius gentilicium , che dovevano essere ancora frequenti
durante l'epoca patrizia, e che presero invece il sopravvento le espressioni di
ius quiritium , e di potestà spettante al cittadino ro mano ex iure quiritium .
Cosi pure non vi ha dubbio , che le altre forme di proprietà non vengono più
tenute in calcolo, ma si tien conto invece del solo mancipium , che vedremo a
suo tempo essere stata il primo nucleo della proprietà ex iure quiritium ,
quello cioè che doveva essere valutata nel censo per commisurarvi la posizione
del cittadino (2). Intanto la espressione di quirites entra nell'uso co mune :
come serve per le formole di convocazione delle classi e delle centurie, così
serve per indicare i testimonii, che si adoperano negli atti di carattere
quiritario (classici testes). È da questo punto pa rimenti, che l'asta viene ad
essere l'emblema del diritto quiritario , che il populus assunse un carattere
essenzialmente militare, nè può ritenersi inverosimile la congettura, che a
quest'epoca rimonti il centumvirale iudicium , tribunale essenzialmente
quiritario, la cui competenza era appunto indicata dall'asta , che si infiggeva
davanti al medesimo ( 3). Infine fu certamente una conseguenza di questo (1)
MOMMSEN, Röm . Forschungen , I, pag. 168. (2) Quanto allo svolgimento del
concetto di mancipium , e alla conseguente distin zione delle res mancipii e
nec mancipii mi rimetto al seguente lib. IV , cap. II, S $ 1°, 4º, 5º. (3)
L'origine del centumvirale iudicium è una delle questioni più controverse nella
storia del diritto primitivo di Roma, nè io pretendo qui di risolverla . Per
ora mi limito a notare, che per me ha molta significazione quel passo di Gajo :
« festuca « autem utebantur quasi hastae loco, signo quodam iusti dominii ,
quod maxime sua « esse credebant, quae ab hostibus caepissent ; unde in
centumviralibus iudiciüs hasta « praeponitur » . Parmi infatti di scorgervi un
nesso, se non storico , almeno logico, fra l'epoca in cui il quirite appare
come un uomo di guerra, armato di asta,disposto a chiamar suo ciò , che conquisterà
sul nemico, e l'istituzione del centumvirale iudi 385 speciale punto di vista ,
sotto cui i quiriti vennero ad essere con siderati, che fra i diversi negozii
giuridici, che potevano essere in uso , venne facendosi la scelta di quelli,
che si riferissero direttamente al diritto quiritario . Di qui le espressioni
di legis actiones, di actus legitimi, di iudicia imperio continentia , di
negozii , che si com pievano secundum legem publicam , espressioni tutte , che
noi tro viamo anche più tardi, ma la cui origine dovette rimontare a quel
momento storico , in cui il diritto quiritario cominciò a consolidarsi, come
diritto comune al patriziato ed alla plebe. Che anzi fu anche in
quest'occasione, che dovette modellarsi quell'atto quiritario per eccellenza,
che è l'atto per aes et libram , il quale serve in certo modo per attribuire
autenticità a tutti gli atti, che possono modifi care in qualche modo la
posizione giuridica del cittadino nella comunanza quiritaria . 313. Per verità
basta porre l'istituzione del censo, come base di partecipazione alla vita
giuridica, e politica e militare di una comu nanza, per comprendere come per
l'attuazione di un tale concetto fosse indispensabile : lº di determinare quali
fossero le persone, che dovevano contare nel censo (caput); 2° di isolare la
parte del pa trimonio , che è tenuta in calcolo nel censo (mancipium ) da tutte
le altre (nec mancipium ) ; 3º di determinare le forme pubbliche cium . Ora se
vi ha epoca in cui il quirite assuma decisamente questo carattere di uomo di
guerra , questa è certamente l'epoca serviana ; e quindi è a quest'epoca che
deve rimontare il concetto informatore dell'hasta , della festuca, dell'actio
sacra mento, in cui questa si adopera, e del centumvirale iudicium , che deve
essere appunto preceduto dall'actio sacramento, e avanti cui trovasi infissa
l'asta simbolo del giusto dominio. La grave questione fu di recente presa in
esame dal MUIRHEAD, Histor . Introd ., pag. 74, il quale sembra rannodarsi
all'opinione del Niebhur, II, pag. 168, seguita poi dal KELLER e da molti
altri, che riporta all'epoca serviana l'istituzione dei centumviri. Questa
opinione invece è ora vigorosamente combattuta dal WLASSAK , Römische
Processgessetze, Leipzig, 1888, pag . 131 a 139, il quale verrebbe alla conclusione,
che l'istituzione dei centumviri non abbia preceduto di molto la lex Ae butia,
la quale secondo lui deve essere assegnata al principio del sesto secolo di
Roma. Se con ciò egli intende di sostenere, che non abbiamo una prova diretta ,
che l'esistenza dei centumviri rimonti ad epoca anteriore, egli è certamente
nel vero ; ma ciò non basta per escludere, che l'istituzione potesse già
esistere prima, senza che a noi ne sia pervenuta notizia . È poi
incontrastabile, che essa porta in sè un carattere di antichità remota , e che
i simboli, da cui è circondata e la procedura da cui è proceduta, ci riportano
a quella concezione essenzialmente militare del popolo romano, che rimonta
appunto all'epoca serviana . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 25 386 -
e solenni, mediante cui questa proprietà potesse essere trasmessa, e che
servissero ad attestare qualsiasi modificazione potesse soprav venire nella
condizione giuridica del caput (atto per aes et libram ); 4º di richiedere, che
questi atti, i quali influissero sulla posizione del quirite, fossero compiuti
coll'intervento di un pubblico ufficiale (libri pens) e colla testimonianza di
persone, che appartengano alla stessa comunanza (classici testes); 5 ° E infine
di introdurre eziandio una procedura , che debba essere di preferenza seguita
nelle controversie di diritto quiritario (actio sacramento ), ed anche un
tribunale per manente, composto esso pure di persone tolte dalle classi e dalle
centurie, per risolvere le questioni relative al diritto stesso (cen tumvirale
iudicium ) . Non può certamente sostenersi, che tutte queste istituzioni, che
poi si incontrano effettivamente nell'antico diritto romano, possano tutte
rimontare alla stessa costituzione serviana ; ma si può almeno affermare con
certezza, che esse erano una conseguenza logica del concetto informatore della
medesima. Spiegasi in questo modo come mainel diritto di Roma trovinsi sen
z'altro costituita e formata una quantità di istituzioni, in cui si ac centua
il carattere quiritario , e come queste acquistino un carattere prevalente e
preponderante, mentre le istituzioni di carattere genti lizio sembrano per il
momento essere lasciate in disparte. Spiegasi parimenti come il mancipium siasi
distinto dal nec mancipium ; come l'espressione pressochè militare di mancipium
sia sottentrata a quella gentilizia di heredium ; come diversi siano i modi per
la trasmissione delle res mancipii, e di quelle che non sono tali ; come i
diritti del quirite compariscano in certo modo come illimitati e senza confine,
poichè egli, essendo isolato dall'ambiente, in cui prima si trovava, viene ad
essere riguardato come un'individualità sovrana ed indipendente. Intanto si
comprende eziandio come pochi siano i concetti e le istituzioni del diritto
quiritario , e come esso non governi dapprima tutti i rapporti giuridici, anche
fra i cittadini ro mani; poichè intorno ad esso perdurano sempre le istituzioni
gentilizie del patriziato ed anche le consuetudini della plebe. Questo ius
quiri tium insomma rappresenta quella parte di quel ricco materiale giu ridico
, che era posseduto dalle genti patrizie, fluttuante sotto forma
consuetudinaria, che primo riusci a precipitarsi ed a cristallizzarsi, e a
diventare comune al patriziato ed alla plebe, in quanto facevano parte del
populus romanus quiritium . Siccome poi esso venne a consolidarsi fra due
classi , che prima erano in condizioni compiuta 387 > mente diverse, così in
questo periodo della sua formazione dovette maggiormente irrigidirsi e prendere
le mosse da certi concetti, come quelli del nexum , del mancipium , della manus
iniectio , che eransi prima formati nei rapporti della classe superiore con
quella inferiore. 314. Le cause intanto, che a parer mio possono aver
determinata questa singolare formazione del ius quiritium , che doveva poi eser
citare tanta influenza sull'avvenire della giurisprudenza romana, debbono
essere cercate nel carattere peculiare della costituzione serviana, e nello
svolgimento che seppe dare alla medesima il genio eminentemente giuridico del
popolo romano. Prima fra esse è la costituzione serviana , in virtù della quale
all'organizzazione essenzialmente patrizia di Roma primitiva sottentra
un'organizzazione novella , in cui entrano cosi i patrizii come i plebei nella
doppia qualità di capi di famiglia e di proprietarii di terre . Siccome infatti
la famiglia e la proprietà privata erano l'uniche istituzioni, che erano comuni
alle due classi, così esse solo potevano essere di base alla partecipazione
nella stessa comunanza . Quindi un primo effetto logico ed inevitabile di
questa speciale condi zione, in cui si trovò collocato il popolo dei quiriti,
venne ad es sere questo , che al punto di vista giuridico si fece astrazione da
quelle istituzioni intermedie , che si frapponevano fra la famiglia ed il
popolo , quali erano le genti e le tribù primitive. Sia pure che queste
istituzioni continuino ad esistere nel patriziato ; ma in tanto l'elemento
gentilizio viene ad essere escluso dal ius quiritium nello stretto senso della
parola , in quanto che di fronte al censo più non vi sono che capi di famiglia,
riguardati come liberi disposi tori delle proprie cose . Quasi si direbbe, che
la vita giuridica si ri tira dalle istituzioni intermedie, e viene invece a
riunirsi più potente e concentrata nelle due istituzioni estreme, le quali
vengono cosi ad irrigidirsi, come il diritto da esse rappresentato, per guisa
che la famiglia e il suo patrimonio si cambia nel mancipium del proprio capo,
ed il populus assume un carattere essenzialmente militare . Quella distinzione
pertanto fra res publica e res familiaris, che già aveva cominciato a
delinearsi fin dapprincipio , ora viene ad accentuarsi in modo più vigoroso e
potente; poichè tutti i gruppi intermedii vengono in certa guisa ad essere
soppressi al punto di vista della costituzione serviana. Parimenti siccome
l'intento di questo associarsi di elementi, fra cui intercedevano così gravi
differenze , era quello della comune difesa , e forse anche quello dell'offesa
e della conquista dei terri 388 torii vicini, così il nuovo popolo non poteva a
meno di assumere un carattere essenzialmente militare, che doveva riflettersi
eziandio nel suo diritto privato. Infine tutto ciò che riferivasi al connu bium
, al culto gentilizio , agli auspizii, continuava anche dopo la costituzione
serviana ad essere esclusivamente proprio del patriziato : quindi i soli atti,
che potessero essere comuni ai due ordini, dove vano essere atti di carattere
mercantile , quale era appunto l'atto per aes et libram , il quale viene così a
ricevere molteplici e sva riate applicazioni, e ad essere la forma
fondamentale, intorno a cui si aggirano tutti i negozii di carattere quiritario
. A queste considerazioni deve aggiungersi quella del genio emi nentemente
giuridico del popolo romano, il quale nella elaborazione del proprio diritto
seppe spingere fino alle sue ultime conseguenze lo speciale punto di vista , a
cui si era collocata la costituzione serviana. Questo è certo , che per
l'elaborazione giuridica presen tavasi mirabilmente atto questo considerare i
capi di famiglia come altrettanti capita , ed il complesso dei loro diritti
come un manci pium , ossia come una questione di mio e di tuo. Era soltanto in
questa guisa , che ai rapporti fra i diversi membri della comunanza poteva
essere applicata quella iuris ratio , elaborazione propria del genio romano,
mediante cui l'elemento giuridico viene ad isolarsi da tutti gli elementi
affini. Fu questo il processo , mediante cui il diritto potè essere sottoposto
a quella logica astratta , per cui le per sone perdono in certa guisa ogni
personalità concreta e diventano dei capita ; le fattispecie si riducono ad una
selezione di tutto cid che possa esservi di strettamente giuridico nei fatti
umani; e le isti tuzioni giuridiche appariscono come altrettante costruzioni
geome triche, i cui elementi possono essere scomposti, e ricevere cosi un
proprio svolgimento. Il momento appunto, in cui questa logica si presenta più
rigida , più esclusiva , fu certamente l'epoca serviana , perchè in essa i
membri della comunanza non potevano considerarsi, che sotto l'aspetto del mio e
del tuo, e quindi dovevasi in ogni argomento procedere numero, pondere
acmensura e attribuire ad ogni diritto le forme accentuate e prominenti del
diritto di proprietà. 315. Si potrà forse osservare, che questa specie di
astrazione giu ridica mal si può comprendere in un popolo primitivo , quale sa
rebbe il Romano. È però facile il rispondere, che una parte di esso non poteva
chiamarsi del tutto primitiva, dal momento che aveva attraversato tutto un
lungo periodo di organizzazione sociale, ed aveva 389 fatto tesoro delle
tradizioni del medesimo. Ma vi ha di più , ed è che senza un'astrazione di
questo genere era impossibile la formazione di una comunanza, come quella dei
quiriti. Questi sono certamente uomini reali, ma in quanto entrano nella
comunanza sono riguardati soltanto come capi di famiglia e come proprietarii di
terre. Il quirite pertanto è esso stesso un'astrazione, come sono astrazioni e
costruzioni logiche tutti i diritti, che al medesimo appartengono. Ciò fa sì,
che ad esso può applicarsi quella logica geometrica e precisa , che nel suo
genere non è meno meravigliosa di quella, che i Greci applica rono ai concetti
del vero, del bello e del buono. I Romani procedono bensì in base alla realtà ,
ma hanno anch'essi una potenza specula tiva e di astrazione, per cui isolano
l'elemento giuridico dagli elementi affini, e per tal modo riescono a costruire
un edifizio logico e dia lettico in tutte le sue parti , le cui linee son
dissimulate nelle parti colari fattispecie, ma che certo esiste nella mente dei
giureconsulti. È l'ignorare questa dialettica latente , che ci rende così
difficile il ricom porre le dottrine dei giureconsulti classici, e a questo
proposito sono altamente persuaso , che questa dialettica non può essere
sorpresa che alle origini del diritto quiritario . Posteriormente infatti il
numero infinito dei particolari colla sua stessa varietà e ricchezza rende im
possibile di comprendere l'ossatura primitiva dell'edifizio , mentre la sintesi
primitiva del diritto quiritario , le cause che ne determina rono la
formazione, e la logica, che ebbe a governarla , possono facil mente
somministrarci la chiave per comprenderne il successivo svi luppo . Lo studio
di questa struttura primitiva del diritto quiritario, sarà argomento del
seguente libro, e conclusione del presente lavoro . Per ora intanto , onde non
essere costretto ad interrompere la esposizione della struttura organica del
jus quiritium col racconto degli avvenimenti storici, che contribuirono alla formazione
di esso , credo opportuno di porre termine al presente libro con un capitolo,
in cui cercherò di riassumere quella lotta per il diritto fra il pa triziato e
la plebe, che segui nel periodo, che intercede fra la co stituzione serviana e
la legislazione decemvirale . 390 CAPITOLO IV . Il patriziato e la plebe nel
periodo dalla costituzione serviana alle XII Tavole . 316. Le divergenze fra
gli autori nell'apprezzare gli effetti della costituzione serviana, non
impediscono , che tutti siano concordi nel riconoscere, che essa costitui il
primo passo al pareggiamento dei due ordini. Con essa infatti la plebe venne ad
avere un terreno giuridico e legale , sovra cui potè misurarsi col patriziato ,
ed una assemblea , in cui potè impegnare la lotta . Da quel momento perciò potè
manifestarsi quella legge, che secondo Aristotele determina tutte le
rivoluzioni politiche e sociali, secondo cui gli eguali sotto un aspetto ,
tendono anche a diventarlo sotto tutti gli altri aspetti. Come potevano gli
eguali nell'esercito , nei comizii centuriati, nei tributi, continuare ad
essere disuguali nei connubii, nelle magistra ture, nei sacerdozii, e nel
diritto (1 ) ? Finchè durd il regno di Servio Tullo , la lotta non ebbe
occasione di spiegarsi, perchè, secondo la tradizione, lo stesso Servio si
appiglid a tutti i mezzi per favorire quel pareggiamento, che era nello spi
rito della costituzione da lui introdotta . Egli quindi rinnovo a più riprese
il censo ; introdusse nuove leggi relative ai contratti ed ai debiti; concesse
la cittadinanza ai servi manomessi, comprenden doli anche nel censo ; distinse
i giudizii pubblici e privati ; institui giudici privati per la decisione delle
controversie di minore impor tanza , e probabilmente eziandio la Corte dei
centumviri per stioni di diritto quiritario nello stretto senso della parola ,
e cerco eziandio di migliorare la condizione dei creditori ( 2). Fu in tal le
que (1) ARISTOTELES, Politica , ed . Bekker. Lib . V , pagg. 1301 e 1302.
Questo con cetto trovasi mirabilmente espresso da CICERONE , De rep ., I, 49,
allorchè scrive: « quo iure societas civium teneri potest, cum par non sit
conditio civium ? Iura « paria esse debent eorum inter se, qui sunt cives in
eadem republica » . Di qui egli sembra dedurre, che se fosse continuata la
dominazione esclusiva dei padri, la città non avrebbe mai potuto avere uno
stabile assetto ; « itaque cum patres rerum poti rentur, nunquam constitisse
civitatis statum putant » . (2 ) Questi sono i provvedimenti attribuiti a
Servio Tullio sopratutto da Dionisio, il cui racconto in questa parte ebbe ad
essere accettato dal Niebhur, dal Lange e da altri nella loro ricostruzione
della storia primitiva di Roma. È tuttavia da notarsi che Dionisio non parla
punto dei centumviri, ma solo dei iudices privati. V. Dion ., IV, 22, 4 , 10 ,
13. 391 modo che mentre egli si cattivo l'affetto e la riconoscenza delle
plebi, che continuarono sempre a venerarne la memoria e a con siderarlo come
l'iniziatore di tutte le riforme ad esse favorevoli, si procurò invece una sorda
opposizione nel patriziato, come lo dimostra il fatto , che egli avrebbe dovuto
confinarlo ad abitare nel vicus patricius ( 1). Dopo Servio così il patriziato
che la plebe si trovarono di fronte ad un pericolo comune , che fu il tentativo
di tirannide di Tar quinio il Superbo, il quale avrebbe tolto di mezzo le leggi
ser viane, e mentre da una parte cercò di occupare la plebe con la vori
edilizii, si studið dall'altra di comprimere il patriziato , non curandosi di
convocare il senato , nè di riempirne i seggi, che re stavano vacanti ( 2). –
Ne consegui una sosta nello svolgimento dei concetti ispiratori della
costituzione serviana : sosta forse più appa rente, che reale, poichè se il
governo di un tiranno comprime la libertà di tutti, può sotto un certo aspetto
esser favorevole allo svolgersi dell'uguaglianza fra le varie classi, rendendo
tutti eguali di fronte al dispotismo di un solo . Il tentativo ad ogni modo non
potè riuscire, e quando i due or dini dimenticarono le loro gare di fronte al
nemico comune, venne ad essere naturale , che l'evoluzione si ripigliasse ,
ritornando a quelle istituzioni serviane, che per il momento erano ancora le
sole, che potessero essere di base ad un accordo del patriziato e della plebe.
317. Narra infatti Livio, che i primi consoli furono nominati in base ai
commentarii di Servio Tullo , e Dionisio aggiunge, che essi avrebbero
richiamate in vigore le leggi di Servio sui contratti, abrogate da Tarquinio ed
accette alla plebe, riattivata l'istituzione del censo, e ristaurati i comizii
per l'elezione dei magistrati e per le deliberazioni popolari (3). Tutti gli
autori poi, che ricordano il passaggio dal governo regio al repubblicano, sono
concordi in rico noscere, che il cambiamento essenziale si ridusse a sostituire
al re, magistrato unico ed a vita , il consolato, magistrato duplice ed (1) «
Patricius vicus, scrive Festo , dictus eo, quod ibi patricii habitaverunt, iu a
bente Servio Tullio, ut, si quid molirentur adversus ipsum , ex locis
superioribus opprimerentur » . Bruns, Fontes, ed. V , pag. 351. (2) Dion., IV,
25 ; Liv ., I, 49. Cfr . Bonghi, Storia di Roma, I, pag . 209, ove riassume le
tradizioni diverse a noi pervenute intorno a Tarquinio il Superbo. (3 ) Liv.,
I, 60 ; Dion., V , 2. 392 annuo (1). Il potere pertanto dei consoli fu una
continuazione del potere regio , colla sola differenza che il potere religioso
si venne già in parte separando dal civile , in quanto che i poteri, che appar
tenevano al re qual sommo sacerdote del popolo romano, furono per imitazione dell'antico
affidati a un rex sacrorum , o rex sa crificulus, ma in realtà si vennero
concentrando nel pontifex maximus, chiamato a presiedere il collegio dei
fpontefici (2 ). Da cid in fuori il potere sovrano non è dapprima ripartito fra
i due consoli, ma persiste intero in ciascuno di essi, salvo la reciproca
intercessione, che l'uno può opporre agli atti compiuti dall'altro . Che anzi,
ad impedire che la continuità dell'imperium possa essere interrotta col passare
da un console ad un altro , tocca al magi strato che esce di proporre ai
comizii il proprio successore , e nel caso in cui egli non lo faccia, si
continua sempre a provvedere coll'istituzione dell'interregnum , conservando il
concetto ed il vo cabolo , che erano già in vigore durante il periodo regio (3
). È poi solo in seguito alle lotte fra patriziato e plebe, e in causa anche
dell'accrescersi della dominazione romana, che quell'unico potere (imperium )
che accentravasi dapprima nel re e poscia nei consoli, si viene lentamente e
gradatamente suddividendo fra le mol. teplici magistrature del periodo
repubblicano ; per guisa che le ma gistrature maggiori (consoli, pretori,
censori) si dividono in certo modo le funzioni, che un tempo erano comprese
nell'imperium regis, (1) Questo concetto, che nel passaggio alla repubblica non
siasi sostanzialmente mutato il carattere del potere spettante al magistrato,
occorre in Dion ., IV, 72-75; in CiceR., De rep ., II, 30 e in Livio, II, 1,
17. V. il raffronto che ne fa il Bongai, op. cit., pagg. 562-69. (2 ) Che la
dignità del pontifex maximus dati soltanto dalla repubblica , mentre prima era
il re stesso, che era il sommo sacerdote del popolo romano, è cosa da tutti
ammessa. V. fra gli altri, Bouché-LECLERQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome, p .
8 e 9 ; e il Willems, Le droit public romain , pag. 51 e pag. 318. A parer mio
la causa storica del fatto sta in questo, che colla costituzione serviana il
populus ro manus quiritium , comprendendo anche la plebe, perdette in parte
quel carattere re ligioso , che aveva finchè era ristretto alle genti patrizie,
e quindi il magistrato del popolo romano assume un carattere essenzialmente
civile e militare, mentre i pon tefici, pur rappresentando il popolo come
famiglia religiosa , continuarono ad essere i custodi delle tradizioni
religiose e giuridiche di quel patriziato, da cui erano tolti. (3 ) V. quanto
all' interrex e alla nomina di esso per parte dei patres o patricii ciò che si
è detto ai numeri 237-39, pag. 288 e segg., ove ho cercato di dimostrare che la
nomina dell'interrex , la patrum auctoritas e la lex curiata debbono riguar
darsi come sopravvivenze della costituzione esclusivamente patrizia . 393
mentre le magistrature minori (questori, edili) sono uno svolgimento di quegli
ufficiali subalterni, che dapprima erano nominati dal re e dal console, e che
finiscono col tempo per essere anche essi nomi nati direttamente dal popolo (
1). È in questo modo che si spiega come mai siasi potuto avverare una
trasformazione cosi grande nella forma di governo, senza che si alterassero le
basi fondamentali della costi tuzione primitiva di Roma. 318. Intanto finchè
durarono i pericoli esterni delle guerre susci tate dagli esuli Tarquinii, si
mantenne fra i due ordini un' appa rente concordia (2), come lo dimostra il
fatto, che i consoli sogliono essere tolti da famiglie ritenute di tendenze
favorevoli alla plebe, e che sono i consoli stessi, che propongono di togliere
le scuri dai fasci, allorchè rientrano nelle città , e consacrano con leggi spe
ciali il ius provocationis ad populum (3). Ma appena colla morte di Tarquinio
si attutiscono i pericoli esterni, si accentuano invece i dissidii interni, ed
è allora che si inizia una lotta , che direbbesi un modello nel suo genere,
tanta è la tenacità del patriziato nel conservare i suoi privilegii e la
perseveranza della plebe nell'ap profittarsi di tutte le opportunità per
ottenere concessioni novelle . Egli è durante questa lotta, che già si pud
scorgere come nella massa plebea venga distinguendosi la plebe ricca ed agiata
, la quale essendo pari in ricchezze aspira alla comunanza dei connubii e degli
(1) La specializzazione dell'imperium del magistrato è uno dei processi più
degni di nota, che presenti lo svolgimento delle istituzioni repubblicane,
poichè l'imperium regis, al pari del potere giuridico del capo di famiglia ,
parte da un'unità e sintesi potente , a cui succede durante la repubblica una
differenzazione, la quale ,mentre è determinata dall'incremento della città e
dalle lotte fra patriziato e plebe, obbe. disce però sempre alla logica
fondamentale del concetto primitivo di imperium . Cfr. MOMMSEN, Le droit public
romain, I, pag. 5 ; Herzog , Op. cit., I, § 32, pag. 580 e segg ., e ciò che si
disse in proposito al nn . 201-204 , pag. 245 e segg. (2) La diversità di
trattamento, usata dal patriziato alla plebe, nell'epoca che seguì
immediatamente la cacciata dei re e in quella posteriore alla morte di
Tarquinio il Superbo è accennata da Liv ., II , 21, 6 e da Sallustio , Hist.
fragm ., I, 9. Nota però giustamente il Bonghi, che i dissidii esistevano già
prima, e che quindi venne soltanto meno l'indulgenza , che prima era adoperata.
Op. cit., pag. 302. (3) La provocatio ad populum , che Livio chiama « unicum
libertatis praesidium ebbe ad essere consacrata negli inizii della repubblica colla
lex Valeria , proposta dal console Valerio Pubblicola. La provocatio doveva già
preesistere nel periodo regio, ma fu necessaria una espressa consacrazione di
essa per il nuovo elemento, che era entrato a far parte del populus. Cfr. ciò
che si disse al n ° 245 , pag . 300 e 301 . >> 394 onori, e la plebe
povera e minuta , che sopratutto teme il carcere privato dei creditori patrizii
, e aspira a quella ripartizione dell'ager pubblicus, mediante cui può entrare
a fare parte della vera ed ef fettiva cittadinanza , accolta nelle classi e
nelle centurie (1). Di qui i caratteri peculiari di questa lotta , che ha del
pubblico e del pri vato ad un tempo , cosicchè una sommossa provocata dalla
legge inumana sulla condizione dei debitori, può condurre alla istituzione del
tribunato della plebe, al modo stesso che una mozione per restringere
l'arbitrio del magistrato , finisce per riuscire ad una proposta di generale
codificazione. Cosi pure è un carattere di questo conflitto , che le proposte
dei tribuni sogliono comprendere più provvedimenti ad un tempo , anche di
natura diversa , e cid perchè essi mirano a tenere unite la plebe ricca ed
agiata e quella povera e minuta (2 ). Di più anche in questa lotta si mantiene
quel carattere pressochè contrattuale , che ha governato la formazione della
città ; poichè i due ceti vengono fra di loro a transazioni e ad accordi,
stipulano dei foedera , e cercano persino di dare aime desimi quella
consacrazione religiosa , che è propria dei trattati fra i popolidiversi (leges
sacratae) (3). Così pure la plebe, quando trova incomportabile la propria
coesistenza nella città , minaccia di abban donare la comunanza e di fermare
altrove la propria sede, o quanto meno si ricusa alla leva, che è il primo
obbligo e diritto del citta dino. Dappertutto infine si palesa il carattere
essenzialmente pra tico del popolo romano, in quanto che il conflitto non
appare do minato da questo o da quel concetto teorico, ma sembra essere
determinato dalle opportunità ed occasioni, che si presentano nella realtà dei
fatti. La questione infatti che si agita viene nella so stanza ad essere una
sola , cioè quella del pareggiamento giuridico e politico dei due ordini ; ma
essa prende occasione ora dai mal trattamenti inflitti ai debitori, ora
dall'arbitrio del magistrato , ora (1) Questa distinzione della plebe in due
parti è acutamente notata da leinio GENTILE, Le elezioni e il broglio nella
Rep. Rom ., pag . 24 . (2) Di qui l'espressione di lex satura o per saturam ,
la quale secondo Festo si gnificherebbe a lex multis aliis legibus confecta » .
Siccome però essa cambiavasi in un mezzo per ottenere favore a provvedimenti,
che altrimenti non sarebbero stati approvati, accoppiandoli con altri che erano
popolari, così si cercd diporvi riparo colla lex Cecilia Didia del 655 di Roma.
Cic., De domo, 20, 53. Festo , vº Satura . Cfr. WILLEMS, op. cit., pag . 184.
(3 ) V. quanto alle leges sacratae la dissertazione del LANGE, De sacrosancta
tri buniciæ potestatis natura eiusque origine. Leipzig , 1883 . 395 dalla
ripartizione dell'agro pubblico, ora dall'incertezza del diritto , ed ora
infine dal divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, e dall'
esclusione di quest'ultima dalle magistrature e dai sacer dozii (1). Per tal
modo quella plebe , che memore dapprima della condizione pressochè servile da
cui era uscita , si contenta di chie . dere l'istituzione di un magistrato, il
quale non abbia altra potestá che quella di venirle di aiuto, finisce col
tempo, guidata ed orga nizzata da questo istesso magistrato, per ottenere non
solo il pareg giamento giuridico e politico , ma per far entrare nei quadri
della costituzione politica di Roma i suoi magistrati (tribuni della plebe), i
suoi plebisciti, ed i suoi comizii tributi (2 ). 319. Qui però non può essere
il caso di tener dietro alle vicis. situdini diverse dei varii aspetti della
questione politica e sociale, che si agito fra il patriziato e la plebe , ma
piuttosto di cercare quali fossero le condizioni rispettive dei due ordini per
ciò che si riferisce al diritto privato . È questo certamente il maggior
problema che presenti questo pe riodo di transizione, poichè se la storia ha
serbato qualche traccia delle lotte politiche fra il patriziato e la plebe, noi
sappiamo quasi nulla di quello che accadde fra di loro nell'attrito dei
quotidiani in teressi. Si aggiunge che le testimonianze, che ci pervennero in
proposito , sono del tutto contradditorie . Mentre infatti Dionisio attesta che
si rimisero in vigore le leggi intorno ai contratti attri buite a Servio
Tullio, Pomponio invece dice senz'altro, che tutte le leggi promulgate dai re
furono abolite con una legge tribunizia , e che tutto fu lasciato alla
consuetudine come era prima ( 3). Non vi è quindi altro modo di uscire dalla
difficoltà , che di argomentare lo stato del diritto privato dalle condizioni
rispettive, in cui si tro vavano le due classi . (1) Un riassunto chiaro ed
ordinato degli aspetti essenziali, sotto cui ebbe a svol gersi la lotta , fra
patriziato e plebe, nelle parti attinenti al diritto, occorre nel Mui RHEAD,
Histor. Introd ., part. II, sect. 17, pag . 83-88. Per un racconto più partico
lareggiato cfr. il Lange, Histoire intérieure de Rome, livre II, pag. 111 a
217. (2 ) Già ebbi occasione di riassumere questo singolare svolgimento della
costitu zione politica di Roma a proposito dei comizië tributi ai numeri
233-34, p . 271 e segg .; dei plebisciti ai numeri 231-32-33, pag. 281 e seg .;
e dei tribuni della plebe n ° 249, pag . 292 e seg. (3 ) Dion., V, 2 ; Pomp.,
Leg. 2, § 3 ( Dig. I, 2). Secondo quest'ultimo l'incertezza del diritto sarebbe
durata circa vent'anni; ma è facile il notare, che se essa perdurò fino alle
XII Tavole, l'intervallo dovette essere di circa sessant'anni. 396 Ora è certo
anzitutto , che in questo periodo quell'attrito delle classi, che appare nel
campo politico , dovette avverarsi eziandio nel dominio strettamente giuridico.
Anche qui dovettero trovarsi di fronte le tradizioni patrizie e le consuetudini
plebee, coll' avver tenza perd che la magistratura esclusivamente patrizia fini
per dare una prevalenza alle prime sulle seconde; cosicchè è probabile, che
sopratutto la plebe ricca ed agiata, malgrado il divieto dei connubii, cercasse
già in qualche modo di imitare l'organizzazione della fa miglia patrizia . Di
più siccome eravi fra il patriziato e la plebe co munanza di commercio, ma non
ancora quella di connubio, cosi si dovette continuare quell'elaborazione di un
jus quiritium , comune alle due classi, che già erasi iniziata colla
costituzione serviana, ed il medesimo dovette continuare a modellarsi sotto
quelle forme di carattere mercantile , che allora si erano introdotte,
ricorrendo sopratutto all'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza,
ossia dell'atto per aes et libram . Che anzi, quando si voglia ammettere con
alcuni autori, che il tribunale de' centumviri, composto dap prima di quiriti
tolti dalle varie classi e poscia dalle varie tribù , rimonti all'epoca di
Servio Tullio, converrebbe, inferirne che questo Tribunale, in quell'epoca
probabilmente presieduto da un ponte fice, dovette cooperare efficacemente alla
formazione del jus qui ritium , come quello che anche più tardi appare chiamato
a ri solvere questioni di diritto strettamente quiritario (1). Nella sua opera
tuttavia la corte dei centumviri dovette più tardi anche es sere aiutata dai
decemviri stlitibus iudicandis, i quali pur sareb bero stati istituiti a poca
distanza dalla legislazione decemvirale, e dichiarati inviolabili, al pari dei
tribuni e degli edili della plebe, sarebbero stati chiamati a decidere le
questioni di stato (2 ). Infine è ( 1) Quanto all'istituzione dei centumviri e
alle varie opinioni intorno all'epoca, a cui rimonta vedi il capitolo
precedente , nº 312, pag . 384, nota 3 . (2) È del tutto incerta anche
l'origine dei decemviri stlitibus iudicandis, in quanto che l'unico accenno ai
medesimi sarebbe quello, che occorre in Livio , III, 55, il quale parla di
iudices decemviri, stati dichiarati inviolabili al pari dei tribuni e degli
edili della plebe colla legge Valeria Horatia del 305 di Roma. Di recente poi
il WLASSAK , Römische Processgesetze, Leipzig, 1888 , pag. 139 a 151, sostiene
che i decemviri stlitibus iudicandis non debbono confondersi coi iudices
decemviri di Livio ma sono di istituzione posteriore. Noi però sappiamo di
essi, che giudicavano delle questioni di libertà e distato . Cic ., pro Caec.,
33. V. per l'opinione comunemente ricevuta Keller , Il processo civile romano (
Traduz. Filomusi, Napoli 1872, pag. 17), il quale anzi li farebbe rimontare
sino a Servio Tullio , come giudici per le cause 397 pur probabile , che gli
edili della plebe, come ufficiali dipendenti dai tribuni, fossero fin d'allora
chiamati a risolvere quelle quistioni fra i plebei, che sorgevano sui mercati e
sulle fiere , e che comin ciassero cosi a dare forma e carattere giuridico alle
costumanze della plebe. In ogni caso è incontrastabile, che in questo periodo
il console, pressochè assorbito dalle cure militari, dovette, per quello che si
riferisce alla elaborazione del diritto e all'amministrazione della giustizia ,
lasciare una larga parte alla influenza del collegio dei pontefici. Questo
collegio infatti, che abbiamo visto, fin dal l'epoca di Numa, essere chiamato
alla custodia delle tradizioni re ligiose e giuridiche, aveva serbato il
proprio ufficio anche dopo la cacciata dei re, e aveva anzi acquistata una
indipendenza maggiore, in quanto che era presieduto non più dal re, ma da un
pontifex maximus, in cui si unificavano i poteri al medesimo spettanti. Si
comprende pertanto la testimonianza pressochè unanime degli scrittori, che ci
descrivono il diritto primitivo di Roma, sopratutto negli inizii della
Repubblica , come riposto negli archivii de' ponte fici, e parlano di questi
ultimi come dei primimaestri in giurispru denza, e del ius pontificium , come di
una scuola a cui venne poi formandosi il ius civile ( 1). Intanto è naturale,
che i pontefici, come depositarii delle antiche tradizioni, avessero sopratutto
per iscopo di applicare le forme antiche ai rapporti giuridici, che venivano
sor gendo collo svolgersi della convivenza civile, e che in questo senso
venissero continuando quella elaborazione di un ius quiritium , che erasi
iniziata dal tempo, in cui la plebe era entrata a far parte della cittadinanza
romana. 320. Insomma la conclusione ultima viene ad essere questa , che in
questo periodo dovette avverarsi un continuo attrito fra le isti tuzioni
patrizie e le costumanze plebee, e che perciò dovette essere grandissima
l'incertezza intorno a quel diritto , che doveva essere applicato nei rapporti
fra il patriziato e la plebe. Ne conseguiva che private, il che non sembra da
ammettersi, perchè il giudice di queste cause dovette essere piuttosto il iudex
unus tratto dai iudices selecti. (1) Per l'influenza dei pontefici sul diritto
civile vedi sopra i numeri 262 e 263, pag. 321 e seg . colle note relative. Si
occupò molto largamente di questo argomento il KARLOWA, Röm . R. G., 1, $
43, pag. 219 e seg. Trovasi poi un esattissimo elenco dei libri, annali e
commentarii dei pontefici nel TEUFFELS, Geschichte der röm . Literatur ,
Leipzig , 1882, SS 70-76, pag. 114 a 119 . 398 il console , chiamato ad
amministrare la giustizia, finiva per non avere alcun confine al proprio
arbitrio , il che doveva essere grave alla plebe, anche per trattarsi di
magistrato, il quale per essere tratto esclusivamente dall'ordine patrizio ,
poteva ritenersi favorevole a quest'ultimo. Si comprende cid stante come
Terentillo Arsa, nel 292, cominciasse dal chiedere che fosse eletta una
commissione, che determinasse per iscritto quale fosse la giurisdizione dei
consoli, acciò fosse posto un confine all' arbitraria ed oppressiva ammini
strazione di ciò , che essi chiamavano col nome di diritto e di legge ( 1). Fu
solo nell'anno dopo , che d'accordo coi colleghi, per togliere alla sua proposta
il carattere di odiosità contro il potere dei consoli, egli chiese che la legge
, così pubblica come privata, dovesse essere codificata , e che cosi ogni
incertezza venisse per quanto si poteva ad essere rimossa . L'importanza della
questione viene ad essere provata dalla lotta di dieci anni, che ebbe ad essere
sostenuta in torno alla medesima; poichè solo nel 303 di Roma si ebbe completa
la legislazione decemvirale . Qui non può essere il caso di entrare nell'esame
minuto della medesima, nè di parlare dei tentativi di rico struzione, che se ne
vennero facendo anche in questi ultimi tempi ( 2) : mi basterà invece dir
qualche cosa intorno al carattere generale di questo codice, da cui doveva
prendere le mosse tutto lo svolgimento posteriore del diritto civile di Roma. A
mio avviso la legge decemvirale e la legge Canuleia , che la segui a poca
distanza (309 di Roma) ed aboli il divieto de' con nubii fra il patriziato e la
plebe, debbono essere considerate, quanto al diritto privato di Roma, come
l'avvenimento che chiude il periodo delle origini ed apre quello dello
svolgimento storico della giuris prudenza romana. Colle leggi delle XII tavole
si chiude in certo modo il periodo del ius non scriptum , di quel diritto cioè,
che viveva più nelle consuetudini che nelle leggi, ed incomincia il pe riodo
del ius scriptum , poichè da quel momento anche l'interpre tazione cominciò ad
avere la sua base nella codificazione (3 ). Con (1) Liv., III, 9. Cfr.
MuirŅEAD, op. cit., pag. 87 e 88. (2 ) V. Ferrini, Storia delle fonti del
diritto romano, pag. 5 a 9. È poi noto, che i grandi tentativi di ricostruzione
delle XII Tavole si riducono a quelli di Jacopo Gottofredo , del Dirksen e a
quello recentissimo del Voigt, già più volte citato. (3) Non voglio dire con
ciò, che prima non esistessero delle leggi scritte : ho anzi dimostrato che
dovettero esservene fin dal periodo regio. Tuttavia è solo colle XII Tavole,
che si introdusse tutto un sistema di legislazione scritta, il quale potè
servire 399 esso parimenti termina il periodo del ius non aequum , ossia di un
diritto disuguale fra patriziato e plebe, e comincia il periodo del ius aequum
, ossia la formazione di un diritto eguale per l'uno e per l'altro ceto , il
che gli autori esprimono con dire, che le leggi delle XII Tavole erano intese
ad aequandum ius e ad aequandam libertatem (1). Con esso infine termina il
periodo della indistinzione del fas e del ius, al modo stesso che già si
possono scorgere i principii del diverso indirizzo , in cui si pongono il
diritto pubblico e il diritto privato ; dei quali il primo continua a svolgersi
nelle lotte della piazza e del foro, mentre il secondo comincia ad apparire
come il frutto della tacita elaborazione prima dei pontefici e poscia dei
giureconsulti. 321. Non vi ha poi dubbio che anche la legislazione decemvirale
deve essere considerata come un compromesso fra i due ordini e in certo modo
come una specie di patto fondamentale della loro coe sistenza nella medesima
città (2 ) . Di qui la conseguenza, che le XII Tavole nè comprendono un sistema
compiuto di legislazione pubblica e privata , nè rinnovano tutte le
disposizioni che già erano contenute nelle leggi regie: ma sembrano il più
spesso limitarsi ad introdurre sotto forma imperativa quei provvedimenti, che
potevano essere stati oggetto di discussione e di lotta , il che è sopratutto
evidente quanto alle disposizioni, che si riferiscono al diritto pub come punto
di partenza alla iuris interpretatio ed alla disputatio fori, di cui parla
Pomponio , L. 2, § 5 , dig . 1-2. Quanto ai caratteri particolari di questa
interpre tatio dei veteres iures conditores, vedi JHERING , Esprit du droit
romain , III, pag. 142 e segg . (1) LIVIO (III, 24 ) fa dire ai decemviri « se
quantum decem hominum ingeniis provideri potuerit, omnibus, summis infimisque
iura aequasse » . Di quianche l'espres sione, che occorre in Livio ed in
Tacito, che le leggi delle XII Tavole fossero il fons omnis aequi iuris , ed
anche il finis aequi iuris, perchè esse, a differenza di altre leggi, non
furono il frutto di una sorpresa , ma di una vera transazione ed accordo fra i
due ordini. Vedi i passi relativi nel RIVIER , Introd . Histor., Bruxelles,
1881, pag. 163 a 167, come pure nel Voigt, Die XII Tafeln , I, pag. 7 e note
relative. (2) Questa specie di compromesso appare dalle parole che Livio , III,
31 attribuisce ai tribuni della plebe : « finem tamen certaminum facerent. Si
plebeiae leges displi « cerent, at illi communiter legum latores et ex plebe et
ex patriciis, qui utrisque « utilia forent, quaeque aequandae libertatis
essent, sinerent creari » . Di qui rica vasi anche un argomento per inferire,
che la legislazione decemvirale suppone già una specie di fusione del diritto
delle genti patrizie con quello della plebe, il che sarà meglio dimostrato più
oltre. 400 blico , e per quelle che riguardano l'usura e il trattamento che il
creditore può usare contro il debitore ( 1). Cid spiega anche in parte la
sobrietà e la concisione della legislazione decemvirale , la quale ,
senz'entrare nella descrizione degli istituti ed in disposizioniminute, si
limita a porre dei concetti sintetici e comprensivi, pressochè enunziati in
forma assiomatica , lasciando poi alla interpretazione di ricavare da essi
tutte le conseguenze , di cui potevano essere ca paci (2). Di qui derivano
eziandio la venerazione e la riverenza , in cui fu tenuto sempre questo codice
primitivo del popolo romano ; la differenza che i Romani ravvisarono sempre fra
queste leggi fonda mentali, e quelle che si vennero gradatamente aggiungendo
alle medesime; ed il fatto incontrastabile, che la legislazione decemvirale,
malgrado la pochezza dei proprii dettati , ha finito per essere il punto di
partenza di un sistema intiero di legislazione. Tuttavia il carattere più
saliente e più importante per la storia del diritto primitivo di Roma, che a
mio giudizio vuolsi ravvisare nella legislazione decemvirale , consiste in
questo , che siccome le XII Tavole furono il primo codice comune ai due ordini,
cosi fra tutti i documenti dell'antico diritto , esse portano le traccie più evi
denti dell'origine diversa delle istituzioni, che entrarono a costituire il
sistema del primitivo diritto romano . In esse infatti noi troviamo da una
parte trasportate di peso certe istituzionidelle genti patrizie , il che si
avverò sopratutto quanto all'organizzazione della famiglia e alla successione e
tutela legittima degli eredi suoi, degli agnati e dei gentili, istituzioni che
i giureconsulti ci dicono appunto essere state introdotte dalla legislazione
decemvirale (3 ). In esse parimente ( 1) Così, ad esempio, la legge secondo cui
a de capite civis nisi maximo comi tiatu ne ferunto » mira certamente ad
impedire, che le accuse capitali potessero re carsi innanzi ai concilia plebis,
come i tribuni della plebe avevano più volte tentato di fare, come lo dimostra
, fra gli altri, il processo contro C. Marcio Coriolano. Uno scopo analogo
dovette pure avere la legge: privilegia ne inroganto. Cic ., de leg ., 19, 44 .
(2) Nota a ragione il Bruns, che nelle XII Tavole già si appalesa il genio giu
ridico di Roma, sia perchè esse già comprendono ogni parte del diritto, e sia
anche per il carattere obbiettivo e pratico delle singole disposizioni. Vedi
HOLTZENDORF's, Rechts Encyclopedie, I, 117. A parer mio esse dimostrano
eziandio, che l'elabora zione giuridica era già pervenuta molto innanzi, in
quanto che già si dànno come formati i concetti del nexum , del mancipium , del
testamentum , senza che occorra di indicarne il contenuto . (3) Se prestiamo
fede ai giureconsulti sarebbero state introdotte direttamente dalla
legislazione decemvirale le successioni e le tutele legittime e le legis
actiones, le quali sarebbero state composte dai pontefici sui termini stessi
delle XII Tavole. 401 è evidente lo sforzo dei decemviri di porgere alla plebe
un mezzo per uscire dalla posizione di fatto in cui si trovava , e procurarsi
invece una posizione di diritto ; come lo dimostra fra le altre cose la parte
assai larga fatta all'usus auctoritas, che compare qual mezzo per contrarre le
giuste nozze, per acquistare le cose mobili ed immobili, e qual modo di
acquisto della stessa eredità (1). Infine nella legislazione decemvirale si
rinviene eziandio una parte dovuta all'elaborazione di quel rigido ius
quiritium , che ebbe a formarsi sotto l'influenza del censo e delle altre
istituzioni serviane, i cui concetti fondamentali sono quelli del nexum , del
mancipium , del testamentum , dell'atto per aes et libram , nei quali tutti il
quirite appare con un potere senza confini, cosicchè la sua parola viene in
certo modo a convertirsi in legge : « uti lingua nuncupassit ita ius esto » ( 2
) . 322. Questi varii elementi di origine diversa , che insieme ad alcune
disposizioni particolari imitate dalle legislazioni greche (3) (1) Lo stesso è
pure a dirsi del riconoscimento della fiducia, la quale non avendo forma
giuridica dovette probabilmente nascere nelle consuetudini della plebe. Vedi in
proposito ciò che si disse quanto al contributo della plebe nella formazione
del di ritto romano ai numeri 148 a 157, pag. 182 e segg ., e sopratutto a pag.
184. Si ritornerà poi sull'argomento nel libro seg ., cap . IV , § 3, trattando
della mancipatio cum fiducia . ( 2) V. cap. precedente, relativo all'influenza
della costituzione serviana sulla for mazione del ius quiritium . ( 3) V.
Lattes, L'ambasciata dei Romani per le XII Tavole . Milano, 1884. Non può qui
essere il caso di trattare a fondo la questione della ambasciata in viata in
Grecia e ne quella dell'influenza greca sulle XII Tavole, questione che pud
aver bisogno di un nuovo stadio dopo la scoperta delle leggi di Gortyna: ma
credo che il seguente libro proverà fino all'evidenza , che le basi
fondamentali del primitivo ius quiritium sono desunte dalle istituzioni già
esistenti fra le genti italiche, e che furono eminentemente ed esclusivamente
romani così il modo in cui furono foggiati gli istituti giuridici, come il
processo logico e storico ad un tempo, con cui furono svolti. L'analogia
pertanto di certi istituti può anche essere prove nuta o dalla comune origine
ariana , o dalle condizioni analoghe, in cui si trova rono le genti italiche e
le elleniche nel passaggio dall'organizzazione per genti alla vita cittadina ;
mentre l'imitazione diretta si limita a disposizioni di poca impor tanza, la
cui origine ellenica è sempre di buon animo accennata dagli autori la tini, che
non disconobbero mai la sapienza dei Greci, pur affermando la propria
superiorità in tema di diritto. Cfr . Voigt, XII Tafeln , I, pag. 10 a 16, dove
pare si trovano raccolti i passi degli antichi autori, che si riferiscono
all'argomento . Quanto all'influenza greca sulla giurisprudenza romana in
genere mi rimetto a ciò che ho scritto nella Vita del diritto , pag. 179 a 194
. 1. CARLE , Le origini del diritto di Roma , 26 402 formarono il substratum
della legislazione decemvirale, finiscono dopo di essa per svolgersi
contemporaneamente e quindi con essa può dirsi aver termine il ius quiritium
propriamente detto, e cominciare. invece l'elaborazione di un ius proprium
civium romanorum , in cui continuarono però a perdurare le primitive istituzioni
del ius quiritium . Ciò ci è dimostrato dall'attestazione di Pomponio , se
condo cui tutto quel diritto , che venne a formarsi sulla legislazione
decemvirale , mediante la iuris interpretatio , la disputatio fori, e la
formazione delle legis actiones, venne appunto ad essere indi cato col vocabolo
di ius civile (1). Anche qui pertanto si fa ma nifesto quel singolare
magistero, che si rivela poi in tutta la forma zione della giurisprudenza
romana, per cui, accanto al diritto già formato e consolidato , havvene una
parte , che continua sempre ad essere in via di formazione. Per talmodo accanto
al ius quiritium , iniziatosi sopratutto colla costituzione serviana, venne
formandosi il ius civile, i cui esordii partono dalla legislazione decemvirale
; poi accanto a questo si esplicò il ius honorarium , elaboratosi sopratutto
sull'editto del Pretore; infine molto più tardi ancora, secondo qualche autore,
accanto al ius ordinarium viene formandosi il cosi detto ius extraordinarium (2
) . Parmi quindi giusto il ritenere, che colla legislazione decemvirale si
chiude il periodo delle origini propriamente dette, in cui le varie istituzioni
trovansi ancora allo stato embrionale , e comincia il vero svolgimento storico
del diritto romano, in cui le varie parti del di ritto pubblico e privato , già
procedendo separate le une dalle altre, debbono anche essere studiate
separatamente nel proprio sviluppo . È a questo punto pertanto , che può essere
opportuno un tentativo di ricostruzione di quel primitivo ius quiritium , che a
mio giudizio costituisce l'ossatura primitiva di tutta la giurisprudenza
romana, e può darci il segreto di quella dialettica potente, che strinse
insieme le varie parti della medesima. Spero che la bellezza e l'im portanza
grandissima del tema, e la luce, che può derivarne per la spiegazione del
diritto primitivo di Roma, il quale, quanto alle proprie origini, non ha
cessato ancora di essere un grandemistero, valgano a farmi perdonare l'audacia
del tentativo . ( 1) KUNTZE, Ius extraordinarium der römischen Kaiserzeit.
Leipzig , 1886 . (2 ) POMP., Leg . 2 , SS 5 e 6 , Dig. ( 1-2). LIBRO IV .
Ricostruzione del primitivo ius quiritium (*). CAPITOLO I. La struttura
organica del ius quiritium ed il concetto del quirite. 323. E opinione
pressochè universalmente adottata , che il primitivo diritto di Roma porti in
sè le traccie della violenza e della forza, e debba essere considerato in ogni
sua parte come il frutto di una evo luzione lenta e graduata , determinata
esclusivamente dalle condizioni economiche e sociali, in cui trovossi il
primitivo popolo romano. Lo studio invece della genesi e della formazione del
ius quiritium , nel momento in cui per opera della costituzione serviana
comincio ad essere comune alle due classi , mi conduce a conclusioni alquanto
diverse. Questo ius quiritium , se nei vocaboli può ancora portare le traccie
di un periodo anteriore di violenza, nella sostanza invece è già il risultato
di una selezione e di un'astrazione potente, intesa da una parte a trascegliere
dal periodo gentilizio quelle istituzioni, (*) Ancorchè l'intento di questo
libro IV sia di isolare in certo modo quella parte del diritto privato di Roma,
che prima riuscì a consolidarsi sotto il nome di ius quiritium , e a costituire
così il nucleo centrale di quella elaborazione giuri dica, che doveva poi
durare per 14 secoli, mi riservo tuttavia anche qui la libertà di seguire
talvolta lo svolgimento logico e storico dei varii istituti giuridici, anche
oltre gli stretti confini del ius quiritium . Il motivo è questo, che anche
nella clas sica giurisprudenza occorrono certe singolarità, le quali, a parer
mio, non potranno mai essere spiegate, quando non siano sorprese alle origini.
Siccome infatti la carat teristica del tutto peculiare del diritto romano
consiste nell'essere il frutto di una elaborazione, che malgrado la sua lunga
durata non abbandono mai intieramente quei metodi e processi, con cui era stata
iniziata ; così in esso accade ben soventi, che negli ultimi sviluppi occorrano
certe apparenti singolarità ed anomalie, le quali non sono che una conseguenza
logica di fatti , che si avverarono nel principio della formazione, e
dell'indirizzo con cui questa ebbe ad essere iniziata . 404 - che potevano
accomodarsi alla vita della città, e dall'altra a sce verare l'elemento
giuridico da tutti gli altri punti di vista , sotto cui i fatti sociali ed
umani possono essere considerati. Il suo linguaggio rozzo ma efficace ; i suoi
concetti sintetici e comprensivi; le solennità tipiche , in cui esso si
manifesta ; la disinvoltura con cui si maneg giano tali solennità e si
trasportano da uno ad un altro negozio giuridico ; la coerenza organica delle
sue varie parti sono già la ma nifestazione di una potente logica giuridica ,
di cui appare investito il popolo romano fin dai proprii esordii, mediante cui
esso riesce a sceverare dalle proprie tradizioni del passato e dalle condizioni
so ciali, in cui si trova, tutto ciò che in esse havvi di strettamente e di
esclusivamente giuridico, modellandolo in altrettante costruzioni tipiche, che
concentrano in sè l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani. Lo stesso
nostro linguaggio sembra essere inadeguato ad esprimere una selezione di questo
genere, cosicchè ad ogni istante viene ad essere necessario di ricorrere a
vocaboli tolti dalle scienze fisiche , chimiche e naturali, perché è soltanto
nelle naturali forma zioni che possono essere sorprese delle sintesi e delle
analisi, ana loghe a quelle, che occorrono nel primitivo diritto di Roma. In
esso dispiegasi una logica giuridica cosi rigida, cosi geometrica, precisa e
coerente, che anche un giureconsulto , preparato da una lunga edu cazione
giuridica , stenterebbe a giungervi, e la quale può soltanto essere spiegata
con dire che ci troviamo di fronte a un popolo, giu rista per eccellenza, il
quale , guidato dalle proprie attitudini natu rali, esordisce con un capolavoro
di arte giuridica , che può essere considerato come un pegno della perfezione,
a cui esso giungerà più tardi nel suo lavoro legislativo. 324. Il diritto
quiritario infatti toglie dalla realtà il linguaggio ed i concetti primitivi ,
di cui esso si vale ; ma intanto li isola e li scevera per modo da ogni
elemento affine, che i primitivi concetti giuridici del popolo romano, al pari
dei suoi concetti politici, si pre sentano come altrettante concezioni logiche,
e costruzionigeometriche, che possono poi essere sottoposte a quella logica
astratta , che fu del tutto propria dei giureconsulti romani. Che anzi la
logica giuridica dei giureconsulti romani non si ma nifestò forse mai in modo
più vigoroso e potente, che nel modellare il concetto stesso del quirite e i
varii atteggiamenti , sotto cui il medesimo può essere considerato. Io non
dubito infatti di affermare, che il concetto stesso del quirite , in quanto si
considera come il 405 caput, da cui erompono le varie manifestazioni giuridiche
, deve per sè essere considerato come una concezione giuridica nel senso vero
della parola . Il quirite infatti non è l'uomo quale in effetto esiste, ma è
l'uomo isolato da tutti gli altri suoi rapporti, per essere consi derato sotto
l'aspetto esclusivo di capo di famiglia e di proprietario di terre. È come tale
soltanto , che egli conta nel censo serviano , ed è come tale eziandio, che
esso si presenta nel primitivo ius quiritium . Esso inoltre è anche
un'astrazione sotto un altro aspetto , in quanto che la logica giuridica lo
isola da tutti i vincoli religiosi e morali, a cui nel fatto possa essere
sottoposto , e lo concepisce come fornito di un potere illimitato e senza
confini. Essa lo considera come un pater familias, ancorchè in effetto non
abbia figliuolanza , e in quanto è tale , gli attribuisce i poteri più
illimitati. Egli infatti quale capofa miglia ha il ius vitae et necis sulla
moglie, sui figli, sui servi; come proprietario pud usare ed abusare delle
proprie cose ; come credi tore può anche appropriarsi il proprio debitore,
venderlo al di là del Tevere e dividerne il corpo , se concorra con altri
creditori ; come testatore pud disporre in qualsiasi guisa delle proprie cose
per il tempo per cui avrà cessato di vivere. Col tempo questa potestà giuridica
illimitata potrà apparire eccessiva, in quanto che si verrà a riconoscere che
il quirite potrà anche abusare di essa , come il magistrato del proprio
imperium , ed in allora si cercherà di porre dei limiti al suo potere come
padre, come proprietario, come credi tore, come testatore , come padrone ; ma
nel suo erompere primitivo l'uomo, a cui appartiene l'optimum ius quiritium , è
una indivi dualità completa, che sotto l'aspetto giuridico non subisce
limitazione di sorta . 325. Il quirite poi, in base al censo serviano, riunisce
due carat teri: quello cioè di capo di famiglia e di proprietario di terre, e i
medesimi si compenetrano per modo, che i due concetti si vengono immedesimando
l'uno nell'altro , cosicchè, quale padre di famiglia , esso apparisce come un
proprietario , e per essere proprietario deve essere un capo famiglia ; donde
consegue, che anche i due vocaboli di familia e di mancipium possono
sostituirsi l'uno all'altro (1). ( 1) V. in proposito il Voigt, Die XII Tafeln
, II, pag. 10 e 11, note 5 e 6 , ove son citati varii passi da cui risulta ,
che la familia in personas et in res deducitur. Leg. 195, Dig. (50, 15 ). Cid
pure accade del mancipium , il quale talvolta è preso in significazione così
larga da comprendere non solo le cose, ma anche le persone 406 Nel censo
infatti non comparisce che il caput, in quanto unifica in sè medesimo persone e
cose, e in quanto egli è libero , cittadino, in dipendente nel seno della
famiglia . Esso conta per uno, ma intanto rappresenta molte persone ad un tempo
: cosicchè anche la proprietà , che trovasi posta in suo capo, mentre nel
costume appartiene alla famiglia , sotto il punto di vista giuridico viene
invece ad essere considerata come una proprietà esclusivamente propria del capo
di famiglia. Quasi si direbbe che l'imperium del quirite nella propria casa
viene ad essere foggiato sulmodello stesso del regis imperium per quello che si
riferisce alla città . Esso ha impero sulle cose e sulle persone, al modo
stesso che il magistrato ha l'imperium domimi litiaeque, e l'una ed anche
l'altra podestà , sotto il punto di vista giuridico e politico , non hanno
confine, sebbene nella realtà siano contenute in stretti vincoli dal costume
pubblico o privato . Di qui la conseguenza, che mentre questo è il momento
storico , in cui ap parisce più senza confini il potere del padrone sugli
schiavi , quello del marito sulla moglie , quello del padre sui figli, noi
intanto ab biamo tutti gli argomenti per credere, che fu appunto questo il
tempo, in cui fu migliore la condizione degli schiavi, volontariamente
accettata la subordinazione dei figli e della moglie, e quello in cuiil potere
del padre, cosi esorbitante nella sua configurazione giuridica, nella realtà non
ebbe a dar luogo a gravi abusi. Fu sopratutto in questo primo periodo, che i
figli dei servi erano allevati con quelli del padrone; che le mogli, mentre
giuridicamente potevano essere ripudiate , nel fatto non conoscevano il
divorzio ; che i figli prova vano la severità del padre, non tanto nelle pareti
domestiche, quanto piuttosto, allorchè egli investito del pubblico potere
giungeva a soffo care gli affetti del sangue per far rispettare l'imperium , di
cuitro vavasi insignito (1). dipendentidal capo di famiglia, come lo dimostra
l'espressione conservataci da Gellio , secondo cui la mater familias è in manu
mancipioque mariti. XVIII, 6, 9. Ciò però non toglie , che il vocabolo familia
significasse di preferenza il complesso delle per sone, e quello di mancipium
il complesso delle cose, che erano soggette al potere del capo di famiglia. Cid
apparirà meglio in questo stesso capitolo, $ 4, in cui si discorrerà appunto
del mancipium , e delle sue varie significazioni. ( 1) La causa di questo
contrasto tra l'ordinamento giuridico della famiglia e le condizioni reali
della medesima sarà meglio posta in evidenza al cap . 1, § 1°, ove si discorre
del ius connubii. Quanto alla figura del padre di famiglia patriarcale durante
il periodo gentilizio, vedi sopra il nº 94 , pag. 119 . 407 326. Se non che è
ovvio il chiedersi, in qual modo siasi potuto modellare in modo così vigoroso
ed efficace la figura del quirite . Io non dubito di rispondere che questa
concezione dell'uomo sotto l'aspetto esclusivamente giuridico , se per una
parte fu determinata dalle condizioni economiche e sociali, dall'altra fu anche
l'effetto di una potente astrazione giuridica , compiuta da un popolo con un
pro cesso mentale non diverso da quello , che seguirebbe un giureconsulto
moderno. Gli elementi preesistevano nella organizzazione gentilizia e
consistevano nella figura del capo di famiglia, e nel concetto della proprietà
, che a lui apparteneva. Mediante un lavoro di astrazione, che è famigliare al
giureconsulto, i due concetti di capofamiglia e di proprietario furono staccati
dall'ambiente, in cui si erano for mati, furono isolati da tutti gli altri
rapporti di carattere gentilizio, riguardati attraverso il crogiuolo del censo
, in cui persone e cose dipendevano da un solo caput, e ne eruppe cosi questa
figura tipica del quirite , che è soldato ed agricoltore , capo di famiglia e
proprietario , individuo e capo gruppo , il quale sotto un aspetto è una realtà
e sotto un altro è già una astrazione o concezione giuridica. Lo stesso è a
dirsi delle due istituzioni fondamentali della famiglia e delle proprietà,
quali vengono a presentarsi nel ius quiritium la cui formazione fu determinata
dalla costituzione serviana, An ch'esse sono tratte dalla realtà , e sono due
ruderi dell'organizzazione gentilizia , nel senso vero e proprio della parola ,
salvo che, traspor tate nel seno delle città e cosi isolate dall'ambiente, che
le circon dava, fanno su chi le considera un effetto analogo a quello di quei
ruderi delle mura serviane, che circondate da un' aiuola si incon trano nella
Via Nazionale di Roma moderna. Di qui la conseguenza, che anche la proprietà e
la famiglia debbono essere considerate come due costruzioni giuridiche, in
quanto che esse non sono la pro prietà e la famiglia , quali effettivamente
esistevano, ma sono il frutto di un'elaborazione giuridica, per cui l'una e
l'altra sono iso late da quegli elementi, sopratutto religiosi e morali, che
nella realtà ne moderavano la rigidezza. Siccome infatti il quirite, come tale,
non è più nè il gentile, nè il cliente, né il patrizio, nè il plebeo , ma è un
capo famiglia , considerato come padrone assoluto delle cose e delle persone,
che da lui dipendono ; cosi l'aureola del buon co stume , del consiglio
domestico , del consiglio degli anziani, delle tradizioni del villaggio , della
religione, di cui il padre antico era il sacerdote , viene a scomparire
pressochè intieramente nel diritto 408 quiritario. In questo più non scorgesi,
giuridicamente parlando, che un caput, che è proprietario e padre ad un tempo,
e il cui potere (manus) sulle persone e sulle cose, che ne dipendono (mancipium
o familia ), apparisce senza confini, rendendo cosi possibile l'applicazione di
una logica, il cui processo sarebbe stato ad ogni istante interrotto , se si
fosse dovuto tener conto degli altri vincoli e rapporti, in cui il quirite
effettivamente si trovava. 327. Lo stesso deve pur dirsi di quel carattere,
cosi saliente nel di ritto primitivo di Roma, per cui i poteri sulle persone e
sulle cose vengono ad immedesimarsi l'uno nell'altro, e possono quindi essere
in dicati coimedesimivocaboli, rivendicati nella stessa guisa , e trasmessi col
medesimo atto . Anche ciò non deve ritenersi come indizio , che per i Romani la
potestà del padre si confondesse colla proprietà : ma è unicamente il frutto di
una elaborazione giuridica, in quanto che questi due poteri, dovendo passare
per il crogiuolo del censo , venivano in sostanza a ridursi tutti al concetto
del mio e del tuo . Ed a questo riguardo credo di non esagerare dicendo, che fu
una grande ventura per il diritto romano , che il medesimo fosse cosi costretto
a modellare ogni diritto sopra quello di proprietà , in quanto che non eravi
certamente altro concetto , che potesse meglio acco modarsi a tutte le
applicazioni della logica giuridica. Se questa infatti avesse dovuto applicarsi
alle persone, si sarebbe ad ogni istante inceppata in considerazioni di umanità
, mentre spiegandosi in certa guisa di fronte alle cose potė spingersi a tutte
le deduzioni, di cui poteva essere capace , e per tal modo il diritto potè appa
rire in certi casi inumano e crudele , ma la costruzione giuridica venne ad
essere più logica e più coerente . Cosi deve pure attribuirsi ad una
elaborazione giuridica, resa ne cessaria dalle condizioni, sotto cui patriziato
e plebe entravano a far parte della comunanza, quel concetto , per cui quella
proprietà, che nel costume ritenevasi appartenere alla famiglia ,
giuridicamente in vece venne ad essere considerata come spettante ad un
individuo , che poteva disporne in qualsiasi guisa. Questo infatti era il solo
modo di combinare il concetto della proprietà famigliare , che era proprio del
patriziato, con quello della proprietà privata ed individuale, che era la sola,
che fosse conosciuta dalla plebe. Fondendosi insieme, le due formedi proprietà
diedero origine a quella singolare istituzione della proprietà quiritaria , che
nel costume si ritiene della famiglia , e in diritto si considera come
esclusivamente propria del padre, per 409 cui tutto ciò , che acquistano gli altri
membri della famiglia , a lui solo appartiene ( 1). 328. Fermo cosi nelle sue
linee generali il concetto fondamentale del quirite , quale ebbe ad uscire dal
crogiuolo del censo istituito da Servio Tullio, viene ad essere facile il
comprendere come i varii atteggiamenti, sotto cui esso può essere considerato ,
abbiano potuto essere scomposti ed analizzati, e abbiano così data origine ad
al trettante concezioni giuridiche foggiate sullo stesso modello . Il quirite
infatti costituisce in certo modo la configurazione giu ridica dell'umana
persona, quale allora poteva essere concepita , e come tale può essere
considerato : – o in quanto sta , ossia nella posizione giuridica (status), che
egli tiene nella comunanza quiri tiana: - o in quanto egli si muove ed agisce,
ossia in quanto egli entra in rapporti con altri quiriti. In quanto sta , ossia
in quanto egli tiene uno status, questo può essere scomposto nei suoi varii
elementi, e quindi il quirite viene ad avere un caput, che comprende tutta la
sua capacità giuridica come quirite ; una manus, che inchiude il complesso dei
poteri, che gli appartengono ex iure quiritium ; un mancipium , il quale
implica parimenti nella sua significazione primitiva così le persone, che le
cose, che da lui dipendono per diritto quiritario . È poi degno di nota , che
tutti questi vocaboli, in cui viene ad essere racchiusa l'individualità
giuridica del quirite, hanno una significazione mate riale e giuridica ,
concreta ed astratta ad un tempo . Cosi, ad esempio , il vocabolo caput, mentre
da una parte indica la parte più nobile ed importante del corpo, dall'altra
designa la capacità giuridica poten ziale del quirite che è come la sorgente di
tutti i diritti spettanti al medesimo; quello dimanus,mentre esprime l'organo
mediante cui si esplica la forza e l'energia fisica dell'uomo, è ad un tempo il
sim bolo efficacissimo dell'attività giuridica che si viene estrinsecando in
certi determinati poteri ; e quello infine di mancipium da ma nucaptum , mentre
da una parte significa una cosa, che per essere materialmente afferrata dalla
manus, non può sfuggire alla mede sima, dall'altra indica eziandio lo stato di
sottomissione giuridica , in cui vengono a trovarsi le persone e le cose che da
essa dipendono. (1) Questo carattere speciale della proprietà quiritaria e il
modo in cui essa potè formarsi saranno meglio spiegati nel cap. seg ., $ 6 ,
ove si discorre dell'origine del dominium ex iure quiritium . 410 Questi varii
elementi poi, intrecciandosi fra di loro, costituiscono un tutto organico e coerente
; poichè, tanto nel significato mate riale quanto nel giuridico , la manus
viene in certo modo ad esser e il termine di mezzo fra il caput che la dirige e
il mancipium che dipende dalla medesima. In quanto invece si muove ed agisce,
il quirite viene a contatto coi proprii simili, e quindi le sue estrinsecazioni
giuridiche possono essere richiamate: al connubium , da cuideriva , si può
dire, tutto il diritto , che si riferisce alle persone; al commercium , in cui
si com pendiano tutte le manifestazioni giuridiche, che si riferiscono alle
cose ; all'actio, da cui scaturisce tutto quel complesso di proce dure, con cui
egli pud far valere qualsiasi suo diritto : vocaboli anche questi, che hanno
pure una significazione materiale e giuridica ad un tempo. Tutti questi
elementi poi, mentre concorrono a costituire l'organismo del tutto, sono
percorsi da un proprio concetto informa tore, che si viene logicamente
svolgendo, e che dà cosi origine a quella dialettica latente della
giurisprudenza romana, colla quale sol tanto si possono spiegare certe
peculiarità del diritto romano. Intanto è da notarsi, che tutto questo bagaglio
del diritto quiri tario è tolto in sostanza dal periodo gentilizio , perchè già
in esso eransi formati i concetti del caput per indicare il capo del gruppo
famigliare o gentilizio , della manus per indicare il complesso dei suoi
poteri, e del mancipium per indicare le cose e le persone che gli erano
soggette ; come pure in esso , già si erano preparati i concetti di connubium ,
di commercium e di actio . Vi ha però questa differenza, che mentre questi un
tempo indicavano dei rap porti, che intercedevano fra i membri delle varie
genti, ora indi cano invece la posizione speciale, che il quirite prende nella
co munanza quiritaria , ed i varii aspetti sotto cui dispiegasi l'attività
giuridica del quirite nei suoi rapporti cogli altri quiriti (1). Quindi è, che
mentre questi concetti un tempo avevano una significazione , che era
determinata dall'ambiente, in cui si erano formati; ora invece, essendo
staccati dall'ambiente stesso , si cambiano in altrettante forme e concezioni
logiche, e come tali diventano capaci di uno svolgi mento logico e storico
compiutamente diverso, la cui ricostruzione formerà oggetto dei capitoli
seguenti. (1) Il naturale processo , in base a cui venne formandosi un diritto
fra le varie genti, fu spiegato più sopra ai nn. 94 e seg ., pag. 117, e quello
per cui i concetti intergentilizii così formati si cambiarono in concetti
quiritarii trovasi descritto al n ° 266. Il quirite nel suo status. § 1. – Il
censo serviano e la genesi dei concetti di caput, manus , mancipium . 329.
Anche oggidi il più arduo problema, che presentino le ori gini del ius
quiritium , consiste nello spiegare come mai il mede simo si trovasse di un
tratto isolato da quell'ambiente religioso e gentilizio , in cui erasi formato
, e come esso abbia potuto prendere le mosse da concetti così sintetici e
comprensivi, quali sono quelli di caput, manus , mancipium . Come mai potè
accadere, che quel ius, che presso le genti patrizie era ancora soverchiato dal
fas ed ed avviluppato nel mos ( 1), sia pervenuto pressochè di un tratto ad
affermare la propria esistenza e a ricevere uno svolgimento lo gico e storico
del tutto distinto da quello della religione e della mo rale ? In qual modo
parimenti potè accadere, che un diritto, il quale, secondo l'attestazione dei
giureconsulti, ebbe a formarsi « necessi tate exigente et rebus ipsis
dictantibus » , siasi iniziato con sintesi potenti, che inchiudono in germe tutti
i suoi ulteriori svolgimenti ? Son note in proposito le divergenze degli autori
e le congetture innumerabili, che furono poste innanzi, ed è certo assai
difficile di giungere ad una risoluzione, che possa rispondere a tutte le ob
biezioni. Persuaso tuttavia, che per comprendere le istituzioni di un popolo ,
sia sopratutto indispensabile di spogliarsi delle idee del tempo , per
trasportarsi nell'ambiente e nel pensiero del popolo , fra cui quelle
istituzioni giunsero a formarsi, io ritengo che il solo modo per giungere a
comprendere questa singolare formazione del ius quiritium e la significazione
dei concetti da cui esso parte, sia quello di ricostrurre in base alle
condizioni economiche e sociali , in cui si trovavano il patriziato e la plebe,
quella comunanza quiritaria , (1) Il carattere eminentemente religioso del
diritto primitivo delle genti patrizie fu dimostrato più sopra, lib . I, cap. V
, pag. 90 a 104, discorrendo dei rapporti fra il mos, il fas e il ius. Il
medesimo poi si mantenne ancora durante il periodo della città esclusivamente
patrizia, come lo dimostra l'analisi delle leges regiae fatta ai nn. 268 a 270
, pag. 329 e segg. 412 la cui formazione ebbe ad essere determinata dalla
costituzione e dal censo di Servio Tullio . 330. Credo di avere dimostrato a
suo tempo come il patriziato e la plebe, anteriormente all'epoca serviana, non
avessero comuni nè la religione, né i costumi, nè l'organizzazione gentilizia ,
nè i connubii, che sono il fondamento dell'organizzazione domestica. I soli
diritti, che la città patrizia avesse accordati alle plebi circo stanti, non
devono neppure essere indicati col nome di ius com mercii , ma bensi con quello
di ius nesi mancipiique ; il quale consisteva nel diritto dei plebei di potersi
obbligare vincolando la propria persona, e di poter disporre di quelle
possessioni, che essi tenevano nel territorio romano (1). È quindi evidente
che, se era possibile una comunanza fra i due ordini, questa nelle origini non
poteva avere nè un carattere religioso e neppure un carattere mo rale, ma
poteva solo avere un carattere esclusivamente economico , giuridico e militare.
Ne consegui pertanto, che per formare questa comunanza venne ad essere
necessario di sceverare affatto il ius, nel senso stretto e rigido della parola
, dal fas e dal mos, con cui prima trovavasi implicato nelle istituzioni delle
genti patrizie . Questa selezione erasi già in parte iniziata col formarsi
della città esclusivamente patrizia, poichè già fin d'allora erasi venuta
distin guendo la vita pubblica dalla privata ed erasi già in parte affie volita
l'organizzazione gentilizia (2) ; ma la medesima dovette spin gersi ben più
oltre coll'accoglimento nel populus di un elemento , a cui non erasi
riconosciuto che il ius neximancipiique. Di qui la rigidezza singolare, che
ebbe ad assumere il ius quiritium , allorchè cominciò ad essere comune al
patriziato ed alla plebe ; poichè da quel momento esso venne ad essere
sottratto a quell'au reola religiosa e patriarcale , che dominava il periodo
gentilizio , e fu sottoposto all'impero di una logica del tutto sua propria .
Se non che , anche in tema di diritto, nel senso stretto della pa rola , non
tutte le istituzioni potevano servire di base alla comu (1 ) V., quanto alla
condizione della plebe, il lib . I, cap. IX , pag. 180 a 196, e quanto al ius
nexi mancipiique, spettante alla medesima, il nº 160 , pag. 198 e 199 , come
pure il nº 287, pag. 351 e 352. (2) Che anche il diritto della città patrizia
supponesse una specie di selezione fra le istituzioni delle varie genti,
operatasi per opera dei collegi sacerdotali e sotto forma di legislazione regia
, fu dimostrato nel libro II, cap. IV , SS 1º , 2º e 3º, pag. 303 a 333. - 413
nanza quiritaria, ma soltanto quelle che in effetto erano comuni ai due ordini,
o che erano tali da rendere possibile un ravvicina mento fra di loro . Quindi
anche in fatto di diritto convenne fare astrazione da tutti quei rapporti, che
per il momento non potevano essere comuni, per fissare lo sguardo su quei
rapporti e su quegli interessi, in base a cui essi potevano partecipare alla
stessa comu nanza. Siccome quindi l'interesse, che avevano il patriziato e la
plebe ad entrare in una stessa comunanza, era sopratutto l'interesse della
comune difesa , così la comunanza quiritaria assunse in que st'epoca un
carattere più esclusivamente militare , che prima non avesse . Siccome
parimenti gli unici rapporti, per cui poteva avve. rarsi un ravvicinamento fra
di loro, erano quelli relativi alla fa miglia unificata sotto il proprio capo,
e alla proprietà spettante alla famiglia stessa, così il ius quiritium comune
ai due ordini cominciò a consolidarsi nella parte relativa alle due istituzioni
fondamentali della proprietà e della famiglia . 331. Di cid è facile
persuadersi quando si considerino le condi zioni rispettive dei due ordini, che
dovevano partecipare alla stessa comunanza . Da una parte eran vi i membri
delle gentes patriciae , i quali ancorchè fossero i fondatori della città ,
continuavano però sempre ad essere organizzati per gruppi, sovrapponentisi gli
uni agli altri (famiglie , genti, e tribù gentilizie), come lo dimostra il
fatto, che il popolo primitivo era diviso per curiae , le quali erano appunto
for mate ex hominum generibus. Il patriziato pertanto non aveva in certo modo
il concetto della individualità nello stretto senso della parola, ma solo il
concetto dei diversi gruppi e dei capi che rap presentavano imedesimi. Di
questi gruppi poi ilmeno esteso e il più strettamente unificato era quello
della famiglia , fondata sulla agna zione, e riunita sotto la potestà del padre
. - Dall'altra parte in vece eravi la plebe, la quale, essendo una moltitudine
di individui rimasti liberi dalla clientela , o immigrati da altre città , o
traspor tati da popolazioni conquistate, componevasi invece di individui anche
isolati o tutto al più di famiglie , le quali non erano più strette insieme dal
vincolo di agnazione, ma piuttosto da quello più naturale dell'affinità e della
cognazione (1 ). (1) V.,quanto all'organizzazione gentilizia del patriziato, il
lib . I, cap. IV , e quanto alle condizioni della plebe, il lib . I, cap. IX.
414 Queste differenze poi, che esistevano fra di loro quanto alla loro
organizzazione, si riflettevano eziandio nelle loro condizioni econo miche. Da
una parte infatti continuava a prevalere presso le gentes patriciae la
proprietà collettiva dell'ager gentilicius o dell'ager compascuus, il che però
non impediva che esse già conoscessero una specie di proprietà famigliare e
privata , la quale era designata col vocabolo di heredium . Questo consisteva
nell'assegno, che le varie gentes facevano sull'ager gentilicius ad ogni
gentile, che passando a matrimonio veniva a fondare una nuova famiglia , ed era
a somi glianza di esso, che secondo la tradizione anche Romolo aveva fatto a
ciascuno dei suoi seguaci un assegno, il quale pur riteneva il nome di heredium
. Il medesimo quindi costituiva in certo modo il patrimonio famigliare, e come
tale non poteva essere alienato senza il consenso degli altri capi di famiglia
, ma doveva invece trasmettersi dai genitori ai figli, e mantenersi per quanto
si poteva indiviso (ercto non cito ); ma intanto , essendo già intestato al
capo di famiglia , cominciava ad avvicinarsi alla proprietà individuale e
privata . Dall'altra invece la plebe, non avendo l'organizzazione gentilizia ,
non poteva neppure avere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius e
dell'ager compascuus. Di qui conseguiva, che i plebei nel fatto si trovavano
stabiliti sopra certi spazi di suolo, che essi avevano occupato sul territorio
romano, o di cui avevano ottenuto il godimento da qualche gens patricia , o che
loro erano stati as segnati dal re sullo stesso ager publicus. È quindi
evidente, che questi stanziamenti della plebe, essendo una applicazione del ius
mancipii alla medesima accordato , più non potevano essere chia mati col
vocabolo di heredia, poichè questo conteneva ancora l'idea di un patrimonio
avito da trasmettersi agli eredi, ma potevano in vece più acconciamente
indicarsi col vocabolo dimancipia, poichè essi erano state effettivamente
manucapti, e perchè fino a quel punto costituivano piuttosto semplici possessi,
che non vere proprietà al punto di vista gentilizio (1). 332. In questa
diversità di condizioni egli è evidente, che il (1) Quanto al concetto
dell'heredium , come forma della proprietà famigliare nel periodo gentilizio ,
vedi il nº 56 , pag. 70 ; ma devo aggiungere, che dettando quelle pagine non
aveva ancora ravvisata la differenza esistente fra l'heredium ed il man cipium
, nè aveva cercato di spiegare come perchè all'heredium del periodo genti lizio
fosse sottentrato nel ius quiritium il concetto di mancipium . - 415 censo ,
dovendo comprendere i due ordini, non poteva tener conto che degli elementi,
che erano loro comuni. Se il censo quindi avesse dovuto farsi di soli patrizii,
si sarebbe dovuto indicare la famiglia, la gente e la tribù gentilizia a cui ap
partenevano, e avrebbesi così avuto un censo fondato sulla discen denza, come
quello sovra cui dovevano probabilmente essersi for mate le curiae. Se esso
invece avesse dovuto comprendere i soli plebei, si sarebbe dovuto procedere per
capita ; poichè fra essi ve ne erano anche di quelli, che solo avevano il loro
caput, e che non avrebbero potuto indicare la loro vera discendenza. Siccome
invece il censo, come base della nuova comunanza quiritaria, do veva
comprendere gli uni e gli altri ; cosi la soluzione fu la più naturale di tutte
, quella cioè di dare al censo non più una base genealogica (ex hominum
generibus), che avrebbe potuto compren dere solo i patrizii ed alcune famiglie
plebee, ma bensì una base territoriale e locale (ex regionibus et locis) (1),
che poteva com prendere gli uni e gli altri, e di censire gli abitanti, non per
genti e neppure per famiglie, ma per capita , attribuendo perd al voca bolo di
caput la doppia significazione di individuo e di capo di quel gruppo famigliare
, che era appunto il solo, che fosse comune al patriziato ed alla plebe. Così
pure se si fosse trattato di censire le proprietà patrizie , si sarebbe dovuto
prendere come base la proprietà collettiva della gens (ager gentilicius), nella
quale sarebbero anche rientrati gli heredia delle singole famiglie ; ma
volendosi anche censire i possessi e gli stanziamenti della plebe , convenne di
necessità prendere a base del censimento quella sola forma di proprietà e di
possesso, che apparteneva ai patrizii sotto il nome di heredium , e ai plebei
sotto quello di mancipium . Tuttavia questa proprietà individuale e famigliare
ad un tempo, che era comune ad entrambi gli ordini, non potè più essere
indicata acconciamente col vocabolo di here dium , il quale era pur sempre una
istituzione di origine gentilizia, ma potè esserlo più acconciamente con quello
di mancipium , il quale , oltre al rispondere perfettamente ai concetti di
caput e di inanus, aveva anche il vantaggio di significare al tempo stesso la
proprietà e il possesso , e di esprimere con potente efficacia quel carattere
di proprietà esclusiva ed individuale , che veniva ad assu ( 1) Gellio , XV,
28, 4 . 416 mere quel patrimonio , che nel censo era intestato ad una deter
minata persona. La conseguenza intanto fu questa , che nella comunanza
quiritaria , formatasi in base alla costituzione ed al censo serviano, mentre
il patrizio fu isolato in certo modo dall'ambiente gentilizio , in cui esso
prima si trovava, il plebeo ottenne invece il riconoscimento ufficiale del
possesso, sovra cui esso era stabilito. L'uno e l'altro comparvero nel censo
come quiriti, ossia come capi di famiglia e come proprietarii di terra ; ebbero
un complesso di diritti comuni, che prese appunto il nome di ius quiritium .
Così pure la comunanza quiritaria , avendo una base economica , venne a
considerare ogni cosa sotto l'aspetto del mio e del tuo, e assunse eziandio una
impronta emi nentemente militare, che spiega quel carattere di forza e di vio
lenza che è inerente al ius quiritium e si rivela nei vocaboli e nei simboli da
esso adoperati. 333. Pongasi ora, che trattisi di comprendere in certe rubriche
, che si adattino per la formazione del censo , l'individualità giuridica di
questo quirite, e anche oggidi sarebbe forse difficile di sovrap porre a queste
varie rubriche vocaboli più sintetici e compren sivi e al tempo stesso più
esatti e precisi di quelli di caput, manus, mancipium . Nella categoria del
caput verrà il nome del cittadino, libero e sui iuris, come individuo e come
capo di famiglia , e vi saranno le indicazioni del suo nome, della sua età ,
della tribù locale a cui appartiene , la cui indicazione finirà anzi per formar
parte delle denominazioni ufficiali del cittadino romano (1). Nella seconda
rubrica invece saranno indicati i poteri, che a lui ap partengono sulle
persone, che entrano a costituire il gruppo , di cui egli è capo , sulle
persone cioè , che siano in manu , in potestate, in mancipio, e siccome questa
enumerazione dovrà naturalmente par tire dalla moglie, che trovasi sotto la
manus, così può spiegarsi come tutti questi poteri vengano sotto la
intitolazione generica di manus. Nella terza categoria infine comparirà il
mancipium , ossia il complesso delle persone e delle cose , che costituivano il
vero patri monio del quirite , in quanto egli era un capo di famiglia indipen
dente e sovrano. (1) Che il nome della tribù, a cui il cittadino apparteneva,
entrasse nelle deno minazioni ufficiali del medesimo, appare da una quantità
grandissima di iscrizioni. V. in proposito il MICHEL, Du droit de cité romaine,
Paris, 1885. 417 Questo mancipium pertanto non potrà più comprendere nè l'ager
gentilicius, come quello che non appartiene al capo di famiglia, ma alla gente
; né le mandrie e gli armenti, che pascolano in questo ager gentilicius; né
eziandio le possessiones , che si possano avere nell'ager publicus; nè la
pecunia circolante , il cui ammontare pud essere variabile e non si presta ad
una constatazione esatta e pre cisa, quale è quella richiesta per un censo ; ma
dovrà invece com prendere soltanto quella proprietà , che costituisse in certo
modo il patrimonio normale, costante, e pressochè tipico di un capo di fa
miglia agricola , nelle condizioni economiche e sociali in cui trova vasi
allora il popolo romano. Egli è probabile infatti, per chi tenga conto della
tendenza delle genti italiche a modellare i loro istituti sul medesimo tipo ,
che quel mancipium , che doveva figurare nel censo , quale patrimonio asso luto
ed esclusivo del quirite, tendesse nella generalità dei casi ad essere
configurato nella istessa guisa . Per verità se trattavasi dell'heredium ossia
dell'assegno fatto ad un capo di famiglia di gente patrizia , il medesimo
probabilmente doveva consistere in uno spazio dell'ager gentilicius, che
potesse bastare all'abitazione e al sostentamento di lui e della sua famiglia ;
ed è certo a somiglianza di questi primitivi assegni, che, salve le proporzioni
, dovettero es sere configurati gli assegni, che le genti facevano ai clienti,
e quelli parimenti che i re facevano alla plebe. Di qui consegui na turalmente
che, facendo astrazione dalla quantità maggiore o mi nore di iugera , o
dall'ampiezza maggiore o minore della domus in città o del tugurium nel
contado, dovette formarsi una configura zione tipica del podere del quirite.
Che anzi non è punto impro babile , che nella formazione del censo , dovendosi
ridurre a categorie generali le cose essenziali, che entravano a costituire
questo man cipium , anche queste fossero raccolte sotto certe denominazioni ti
piche, quali sarebbero quelle di praedia , di praediorum instru menta (servi,
quadrupedes quae dorso collove domantur), di praediorum servitutes (iter, via,
actus, aquaeductus); le quali po terono assai naturalmente essere indicate col
vocabolo complessivo di res mancipii, come quelle che effettivamente entravano
a costi tuire il mancipium (1). (1) Mi limito qui ad accennare in genere come
possa esser nato e siasi svolto l'importantissimo concetto del mancipium ,
perchè le molteplici questioni al riguardo saranno prese più opportunamente in
esame in questo stesso capitolo , § 4º, ove si G. Carle, Le origini del diritto
di Roma . 27 - 418 334. Intanto una conseguenza necessaria di questa specie di
se lezione del patrimonio , che apparteneva ad ogni singolo capo di fa miglia ,
veniva ad essere questa , che le res mancipii , come quelle che servivano a
determinare la posizione di esso nella comunanza quiritaria , costituissero
come una specie di proprietà privilegiata , che doveva ritenersi appartenere in
modo assoluto ed esclusivo al quirite, a cui trovavasi intestata. Si vengono
così a comprendere le espressioni più antiche di mancipium facere , mancipio
dare, mancipio accipere, le quali dapprima dovettero significare la costi
tuzione di una cosa nel mancipium , e poi anche l'acquistare e il trasmettere
una cosa , che fa parte del mancipium ; finchè la fre quenza di questi atti non
condusse a creare un vocabolo apposito, che è quello di mancipare , da cui
derivò appunto quello della mancipatio, la quale venne cosi ad essere il modo
proprio ed esclu sivo per l'alienazione delle res mancipii (1 ). Non conseguiva
tuttavia da cid , che non esistessero altri beni, di cui il cittadino avesse
l'effettivo godimento : ma questi non con tavano nel determinare la sua
posizione di quirite , non entravano a costituire il suo contributo alla
comunanza quiritaria , e come tali non erano dapprima oggetto di proprietà
assoluta ed esclusiva, nelvero senso della parola : essi formavano piuttosto
oggetto di uso e di godimento, ed erano compresi genericamente in una categoria
ne gativa, che più tardi fu denominata delle res nec mancipii, le quali perciò
potevano essere alienate collasemplice traditio . Può dirsi pertanto , che il
mancipium fu in certo modo la prima pro prietà ufficialmente constatata del
cittadino romano , fuori della quale poteva esservi uso o godimento, ma non
proprietà nel senso vero della parola e al p semplice traditio . Può dirsi
pertanto , che il mancipium fu in certo modo la prima pro prietà ufficialmente
constatata del cittadino romano , fuori della quale poteva esservi uso o
godimento, ma non proprietà nel senso vero della parola e al punto di vista
quiritario . È poi questa se parazione, che a causa del censo si venne operando
fra l'intesta zione ufficiale della proprietà di una cosa, e l'effettivo
godimento di essa, che ci spiega come negli antichi autori si contrappongano
tratterà ex professo del mancipium e della distinzione delle res mancipii e nec
mancipii. L'idea che la distinzione delle res mancipië e nec mancipii dovesse
avere qualche attinenza col censo Serviano ebbe già ad essere enunciata dal
PUTTENDORF, dal LANGE, dalWANGERON, dal Kuntze, ed è anche seguìta presso di
noi dal SERAFINI, Istituz., Firenze, 1881, § 21. Vedi lo Squitti, Resmancipi e
nec mancipi, Napoli, 1885, pag. 51, gli autori ivi citati, e gli argomenti che
egli adduce contro questa opinione, quale ebbe ad essere fino ad ora formulata
. ( 1) Cfr. BONFANTE , Res mancipi e nec mancipi, Roma 1888, pag. 90 . 9 419
talvolta i concetti dimancipium e quelli di usus fructus (1), e come più tardi
abbia potuto accadere, che una persona avesse sopra una cosa il nudum ius
quiritium , mentre un'altra invece ne aveva l'ef fettivo godimento (in bonis ).
È poi facile a comprendere come questa posizione privilegiata, in cui venne ad
essere collocato il mancipium , abbia anche cooperato efficacemente a
dissolvere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius , e con essa a
dissolvere eziandio l'organizzazione gentilizia , la quale venne in certo modo
ad essere senza base , allorchè manco del suo fondamento economico. Ogni gens
patricia infatti, se volle avere una quantità di suffragii anche nelle
centurie, ove fini per concentrarsi la somma del pubblico potere, dovette
affrettarsi a fare degli assegni di terra ai proprii membri non solo , ma anche
ai proprii clienti e per tal modo gli agri gentilicii vennero spartendosi, ed
all '« ercto non cito » , che indicava l'indivisione del patrimonio famigliare
nel periodo gentilizio , sottentrò il principio già riconosciuto dalle XII
Tavole , secondo cui altri non può essere costretto a rimanere in comunione suo
malgrado: « si erctum ciet , arbitros tres dato » (2 ). 335. Così spiegato il
censo serviano, viene a conseguirne che se vogliasi conoscere la vera posizione
del quirite , non come uomo, ma come membro della comunanza quiritaria , sarà
nelle tabulae censoriae, che a lui si riferiscono, che dovrà essere cercato il
suo vero status. Quindi se trattisi di un cittadino, libero e sui iuris, ma
senza potestà famigliare e senza patrimonio, egli sarà bensi un caput, ma, non
avendo che quello , sarà un capite census, e sarà (1) Questo contrapposto
occorre più volte nelle epistole di CICERONE, e fra le altre volte in una
lettera ad Curium , VII, 30, 2 ove scrive : « Cuius (Attici) quando « proprium
te esse scribis mancipio et nexo, meum autem usu et fructu , contentus « isto
sum . Id enim est cuiusque proprium , quo quisque fruitur atque utitur » ; il
che significava in sostanza, che egli preferiva al dominio ufficiale su Curio
(man. cipium et nexum ), che spettava ad Attico, il godimento effettivo (usus
et fructus ) della sua conversazione. Altre volte però questo contrapposto ha
una significazione diversa , come nel bel verso di LUCR., III, 969 : « vita
mancipio nulli datur, omnibus usu » , ove mancipium si contrappone ad usus, in
quanto significa una cosa , che ci appartiene a discrezione, in guisa da
poterne usare ed abusare, ed indica così il potere illimitato ed esclusivo, che
competeva sulmancipium . Cfr. BONFANTE , op. cit., pag. 92, nota 2, e pag . 96,
nº 2 , e gli altri passi ivi citati. (2 ) Secondo la ricostruzione del Voigt,
op. cit., I, pag. 712, tale sarebbe stato il tenore della legge 16 , della
tavola V. 420 solo molto tardi, che la repubblica si contenterà di accettarlo
nella formazione del proprio esercito . Che se egli, pur non avendo il
patrimonio richiesto per entrare nelle classi e centurie , abbia tut tavia
qualche sostanza ( 1500 assi) ed una prole , che può crescere a benefizio della
repubblica e che può interessarlo per essa, egli figu rerà nel censo colla
prole stessa e colla manus, che gli appartiene sulla medesima, e sarà cosi
nella classe dei proletarii, la quale è già in condizione meno umile, poichè in
condizioni difficili potrà far parte, se non del vero esercito , almeno di una
specie di milizia raccogli ticcia (militia tumultuaria ), che sarà armata a
spese della repub blica (1). Infine se anche per ciò, che si riferisce al
mancipium , egli giunga a quella misura, che è necessaria per essere ammesso
nelle classi e nelle centurie, egli verrà ad essere adsiduus o locuples, e
secondo il valore maggiore o minore del suo mancipium potrà essere collocato in
una delle cinque classi, che formano il vero po pulus romanus quiritium .
Queste diverse categorie verranno poi ad essere così distinte fra di loro, che
ancora nelle XII Tavole per un adsiduus convenuto in giudizio per un debito ,
dovrà rispon dere un altro adsiduus, mentre per il proletario potrà rispondere
chicchessia: « adsiduo vindex adsiduus esto ; proletario, iam civi, quis volet
vindex esto » ; ed è solo più tardi che, secondo l'atte stazione di Gellio , «
proletarii et adsidui evanuerunt, omnisque illa XII Tabularum antiquitas consopita
est » ( 2). Tutto ciò intanto spiega come dalle stesse tavole censuarie si po
tesse desumere lo status generalis del quirite sia come individuo , che come
capo di famiglia e proprietario . Siccome tuttavia, accanto alle qualificazioni
generali del capo gruppo , trovavansi pure nel censo le qualificazioni speciali
di pater familias, mater familias, di liberi, di servi, di sui iuris , di
alieni iuris, così anche queste varie gradazioni dello stato giuridico, senza
essere create dal censo , furono tuttavia nel medesimo delineate , e per tal
modo esso cooperd eziandio a svolgere e a precisare, accanto al concetto
generale del quirite come tale, anche il concetto degli stati speciali, che una
persona rappresentava nel gruppo a cui apparteneva. ( 1) Questa condizione dei
capite censi e dei proletarii, riguardo al servizio mili tare, ci è attestata
espressamente da GELLIO, XVI, 10 , $$ 10 a 15. Egli poi, citando un passo di
Sallustio, direbbe che i capite censi non furono arruolati, che da C. Mario
nella guerra contro i Cimbri, o in quella contro Giugurta . ( 2 ) Gellio , XI,
6 , 10, 8 . Che se alle cose premesse si aggiunga, che il censo all'epoca
serviana fu il documento ufficiale dello stato del cittadino, il quale serviva
a determinare la sua posizione come contribuente, come cit tadino e come
soldato ad un tempo, per guisa che la sola iscrizione nel censo poteva valere
per la manomissione di un servo, sarà fa cile il comprendere come esso abbia
potuto in parte conferire a determinare il linguaggio sintetico ed astratto, da
cui prese le mosse il ius quiritium , ed il processo con cui esso vennesi
elaborando. Esso infatti fu uno dei mezzi più potenti, mediante cui
l'individualità giuridica del cittadino fu isolata da tutti gli elementi
estranei al diritto, ed il quirite fu sottratto all'ambiente gentilizio in cui
prima si trovava , ed obbligato a fermare il suo sguardo sovra quei rapporti
che comparivano nel censo . Esso parimenti fu una delle cause per cui il ius.
quiritium , che venne elaborandosi su questa trama pri mitiva, perdette di un
tratto quell'aureola religiosa , che circondava le istituzioni delle genti
patrizie, e potè essere svolto con una rigi dezza e con una logica astratta ,
che sarebbero certo incomprensi bili, quando non si conoscesse la causa , da
cui poterono essere de terminate. Con ciò non intendo già affermare , che i
concetti, da cui prese le mosse il ius quiritium , siano stati creati dal censo
, poichè ho dimostrato invece che essi già preesistevano ; ma solo di provare ,
che il censo servi a dare loro una configurazione esatta e precisa ; a
separarli nettamente gli uni dagli altri ; a fare in guisa che ciascuno avesse
un'esistenza propria e distinta, an corchè fra tutti concorressero a costituire
una sola individualità giuridica . Fu in questo modo , che al punto di vista
quiritario ogni gruppo apparve in certo modo unificato sotto il proprio capo ;
che tanto il diritto sulle persone che quello sulle cose nel l'elaborazione
giuridica si ridusse ad una questione di mio e di tuo; che ciascun gruppo,
essendo per dir cosi racchiuso in una cate goria determinata , ebbe
un'esistenza cosi distinta da tutti gli altri gruppi, che i membri dell'uno non
potevano promettere nè stipu lare per quelli dell'altro ; che infine anche le
varie membra del quirite si vennero come dislogando le une dalle altre , e
poterono ricevere ciascuno un proprio sviluppo, dando così occasione a quel
l'automatismo di concetti e di istituti, che è uno dei caratteri più salienti
del diritto romano. Intanto questo sguardo generale ai caratteri peculiari
della co munanza quiritaria , quale si formò nell'epoca serviana , e al censo
che servi di base alla medesima, ci preparerà la via per ricostruire 422 la
storia primitiva dei concetti fondamentali di questa, che può a ragione chiamarsi
la parte statica del ius quiritium , in quanto fu in parte determinata da una
delle prime applicazioni della sta tistica per la constatazione del numero,
della forza e della ricchezza di un popolo (1). § 2. – Il concetto del caput e
la teoria della capitis diminutio. 337. Chi volesse cercare le prime origini
del concetto di caput, dovrebbe forse riportarsi col pensiero a quell'epoca, in
cui i fonda tori della città contavano dai capi i proprii greggi ed armenti ;
nè sarebbe a farne le meraviglie dalmomento, che essi non dubitavano di
chiamare ovilia quei recinti, in cui raccoglievansi le centurie e le classi per
dare il proprio voto nei comizii. Parmi tuttavia più verosimile, che il
vocabolo di caput dovesse, nel periodo gentilizio anteriore alla formazione
della città , avere quella significazione, che tuttora conserva presso le
popolazioni, che si trovano nelle stesse condizioni sociali, per cui esso
indica un capo di gruppo, quella per sona cioè, che avendo preminenza su tutti
quelli, che da essa di pendono e che la circondano, pud essere considerata come
il rap presentante, in cui si unifica il gruppo stesso . Questo vocabolo poi,
trapiantato nel censo serviano, viene ad indicare colui, che conta per uno nel
censo , e conserva cosi un'analogia colla significazione anteriore, in quanto
che il medesimo, pur essendo un individuo, unifica però in sè stesso le persone
e le cose che ne dipendono . Se per tanto altri non abbia che il proprio caput
e manchidi una sostanza valutabile nel censo stesso , verrà ad essere un capite
census ; se invece abbia solo una sostanza, che giunga ai 1500 assi e conti so
. pratutto per la prole, che potrà produrre per la repubblica, sarà un
proletarius ; se infine abbia una sede fissa , e sostanze sufficienti per (1) A
scanso di ogni malinteso, devo qui dichiarare che il concetto, che qui ap pare
come direttivo nella ricostruzione della parte statica del ius quiritium , non
fu un presupposto, dal quale io sia partito, ma fu il risultato ultimo, a cui
mi con dussero pazienti e minute elucubrazioni intorno ai singolari caratteri
con cui esso si presenta. Questo paragrafo pertanto fu l'ultimo ad essere
scritto, ma ho creduto di premetterlo; perchè esso, a mio avviso, agevola al
lettore la comprensione di ciò che verrà dopo. Ciò valga anche a farmi
perdonare, se per avventura occorra qualche ine vitabile ripetizione. 423
collocarlo nelle classi e per assicurare la città della assiduità di lui a
compiere le proprie obbligazioni di cittadino e di soldato ad un tempo, verrà
ad essere chiamato adsiduus o locuples ( 1). In ogni caso, per avere integro il
proprio caput e per poter contare per uno nel censo , conviene essere libero,
cittadino, e sui iuris nel seno della famiglia ; come lo dimostra il fatto ,
che se altri abbia un figlio , che per aver raggiunta l'età di 17 anni debba
già entrare nelle classi e nelle centurie, non sarà esso che conterà per uno,
ma sarà invece il padre, che verrà ad essere un duicensus, in quanto che egli
viene ad essere censito con un'altra persona , cioè col proprio figlio : «
duicensus dicebatur cum altero id est cum filio, census » (2 ). 338. È quindi
facile il comprendere comefosse facile il passaggio dalla significazione
materiale del caput alla significazione giuridica di esso, chiamando col
vocabolo di caput il complesso delle condi zioni richieste per figurare nel
censo , ossia lo stato generale della persona. In tal modo il vocabolo di caput
cessa di indicare questo o quell'individuo in particolare, per trasformarsi in
una concezione logica ed astratta (persona ), la quale , ancorchè ricavata
dalla realtà , può servire ad indicare il complesso delle condizioni richieste,
accid altri possa avere la capacità giuridica quiritaria . Una volta poi, che
il caput venne cosi ad essere cambiato in una concezione astratta , il medesimo
potè essere assoggettato ad una specie di analisi o di scomposizione dei varii
elementi, che entravano a costituirlo . Tali elementi erano la libertas, la
civitas e la qualità di sui iuris nel seno della famiglia (3). Di qui la teoria
della capitis diminutio , che non si ricavò esclusivamente dai fatti, ma si
svolse sulla concezione logica del caput; come lo dimostra il fatto, che anche
l'emancipato, anche l'arrogato , sebbene in sostanza vengano talvolta a
migliorare (1) Quanto all'etimologia di questi vocaboli vedi il $ prec., nº
335. (2 ) V. Festo , vº duicensus ; Bruns, Fontes, pag. 337. (3) V. quanto al
concetto di caput, Herzog , Gesch . und Syst., I, pag. 997; il KRÜGER,
Geschichte der capitis diminutio, Breslau, 1887, $ 5 “, pag. 49 a 67, ove
prende in esame il concetto di caput nei diversi autori moderni, sopratutto
germa nici. Egli poi sembra ritenere, che il concetto di caput siasi venuto
formando gra datamente. Ritengo invece, che il diritto romano anche in questo
prorompa da una sintesi potente, a cui solo più tardi sottentrò quell'analisi,
che diede poi origine alla teoria della capitis diminutio. Il caput quindi
dapprima appartenne solo all'uomo libero, cittadino, e sui iuris; e fu solo più
tardi, che anche il figlio di famiglia si considerò avere un caput. 424 la
propria posizione, finiscono tuttavia per subire una capitis dimi nutio (1 ).
Che anzi questa logica giuridica dovrà anche applicarsi al cittadino , che sia
fatto prigioniero di guerra, e piuttosto che venir meno alla medesima si
cercherà di supplirvi colla finzione di postliminio (2 ) Intanto sono tre gli
elementi del caput, e questi vengono l'uno dopo l'altro in base alla loro
importanza. Quindi la perdita della libertas costituisce la maxima capitis
diminutio , la perdita della civitas la media, e la mutazione di stato nel seno
della famiglia la minima. Ciascuno poi di questi elementi dà origine ad una di
stinzione che vi corrisponde ; donde le distinzioni fra liberi e servi, fra
cives e peregrini, fra persone sui iuris e le persone alieni ( 1) Gaio , Comm.,
I, 160-64. Secondo il Krüger , op. cit., pag . 5 a 21, ed altri autori
germanici da lui citati, la teoria della capitis diminutio avrebbe avuto uno
svolgimento storico, nel senso che la prima a delinearsi sarebbe stata la mi
nima capitis diminutio, sul cui modello si sarebbe poi foggiata la magna
capitis diminutio , che fu poi divisa in maxima e media capitis diminutio.
Ritengo anch'io, che questa istituzione dovette avere uno svolgimento
storico,ma nel senso che come fu sintetico il concetto primitivo di caput, così
la primitiva capitis diminutio dovette comprendere qualsiasi avvenimento, per
cui altri cessasse di tare come un caput. Quindi la perdita della libertà,
quella della cittadinanza e l'adrogatio per cui altri cessava di essere sui
iuris, dovettero costituire la capitis diminutio, che venne poi distinguendosi
nelle sue varie specie. Sarà poi sempre un problema il determinare come mai
l'emancipatio potesse costituire una capitis diminutio, e si comprende come il
Savigny , Traité de droit romain , trad . Guenoux, II, pag. 66, quasi voglia
esclu derla dalla vera capitis diminutio ; ma questa singolarità potrà essere
capita quando si ritenga, che nel censo primitivo ogni famiglia sotto il suo
capo costituiva un gruppo, e quindi anche l'emancipazione, facendo uscire
quell' individuo dal gruppo, costituiva, come dice Gajo, una « prioris status
permutatio » , la quale era anche compresa nella significazione larga di
capitis diminutio . Del resto l'emancipatio sotto un certo aspetto produceva
anche un deterioramento nello status dell' emancipato, poichè nel diritto
primitivo questi perdeva ogni diritto di successione di fronte al gruppo, da
cui esso era uscito. Intanto ciò serve eziandio a spiegare quella singolarità
del diritto romano, in virtù di cui la capitis diminutio fa perdere soltanto i
diritti fondati sull'agnazione, e non quelli provenienti dalla cognazione,
poichè quella teoria fu una creazione del ius quiritium e del ius civile, e
come tale non poteva produrre effetti, che al punto di vista del diritto civile
, per la ragione appunto detta da Gajo , Comm ., I, 158 : « civilis ratio
civilia quidem iura corrumpere potest, naturalia vero non potest » ;
distinzione questa , che nell'epoche primitive non poteva esservi, ma cominciò
a formarsi quando comparve il dualismo fra il ius civile ed il ius gentium , a
cui sottentrò più tardi il ius naturale. (2) È nota in proposito la finzione
della legge Cornelia de iure postliminii. Cfr. Voigt, XII Tafeln , I, pag . 299
e 300. 425 - iuris , le quali vengono ad essere fondamentali e servono di punto
di partenza anche ai giureconsulti classici, come lo dimostrano le Isti tuzioni
di Gaio . Che anzi, una volta adottato questo metodo , si po terono anche
attuare delle posizioni giuridiche intermedie, come quella che è rappresentata
dal ius latii , e queste si poterono applicare tanto ai popoli, ai quali non si
voleva accordare il completo ius quiritium , quanto eziandio ai servi
affrancati, i quali, invece di es sere posti senz'altro nella condizione degli
altri cives , erano invece collocati nella condizione di latini iuniani ( 1) .
Certo tutta questa teoria non potè svilupparsi di un tratto ; ma intanto è con
Servio , che si pose il vocabolo ed il concetto infor matore della medesima, e
si iniziò così quel processo logico , che de terminò poi l'elaborazione
progressiva. Questa poi si spinse fino tale da distinguere fra lo stato
generale della persona e le condizioni speciali, in cui essa può trovarsi;
donde ne provennero le determina zioni giuridiche speciali del pater familias ,
del filius familias , della mater familias, che distinguesi dall'uxor. Che anzi
ciascuno di questi stati speciali venne eziandio a convertirsi in una conce
zione astratta, per modo che una persona poteva essere padre senza aver figli ,
essere tenuto come figlio , ancorchè effettivamente fosse padre, essere
riguardata come figlia, ancorchè in effetto fosse moglie, poichè tutto
dipendeva dal punto di vista giuridico , sotto cui la per sona veniva ad essere
considerata (2 ). ( 1) Per tal modo mentre prima non eravi che una specie di
libertas se ne ven nero creando varie gradazioni, cioè quella dei libertini,
che erano cives romani, quella dei latini, e quella infine dei dediticii; altra
prova questa , che il concetto pri mitivo è sempre sintetico , mentre le
suddistinzioni compariscono più tardi. V. GAJO , Comm ., I, 10 . ( 2 ) Ciò è
detto espressamente da ULPIANO, Leg., 195 , § 2 , dig . (50 , 16) ove dice del
pater familias: « recteque hoc nomine appellatur , quamvis filium non habeat;
non enim solam personam eius, sed et ius demonstramus » ; il che vuol dire, che
nel qualificarlo come tale, il giureconsulto si poneva al punto di vista
giuridico. Era poi nello stesso modo, che la moglie in manu si riteneva figlia
del marito, e simili. Ciò mi indurrebbe alquanto a modificare la teoria
accettata intorno alla fictiones nell'antico diritto. Tali fictiones dal SUMNER
-MAINE, Ancien droit, pag . 25 e dal Juering , Ésprit de droit romain , IV, p.
295, sono in certo modo ritenute come alterazioni della realtà dei fatti, a cui
si ricorre per modificare il diritto già esi stente. Se ciò è vero delle
finzioni, che poifurono introdotte dal diritto pretorio, non può dirsi delle
fictiones del primitivo ius quiritium . Queste, come lo dice la stessa
etimologia da fingere nel senso di foggiare, modellare, fanno parte dell' ars
iura condendi, e sono un mezzo per completare una costruzione giuridica. 426
339. Quando poi venne ad essere cosi svolta la concezione giu ridica del caput,
era naturale che la medesima potesse essere con siderata indipendentemente da
colui, al quale essa si riferiva , e che fosse così riguardata come una specie
di persona e quasi ma schera giuridica , che poteva essere anche sovrapposta
non solo ad uomini realmente esistenti, ma eziandio a quegli enti giuridici, i
quali « etiam sine ullo corpore iuris intellectum habent » : donde la co
struzione delle persone giuridiche ( 1). Che anzi si va anche più oltre e per
quell'immedesimarsi che è proprio di quest'epoca fra i diritti delle persone e
quelli sulle cose, anche la proprietà quiritaria può essere considerata , o in
quanto è perfetta e senza limitazione (er optimo iure quiritium ), o in quanto
può subire delle diminuzioni, le quali verranno ad essere designate col
vocabolo di servitutes, perchè anch'esse, al pari della servitù riguardo alle
persone, scemano e di minuiscono quella perfetta posizione giuridica , in cui
trovasi la proprietà del fondo, allorchè non abbia subito limitazione di sorta
(2 ). Si comprende infine come spinta fino a questo punto l'elabora zione del
concetto del caput, la medesima sia una costruzione giu ridica , che può anche
stare da sè e svolgersi per conto proprio , secondo che esige la logica
informatrice dei varii elementi, che en trano a costituirla. Che anzi questo
caput e lo stato giuridico , che ne dipende , potrà anche essere trasportato da
una ad un'altra per sona. Quindi è facile a spiegarsi come il caput dapprima
non ap partenesse che al capo di famiglia , e poi fosse attribuito ad ogni
cittadino, e per ultimo all'uomo libero ; nel qual trapasso la logica giuridica
non fa che rinunziare successivamente ad uno dei tre ele menti, che
costituivano il primitivo stato generale della persona. Essa comincia quindi a
rinunziare alla qualità di sui iuris , e viene (1) Tale essendo il processo
seguito dalla giurisprudenza romana nella formazione del concetto di persona ,
la famosa questione intorno all'esistenza della persona giu ridica in diritto
romano può essere risolta nel senso che essa deve ritenersi come una fictio
iuris , attribuendo però a questo vocabolo la significazione sopra accennata di
una costruzione giuridica modellata su quella della persona fisica , ma
limitata solo a quella categoria dei diritti della persona fisica , che poteva
avere una base nella realtà ; donde la conseguenza, che queste persone hanno il
diritto ai beni, ma non possono avere i diritti di famiglia. Cfr. Savigny,
Traité de droit romain , II, pag. 234 e segg. (2) Questo svolgimento pressochè
parallelo del concetto della persona e della pro prietà libera da qualsiasi
vincolo sarà posto in maggior luce in questo stesso capi tolo , § 5 ,
discorrendo del dominium ec iure quiritium . 427 ad essere capace di diritto
ogni cittadino, ancorchè non sia capo di famiglia ; poi rinunzia indirettamente
a quella di civis, in quanto che la civitas finisce per essere estesa a tutti i
sudditi dell'impero, e viene ad essere persona ogni uomo libero ; ma la logica
romana non potè ancora fare a meno della libertas per accordare il caput, e
quindi solo l'uomo libero fu dalla medesima considerato come capace di diritti
e di obbligazioni. Nè è il caso di fargliene colpa, perchè la logica romana si
basava sui fatti, e la schiavitù , finchè durò il Romano Impero , fu una istituzione
comune a tutte le genti ( 1). Cid perd non tolse, che il concetto del caput o
della persona, quale era stato elaborato dai Romani, potesse più tardi essere
trasportato anche all'uomo come tale, perchè esso era una costruzione logica ,
la quale, foggiata dapprima sulla realtà dei fatti, erasi poi staccata da essi,
e poteva così ricevere delle nuove applicazioni. S 3 . Il concetto di manus e
le sue principali distinzioni. 340. Può darsi benissimo, che l'antichissimo
vocabolo dimanus significasse un tempo la forza effettiva dell'uomo, in quanto
sottopone a sè stesso uomini e cose , ossia la forza del vincitore, che si
impone al vinto , o il potere dell'uomo, che doma e addomestica gli animali. È
tuttavia più probabile, che questo vocabolo nel periodo gentilizio significasse
già il potere effettivo, di cui ciascun capo poteva disporre , nei conflitti e
nelle lotte coi capi delle altre famiglie e genti, della qual primitiva
significazione potrebbero ancora trovarsi le traccie nel nostro vocabolo di
masnada. La manus invece nelius qui ritium viene già a cambiarsi anch'essa in
una concezione giuridica ed astratta , che comprende il complesso dei poteri,
che appartengono ad una persona nella sua qualità di quirite. Come il vocabolo
di caput indica per cosi esprimersi la capacità potenziale del quirite : cosi
l'estrinsecazione effettiva di questa potenza sulle persone e cose ( 1) Il
Bruns, Geschichte und Quellen des röm . Rechts ( in HOLTZEND., Encyclop ., I,
pag . 105 ), ebbe a dire con ragione, che il più alto concepimento del diritto
ro mano consiste nell'avere riconosciuto in ogni uomo libero la capacità
astratta didiritto. Cid è vero ; ma vuolsi aggiungere, che il diritto romano vi
pervenne a gradi, e ri conobbe questa piena capacità prima al capo famiglia ,
poi al civis, e da ultimo all'uomo libero. Cfr. BRUGI, Le cause intrinseche
della universalità del diritto ro mano, Prolus., Palermo, 1886, pag. 8. 428 che
ne dipendono viene ad essere designata col vocabolo di manus (1) . È questo il
motivo, per cui la manus viene a comparire in tutte le manifestazioni, che si
riferiscono al diritto quiritario. Se essa afferra qualche cosa nell'intento di
acquistarvi sopra la proprietà ex iure quiritium viene ad aversi la manu capio
; se essa riven dica qualche cosa che spetta al quirite da altri che lo
possegga, abbiamo la vindicatio e la manuum consertio : se essa lascia uscire
qualche cosa dal proprio potere quiritario , abbiamo la manumissio e la
emancipatio ; se essa infine afferra il debitore condannato per trascinarlo nel
carcere privato abbiamo la manus iniectio . Questa manus simbolica non è però
sempre inerme, ma talvolta compare munita della lancia od asta quiritaria , che
trovasi simboleggiata nella vindicta , la quale serve come modo tipico per la
manomis sione dei servi; nella festuca, il cui uso si mantiene nell’actio sa
cramento; nell'hasta , sotto cui si mette all'incanto il bottino fatto in
guerra, e che si infigge dinanzi al centumvirale iudicium . Questo potere
giuridico , sintetico e comprensivo, subisce poi anche l'influenza del censo
serviano, e quindi viene negli inizii ad essere modellato sul concetto del mio
e del tuo, per modo che così il potere sulla moglie, che quello sui figli , che
quello sui servi e sulle persone quae sunt in causa mancipii appariscono
foggiati sul modello della proprietà , sebbene non sia lecito dubitare, che
essi nel costume pre (1 ) La generalità degli scrittori è oggi concorde
nell'ammettere, che dei varii vo caboli per significare il potere giuridico
spettante al quirite il più antico sia quello di manus. Tale è l'opinione del
Sumner Maine, del Voigt, del PADELLETTI, ed essa trova anche un fondamento
nell'analogia fra la manus dei Romani e il mundium dei Germani. La questione
sta piuttosto in vedere se il vocabolo dimanus comprenda solo i poteri sulle
persone, compresi anche i servi, oppure anche il potere sulle cose . Egli è
certo a questo riguardo , che i giureconsulti classici dànno al vocabolo di
manus il significato di potere sulle persone e considerano questo vocabolo come
un sinonimo di potestas. Tuttavia io riterrei probabile, che il vocabolo
dimanus in una signifi cazione del tutto primitiva potesse anche comprendere il
potere sulle cose, e ciò per il semplice motivo, che altrimenti nel diritto
antico non vi sarebbe stato vocabolo per significare la proprietà e il dominio.
È vero che alcuni dicono, che questo voca bolo primitivo sarebbe quello
dimancipium : ma miriservo di dimostrare a suo tempo, che questo vocabolo
significò piuttosto le cose soggette al potere , che non il potere una
spettante sulle medesime. In ogni caso, se al vocabolo di mancipium si vuol
dare etimologia è necessità di darvi quella di manu-captum , e in tal caso la
manus comparirebbe ugualmente per significare l'assoggettamento di una cosa al
potere della persona . Cfr. Voigt , XII Tafeln , II, $ 79; BONFANTE , Res
mancipi e nec mancipi, pag. 100 , nota 1 ; Longo, La mancipatio, Firenze ,
1887, pag. 3 , nota 4. 429 sentavano delle differenze e dei temperamenti. Così
pure , sotto il punto di vista giuridico, nulla hanno di proprio nè la moglie ,
nè i figli, né i servi , e tutto ciò che essi acquistano va al marito, al
padre, al padrone, perchè è lui il vero quirite e quegli che conta nel censo .
Sarà poi una conseguenza di questa logica giuridica, che se il dipendente rechi
un danno, il capo di famiglia potrà addive nire alla noxae datio ; che se
alcuno si ribellerà al suo potere , gli spetterà un ius coercendi, che potrà
giungere fino al ius vitae ac necis ; e se alcuna delle persone , che da esso dipendono,
verrà ad essergli sottratta , egli potrà proporre percid quella stessa actio
furti od actio exhibendi, che potrebbe da lui essere proposta per una cosa, di
cui sia stato derubato . 341. Dalmomento poi che la manus costituisce così una
concezione giuridica, si comprende che anche ad essa siasi applicata quella
scom posizione, che ebbe già a dispiegarsi quanto al caput. Si spiegano così le
iniziali conservateci da Valerio Probo, secondo cui il potere giuridico del
quirite verrebbe a suddividersi nella manus, che resta a significare il potere
del marito sulla moglie , nella potestas, che significa il potere del padre sui
figli, e nel mancipium , che qui sembra indicare il potere sulle persone quae
sunt in mancipii causa . Quest'ultimo vocabolo tuttavia , più che un aspetto
del potere quiri tario, sembra indicare piuttosto il complesso delle persone e
delle cose, che dipendono dal potere spettante al quirite ; come lo dimostra la
circostanza , che il medesimo dai giureconsulti non è mai adoperato con significazione
attiva, ma sempre con significazione passiva (1). (1) Basta per ciò osservare,
chementre nei giureconsulti si incontrano le espressioni habere manum ,
potestatem , dominium , non occorre però mai l'espressione habere mancipium ,
ma sempre quella habere in mancipio: poichè quest'espressione di man cipium ,
derivando da manu-captum , significa bensì la cosa soggetta, ma non può si
gnificare il potere sulla medesima. Io ritengo, che questa inesatta
significazione data al vocabolo mancipium sia stata una causa dei gravi dubbii
ed incertezze nell' ar gomento. Così, ad esempio, non potrei accettare
l'opinione, che mancipium sia stato il primo vocabolo con cui si indicò il
dominium ex iure quiritium ; ciò sarebbe come dire che i vocaboli di praedium ,
fundus significassero il diritto di proprietà, mentre invece indicano la cosa ,
che ne forma l'oggetto . L'unico passo, che suol essere citato per far
significare a mancipium un potere, è quello di GELLIO, XVIII, 6 , 9, ove si
parla della mater familias in manu , mancipioque mariti, ma anche questo
dimostra , che anche la moglie era talora considerata come in mancipio, e
conferma così la significazione passiva del vocabolo. Se dovette quindi esservi
un vocabolo primitivo, che potè indicare il potere del proprietario , esso fu
quello di manus, che ha in 430 Una volta poi, che i poteri, un tempo inchiusi
nel vocabolo generico di manus, sono cosi separati l'uno dall'altro, essi
possono essere ca paci di una propria elaborazione e venirsi cosi
differenziando fra di loro secondo il diverso concetto a cui si ispirano, per
modo che cia scuno di essi finirà per ricevere un diverso svolgimento logico e
storico ad un tempo, e per essere sottoposto a quelle limitazioni, che verranno
ad apparire necessarie nella realtà dei fatti. Negli esordii invece della
formazione del ius quiritium non presentasi ancora il dubbio , che il quirite
possa in qualche modo abusare della propria manus, e quindi tutti i poteri, che
a lui appartengono, giuridicamente considerati, vengono ad apparire senza alcun
limite e confine. Che anzi le persone a lai soggette , sotto il punto di vista
giuridico acquistano ed operano non per sè,ma per le per sone, di cui trovansi
in manu, in potestate , in mancipio. Di qui la conseguenza, che mentre le persone
sottoposte al potere del capo di famiglia possono rappresentarlo, questa
rappresentazione invece non può essere cosi facilmente ammessa , allorchè
trattasi di altre persone, come lo dimostra il principio prevalente nell'antico
di ritto, secondo cui una persona non può promettere nè stipulare per un'altra.
Il concetto del mancipium e la distinzione delle res mancipii e necmancipii.
342. Che se la manus viene poi ad essere considerata , in quanto abbia
assoggettate al suo potere le persone e le cose che da essa dipen dono, formasi
il concetto del mancipium . Mentre i concetti di caput e di manus indicano
un'energia che si esplica, il vocabolo invece di mancipium indica piuttosto lo
stato di soggezione, in cui si trovano sè l'idea della forza e dell'energia , ma
non mai quello di mancipium , che allora e sempre significò soltanto la
soggezione. Del resto gli stessi giureconsulti ci attestano , che in antico non
eravi un vocabolo speciale per significare il dominio, ma dicevasi soltanto
meum , tuum . (1) Di qui credo di poter indurre, che anche quel principio del
diritto primitivo , secondo cui altri non può essere rappresentato, che dalle
persone che da lui dipen dono e niuno può promettere e stipulare per altri, sia
una conseguenza del modo, in cui si iniziò la formazione del ius quiritium ; in
quanto che nell'esercito e nei comizii ciascuno doveva rispondere per sè e non
poteva farsi rappresentare da altri. r 431 le persone e le cose che dipendono
da essa , e presentasi con una signi ficazione eminentemente passiva . Non vi
ha quindi nulla di ripu gnante, che esso nelle origini significasse il manu
-captum ; e designasse specialmente il vinto che, fatto prigioniero di guerra ,
veniva ad es sere soggetto alla potestà del vincitore . Questo è certo ad ogni
modo, che nel ius quiritium il vocabolo dimancipium , al pari di quello di
caput e di manus, ha già assunta una significazione eminentemente giuridica,
per cui comprende quel complesso di persone e di cose, che dipendono
esclusivamente dal capo di famiglia, e che a lui apparten gono ex iure
quiritium , e che nel censo compariscono in certo modo comeposte in suo capo
(1). È quindi sopratutto coll'entrare a far parte delmancipium , che i diritti
spettanti al capo di famiglia ed al pro prietario ex iure quiritium assumono
quel carattere così esclusivo ed individuale, che è del tutto proprio del
diritto primitivo di Roma. Con esso infatti il quirite viene ad essere staccato
dall'ambiente gen tilizio , di cui fa parte , a compare nel censo con un
complesso di persone e di cose, che dipendono da lui in modo assoluto . È
quindi in virtù di quest'astrazione, che viene a formarsi il concetto di una
potestà senza confini e di una proprietà assoluta ed esclusiva spet tante al
capo di famiglia (2 ). Anche nel mancipium , come negli altri (1) Quasi tutti
gli autori son concordi in ritenere, che il mancipium abbia avuta una
significazione così larga da comprendere così le persone, quanto le cose, in
quanto son soggette al potere del capo di famiglia . Solo combatte
quest'opinione il MARQUARDT, Das Privatleben der Römer, pag . 2. Ritengo che
debba essere seguita la prima opinione, la quale per me ha un appoggio
incontrastabile in ciò , che le formole serbateci da Aulo Gellio e VALERIO
Probo accennano a persone, che sono in manu, potestate, mancipio ; la qual
formola troviamo poi adoperata nelle leggi più antiche che a noi pervennero,
come nella lex Cincia de donationibus, del 550 di Roma (Bruns, Fontes, pag .
45) e nella lex Acilia repetundarum , del 631 di Roma (pag . 57). Ciò vuol dire,
che anche le persone sotto un certo aspetto si considera vano come comprese nel
mancipium del capo famiglia , il che poi spiega come ad esse potesse anche
applicarsi la mancipatio , l'emancipatio e simili. Ciò però non toglie, che le
significazioni tecniche del vocabolo mancipium fossero quelle specialmente di
significare il servo, come lo prova l'editto curule de mancipiis vendundis
(Bruns, pag. 214 ), o quel complesso di beni, che doveva essere consegnato nel
censo. Quanto alle altre significazioni dimancipium , è da vedersi il BONFANTE,
op. cit., pag. 79 a 105 , col quale tuttavia non concordo in questo , che egli
attribuisce al mancipium anche la significazione di una potestà sulla cosa
(pag. 100 ), e sembra ritenere, che il mancipium non comprenda mai le persone
(pag. 101, in nota). (2) Come il mancipium , fondendosi in certo modo
coll'heredium , sia venuto a de signare le cose comprese nel dominio assoluto
ed esclusivo del cittadino romano è stato dimostrato più sopra al nº 331, pag .
414 . 432 concetti fin qui presi in esame, trovansi dapprima confuse le persone
e le cose, che dipendono dalla stessa persona ; ma poi anche qui viene
operandosi una specie di differenziazione, per cui il vocabolo mancipium
finisce per indicare il complesso dei beni, e quello di familia il complesso
delle persone , che dipendono dal medesimo capo . Siccome però nel mancipium
non si comprende tutto il pa trimonio del quirite, ma solo quella parte di esso
, che è portata nel censo e che serve come stregua per determinare la classe ,
di cui entra a far parte ; così ne deriva che il censo serviano deve eziandio
essere considerato come il momento storico , in cui cominciò ad accen tuarsi
quella distinzione fra il mancipium e il nec mancipium , che diede poi origine
a quella importantissima distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii,
che deve formare oggetto di par ticolare esame per le molte discussioni, a cui
diede argomento . 343. La distinzione fra le res mancipii e le res nec
mancipii, è a mio giudizio , un rottame del diritto primitivo, che
indecifrabile da solo , può cambiarsi in un documento prezioso , quando si
riesca a ricomporlo nell'ambiente in cui ebbe a formarsi (1). L'antichità del
concetto , a cui si ispira la distinzione, è dimostrata dal fatto , che i
giureconsulti ebbero ad accettare la medesima come già esi stente nel fatto,
senza pur cercare di darsi la vera ragione di essa (2 ). La circostanza poi,
che questa distinzione ebbe a perdurare per se coli, dimostra che essa non può
considerarsi come una semplice biz zarria giuridica, ma deve invece rannodarsi
a qualche concetto fon damentale dell'antico diritto , che i giureconsulti
classici credettero di dovere accettare e rispettare. Ció del resto può in
certi confini anche argomentarsi dal modo singolare , in cui è concepita questa
distinzione; in quanto che essa è evidentemente fatta nell'intento (1)
L'importanza della questione per lo studio del diritto primitivo di Roma fu in
questi ultimi tempi assai sentita in Italia , come lo dimostrano i lavori già
ci tati dello Squitti e del BONFANTE sulle res mancipi e nec mancipi e quello
del Longo sulla mancipatio. Ritengo tutta via , che questa sia una di quelle
questioni, che prima debbono essere studiate nei particolari , ma difficilmente
possono poi es sere comprese e spiegate, se non siano coordinate colle altre
istituzioni del diritto primitivo , con cui concorrevano a costituire un tutto
organico e coerente. (2 ) Non può certamente ritenersi definitiva la ragione
data da Gavo , Comm ., II, 22, che le res mancipii siano così dette perchè
suscettive di mancipatio ; poichè si potrebbe sempre chiedere la ragione, per
cui le sole res mancipii furono ritenute suscettive della mancipatio . 433 di
mettere in una posizione speciale e privilegiata le res mancipii, che
costituiscono la parte positiva della distinzione, mentre l'altra parte della
distinzione ha un carattere puramente negativo , cioè comprende tutte quelle
cose , che non appartengono alla prima ca tegoria . Da questo carattere infatti
è lecito indurre, che nello svol gimento storico dovette precedere la
formazione delle res mancipii, ossia di un complesso di cose , che erano
comprese nel mancipium , e che solo più tardi quelle, che non erano comprese
nelmedesimo, vennero ad essere chiamate res nec mancipii, quasi per contrap
porle alla categoria già formata dalle res mancipii. Queste considerazioni
aggiunte a quella pur importante, che dopo l'ultima lettura del manoscritto di
Gaio da lui fatta , lo Studemund avrebbe adottata la lezione di res mancipii e
res nec mancipii a vece di quella di res mancipi e nec mancipi, che prima era
ge neralmente adottata, mi inducono a ritenere che il caposaldo, a cui deve
rannodarsi questa antica distinzione, sia l'antichissimo concetto del mancipium
, le cui origini rimontano quanto meno alla costitu zione ed al censo di Servio
Tullo (1). 344. Per poter poi spiegare come nell'antico diritto possa essersi
cominciato a distinguere il mancipium dal nec mancipium , non sarà inopportuno
il notare, che fin dai tempi più antichi noi troviamo degli accenni ad una
specie di distinzione, che erasi fatta nel pa trimonio spettante al capo di
famiglia. Noi troviamo infatti una specie di dualismo nei vocaboli di heredium
e di peculium , e in quelli eziandio di familia pecuniaque, i quali appariscono
in certo modo contrapposti fra di loro . Per verità mentre i vocaboli di he (
1) Del resto la questione della i doppia o semplice nel vocabolo mancipi o man
cipii non ba grande importanza dal momento, che nel latino primitivo solevasi
usare l'i semplice a vece della doppia ii. Che anzi sonvi autori, i quali
continuano a seguire l'antica scritturazione, appunto perchè veggono in essa un
indizio ed una prova dell'antichità della distinzione, sebbene ammettano la
parentela delle res man cipiä сol primitivo mancipium . Così il BONFANTE, op.
cit., pag. 21. Per parte mia , siccome mi propongo di fare la storia del
concetto , anzichè della parola, così trovo più conveniente di adottare quella
scritturazione, la quale, esprimendo materialmente l'attinenza fra il mancipium
e le res mancipii, impedisce di dare a questa distin zione una significazione
diversa da quella , che veramente ha. La grafia mancipi sarà forse la più
genuina e la più antica; ma essa condusse alla distinzione fra cose man
cipabili e non mancipabili, e a cercare l'origine della distinzione in cose,
che non avevano a fare con essa , il che appunto deve essere evitato. G. CARLw,
Le origini del diritto di Roma. 28 434 redium e di familia indicano di
preferenza quella parte del patri monio, che nel proprio concetto informatore è
destinata a passare negli eredi, i concetti invece di peculium e di pecunia
sembrano designare di preferenza quella parte di patrimonio, che per sua na
tura è destinata allo scambio , alla circolazione ed al soddisfacimento dei
quotidiani bisogni. Di quisi può inferire, che una distinzione come questa, che
compare indicata con vocaboli diversi, e che si mantiene con una certa costanza
, dovette trovare la propria ragione d'essere nelle condizioni economiche e
sociali, in cui allora trovavasi il popolo romano, e che perciò la spiegazione
di essa debba ricercarsi nell'e poca , in cui vennesi formando il primitivo ius
quiritium (1). Parmipoi a questo proposito , che anche oggi, fermando lo
sguardo sopra una comunanza di carattere rurale, si possa trovare qualche
vestigio di condizioni sociali ed economiche analoghe a quelle, che
determinarono questa distinzione nell'antico diritto di Roma. Anche oggi nelle
comunanze agricole la famiglia rurale appare in certo modo unificata nella
persona del suo capo, e sotto l'aspetto econo mico costituisce come un gruppo
di persone e di cose , in cui si comprende il capofamiglia, la moglie , i
figli, il bestiame, la terra coltivata , e la cui importanza può essere
maggiore o minore, secondo la quantità di terra da esso posseduta, e il numero
di braccia , di cui può disporre per la coltura della medesima. È poi facile
l'osser vare come in questo patrimonio , che si intitola al padre , ma che nel
costume si considera come proprietà comune del gruppo , for misi naturalmente
una distinzione congenere a quelle , le cui traccie pur compariscono fra gli
antichi romani. Nel patrimonio infatti di una famiglia agricola havvi anzitutto
una parte fissa , sostanziale , che comprende tutti quei beni, senza di cui
l'azienda agricola non potrebbe percorrere il suo corso regolare . Essa
costituisce, per cosi esprimersi, il capitale fisso della famiglia agricola ;
quella parte cioè della sua sostanza, che sebbene di diritto appartenga al
padre, nel costume si ritiene invece come proprietà comune; quella che è dal
padre custodita con speciale affetto, e di cui si spoglia a malincuore,
ritenendosi come obbligato a trasmetterla intatta alla propria figliuo lanza .
Se egli quindi alieni una parte della medesima, la comunanza rurale non può a
meno di esserne informata e il suo credito vacilla . Quindi piuttosto di
alienare questa parte fissa e trasmessibile dal ( 1) Già si accenno a questa
correlazione, senza tuttavia cercare di spiegarla, al nº 56 , pag. 70 . 435
proprio patrimonio, il capo di famiglia suole anche oggidi, come già un tempo
la plebe romana, appigliarsi al partito di contrarre dei debiti, o di ricorrere
a quella vendita con patto di riscatto , che nei nostri villaggi si cambiò
nella forma più perfida ed ingannatrice sotto cui si nasconde quell'usura , che
chiamasi palliata . Accanto poi a questa parte fissa del patrimonio havvi
eziandio la parte, che costituisce in certo modo il capitale circolante della
fa miglia rurale. In essa si comprendono i raccolti dell'annata , le somme di
danaro che si tengono alla mano, il bestiame minuto , che ogni anno si compra e
si vende, e gli altri beni e valori, coi quali il capo famiglia può fare
maggiormente a fidanza, perchè la copia o la scarsità di essi potrà rendere più
o meno agiata la famiglia , senza però mettere a repentaglio l'esistenza della
medesima. È naturale che una distinzione di questa natura abbia dapprima
alcunché di vago e di indeterminato , in quanto che possono esservi delle cose,
di cui può dubitarsi se debbano essere collocate in questa od in quella parte
del patrimonio . Se tuttavia in determinate con dizioni economiche avvenga un
avvenimento di carattere ammini strativo , che costringa in certo modo a
distinguere le due parti del patrimonio, quale , sarebbe ad esempio , la
formazione di un censo o di un catasto per fissarvi sopra una imposta , la
conseguenza im mediata di questo fatto sarà , che quella distinzione, che stava
for mandosi , perderà il suo carattere vago ed indeterminato e finirà per
assumere un significato preciso , il quale , mentre corrisponde allo stato
reale delle cose in quel determinato momento, potrà in vece riuscire
inesplicabile più tardi, allorchè siansi trasformate le condizioni economiche
del popolo , di cui si tratta . 345. Or bene un avvenimento di questa natura
ebbe appunto ad avverarsi nella primitiva vita economica e giuridica di Roma.
Esso fu il censo di Servio Tullio , il quale , essendo stato posto a base di
una nuova composizione del populus romanus quiritium , non potè a meno di
lasciare anche delle traccie nello svolgimento posteriore del diritto romano.
Si sa infatti, che questo censo comprese non solo le persone, ma anche le
sostanze, e che esso sopravvenne dopo che Servio e i re suoi antecessori
avevano fatto alla plebe degli assegni di terre, che per essere tutti della
stessa natura dovevano aver rice vuta una analoga configurazione. Questi
assegni erano stati senza alcun dubbio fatti a somiglianza di quegli heredia ,
che la gens an tica faceva ai suoi membri, allorché i medesimi fondavano una fa
436 miglia , colla differenza che mentre gli heredia del patriziato erano
ricavati dall'ager gentilicius, quelli invece , che si facevano alla plebe,
erano fatti direttamente dallo Stato sul suo ager publicus , mediante le così
dette adsignationes viritanae. Senza cercare qui se tali assegni fossero di
due, di cinque od anche di sette iugeri, questo è certo che essi costituivano
una specie di piccolo podere, che com ponevasi di una abitazione rurale
(tugurium ), di un orto e di un campo attiguo, naturalmente fornito di quelle
servitù rurali di pas saggio e di acquedotto , che erano del tutto
indispensabili per la sua coltivazione. Esso quindi veniva in certo modo a
costituire la pro prietà tipica del quirite, la quale, dipendendo direttamente
dalla sua manus, poteva opportunamente ricevere il nome dimancipium . Che anzi
è anche probabile , che questo podere prendesse il nome dal suo primitivo
proprietario, come lo dimostra il fatto , che i poderi romani ancora più tardi
conservano il nome derivato da quello del primitivo proprietario , che si
considera in certo modo come il fon datore del podere, e lo trasmettono
successivamente ai proprietarii che vengono dopo (1). Era quindi questo
mancipium , che doveva essere consegnato e valutato nel censo , e che
costituiva la base, sovra cui si determinavano i diritti e le obbligazioni del
quirite ; le altre cose invece non gli erano tenute in conto , o perchè non
appartenevano al quirite come tale , ma piuttosto alla gente , di cui esso
faceva parte, o perchè costituivano una specie di capitale cir colante , di cui
non potevasi fissare l'ammontare in questo od in quel determinato momento. Di
qui conseguiva, che questo mancipium (1) Questa induzione mi fu suggerita da
due notevoli articoli del FUSTEL DE COULANGES, pubblicati sulla « Revue des
deux mondes » del 1886 col titolo Le domaine rural chez les Romains, tomo 3º
dell'annata. II FUSTEL DE COULANGES non si occupa veramente delle origini del
podere ru rale in Roma, stante le incertezze che ancor durano sull'argomento,
ma parla piut tosto dei poderi rurali sul finire della Repubblica e durante
l'Impero, allorchè i medesimi per le loro proporzioni certo non avevano più che
fare col primitivo man cipium . Egli nota tuttavia, che i poderi anche in
quest'epoca avevano una denomi nazione ricavata dal nome non del proprietario
attuale ma del proprietario primitivo del podere, e chiamavansi così fundus
Manlianus, Terentianus, Gallianus, Sempro nianus e simili, il che finiva per
dare una personalità al fondo, determinata da colui, che prima l'aveva occupato
e posto in coltivazione. Ora non è certo impro babile, che questa singolarità
nel podere romano sia stata determinata dal fatto, che nella tabula censoria
del quirite , al disotto del nome del caput, era anche descritto il podere a
lui spettante, il quale veniva così ad assumere un nome, che i Romani
trasmisero poi con quella costanza, che abbiamo riscontrato in molti altri
esempi. 437 veniva in certo modo a costituire il vero e proprio patrimonio del
quirite , cometale: quello cioè che era posto direttamente in suo capo, che in
certo modo ne prendeva il nome, e di cui egli poteva disporre senza limitazione
di sorta , purchè lo facesse nei modi solenni, che erano riconosciuti dalla
comunanza quiritaria. Anche gli altri beni potevano essere buoni e desiderabili
per il quirite; ma quelli, che entravano nel mancipium , avevano per esso una
importanza del tutto peculiare, la quale spiega come i plebei preferissero alla
loro alienazione l'imprigionamento nelle carceri del creditore, con tutti i
mali trattamenti, che potevano conseguirne. 346. Questa spiegazione del modo,
in cui si formò ilmancipium , trova poi la sua conferma nella enumerazione, che
i giureconsulti Gaio ed Ulpiano ebbero a conservarci delle res mancipii (1) .
Questa enumerazione infatti serba evidentemente il carattere di una antichità
remota , e richiama il pensiero agli assegni rurali aventi una configurazione
tipica e determinata, che dovevano essere fatti sull'ager gentilicius ai
gentili e ai clienti che entravano a co stituire la gens, e dai re ai plebei
sull’ager publicus. Per verità le res mancipii, sebbene siano annoverate come
cose singole, co stituiscono però ad evidenza un tutto , che corrisponde alle
condi zioni economiche del tempo , ed ai bisogni di una famiglia agricola , la
quale debba, per dir cosi, bastare a se stessa. Ciò è dimostrato anche dalla
circostanza, che il podere, che forma il nucleo centrale del mancipium , non è
già un campo nudo di qualsiasi attrezzo , ma è un praedium instructum
considerato cioè cogli istrumenti e colle servitù , che sono necessarie per la
sua coltivazione (2). Una casa in città , un tugurio in campagna, circondato da
un piccolo podere, coi servi, cogli animali, e colle servitù indispensabili per
la coltura del medesimo, dovettero in quell'epoca costituire come la proprietà
tipica del quirite ; quella proprietà cioè , che lo rendeva adsiduus, perchè ne
accertava la residenza , e locuples, perchè assicurava il sostentamento suo e
della famiglia. Essa era la prima porzione di (1) Gajo , I, 120 ; II, 14-17 ;
Ulp., Fragm ., XIX , 1. (2 ) Anche questo concetto del fundus instructus
sopravvive a lungo presso i Ro mani, come appare dal Fustel De Coulanges, op .
cit ., pag. 340 , che lo trova in pieno vigore durante l'impero. Che anzi i
giureconsulti al solito formano una con cezione giuridica dello stesso e
instrumentum fundi » , ossia di quel complesso di ar nesi, di bestiame e di
servi , che può essere necessario per la coltura del fondo. 438 terra, che
sottraevasi in certo modo dalla proprietà collettiva della gente (ager
gentilicius), o da quella dello stato (ager publicus), per costituire la vera
proprietà esclusiva ed individuale. Or bene è appunto un gruppo analogo di
cose, che può raccogliersi . dall'enumerazione conservataci da Gaio e da
Ulpiano delle res man cipii. L'uno e l'altro infatti son concordi
nell'attestare, che queste comprendevano ; lº i praedia , così rustici
comeurbani, purchè situati nell'ager romanus od anche nel suolo italico , il
quale mediante la concessione del ius italicum , poteva anche essere oggetto
del do minium ex iure quiritium ; 2° le servitù rustiche , che sono il naturale
compimento di un podere rurale, quali le servitutes viae, itineris, actus,
aquaeductus; 3° i servi, in quell'epoca strumento indispensabile per la coltura
; 4º e infine i quadrupedes, quae dorso collove domantur , veluti boves , equi,
muli et asini. Invece le altre cose tutte , che esorbitano da questa cerchia ,
comprendendovi la stessa pecunia , le pecore, i buoi ed i cavalli non domati,
sono indicate senz'altro colla espressione di res nec mancipii. 347. Di fronte
a questa enumerazione dei giureconsulti si osservo , che riesce difficile a
comprendersi come nelmancipium , quale pro prietà tipica del cittadino, non si
comprendessero nè le pecore, nè le mandre dei cavalli e dei buoi non domati, né
i greggi ed ar menti, cose tutte, che certamente costituirono la parte più
notevole della ricchezza dei primitivi romani. È perd anche ovvio il rispondere,
che il criterio della riforma serviana non fondavasi sulla ricchezza, quale che
essa fosse, ma piuttosto sulla proprietà stabile , esente da qualsiasi vincolo
. Era solo questa forma di proprietà , che poteva ren dere i quiriti adsidui e
locupletes , e servire così di garanzia alla co munanza dell'interesse, che
essi avevano alla comune difesa . Non fu quindi la pecunia , che ebbe ad essere
tenuta in conto , perchè questa , anche consistendo in greggi ed in armenti ,
poteva sempre essere trasportata altrove. Si aggiunga che le mandre, i greggi,
e gli ar menti dovevano dapprima non appartenere ai singoli capi di famiglia ,
macostituire invece la ricchezza delle genti collettivamente conside rate;
poichè per il loro pascolo non poteva certo bastare, nè sarebbe stato atto il
piccolo podere quiritario , ma occorrevano dei grandi e vasti spazi, che solo
potevano trovarsi negli agri gentilicii, o nell'ager compascuus della tribus
primitiva, o nell'ager publicus, proprietà dello Stato. Quanto ai capi di piccolo
bestiame, che po tevano anche appartenere al proprietario di un piccolo podere,
439 tenuto ex iure quiritium , essi costituivano quel capitale circolante, che
formava argomento degli scambii e delle negoziazioni quoti diane, e che perciò
non offriva una base salda per essere valutato nel censo . 348. Parmi cið
stante di poter conchiudere, che il primitivo man cipium consistette in quel
complesso di cose, che costituiva in certo modo la proprietà tipica del quirite
, come capo di una famiglia agricola , all'epoca in cui ebbe ad essere
introdotta l'istituzione del censo. La selezione di questo mancipium dal resto
delle cose, il cui godimento apparteneva ai primitivi romani, erasi preparata
len tamente nelle condizioni economiche e sociali ed ebbe poi ad essere
determinata in modo esatto e preciso dal censo serviano , il quale per tal modo
potè perfino influire nel determinare le varie categorie delle res mancipii
(1). È infatti questo mancipium , che nel censo appare intestato ad ogni
singolo quirite , e che costituisce il primo nucleo di quella proprietà ex iure
quiritium , che ebbe poi a svol gersi coi caratteri di assoluta , di esclusiva
e di irrevocabile . Sia (1) Infatti non è punto improbabile, che la distinzione
stessa delle res mancipii abbia potuto essere determinata dalle rubriche
diverse, in cuidividevasi il mancipium , come già ebbi ad accennare al n ° 332
(in fine). Intanto colla soluzione indicata nel testo credo di aver fatto
procedere di pari passo i due aspetti, sotto cui fu discussa l'origine delle
res mancipië e nec mancipii. Nota giustamente il Bon FANTE, op. cit., pag. 35 ,
che le teorie diverse, da lui esposte, si possono dividere in razionali e
storiche, secondo che cercano di spiegare razionalmente quella distinzione,
oppure di rannodarla ad un fatto storico . I due punti di vista, a parer mio,
deb bono esser fatti procedere di pari passo ; poichè la distinzione non
sarebbesi intro dotta presso un popolo pratico e logico come il romano, se non
avesse avuto una ragione di essere nelle condizioni economiche e sociali del
tempo , ed essa non sareb besi poi perpetuata con tanta tenacità, se non vi
fosse stato un avvenimento storico importantissimo, come il censo, il quale,
per essersi in certo modo immedesimato colla vita e col modo di pensare del
popolo, mantenne allo stato fossile la distinzione, di cui si trattava , anche
allorchè non aveva più ragione d'essere. Che anzi in questo modo vengono
perfino ad offrire alcunchè di vero anche le opinioni, che vogliono rannodare
il concetto di mancipium alla bellica occupatio ; poichè questo carattere
militare, inerente anche almancipium , è una conseguenza di quell'impronta
militare, che sopratutto in quell'epoca assume il populus romanus quiritium ;
impronta, che rimane inerente a tutti i concetti e alle istituzioni che ebbero
origine in quell'occa sione. Tuttavia , siccome trattasi qui di ricostrurre e
non di far l'esame critico delle varie opinioni, mi rimetto per l'analisi di
queste opinioni, delle quali alcune hanno perfino del singolare, allo Squirti,
pag. 38 a 68 , al BONFANTE, pag. 35 e 75 e agli altri autori, che di recente
esaminarono la vecchia controversia . 440 pure, che più tardi, per
l'accrescersi della fortuna dei cittadini ro mani, siansi aggiunte molte cose ,
che avrebbero pur dovuto essere tenute in conto per valutare il patrimonio del
quirite ; ma in questa parte , come nel resto , i giureconsulti, allorchè
trovarono foggiata questa configurazione giuridica , si guardarono
dall'alterarne in qual siasi modo le primitive fattezze. Di qui ne venne, che
il concetto del mancipium , come molti altri concetti del primitivo diritto,
dopo avere un tempo corrisposto alla realtà dei fatti e aver così com preso
quelle cose, che effettivamente costituirono la prima proprietà esclusiva del
quirite, fini in certo modo per fossilizzarsi e cambiarsi in una categoria
giuridica, in cui si compresero tutte quelle cose, che un tempo dovevan essere
consegnate nel censo. Il mancipium si mantenne cosi come un rudere
dell'antichità primitiva di Roma, che malgrado l'incremento delle cose romane
rimase ad attestare le condizioni economiche dei quiriti, nel tempo in cui
Servio Tullio pose il censo come base di partecipazione alla comunanza
quiritaria. Ciò tuttavia non impedi, che il potere rurale presso i Romani, salvo
le più grandi proporzioni, abbia ancora sempre conservati i tratti del
primitivo mancipium , in quanto che esso continud pur sempre a costituire un
tutto organico, ad avere un proprio nome, che è quello del primitivo
proprietario, e ad essere considerato come fornito delle servitù e del bestiame
necessario per la coltivazione di esso (instru mentum fundi). Le cose romane di
piccole si fanno grandi, ma continuano sempre ad essere foggiate sul primitivo
modello (1). 349. Nè può essere difficile lo spiegarsi come il concetto del man
cipium siasi cosi conservato allo stato fossile, malgrado l'ingrandirsi delle
cose romane, quando si tenga conto dello spirito conservatore della
giurisprudenza romana, e della circostanza, che i giureconsulti (1) La miglior
prova di ciò può aversi dagli articoli citati del FUSTEL DE COULANGES, sur le
domaine rural chez les Romains. Da questi infatti si scorge che i Romani
portarono il loro concetto del podere anche nelle provincie conquistate, e che
le varie parti di esso ingrandendosi vennero ad avere talora una esistenza
propria e distinta: cosicchè si ebbe il podere coltivato per mezzo di schiavi,
quello fatto valere per mezzo di affittavoli, quello lasciato alla coltura dei
servi e dei liberti, e quello più tardi coltivato da coloni; ma intanto le
fattezze primitive non scomparvero più . Per tal modo anche il podere romano,
come tutte le altre istituzioni di quel popolo, è un organismo, che si svolge e
si differenzia nelle sue varie parti, ma conserva sempre quei caratteri, che
già si potevano ravvisare nell'embrione, da cui è partito ; em brione, che,
secondo il mio avviso, consisterebbe appunto nel primitivo mancipium . 441 in
questa parte trovarono già chiusa e formata la cerchia delle res mancipii, nè
ebbero motivo di estenderla o modificarla in un'epoca, in cui già cominciavano
a ritenersi gravi e inopportune le forma lità dell'antico diritto . Di qui la
conseguenza, che i giureconsulti in tutti i responsi, che si riferiscono alle
res mancipii, mantennero inviolata l'antica misura, e solo ammisero qualche
allargamento , che corrispondeva al concetto informatore del primitivo
mancipium , e che era necessario per rendere applicabile il concetto stesso
(1). Così noi troviamo, ad esempio , che i giureconsulti interrogati, se i camelli
ed elefanti potessero essere compresi nelle res man cipii, risposero
negativamente, sia perchè questi animali non erano conosciuti, quando si fissd
il concetto del mancipium , o meglio ancora, perchè essi non si sarebbero
potuti riguardare come una pertinenza di quel podere tipico , che costituiva il
mancipium (2 ). Indarno parimenti si fece notare, che le servitù urbane avevano
la medesima natura delle rustiche ; esse malgrado di ciò furono sempre ritenute
come res nec mancipii, non tanto perchè non fossero co nosciute a quell'epoca,
quanto piuttosto perchè non formavano parte integrante del podere stesso (3).
Quando poi si chiese, se i cavalli e i buoi non domati potessero essere
ritenuti come res mancipii, l'opinione prevalente fu che non fossero tali,
probabilmente perchè essi, finchè non erano domati, non potevano essere
strumento indi ( 1) Parmi perciò da seguirsi,ma con una certa discrezione,
l'opinione che l'enumera zione delle res mancipii debba ritenersi tassativa,
come quella che in parte fu determi nata da un avvenimento che doveva dargli un
carattere esatto e preciso. Ciò però non toglie, che nel concetto comune anche
altre cose potessero essere considerate come res mancipii, quali erano, ad
esempio, le pietre preziose di Lollia Paolina, di cui ci parla Plinio il
Vecchio (Hist. nat. 9, 35, 124 ). Ciò tanto più perchè posteriormente il
concetto di mancipium , che erasi sovrapposto a quello di heredium , tornò a
riacco starsi almedesimo, e nell'uso non giuridico significò talora i bona
paterna avitaque , e specialmente quelli, che nel costume solevano trasmettersi
digenerazione in genera zione, quali erano appunto le pietre preziose , che
costituivano in certo modo un avitum mancipium . In ciò seguo l'opinione, che
il Bonghi ebbe a manifestare nella recensione del lavoro dello SQuitti nella
Cultura , anno 1886 , 1-15 agosto. Cfr. BONFANTE, op . cit., p . 93 . (2) GAJO
, Comm ., II, 16 ; ULP., Fragm ., XIX , 1. ( 3 ) GAJO , II, 17 ; ULPIANO, loc .
cit. Che anzi fra le servitù rustiche sono res mancipii quelle soltanto, che
hanno una maggior importanza per un podere ru stico, e che formano parte
integrante del medesimo, cioè l'iter, actus, via , aquae ductus, e non le
altre, come quelle del ius pascendi, calcis coquendae e simili , le quali, essendo
particolarità di certi speciali poderi, non potevano dapprima essere tenute in
conto . -.442 spensabile per la coltura del fondo, che costituiva il primitivo
man cipium (1). Cid intanto può eziandio servire a spiegare come Varrone parli
di formole relative alla vendita di animali da tiro , e da soma ed anche di
servi, accennando alla semplice traditio e non alla mancipatio ; poichè questa
doveva solo ritenersi necessaria , allorchè gli animali e i servi, di cui si
trattava, dovessero considerarsi come instrumenta fundi (2). Siccome invece le
res mancipii, ancorchè singolarmente enumerate , costituiscono però un tutto
(cioè il man cipium ), così i giureconsulti rispondono, che alle medesime
conside rate come un tutto può essere applicato quello stesso mezzo di
alienazione, che è proprio delle singole res mancipii; donde la pos sibilità
della mancipatio familiae e del testamentum per aes et libram , di cui si
parlerà a suo tempo (3 ). (1 ) La controversia in proposito fra i Proculeiani,
che escludevano dalle res man cipii questi animali finchè non fossero giunti a
tale età da essere domati, e i Sabi niani, che invece li ammettevano fra le res
mancipii, appena fossero nati, è accen nata da GAJO, II, 15, comemolto dubbiosa
anche per lui, che era Sabiniano. In ogni caso la stessa esistenza di una
simile controversia , ed anche il fatto, che erano res man cipii solo i
quadrupedes, quae dorso collove domantur, dimostra abbastanza che la
determinazione delle res mancipii aveva stretta attinenza colla coltivazione del
fondo. (2) Le formole conservateci da VARRONE intorno all'emptio venditio dei
cavalli e dei buoi anche domati (V. Bruns, Fontes, p . 388) condussero il Voigt
a ritenere che i cavalli ed i buoi fossero introdotti solo dopo Varrone nel
novero delle res man cipië (Ius nat., Leipzig). Veramente non si saprebbe
ilmotivo di questa nuova introduzione in una distinzione, che oramai appariva
antiquata ; ma ad ogni modo la cosa a mio avviso è facile a spiegarsi, quando
si ritenga che la qualità di res mancipiä era dapprima attribuita dall'essere
questa cosa un « instru mentumt fundi» . Quindi non sempre era necessaria la
mancipatio per questi animali, come non sempre era necessaria per i servi, come
lo attesta lo stesso Varrone. Non credo poi che possa essere il caso di
supporre degli errori nella esposizione di Var rone, come vorrebbe il Bonfante,
op . cit., pag . 111 , non potendosi supporre un er rore di questo genere sopra
formole, che vivevano nelle consuetudini ed erano ela. borate dagli stessi
giureconsulti. (3) È tuttavia degno di nota, che mentre il mancipium o la
familia , intesi nel senso di patrimonio, sono per sè suscettivi di mancipatio,
l'hereditas invece è consi derata come una res nec mancipië, e come tale è
suscettiva di in iure cessio, ma non di mancipatio (Gajo, Comm., II , 14, 17,
34). La ragione, a parer mio, è questa, che la familia o il mancipium , finchè
dipendono dal pater familias, costituiscono un'entità concreta : mentre
l'eredità , riguardo a colui che vi ha diritto , costituisce già una cosa
incorporale, una res, quae etiam sine ullo corpore iuris intellectum habet, e
quindi cade fra le res nec mancipii. Intanto però non parmiaccettabile
l'opinione, quale è espressa dallo SQUITTI, op. cit., pag. 12, che la
distinzione delle res man cipië e nec mancipii sia solo applicabile alle res
singulares, poichè non è certamente una res singularis nè il mancipium , nè la
familia . Tuttavia conviene ritenere, che la necessità delle cose con dusse in
qualche parte ad allargare i confini del primitivo manci pium . Così, ad
esempio, non può esservi dubbio, che nel primitivo mancipium dovevano solo
essere compresi i praedia , che fossero si tuati nel primitivo ager romanus,
mentre più tardi furono compresi eziandio quelli situati nel restante suolo
italico , quando anche questo venne ad essere suscettivo di proprietà
quiritaria. Così pure è pro babile, che nelle res mancipii fossero dapprima
compresi solo i servi addetti al lavoro del fondo, mentre più tardi siccome i
servi della città potevano essere trasportati alla campagna, così i servi in
genere furono compresi fra le res mancipii (1). Non potrei invece ammettere col
Puctha , che fra le res mancipii fossero anche com prese le persone libere ,
che fossero in potestate , in manu , o in causa mancipii(2); poichè, come sopra
si è notato , qui il vocabolo mancipium è già preso in una significazione più
ristretta e si ri ferisce al patrimonio, anzichè alle persone dipendenti dal
capo di famiglia , le quali persone si dicono « alieni iuris , quae in manu,
potestate,mancipio sunt » , ma non sono mai chiamate res mancipii. Vero è, che
anche alle persone si applica la mancipatio , ma cid provenne, come si vedrà
più tardi, da cid che la mancipatio è una applicazione dell'atto quiritario per
eccellenza , che è l'atto per aes et libram , e quindi compare ogniqualvolta
trattisi di acquistare o trasmettere la manus, intesa nel senso di potestà
giuridica quiritaria. 351. Intanto questa storia primitiva del mancipium ci
pone eziandio in caso di risolvere la questione tanto agitata fra gli autori
relativa alla precedenza fra la mancipatio e la distinzione fra la res mancipii
e nec mancipii. hi seguisse alla lettera i giureconsulti dovrebbe dare la prece
denza alla mancipatio, in quanto che, secondo i medesimi, le res mancipii si
chiamerebbero tali appunto , perchè si trasferiscono me diante la mancipatio ;
ma rimarrebbe ancor sempre a cercarsi la ragione, per cui la mancipatio venne
ad essere il mezzo proprio per l'alienazione di questa speciale categoria di
cose . La cosa invece viene ad essere facilmente spiegata quando si ri ( 1) Ho
già notato più sopra come le formole di VARRONE dimostrino che un servo ,
allorchè non era un instrumentum fundi, poteva anche essere alienato colla sem
plice traditio . (2 ) Puchta, Inst., § 238. Cfr. SQUITTI, op . cit., pag. 15 .
444 tenga, che primo a formarsi dovette essere il concetto delmancipium , il
concetto cioè di una proprietà tipica del quirite , che compren deva uno spazio
di terra e quelle pertinenze di esso , che riputa vansi il patrimonio
indispensabile del capo di una famiglia agricola . La formazione di questo
mancipium , che già aveva una base nelle condizioni economiche e sociali dei
primitivi romani, venne in certo modo a precipitarsi e a consolidarsi sotto
l'influenza della costitu zione serviana. Da quel momento l'importanza non solo
economica, ma anche politica del mancipium , pose le cose , che erano comprese
nel medesimo, in una posizione privilegiata di fronte a tutte le altre cose ,
che potevano spettare al cittadino romano, e trasformò così il mancipium in una
proprietà essenzialmente quiritaria , perchè apparteneva al quirite come tale.
Era quindi naturale, che all’alie nazione del mancipium e delle cose comprese
nel medesimo si estendesse l'atto quiritario per eccellenza , che era l'atto
per aes et libram , mentre per l'alienazione delle altre cose potè bastaré
anche la semplice traditio accompagnata dal pagamento del prezzo. Per quello
poi, che si riferisce alla distinzione fra le res mancipii e quelle nec
mancipii, parmi evidente che essa fu l'ultima ad es . sere introdotta, e non ho
difficoltà di ritenere, che essa possa anche essere stata formolata più tardi
dai giureconsulti , quando i mede simi già sentivano il bisogno di ridurre ad
ordine sistematico le distinzioni molteplici, che eransi introdotte nel diritto
. Il censo in fatti per sè poteva condurre alla determinazione delle res
mancipii, ed anche alla divisione delle medesime in varie categorie ; ma esso
non poteva determinare che indirettamente la formazione delle res nec mancipii.
È quindi probabile, che i giureconsulti trovando più tardi questo nucleo di
cose (mancipium ), per la cui alienazione era richiesta la mancipatio, abbiano
formato di queste cose una cate goria speciale (res mancipii), la cui caratteristica
consisteva ap punto nel modo di alienazione (mancipatio), mentre tutte le altre
furono lasciate nella categoria negativa dalle res nec mancipii (1). ( 1) Non
parmi tuttavia accoglibile l'opinione del Voigt, secondo cui la distinzione
sarebbe nata fra il 585 e il 650 di Roma. Essa invece dovette già essere
formata all'epoca delle XII Tavole, in cui accanto alla mancipatio , riservata
alle res man cipii, era già comparsa l'in iure cessio, che era applicabile
eziandio alle res nec man cipii: il che sarebbe anche provato da ciò, che le
stesse XII Tavole già ponevano le res mancipii nella condizione speciale di non
potere essere usucapite, allorchè fos sero state vendute da una donna senza
approvazione del tutore. È evidente infatti 445 Essi insomma fecero qui una
distinzione analoga a quella , che si introdurrà più tardi, fra le cose, che
appartengono ad una persona ex iure quiritium , e quelle invece che le
appartengono solo in bonis ; poichè le prime costituiscono una cerchia chiusa e
circo scritta, quanto alle cose, che possono essere l'oggetto , quanto ai modi
di acquisto , e alle persone cui appartengono, mentre quelle in bonis
comprendono tutte le altre . $ 6 . La storia primitiva della proprietà ex iure
quiritium . 352. L'analogia , che ho sopra notata fra la distinzione delman
cipium e del nec mancipium e quella presentatasi più tardi fra il dominium ex
iure quiritium e quello in bonis, mi fa tornare un'altra volta sul grave
problema dell'origine e dello svolgimento storico della proprietà ex iure quiritium
. Fino ad ora si è sola mente dimostrato , come già nel periodo gentilizio vi
fosse una forma di proprietà , che intestavasi al capo di famiglia, e che pren
deva il nome di heredium . Questa tuttavia non costituiva ancora una proprietà
assolutamente individuale ed esclusiva, perchè il capo di famiglia trovavasi in
proposito ancora sotto la dipendenza della gens, a cui apparteneva. Accanto a
questi heredia dei patricii si erano poi venuti formando gli stanziamenti e i
possessi dei plebei, che probabilmente chiamavansi mancipia . Quando poi
patriziato e plebe entrarono a far parte dello stesso populus romanus qui
ritium , in base alla considerazione del censo, la sola proprietà , che era
loro comune era quella che spettava al capo di famiglia, e perciò fu questa ,
che comparve nel censo intestata ad ogni quirite sui iuris, sotto il vocabolo
di mancipium e coi caratteri di una proprietà assolutamente individuale. Il
vocabolo mancipium tuttavia non significd per sè il dominium ex iure quiritium
, ma piuttosto quel complesso organico di cose, che per il primo formo oggetto
del medesimo ; come lo dimostra la circostanza , che in questo periodo, secondo
l'attestazione dei giureconsulti, si ricorse per indicare il che questa
condizione speciale delle res mancipii, accennata da Gajo, I, 192, e da Ul
PIANO, Fragm ., XI, 27, doveva fin d'allora condurre alla distinzione di cui si
tratta . Per un più lungo esame dell'opinione del Voigt, vedi Squitti, op .
cit., pag . 73 e seg ., e BONFANTE , op . cit., pag. 115 e seg . 146 dominio
quiritario all'espressione meam esse : « aio hanc rem iure quiritium » . Ferma
cosi la spiegazione del modo in cui sarebbesi formato il primo nucleo del
dominium ex iure quiritium , resta ora a ve dere come il suo concetto siasi
venuto allargando, e quali siano i varii stadii, che attraverso questa
proprietà ex iure quiritium , la quale doveva poi divenire il modello di ogni
proprietà esclusiva mente privata ed individuale. 353. A questo riguardo i
ricercatori dell'antico diritto si arrestano sorpresi di fronte a questo fatto
singolare, che il solo mancipium nei primi tempi sembra aver formato oggetto
della proprietà ex iure qui ritium . L'Ortolan, ad esempio , trova assurdo che
il quirite non avesse la proprietà delle cose incorporali, se si eccettuano
certe servitù rustiche, nè la proprietà delle cose mobili, se si eccettuano i
servi e le bestie da tiro e da soma. Così pure il Muirhead stenta a spiegare in
qualmodo quei quiriti, che avevano divisi i loro fondi, fossero poi
indifferenti alla distinzione del mio e del tuo per molte altre cose; il che lo
induce a combattere la proposizione di Gaio, secondo cui il popolo Romano non
conosceva un tempo, che la sola proprietà ex iure quiritium : « aut enim ex
iure quiritium unusquisque do minus erat , aut non intellegebatur dominus »
(1). È certo che la cosa riesce assai strana, quando si voglia ritenere che, al
difuori della proprietà ex iure quiritium , non vi fosse pei romani primitivi
altra forma di proprietà o di possesso ; ma la cosa pud invece essere spiegata
quando si abbia presente il modo, in cui si vennero formando il ius quiritium e
le istituzioni, che entrarono a costituirlo . Già ho cercato di dimostrare
comeil ius quiritium non comprendesse tutto il diritto primitivo di Roma, ma
solo quella parte di esso , che prima venne a precipitarsi e a consolidarsi e
che di vento cosi comune ai due ordini, che con Servio Tullio entrarono a far
parte della stessa comunanza quiritaria. Il patriziato e la plebe continuarono
ancor sempre a seguire le proprie tradizioni ed usanze, e non ebbero comune che
quella parte di diritto , che essendo stata accettata come base della comunanza
quiritaria prese il nome spe ciale di ius quiritium . Questo pertanto non
governd dapprima tutti i rapporti giuridici, ma solo quelli che intervenivano
fra loro nelle ( 1) Ortolan, Histoire de la législation romaine, Paris, 1880,
p. 606. MUIRHEAD, Histor. Introd ., pag. 40. . 447 loro qualità di quiriti, e
fu solo col tempo e a misura che facevasi più intima la convivenza dei quiriti,
che esso venne arricchendosi di nuove forme, assimilando nuovi istituti,
modellando nuovi negozii richiesti dalle esigenze della vita civile in una
grande e popolosa città , e si cambiò così nel ius proprium civium romanorum
(1). 354. Or bene ciò che accadde nella formazione del ius quiritium si avverò
eziandio nell'elaborazione delle varie istituzioni, che en travano a
costituirlo, e quindi anche delle proprietà ex iure qui. ritium . Questa non
comprende dapprima tutta la fortuna, famigliare o gentilizia dei cittadini, ma
comprende solo quella parte di essa , che loro appartiene nella loro qualità di
quiriti. Siccome quindi nella comunanza serviana non conta dapprima che il
mancipium , che è la sola proprietà intestata nel censo al quirite e in base a
cui si determinano i suoi diritti e le sue obbligazioni di quirite, cosi la
primitiva proprietà ex iure quiritium non potè comprendere dapprima che il
mancipium , e fu solo a questa, che si applicò l'atto quiritario per
eccellenza, cioè l'atto per aes et libram , e quella pro cedura quiritaria
dell'actio sacramento , in cui i contendenti affer mavano: « hanc rem suam esse
ex iure quiritium » . Questa infatti era l'unica proprietà , che poteva essere
tenuta in conto al punto di vista quiritario e che doveva perciò avere la
tutela del diritto qui ritario . Quindi era giusto il dire, che altri « aut
erat dominus ex iure quiritium , aut non intellegebatur dominus » : il che non
vuol già dire , che non si potesse avere il possesso od il godimento di altri
beni, ma soltanto che le altre forme di proprietà non potevano es sere tenute
in calcolo al punto di vista quiritario . Quindi al modo stesso, che il ius
quiritium fu il frutto della selezione di certi con cetti e forme solenni, che
furono adottate dalla comunanza dei qui riti, cosi la proprietà ex iure
quiritium fu anche essa determinata da una specie di selezione. Il suo primo
nucleo consistette nel man cipium , il quale costitui in certo modo la
proprietà tipica del qui rite , ma più tardi i suoi limiti apparvero troppo
circoscritti, e perciò alla cerchia troppo ristretta del mancipium si venne
sostituendo un concetto più esteso del dominium ex iure quiritium . Questo
infatti (1) Questo carattere particolare del ius quiritium , per cui esso non è
tutto il di ritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di esso, che vennesi
consolidando al lorchè patriziato e plebe entrarono a formar parte della stessa
comunanza quiritaria . fu dimostrato sopratutto nel lib. III, cap. 3º. 448
viene già ad essere più esteso : lº quanto alle persone a cui compete, che non
sono più i soli capi di famiglia , ma tutti i cittadini ro mani ed anche i
latini cui sia accordato il ius quiritium ; 2° quanto ai modi, con cui si
acquista , che non si riducono più alla sola man cipatio, ma comprendono anche
la in iure cessio e la usucapio (1 ); e quanto alle cose, che possono essere
l'oggetto, che non sono più le sole res mancipii, ma tutte le cose in commercio
, eccetto il solum provinciale. Tuttavia egli è evidente, che anche in questo
secondo stadio la proprietà ex iure quiritium costituisce ancora sempre una
proprietà privilegiata , quanto alle persone , alle cose , ai modi di acquisto
; cosicchè ogni qualvolta manchi una di queste condizioni la cosa ap partiene
solo in bonis, ed è solo col tempo e per effetto della pro tezione pretoria ,
che viene a poco a poco delineandosi una proprietà in bonis, accanto alla
proprietà per eccellenza, che era quella ex iure quiritium . Qui pertanto
appare evidente quella legge di for mazione del diritto romano, per cui accanto
alla parte di esso già formata ne compare un'altra, che trovasi in via di
formazione e che cercasi a poco a poco di fare entrare nelle forme di quella ,
che prima riuscì a consolidarsi. Mentre questo dualismo nel primitivo ius
quiritium è rappresentato dal mancipium e dal nec mancipium , il medesimo
invece nel ius proprium civium romanorum viene ad essere rappresentato dalla
proprietà ex iure quiritium e da quella in bonis ; ma intanto la seconda
distinzione, pur abbracciando una cerchia più vasta, continua ancora sempre ad
essere foggiata sulla prima. 355. Queste considerazioni mi conducono a
ritenere, che anche il dominium ex iure quiritium , dopo esser stato modellato
sulla realtà dei fatti, abbia finito per convertirsi in una costruzione
giuridica non dissimile da quella , che abbiamo ravvisata nei concetti di
caput, di manus e di mancipium . Esso è una forma di proprietà , che cor
risponde al concetto del quirite, e quindi al modo stesso , che questi nella
sua configurazione giuridica era una individualità integra e perfetta ,
concepita sotto l'aspetto esclusivamente giuridico , ed (1) Non è qui il caso
di parlare nè dell'adiudicatio, nè della lex , e dell'adsignatio viritana , che
potevano anche attribuire il dominium ex iure quiritium ; poichè lo stesso Gajo
, Comm ., II, 65 , parla soltanto della mancipatio, della in iure cessio e
dell'usucapio , come costituenti un ius proprium civium romanorum . 449 isolata
da tutti gli altri suoi rapporti , cosi anche la sua proprietà ebbe ad essere
concepita come assoluta ed esclusiva, e fu modellata in certo modo ad imagine
della persona, a cui doveva appartenere. Una prova di ciò l'abbiamo in questo ,
che allo svolgimento del dominium ex iure quiritium si applicò una logica del
tutto ana loga a quella, che erasi applicata allo svolgimento del concetto di
caput; cosicchè, per determinare i varii atteggiamenti del dominio , furono
adoperati dei criteri analoghi a quelli, che servirono a de terminare lo stato
del quirite. Così , ad esempio , al modo istesso , che si ha l'optimum ius
quiritium allorchè la capacità del quirite non soffre alcuna limitazione; cosi
havvi il dominium optimum maximum , quando il dominium non è soggetto ad alcuna
limita zione. Al modo stesso parimenti, che vi ha una diminutio capitis, cosi
havvi eziandio una diminutio dominii , la quale è perfino in dicata collo
stesso vocabolo di servitus, con cui pure si indica la maxima capitis
diminutio. Che anzi a quella guisa, che l'intiero caput non appartiene a tutti
gli uomini, cosi non tutte le cose sono suscettive del dominium .ex iure
quiritium ; il qual concetto spin gesi a tal punto, che può ravvisarsi una
specie di correlazione fra la concessione della civitas agli abitanti, e la
concessione al suolo da essi abitato di quel ius privilegiato , che lo rende
suscettivo di dominio quiritario . Cosi mentre il solum italicum ottenne questa
speciale condizione, sotto il nome di ius italicum , il solum provin ciale
invece non potè mai essere oggetto di vera proprietà , se non quando scomparve
con Giustiniano la distinzione fra la proprietà ex iure quiritium e la
proprietà in bonis (1) . Vi ha di più ancora, ed è che le trasformazioni
storiche, che ac cadono nel concetto di caput, camminano di pari passo con
quelle del dominium ex iure quiritium . Così, ad esempio , finchè il vero caput
non appartenne che al capo di famiglia , anche questi fu il solo capace di
proprietà ex iure quiritium . Quando poi la capacità di diritto dal capo di
famiglia passò ad ogni cittadino romano ) (1) In questa guisa si spiega, come i
Romani procedessero nell'accordare ad un determinato territorio l'attitudine ad
essere oggetto di proprietà quiritaria nel modo stesso, in cui procedevano
nell'estendere la cittadinanza romana ai popoli conquistati. Di qui l'analogia
fra la formazione del ius latiï e quella del ius italicum : di cui quello si
riferisce alle persone, questo invece si riferisce al suolo (Cfr. Baudouin,
Étude sur le ius italicum , nella « Nouvelle revue historique de droit français
et étranger » , annate 1881 e 1882). G. CARLI, Le origini del diritto di Roma.
29 450 bastò essere tale, per essere capace di proprietà ex iure quiritium .
Quando infine la capacità giuridica appartenne ad ogni uomo li bero , perchè
tutti gli abitanti dell'impero ottennero la cittadinanza, bastò essere uomo
libero per essere capace di quella proprietà , che un tempo era stata
privilegio dei soli quiriti. La qual trasforma zione avverasi anche, quanto
alle cose che ne formano l'oggetto , le quali cominciarono dall'essere quelle
soltanto, che figuravanonel censo intestate al capo di famiglia (res mancipii),
e finirono per compren dere tutte quelle, che potevano essere in commercio . Il
che deve pur dirsideimodi diacquisto , i quali dapprima furono probabilmente
circo scritti alla sola mancipatio, mentre dopo compresero l'in iure cessio e
l'usucapio, e finirono col tempo per comprendere anche quei modi di acquisto ,
che dapprima erano proprii soltanto del diritto delle genti ; donde la
distinzione della classica giurisprudenza fra i modi di acquisto del dominio ,
civili e naturali, originarii e derivativi (1 ). 356. Era poi naturale, che
alla proprietà cosi intesa i giurecon sulti abbiano finito per applicare quella
stessa analisi, che già ab biamo riscontrato nel caput. Essi contrapposero il
quirite alla cosa che gli apparteneva : gli fecero afferrare materialmente la
cosa ed affermare la sua proprietà sulla medesima dicendo, che la cosa era sua
ex iure quiritium : immedesimarono in certo modo la persona colla cosa alla
medesima spettante, e le attribuirono così un di ritto illimitato di usarne,
goderne, e di disporne , anche abusando di essa . In questo diritto del
proprietario , che non ha confine, deve quindi ravvisarsi una costruzione
giuridica, non dissimile da tante altre, che occorrono nel diritto romano :
poichè in effetto l'abuso della proprietà era poi frenato dal costume, e
sopratutto dal iudicium de moribus, il quale , dopo essere stato una
istituzione gentilizia , fu di nuovo ristabilito dalle XII Tavole, e fu
affidato al pretore (2 ). Che anzi ciascuno dei diritti inchiusi nella
proprietà (1) Non può ammettersi, come vorrebbero taluni, che nelle origini del
diritto ro mano non esistessero modi naturali di acquisto, il che sarebbe
contraddetto dall'an tichità della traditio, quanto alle res nec mancipii: ma
soltanto che i modi naturali, pur esistendo da epoca forse più antica , furono
solo più tardi incorporati nella com pagine del diritto romano, il quale
assimilava solamente ciò, che in qualche modo poteva entrare nelle forme
prestabilite. (2 ) L'origine gentilizia del iudicium de moribus fu dimostrata
al n° 59, p . 74. Del resto tale origine gentilizia è comprovata dalla
intitolazione stessa di questo iw dicium demoribus, la quale sembra richiamare
qualche antica norma consuetudi 451 fini per ricevere una propria
denominazione, e staccato dal ceppo , sovra cui aveva radice, fini per dare
origine alle varie configura zioni dei diritti reali , comprendendovi anche il
ius possessionis, ciascuno dei quali potė ricevere un vero e proprio sviluppo,
pur sempre ritenendo l'impronta reale, che eragli provenuta dalla pro prietà ,
di cui costituiva un frazionamento. Fu anzi in questa occa sione, che sembra
essere venuto in uso il vocabolo di proprietas, il quale in origine appare adoperato,
quando si tratta di contrapporre la proprietà ai diritti reali, che erano
inchiusi nella medesima (1). 357. Questa ricostruzione intanto del dominium ex
iure quiri. tium mi porge occasione di fare un brevissimo cenno dei rapporti,
che nel diritto romano intercedono fra la proprietà ed il possesso. A questo
proposito il diritto romano presenta questa singolarità , chementre il
giureconsulto Paolo, fondandosi sull'autorità di Nerva filius, annunzia come
fuori di ogni dubbio, che il dominio dovette cominciare dalla materiale
appropriazione delle cose (dominium rerum ex naturali possessione coepisse)
(2); noi troviamo invece , che nello svolgimento storico presentasi dapprima
integro e com piuto il concetto del dominium ex iure quiritium , ed è solo molto
più tardi, che il possesso viene ad essere considerato come una isti tuzione
giuridica , protetta cogli interdetti possessori. Di fronte a questo stato di
cose sarebbe fuor di luogo il sostenere, che i Romani non distinguessero
dapprima fra la materiale detenzione di una cosa, e la padronanza giuridica
sovra di essa ; ciò sarebbe smentito dal fatto , che essi fin dai primi tempi
ebbero il concetto dell'usus e dell'usus auctoritas , ed anche dalla
circostanza, che ai plebei, stanziati sul territorio romano, non si riconobbe
dapprima una vera naria, ed anche dalla circostanza , che le XII Tavole,
affidando al pretore questo po tere, che un tempo apparteneva alla gens,
richiamarono di nuovo in vita il primitivo concetto dell'heredium , che era
venuto meno nello stretto ius quiritium , e ristabili rono contro il prodigo
interdetto la cura degli agnati e dei geniili, la quale è certo una reliquia
dell'organizzazione gentilizia . Il testo infatti, secondo la ricostruzione del
Voigt, Tav. VI, 10 , sarebbe il seguente : « Qui sibi heredium nequitia sua
disperdit, liberosque suos ad egestatem perducit, ea re commercioque praetor
interdicito. In adgnatum gentiliumque curatione esto » . ( 1) Che il vocabolo
di proprietas abbia cominciato ad adoperarsi, allorchè si trat tava di
contrapporre la proprietà in sè ai diritti frazionarii inchiusi nella medesima,
può argomentarsi , fra gli altri passi, da quello di GAJO, II, 30, ove la
proprietas si contrappone appunto all'ususfructus. (2 ) L. 1, § 1 , Dig . (41,
2 ). 452 proprietà , ma una specie di possesso a titolo di precario , che non
aveva ancora carattere giuridico (1). La causa invece del fatto deve riporsi in
ciò , che anche in questa parte il ius quiritium , essendo già stato il frutto
di una vera elaborazione giuridica, prese senz'altro le mosse dal concetto più
vasto e comprensivo, a cui si potesse giungere in tema di proprietà . Il
concetto infatti del do minium ex iure quiritium ebbe dapprima ad essere
modellato sul mancipium , il quale , implicando la sottomissione illimitata di
una cosa ad una persona, inchiudeva in una sintesi potente tutti i po teri, che
ad una persona possono appartenere sopra una cosa. Il diritto infatti , che al
quirite spetta sul proprio mancipium , nella sua sintesi vigorosa, implica la
detenzione materiale e la proprietà della cosa : è un fatto ed è un diritto ; è
una proprietà originaria , ma intanto comprende eziandio la proprietà derivata
; esso anzi de signa perfino una proprietà , che ha dell'individuale e del
famigliare ad un tempo. Fu soltanto più tardi, che anche in questo concetto
venne penetrando l'analisi , la quale cominciò dal distinguere la materiale
detenzione di una cosa (naturalis possessio), la quale è un puro e semplice
fatto (res facti), dalla padronanza giuridica sovra di essa (dominium ex iure
quiritium ), la quale costituisce invece un vero e proprio diritto (res iuris).
Col tempo però, siccome fra questi due termini estremiverranno ad esservi delle
possessiones, che per speciali considerazioni potranno anche apparire meritevoli
diprotezione giuridica, cosi si verrà a poco a poco modellando dal pretore il
concetto di una civilis possessio. Questa tuttavia non apparirà più unicamente
come una res facti , ma in parte eziandio come una res iuris ; non supporrà
unicamente la materiale deten zione della cosa (corpus), ma anche l'intenzione
di tenere la cosa per sè (animus rem sibi habendi). Questo possesso verrà cosi
a pren dere un posto di mezzo fra la semplice detenzione materiale di una cosa,
e la proprietà della medesima (2 ) ; quindi, per la protezione di esso , il
pretore , non trovandosi di fronte ad un diritto compiutamente formato, non
potrà ius dicere nel vero senso della parola , ma sol tanto interdicere , cioè
proibire che venga turbato lo stato di fatto , del quale si tratta (vim fieri
veto ), donde la denominazione degli inter . (1) Vedi, quanto alle primitive
possessioni della plebe nel territorio romano, il nº 154 , pag. 190 e segg .
(2) V. in proposito Savigny, Dela possession , Trad. Staedtler, sulla 74 ed .
tedesca, Bruxelles 1879, § 5º, pag. 20 a 25 . 453 dicta , con cui si protegge
il possesso . Siccome poi questo possesso , du rando un determinato spazio di
tempo, già poteva, in base all'usuca pione,trasformarsi in un vero diritto;
cosi il possesso , oltre al costituire per se stesso una istituzione giuridica
, protetta mediante gli inter detti, costituisce pure un mezzo , mediante cui
il fatto della deten zione e del godimento di una cosa (usus) può trasformarsi
nel di ritto di proprietà (auctoritas) (1). È tuttavia a notarsi, che siccome
tanto il dominium ex iure quiritium , quanto la semplice possessio debbono
ritenersi come una scomposizione del diritto, che al quirite spettava sul
primitivo mancipium , il quale aveva del materiale e del giuridico ad un tempo
; così tanto il dominium , che la pos sessio, presso i romani, non poterono mai
intieramente spogliarsi di un certo carattere di materialità . Cid è dimostrato
dalla circostanza, che da una parte il dominium fini per essere circoscritto
alle cose corporali e dovette sempre essere trasferito col mezzo della tra
dizione, e dall'altra il possesso non potè parimenti estendersi, che alle cose
corporali e ad alcuni dei diritti reali competenti sulle me desime (quasi
possessio ) (2). In questo modo possono facilmente spiegarsi le incertezze dei
giureconsulti , i quali ora considerano il possesso come una res facti, ed ora
come una res iuris, ora scorgono in esso l'estrinsecazione del diritto di
proprietà , ed ora dicono invece , che il possesso ha nulla di comune con essa;
poichè il medesimo, essendo una istitu zione intermedia fra il fatto ed il
diritto , fra la detenzione e la proprietà, poteva presentarsi or sotto l'uno
or sotto l'altro aspetto, secondo lo speciale punto di vista , sotto cui era
considerato (3 ). Si comprende parimenti, che sebbene ogni dominio abbia dovuto
(1) A parer mio è importante nello svolgimento storico del diritto romano di
tener distinti i due istituti del possesso ad usucapionem , e del possesso ad
inter dicta . Il primo prese le mosse del concetto dell'usus e perciò potò
essere applicato così alle res mancipië che alle nec mancipii, così alle cose
corporali, che alle incor porali; mentre il secondo fu il frutto dell'analisi
del mancipium , e ritenne quindi sempre qualche cosa della materialità inerente
a quest'ultimo. L'uno mette capo alla legislazione decemvirale, mentre l'altro
ricevette la propria configurazione giu ridica dal diritto pretorio . (2 ) Cfr.
Savigny, V. i passi in proposito citati dal Savigny, op . cit ., § 5 , pag. 21
e segg ., nelle note. Sono poi noti i passi di Ulp., 12 , § 1, Dig . (41, 2)
nihil commune habet proprietas cum possessione» , ed altri analoghi, L. 1, $ 2
, Dig . (43, 17). Cfr. JHERING , Fondement des interdits possessoires, Trad .
Maulenaere, Paris 1882, pag . 42. - 151 prendere le mosse dalla materiale
appropriazione di una cosa , il concetto del possesso sia tuttavia di
formazione posteriore, e non abbia ricevuto una propria configurazione
giuridica, che per opera del pretore, allorchè il medesimo cominciò ad
accordare la prote zione giuridica a quelle possessiones nell'ager publicus,
che per la propria durata già cominciavano ad assumere il carattere di un vero
A proprio diritto ( 1) . Per quello poi, che si riferisce alla questione tanto
agitata del fon damento razionale della protezione giuridica accordata al
possesso, essa , come al solito , non ebbe ad essere trattata di proposito dai
giu reconsulti ; ma si può indurre dallo svolgimento storico di esso , che tale
fondamento deve riporsi sul principio, sovra cui poggia tutto il diritto
romano, secondo cui « ex facto oritur ius » , in quanto che ogni fatto , che
riunisca in sè certe condizioni di durata e di buona fede, contiene in sé i
germi di un diritto e come tale può già meri tare la protezione giuridica e
servire ad un tempo di base all'usu capione (2 ). (1) Tale sarebbe l'opinione
del Niebaur , Histoire romaine, III, 191 e segg.; e del Savigny, op. cit., § 12
a , pag . 177-185. Essa parmi in ogni caso più verosimile di quella sostenuta
dal Pochta , Istit., § 225, secondo cui l'idea del possesso sarebbe provenuta
dalla concessione del possesso interinale, che si accordava ad uno dei
contendenti nella procedura di vindicazione coll' actio sacramento ; poichè
questo possesso interinale non ha punto che fare col possesso, in quanto ha una
protezione giuridica tutta sua propria, che consiste negli interdetti. Comunque
stia la cosa , sembra che l'interdetto più antico sia quello uti possidetis ,
destinato appunto ad impedire il turbamento di uno stato di fatto. Intanto
viene ad essere evidente, che in base all'opinione qui sostenuta, se si voglia
collocare il possesso nella solita di stinzione dei diritti in personali e
reali, esso dovrà certo esser collocato tra i diritti reali. Cfr. il SavIGNY,
op . cit., $ 6 , p. 42, il quale sostiene un'opinione in parte diversa . (2 )
Senza voler qui prendere in esame le molte teorie , che furono escogitate in
proposito, solo mi limiterò ad osservare, che la questione ebbe ad essere
profonda mente discussa in due opere, che vennero ad un risultato compiutamente
diverso ; di cui una è quella del JHERING , Ueber den Grund des Besitzschutzes,
Jena 1869, di cui abbiamo la trad. franc. del Maulenaere, sopra citata , e
l'altra è quella del Bruns, Die Besitzklagen des röm . und heutigen Rechts,
Weimar 1874, il cui con cetto fu adottato e largamente esposto dal PADELLETTI ,
Archivio giuridico, XV, pag . 3 e segg . Secondo il primo, la protezione
accordata al possesso fondasi su ciò , che il possesso è una estrinsecazione
della stessa proprietà , e quindi senza tale pro tezioneanche la proprietà non
sarebbe sufficientemente difesa. Secondo l'altro invece, il posseso è tutelato
unicamente per se stesso, in base al concetto, enunciato nella L. 2, Dig . (43
, 17): qualiscumque possessor, hoc ipso quod possessor est , plus iuris habet,
quam qui non possidet » . Parmi che, assegnando a questa protezione il
fondamento razionale indicato nel testo, cioè il principio : « ex facto oritur
ius » , si 455 358. Di fronte a questo svolgimento storico e logico ad un
tempo, parminon possa essere difficile la risposta a coloro, i quali chiedono
comemai una istituzione, come quella della proprietà ex iure quiri. tium , dopo
essere stata esclusivamente propria dei romani, abbia finito per diventare istituzione
universale, e per essere adottata anche da quei popoli, i quali non subirono
l'influenza diretta della dominazione romana. La causa vera del fatto sta in
questo , che la proprietà quiritaria, dopo essere uscita dai fatti, e aver
prese le mosse da quel nucleo di cose, che anche nell'organizzazione gentilizia
era assegnato ai singoli capi di famiglia , fini per essere isolata
dall'ambiente , in cui si era formata , e si cambiò così in una costruzione
logica e coerente . Fu in questa guisa, che la medesima, essendo ridotta, per
dir cosi, ad un capolavoro di costruzione giuridica, potè cessare di essere
l'istitu zione di un popolo, per diventare quella del mondo. Vero è, che tutti
i popoli ebbero i loro istituti giuridici, e quindi anche questa o quella forma
di proprietà , ma non tutti riescirono ad isolare tali istituti e sopratutto la
proprietà dall'ambiente storico , in cui si erano for mati ; solo i romani
ebbero la potenza di sceverarli da ogni elemento affine, di sottoporli ad
un'elaborazione non interrotta , che duro pa recchi secoli, e riuscirono cosi a
ridurre allo stato di purezza quella , che potrebbe chiamarsi l'obbiettività
giuridica dei singoli istituti . Le loro analisi, le loro fattispecie , le loro
costruzioni giuridiche non potranno sempre essere applicabili, ma saranno
sempre elaborazioni tipiche nel loro genere, come lo sono in un genere diverso
i capo lavori dell'arte greca ; ed è questo il motivo dell'eternità e dell'uni
versalità del diritto romano. Questa elaborazione poi fu dai romani compiuta
sopratutto quanto al concetto della privata proprietà . In questo senso si pud
dire col Sumner Maine (1) che essi furono i crea tori della proprietà privata
ed individuale ;ma è sopratutto notabile abbia il vantaggio di far contribuire
alla giustificazione della protezione giuridica accordata al possesso e l'una e
l'altra teorica , e quello di dare contemporaneamente una base, così al
possesso ad interdicta , come al possesso ad usucapionem . Secondo il Puglia ,
Studii di storia del diritto romano, Messina 1886 , pag. 72: « l'interdetto pos
sessorio sarebbe comparso come un mezzo particolare per risolvere una
controversia , per la quale non potevasi dal pretore esercitare la iurisdictio
» ; ma è ovvio il notare che in questa guisa si potrà forse spiegare
l'introduzione degli interdetti, ma non maiil fondamento della protezione
giuridica accordata al possesso. Cfr . PADELLETTI Cogliolo, Storia del dir. rom
., pag . 529 e segg., ove trovasi citata in nota la bi bliografia più recente
sull'argomento . ( 1) SUMNER-MAINE, L'ancien droit, trad . Courcelles Seneuil,
Paris, il modo e il perchè essi ed non altri riuscirono in tale creazione. Essi
infatti vi pervennero svolgendo prima il concetto della pro prietà individuale,
assoluta ed esclusiva, riguardo a quel nucleo di cose, che era compreso nel
primitivo mancipium , con cui ogni sin golo quirite compariva nel censo, e poi
trasportarono successiva mente il concetto logico, che essi si erano formati di
questa pro prietà ex iure quiritium , a tutte le cose corporali, che potevano
essere oggetto di commercio . Per tal modo la proprietà quiritaria si staccò da
una organizzazione gentilizia e patriarcale , non dissi mile da quella , da cui
usci la proprietà privata dei Germani e degli Inglesi nell'evo moderno ; ma a
differenza di questa , quella fu ben presto isolata dall'ambiente , in cui
erasi formata, e si cambid cosi in una proprietà tipica , strettamente
individuale, che potè con certi temperamenti essere adottata da tutti i popoli.
Appendice. Senza voler qui fare comparazioni, che miporterebbero fuori del
tema, non so tuttavia trattenermi dall'accennare ad alcune singolari analogie
fra lo svolgi mento della proprietà privata in Roma e presso i popoli
Germanici. Ebbi già occasione di accennare, a pag . 62, nota 2, la discussione
seguita nell'Accademia Francese, a pro posito della proprietà presso gli
antichi Germani. Ora aggiungo, che quella stessa discussione porse argomento ad
una nota del prof. Del Giudice, stata letta all'Isti tuto Lombardo, nelle adunanze
del 4 e 18 marzo 1886 , in cui egli fa un accura tissimo raffronto fra la
descrizione di Cesare e quella di Tacito circa le condizioni dei primitivi
Germani, e cerca di ridurre nei loro veri confini le mutazioni, che si erano
avverate, quanto alla proprietà del suolo, nei 150 anni, che separano i due
autori. Tale trasformazione riducevasi in sostanza a ciò, che i possessi erano
diventati più stabili, e che dalla proprietà collettiva del villaggio già erasi
venuta distin guendo la proprietà della famiglia. Pervenuti così a questo punto
della evoluzione della proprietà presso i Germani, analogo a quello, a cui
erano pervenute le genti italiche, allorchè fondarono la città di Roma, noi
troviamo nel dottissimo lavoro dello SCHUPFER sull'Allodio nei secoli
Barbarici, Torino, 1886 , la descrizione degli ulteriori stadii , per cui passò
l'evoluzione stessa . Noi cominciamo anzitutto dal trovarci di fronte a certi
vocaboli e concetti, che ci richiamano le condizioni primi tive delle genti
italiche. Cotali sono i communalia , i vicinalia , i vicanalia (SCHUPFER, pag .
26 ) i quali, senz'aver più la configurazione tipica dell'ager compascuus delle
tribù italiche, richiamano però il medesimo. Così anche tra i Germani trovasi
una forma di proprietà, che, senza essere del tutto individuale, già si accosta
alla medesima, ed è notevole, che essa, così fra le genti italiche, come fra i
Germani, è indicata con un vocabolo, che richiama l'eredità , il passaggio cioè
di un patrimonio dai genitori nei figli. Questo vocabolo presso i Romani, era
quello di heredium , e presso i Germani è quello di alodium ; il quale eziandio
, secondo il Waitz e lo Schupfer, cominciò dapprima dall'indicare l'eredità , e
passò poscia ad indicare il patrimonio avito. SCHUPFER , Op. cit., pag . 11 e
12. Or bene, presso l'uno e l'altro popolo, è questo heredium o alodium , che
finisce per costituire il primo nucleo della proprietà esclusivamente privata .
— È notabile anzi, che, nel periodo della tras 457 formazione, nè i Romani, nè
i Germani hanno un vocabolo specifico per indicare la proprietà : poichè mentre
i primi esprimono la proprietà coi concetti di meum e di tuum , di heredium ,
di praedium , di mancipium , i Germani invece la indicano coi vocaboli di Land,
Erbe, Eigen , Allod , Sundern (pag. 14 ). Così pure anche presso i Germani
occorrono quei consortia, che presso le genti italiche erano indicati coi
vocaboli di « ercto non cito » . Questi consortia parimenti esistono sopratutto
fra fra telli, e talora anche fra zii e nipoti, che continuano spontaneamente
nella comunione (SCHUPFER , pag. 52), e richiamano così la familia omnium
agnatorum . — Infine la vera proprietà privata formasi presso i due popoli
nella stessa guisa. Al modo stesso, che la prima proprietà privata in Roma fu
un assegno sull'ager gentilicius o sull'ager publicus, così anche la proprietà
privata , presso i popoli germanici, seguendo sempre la guida sicura del prof.
Schupfer, fu anche essa una sors, un lotto , un assegno ( pag . 63); accanto al
quale però si svolge eziandio il concetto dell'adquisitum la bore suo (pag .
60), il quale, salvo il linguaggio, non presenta poi grande differenza dal
manucaptum dei latini. È poi anche degno di nota, che questo nucleo cen trale
della proprietà privata presso i Germani, al pari che presso gli antichi Ro
mani, è costituito da un podere o da una abitazione rustica, a cui trovasi
annessa una certa quantità di terra , che in massima avrebbe dovuto essere
invariabile (pag. 63 ). Il medesimo poi è indicato coi nomi dimansus, di hoba ,
di sedimen , i quali proba bilmente portano eziandio con sè quella idea di
residenza , che era indicata anche dai vocaboli di mancipium e di dominium .
Che anzi, come già notava lo Schupfer , p . 78, anche l'uomo libero longobardo,
che si chiama arimanno, indica la sua libera pro prietà col vocabolo di
arimanna, al modo stesso che il quirite addimandava la sua proprietà esclusiva
« dominium ex iure quiritium » . Infine questa proprietà si acquista , si
trasmette e si rivendica con modi, che ricordano l'usucapio, la manci. patio e
l'actio sacramento dei Romani (SCHUPFER, Op. cit., pag. 122, 138 e 160 ).
Intanto però, accanto alle analogie, che dimostrano la costanza delle leggi che
go vernano l'evoluzione della proprietà , sonvi anche le differenze , che sono
determinate dal diverso temperamento dei popoli. Mentre infatti il popolo
romano, giunto una volta al concetto della proprietà individuale, ne fa una
costruzione tipica, che estende a poco a poco a tutte le cose, che sono in
commercio, e che svolge in tutte le sue conseguenze logiche, i popoli germanici
invece non giungono a questa concezione tipica ; quindi mentre la proprietà
romana è una sola, la proprietà germanica, come ben nota lo ScuuPFER, non potrà
mai richiamarsi a un solo tipo (pag. 75). Di più mentre i Romani, una volta
raggiunta la proprietà quiritaria, la disgiunsero affatto dall'ambiente
gentilizio , e si concentrarono esclusivamente nello svolgimento di essa,
pressochè lasciando in disparte la proprietà collettiva prima esistente, i
popoli ger manici invece, compresi anche gli Anglo-Sassoni, non giunsero mai a
districare com piutamente la proprietà privata dall' involucro feudale da cui
era uscita , o se lo fecero vi giunsero solo per imitazione della proprietà,
quale era stata modellata dai Romani, nè spinsero mai la logica della
istituzione a conseguenze così estreme, come i Romani (pag. 82). Ciò è vero
sopratutto della proprietà inglese, la quale, uscita dall'organizzazione
feudale, continua sempre a serbarne le traccie in quella serie di gradazioni e
di distinzioni, che ancor oggi la contraddistinguono. Vedi, quanto alla
proprietà inglese, il Williams, Principii del diritto di proprietà reale, trad
. Ca negallo, Firenze, 1873 e il POLLOCH, The Land Laws, Edinburgh, 1884 . -
458 CAPITOLO III. Il ius quiritium ed i concetti di commercium , connubium ,
actio . 359. Fin qui ho cercato di ricomporre il quirite negli elementi
essenziali del suo status, e di seguire le trasformazioni, che si vennero
introducendo man mano in ciascuno di questi elementi. Ricostruendo cosi il
primitivo diritto , fummo condotti ad una con figurazione giuridica del
quirite, la quale , ancorchè rigida e com passata, si presenta però organica e
coerente in tutte le sue parti. Resta ora la parte più difficile di questa
ricostruzione, quella cioè di cercare, come mai una figura cosi automatica
potesse entrare in rapporti con altre individualità foggiate sullo stesso
modello , e dare cosi origine a quella infinita varietà di negozii, in cui il
quirite pud essere chiamato a svolgere la propria attività giuridica . Non è
quindi meraviglia, se qui sopratutto apparisca sorprendente il magi stero dei
veteres iuris conditores, in quanto che non trattavasi solo più di notomizzare
e di scomporre lo status del quirite , ma di mettere il medesimo in movimento
ed in azione, valendosi di pochissimi mezzi per dar forma giuridica alla
varietà grandissima dei negozii, che si venivano moltiplicando col formarsi e
collo svol gersi della convivenza cittadina. Anche qui la supposizione più
ovvia intorno al magistero seguito dai modellatori del primitivo diritto ,
sarebbe che essi, da uomini pratici quali erano, fossero venuti introducendo le
istituzioni, a mi sura che se ne presentava il bisogno, e che perciò il diritto
privato di Roma, almeno in questa parte, debba essere considerato come il
frutto di una evoluzione lenta e graduata , determinata sopratutto dalle
condizioni economiche e sociali del popolo romano (1). Lo studio invece delle
vestigia , che a noi pervennero dell'antico ius quiritium , mi hanno
profondamente convinto , che il medesimo, anche in questa parte , che potrebbe
chiamarsi la dinamica del diritto quiritario, sia stato il frutto di una specie
di elaborazione e selezione potente , (1) Tale sarebbe l'idea, forse alquanto
preconcetta, a cui sembra ispirarsi l'opera del Puglia col titolo : Studii di
storia di diritto romano, secondo i risultati della filosofia scientifica ,
Messina, 1886 . 459 che venne operandosi su materiali giuridici preesistenti ,
la quale ebbe ad essere guidata da una logica e da una tecnica giuridica , non
dissimile da quella, che abbiamo riscontrata nella parte statica del diritto
quiritario . Vi ha tuttavia questa differenza, che mentre le basi fondamentali
dello status del quirite furono fissate , pressochè contemporaneamente,
dall'avvenimento importantissimo del censo ser viano ; lo svolgimento invece
della parte del diritto quiritario , che si riferisce al negozio giuridico , fu
l'effetto di una elaborazione più lenta e graduata , la quale si operd man
mano, che veniva accomu nandosi il diritto fra il patriziato e la plebe , e che
le loro rispettive istituzioni si fondevano insieme nell'attrito della vita
cittadina. 360. Che questo sia stato il processo , con cui si formò eziandio la
parte dinamica del ius quiritium , risulta da una quantità gran dissima di
indizii, fra cui basterà qui di ricordare i più importanti. È indubitabile
anzitutto che, anche nella parte relativa al negozio giuridico , il ius
quiritium non prende le mosse da questo o da quel fatto particolare, ma parte
invece senz'altro da concetti sin tetici e comprensivi, quali sarebbero quelli
del commercium , del connubium e dell'actio , i quali tutti hanno una
larghissima signi ficazione, e sembrano già preesistere nel periodo gentilizio
, anteriore alla fondazione della città . Cosi pure è certo, che il primitivo
ius quiritium non viene già creando le forme giuridiche, a misura che si
vengono svolgendo i nuovi rapporti giuridici , ma compare invece con certe
forme tipiche, efficacemente modellate, nelle quali cerca poi di fare entrare,
anche forzatamente, quei nuovi rapporti giuri dici, a cui dà argomento la
convivenza civile e politica . È in questa guisa, che un solo atto , quale sarà
, ad esempio, l'atto per aes et libram , finirà per servire alle applicazioni
più disparate. Che anzi è facile eziandio di scorgere, che il ius quiritium ,
nelle diverse serie di rapporti giuridici da esso governati, presentasi
dapprima con istituzioni tipiche, che costituiscono in certo modo il nucleo
centrale , intorno a cui si vengono poi consolidando le istituzioni, che hanno
qualche affinità con quelle già formate. Così, ad esenipio, non vi ha dubbio ,
che il ius quiritium riconosce una forma tipica di matrimonio , che è il
matrimonio cum manu ; un atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes
et libram ; come pure una legis actio essenzialmente quiritaria, che è l'actio
sacramento . Convien perciò conchiudere, che anche in questa parte del diritto
quiritario non si accettano i materiali giuridici, quali che essi siano ; - 460
- ma si viene operando una specie di scelta fra i medesimi, e soltanto si
adottano quelli, che possano convenire al concetto fondamentale , che è quello
del quirite . È quindi evidente, che per giungere ad una ricostruzione di
questa parte del ius quiritium conviene in certo modo assecondare le leggi
della sua naturale formazione, cominciando dal cercare : lº quali siano i
concetti fondamentali, da cui prende le mosse la formazione di questa parte del
ius quiritium ; 2 ° la pro venienza di questi concetti e l'elaborazione, che
essi subiscono en trando nel diritto quiritario ; 3º l'ordine progressivo , con
cui questi varii concetti vennero penetrando e consolidandosi nella elabora
zione del ius quiritium . 361. Quanto ai concetti fondamentali, da cui prende
le mosse la dinamica del diritto quiritario, essi sono senz'alcun dubbio quelli
del connubium , del commercium , dell'actio . Cid pud inferirsi anzitutto dalla
circostanza, che tutti questi concetti già si erano elaborati nel periodo gentilizio,
nei rapporti fra i capi delle famiglie e delle genti, e quindi era naturale ,
che questi, entrando a far parte della comunanza quiritaria , li applicassero
eziandio nei loro rapporti come quiriti, tanto più che il quirite , pur essendo
un individuo , continuava ancora ad essere un capo gruppo. A ciò si aggiunge,
che questi concetti si adattavano mirabilmente alla concezione tipica del
quirite , quale era stata determinata sopratutto dal censo e dalla costituzione
serviana. Il quirite infatti presentavasi nella doppia qualità di capo di
famiglia e di proprietario di terra , i quali due caratteri, nella sintesi
primitiva, sembravano in certo modo immede simarsi fra di loro, come lo
dimostrano le concezioni del caput, della manus e del mancipium . Era quindi
naturale , che siccome le istitu zioni fondamentali del diritto quiritario si
riducevano alla famiglia ed alla proprietà , così le varie manifestazioni
dell'attività giuridica del quirite si richiamassero: o al concetto del
connubium , da cui di scende appunto l'organizzazione della famiglia; o a
quella del com mercium , in cui comprendonsi tutti i negozii, a cui porge
occasione la circolazione e lo scambio della proprietà . — Le une e le altre ma
nifestazioni poi trovavano la propria difesa nell'actio , che serviva a
tutelare il quirite sotto l'uno e sotto l'altro aspetto , non essendovi ancora
la distinzione fra i diritti reali e personali. Questi concetti pertanto ,
trasportati nel ius quiritium , si cambiarono, per così dire , in altrettanti
capisaldi, da cui si vennero staccando i varii aspetti, sotto cui pud
esplicarsi l'attività giuridica del quirite ; co 461 sicchè anche più tardi,
per mettere ordine nello svolgimento copioso della giurisprudenza romana, Gaio
dovette di necessità ricorrere ad una distinzione, che richiama quella
antichissima del connubium , del commercium e dell'actio (1). Tutto il diritto
infatti, che si ri ferisce alle persone, considerate sotto il punto di vista
esclusiva mente privato , sembra metter capo al concetto del connubium ; quello
invece, che si riferisce alle cose, non è che uno svolgimento del commercium ;
e quello infine, che riguarda le azioni, non è che una derivazione da quella
legis actio , che costituì la procedura pri mitiva propria dei quiriti. Del
resto sono gli stessi giureconsulti romani che, dopo aver distinto i diritti
pubblici dai privati, finirono per richiamare questi ultimi ai due diritti
fondamentali del con nubium e del commercium , somministrandoci così, almeno
questa volta , una chiave di quella dialettica fondamentale, che stringe ed
unifica il molteplice svolgimento della giurisprudenza romana (2). 362. Per
quello poi, che si riferisce alla provenienza di questi concetti direttivi di
questa parte del ius quiritium , non può esservi dubbio , che essa deve essere
cercata nel periodo gentilizio , il che credo di avere largamente dimostrato a
suo tempo ( 3). Vuolsi perd aggiungere, che questi concetti, i quali prima
avevano governato dei rapporti fra i capi di famiglia e delle genti, allorchè
furono tras portati nei rapporti fra quiriti, si trasformarono in altrettante
basi del diritto spettante ai quiriti , cosicchè dal connubium derivd il ius
connubii ex iure quiritium ; dal commercium il ius commercii pure ex iure
quiritium ; e infine dall’actio il sistema delle legis actiones , che è
parimenti proprio della comunanza quiritaria . Questi concetti pertanto
cessarono di avere uno svolgimento pura mente estensivo , come era accaduto nei
rapporti fra le famiglie e le genti, ma ricevettero eziandio uno svolgimento
intensivo; cosicchè (1) Intendo qui parlare della nota distinzione di Gaio,
Comm ., I, 8 : « Omne autem ius, quo utimur, vel ad personas pertinet, vel ad
res, vel ad actiones » . Quanto alle obbiezioni che si fecero, sopratutto dal
Savigny, al valore di questa distinzione, vedi quanto si è detto al n ° 97,
pag. 124, nota 1. (2) È sopratutto Ulpiano, checerca di abbracciare nei due
larghissimi concetti di connubium e di commercium tutto l'esplicarsi
dell'attività giuridica del qui rite. V. Ulp., Fragm ., V , 3, quanto al
connubium , e XIX , 5 quanto al commercium . Quanto all'uno e all'altro
concetto cfr . il Voigt, XII Tafeln , I, pag . 244 e. 274 , coi passi ivi
citati, ed il MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 108 e 109. (3 ) V. sopra lib . I,
cap . VI, SS 2 e 3, pag . 123 a 138. 402 ciascuno di essi venne ad essere una
propaggine di quel diritto pri vilegiato, cui i Romani diedero dapprima il
nomedi ius quiritium , e che più tardi chiamarono ius proprium civium romanorum
. Cosi, ad esempio , il connubium nel periodo gentilicio , era il di ritto di
imparentarsi fra di loro, che esisteva fra i membri delle genti, che
appartenevano al medesimo nomen . Trasportato invece nella comunanza
quiritaria, esso venne a trasformarsi nel ius con nubii ex iure quiritium .
Secondo Ulpiano infatti « connubium est uxoris iure ducendae facultas » , ossia
il diritto di addive nire alle giuste nozze riconosciute dal ius quiritium , e
di godere cosi di tutti i diritti , che in base al medesimo derivavano da
queste giuste nozze , cioè : della manus sulla moglie , fino a che il
matrimonio cum manu costitui il matrimonio tipico del cittadino romano ; della
patria potestas sui figli, che anche più tardi i giureconsulti consideravano
come istituzione peculiare al popolo romano. Che anzi, siccome anche l'istituto
dell'arrogazione e dell'adozione, come pure quello della successione e della
tutela le gittima nel diritto romano avevano stretta attinenza coll'organiz
zazione domestica e col principio dell'agnazione, che stava a fonda mento della
medesima, cosi anche queste istituzioni apparvero nel primitivo ius quiritium ,
come una dipendenza del connubium , considerato come un ius proprium civium
romanorum . 363. Lo stesso è pure a dirsi del commercium . Il medesimo, nei
rapporti fra le genti, era il diritto di addivenire ai reciproci scambii «
emendi vendendique invicem potestas » ; ma allorchè invece venne ad essere
trapiantato fra i quiriti, i quali come tali avevano una proprietà speciale e
privilegiata, che era la proprietà ex iure quiritium , esso venne a cambiarsi
nel ius commercii ex iure qui ritium , ossia nel diritto di addivenire a tutti
quei negozii giuridici, di carattere mercantile, che erano stati adottati come
proprii dalla comunanza dei quiriti. Questi negozii poi nel primitivo ius qui
ritium e ancora nella legislazione decemvirale, si presentano sotto tre forme
fondamentali, che sono: lº il facere nexum , che è il diritto di potersi
obbligare nella forma e cogli effetti riconosciuti dal diritto quiritario ; 2°
il facere mancipium , che è il diritto di acquistare e trasmettere la prima
proprietà quiritaria , consistente appunto nel mancipium , colle forme
riconosciute dal diritto quiritario ; 3º e in fine il facere testamentum , che
è il diritto di acquistare o di tras mettere un'eredità , mediante il
testamento riconosciuto dal diritto 463 quiritario , donde il vocabolo di
testamenti factio (1). Che anzi l'unità primordiale di questi varii negozii, in
cui si estrinseca il ius commercii ex iure quiritium , viene ad essere messa in
evi denza anche da ciò, che tutti questi negozii finiscono per compiersi con
una sola forma tipica , che è quella dell'atto per aes et libram , e tutti
appariscono foggiati sullo stesso modello . Basta perciò considerare, che il
nexum indica un vincolo, che ha del fisico e del giuridico ad un tempo, il
mancipium sembra inchiudere ad un tempo il possesso e la proprietà, e infine il
testamentum , sotto un aspetto ha tutte le apparenze di un negozio tra vivi, e
sotto un altro è già un atto per causa di morte, e non produce i suoi effetti,
che per il tempo in cui il testatore avrà cessato di vivere. Così pure l'unità
di origine di questi varii negozii e il loro diramarsi dal concetto , che il
proprietario ex iure quiritium deve poter liberamente disporre delle proprie
cose , viene anche ad essere dimostrata dalla circostanza , che di fronte a
tutti questi atti la legislazione decemvirale proclama il principio : « uti
lingua nuncupassit » , o quello analogo : « uti legassit, ita ius esto » . 364.
Da ultimo accade eziandio una trasformazione analoga nel concetto dell'actio.
Questa nel periodo gentilizio era la procedura solenne, consacrata dal costume,
a cui doveva attenersi il capo di famiglia , il cui diritto fosse disconosciuto
e violato , e la medesima poteva anche dar luogo ad una effettiva violenza fra
i contendenti, quando essi non avessero potuto venire ad un amichevole compo
nimento ( 2 ). Allorchè invece l'actio compare nel ius quiritium , essa imita
bensì ancora la procedura anteriore allo stabilimento della ci vile giustizia ,
ma intanto già si compie in iure , cioè davanti al magistrato riconosciuto come
capo e custode della città . Di più questa actio non può più seguire
arbitrariamente questa o quella pratica, introdottasi nel costume, ma deve invece
essere accomodata alla legge, ed ai termini di essa . Essa cessa perciò di
essere ,un'actio qualsiasi, ma diventa una legis actio , e viene così a cam (1)
Fra gli autori, che dànno questa larga significazione così al connubium , che
al commercium , accennerò il LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag . 13 , in
nota , il quale pur riconosce, che questi concetti dovettero prima aver origine
nei rapporti fra le varie genti. (2 ) Quanto alle origini dell'actio nel
periodo gentilizio e ai caratteri della mede sima, vedi sopra lib . I, cap .
VI, § 3 , pag. 130 a 138. 464 biarsi nel diritto di far valere le proprie
ragioni davanti al ma gistrato , nella forma che è riconosciuta dal diritto
quiritario . Quindi è, che anche la procedura quiritaria sembra prendere le
mosse da un'azione tipica , che è l'actio sacramento, la quale può anche essa
essere considerata come il nucleo centrale, da cui si verrà poi derivando non
solo tutto il sistema delle legis actiones, ma in parte eziandio il sistema
delle formulae. È poi quest'origine gentilizia dei concetti fondamentali del
diritto quiritario, che spiega eziandio , senza bisogno di ricorrere a quello
spirito formalista del popolo romano, che fu ormai abbastanza sfrut tato , le
cerimonie solenni, che accompagnano gli atti di carattere quiritario : poichè
anche queste solennità dovevano un tempo accom pagnare gli atti, che
intervenivano fra i capi delle famiglie e delle genti, in quanto
rappresentavano il proprio gruppo, e avevano cosi una importanza, che spiega le
formalità , da cui erano circondati (1). 365. Resta ora a determinarsi l'ordine
progressivo, con cui si vennero consolidando questi varii aspetti del primitivo
ius quiritium . Anche qui ci mancano le testimonianze dirette , perchè i
veteres iuris conditores, secondo la testimonianza di Cicerone, non amavano
divulgare il segreto dell'arte loro (2) ; ma abbiamo tuttavia una quantità di
fatti, che possono servirci di guida. Così noi sappiamo anzitutto, che la prima
parte del diritto , che ebbe ad essere comune al patriziato ed alla plebe, fu
certamente quella relativa al commercium , e quindi viene ad esser naturale ,
che l'elaborazione di un ius quiritium , comune ai due ordini, inco minciasse
da quegli atti, che si riferiscono al commercium . Questa circostanza verrebbe
poi ad essere eziandio confermata dal fatto , che la parte di antichissima
legislazione civile, che sarebbe da Dionisio attribuita a Servio Tullio, si
riferirebbe appunto ai con tratti, la cui azione dispiegasi appunto nella parte
relativa al com (1) Tralascio qui ogni maggior spiegazione intorno alle origini
del formalismo romano, perchè ebbi già ad occuparmene al n ° 94 , pag . 117 e
segg. e sopratutto nella nota 1a a pag . 118, ove si presero in esame le
opinioni, in proposito emesse, dal Sumner-Maine e dal Jhering . ( 2) Cic., De
Orat., I, 42, lagnandosi delle difficoltà , che ai suoi tempi ancora
accompagnavano lo studio del diritto, dice espressamente, che una delle cause
di queste difficoltà deve essere riposta nella circostanza che « veteres illi,
qui buic scientiae praefuerunt, obtinendae atque augendae potentiae suae caussa
, pervulgari artem suam noluerunt » . 465 mercium . Cosi pure abbiamo un'altra
conferma di questo fatto nella circostanza , che, all'epoca della legislazione
decemvirale, già si presentano come compiutamente formati i tre negozii
giuridici attinenti al ius commercii, cioè il nexum , il mancipium ed il testa
mentum ; cosicchè in questa parte viene ad essere evidente , che le leggi delle
XII Tavole non fecero che confermare uno stato di cose già preesistente, e si
limitarono a dire, che in questa specie di negozii, la volontà del quirite
doveva essere sovrana, per modo che la sua parola costituisse legge (1). Infine
un argomento indiretto di questa precedenza l'abbiamo anche in questo , che la
forma dell'atto commerciale per eccellenza, che è l'atto per aes et libram ,
ebbe più tardi ad essere applicata eziandio in atti relativi al ius con nubii,
come nella coemptio, nell'adoptio e simili : il che significa , che l'atto per
aes et libram già doveva essersi formato prima, che si addivenisse alla
concessione dei connubii fra patriziato e plebe, la quale segui solo più tardi.
Mi pare ciò stante di poter conchiudere, che la parte del ius quiritium ,
relativa al commercium , fu la prima ad elaborarsi ed a consolidarsi, e che
deve attribuirsi a questo motivo, se lo svolgi mento posteriore del diritto
romano appare costantemente modellato sul concetto del mio e del tuo. È questo
il concetto espresso da Ulpiano , allorchè scrive : omne ius consistit aut in
acquirendo , aut in conservando, aut in minuendo ; aut enim hoc agitur, quem
admodum quis rem vel ius suum conservet, aut quomodo alienet, aut quomodo
amittat (2); ma la causa storica, che determinò questo carattere peculiare del
diritto romano, deve essere riposta nel fatto , che la parte del ius quiritium
, relativa al commercium , fu la prima a consolidarsi, e costitui in certo modo
il nucleo centrale della for mazione, cosicchè tutte le parti, che si
aggiunsero più tardi, ne ri sentirono l'influenza e ne conservarono l'impronta
. Quando si tratto infatti di rendere comune anche la parte relativa al
connubium , si trovarono già formati i concetti relativi alla proprietà , e
quindi anche il diritto del marito , del padre , del padrone furono model (1)
Cid non può lasciar dubbio quanto al nexum ed al mancipium , che già si
presentano nelle XII Tavole come istituzioni compiutamente svolte, ed è
confermato eziandio, quanto al testamentum , da ULPIANO, il quale dice
espressamente, che le suc cessioni testamentarie e i tutori nominati per
testamento furono confermati dalle XII Tavole. Fragm ., XI, 14 . ( 2) Ulp., L.
41, Dig . (1-4 ). G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 30 - 466 lati su
quello di proprietà . Cosi pure quando si tratto di model lare le azioni, tutto
si ridusse ad una questione di mio o di tuo , si trattasse di rivendicare una
cosa qualsiasi, oppure la moglie od un figlio . Quindi è che la rigidezza, che
a questo riguardo presenta il primitivo ius quiritium , non proviene già da una
confusione, che si facesse fra i diritti di famiglia ed i diritti di proprietà
, ma bensi da ciò , che essendosi nel ius quiritium modellato prima il diritto
di proprietà , anche le elaborazioni posteriori ne conservarono l'im pronta .
Ciò è anche provato dal fatto , che nelle fonti l'espressione di ius quiritium
è sopratutto adoperata relativamente alla proprietà ed al commercio ; cosa del
resto , che è facile a comprendersi, quando si consideri, che la comunanza
quiritaria all'epoca serviana si formo appunto in base alla proprietà ed al
censo . 366. Noi possiamo invece affermare con certezza , che fu solo assai più
tardi, che il ius connubii entrò a formar parte di quella singolare costruzione
giuridica, che porta il nome prima di ius qui ritium e poscia quello di ius
proprium civium romanorum ; poichè fu soltanto colla legge Canuleia , che si
riusci ad abolire il divieto del connubio dei patrizii colla plebe . Malgrado
di ciò, si può essere certi, che, anche prima di quest'epoca , la parte più ricca
ed agiata della plebe già aveva cercato di accostarsi alla organizzazione della
famiglia patrizia . Ciò è abbastanza dimostrato dal fatto, che i de cemviri
considerarono la famiglia fondata sull'agnazione, come la famiglia propria dei
quiriti , e cercarono anzi di fornire alla plebe un mezzo semplicissimo per
addivenire al matrimonio cum manu, mezzo che consiste nella coabitazione di un
anno, non interrotta per tre notti di seguito . Allorchè poi colla legge
Canuleia furono leciti i connubii fra il patriziato e la plebe, era naturale,
che l'atto quiritario per eccellenza venisse ad essere applicato anche in que
st'argomento. Probabilmente dovette essere allora , che fra le forme del
matrimonio cum manu, di cui una era la confarreatio, propria del patriziato , e
l'altra l'usus, propria della plebe , venne svolgendosi. la forma del
matrimonio, che può ritenersi come quiritaria per ec cellenza, cioè quella per
coemptionem . Intanto questo trapianto del l'organizzazione domestica, propria
del patriziato, nel ius quiritium , comune ai due ordini, fece si che la
famiglia quiritaria si fondasse esclusivamente sulla patria potestà e
sull’agnazione, e che perciò anche la successione e la tutela legittima fossero
deferite , in base alla legislazione decemvirale, agli eredi suoi, agli agnati
e in loro 407 mancanza ai gentili. Fu sopratutto in questa parte, che l'organiz
zazione gentilizia del patriziato riusci a penetrare nel diritto quiri tario ;
donde la conseguenza, che il ius connubii e la conseguente organizzazione della
famiglia finiscono per essere la parte dell'an tico diritto, in cui rivelasi
più tenace e persistente lo spirito conser vatore dell'antico patriziato romano
(1 ). 367. La parte infine del diritto primitivo , che ultima sarebbe entrata
nella compagine del ius quiritium , deve ritenersi essere quella , che si
riferisce alle legis actiones. Non è già, che anche in questa parte non vi
fossero dei materiali preesistenti : ma, secondo l'attestazione concorde degli
stessi giureconsulti, fu soltanto poste riormente alla legislazione decemvirale
è in base alle parole stesse della medesima, che sarebbe stato modellato il
sistema delle legis actiones. Che anzi si può affermare con certezza , che
questa parte del primitivo diritto di Roma fu certamente dovuta alla
elaborazione dei pontefici, i quali, come custodi delle tradizioni patrizie ,
spie garono sopratutto in questa parte la loro tecnica giuridica , e cer
tamente seguirono quel processo di costruzione logica, che erasi già adottato
nelle altre parti del diritto quiritario. Furono quindi essi, che introdussero,
quale azione tipica del diritto quiritario , l'actio sacramento , la quale può
essere considerata come il germe di tutto lo svolgimento posteriore della
procedura quiritaria : come pure furono essi, che si fecero gli iniziatori di
quell'arte meravigliosa di accomodare l'azione alla varietà infinita delle
fattispecie , che si potevano presentare, la quale giunse poi a tanta
eccellenza per opera del pretore nel sistema per formulas. Non ignoro che l'opinione
qui professata , secondo cui le legis actiones sarebbero state le ultime a
penetrare nella compagine del ius quiritium o meglio del ius proprium civium
romanorum , sebbene appoggiata all'attestazione degli antichi giureconsulti,
sembra ( 1) Le affermazioni, che qui sono semplicemente enunciate, verranno poi
ad essere meglio comprovate nel capo V , ove trattasi diproposito del ius
connubii. È notabile, quanto al connubium , che l'espressione ad perata nelle
fonti non è più quella di ius quiritium , la quale sopratutto si adopera in
tema di proprietà, ma è già quella di ius proprium civium romanorum . La causa
di questo cambiamento sta in ciò che il connubium venne ad essere comune dopo
le XII Tavole, cioè quando al concetto più circoscritto del ius quiritium già
cominciava a sovrapporsi il concetto più largo di un ius civile, ossia di un
ius proprium civium romanorum . 168 contraddire alla opinione oggidi molto
seguita , secondo cui le actiones avrebbero avuta la precedenza su tutte le
altre parti del diritto quiritario ( 1). Credo quindi opportuno di avvertire,
che io pure ammetto , che in quella evoluzione lenta dei concetti giuridici,
che ebbe ad avverarsi nel periodo gentilizio , il concetto che prima venne a
svolgersi, fu certamente quello di actio (2 ): ma così invece più non accadde
nell'elaborazione del ius quiritium . Questo infatti è già una costruzione
organica e coerente, che prese le mosse dal concetto del quirite, come
individualità giuridica integra e perfetta , e che in base al medesimo cominciò
dapprima dal modellare la pro prietà , a lui spettante; poscia gli attribui il
connubio ; da ultimo provvide anche alle azioni, che potevano tutelarlo nei
suoi diritti di proprietà e famiglia : donde la conseguenza , che il ius
quiritium , essendo già un'opera riflessa , accolse talvolta più tardi
istituzioni, che nella realtà dovettero svolgersi per le prime (3 ). Intanto
questo sguardo complessivo alla progressiva formazione del ius quiritium ha '
per noi una grandissima importanza , in quanto che mantenendo nella
ricostruzione l'ordine stesso , che ebbe ad essere seguito nella naturale
formazione del ius quiritium , si potrà giungere a spiegare certi caratteri
peculiari del diritto pri mitivo di Roma, che altrimenti riuscirebbero
incomprensibili. La materia intanto verrà ad essere naturalmente ripartita in
tre capi toli , di cui il primo si occuperà del ius commercii, l'altro del ius
connubii, e l'ultimo delle legis actiones. (1) Fra gli altri sembra attribuire
questa precedenza all'actio sulle altre parti del diritto civile romano il
Cogliolo, Saggi sopra l'evoluzione del diritto privato, Torino , 1885, pag. 105
e segg . (2 ) Ho cercato altrove di spiegare questo carattere delle società
primitive, che al punto di vista attuale pud apparire alquanto singolare nella
Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880 , pag . 40
. (3 ) Per una più larga discussione intorno al modo, in cui si formarono le
legis actiones, mi rimetto al cap . VI ed ultimo, § 1º, ove trattasi appunto di
quest'ar gomento. - 469 CAPITOLO IV . Il ius commercii nel diritto quiritario .
$ 1. Il commercium e l'atto per aes et libram . 368. Se havvi parte del ius
quiritium , che sia modellata in per fetta correlazione con quella
individualità giuridica , integra e com piuta, che era il quirite, è quella
certamente, che si riferisce al ius commercii. In questa parte la volontà del
quirite apparisce indi pendente e sovrana; la sua parola costituisce una vera
legge;" e non trovasi imposto altro limite e confine al suo potere, salvo
quello , che deriva dalla osservanza delle forme solenni, che sono ricono
sciute ed adottate dal diritto quiritario . Il quirite infatti , quale pro
prietario, può disporre delle sue cose fino ad abusarne, e può alienarle nel
modo solenne proprio dei quiriti ( facere mancipium ) ; quale debitore può
obbligare se stesso fino a vincolare la libertà della propria persona ( facere
nexum ) per il caso in cui non soddisfi il suo debito, e come creditore può
appropriarsi perfino la persona ed il corpo del debitore; come testatore infine
può disporre in qual siasi modo del suo patrimonio , dimenticando anche di
avere de' figli . Si può quindi affermare, che i tre atti fondamentali, in cui
si esplica il ius commercii ex iure quiritium , sono tutti governati dal con
cetto, che la volontà del quirite non deve aver limite o confine: concetto ,
che, quanto al nexum ed al mancipium , viene enun ciato con dire « uti lingua
nuncupassit, ita ius esto » , e quanto al testamento, colle parole : « uti
pater familias super familia tute lave suae rei, legassit, ita ius esto ( 1) »
. E questa la parte , in cui « uti (1) Mentre nella ricostruzione del Dirksen ,
seguita dal Bruns, Fontes, pag. 22 e 2.3, la disposizione : « Cum nexum faciet
mancipiumque, uti lingua nuncupassit , ita ius esto » sarebbe la legge 1º della
Tavola VI; secondo la ricostruzione del Voigt invece, essa viene ad essere la
1° della Tavola V. Così pure la disposizione legassit super pecunia tutelave
suae rei, ita ius esto » , che nella ricostruzione del Dirksen è la terza della
Tavola V, in quella del Voigt viene ad essere la prima della Tavola IV. Ciò
dimostra quanto sia grande, anche oggi, l'incertezza intorno all'ordine dei
frammenti delle XII Tavole . - 470 domina sovrana la nuncupatio, e quindi si comprende
come tanto nelle obbligazioni, quanto nei trasferimenti del dominio, quanto nei
testamenti abbia avuto cosi larga parte lo studio delle espressioni adoperate.
Queste espressioni infatti nel concetto primitivo costitui vano delle vere
leggi, come lo dimostrano ancora le espressioni ado perate di lex mancipii, di
lex testamenti, di lex fiduciae e simili, colle quali si comprendevano le varie
clausole, che potevano essere apposte ad un trasferimento del dominio , o ad un
testamento (1 ). L'unità poi, che domina tutta questa parte del primitivo ius
qui ritium , viene anche ad essere provata dal fatto , che un medesimo atto
tipico , che può chiamarsi l'atto quiritario per eccellenza, fini per servire
quale mezzo per compiere tutti questi negozii giuridici. 369. L'opinione, ora
generalmente seguita , intorno all'atto tipico del diritto quiritario , sembra
ritenere, che tale atto debba essere riposto nella mancipatio, argomentando
dalla larga applicazione, che questa ebbe a ricevere, ogni qualvolta trattavasi
di trasferire la manus, intesa nel senso di potestà giuridica sopra una cosa o
sopra una persona (2 ). Parmi invece , che le poche vestigia , che a noi
pervennero dall'antico diritto , conducano a ritenere, che la forma (1 ) Il
vocabolo di lex , come significò la clausola di un contratto o di un testa
mento, così indicò eziandio le condizioni pubblicamente prescritte per i
luoghidesti nati ad uso pubblico o comune. Vedi Bruns, Fontes, Pars II, Negotia
, Caput I, pag. 240. Quanto agli altri significati del vocabolo di lex , nel
primitivo diritto ro mano, vedi sopra nº 228 , pag. 278. ( 2) Tra gli autori
recenti, che cercarono di ricostruire il primitivo diritto romano, poggiandosi
sul concetto di manus, in quanto comprende i poteri sulle cose e sulle persone,
e sulla mancipatio, quale mezzo generale per il trasferimento delle manus, deve
essere ricordato il Voigt, XII Tafeln , II, pag. 83 a 345. Anche il lavoro del
dott. Longo, La mancipatio, Firenze , 1887, è un tentativo in questo senso .
Questi verrebbe alla conclusione, che la mancipatio, quale a noi pervenne,
sarebbe una reliquia di un atto più antico e più solenne, il quale in origine
avrebbe dovuto compiersi in calatis comitiis , e che sarebbesi applicato ad
ogni acquisto e trasferi mento della inanus. Di quest'atto primitivo egli
troverebbe le traccie nel testamen tum e nell'adrogatio in calatis comitiis.
Quest'opinione, a parer mio, non può am mettersi; perchè la mancipatio comparve
relativamente tardi, e si riduce in sostanza ad una semplice applicazione
dell'atto per aes at libram . Quanto agli atti di diritto privato , in cui
abbiamo ancora l'intervento del populus, essi non indicano già, che tutti gli
atti relativi alla manus richiedessero un tempo l'assistenza del popolo; ma
debbono considerarsi come una sopravvivenza dell'organizzazione gentilizia nel
pe riodo della città; come ho cercato appunto didimostrare ai nn. 220 e 221,
pag . 256 e segg ., discorrendo dei calata comitia , e degli atti che
compievansi in essi. 471 tipica del negozio quiritario , debba essere riposto
nell'atto per aes et libram ; cosicché la nexi datio , la nexi liberatio, la
man cipatio, la testamenti factio debbono essere riguardate come altret tante
applicazioni di quest'atto primordiale. Cid può essere dedotto anzitutto dal
concetto fondamentale del primitivo ius quiritium , in cui tutto si riduceva ad
una questione di mio e di tuo; donde la conseguenza, che ogni atto relativo al
commercium si riduceva in sostanza a fare in modo , che una cosa di nostra
diventasse altrui (quod de meo tuum fit) mediante un corrispettivo, che può
consistere o nel prezzo , o nell'obbligazione solenne assunta dal de bitore, o
nel corrispettivo di quella finta mancipatio familiae, in cui facevasi
consistere lo stesso testamento : trapasso , che trova vasi mirabilmente
espresso, mediante l'atto per aes et libram . Ed è questo concetto appunto, che
risulta dai passi, che a noi perven nero degli antichi giureconsulti. Questi
passi infatti indicano anzi tutto, che il nexum era un'applicazione dell'atto
per aes et libram , e dapprima quasi confondevasi con esso, poichè era definito
: « omne quod geritur per aes et libram » . Lo stesso è a dirsi del facere
mancipium , in quanto che una parte essenziale della mancipatio, quale è
descritta da Gaio , consiste senz'alcun dubbio eziandio nel l'atto per aes et
libram ; il che è pur dimostrato dalla denomina zione stessa del testamento per
aes et libram , il quale si introdusse più tardi, e non fu che una nuova
applicazione dell'atto per aes et libram . Si aggiunga, che questi passi degli
antichi giureconsulti indicano una incertezza intorno alla significazione
primitiva del nexum e del mancipium . Vi sono infatti dei giureconsulti, che
nel nexum comprendono anche il mancipium , mentre altri già distinguono fra l'uno
e l'altro , osservando che dal nexum deriva un obbligazione, mentre col
mancipium si opera la traslazione della proprietà . Questa incertezza appare
eziandio quanto al testamento per aes et libram , il quale sotto un aspetto
appare come una vera vendita o mancipatio familiae, come lo dimostra
l'intervento del familiae venditor e del familiae emptor ; mentre sotto un
altro aspetto non è più una vendita nel vero senso della parola , ma è già un
vero atto per causa di morte, poichè il familiae emtor riceve solo in deposito
e in custodia il patrimonio del te statore, accið egli possa liberamente
disporne « secundum legem publicam » per il tempo in cui avrà cessato di vivere
(1). ( 1) Non sarà inutile riportare qui alcuni dei passi di antichi
giureconsulti, che 472 Di qui pertanto si può ricavare, che nella sintesi
primitiva del diritto quiritario tutto ciò, che riferivasi al commercium ,
compievasi per aes et libram , col quale atto esprimevasi lo scambio ed il tra
passo , e che solo col tempo in questa sintesi primitiva si vennero
differenziando il nexum , il mancipium , il testamentum ; i quali col tempo
procedettero ciascuno per la propria via , ed informati ad un proprio concetto
finirono per dare origine a tre istituzioni fonda mentali. Col tempo infatti dal
nexum scaturi la teoria delle obbli gazioni, dal mancipium derivò quella
dell'alienazione e trasmissione del dominio e dei diritti reali inchiusi nel
medesimo, e dal testa mentum si derivò tutta la teoria della libera
disposizione delle proprie cose per causa di morte , la quale non potè mai
confondersi ed imparentarsi colla successione legittima, poichè questa nel ius
quiritium ebbe un'origine compiutamente diversa, come sarà di mostrato a suo
tempo (1 ). È poi notabile, che il primitivo ius quiri tium , nella sua sintesi
potente, ebbe a ravvisare uno scambio , ed una trasmissione con corrispettivo ,
tanto nel contratto , in quanto è fonte di obbligazioni, quanto nel
trasferimento delle proprietà, quanto eziandio nel testamento , mediante cui
l'erede viene in certo modo a dimostrano come il nexum , il mancipium e il
testamentum facere non fossero, che altrettante applicazioni dell'atto per aes
et libram . « Nexum Manilius scribit omne, quod per aes et libram geritur, in
quo sint mancipia » . Varro, De ling. lat., 7, 5 , § 105 (AUSCHKE, Iurispr.
antiiustin ., pag. 6 ); « Nexum , est ut ait Aelius Gallus, quodcumque per aes
et libram geritur , idque necti dicitur ; quo in genere sunt haec: testamenti
factio, nexi datio, nexi liberatio » (Hoschke, Op. cit., pag. 96 ). Accanto a
questa significazione larghissima, in cui il vocabolo di nexum comprende ancora
« omne quod geritur per aes et libram » , sonvi poi altri passi, che già
attribuiscono al nexum una significazione più circoscritta. Così, ad esempio :
« Nexum , Mucius scribit, quae per aes et libram fiunt, ut obligentur, praeter
quae mancipio dentur » , la quale opinione sarebbe prevalsa secondo VARRONE, De
ling. lat., VII , 105 , il quale aggiunge : « hoc verius esse ipsum verbum
ostendit,de quo quaerit, nam id est quod obligatur per libram , neque suum fit,
inde nexum dictum » (Bruns, Fontes , pag. 386). Quest'ultima definizione
sarebbe pur confermata da Festo, vº Nexum : « Nexum aes apud antiquos dicebatur
pecunia, quae per nexum obligatur » (Bruns, Fontes, pag. 346). Sonvi poi
eziandio dei passi, in cui la mancipatio sarebbe indi cata perfino colla
espressione di traditio alteri nexu , quale sarebbe il seguente di Cic., Top.,
5 , 28 : « Abalienatio est eius rei, quae mancipii est, aut traditio alteri nexu
, aut in iure cessio » . Per altri passi vedi il Voigt, XII Tafeln , I, pag.
197, nota 7 , e II, 482 e segg . (1) La successione legittima non prende le
mosse dal commercium , ma dal con nubium , come sarà dimostrato nel seguente
cap. V , $ 5 . - 473 continuare la personalità giuridica del proprio autore, e
viene perciò ad essere obbligato alla continuazione dei sacra . Di qui la
conseguenza , che, per ricostruire in questa parte il ius quiritium , vuolsi
ricomporre anzitutto il primitivo atto per aes et libram , cercare l'epoca in
cui esso penetrò nel ius quiritium , e se guire da ultimo le progressive
applicazioni, che se ne vennero facendo. 370. Più volte ebbe ad essere notato ,
che nel diritto romano oc corrono le traccie di un processo , che ha del matematico
, e che taluni vollero attribuire alla influenza di Pitagora , la cui
filosofia, teorica e pratica ad un tempo, poggiava appunto sul numero, come
espres sione dell'ordine e dell'armonia (1). Senza entrare in una simile di
scussione, questo è certo , che non si può a meno di ravvisare questo carattere
di matematica precisione ed esattezza in quel negozio, es senzialmente proprio
dei quiriti, che compare sotto la forma del l'atto per aes et libram ; poichè
in esso noi vediamo comparire la persona di un pubblico pesatore , che tiene la
bilancia quasi per de terminare ciò che altri då, e ciò che deve essere
ricevuto in con traccambio. Può darsi benissimo, che quest'atto per aes et
libram abbia avuto origine dalla necessità , in cui i contraenti erano di
pesare l'aes rude, allorchè non erasi ancora introdotto l'aes signa tum : ma
intanto si stenta a credere, che i veteres iuris conditores, allorchè
introdussero come tipico quest'atto nel ius quiritium , e ne prolungarono la
vita ben oltre l'epoca , in cui era veramente neces saria la bilancia , non
abbiano ravvisato nel medesimo come una espressione ed un simbolo della
esattezza e della precisione, che deveaccompagnare il negozio giuridico , e
della uguaglianza, che deve mantenersi fra la cosa ed il prezzo, fra quello che
si dà e ciò che si riceve in contraccambio . Questo è certo , che difficilmente
sareb besi potuto rinvenire un atto, che potesse meglio simboleggiare quella
giustizia , che Aristotele chiamò poi commutativa, e che era quella appunto ,
che doveva sovraintendere a quegli scambii, che i Romani inchiudevano col
vocabolo di commercium (2 ). Ad ogni modo l'esistenza presso i Romani di un
atto quiritario « quod geritur per aes et libram » da applicarsi in tutti gli
scambii, in tutti i trapassi, in tutte le contrattazioni, che potessero interve
( 1) V. ZELLER , La philosophie des Grecs, trad . Boutroux, I, Paris, 1877, p.
486 e sopratutto la nota 8 , pag . 401. (2 ) Cfr. Carle, La vita del diritto,
pag. 132. - 474 nire fra i quiriti, tanto negli atti tra vivi, quanto eziandio
negli atti per causa di morte, non pud essere posta in dubbio (1). Vero è , che
il medesimo non ci pervenne nelle sue fattezze genuine, ma soltanto nelle
applicazioni diverse, che se ne fecero; ma il fatto stesso che l'atto per aes
et libram compare nelle obbligazioni, nei trasferimenti e nei testamenti
dimostra, che esso in certo modo fra i quiriti compieva quella funzione, che
presso di noi ha compiuto , sopratutto in altri tempi, quello che chiamasi
l'atto pubblico ed autentico, il quale , al pari dell'antico atto per aes et
libram , con tinua in certi confini ancora oggi ad avere la forza e l'efficacia
del titolo esecutivo , salvo che esso sia impugnato di falso (2). Dal momento ,
che erasi venuto formando per la comunanza dei quiriti una forma particolare di
diritto , che prese il nome di ius quiritium , era naturale che si modellasse
eziandio un atto tipico, che potesse ser vire nei negozii essenzialmente
quiritarii. Esso doveva essere pub blico, come tutti gli atti, che si compievano
fra i quiriti ; doveva es sere fatto colla testimonianza dei quiriti stessi, in
quanto che poteva mutare in qualche modo la posizione rispettiva degli uni
verso degli altri nella comunanza quiritaria , donde l'intervento nel medesimo
dei classici testes , corrispondano o non i medesimi alle cinque classi
serviane ; doveva esser fatto coll'intervento di un pubblico ufficiale , che
era il libripens, il quale poteva anche essere inca ricato di denunziare agli
uffizii del censo le mutazioni, che ne derivavano alla condizione dei quiriti;
alle quali solennità negli antichi tempi aggiungevasi eziandio la presenza di
un antestator , incaricato in certo modo di richiamare l'attenzione delle parti
e dei testimoni sulla importanza dell'atto (3). Il medesimo poi, per quanto si
può inferire dalle applicazioni ( 1) Tra gli autori, che sembrano accostarsi
all'idea, che l'atto per aes et libram costituisca nell'antico diritto la forma
solenne per tutti i negozi relativi al com mercium , parmi di poter annoverare
l'HÖLDER , Istituzioni di diritto romano, $ 28 , trad. Caporali. Torino, 1887,
pag . 82. (2 ) Cod . civ. it ., art. 1317. (3) Questi varii caratteri del
primitivo atto per aes et libram si possono facil mente ricostruire,
ricomponendo insieme la descrizione, che sopratutto Gajo ed Ul PIANO ci
serbarono, dei varii negozii, che compievansi per aes et libram , quali la nexi
datio, la nexi liberatio, la mancipatio, ed il testamentum per aes et libram ,
dei quali avremo poi a discorrere partitamente. Quanto all' antestator o
antestatus vedi il Longo, La mancipatio, pag. 74 e segg . 475 diverse, che ne
furono fatte, ebbe ad essere costituito di due parti, cioè : lº dell'atto per
aes et libram , il quale , mentre dava al negozio il carattere di pubblicità e
di autenticità , poteva eziandio essere un ricordo effettivo di un'epoca, in
cui l'aes rude serviva di istrumento per gli scambii e doveva perciò essere
pesato colla bilancia ; 2º della nuncupatio, che era un complesso di parole
solenni, accomodate alla natura dell'atto , le quali esprimevano con preci
sione ed esattezza il negozio giuridico , che veniva operandosi fra i
contraenti. Mentre la prima parte era un ricordo del passato e conservavasi «
dicis gratia , propter veteris iuris imitationem » ; la seconda parte invece
serviva a dargli duttilità e pieghevolezza, e a rendere possibili le
applicazioni diverse, che si fecero dell'atto per aes et libram , non solo ai
negozii giuridici propriamente detti, ma anche agli atti relativi
all'ordinamento della famiglia (1). 371. Quanto al tempo, in cui l'atto per aes
et libram può essere stato introdotto nel ius quiritium , esso non può e non
potrà forse mai essere determinato con certezza , anche per il motivo che il
medesimo può essere stato il frutto di una formazione lenta e gra duata. Egli è
probabile tuttavia, che l'epoca, in cui esso cominciò a formarsi, dovette
essere quella stessa , in cui prese ad elaborarsi un ius quiritium , comune al
patriziato ed alla plebe, e quindi le sue origini possono con probabilità essere
riportate all'epoca della costi tuzione serviana. Fu allora, che mediante
l'istituzione del censo co minciò a delinearsi una proprietà ex iure quiritium
, la quale con sisteva nel mancipium ; quindi è probabile, che anche allora
siasi sentito il bisogno di una forma tipica per compiere i negozii quiri
tarii. Questo è certo, che alcuni tratti dell'atto per aes et libram richiamano
l' epoca serviana. Cosi, ad esempio , noi sappiamo, che probabilmente in
quell'epoca dovette avverarsi una trasformazione nel sistema monetario , poichè
presso i primitivi romani il più an tico strumento di scambio non consistette
nel rame, ma nei capi di ( 1) L'esistenza di questo duplice elemento nel
primitivo atto per aes et libram è già accennato dalla disposizione delle XII Tavole:
« qui nexum faciet , mancipium que, uti lingua nuncupassit, ita ius esto », e
appare poi dall'analisi di tutti i ne gozii, che si compiono per aes et libram
, descrittici sopratutto da Gajo , Comm ., II, 104-5 e da Ulp., Fragm ., XX, 9
. - 476 bestiame, e sopratutto nelle pecore e nei buoi, come lo dimostra la
designazione delle multe, che anche più tardi si continuò a fare in questa
guisa . Che se per avventura si volesse ritenere, come fino a un certo punto è
probabile, che l'atto per aes et libram fosse stato anche adottato per
simboleggiare lo scambio, il trapasso , anche questo linguaggio simbolico
corrisponderebbe all'epoca serviana, che è quella che ricorre ai simboli
dell'hasta , della vindicta , e simili. Cosi pure noi sappiamo, chei testimonii
dell'atto per aes et libram chiamavansi quirites, ed è anzi probabile, che
fossero ricavati dalle classi ser viane, come lo dimostra la denominazione di
classici testes : la quale , sebbene sia solo menzionata per i testimonii nel
testamento , può ra gionevolmente essere estesa alle altre applicazioni
dell'atto per aes et libram ( 1). Infine anche l'intervento di un pubblico
ufficiale in quest'atto sembra essere stato determinato dalla necessità , in
cui si era di conoscere i cambiamenti, che si avveravano nella posizione ri
spettiva dei quiriti. Comunque sia , è però sempre probabile, che anche nella
formazione di quest'atto siasi seguito il processo, che suole es sere adoperato
dai Romani, quello cioè di servirsi di qualche forma già preesistente, attribuendovi
il carattere quiritario , e cambiandola cosi in una forma tipica, che potrà poi
essere capace di applicazioni diverse. Nulla ripugna pertanto , che l'atto per
aes et libram sia stato veramente una realtà nell'epoca, in cui l'aes rude, non
potendo essere numerato, doveva invece essere pesato ; ma questo è certo , che
quando quest'atto compare nel ius quiritium , esso viene già ( 1) Festo, vº «
Classici testes dicebantur, qui signandis testamentis adhibebantur » . La
questione se questi classici testes dovessero ritenersi come rappresentanti
delle cinque classi, in quanto che essi non potevano essere meno di cinque, fu
trattata di recente dal Longo, La mancipatio , pag. 83 e segg ., il quale
sosterrebbe che i clas sici testes non hanno che fare colla rappresentanza
delle classi. Se con cið egli in tende di dire , che i testimoni non avevano
nessun incarico di rappresentare le cinque classi serviane, ciò può facilmente
essere consentito, poichè, secondo la testimonianza di GaJo, Comm ., II, 25,
questi testi solevano essere amici dei contraenti e potevano perciò essere
presi anche dalla stessa classe : ma intanto non vi ha motivo per ne gare, che
essi fossero chiamati classici, appunto perchè dapprima dovevano essere presi
dalle classi, ossia dagli adsidui e locupletes. Era infatti nello spirito della
costituzione serviana, che nell'atto per aes et libram , con cui si attuavano
le muta zioni di proprietà quiritaria, dovessero intervenire dei testimonii
tolti dalle classi al modo stesso , che ancora in base alle XII Tavole era
stabilito : « adsiduo adsiduus vindex esto » . Tale sembra pur essere
l'opinione del MUIRHEAD, Histor. introd., pag.59 , il quale trova anzi non
improbabile, che i non minus quam quinque testes rappresentassero le cinque
classi. 477 ad essere cambiato in un atto tipico , che poteva essere suscettivo
di molteplici applicazioni. Si comprende quindi, che Gaio ci parli sempre della
mancipatio, come di una imaginaria venditio , senza neppur far cenno di
un'epoca , in cui essa poteva costituire una vendita effettiva e reale (1 ).
372. Per quello poi che si riferisce all'ordine progressivo, con cui l'atto per
aes et libram sarebbe stato applicato ai principali negozii giuridici
deldiritto quiritario , è opinione generalmente ammessa , che esso siasi prima
applicato alla mancipatio, poscia al nexum , e più tardi al testamentum per aes
et libram (2). Mentre non pud esservi alcun dubbio circa l'applicazione più
tarda dell'atto per aes et li bram al testamento, poichè in proposito Gaio ed
Ulpiano attestano , che questa forma di testamento ebbe ad essere introdotta
posterior mente a quella in calatis comitiis (3), ritengo invece, che sianvi
dei forti indizii per credere , che l'applicazione dell'atto per aes et libram
al nexum debba essere considerata come la più antica . Un argomento di ciò
l'abbiamo anzitutto nel fatto , che nell'antico ius quiritium il diritto sembra
spiegarsi prima contro la persona del debitore, che non contro i beni del
medesimo, ed è solo assai tardi e sotto l'influenza del diritto pretorio, che
si giunge a rite nere vincolati i beni, anzichè il corpo e la persona del
debitore. Di più il facere mancipium suppone già un'epoca , in cui anche la
plebe era pervenuta alla proprietà , mentre il facere nexum ci ri porta ad
un'epoca più antica, in cui la plebe, nei suoi rapporti col patriziato, non
potendo offrire alcuna garanzia reale, non poteva ob bligarsi altrimenti, che
vincolando la propria persona. A ciò si ag giunge, che l'atto per aes et libram
pud essere stata una realtà relativamente al nexum , poichè in un'epoca , in
cui l'aes rude serviva come strumento di scambio , era una necessità il pesare
la somma, che era data ad imprestito ; mentre invece l'applicazione (1) Egli è
evidente che i giureconsulti considerarono sempre l'atto per aes et libram come
una forma riconosciuta dalla legge (secundum legem publicam ) per compiere i
negozii di carattere quiritario ; di qui le loro espressioni di imaginaria
venditio, e di imaginaria mancipatio, e la disinvoltura con cuinon hanno difficoltà
di applicarle a negozii, che più non hanno carattere mercantile, come sarebbe,
ad esempio, il matrimonio per coemptionem . (2) Tale sembra, ad esempio, essere
l'opinione del Voigt, XII Tafeln; del MUIRHEAD, Op. cit ., pag. (3 ) GAJO ,
Comm ., II, 102 ; ULP., Fragm ., XX, 2 . 58 e segg . 478 dell'atto per aes et
libram , non solo per eseguire il pagamento del prezzo , ma anche per operare
il trasferimento della proprietà di una cosa , è già ad evidenza un espediente
giuridico, e merita il nome da tole da Gaio di « imaginaria venditio » . Si
comprende pertanto, come gli antichi giureconsulti comprendano talvolta il
facere mancipium nel concetto più antico del nexum chiamando con questo nome «
omne quod geritur per aes et libram » , mentre non consta che essi facciano mai
rientrare il nexum nel concetto del facere mancipium (1). Infine si può anche
aggiungere, che nei passi antichi parlasi di un ius nexi mancipiique, e che le
stesse XII Tavole fanno precedere il nexum nel famoso testo : « cum nexum
faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto » : argomento questo,
chemalgrado la sua tenuità apparente non deve trascurarsi del tutto , quando si
consideri l'esattezza e la precisione, anche cronologica, che i ro mani,
sopratutto nei tempi più antichi, recavano nel proprio lin guaggio legislativo,
facendo di solito precedere il concetto , che prima erasi formato a quello , la
cui formazione era posteriore. Che se po steriormente la mancipatio fini per
prendere un posto più impor tante, ciò proviene da una causa storica , dal
fatto cioè, che la parte del diritto primitivo relativa al nexum fu la prima ad
essere abolita , il che accadde per mezzo della lex Paetelia , nel 428 dalla
fondazione di Roma; donde la conseguenza , che il nexum cadde pressochè in dimenticanza
, mentre la mancipatio apparve come l'atto quiritario per eccellenza presso i
classici giureconsulti. Noi possiamo invece affermare, che presso i
giureconsulti più antichi dovette essere as solutamente il contrario ; perchè
noi sappiamo che Manilio nel con cetto del nexum comprendeva ancora il
mancipium , e che Elio Gallo vi comprendera perfino la testamenti factio;
cosicchè tutto ciò , che compievasi per aes et libram , necti dicebatur, e
quindi nel nexum veniva ad essere compreso « omne quod geritur per aes et
libram » . La distinzione invece fra il nexum ed il mancipium compare in Quinto
Muzio Scevola, il quale dice bensi che il nexum è ancor sempre « quod per aes
et libram fit » , ma non più nel l'intento di dare la cosa a mancipio, ma bensì
in quello di obbli garla soltanto ; la quale opinione, secondo Varrone ebbe ad
essere seguita , e fu allora che si chiamò nexum , « quod obligatur per libram
, neque suum fit» . Si pud quindi conchiudere, che il vocabolo di nexum ebbe
dapprimauna significazione più larga, per cui tutto (1) V. in proposito i passi
di antichi giureconsulti ed autori citati a p. 411, nota 1. -- 479 ciò che
compievasi « per aes et libram , necti dicebatur » , mentre più tardi fini per
significare l'obbligazione assunta per aes et libram ; trasformazioni di
significato, che occorrono frequenti nel diritto ro mano, come lo dimostrano i
vocaboli di imperium , di manus e di mancipium , i quali tutti, mentre hanno
una significazione più larga , finiscono per assumere un significato specifico
più circoscritto . A queste considerazioni, fondate sui testi, se ne aggiunge
un'altra , per me più importante di tutte, ed è che nella formazione del
diritto quiritario , che poggia tutto sul concetto fondamentale del quirite, il
diritto, quale vinculum societatis humanae, dovette presentarsi dap prima come
un nexum , ossia , come un vincolo , che intercede fra due quiriti . Ciò è
dimostrato dal fatto , che la procedura primitiva è azione di una persona
contro di un'altra, e che la esecuzione pri mitiva va direttamente contro la
persona del debitore, e si mani festa quale manus iniectio contro il medesimo
(1 ). Quest'indagine intanto è per noi importante anche nel senso, che ci
induce a discorrere prima del nexum , poscia della mancipatio , e da ultimo del
testamentum per aes et libram . $ 2 . Il nexum e la storia primitiva della
obbligazione quiritaria . 373. L'origine diquell'obbligazione quiritaria di
strettissimo diritto , che contraevasi mediante il nexum , deve essere cercata
in quel (1) Non parmi pertanto , che possa essere accettata la teoria
ingegnosa, ma non fondata sui fatti, del SumnER-MAINE , L'ancien droit, p. 305
e seg., secondo la quale il nexum avrebbe prima significato il trasferimento
della proprietà , e sarebbe poscia venuto a significare l'obbligazione del
venditore, che non avesse pagato il prezzo . Cid è assolutamente contrario al
concetto romano, secondo cui la consegna della cosa e il pagamento del prezzo
seguivano contemporaneamente nella mancipatio. Si può anzi dire che il processo
seguito dal diritto romano fu compiutamente inverso. Il primo rapporto, che
potè esservi fra il patriziato e la plebe, fu quello del nexum , ossia quella
rigida obbligazione, per cui il mancato pagamento dava luogo alla manus
iniectio contro la persona ; mentre solo più tardi l'atto per aes et libram
potè servire per il trasferimento della proprietà. Queste considerazioni mi
impedi scono eziandio di aderire allo svolgimento storico, che sarebbe proposto
dal CoglioLO nelle note al PadELLETTI, Storia del dir . rom ., pag. 250 , dove,
premesso che il con cetto del diritto reale dovette precedere quello del
diritto personale, farebbe anche precedere la formazione della mancipatio a
quella del nexum . Cfr. Puglia, Studii di storia del dir. priv., pag. 73 e segg
. 480 l'epoca, in cui la plebe, priva ancora di una vera posizione di diritto
di fronte al patriziato, non poteva trovar credito presso ilmedesimo che
vincolando la propria persona. In virtù del nexum il debitore plebeo , che non
pagava a scadenza, poteva essere sottoposto alla manus iniectio , ed essere
tradotto nel carcere privato del creditore patrizio ( 1). Coll'ammessione dei
plebei alla comunanza quiritaria , il nexum , questa obbligazione rozza è
primitiva , che era surta nei rapporti fra la classe superiore e la classe
inferiore, venne ancor essa a con vertirsi nella forma tipica della
obbligazione quiritaria , ma dovette perciò sottomettersi a tutte le solennità
dell'atto quiritario . Essa quindi dovette essere contratta colle formalità dell'atto
per aes et libram , colla assistenza cioè di non meno di cinque testes cives
romani, e coll'intervento del libripens e dell'antestator (2). La formola
precisa del nexum non ci è pervenuta, ma ci giunse invece, conservataci da Gaio
, quella della nexi liberatio , la quale, essendone naturalmente il
contrapposto , pud servirci per determinare, se non la formola precisa, almeno
gli elementi essenziali, che dove vano concorrere nella nezi datio , per usare
una espressione, che occorre nel giureconsulto Elio Gallo (3 ). Da questa
formola si può in durre che a costituire il nexum dovettero concorrere due
parti, cioè : (1) Senza pretendere qui di citare la ricchissima letteratura sul
nexum , ricorderò soltanto l'Huschke , Ueber das nexum , Leipzig , 1846 ; GIRAUD,
Des nexi, ou de la condition des débiteurs chez les Romains, Paris 1847; Voigt,
XII Tafeln, I, $$ 63-65; MUIRHEAD, Histor. Introd ., 152 a 163. Le opinioni
degli autori tuttavia sugli effetti del nexum primitivo sono ancora molto
discordi. Secondo la dottrina più seguita , il nexum dava origine ad
un'obbligazione di strettissimo diritto, la quale, non soddisfatta ,
autorizzava senz'altro alla manus iniectio. Di recente invece il Voigt
sosterrebbe, che l'obbligazione assunta col nexum non avrebbe alcun effetto
speciale; la quale opinione sembra pur seguita dal Cogliolo, nelle note al
PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 329. Per mio conto seguo la prima
opinione in base sopratutto a quell'origine del nexum , che ho cercato di
spiegare più sopra ai nu meri 166-67, pag. 206 a 208, e sulla considerazione,
che non si comprenderebbero le grandi lotte sostenute dalla plebe per ottenere
l'abolizione di questo ingens vin culum fidei; quando il medesimo avesse
prodotto i medesimi effetti dell'obbligazione assunta col mezzo della
stipulatio. (2 ) Questa necessità dell'atto per aes et libram , per contrarre
il nexum , probabil mente fu quel provvedimento favorevole ai debitori, che da
Dionisio è attribuito a Servio Tullio. Cfr. MUIRHEAD, op . cit., pag. 67 . (3 )
La formola della nexi liberatio conservataci da Gajo, Comm ., III, 174 , sa
rebbe la seguente : « Quod ego tibi tot milibus condemnatus sum , me eo nomine
a te « solvo liberoque hoc aere aeneaque libra. Hanc tibi libram primam
postremamque 481 1° l'atto per aes et libram , non minus quam quinque testes,
cives romani, il libripens e forse eziandio l'antestator ; 2° e la nuncu patio,
che non si sa bene se dovesse essere pronunziata da un solo, ovvero da entrambi
i contraenti. Essa però probabilmente dovette comporsi di due parti, l'una
pronunziata dal nexum accipiens e l'altra dal nexum dans, e consistette in una
specie di damnatio . Il primo conchiudeva damnas esto dare, e l'altro
rispondeva damnas sum , il che implicava una specie di condanna , che il debitore
pronunziava contro se stesso , al pagamento della somma (1 ). Di qui la
conseguenza, che se il medesimo non pagava si poteva proce dere contro di lui,
come se il medesimo fosse damnatus al paga mento , e perciò poteva essere
soggetto alla manus iniectio , senza che fosse richiesta una speciale condanna
del magistrato . I dubbii più gravi, che si riferiscono al nexum , sono quelli
re lativi alla natura dell'obbligazione contratta col nexum , ed agli effetti,
che derivavano da essa in base al diritto primitivo, le cui vestigia
appariscono ancora nella legislazione decemvirale . 374. Per quello che
riguarda la natura della obbligazione con tratta col nexum , alcuni antichi
scrittori, non giuristi, descrivendo la trista condizione dei debitori, tradotti
nel carcere privato del loro & expendo secundum legem publicam » . Essa è
per noi molto preziosa : 1° perchè ci dice anzitutto, che il nexum per aes et
libram importava una damnatio per parte del debitore, il che fa credere che
rendesse contro di lui applicabile senz'altro la manus iniectio, che Gaio ci
dice appunto essere ammessa contro i damnati, e contro i iudicati; 2° perchè
essa è un argomento per ritenere, che le obbligazioni contratte per aes
etlibram dovevano essere risolte con un atto della medesima natura ; 3. perchè
infine ci attesta , che l'atto per aes et libram era una forma di liberatio
secundum legem publicam , e come tale non si applicava soltanto nei casi di
obbligazioni con tratte col nexum , ma anche quando trattavasi del pagamento di
una somma ex causa iudicati, o del pagamento di un legato per damnationem . Ciò
conferma sempre più la congettura posta innanzi, che l'atto per aes et libram
era in certo modo la forma quiritaria del negozio giuridico, donde le sue
molteplici applicazioni, allorchè si tratta di negozii ex iure quiritium . (1)
La nuncupatio del nexum secondo il Voigt, XII Tafeln, pag. 483, si com porrebbe
bensì di due parti; ma egli, ricostruendone la formola, respingerebbe l'e
spressione damnas esto e damnas sum , in conformità appunto della sua teoria ,
se condo cui il nexum non avrebbe dato origine ad un'obbligazione di carattere
spe ciale. Parmi che quest'ultima parte della sua ricostruzione non possa
accettarsi ; poichè, così essendo, la formola della nesi datio non corrisponderebbe
a quella della nexi liberatio, conservataci da Gaio, la quale è certo ciò , che
noi abbiamo di più testuale in proposito. G. Carle, Le origini del diritto di
Roma. 31 482 creditore, ebbero a dire, che essi, dopo essere stati spogliati
dei beni, avevano poi dovuto rinunziare alla propria libertà (1). Ciò fece ri
tenere talvolta , che il nexum attribuisse il diritto di procedere non solo
contro la persona, ma anche contro i beni del debitore. Questo concetto sembra
ripugnare a quel carattere del primitivo ius qui ritium , secondo cui il
medesimo, allorchè giungeva a separare due istituti, quali sarebbero quelli del
nexum e del mancipium , lasciava poi che ciascuno procedesse per la propria via
, informato ad una propria logica, senza che l'uno più non si confondesse
coll'altro . Ora pur riconoscendo che il vocabolo di nexum , nella sua
significazione primitiva , designasse in genere il vincolo giuridico , che
intercedeva fra un quirite ed un altro, e che potesse anche estendersi ai beni
del debitore, questo è certo che non dovette più essere cosi, allorchè si operò
la distinzione fra il nexum ed il mancipium , e i due con cetti cominciarono ad
avere ciascuno un proprio svolgimento. Ora noi sappiamo, che questa distinzione
del nexum dal mancipium già erasi operata anteriormente all'epoca decemvirale ,
e che da quel momento il quirite come tale ebbe due mezzi per provvedere alle
proprie necessità ; quello cioè di alienare il proprio mancipium , o quello di
vincolarsi col nexum . Con quello egli poteva trasferire i beni e con questo
vincolare la sua persona; ma gli effetti dell'uno non potevano più confondersi
coll'altro . Fu in seguito a questa di stinzione, che anche più tardi la
giurisprudenza romana ebbe a ri tenere, che le obbligazioni ed i contratti, che
derivarono dal nexum , non possono mai riuscire al trasferimento della
proprietà , il quale con tinuò sempre ad operarsi per mezzo della usucapione e
della tradi zione, che erano sottentrate all'anticamancipatio . Parmi pertanto
in questa parte di dovere seguire l'opinione, adottata, fra gli altri, anche
dall'Hölder , secondo cui il nexum costituisce in certo modo il con trapposto
della mancipatio nel senso, che quello è la sottomissione della persona del
debitore alla potestà del creditore per il caso di non seguito pagamento,
mentre la mancipatio costituisce invece (1) Così, ad esempio Livio , II, 23,
attribuisce queste parole a quel nexus, che avrebbe provocata la prima rivolta
della plebe per causa della legge sui debiti: e se « aes alienum fecisse; id
cumulatum usuris primo se agro paterno avitoque exuisse, a deinde fortunis
aliis ; postremo, velut tabes, pervenisse ad corpus » . È tuttavia evidente,
che quinon si dice punto, che il creditore, in base al nexum , potesse pro
cedere sai beni del debitore, ma solo che quest'ultimo aveva dovuto prima
spogliarsi del suo patrimonio avito, e poi anche vincolare la sua persona al
proprio creditore. 483 il trasferimento di una cosa in potestà altrui. Questa è
pure l'opi nione, che fu seguita recentemente dall'Esmein e dal Cuq, i quali
ritengono , che la primitiva obbligazione quiritaria , la cui forma tipica fu
il nexum , costituisse dapprima un legame del tutto personale e fosse perfino
intrasmessibile da una persona ad un'altra (1). Ho insistito sopra questo carattere
esclusivamente personale del nexum primitivo ; perchè il medesimo, se nori a
giustificare, può condurci in qualche modo a spiegare le conseguenze estreme, a
cui nel diritto primitivo di Roma potè giungere il diritto del creditore contro
il proprio debitore. Parmi tuttavia, che sarà più opportuno discorrere di tali
conseguenze , allorchè si tratterà della manus iniectio, ossia della procedura
di esecuzione contro il debitore; poichè l'inumanità di questa primitiva
procedura non spiegasi soltanto contro i nexi, ma anche contro i iudicati ed i
damnati (2 ). 375. È certo ad ogni modo, che il nexum , fra le istituzioni qui
ritarie, era quella, che ripugnava maggiormente a quell'uguaglianza, che
avrebbe dovuto esistere fra i membri di una stessa comunanza. Esso portava
ancora le traccie della soggezione, pressochè servile , a cui un tempo era
ridotta la plebe ; poichè anche nel periodo sto rico sono sempre i plebei, che
appariscono sottoposti al rigore del nexum , mentre il patrizio , anche oberato
di debiti, poteva trovar sussidio presso la propria gente. Ne derivò che,
durante le lotte fra i due ordini, il nexum si cambið talora in un'arma del
patri ziato per assicurare la sua superiorità sopra la plebe , e fu in tal modo
che una istituzione di diritto privato si cambiò in un fomite di dissensioni
civili. La questione della condizione dei debitori sembra già rimontare
all'epoca di Sergio Tullio, il quale, se non pagd del proprio i creditori ,
come vorrebbe la tradizione, certo impose la solennità dell'atto per aes et
libram per potersi obligare col nexum . Sotto la Repubblica poi, è a causa
della legge sui debiti, che i plebei si rifiutano prima alla leva , poi
abbandonano la città e si ritirano (1) HÖLDER, Istituz., trad . Caporali, pag.
225 e segg . Cfr . eziandio l' Esmein , L'intrasmissibilité première des
créances et des dettes, nella « Nouvelle Revue histo rique » , 1887, pag. 48,
nel quale scritto egli cerca di corroborare la stessa tesi già enunciata dal
CuQ, Recherches historiques sur le testament per aes et libram pubblicato nella
stessa « Nouvelle Revue », 1886, pag. 536. (2) La questione qui accennata del
trattamento contro i debitori sarà trattata nel capitolo VI, § 3º, parlando
della procedura esecutiva, mediante la manus iniectio. 484 sul monte Sacro, da
cui non ritornano , che dopo aver ottenuto la istituzione del tribunato della
plebe. Anche la stessa legislazione decemvirale porta le traccie di questa
contesa ; come lo dimostrano le disposizioni minute, a cui essa discende nella
parte, che si rife risce al trattamento del debitore, ridotto in potestà del
creditore. Malgrado di ciò , le dissensioni continuano fino alla legge Petelia
del 428 di Roma, la quale non abolisce il nexum , e neppure dà diritto al
creditore di procedere contro i beni del debitore, anzichè contro la sua
persona, come vorrebbe Livio, ma toglie al creditore il diritto di poter
procedere immediatamente alla manus iniectio contro il debitore, senza che
neppure occorresse l'intervento del magistrato ( ). Continuò quindi ancora a
sussistere l'atto per aes et libram , qual mezzo di sottomettersi al nexum ,
come lo dimostra la sopravvivenza delle nesi liberatio , che è ancora ricordata
da Gaio ; ma intanto il nexum , sprovvisto di quegli effetti immediati contro
la persona, che costituivano l'odiosità e la forza di questo ingens vinculum
fidei, non ebbe più ragione di sussistere, e venne ad essere sosti tuito da
altri modi di obbligarsi, che forse preesistevano nel costume, ma non erano
ancora stati accolti nella cerchia circoscritta del primitivo ius quiritium .
376. Accade qui , in tema di obbligazioni, una trasformazione analoga a quella
, che abbiamo veduto essersi avverata in tema di proprietà, quanto al concetto
del mancipium . Al modo stesso che (1) Le espressioni di Livio , VIII, 28, sono
le seguenti: « iussique consules ferre ad « populum , ne quis, nisi qui noxam
meruisset, donec poenam lueret, in compedibus < aut in nervo teneretur ;
poecuniae creditae bona debitoris, non corpus obnoxium « esset. Ita nexi
soluti, cautumque in posterum , ne necterentur ». Di qui alcuni autori
avrebbero argomentato, che da quel momento fosse stata abolita la procedura
contro la persona dei debitori, e introdotta invece quella contro i beni. Cid
sarebbe smentito espressamente dalla storia giuridica di Roma, dove la vera
procedura fu sempre contro la persona , mentre quella contro i beni fu solo
introdotta dal pretore Rutilio nel 647 di Roma, e la stessa cessio bonorum ,
introdotta dalla legge Giulia , fu ancora considerata come un beneficio fatto
al debitore. Le parole quindi di Livio debbono essere intese nel senso, che
d'allora in poi il nexum non bastò più per sè ad autorizzare il creditore a
tradurre il debitore nel suo carcere privato, e che in tal modo l'obbligazione,
contratta con questo mezzo, non ebbe più lo speciale effetto di autorizzare
senz'altro la manus iniectio ; ma produsse solo gli effetti, che sareb bero
derivati da un 'obbligazione assunta mediante la semplice stipulatio. Questa fu
probabilmente la causa, per cui il nexum andò gradatamente in disuso, e
sottentra rono al medesimo la mutui datio e la stipulatio , come sarà
dimostrato più sotto. 485 al mancipium , quale unica forma della primitiva
proprietà quiri taria, sottentrò il concetto più largo del dominium ex iure qui
ritium ; così al nexum , forma primitiva dell'obbligazione quiritaria ,
sottentrò il concetto più esteso dell'obligatio propria civium roma norum , al
vincolo materiale, che stringeva il debitore al creditore sottentrò il vincolo
giuridico (vinculum iuris); ma intanto i voca boli di obligatio, di solutio, di
liberatio e simili rimasero ancor sempre a ricordare la rozzezza dell'antico
concetto, che scorgeva nell' obbligazione un vincolo pressochè materiale , e
nel pagamento ravvisava lo scioglimento di questo vincolo (solutio ). Così pure
al modo stesso , che col sostituirsi al mancipium un concetto più largo del
dominium ex iure quiritium , si vennero accogliendo nuovi modi di acquistare e
trasmettere questo dominio ; cosi, allorchè al concetto del nexum sottentrò
quello dell'obligatio , si vennero accogliendo nel ius proprium civium
romanorum nuovi modi di obbligarsi. Il nexum , mentre costituiva ed esprimeva
efficacemente un vincolo materiale e giuridico ad un tempo, aveva eziandio
questo carattere speciale, che esso teneva in certo modo del reale e del
verbale, in quanto che componevasidi dueparti, cioè: dell'atto per aes et
libram , mediante cui avveravasi il trapasso dal mio al tuo e si operava la
consegna immediata della cosa ( tuum de meo fit ): e della nuncupatio ,
mediante cui fra creditore e debitore si conveniva la condanna ed il pagamento.
Queste due parti, collo scomporsi del nexum vennero in certo modo ad acquistare
libertà di movimento , e si operò la distinzione fra l'obligatio quae re
contrahitur, e quella che con trahitur verbis , a cui venne più tardi ad
aggiungersi eziandio l'obligatio quae contrahitur litteris, ossia
l'expensilatio. Per tal modo alla sintesi potente del nexum , che era il modo
primitivo di obbligarsi ex iure quiritium , sottentrarono varii modi di obbli
garsi, che costituirono un ius proprium civium romanorum , quali sono la mutui
datio , la sponsio o stipulatio , e la acceptilatio : ciascuno dei quali viene
ad essere il germe di quei varii contratti formali, che si vengono poi svolgendo
nel diritto civile romano, sotto il nome di contratti reali, verbali e
letterali. 377. È evidente anzitutto l'analogia col nexum della mutui datio .
Questa infatti continua a produrre un'obligatio stricti iuris ; si ap plica
dapprima alla credita pecunia , e poi si estende a tutte le cose quae numero ,
pondere ac mensura constant: e la sua effi 486 cacia obbligatoria consiste
nella numeratio pecuniae , oppure con segna della cosa (datio rei ). Non può
poi esservi dubbio, che il mutuo fu il modello, sopra cui si foggiarono poi gli
altri contratti reali del comodato , del deposito , del pegno (1) . Tuttavia il
modo di obbligarsi, che prende un più largo sviluppo collo scomparire del nexum
, è sopratutto la sponsio o stipulatio . Questa , sotto un certo aspetto,
corrisponde a quella nuncupatio , che già preesisteva nel nexum , salvo che
essa, liberata di quella forma rigida della damnatio , che era propria del
nexum , venne a trasfor marsi in una semplice sponsio o stipulatio, in cui
l'obbligazione viene ad essere assunta per mezzo di una interrogazione e di una
risposta , congrue e solenni, le quali, per la propria elasticità e
pieghevolezza, possono essere veste acconcia per esprimere la varietà infinita
delle obbligazioni, a cui può sottoporsi il cittadino romano. Qualunque possa
essere stata l'origine della stipulatio, è sopratutto nello svol gimento di
essa , che si palesa il genio giuridico dei giureconsulti romani, i quali non
credettero indegno del loro ufficio l'attendere a concretare le formole, con
cui doveva essere concepita la stipula zione nei varii negozii giuridici (2 ).
Anche la stipulatio divenne (1) Per ciò che si riferisce alla mutui datio, è
nota la censura, che di regola suol farsi alla etimologia di mutuum data dai
giureconsulti, secondo cui questo vocabolo deriverebbe da « quod de meo tuum
fit » . Per conto mio, non come etimologo, ma come giurista , ritengo invece
assai probabile questa etimologia , tenuto conto di ciò, che nelle formole
primitive occorrono ad ogni istante le parole di meum e di tuum , e che
l'essenza del mutuum consiste veramente nel far sì, che un oggetto ex meo tuum
fit. Queste etimologie, che direi ragionate, diventano tanto più probabili,
quando si ri tenga, che il diritto romano fin dai primi tempi fu il frutto di
una vera elaborazione , la quale può benissimo avere adattata la parola al
concetto, che intendeva di signi ficare. Lo stesso direi delle etimologie di
testamentum da mentis testatio , di manci pium da manucaptum , e di altre
analoghe; sebbene ve ne siano di molte, le quali, per essere composte post
factum , sono evidentemente foggiate per far dire alla parola cid , che è nella
mente del giureconsulto nell'epoca, in cui egli analizza il significato della
parola. Intanto il fatto stesso, che i giureconsulti cercano sempre di dare
alla parola un senso, che corrisponda alla cosa significata, dimostra, che essi
dovevano procedere in tal guisa, allorchè il comparire di qualche nuovo negozio
li costringeva a foggiare qualche nuovo vocabolo . In cid abbiamo anche una
delle ragioni, per cui il linguaggio giuridico di Roma potè diventare pressochè
universale, come le sue leggi. (2 ) Sono molte le opinioni intorno all'origine
della sponsio o stipulatio nel di ritto romano. Alcuni la ritengono come la
parte verbale del nexum , allorchè andò in disuso l'atto per aes et libram nel
contrarre le obbligazioni; altri, argomentando dal vocabolo sponsio , la
ritengono come una specie di promessa giurata, che facevasi davanti
all'antichissima ara di Ercole ; altri infine la ritengono di origine greca ,
donde sarebbe passata in Sicilia e poi nel Lazio. Tale sarebbe, ad es.,
l'opinione 487 così un modo tipico di obbligarsi ; ma il suo carattere non è
più artificioso , come quello dell'atto per aes et libram , nè così rigido come
quello della damnatio , propria del nexum , ma sembra essere desunto dalla
natura stessa delle cose . La parola infatti è riguardata come il vero mezzo di
obbligarsi, e ogni negozio, dopo essere stato lungamente discusso , viene colla
stipulatio ad essere conchiuso , in guisa da escludere qualsiasi dubbiezza
sulla volontà dei contraenti. Tocca pertanto a colui, che stipula un beneficio
a suo favore, di interrogare il promettente : « centum dare spondes ? » , e
tocca a colui che promette di rispondergli congruamente: « spondeo » per modo
che non possa esservi dubbio circa l'incontrarsi delle due volontà (1 ). Viene
poscia nel costume una dextrarum iunctio , poichè, fra le genti primitive, la
destra è l'emblema della fede, in base a cui si conclude il negozio . Forse in
antico potè eziandio aggiungersi la solennità del giuramento , come lo
indicherebbe la significazione in parte religiosa, del vocabolo di sponsio ; ma
questa , quando è accolta nel diritto civile romano, sembra già aver perduto
questo carattere primitivo. Anche qui pertanto vi ha una forma tipica di
obbligazione, ma essa non è più quella del nexum , propria del ius quiritium ,
e modellata probabilmente dal ius pontificium , nell'intento di serbare le
tradizioni del passato ; bensì è già quella del ius proprium civium romanorum ,
come lo dimostra il fatto , che anche quando i romani consentirono la
stipulatio ai peregrini, riservarono sempre per sè la espressione primitiva : «
spondes? spon deo » , la quale sembra ancora richiamare quel carattere
religioso , che doveva accompagnare simili stipulazioni nel periodo gentilizio
. Questo è certo ad ogni modo, che la stipulatio ha vantaggi in del Leist,
Graeco-ital. Rechtsgeschichte, pag . 455-470, a cui si associa il MUIRHEAD, op.
cit., pag. 228. Per me trovo assai probabile, che anche in Grecia potesse esi
stere un modo di obbligarsi così naturale e semplice, come è quello
rappresentato dalla stipulatio, al quale trovasi pure qualche cosa di
correlativo, anche fra i popoli germanici (SCHUPPER, L'allodio , pag. 47) ; ma
non posso in verità persuadermi, che i Romani dovessero apprenderlo dalla
Grecia , dal momento , che senz'alcun dubbio già lo conoscevano nei rapporti
fra le varie genti. Essa quindi deve essere ritenuta come una di quelle
istituzioni, che vivevano nelle costumanze, e che solo più tardi riuscirono ad
entrare nella cerchia rigida del ius quiritium , il che probabilmente dovette
accadere , quando cominciò ad andare in disuso il nexum . ( 1) Questo carattere
speciale della stipulatio, per cui essa costituisce il modo più semplice ed
acconcio per conchiudere le trattative di un negozio , in quanto che l'in
terrogante viene ad essere colui che stipula , e il rispondente colui che
promette, fu già acutamente notato dal SUMNER MAINE, L'ancien droit, pag. 311.
488 contrastati sul nexum . Essa è duttile, pieghevole , come la parola umana,
e può cosi accomodarsi a qualsiasi uso ; è un materiale, che si adatta ad ogni
specie di costruzione; è il modo più spiccio e più logico per conchiudere
qualsiasi trattativa ; può servire per un'obbligazione principale ed anche per
un'obbligazione accessoria ; sebbene unilaterale per propria natura , si può,
raddoppiandola, farla servire per dare origine ad una convenzione bilaterale .
Stante la propria esattezza e precisione, la stipulatio è sopratutto atta ad
esprimere i negozii stricti iuris . Ma essa, coll'aggiunta di una clau sola
semplicissima, che è quella ex fide bona, pud anche adattarsi ai negozii di
buona fede. Si comprende pertanto come, in base alla medesima, i giureconsulti
romani siano riusciti a svolgere in gran parte la teoria dei contratti, in cui
la giurisprudenza romana spiego una duttilità e pieghevolezza, tanto più
mirabili, in quanto che non scompagnansi giammai dall'esattezza e dalla
precisione. 378. Sembra invece essere alquanto più tardi, che vennero ad essere
accolti nella compagine del diritto civile di Roma, quegli altri modi di
obbligarsi, che diedero poi origine ai contratti letterali. Anche a questo
riguardo non può esservi dubbio , che il diritto civile di Roma non creò di
pianta le proprie istituzioni; ma si contento, per dir cosi, di accogliere
sotto la sua tutela e di modellare, in base alla propria logica giuridica, le
istituzioni, che già esistevano nel l'uso e nel costume. Così dovette accadere
senz'alcun dubbio dell'expensilatio, la quale, ancorchè entrata tardi nel
diritto civile di Roma, ci richiama in certo modo la figura del primitivo capo
di famiglia , il quale dir: gendo una vasta azienda e avendo sotto la sua
dipendenza un nu mero grande di persone, deve tenere il conto quotidiano del
dare e dell'avere . Ciò che egli scrive nel proprio libro doveva certo far fede
dirimpetto ai suoi dipendenti. Questo sistema pero , che era il più ovvio nelle
consuetudini patriarcali, presentava invece dei pe ricoli nel diritto , come
quello , che fondavasi esclusivamente sulla buona fede. Fu questo il motivo,
per cui esso penetrò più tardi nel diritto civile di Roma, il quale cerco poi
di ovviare al pericolo inerente al medesimo, aggiungendo al nomen
transcripticium una ricognizione scritta del debito , che doveva restare a mani
del cre ditore (cautio , chirographum ); al qual proposito viene ad essere
probabile, che l'istituzione originariamente italica della expensilatio siasi
imparentata con un'istituzione, che il vocabolo farebbe credere - 439 di
origine probabilmente g : eca , donde la cautio chirographaria , che pervenne
fino a noi (1 ). 379. Queste tre categorie di contratti, che sogliono talvolta
es sere indicati col vocabolo di formali, dovettero certamente essere i primi
ad entrare nella compagine del diritto civile romano. Esso invece, che stentava
a comprendere il consenso senza un fatto esteriore, che servisse a rivelarlo,
sembra che solo più tardi e pro babilmente già sotto l'influenza del ius
honorarium , sia pervenuto ad adottare e ad attribuire efficacia giuridica
all'emptio venditio, e agli altri contratti, che a somiglianza di essa si
perfezionano col solo consenso. Ormai non può esservi dubbio, che anche
l'emptio venditio già esisteva nel primitivo diritto , poichè la legislazione
decemvirale disponeva, che la medesima, per essere perfetta , doveva essere
accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo. Cosi
stando le cose, è però evidente, che l'emptio venditio come mezzo per
trasferire il dominio, non poteva valere da sola, ma doveva essere accompagnata
dalla mancipatio o dalla traditio . Di qui ne venne, che essa , come contratto
stante per sè , comparve solo più tardi nel diritto civile di Roma, il quale non
ebbe a collocarla nella categoria dei negozii, che valgono a trasferire il
dominio, ma bensì in quella dei negozii, che obbligano a dare, facere,
praestare; il che deve pur dirsi di tutti gli altri contratti consensuali, cioè
della locatio conductio, del mandatum e della societas, che furono fog giati
sul modello della compra e vendita (2 ). 380. Intanto si comprende, che la
giurisprudenza romana, la quale, nel suo primo consolidarsi, aveva prese le
mosse da una unica forma di obbligazione quiritaria , che era quella assunta
col nexum , allorchè pervenne a così grande ricchezza di sviluppo , abbia
cominciato a sentire il bisogno di richiamare a certe classi i genera
obligationum , quae ex contractu nascuntur; ma intanto essa si trovò già di
fronte ad una suppellettile così copiosa, che per potervi riuscire ac canto ai
contratti fu costretta a creare la figura dei quasi- con (1) Cfr. per ciò che
si riferisce all'expensilatio ed all'abitudine del capo di fami glia romano di
tenere il Codex accepti et expensi, vedi il PADELLETTI, Storia del diritto
romano, cap. XXI, pag. 249 e segg. Quanto all'acceptilatio vedi SCHUPFER ,
nella « Enciclopedia giuridica italiana » , vol. I, pag. 175 a 180 , vº
acceptilatio. (2) Quanto alle origini di uno di questi contratti consensuali,
cioè della societas, vedi l'articolo del Ferrini nell'a Archivio giuridico »
diretto dal Serafini, anno 1887. 490 tratti ; accanto ai contratti nominati
dovette porre quelli non no minati ; accanto ai veri e proprii contratti, i
patti, che non pro ducono azione, ma una semplice eccezione ; e da ultimo
accanto ai contratti, che avevano avuto origine nel diritto civile, quelli che
avevano avuto origine nel diritto delle genti. Anche qui pertanto è facile lo
scorgere come, prima nel ius quiritium e poscia nel ius civile, presentisi
costantemente una parte già formata e consoli data , e un'altra , che si viene
foggiando e consolidando sựl modello somministrato dalle formazioni anteriori,
senza che mai si abbandoni il concetto fondamentale della primitiva
obbligazione, da cui il ius quiritium aveva preso le mosse. Ciò tanto è vero,
che, anche nel conchiudersi dello svolgimento storico del diritto delle
obbligazioni, si riscontra ancora quel con cetto , a cui si informava
l'istituzione primitiva del nexum , con cetto , che viene ad essere enunziato
da Paolo con dire « obligationum « substantia non in eo consistit , ut aliquod
corpus, nostrum , aut « servitutem , nostram faciat, sed ut alium nobis
obstringat ad « dandum aliquid , vel faciendum , vel praestandum » (1). Si
viene cosi a mantenere una separazione fra la teoria delle obbligazioni e
quella del trasferimento della proprietà , non meno radicale e pro fonda, di
quella, che negli inizii del ius quiritium esisteva fra il concetto del facere
nexum e quello del facere mancipium . È questo il motivo, per cui la genesi dei
modi, coi quali nel diritto ro mano si acquistano e si trasferiscono la
proprietà e i diritti inchiusi nella medesima, deve essere cercata in un altro
istituto del diritto primitivo di Roma, che è quello della mancipatio . $ 3. –
La mancipatio e la storia primitiva dei modidi acquistare e di trasferire
ildominio quiritario . 381. Mentre il facere nexum costitui senz'alcun dubbio
la forma primitiva dell'obbligazione quiritaria, il facere mancipium invece,
che prese più tardi il nome di mancipatio , deve considerarsi come la forma
primordiale , che ebbe ad assumere l'acquisto ed il trasferi mento della
proprietà ex iure quiritium (2). Tanto la nexi datio, ( 1) Paolo, Leg . 3 , Dig
. (44 , 7). ( 2) Anche sulla mancipatio abbiamo una ricchissima letteratura .
Tra i recenti mi limiterò a ricordare il Leist, Mancipatio und Eigenthums
Tradition , Iena, 1865; il MuirHead, Hist. Introd., sect. 30 , pag . 131 a 149
; il Voigt, XIl Tafeln , II, SS 84 491 quanto la mancipatio, debbono poi essere
considerate come due ap plicazioni dell'atto quiritario per eccellenza, che era
l'atto per aes et libram , come lo dimostra il fatto , che i più antichi
giureconsulti comprendono l'una e l'altra nella categoria di quegli atti, che
si compiono per aes et libram (1). Esse vengono soltanto a differire fra di
loro nella nuncupatio, ossia in quelle parole solenni, che dovevano
accompagnare l'atto per aes et libram , e che potevano attribuire al medesimo
una significazione diversa . Mentre la nun cupatio nel nexum doveva consistere
in una specie di condanna convenzionale del debitore al pagamento della somma
da lui tolta in imprestito ; la nuncupatio invece nella mancipatio, quale ebbe
ad esserci conservata da Gaio , consiste nella affermazione solenne del
mancipio accipiens , che la cosa gli appartiene ex iure qui ritium , per averla
egli acquistata con tutte le solennità richieste dal diritto quiritario (hunc
ego hominem ex iure quiritium meum esse aio , isque mihi emptus est hoc aere
aeneaque libra ). Gaio poi non ci dice , se a questa affermazione solenne del
mancipio ac cipiens corrispondesse una congrua risposta del mancipio dans; ma
ad ogni modo egli è certo , che questi, essendo presente all'atto , e ricevendo
quell'aes rude, con cui si percuoteva la bilancia, a titolo di prezzo ,
riconosceva con cið la verità dell'affermazione dell'acqui rente (2). È poi
anche degno di nota nella mancipatio, che sebbene a 88 ; il Longo, La
mancipatio , Firenze, 1887. Sembra essere opinione comune a questi autori, che
nell'antico linguaggio in luogo di mancipatio si dicesse mancipium ; donde la
conseguenza, che la espressione facere mancipium sarebbe pressochè un sinonimo
di facere mancipationem . Noi abbiamo veduto invece, che il vocabolo man cipium
ebbe, fra le altre significazioni, anche quella di indicare il primitivo patri.
monio del quirite ; quello cioè, che doveva da lui essere consegnato nel censo.
Quindi per noi le antiche espressioni di facere mancipium , mancipio dare, mancipio
acci pere dovettero significare il ricevere una cosa nel proprio mancipium , o
il trasferirla nel mancipium altrui. Quanto ai vocaboli di mancipare e di
mancipatio, essi si for marono, allorchè l'uso frequente di queste espressioni
costrinse a foggiare una parola, che esprimesse più brevemente il concetto . Di
qui la conseguenza , che il vocabolo di mancipatio non deriva direttamente da
manu capere, ma piuttosto da mancipium facere, mancipio dare e simili. Cfr.
BONFANTE , Res mancipi e nec mancipi, Roma, 1888, pag. 90 e 91. (1) « Nexum
Manilius scribit omne quod geritur per aes et libram , in quo sine mancipia » .
VARRO, De ling. lat., VII, 105. Vedi gli altri passi citati nel § 1° di questo
capitolo, nº 369, pag. 471, nota 1. (2 ) Gaio descrive la mancipatio e le
formalità, da cui era accompagnata , nei Comm ., I, SS 119 a 123 . 492 la
medesima in effetto servisse per il trasferimento della proprietà quiritaria ,
aveva perd eziandio tutti i caratteri di un acquisto ori ginario, come lo
dimostra il fatto , che era l'acquirente , il quale doveva per il primo
affermare la sua proprietà sulla cosa ed affer rare materialmente la cosa
stessa ; donde anche la conseguenza, che la mancipatio richiedeva la presenza
delle cose mobili, e per gli immobili era stata la sola necessità , che aveva
condotto all'uso, accen nato da Gaio , secondo cui « immobilia in absentia
solent manci. pari » (1). 382. La circostanza intanto, che la mancipatio ebbe
dapprima ad essere indicata coll'espressione di facere mancipium , costituisce
un forte indizio, che la mancipatio sia comparsa nel diritto quiri tario, in
quell'epoca stessa , in cui si formd il concetto del manci pium , e che essa
sia stata introdotta quale mezzo peculiare per la formazione e per il
trasferimento del mancipium , in quanto il me desimo costituiva il primo nucleo
della proprietà quiritaria , quella parte cioè del patrimonio, che doveva
essere consegnata e valutata nel censo. Fu l'importanza economica e politica ,
dal censo attribuita al mancipium , che rese necessario un atto solenne per la
trasmis sione delle res mancipii contenute nel medesimo. Quindi l'origine della
mancipatio deve rimontare probabilmente alla costituzione serviana, e
l'introduzione di essa avere una stretta attinenza col concetto del mancipium ;
il che è comprovato dal fatto, che anche i classici giureconsulti, memori
dell'origine di essa , continuarono sempre a considerare la mancipatio , come
un modo di alienazione del tutto proprio delle res mancipii, e sostennero
perfino , che queste fossero cosi chiamate, perchè erano suscettive della
mancipatio (2). (1) Gaio , Comm ., I, 119. Sono da vedersi , quanto alla
necessità di adprehendere manu la cosa acquistata , se mobile, i passi citati
dal Voigt, op. cit., II, pag. 133, nota 10. Intanto nella necessità di questa
materiale apprensione della cosa parmidi scorgere un'altra prova, che il
concetto del primitivo mancipium implicava in certo modo la detenzione
materiale e la proprietà delle cose, che ne formavano oggetto, al modo stesso
che il nexum indicava ad un tempo il vincolo fisico e il vincolo giuri dico, a
cui era sottoposto il debitore. Ciò a parer mio rende probabile l'etimologia di
mancipium da manucaptum , come lo provano i passi citati dallo stesso Voigt,
op. e loc. cit., pag. 134 , nota 12. (2 ) Cfr., quanto alle origini della
mancipatio, il MUIRHEAD, op. cit., pag. Sono poi Gaio, I, 120 e Ulpiano , Fragm
., XIX, 3 , i quali attestano che la manci patio era esclusivamente propria
delle res mancipii. « Mancipatio, scrive quest'ultimo, propria species
alienationis est rerum mancipü » . Ciò però non impedì, che, trattan 57 e segg
. 493 - Siccome però fin da quest'epoca, accanto alle cose, che costituivano il
nucleo del mancipium , vi erano quelle, che non erano comprese nel medesimo, e
a cui perciò non potevasi applicare il facere man cipium , così ne venne che
accanto alla mancipatio dovette già essere in vigore la semplice traditio , la
quale, accompagnata dal pagamento del prezzo , poté servire per il
trasferimento delle cose, che non erano comprese nel mancipium . Mentre quindi
la man cipatio veniva ad essere una costruzione giuridica , la cui forma zione
fu determinata dal formarsi del mancipium , la traditio in vece era il mezzo
naturale ed ovvio per il trasferimento di quelle cose, che erano nec mancipii,
e che perciò in questo primo periodo non formavano oggetto di vera proprietà ex
iure quiritium (1). 383. Questo stato di cose venne poi a subire una
modificazione profonda, sotto l'influenza della legislazione decemvirale.
Infatti è colla medesima, che al concetto del mancipium , il quale restringeva
di troppo il novero delle cose , che potevano essere oggetto di pro prietà
quiritaria , cominciò già a sovrapporsi un concetto più esteso del dominium ex
iure quiritium . Da questo momento infatti le res mancipii continuano ancor
sempre a costituire il nucleo più importante delle cose, che possono essere
oggetto di proprietà qui ritaria , ma questa già può estendersi ad altre cose,
che non erano comprese nel primitivo mancipium . Di qui ne derivo , che mentre
le XII Tavole serbarono la mancipatio, quale mezzo esclusivamente proprio per
la trasmissione delle res mancipii, esse perd introdus sero o confermarono due
altri mezzi, per l'acquisto e la trasmis sione del dominium ex iure quiritium ,
di cui uno è l'in iure cessio, la quale, essendo compiuta davanti almagistrato,
potè anche dosi di cose, le quali si ritenevano di grande prezzo e perciò si
trasmettevano in fami glia , quali erano ad esempio le pietre preziose, si
potesse nella consuetudine appli carvi anche la mancipatio. V. quanto si è
detto a pag . 441, nota 1. (1) Ciò è dimostrato da ULP., Fragm ., XIX, 3, e 7 ;
il quale, dopo aver premesso che la mancipatio era propria delle res mancipii,
soggiunge poi: « traditio aeque propria est alienatio rerum nec mancipii » ;
nei quali passi è evidente, che la man cipatio e la traditio si contrappongono
fra di loro, come il mancipium ed il nec mancipium . Quello cade sotto il
diritto civile , e perciò deve essere alienato colle forme del diritto civile,
il che pure si accenna da Festo, tº censui, allorchè scrive: « censui censendo
agri proprie appellantur, qui et emi et venire iure civili pos sunt » (Bruns,
Fontes, pag. 334). Che il contrapposto fra mancipatio e traditio sia stato poi
la prima origine della distinzione fra i modi civili e naturali di acqui stare
e di trasmettere il dominio appare ad evidenza da Gaio , Comm ., II, 65 . 494
essere estesa alle res mancipii, e l'altro è l'usus auctoritas, più tardi
denominata usucapio , mediante cui l'uso ed il possesso di una cosa , durato
per un certo tempo, potė attribuire la proprietà quiritaria della medesima.
Colla legislazione decemvirale pertanto vengono ad essere tre i principali
mezzi, con cui può essere acqui stata e trasmessa la proprietà quiritaria , e
che costituiscono perciò un diritto esclusivamente proprio dei cittadini
romani. 384. Di questi mezzi il più importante è sempre la mancipatio , la
quale è il vero modo ex iure quiritium per l'acquisto ed il tras ferimento del
dominio , ma la medesima, essendo nata col mancipium , continua sempre ad
essere un mezzo di alienazione proprio delle res mancipii. Vero è, che in
questi ultimi tempi si è dubitato , se la mancipatio non siasi più tardi
applicata anche a quelle res nec mancipii, che potevano essere oggetto di
proprietà quiritaria : ma questa opinione non sembra potersi accogliere, di
fronte alle afferma zioni precise di Gaio e di Ulpiano, i quali parlano sempre
della manci. patio, come propria delle res mancipii (1). Ciò tuttavia non
impedi, che colla legislazione decemvirale la mancipatio abbia acquistata una
elasticità e pieghevolezza , che prima non aveva, il che spiega come essa sia
durata così lungo tempo , quale mezzo di trasferimento della proprietà, ed
abbia in questa parte esercitata una influenza analoga a quella esercitata
dalla stipulatio in materia di obbligazioni. Sembra infatti, che il facere
mancipium , negli inizii, fosse uno di quei ne gozii di strettissimo diritto ,
che producevano l'immediata traslazione della proprietà , e non ammettevano
perciò nè termine, nè condi zioni. Le XII Tavole invece introdussero il
principio : « qui manci pium faciet, uti lingua nuncupassit, ita ius esto » , e
diedero così libertà ai contraenti di aggiungere al primitivo mancipium , sotto
la forma di una nuncupatio, che faceva parte integrante del negozio, tutte le
clausole e condizioni, che potessero convenire ai contraenti. Fu in questo
modo, che l'antica mancipatio potè accomodarsi alla varietà dei casi e delle
esigenze , e che si vennero così formolando, per opera degli stessi pontefici e
giureconsulti, quelle clausole diverse , che sogliono essere indicate col
vocabolo di leges mancipii. Colle medesime infatti il mancipio dans , pur
alienando la cosa , potè riservarsi l'usufrutto della medesima, potè alienarla
con patto di ( 1) GA10, I, 120, Ulp., Fragm ., XIX , 3. Vedi tuttavia ciò che
in proposito si disse a pag. 441, nota 1. 495 - riscatto , poté restringere la
propria garanzia per l'evizione, ed anche limitare l'uso della cosa venduta per
parte dell'acquirente. Era pero naturale , che, per aggiungere alla mancipatio
tutte queste clausole , più non poteva bastare la semplice affermazione del man
cipio accipiens, che la cosa era sua ex iure quiritium ; maoccor reva eziandio,
che il mancipio dans, con una congrua risposta , apponesse quelle clausole e
condizioni, che potessero essere del caso , le quali, entrando a far parte
integrante della stessa mancipatio , dovevano fra i contraenti avere la forza
di vere leggi (1) . 385. Sopratutto , fra queste leges mancipii, viene ad
essere impor tantissima quella, che suol essere indicata col vocabolo di lex
fidu ciae , od anche semplicemente con quello di fiducia (2). Questa pro
babilmente doveva essere nata nelle consuetudini della plebe, la quale, non possedendo
le vere forme giuridiche, doveva di necessità nelle proprie convenzioni
lasciare una larga parte alla scambievole fiducia (3 ). Anche questa fiducia
colla legislazione decemvirale pe netrò nel ius quiritium , dove, combinandosi
col rigoroso atto della mancipatio, diede origine a quella singolare
istituzione della man cipatio cum fiducia , che doveva poi acquistare un così
largo ( 1) Si può veder raccolta nel Voigt, op . cit., II, $ 85, pag. 146 a
166, una varietà grandissima di queste clausole o leges mancipii, raccolte da
passi di antichi autori. Nel Bruns parimenti, Fontes, pag. 251 a 256, sono
riportati parecchi moduli di mancipationes, che pervennero fino a noi. ( 2)
Quanto alla mancipatio cum fiducia è a vedersi il Voigt, $ 86 , pag. 166 a 187,
ove sono raccolte le formole, che vi si riferiscono. È poi degno di nota quel
modulo di mancipatio fiduciae causa , che si fa risalire al primo o secondo
secolo dell' êra cristiana , riportato dal Bruns, Fontes, pag. 251. ( 3) Le
ragioni, per cui le origini della fiducia devono cercarsi nelle costumanze
della plebe, furono già esposte al n ° 149 , pag. 184. Di recente un giovine e
dotto autore, l’Ascoli, ebbe in proposito a scrivere, che la fiducia, come
forma di pegno, non dovette essere il prodotto spontaneo delle pratiche
necessità del commercio, ma una creazione artificiale , e che l'ipoteca nel suo
concetto astratto è più semplice della fiducia (Le origini dell'ipoteca e
l'interdetto Salviano, Livorno, 1887, pag. 1). Io credo, che se l'autore si riporti
col pensiero ad una plebe ragunaticcia , in parte immigrata e priva ancora di
una vera posizione di diritto, di fronte ai patrizii, fon datori della città,
comprenderà facilmente come i membri di essa, per trovar cre dito presso coloro
, che già vi si trovavano stabiliti, non avessero mezzo più acconcio , che
quello di alienare a questi cum fiducia le cose, che loro dovevano servire di
pegno. L'ipoteca invece avrebbe già supposto una comunanza di diritto, che
ancora non esisteva, e un'analisi del diritto di proprietà , che mal si poteva
conciliare colle condizioni di un popolo primitivo. 496 svolgimento nel diritto
civile di Roma. Con essa , accanto all'ele mento strettamente giuridico,
cominciò a penetrare anche la consi derazione della buona fede, in quanto che
non si bado più in modo esclusivo alla osservanza delle forme esteriori del
negozio giuridico, ma cominciò anche a tenersi qualche conto dell' intenzione
vera ed effettiva dei contraenti. Che anzi questo elemento fiduciario fu
introdotto nella formola stessa della mancipatio , cosicchè il man cipio
accipiens non affermò più , la sua proprietà assoluta sulla cosa a lui
alienata, ma disse invece : « hunc ego hominem fidei fi duciae causa ex iure
quiritium meum esse aio » ; colla qual formola già si lasciava intendere, che,
sebbene egli avesse acquistata la proprietà quiritaria, questa perd era stata
affidata al suo onore per l'adempimento di qualche incarico di fiducia ( 1).
Questa fiducia poi, secondo Gaio, poteva farsi o con un amico o con un creditore.
Essa accadeva, ad esempio , con un amico nella manci patio familiae cum fiducia
, che fu una delle forme più antiche di testamento , mediante cui si mancipava
il proprio patrimonio ad un amico ( familiae emptor), coll'incarico di disporne
nella guisa statagli indicata per il tempo, in cui altri avesse cessato di
vivere. La fiducia seguiva invece con un creditore, allorchè a lui si mancipava
la cosa , che si voleva lasciargli a titolo di pegno (2 ). È probabile che dap
prima questa clausola fiduciaria non avesse efficacia giuridica , ma col tempo
essa venne acquistandola. Per tal modo la mancipatio cum fiducia venne
cambiandosi in un espediente giuridico , mediante cui la mancipatio non serviva
più unicamente al trasferimento della proprietà ; ma serviva eziandio per
costituire comodati, donazioni mortis causa, doti, e riceveva cosi applicazioni
diverse, anche nei rapporti famigliari, nei quali essa si svolse , come vedremo
a suo tempo, sotto la forma di coemptio fiduciaria (3). 386. Fu questo il
magistero, mediante cui la mancipatio fu dal diritto civile di Roma adattata
alle varie contingenze di fatto ; ma (1) Cfr. il MUIRHEAD, op . cit., pag. 140
e seg . e il Voigt, op. cit., II , pag . 172. (2) È notevole in proposito il
passo di ISIDORO, Orig., 5, 22, 23 , 24 , riportato dal Bruns, Fontes , pag.
406 , in cui egli istituisce, sulle vestigia di qualche antico au tore, una
specie di raffronto fra il pignus, la fiducia e l'hypotheca . Della fiducia
egli scrive : « fiducia est, cum res aliqua , sumendae mutuae pecuniae gratia,
vel man cipatur vel in iure ceditur » . (3) Quanto alle svariate applicazioni
della fiducia V. Ascoli, op. cit., pag. 3 e seg . 497 siccome la sua
applicazione era pur sempre circoscritta alle res mancipii, cosi, accanto alla
medesima, si introdussero o si confer marono dalla legislazione decemvirale due
altri modi di acquistare e di trasmettere la proprietà, di indole e di origine
compiutamente diversa , ancorchè entrambi costituiscano un ius proprium civium
romanorum . Essi sono l'in iure cessio e l'usucapio . È ovvio scorgere
l'opposizione, che esiste fra questi due mezzi di acquisto della proprietà '
quiritaria . Mentre l'in iure cessio viene talvolta nelle fonti ad essere
indicata col vocabolo di legis actio , perchè essa , al pari delle legis
actiones, si compie in iure, cioè da vanti al magistrato, ed è in certo modo
una rei vindicatio non con traddetta . (1) ; l'usucapio invece nelle dodici
tavole viene ad essere indicata col vocabolo di usus auctoritas. Mentre la
prima consiste in una finta rivendicazione, fatta dal compratore o dal
cessionario , non contrastata dal venditore o dal cedente della cosa , che
forma oggetto di negozio , la quale si compie davanti almagistrato , e a cui
sussegue l'aggiudicazione del medesimo ; la seconda invece fondasi
esclusivamente sull'autorità dell'uso, cosicchè una cosa posseduta per due
anni, se trattisi di un fondo, e per un anno, se trattisi di qualsiasi altra
cosa , finirà per appartenere ex iure quiritium a colui che ebbe a possederla .
Mentre nella in iure cessio noi abbiamo un modo di procedere, eminentemente
legale e giuridico , in quanto che essa compiesi coll'intervento del magistrato
;, nella usucapio in vece abbiamo un fatto , che trasformasi in diritto , ossia
l'uso od il possesso , che trasformansi nella proprietà ex iure quiritium ,
quando abbiano durato per un certo spazio di tempo . Queste considerazioni mi
inducono a ritenere, che, mentre l'in iure cessio è un modo di acquisto ,
ricavato dal diritto proprio delle genti patrizie , presso le quali tutto già
facevasi con formalità so lenni e coll'intervento del magistrato , l'usus
auctoritas invece do vette avere origine presso la plebe, la quale , avendo
dapprima più una posizione di fatto, che una posizione di diritto , dovette
cono scere più l’uso ed il possesso, che non la proprietà nella significa zione
, che vi attribuivano i patrizii. L'accoglimento pertanto di questi due modi di
acquistare e di trasmettere la proprietà quiri di essa (1) È lo stesso Gaio,
Comm., II, 24, che, dopo aver descritta l'in iure cessio, dice idque legis
actio vocatur » . A questa descrizione di Gaio poi corrisponde quella
brevissima di Ulp., Fragm ., XIX , 10 « In iure cedit dominus ; vindicat is ,
cui ceditur; addicit Praetor » . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma . 32
498 taria fu in certo modo il frutto di una specie di compromesso fra i due
ordini; poichè da una parte si riconosceva la cessio in iure davanti al
magistrato , il quale era ricavato dall'ordine patrizio , e dall'altra il
patriziato cominciava a riconoscere qualche efficacia giu ridica a quell'usus
auctoritas, sulla quale 'soltanto fondavansi i di ritti della plebe (1). (1)
Qui cade in acconcio di arrestarci alquanto alla significazione da attribuirsi
alla espressione « usus auctoritas » , che occorre nelle XII Tavole. La legge
relativa dal DIRKSEN collocata al nº 3 della Tavola VI, e fu riportata colle
parole stesse di CICERONE, Top ., 4 : « usus auctoritas fundi biennium est ;
ceterarum rerum omnium annuus est usus » . Essa invece dal Voigt, op. cit., I,
pag. 110, sarebbe collocata al n . 6 , della Tavola V , e sarebbe così
concepita : « usus, auctoritas biennium , cetera rum rerum annuus esto » . Di
qui molte discussioni fra gli studiosi relativamente ai rapporti fra i due
termini usus ed auctoritas, al qual proposito l'opinione pre valente sembra
essere, che il vocabolo di usus si riferisca all'usucapione e quello di
auctoritas alla garanzia del titolo , che incombe al venditore in una
mancipazione; cosicchè la legge verrebbe a dire, che tanto l'usus quanto
l'auctoritas sarebbero li mitati a due o ad un anno, secondo le cose di cui si
tratta . Tale opinione sarebbe stata prima enunciata dal SALMASIO, De usuris,
cap. 8 , pag. 215 ; Lugd., Bat. 1638 , e troverebbe seguito ancora oggidì, presso
il Voigt, il quale avrebbe perciò separato l'usus dall'auctoritas con una
virgola . A mio avviso invece sembra alquanto fuor di luogo, che si venga a
discorrere di garanzia dall'evizione colà , ove tutti gli antichi autori non ci
parlano che dell'usucapione. Parmi poi evidente, che l'espressione effi
cacissima di « usus auctoritas » non possa essere che il contrapposto
dell'altra espres sione « iuris auctoritas » , e che quindi la significazione
naturale della medesima consista in dire, che l'uso varrà come titolo, e il
possesso equivarrà a proprietà , allorchè essi siano durati un biennio pei
fondi, e un anno per tutte le altre cose. Il solo vocabolo di usus, analogo a
quello di possessio , non avrebbe potuto da solo indicare l'usucapione, e fu
perciò , che dovette dirsi usus auctoritas, la quale espressione appunto
occorre in Cic., Top ., 4. Sia pure che lo stesso Co., pro Caec., 19 , sembri
separare le due cose, allorchè scrive: « lex usum et auctoritatem fundi iubet
esse biennium » ; ma è facile il vedere, che la dizione qui è già alterata
dall'uso dell'infinito, e che le due parole indicano pur sempre una cosa sola ,
cioè l'autorità od il diritto sul fondo provenienti dall'uso . Ogni dubbio poi
viene ad essere tolto dal passo di Boezio , in Cic., Top ., loc. cit ., nel
quale trovansi appunto contrapposte l'usus auctoritas e la iuris auctoritas.
Egli infatti, dopo aver definita l'usucapio, scrive : « Plurima « rum autem
rerum usucapio annua est, ut si quis eis anno continuo fuerit usus, « id firma
iuris auctoritate possideat, velut rem mobilem ; fundi vero usucapio « biennii
temporis spatio continetur. Ait Cicero : ut, quoniam ususauctoritas fundi «
biennium est, sit etiam aedium . Hic igitur aedium usus auctoritatem biennio «
fieri sentit » (Bruns, Fontes, pag . 400). Che se altrove la legge dice a
adversus hostes aeterna auctoritas esto » , gli è perchè ivi parlasi tanto
della iuris, che del l'usus auctoritas, e quindi non occorreva specificare il
concetto, ed anche perchè il vocabolo di auctoritas da solo significa la iuris
auctoritas. In ogni caso sarebbe in 499 387. Dei due istituti tuttavia esercito
certamente una maggiore influenza sullo svolgimento del diritto romano
l'usucapio , che non l'in iure cessio . Di questa infatti dice Gaio , che la medesima,
quanto alle res man cipii, non poteva competere colla mancipatio, poichè era
naturale che quello, che poteva compiersi dagli stessi contraenti, coll'inter
vento di amici, non si compiesse con difficoltà maggiori presso il magistrato
(1). Di qui ne venne che , sebbene l'in iure cessio po tesse anche applicarsi
alle res mancipii, essa invece fini per restrin gersi al trasferimento di
quelle cose, che per essere nec mancipii non erano suscettive di mancipatio .
Così, ad esempio , Gaio ci dice, che mediante l'in iure cessio si poteva fare
la costituzione delle servitù urbane, le quali erano res nec mancipii, la
cessione della eredità , che consideravasi come una cosa incorporale, come pure
la costituzione dell'usufrutto . Quanto a quest'ultimo tuttavia , egli os
serva, che esso poteva anche costituirsi mediante la mancipatio, al lorchè
altri, mancipando la cosa , riservava per sè l'usufrutto della medesima,
apponendovi una lex mancipii: mentre invece colui, che voleva conservare la
proprietà , non avrebbe potuto staccarne l'usu frutto, che mediante la in iure
cessio (2). L'usucapio invece deve essere considerata come una delle istitu
zioni, che maggiormente influirono sullo svolgimento del diritto . Essa in
certo modo fu il mezzo somministrato alla plebe per passare da una posizione di
fatto ad una posizione di diritto , per cambiare cioè la semplice usus
auctoritas nella iuris auctoritas. Fu quindi essa , che determinò la formazione
della teoria del possesso , accanto a quella della proprietà , e che condusse
la giurisprudenza a deter minare le condizioni, mediante cui il possesso può
trasformarsi in proprietà. È poi degno di nota, quanto all'usucapio del diritto
qui comprensibile, che Gato ed ULPIANO, i quali ebbero più volte ad accennare a
questa disposizione delle XII Tavole, avessero sempre solo avuto occasione di
parlare della durata dell'usucapio , e non mai della durata dell'obbligo di
garanzia per parte del mancipante. Parmi quindi, che la ricostruzione più
probabile sia la seguente: « usus auctoritas fundi biennium , ceterarum rerum
annus esto » ; la quale concorda anche di più colle regole grammaticali. ( 1)
Scrive infatti Garo , Comm ., II, 25 , discorrendo della iure cessio per le res
mancipii : « Plerumque tamen et fere semper mancipationibus utimur; quod enim
ipsi per nos, praesentibus amicis, agere possumus, hoc non est necesse cum
maiore difficultate apud Praetorem aut Praesidem provinciae agere » . (2) GAIO,
II, 33 ; Ulp., Fragm ., XIX, 11 e 12 . 500 ritario, che essa, a differenza
della prescrizione, che ebbe ad essere introdotta molto più tardi, non
presentasi ancora come un mezzo di estinzione dei diritti, ma ha sopratutto il
carattere di un mezzo di acquisto, come lo indica il vocabolo stesso di
usucapio . Cid pure è confermato dal motivo, che si assegna come fondamento
all'usucapio , il quale non consiste nell'intento di punire coloro, che
trascurassero di esercitare il proprio diritto , ma bensi in quello di evitare
l'in certezza dei dominii : « ne rerum dominia diutius in incerto essent » .
388. Le considerazioni premesse dimostrano, che l'usucapio fu effettivamente
adottata dai decemviri per fare in modo che le pos sessioni della plebe
potessero in un breve periodo di tempo acqui. stare anch' esse il carattere
quiritario , cosicchè tutti i possessori di terre si cambiassero in breve in
veri proprietarii ex iure quiritium . Quest'effetto era già stato ottenuto in
grande col censo serviano, il quale aveva convertito di un tratto tutti i
mancipia , proprii della plebe , in altrettante proprietà ex iure quiritium ,
facendoli consegnare nel censo ; ed il medesimo processo venne ad essere reso
continuativo colla disposizione relativa all'usus auctoritas , la quale in
breve spazio di tempo attribuiva al sem plice possesso il carattere di un vero e
proprio diritto . Ciò appare eziandio dalle applicazioni del tutto diverse di
questa usus aucto ritas, la quale compare non solo qual mezzo per acquistare la
pro prietà quiritaria delle cose mobili ed immobili, ma anche qual mezzo per
far acquistare al marito la manus sulla propria moglie , e quale mezzo infine
per far acquistare col possesso di un anno la proprietà quiritaria di
un'eredità , come accade nell'usucapio pro herede (1 ). Così pure dapprima non
si richiedono condizioni di sorta , perchè l'usucapio possa effettuarsi, ma
basta il possesso di uno, op pure di due anni, ed è solo posteriormente , che i
giurisprudenti fis (1) Il concetto qui accennato fu già più largamente svolto
al nº 154, p . 190 e seg., ove ho dimostrato che l'attribuire carattere giuridico
ai possessi della plebe nel ter . ritorio romano era il miglior mezzo per
interessarla all'avvenire e alla grandezza della città. Cfr. il MUIRHEAD, op.
cit., pag. 48, e l'Es sin , Histoire de l' usucapion nei « Mélanges d'histoire
du droit » , Paris, 1886, pag. 171 a 217. Dal momento poi, che l'usus
auctoritas era per i decemviri un mezzo per cambiare una posizione di fatto in
una posizione di diritto, si comprende come essi non abbiano avuto diffi coltà
di applicarla all'acquisto della proprietà, all'acquisto della manus, ed anche
all'acquisto dell'eredità (usucapio pro herede). 501 sano le condizioni, che
debbono concorrere in tale possesso , perchè possa dar luogo all'usucapione
(1). Tuttavia fin da principio la legge decemvirale già comincia ad escludere
certe cose dall'usucapione, come le cose furtive, le res mancipii appartenenti
alla donna, quando siano state vendute e consegnate senza il consenso del
tutore (sine tutoris auctoritate) (2 ), mentre è solo più tardi, che la
giurisprudenza venne a richiedere la buona fede nell'acquirente. Per tal modo
un mezzo, che dapprima servi per mutare una posizione di fatto in una posizione
di diritto , fini col tempo per convertirsi eziandio in un rimedio contro il
difetto inerente al titolo di acquisto , proveniente o da irregolarità
dell'atto di trasferimento o da incapacità dell'ac quirente (3 ). L'usucapione
poi, per sua natura, può già applicarsi cosi alle res mancipii , che alle res
nec mancipii , ma non pud tuttavia applicarsi al suolo provinciale, come
quello, che non poteva essere oggetto di proprietà quiritaria (4 ). Tuttavia
anche qui co mincia a svolgersi una istituzione del diritto delle genti , che è
quella della prescrizione, la quale, salvo la durata maggiore, ha un carattere
analogo a quello della usucapio nel diritto civile : come lo dimostra il fatto
, che le due istituzioni finiscono col tempo per fondersi insieme, e dar cosi
origine alla praescriptio longi temporis giustinianea (5 ). ( 1) Questo
carattere dell'usucapio primitiva è già accennato dall'Esmein , op. cit., pag.
177, e può inferirsi dalla definizione di Ulpiano, Fragm ., XIX , 8 : «
Usucapio « est dominii adeptio per continuationem possessionis anni, vel
biennii » ; nella quale non occorre ancora quel carattere della iusta possessio
, che compare invece nelle altre definizioni, e fra le altre in quella di
Boezio riportata dal Bruns, Fontes, pag . 400. Quanto ai rapporti fra il
possesso, di cui qui si parla , che sarebbe il pos sesso ad usucapionem , ed il
possesso ad interdicta, che costituisce un istituto, avente un proprio scopo ,
e distinto da quello della proprietà, vedi ciò che si disse più sopra al n .
357, pag. 452, nota 1. A parer mio dovette forınarsi prima il concetto del pos
sesso ad usucapionem , e più tardi soltanto quello del possesso ad interdicta.
(2 ) Questa condizione speciale delle res mancipii, spettanti alle femmine ed
ai pupilli, la quale ha evidentemente lo scopo di impedire l'alienazione
delmancipium per conservarlo nella linea agnatizia , è attestata in modo
concorde da Gaio, Comm ., I, 47, 192 e II, 80, e da ULP., Fragm ., XI, 27 . (3)
È naturale infatti, che l'usucapione in una società , che si forma, sia un modo
di acquisto , e che in una società invece, che si è formatn , si converta in un
mezzo di difesa ; e richieda così un tempo maggiore per servire quale mezzo di
acquisto. Le società giovani pensano sopratutto all'acquisto ; mentre le
società adulte e già for mate pensano sopratutto a conservare l'acquistato. (4
) GAIO, Comm ., II, 46 : « item provincialia praedia usucapionem non recipiunt
» . (5 ) Mainz, Cours de droit romain , I, SS 111 e 112 , pag. 745 e segg. 502
389. Intanto ,mentre accade questo svolgimento nei modi di trasfe rimento della
proprietà ex iure quiritium , accanto alla medesima viene lentamente
consolidandosi un'altra forma di proprietà , che prende il nome di proprietà in
bonis . Questa dapprima non è che una proprietà di fatto , ma col tempo ottiene
anch'essa in via indi retta e per opera del pretore una protezione di diritto,
e viene così a costituire un vero dualismo nel concetto di proprietà , il che
ebbe ad esprimere Gaio con dire: « postea divisionem accepit dominium , ut
alius possit esse ex iure quiritium dominus, alius in bonis habere (1) » . Il
primo nucleo di questa nuova forma di proprietà ebbe ad essere costituito dalle
res mancipii, allorchè le medesime erano trasmesse colla semplice traditio ; ma
poscia essa fini per comprendere tutte le altre cose, che per qualsiasi causa
non fossero oggetto della proprietà ex iure quiritium . Che anzi il dualismo
andò fino a tale per l'esistenza contemporanea del ius civile e del ius
honorarium , che di una stessa cosa potè accadere, che altri fosse il
proprietario ex iure quiritium , mentre un altro la teneva in bonis; il che
voleva dire in sostanza, che l'uno ne aveva la pro prietà ufficiale, mentre
l'altro ne aveva l'effettivo godimento . È tut tavia notabile , che prima della
fusione delle due proprietà , quella in bonis già cominciava in certe cose ad
avere la prevalenza ; come lo dimostra il fatto , che se un servo appartenesse
ad una persona ex iure quiritium , e fosse stato in bonis di un altro, gli
acquisti, che egli faceva, andavano a profitto di colui, del quale era in bonis
(2 ). Diqui una lotta fra le due forme di proprietà , che diede occasione allo
svolgersi dei modi naturali di acquisto , accanto a quelli ricono sciuti dal
diritto civile ; lotta , che Gaio ebbe a riassumere scrivendo : « Ergo ex his,
quae dicimus, apparet, quaedam naturali iure alie nari, qualia sunt ea , quae
traditione alienantur ; quaedam civili, nam mancipationis et in iure cessionis
et usucapionis ius pro prium est civium romanorum » ( 3). Così è pure questa
lotta, che porge occasione allo svolgersi della publiciana in rem actio (4 ),
ac canto alla rei vindicatio, della prescrizione accanto all'usucapione, ( 1)
Gaio , Comm ., II, 40. ( 2) Gaio, II, 88 e UlP., Fragm ., XIX , 20. (3) Id.,
II, 65. Di qui infatti Gaio prende occasione di discorrere deimodi natu rali di
acquisto . (4) Quanto all'actio in rem pubbliciana è da vedersi APPLETON, De
l'action pub blicienne nella « Nouvelle Revuehistorique » , 1885, pag. 481-526
, e 1886, pag. 276-342. - - 503 fino a che le due proprietà finiscono per
essere pareggiate fra di loro , ed allora si consegue l'effetto, che quelle
caratteristiche della pro prietà quiritaria , che si erano prima applicate a
quel nucleo ristretto di cose, che erano comprese nel mancipium , poi si erano
estese a tutte le cose, che erano oggetto delle proprietà ex iure quiritium ,
finiscono per essere estese a tutte le cose, che, per essere in com mercio,
possono essere oggetto di proprietà privata . È solo allora che Giustiniano,
forse non troppo consapevole dell'ufficio , che un tempo avevano compiuto le
distinzioni fra res mancipii e nec man cipii e fra la proprietà ex iure
quiritium e la proprietà in bonis, abolisce pressochè ab irato queste
distinzioni, le quali a suo giu dizio « nihil ab eniymate discrepant» e dànno
solo più origine ad inutili ambiguità ed incertezze (1) . 390. Infine anche qui
deve essere notato , che tutta questa teoria del trasferimento della proprietà
non potè mai trovare applicazione in tema di obbligazioni. Almodo stesso , che
più tardi la giurisprudenza romana continua ad affermare che « traditionibus et
usucapionibus dominia rerum , non nudis pactis, transferuntur » (2); così essa
pur continua a professare, che i modi, i quali servono a trasferire la pro
prietà, non possono invece servire per trasferire un'obbligazione da una
persona ad un'altra . Scrive infatti Gaio, dopo aver discorso della mancipatio
e della in iure cessio, quali modi di trasferimento della proprietà: «
obligationes, quoquo modo contractae, nihil eorum recipiunt; nam quod mihi ab
aliquo debetur, id si velim tibi de beri, nullo eorum modo, quibus res
corporales ad alium transfe runtur, id efficere possum ; sed opus est, ut,
iubente me, tu ab eo stipuleris » (3 ). Quindi le obbligazioni, che si
contraggono colla sti pulatio, devono essere trasmesse e cedute anche colla
stipulatio, e non potrebbero esserlo colla mancipatio e colla in iure cessio,
che sono circoscritte al trasferimento della proprietà e dei diritti reali. Per
tal modo quella distinzione radicale e profonda, che apparve nell'antico ius
quiritium , fra il facere mancipium ed il facere nexum , si mantenne per tutto
lo svolgimento posteriore del diritto civile romano, nel che abbiamo un'altra
prova della dialettica co (1) Giustin., Cod ., VII, 25 : de nudo iure quiritium
tollendo; e VII, 31, $ 4 : de usucapione transformanda et de sublata differentia
rerum mancipii et nec mancipii (2 ) L.20, Cod ., II , 3 (Dioclet. et Maxim .).
(3 ) Gaio , Comm ., II, 38. 504 stante, con cui i giureconsulti romani tengono
dietro ai concetti pri mordiali, da cui presero le mosse nella prima
elaborazione del ius quiritium . Ciascun concetto di questo è come un nucleo,
che viene attraendo tutto ciò , che può esservi di affine, ma il medesimo non
si confonde mai coi concetti, da cui ebbe già a separarsi, nè pud at trarre
materie, che siano partite da un concetto primordiale diverso . Chi poi volesse
trovare la ragione intima, per cui nel diritto civile romano il semplice
contratto può soltanto essere sorgente di obbligazioni, e non potè mai bastare
da solo al trasferimento della proprietà, dovrebbe probabilmente ricercarla nel
concetto in parte materiale, che il primitivo diritto erasi formato prima del
manci pium e poscia anche del dominium ex iure quiritium ; avrebbe infatti
ripugnato alla logica giuridica, che un dominio, il quale aveva in se qualche
cosa di corporale, potesse trasferirsi senza es sere accompagnato da qualche
fatto esteriore, che mettesse la cosa acquistata a disposizione dell'acquirente
. Veniamo ora al testamento e cerchiamo di spiegare come mai anche un atto di
questa natura abbia finito per rivestire la forma dell'atto per aes et libram .
$ 4 . La testamenti factio e la storia primitiva del testamento quiritario .
391. Degli atti, che rimontano all'antico ius quiritium , il testa mento è
certamente quello , di cui ci pervennero in maggior quantità i dati per
ricostruirne la storia primitiva , e per seguire le trasfor mazioni, che ebbe a
subire nel passaggio dal periodo gentilizio alla vita cittadina. Non può
dubitarsi anzitutto , che le origini del testamento rimon tano ad un'epoca
anteriore alla fondazione della città , perchè noi sappiamo con certezza, che
esso fin dagli inizii della città esclusiva mente patrizia fu uno degli atti,
che, al pari dell'adrogatio , della detestatio sacrorum e simili, dovevano
essere compiuti coll'inter vento dei pontefici, davanti al popolo delle curie ,
riunito nei comizii calati. Ciò dimostra, che esso già preesisteva presso le
genti patrizie, che concorsero alla fondazione delle città , le quali dovettero
ser virsene, comedi un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto . Si è
veduto infatti, che nella organizzazione delle genti italiche la famiglia ,
ancorchè entrasse a far parte di un organismo maggiore, cioè della gente e
della tribù, aveva però già una propria esistenza, 505 un proprio culto , e un
proprio patrimonio (heredium ). Era quindi naturale , che essa tendesse a
perpetuarsi, e che perciò il capo di famiglia riguardasse. come una grande
sventura la mancanza di un erede , che continuasse in certo modo la sua
personalità , e che adem piesse all'obligo del sacrifizio domestico . Fu quindi
per supplire alla mancanza di un erede naturale, che noi troviamo essere in uso
presso le genti italiche l'adrogatio ed il testamentum : due istitu zioni, le
quali , ancorchè in guisa diversa , mirano in sostanza al medesimo intento ,
cioè alla perpetuazione della famiglia e del suo culto . Intanto però , siccome
l'una e l'altra istituzione toccavano da vicino l'organizzazione gentilizia ,
cosi egli è certo , che nel periodo gentilizio l'adrogatio e il testamentum non
poterono compiersi dal capo di famiglia , di sua privata autorità , ma
dovettero invece essere compiuti colla approvazione degli altri capi di
famiglia , che appar tenevano alla medesima gente o tribù (1). 392. Allorchè
poi le due istituzioni vennero ad essere trapiantate nella città patrizia, esse
conservarono dapprima il medesimo carat tere, e perciò apparirono come due
negozi, i quali, avendo un carat tere pubblico, non potevano operarsi di
privata autorità, ma dovevano essere compiuti nei comizii calati delle curie,
convocati dai ponte fici. Che anzi, se abbiamo da argomentare dalla formola
dell'adro gatio, che ci fu conservata da Gellio , conviene inferirne , che
anche il testamento , in questo periodo, dovette assumnere il carattere di una
vera e propria legge (2 ). Intanto però egli è evidente, che questo testamento
nei comizii calati delle curie dovette essere esclusivamente proprio delle
genti patrizie , e che il medesimo non ebbe certamente lo scopo di porgere al
testatore un mezzo di disporre a capriccio delle proprie sostanze; ( 1) Ho già
toccato dell'attinenza strettissima, che intercede fra l'adrogatio ed il
testamentum nel periodo gentilizio al nº 63-65, pag. 77 e segg . Cfr. in
proposito il SUMNER -MAINE, Ancien droit, pag . 184 e il CoQ, Recherches sur le
testament per aes et libram nella « Nouvelle Revue historique » , 1886 , pag.
536. Qui solo ag. giungerò, che questa attinenza appare anche meglio nel
diritto greco, e sopratutto nell'ateniese , nel quale il primitivo testamento
compare sotto la forma dell'adozione. Cfr. il Jannet, Les institutions sociales
a Sparta . Paris, 1880 , pag. 96 e segg . ; e il Cocotti, La famiglia nel
diritto attico . Torino, 1886, pag . 69. (2) Questo carattere pressochè
pubblico dell'adrogatio e del testamentum in Roma non è mai intieramente
scomparso, come lo prova il detto di PAPINIANO , L. 4 , Dig . (28-1) :
testamenti factio iuris publici est. Cfr . quanto ho scritto a n ° 221, pag.
268 e seg . 506 - ma lo scopo invece di perpetuare la famiglia ed il suo culto
, e di impedire la divisione immediata del patrimonio, come lo dimostra
l'antica espressione romana « ercto non cito » ; la quale ha tutti i caratteri
di una primitiva clausola testamentaria . Quanto alla plebe , non avendo essa
la organizzazione gentilizia , non poteva certamente possedere un simile
testamento ; quindi è probabile, che il capo di famiglia plebeo , quando
rimaneva senza figliuolanza diretta , non avesse altro mezzo di disporre delle
proprie cose , che quello di ri correre all'istituto della fiducia , affidando
il suo patrimonio ad un amico, che ne disponesse nel modo da lui indicato ;
modo questo di far testamento , che era una conseguenza naturale delle
condizioni economiche e giuridiche, in cui trovavasi la plebe, e che Gaio ci
indicherebbe come affatto primitivo, ed anteriore ancora a quella forma di
testamento, che a noi pervenne sotto la denominazione di testamento per aes et
libram (1 ). Di qui la conseguenza, che fin dagli esordii di Roma dovettero tro
varsi di fronte due forme di testamento ; un testamento cioè, di origine
patrizia , fatto colla formalità di una vera e propria legge, nei comizii
calati delle curie , coll'intervento dei pontefici, diretto a perpetuare la
famiglia ed il suo culto e ad impedire la disper sione dei patrimonii; e
l'altro , di origine plebea , che compievasi colle forme stesse di quel
fedecommesso , che penetrò solo più tardi nel diritto civile romano, il quale
non era che una applicazione della fiducia , e aveva l'unico scopo di porgere
un mezzo al capo di famiglia per disporre delle proprie cose per il tempo , in
cui egli avrebbe cessato di vivere. 393. Fu soltanto allorchè la plebe entro
eziandio a far parte del populus, che potè svolgersi una forma di testamento ,
comune ai due ordini, ed è sopratutto a questo punto, che l'esposizione di Gaio
ci può venire in sussidio per ricostruire la storia primitiva del testa mento
civile romano (2 ). Gaio ci parla di due forme primitive di testamento , cioè:
di un testamento , che compievasi in calatis comitiis, i quali si sarebbero
radunati due volte all'anno per la confezione dei testamenti; e del (1) Gaio,
Comm ., II, 107. Vedi a proposito di questo primitivo testamento della plebe,
che era una applicazione della fiducia e corrispondeva in certo modo a quel
fedecommesso, che fu accolto più tardi nel diritto romano, cid che ho scritto a
n ° 149, pag. 184 e seg . Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd . ( 2 ) GAIO , II, 101
a 108 . 507 testamento in procinctu , che facevasi invece davanti all'esercito
già preparato alla battaglia. Egli anzi sembra compiacersi nel notare, che
queste due forme di testamento corrispondevano a quel carat tere civile e
militare ad un tempo, che era proprio del popolo ro mano: « alterum itaque in
pace et in otio faciebant, alterum in praelium exituri » ( 1); ma intanto non
dice , se i comizii calati, a cui egli accenna, fossero i comizii delle curie o
quelli delle centurie . Sembra tuttavia ovvio l'osservare , che Gaio qui
discorre già delle due forme di testamento , comuni cosi al patriziato che alla
plebe, allorché i medesimi già erano entrati a far parte dello stesso populus,
e che perciò la sua distinzione non si deve riferire al popolo primitivo delle
curie , ma bensì al popolo plebeo-patrizio delle centurie; del quale sopratutto
si poteva dire a ragione, che mentre in pace co stituiva i comizii, in guerra
invece costituiva un esercito . Di qui la conseguenza, che il testamento in
calatis comitiis, di cui discorre Gaio , non è più il testamento proprio delle
genti patrizie , che fa cevasi nei comizii calati delle curie, coll'intervento
dei pontefici: ma bensi un testamento , già comune al patriziato ed alla plebe,
che fa cevasi in quei comizii calati, che noi sappiamo da Aulo Gellio essere
stati eziandio proprii delle centurie (2 ). Furono probabilmente questi comizii
calati delle centurie , che dovevano radunarsi due volte l'anno per la
confezione dei testamenti: mentre i comizii calati delle curie potevano
convocarsi dai pontefici, ogni qualvolta ne occorresse il bi sogno. Siccome poi
in questo tempo il quirite, come tale, appare già prosciolto dai vincoli
dell'organizzazione gentilizia, ed è già libero dispositore delle proprie cose,
anche per atto di morte , come ebbe a dichiararlo espressamente la legge
decemvirale ; così si può in durne, che il popolo delle centurie, in questa
fase del testamento quiritario , più non intervenisse per approvare il medesimo
con una legge, ma soltanto per prestare la propria testimonianza , secondo la (
1) GAIO , II, 101. (2 ) Gellio, XV, 27 , 1 e 2, parlando dei co:nitia calata ,
scrive : « eorum alia esse « curiata , alia centuriata. Curiata per lictorem
curiatim calari, id est convocari ; « centuriata per cornicinem ». Egli dice
poi, che in questi comizii si facevano i testa menti, il che fa supporre che si
facessero tanto nei comizii calati curiati, che nei centuriati. Lo stesso
autore V , 19, 6 , parla un'altra ' volta dei comizii calati, a pro posito
dell'adrogatio, ma qui sembra alludere soltanto ai comizii calati curiati.
Sembra infatti che l'adrogatio, a differenza del testamento, abbia continuato
sempre a farsi davanti alle curie , salvo che la medesima finì per compiersi
davanti ai trenta littori, che la rappresentavano. Cic., Adv. Rutt., II, 12.
Cfr . Cuq, art. cit., p . 539 . 508 formola , che poi ricompare più tardi nel
testamento per aes et libram : « et vos , quirites, testimonium mihi
perhibitote » . Cid è confermato eziandio dalla considerazione, che questi
comizii calati non si sarebbero radunati che due volte l'anno per la confezione
dei testamenti, il che avrebbe reso pressochè impossibile , che ognuno dei
testamenti presentati nei medesimi avesse potuto essere approvato con tutte
quelle formalità di una vera e propria legge , che erano richieste nei comizii
calati delle curie primitive . 394. Di qui deriva, che se questo testamento nei
comizii calati delle centurie imitava ancora nella forma esteriore il
testamento pa trizio, che facevasi nei comizii calati delle curie , nella
sostanza pero già ne differiva grandemente: poichè nel medesimo questo intervento
di tutto il popolo convertivasi in una semplice formalità , in quanto che il
popolo non era più chiamato ad approvare il testamento ,ma sol tanto ad
assistere al medesimo cometestimonio . Si comprende pertanto , che la
consuetudine popolare cercasse di sostituirvi qualche mezzo più semplice di
fare testamento, e che ricorresse percið alla manci patio familiae cum fiducia
, che è appunto la forma ditestamento, che Gaio ci descrive essersi introdotta
posteriormente al testamento in calatis comitiis (1). Questo testamento non era
in sostanza, che il testamento primitivo di origine plebea , salvo che esso era
già sottoposto alla forma quiritaria dell'atto per aes et libram , e ac
compagnato dalla fiducia . Era quindi un testamento , che era facile a celebrarsi,
ma che , al pari della fiducia iure pignoris , aveva dapprima l'inconveniente
di rimettere ogni cosa alla buona fede del familiae emptor, il quale poteva
anche abusare della fiducia , che il testatore aveva in lui riposta . Fu
allora, che i veteres iuris conditores sentirono la necessità, come dice Gaio ,
di ordinare altrimenti il testamento per aes et libram , e modellarono così
quella forma di testamento , che penetrd con questa denominazione nel ius
quiritium o meglio nel ius pro prium civium romanorum , e che fu poi argomento
di uno svolgi mento storico non interrotto fino a Giustiniano. Questo
testamento (1) Fra gli autori, che distinguono la primitiva mancipatio familiae
cum fiducia, che ha quasi del fedecommesso, dal posteriore testamento per aes
et libram , quale è descritto da Gaio , II, 102, è da vedersi il MuIRHEAD, op .
cit., pag. 66 e 167, e sopratutto il Cuq, Op. e loc. cit., pag. 534 e segg., il
quale, dopo aver discorso prima della familiae mancipatio, passa a trattare
separatamente del testamento per aes et libram . 509 pertanto compare nel ius
quiritium molto più tardi, che non il nerum ed il mancipium , e viene ad essere
una artificiosa applica zione dell'atto per aes et libram , nell'intento di
porgere al quirite un mezzo per disporre del suo patrimonio per il tempo , in
cui avrà cessato di vivere. 395. Questo testamento , secondo la definizione di
Gaio e di Ul. piano, componevasi di due parti, cioè della mancipatio familiae e
della nuncupatio. La prima consiste in un atto per aes et libram , compiuto,
come al solito, davanti a non meno di cinque testimoni, cittadini romani, ed al
libripens, in cui si addiviene ad una « ima. ginaria venditio » delle sostanze
del testatore ( familiae). È però a notarsi, che,mentre nella primitiva mancipatio
familiae il negozio seguiva effettivamente fra il testatore e l'erede, di cui
quello era il familiae venditor e questo il familiae emptor ; nel testamento
invece per aes et libram , quale appare modellato in questo secondo stadio , il
familiae emptor non è più il vero erede, ma è piuttosto un depositario e
custode del patrimonio, accid il testatore possa disporne « secundum legem
publicam » (1 ). Cið appare dalla circostanza , che il familiae emptor, dopo
aver finto di comprare il patrimonio e di pagarne il prezzo, se ne dichiara
perd semplice depositario , ricorrendo alla formola seguente : « familia
pecuniaque tua endo mandatelam , custodelamque meam , quo tu iure testamentum
facere possis secundum legem publicam , hoc aere esto mihi empta » (2). ( 1)
Trovo alquanto singolare la interpretazione che il Cuq, art. cit., pag . 565,
verrebbe a dare a queste parole: « secundum legem publicam ». Egli ritiene, che
tutte le parole del testamento dovessero aversi come confermate da quella lex
publica , che era andata in disuso ; mentre invece è evidente, che le parole
della formola : « quo tu iure testamentum facere possis secundum legem publicam
» , mirano evidentemente a porre il familiae venditor in condizione di poter
fare il testamento approvato e riconosciuto dalla legge pubblica . Una prova di
cið l'abbiamo nella circo stanza, che questa stessa espressione « secundum
legem publicam » , compare eziandio nella formola della nexi liberatio, in cui
si dice : « hanc tibi libram primam postre mamque tibi expendo secundum legem
publicam » (Gaio, III, 174 ), ove la medesima non può certo avere la
significazione, che vorrebbe attribuirvi il Cuq. La causa di questa erronea
interpretazione sta in ciò, che il Cuq considera il testamento per aes et
libram , come una modificazione di quello in calatis comitiis, mentre esso ha
un'origine affatto diversa, come ho cercato di dimostrare nel testo . (2) GAIO,
Comm ., II, 104. Ho ricavato questa formola dall'ultima edizione curata dal
MOMMSEN, sull'Apographum Studemundianum , novis curis auctum , Berolini, 1884;
la quale presenta qualche notevole differenza dalle anteriori edizioni fatte
dal Dubois, dall'HUSCHKE e dal MUIRHEAD. 510 – Fin qui pertanto non havvi che
una imaginaria venditio , della quale Gaio dice espressamente, che viene
compiuta soltanto « dicis gratia , propter veteris iuris imitationem » . La
sostanza invece di questa forma di testamento consiste nella nuncupatio
solenne, nella quale il testatore , in presenza dei testimoni, istituisce il
proprio erede, il quale viene cosi già a distinguersi dal familiae emptor, ed
indica eziandio i legati, che saranno poi a carico dell'erede. Questa
nuncupatio dapprima dovette essere compiutamente orale ; ma poscia potè essere
fatta in doppia guisa , in quanto che il testa tore – o dichiarava
espressamente la sua volontà davanti ai testi moni, - o presentava invece ai
medesimi le sue tavole testamen tarie , dichiarando solennemente , che queste
contenevano la sua ultima volontà : « haec ita , ut in his tabulis cerisve
scripta sunt, ita do, ita lego, ita testor : itaque, vos, quirites, testimo
nium mihiperhibitote » (1). Di qui prorenne, che già collo stesso testamento
per aes et libram comincid a delinearsi la distinzione, che acquistò più tardi
grandissima importanza fra il testamento nun cupativo e il testamento scritto .
396. Basta questa semplice descrizione per dimostrare, che il testa mento per
aes et libram è già informato ad un concetto ben diverso da quello, a cui si
ispirava il primitivo testamento delle genti patrizie. Mentre infatti il
testamento primitivo in calatis comitiis mirava a perpetuare il culto domestico
e ad impedire la dispersione dei patri monii: quello invece per aes et libram
tendeva senz'altro a sommi nistrare al quirite un mezzo per disporre liberamente
delle proprie cose. Ciò è dimostrato dalla circostanza indicataci da Cicerone,
che questo testamento deve considerarsi come un'applicazione della di.
sposizione delle XII Tavole : qui nexum faciet mancipiumque, uti lingua
nuncupassit, ita ius esto ; ed è pur confermato dagli antichi giureconsulti, i
quali parlano di questo testamento, come di una va rietà ed applicazione del
nexum , o meglio dell'atto per aes et libram (2 ). Così pure, mentre nel
testamento primitivo si richiedeva ( 1) Gaio , loc. cit. e Ulp., Fragm ., XX, 2
a 10. Quest'ultimo sopratutto distingue nettamente le due parti, di cui
componesi il testamento per aes et libram , allorchè scrive al $ 9 : « In
testamento, quod per aes et libram fit, duae res aguntur, fa miliae mancipatio
et nuncupatio testamenti » ; e dopo viene senz'altro a parlare della
nuncupatio, come di quella , che veramente importa . (2 ) Cic., De Orat., I,
57, § 245. La stessa esposizione di Gaio, II, 102 e 103, dimostra, che il
testamento per aes et libram ebbe origine diversa da quello in - 511 .
l'intervento dei pontefici, perchè in esso trattavasi di provvedere al
mantenimento del culto ; il testamento invece per aes et libram viene ad essere
considerato come una esplicazione del ius commercii, ossia della facoltà del
quirite di disporre liberamente delle proprie cose, e quindi si attua mediante
un atto di carattere esclusivamente mercantile , quale era l'atto per aes et
libram , lasciando poi al ius pontificium di provvedere, quanto all'adempimento
dei sacra (1). Mentre infine nel testamento primitivo la volontà del testatore
era sottoposta all'approvazione del popolo ; nel testamento invece per aes et
libram , la volontà del quirite appare indipendente e sovrana, e non è soggetta
a qualsiasi limitazione. Dopo ciò credo di poter conchiudere con fondamento ,
che anche il testamento per aes et libram , quale compare nel ius quiritium ,
deve già essere considerato come il frutto di una vera e propria elaborazione
giuridica, e comeuna conseguenza logica di quel potere illimitato e senza
confine, che appartiene al quirite di disporre delle proprie cose, non solo per
atto tra vivi , ma anche per causa di morte . Non potrei quindi ammettere col
Sumner Maine, che questa forma di testamento importasse dapprima uno spoglio
immediato ed irrevocabile del testatore a favore del proprio erede : tanto più
, che questa congettura è in diretta opposizione con tutte le notizie, che a
noi pervennero del testamento romano , il quale appare essere stato fin
dapprincipio una attestazione solenne « de eo quod quis post mortem tuam fieri
vult » (2 ). calatis comitiis, poichè egli non dice già , che il medesimo sia
stato surrogato a quello in calatis comitiis, ma dice invece : « accessit
deinde tertium genus testamenti » . (1) Cic ., De leg., II , 19 , 47. Cfr. in
proposito il Cuq, art. cit., pag . 555 , il quale pure osserva, che la
mancipatio familiae, e quindi anche il testamento per aes et libram più non
aveva carattere religioso, pag. 553, nota 2 . (2) È noto come il SUMNER Maine,
Ancien droit, pag. 191, abbia coll'autorità del suo nome resa accetta a molti
l'opinione, che il testamento per aes et libram fosse di origine plebea , e che
esso importasse negli inizii una spogliazione immediata ed irre vocabile del
testatore a favore dei proprii eredi. Tale opinione non può essere ac colta ;
poichè il testamento per aes et libram , anzichè essere proprio della plebe, fu
invece una creazione del ius quiritium , e quindi, al pari di ogni altro
negozio qui ritario, rivestà la forma dell'atto per aes et libram . Il motivo
poi, per cui esso ri vestì la forma di una mancipatio non sta in ciò, che esso
siasi veramente riguar dato come una vendita immediata, ma bensì nella
circostanza, che esso imponeva all'erede una quantità di obbligazioni, e fra le
altre anche quella di provvedere alla continuazione dei sacra e al pagamento
dei legati. A questo motivo si aggiunge una causa storica , ed è che il
testamento per aes et libram era un rimaneggia mento della primitiva mancipatio
familiae cum fiducia, la quale, essendo un atto di carattere puramente
fiduciario , figurava come un vero atto fra vivi. 512 397. Una volta poi che
questo testamento entrò a far parte del diritto quiritario , esso ebbe a
ricevere uno svolgimento storico e Ingico ad un tempo, non dissimile da quello
delle altre istituzioni quiritarie , senza che mai si perdessero i caratteri
essenziali, con cui era penetrato nel diritto civile di Roma. Così, ad esempio
, il testamento era stato accolto nel diritto quiri tario sotto l'apparenza di
un negozio, che seguiva fra il testatore, qual familiae venditor, e l'erede,
quale familiae emptor: or bene ancora all'epoca di Giustiniano esso conserva
questo carattere, come lo provano l'unità di contesto , che è richiesta nel
testamento , e la disposizione per cui quelli, che dipendono dall'erede, non
possono servire di testimoni nel medesimo ( 1). Cosi pure il testamento, nel
suo concetto primitivo , aveva per iscopo di perpetuare nell'erede la
personalità del testatore, donde la conseguenza, che l'istituzione dell'erede
venne ad essere considerata quale « caput et fundamen tum testamenti» ; il qual
concetto continua pure a mantenersi fino alla più tarda giurisprudenza .
Parimenti il testamento, nel suo primo presentarsi, era stato un negozio di
carattere nuncupativo, uno di quei negozi cioè, in cui la parola del testatore
costituiva legge , e noi troviamo, che in tutto il suo svolgimento posteriore
esso continua ad essere uno degli atti solenni, in cui giunge fino agli ultimi
confini l'osservanza di un linguaggio esatto e preciso ; come lo provano le
espressioni solenni e precise, con cui doveva farsi l'istituzione di erede, la
diseredazione, l'istituzione di erede cum cretione, e simili. Sopratutto poi
questo carattere nuncupativo del testamento si fece palese nel tema dei legati,
in quanto che nel diritto civile di Roma le varie specie di legato vennero ad
essere determinate dalle diverse espressioni, adoperate dal testatore (2 ).
Infine anche quel principio , secondo cui la volontà del testatore costituiva
legge, continud a mantenersi anche più tardi; dapprima infatti si cercò con
mezzi in diretti, quali sarebbero l'obbligo della diseredazione e la querela di
(1) Questo carattere del primitivo testamento per aes et libram , per cui esso
si presenta come un negozio fra il familiae emptor ed il familiae venditor, è
chiara . mente attestato da Gaio , Comm ., II, 105 a 107 e da Ulp., Fragm .,
XX, 3 a 6 . Questo carattere poi non si perdette mai completamente, ed è ancora
ricordato da GIUSTINIANO , Instit., II, 10, $ 10. È nota la distinzione fra i
legati per vindicationem , per damnationem , sinendi modo, e per praeceptionem
: in essi la volontà del testatore appare come una vera legge, e viene ad
essere analizzata e studiata come la parola stessa del legislatore. V. Gaio, II,
192 e 222; Ulp., Fragm ., XXIV. 513 inofficioso testamento, di impedire che il
testatore potesse abusare della libertà , a lui consentita dal primitivo
diritto , e fu solo con Giustiniano che si introdusse una limitazione diretta
all'arbitrio del testatore, attribuendo a certe persone il diritto ad una
porzione legittima (1). 398. Intanto, anche nella materia testamentaria , è
facile scorgere come accanto al diritto già formato siavi sempre una parte ,
che continua ad essere in via di formazione. Quindi anche qui, accanto al
testamento civile, si esplica un te stamento pretorio ; ma anche questo appare
modellato a somiglianza del primo. Per verità nel testamento pretorio più non
comparisce l'atto per aes et libram , ma debbono però intervenire due nuovi testimoni,
i quali si ritengono corrispondere al libripens ed al fa miliae emptor: donde
la necessità di sette testimoni, che dånno au tenticità al testamento,
apponendovi col testatore il proprio sigillo . Allorchè poi il testamento
pretorio è riuscito anch'esso ad avere una efficacia giuridica, sopravvengono
anche in questa parte le co stituzioni imperiali, le quali tendono a fondere
insieme le due forme di testamento, finchè si giunge al testamento
giustinianeo, il quale è ancor esso un coordinamento delle forme anteriori.
Esso infatti , secondo l'attestazione di Giustiniano, viene ad essere
costituito da un triplice elemento, cioè: dall'unità di contesto e dalla
presenza dei testimoni, che proviene dal diritto civile : dal numero di sette
testimoni e dall'apposizione del loro sigillo , che è di origine pre toria : e
infine dalla sottoscrizione del testatore e dei testimonii, che deriva dalle
costituzioni imperiali. Ciò però non toglie , che anche Giustiniano , per
imitazione dell'antico , continui a ritenere il testa mento come un negozio che
interviene fra il testatore e l'erede, nel che abbiamo una prova della logica
tenace, che è propria della giu risprudenza romana, e del metodo da essa
costantemente seguito di venire coordinando nel medesimo istituto gli elementi,
che si ven nero successivamente formando (2 ). (1) L'istituzione della
legittima ebbe presso i Romani una lunga preparazione prima nello stesso
diritto civile , poi nel diritto onorario, la quale non terminò che collo
stesso Giustiniano. A mio avviso, il motivo degli espedienti, a cui si appiglid
il diritto , prima di venire alla fissazione di una legittima, deve appunto
essere riposto in cid, che non volevasi porre una limitazione diretta alla
volontà del testatore. Quanto alla storia della legittima, è a consultarsi il
Boissonade, De la réserve héréditaire. Chap. IV, Paris , 1888, pag. 61–160. (2
) Justin ., Instit., II, 10, $ S 3 e 10 . G. CARLE, Le origini del diritto di
Roma . 33 - 514 399. A compimento di questa materia non saranno inopportune le
seguenti osservazioni intorno allo svolgimento storico del testamento : 1 ° Il
testamento in Roma è un atto , in cui il quirite si presenta col suo doppio
carattere di uomo di pace e di guerra ad un tempo, come lo dimostra il dualismo
fra il testamento civile ed il testamento militare, il quale, dopo essere
cominciato colla distinzione fra il te stamento in calatis comitiis ed in
procinctu , non solo si mantiene, ma si viene accentuando sempre più fino
all'epoca diGiustiniano ; 2 ° Nella storia del testamento romano si presenta
questo fatto singolare, che si vede ricomparire più tardi sotto nome di fidecom
messo, una forma di testamento analoga a quel testamento fiduciario , che era
stato il testamento primitivo in uso presso la plebe. Cid significa, che,
accanto al testamento quiritario , dovette mantenersi nelle consuetudini la
primitiva forma di testamento , la quale non riesci ad ottenere il proprio
riconoscimento , che all'epoca di Au gusto. Questi poi, accordando efficacia al
fidecommesso, fini per ce dere alla forza della pubblica opinione , e alla
nécessità di ovviare agli abusi, a cui dava luogo l'inefficacia giuridica di un
testamento , in cui tutto dipendeva dalla buona fede di colui, a cui erasi affi
dato il testatore (1). Noi abbiamo così una prova, che alcune delle
istituzioni, che penetrarono più tardi nel diritto quiritario, come proprie del
diritto delle genti, già preesistevano nella comunanza plebea, salvo che non
erano riuscite a penetrare in quella rigida selezione, mediante cui erasi
formato il primitivo ius quiritium . Un altro carattere di questo svolgimento
storico consisterebbe in cid , che nel diritto civile romano non riescirono mai
a mescolarsi insieme la successione testamentaria e la successione legittima ;
ma questa singolarità potrà essere più facilmente spiegata nel capitolo
seguente, dopo aver discorso di quel ius connubii, di cui era una conseguenza
la successione legittima, stata accolta dal diritto civile romano (2 ). (1) Che
il fedecommesso sia sempre vissuto, se non nel diritto, almeno nelle con
suetudini del popolo romano, lo dimostra il fatto, che Augusto si indusse a
dargli efficacia giuridica per l'abuso , che taluni avevano fatto della fiducia
in essi riposta . Appena accolto poi il fedecommesso apparve così popolare e
trovò così favorevole ac coglienza, che si dovette ben presto istituire un
pretore apposito ( praetor fideicom missarius). V. Justin ., Instit., II, 23 ,
ss 1 e 2. (2 ) Rimando l'indagine intorno alle cagioni storiche della massima «
nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest , al seguente
capitolo V , $ 5 ; perchè la questione non potrebbe essere risolta senza aver
prima cercato i rapporti, in cui stavano presso i romani la successione
testamentaria e la legittima. Il ius connubii nel primitivo ius quiritium e
l'ordinamento giuridico della famiglia romana . $ 1. - Sguardo generale
all'argomento . 400. Più volte fu osservato dagli autori, che la famiglia
romana nella realtà dei fatti si presenta con caratteri molto diversi da quelli,
che si potrebbero argomentare dall'ordinamento giuridico di essa . Mentre,
sotto il punto di vista giuridico, la famiglia costituisce come
un'aggregazione, retta dispoticamente dal proprio capo, nel quale si vengono ad
unificare le persone e le cose, che entrano a costituirla ; nella realtà invece
essa då origine ad una comunione di tutte le utilità domestiche, in cui trovano
campo a svolgersi la pietà , l'os sequio e la reciproca confidenza. Mentre,
giuridicamente parlando, havvi un unico padrone nella casa : « pater familias
in domu do minium habet » ; nella realtà invece anche la moglie e i figli ap
pariscono comproprietarii del patrimonio paterno : « vivo quoque parente ,
quodammodo condomini existimantur » . Mentre infine, in base al diritto, il padre
ha perfino il ius vitae ac necis sulle persone tutte, che da lui dipendono, nel
costume invece la famiglia è sopratutto governata dal sentimento profondo dei
doveri famigliari, dalla religione, dalla morale e dal civile costume (1 ). Di
fronte ad una opposizione di questa natura fra la famiglia quale appare nel
diritto , e quale si presenta nel fatto, non è certo (1) Ho già accennato a
questo contrasto , fra la configurazione giuridica della fa miglia e la realtà
dei fatti, al nº 94, pag. 119. Del resto gli autori sembrano essere concordi in
rilevare questa speciale caratteristica della famiglia romana. Basterà citare
fra gli altri il Savigny, Sistema del diritto romano attuale, I, &$ 54 e 55
; il JHERING , L'esprit du droit romain , trad . Meulenaere, tomo II, SS 36 e
37 , e specialmente da pag. 190 a 214 ; il Gide , Étude sur la condition privée
de la femme, 2a ed., par Esmein, Paris 1885 , cap . IV e V ; il Voigt, XII
Tafeln , II, $ 92, pag. 241 a 256 ; il MUIRHEAD, Histor, introd ., pag. 24 a 34
; il Brixi, Matrimonio e di vorzio , Bologna, 1886 , parte 1“, passim , e
specialmente ai SS 21 e 22 , pag . 87 a 110. Tra le opere poi, che si occupano
della famiglia romana in genere, ricorderò lo SCHUPPER , La famiglia secondo il
diritto romano , vol. 1°, Padova 1876 ; e il CE NERI, Lezioni su temi del ius
familiae, Bologna, 1881. ; 516 il caso di ritenere, che i Romani ci abbiano
trasmesso nel proprio diritto una immagine non conforme alla realtà dei fatti ;
ma piut tosto deve credersi, che essi, anche in questa parte del proprio di
ritto, abbiano cercato di isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi
affini, con cui trovavasi intrecciato, e siano cosi riusciti ad una costruzione
giuridica , che fini per attribuire alla famiglia romana una rigidezza ben maggiore
di quella , che esisteva real mente nel costume. Quindi il vero problema, che
presentasi al ri guardo, sta nel ricostruire il processo storico e logico ad un
tempo, che può aver condotto i romani ad accogliere un ordinamento giu ridico
della famiglia, il quale, a giudizio degli stessi giureconsulti, si
differenziava grandemente da quello di tutti gli altri popoli. 401. A questo
proposito vuolsi anzitutto premettere, che l'ordi namento famigliare dovette
certamente essere la parte del diritto primitivo , in cui trovavansi a maggior
distanza le istituzioni già elaborate , proprie delle genti patrizie , e le
istituzioni appena ab bozzate , proprie della plebe. Ciò è provato da quel
divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, che si protrasse fin dopo la
legislazione decemvirale ; dalle lotte accanite, a cui diede origine
l'abolizione di questo divieto per opera della legge Canuleia ; ed anche dal
disprezzo ostentato dai patrizii per le unioni della plebe, come pure dal culto
di una pudicizia propria delle matrone patrizie, a cui si contrappose più tardi
una pudicizia plebea. Così stando le cose , era anche naturale, che in questa
parte le istituzioni dei due ordini dovessero riuscire più difficilmente a
fondersi e a mescolarsi fra di loro. Da una parte eravi la famiglia patriarcale
delle genti patrizie, la quale , unificata sotto la patria potestà del padre, e
stretta insieme dal vincolo dell'agnazione, era sopratutto intesa a perpetuare
la stirpe ed il suo culto, costituiva una vera corporazione religiosa , e
conduceva alla comunione delle cose divine ed umane ; mentre dall'altra eravi
la famiglia della plebe, la quale, costituita dall'unione consensuale di un
uomo e di una donna , fatta palese dalla loro coabitazione, unita dai vincoli
della affinità e della cognazione, aveva piuttosto per iscopo la procreazione
della prole, e di soppor tare insieme i pesi del matrimonio (1) . (1) Quanto
all'organizzazione domestica delle genti patrizie, vedi libro I, cap. 3', § 2º
, pag. 28 a 34 ; quanto a quella della plebe, lo stesso lib . I, cap . 9 ,
pagina 188 e segg. - 517 Dei due ordinamenti però, il più forte , il più
elaborato , il più coerente in tutte le sue parti , era certamente quello delle
genti patrizie ; quindi non è meraviglia, se essé in questa parte siansi ri
fiutate a qualsiasi transazione ed accordo, e siano così riuscite a dare
un'assoluta prevalenza alle proprie istituzioni domestiche. La plebe quindi,
quanto all'ordinamento della famiglia, dovette cercare in qualche modo di
imitare l'organizzazione delle famiglie patrizie; il che dovette riuscire più
agevole, allorchè la plebe primitiva venne ad essere accresciuta da un largo
contingente di famiglie di origine latina, la cui organizzazione doveva già
essere analoga a quella propria delle genti patrizie . 402. Ne consegui
pertanto , che l'ordinamento domestico , adottato dalla comunanza quiritaria ,
fu quello della famiglia patriarcale propria delle genti patrizie , e che anche
in questa parte i veteres iuris conditores seguirono quel medesimo processo, a
cui si erano attenuti nelle altre parti del diritto quiritario. Essi cioè
trapianta rono nella città quell'organizzazione domestica , che già preesisteva
nel periodo gentilizio ; la isolarono cosi da quell'ambiente patriar cale , in
cui erasi formata , il quale serviva a temperarne la rigi dezza ; la
riguardarono come organizzazione tipica della famiglia quiritaria e presero a
svolgerla logicamente in tutte le sue parti. Siccome pertanto i concetti
informatori della famiglia , nel periodo gentilizio, si riducevano
essenzialmente all'unificazione potente della famiglia nella persona del
proprio capo, ed alla tendenza della me desima a perpetuarsi e a conservare il
proprio patrimonio ; cosi questi concetti vennero in certo modo a costituire il
capo saldo, da cui prese le mosse l'elaborazione del diritto quiritario, e
spinti a tutte le conseguenze , di cui potevano essere capaci, condussero logi
camente a quell'ordinamento della famiglia , che ci fu trasmesso dal diritto
civile romano. Fu in questa guisa , che ogni famiglia , nel diritto primitivo
di Roma, fini per costituire un gruppo di persone e di cose, ordinato sotto il
potere del proprio capo , e disgiunto per modo da ogni altro gruppo, che una
persona, uscendo da una famiglia , per entrare in un'altra , cessava di avere
qualsiasi rapporto giuridico colla prima. Così pure la forma tipica del
matrimonio quiritario dovette essere dapprima il solo matrimonio cum manu ;
perchè solo la conventio in manu, collocando la moglie in posizione di figlia ,
poteva con durre alla unificazione della famiglia nella persona del proprio
capo. 518 Accolta poi questa unificazione giuridica della famiglia nella per
sona del padre, ne derivava eziandio che il vincolo , il quale univa imembri
della famiglia , non poteva più essere quello della cogna zione,ma doveva
essere quello dell'agnazione; il quale aveva appunto la sua radice nel potere
spettante al capo di famiglia, ed era cosi una conseguenza diretta della
preponderanza dell'elemento paterno nell'organizzazione della famiglia . Se poi
tutti i membri, che costi tuiscono il gruppo, sotto il punto di vista giuridico
, appariscono unificati nel proprio capo , viene pure a conseguirne logicamente
, che tutto quello , che essi facciano od acquistino, debba in diritto ritenersi
fatto od acquistato per il medesimo. Cid infine ci spiega eziandio, come, nel
diritto primitivo romano, mentre i figli possono rappresentare il padre, ed i
servi il padrone, questa specie di rap presentazione non sia invece ammessa,
quando trattasi di persone , che appartengano ad un gruppo diverso . Così pure
sarà una con seguenza logica di questo ordinamento giuridico della famiglia,
che la persona, la quale, per adozione o per matrimonio , venga ad uscire da un
gruppo per entrare in un altro , sotto il punto di vista giuri dico , cessi di
esistere per la famiglia, da cui esce, e pigli nella fa miglia , in cui entra ,
quel posto , che le sarebbe spettato , quando fosse nata nel medesimo (1 ).
403. È poi degno di nota, che quest'organizzazione giuridica della famiglia
quiritaria , la cui elaborazione già erasi cominciata nella città
esclusivamente patrizia , ebbe occasione di svolgersi, anche più rigidamente ,
mediante l'istituzione del censo serviano. Con questo infatti la famiglia venne
ad essere staccata affatto da quel l'ambiente patriarcale, che in parte aveva
ancora potuto mantenersi nel periodo della città patrizia, in quanto che ogni
cittadino venne ad essere censito, come capo di famiglia, e dovette come tale
denun ziare le persone e le cose, che da lui dipendevano, e ne costituivano in
certo modo il mancipium . Fu quindi sopratutto sotto l'influenza del censo
serviano , che i diritti del padre sulla moglie, sui figli , sui servi vennero
in certo modo ad essere modellati sul concetto rozzo, ma preciso del mio e del
tuo, il quale aveva anche il vantaggio di essere, più di qualsiasi altro ,
suscettivo di una vera e propria ela (1) Il concetto di quest'unità potente
della famiglia è uno dei più radicati nella coscienza dei primitivi romani. Si
può averne una prova nei passi di antichi autori, citati dal Voigt, Op. cit.,
II, $ 72, pag. 6 e segg ., a proposito della domus fami liaque, considerata
come un'unità organica di persone e di cose ad un tempo. -- -- 519 berazione
giuridica. L'epoca serviana pertanto dovette essere il mo mento storico , in
cui la famiglia quiritaria cominciò ad essere mo dellata esclusivamente sul
concetto di proprietà , cosicchè le forme dei negozii, proprie del commercium ,
poterono essere applicate eziandio per acquistare i diritti derivanti dal
connubium . Per tal modo la logica del diritto quiritario potè essere applicata
in tutto il suo rigore anche all'ordinamento giuridico della famiglia , e venne
così ad uscirne quella struttura giuridica della medesima, in cui tutto sembra
ridursi ad una questione di mio e di tuo (1 ). Quando poi si promulgò la
legislazione decemvirale, questa con tinud l'opera già iniziata di estendere
anche alla plebe l'ordina mento giuridico della famiglia patriarcale . Essa
infatti riconobbe la coabitazione, non interrotta per un anno, come un mezzo,
che poteva servire alla plebe per attribuire alle proprie unioni il carattere
qui ritario, e rese comune eziandio alla plebe quel sistema di succes sione
legittima, che era proprio dell'organizzazione gentilizia. Infine allorchè la
legge Canuleia tolse il divieto del connubio fra i due or dini, tutto
l'ordinamento giuridico della famiglia patriarcale venne ad essere accolto nel
ius proprium civium romanorum , salve al cune poche modificazioni, che erano imposte
dalle condizioni, in cui si trovavano le infime classi della plebe (2). Fu da
questo momento, che la famiglia quiritaria venne a costi tuire una costruzione
giuridica , organica e coerente in tutte le sue parti, i cui caratteri non
potrebbero essere compresi, quando si di menticasse , che la medesima è un
rudere dell'organizzazione genti lizia, trapiantato nella città , e svolto
logicamente in tutte le con seguenze, di cui poteva essere capace. È certo che
un processo di questa natura doveva finire per at tribuire alla famiglia
quiritaria un carattere rigido e pressochè inumano, perchè escludeva
dall'ordinamento giuridico di essa ogni traccia di sentimento e di affetto ; ma
il medesimo ebbe anche il (1) Come il censo serviano abbia contribuito ad isolare
la famiglia dall'ambiente gentilizio, e a far considerare ciascuna famiglia ,
come un gruppo separato e distinto da tutte le altre , fu dimostrato nel libro
III , cap. 3 °, e in questo stesso libro, cap. 1 ° e 2°, § 1º. (2) Così, ad
esempio, la legge decemvirale, pur cercando di estendere anche alla plebe il
matrimonio cum manu , fu tuttavia nella necessità di aprire l'adito fin
d'allora al matrimonio sine manu , accordando alla donna di sottrarsi al
vincolo della manus, mediante l'usurpatio trinoctii, ossia l'interruzione della
coabitazione per tre notti di seguito . 520 vantaggio di isolare ciò , che
havvi di giuridico nella famiglia , da ogni elemento estraneo , e di sottoporre
così all'elaborazione giari dica una istituzione, in cui le considerazioni religiose
e morali avrebbero ad ogni istante impedito l'applicazionedella logica propria
del diritto (iuris ratio ). Si aggiunga, che questa apparenza , pressochè
inumana, non produsse in realtà alcun inconveniente , poichè essa punto non
impedi, che il costume temperasse il rigore della costru zione giuridica ; che
il iudicium de moribus, dalle XII Tavole affi dato al pretore, impedisse al
padre la dilapidazione del patrimonio famigliare ; che il censore, vindice
della morale, punisse in effetto il padre, che abusasse de' proprii poteri; e
che infine il diritto stesso intervenisse a moderare i poteri spettanti al capo
di famiglia, al lorchè, per il corrompersi dei costumi, cominciò a sentirsi il
pericolo, che egli potesse abusare dei medesimi. 404. Intanto una importante
conseguenza di questo svolgimento storico fu anche questa , che, siccome
nell'organizzazione gentilizia tutto l'ordinamento famigliare metteva capo al
concetto del con nubium , cosi anche tutto l'ordinamento giuridico della
famiglia qui ritaria sembra essere derivato da quest'unico concetto . Quel
connubium infatti , che nei rapporti fra le varie genti aveva significato
quella facoltà di imparentarsi , che di regola era circo scritta ai membri
delle genti, che appartenevano allo stesso nomen , trasportato nel diritto
quiritario , venne a trasformarsi nel ius con nubii ex iure quiritium , ossia
nel diritto di addivenire alle iustae nuptiae, riconosciute dai quiriti, e di
dare così origine ad una fa miglia , organizzata ex iure quiritium , con tutte
le conseguenze, che potevano derivarne (1). Quindi è, che anche la famiglia ex
iure (1) Io parlo ancora qui di una famiglia ex iure quiritium : ma, a scanso
di equi voci, devo far notare, che siccome l'organizzazione della famiglia
romana non venne ad essere comune ai due ordini del patriziato e della plebe,
che dopo la legislazione decemvirale e la legge Canaleia, così l'espressione,
solitamente adoperata da Gaio e da Ulpiano relativamente al ius familiae, non è
più quella di ius quiritium ,ma bensì quella di ius proprium civium romanorum ;
poichè in quell'epoca il concetto del quirite già si era allargato in quello
del civis romanus, e per conseguenza il ius quiritium si era in certo modo
travasato nel ius proprium civium romanorum . Di qui consegue che mentre, per
quello che si riferisce al ius commercü , i giurecon sulti parlano, ancora
sempre del ius quiritium (Gaio , II , 40), trattandosi invece della manus (Id
., I, 108 ) e della patria potestas (ID., I, 55 ), parlano invece di un ius
proprium civium romanorum . 521 – quiritium , al pari del dominium ex iure
quiritium , venne a costituire una famiglia privilegiata, che può giustamente
chiamarsi propria civium romanorum , in quanto essa ha certi caratteri, che la
contraddistinguono da ogni altra : quali sono la manus delmarito sulla moglie,
la patria potestas del padre sui figli, l'agnazione, che stringe i varii membri
di essa e che viene a costituire il fonda mento della tutela e della
successione legittima. Del resto il concetto , che tutti i diritti di famiglia
discendono in sostanza dal connubium , ha eziandio un fondamento nella realtà ;
perchè è col connubio che viene a costituirsi una nuova famiglia , la quale poi
si esplica nella figliuolanza : il qual concetto, trovasi mi rabilmente espresso
da Cicerone , allorchè scrive : « prima societas in coniugio, proxima in
liberis ; deinde una domus, communia omnia » (1). Diqui derivò la conseguenza ,
che la famiglia quiritaria, pur essendo il frutto di una lunga e lenta
elaborazione giuridica , fini in sostanza per modellarsi sulla realtà dei
fatti, e per cogliere, per cosi esprimerci , l'essenza giuridica di essi. Essa
quindi costi tuisce un tutto organico e coerente in tutte le sue parti, il cui
svol. gimento può appunto essere studiato, nei tre momenti essenziali, per cui
passa l'organismo famigliare, cioè : lº nella sua origine, ossia nella iustae
nuptiae e negli effetti giuridici che derivano da esse ; 2 ° nel suo
svolgimento , ossia nei rapporti fra il capo di fami glia e le persone che ne
dipendono ; 3º e da ultimo nel suo disciogliersi per la morte del proprio capo
, scioglimento che dà occasione alla successione ed alla tutela legittima,
fondate sul vincolo dell’agnazione. 405. Siccome poi in questa parte il diritto
delle genti patrizie riuscì a penetrare, pressochè intatto nel diritto civile
romano, e ad imporre a tutti i cittadini una organizzazione domestica , che era
propria soltanto di una minoranza , e che per giunta era una so pravvivenza di
un periodo anteriore di convivenza sociale ; cosi, in tema di diritto
famigliare, venne a farsi manifesto,meglio che altrove, il conflitto fra le
istituzioni, che riuscirono a penetrare nel diritto quiritario , e quelle
invece, che continuarono a vivere nel costume. Questo conflitto , che può
scorgersi in ogni parte del diritto fami gliare, è sopratutto evidente nella
lotta fra il matrimonio cum manu ( 1) Cic., De officiis, I, 17, 54. 522 e
quello sine manu ; in quella fra l'agnazione e la cognazione ; e in quella fra
la successione e tutela legittima e la successione e tutela testamentaria ; e
più tardi anche nella lotta fra l'hereditas e la bonorum possessio . Sono
queste lotte , che danno interesse allo svolgimento storico delle istituzioni
famigliari, spiegano le modifica zioni lente e graduate che si introdussero
nelle medesime, e dimo strano come anche in questa parte, alla parte del
diritto già formato e consolidato , se ne contrapponga costantemente un'altra ,
che tro vasi in via di formazione, e che tenta di temperare il rigore delle
primitive istituzioni quiritarie . § 2. – Le iustae nuptiae e la storia
primitiva del matrimonio quiritario. 406. Anche nella parte, che si riferisce
al matrimonio romano, gli ultimi studii conducono al risultato , che il
medesimo, al pari della proprietà e del negozio giuridico , dovette
incominciare da un concetto tipico , che è quello del matrimonio cum manu . Non
è già che in Roma primitiva non potessero esistere altre forme più umili di
matrimonio, sopratutto nelle costumanze della plebe; ma il ius quiritium non si
curò dapprima delle medesime, e non riconobbe gli effetti quiritarii, che al
matrimonio cum manu ( 1). Che anzi vi sono forti indizii per supporre, che
l'unica forma solenne, per contrarre il matrimonio quiritario , stata
riconosciuta finchè duro la città esclusivamente patrizia , fu quella
accompagnata dalla cerimonia re ligiosa della confarreatio , la quale importava
fra i coniugi la comunione delle cose divine ed umane. Cid sarebbe in parte (1)
Questa è la conseguenza , a cui giunse fra gli altri l'Esmein, nel suo scritto
: La manus, la paternité et le divorce dans l'ancien droit romain , nei «
Mélanges d'histoire du droit » , Paris 1886 , pag . 6. Una prova poi di
quest'antico diritto l'abbiamo in questo, che la moglie, in questo primo
periodo, chiamavasi materfami lias, e tale nell'antico diritto era soltanto la
moglie , quae in manu 'convenerat. Sono testuali in proposito le affermazioni
di CICERONE , Top . 3 , il quale scrive : « genus est enim wor ; eius duae
formae : una matrumfamilias, earum quae in manum convenerunt, altera earum ,
quae tantummodo uxores habentur » . La cosa poi è confermata da Gellio, XVIII,
6 , 9 , ove dice : « matremfamilias appellatam eam solam , quae in maritimanu
mancipioque erat » , e da Nonio MARCELLO nel passo riportato dal BRUNS, Fontes
, pag. 390. Sopratutto è degno di nota , che l'espres sione di materfamilias è
pur quella adoperata nella formola dell'adrogatio, conser vataci dallo stesso
Gellio , V , 19, 9. Cfr. in proposito KARLOWA, Formen den rö mischen Ehe und
manus, pag . 71, e il Brini, Op. cit., pag . 37. 523 comprovato dalla
circostanza , che le leggi regie, ogniqualvolta ac cennano al matrimonio , si
riferiscono in modo espresso al matri monio per confarreationem . Così, per
esempio , Dionisio attribuisce a Romolo di aver richiamato alla pudicizia le
donne romane, rico noscendo questa sola forma di matrimonio , e parla anche di
una legge attribuita a Numa, con cui sarebbesi stabilito , che il figlio, il
quale fosse addivenuto alle nozze confarreate col consenso del ge nitore, non
potesse più essere venduto dal medesimo ( 1). Tutto ciò significa, che le genti
patrizie , fondatrici della città , presero senz'altro le mosse da una forma di
matrimonio, che pree • sisteva nel periodo gentilizio , e che il loro matrimonio
continud nella città a celebrarsi con una certa solennità religiosa e
patriarcale ; come lo dimostrano l'intervento del pontefice e del flamine di
Giove, la cerimonia simbolica per cui i coniugi gustano insieme il pane di
farro , ed anche la presenza dei dieci testimonii, in cui si vollero ravvisare
i rappresentanti delle curie , in cui dividevasi la tribù, a cui appartenevano
gli sposi. Non pud poi esservi dubbio intorno al l'altissimo concetto, che
queste genti patrizie avevano del matrimonio, il quale, oltre all'essere
strettamente monogamo, importava l'unione perpetua de' coniugi, e la comunione
fra essi delle cose divine ed umane (divini et humani iuris comunicatio). Che
anzi, a questo proposito , sembra pure essere probabile , che questa forma
primitiva di matrimonio non potesse dapprima dar luogo al divortium , ma
soltanto al repudium , il quale doveva essere accompagnato dalla cerimonia
religiosa della diffarreatio, e poteva solo aver luogo nei casi, che erano
determinati dal costume e dalla legge (2). Cosi pure è a questo primitivo
concetto del matrimonio presso le genti pa trizie, che deve rannodarsi quel
disprezzo per la donna che passi a seconde nozze, di cui trovansi ancora le
traccie nel diritto poste riore di Roma (3 ). Ad ogni modo egli è certo, che
questa forma di matrimonio , in (1) Dion ., II, 25 e 27. V. sopra lib. II, nº
268 , pag . 329 e seg . ( 2) Cid sarebbe attestato da PLUTARCO, nella Vita di
Romolo, 22, in un passo, che è riportato dal Bruns, Fontes, pag. 6. Una prova
poi, che il matrimonio per confar reationem doveva durare tutta la vita, si
rinvien lle attestazioni di Gellio , X , 15 , 23, e di Festo , vº Flammeo,
dalle quali risulta , che alla moglie del flamine di Giove, le cui nuptiae
farreatae erano un ricordo del matrimonio primitivo, non era consentito il
divorzio . Cfr. Esmein , Op. cit., pag. 17. (3) È a consultarsi in proposito il
dotto lavoro del DELVECCHIO, Le seconde noeze del coniuge superstite , Firenze
1885 , pag. 12 a 15 . 524 cui apparisce quel carattere eminentemente religioso
, che è proprio delle genti patrizie, non poteva appartenere alla plebe. Per
questa il matrimonio dovette avere più un'esistenza di fatto, che una con.
sacrazione di diritto , e consistere in una unione fondata sul reci proco
consenso , fatta manifesta mediante la coabitazione dei coniugi, piuttosto che
con cerimonie di carattere giuridico e religioso ad un tempo . 407. Era
frammezzo a queste due istituzioni, di carattere compiu tamente diverso , di
cui una era forse importata dall'antico Oriente , mentre l'altra si ispirava
alle tendenze spontanee dell'umana natura , che dovette formarsi un diritto
comune alle due classi. Questo fu il problema, che dovette risolvere la
legislazione decemvirale , e la cui difficoltà era tanto più grande, in quanto
è probabile, che le classi più infime della plebe stentassero a comprendere un
matri monio , come quello cum manu, che costituiva la moglie in condi zione di
figlia del proprio marito. Questo potere del marito, il quale , corretto dal
patriarcale costume, conduceva all'unificazione della fa miglia patrizia,
poteva invece cambiarsi in un dispotismo pericoloso , allorchè fosse esteso a
classi sociali, che non vi fossero preparate da una lunga educazione civile . È
questa speciale condizione di cose, che spiega i singolari tem peramenti, che a
questo proposito furono adottati dalla legislazione decemvirale. In questa
infatti i decemviri, mentre da una parte si studiano di fornire alla plebe un
facile mezzo per addivenire allo acquisto della manus, e di dar cosi carattere
giuridico al proprio matrimonio , collo stabilire che basti perciò la
coabitazione di un anno (usus), dall'altra si trovano nella necessità di aprire
l'adito ad un matrimonio sine manu , accordando alla donna il mezzo di
sottrarsi alla manus, coll'interrompere la coabitazione per tre notti di
seguito (trinoctium ) (1). 408. Colla legislazione decemvirale non sembra
essersi andato più oltre nella elaborazione di un diritto comune ai due ordini;
poiché (1) In base all'attestazione di Gaio, I, 111, l'usus, qual mezzo di
acquisto della manus, non fu che un'applicazione della teoria dell'usucapione:
la donna poi , che avesse voluto sottrarvisi , doveva ogni anno interrompere la
coabitazione per tre notti di seguito. Questa parte della legge sarebbe dal
Voigt, XII Tafeln , I, pag. 708, assegnata al n° 1', tav. IV , e ricostrutta
nei seguenti termini: « si qua nollet in manu mariti convenire , quotannis
trinoctio usum interficito » . - 525 sussisteva ancora il divieto dei connubii
fra il patriziato e la plebe . Quando invece il divieto fu tolto dalla legge
Canuleia , si dovette sentire la necessità di introdurre un modo essenzialmente
quiritario per l'acquisto della manus, che poteva essere comune al patriziato
ed alla plebe. Fu allora, che si ebbe ricorso a quell'atto per aes et libram ,
che era la forma solenne propria del negozio quiritario , e si diede cosi
origine alla coemptio , quale modo di acquistare la manus (1). Non potrei
quindi ammettere l'opinione, che considera la coemptio, come la forma essenzialmente
plebea del matrimonio cum manu , e neppur quella , che ravvisa nella medesima
una compra della moglie per parte del marito . La coemptio in Roma non fu che
un'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza , che era l'atto per aes et
libram , e venne cosi ad essere un espediente giuridico per esprimere
l'acquisto di quel potere del marito sulla moglie, che nel ius quiritium era
indicato col vocabolo generico di manus (2 ). ( 1) La questione della
precedenza dei varii modi riconosciuti dal diritto romano per l'acquisto della
manus fu assai discussa in questi ultimi tempi. Secondo il Mac LENNAN,
Primitive marriage, 2me édit., 1876, pag. 71,avrebbe preceduto l'usus, poscia
sarebbesi introdotta la coemptio, e da ultimo sarebbe venuta la confarreatio .
Anche secondo il BERNHÖFT , Staat und Recht der römischen Konigszeit , 1882,
pag. 187, l'usus sarebbe più antico della coemptio : mentre invece
quest'ultima, secondo il Karlowa , Formen der römischen Ehe und manus, pag. 59,
avrebbe avuta la precedenza sull'usus. Per risolvere la questione conviene bene
intenderci. O si vuol fare la storia dei modi di contrarre il matrimonio presso
le primitive genti italiche, e in allora non ripugna, che anche presso le
medesime la moglie sia stata prima rapita e poscia comprata ; o si vuol invece
determinare l'ordine, in cui queste varie forme penetrarono nel diritto romano,
e in allora, pur ammettendo, che i vocaboli del primitivo diritto romano
possano ancora richiamare uno stato ante riore di cose, si può però affermare
con certezza, che le varie forme di matrimonio, adottate dal diritto romano,
sono già il frutto di una vera e propria elaborazione giuridica. Quanto
all'ordine cronologico , con cui queste varie forme furono accolte, esso non
potè essere che il seguente , cioè dapprima fa accolta nel ius proprium civium
romanorum la confarreatio dei patres o patricii ; poscia fu riconosciuto l'usus
di un anno per dar carattere giuridico alle unioni della plebe ; da ultimo,
quando si comunicarono i connubii, comparve anche la coemptio, la quale fu
comune ai due ordini, e come tale finì per avere la prevalenza su tutti gli
altri modi di acquistare la manus. Cfr. ESMEIN , Op. cit ., pag. 8 e 9 . (2)
Non posso quindi accogliere l'opinione sostenuta da molti autori , che la coemptio
fosse di origine plebea , e che essa implicasse la compra della moglie per
parte del marito . Cfr. SCHUPFER, La famiglia nel diritto romano; Voigt, XII,
Tafeln , II , $ 159; BRINI, Matrimonio e divorzio , pag . 50 e segg . La
coemptio non fu invece, che una nuova applicazione dell'atto per aes et libram
, e perciò deve ritenersi come una creazione del diritto quiritario,
nell'intento di attri 526 Essa quindi, al pari di ogni atto quiritario,
componevasi di due parti, cioè : lº dell'atto per aes et libram , compiuto
colle solite formalità ed inteso ad esprimere l'acquisto della manus per parte
del marito ; 20 e della nuncupatio solenne , le cui parole non ci sono perve
nute , ma la cui sostanza , secondo Servio e Boezio , consisteva in una
reciproca interrogazione, con cui lo sposo interrogava la sposa se volesse
assumere a suo riguardo la qualità di madre di famiglia , e questa interrogava
lo sposo se volesse assumere quella di padre di famiglia. Ciò intanto ci
spiega, come la coemptio , sotto un aspetto, abbia potuto essere descritta da
Gaio come una compra fittizia della moglie per parte del marito , e sotto un
altro invece colla sua stessa denominazione sembri indicare il reciproco
consenso degli sposi nel riconoscersi rispettivamente la qualità di padre e di
madre di famiglia (invicem se coemebant) ( 1). È poi probabile, che, come il
vocabolo di coemptio è certamente modellato su quello di confarreatio , cosi
anche le parole solenni, che accompagnavano la coemptio , fossero una
imitazione di quelle, che erano adoperate nella confarreatio, esclusi però i
riti religiosi, che accompagnavano quest'ultima. 409. Questo svolgimento
storico deimodi, riconosciuti dal diritto quiritario, per contrarre il
matrimonio cum manu, lascia abbastanza buire la manus al marito , e di
attribuire carattere giuridico al matrimonio romano. In esso quindi è già
scomparsa qualsiasi idea di vendita della figlia , sebbene non sia improbabile,
che il vocabolo possa ancora ricordare un' epoca anteriore, in cui la moglie
fosse effettivamente comprata. Cfr. MUIRHEAD, Op. cit., pag. 65 , e sopratutto
l'appendice sulla coemptio in fine al volume, nota B , pag. 441. (1) Che
l'essenza della coemptio fosse per dir così simboleggiata in un reciproco
acquisto, che facevano i due sposi, non è solo comprovato dal vocabolo, ma è
atte stato da Servio , in Aen ., IV , 103 (Bruns, pag.402), allorchè dice : «
Mulier atque vir inter se quasi coemptionem faciunt; da Nonio MARCELLO, vº
nubentes (Bruns, pag. 370); da Isidoro, Orig., $ 24 , 26 (Bruns, pag. 407); e
sopratutto da Boazio nei commenti alla Top. di Cic., dove, appoggiandosi
all'autorità di Ulpiano, dice che il marito e la moglie « sese in coemendo
invicem interrogabant » (BRUNS, pag. 399). Solo farebbe eccezione Gaio, I, 113,
il quale dice, che nell'atto per aes et libram « is emit mulierem , cuius in
manum convenit » ; ma la cosa si comprende, quando si tenga conto che la
coemptio componevasi di due parti , e quindi se nel l'atto per aes et libram
doveva certo figurare come compratore il marito, che acqui stava la manus,
nulla impedisce, che nella nuncupatio gli sposi apparissero uguali, e
reciprocamente si interrogassero se volessero assumere rispettivamente fra di
loro la qualità di pater e di materfamilias, V. in senso contrario BRINI, Op.
cit ., pag. 51 e segg. 527 scorgere il contributo diverso , che vi arrecarono
il patriziato e la plebe. Non vi ha dubbio anzitutto, che la confarreatio
dovette essere di origine patrizia , come lo dimostrano il suo carattere
eminente mente religioso , e l'origine di essa , che rimonta ad un'epoca ante
riore all'ammessione della plebe alla cittadinanza romana. Che anzi, egli è
probabile, che, anche dopo, la confarreatio abbia continuato ad essere usata di
preferenza dalle genti originariamente patrizie, come lo dimostra il fatto ,
che essa continud a sussistere anche sotto gli imperatori, sopratutto per
considerazioni di carattere religioso . Noi sappiamo infatti, che i figli nati
da tale matrimonio conserva rono più tardi certi privilegii religiosi, che convengono
assai bene ai discendenti dell'antico patriziato. Essi soli infatti erano
ammessi a certi sacerdozii; soli potevano figurare in certe cerimonie reli
giose, ed erano anche indicati coi nomi speciali di patrimi e di matrimi. Così
pure il matrimonio per confarreationem era il solo, a cui potessero addivenire
i flamini di Giove , di Marte e di Qui rino , i quali negli inizii dovevano
appartenere all'ordine patrizio ( 1). Per contro può affermarsi con una certa
probabilità , che l'usus, ossia la coabitazione non interrotta per un anno,
qual mezzo per fare acquistare la manus, non potè essere che un mezzo per tras
formare i matrimonii di fatto, proprii della plebe , in matrimonii di diritto,
che come tali erano produttivi della manus. Ciò spiega come l'usus , quanto
aimatrimonii, abbia potuto produrre lo stesso effetto dell'usucapio , quanto
all'acquisto della proprietà ex iure quiritium , e come i decemviri abbiano
applicato la stessa regola in argomenti, che pur erano cosi compiutamente
diversi (2 ). Da ultimo la coemptio vuol essere considerata come il modo di
contrarre il matrimonio cum manu , essenzialmente proprio dei quiriti, e come
tale dovette essere introdotto , quando già erano permessi i connubii fra
patrizii e plebei, cosicchè essa , fin dalle sue origini, dovette essere comune
agli uni ed agli altri. Noi troviamo (1) Gaio, I, 112. Nel passo già citato di
Boezio, in cui egli parla delle varie forme di matrimonio, fondandosi
sull'autorità di Ulpiano (Bruns, pag. 399), si dice espressamente che « confarreatio
solis pontificibus conveniebat » . Cfr. Esmein, Op. cit., pag . 7, nota 1. (2)
La ragione fu questa, che tanto l'usucapio, applicata alle cose, quanto l'usus,
qual mezzo per acquistare la manus, si proposero il medesimo'intento, quello
cioè di cambiare una posizione di fatto in una posizione di diritto. 528
infatti, che la coemptio viene ad essere la forma dimatrimonio , che incontra
maggior favore presso le varie classi dei cittadini; cosicchè, nei rapporti di
famiglia , essa sembra compiere quella funzione stessa, che compie la
mancipatio nel trasferimento della proprietà quiritaria . Quindi al modo stesso
, che accanto alla mancipatio effettiva abbiamo visto svolgersi la mancipatio
cum fiducia , così accanto alla coemptio effettiva, che sottoponeva la moglie
alla manus del marito, vediamo pure svolgersi quel singolare istituto della
coemptio fiduciaria, la quale serve come espediente per sottrarre la donna alla
tutela degli agnati, e per metterla in condizione di poter fare testamento (1).
Intanto perd la coemptio dovette avere per effetto di attribuire un carattere
essenzialmente civile almatrimonio, che nella confar reatio aveva un carattere
eminentemente religioso. Quindi viene ad essere probabile , che colla
introduzione di essa anche il matrimonio cum manu abbia cominciato ad essere
suscettivo del divorzio, il che non sarebbe consentaneo col carattere religioso
della confarreatio . Nella coemptio infatti la manus viene ad essere l'effetto
di un con tratto, e perciò può essere risolta nel modo stesso , in cui ebbe ad
essere acquistata, cioè mediante la remancipatio (2 ). 410. Intanto il
carattere e l'origine diversa dei varii modi per contrarre il matrimonio cum
manu , pud anche spiegare le sorti ( 1) GAIO, I, 114 a 116 . (2) GAIO , I, 115
e 137. Se siammette che il matrimonio primitivo per confarreatio nem non
consentisse il divorzio, è un grave problema quello di spiegare, come il mede
simo abbia potuto essere introdotto anche nel matrimonio cum manu , e persino
essere esteso al matrimonio per confarreationem , il quale doveva però ancor
sempre essere accompagnato dalla diffarreatio. V. Festus, pº diffarreatio ;
Bruns, pag. 336. Alcuni ritengono, che il divortium abbia cominciato a
svolgersi nel matrimonio sine manu , e poi da questo siasi anche esteso a
quello cum manu ( Cfr. Esmein , Op. cit., pag. 23 e segg.); ma non parmi
probabile un'imitazione di questa natura . Piuttosto il cambiamento venne a
farsi, allorchè, accanto al matrimonio religioso per confar reationem , venne a
svolgersi il matrimonio civile per coemptionem . Fa in quella occasione, che al
rito religioso sottentrò l'idea del contratto, la quale rese applica bile il
divortium , anche al matrimonio cum manu. L'applicabilità poi di questo
divortium anche al matrimonio cum manu, e precisamente a quello contratto per
coemptionem , parmi che non possa essere posta in dubbio di fronte al passo di
Gaio, . I, 137, ove, paragonando la moglie ad una figlia di famiglia , dopo
aver detto che la figlia non può costringere il padre ad emanciparla, aggiunge
quanto alla moglie : « haec autem (virum ), repudio misso, proinde compellere
potest , atque si ei nun quam nupta fuisset » . 529 diyerse , che ciascuno di
essi ebbe nell'ulteriore svolgimento del diritto civile romano . Noi sappiamo
infatti, che l'usus, fra i modi di acquistare la manus, fu il primo a
scomparire , poichè secondo Gaio « hoc ius partim legibus sublatum est, partim
ipsa desuetudine obliteratum est» ( 1). Esso infatti era stato un espediente
per dar carattere quiritario ai matrimonii della plebe , che prima non
l'avevano, e quindi si com prende che le leggi e il costume tendessero ad
abolirlo, allorchè, mediante la coemptio, anche la plebe venne ad avere un
mezzo di retto per acquistare la manus. La confarreatio invece, colla introduzione
della coemptio, venne ad essere più circoscritta nel proprio uso, ma intanto fu
quella, che ebbe a perdurare più lungamente ; provenisse ciò dalla tenacità con
servatrice, che era propria delle genti patrizie, o da considerazioni di
carattere religioso . Questo è certo , che Gaio parla della confar reatio ,
come di cerimonia che era in uso ancora ai suoi tempi; poichè i flamini
maggiori e il rex sacrorum dovevano esser nati da nozze confarreate, e non
potevano contrarre altrimenti il proprio matrimonio . Noi sappiamo tuttavia da
Tacito , che il mantenere questa antica tradizione ebbe talvolta a dar luogo a
difficoltà, per trovare le persone, che potessero essere elevate alla dignità
di fla mini, il che sarebbe appunto accaduto al tempo di Tiberio , e che le
matrone ottennero in quell'occasione dal senato , che il matri monio per
confarreationem non dovesse più produrre gli effetti di un tempo , sopratutto
quanto ai diritti del marito sui beni della moglie (2 ) Infine la coemptio
diventò senz'alcun dubbio il modo più frequente per contrarre il matrimonio cum
manu , e non scomparve che cessare di questa forma di matrimonio ; cessazione,
che venne ope randosi verso il finire dell'epoca repubblicana, più nel costume
che per opera di legge , stante la prevalenza sempre maggiore, che venne
acquistando il matrimonio sine manu (3 ) . ( 1) Gaio , I, 111. (2 ) GAIO , I,
36 ; Tacito, Ann. IV , 6 . (3 ) La laudatio Thuriae scritta dal marito, Q.
Lucrezio Vespillone , console nel 735 di Roma, riportata dal BRUNS , pag. 303 e
seg., dimostra che verso il finire della Repubblica il matrimonio sine manu già
cominciava a praticarsi anche nelle grandi famiglie. Tuttavia il fare un elogio
speciale di Turia per aver fatto a meno della conventio in manu , a differenza
della sua sorella, e per avere, malgrado di ciò , lasciato il suo patrimonio
all'amministrazione del marito , dimostra che un fatto (Un autore recente, il
Bernhöft, ebbe a considerare l'esten dersi e il prevalere del matrimonio sine
manu , come un segno di decadenza del primitivo costume di Roma (1 ). A me
parrebbe invece , che questa importantissima trasformazione dell'ordinamento
giuridico della famiglia romana , debba essere considerata come una conse
guenza necessaria dello svolgimento della vita cittadina, che veniva a poco a
poco cancellando le vestigia dell'anteriore organizzazione patriarcale. È ovvio
infatti lo scorgere, che la manus, mentre era una istituzione confacente
all'organizzazione gentilizia , perchè da una parte serviva ad unificare la
famiglia, e dall'altra era temperata dal patriarcale costume, trapiantata
invece nella città , ove le famiglie vivevano isolate le une dalle altre,
poteva essere sorgente di gravi pericoli, sopratutto nelle infime classi della
plebe , poichè lasciava la moglie priva di qualsiasi difesa , contro il potere
dispotico del proprio marito . Fu questo il motivo, per cui i decemviri, i
quali pur miravano, come si è veduto , ad estendere a tutte le classi dei
cittadini l'or . ganizzazione patriarcale della famiglia patrizia , si
trovarono tuttavia nella necessità di lasciar l'adito aperto ad un matrimonio
sine manu, dando alle donne il singolare diritto di interrompere l'usus, collo
assentarsi dalla casa maritale per tre notti di seguito . Fu poi una
conseguenza di questo provvedimento, che in ogni tempo in Roma, accanto al vero
matrimonio ex iure quiritium , venne ad esistere di fatto un matrimonio sine
manu, che non producera le conse guenze rigide del matrimonio cum manu . Il
diritto civile non si preoccupo dapprima di questa forma più umile di
matrimonio, e quindi esso si limitò a svolgersi come un matrimonio di fatto ,
di fronte al vero matrimonio ex iure quiritium , che era il matri monio cum
manu. Giunse però un tempo, in cui lo svolgersi della vita cittadina finì per rendere
grave il vincolo della manus, anche per le donne, che appartenevano alle classi
sociali più elevate, e fu in allora che il matrimonio sine manu cominciò ad
entrare nella pratica comune, e dovette essere preso in considerazione anche
dal diritto proprio dei quiriti. Tutto ciò però accadde lentamente e gra
datamente, per modo che lo svolgimento del matrimonio sinemanu , simile
costituiva ancora a quei tempi una eccezione degna di nota nelle famiglie di
condizione elevata . Cfr. De-Rossi, L'elogio funebre di Turia , negli « Studii
e do cumenti di storia e diritto » . Roma, 1880 , pag. 17 . (1) BERNHöft, Op.
cit., pag. 179. Cfr. Voigt, XII Tafeln, II, pag. 703. -- - -- - 531 - di fronte
a quello cum manu , presenta una singolare analogia collo svolgersi della
proprietà in bonis, di fronte alla proprietà ex iure quiritium . Quindi al modo
stesso, che la proprietà in bonis :i venne a poco a poco modellando su quella
ex iure quiritium , così anche il matrimonio sine manu venne delineandosi
lentamente sulmodello del matrimonio cum manu, per modo che esso fini per
assorbire ed assimilare in se medesimo il concetto etico , che ispirava il
primitivo matrimonio delle genti patrizie, che era il matrimonio cum manu .
Quindi è, che nel matrimonio sine manu scompariscono bensì le 80 lennità
dirette all'acquisto della manus, ma si mantiene la neces sità della deductio
della sposa in domum mariti, quasi ad indicare che essa abbandona la casa del
padre per entrare in quella del marito, la quale continua sempre a considerarsi
come il domicilium matrimonii. Così pure anche nel matrimonio sinemanu si
trasfonde il concetto altissimo del matrimonio cum manu , come lo dimostrano la
maritalis affectio , e la perpetua vitae consuetudo , di cui parlano i
giureconsulti classici nella definizione del matrimonio, al lorchè era già
scomparsa la manus (1). 412. Cid pero non impedisce, che dalla sostituzione
delmatrimonio sine manu a quello cum manu, siano derivati degli importantissimi
effetti nell'ordinamento giuridico della famiglia romana, che possono essere
cosi riassunti : lº Accanto al concetto della materfamilias, che era in certo
modo assorbita nella personalità del capo di famiglia, viene a deli nearsi la
figura dell'uxor, la quale, senza essere uguale al marito (vir ), comincia però
già ad avere una propria personalità giuridica , distinta da quella del marito
; 2 ° La pratica del divorzio viene ad essere più facile , poichè, più non
essendovi l'acquisto della manus, più non si dovette richie (1) Credo che
questa analogia fra il processo seguito dai Romani nello svolgere il diritto di
famiglia e quello di proprietà non apparirà come puramente fantastica , quando
si tenga conto della correlazione evidente fra il concetto dei matrimonii cum
manu e sine manu coi concetti del mancipium e del nec mancipium , e più tardi
con quelli del dominium ex iure quiritium e di quello in bonis; fra la fun
zione, che compie la mancipatio, in tema di proprietà, e quella che compie la
coemptio, in tema dimatrimonio ; tra la mancipatio cum fiducia e la coemptio
fidu ciae causa ; e infine la correlazione anche più singolare fra l'usus
auctoritas, appli cato all'acquisto dei fondi, e l'usus, applicato all'acquisto
della manus sulla moglie . 532 - dere per il divorzio, nè la diffarreatio , nè
la remancipatio , ma poté bastare il reciproco consenso del marito e della
moglie ; 3° Sopratutto poi ebbe ad avverarsi un grave cambiamento nella
posizione economica della moglie di fronte al marito. Senza affermare infatti,
che l'istituto della dote sia veramente sorto col matrimonio sine manu , questo
è certo, che la dote, qual concorso della moglie a sostenere i pesi del
matrimonio , non potè svolgersi che col matrimonio sine manu ; poichè un simile
concorso non avrebbe potuto avverarsi di fronte a quell'unificazione potente ,
che veniva ad essere l'effetto della manus. Cid intanto ci spiega, come la
dote, anche col matrimonio sine manu , abbia cominciato dal di ventare
proprietà del marito , e siansi richieste stipulazioni speciali, perchè esso o
i suoi eredi fossero tenuti a restituirla (1). Non potrei invece ammettere, che
il matrimonio sine manu debba considerarsi come una causa della decadenza della
corruzione del costume romano. Basta perciò osservare, che il matrimonio sine
manu, quale ebbe ad esser concepito dai romani, poteva condurre ad un ideale
più elevato dello stesso matrimonio cum manu . In questo infatti l'unità della
famiglia veniva ad essere imposta dalla legge, mentre nel matrimonio libero la
comunione delle cose divine ed umane veniva ad essere il frutto del libero
accordo e della con fidenza reciproca (2). Non fu quindi il matrimonio sine
manu, che O per (1 ) Sonovi autori, che vorrebbero rannodare l'origine
dell'istituto della dote al matrimonio sine manu , V. fra gli altri PADELLETTI,
Op. cit., pagg. 172-73, e il Cogliolo , Saggi di evoluzione, pag. 33. A questo
proposito conviene intenderci. O per dote si intende cid che la moglie o il
padre di lei consegna al marito in occa sione del matrimonio , e la dote in
questo senso dovette rimontare anche all'epoca del matrimonio cum manu , come
lo dimostra l'esistenza di un'antichissima dotis dictio e di un'actio dictae
dotis. Cfr. Voigt, XII Tafeln , II , pag . 486 . dote si intende invece
l'istituto già svolto, per modo che essa venga ad apparire come il concorso
della moglie a sostenere i pesi del matrimonio ed attribuisca alla moglie una
personalità distinta da quella del marito, e questa non potè svolgersi col ma
trimonio sine manu, perchè in quello cum manu lo svolgimento dell'istituto era
impedito dall'unificazione potente della famiglia e del suo patrimonio nella
persona del proprio capo. Intanto ciò spiega la necessità di apposite
stipulazioni, per la resti tuzione della dote, intorno alle quali è da vedersi
GELLIO, IV , 3 , il quale dice, che la opportunità di esse avrebbe cominciato a
sentirsi dopo il divorzio di Spurio Carvilio Ruga , seguito nel 523 dalla
fondazione di Roma. (2 ) Cfr. in proposito quanto scrive il Labbé nell'articolo
intitolato : Du mariage romain et de la manus, nella « Nouvelle Revue
historique » corruppe il costume, ma fu
piuttosto il costume che abbassò l'altis . simo concetto del matrimonio . $ 3.
— Il pater familias e i poteri al medesimo spettanti. 413. Fermo il concetto,
che in Roma primitiva la famiglia , sotto il punto di vista giuridico ,
costituisce un tutto organico, separato da ogni altro ed ordinato sotto il
potere del proprio capo, sarà facile il comprendere come la logica quiritaria
non scorgesse nella mede sima che un capo , il quale comanda, ed un complesso
di persone, le quali debbono obbedire. Da una parte havvi il pater familias,
che è l'unica personalità giuridica riconosciuta dal primitivo ius qui ritium :
dall'altra sonvi le persone, che dipendono da esso , cioè la moglie , i figli
ed i servi, che in antico dovettero tutte essere sot toposte alla medesima
manus, e furono perfino indicate col vocabolo generico e comprensivo di familia
od anche dimancipium . Il padre è quegli, che è padrone nella casa , che figura
nel censo colle persone e cose che da lui dipendono, che risponde di tutti i
suoi dipendenti di fronte alla comunanza quiritaria ; perciò i diritti, che a
lui spet tano sulle persone componenti la famiglia , sono modellati in tutto e
per tutto su quelli, che a lui appartengono sul patrimonio della medesima. Ciò
tuttavia non deve essere considerato come un indizio , che i romani
confondessero il potere sulle persone col potere sulle cose ; ma soltanto che
essi, nel modellare la costruzione giuridica della famiglia , si collocarono al
punto di vista del mio e del tuo, e una volta accolto il medesimo lo spinsero a
tutte le conseguenze, di cui poteva essere capace. Intanto se nella concezione
primitiva era unico il potere spettante al capo di famiglia sulla moglie, sui
figli e sui servi, viene pure ad essere probabile , che questo potere sia stato
indicato con un unico vocabolo , il quale con tutta verosimiglianza dovette
essere quello di manus, la quale designava in genere la potestà giuridica spet
tante al quirite (1). Fu poi nell'elaborazione ulteriore, che in questo (1)
L'autore, che ha recato incontestabilmente il maggior numero di prove per
dimostrare, che il vocabolo di manus indicò in genere la potestà giuridica,
spettante al capo di famiglia, è certamente il Voigt, Op. cit., II, SS 79 e 80.
Cid però non toglie che il vocabolo di manus, pur indicando in senso largo la
potestà spettante anche sulle cose, designasse in modo più specifico il potere
sulle persone , e fosse così pres sochè un sinonimo di potestas. 534 concetto
sintetico e comprensivo cominciò ad apparire una prima distinzione, per cui
mentre il vocabolo di manus, pur conservando in qualche caso la sua
significazione generica, fini per indicare più specialmente il potere del
marito sulla moglie , quello invece di po testas indico di preferenza il potere
del padre sui figli e sui servi, e venne cosi a distinguersi in patria ed in
dominica potestas. Quanto al vocabolo mancipium , esso non scomparve, ma fini
per restringersi ad indicare il complesso delle cose spettanti al capo di
famiglia , e qualche volta servi ad indicare il complesso dei servi. Infine ,
siccome anche le persone libere potevano essere date a mancipio , ed essere
poste così transitoriamente in condizione di servitù ; cosi dovette pure
aggiungersi la categoria giuridica delle persone « quae in mancipii causa sunt
» e che come tali « servo rum loco habentur.” Allorchè poi questi aspetti
diversi di un unico potere si furono differenziati gli uni dagli altri ,
ciascuno potè obbedire al proprio concetto ispiratore, e ricevere cosi uno svolgimento
storico compiutamente diverso . Di questi poteri, quello , che per il primo
ebbe a sostenere un rude conflitto colle esigenze della vita cittadina, fu la
manus, ossia il potere del marito sulla moglie. Sopravvivenza
dell'organizzazione patriarcale, la manus appariva disadatta nella città , ove
non era più temperata dal patriarcale costume, e convertivasi in un potere
dispotico del marito sulla moglie. Se a ciò si aggiunga, che le donne, le quali
avevano da sottomettersi alla manus, dovevano prima consentirvi, e avevano per
giunta la protezione dei proprii genitori, sarà facile il comprendere come la
conventio in manu , dopo essere stata la regola , sia divenuta l'eccezione,
finchè fini per cadere com piutamente in disuso . Con ciò non deve già intendersi,
che il marito perdesse ogni autorità sulla propria moglie, ma solo che la
moglie non fu più assorbita nella personalità del capo di famiglia , ma (1)
Secondo Gaio, I , 52 e 55 , il vocabolo di potestas comprenderebbe tanto il
potere sui servi, quanto quello sui figli; quello di manus, invece il potere
del ma rito sulla moglie (I, 109). Quando esso viene poi a parlare delle
personae, quae in mancipio sunt, I, 116 e segg., comincia dal premettere, che
anche i figli e la moglie mancipari possunt nel modo stesso, in cui lo possono
i servi: il che dimostre rebbe, che il vocabolo di mancipium ,nella sua
significazione più larga, comprendeva eziandio tutte le persone soggette alla
potestà del padre. Quanto alle persone , quae in causa mancipii sunt, vedi lo
stesso Gaio, I, 138 e segg. 535 acquistò una certa indipendenza dal proprio
marito, sopratutto sotto l'aspetto economico (1) . 415. Così invece non accadde
della patria potestas . Questa non ha più bisogno di essere volontariamente
accettata , come la manus, ma deve invece essere necessariamente subita , e
sotto un certo aspetto può anche apparire come una conseguenza del fatto della
nascita . Mancò quindi il principale motivo, che contribuì alla abo lizione
della manus del marito sulla moglie : donde la conseguenza , che la patria
potestà potè più a lungo conservare nel diritto romano le sue fattezze
primitive, e fu quindi un'istituzione, in cui la logica quiritaria ebbe campo a
spiegarsi in tutto il suo rigore. Il padre dal punto di vista giuridico si appropria
tutti gli acquisti, che siano fatti dai figli; pud vendere ed anche uccidere i
proprii figli ; può rivendicarli, se gli siano sottratti ; può dargli a
mancipio , se abbiano recato un danno, che egli non voglia risarcire . È però a
notarsi, che anche in questa parte la costruzione giuridica non risponde sempre
alla realtà dei fatti; poichè in sostanza i figli si ritengono compro prietarii
del padre, nè mostrano di lagnarsi di un potere, a cui il costume reca gli
opportuni temperamenti, e che loro non impedisce di aspirare e di giungere agli
onori e alle magistrature della città (2). Anche qui fu il corrompersi dei
costumi, che fece sentire il peri colo di un potere illimitato e senza confine,
e fu allora, che il di ritto civile romano , pur serbando integro il concetto
della patria potestà , venne attribuendo forma e carattere giuridico a quei tem
peramenti della medesima, che prima esistevano soltanto nel costume. Fu in
questa guisa , che il diritto romano, senza derogare alla supe riorità del padre,
fini per riconoscere una certa personalità giuridica anche al figlio, il quale
venne così ad avere un proprio caput, e un proprio status nel seno della
famiglia , ed introdusse eziandio dei temperamenti, sia quanto alla durata ,
che quanto agli effetti della patria potestà . 418. Noi troviamo infatti, che,
mentre la patria potestà continud a durare per tutta la vita , venne formandosi
l'istituto dell'emancipa zione, in cui si assiste ad una singolare
trasformazione, per cui il potere, che al padre appartiene, di vendere il
proprio figlio , viene a (1) V. in proposito il precedente $ nella parte
relativa al conflitto del matrimonio cum manu e di quello sine manu , nn. 411 e
412 , pag . 530 e segg . (2 ) Cfr. Voigt, Op. cit., II, SS 93 e 94 . 536
convertirsi in un espediente per liberarlo dalla patria potestà . Anche qui
abbiamo una applicazione dell'atto quiritario, ossia dell'atto per aes et
libram , salvo che, in base alla letterale interpretazione delle XII Tavole,
per l'emancipazione di un figlio si richiedono tre man cipazioni, mentre,
trattandosi di figlie o di nipoti, basta una semplice mancipatio (1). Ed è
notabile eziandio , che questa emancipazione, pur attribuendo al figlio una
libertà ed indipendenza , che prima non aveva, continua pur sempre ad essere
considerata come una capitis diminutio ; poichè sotto il punto di vista
giuridico, l'emancipato cessa di appartenere a quel gruppo famigliare, da cui
esce mediante l'emancipazione, e viene cosi a perdere quello status, che a lui
ap parteneva rimpetto alla medesima. Che anzi il rigore del diritto primitivo
si spinge fino al punto da escludere l'emancipato dalla successione per legge
alla morte del padre, e toccherà poi al diritto pretorio il cercare con mezzi
indiretti di ovviare a queste conse guenze, le quali, pur essendo conformi alla
logica giuridica, ripu gnano però ai naturali sentimenti ed affetti (2 ). Cosi
pure, mentre si mantiene sempre il concetto primitivo, che tutti gli acquisti
del figlio debbono sotto l'aspetto giuridico essere at tribuiti al padre , si
viene a poco a poco attribuendo carattere giu ridico all'istituzione dei
peculii. Non può infatti esservi dubbio , che i peculii già dovevano
preesistere nel costume, almeno sotto la forma di peculium profecticium , che
era quel piccolo patrimonio, di cui il ( 1) Gaio , I, 135. Si è molto disputato
circa la ragione probabile delle tre man cipazioni, che sono richieste per
l'emancipazione del figlio . Alcuni vogliono scorgere in ciò un indizio del più
forte vincolo , con cui il figlio intendevasi congiunto al proprio padre. A
parer mio, sembra invece molto più probabile, che questa triplice mancipazione
richiesta per i figli sia stata, come dice Gaio, I, 132, una conseguenza della
letterale interpretazione data alla legge delle XII Tavole, secondo cui « si
pater ter filium venum duit, filius a patre liber esto » . Per tal modo una
disposizione, che era evidentemente introdotta per impedire al padre di abusare
della persona del suo figlio,dandolo a mancipio più di tre volte, si cambiò in
un mezzo per emanciparlo. Negli altri casi invece, a cui non estendevasi la
lettera di questa disposizione, per trattarsi o di una figlia o di un nipote,
potè bastare una semplice mancipazione per produrre ilmedesimo effetto. Le
singolarità di questo genere si possono facilmente spiegare, quando si tenga
conto della lette rale osservanza della legge, che era un carattere della
primitiva iuris interpretatio . Questa interpretazione del resto trova un
appoggio in Dionisio , II, 27. (2) Vedi quanto all'emancipatio, in quanto
costituisce una capitis diminutio, ciò che si disse al nº 338, pag . 424, nota
4. Aggiungerò tuttavia agli autori colà ci tati il Voigt, Op. cit ., II, $ 73,
presso il quale occorre una raccolta completa dei passi relativi all'argomento,
pag. 27 e 28 , note 12, 13 , 14 . 537 padre concedeva una separata
amministrazione al figlio ;ma ciò punto non impedi, che essi, solo assai tardi
e gradatamente,abbiano ottenuto il loro riconoscimento giuridico. Ed è notabile
eziandio l'ordine e il processo, con cui vennesi operando tale riconoscimento ,
poichè si comincið dall' attribuire al figlio i guadagni, che egli avesse fatti
servendo nella milizia (peculium castrense ); poi si assomigliarono ai lucri,
da lui fatti in guerra , quelli fatti nell'esercizio delle pro fessioni
liberali ( peculium quasi castrense); da ultimo si presero in considerazione
tutti quegli acquisti, che a lui fossero provenuti dagli ascendenti materni o
in qualsiasi altra guisa (bona adventicia ). Intanto, mentre si modellavano
così le varie specie di peculii, si introduceva ad un tempo una sapiente ed
acconcia graduazione per determinare a queste proposito i diritti , che
appartenevano al padre ed al figlio (1 ). Questi temperamenti tuttavia non
tolgono, che la patria potestà continuasse sempre ad essere il rudere meglio
conservato dell'an tica organizzazione della famiglia patriarcale, e quindi non
è me raviglia se ad operá compiuta gli stessi giureconsulti fossero colpiti dal
carattere particolare della patria potestà del cittadino romano, di fronte alle
istituzioni degli altri popoli. 417. L'importanza di questa unificazione della
famiglia sotto la patria potestà del padre viene a farsi anche più evidente,
quando trattasi di quelle istituzioni, che hanno per iscopo di supplire in
qualche modo al difetto di figliuolanza. Esse sono l'adrogatio , con cui si
viene a sottoporre alla patria potestà una persona sui iuris, e la semplice
adoptio , con cui un figlio ancora sottoposto alla patria potestà di una
persona, viene ad essere costituito sotto la patria potestà di un altra. Le
origini dell'una e dell'altra rimontano senza alcun dubbio all'organizzazione
della famiglia patriarcale, nella quale ( 1) L'antichità del peculium è
dimostrata dalla stessa etimologia della parola (a pecudibus). Del resto è
facile a comprendersi, che lo stesso accentramento della famiglia nel proprio
capo rendeva indispensabile la concessione di un certo peculio, così ai figli
che ai servi. Anche qui pertanto il ius civile non creò già l'istituzione ; ma
la raccolse dalle costumanze, e diede alla medesima configurazione giuridica .
Quanto all'ordine, con cui furono accolte le diverse forme di peculia , cfr.
MUIRHEAD , Op. cit., pagg. 344 e 347; il PADELLETTI , Storia del dir. rom .,
ediz . Cogliolo, pag. 187, nota 4 ; il SERAFINI, Istituzioni di diritto romano,
$ 169. Sono poi degne di nota , quanto all'istituzione dei peculii, le
osservazioni del SumnER MAINE , L'ancien droit, pag. 134. 538 si proponevano
l'intento importantissimo di perpetuare la famiglia ed il suo culto . Quella
perd fra esse, che produceva più gravi ef fetti, al punto di vista gentilizio,
era certamente l'adrogatio , come quella che sopprimeva in certo modo una
famiglia ed il suo culto , per rendere possibile la perpetuazione di un'altra
(1). Essa quindi, nella comunanza gentilizia , dovette probabilmente essere
compiuta coll'approvazione dei capi di famiglia , o degli anziani del villaggio
; donde la conseguenza , che quando fu poi trasportata nella città , essa fu
uno di quegli atti solenni, che, al pari del testamento , dovevano es sere
compiuti in calatis comitiis , coll'intervento dei pontefici, i quali dovevano
vegliare al mantenimento dei culti pubblici e privati, e colle forme di una
vera e propria legge. L'adoptio invece, riferen dosi a persona, che era ancora
soggetta alla patria potestà , suppo neva da una parte la rinunzia del padre al
proprio potere, il che facevasi col mezzo della mancipatio , applicando al
solito l'atto per aes et libram , e dall'altra la sottomissione del figlio alla
patria po testà dell'adottante, il che compievasi davanti al magistrato , me
diante quella finta rivendicazione ed aggiudicazione, che costituiva l'in iure
cessio . 418. Intanto qui viene ad essere evidente, che, siccome trattavasi di
istituzioni di origine esclusivamente patrizia , perchè era sopratutto nella
famiglia patrizia, che era viva ed efficace l'aspirazione a per petuare se
stessa ed il proprio culto, cosi lo svolgimento storico di queste
istituzioninon ritiene le traccie di un contributo diretto , che possa avervi
recato la plebe. Le forme infatti , che le accompagnano, o sono di origine
patrizia, come quella relativa all'adrogatio, o sono invece una elaborazione
giuridica del diritto quiritario, comequelle che circondano l'adoptio, senza
che trovinsi le traccie di un modo di adozione, che possa essere di origine
plebea. Ciò però non tolse, che anche l'arrogazione e l'adozione abbiano finito
per diventare una istituzione comune a tutti gli ordini sociali ; ma intanto a
misura che ciò accade, esse perdono sempre più il loro carattere gentilizio ,
finchè finiscono per informarsi ad un con cetto ispiratore compiutamente
diverso. Esse infatti col tempo ces (1) Questo effetto dell'adrogatio è
efficacemente espresso da PAPIN., Leg . 11, § 2 , Dig . (37-11): « dando se in
arrogando testator cum capite fortunas quoque suas in familiam et domum alienam
transfert » . Quanto alle origini dell'adrogatio nel pe riodo gentilizio, vedi
lib. I, n° 25 , pag. 31. Le differenze poi fra l'adrogatio e l'a doptio sono
sopratutto poste in evidenza da Gellio , V , 19. 539 sano dall'essere un mezzo
per perpetuare la famiglia ed il suo culto ; ma si limitano allo scopo di
procurare le gioie della figliuolanza a coloro che siano privi della medesima,
per guisa che in contrad dizione col diritto primitivo, anche le donne poterono
adottare ed essere adottate. Così pure queste istituzioni, che negli inizii
stacca vano affatto una persona dalla sua famiglia, per trasportarla in
un'altra, finirono per modificarsi in guisa da contemperare i diritti della
famiglia naturale con quelli della famiglia adottiva (1). 419. Rimane ora a
dire brevemente del potere del padre di fa miglia sui servi. Anche qui non pud
esservi dubbio, che la servitù rimonta al periodo gentilizio , e che essa non
dovette essere propria delle genti italiche, ma comune a tutte le genti; come
lo dimostra il fatto , che i Romani non riguardarono mai la servitù come istitu
zione loro propria , ma comeuna istituzione del diritto delle genti (2 ). La
medesima sotto un certo aspetto era un compimento necessario della famiglia
patriarcale: perchè senza di essa questa non avrebbe potuto costituire un
gruppo , che potesse bastare a se stesso . È quindi naturale, che quando il
capo di famiglia entrò a parte cipare alla comunanza quiritaria , esso
comparisse nella medesima non solo colla moglie e colla figliuolanza , ma anche
coi servi, i quali vennero ad essere compresi nel suo mancipium , e
costituirono così una parte integrante della famiglia romana (3 ). Per tal modo
i servi diventarono in Roma gli strumenti intelligenti del cittadino romano, il
quale potè valersi di essi per esercitare qualsiasi ne gozio o commercio ,
senza derogare alla sua dignità , ed anche per evitare ai proprii figli
l'ignominia di una eredità passiva , chia mandoli anche loro malgrado a
succedergli, in qualità di heredes necessarii (4). Si comprende quindi, che al
punto di vista giuri dico i servi fossero considerati come cose, anzichè come
persone, e che il potere del padrone sopra di essi apparisse illimitato e senza
confine. Tuttavia , anche qui la famigliarità dei rapporti fra il pa drone ed i
servi, l'intimità di vita , che eravi talora tra i figliuoli (1) Quanto
all'ultimo stadio del diritto civile romano nello svolgimento dell'ado zione,
vedi Justin., Instit. II, XI. (2 ) Fra gli altri Gaio, I , 52 , dichiara
espressamente, che la potestas sui servi iuris gentium est. (3 ) Come i servi
costituissero una parte integrante della famiglia risulta ad evi. denza dai
passi raccolti dal Voigt, XII Tafeln , II, pag . 12 e segg., e note relative.
(4 ) GAIO, II, 152 ; ULP., Fragm . XXII, 11 e 24. 540 - dell'uno e quelli degli
altri, l'abnegazione frequente dei servi per il loro padrone, e la necessità
stessa, in cui fu la legge di porre dei limiti alla facoltà di manomettere i
proprii servi, sono circo stanze che dimostrano, come anche la condizione
effettiva dei servi, sopratutto nei primi tempi di Roma, non corrisponda in
ogni parte alla severità, con cui essa ebbe ad essere governata sotto l'aspetto
giuridico (1). 420. In ogni caso è cosa fuori di ogni dubbio, che la condizione
dei servi ebbe a subire ancor essa una trasformazione profonda nel pas saggio
dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta . Giuridicamente
parlando , il potere del padrone appare forse più rigido nella città, che non
nel periodo gentilizio ; ma in essa il servo ha il vantaggio di poter essere
fatto libero , e di essere così elevato alla dignità di cittadino. Mentre
dapprima il servo manomesso do veva, per la stessa necessità delle cose ,
cercare protezione e tutela nel gruppo, a cui apparteneva, e quindi col cessare
di esser servo doveva trasformarsi in cliente : nella città invece, sopratutto
dopo Servio Tullio , a cui si attribuisce di aver attribuita la cittadinanza ai
servi affrancati, il servo manomesso venne ad essere sotto la protezione della
pubblica autorità , e potè colla libertà acquistare anche la cittadinanza.
Colla manomissione pertanto viene a verifi carsi la più profonda trasformazione
nello stato giuridico , di cui ci porga esempio il diritto civile romano. Con
essa il servo , che era considerato come una cosa, viene a trasformarsi in una
persona, e colui, che non aveva nė libertà, nè cittadinanza, nè posizione nella
famiglia , viene ad acquistare tutte queste cose ad un tempo. Solo rimangono le
traccie dell'antico stato di cose nella istituzione del patronato , la quale
deve perciò essere considerata come una soprav vivenza dell'organizzazione
gentilizia. Malgrado di ciò , questa impor tantissima trasformazione nello
stato di una persona viene dapprima ad essere rimessa intieramente all'arbitrio
del quirite, il quale può manomettere i proprii servi vindicta , censu ,
testamento , ed ha cosi potestà di accrescere indefinitamente il numero dei
cittadini romani. (1) Nota giustamente l'HÖLDER , Istituz., $ 42, pag. 117, che
il servo, ancorchè sia considerato come una cosa , non perde però la sua
qualità d'uomo, poichè gli si ri conoscono le facoltà , che lo distinguevano
come uomo, prima dell'altrui dominio. È questo il motivo , per cui il potere
sullo schiavo chiamavasi potestas, e gli atti acqui. sitivi da lui compiuti
erano stati validi, come se fossero stati compiuti dal suo padrone. 541 Anche
qui fu solo più tardi, che l'esercizio illimitato di questa po testà privata
sembrò essere in conflitto colle esigenze del pubblico interesse , e allora,
mentre da una parte si cercd di assicurare i di ritti del patrono sull'eredità
dei liberti, dall'altra si cerco di met tere dei confini alla manomissione dei
servi, il che si ottenne in parte coll'introdurre gradazioni diverse nella
libertà , che era accor data ai servi (1). Fu in questa guisa , che al concetto
di un'unica libertà i giureconsulti, interpretando le leggi Aelia Sentia e
Junia Norbana, sostituirono le categorie diverse dei latini, dei latini iu
niani, e dei dediticii, la cui libertà può essere migliore o peggiore , secondo
che essa lasci più facile l'adito alla cittadinanza romana : « pessima itaque,
conchiude Gaio , eorum libertas est, qui dediti ciorum numero sunt, nam ulla
lege, aut senatus consulto , aut con stitutione principali aditus illis ad
civitatem romanam datur » (2 ). 421. Da ultimo anche le persone libere, quae in
causa mancipii erant,dovettero pur esse avere un posto in questa costruzione
giuridica della famiglia romana, il che si ottenne collocandole nella posizione
di servi (servorum loco habentur), per tutto quel tempo per cui erano date a
mancipio. Tuttavia i giureconsulti stessi hanno cura di notare, che la
concezione giuridica non deve in questa parte essere confusa colla realtà, come
lo prova questa notevole proposizione di Gaio: « admonendi sumus, adversus eos,
quos in mancipio ha bemus, nihil nobis contumeliose facere licere ; alioquin
iniuria rum actione tenebimur: ac ne diu quidem in eo iure detinentur homines ,
sed plerumque hoc fit dicis gratia, uno mo mento, nisi scilicet ex noxali causa
mancipentur » (3 ). Con ciò parmi di aver abbastanza dimostrato, che la
rigidezza, con cui fu modellata nel diritto civile di Roma la potestà spettante
al capo di famiglia , trova la sua causa in ciò , che i Romani, anche in ( 1) È
notabile a questo riguardo, che il più antico diritto di Roma, come lasciava al
cittadino piena libertà dimanomettere i propri servi, così, in omaggio sempre
alla libertà del testatore,non aveva tutelato in nessun modo le ragioni del
patrono contro il testamento del liberto . Ciò viene attestato da Gaio, III, 40
, 41 , il quale, dopo aver detto, che « olim licebat liberto patronum suum
impune in testamento prae terire » aggiunge poi che il diritto pretorio e
poscia la legge Papia Poppea avevano cercato di riparare a questa iuris
iniquitas. (2 ) Gaio , 1 , 26 ; Ulp., Fragm ., I, 5 . (3 ) Gaio , I, 141. 542
questa parte , trasportarono nella città il potere del capo di famiglia patriarcale;
lo isolarono dall'ambiente, in cui erasi formato e da ogni elemento estraneo al
diritto ; e riuscirono così a dare una configu razione prettamente giuridica ,
ad un potere, che in realtà conti nuava poi a trovare molti temperamenti nel
costume e nella morale. Questi caratteri della famiglia romana trovano poi una
conferma nel modo, in cui era governata la successione legittima, nel primi
tivo diritto di Roma. § 4. – La successione e la tutela legittima nel primitivo
ius quiritium . 422. L'ordinamento giuridico della famiglia primitiva in Roma
presenta eziandio questa singolarità, che mentre, vivo il padre, tutto sembra
unificarsi in lui, mancando invece il medesimo, senza aver disposto delle
proprie cose per testamento (si intestato moritur), ricompare una specie di
comproprietà famigliare fra le persone, che dipendono dalla sua patria potestà
. Queste persone infatti son chia mate a succedergli come heredes sui; non
possono respingerne la eredità (heredes sui et necessarii) ; che anzi, senza
bisogno di una vera e propria accettazione, sembrano essere direttamente
investite dalla legge stessa di quel patrimonio famigliare, di cui già prima
apparivano comproprietarie : « sui quidem heredes, dice Gaio , ideo
appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quodammodo
domini existimantur » (1). Molti autori combatterono il concetto di questa
comproprietà fa migliare, dicendola in contraddizione colla unificazione
potente della famiglia romana nella persona del proprio capo (2). A nostro avviso
invece questa specie di comproprietà , che i giureconsulti pongono a fondamento
della successione degli heredes sui, può essere facil mente spiegata e
conciliata coll'unità potente della famiglia romana, ( 1) GAIO , II, 157. (2 )
Fra gli autori, che combattono questa comproprietà famigliare, mi limiterò a
citare il PADELLETTI, Op. cit., pag . 201, e il Cogliolo, Saggi di evoluzione
nel di ritto privato, pag. 108 e segg.; il quale, a pag. 111, in nota, fa pure
un elenco degli autori, che tengono per l'una o per l'altra opinione. Fra
quelli, che ammettono questa comproprietà famigliare, vuolsi aggiungere il
DUBOIS, La saisine héréditaire en droit romain , Paris, 1880, pag. 63 , e il
CARPENTIER, Essai sur l'origine et l'étendue de la règle : nemo pro parte testatus,
pro parte intestatus decedere potest, nella « Nouvelle Revue historique » ,
1886, pag. 457 e segg . 513 quando si ritenga che la famiglia quiritaria non è
in sostanza, che la stessa famiglia patriarcale, trasportata nella città , ed
isolata dal l'ambiente gentilizio, in cui erasi formata . La famiglia
patriarcale infatti riuniva appunto due caratteri, pressochè opposti fra di
loro ; quello cioè di apparire da una parte unificata nella persona del padre ,
il che la rendeva unita e compatta per la lotta , che doveva sostenere cogli
altri gruppi, da cui era circondata ; e quello di sup porre dall'altra
un'assoluta comunione di tutte le utilità domestiche, il che produceva
un'intima solidarietà fra le persone, che entravano a costituirla . In questo
senso potevasi dire di essa con Cicerone : « una domus, communia omnia » .
Questa solidarietà e compro prietà fra i membri del medesimo gruppo famigliare
viene ad essere dimostrata dai seguenti indizii : che il primitivo heredium era
di sua natura trasmessibile di padre in figlio ; che il padre trovava un
ostacolo alla dilapidazione del patrimonio famigliare, nel iudicium de moribus
per parte del consiglio degli anziani della gens ; che il padre infine non
poteva disporre delle proprie cose per testamento , nè scegliersi un figlio
adottivo senza l'approvazione degli altri capi di famiglia , che appartenevano
alla sua gente o tribù (1). Vero è , che tutti questi temperamenti del potere
patriarcale del capo di famiglia sembrano scomparire, quando, col formarsi della
città, la famiglia venne ad essere staccata dal gruppo patriarcale, di cui
entrava a far parte , e il capo di essa apparve così investito di un potere
illimitato e senza confini; ma ciò deve essere considerato come un effetto di
quella elaborazione giuridica , che tendeva ad uni ficare la famiglia nella
persona del proprio capo. Era quindinatu rale, che, quando questa unificazione
non era più possibile per la mancanza del capo, risorgesse la primitiva
comproprietà famigliare fra le persone libere, che appartenevano allo stesso
gruppo . Che anzi la stessa unificazione potente del gruppo nel proprio capo do
veva determinare una specie di comunione fra i membri del gruppo, e condurre
così alla conseguenza giuridica, che in questo caso non si avverasse una vera
successione, ma il dominio del padre conti nuasse in certo modo nella persona
dei figli ; conseguenza, che ebbe ad essere mirabilmente espressa dal
giureconsulto Paolo : in suis heredibus evidentius apparet continuationem
dominii eo rem per ducere, ut nulla videatur hereditas fuisse , quasi olim hi
domini ( 1) Ho cercato di dimostrare questi caratteri della proprietà
famigliare nel pe riodo gentilizio nel lib . I, cap . 4, § 3º, sopratutto pag.
70 e segg . 544 essent, qui, vivo etiam patre, quodammodo domini existimantur .
Itaque post mortem patris non hereditatem percipere videntur , sed magis
liberam bonorum administrationem consequuntur (1) . Fu in questa guisa, che la
famiglia primitiva potè perpetuarsi nelle generazioni, e cambiarsi in un
organismo immortale e perpetuo, poichè i figli apparivano come i continuatori
della personalità del padre, e al modo stesso, che dovevano perpetuare il culto
domestico, così dovevano raccoglierne, anche loro malgrado, l'eredità . 423. Nè
si può ammettere, che questa specie di comproprietà , a cui accennano i
giureconsulti , sia un concetto penetrato più tardi nella classica
giurisprudenza , per spiegare il passaggio del patrimonio famigliare dal padre
nei figli (2 ): poichè questo intimo rapporto fra l'hereditas ed i sacra, è
certo un concetto, che rimonta all'an tichissimo diritto , come pure è a
questo, che deve farsi risalire quella posizione del tutto speciale , che gli
heredes sui assumono di fronte agli altri ordini di eredi. Questa distinzione
infatti già doveva esistere nella universale coscienza , all'epoca della
legislazione decem virale. In questa infatti non si fa menzione espressa della
succes sione dell'heres suus, ma solo vi si accenna come a cosa , che na
turalmente accade, e che quasi non abbisogna di speciale menzione ; mentre è
solo per il caso , in cui non siavi un heres suus, che le XII Tavole
determinano l'ordine della successione per legge , chia mando alla medesima
prima l’agnatus proximus, e in mancanza del medesimo i gentiles: « si intestato
moritur , cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto ; si
adgnatus nec escit, gentiles familiam habento » (3). Che anzi a questo
proposito parmi di poter con fondamento inol trare la congettura , che in
occasione della legislazione decemvirale le genti patrizie cercarono di
trasportare nel ius proprium civium ( 1) PAOLO, Leg . 11, Dig. X (28-2). V. nel
CARPENTIER , Op. e loc. cit., una rac colta di testi che confermano questa
comproprietà famigliare. (2) Tale sarebbe l'opinione del PADELLETTI, Op. cit.,
pag. 201 . (3 ) Queste due disposizioni delle XII Tavole, secondo il Voigt, Op.
cit., I, pag. 704, sarebbero la 2a e la 3a legge della Tav. IV. A questo
proposito poi il Voigt, Op. cit., II, pag. 387, sembra ritenere, che esistesse
una comproprietà di fatto, ma non di diritto . Convien però ammettere, che tale
comproprietà producesse, dopo la morte del padre, delle vere conseguenze di
diritto, dal momento che faceva considerare gli heredes sui, come continuatori
della personalità del padre , e li metteva anzi nella impossibilità di
rinunziarvi. Vedi Gaio , I, 157. - 545 romanorum , e di rendere così comune a
tutte le classi quel sistema di successione ab intestato , che doveva già
esistere nel loro costume durante il periodo gentilizio . Noi sappiamo infatti
dagli stessi giu reconsulti , che colle XII Tavole soltanto ebbe ad essere
introdotto il sistema di successione legittima, e ne abbiamo anche una prova
nella circostanza , che fu perfino introdotto un ordine di eredi le gittimi,
che era quello dei gentiles, il quale non poteva certo appar tenere alla plebe,
dal momento che questa non possedeva le gentes. Per tal modo il patriziato, che
già aveva trasportata nella comu nanza quiritaria la propria organizzazione
domestica, riusci eziandio a farvi penetrare il proprio sistema di successione.
Di qui la con seguenza, che anche il sistema successorio dei romani deve essere
considerato come una sopravvivenza dell'organizzazione patriarcale della
famiglia patrizia ; come lo dimostra la circostanza , che esso fondasi
esclusivamente sull'agnazione, non tiene alcun conto della cognazione, e si
propone come scopo esclusivo di perpetuare il pa trimonio nella famiglia
agnatizia , e di farlo ritornare alla gente, al lorchè siasi estinta la
famiglia (1) . Per tal modo, in base alla legislazione decemvirale, noi veniamo
a trovarci di fronte a tre ordini di eredi, che sono : lº gli heredes sui, nei
quali si comprendono la moglie, i figli cosi maschi come femmine e gli altri
discendenti nella linea maschile , tutte le per sone insomma, che erano
soggette alla patria potestà del capo di famiglia ; 2 ° gli agnati, cioè tutti
coloro, che discendono per la linea maschile da un comune autore, alla cui
potestà sarebbero stati sog getti, quando non fosse premorto ; 3º e da ultimo i
gentiles, ossia tutti coloro , i quali, più non essendo compresi nella familia
omnium agnatorum , hanno però comune la discendenza da un medesimo ( 1) Che la
successione e la tutela legittima siano state introdotte dalle XII Ta vole,
mentre queste non avrebbero fatto altro , che confermare le successioni testa
mentarie, è cosa a più riprese affermata da ULPIANO, Fragm . XI, 3 , e XXVII, 5
. Di qui ilMuirhead avrebbe perfino indotto, che i decemviri abbiano creato di
pianta l'ordine degli agnati, come tutori e successori legittimi (Op. cit.,
pag. 122 e 172 ). Ho già dimostrato più sopra , pag. 39, nota 1", che
questa opinione non può essere accettata, perchè l'ordine degli agnati già
esisteva nell'organizzazione gentilizia, ed il concetto dell'agnazione stava a
fondamento della medesima; ma intanto questa sua opinione può essere accolta ,
quando sia intesa nel senso, che i decemviri colle XII Tavole estesero anche
alla plebe quel sistema di successione legittima , che le consuetudini avevano
già svolta presso le genti patrizie. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma.
35 546 antenato, e come tali hanno ancora ilmedesimo nome e appartengono alla
stessa gente. 424. È poi degno di nota il modo diverso, con cui questi varii
ordini di eredi sono chiamati a succedere . Finchè trattavasi di heredes sui,
essi, essendo soggetti alla patria potestà della stessa persona, e come tali
appartenendo almedesimo gruppo, venivano in certo modo ad essere eredi di se
stessi; esclu devano gli emancipati, le figlie passate a matrimonio e cosi
entrate in un'altra famiglia , tutti coloro insomma, che erano già usciti dal
gruppo; non abbisognavano di vera accettazione dell'eredità , ma suc cedevano
anche loro malgrado (heredes sui et necessarii) : non potevano essere spogliati
dell'eredità mediante l'usucapio pro he rede ; infine succedevano per stirpe ,
ossia per rappresentazione, perchè nella costituzione della famiglia primitiva
i figli rappresen tano il padre (1). Quando trattavasi invece di agnati , il
patrimonio doveva già uscire da un gruppo per passare ad un altro : quindi la
legge, per impedirne la suddivisione soverchia , si limitava a devolverlo allo
agnatus proximus, escludendone ogni altro. Questi però non può più essere
considerato come un heres suus, ma è già un heres extraneus, perchè più non
appartiene al gruppo famigliare nello stretto senso della parola . Egli quindi
ha già facoltà di accettare o di respingere l'eredità , e può vedersi usucapita
l'eredità da altre per sone. Nella interpretazione dei giureconsulti prevalse
poi l'opinione, che nell'ordine degli agnati non dovesse farsi luogo alla
successione per stirpi o per rappresentazione, forse perchè nel concetto romano
è solo nei limiti della stessa famiglia, che i figli appariscono come i
rappresentanti dei loro genitori. Quindi è, che l'agnato prossimo esclude tutti
gli altri agnati, e se egli non accetti o non possa ac cettare l'eredità ,
questa viene ad essere devoluta all'altro ordine, ossia ai gentiles (2 ). (1 )
Gaio, III, 1 a 8 ; Ulp., Fragm ., XXIV, 1 a 3 . (2) GAIB, III , 9 a 15 , Ulp.,
Fragm ., XXIV , 1. L'enumerazione , che Gaio ed Ulpiano fanno degli agnati,
confermano il concetto, che ho svolto nel lib . I, pag. 38 e 39, secondo cui la
cerchia degli agnati sarebbe stata determinata da quella in divisione di
patrimonio, che, morto il padre, mantenevasi fra i fratelli e i loro di
scendenti per la linea maschile. Questo gruppo continuava in certo modo l'unità
indivisa della famiglia, e costituiva quella famiglia più grande, che fu
chiamata 547 Qui però l'espressione della legge cambia, in quanto che essa dice
senz'altro: « si agnatus proximus nec escit, gentiles familiam habento » ; il
che fa ritenere, che i gentili non fossero chiamati a succedere come individui,
ma in quanto costituivano l'ente collet tivo della gens, cosicchè l'eredità
sarebbe in certo modo ritornata alla gente considerata nella propria
universalità , e sarebbe così ve nuta a ricadere in quell'ager gentilicius, da
cui si erano staccati i primitivi heredia delle singole famiglie. Era sopratutto
in questa parte, che erasi cercato di mantenere viva nella città l'antica orga
nizzazione gentilizia : ma l'istituzione non potè mantenersi a lungo come lo
dimostra Gaio, il quale parla di questo ius gentilicium , come di cosa andata
da lungo tempo in disuso (1) . Non ha poi bisogno di essere dimostrato, che
questo sistema di successione per legge, desunto dall'antica organizzazione
gentilizia , trovava il proprio compimento nella disposizione, per cui la
succes sione del cliente o del liberto , che fosse morto senza testamento o
senza eredi suoi, veniva dalla legge ad essere devoluta al patrono, od ai figli
di lui, od infine alla gente del patrono: « si cliens in testato moritur , cui
suus heres nec escit, pecunia ex eius fa milia in patroni familiam redito »
(2). omnium agnatorum . Quando poi venne meno quest' indivisione del
patrimonio, si chiamarono agnati tutti coloro, che sarebbero stati soggetti
alla patria potestà, quando il padre non fosse premorto . Fra essi ULPIANO,
loc. cit., comprende anzitutto quelli, che egli chiama i consanguinei , « id
est fratres et sorores ex eodem patre » ; poscia , quando questi manchino, gli
altri agnati prossimi « id est cognatos virilis sexus, per mares discendentes,
eiusdem familiae , (1) Gaio , III, 17 ; UlP ., Fragm ., XXIV, 1. Noi abbiamo
tuttavia CICERONE, De orat., I, il quale accenna ad una causa di eredità ,
dibattutasi davanti ai Centum viri fra i Claudii patrizii ed i Marcelli
discendenti da un loro liberto , in cui dice che gli oratori delle parti dovettero
occuparsi « de toto stirpis ac gentilitatis iure » . Sembra tuttavia, che anche
all'epoca di Cicerone fossero già infrequenti le cause di questo genere . (2 )
Ulp., L. 195, § 1, Dig . (50, 16). Nella ricostruzione del Voigt, I, pag. 705 ,
questa legge sarebbe la 4a della Tavola IV. Vedi ciò che dice lo stesso Voigt,
II, pag . 392 e 393, quanto alla successione del patrono al liberto. Anche
quanto alla successione del liberto si manifesta una specie di antagonismo fra
la successione testamentaria e la legittima ; poichè,mentre nella prima il
liberto poteva nei primi tempi (V. Gaio, III, 40-41) dimenticare impunemente il
suo patrono , la seconda invece, introdotta eziandio dalle XII Tavole, tendeva
a richiamare il patrimonio del liberto alla famiglia del patrono, quando il
primo fosse morto senza eredi suoi. 548 425. Per contro è assai degno di nota ,
che, unitamente al sistema della successione legittima, dalla legislazione
decemvirale fu eziandio introdotto il sistema della tutela legittima. Di cid abbiamo
l'espressa attestazione dei giureconsulti ( 1): ma la prova più convincente
vuolsi riporre nella circostanza, che il sistema della tutela legittima, quale
ebbe ad essere regolato dalle XII Tavole, é coordinato con quello della
successione legittima, ed obbedisce al medesimo concetto ispi ratore. Per
giustificare la cosa i giureconsulti più tardi misero in nanzi la
considerazione, che l'onere della tutela doveva cadere su coloro , che avevano
il vantaggio della successione : « ubi emolu mentum successionis, ibi onus
tutelae » ; ma la causa storica deveessere cercata nel fatto, che tanto la
tutela , che la successione le gittima si informano ancora ai concetti
dell'organizzazione genti lizia , da cui furono desunte , e come tali mirano a
conservare il patrimonio prima alla famiglia agnatizia e pos cia alla
gente. Viene così a comprendersi, come nel sistema primitivo la tutela degli im
puberi ed anche la cura dei prodighi e dei furiosi , fosse affidata agli agnati
ed ai gentili ; come le donne, anche perfectae aetatis , cadessero sotto la
tutela degli agnati; come infine le res mancipii, spettanti alle medesime e ai
pupilli, non potessero essere usucapite , quando non si fossero alienate col
consenso del tutore. Così pure viene a spiegarsi quel singolare carattere della
tutela primitiva del l'impubere , la quale mira piuttosto alla conservazione
del patrimonio, che non alla educazione della persona , la cui cura soleva
essere lasciata alla madre ed agli altri congiunti, i quali si ispiravano di
preferenza all'affetto del sangue, che all'interesse gentilizio di ser bare
integro il patrimonio famigliare (2) . i 426. Chi tuttavia riguardi al
posteriore svolgimento del diritto civile romano, può facilmente inferirne, che
tanto il sistema della successione, quanto quello della tutela legittima, non
trovarono mai favorevole svolgimento nella opinione comune della cittadinanza
ro mana. Conformi al modo di pensare di quella minoranza patrizia , che si
atteneva strettamente alle tradizioni gentilizie , esse invece ripugnavano al
modo di sentire delle altre classi, i cui rapporti di ( 1) Ulp., Fragm ., XI, 3
. (2) È da vedersi, quanto alla tutela legittima e ai suoi caratteri peculiari,
il Pa DELLETTI, Op. cit ., pag . 188 e le note relative. 549 famiglia si
ispiravano di preferenza al vincolo naturale del sangue e della cognazione. A
misura poi, che le traccie dell'organizzazione gentilizia si venivano
dissolvendo sotto l'influenza della vita citta dina, questo sistema di
successione e di tutela apparve disadatto a quei magistrati stessi, che
dovevano applicarlo . È questo il motivo, per cui Gaio a questo proposito non
parla solo di sottigliezze del l'antico diritto , ma di vere iuris iniquitates
; alle quali cercò poi di riparare il diritto pretorio , introducendo, accanto
alla successione legittima, una successione pretoria , e creando , accanto ai
tutores legitimi, i tutores Atiliani o dativi. Fu pur questo il motivo, per cui
i giureconsulti mal potevano spiegarsi la tutela perpetua , a cui le donne
erano sottoposte nell'antico diritto , e vennero creando essi stessi degli
espedienti giuridici , quale fu quello veramente ca ratteristico della coemptio
cum fiducia , per liberarle da una tutela , le cui ragioni dovevano forse
essere cercate in un periodo anteriore di organizzazione sociale ( 1). In ogni
caso poi una prova di questa generale condanna del si stema di successione e di
tutela legittima può scorgersi eziandio nel largo sviluppo che presero in Roma
la successione e la tutela testamentaria , e nell'antagonismo che sembra
esistervi fra le due maniere di successione. $ 5. – Rapporti fra la successione
legittima e la testamentaria nel diritto primitivo di Roma. 427. È noto che in
Roma la successione legittima e la testamen taria non poterono mai fondersi
insieme, e si mantennero anzi in una specie di antagonismo fra di loro . Ciò è
dichiarato espressa mente dal giureconsulto, che scorge nelle due istituzioni
un natu (1) Fra i giureconsulti, che non sanno darsi ragione della tutela
perpetua , a cui le donne erano sottoposte, abbiamo Gaio, I, 190. È tuttavia a
notarsi, che egli, più sotto, I, 192, finisce per indicare la vera ragione, per
cui anche le donne erano sot toposte alla tutela dei loro agnati; la quale
consiste in ciò , che siccome gli agnati erano chiamati a succedere alle donne,
che morissero ab intestato , così essi avevano interesse a che esse, senza il
loro consenso , non potessero fare testamento, nè alienare le cose più
preziose, che entravano a costituire il patrimonio. Per tal modo la tutela
degli agnati ebbe lo scopo stesso della loro successione legittima , quello
cioè di conservare il patrimonio nella famiglia agnatizia ; il qual concetto è
per certo uno di quelli, le cui origini debbono essere cercate nel periodo
gentilizio. 550 rale conflitto ; è confermato dalla massima : nemo paganus
partim testatus, partim intestatus decedere potest ; ed è provato eziandio da
quella specie di ripugnanza , che avevano i Romani a morire senza testamento :
ripugnanza , che si spinse fino a tale da ritenere pressochè disonorato chi
morisse senza testamento. Il fatto può quindi essere affermato con certezza ;
ma è tanto più ardua la spie gazione di esso , come lo dimostra la varietà
grandissima di opinioni e di congetture , che furono emesse in proposito (1 ).
Credo tuttavia , che anche in questa parte possa condurci a qualche
conclusione, forse nuova, lo studio delle origini del ius quiritium . Questo
studio infatti ci pone in grado di affermare, che la succes sione legittima ed
il testamento hanno avuto una origine e uno svolgimento compiutamente diversi
nel primitivo ius quiritium . Mentre la successione e la tutela legittima , le
quali soltanto colle XII Tavole entrarono a far parte del diritto comune , sono
istitu zioni di origine prettamente gentilizia , ispirate al concetto di ser (
1) L'origine storica della massima « nemo paganus, ecc. » è una questione, che
è lungi dall'essere risolta , malgrado la ricchissima letteratura , di cui fu
argomento . Fra autori, che la esaminarono di recente , citero soltanto il
RUGGERI, nei Documenti di storia e di diritto; il CARPENTIER, nella Nouvelle
Revue historique, 1886 , pag . 449 a 474 ; il Padel LETTI, La istituzione di
erede ex re certa (« Archivio giuridico » , vol. IV ). Anche l'ESMEIN , La
manus, la paternité , ecc., pag . 4 , nota 10. accenno di passaggio ad una
spiegazione di questa massima , dicendo che la medesima proveniva da che il
patrimonio si trasmetteva come l'accessorio di un culto, e che siccome di un
culto non si poteva disporre per una parte soltanto, così non si poteva neppure
lasciare un'eredità parte per testamento e parte per legge. Parmi che questa
non possa an cora essere la risoluzione definitiva : poichè se un culto poteva
dividersi fra più eredi legittimi, non vi può essere ragione , per cui non si
potesse anche dividere fra eredi legittimi e testamentarii. Il CARPENTIER poi,
nel suo dotto lavoro sopra citato , verrebbe alla conseguenza , che questa
massima fosse una conseguenza logica del concetto romano, per cui tanto la
successione legittima, quanto la testamentaria , do vevano comprendere
l'intiero patrimonio ; ma anche qui si potrebbe sempre dire, che
quest'universum ius, come poteva dividersi fra gli eredi per legge e
testamentarii ; così avrebbe potuto dividersi eziandio fra gli uni e gli altri.
Secondo il RUGGIERI, Op. cit., il motivo della massima starebbe in ciò , che
anche il testamento dapprima era una vera lex , e quindi doveva prevalere o la
lex publica o la lex testamenti,ma non potevano concorrere insieme; ma egli è
evidente , che questa ragione, se po trebbe valere per il testamentum in
calatis comitiis , non può certo applicarsi al testamentum per aes et libram ,
che non ha più il carattere di una legge. Fu questo il motivo, per cui ho
creduto didover cercare la causa prima di questa mas sima nella stessa
dialettica fondamentale, a cui si informa il diritto primitivo di Roma. 551 -
bare il patrimonio alla famiglia agnatizia ed alla gente ; il testamento
invece, che prevalse nel ius quiritium , non è più il testamento delle genti
patrizie , ma è già un'applicazione dell'atto quiritario per ec cellenza, ossia
dell'atto per aes et libram , che si ispira al prin cipo : uti legassit, ita
ius esto. In quella prevale ancora lo spirito conservatore dell'antico gruppo
patriarcale : mentre in questo già campeggia la fiera individualità del
quirite, la cui volontà solenne mente manifestata deve essere legge, anche per
il tempo in cui avrà cessato di vivere ( 1). A cið si aggiunge, che la
successione legittima e la testamentaria , nella struttura organica del ius
quiritium , muovono da un con cetto fondamentale compiutamente diverso . Mentre
infatti la suc cessione legittima prende le mosse dal ius connubii , ed è
quindi una conseguenza dell'organizzazione giuridica della famiglia romana, il
testamento invece, che prevalse nel diritto quiritario, fu un'ap plicazione del
principio : « qui nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius
esto » ; come tale, esso prese le mosse dal ius commercii, e fu considerato
come un mezzo di disporre libe ramente delle proprie cose (2 ). Fu sopratutto
questa circostanza del l'essere le due istituzioni partite nella loro
elaborazione giuridica da un concetto fondamentale diverso , che impedì alle
medesime di con fondersi e di compenetrarsi insieme; poichè è un carattere
della dialet tica quiritaria , che gli istituti giuridici, una volta separati,
obbediscano ciascuno al proprio concetto ispiratore, nè sogliano mai
confondersi con un altro, che si informi ad un concetto compiutamente diverso .
Tale sembra appunto essere la significazione della celebre regola del
giureconsulto Paolo : « ius nostrum non patitur eundem in paganis et testato et
intestato decessisse , earumque rerum natu raliter inter se pugna est, testatus
et intestatus » (3 ). Per verità (1) Quanto al carattere diverso di queste due
successioni vedi il cap . III , § 4 , in cui si discorre della successione
testamentaria , ed il $ precedente relativo alla successione legittima. (2)
Questo carattere speciale del testamento per aes et libram è attestato ,
ancorchè solo di passaggio , da Cic., De orat., I, 57 , § 245 ; ma è poi
dimostrato all'evidenza da ciò, che questo testamento ebbe ad essere ritenuto
come un negozio, che compie vasi fra testatore ed erede, e in cui la volontà
del testatore dominava sovrana . (3) Paolo, Leg. 7, Dig. (50-17). Secondo il
PadELLETTI, Storia del dir . rom ., pag. 201, questa massima sarebbe invece una
conseguenza della superiorità esclusiva della successione testamentaria sulla
legittima; ma questo non è ancora un motivo adeguato per impedire che le due
eredità si confondessero fra di loro. 552 sarebbe stato illogico, che quel
diritto , il quale in tutto il suo svi luppo tenne sempre mai distinte fra di
loro le obbligazioni e i trasferimenti di proprietà, di cui quelle erano partite
dal concetto primitivo del nexum e questi da quello del mancipium , avesse pui
consentito , che concorressero insieme due istituzioni, le quali muove vano da
concetti fondamentali anche più distanti fra di loro . Questo quindi fu uno dei
casi in cui la logica quiritaria non volle piegarsi alle nuove esigenze, e si
limitò ad introdurre una eccezione a fa vore del testamento dei soldati. 428.
Qui intanto cade in acconcio di esaminare brevemente un'altra gravissima
questione, quella cioè della precedenza, che nel diritto primitivo di Roma
abbia avuto la successione legittima o la successione testamentaria .
Sull'autorità del Sumner Maine, suole essere generalmente seguita l'opinione,
che nella evoluzione storica del diritto romano dovette precedere la successione
ab intestato, poichè la possibilità del testa mento, anche nel diritto romano,
avrebbe cominciato dall'essere am messa soltanto in quei casi, in cui non vi
fosse figliuolanza, e poi sarebbe stata estesa anche agli altri casi ( 1).
Mentre ritengo , che questa opinione possa essere conforme al vero, per quanto
si rife risce al periodo gentilizio , nel quale il testamento non dovette
essere , che un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto, per il caso
in cui non vi fossero dei figli, crederei invece , che essa non sia con forme
all'evoluzione storica , che ebbe ad avverarsi nel ius quiritium . Sonvi
infatti degli indizii, che ci inducono ad affermare, che nel ius quiritium
penetrd dapprima il testamento, mentre la successione legittima vi fu solo
introdotta più tardi, e che il testamento ebbe fin dal principio una prevalenza
incontrastata sulla successione le gittima. È noto infatti, che Ulpiano dice
espressamente, che la suc cessione legittima fu introdotta dalle XII Tavole ,
mentre queste invece avrebbero confermata la successione testamentaria ; il che
indica appunto , che il testamento era già comune ai due ordini, e aveva già
subito l'elaborazione del ius quiritium , mentre la suc cessione legittima non
sarebbe penetrata nel diritto comune, che colla legislazione decemvirale .
Anteriormente a quest'epoca la suc cessione legittima, per ciò che si riferisce
agli agnati ed ai gentili, (1) SUMNER MAINE, L'ancien droit, pag. 186 . 553
doveva probabilmente essere esclusivamente propria delle genti pa trizie, le
cui consuetudini in quest'argomento erano certo diverse dalle semplici
costumanze della plebe ( 1). Appare poi fino all'evidenza dalle espressioni
stesse delle XII Tavole , che la successione testamentaria ha una prevalenza
indiscutibile sulla successione legittima, in quanto che quest'ultima non può
verificarsi, che quando manchi il testa mento (si intestato moritur); il qual
concetto perdurò poi per tutto lo svolgimento storico del diritto civile romano
(2 ). In cid abbiamo un'altra prova, che il ius quiritium non deve essere
considerato unicamente , come il frutto di un'evoluzione lenta e graduata delle
istituzioni giuridiche, a misura che ne occorra il bisogno, ma piuttosto come
il frutto di una selezione su materiali giuridici preesistenti. In esso infatti
istituzioni più antiche penetra rono talvolta più tardi di altre, la cui
formazione nella realtà dei fatti doveva essere più recente. Così, ad esempio,
la successione le gittima, che fu certo la prima a svolgersi nell'ordine dei
fatti, fu l'ul tima a penetrare nel ius quiritium , mentre il testamento, che
era stato ultimo a comparire , fu il primo ad esservi accolto , come quello che
meglio rispondeva a quella potente individualità giuridica , che era il
quirite. — Cid apparirà anche più evidente trattando del si stema delle
actiones, le quali, mentre furono le prime a formarsi nell'ordine dei fatti,
furono invece le ultime ad essere elaborate nel primitivo ius quiritium . (1 )
ULP., Fragm ., XI, 3; XXVII, 5 ; L. 130, Dig. (50-16 ). (2) La prevalenza della
successione testamentaria sulla legittima nel diritto civile romano è provata
da una quantità grande di passi di giureconsulti, fra i quali mi limito a
citaro i seguenti: « quamdiu possit valere testamentum , tamdiu legitimus non
admittitur » (Paolo, L. 89, dig. 50, 17) ; « quamdiu potest ex testamento adiri
hereditas, ab intestato non defertur » (Ulp., L. 39, dig. 29, 2). 554 CAPITOLO
VI. Le legis actiones e la storia primitiva della procedura civile romana. $
1.- Le origini della procedura ex iure quiritium . 429. Quella tecnica
giuridica , di cui già si riscontrarono le traccie nelle varie parti del ius
quiritium , appare anche più rigida e se vera nella parte, che si riferisce
alla procedura delle legis actiones. È qui sopratutto, ove l'elemento giuridico
del fatto umano compare del tutto isolato e disgiunto da ogni elemento estraneo
, e ove l'ela borazione giuridica dell'antico diritto ebbe a spingersi a tal
punto di tecnicismo da rendere difficile alle nostre menti il comprenderne i concetti
direttivi, e la logica inesorabile, a cui obbedi nella pro pria formazione.
Alla difficoltà intrinseca dell'argomento si aggiun sero poi altre cause , che
contribuirono a mantenere in questa parte una quantità di dubbii e di
incertezze, la quale non potè del tutto essere dileguata dalla scoperta delle
istituzioni di Gaio , dalla ricchissima letteratura, che in seguito alla
medesima ebbe a svolgersi sull'argomento (1). È noto infatti, in base alle
attestazioni concordi degli antichi au tori, che la parte dell'antico diritto ,
relativa alla procedura delle legis actiones , ebbe ad essere custodita ed
elaborata dal collegio dei pontefici, anche dopo le XII Tavole, e continuò cosi
ancora a co e (1) Anche qui non mi propongo di dare una bibliografia completa :
ma piuttosto di indicare le opere, di cui ho potuto giovarmi per il punto
speciale di vista , a cui mi collocai in questo lavoro. Fra esse citerò lo
ZIMMERN , Traité des actions, trail . Etienne, Paris 1843; BONJEAN, Traité des
actions chez les Romains, Paris 1845; il KELLER, Il processo civile romano e le
azioni, trad. Filomusi-Guelfi, Napoli 1872; BETHMANN-HOLLWEGG , Der röm .
Civilprocess in seiner geschichtl. Entwichelung, 3 vol., Bonn 1864-66, e
sopratutto il primo, che tratta delle legis actiones ; BEKKER, Die Aktionen d .
röm . Privatrechts, 2 vol., e sopratutto il vol. I, pag . 18-74 ; KAR LOWA ,
Der röm . Civilprocess zur Zeit d. Legisactionen , Berlin 1872 ; BUONAMICI, La
storia della procedura civile romana, Pisa 1886, e sopratutto il 1°, da pag .
15 a 86 ; JHERING , L'esprit du droit romain , tome 36, pag. 312 a 343;
MuiraEAD, Histor. Introd ., pag . 181 a 235 ; Zocco-Rosa , Le palingenesi della
procedura civile romana, Roma 1887 ; WLASSAK, Römische Processgesetze, Leipzig
1888. 555 stituire per qualche tempo un segreto di professione e di casta .
Pomponio infatti attribuisce ai pontefici di aver modellate le legis actiones,
in base alla legislazione decemvirale ; egli anzi dice con Gaio, che di qui
sarebbe provenuta la denominazione di legis actio nes, le quali poi per la
prima volta sarebbero state rese di pubblica ragione da Gneo Flavio ,
segretario di Appio Claudio (1). La notizia poi, che ci pervenne di queste
legis actiones , è molto imperfetta ; poichè lo stesso Gaio , che è forse il solo
che ebbe a discorrerne di proposito, ci descrive il sistema delle legis
actiones nell'ultimo stadio del suo svolgimento , e quindi si limita alla enu
merazione ed alla descrizione dei varii modi o genera agendi, al lorchè questi
furono definitivamente formati, senza farci assistere alla progressiva
formazione di essi, salvo quel poco, che egli ci dice , circa la introduzione
della legis actio per condictionem . A ciò si aggiunge, che Gaio , discorrendo
di un sistema di procedura già andato in disuso ai suoi tempi, si limita a
cenni assai generali, i quali per giunta ci pervennero anche con gravissime
lacune, quali quelle relative alla iudicis postulatio , ed alla condictio (2 ).
430. Da questa notizia, per quanto imperfetta, si possono tuttavia ricavare alcune
illazioni, che, per quanto generali, sono perd impor tantissime per la
ricostruzione della prima procedura quiritaria, che fu senz'alcun dubbio quella
delle legis actiones . È certo anzitutto, che anche in questa parte il
primitivo ius qui ritium non venne creando speciali procedure, per i varii
casi, che si presentavano; ma parti invece da certe forme tipiche di proce dura
, che i pontefici od il magistrato venivano poi accomodando ai casi
particolari, per guisa che le primitive legis actiones costitui scono , secondo
l'esatta espressione di Gaio, altrettanti modi o genera agendi, di cui ciascuno
poteva comprendere una varietà di azioni particolari (3 ). Noi sappiamo in
secondo luogo , che il sistema delle legis actiones è decisamente informato al
concetto , secondo cui la procedura per ogni controversia, che percorresse
tutti i suoi stadii, viene a divi dersi in due parti essenziali , di cui una
compievasi in iure, cioè (1) Pomp., Leg . 2, § 6 , Dig. (1, 2 ) ; Gaio, IV, 11.
(2) V. Gaio, IV, 17, ove manca il foglio, in cui egli doveva trattare
dell'actio per iudicis postulationem , e passare poi a discorrere della legis
actio per condictionem . ( 3) Gaio , IV , 12 , scrive : , lege agebatur modis
quinque etc. 556 davanti al magistrato , e l'altra invece seguiva davanti al
giudice singolo od al corpo collegiale dei giudici, al quale le parti potevano
essere rimesse dal magistrato . Mentre in iure si decideva , se in quel
determinato caso si potesse far luogo all'applicazione della legis actio , e si
dava alla fattispecie la configurazione giuridica delle me desima; in iudicio
invece giudicavasi della ragione e del torto fra le parti contendenti , in base
alla configurazione giuridica , che la controversia aveva assunto davanti al
magistrato ( 1). Ci consta infine, che le legis actiones si dividevano in due
ca tegorie, ispirate ad un concetto compiutamente diverso , in quanto che vi
erano quelle, che miravano a fissare il punto in questione e ad ottenere la
decisione del medesimo, e costituivano così la pro cedura , che potrebbe
chiamarsi processuale o contenziosa ; e quelle invece , che miravano
all'esecuzione del giudicato , e costituivano così la procedura esecutiva .
Nella prima categoria noi troviamo la legis actio sacramento e la iudicis
postulatio , alle quali venne ad ag giungersi più tardi la legis actio per
condictionem ; mentre nella seconda la vera procedura di esecuzione è
costituita dalla manus iniectio , che è diretta contro la persona del debitore
condannato o confesso , poichè solo in pochi casi, determinati dalla legge o
dal costume, è accordata la pignoris capio (2). ( 1) Ho già accennato altrove n
° 243, pag. 296 e seg., come la distinzione fra il ius ed il iudicium debba
considerarsi come una conseguenza necessaria di ciò , che la pubblica giurisdizione
del magistrato non estendevasi dapprima a tutte le con troversie civili e
penali, ma comprendeva soltanto quelle, che eransi sottratte alla giurisdizione
domestica e gentilizia , per essere deferite alla giurisdizione del magi strato
. Di qui la conseguenza, che ogni controversia civile ed ogni accusa penale
davano anzitutto luogo ad una questione preliminare , da decidersi in iure, in
cui trattavasi di vedere, se la controversia , o se il delitto, di cui si
trattava, potessero dare argomento ad un iudicium . Di qui le espressioni di
actionem dare, iudicium dare. Questa distinzione pertanto , fra il ius ed il
iudicium , non ha nulla che fare colla separazione tra il fatto ed il diritto :
ma mira in certo modo a sceverare le questioni, che debbono essere lasciate
alla giurisdizione domestica ed agli arbitra menti privati, da quelle, che
debbono essere giudicate a secundum legem publicam » . (2) Questa distinzione
fra la procedura contenziosa e la procedura di esecuzione non è espressamente
indicata in Gaio, il quale si limita a dare come caratteristica delle legis
actiones , che esse , ad eccezione della pignoris capio , si compievano in iure
, cioè davanti al magistrato ; ma tale distinzione è comunemente accettata e
può dedursi dalla circostanza, che Gaio comincia in effetto a discorrere delle
azioni, che si potrebbero chiamare processuali, e poi viene a parlare delle
procedure esecu . tive, ancorchè queste fossero certo più antiche della legis
actio per condictionem. In questo stato di cose , la questione fondamentale,
che pre sentasi all'investigatore delle origini della procedura quiritaria ,
sta in cercare, se il sistema delle legis actiones debba ritenersi creato di
pianta dopo la legislazione decemvirale ed in base alla medesima, o se invece
debba ritenersi costruito e modellato con materiali giu ridici già preesistenti
(1). A questo proposito ho cercato di dimostrare a suo tempo, che già fin dal
periodo regio , cosi nei giudizii penali come nei civili , si possono trovare
le traccie di quella separazione fra il ius ed il iudicium , che venne poi ad
essere fondamentale nel sistema delle legis actiones , e che dovettero fin
d'allora già esistervi delle pro cedure consuetudinarie, certamente analoghe a
quelle, che compa riscono più tardi col nome di legis actiones. Che anzi abbiam
visto eziandio essere probabile, che sopratutto all'epoca serviana, in cui si
cominciò ad elaborare un ius quiritium , comune al patriziato ed alla plebe, e
si modello l'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram ,
siasi pure iniziata la formazione di una procedura propria per le questioni di
carattere quiritario . Le prime origini di tale procedura sembrano accennate
dalla tradizione, che at tribuisce appunto a Servio Tullio, di aver distinto i
giudizii pubblici dai privati, e di aver ritenuto per sè la cognizione delle
contro versie di maggior importanza , mentre avrebbe affidato a giudici scelti
nell'ordine dei senatori, la risoluzione delle controversie di minor
importanza. È infatti questa tradizione, che unita alla considerazione del
grande movimento legislativo , che dovette ve rificarsi in quell'epoca, rende
assai verosimile l'opinione di co loro , che farebbero rimontare a Servio Tullo
l'origine del tribu che egli ci dice essere stata introdotta per l'ultima. Cfr.
BUONAMICI, Op. cit., pag . 19 e 20 . (1) È questa la questione, che fu di
recente presa in esame dallo Zocco-Rosa, Palingenesi della procedura civile
romanı , Roma 1887. Egli ridurrebbe le teorie in proposito enunciate a tre,
cioè : 1) a quella che vuol fare uscire la primitiva procedura dal seno stesso
della religione e del ius sacrum ; 2) alla teoria, che egli chiama della
preesistenza delle legis actiones alle XII Tavole ; 3 ) e alla teoria della
discendenza delle medesime dalle XII Tavole. Egli viene alla conclusione
ammessa dalla generalità degli autori, che prima delle XII Tavole moribus
agebatur , mentre posteriormente lege agebatur. Passa poi a cercare le origini
della primitiva proce dura consuetudinaria presso i popoli di origine Aria, e
questa sarebbe ricerca di grande interesse ; ma forse per ora non si hanno
ancora materiali sufficienti per giungere ad una conclusione definitiva) nale quiritario dei centumviri, quella dei
iudices selecti, ed anche la prima distinzione fra l'actio sacramento e la
iudicis postulatio ; di cui quella avrebbe aperto l’adito al centumvirale
iudicium , e questa invece alla nomina di arbitri o di giudici, scelti dal
novero dei iudices selecti. Questi indizii tuttavia , che accennano alla for
mazione di una procedura quiritaria, anteriore alle XII Tavole , non
impediscono punto, che la medesima abbia dovuto subire un rima neggiamento in
tutte le sue parti, di fronte ad un avvenimento cosi importante per il diritto
privato di Roma, quale fu quello della le gislazione decemvirale . Non parmi
quindi, che possano essere respinte le attestazioni con cordi degli antichi
autori, secondo cui la procedura civile, se non creata , dovette almeno essere
rimaneggiata , in base alla legislazione decemvirale, per opera del collegio
dei pontefici, e che in quell'oc casione appunto le actiones, essendo state
accomodate alla legge, abbiano assunta la denominazione caratteristica di legis
actiones. Che anzi da questo fatto parmi si possa indurre con fondamento , che
la parte del ius quiritium , relativa alle legis actiones, dovette essere
l'ultima ad essere elaborata dai veteres iuris conditores , al lorchè già erasi
formato un vero ius quiritium , e che, ciò stante, questa parte , per essere
sopraggiunta più tardi, quando le altre già erano formate , non potè ridursi ad
una semplice incorporazione di consuetudini processuali già preesistenti, ma
dovette già essere il frutto di una selezione e di una elaborazione, a cui le
medesime furono sottoposte. Nė può ritenersi improbabile , che questa elabo
razione abbia potuto essere l'opera degli stessi pontefici, quando si ritenga,
che essi da una parte erano i custodi delle tradizioni delle genti patrizie e
personificavano in certo modo lo spirito conserva tore delle medesime, e dall'altra
furono senz'alcun dubbio i creatori della tecnica giuridica , e i primi maestri
alla cui scuola si forma rono i grandi giureconsulti della Repubblica e dei
primi secoli del l'Impero. Parmi anzi, che questa elaborazione dei pontefici,
giure consulti e patrizii ad un tempo, valga a spiegare quel doppio carattere
dell'antica procedura romana, la quale nelle proprie forme e nei proprii
vocaboli richiama ancora l'organizzazione patriarcale, mentre sotto un altro
aspetto è già un capolavoro di tecnica giuridica, che corrisponde mirabilmente
alle altre parti del diritto privato romano e al concetto del quirite ,
ispiratore del medesimo. A quel modo in somma, che i veteres iuris conditores ,
trascegliendo fra le forme di matrimonio e di negozii già preesistenti nelle
consuetudini delle - 559 genti italiche , riuscirono a sceverarne un connubium
ed un com mercium ex iure quiritium , e a richiamare l'uno e l'altro a certe
forme tipiche e solenni, che costituirono il diritto esclusivamente proprio
della comunanza quiritaria : cosi essi, operando una scelta fra i modi di
procedere, che già potevano essersi formati nei rap porti fra i capi di
famiglia, e in quelli fra essi ed i loro dipendenti, riuscirono a ricavarne una
procedura tipica, che potè essere consi derata come propria della comunanza
quiritaria . Anche qui pertanto i materiali certo erano preesistenti; ma il
primitivo diritto romano non li accetto senz'altro , quali esistevano, il che
avrebbe dato ori gine ad una varietà di procedure , analoga a quella che
occorre presso gli altri popoli primitivi; ma li sottopose invece ad una se
lezione, riducendoli a quelle forme tipiche , in cui tanto si compia ceva il
genio giuridico romano, come lo dimostra il modo, in cui fu rono modellate
tutte le loro istituzioni giuridiche. Fu in questa guisa , che si riuscì ad una
procedura, la quale , mentre è adatta ad un popolo agricolo e militare ad un
tempo , quale era il popolo romano, porta perd le traccie evidenti
dell'organizzazione patriarcale, da cui usciva, e contiene cosi un ricordo
prezioso delle varie fasi, per cui passo lo stabilimento della civile giustizia
(1) . 432. Noi abbiamo infatti veduto a suo tempo , come già nella stessa
organizzazione gentilizia , e sopratutto, allorchè al disopra della gens venne a
svolgersi la tribus, e colla riunione dei vici si formò il pagus, già potessero
sorgere controversie di carattere giu ridico fra i varii capi di famiglia , ed
anche fra essi ed i loro di pendenti, e come il bisogno di venire alla
risoluzione di tali con ( 1) Questa spiegazione intorno all'origine delle legis
actiones ha il vantaggio di mettere d'accordo fra di loro i passi di antichi
autori, relativi a quest'argomento, che pervennero fino a noi. Con essa infatti
può conciliarsi la vetustissimi iuris ob servantia, a cui accenna Pomponio,
coll'attestazione concorde dello stesso Pomponio e di Gaio, secondo cui le
legis actiones furono composte ed accomodate sulle parole stesse delle XII
Tavole. Questi due caratteri, pressochè in opposizione fra di loro , possono
conciliarsi fra di loro , quando si accetti la teoria , svolta più sotto, di
distin guere nella legis actio, come già nell'atto per aes et libram due parti,
cioè la parte mimica , e la verborum conceptio. È la prima, che costituisce una
vetustissimi iuris observantia , ed è un ricordo delle varie fasi attraversate
nello stabilimento della civile giustizia ; ed è la seconda , che potè invece
essere accomodata e composta sulle parole stesse della legge. GAIO , IV , 11 ;
POMP., Leg. 2 , 8 6 e 24 , Dig. ( 1,2). 560 troversie, abbia potuto dare
origine a certimodi di procedura, che col tempo dovettero acquistare una vera
autorità consuetudinaria (1) . Da una parte si dovette formare una procedura
fra i capi di fa miglia , uguali fra di loro , che nella loro fiera
indipendenza non accettavano altro giudice, che quello che erasi fra loro
concordato , il quale , anzichè giudice diretto della controversia , lo era
invece della scommessa, con cui cercavano di rafforzare l'affermazione so lenne
della propria ragione . Questa è quella procedura , che presso i romani fu
ridotta ad una forma tipica, e denominata actio sacra mento , le cui traccie
trovansi non solo fra le genti italiche , ma anche fra le elleniche, e presso i
popoli Arii dell'India (3). L'altra invece fu una procedura , la quale ricorda
ancora uno stato di privata violenza, e che probabilmente dovette svolgersi nei
rapporti fra i vincitori ed i vinti, e più tardi nei rapporti fra la classe
superiore dei padri, dei patroni, dei patrizii, e quella infe riore dei servi,
dei clienti e dei plebei. Essa nelle proprie origini dovette essere una
effettiva manus iniectio , ma poscia fu richiamata ad una significazione
giuridica, e significò l'esercizio anche violento della potestà giuridica
spettante a una persona , come lo dimostra il fatto, che essa continuò anche
più tardi ad essere adoperata dal padrone sul servo, dal padre sul figlio, ed
anche dal patrono sul liberto (3 ). Or bene entrambe queste forme di procedere,
che certo ricordano un periodo anteriore di organizzazione sociale, entrarono
nella com pagine del ius quiritium , e vi furono modellate per modo da cor
rispondere alle altre parti di esso . La prima fu adottata come azione tipica ,
allorchè trattasi di istituire un giudizio fra quiriti : come tale essa mira a
serbare la più scrupolosa imparzialità ed ugua glianza fra i contendenti, non
sapendosi ancora chi possa essere il vincitore e chi il soccombente . La
seconda invece fu adottata come azione tipica , allorchè trattasi di procedere
all'esecuzione contro chi abbia subita una condanna, o confessato il proprio
debito . ( 1) Quanto alla primitiva formazione delle actiones, nei rapporti fra
i capi di fa miglia della stessa tribù e in quelli fra i capi famiglia e i loro
dipendenti, vedi ciò , che si è detto nel lib . I, cap. V , § 3º, pag. 130 e
segg. (2 ) V. in proposito lib . I, nº 104, pag. 135 , nota 14. Cfr. il SUMNER
MAINE, Early history of institutions, Lect. IX ; e lo Zocco- Rosa , Op. cit.,
pag . 209 e seg . (3 ) V., quanto alle prime origini della manus iniectio, lib
. I , nº 106 , pag . 137. Cfr. CAPUANO, Storia del diritto romano , Napoli 1878
; Cugino, Trattato storico della procedura civile romana, pag. 116 ; BuonamiCI,
Op. cit., pag. 58. - 561 433. Di qui provennero i caratteri compiutamente diversi
del l'actio sacramento e della manus iniectio. Nella prima abbiamo una
procedura fra eguali ; quindi i con tendenti sono in certo modo attori e
convenuti ad un tempo : sono le persone, fra cui si discute , che recansi
dinanzi al magistrato . Esse fingono un combattimento fra di loro; affermano
con identiche parole il proprio diritto; fanno le medesime scommesse di 50 o di
500 assi , secondo il valore della controversia ; sono ugualmente obbligati a
dare garanzia (vindicias dare) se siano ammessi al possesso della cosa , che
forma oggetto della controversia . Lo scru polo nel mantenere l'uguaglianza non
potrebbe spingersi più oltre, ed è uguale anche il pericolo per l'uno e per
l'altro dei contendenti; poichè la somma scommessa si perde dal soccombente , e
mentre nell'epoca gentilizia era forse consacrata ad usi religiosi, nel periodo
storico deve andare invece a benefizio del pubblico erario (1). L'altra
procedura invece, rozza, violenta suppone una assoluta disuguaglianza fra i
contendenti. Quella stessa legge, che procedeva titubante e quasi diffidente
per il timore dioffendere l'indipendenza dei contendenti, non teme invece di
accordare diritti illimitati e pres sochè senza confine al creditore contro il
iudicatus ed il confessus. Essa non si preoccupa dei beni di quest'ultimo, ma
dà diritto al creditore di procedere contro la persona del debitore, di imporre
sopra di lui la sua manus, e di trascinarlo avanti al magistrato per farsi
aggiudicare la persona del debitore stesso . Questi invece non ha diritto di
reagire contro la violenza del creditore (a se de pellere manum ) né di agere
pro se lege ; ma solo di nominare un altro, che faccia valere le sue ragioni
(vindicem dare) (2 ). Mentre l'actio sacramento è come una rappresentazione
simbolica (vis festucaria) di quel combattimento effettivo (vis realis), a cui
poteva dar luogo una privata controversia fra capi di famiglia indipendenti e
sovrani, dell'interporsi fra essi di un vir pietate gravis, dell'affermazione
scambievole della propria ragione, fatta dai contendenti e rafforzata da una
scommessa , della quale deve esser giudice quegli a cui le parti si sono
rimesse ; la manus in (1) Tutti questi caratteri della legis actio sacramento
si possono ricavare dalla descrizione di quest'azione fatta da Gaio, IV , 13 a
17, per quanto la medesima presenti molte lacune, sia quanto all' actio
sacramento in personam , che quanto all'actio sacramento relativa agli immobili
. (2 ) Gaio , Comm ., IV, 21 a 26 . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma.
36 562 iectio invece è la procedura del vincitore contro il vinto , di colui,
che ha il diritto, contro colui, il quale ne è privo, di quegli, che può
dettare la legge, contro colui, che deve subirla. Anche la controversia è una
lotta : quindi se durante la me desima deve essere serbata l'uguaglianza ,
allorchè invece essa è finita , il vincitore può stendere la propria mano sul
vinto e questi è forzato ad arrendersi. Era poi naturale, che la procedura di
un popolo agricolo e militare ad un tempo , per cui l'asta era il sim bolo del
giusto dominio , venisse eziandio ad essere simboleggiata in una specie di
lotta e di conflitto . 434. È tuttavia degno di nota, che i pontefici,
nell'accogliere e nel modellare queste forme di procedura, si attennero ad un
processo del tutto analogo a quello , che abbiam visto essersi seguito nel fog
giare le forme dei negozii giuridici del diritto quiritario . Al modo stesso,
che nell'atto quiritario per aes et libram può ravvisarsi una parte , che
compievasi « dicis gratia , propter veteris iuris imitationem » e che
costituiva cosi un ricordo del passato , ed una parte veramente viva, che era
la nuncupatio, mediante cui un medesimo atto poteva accomodarsi ad una varietà
grandissima di negozii, anche di carattere compiutamente diverso ; cosi anche
nella procedura primitiva , miri essa ad istituire un giudizio od alla
esecuzione di un giudicato, possono facilmente distinguersi due parti, che
compiono una funzione compiutamente diversa. Havvi anzitutto una parte, che
potrebbe chiamarsi mimica, che si presenta sempre uniforme ed uguale , la quale
è mantenuta evidentemente più come un ricordo del passato, che per l'utilità
effettiva, che si possa ricavarne; come lo dimostra la disinvoltura , con cui
si accettano gli espedienti, che mirano a semplificarla . Questa parte
nell'actio sacramento è rappresentata dal recarsi sul luogo, ove trovasi
l'oggetto in contestazione , se trattisi di immobile ; dal portare davanti al
magistrato la cosa mobile o una particella di essa ; dal simbolo della festuca,
che adoperavasi hastae loco; dalla finta manuum consertio , dalla mutua
provocatio , e dal sacra mentum . Nella manus iniectio invece essa è
rappresentata dal fatto di adprehendere manu qualche parte del corpo del
proprio debitore. È questa parte mimica, la quale, costituendo in certomodo una
soprav vivenza , col tempo divento pressochè incomprensibile, e potè talvolta
essere posta in derisione, anche da autori antichi e fra gli altri da Cicerone.
E tuttavia a notarsi, che lo stesso Cicerone, allorchè scrisse 563
nell'interesse del vero e non in quello del cliente, non dubito di dichiarare,
che era di grande diletto questa impronta di vetusta , inerente alle legis
actiones, e di affermare che : « actionum ge nera quaedam maiorum consuetudinem
vitamque declarant» (1). Queste formalità infatti, conservateci da un popolo ,
che, più di qualsiasi altro , seppe sceverare l'essenzialità del fatto umano
dalle circostanze accidentali del medesimo, sono anche oggidi un impor
tantissimo documento del modo di pensare e di agire. che era proprio delle
primitive genti italiche. Intanto perd, accanto a questa parte, il cui
mantenimento era l'effetto dello spirito conservatore del popolo romano, eravi
eziandio la parte veramente viva ed attuosa , e questa consisteva in quelle concezioni
verbali, solenni e precise (conceptiones verborum , verba concepta , certa
verba ), che servivano a dare una configurazione giuridica alle varie
fattispecie e a farle entrare nella veste rigida delle legis actiones (2). Era
in questo modo, che, malgrado la va rietà infinita delle fattispecie, si
riusciva ad isolare l'obbiettività giuridica delle medesime e a richiamarle
tutte a pochissimi genera agendi. Questo era l'ufficio, a cui attesero dapprima
i pontefici, poi il pretore , e da ultimo i giureconsulti, e fu con questo
magistero che la sola actio sacramento fini per essere accomodata a tutte le
controversie di carattere quiritario , e la sola manus iniectio poté bastare a
qualsiasi procedura esecutiva . Vuolsi quindi conchiudere, che queste due legis
actiones costi tuiscono in certo modo il nucleo centrale della procedura
quiritaria . Esse sono quelle, in cui si può leggere il modo di pensare e di
agire del primitivo quirite, fiero , indipendente , geloso del proprio (1) Co.,
Pro Murena, vol. 2, scherza spiritosamente sull'actio sacramento, relativa alla
proprietà di un fondo, dimostrando come le forme primitive avessero complicata
una procedura, che avrebbe potuto essere semplice e pronta. Egli però nel De
orat., I, riconosce eziandio quanto possa essere di dilettevole e di utile in
questo studio dell'antico, allorchè scrive : « Nam si quem aliena studia
delectant, plurima est in omni iure civili, et in pontificum libris , et in XII
Tabulis antiquitatis effigies, quod et verborum prisca vetustas cognoscitur, et
actionum genera quaedam maiorum con suetudinem vitamque declarant. ( 2) A mio
avviso, la conceptio verborum nella legis actio tiene il posto stesso della
nuncupatio nell'atto per aes et libram . Ciò sarà meglio dimostrato più sotto,
nº 449, ed apparirà così la costanza e la coerenza dei processi, a cui suole
atte nersi il primitivo diritto romano. 564 diritto , finchè la sentenza non
sia pronunziata ; umile , sottomesso , pronto ad abbandonare se stesso al
proprio creditore, allorchè sia stato soccombente nella lotta giudiziaria .
Intanto però, accanto a queste due procedure fondamentali, se ne vennero
svolgendo delle altre , che sembrano sussidiarne l'azione, e quindi importa di
ri cercare lo svolgimento storico , così della procedura contenziosa, che della
procedura esecutiva. § 2. – Lo svolgimento storico della procedura contenziosa
nel primitivo diritto. 485. Se l'actio sacramento costituisce il nucleo
centrale della procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones, noi
sappiamo però, che attorno ad essa fin dai primi tempi si vennero svolgendo la
iudicis postulatio fra i cittadini, e la recuperatio fra cittadini e stranieri,
e che alle medesime più tardi venne ancora ad aggiun gersi la legis actio per
condictionem . Importa quindi di determinare la funzione, che questi vari
genera agendi esercitarono sulla pri mitiva procedura , e di ricercare eziandio
l'ordine progressivo della loro formazione. Delle antiche legis actiones,
quella , intorno a cui ci pervennero maggiori notizie , è certo l'actio
sacramento . Noi sappiamo della medesima, che generalis erat, in quanto che
poteva essere adoperata per tutte le controversie, per cui non fosse stata
introdotta altra speciale procedura , si trattasse di agere in rem , od anche
di agere in personam . Essa quindi sembra riportarci ad un'epoca, in cui non
doveva esistere ancora la distin zione fra l'azione in rem e l'azione in
personam ; il che però non impedisce , che essa presentasse delle differenze
nelle solennità e nelle espressioni adoperate, secondo che trattavasi di agere
in rem o di agere in personam . Cosi pure in essa non vi è ancora la distin
zione netta e precisa fra l'attore ed il convenuto, ma i contendenti sono
attori e convenuti ad un tempo, come lo dimostra l'identità delle espressioni
da essi adoperate . Infine essa non conduce alla ri soluzione diretta della
controversia, ma piuttosto a giudicare quale dei due contendenti abbia
affermato il vero e quale il falso , e quale perciò debba essere soccombente
nella scommessa fra i medesimi intervenuta (utrius sacramentuin iustum , utrius
sacramentum in iustum sit) ; cosicchè in essa il soccombente, oltre al perdere
in 565 - direttamente la lite , corre anche il rischio di perdere la scom messa
(1) . Noi sappiamo poi, quanto alle controversie che dovevano rivestire la
forma di questa legis actio, che essa costituiva un preliminare indispensabile
per tutte le cause di carattere veramente quiritario , le quali erano
sottoposte al centumvirale iudicium , ed anche per quelle relative alla verità
ed allo stato delle persone (caussae liberales), quanto alle quali noi
sappiamo, che il sacramentum era solo di cinquanta assi (quinquagenarium ), e
che esse erano devolute ai decemviri stlitibus iudicandis (2 ) . Tutti questi
caratteri imprimono un suggello di vetustà all'actio sacramento , e ci
richiamano a quella potente sintesi, che è carat teristica del primitivo ius
quiritium , in cui non distinguesi ancora fra diritto personale e reale , fra
attore e convenuto , fra la provo . catio e la litis contestatio . Si comprende
quindi, che la mimica , che la precede, sia come un ricordo dei varii stadii,
per cui passò lo stabilimento della civile giustizia , fra i capi di famiglia ,
e che essa , trapiantata dall'organizzazione gentilizia nella città, sia stata
rico nosciuta come l'azione tipica del diritto quiritario . Ciò spiega eziandio
come essa, mentre è certamente la più antica , sia stata anche la più duratura
delle legis actiones; poichè, quando le altre furono abolite, continud pur
sempre ad essere mantenuta qual preliminare al centumuirale iudicium , cioè
davanti a quel tribunale dei cen tumviri, che può essere considerato come il
tribunale essenzial mente quiritario , sia per il modo, in cui era composto,
sia per le controversie , che gli erano sottoposte, che erano appunto quelle,
che riguardavano la posizione di ciascun cittadino nel censo , e quindi anche
nello Stato ( 3). (1) GAIO, IV , 13 a 17 : Cic., Pro Caecina, 33, ove dice ,
che in una causa da lui trattata per la libertà di una certa Aretina fu deciso
, che il suo sacramentum era iustum . Di qui le espressioni: iusto sacramento
contendere , iniustis sacramentis petere. ( 2) La necessità della legis actio
sacramento , per una causa da istituirsi davanti al centumvirale iudicium , è
dimostrata dal fatto che , secondo Gaio , IV , 31, anche dopo l'abolizione
delle legis actiones, fu ancora permesso di agire in questa guisa : a domini
infecti nomine, et si centumvirale iudicium futurum sit » . È poi lo stesso
Gaio , IV , 14 , il quale ci attesta, che le cause di stato erano precedute
dall'actio sacramento, in quanto che egli afferma, che in base alle XII Tavole
il sacramentum per una questione di libertà era solo di cinquanta assi. L'uso
del sacramentum nelle caussae liberales è poi anche confermato da Cic., Pro
Caec. 33 . (3) La competenza del centumvirale iudicium , per le cause di
carattere eminente. - 566 436. È invece ben poca cosa quello , che ci pervenne
intorno alla legis actio per iudicis postulationem . Dal palimpsesto di Verona
non si potè ritrarne, che il titolo , mentre da Valerio Probo si ricavo la
formola , che dovette adoperarsi per ottenere la nomina di un giudice o di un
arbitro : iudicem arbitrumve postulo uti des. Nelle XII tavole poi sono
indicati varii casi, in cui trattandosi di controversie di carattere
indeterminato, che suppongono una certa libertà di apprezzamento , e che
talvolta sono anche designate col vocabolo di iurgia , piuttosto che con quello
di lites, si propone la nomina di uno o più arbitri ( 1). Bastano tuttavia
questi pochiindizii per dimostrare le molte e gravi differenze , che la
contraddistinguono dall'actio sacramento . Essa in fatti già suppone la persona
dell'attore distinta da quella del conve nuto ; suppone una amministrazione
della giustizia già organizzata , in cuiil magistrato procede alla designazione
del giudice ; conduce alla risoluzione diretta della controversia ; non trae
più con sè, per quanto almeno noi possiamo saperne, il pericolo di perdere una
scommessa . Essa parimenti, come lo indica la sua denominazione, non conduce
più alla rimessione dei contendenti avanti ad un tribunale collegiale , come
quello dei centumviri e dei decemviri; ma dà origine ad un iudicium privatum ,
nel vero senso della parola, in cui il giudice o l'arbitro , secondo un
antichissimo costume ro mano, dovevano essere concordati fra le parti (2 ).
Essa infine differisce eziandio dall'actio sacramento per il ca rattere di
indeterminatezza delle controversie , che ne formavano oggetto , le quali
supponevano una certa libertà di apprezzamento 1 mente quiritario, è attestata
dall'enumerazione fatta di tali cause da Cic., De orat., I, 38. (1) I casi, in
cui la legge decemvirale parla di nomine di arbitri , sono quelli relativi al
regolamento di confini: « si iurgant de finibus, tres arbitros dato » ; alla
divisione dell'eredità fra i coeredi (actio familiae erciscundae);
all'apprezzamento del danno dato dall'acqua piovana (arbiter aquae pluviae
arcendae) e qualche altro caso analogo. Vedi KELLER, Il processo civile romano,
$ 7, pag. 25 ; ORTOLAN , Expli cation historique des Institutes de Iustinien ,
Paris 1883, III, pag. 494. (2 ) Sebbene non si possa dire, che il centumvirale
iudicium si contrapponga in senso stretto al iudicium privatum , tuttavia
occorrono passi di autori , in cui i centumviri sono contrapposti al privatus
iudex , come in Cic., De or., I, 38 , 39; in Quint., Instit. or., 10 , n ° 115,
ove scrive : « alia apud centumviros , alia apud iudicem privatum in iisdem
quaestionibus ratio » . Cfr. ZIMMERN, Traité des actions, pag. 36, nota 3 e 4 .
567 - — nel giudice o nell'arbitro chiamato a risolverlo ; cosicchè, di fronte
al iudicium directum , asperum , simplex , che era istituito col l'actio
sacramento , essa iniziava di preferenza un iudicium od un arbitrium moderatum
, mite , in cui cominciava ad essere lasciata qualche parte a quell'equità e
buona fede, che erano escluse dalle forme rigide e precise del primitivo ius
quiritium . Al qual pro posito vuolsi eziandio notare, che quando si confronti
la denomi nazione attribuita da Gaio a questa legis actio, che è quella di
iudicis postulatio , colla formola serbataci da Valerio Probo, secondo la quale
si domanda un giudice od un arbitro , è lecito di inferirne, che in essa
dovette avverarsi uno svolgimento storico. Essa dapprima infatti dovette
implicare soltanto la nomina di un iudex , sotto il quale vocabolo si
comprendeva anche l'arbiter . Più tardi invece, e probabilmente in seguito alla
legislazione decemvirale , la quale am metteva per certe questioni anche la nomina
di arbitri, essa dovette porgere occasione a quella distinzione fra iudicium ed
arbitrium , la quale presentava ancora tante incertezze all'epoca di Cicerone
(1). 437. Questi caratteri presi insieme mi condurrebbero alla con clusione,
che la iudicis postulatio non presenti più quell'impronta di vetustà , che è
propria dell'actio sacramento, e non possa perciò essere considerata come una
procedura di carattere patriarcale , trasportata nella città . Essa invece
dovette già formarsi sotto l'in fluenza della vita cittadina, e dovette
probabilmente essere una con seguenza della stessa formazione del ius quiritium
. Siccome infatti, secondo appare dalle leggi, che ne governarono la
formazione, il ius quiritium non costitui mai tutto il diritto primitivo di Roma,
ma solo quella parte di esso , che corrispondeva al concetto del quirite , e
che primo era riuscito a consolidarsi mediante il ricono scimento di una lex
publica : cosi ne consegui necessariamente, che anche le controversie, che
potevano sorgere fra i cittadini, si divi ( 1) Cic. , Pro Mur., 12, osserva,
scherzando, che i giuristi non si erano ancora potuti accordare circa l'uso
delle parole di iudex o di arbiter. La difficoltà di allora non è ancora
scomparsa oggidì; poichè la distinzione fra iudicium e arbitrium , fra il ius
strictum e l'aequitas, fra la lis e il iurgium , è una di quelle questioni di
limiti, che non saranno mai definitivamente risolte. Cfr. KELLER , Op. cit ., §
17, pag. 59. Quanto alla differenza fra iudicium strictum e arbitrium , mi rimetto
ad una mil vecchia dissertazione col titolo: « De exceptionibus in iure romano
» Torino 1873 , pag . 28 e segg. 568 dessero naturalmente in due categorie. Vi
erano da una parte le controversie di carattere eminentemente quiritario ,
relative al caput, alla manus, al mancipium , all'atto per aes et libram , ai
negozii rivestiti della forma del medesimo (nexum , mancipium , testa mentum ),
all'eredità e alla tutela legittima; le quali, per poggiare sopra una legge o
sopra un atto od un negozio di carattere quiri tario , potevano ridursi in
certo modo ad una affermazione o ad una negazione, ed accomodarsi così alle
forme rigide dell'actio sacra mento. Vi erano invece dall'altra parte quelle
controversie, le quali, o per l'indeterminatezza del loro oggetto, o per
supporre una certa latitudine di apprezzamento in chi era chiamato a
giudicarle, o per dipendere più dalla consuetudine, che da una vera legge,
abbisogna vano in certo modo più di un arbitro, che non di un giudice, nel
significato ristretto , che ebbe ad assumere più tardi questo vocabolo .
Quest'ultime pertanto richiedevano una procedura più semplice , non
accompagnata dai pericoli dell’actio sacramento , in quanto che le parti
contendenti potevano anche in parte essere nella ragione ed in parte essere nel
torto : quindi è probabile , che siano state ap punto queste controversie, le
quali, al punto di vista quiritario , ave vano minor importanza, che Servio
Tullio avrebbe cominciato a de ferire al iudex privatus, introducendo appunto
per esse la iudicis postulatio. Così pure non è punto improbabile, che nella
precisione ed esattezza del linguaggio primitivo le prime controversie di ca
rattere veramente quiritario si indicassero col vocabolo di vere lites, mentre
le altre fossero designate piuttosto col vocabolo di iurgia (1). Siccome poi
col tempo una parte di quel diritto, che in certo modo esisteva allo stato
fluttuante intorno al nucleo centrale del ius quiritium , fini per essere
attratto dal medesimo, e per entrare eziandio nelle forme rigide e precise del
diritto quiritario ; cosi si può comprendere, come col tempo la iudicis
postulatio , che dap prima aveva un carattere sussidiario , abbia potuto
entrare anch'essa a far parte del sistema delle legis actiones. Ciò anzi
dovette av. venire naturalmente, allorchè la legislazione decemvirale accolse
la iudicis arbitrive postulatio , come lo dimostrano le controversie, ( 1)
L'opinione qui svolta , circa i rapporti fra l'actio sacramento e le iudicis po
stulatio , si avvicina a quella enunziata dal KARLOWA, Der röm . Civilprozess,
pag. 47 e segg.; 122 e segg. 569 per cui essa prescrisse al magistrato di
addivenire alla nomina di un giudice , o di uno o più arbitri. Da quel punto la
iudicis postulatio entrò a far parte del sistema della procedura civile romana
; costitui ancor essa una legis actio ; che anzi, per il minor pericolo che
offriva ai contendenti, dovette acquistare un largo svolgimento, come lo
dimostrerebbe il Voigt, il quale attribuisce un maggior numero di azioni alla
iudicis postulatio , che alla stessa actio sacramento (1). Questo svolgimento
poi fu sopratutto favorito dalla distinzione, che si operò nella stessa iudicis
postulatio , fra il iudicium e l'arbitrium , il quale ultimo, accompagnato
dalla clausola « ex fide bona » , fini, secondo l'attestazione di Cicerone, per
essere applicato, dopo la scomparsa delle legis actiones, in tutti quei
negozii, in cui do mina la buona fede, quali sarebbero la società , la fiducia
, il man dato , la vendita , la locazione e simili . Questi negozii infatti ,
negli inizii, erano ancora esclusi dalla cerchia del ius quiritium , e come
tali non potevano formar tema dell'actio sacramento, ma solo della iudicis
postulatio, alla quale probabilmente dovette appartenere la clausola
conservataci dallo stesso Cicerone : uti ne propter te fi demve tuam captus
fraudatusve siem (2 ). 438. Pervenuto a questo punto nella storia della
primitiva pro ceilura romana, parmi opportuno di arrestarmi alquanto all'esame
di un istituto, il quale, malgrado le sue modeste apparenze , dovette tuttavia
esercitare una potente influenza sullo svolgimento della me desima. Esso è
quell'antichissimo istituto, che è indicato col vocabolo di reciperatio , ed al
quale si rannoda senz'alcun dubbio quella ca tegoria di giudici, o di arbitri,
che vengono sotto il nome di recu peratores. Si è veduto in proposito , che
nelle consuetudini delle genti ita liche era indicata col vocabolo di
reciperatio quella clausola , che soleva aggiungersi aitrattati di amicitia e
di hospitium fra le varie genti o tribù, con cui stipulavasi fra esse un
diritto di reciproca actio , cosicchè i cittadini di un popolo potevano
chiedere ed ottenere ragione nel territorio e presso il magistrato di un altro
. Era con ( 1) Il Voigt, XII Tafeln , I, 586-589, assegnerebbe alla iudicis
arbitrive postu latio ben 35 azioni, di cui nove apparterrebbero agli arbitria
, e il rimanente ai éu dicia propriamente detti. Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd
., pag. 199 . ( 2 ) Cic., De offic., III, 17. 570 - questa clausola , che la
protezione giuridica , in base ad un trattato ( foedus), cominciava ad
oltrepassare la cerchia degli abitanti di un territorio per estendersi a quelli
di un altro , con cui si fosse in amichevoli rapporti. Essa poi aveva questo di
particolare, che po neva in certo modo di riscontro i diritti dei due popoli, e
rendeva anche necessario il ministero di più recuperatores, tolti anche da
popoli diversi, in quanto che i medesimi dovevano rappresentare l'elemento
cittadino e lo straniero ad un tempo (1 ). Quando poi si ritenga, che Roma usci
essa stessa dalla confede razione di genti di origine diversa , e fin dalle
proprie origini cerco di accrescere le proprie forze colle amicizie e colle
alleanze coi po poli vicini, sarà facile a comprendersi, come in essa la
reciperatio sia venuta a cambiarsi in una istituzione permanente , e abbia col
tempo assunto il carattere di una procedura regolare, da applicarsi nei
rapporti fra i cives ed i peregrini. Cid è dimostrato dal fatto , che gli
antichi autori indicano talvolta la recuperatio col vocabolo caratteristico di
actio , e che in Roma i recuperatores, dopo essere stati giudici fra i cives ed
i peregrini, si cambiarono in una cate goria di giudici, che potevano essere
nominati anche per le contro versie inter cives, e sopratutto dal bisogno
sentito più tardi di creare un praetor peregrinus « qui inter peregrinos ius
diceret » (2 ). (1) Ebbi già occasione di parlare della reciperatio,
discorrendo del ius pacis, nei rapporti fra le varie genti, nel lib . 1', capo
VII , § 2º, nº 211, pag . 143. Se fosse lecito di paragonare istituti, che si
svolsero a distanza di migliaia di anni,direi che la reciperatio , nel
passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città nel mondo an tico,
corrispose a quella istituzione, che pure ebbe a svolgersi nel periodo di forma
zione degli Stati moderni, e che si esplicò col nome analogo di reciprocanza di
di ritto, la quale consisteva nell'accordare agli stranieri quella stessa
protezione di diritto, che fosse accordata ai nostri concittadini nello Stato ,
a cui gli stranieri ap partenevano. In quei tempi antichissimi la reciperatio,
come nei tempi moderni la reciprocanza , concorsero alla formazione dell'idea
di una comunanza di diritto fra i diversi popoli, che presso i Romani prenderà
il nome di ius gentium , e che nell'età moderna fu dal Savigny indicata col
nome di comunanza di diritto , la quale, se condo il grande fondatore della
scuola storica, dovrebbe essere posta a fondamento del diritto internazionale
privato. V. Savigny, Traité de droit romain , trad .Guenoux, tome VIII, § 374.
Quanto ai rapporti poi, che intercedono fra il concetto dell'antico ius gentium
, e questa comunanza di diritto fra gli stati moderni,mirimetto ad altro mio
lavoro col titolo : La dottrina giuridica del fallimento nel diritto intern .
privato, Napoli, come pure all'opera : La vita del diritto nei suoi rapporti
colla vita sociale, Torino 1880, pag. 346. (2 ) Quanto all'influenza, che
esercitarono in Roma la recuperatio ed i recupera 571 439. Queste circostanze
intanto rendono probabile la congettura, che in Roma, fin dai più antichi
tempi, dovettero trovarsi di fronte due forme di procedura. L'una, propria dei
quiriti, e perciò adatta al rigore del diritto quiritario ; l'altra invece,
applicabile ai rap porti fra cittadini e stranieri, e percid più semplice e
spedita . Sic come perd uno stesso magistrato sovraintendeva dapprima all'una e
all'altra, cosi esso veniva ad essere posto nella posizione singolare di
proseguire da una parte l'elaborazione del ius quiritium e di sentire
dall'altra l'influenza del diritto degli altri popoli, e di potere cosi
giudicare dell'opportunità e del bisogno di trasportare nella procedura romana
certe semplificazioni, che erano invece proprie della reciperatio . Di qui una
scambievole influenza di queste due forme di procedura, la quale continud
ancora, allorchè l'accre scersi delle controversie condusse a dividere la
iurisdictio fra due pretori, che nella loro stessa denominazione di praetor
urbanus e di peregrinus portano le traccie del dualismo, che essi
rappresentano. Fu questo il motivo per cui, a quelmodo stesso , che i
recuperatores finirono per essere accolti nelle categorie dei giudici fra i
cittadini, così certe procedure, che prima dovettero essere seguite nei rap
porti fra i cives e i peregrini, finirono, come più semplici e spedite , per
essere accolte eziandio nel diritto civile di Roma (1). Che anzi la coesistenza
di queste due procedure dovette , a mio tores, i quali diventarono col tempo
una istituzione romana e furono i modesti pre paratori della maggior opera, che
doveva poi compiere il praetor peregrinus, istituito probabilimente nell'anno
512 dalla fondazione di Roma, vedi KELLER, Il processo civile romano, pag. 28
de segg.; ZIMMERN, Traité des actions, pag. 45 e segg. ; JHERING , L'esprit du
droit romain , I, pag. 235 e segg. ; KarLOWA, Röm . Civil prozess, pag. 218-230
; Bouché-LECLERQ, Instit . rom ., pag. 421 e segg . ; MUIRHEAD, Histor. introd
., pag . 111 e 112 , 123 e 225 , quanto all'applicazione della recuperatio inter
cives. ( 1) Il Keller, Op. cit., pag . 41; nota a ragione: « che il riguardare
la legis actio come propria soltanto dei cittadini romani, è una asserzione più
volte prodotta, ma non pienamente giustificata ». Noi sappiamo anzi da Gaio, IV
, 31 , che coll'actio sacramento poteva procedersi, anche davanti al praetor
peregrinus, al modo stesso che il praetor urbanus nominava dei recuperatores ,
anche per cause inter cives ; ma ciò venne appunto ad essere l'effetto di
questa esistenza contemporanea delle due procedure, la quale condusse ad uno
scambio fra di esse. Intanto qui non può esservi dubbio, che negli inizii le
cause relative allo stretto diritto quiritario, quali erano quelle, che si
recavano davanti al centumvirale iudicium , non potevano essere che assolutamente
proprie dei cives romani o dei latini , o dei peregrini , a cui fosse stato
esteso il ius quiritium . 572 avviso , servire a preparare lentamente certi
effetti, chenegli avve nimenti posteriori appariscono pressochè repentini.
Cosi, ad esempio, essa dovette essere una delle principali cause, per cui,
accanto al concetto rigido del ius civile, si dovette venir gradatamente deli
neando nella mente del pretore e dei giureconsulti, che lo circon davano, il
concetto più largo di un ius gentium , il quale, una volta formato , doveva poi
recare cosi profonde trasformazioni nel primo . Cosi pure egli è probabile, che
il pretore in questa procedura, non essendo vincolato ai terminidi una legge,
dovette avere una maggior libertà nel formolare giuridicamente la controversia
, il che lo pose in condizione di poter lentamente preparare, fin da quel
tempo, in cui fra i cittadini duravano ancora le legis actiones, quel sistema
delle formulae, il quale col tempo doveva poi essere accolto dal ius civile ( 1
). Infine, per non spingere troppo oltre le induzioni, parmi eziandio
probabile, che quella « legis actio per condictionem » , che ultima comparve
nel sistema delle legis actiones, siasi modellata sulla condictio, che certo
già esisteva nella procedura della recuperatio. Noi sappiamo infatti, che
questa era appunto iniziata , mediante una condictio , in quanto che i
contendenti condicebant diem , ossia fis savano di comparire fra trenta giorni,
avanti il magistrato , per ot tenere la nomina dei recuperatores; come lo
dimostrano le espres sioni, che occorrono nelle XII Tavole, di « status,
condictus dies cum hoste » , il quale doveva essere sacro per modo da essere un
legittimo impedimento a comparire in un giudizio fra cittadini. Sembra tut
tavia , che vi fosse una differenza fra la condictio nella procedura inter
peregrinos, e la condictio come legis actio inter cives ; poichè, mentre nella
prima era in certo modo concordato il giorno di com parire avanti al
magistrato, nella seconda invece, secondo la descri zione di Gaio , era
l'attore, che intimava al convenuto (actor adver sario denuntiabat) di
comparire fra trenta giorni avanti almagistrato ad iudicem capiendum (2 ). ( 1)
Quanto all' influenza del praetor peregrinus nel preparare il sistema delle
formole e dell'Editto provinciale nell'estendere il concetto del ius gentium è
da ve dersi il Glasson, Étude sur Gajus, Paris 1885, § 12, pag. 212 e segg.
Cfr. Carle, L'evoluzione storica del diritto romano, Prolus., Torino 1886, pag.
18 e segg. (2 ) Secondo il Voigt, XII Tafeln , I, pag . 697 e 698, la legge 2.
Tav. II, fra le altre cause di legittimo impedimento a comparire avanti il
magistrato, accenna appunto lo status, condictus dies cum hoste . Cfr. quanto
alla « condictio cum hoste » il MuruEAD, Op. cit., pag. 224. - 573 440. Anche
intorno alla legis actio per condictionem ci per vennero notizie molto scarse,
in quanto che il manoscritto di Gaio si presenta manchevole in quella parte, in
cui egli, accingendosi a parlare della legis actio per condictionem , sembrava
accennare alle origini di essa . Da quel poco tuttavia, che egli ne dice, si
può ri cavare : lº che la sostanza di questa legis actio consisteva nella
condictio , o meglio nella denuntiatio , che l'attore faceva al conve nuto di
comparire fra trenta giorni ad iudicem capiendum ; 2º che nella medesima quella
scommessa, che occorreva nel sacramentum , appare surrogata dalla sponsio et
restipulatio tertiae partis, per cui il soccombente, oltre l'importo della
controversia , deve corrispondere al vincitore il terzo della medesima a titolo
di pena ; 3º che infine essa fu introdotta prima da una lex Silia per le
obbligazioni di una certa pecunia e poi estesa dalla lex Calpurnia alle
obbligazioni di una certa res : leggi, che sogliono essere assegnate approssima
tivamente al principio del sesto secolo di Roma (anni 510 a 520 U. C.). Quanto
alla causa , per cui la condictio ebbe ad essere intro dotta, essa forma
oggetto di discussione fra i giureconsulti, i quali ebbero ad osservare, che
per le controversie di questa natura po . tevano servire le anteriori legis
actiones ( 1). Ricomponendo tuttavia questi pochi indizii col resto , che
sappiamo delle legis actiones, si possono ricavare alcune importanti illazioni.
È certo anzitutto , che la condictio non era del tutto nuova, nè quanto al
nome, nè quanto alla sostanza , e non è punto improbabile , che fosse una
imitazione della condictio, propria della procedura inter cives et peregrinos.
Essa poi fu accolta nel sistema delle legis actiones per le controversie, che volgevano
o intorno ad una certa pecunia o intorno ad una certa res: quindi, riguardando
obbliga zioni relative ad un certum , essa dovette restringere il dominio della
(1) Gaio, IV, 17 a 20. Quanto alla stipulatio et restipulatio tertiae partis
essa non è accennata nel testo mutilato di Gaio , relativo alla legis actio per
condictio nem ; ma noi possiamo indurne la esistenza da ciò , che egli dice
altrove, IV , 13 , che questa stipulatio et restipulatio tertiae partis faceva
parte dell’qctio certae cre ditae pecuniae propter sponsionem . Ora l'actio
certae creditae pecuniae, nel sistema formolario, succedette alla legis actio
per condictionem : quindi se essa ritiene questo carattere, che certamente sa
di antico , e richiama sott'altra forma la scommessa del sacramentum , dovette
certo ereditarlo dalla medesima. È poi lo stesso Gaio, IV , 20, che accenna ai
dubbi fra i giureconsulti circa il motivo, per cui fu introdotta questa nuova
legis actio. 574 actio sacramento, anzichè quello della iudicis postulatio, la
quale era propria delle controversie di carattere indeterminato . Per tal modo
la condictio si presenta come una semplificazione dell'actio sacramentu ;
abolisce tutta la parte mimica del sacramentum ; sostituisce, quanto alle
obbligazioni aventi per oggetto un certum , il giudice singolo al tribunale
popolare dei centumuiri; infine sur . roga alla scommessa , che andava a
beneficio dell'erario, la sponsio et restipulatio tertiae partis , che va
invece a benefizio del vinci tore delle lite ( 1 ). 441. Quanto alla causa
storica , che può aver determinata questa semplificazione nella procedura
relativa alle obbligazioni di un certum , essa deve certamente essere cercata
in qualche importantissima tra sformazione, che dovette avverarsi nell'epoca
della lex Silia e Calpurnia , quanto alle obbligazioni di carattere quiritario.
Qui per tanto viene ad aprirsi un largo campo alle congetture ; ma è possi bile
di giungere a qualche risultato probabile, se si tenga dietro al processo
storico del ius quiritium nella parte relativa alle obbli gazioni. A questo
proposito si è dimostrato a suo tempo , che la forma primitiva
dell'obbligazione ex iure quiritium fu quella del l'atto per aes et libram ,
che pigliava il nome di nexum . Colla medesima il debitore sottoponeva senz'altro
la sua persona a tutti i rigori della manus iniectio , per il caso che non
avesse soddisfatto il suo debito a scadenza. In questa parte però il ius
quiritium subi una trasformazione profonda, allorchè la lex Poetelia tolse di
mezzo gli effetti speciali del nexum , negando al medesimo l'efficacia di
un'esecuzione immediata contro la persona del debitore. Da quel momento il
nexum cessò di costituire quell'ingens vinculum fidei che prima era, e cominciò
a cadere in disuso ; ma sottentrarono in suo luogo e vece altri modi,
esclusivamente proprii dei cittadini romani, per assumere l'obbligazione di una
certa pecunia , o di una certa res, quali furono ad esempio la sponsio o
stipulatio, la ex pensi latio o litteris obligatio , o infine la mutui datio,
di cui formano oggetto quelle cose « quae numero, pondere acmensura constant »
. Per tutte queste obbligazioni di un certum , non essendo più consentita la
immediata manus iniectio , che un tempo era con (1) Cfr. in proposito Keller ,
Op. cit., pag. 62 e 63; e il BuonAMICI, Proc. civ. rom ., 1, 52 e segg . 575
sentita per il nexum , non poteva più esservi altra procedura, che quella
dell'actio sacramento , la quale, per il pericolo, che vi era inerente, non
poteva a meno di riuscire grave per i creditori di una somma o cosa certa , il
cui credito risultava in modo solenne da atti riconosciuti dal diritto civile .
Si comprende pertanto, che prima la lex Silia , per una certa pecunia , e poi
la lex Calpurnia , per ogni certa res, abbiano sostituita all’actio sacramento
la legis actio per condictionem , in cui evvi ancora un vestigio dell'antica
scommessa nella sponsio et restipulatio tertiae partis, la quale tuttavia non
va più a benefizio dell'erario, ma è un compenso e come un indennizzo per il
vincitore ed una pena per il soccom bente (1 ). Siccome poi nel diritto romano
ogni istituto , che riesce a pene trare nella compagine di esso , ben presto si
rivendica il posto , che gli compete, e riceve tutto lo sviluppo, di cui può
essere capace; così la condictio , appena fu ammessa come legis actio, essendo
più semplice , più spedita , meno pericolosa dell'actio sacramento, fini per
richiamare a sè stessa tutte le controversie relative all'obbli gazione di un
certum , mentre l'actio sacramento si circoscrisse a tutte quelle controversie
, che hanno il carattere di una vindicatio , intesa in largo senso . Di qui
consegui col tempo, che il vocabolo di condictio , nel linguaggio giuridico,
divenne pressochè sinonimo di actio in personam , mentre l'actio sacramento
finì per significare di preferenza l'actio in rem o la vindicatio . Ha quindi
tutte le ragioni Gaio di accusare di improprietà l'uso , che facevasi ai suoi
tempi, del vocabolo di condictio per indicare l'actio in personam , poiché
l'essenza della primitiva condictio non consisteva tanto nel dari oportere,
quanto piuttosto nella denuntiatio diei; ma ciò punto non toglie, che di fatto,
in virtù di un lungo processo storico, verifica tosi nel sistema delle legis
actiones, l'actio sacramento si fosse ri dotta alle sole vindicationes, mentre
la condictio era in sostanza divenuta la forma, sotto cui facevansi valere
tutte le actiones in (1) V. il cap . prec., $ 2 , relativo al nexum , n ° 376 ,
pag . 484 e sogg ., ove trattasi appunto del comparire della mutui datio e della
stipulatio, in surrogazione del nexum primitivo, che andava in disuso. Anche il
MUIRHEAD, Op. cit ., pag. 226 a 235, 80 stiene un'opinione analoga a quella
proposta nel testo, come lo dimostra il fatto, che egli tratta
contemporaneamente della introduzione della stipulatio e della legis actio per
condictionem . Ho però già notato, come quest'autore ritenga col Leist la
stipulatio come importata dalla Grecia, opinione che non credo da ammettersi.
576 personam , e quindi realmente veniva ad essere come un sinonimo dell'actio
in personam (1 ). 442. Intanto dalle cose premesse può esser ricavato il
seguente svolgimento storico della procedura contenziosa nel sistema delle
legis actiones. Le due procedure più antiche, le quali rimontano probabilmente
ad epoca anteriore alla fondazione stessa della città , sono l'actio sacramento
e la reciperatio. Quella è la procedura , che fu accolta come esclusivamente
propria dei quiriti, per le questioni di carat tere quiritario , e quindi negli
inizii dovette essere la legis actio fondamentale del ius quiritium , nello
stretto senso della parola ; questa invece si applicò nei rapporti inter
peregrinos ed anche in quelli inter cives et peregrinos. Siccome però nella
città di Roma era continuo l'attrito fra i cives ed i peregrini, e l'una e
l'altra procedura seguiva davanti allo stesso magistrato, così ne venne, che le
due procedure finirono per esercitare scambievole influenza l'una sull'altra ;
cosicchè col tempo le forme più semplici e spedite della procedura inter cives
et peregrinos finirono talvolta per es sere trasportate ed accomodate alle
esigenze del diritto civile romano. Così, ad esempio , allorchè fra i
cittadini, accanto alle vere lites di carattere quiritario, che per la
precisione ed esattezza di questo diritto , potevano risolversi affermando o
negando, si svolsero delle questioni di carattere più indeterminato , che
chiamavansi piuttosto iurgia , accanto all’actio sacramento , che continuò ad
essere l'a zione tipica del ius quiritium , cominciò a svolgersi la iudicis po
stulatio , la quale fini colla legislazione decemvirale per entrare eziandio
nel novero delle legis actiones. Per tal guisa le controversie, che hanno per
oggetto un certum , si trattano coll'actio sacramento ; quelle invece, che
riguardano un incertum , dånno argomento alla iudicis postulatio. Ognuna poi di
queste due legis actiones fini ( 1) Gaio , IV , 18 , dopo aver detto, che
l'essenza dell'antica legis actio per condi ctionem consisteva nella
denuntiatio diei, aggiunge: « nunc vero non proprie con dictionem dicimus
actionem in personam , qua intendimus dari oportere ; nulla enim hoc tempore eo
nomine denuntiatio fit o . Egli aveva ragione dal suo punto di vista , perchè
l'essenza dell'actio in personam ai suoi tempi stava non più nella denun tiatio
diei , ma nel dari oportere ; ma storicamente lo scambio della parola si era
operato, perchè nel sistema delle legis actiones la condictio era divenuta la
forma, sotto cui si proponevano tutte le actiones in personam aventi per
oggetto un certum . · 577 per subire una suddistinzione. Quando infatti,
accanto all'actio sa cramento, penetrd la condictio, la prima fini per
restringersi alle vindicationes, e questa invece attirò a sè tutte le actiones
in per sonam , che avessero per oggetto un certum , e divenne quasi si nonimo
di actio in personam . Cosi pure, allorchè nel diritto civile romano penetrd in
parte la considerazione dell'aequitas e della bona fides, nel seno della
iudicis postulatio si operd pure una distinzione; poichè essa potė dar luogo o
alla nomina di un giudice o a quella soltanto di un arbitro, secondo la
larghezza maggiore o minore dei poteri, che era loro affidata
nell'apprezzamento della causa e nel tener conto delle considerazioni di equità
. Intanto però , mentre si avverava questo svolgimento storico, è probabile,
che tanto la iudicis postulatio quanto la condictio, almeno in parte, abbiano
imitate delle procedure, che già si applicavano nei rapporti inter cives et
pere grinos . Fu in questa guisa, che, già sotto la veste ferrea delle legis
actiones, si vennero preparando tutte quelle distinzioni di actiones , che
poterono poi acquistare un libero svolgimento col sistema delle formulae. Tali
sono le distinzioni fra la vindicatio e la condictio ; fra l'actio in rem e
l'actio in personam ; fra le actiones stricti iuris e bonae fidei; fra le
actiones certae e le incertae ; fra l'actio nes in ius conceptae e le actiones
in factum . Si può quindi conchiudere , che anche in tema di procedura tutte le
varietà e di stinzioni delle azioni sembrano procedere da un'unica forma tipica
, che è quella dell’actio sacramento , la quale fu il nucleo centrale, intorno
a cui si svolse la procedura contenziosa dell'antico diritto ; ma che accanto
alla medesima fin dai primi tempi fuvvi la recipe ratio per le controversie
inter cives et peregrinos, dalla quale do vettero essere mutuate certe
procedure più semplici, come quella della condictio. Fu poi eziandio in questa
procedura, che doveva essere applicata dal praetor peregrinus, che cominciò a
prepararsi quel concetto del ius gentium , e quel sistema delle formulae, che
esercitarono poi tanta influenza sul diritto civile romano. $ 3 . Lo
svolgimento storico della procedura esecutiva nel sistema delle legis actiones.
443. Mentre nella procedura contenziosa l'antico diritto cerca di mantenere la
più rigorosa imparzialità fra i contendenti, esso invece apre l'adito ad una
procedura ben più decisiva, allorchè la lotta fra i contendenti giunse al suo
termine, e trattisi di proce dere all'esecuzione contro il soccombente . Anche
il linguaggio giu ridico sembra allora richiamare un'epoca di privata violenza
, in cui ciascuno era vindice del proprio diritto , e noi veniamo cosi a tro
varci di fronte alla manus iniectio e alla pignoris capio, di cui quella sembra
avere il carattere di una esecuzione contro la per sona del debitore, e questa
invece il carattere di una pignorazione privata contro i beni del medesimo. È
tuttavia facile lo scorgere , che nella procedura quiritaria si preferisce
nell'esecuzione di procedere contro la persona del debitore, anzichè contro i
beni del medesimo. Infatti nell'antico diritto il modo generale di esecuzione
per le ob bligazioni viene ad essere la manus iniectio , che è diretta appunto
contro la persona ; mentre la pignoris capio riveste in certo modo il carattere
di un privilegium , e viene così ad essere ristretta a pochissimi casi , che
furono specificamente introdotti o dalla legge o dal costume, e determinati
dalla natura del credito (1 ). Intanto nell'una e nell'altra procedura già
apparisce evidente , che se i vocaboli richiamano ancora l'uso della forza,
questa perd viene già ad essere regolata dall'impero della legge ; poichè è
questa che determina i varii casi, in cui può ricorrersi all'uno od all'altro
modo di esecuzione. 444. Incominciando dalla manus iniectio , noi troviamo che
la medesima, nel primitivo ius quiritium , compare sotto forme diverse, che
vogliono essere tenute ben distinte fra di loro. Una prima forma di essa era la
manus iniectio, a cui poteva appigliarsi il padrone col servo, che avesse
cercato di sottrarsi al suo potere, e questa era una conseguenza della podestà
del padrone sul servo , di cui rimasero le traccie nella vindicatio in
servitutem . Un'altra forma era quella invece, a cui dava origine l'obbligazione
solenne del nexum , in base a cui il debitore, che non pagava a sca denza,
poteva, anche senza l'intervento del magistrato , essere trasci nato nella casa
del debitore, e quivi essere ridotto a condizione pressochè servile, fino a che
non avesse soddisfatto il proprio debito . ( 1) Vuolsi qui aggiungere , che
Gaio , IV . 29, accenna perfino al dubbio surto fra i giureconsulti,
relativamente alla natura della pignoris capio, che alcuni ritenevano non
essere una legis actio, in quanto che la medesima, sebbene si compiesse certis
verbis, a differenza tuttavia delle altre legis actiones, extra ius
peragebatur, e poteva perfino compiersi in giorno nefasto. 579 Questa manus
iniectio rimonta certamente ad epoca anteriore alla legislazione decemvirale,
ed era una conseguenza del rigore della primitiva obbligazione quiritaria,
contratta colle formedell'atto per aes et libram . Questa fu quella manus
iniectio, la quale, applicata sopratutto nei rapporti coi debitori plebei,
diede origine a quelle dis sensioni civili, a proposito dei nexi, a cui cercò
di porre termine la lex Poetelia nel 428 di Roma. Essa però non era ancora una
vera legis actio , in quanto che non fondavasi sulla legge, ma derivava
direttamente dal rigore dell'obbligazione quiritaria , assunta colle forme del
nexum , nella quale la volontà manifestata dalle parti co stituiva legge, ed
implicava la condanna del debitore . Havvi infine quella manus iniectio , che
occorre nella legislazione decemvirale e che costituisce un modo generale di
esecuzione contro coloro , che avessero confessato il proprio debito (aeris
confessi), o che avessero subita una condanna giudiziale per il pagamento di
una determinata somma (iudicati vel damnati). A mio avviso , è solo a
quest'ultima, che Gaio attribuisce il carattere di una vera legis actio , e che
egli indica col nome di manus iniectio iudicati, sive damnati (1 ). La severità
inumana, a cui poteva giungere la procedura della (1) Gaio , IV , 21.
L'opinione espressa nel testo fondasi sulla considerazione, che Gaio restringe
evidentemente la legis actio per manus iniectionem ai casi « de quibus, ut ita
ageretur, lege aliqua cautum est » , e si limita a fare una rassegna storica
delle varie leggi, le quali, incominciando dalle XII Tavole,avrebbero
consentito questo mezzo di esecuzione . Nella sua esposizione pertanto non si
accenna più a quella rigorosa procedura , di origine pressochè contrattuale, a
cui dava origine il primitivo nexum ; tanto più che la medesima era andata in
disuso fin dal tempo, in cui la lex Poetelia aveva tolte di mezzo le
conseguenze speciali del nexum . Non mi sembra quindi il caso di voler forzare
le espressioni di Gaio per far entrare i nexi nella espressione dei iudicati o
dei damnati, adoperata da Gaio. Piuttosto i nexi dell'antico diritto potevano
ritenersi compresi negli aeris confessi delle XII Tavole, dei quali non era più
il caso che Gaio si occupasse ; poichè, se con quel vocabolo si intendevano gli
obbligati col nexum , le disposizioni delle XII Tavole erano state abrogate, e
se si intendevano gli in iure confessi, non era il caso di farne una categoria
speciale di fronte al principio:« in iure confessus pro iudicato habetur » .
Questa opinione intanto si differenzia da quella di coloro, che vorrebbero
compren dere i nexi nei damnati, di cui parla Gaio, fra i quali il MUIRHEAD, op
. cit., p. 205, e da quella eziandio di coloro, che appoggiati al testo di
Gajo, il quale non parla dei nexi, vorrebbero escludere gli obbligati col nexum
dalla procedura della manus iniectio, e porre imedesimi nella condizione di
tutti gli altri debitori, come il Voigt, I, 626, e il Cogliolo , nelle note al
PADELLETTI, Storia del dir. rom ., pag . 328, il quale pure ha adottato
l'opinione del Voigt. 580 manus iniectio, fu probabilmente una delle cause ,
per cui la me desima col tempo diventò oggetto di investigazione curiosa per
gli stessi autori latini, i quali ebbero cosi occasione di tramandarci le
espressioni testuali delle XII Tavole a questo riguardo (1) . Allorchè altri
aveva subito condanna per un proprio debito , gli era prima consentita una
specie di tregua (velut quoddam iustitium ), che durava trenta giorni, in cui
doveva avvisare almodo di pagare il debito (conquirendae pecuniae causa ).
Trascorsi i medesimi senza che egli pagasse , il creditore poteva porre sopra
di lui la sua manus, condurlo davanti al magistrato , e quivi pronunziare la
formola solenne della manus iniectio ; né al debitore era lecito di depellere
manum a se, né di agere lege pro se, ma solo poteva nominare un vindex , che
facesse valere le sue ragioni, dando sicurtà per il processo e per l'eventuale
pagamento del doppio nel caso in cui vincesse l'attore. Intanto il creditore po
teva condurre il debitore nel suo carcere privato, e quivi metterlo in catene,
con scelta al debitore di alimentarsi del suo o di lasciarsi alimentare dal
creditore. Questo arresto durava sessanta giorni, e negli ultimi tre giorni di
mercato , compresi in questo spazio di tempo, il creditore doveva condurlo di
nuovo davanti al magistrato, e far pubblica la somma da lui dovuta accid
qualcuno potesse pagare per lui. Che se anche allora non si fosse fatto il
pagamento , il creditore poteva ucciderlo 0 venderlo al di là del Tevere
(capite poenas dabat, aut trans Tiberim venum ibat) ; ed anzi, se più fossero i
creditori, veni vano le famose espressioni conservateci da Gellio : « partis se
canto : si plus minusve secuerunt, se fraude esto » . (1) L'autore , che ci ha
serbata più particolare notizia della procedura esecutiva nell'antico diritto,
conservandoci perfino le parole testuali della legge , è Gellio , Noc. Att.,
XX, 1, $ S 41, 51, dove introduce il giureconsulto Sesto Cecilio Africano e il
filosofo Favorino, a discutere intorno ad alcune singolari disposizioni del
primitivo diritto : interessante discussione , poichè da una parte abbiamo il
giureconsulto, che, riportandosi alle opportunità dei tempi, cerca di scusare
il vigore dell'antico diritto , e dall'altra abbiamo il filosofo , il quale, a
nomedella ragione, viene combat tendone quelle disposizioni, che il tempo aveva
fatto apparire o irragionevoli od inumane. Intanto, a questa discussione poi
dobbiamo la maggior parte di quelle te stuali disposizioni delle XII Tavole,
che a noi siano pervenute, le quali composte insieme colle informazioni dateci
da Gaio, IV, 21, ci porgono le fattezze primitive della manus iniectio . 531
445. Si comprende come l'enormezza del potere, che la legge qui accordava al
creditore, abbia lasciati increduli gli antichi ed anche i moderni. Di qui il
tentativo recente del Voigt di interpre tare la legge nel senso, che il capite
poenas dabat significasse la riduzione in schiavitù del debitore, e che il
partis secanto si rife risse alla ripartizione del prezzo ricavato dalla
vendita, per il caso in cui fossero più i coeredi del creditore (1) . Certo è,
che se noi avessimo soltanto il testo della legge, questo potrebbe forse consen
tire questa interpretazione, punto non ripugnando che la legge at tribuisse a
quei vocaboli una significazione giuridica, anzichè lette rale : ma noi, oltre
al testo della legge, abbiamo anche il commento , che vi diedero gli antichi, e
questo è tale da escludere qualsiasi interpretazione più benigna. Noi troviamo
infatti presso Gellio , che il giureconsulto Sesto Cecilio , pur tentando di
spiegare il rigore della legge, punto non accenna alla possibilità di tale
interpretazione; ma dice invece , che i primitivi legislatori, nell'intento di
tutelare la fede nei negozii privati, avrebbero introdotta una pena, che per la
propria immanità non poteva essere applicata , come in effetto non lo era mai
stata (2 ). ( 1) Voigt, XII Tafeln , II, pag . 361. Egli, ciò stante, nella
ricostruzione della legge 8 della Tav. III , aggiungerebbe alle parole
serbateci da Gellio : « Tertiis nundinis, partis secanto » le parole « si coheredes
sunt » : il che vorrebbe dire, che se il debitore era domum ductus da uno dei
suoi creditori, egli non poteva più es sere soggetto alla manus iniectio degli
altri; ma intanto se fossero stati più i coe redi del creditore, che l'aveva
domum ductus, i medesimi potevano , in base alle XII Tavole, procedere contro
di lui soltanto per la quota loro spettante di credito, e perciò dovevano
chiedere il riparto della somma loro dovuta. Certo la supposizione è ingegnosa
; ma è difficile di persuadersi, che una espressione larghissima, quale sa
rebbe quella di Gellio, possa restringersi ad un caso abbastanza speciale ,
qual sa rebbe quello posto innanzi dal Voigt. ( 2) Questa interpretazione
letterale della legge, di cui si tratta , non sarebbe solo attribuita alla
medesima da Gellio XX , 1 , 50 , ma eziandio da Quintil., Instit. or., III, 6 ,
84 , e da TERTULL., Apol., 4 ; ma con parole alquanto vaghe, e coll'ag giunta
,pur fatta da Gellio, loc. cit., $ 51, che la storia non ricordava alcun caso
di sectio corporis: «dissectum esse antiquitus neminem equidem neque legi,neque
audiri » , Parmi poi, che un argomento per questa letterale interpretazione
siavi eziandio in quell'altra disposizione delle XII Tavole, secondo cui: « si
membrum rupit, ni cum eo pacit, talio esto » ; ove compare in certo modo la
stessa tendenza di accordare a colui, che ha subìto un danno per colpa di un
altro , una potestà corrispondente sul corpo di lui. Questa letterale
interpretazione ebbe pure ad essere sostenuta, col sus sidio della giurisprudenza
comparata, dal Kohler , das Recht als Culturerscheinung, Vürzburg 1884 , pag.
17 e segg. , il cui brano relativo è riportato dal MUIRHEAD , 582 Non può
quindi essere il caso di dare alla legge una significa zione diversa da quella
, che vi attribuirono gli antichi, ma piuttosto di cercare, come mai i
decemviri abbiano potuto giungere ad una disposizione di questa natura . Tale
spiegazione , a parer mio , non deve essere cercata tanto nella rozzezza dei
costumi romani, quanto piut tosto in quella logica inesorabile, di cui già
sonosi trovate le traccie nelle varie parti del ius quiritium , e sopratutto
nel rigoroso con cetto, che questo diritto ebbe a formarsi dell'obbligazione
personale. Al modo stesso che il diritto quiritario, nella sua logica rude,
trat tandosi del dominio, immedesimò in certo modo la cosa , oggetto della
proprietà , colla persona a cui essa appartiene : così pure esso, nel concepire
il diritto di obbligazione , vide nel medesimo un vincolo strettamente
personale, che stringe pressochè materialmente il de bitore al suo creditore
(nexum ), senza punto preoccuparsi dei beni, che appartenessero a quest'ultimo.
Se quindi il debitore condannato non soddisfi il debito, la logica del diritto
primitivo non si appiglierà all'espediente di ripiegarsi sovra i beni del
debitore, ma procederà diritta per la sua via, e verrà così aggravando i mezzi
di coazione contro il debitore che non paga,nell'intento di forzarlo ad
eseguire il pagamento . Che se le coazioni di carattere giudiziale od estragiu
diziale non bastino, questa logica primitiva, fissa nel carattere esclu
sivamente personale dell'obbligazione, potrà anche giungere fino al l'estremo
di accordare al creditore il diritto di vendere o di uccidere il debitore, al
modo stesso , che attribuisce al proprietario la facoltà di distruggere la
cosa, che gli appartiene (ius abutendi). È tuttavia evidente, che l'antico
diritto , accordando simili diritti al creditore contro il debitore condannato,
non intende tanto di accordargli un diritto reale ed effettivo , quanto
piuttosto di attribuirgli efficaci e potenti mezzi di coazione. Ciò è
dimostrato da tutta la procedura op. cit., Appendix a nota 5, pag . 446 e 447.
Lo stesso Kohler già erasi occupato della questione nel « Shakespeare vor dem
Forum der Jurisprudenz » , Vürzburg 1884, di cui può vedersi un largo resoconto
del GIRARD nella « Nouvelle revue historique » 1886 , p. 226 a 240. A
compimento di questa notizia ricorderò anche la interessante dissertazione
dell'ESMEIN, Débiteur privé de sépulture, nei « Mélanges d'histoire de droit »,
pag. 244 e 266 , ove il diritto del creditore prende un altro singolare
svolgimento, quello cioè di porre un sequestro sul cadavere del debitore, e di
rifiutare al medesimo il riposo della tomba, finchè i congiunti o gli amici non
ne abbiano pagato il debito . Qui la coazione adoperata s'appoggia
sull'opinione po polare, che l'anima del debitore non trovi riposo, finchè il
suo corpo non riposi nella tomba . 583 della manus iniectio , dalla necessità
nei varii stadii della medesima della presenza del magistrato , dall'obbligo
imposto al creditore di far pubblico il suo credito e di esporre sul mercato la
persona del debi tore ; ed è questo il concetto , che ebbe ad esprimere, presso
Gellio , il giureconsulto Sesto Cecilio dicendo che i decemviri: « eam capitis
poenam , sanciendae fidei gratia , horrificam atrocitatis ostentu , novisque
terroribus metuendam reddiderunt » . Che anzi, prendendo alla lettera
l'espressione delle XII Tavole, nella parte , che si riferisce alla spartizione
; del corpo del debitore , essa appare perfino di im possibile attuazione,
poichè vien dichiarato in frode il creditore, che tolga dal corpo del debitore
una parte maggiore o minore diquella che gli sia dovuta , il che confermerebbe
eziandio l'altra espressione dello stesso giureconsulto, secondo cui: « eo
consilio tanta immanitas poenae denuntiata est, ne ad eam perveniretur » . Del
resto non è questo il solo esempio di questa logica astratta , propria del
diritto primitivo, che talora si spinge fino a tale da non essere quasi più
applicabile nel fatto. Il diritto infatti del creditore sul corpo del de bitore
trova un riscontro nel diritto al talione, spettante a colui, di cui fosse
stato rotto un membro: talione che, secondo l'osservazione da Gellio attrituita
al filosofo Favorino (1), non poteva essere più fa cilmente eseguito che la
spartizione del corpo del creditore in propor zione dei crediti. Cosi pure esso
ha un altro riscontro nel ius vitae et necis, che giuridicamente parlando spetta
al padre sui figli, al ma rito sulla moglie, al padrone sullo schiavo ,
ancorchè in questa parte sia certo, che il rigore del diritto trovava dei
temperamenti nel pub blico e nel privato costume. Non è quindi il caso di
inferire da queste disposizioni l'esistenza di costumi antropofagi presso i ro
mani (2); ma soltanto di scorgere in ciò una nuova prova, che il loro ius
quiritium , essendo il frutto di una elaborazione giuridica , la quale mirava
ad isolare l'elemento giuridico da ogni elemento estraneo , fini per essere
governato da una logica inesorabile, che tal volta appare non solo inumana, ma
perfino inapplicabile nel fatto. (1) Dice infatti Favorino presso Gellio , XX ,
1 , 15 : « praeter enim ulciscendi « acerbitatem ne procedere quoque executio
iustae talionis potest; nam , cui mem « brum ab alio ruptum est, si ipsi itidem
rumpere per talionem velit, quaero , an « efficere possit rampendi pariter
membri aequilibrium ? in qua re primum ea dif « ficultas est inexplicabilis » .
(2) È il KOHLER, op. e loc. cit., il quale dice scherzevolmente, che alla lista
delle ipotesi escogitate per spiegare questa disposizione, ne manca una sola ,
quella cioè che gli antichi Romani siano stati degli antropofagi. 584 . 446.
Dal momento poi che il primitivo ius quiritium , nella sua procedura di
esecuzione, aveva preso di mira piuttosto la persona del debitore, che non i
beni, che ne costituivano il patrimonio , si comprende, che esso , nella sua
perseveranza tenace, abbia stentato più tardi ad abbandonare la via , che aveva
prima seguito . Noi tro viamo infatti, che nel posteriore svolgimento della
procedura esecu tiva in Roma, mentre il diritto civile nello stretto senso
della pa rola continuò sempre a dirigersi contro la persona, anzichè contro i
beni del debitore, fu invece il ius honorarium , il quale soltanto molto più
tardi riusci ad organizzare una procedura esecutiva contro i beni, che
costituivano il patrimonio del debitore. L'una e l'altra circostanza è
abbastanza comprovata dalle atte stazioni di Gaio . Questi infatti, parlando
delle legis actiones, ci fa assistere allo svolgimento storico della manus
iniectio nel diritto civile di Roma, dimostrando, come, sul modello della manus
iniectio iudicati, altre leggi abbiano introdotto una manus iniectio pro iu
dicato , ed altre abbiano poi dato occasione ad una manus iniectio pura, la
quale, a differenza delle altre due , non impediva che il debitore potesse
manum a se depellere et lege agere pro se, senza ricorrere all'opera di un
vindex . Posteriormente poi una legge Vallia avrebbe ristretto di nuovo i casi,
in cui non potevasi manum de pellere e pro se lege agere, a quei due, che
primierano stati in trodotti, in cui si agiva o in base a un giudicato , o
contro una per sona per cui altri aveva dovuto pagare qual sicurtà : del che,
secondo Gaio rimase una traccia anche dopo l'abolizione delle legis actiones in
ciò , che anche ai suoi tempi colui, col quale si agisce in base a un giudicato
o per aver pagato per esso, « iudicatum solvi satisdare cogitur » ( 1). Lo
stesso Gaio poi, sebbene alla sfuggita, dice altrove , che l'introduzione della
bonorum venditio soleva essere attribuita a Publio Rutilio , il quale dovette
essere Pretore nel 647 di Roma, e noi sappiamo, che è appunto con questa
bonorum venditio , che si introdusse in Roma un concorso fra i creditori, non
dissimile da quello , che ora ha luogo nella procedura per fallimento (2 ). Fu
solo più tardi, che anche il diritto civile , per mezzo della lex Iulia de (1)
Gaio, IV , 21 a 25. È notabile infatti come Gaio in tutta la sua esposizione
della procedura esecutiva non accenni mai alla esecuzione sui beni del debitore
. (2 ) Gaio, IV , 35. Quanto a questa procedura contro i beni , vedi KELLER ,
Iі processo civ . rom ., $ 83, pag. 307 e segg., e quanto alle analogie, che
questo con corso dei creditori presenta col fallimento, cfr . Montluc, La
faillite chez les Romains. - - - 585 cessione bonorum , accordo al debitore il
mezzo di evitare l'esecu zione personale , ricorrendo alla cessio bonorum : ma
anche allora questa cessio bonorum dovette essere consentita dallo stesso debi
tore , e costitui in certo modo un benefizio , che gli venne accordato per
cansare la esecuzione personale e per evitare anche l'infamia , da cui questa
era accompagnata . Quindi neppur questa legge aboli intieramente l'esecuzione
contro la persona, ma piuttosto fece in guisa, che essa cadesse in disuso,
essendosi introdotto un mezzo per liberarsi da essa . 447. Parmi poi, che
questa preferenza indiscutibile del ius qui ritium per la esecuzione contro la
persona del debitore, anzichè contro i beni spettanti al medesimo, sia stata
eziandio la ragione, per cui si mantenne in così ristretti confini
l'applicazione della pi gnoris capio. Essa infatti si ridusse ad essere un
privilegio per crediti di origine militare (aes militare, hordearium ,
equestre), e per crediti di origine religiosa (il prezzo di un hostia e il nolo
di giumento allo scopo di un sacrificio , in dapem ). Un solo caso di pignoris
capio lascið traccie durature nella storia delle istituzioni giuridiche, e fu
quello introdotto da una lex praediatoria o cen soria , a favore degli
appaltatori delle imposte, sui fondi che erano gra vati dalle medesime :
privilegio di carattere fiscale, che ha un'ana logia incontrastabile col
privilegio generale sugli immobili, che ancora oggidi spetta al fisco per le
imposte dirette. Intanto però sta sempre il concetto , che nel diritto
primitivo di Roma è la persona, che risponde direttamente delle proprie obliga
zioni, e che la missio in bona deve ritenersi soltanto introdotta dal pretore .
Che anzi è degno di nota , che anche questa procedura sembra negli inizii
essersi forse introdotta fuori di Roma, come lo dimostra il fatto , che noi la
troviamo descritta dapprima nella lex Rubria de Gallia Cisalpina ( 1). Una
ragione di questa preferenza (1) Quanto all'origine pretoria dell'esecuzione
contro i beni, vedi eziandio LENEL, das Edictum perpetuum , pag. 340. La lex
Rubria , XXII , 25 (Bruns, Fontes, pag. 99 ) attribuisce la facoltà di
accordare questa missio in bona al solo pretore della città di Roma, come lo
dimostrano le seguenti parole della legge « Praetor , « isve qui de eis rebus
Romae iure dicundo praeerit, in eum et in heredem eius de « eius rebus omnibus
ius deiicito , decernito, eosque dari bona eorum , possideri, « proscribique
venire iubeto, etc. » Cfr. WLASSAK, Röm . Processegesetze, pag. 94 e segg. 586
dell'antico diritto per la persona, anzichè per i beni del debitore, non
potrebbe essa trovarsi nella considerazione, che tutto il primitivo ius quiritium
ebbe ad essere modellato sul concetto fondamentale del quirite, in quanto era
considerato come una individualità integra e completa sotto l'aspetto giuridico
, la cui parola dava origine al nexum , e la cui volontà costituiva una legge ,
cosi nei negozii tra vivi come nel testamento ? Non abbiamo anche in questo una
conse guenza dal punto speciale di vista , a cui eransi collocati i model
latori dell'antico diritto? Basta ora ricomporre insieme queste varie parti
della pro cedura romana e metterle in movimento ed in azione, per compren dere
come il sistema delle legis actiones , anzichè essere , come vorrebbero taluni,
un complesso di solennità , escogitate dallo spirito sottile e formalista dei
Romani, sia stato invece il mezzo più po tente ed efficace ,mediante cui venne
preparandosi l'elaborazione del diritto civile romano. Le legis actiones
furono, per cosi esprimerci, il crogiuolo mediante cui l'obbiettività giuridica
del fatto umano potè essere isolata da tutti gli elementi estranei, ed essere ridotta
cosi a quello stato di purezza , che solo si rinviene negli scritti dei
giureconsulti romani. Siccome infatti ogni diritto , per poter affermarsi in
giudizio, doveva passare per lo strettoio della legis actio : cosi ne veniva ,
che con questo sistema prima i pontefici nel modellare le legis actiones ;
poscia le parti nell'adattare alle medesime la loro controversia ; quindi il
magistrato nel determinare i termini, in cui tale contro versia dovesse essere
giuridicamente concepita ; infine i giudici, che dovevano di necessità
restringere la loro decisione al punto di que stione che era loro sottoposto ,
attendevano tutti ad un medesimo lavoro , che era quello di spogliare una
fattispecie da ogni elemento etico o religioso, con cui si trovasse implicata ,
per ridurla ad una configurazione e ad una formola esclusivamente giuridica .
Siccome poi i giudici della controversia , o erano tolti dalle varie classi o
tribù, come i centumviri e forse anche i decemviri, o scelti nel l'ordine dei
senatori, come i iudices selecti, o convenuti fra le parti, come gli arbitri,
od anche scelti in parte fra i peregrini, come i 587 recuperatores: cosi ne
veniva, che l'elaborazione del diritto in Roma era un'opera collettiva, a cui
concorrevano tutti gli ordini e tutte le classi, e che poteva perfino sentire
l'influenza del diritto e della procedura , che applicavasi dei rapporti fra i
cittadini e gli stranieri. Siccome parimenti tutto questo lavoro era unificato
e coordinato per opera del magistrato , che sovraintendeva all'amministrazione
della giustizia , ed era poi assecondato dall'opera dei giureconsulti , che
venivano racchiudendo in formole la varietà grandissima dei negozii giuridici ;
cosi ne venne, che in Roma fin dai suoi inizii si trovo sapientemente
organizzato un sistema di mezzi, il quale mirava ad isolare l'elemento
giuridico del fatto umano dagli elementi estranei, a consolidare le
consuetudini fluttuanti in forme determinate e pre cise, a richiamare le
varietà dei fatti umani a certe forme tipiche e generali. Fu in questo modo,
che poterono scomparire i conten denti e si sostituirono ai medesimi dei nomi
convenzionali ( Aulus Agerius e Numerius Negidius nelle formole processuali,
Titius, Caius, Sempronius, etc. in quelle contrattuali) ; che le contro versie
particolari furono tutte richiamate a certe forme generali ; e che intanto i
concetti primordiali , da cui aveva preso le mosse il diritto privato di Roma,
poterono con una logica perseverante e tenace essere spinti a tutte le
conseguenze, di cui erano capaci. Fu quindi sopratutto in Roma, che il diritto
potè essere l'espressione della coscienza giuridica di tutto un popolo, un
elemento organico della vita sociale, il frutto di un'elaborazione unica e
varia ad un tempo, la quale obbedì costantemente a quei processi, i quali,
applicati prima dai pontefici, passarono poscia al pretore ed ai giureconsulti,
e non furono neppure abbandonati sotto gli stessi imperatori. Per tal modo quel
lavoro di selezione, che erasi in Roma iniziato mediante le leggi, le quali,
trascegliendo fra le istituzioni delle varie genti, ne avevano ricavato un
diritto tipico , esclusivamente proprio dei qui riti, e perciò chiamato ius
quiritium , venne ad essere eziandio proseguito nella interpretazione della
legge e nell'amministrazione della giustizia , le quali si sforzarono dapprima
di fare entrare nelle forme determinate dalla legge la varietà sempre crescente
dei rap porti giuridici, a cui dava occasione la convivenza cittadina, e
vennero poi gradatamente ampliando e differenziando le forme stesse , allorchè
esse cominciavano ad essere inadeguate ai bisogni, a cui trattavasi di
provvedere. Per tal modo il ius quiritium si allargd ed amplid nel ius proprium
civium romanorum ; poscia accanto a questo venne svolgendosi il ius honorarium
, il quale pur derogando al 588 ius civile ed assimilando nuovi elementi, li
forza tuttavia ad entrare in forme analoghe a quelle già preparate dal ius
civile. È in questa guisa , che il diritto romano, dopo essere stato la
selezione più rigida dell'elemento esclusivamente giuridico, che presentila
storia , ed essere stato una produzione esclusivamente propria del popolo
romano, viene a poco a poco attirando nella propria cerchia le considera zioni
di equità e di buona fede, assimilando quelle istituzioni delle altre genti,
che potevano ricevere l'impronta del genio giuridico di Roma, finchè non
diventò tale da poter essere comune a tutte le genti, che avevano somministrato
i materiali, sovra cui erasi venuto elaborando. Può darsi ed è anzi probabile,
che i principii di questa grande opera di selezione fossero dapprima
inconsapevoli, come gli inizii di tutte le opere umane, e fossero determinati
dal modo di formazione della città , e dal genio eminentemente giuridico dei
fondatori di essa ; ma egli è certo eziandio , che essa non tardd a cambiarsi
ben presto in un'opera consapevolmente voluta e proseguita per più di dodici
secoli con una perseveranza tenace, di cui non potrebbesi tro vare esempio,
salvo forse nella storia delle grandi religioni della umanità . Così, ad
esempio, dell'importanza delle legis actiones già dovette aver consapevolezza
il patriziato romano, allorchè, dopo avere in parte reso comune alla plebe il
proprio diritto , continud tuttavia a riservare al collegio dei suoi pontefici
la formazione delle legis actiones, e la cambiò in un segreto di professione e
di casta ; come pure dovette averne coscienza anche la stessa plebe romana,
come lo dimostra la sua riconoscenza a Gneo Flavio, il quale, secondo la
tradizione, avrebbe resa di pubblica ragione le primitive legis actiones (1 )
449. Questa influenza poi del sistema delle azioni venne ad essere anche
maggiore, allorchè l'abolizione delle legis actiones e l'intro duzione del
sistema delle formole attribui da una parte almagistrato libertà maggiore nella
concezione giuridica delle varie fattispecie , e dall'altra gli porse eziandio
il modo di introdurre nuove azioni, accanto a quelle, che si fondavano
direttamente sui termini della legge. Fu in quest'epoca, che il medesimo, oltre
al ius dicere, si (1) Pomp., Leg. 2 , § 7, Dig . (1, 2 ); Liv. IX , 46. Secondo
la tradizione, Gneo Flavio sarebbe stato dalla riconoscenza della plebe elevato
alla dignità di tribuno della plebe, di senatore e di edile curule. 589 trovò
eziandio nella necessità di edicere, ossia di pubblicare, entrando in ufficio,
le norme, che avrebbe applicate nell'amministrazione della giustizia ; che
accanto ai iudicia legitima si svolsero quelli imperio continentia ; che ,
accanto alle actiones legitimae, quae ipso iure competunt, se ne formarono
eziandio di quelle, quae a praetore dantur. Da quel momento il pretore potè
essere considerato come una lex loquens, e venne in certo modo ad essere
arbitro sovrano nell'amministrazione della giustizia ( 1) . Tuttavia
l'abolizione delle legis actiones e la sostituzione del sistema delle formulae
debbono essere intese alla romana , il che vuol dire, che l'abolizione è
soltanto parziale e non impedisce la sopravvivenza dell'actio sacramento , come
preliminare del centum . virale iudicium e di quello damni infecti nomine, al
modo stesso che l'introduzione delle formulae, anzichè una rivoluzione, è piut
tosto il riconoscimento e l'adozione fatta per legge di una pratica, che doveva
già essersi prima introdotta nel fatto. È infatti proba bile, che il sistema
delle formulae già potesse esser applicato nella procedura inter cives et
peregrinos , nella quale non potevano essere applicate le legis actiones , e
che in tal guisa una procedura propria della recuperatio sia penetrata nel ius
proprium civium ro manorum , almodo stesso , che più tardi l'actio sacramento
potè ezian dio essere proposta davanti al praetor peregrinus (2 ). Che anzi,
per esprimere tutto il mio pensiero, riterrei, che il sistema delle formole
fosse in certa guisa già contenuto in germe nel sistema delle legis actiones .
A quel modo, che la stipulatio riducesi in sostanza alla parte nuncupativa del
nexum , la quale , liberata dalla solennità del l'atto per aes et libram , potè
essere adattata alla varietà dei negozii ( 1) Gaio, IV , 11, dice
espressamente, che, negli esordii di questo sistema di pro cedura, edicta
praetorum nondum in usu habebantur. Era quindi naturale, che quando questi
furono introdotti, accanto a quella parte di diritto , che fondavasi
direttamente sulla legge, e che perciò dava origine alle denominazioni di actus
legi timi, actiones legitimae, iudicia legitima, si svolgesse un diritto, che
fondavasi in certo modo sull'autorità del magistrato, e che, come tale, imperio
continebatur, il quale finì poi per essere compreso sotto il nome di ius
honorarium . È poi Cic., pro Cluentio, $ 3, 146 , il quale ebbe a dire, che
siccome le leggi sono al disopra del magistrato, e questo è al disopra del
popolo, « vere dici potest magistratum legem esse loquentem ; legem mutum
magistratum . » . Quanto ai concetti di actio legi tima e di iudicium legitimum
, vedi WLASSAK, op. cit ., $$ 3 a 5 , pag. 31 e 57. ( 2) Sall'influenza del
praetor peregrinus e dell'edictum provinciale sul sistema delle formulae, v.
Glasson, Étude sur Gajus, $ 12 , pag. 112. -. 590 giuridici: così la formola
consiste essenzialmente in quei concepta verba , che già occorrevano nella
legis actio , salvo che questa verborum conceptio , liberata dalla parte mimica
, da cui era ac compagnata, e da quel rigore di termini (certis verbis), che
era propria delle legis actio , potè acquistare una duttilità e pieghevo lezza,
che la prima non poteva avere. Noi trovammo infatti , che già sotto la veste
ferrea delle legis actiones, ogni modus agendi aveva finito per abbracciare diverse
azioni particolari, e che queste azioni già avevano cominciato a distinguersi
nelle actiones in rem in quelle in personam , in quelle, che avevano per
oggetto un certum od un incertum , e in quelle , che davano origine ad un
iudicium o ad un arbitrium . Or bene tutti questi materiali, che ancora erano
riuniti nella sintesi potente della legis actio , si trovarono in certo modo
abbandonati a se stessi, e si cambiarono in altrettante azioni, autonome ed
indipendenti, aventi un nome specifico , una propria formola ed un proprio
contenuto , e diedero cosi origine a quello splendido ed opulento sviluppo, che
ebbe ad avverarsi col sistema delle formole. Quella libertà della formola , che
sarebbe stata peri colosa negli inizii della elaborazione giuridica , venne
invece ad es sere opportuna, quando questa era già iniziata ed abbastanza pro
gredita ; poichè le prime formole, essendo state preparate sotto la rigida
disciplina delle legis actiones e del ius pontificium , indica vano abbastanza
la via , in cui doveva mettersi il magistrato per continuare l'opera già
incominciata. È questa la ragione, per cui i pretori, malgrado la libertà
apparente, che loro appartiene, sia di introdurre nuove azioni, sia di
modificare le formole già ricevute , procedono in cið molto a rilento , ed
amano piuttosto di ricorrere a finzioni e di forzare cosi fatti ad entrare
nelle forme ricono . sciute dal diritto, che non di alterare le forme, che già
furono ac colte dal diritto civile . Per tal modo il nuovo trova sempre un
addentellato nell'antico , anche allorchè mira ad introdurre una modificazione
al medesimo, e intanto ciò non impedisce , che una parte di quel diritto, che
viveva fluttuante pelle consuetudini, ac canto al vero ius civile , si venisse
ancor esso consolidando sotto forma di un ius honorarium , che è pur sempre
modellato sul primo. Così pure, nella opera progressiva dei pretori
succedentisi gli uni agli altri, potè manifestarsi uno spirito di continuità,
per cui le azioni ed eccezioni introdotte opportunamente da alcuno di essi
finirono per costituire un ius translaticium , che passava ai succes sori, e
serviva cosi a preparare i materiali, che raccolti e coordi 591 nati
costituirono poi l'Editto perpetuo di Salvio Giuliano. In questa condizione di
cose appare ad evidenza l'importanza del sistema delle azioni, poichè ogni
progresso pratico della giurisprudenza romana viene ad esser introdotto , o per
mezzo di una nuova azione, che tuteli un diritto prima non riconosciuto, o per
mezzo di una ecce zione, che neutralizzi l'effetto di un'azione già
riconosciuta dal diritto civile . Allorchè poi un'azione è accolta od
un'eccezione è ammessa, essa viene ad essere come un centro, intorno a cui si
moltiplicano le formole per abbracciare l'infinita varietà delle fattispecie,
finchè si giunge a quella ricchezza di formole , a cui accenna Cicerone,
allorchè scrive : « sunt formulae de omnibus rebus constitutae, ne quis aut in
genere iniuriae aut in ratione actionis errare possit : expressae sunt enim ,
ex uniuscuiusque damno, dolore, incommodo, calamitate, iniuria , publicae a
praetore formulae, ad quas privata lis accomodatur » (1). Le formole pertanto
servirono anch'esse ad ampliare e a compiere quel lavoro di selezione, che già
erasi iniziato sotto l'impero delle legis actiones. Esse si accomoda rono alle
varie fattispecie ; isolarono l'elemento giuridico da ogni elemento estraneo,
gli elementi essenziali del fatto umano dalle cir costanze accidentali :
accolsero quelle aggiunte , che erano rese ne cessarie dalla maggiore varietà dei
negozii; riassunsero le varie fasi della controversia in guisa da presentare
come uno specchio ed un compendio dell'intiero giudizio . Queste formole poi
non furono qualche cosa di esclusivo alla pro cedura: ma all'epoca stessa , in
cui penetrarono in questa , si vennero eziandio esplicando nei contratti , nei
testamenti , nei legati , e in ogni altra parte del diritto civile romano, e vi
portarono cosi dap pertutto l'esattezza e la precisione del linguaggio
giuridico , non disgiunta da elasticità e pieghevolezza alla varietà infinita
dei ne gozii giuridici (2 ). È quindi facile il comprendere come pontefici ,
pretori e giureconsulti, non abbiano creduto indegno del loro ufficio
l'attendere alla composizione delle formole, e come bene spesso l'in venzione di
una formola abbia reso celebre e tramandato fino a noi il nome di un pretore o
di un giureconsulto . Basta perciò aver presente l'importanza grandissima e la
larghissima applicazione, che ( 1) Cic, Pro Roscio, 4 , 5 a 9. Cfr. WLASSAK, op
. cit ., pag. 67. (2 ) Occorrono delle notevoli osservazioni sulla importanza
delle formole nel diritto civile romano presso il LABBÉ, Préface all'ultima
edizione da lui curata dell'Or TOLAN , Explication historique des Institutes de
Justinien , Paris 1883, pag. vii e segg . - 592 ricevettero le clausole « ex
fide bona » « quando aequiusmelius » « ne propter te fidemve tuam fraudatus
siem », le formole aquiliane de dolo malo ed altre, che sarebbe lungo
ricordare; le quali ser virono a far penetrare nel diritto la considerazione
dell'equità e della buona fede , e a dare forma concreta e pratica applicazione
alle lente mutazioni, che si venivano operando nella coscienza giu ridica del
popolo romano. Era infatti per mezzo di una piccola ag giunta in una formola
contrattuale e giudiziaria , che le aspirazioni latenti della coscienza
giuridica popolare ricevevano applicazione pratica, e che il diritto fluttuante
nelle consuetudini veniva ad ot tenere la tutela e la sanzione dell'autorità
giudiziaria (1). 450. Quest'ultima considerazione intanto mi porge opportunità
di conchiudere questa trattazione, spiegando un carattere del tutto peculiare
della giurisprudenza romana. Credo che questo tentativo di ricostruzione del
primitivo ius qui ritium abbia quanto meno dimostrato , che il diritto civile
romano, anzichè essere stato il frutto di una incorporazione qualsiasi di con .
suetudini preesistenti, operatasi a caso e lasciata in balia delle cir
costanze, fu invece governato , fin dai proprii inizii, da una logica
fondamentale , che non venne mai meno a se stessa . Esso può es sere paragonato
ad un lavoro lento di cristallizzazione, in virtù di cui gli elementi affini,
fluttuanti in un liquido, cominciano dal pre cipitarsi a poco a poco, e poi si
compongono insieme, atteggiandosi costantemente a quelle forme tipiche, che
sono imposte dalla legge, che ne governa la formazione. Se ciò è fuori di ogni
dubbio, vuolsi però anche ammettere , che questa dialettica fondamentale , la
quale regge tutta la formazione del diritto civile romano, sembra in certo modo
essere dissimulata nelle opere anche dei grandi giureconsulti. In tali opere,
per quel poco che a noi ne pervenne, i singoli istituti appariscono come
autonomi ed indipendenti gli uni dagli altri, go ( 1) Questa importanza delle
formole appare sopratutto nelle formole processuali, poichè ogni progresso
nell'amministrazione della giustizia lascia in certo modo le traccie nella
composizione della formola giudiziaria. Questo concetto ebbi ad espri mere,
molti anni or sono, in un breve lavoro « De exceptionibus in iure romano,
Torino, colle seguenti parole : « neque vereor dicere, omnia quae in <
iudiciorum ordine, progressione temporum et seculorum elaboratione, invecta fue
« runt ad corrigendam , producendam , emendandam et adiuvandam antiquissimi
iuris « formulam quodammodo adhibita fuisse » . 593 vernati ciascuno da una
propria logica, senza che più si scorgano le commettiture, che possono
stringere un istituto cogli altri. Vero è , che considerando attentamente il
formarsi di ogni singolo istituto, facilmente si riconosce la mano di artefici,
educati tutti alla medesima scuola, cosicchè i varii istituti si possono
paragonare ad altrettanti cristalli foggiati sulla stessa forma: ma intanto più
non si scorgono le traccie della legge, che ne governd la formazione. Era
questo disordine apparente degli scritti dei giureconsulti, che tornava grave
alla mente filosofica ed ordinata di Cicerone, il quale perciò giunse fino a
dire, che i primigrandimaestri avevano cercato didissimulare la propria arte
(1); ma se questo potè forse esser vero, finchè la scienza del diritto fu un
monopolio delle genti patrizie , o meglio dei pon tefici, custodi delle loro
tradizioni, non può più ammettersi per il tempo, in cui la casa del
giureconsulto fu aperta a tutti coloro , che volevano consultarlo , e anche i
plebei furono ammessi al collegio dei pontefici e a professare giurisprudenza .
Non è quindi in una causa alquanto puerile e di carattere transitorio , che
vuolsi cercare il motivo di questa specie di contraddizione , che presenta
l'elabo razione della giurisprudenza romana, ma piuttosto nel modo, in cui
venne in Roma operandosi l'elaborazione stessa . A questo riguardo vuolsi aver
presente , che i modellatori del pri mitivo diritto di Roma (veteres iuris
conditores ) non ebbero mai in animo di insegnare una scienza , ma piuttosto di
professare un'arte (iuris prudentia), che formò solo più tardi argomento di
scienza . Essi quindi, nei loro scritti , non intesero punto di soddisfare alle
esigenze didattiche, nè di introdurre quell'ordine sistematico, che è proprio
della scienza : ma si proposero sopratutto di soddisfare alle esigenze
pratiche, poichè erano i casi, che si venivano presentando , che loro offrivano
occasione di applicare l'arte loro. Siccome per tanto nella pratica era l'
actio, che predominava , poichè era con essa, che il diritto sperimentava se
stesso ; così ne venne, che dap prima furono le legis actiones, che
costituirono il punto di richiamo dell'elaborazione giuridica , e determinarono
l'ordine, a cui la medesima venne obbedendo. Quando poi la sintesi potente
della legis actio venne ad essere disciolta , e pullularono così azioni e
formole, molteplici e svariate, aventi ciascuna una propria vita ed una propria
funzione nella formazione dei negozii e nell'ammini strazione della giustizia,
furono eziandio le actiones, gli interdicta , (1) Cic., De orat., I. le
exceptiones e simili, che costituirono il punto centrale , intorno a cui
dovette appuntarsi l'arte dei giureconsulti. Quindi è , che essi, per quanto
ubbidissero ad una dialettica fondamentale , trascurarono naturalmente di far
scorgere i fili, che componevano la trama; co sicchè i loro scritti appariscono
come a frammenti, e ravvicinano istituti, che non hanno attinenza,
disgiungendone altri, che sono in vece strettamente affini fra di loro (1). Di
qui la conseguenza , che la costruzione giuridica romana non seguì il processo
dei concetti fondamentali, da cui partiva, ma venne seguendo invece l'ordine
prima delle XII Tavole, e poscia dell'Editto . Nè questo disordine apparente
poteva recare imbarazzo agli esperti, perchè l'arte in essi era viva e feconda
; ma poteva invece riuscire grave agli altri, i quali, come Cicerone, cercavano
di inoltrarsi in questo campo con un indirizzo mentale diverso . Fu soltanto ,
allorchè la ricchezza dei materiali cominciò ad ingom brare il campo, che si
senti il bisogno di introdurre distinzioni siste matiche, ma anche queste
distinzioni non compariscono nelle opere di costruzione giuridica propriamente
detta , quali sono quelle dei elassici giureconsulti, ma soltanto nelle opere
di carattere didattico ; donde la spiegazione dell'ordine diverso , che occorre
nelle Istituzioni di Gaio e di Giustiniano e nelle Pandette . Siccome poi anche
l'or dine sistematico, introdotto nelle Istituzioni, aveva naturalmente lo
scopo pratico di coordinare la giurisprudenza romana nello stato in cui si
trovava, anzichè di fare assistere alla formazione progressiva di essa ; cosi
ne viene, che anche le distinzioni, che occorrono in Gaio ed in Giustiniano,
dånno talvolta come contemporanei degli istituti, che possono avere avuto
origine in epoca compiutamente di. versa . Ne consegui, che la giurisprudenza
romana, quale a noi per venne, colle sue proporzioni armoniche e colla coerenza
delle sue varie parti, cela in certo modo la trasformazione lenta e graduata ,
che venne operandosi in essa , e la dialettica, che ne governò la for (1) Ciò
appare sopratutto nelle Receptae sententiae di Paolo. Questo apparente
disordine invece è alquanto minore nei cosidetti Fragmenta di Ulpiano, in
quanto che questo lavoro di Ulpiano segue già passo passo l'ordine dei
Commentarii di Gajo, abbreviandoli in qualche parte, e facendovi altrove
qualche aggiunta , che al tera talvolta le armoniche proporzioni dei Commentarii
di Gajo. Questi ultimi poi, a parte l'originalità maggiore o minore del
giureconsulto, saranno sempre un mo dello di ordinamento sistematico, fatto in
un intento didattico. Cfr. Huschke, Jurisp . antijustin., ed i proemii da lui
preposti alle opere sopra citate dei giureconsulti. mazione; ma ciò punto non
impedisce, che, penetrando sotto la scorza di essa , tosto si incontrino le
traccie di materiali e di ruderi, che appartengono a sorgenti e ad epoche
diverse , e rivelano cosi al l'investigatore i diversi periodi e momenti, per
cui passd la lenta e graduata formazione della legislazione romana. Giunto al
termine di questo faticoso lavoro di ricostruzione , ri tengo opportuno di
riassumere a grandi linee quelli fra i risultati a cui sono pervenuto , che
possono cambiare in qualche parte il modo comunemente seguito di spiegare la
storia primitiva di Roma, nel l'intento sopratutto di porre in evidenza quella
mirabile coerenza organica , che sempre si mantenne nello svolgimento storico
delle istituzioni pubbliche e private di Roma. Allorchè le genti italiche si
sovrapposero alle popolazioni già prima stanziate sopra quel suolo , che più
tardi fu denominato italico, dovette avverarsi un periodo di forza e di
violenza , non dissimile da quello, che si avvero più tardi all'epoca delle
invasioni barbariche, ed il maggior bisogno , che dovette sentirsi allora dai
vincitori e dai vinti, fu quello di uscire da quello stato di privata violenza.
Fu allora , che le genti sopravvenute , memori forse delle tradizioni, che
portavano dall'antico Oriente, irrigidirono la propria organizzazione
gentilizia , cercando di attirare nella medesima anche le popolazioni dei
vinti, e costituirono così l'aristocrazia territoriale dei patres, dei patroni,
dei patricii, mentre i vinti furono orga nizzati nella classe inferiore dei
servi , dei clienti , e infine dei plebei. Questa organizzazione, malgrado le
differenze nei particolari, assunse pressochè dapertutto un carattere uniforme,
non dissimile da quello dell'organizzazione feudale nel Medio Evo : essa venne
cosi ad essere composta di familiae, di gentes e di tribus, strette in sieme
dal vincolo di discendenza reale o fittizia da un medesimo antenato , le quali
risiedevano rispettivamente nella domus, nel vicus e nel pagus , mentre il
territorio da esse occupato era ripartito in heredia , in agri gentilicii, e in
compascua. Fu a questo stadio del proprio svolgimento, che le genti italiche
596 presero tutte a travagliarsi intorno alla grande opera del passaggio
dall'organizzazione gentilizia alla città . Questa ebbe sopratutto lo scopo di
assicurare la comune difesa e di fortificarsi nelle lotte pres sochè quotidiane
fra i varii gruppi. La città cominciò dall'essere un sito fortificato (arx ,
oppidum , capitolium ) per servire di rifugio in caso di pericolo ; poi diventò
un sito per il mercato (forum ) e un luogo di riunione dei capi di famiglia
delle varie comunanze confederate per la trattazione degli affari comuni
(conciliabulum , comitium ); fu posta sotto la protezione di una divinità ,
comune patrona; finchè da ultimo sotto la protezione della comune fortezza
cominciarono eziandio a costruirsi le abitazioni private. Non tutte le stirpi
però erano pervenute al medesimo stadio di svolgimento , nè tutte avevano
seguito il medesimo indirizzo nella formazione della città. Mentre gli Umbro
-Sabelli aderivano ancora strettamente alla organizzazione gentilizia, e gli
Etruschi erano già pervenuti alla città chiusa e fortificata , i Latini invece
si trovavano in uno stato in termedio : essi erano pervenuti alla città di
carattere federale, con siderata come un centro della vita pubblica per varie
comunanze di villagio. È al buon seme Latino, che deve attribuirsi l'origine
del grande nome di Roma. Essa cominciò dall'essere lo stabilimento fortificato
di un nucleo di uomini forti ed armati (viri, quirites), staccatisi dalla città
di Alba per cercare altrove sorti migliori, secondo una consuetudine comune
delle genti primitive, fidenti sopratutto nella forza del proprio braccio, ma
non immemori delle tradizioni proprie della stirpe, a cui appartenevano. Le
lotte di questo nucleo di uo mini di arme, stabilitosi sul Palatino, i quali,
senza essere ancora veri capi di famiglia , tendevano a diventarlo, colle
comunanze di villagio stabilite sulle alture circostanti dell'antico
Septimontium , lo condussero prima alla comunanza dei connubii e in seguito
alla confederazione colle medesime. Da quel momento Roma primitiva nella sua
progressiva formazione percorse due periodi compiutamente distinti, cioè : il
periodo della città federale, in cui essa è una città esclusivamente patrizia ,
ed è un centro di vita pubblica fra varie comunanze gentilizie : e quello in
cui la città esclusivamente patrizia associasi anche la plebe cir costante, già
pervenuta ad una certa agiatezza , nell'intento sopra tutto di provvedere alla
comune difesa , e chiude nelle proprie mura le primitive comunanze di villagio
, che entravano a costituirla . Nel
primo periodo i cittadini di Roma sono i capi famiglia delle genti patrizie,
confederati in uno scopo di comune difesa , e la loro città , posta nel centro
delle varie comunanze di villaggio, ri specchia in se medesima le istituzioni
dell'organizzazione gentilizia, a quella guisa che un lago limpido rispecchia
le abitazioni e i vil laggi, collocati sulle alture, che lo circondano . Essi
infatti trapian tano nella città , centro della loro vita pubblica , le proprie
istituzioni gentilizie , salvo che le medesime, assumendo un intento essenzial
mente civile, politico e militare, cominciano a perdere alquanto il proprio
carattere patriarcale , e ricevono cosi uno svolgimento com piutamente diverso.
La città esce cosi dalla confederazione e dal l'accordo dei capi di famiglia
(patres ) e dei loro discendenti (pa tricii) : ma intanto assume un carattere
religioso, politico e militare ad un tempo, come le genti che concorsero alla
sua formazione. Sono i pontefici, che ne serbano le tradizioni giuridiche e
religiose ad un tempo ; gli auguri, che modellano gli auspicia publica sugli
auspicia , a cui già ricorrevano i capi di famiglia o delle genti ; i feziali ,
che serbano le tradizioni relative ai rapporti fra le varie genti. In questo
periodo la città servi ad operare la selezione della vita pubblica , che
cominciò a spiegarsi nella città , dalla vita dome stica e patriarcale, che
continuò a svolgersi nelle varie comunanze di villaggio . L'urbs infatti
designa l'orbita sacra , in cui trovansi riuniti gli edifizii aventi pubblica
destinazione, ed ha nel proprio contro il tempio di Vesta e la domus regia ; la
civitas non com prende ancora i rapporti di carattere privato , ma quelli
soltanto che si riferiscono alla vita civile , politica e militare : il populus
non comprende tutta la popolazione, ma quella parte eletta della me desima, che
possa giovare alla res publica col braccio (iuniores ) o col consiglio
(seniores). Per tal modo il grande intento della città in questo periodo fu
quello di sceverare la vita pubblica dalla privata (publica pri vatis
secernere), di modellare il concetto della res publica , in quanto essa ha
un'esistenza distinta dalla res familiaris, e di ar chitettarne la costituzione
politica , la quale venne cosi ad uscire dal concorso di tutti gli elementi,
che entravano a costituirla. La sorgente della pubblica potestà risiede quindi
nel populus ; ma in tanto la parte dovuta all'età e all'esperienza nel
provvedere all'in teresse comune viene ad essere rappresentata dal senatus ,
che è già elettivo ed è nominato dal rex ; il quale alla sua volta è l'eletto
del populus e unifica in se medesimo l'imperium , che il medesimo 598 gli
conferisce . Tutto cid , che riguarda l'interesse comune, deve essere
deliberato col concorso di tutti questi elementi, cioè essere proposto dal re,
appoggiato dal senato, votato dal popolo ; cosicchè la legge assume la forma di
una pubblica stipulazione (communis reipublicae sponsio ). Per quello invece ,
che si riferisce alla vita domestica e privata (res familiaris), essa continua
a svolgersi nel seno della domus, del vicus, del pagus, sotto la potestà dei
capi di famiglia o delle genti. Queste continuano a possedere le proprie terre
sotto la forma collettiva di agri gentilicii e di compascua, soli eccettuati
gli heredia , assegnati dalla gens od anche dal re , i quali appariscono
intestati ai singoli capi di famiglia . Anche la repressione dei delitti
continua ad essere lasciata al potere domestico e patriarcale , e le pene
conservano quel carattere religioso , che avevano nel periodo gentilizio : solo
assumono carattere di delitti pubblici, e sono sotto posti alla giurisdizione
del re, temperata dalla provocatio ad po pulum , il parricidium e la perduellio
, di cui quello è come il germe del reato comune e questa il germe del reato
politico. Quanto al diritto privato , esso continua in gran parte ad essere
governato dal costume (mos ), il quale appare ancora circondato da un ' aureola
religiosa ( fas) ; cid tuttavia non impedisce, che fra le consuetudini e le
tradizioni preesistenti già ve ne siano di quelle , che vengono sanzionate da
una lex publica , la quale è preparata dai pontefici, proposta dal re e votata
dal popolo ; donde la formazione delle leges regiae, nelle quali tuttavia le
istituzioni giuridiche ser bano ancora quel carattere religioso , che era
proprio delle istitu zioni delle genti patrizie . Nel frattempo quell'elemento
plebeo , la cui formazione già erasi iniziata nelle stesse comunanze di
villaggio, prende un grandissimo incremento collo svolgersi della città ;
poichè, esso trovasi accresciuto dalle popolazioni conquistate e da coloro che,
spostati nell'orga nizzazione gentilizia , vengono a stanziarsi nel territorio
circostante alla città. Questa moltitudine, che per essere composta di elementi
di provenienza diversa e per difetto di organizzazione chiamasi plebes, non
entra ancora a formare il populus, nè è ammessa alle curiae della città
patrizia , ma abita nelle circostanze di essa , e tiene cosi una posizione più
di fatto che di diritto . Ai plebei, che la compon gono, solo dovette essere
accordato, negli ultimi tempi della città esclusivamente patrizia , il ius
nexi, ossia il diritto di contrarre dei prestiti, vincolando direttamente la
propria persona, e il ius man 599 cipii, ossia il diritto di ritenere quello
spazio di terra, sovra cui essi erano stanziati colle proprie famiglie . È
sotto l'influenza etrusca , che la città comincia a prepararsi ad un secondo
stadio, a quello cioè di città chiusa e fortificata nelle proprie mura, il che
però non toglie, che essa continui ancor sempre ad essere un centro di vita
pubblica per le comunanze e le famiglie , che trovansi stanziate nell'ager
romanus, ma fuori del pomoerium della città . La trasformazione , iniziata da
Tarquinio Prisco , si compie , allorchè con Servio Tullio la città viene a com
prendere nella propria cerchia non solo gli edifizii pubblici, ma anche le
abitazioni private, e in base alla sua costituzione viene a formarsi accanto ai
patres o patricii, un nuovo populus, composto di patrizii e di plebei,
ripartito in classi ed in centurie, di carattere essenzialmente militare, i cui
membri hanno i loro diritti ed ob blighi civili, politici e militari
determinati sulla base del censo . Da questo momento quel dualismo, che
esisteva negli elementi, che entra vano a partecipare alla medesima città,
penetra eziandio nelle istitu zioni politiche di Roma. Per tal modo accanto ai
veri magistrati del popolo, comparvero i tribuni della plebe ; accanto ai
comizii delle curie e delle centurie si formarono i concilia plebis, i quali
col tempo si trasformarono in comizii tributi ; e da ultimo accanto alle leges
si svolsero i plebiscita . Di qui lotte , che condussero a svol gere e in parte
anche a modificare i concetti fondamentali, che servivano di base alla
costituzione primitiva di Roma. Intanto la città si è ingrandita ; nelle
suemura non si esplica più soltanto la vita pubblica , ma anche la vita
domestica e privata : quindi la grande opera , che si inizia in questo periodo
, viene ad es. sere la formazione di un diritto privato, comune ai due ordini,
e la creazione di quell'arte, in cui i romani dovevano essere maestri al mondo,
cioè dell' « ars iura condendi» . Gli elementi, che dovevano convivere sotto la
protezione di un comune diritto, erano due, cioè : il patriziato ,onusto di
tradizionireligiose, giuridiche e poli tiche, e la plebe la quale era un
agglomeramento di elementi diversi, nuovo ancora alla vita civile e politica.
Quello aveva l'organizza zione gentilizia fondata sul vincolo civile dell'
agnazione, e questa non conosceva che la famiglia, stretta insieme dal vincolo
naturale della cognazione ; quella aveva tante forme di proprietà , quante
erano le gradazioni dell'organizzazione gentilizia , e questa non aveva in
certo modo che il possesso delle terre, sovra cui era stan 600 ziata (mancipium
) ; quello aveva il fas, il ius, l'imperium , gli auspicia , i mores veterum ,
mentre questa non conosceva che l'usus auctoritas. Fu la distanza stessa, a cui
trovavansi collocati i due elementi, e il loro modo di sentire e di pensare
compiuta mente diverso , in fatto di religione e dimorale, che resero
necessaria la elaborazione di un diritto , comune ai due ordini, il quale
facesse compiutamente astrazione dalla religione e dalla morale. Cosi pure è
questa distanza, che spiega la lentezza di questa elaborazione e la ricchezza
dei risultati a cui essa pervenne , poichè la medesima dovette prendere le
mosse dalle istituzioni più elementari, comuni ai due ordini, e poi estendersi
a poco a poco a tutti i rapporti della vita civile. Per qualche tempo ciascun
elemento continud ad atte nersi alle proprie consuetudini e costumanze ; ma la
convivenza dei due ordini nelle stesse mura e l'attrito dei quotidianiinteressi
finirono per determinare una specie di precipitazione delmateriale giuridico ,
fluttuante sotto la forma di tradizioni patrizie (mores veterum ), o di
costumanze della plebe (usus). Si iniziò così la più mirabile se lezione
dell'elemento giuridico dagli elementi affini, con cui trovasi implicato, che
siasi mai avverata nella storia dell'umanità ; selezione, che da una parte
obbedisce a leggi naturali di formazione, e dal l'altra è già l'opera di una
elaborazione, per parte sopratutto dei pontefici, i quali, essendo i custodi
delle tradizioni delle genti pa trizie, già erano in possesso di una vera
tecnica giuridica . Il nucleo centrale di questa formazione venne ad essere il
con cetto del quirite,ossia dell'uomo, isolato da tutti gli altri suoi
rapporti, per essere riguardato esclusivamente come capo di famiglia e pro
prietario di terre, quale appunto compariva nel censo . Il quirite viene cosi
ad essere una realtà ed una astrazione, un individuo e un capo gruppo, un
soldato ed un agricoltore ad un tempo ; ed il punto di vista , sotto cui si
riguardano i quiriti nei reciproci rapporti, essendo determinato dal censo,
viene ad essere quello delmio e del tuo. Di qui consegue, che per essi
ogninegozio riducesi ad un trapasso dal mio al tuo, simboleggiato nell'atto per
aes et libram , e ogni procedura viene ad essere simboleggiata in una specie di
combattimento e di reci proca scommessa . Questo diritto , costituendo un
privilegio dei qui riti, viene ad essere denominato ius quiritium ; i suoi
concetti fonda mentali sono quelli vasti e comprensividi caput, manus,mancipium
, commercium , connubium ed actio ; esso costituisce in certo modo l'ossatura
rigida di tutta la giurisprudenza romana. Siccome pero, attorno a questo primo
nucleo , che si vien precipitando e consoli 601 dando, si mantengono ancora
sempre, allo stato fluttuante, tanto le consuetudini e le tradizioni dei
patres, quanto gli usi della plebe; così il primitivo ius quiritium viene in
certo modo attraendo ed assimilando quelle istituzioni preesistenti, che
potevano avere qualche analogia col diritto già formato. Per tal guisa il
medesimo, arricchen dosi di nuove forme, si viene gradatamente allargando nel
ius pro prium civium romanorum , il quale può essere considerato come un
proseguimento di quella selezione, che erasi già incominciata col ius quiritium
. Sono le XII Tavole, che danno forma scritta alle basi fondamentali di questo ius
civile : quindi nelle medesime si possono scorgere le commettiture dei varii
elementi, che entrano a costituirlo . Infatti in qualsiasi istituzione di quel
ius, che i giure consulti chiamano proprium civium romanorum , può scorgersi
una formazione centrale, che è dovuta al ius quiritium , e due laterali, di cui
una suole essere di origine patrizia , e l'altra di origine plebea . Così, ad
esempio, fra le forme del matrimonio havvi da una parte la confarreatio di
origine patrizia e dall'altra l'usus di origine plebea , mentre la coemptio sta
nel mezzo, ed è la forma essenzialmente quiri taria ; fra le forme del
testamento , le più antiche sono il testamento in calatis comitiis, propria del
patriziato , e la mancipatio familiae cum fiducia , propria della plebe, le
quali poi, pressochè componendosi insieme, dànno origine al vero testamento
quiritario, che è quello per aes et libram ; infine, fra i modi di acquistare e
trasmettere il dominio , il primo a formarsi è quello essenzialmente quiritario
della manci patio , attorno a cui si vengono poi accogliendo l'in iure cessio e
l'usucapio . Intanto perd questa selezione non si arresta ancora colla
formazione di un ius civile, e quindi, accanto al medesimo, si esplica il ius
honorarium , il quale, pur derogando al primo, assimila nuovi elementi ,
facendoli perd entrare in forme modellate a somiglianza di quelle già adottate
dal ius civile . È con questo meraviglioso processo , che il diritto privato di
Roma, dopo aver cominciato dall'essere la selezione più rigida dell'elemento
giuridico , che ricordi la storia , ed una produzione esclusivamente romana,
venne a poco a poco attraendo nella propria orbita anche le considerazioni di
equità e di buona fede, ed assimilando quelle istituzioni delle altre genti,
che si acconciavano alla logica fonda mentale , da cui era governato , finchè
divenne poi tale da essere considerato come un diritto universale, e da poter
essere accomu nato a tutte le genti, da cui aveva tolti i materiali, sovra cui
erasi 602 venuto elaborando. Il diritto romano riusci cosi ad essere una co
struzione eminentemente dialettica , la quale riunisce da sè gli op posti ed i
contrarii; esso è antico nei materiali, che lo compongono, nuovo per le
applicazioni che se ne ricavano ; sotto un aspetto è sempre fisso e fermo nei
proprii concetti, sotto un altro è sempre in via di formazione ; esso obbedisce
ad una logica fondamentale , e intanto lascia che ogni istituto proceda per
proprio conto e segna un proprio concetto ispiratore ; mentre è una produzione
del tutto propria del genio romano, assimila in se stesso le istituzioni di
tutte le genti ; è un'arte ed una scienza ad un tempo. Esso infine, mentre
obbedisce e si piega alle esigenze pratiche, appare informato , come ben diceva
il giureconsulto , ad una vera e propria filosofia, la quale non si abbandona
alle speculazioni ideali, mamedita sui fatti sociali ed umani, ne scevera
l'essenza giuridica, la modella in con cezioni tipiche, e svolge le medesime in
tutte le conseguenze, di cui possono essere capaci. È questo il motivo, per cui
le costruzioni giuridiche dei giureconsulti romani saranno sempre dei modelli,
che difficilmente potranno essere superati, poichè nella divisione di la voro,
che si operò fra i popoli moderni, non ve ne ha certamente alcuno, che possegga
in questa parte le attitudini veramente mera vigliose dell'ingegno romano per
l'elaborazione dell'elemento giu ridico, e nessuno parimenti, che possa aver
l'occasione, il modo e il campo , che esso ebbe, per applicare la sua
giurisprudenza alla immensa varietà dei fatti sociali ed umani. Singolare
destino quello della città di Roma! Come le sue mura furono costrutte coi massi
più solidi dell'epoca gentilizia ; così i concetti , che le servirono di base ,
furono la sintesi potente di tutto un periodo di umanità , le cui vestigia si
vengono ora disco prendo nelle necropoli delle più antiche città italiche e
nelle civiltà fossili dell'antico Oriente. Da questi ruderi di un periodo che
può chia marsi preistorico , essa seppe ricavare uno svolgimento storico e
logico ad un tempo, che bastd ad organizzare il mondo per tutto un grande
periodo di civiltà . Senza essere ricca di concetti proprii, essa ebbe però
tanta forza ed energia assimilatrice da fare entrare nei me desimi il lavoro di
tutte le genti, con cui denne a trovarsi a con tatto . Senza abbandonarsi a
speculazioni ideali, essa riusci ad isolare l'essenza giuridica dei fatti
sociali ed umani, e a svolgerla in tutte le sue conseguenze con una logica
inesorabile e tenace. Quando poi i concetti, che stavano a base della sua
grandezza, furono anch'essi 603 esauriti, dalle loro macerie uscì ancora la
grande idea della uma nità civile, e le sue leggi poterono servire come punto
di partenza ad un nuovo periodo di cose sociali ed umane, Soltanto Roma, fra le
città dell'universo , pud personificare in se stessa quella legge di con
tinuità, che unifica la storia del genere umano. Le sue radici si perdono nella
preistoria , e le nazionalità moderne furono preparate da essa ; essa fu
l'erede e la raccoglitrice paziente delle tradizioni del periodo gentilizio , e
intanto pose le basi, da cui presero le mosse, gli stati e le nazioni moderne.
Inchiniamoci alla città eterna: quando si pretendeva di cambiarla in sede
esclusiva del potere spirituale, essa seppe di nuovo rivivere alla vita civile:
quando si credeva di riguardarla come una specie di museo del mondo civile,
colle sole sue memorie essa cooperd a ridestare a vita una giovine nazione. I
dualismi, che ora esistono in Roma, non ci debbono impaurire ; perchè Roma fu
sempre la città dei dualismi. Punto non ripugna, che essa da una parte possa
essere la sede del potere religioso , e che dall'altra sia la sede del governo
civile ; già altra volta essa apprese l'arte di separare il potere religioso
dal civile (sacra profanis secernere). Non ri. pugna parimenti, che essa
continui ad essere la città dei dotti e degli eruditi, e che intanto sia la
capitale di un giovine stato ; essa ha tal copia di monumenti del passato da
ricavarne la più splen dida passeggiata archeologica , e ha spazio che basta
per fondare nuovi quartieri, che possano corrispondere alle nuove esigenze ed
ai nuovi bisogni. Ormai era tempo, che essa un'altra volta arric chisse il
nucleo ristretto della sua popolazione, accordando nuova mente la sua cittadinanza
alle popolazioni, che vi concorsero da ogni parte dell'Italia . Solo sarebbe a
deplorarsi, che mentre il potere religioso cura te nacemente le proprie
tradizioni, lo Stato invece non cercasse di far rivivere la tradizione civile e
politica di Roma. Lasciamo ad altri di combattere l'influenza della romanità ;
noi studiando fra i ruderi di Roma antica avremo nella grandezza del suo
passato uno stimolo ed un incitamento per l'avvenire; nè sarà inutile , che il
giovine regno cerchi di educare il suo senso politico e legislativo , studiando
l'opera dei più grandi politici e legislatori del mondo. La storia ci vile e
politica di Roma e quella del suo diritto non deve in Italia essere privilegio
di dotti e di eruditi; ma deve essere parte dell'i struzione e dell'educazione
civile e politica del popolo italiano. È solo in questo modo, che si spiega la
falange di giovani studiosi, 604 che si precipito sopra questo patrimonio, che
deve essere nostro , allorchè lo studio della storia del diritto romano fu opportunamente
chiamato a far parte dell'insegnamento giuridico nelle Università italiane.
Credo infatti di poter affermare, senza timore di essere con traddetto , che
nessun nuovo insegnamento provocò nel nostro paese cosi largo movimento di
studii, come lo dimostrano le pubblicazioni fattesi sull'argomento , gli
istituti per lo studio del diritto romano, che ora vengono sorgendo, e
l'entusiasmo stesso , con cui non solo l'Italia, ma tutto il mondo scientifico
partecipa alla commemorazione solenne di quell'epoca, in cui l'iniziarsi degli
studi sul diritto ro mano poneva le fondamenta dell'illustre Ateneo di Bologna.
L'im portanza dogmatica del diritto romano potrà forse diminuire colla
pubblicazione del Codice Civile Germanico, il quale farà si che il diritto romano
cessi di essere il diritto comune di un grande po polo ; ma la sua importanza
storica verrà per cið stesso ad essere accresciuta , perchè si tratterà pur
sempre di determinare la parte , che nelle moderne legislazioni deve essere
attribuita alla grande in fluenza del diritto romano. Ne è da farsi illusione,
che questo ge pere di studii possa ugualmente mantenersi fuori della cerchia
delle Università ; poichè, tanto in Italia che in Germania , la scienza è nata
e si è svolta nelle Università , ed è in esse, che deve essere tenuto vivo il
focolare della medesima. È soltanto nelle Università , che la storia del
diritto antico può cessare di occuparsi esclusivamente di minute ricerche
archeologiche, per cambiarsi in un sistema di con cetti, che possa essere succo
e sangue per la giovine generazione. Giuseppe Carle. Keywords. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Carle” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Carlini – filosofia fascista –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: “I
love Carlini, and Speranza loves him even more,
but then he is Italian! My favourite is his “A brief history of
philosophy,” especially the subtitle: “Da Talete di Mileto a Talete di Mileto,
con una postfazione di Talete di Mileto – “Nel principio era l’acqua”!” – “Il
primo filossofo – che cadde in un pozzo.” Si laurea a Bologna (“l’unica
universita italiana”) sotto Acri. Insegna a Iesi, Foggia, Cesena, Trani, e
Parma. E chiamato presso Pisa per sostituire Gentile, trasferitosi a Roma, come
titolare della cattedra di filosofia teoretica. Membro dell’Accademia d'Italia.
Inizia a farsi conoscere assumendo la direzione di una collana edita da Laterza
che inizialmente venne lanciata sotto il nome di “Testi di filosofia ad uso dei
licei”. Ad introdurlo nella Laterza fu Gentile, conosciuto qualche anno prima,
e Croce, all'epoca ancora in rapporti col filosofo di Castelvetrano. “Testi di
filosofia ad uso dei licei” ha un scopo divulgativo, ma divenne presto celebre
per l'alto livello degli autori che collaborarono in vario modo al suo interno,
fra cui, oltre al Carlini, anche Saitta e lo stesso Gentile. Oltre al lavoro di
direzione e coordinamento in qualità di direttore responsabile, pubblica due
saggi su Aristotele (in realtà raccolte aristoteliche da lui curate, commentate
e tradotte) cui fece seguito uno studio su Bovio che desta l'interesse di non
pochi studiosi e l'approvazione di Gentile, considerato da Carlini suo tutore
indiscusso. Pubblica due corposi volumi che gli assicurarono un posto di
assoluto rilievo nell’ambiente filosofico: un esaustivo studio sul sense e
l’esperienza, e soprattutto “Lo spirito”.
In “Lo spirito” si inizia infatti chiaramente a delineare il proprio
pensiero: adesione alla dottrina idealista, vista come sintesi fra il pensiero
immanentista gentiliano (Gentile fu, fino alla propria scomparsa, suo amico,
oltre che tutore) e quello crociano. Il soggetto attraversa un costante irto di
dubbi ed angosce e un dialogo che riusciamo ad instaurare con noi stessi, in un
percorso critico dialettico, una conquista realizzabile solo attraverso gli
strumenti di una metafisica critica. La centralità della teoria della
conoscenza e sviluppata in “Lineamenti di una concezione realistica dello
spirito umano” e “Alla ricerca di noi stessi”, “alla ricerca di tu”. Comprensibile
appare pertanto l'interesse che nutre per l'esistenzialismo, che però si
espresse con una singolare preferenza verso Heidegger, nelle cui speculazioni
trovarono ben poco posto le istanze metafisiche, piuttosto che nei confronti di
Jaspers che su quelle stesse istanze aveva strutturato la propria filosofofia.
Commenta il pensiero logico di Heidegger, e Che cos'è la metafisica? (“La nulla
anihila”). Rende un commosso omaggio a Gentile con i suoi Studi gentiliani,
raccolta di scritti in massima parte già pubblicati precedentemente, tesi a
ricordarne la figura e le affinità intellettuali che un tempo lo avevano legato
al grande filosofo siciliano. “Bovio” (Bari, Laterza); “Senso ed
esperienza” (Firenze, Vallecchi); “Lo spirito” (Firenze, Vallecchi); “Note a la
metafisica d’Aristotele” (Bari, Laterza); “Filosofia” (Roma, Quaderni dell'Ist.
Naz. di Cultura, ser. 4; 5); “Il mito del realism” (Firenze, Sansoni); “Lo
spirito” (Roma, Perrella); Filosofia (Roma, Ist. Naz. di Cultura, 2); Il
problema di Cartesio, Bari, Laterza); Storia della filosofia, Firenze, Sansoni);
“La Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici” (Firenze, Sansoni); Le
ragioni della fede, Brescia, Morcelliana); Michelino e la sua eresia” (
Bologna, Nicola Zanichelli). Dizionario biografico degli italiani. Armando
Carlini. Keywords: filosofia fascista, Bovio, Locke, senso, esperienza, il mito
del realismo, la categoria dello spirito, animus e spiritus, filosofia
italiana, storia della filosofia romana, l’ambasciata di Carneade a Roma, la
antichissima sapienza degl’italici, la scuola di pitagora, sicilia e la magna
grecia, geist, ghost, spirito, animo, spirito oggetivo, Bosanquet, testi di
filosofia ad uso dei licei, aristotele, il principio logico, Cartesio, il
problema di cartesio, senso ed esperienza, storia della filosofia, avvivamento
alla filosofia, i grandi filosofi – mondatori – the great and the minor -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Carlini” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51775361469/in/dateposted-public/
Caro (Roma). Filosofo. Grice: “Caro likes
‘interpretant,’ I spent various tutorials going through Aquino’s Commentarium’
on the ‘peri hermeneias’ – my tutees were fascinated by the fact that while the
Grecian hermeneias is figurative – after Hermes, some say – ‘inter-pretatio’ is
not!” -- “I love Caro – he has philosophised on Davidson’s philosophising,
notably Davidson’s idea of the interpretant, an idea Davidson borrowed – but never
returned – from Peirce!” Insegna a Roma. Si occupa di filosofia morale, di libero
arbitrio, teoria dell'azione e storia della scienza. Ha difeso la teoria detta
" naturalismo liberale", già oggetto di discussione nelle letteratura
specialistica sull’argomento. È membro dei comitati scientifici delle riviste Rivista
di Estetica e Filosofia e questioni
pubbliche. Collabora con Il Sole 24 Ore, e ha scritto per The Times, La
Repubblica, La Stampa e il manifesto. È
stato Presidente della Società Italiana di Filosofia Analitica (SIFA) dal al . È vicepresidente della Consulta Nazionale
di Filosofia. Ha condotto ZettelFilosofia in movimento, programma televisivo
RAI dedicato alla filosofia. L'asteroide
5329 Decaro è chiamato così in suo onore; “Dal punto di vista dell'interprete.
La filosofia di Donald Davidson, Roma, Carocci); Il libero arbitrio, Roma-Bari,
Laterza); Azione, Bologna, Il Mulino); La logica della libertà, Roma, Meltemi);
Normatività, Fatti, Valori” (Macerata, Quodlibet); Scetticismo. Storia di una
vicenda filosofica” ( Roma, Carocci). Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e
il mistero del libero arbitrio (Torino, Codice). La filosofia analitica e le
altre tradizioni (Roma, Carocci).
Bentornata Realtà: Il nuovo realismo (Torino, Einaudi, . Quanto siamo
responsabili? Filosofia, neuroscienze e società” (Torino, Codice, . Biografie
convergenti: venti ircocervi filosofici, disegni di Guido Scarabottolo, Milano-Udine,
Mimesis). Cos’è il nuovo realismo [“What is the
new realism”], Mimesis, Milano , forthcoming.2) Azione
[“Action”] , Il Mulino, Bologna, 2008.3) Il libero arbitrio.
Un ’ introduzione [ “ Free Will. An Introduction ” ], Laterza,
Roma-Bari,2004; second edition 2006; Third edition 2009; Fourth edition 2011.4)
Dal punto di vista de ll’int erprete. Il pensiero di Donald
Davidson [ “ From theInterpreter s Point of View. Donald Davidson
s Thoug ht”], Carocci, Roma 1998 8 5)
Interpretazioni e cause [“Interpretations and Causes”] , Doctoral
dissertation, Università diRoma. Editor (with M. Mori - E. Spinelli)
of La libertà umana: storia di un’id ea , Carocci,Roma,
forthcoming.2) Editor (with A. Lavazza – G.
Sartori) of Quanto siamo responsabili? Filosofia,neuroscienze e società,
Codice, Torino, 2013.3) Editor (with M. Marraffa) of La
filosofia di Ernesto De Martino , special issue of Paradigmi , 31,
2013.4) Editor (with L. Illetterati) of a special issue of
Verifiche on “ Classical German Philosophy. New Research Perspectives
between Analytic Philosophy and the Pragmatist Tradition” ,46, 2013.5)
Editor (with S. Gozzano) of a special issue of Rivista di
filosofia on “T he philosophy ofconsciousness, ” 104,
2013.6) Editor (with M. Ferraris) of Bentornata realtà. Il
nuovo realismo in discussione , Einaudi,Torino, 2012.7) Editor
(with S. Poggi), La filosofia analitica e le altre tradizioni , Carocci,
Roma,2011.8) Guest editor, Naturalismo , special issue
of Rivista di Estetica , 44, 2010 (with C. Barberoand A. Voltolini).9)
Editor of The Architecture of Reason. Epistemology, Agency, and Science ,
Carocci,Roma 2010 (with R. Egidi).10) Editor of Siamo davvero
liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio ,Codice, Torino 2010
(second edition 2010; third edition 2011) (with A. Lavazza and G.Sartori).11)
Guest editor of E’ naturale essere naturalisti? , special issue
of Etica e politica , 9,2010 (with C. Barbero - A. Voltolini).12)
Editor of Scetticismo . Storia di una vicenda filosofia , Carocci, Roma
2007 (secondedition 2007; third edition, 2008) (with E. Spinelli).13)
Editor of La mente e la natura , Fazi, Roma 2005 (Italian version
of Naturalismin Question ) (with D. Macarthur).14) Editor of
the Italian version of H. Putnam, The Fact/Value Dicothomy , Fazi,
Roma,2004.15) Editor of Normatività, fatti, valori ,
Quodlibet, Macerata, 2003 (essays by G.H. vonWright, J. Hornsby, R. Fogelin, et
alii ) (with Rosaria Egidi and Massimo De ll‟ Utri).16) Editor
of Logica della libertà [ “ The Logic of Free dom”], Meltemi, Roma,
2002(contains the Italian translation of essays by A. Ayer, R. Chisholm, P.F.
Strawson, P. vanInwagen, H. Frankfurt).17) Guest editor of “
Libertà e Deter minismo” [ “ Freedom and Determinism ” ],
specialissue of Paradigmi , 3, 1999. 11 3)
“Presentazione” del numero speciale di Paradigmi (25, 2013)
dedicato a La filosofia di Ernesto De Martino , “Machiavelli e
Lucrezio ”, postface to A. Brown, Machiavelli e Lucrezio. Fortuna
elibertà nella Firenze del Rinascimento , Carocci, Roma, 2013, pp. 113-126.5)
“Metafisica e naturalism o: una entente cordiale? ”, Sistemi intelligenti
, “Galileo e il platonismo fisico - matematico”, in R. Chiaradonna (ed),
Il platonismo e le scienze , Carocci, Roma “Introduzione” (with R. Chiaradonna)
to R. Chiaradonna (ed.), Il platonismo e le scienze ,Carocci, Roma 2012,
pp. 13-21.8) “ Naturalismo nel mirino: ma quale intendiamo? ”
, Vita e pensiero , Autonomia della filosofia e neuroscienze ,” Rivista
di Filosofia , “ Libero arbitrio e neuroscienze ,” in A. Lavazza, G. Sartori (a
cura di), Neuroetica ,Il Mulino, Bologna “ Filosofia della mente ,”
in Dizionario della mente Treccani , Istituto de ll EnciclopediaItaliana
Italiana, Roma “Ne uro-mania e natura lismo” (commento, su invito, a
ll articolo target di CristianoCastelfranchi e Fabio Paglieri) (con A.
Lavazza), Giornale italiano di psicologia , “ Il migliore dei naturalismi
possibili Etica & Politica / Ethics & Politics , (with A.
Voltolini).14) “ Psicologia, intenzionalità, scopi: un punto di
vista filosofic o,” (invited commentary to atarget article by C.
Castelfranchi and F. Paglieri), Giornale italiano di psicologia , “ Libertà e
responsabilità mora le,” in Enciclopedia del Terzo Millenio ,
Istitutode ll Enciclopedia Italiana, Roma
“ Le neuroscienze cognitive e l'enigma del libero a
rbitrio,” in M. Di Francesco – M.Marraffa (a cura
di), Il soggetto. Scienze della mente e natura dell ’ io ,
BrunoMondadori, Milano “ Neuroetica e libero a rbitrio,” in S.
Bacin (a cura di), Etiche antiche e moderne , Il Mulino,Bologna
Introduction to the Italian translation of John Dupré, Human Nature and
the Limits ofScience , Laterza, Roma-Bari, 2007 (with Telmo Pievani).12
) “ Temi scotistici nella discussione contemporanea sul libero a rbitrio,”
Quaestio “ Gazzaniga, Hauser e la fallacia dei cromosomi mora li,”
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olto,” Rivista di storia della filosofia , “ Il ritorno dello
scientismo ,” in M. Failla (a cura di) “B ene navigavi ” . Studi in onore
di Franco Bianco , Quodlibet, Macerata “ Il naturalismo scientifico
contemporaneo: caratteri e pr oblemi,” in P. Costa - F.
Michelini(eds.), Natura senza fine , EDB, Bologna Causazione mentale e plura lismo,”
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arbitr io,” in R. Calcaterra (ed.), Le ragioni del conoscere
ede ll’agire . Scritti in onore di Rosaria Egidi , Franco Angeli, Milano “
Scienza e libertà: due comuni fraintendimenti, SISSA NEWS, October
2005.20 ) “ Quattro tesi su filosofia e scienza ,”
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de ll az ione” “ Scetticismo moderno e contemporane o” (vol. 10, pp.
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2006.22 ) “ Nozick, Strawson e lillusione della
libertà ,” in G. Pellegrino - I. Salvatore (eds.), Nozick
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Roma2007, pp. 25-52.23 ) “ Questioni metafisiche: Dio e la libertà
,” in A. Coliva (ed.), Filosofia analitica. Temi e problemi ,
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,” Iride , “ L'inscindibilità di fatti e valori in etica, in economia e
nelle scienze natura li,” in troductionto Fatto valore. Fine di una
dicotomia (Italian translation of H. Putnam, The Fact/Value Dicothomy ), Fazi,
Roma “ Naturalismo e scetticismo: il caso del libero a rbitrio,” in
R. Lanfredini (ed.), Il problemamente-corpo, Guerini, Milano, “
Responsabilità e sce tticismo” in Egidi - De ll Utri - De Caro (eds.),
Normatività, fatti, valori , Quodlibet, Macerata “ Olismo e interpretazione
radica le,” in M. De ll Utri (a cura di), Olismo , Quodlibet,Macerata
2002, pp. 17-36.29 ) “ Il naturalismo fisicalistico: un dogma filosofico?
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llint erpretazione e criteri di correttezza ,” in C. Montaleone
(ed.), Parole fuorilegge. L’idiotismo linguistico tra
filosofia e letteratura , Cortina, Milano
“ Liber tà,” Paradigmi , 58, 2002, pp. 67-84.32
) “ Forme dello scetticismo e interpre tazione,”
Fenomenologia e società , “ Contro la
centralità delle regole: l esternalismo di Donald Da vidson,” in
Atti della Società Italiana di Filosofia del Linguaggio , Novecento, Palermo,
2000, pp. 73-83.34) Sui presupposti sociali della responsabilità, «Filosofia e
questioni pubbliche, “ Per un connessionismo non eliminazionista, ”
Sistemi Intelligenti , “ Varianti de llolismo. Aspetti della teoria
analitica della traduz ione,” Colloquium Philosophicum , “ Libertà
metafisica e responsabilità mora le,” Paradigmi , “ Prese ntazione,”
Paradigmi , “ Determinismo e
filosofia della mente contemporanea ,” in M. Cini (ed.), Caso, necessità,
libertà, Cuen, Napoli “ Monismo anomalo ed epife nomenismo,” Il
Cannocchiale, “ Il lungo viaggio di Hilary Putnam,” Lingua e
Stile, XXXI, “ Epistemologia e interpretazione: l esternalismo di Donald Da
vidson,” Rivista di filosofia, “ Il platonismo di Ga lileo,”
Rivista di filosofia, “ La discriminazione tra la scienza e l'arte: un problema
per il relativismo epistemic o,” Paradigmi, Review of S.
Nannini, Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente
,in Iride , Review of L. Fonnesu, Storia dell'etica contemporanea. Da
Kant alla filosofia analitica ,in Iride , Review of A. Massarenti,
Il lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima , in Bollettino
della Società filosofica italiana , Review of M. De ll Utri,
L’inganno assurdo , in Epistemologia , Review of Carlo
Montaleone, Don Chisciotte o la logica della follia , in Bollettino
della Società filosofica italiana , Review of Mario Ricciardi - Corrado Del B
o (a cura di), Pluralismo e libertà fondamentali , in Iride
, Review of Giacomo Marramao, Minima temporalia , Iride ,
in Iride Review of Donald Davidson, Subjective, Intersubjective,
Objective , in Iride , Review of Massimo Marraffa, Filosofia e
psicologia, in Epistemologia , Review of Nicla Vassallo, Teoria della
conoscenza, in Epistemologia “ Wittgenstein su mente e linguagg io”
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di filosofia , Review of Mark Pickering (ed.), Science as Practice and Culture,
in Archives Internationale s d’ Histoire Des Sciences,
Review of Marc De Mey, The Cognitive Paradigm. An Integrated Understanding ofScientific
Development, in Archives Internationales d ’ Histoire
Des Sciences, 1995, p.189.14) Review of M. De ll Utri, Le
vie del realismo. Verità, linguaggio e conoscenza in Hilary Putnam, in
Physis, Review of “ Il naturalismo filosofico di Willard Van Orman Quine
” [review of: W.V.O.Quine, La scienza e i dati di senso , Roma
1987], Tempo presente, Review of “ Scienza e relativismo: un ossimoro? ”
[review of: R. Egidi (ed.), La svoltarelativistica nell'epistemologia
contemporanea, Milano 1988], Tempo presente, Review of “ E' ancora possibile
una storiografia dell'arte ? ” [review of: H. Belting, La fine
della storia dell'arte o la libertà dell'arte , Torino 1990], Tempo presente,:
Università della Calabria, Conference of Italian Association of Philosophy ofMind.
Commentator of the main speaker, Tim Crane.May 16, 2006: participant in the
debate on “ Semiotics and Phenomenology of the Se lf,” Roma, Società Italiana
di Filosofia.May 10, 2006: University of L Aquila. Lecture on “ Free Will and
Causal Determinism ” . Ravenna Scienza, “ Neurobiology of Free Will: Is
Our Will Free? ” .Invited speaker. Paper: “ The Philosophical Mystery of Free W
ill”. Roma, Auditorium “ Parco della Musica ,” Festival of Science.
Lecture on: “ Gödel Theorems and Free will” (with Rebecca Goldstein).:
Reggio Emilia, Istituto Banfi. Conference “ Nature and Free dom”; invited
spekaer for the section “ The naturalization of free dom” (commentators A.
Benini eS.F. Magni). Paper: “ Nature and Free dom”. December 2,
2005: University “ Ca Fosca ri,” Venice. International
Conference, “ DonaldDavidson: Language - Meaning - Mind - Action ” ; invited
speaker. Paper: “F reedom andInference to the Best Explanation ” . November 17
2005: Sassari, Sassari Association of Philosophy and Science. Lecture on “
Freedom and Scien ce” . Vita
– Salute “ San Raffae le” University, Cesano Maderno
(Milano), First Meeting of the Italian Association of Philosophy of
Mind ; organizer and chairperson. University of Genoa, International
conference, “ Mental Processes ” ;relatore invitato per la sezione “ Action and
Rationality ” (discussant of Jennifer Hornsby).September 29-30, 2005:
SISSA, Trieste. Conference “ Neurophysiology and Free W ill”;
invited speaker. Paper: “ Etica e libero arbitrio ” . University of Trento,
International Conference, “ Agency and Causation in theHuman Sciences ” .
Invited speaker (paper: “F reedom and the Social Sciences ” ).June 1, 2005: “
Vita e Salute - San Raffae le” University, Milano. International
Conference, “ ADay for Freedom? An International Conference on Free W ill”.
Discussant di ChristopherHughes.May 12, 2005: University of Florence,
International Conference “ Philosophy, Neurophysiologyand Free will”
(invited speaker). Paper: “ On the compatibility of philosophy and scienc e”
.Istituto di studi americani, Roma, International Conference, “ Pragmatismand
Analytic Philosophy: Differences and Interac tions” (invited speaker).
Paper: “B eyondScientific Natura lism”. University of Piemonte orientale,
Department of HumanisticStudies. Three lectures on Freedom and
Nature. November 26, 2004: University of Florence - Department of
Philosophy. Lecture on TheConcept of Naturalism . November 16, 2005: University
of Pavia – Giason del Maino College. Lecture on TheContemporary
Debate on Free Will . November 15, 2004: University "Vita e
Salute – San Raffae le,” Milano. Lecture on
Freedomand Nature . University of Piemonte Orientale, Vercelli, Department
ofHumanistic Studies, conference on “ Scientists and Philosophers and the Study
ofComplex Sy stems”. September 23-25: Genova, VI International Conference
of the Italian Society of AnalyticPhilosophy (member of the scientific
committee). Rome. International Symposium "Questions on
Naturalism" (Organizer anddiscussant). November 7, 2003, Rome. Paper: “
Davidson on Human Free dom”. Conference on DonaldDavidson, Department of
Philosophy, Università Roma Tre (speaker and organizer). November 6, 2003,
Rome. Discussant of Akeel Bilgrami. Workshop at LUISS University.September 29,
2003, Florence. Paper: “ Metaphysical Libertarianism ” . Conference on Robert
Nozick s philosophy, Department at the University of Florence
(speaker).September 15, 2003, Sassari. Lecture on “ Logica e retorica ”
[Logic and Rhetoric].Department of Foreign Languages and Literatures,
University of Sassari (invited lecturer). May7, 2003, Siena. Paper on “
Naturalism and Free dom”. Workshop on The Free Will problem .
Department of Philosophy, Università di Siena (invited speaker).May 5, 2003,
Sassari. Workshop on Skepticism and the Reemergence and the Self ,”
Department of Philoosophy, Università di Sassari, (discussant).October 12,
2002, Messina. Paper on “ Naturalism and Intentionality ” . Annual
Meeting of theItalian Society of Philosophy of Language (speaker).May 14, 2002,
Cosenza. Lecture: Memoria e identità [Memory and Identity].Department of
Philosophy, Università di Cosenza.May 6, 2002, Florence. Paper: “ Freedom and
Moral Responsibility: Mysteries orIllusions? ” . Department of Philosophy, University
of Florence (invited speaker). February7, 2002, Rome. Lecture La teoria
della conoscenza nel Novecento [TheTheory of Knowledge in the Twentieth
Century]. Italian Society of Philosophy (invitedspeaker)February 5, 2002, Rome.
Paper on Il fondamento filosofico dei diritti umani [ThePhilosophical
Foundation of Human Rights]. Conference “ The Question of HumanRights Today
,” Università di Roma “ La Sapienza ” (sp eaker).January 16, 2002, Pavia.
Lecture on Responsabilità e causalità: critiche a Strawson e Frankfurt [
“ Responsability and Causality: Some Criticisms of Strawson and Frankfur
t”]. Department of Philosophy, Università di Pavia (invited speaker).October
30, 2001, Cosenza. Lecture on “ Ragioni e ca use” [ “ Reasons and causes
” ],Department of Philosophy, Università della Calabria (invited speaker).May
27, 2001, Padua. Lecture on “ Freedom and Naturalism ,” Department
of Philosophy,Università di Padova (invited speaker).May 8, 2001, Milan. Paper
on “ Interpretations and Criteria of Correctness ” .Conference:
Interpretation and Correcteness , Università Statale di Milano
(invitedspeaker).May 7, 2001, Bologna. Paper on Causality and Naturalism .
Annual Meeting of the ItalianSociety of Analytic Philosophy, Università di
Bologna (invited speaker).April 10, 2001, Rome. Paper on Forms of
Causation . Annual Meeting of the Italian Societyof Philosophy, Università Roma
Tre (speaker).October 5, 2000, Siena. Paper on What P.F. Strawson Hasn ’
t Proved . Annual Conference ofthe Italian Society of Analytic Philosophy
(spekaker)May 25-26, 2000, Rome. Paper on “ Freedom and the Self ” .
Conference: The Nature of theSelf, between Philosophy and Psychology ,
Università Roma Tre (speaker). 21 April 16, 2000, Rome. Paper on “
Van Inwagen s Consequence Argument ” .Workshop: Freedom and Necessity ,
Università Roma Tre (organizer andspeaker).April 8, 2000, Florence. Paper on “
What we should mean with the Word Pe r son” (withS.
Maffettone). Conference Le ragioni del corpo [The Reasons of the Body].
Istituto Gramsci (invited speaker).December 21, 1999, Rome. Paper on “ Davidson
on the Conceptual Schemes ” .Workshop: Talking with Donald Davidson ,
Università Roma Tre (organizer and speaker).December 20, 1999, Rome. Speaker
with D. Donald Davidson at the presentation of the book M. De Caro (ed.),
Interpretations and Causes. New Perspectives on Donald Dav idson’s P
hilosophy , Università Roma Tre (speaker).October, 28-30 1999, Rome. Paper on “
Against an Alleged Refutation of Kripke sSkeptical Argument ” .
Conference: Facts and Norms , IV National Conference of theItalian
Society of Analitic Philosophy, Università Roma Tre (speaker).October 14-16,
1999, Palermo. Paper on “ Davidson on Following a Rule ” .Conference: The
Linguistic Rule . Conference of the Italian Society of Philosophy ofLanguage
(invited speaker).April 16-17, 1999, Rome. Paper on Is Libertarianism
About Free Will Scientifically Acceptable? . Conference: Determinism and
Freedom , Università Roma Tre(organizer and speaker).September 23-26, 1998,
Bologna. Paper on “ The Roots of Epistemic Skepticism ” .Conference: Science,
Philosophy, and Common Sense , III National Conference of theItalian Society of
Analitic Philosophy, Bologna (speaker).February 27, 1997, Rome. Lecture
on Freedom and Necessity . Seminar of theInterdipartimental Reasearch
Center on Scientific Methodology (invited speaker).October 17-19, 1996, Rome.
Paper on “ G.H. von Wright on the Mind-Body Proble m”. Conference The
Study of Mankind in George Henrik von Wright , Università RomaTre
(speaker).December 5-6, 1994, Rome. Paper on “ Davidson on Holism and
SemanticExterna lism”. Conference: Perspectives on Holism , CNR
Roma (organizer andspeaker).October 24-26, 1994, Rome. Paper on “ Galileo s
method ” . Conference: Philosophies of Nature from the Renaissance to the
Twentieth Century , Università Roma “ LaSapienza ” (speaker).April 2,
1993, Rome. Paper on “ Davidson on skepticism”. Conference Donald
Dav idson’s philosophy , Università di Roma “ La Sapienza ”
(speaker and organizer).January 7-10 1993, Lucca. Paper on Logic and
Philosophy of Science: Problems and Perspectives . Triennal Meeting of Italian
Society of Logic and Philosophy ofScience (speaker) . November 30, 1991, Rome.
Paper on “ Perspectives of Rea lism”. Lecture at the Departmentof Philosophy,
Università di Roma “ La Sapienza ” (speaker). November 20-22, 1989, Rome.
Paper on “W ittgenstein and the Philosophy of Mind ” .Conference: Wittgenstein
on Mind and Language , Università Roma Tre (speaker). Mario De Caro.
Caro. Keywords: interpretare, Davidson, Putnam, “derivative Old-World
philosopher focusing on New-World philosophers like Putnam or Davidson!”,
interpretatione, peri hermeneias, Davidson on Grice – Grice on Putnam on Grice
‘too forma’ – Davidson on Grice – ‘a nice derangement of epitaphs’ Grice on
Davidson on intending: conversational implicature theory too social to be true:
‘intending’ ENTAILS belief, does not IMPLICATE it! Pears, D. F. Pears. – P. F.
Strawson and H. P. Grice on ‘free’ – Actions and Events --.- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caro” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773869382/in/dateposted-public/
Grice e Carravetta – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Lappano),
filosofo.. Note Peter Carravetta, Del
postmoderno., by Alessandro Carrera
iawa-West welcomes Peter Carravetta and Marisa Frasca on Saturday,
February 14, at Sidewalk Cafe NYC IAWA’s Open Reading Series Featuring Peter
Carravetta & Marisa FrascaFebruary 14,
Filosofia Letteratura Letteratura
Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloPoeti italiani del XX
secoloPoeti italiani del XXI secoloTraduttori italiani 1951 10 maggio. Grice:
“Carravetta has been stealing the Italian voice of Italian philosophers, or
rather silencing it!” -- Pietro Carravetta. Keywords. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Carravetta” – The Swimming-Pool Library. Tractatus
semeiotico-philosophicus – the opus magnum, almost, of Grice – or Speranza. –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51774915883/in/dateposted-public/
Grice e Carulli – GIANO – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Bari). Filosofo. Grice: “I like Carulli – he
philosophises on things we do not philosophy at Oxford, such as menstruation –
or piegaturi, as Speranza prefers, since this is plural – ‘delle mestruazioni’.”
Grice: “But Carulli has also philosophised on some anti-Griceian themes: my
‘fiducia’ becomes his ‘sfiducia;’ my ‘ragione’ becomes his ‘sragione’!
Delightful!” – Grice: “When I philosophised on “Not,” or “Not I!” alla Beckett
– I wouldn’t realise these are negative implicatures – ‘negative implicatures
of ‘not’ – Carulli speaks of ‘negative reflections on unaffirmation’!”
“Genius!” – Grice: “Carulli can play with word: ‘il ‘mito’ della inatualitta ‘
di X’ – is this equivalent or, as I prefer, a mere vehicle for the cancellable
implicature: ‘la attualita’ di X’?!” – Grice: “Carulli knows how to subtitle:
his ‘sfiducia e sragione’ is not just that but a Spinozian double treatise,
like Witters’s abhandlung – cfr. Speranza’s “Tractatus
semeiotico-philosophicus”.Studia a Bari, una città tradizionalmente soggetta
allo storiografismo, all'impegno cattolico e al marxismo. Produce una filosofia
aliena ai grandi inganni e refrattaria alla celebrazione dei suoi miti -- la
democrazia, i diritti, la socialità, il debolismo -- con un'inconsueta
attenzione alla forma, seguendo la scuola della cosiddetta critica della
cultura, da Nietzsche in poi, unendo gli epigoni di quello ai moralisti. Partito
da posizioni di anti-storicismo puro, culminato in un Benjamin schiacciato
sulla im-politicità di ritorno della sua filosofia in “Oggettività
dell'impolitico: riflessioni negative a partire da Benjamin” (Genova, Il
Melangolo). Così come da un'analisi eterodossa dell'ultimo Schelling, De contemptu,
Dello Schelling tardo (Genova, Il Melangelo) è giunto ad esiti originali con “Metafisica
delle mestruazioni” (Genova, Il Melangolo), dove si sottrae il fenomeno
femminile alle analisi socio-antropologiche per riconsegnarlo alla sua radice
metafisica. Il discorso sul cristianesimo ritorna in “Sfiducia e sragione. Trattato
teologico-politico” (Napoli, La Scuola di Pitagora), dove si riprende inoltre
la critica della democrazia. Il cristianesimo è visto come una forma culturale
stanca e abitudinaria, ma in grado di reggere con la sua apatia allo scontro con
l'Islam. Si affaccia la verità ontologica del “ente” in diminuzione che non
giungono mai all'annullamento definitivo; una verità che lo distanzia
dall'eternità dell’ “essente” come pure dai cultori dell'annientamento. La sua filosofia, centrata ossessivamente
sugli stessi temi, può essere idealmente divisa secondo un'altra direttrice,
volta alla ri-costruzione critica pionieristica di su amico Sgalambro. In
quest'ambito pubblica “Caro misantropo. Saggi e testimonianze per Sgalambro”
(Napoli, La Scuola di Pitagora); Introduzione a Sgalambro” (Genova, Il
Melangolo), e “La piccola verità. Quattro saggi su Sgalambro” (Milano,
Mimesis). Altre opere:“Lettera in La felicità? Prove didattiche di studenti
“tieffini” in formazione, Chiara Gemma, Barletta, Cafagna. Gianluca Veneziani,
Storia, verità e politica. Perché Benjamin non è un marxista, in Libero, De
contemptu, su alessiocantarella. Davide D'Alessandro, Alighieri, Harry Potter e
le mestruazioni: l'idea bellicosa di editoria di Regazzoni, su il foglio Alessio
Cantarella, Sfiducia e sragione, su alessiocantarella, Davide D'Alessandro,
Ratzinger, Bergoglio e l'Abitudine al Cristianesimo, su il foglio. Pier
Francesco Corvino, Religio Medici. Andrea
Comincini, Per una interpretazione di Dio e del Contemporaneo, su scena illustrata.com.
alessio cantarella. Sgalambro, un metafisico distruttore, in La Sicilia. Corriere del Mezzogiorno, Sgalambro,
“impiegato di filosofia” contro i luoghi comuni, in Il Mattino, Sgalambro, filosofo
pessimista che sape come godersi la vita, in Libero, Luca Farruggio, Una
preziosa “Introduzione a Sgalambro” -- Davide D'Alessandro, Cara “Italian
Theory”, ricordati di Sgalambro, su il foglio, Introduzione a Sgalambro su rai
playradio. Alessio Cantarella, su alessiocantarella. Davide D'Alessandro, Uno
Sgalambro non isolato, tra Cacciari e Severino, su il foglio, convenzionali.wordpress.com,
Sgalambro e le piccole verità, su lgiornale. Sgalambro, l’esistenza e il peso
di dio, su scena illustrata.com. Sgalambro, il filosofo che ama la canzone, in
La Gazzetta del Mezzogiorno. Antonio Carulli. Keywords: Giano, critica della
cultura, Nietzsche, De Contemptu, Schelling, impolitico, Benjamin,
menstruazione, Aligheri sulla mestruazione, ente, essente, Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Carulli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51775301924/in/dateposted-public/
Grice e Casalegno – filosofia linguistica
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I like, indeed
love, Casalegno; but then, he loves me! Translating Griice, or me, is tricky –
as Mommsen says of Garet translating Cassiodoro,, “more than a translation, he
provided a correction – and he tried to prove that Cassiodoro was a Benedictine
monk.’” Grice: “Casalegno does not try to ‘translate’ Grice – let THAT to the
technicians! As a philosopher, he tries to ‘re-interpret’ Grice, if a re-interpretation
is needed!” Si laurea a Pisa sotto
Sainati con “Aspetti della logica modernista”. Insegna a Milano, chiamato da
Bonomi. Approfondizza diversi temi all'interno della filosofia analitica, quali
il concetto di verità, la teoria degli insiemi, l'epistemologia della
testimonianza, la teoria della ricorsività. Altre opere: “Alle origini della
semantica formale,” Cuem; “Filosofia del linguaggio: un'introduzione,” Carocci,
“Teoria degli insiemi, un'introduzione, Carocci); “Brevissima introduzione alla
filosofia del linguaggio, Carocci,
Verità e significato. Scritti di filosofia del linguaggio, Carocci, (P. Frascolla, D. Marconi ed E. Paganini). Il
puzzle di Kripke, in Teoria, Sulla logica dei plurali, in Teoria; Tre
osservazioni su verità e riferimento, in Iride; Come interpretare l'argomento
antirealista di Dummett?, in Lingua e stile; Le proprietà modali della verità:
problemi e punti di vista, in Logica e teologia (Pisa, ETS). Un problema
concernente le condizioni di asseribilità, in Modi dell'oggettività, Milano,
Bompiani, Normatività e riferimento, in
Politeia. Chomsky sul riferimento, Monza, Polimetrica. Casalegno, il
maestro della filosofia del linguaggio, di Franco Manzoni, Corriere della Sera,
Archivio storico. Grice H. P. (1975). Logica e
conversazione. In P. Casalegno, P. Frascolla, A. Iacona, E. Paganini, M.
Santambrogio (a cura di). Filosofia del linguaggio, Milano, Raffaello Cortina
2003, 221–244. Il libro che vi presento oggi appartiene alla collana
“Bibliotheca” della casa editrice Raffaello Cortina. Il titolo è Filosofia del
linguaggio (come spesso accade tra i libri di cui ho parlato in questo blog) e
si tratta di una interessante e utile antologia di testi, appartenenti alla
tradizione novecentesca della filosofia analitica del linguaggio. I
curatori sono importanti docenti italiani, tra cui Paolo Casalegno, Pasquale
Frascolla, Andrea Iacona, Elisa Paganini e Marco Santambrogio. I testi
antologizzati consentono al lettore di farsi un’idea (e non poco approfondita)
sulle principali questioni e problematiche inerenti al linguaggio umano, su cui
si è dibattuto negli ultimi decenni in ambito analitico. Ogni testo è preceduto
da una introduzione dei curatori, in cui è presentato il pensiero dell’autore,
il contesto culturale e i concetti chiave che emergono dalla sua opera.
Apre il classico Senso e significato di Gottlob Frege (di cui avevo già parlato
qui), seguono quindi Le descrizioni di Bertrand Russell (testo che tratta
delle descrizioni definite), Significato, uso, comprensione di Ludwig
Wittgenstein (tratto dalle sue Ricerche filosofiche del 1953), Due dogmi dell’empirismo
e Relatività ontologica di Willard Van Orman Quine, Nomi e riferimento di Saul
Kripke, Significato, riferimento e stereotipi di Hilary Putnam, Interpretazione
radicale di Donald Davidson, Logica e conversazione di Paul Grice, Dispute
metafisiche intorno al realismo, di Michael Dummett, e si conclude con
l’interessante Linguaggio e natura, di Noam Chomsky. versazione – afferma Grice
- è un ' attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in
maniera appropriata . A tale fine , bisogna che ciascuno si attenga a quattro “
massime ” che possono ... Introduzione alla filosofia del
linguaggio Paolo Casalegno 1. Significato e condizioni di verità
Prendiamo in considerazione un’idea del primo Wittgenstein: “Comprendere
una proposizione vuole dire sapere che accada se essa è vera” (Tractatus,
4.024). Poiché comprendere una proposizione equivale a conoscerne il
significato, molti hanno concluso che alla base di una teoria del significato
si deve porre la nozione di verità. Come sostenere la tesi
wittgensteiniana? Un modo può essere
questo: usiamo il linguaggio per descrivere
la realtà. Una proposizione singola fornisce una descrizione
appropriata, anche se parziale, della realtà se le cose stanno in un certo
modo, una descrizione inappropriata altrimenti. Per comprendere una
proposi-zione dobbiamo sapere quali sono le circostante in cui la descrizione
della realtà che essa offre è ap-propriata, dobbiamo sapere come deve essere
fatto il mondo affinché essa sia vera. Possiamo anche esprimerci così: per
comprendere una proposizione dobbiamo conoscere le sue ‘condizioni di
veri-tà’. Evitiamo di fraintendere. Conoscere le condizioni di verità di
una proposizione è molto diverso dal sapere se essa sia, di fatto, vera o
falsa, e non bisogna dunque confondere le due cose. Inoltre, non bisogna assumere
che il conoscere le condizioni di verità di una
proposizione equivalga a sapere come si fa, in pratica, per
stabilire se essa è vera. La tesi wittgensteiniana sembra essere
ragionevole, e così anche la sua conseguenza più immediata: una teoria del
significato, ammesso che la si possa elaborare, deve essere imperniata sulla
nozione di verità. Le obiezioni che si possono però muovere a un siffatto modo
di vedere le cose sono moltepli-ci, concentriamoci su alcune di queste.
Le obiezioni possono essere, principalmente, di due tipi. Da un lato si può
concedere che compren-dere una proposizione equivalga a conoscerne le
condizioni di verità, ma respingere l’idea che la nozione di verità sia la
nozione centrale di una teoria del significato (ci sono espressioni per le
quali parlare di condizioni di verità sembra essere assurdo). Dall’altro lato,
si può più radicalmente soste-nere che il significato delle proposizioni non
può essere ridotto a un insieme determinato di condi-zioni di verità.
[Nota metodologica. Al termine ‘proposizione’ preferiamo contrapporre un gergo
leggermente più tecnico, facciamo quindi uso del termine ‘enunciato’; ciò per
riferirci a quelle che talvolta si chia-mano ‘frasi dichiarative’: le frasi per
mezzo delle quali si può fare un’asserzione e delle quali ha sen-so chiedersi
se siano vere o false.] La prima obiezione si basa sull’ovvia
constatazione che esistono espressione le quali, pur essendo dotate di
significato, non sono enunciati, e alle quali, di conseguenza, non sono sensatamente
attri-buibili condizioni di verità. Ci sono
espressioni sintatticamente ben formate che
non sono frasi complete, parole singole o espressioni
come ‘valigia pesante’. Che queste espressioni
abbiano un significato è indubbio, ma che si possa parlare di condizioni
di verità sembra essere un’evidente for-zatura. In secondo luogo,
ci sono frasi complete come le interrogative e le
imperative. Inevitabil-mente, una teoria che voglia analizzare il significato
di queste due sorte di espressioni deve ricorre a nozioni diverse
da quella di verità. Sembra dunque impossibile
che proprio su questa nozione si fondi tutta
quanta una teoria del significato. Cosa si può rispondere a quest’obiezione? Si
può voler dire che la nozione di verità, sebbene non possa essere considerata
l’unica nozione di una teoria del significato, rimane in ogni caso la nozione
centrale. Si può sostenere che anche il significato delle espressioni che non
sono enunciati ha a che fare con la verità. Consideriamo il caso delle
parole singole: queste servono a costruire frasi complete, è di queste in-fatti
che ci serviamo per parlare, non di parole isolate (a meno che le parole
singole non fungano esse stesse da frasi complete). Ci interessa che le parole
abbiano un significato perché ci interessa che abbiano un significato le frasi
complete in cui esse figurano. Conoscere il significato di una pa- 1 rola,
comprenderla, equivale in definitiva a sapere qual è il suo contributo al
significato delle frasi: in particolare alle condizioni di verità degli
enunciati. Non è possibile spiegare in che cosa consista per una parola essere
nome di qualcosa — e, più in generale, che cosa sia il significato di una
parola qualsiasi — se non presupponendo la nozione di verità. Una teoria del
significato deve fare appello alla nozione di verità anche nell’analisi delle
parole singole (questo vale anche per frasi più com-plesse che tuttavia non
sono frasi complete) (MAH). Vediamo ora il caso delle frasi complete che
non sono enunciati. Se ci si riflette un po’ su, ci si ren-de conto che la
nostra capacità di capire e di usare correttamente frasi interrogative e
imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere
il mondo, il che comporta che si sappia quando una descrizione è appropriata e
quando non lo è, il che ci riporta, ancora una volta, alle condizioni di
verità. Nel caso di domande molto semplici, domande che esigono come risposta
un ‘Sì’ o un ‘No’, ciò è evidente: queste domande (come ‘è partito il treno per
Udine’)corrispon-dono in modo ovvio a un enunciato, ora è ovvio che ciò che
vuole sapere chi formula la domanda è sapere se questo enunciato sia vero o
falso. É anche chiaro che il rispondere ‘Sì’ alla domanda equi-vale al dire che
è vero, e rispondere ‘No’ al dire che è falso. A conclusioni analoghe si
perviene ri-flettendo sui casi delle interrogative che non richiedono una
risposta nei termini di una negazione o un’affermazione, e
delle frasi imperative. La centralità della
nozione di verità sembra così essere
confermata. Della seconda obiezioni esistono
più varianti, potremmo perciò formularla
come segue. Concen-trando l’attenzione sulle condizioni di verità,
si privilegia solo uno degli scopi cui il linguaggio può essere adibito: la
descrizione della realtà, la trasmissione di informazioni su come è fatto il
mondo. E questa è una mossa evidentemente arbitraria. Se si decide di ignorare
la straordinaria varietà degli usi cui gli enunciati possono essere adibiti nelle
circostanze concrete delle vita per concentrarsi in modo esclusivo sul
loro ruolo di veicoli di informazione, ci si condanna ad offrire del
linguaggio un’immagine desolantemente impoverita. Del resto anche se si è
interessati al linguaggio come mez-zo per descrivere la realtà, bisogna
convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono assai più
complicate. In primo luogo, il fornire informazione non può mai ridursi al
proferire enunciati in modo casuale e sconnesso: parlando dobbiamo sempre tener
conto della situazione in cui ci tro-viamo, delle
informazioni di cui i nostri interlocutori
già dispongono, delle loro aspettative ecc.;
inoltre, ci sono regole precise di costruzione del discorso, violando le quali
ciò che diciamo potreb-be non esser compreso o risultare folle. Per tutto
questo le condizioni di verità non bastano. In se-condo luogo, le condizioni di
verità degli enunciati sono concepite di solito come qualcosa di relati-vamente
fisso e stabile. Di conseguenza, se il contenuto informativo degli enunciati
dipendesse per intero dalle loro condizioni di verità, dovrebbe essere a sua
volta stabile. Ma solo fintanto che si con-templano gli enunciati prescindendo
da ogni loro impiego effettivo si può avere l’impressione che sia così.
Ciò che si può comunicare con un dato enunciato varia enormemente
con il variare dei contesti. La risposta abituale a questa obiezione consiste
nell’evocare la distinzione tra semantica e pragmati-ca, una distinzione che
risale a un saggio di Charles Morris, secondo il quale lo studio di una lingua,
o di un qualsiasi altro sistema di segni, si compone di tre parti: sintassi,
semantica e pragmatica. La sintassi si occuperebbe dei segni in quanto tali,
prescindendo dalla loro interpretazione e dal loro uso, la semantica del
significato dei segni, e la pragmatica di ciò che con i segni si può fare, dei
loro impieghi concreti. Un’obiezione come sopra, si può dire, confonde
semantica e pragmatica. Qualcuno potrebbe però voler dire che questa
risposta si riduce, nei fatti, ad una mera stipulazione definitoria. Il
problema è se un tale modo di circoscrivere la semantica disgiungendola dalla
prag-matica sia giustificato o meno: se cioè la decisione di isolare le
condizioni di verità da altre dimen-sione del linguaggio rispecchi
un’articolazione intrinseca della nostra competenza di parlanti, iden-tifichi
un livello realmente fondamentale, e possa costituir una scelta metodica
feconda. Due punti: né il filosofo del linguaggio né il linguista sono
tenuti a rendere conto di tutti gli usi pos-sibili del linguaggio. Si è tenuti
a rendere conto solo di quelli che potremmo chiamare gli usi “lin-guistici” del
linguaggio (MAH). Se focalizziamo la nostra attenzione su questi usi, possiamo
convin-cerci che l’idea di partenza mantiene la propria plausibilità: sembra
che la conoscenza delle condi-zioni di verità degli enunciati
svolga un ruolo essenziale anche quando sono coinvolti
fattori che non sono riducibili alle condizioni di verità pure e
semplici. Non solo è legittimo distinguere seman-tica e pragmatica nel modo che
si è detto, ma la pragmatica presuppone la semantica (MAH). Ad esempio si è
rilevato come gli enunciati siano usati spesso per trasmettere un contenuto
informativo 2 Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti
parti importanti! Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti
parti importanti! stato di cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato
che la nozione di forma è quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di
interpretazioni che ha subito da parte di studiosi. Vi è poi una seconda
complicazione. Una proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso
la mediazione di un “pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine:
un’immagine mentale i cui elementi sono “costituenti
psichici”. Usando le parole di Wittgenstein
si può continuare a dire, come faceva Frege, che ogni
proposizione esprime un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero
espresso è il senso della proposizione: il senso della proposizione è lo stato
di cose di cui è il pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite
il pensiero, rappresenta (?). Nel caso del linguaggio ordinario, il
rapporto fra una proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato.
Il motivo è che il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il
linguaggio trave-ste i pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore
dell’abito non si può concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la
forma esteriore dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far
conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che
la strutture di una proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi
fedelmente la struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti.
Quindi, fintanto che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire
che le proposizione elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è
corretto solo approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è
un’immagine solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagi-ne vera e
propria che è il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di
cose che rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla
proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus
non ci fornisce ulteriori notizie. Una proposizione che rispecchi
fedelmente la struttura del pensiero espresso è detta da
Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento
del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale
costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La convinzione che il
linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base della concezione
della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni
e delle proposizioni che sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma
insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra
logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il
linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro verso, “scopo della
filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La filosofia è non una
dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non sono “proposizioni
filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il
Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia resterà per lo più
immutata. I nomi che figurano in una proposizione completamente
analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale: oggetti non
identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso co-mune (?) e
quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio ordinario. Ciò
che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione completamente
analizzata dagli oggetti del senso comune è il requisito
della semplicità. L’oggetto deve essere
semplice, ma di questa semplicità il Tractatus non da’
neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la genesi del
Tractatus, si scopre che una preoccupazione ricorrente di
Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli oggetti
semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza
non perché ne avesse in mente esempi specifici, bensì sulla base di
considerazioni logiche astratte e generali. In effetti un’argomentazione
vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano
soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la
sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non
avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere
un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine
del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di
Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una
proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa
corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che
le proposizione elementari siano immagini. (II) Se ai nomi potessero
corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad
un dato nome corrisponda davvero qualcosa. Un’entità
complessa consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora,
che sussista una tale correlazione è un fatto contingen-te. 5 stato
di cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma
è quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha
subito da parte di studiosi. Vi è poi una seconda complicazione. Una
proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un
“pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui
elementi sono “costituenti psichici”. Usando
le parole di Wittgenstein si può
continuare a dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime
un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della
proposizione: il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il
pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite il pensiero,
rappresenta (?). Nel caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una
proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che
il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il linguaggio trave-ste i
pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può
concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore
dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far conoscere la forma
del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che la strutture di una
proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la
struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto
che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione
elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è corretto solo
approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine
solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagi-ne vera e propria che
è il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che
rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla
proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus
non ci fornisce ulteriori notizie. Una proposizione che rispecchi
fedelmente la struttura del pensiero espresso è detta da
Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento
del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale
costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La convinzione che il
linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base della concezione
della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni
e delle proposizioni che sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma
insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra
logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il
linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro verso, “scopo della
filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La filosofia è non una
dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non sono “proposizioni
filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il
Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia resterà per lo più
immutata. I nomi che figurano in una proposizione completamente
analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale: oggetti non
identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso co-mune (?) e
quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio ordinario. Ciò
che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione completamente
analizzata dagli oggetti del senso comune è il requisito
della semplicità. L’oggetto deve essere
semplice, ma di questa semplicità il Tractatus non da’
neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la genesi del
Tractatus, si scopre che una preoccupazione ricorrente di
Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli oggetti
semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza
non perché ne avesse in mente esempi specifici, bensì sulla base di
considerazioni logiche astratte e generali. In effetti un’argomentazione
vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano
soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la
sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non
avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere
un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine
del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di
Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una
proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa
corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che
le proposizione elementari siano immagini. (II) Se ai nomi potessero
corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad
un dato nome corrisponda davvero qualcosa. Un’entità
complessa consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora,
che sussista una tale correlazione è un fatto contingen-te. 5
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(III) Pertanto, se ai nomi potessero corrispondere entità complesse, non ci
sarebbe a priori nessuna garanzia che una data proposizione abbia un senso.
Supponiamo che nella proposizione P figuri il nome N: se a N potesse
corrispondere un’entità complessa C, saremmo sicuri che a N corri-sponde
davvero qualcosa, e quindi che P ha senso, solo se fossimo sicuri
che C esiste: in altri termini, solo se sapessimo già che è vera la
proposizione P’ la quale asserisce che gli elementi costituitivi di C sono
correlati in quel certo modo. Come dice Wittgenstein, “l’avere una
proposi-zione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”. (IV)
Ma questo sarebbe assurdo. Se una proposizione abbia senso oppure no deve
essere chiaro a priori. É inconcepibile che la sensatezza o l’insensatezza di
una proposizione possa essere “sco-perta”. Se, per essere sicuri che una
proposizione è sensata, dovessimo sempre aver stabilito pri-ma la verità di
un’altra proposizione, si genererebbe un regresso all’infinito, e noi non
potrem-mo mai sapere se, parlando, stiamo dicendo alcunché di determinato. Non
saremmo mai in gra-do di “progettare un’immagine del mondo vera o falsa”.
(V)Conclusione: devono esserci oggetti semplici e sono gli oggetti semplici che
devono corrispon-dere ai nomi del nostro linguaggio. NB. In questo
ragionamento, la corrispondenza tra entità complesse e oggetti semplici viene
fatta coincidere con quella tra entità la cui esistenza è un fatto contingente
ed entità la cui esistenza è in-vece necessaria e nota a priori. “É manifesto
che un mondo, per quanto diverso sia pensato da quello reale, pure deve avere
in comune con il mondo reale qualcosa — una forma —”; “Questa forma fissa
consta appunto degli oggetti”. La proposizione (I) non è dunque
un’immagine vera e propria: la sua struttura non rispecchia la struttura di uno
stato di cose perché i costituenti ultimi di uno stato di cose sono sempre
oggetti semplici, mentre Piero e Marco sono entità complesse. I termini ‘Piero’
e ‘Marco’ non sono nomi del tipo che a Wittgenstein interessa. Questo però non
implica che (I) sia priva di senso. Grazie alla mediazione del pensiero un
senso ce l’ha (?), ma per esplicitarlo adeguatamente bisognerebbe ri-correre a
proposizioni con una struttura del tutto diversa: a proposizioni completamente
analizzate. Si può finalmente comprendere perché ai nomi non si possa attribuire,
a suo avviso, un senso di tipo descrittivo come quello cui pensava Frege.
Identificare un oggetto attraverso una descrizione vuole dire identificarlo
riferendosi ad uno stato di cose di cui esso fa parte. Ma il sussistere di uno
stato di cose è sempre un fatto contingente, mentre la correlazione di un nome
con l’oggetto che ne costi-tuisce il significato deve essere garantita a
priori. Pertanto, ciò che istituisce la correlazione nome/oggetto non può
essere una descrizione dell’oggetto stesso. Vediamo ora cosa
Wittgenstein sostiene riguardo le proposizioni
complesse. La sua idea è che le
proposizioni complesse siano funzioni di
verità delle proposizioni elementari che
figurano come loro costituenti. Supponiamo che le proposizioni elementari
che figurano nella proposizione com-plessa P siano P1, …, Pn. Allora dire che P
è una funzione di verità di P1, …, Pn equivale a dire che il valore di verità
di P dipende esclusivamente dai valori di verità di P1, …, Pn (negazione,
congiun-zione, disgiunzione, condizionale…). Per visualizzare il modo in
cui il valore di verità di una proposizione costruita per mezzo di un dato
connettivo dipende dai valori di verità delle proposizioni costituenti,
Wittgenstein propone un arti-ficio grafico: le cosiddette ‘tavole di
verità’. Tavola di verità della negazione: P¬ PT (1)F (0)F (0)T (1)
6 Tavola di verità della congiunzione: Tavola di verità della disgiunzione
(inclusiva): Wittgenstein osserva che le tavole di verità, così come sono,
potrebbero addirittura fungere da pro-posizioni complesse di un
linguaggio artificiale: ad esempio, le tre tavole di verità sopra
riportate potrebbero essere usate in luogo di ¬ P,( P ^ Q),(P ∨ Q). Se si seguisse questo suggerimento si
di-sporrebbe di un simbolismo autoesplicativo ma anche enormemente
ingombrante. Notiamo ora una grossa differenza tra Frege e Wittgenstein
nel modo di concepire i connettivi logi-ci. Per Frege ogni connettivo denota
una certa funzione che associa valori di verità a valori di verità (dove i
valori di verità vanno pensati come oggetti). Frege avrebbe dunque interpretato
la tavola di verità per un connettivo come un modo per descrivere la funzione
da esso denotata. Per Wittgen-stein, invece, i connettivi non denotano nulla.
Tutto quel che c’è da dire circa un connettivo è che esso consente di costruire
proposizioni complesse il cui essere vere o false dipende, secondo certe
modalità determinate, dall’essere vere o false le proposizioni costituenti.
Chiedersi che cosa denoti un connettivo è, per Wittgenstein, come chiedersi che
cosa denotino le parentesi. A queste considerazioni circa le proposizioni
complesse è strettamente collegata la concezione witt-gensteiniana della
logica. Né Frege né Russell avevano saputo spiegare che cosa
contraddistingue una proposizione logica da una proposizione di altro tipo, e
questo era proprio uno degli obbiettivi di Wittgenstein nella stesura del
Tractatus. Se si pensa ancora una volta al valore di verità di una
pro-posizione complessa come determinato dai valori di
verità dei suoi costituenti elementari, si può
constare che ci sono due casi limite: quello in cui una proposizione complessa
risulta vera, e quello in cui una proposizione complessa risulta essere falsa,
per tutte le possibili combinazioni di verità dei costituenti elementari. Una
proposizione del primo tipo Wittgenstein la chiama ‘tautologia’, una del
secondo tipo ‘contraddizione’. Ciò che Wittgenstein sostiene circa la
natura della logica è che essa consta per intero di tautologie. É l’essere una
tautologia ciò che contraddistingue una proposizione logica da qualsiasi altra.
Una pro-posizione logica non è tale per via del suo contenuto ma, piuttosto,
perché non ha contenuto, per-ché non dice nulla. Le tautologie non possono
fornirci alcuna informazione sulla realtà. Il loro inte-ressa sta nel fatto
che, essendo vere in virtù delle sole regole del linguaggio, esse ci mostrano
come questo funzioni. Avevamo detto che il senso di una proposizione
elementare è lo stato di cose che la proposizione rappresenta. Alle
proposizioni complesse questa nozione di senso non può essere
applicata senza modifiche. Il motivo è che, se P è una proposizione complessa,
non c’è uno stato di cose di cui si possa ragionevolmente dire che è
rappresentato da P. Tuttavia, se Wittgenstein ha ragione nel dire che tutte le
proposizioni complesse sono funzioni di verità dei loro costituenti
proposizionali ele-mentari, l’essere P vera o falsa dipende pur sempre dal
sussistere o non sussistere di certi stati di cose. Ciò che Wittgenstein dunque
propone è di identificare il senso di P con quelle combinazioni del sussistere
e non sussistere degli stati di cose S1, …, Sn per le quali P risulta vero. “Il
senso della PQP ^ QTTTTFFFTFFFFPQP ∨ QTTTTFTFTTFFF 7 Questa pagina non è visibile nell’anteprima
Non perderti parti importanti! Questa pagina non è visibile
nell’anteprima Non perderti parti importanti! è un'attività cooperativa alla
quale i partecipanti devono contribuire in maniera appropriata. A tale fine
bisogna che ciascuno si attenga a quattro “massime”: CASALEGNO “FILOSOFIA
DEL LINGUAGGIO”:1.SIGNIFICATO E CONDIZIONI DI VERITA’:-“TRATTATO
LOGICO-FILOSOFICO” di Wittgenstein: CAPIRE UNA PROPOSIZIONE SIGNIFICA SAPERE
COSA ACCADE SE ESSA E’VERA( alla base deve esserci la nozione di
verità)-LINGUAGGIO: usato x descrivere la realtà, attraverso la PROPORZIONE che
fornisce una descrizione della realtà= X COMPRENDERLA DOBBIAMO SAPERE QUALI
SONO LE CIRCOSTANZE IN CUI LA PROPORZIONE E’ APPROPIATA,DOBBIAMO CONOSCERE LE
SUE CONDIZIONI DI VERITA’(circostanze in cui essa è vera)-FRAINTENDIMENTI
POSSIBILI:*1.CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE E’ DIVERSO
DAL SAPERE SE E’ V O FEs: l’uomo + alto del mondo è bruno= NON SO SE E’ VERA MA
CONOSCO LE CONDIZIONI DI VERITA’ES : Napoleon was defeated by Nelson=E’ VERA
,MA NON CONOSCO L’INGLESE E NON CONOSCO LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’*2.
CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE EQUIVALE A SAPERE COME
SI FA X STABILIRE SE ESSA E’ VERAEs: La luna ha un diametro superiore ai
tremila km= CONOSCO BENE LE CONDIZIONI DI VERITA’,MA NON CONOSCO IL METRO X
VALUTARE IL DIAMETRO DELLA LUNA XCIO’ NON SO COME SI FA A STABILIRE SE ESSA E’
VERA-PROPOSIZIONE=FRASE DICHIARATIVA(x mezzo della quale si può fare un
asserzione e ha senso chiedersi se è v o f)=ENUNCIATO*tesi è plausibile ma può
essere soggetta a critiche,2 obiezioni:1.ESPRESSIONI DOTATE DI SIGNIFICATO ,MA
NON ENUNCIATI ALLE QUALI NON HA SENSO ATTRIBUIRE CONDIZIONI DI VERITA’ :
espressioni sintatticamente ben formate che non sono frasi complete-PAROLE
SINGOLE ,ESPRESSIONI COME “VALIGIA PESANTE”,FRASI
INTERROGATIVE-ESCLAMATIVE(Dov’è l’ombrello?, Mi porti il conto!*LA NOZIONE DI
VERITA’ NON E’ L’UNICA MA E’ CENTRALE NELLA TEORIA DEL SIGNIFICATO: anche
nell’analisi delle PAROLE SINGOLE,ESPRESSIONI COMPLESSE E FRASI COMPLETE CHE
NON SONO ENUNCIATI2.LA NOZIONE DI CONDIZIONE DI VERITA’ NON E’ SUFFICIENTE X
UN’ANALISI ADEGUATA DEL SIGNIFICATO DEGLI ENUNCIATI - concentrando l’attenzione
sulle condizioni di verità si privilegia la descrizione della realtà , ma
questo atteggiamento è arbitrario: UN INDIVIDUO PUO’ PROFERIRE ENUNCIATI X +
FINI E IN TUTTI I CASI NON HA MOLTA IMP SE GLI ENUNCIATI SONO V O F
*parlando dobbiamo tenere conto della situazione in cui ci troviamo, delle info
che possiedono i nostri interlocutori, delle loro aspettative e delle regole
della costruzione del discorso -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’
CORRISPONDENTI AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”,MA E’INSUFFICIENTE X
CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO
CONCRETO*Morris= lo studio della lingua si divide in 3 parti:1.SINTASSI: studia
segni in quanto tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE HANNO
ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA’3.PRAGMATICA: si occupa di ciò che con i
segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE: -conversazione=
ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA
APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime:1.QUANTITA’=giusta via di mezzo
2.QUALITA’= non dire cs false 3. RELAZIONE=cose
pertinenti 4.MODO= parlare in modo chiaro e ordinato*massime
violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale=
IMPLICATURA CONVERSAZIONALE2.FREGE:primo filosofo analitico-contribuisce alla
nascita della logica moderna -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale
*Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è
diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo
crea l’ideografia-LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA
PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico
generale1.SINN:senso(OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA)2.BEDETUNG:significato=
riferimentoEs: Aristotole= SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele
La montagna + alta al mondo= SIGNIFICATO è il Monte
Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi propri = E’ ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE
D. es: Totò,Grazia,New York *descrizioni definite= ARTICOLO DET SING+NOME
SINGOLARE es: IL marito di Luisa-UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità di
parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio naturale-le espressioni
hanno un significato in virtù del loro senso-senso diverso da
rappresentazione= E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE
PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE EVOCANO PAROLE -GLI ENUNCIATI
HANNO CONDIZIONI DI VERITA’ CORRISPONDENTI AL LORO “SIGNIFICATO
LETTERALE”,MA E’INSUFFICIENTE X CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE
UN PARLANTE IN UN CONTESTO CONCRETO*Morris= lo studio della lingua si divide in
3 parti:1.SINTASSI: studia segni in quanto tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI
ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI
VERITA’3.PRAGMATICA: si occupa di ciò che con i segni si può fare,dei loro
impegni concreti*GRICE: -conversazione= ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE
I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4
massime:1.QUANTITA’=giusta via di mezzo 2.QUALITA’= non dire cs
false 3. RELAZIONE=cose pertinenti 4.MODO= parlare in
modo chiaro e ordinato*massime violate x comunicare qualcosa che va al di là
del significato letterale= IMPLICATURA CONVERSAZIONALE2.FREGE:primo filosofo
analitico-contribuisce alla nascita della logica moderna -inventa
IDEOGRAFIA: linguaggio formale *Ritiene che alla base della filosofia ci sia la
teoria del significato-è diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento
inaffidabile= x questo crea l’ideografia-LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO
DAI VINCOLI DELLA PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato
linguistico generale1.SINN:senso(OGGETTIVO,NOZIONE
LOGICA)2.BEDETUNG:significato= riferimentoEs: Aristotole= SIGNIFICATO è
l’individuo Aristotele La montagna + alta al mondo=
SIGNIFICATO è il Monte Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi propri = E’
ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es: Totò,Grazia,New York *descrizioni
definite= ARTICOLO DET SING+NOME SINGOLARE es: IL marito di Luisa-UN NOME
HA SENSI DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi differenti=difetto del
linguaggio naturale-le espressioni hanno un significato in virtù del loro
senso-senso diverso da rappresentazione= E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE
PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE EVOCANO PAROLE Questa pagina
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DEL LINGUAGGIO – PAOLO CASALEGNO + DISPENSE.INTRODUZIONEPlatone, Socrate,
MedioevoPREMESSAPARADIGMA CLASSICO DEL 900FregeRussell Wi�gensteinTarskiQuinePutnamFREGESENSO
E SIGNIFICATOENUNCIATI DI IDENTITÀ (A=A/A=B)TERMINI SINGOLARI (NOMI PROPRI e
DESCRIZIONI DEFINITE) ENUNCIATIPREDICATIPRINCIPI (del CONTESTO, di
COMPOSIZIONALITÀ e di SOSTITUIBILITÀ) QUANTIFICATORI RUSSELLLE
DESCRIZIONIDESCRIZIONI INDEFINITEWITTGENSTEINSTATI DI
COSEIMMAGINEFATTORAFFIGURAZIONEFUNZIONI DI VERITÀCONNETTIVI PROPOSIZIONALITAUTOLOGIECONTRADDIZIONI
TAVOLE DI VERITÀLA NOZIONE DI VERITÀ IN LOGICA.TARSKILINGUAGGIO OGGETTO e
METALINGUAGGIODEFINIRE LA VERITÀCONVENZIONE VCOSTANTI (INDIVIDUALI, PREDICATIVE
e LOGICHE)SIMBOLI AUSILIARISODDISFACIMENTOPARADOSSIVERITÀ RELATIVA AD UN MODELLOCARNAPDESCRIZIONI
DI STATOESTENSIONE e INTENSIONEPOSSIBILITÀ e NECESSITÀ LOGICHEKRIPKEVERITÀ
LOGICAMODELLO KVERBI DI CREDENZADEISSI (o INDICALI)QUINEDUE DOGMI
DELL’EMPIRISMOANALITICO / SINTETICORIDUZIONISMOREGOLE SEMANTICHETEORIA DELLA
VERIFICAZIONE Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti
importanti! Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti
importanti! - il significato non può essere rido�o ad un
insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si basa sulla constatazione ovvia che esistono
espressioni che, pur avendo significato, non sono enuncia� e
quindi non gli si possono a�ribuire CDV. Tra di esse
troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Tu� gli
studen� che hanno superato la prova”- frasi complete come le
INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi por� il
conto!”Cosa si può rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del
significato ne resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato
delle espressioni che non sono enuncia� ha a che fare con la
verità. Inoltre, non è possibile spiegare in cosa consista per una parola
essere nome di qualcosa se non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del
significato deve fare in ogni caso appello alla NDV nell’analisi delle parole
singole.Questa linea argomenta�va risale a Frege e si può
applicare anche alle espressioni complesse. Rifle�endoci,
ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interroga�ve ed
impera�ve dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per
descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata
o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è sufficiente per un’analisi adeguata del
significato degli enuncia�. Concentrando l’a�enzione sulle CDV si
privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di
ignorare i vari usi cui gli enuncia� possono essere adibi� per
concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare
impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista
le cose sono molto più complicate, per due mo�vi:-
parlando, dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci
sono regole precise di costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere
le CDV non basta. - le CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e
stabile. Se il contenuto informa�vo degli enuncia�
dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In realtà, varia col
variare dei contes�.Restano aperte solo due opzioni:- respingere la nozione di CDV-
amme�ere che gli enuncia� abbiano CDV che corrispondono
al loro SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate la dis�nzione
tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo Morris, lo studio di una
lingua si compone di:SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali;SEMANTICA che
riguarda il significato dei segni;PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concre� dei
segniL’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo nella
direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe riba�ere che
tu�o ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo
modo di circoscrivere la seman�ca sia gius�ficato.
So�olineiamo due pun�:- non si è tenu� a
rendere conto di tu� gli usi possibili del linguaggio - il significato non può essere
rido�o ad un insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si basa sulla
constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo significato, non
sono enuncia� e quindi non gli si possono a�ribuire CDV. Tra di esse
troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Tu� gli
studen� che hanno superato la prova”- frasi complete come le
INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi por� il
conto!”Cosa si può rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del
significato ne resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato
delle espressioni che non sono enuncia� ha a che fare con la
verità. Inoltre, non è possibile spiegare in cosa consista per una parola
essere nome di qualcosa se non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del
significato deve fare in ogni caso appello alla NDV nell’analisi delle parole
singole.Questa linea argomenta�va risale a Frege e si può
applicare anche alle espressioni complesse. Rifle�endoci,
ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interroga�ve ed
impera�ve dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per
descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata
o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è sufficiente per un’analisi adeguata del
significato degli enuncia�. Concentrando l’a�enzione sulle CDV si
privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di ignorare
i vari usi cui gli enuncia� possono essere adibi� per concentrarsi sul
loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare impoverito. Poi,
però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono molto
più complicate, per due mo�vi:- parlando, dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui
ci troviamo. Ci sono regole precise di costruzione del discorso e per sapere
questo, conoscere le CDV non basta. - le CDV sono considerate di solito come
qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto informa�vo
degli enuncia� dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In
realtà, varia col variare dei contes�.Restano aperte solo due
opzioni:- respingere la nozione di CDV- amme�ere che gli enuncia�
abbiano CDV che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate
la dis�nzione tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo
Morris, lo studio di una lingua si compone di:SINTASSI che riguarda i segni in
quanto tali;SEMANTICA che riguarda il significato dei segni;PRAGMATICA che
riguarda gli impieghi concre� dei segniL’obiezione, dunque,
sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo nella direzione giusta, ma
serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe riba�ere che
tu�o ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo
modo di circoscrivere la semantica sia gius�ficato. So�olineiamo
due pun�:- non si è tenu� a rendere conto di tu� gli
usi possibili del linguaggio Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non
perderti parti importanti! - è legi�ma la dis�nzione
tra seman�ca e pragma�ca e, anzi, la pragma�ca presuppone la seman�caQuesto
secondo punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE
CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una conversazione è un’a�vità
coopera�va alla quale i partecipan� devono contribuire in
modo appropriato; per questo è necessario che ciascuno si a�enga a
4 massime:1- QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né maggiori di quanto
richiesto al momento2- QUALITÀ: non dire cose che credi false o per cui non ci
sono prove adeguate3- RELAZIONI: dire cose per�nen�4-
MODO: parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità - è
legi�ma la dis�nzione tra seman�ca e pragmatica e, anzi, la
pragmatica presuppone la seman�caQuesto secondo punto è messo
bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo
cui una conversazione è un’a�vità coopera�va alla
quale i partecipan� devono contribuire in modo appropriato; per questo è necessario
che ciascuno si a�enga a 4 massime:1- QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né
maggiori di quanto richiesto al momento2- QUALITÀ: non dire cose che credi
false o per cui non ci sono prove adeguate3- RELAZIONI: dire cose per�nen�4-
MODO: parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità Paolo Stefano
Casalegno. Paolo Casalegno. Keywords: filosofia linguistica. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Casalegno” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51774868518/in/dateposted-public/
Casanova (Venezia). Filosofo. Grice: “It is fascinating to analyse what
Casanova calls ‘piegadura’, or ‘piegadure,’ in the plural – bendings – my
implicatura is a bit like his piegadura, only less acute!” -- Grice: “I would
hardly call Casanova a philosopher, but my wife hardly would not!” -- Giacomo
Casanova ritratto dal fratello Francesco Giacomo Girolamo Casanova (Venezia)
avventuriero, scrittore, poeta, alchimista, esoterista, diplomatico,
finanziere, scienziato, filosofo e agente segreto della Serenissima italiano,
cittadino della Repubblica di Venezia. Benché di lui resti una produzione
letterariatra trattati e testi saggistici d'argomento vario (s'occupò,
nell'ampia gamma dei suoi interessi, perfino di matematica) e opere letterarie
in prosa come in versivastissima, viene a tutt'oggi ricordato principalmente
come un avventuriero e, per via della sua vita amorosa a dir poco movimentata,
come colui che fece del proprio nome l'antonomasia del soave e raffinato
seduttore e libertino. A tutt'oggi un playboy viene spesso chiamato "casanova".
A questa sua fama di grande conquistatore di donne contribuì verosimilmente la
sua opera più importante e celebre: Histoire de ma vie (Storia della mia vita),
in cui l'autore descrive, con la massima franchezza (pur non per questo
privandosi d'anedotti romanzeschi e alcuni abbellimenti), le sue avventure, i
suoi viaggi e, soprattutto, i suoi innumerevolissimi incontri galanti.
L'Histoire è scritta in francese: tale scelta linguistica fu dettata
principalmente da motivi di diffusione dell'opera, in quanto all'epoca il
francese era la lingua più conosciuta e parlata dalle élite d'Europa. Fra
corti e salotti vari, si ritrovò a vivere, quasi senza rendersene conto, un
momento di svolta epocale della storia, non comprendendo affatto lo spirito di
fortissimo rinnovamento che avrebbe fatto virare la storia in direzioni mai
percorse prima; rimase infatti ancorato fino alla fine dei propri giorni ai
valori, precetti e credenze dell'ancien régime e della sua rispettiva classe
dominante, l'aristocrazia, alla quale era stato escluso per nascita e della
quale cercò disperatamente di far parte, anche quando essa era ormai
irrimediabilmente avviata al crepuscolo, per tutta la propria vita. Tra le
personalità eccelse dell'epoca che ebbe modo di conoscere personalmente, e di cui
ci ha lasciato testimonianza diretta, si possono citare Jean-Jacques Rousseau,
Voltaire, Madame de Pompadour, Wolfgang Amadeus Mozart, Benjamin Franklin,
Caterina II di Russia e Federico II di Prussia. Dalla nascita alla fuga
dai Piombi. Venezia, Calle della Commedia (ora Malipiero) Giacomo Girolamo
Casanova nacque a Venezia, in Calle della Commedia (ora Calle Malipiero), nei
pressi della chiesa di San Samuele, dove fu anche battezzato, il 2 aprile del
1725. Molte opere enciclopediche o letterarie recano erroneamente i
nomi di battesimo Giovanni Giacomo, la cui origine è sicuramente da ricercarsi
nella pubblicazione dell'opera del 1835 Biografia degli italiani illustri nelle
scienze, lettere ed arti del secolo XVIII e de' contemporanei, Emilio De Tipaldo,
in cui l'autore della voce relativa al Casanova, Bartolomeo Gamba, intestò
erroneamente la voce a un certo Giovanni Giacomo Casanova. Successivamente,
l'errore fu ripetuto nel 1931 nella voce su Casanova dell'Enciclopedia Treccani
e da allora è spesso riapparso. Si può leggere il nome corretto nel
documento relativo al battesimo del Casanova. «Addì 5 aprile 1725
Giacomo Girolamo fig.o di D. Gaietano Giuseppe Casanova del q.(uondam) Giac.o
Parmegiano comico, et di Giovanna Maria, giogali, nato il 2 corr. battezzato
daGio. Batta Tosello sacerd. di chiesa de licentiaComp. il signor Angelo Filosi
q.(uondam) Bartolomeo stà a S. Salvador. Lev. Regina Salvi.» (Storia
della mia vita, Mondadori) Il padre, Gaetano Casanova, era un attore e
ballerino parmigiano di remote origini spagnole (almeno stando alla dubbia
genealogia tracciata dal Casanova all'inizio dell'Histoire, gli avi paterni
sarebbero stati originari di Saragozza, nell'Aragona[E 3]), mentre la madre,
Zanetta Farussi, era un'attrice veneziana che, nella sua professione, ebbe di
gran lunga maggior successo del marito, dato che la troviamo menzionata persino
da Carlo Goldoni nelle sue Memorie, ove la definì: "...una vedova
bellissima e assai valente". La voce popolare lo considerava frutto di una
relazione adulterina della madre con il patrizio veneziano Michele Grimani[E 4]
e Casanova stesso affermò, seppur in maniera criptica nel suo libello Né amori
né donne, di essere figlio naturale del patrizio. Ma ulteriori indizi a
suffragio della tesi potrebbero derivare dal fatto che, dopo la morte del
padre, i Grimani si presero cura di lui con un'assiduità che appare andasse
oltre i normali rapporti di protezione e liberalità che le famiglie patrizie
veneziane praticavano nei confronti delle persone che, a qualche titolo,
avevano servito la casata. Il che troverebbe conferma anche nel fatto che la
giustizia della Repubblica, solitamente piuttosto severa, non infierì mai
particolarmente nei suoi confronti. Dopo la sua nascita, la coppia ebbe altri
cinque figli: Francesco, Giovanni Battista, Faustina Maddalena, Maria Maddalena
Antonia Stella e Gaetano Alvise. Chiesa di San Samuele, Venezia
Rimasto orfano di padre a soli otto anni d'età ed essendo la madre
costantemente in viaggio a causa della sua professione, Giacomo fu allevato
dalla nonna materna Marzia Baldissera in Farussi. Da piccolo era di salute
cagionevole e per questo motivo la nonna lo condusse da una fattucchiera che,
eseguendo un complicato rituale, riuscì a guarirlo dai disturbi da cui era
affetto. Dopo quell'esperienza infantile, l'interesse per le pratiche magiche
lo accompagnerà per tutta la vita, ma lui stesso era il primo a ridere della
credulità che tanti manifestavano nei confronti dell'esoterismo. All'età
di nove anni fu mandato a Padova, dove rimase fino al termine degli studi; nel
1737 s'iscrisse all'università dove, come ricorda nelle Memorie, si sarebbe
laureato in diritto; la questione dell'effettivo conseguimento del titolo
accademico è molto controversa: infatti Casanova descrive nelle Memorie gli
anni passati all'Padova, sostenendo di essersi laureato. Analoga affermazione
risulta anche dalla dedica dell'opera del 1797 a Leonard Snetlage, il cui
frontespizio reca scritto A Leonard Snetlage, Docteur en droit de l'Université
de Gottingue, Jacques Casanova, docteur en droit de l'Universitè de Padoue.
Inoltre da documenti risulta che il Casanova abbia lavorato nello studio
dell'avvocato Marco Da Lezze, dal che si era presunto che, compiuti gli studi e
conseguita la laurea, fosse andato a compiere il praticantato presso il Da
Lezze. Nonostante queste fonti, il primo a dubitare del titolo conseguito dal
Casanova fu Pompeo Molmenti, ma ben presto gli studi del Brunelli, il quale
aveva reperito documenti che dimostravano in modo certo l'avvenuta
immatricolazione al primo anno e le successive iscrizioni, convinsero tutti gli
autori dell'effettivo conseguimento del titolo accademico; in tal senso, tra i
tanti, anche James Rives Childs (Casanova). Successivamente Enzo Grossato pose
nuovamente in dubbio il conseguimento del titolo rifacendosi ai registri di
laurea, i quali non menzionano il nome del veneziano. Dello stesso avviso Piero
Del Negro, il quale rilevò che, oltre ai registri consultati dal Grossato,
anche un ulteriore codice, il Registro dottorati 1737 usque ad 1747, non
riportava il nome del Casanova; inoltre egli constatò che il Casanova non aveva
mai parlato del titolo se non in epoca tarda, quando ormai ricostruire la
circostanza sarebbe stato difficile per chiunque. Terminati gli studi,
Giacomo Casanova viaggiò a Corfù e a Costantinopoli, per poi rientrare a
Venezia nel 1742. Nella sua città natale ottenne un impiego presso lo studio dell'avvocato
Marco da Lezze. Il 18 marzo 1743 la nonna Marzia Baldissera morì. Con la morte
della nonna, alla quale era legatissimo, si chiuse un capitolo importante della
sua vita: la madre decise di lasciare la bella e costosa casa in Calle della
Commedia[E 7] e di sistemare i figli in modo economicamente più sostenibile.
Questo evento segnò profondamente Giacomo, togliendogli un importante punto di
riferimento. Nello stesso anno fu rinchiuso, a causa della sua condotta
piuttosto turbolenta, nel Forte di Sant'Andrea dalla fine di marzo alla fine di
luglio. Più che l'applicazione di una pena, fu un avvertimento tendente a
cercare di correggerne il carattere. Messo in libertà, partì, grazie ai
buoni uffici materni, per la Calabria, al seguito del vescovo di Martirano che
si recava ad assumere la diocesi. Una volta giunto a destinazione, spaventato
per le condizioni di povertà del luogo, chiese e ottenne congedo. Viaggiò a
Napoli e a Roma, dove nel 1744 prese servizio presso il cardinal Acquaviva,
ambasciatore della Spagna presso la Santa Sede. L'esperienza si concluse
presto, a causa della sua condotta imprudente: infatti aveva nascosto nel
Palazzo di Spagna, residenza ufficiale del cardinale, una ragazza fuggita di
casa. Targa commemorativa su Palazzo Malipiero Nel febbraio del
1744 arrivò ad Ancona, dove era già stato sette mesi prima. Durante il primo
soggiorno nella città era stato costretto a passare la quarantena nel
lazzaretto, dove aveva intessuto una relazione con una schiava greca,
alloggiata nella camera superiore alla sua.[E 9] Fu però durante il suo
secondo soggiorno ad Ancona che Casanova ebbe una delle sue più strane
avventure: si innamorò di un seducente cantante castrato, Bellino, convinto che
si trattasse in realtà di una donna. Fu solo dopo una corte serrata che
Casanova riuscì a scoprire ciò che sperava: il castrato era in realtà una ragazza,
Teresa (con cui avrà il figlio illegittimo Cesarino Lanti), che, per
sopravvivere dopo essere rimasta orfana, si faceva passare per un castrato in
modo da poter cantare nei teatri dello Stato della Chiesa, dove era vietata la
presenza di donne sul palcoscenico. Il nome di Teresa ricorre spesso nel testo
dell'Histoire, a testimonianza dei molti incontri avvenuti, negli anni, nelle
capitali europee dove Teresa mieteva successi con le sue interpretazioni. Ritornò
quindi a Venezia e, per un certo periodo, si guadagnò da vivere suonando il
violino nel teatro di San Samuele, di proprietà dei nobili Grimani che, alla
morte del padre, avvenuta prematuramente (1733), avevano assunto ufficialmente
la tutela del ragazzo, avvalorando la voce popolare secondo la quale uno dei
Grimani, Michele, fosse il vero padre di Giacomo. Nel 1746 avvenne
l'incontro con il patrizio veneziano Matteo Bragadin, che avrebbe migliorato
sostanzialmente le sue condizioni. Colpito da un malore, il nobiluomo fu
soccorso da Casanova e si convinse che, grazie a quel tempestivo intervento,
aveva potuto salvarsi la vita. Di conseguenza prese a considerarlo quasi come
un figlio, contribuendo, finché visse, al suo mantenimento. Nelle ore concitate
in cui assisteva Bragadin, Casanova venne in contatto con i due più fraterni
amici del senatore, Marco Barbaro[E 11] e Marco Dandolo; anch'essi gli si
affezionarono profondamente e, finché vissero, lo tennero sotto la loro
protezione. La frequentazione con i nobili attirò l'interesse degli Inquisitori
di Stato e Casanova, su consiglio di Bragadin, lasciò Venezia in attesa di
tempi migliori. Nel 1749 incontrò Henriette, che sarebbe stata forse il
più grande amore della sua vita. Lo pseudonimo nascondeva probabilmente
l'identità di una nobildonna di Aix-en-Provence, forse Adelaide de Gueidan. Su
questa e su altre identificazioni, i "casanovisti" si sono
accapigliati per decenni. In linea di massima, come è stato sostenuto da molti
studiosi, i personaggi citati nelle Memorie sono reali. Al più, l'autore
potrebbe essersi cautelato con qualche piccola accortezza: spesso, trattandosi
di donne sposate, alcune sono citate con le iniziali o con nomi di fantasia,
talvolta l'età viene un po' modificata per galanteria o per vanità dell'autore
che non amava riferire di avventure con donne considerate, con i criteri di
allora, in età matura, ma in generale le persone sono identificabili e anche i
fatti riferiti sono risultati corretti e riscontrabili. Innumerevoli
identificazioni e notizie documentali hanno confermato il racconto. Se
qualche errore c'è stato, lo si deve anche al fatto che, all'epoca in cui
furono scritte le Memorie (dal 1789 in poi), erano passati molti anni dai fatti
e, per quanto l'autore si possa essere aiutato con diari o appunti, non era
facile incasellare cronologicamente gli eventi. Ogni tanto l'autore si faceva
però trascinare dalla sua visione teatrale delle cose e non rinunciava a
qualche "colpo di teatro", il che peraltro contribuisce a rendere la
lettura più piacevole. Il problema dell'attendibilità del racconto casanoviano
è tuttavia molto complesso: ciò che è difficile o, in molti casi, impossibile
da valutare è se i rapporti che Casanova riferisce di aver intrattenuto con i
personaggi siano rispondenti alla realtà dei fatti. Taluni studiosi hanno
ritenuto che nel corpus delle Memorie siano stati inseriti dei passaggi
totalmente romanzati e di pura invenzione, basati comunque su personaggi
storicamente esistiti ed effettivamente presenti nel luogo e nel tempo della
descrizione. Il caso più clamoroso è quello che riguarda la relazione di
Casanova con suor M.M.e i conseguenti rapporti con l'ambasciatore di Francia De
Bernis. Si tratta di una delle parti più valide dell'opera dal punto di vista
letterario e stilistico. Il ritmo del racconto è serratissimo e la tensione
emotiva dei personaggi di straordinario realismo. Secondo alcuni studiosi il
racconto è assolutamente veritiero e si è ripetutamente tentata
l'identificazione della donna, secondo altri il racconto è di pura fantasia e
basato sulle confidenze del cuoco dell'ambasciatore (tale Rosier), che
effettivamente Casanova conosceva molto bene. La diatriba tra le varie tesi
continuerà ma, comunque stiano le cose, il valore dell'opera non cambia, perché
ciò che perde il Casanova memorialista lo guadagna il Casanova romanziere.[E
15] Rientrato a Venezia nella primavera del 1750, nel giugno successivo
decise di partire per Parigi. A Milano si incontrò con l'amico Antonio Stefano
Balletti, figlio della celebre attrice Silvia, e con lui proseguì alla volta
della capitale francese. Durante il viaggio, a Lione, Casanova aderì alla
Massoneria.[E 17] Non sembra che la decisione fosse ascrivibile a inclinazioni
ideologiche, ma piuttosto alla pratica esigenza di procurarsi utili
appoggi. «Ogni giovane che viaggia, che vuol conoscere il mondo, che non
vuol essere inferiore agli altri e escluso dalla compagnia dei suoi coetanei,
deve farsi iniziare alla Massoneria, non fosse altro per sapere
superficialmente cos'è. Deve tuttavia fare attenzione a scegliere bene la
loggia nella quale entrare, perché, anche se nella loggia i cattivi soggetti
non possono far nulla, possono tuttavia sempre esserci e l'aspirante deve
guardarsi dalle amicizie pericolose.» (Giacomo Casanova, Memorie) Ottenne
qualche risultato: infatti molti personaggi incontrati nel corso della sua
vita, come Mozart[E 18] e Franklin erano massoni e alcune facilitazioni
ricevute in varie occasioni sembrerebbero dovute ai benefici derivanti dal far
parte di un'organizzazione ben radicata in quasi tutti i paesi europei. Giunti
a Parigi, Balletti presentò Casanova alla madre, che lo accolse con
familiarità; la generosa ospitalità della famiglia Balletti si protrasse per i
due anni in cui visse nella capitale francese. Durante la permanenza si applicò
allo studio del francese, che sarebbe divenuto la sua lingua letteraria oltre
che, in molti casi, epistolare.[E 20] Ritornato a Venezia dopo il lungo
soggiorno parigino e altri viaggi a Dresda, Praga e Vienna, il 26 luglio 1755,
all'alba, fu arrestato e ristretto nei Piombi. Come d'uso all'epoca,
al condannato non venne notificato il capo d'accusa, né la durata della
detenzione cui era stato condannato. Ciò, come in seguito scrisse, si rivelò
dannoso, poiché se avesse saputo che la pena era di durata tutto sommato
sopportabile, si sarebbe ben guardato dall'affrontare il rischio mortale
dell'evasione e soprattutto il pericolo della possibile successiva eliminazione
da parte degli inquisitori, i quali, spesso, arrivavano a operare anche molto
lontano dai confini della Repubblica. Questi magistrati erano l'espressione più
evidente dell'arbitrarietà del potere oligarchico che governava Venezia. Erano
insieme tribunale speciale e centrale di spionaggio. Sui motivi reali
dell'arresto si è discusso parecchio. Certo è che il comportamento di Casanova
era tenuto d'occhio dagli inquisitori e rimangono molte riferte (rapporti delle
spie al soldo degli Inquisitori) che ne descrivevano minutamente i
comportamenti, soprattutto quelli considerati socialmente sconvenienti. In
definitiva l'accusa era quella di "libertinaggio" compiuto con donne
sposate, di spregio della religione, di circonvenzione di alcuni patrizi e in
generale di un comportamento pericoloso per il buon nome e la stabilità del
regime aristocratico. Di fatto, Casanova conduceva una vita alquanto
disordinata, ma né più né meno di tanti rampolli delle casate illustri: come
questi giocava, barava e aveva anche delle idee abbastanza personali in materia
di religione e, quel che è peggio, non ne faceva mistero. L'arresto
di Casanova (illustrazione per Storia della mia fuga) Anche la sua adesione alla
Massoneria, che era nota agli Inquisitori, non gli giovava, così come la
scandalosa relazione intrattenuta con "suor M.M.", certamente
appartenente al patriziato, monaca nel convento di S. Maria degli Angeli in
Murano e amante dell'ambasciatore di Francia, abate De Bernis. Insomma,
l'oligarchia al potere non poteva tollerare oltre che un individuo ritenuto
socialmente pericoloso restasse in circolazione. Tuttavia gli appoggi, di
cui certamente poteva disporre nell'ambito del patriziato, lo aiutarono
notevolmente, sia nell'ottenere una condanna "leggera" sia durante la
reclusione, e forse addirittura ne agevolarono l'evasione. La contraddizione è
solo apparente, perché Casanova fu sempre un personaggio ambivalente: per
estrazione e mezzi faceva parte di una classe subalterna, anche se contigua
alla nobiltà, ma per frequentazioni e protezioni poteva sembrare far parte, a
qualche titolo, della classe al potere. A questo riguardo va anche considerato
che il suo presunto padre naturale, Michele Grimani, apparteneva a una delle
famiglie più illustri dell'aristocrazia veneziana, annoverando ben tre dogi e
altrettanti cardinali. Questa paternità fu rivendicata da Casanova stesso nel
libello Né amori né donne e sembra che anche la somiglianza di aspetto e di
corporatura dei due avvalorasse parecchio la tesi. Dalla fuga dai Piombi
al ritorno a Venezia (17561774) Presunto ritratto di Giacomo Casanova,
attribuito a Francesco Narici, e in passato ad Anton Raphael Mengs o al suo
allievo Giovanni Battista Casanova (fratello di Giacomo) Appena riavutosi dallo
shock dell'arresto, Casanova cominciò a organizzare la fuga. Un primo tentativo
fu vanificato da uno spostamento di cella. Nella notte fra il 31 ottobre e il
1º novembre 1756 mise in atto il suo piano: passando dalla cella alle soffitte,
attraverso un foro nel soffitto praticato da un compagno di reclusione, il
frate Marino Balbi, uscì sul tetto e successivamente si calò di
nuovo all'interno del palazzo da un abbaino. Passò quindi, in compagnia
del complice, attraverso varie stanze e fu infine notato da un passante, che
pensò fosse un visitatore rimasto chiuso all'interno e chiamò uno degli addetti
al palazzo il quale aprì il portone, consentendo ai due di uscire e di
allontanarsi fulmineamente con una gondola. Si diressero velocemente
verso nord. Il problema era seminare gli inseguitori: infatti la fuga gettava
un'ombra sull'amministrazione della giustizia di Venezia ed era chiaro che gli
Inquisitori avrebbero tentato di tutto per riacciuffare gli evasi. Dopo brevi
soggiorni a Bolzano (dove i banchieri Menz lo ospitarono e aiutarono
economicamente), Monaco di iera (dove Casanova finalmente si liberò della
scomoda presenza del frate), Augusta e Strasburgo, il 5 gennaio 1757 arrivò a
Parigi, dove nel frattempo il suo amico De Bernis era divenuto ministro e
quindi gli appoggi non gli mancavano. Illustrazione da Storia della
mia fuga Rinfrancato e trovata una sistemazione, iniziò a dedicarsi alla sua
specialità: brillare in società, frequentando quanto di meglio la capitale
potesse offrire. Conobbe tra gli altri la marchesa d'Urfé nobildonna
ricchissima e stravagante, con la quale intrattenne una lunga relazione,
dilapidando cospicue somme di denaro che lei gli metteva a disposizione,
soggiogata dal suo fascino e dal consueto corredo di rituali magici. Il
28 marzo 1757 assistette, come accompagnatore di alcune dame «incuriosite da
quell'orrendo spettacolo» (mentre lui distolse lo sguardo) e di un conte
trevigiano, alla cruenta esecuzione (tramite squartamento) di Robert François
Damiens, che aveva attentato alla vita di Luigi XV. Molto fantasioso,
come al solito, si fece promotore di una lotteria nazionale, allo scopo di
rinsaldare le finanze dello stato. Osservava che questo era l'unico modo di far
contribuire di buon grado i cittadini alla finanza pubblica. L'intuizione era
talmente valida che ancora adesso il sistema è molto praticato. L'iniziativa
venne autorizzata ufficialmente e Casanova venne nominato "Ricevitore"
il 27 gennaio 1758. Nel settembre dello stesso anno, De Bernis fu nominato
cardinale; un mese dopo Casanova fu incaricato dal governo francese di una
missione segreta nei Paesi Bassi.[26] Al suo ritorno fu coinvolto in
un'intricata faccenda riguardante una gravidanza indesiderata di un'amica, la
scrittrice veneziana Giustiniana Wynne. Di madre italiana e padre inglese,
Giustiniana era stata al centro dell'attenzione per la sua rovente relazione
con il patrizio veneziano Andrea Memmo. Questi aveva cercato in tutti i modi di
sposarla, ma la ragion di stato (lui era membro di una delle dodici
famigliecosiddette apostolichepiù nobili di Venezia) glielo aveva impedito, a
causa di alcuni oscuri trascorsi della madre di lei, e, in seguito allo
scandalo che ne era sortito, i Wynne avevano lasciato Venezia.[27] Giunta a
Parigi, trovandosi in stato interessante e di conseguenza in grosse difficoltà,
la ragazza si rivolse per aiuto a Casanova, che aveva conosciuto a Venezia e
che era anche ottimo amico del suo amante. La lettera con cui implorava aiuto è
stata ritrovata[28] ed è singolare la schiettezza con cui la ragazza si rivolge
a Casanova, dimostrando una fiducia totale in quest'ultimo,[29] tenuto conto
dell'enorme rischio a cui si esponeva (e lo esponeva) nel caso in cui il
messaggio fosse caduto nelle mani sbagliate. Casanova si prodigò per
darle aiuto, ma incorse in una denuncia per concorso in pratiche abortive,
presentata dall'ostetrica Reine Demay in combutta con un losco personaggio,
Louis Castel-Bajac, per estorcere denaro in cambio di una ritrattazione. Benché
l'accusa fosse molto grave, Casanova riuscì a cavarsela con la consueta
presenza di spirito e fu prosciolto, mentre la sua accusatrice finì in carcere.
L'amica abbandonò l'idea di interrompere la gravidanza e in seguito partorì nel
convento in cui si era rifugiata. Ceduti i suoi interessi nella lotteria,
Casanova si imbarcò in una fallimentare operazione imprenditoriale, una
manifattura di tessuti, che naufragò anche a causa di una forte restrizione
delle esportazioni derivante dalla guerra in corso. I debiti che ne derivarono
lo condussero per un po' in carcere (agosto 1759). Come al solito, il
provvidenziale intervento della ricca e potente marchesa d'Urfé lo tolse
dall'incomoda situazione.[30] Gli anni successivi furono un intenso
continuo peregrinare per l'Europa. Si recò nei Paesi Bassi, poi in Svizzera,
dove incontrò Voltaire nel castello di Ferney. L'incontro con Voltaire, il
maggior intellettuale vivente all'epoca, occupa parecchie pagine dell'Histoire
ed è riferito nei minimi particolari; Casanova esordì dicendo che era il giorno
più felice della sua vita e che per vent'anni aveva aspettato di incontrarsi
con il suo "maestro"; Voltaire gli rispose che sarebbe stato ancora
più onorato se, dopo quell'incontro, lo avesse aspettato per altri vent'anni.[31]
Un riscontro obiettivo si trova in una lettera di Voltaire a Nicolas-Claude
Thieriot, datata 7 luglio 1760, in cui la figura del visitatore viene
tratteggiata con ironia. Lo stesso Casanova non era d'accordo con molte idee di
Voltaire («Voltaire [...] doveva capire che il popolo per la pace generale
della nazione ha bisogno di vivere nell'ignoranza», dirà in seguito), e quindi
rimase insoddisfatto, anche se scrisse poi delle parole di stima per il
patriarca dell'illuminismo: «Partii assai contento di aver messo quel grande
atleta alle corde l'ultimo giorno. Ma di lui mi rimase un brutto ricordo che mi
spinse per dieci anni di seguito a criticare tutto ciò che quel grand'uomo dava
al pubblico di vecchio o di nuovo. Oggi me ne pento, anche se, quando leggo ciò
che pubblicai contro di lui, mi sembra di aver ragionato giustamente nelle mie
critiche. Comunque avrei dovuto tacere, rispettarlo e dubitare dei miei
giudizi. Dovevo riflettere che senza i sarcasmi che mi dispiacquero il terzo
giorno, avrei trovato tutti i suoi scritti sublimi. Questa sola riflessione
avrebbe dovuto impormi il silenzio, ma un uomo in collera crede sempre di aver
ragione.[31]» In seguito andò in Italia, a Genova, Firenze e Roma.[33]
Qui viveva il fratello Giovanni, pittore, allievo di Mengs. Durante il
soggiorno presso il fratello fu ricevuto dal papa Clemente XIII. Nel 1762
ritornò a Parigi, dove riprese a esercitare pratiche esoteriche insieme alla
marchesa d'Urfé, fino a che quest'ultima, resasi conto di essere stata per anni
presa in giro con l'illusione di rinascere giovane e bella per mezzo di
pratiche magiche, troncò ogni rapporto con l'improvvisato stregone che, dopo
poco tempo, lasciò Parigi, dove il clima che si era creato non gli era più
favorevole, per Londra, dove fu presentato a corte.[34] Nella capitale
inglese conobbe la funesta Charpillon, con la quale cercò di intessere una
relazione. In questa circostanza anche il grande seduttore mostrò il suo lato
debole e questa scaltra ragazza lo portò fin sull'orlo del suicidio. Non che fosse
un grande amore, ma evidentemente Casanova non poteva accettare di essere
trattato con indifferenza da una ragazza qualsiasi. E più lui vi
s'intestardiva, più lei lo menava per il naso. Alla fine riuscì a liberarsi di
questa assurda situazione e si diresse verso Berlino.[36] Qui incontrò il re
Federico il Grande, che gli offrì un modesto posto d'insegnante nella scuola
dei cadetti. Rifiutata sdegnosamente la proposta, Casanova si diresse verso la
Russia e giunse a San Pietroburgo nel dicembre del 1764.[37] L'anno
successivo si recò a Mosca e in seguito incontrò l'imperatrice Caterina II,[38]
anche lei annessa alla straordinaria collezione di personaggi storici
incontrati nel corso delle sue infinite peregrinazioni. Merita una riflessione
la straordinaria facilità con cui Casanova aveva accesso a personaggi di
primissimo piano, che certo non erano usi a incontrarsi con chiunque.
Evidentemente la fama lo precedeva regolarmente e, almeno per effetto della
curiosità suscitata, gli consentiva di penetrare nei circoli più esclusivi
delle capitali. Un po' la questione si autoalimentava, nel senso che
in qualsiasi luogo si trovasse, Casanova si dava sempre un gran da fare per
ottenere lettere di presentazione per la destinazione successiva. Evidentemente
ci aggiungeva del suo: aveva conversazione brillante, una cultura enciclopedica
fuori del comune e, quanto a esperienze di viaggio, ne aveva accumulate
infinite, in un'epoca in cui la gente non viaggiava un granché. Insomma
Casanova il suo fascino lo aveva, e non lo spendeva solo con le donne.
Nel 1766 in Polonia avvenne un episodio che segnò profondamente Casanova: il
duello con il conte Branicki.[39] Questi, durante un litigio a causa della
ballerina veneziana Anna Binetti,[40] lo aveva apostrofato chiamandolo poltrone
veneziano. Il conte era un personaggio di rilievo alla corte del re Stanislao
II Augusto Poniatowski e per uno straniero privo di qualsiasi copertura
politica non era molto consigliabile contrastarlo. Quindi, anche se offeso
pesantemente dal conte, qualsiasi uomo di normale prudenza si sarebbe ritirato
in buon ordine; Casanova, invece, che evidentemente non era solo un amabile
conversatore e un abile seduttore, ma anche un uomo di coraggio, lo sfidò in un
duello alla pistola. Faccenda assai pericolosa, sia in caso di soccombenza sia
in caso di vittoria, in quanto era facile attendersi che gli amici del conte ne
avrebbero rapidamente vendicato la morte. Targa commemorativa del soggiorno di
Casanova a Madrid Il conte ne uscì ferito in modo gravissimo, ma non abbastanza
da impedirgli di pregare onorevolmente i suoi di lasciare andare indenne
l'avversario, che si era comportato secondo le regole. Seppur ferito abbastanza
seriamente a un braccio, Casanova riuscì a lasciare l'inospitale paese. La
buona stella sembrava avergli voltato le spalle. Si diresse a Vienna, da dove
fu espulso.Tornò a Parigi, dove, alla fine di ottobre, lo raggiunse la notizia
della morte di Bragadin, il quale, più che un protettore, era stato per
Casanova un padre adottivo. Pochi giorni dopo (6 novembre 1767) fu colpito da
una lettre de cachet del re Luigi XV, con la quale gli veniva intimato di
lasciare il paese. Il provvedimento era stato richiesto dai parenti della
marchesa d'Urfé, i quali intendevano mettere al riparo da ulteriori rischi le
pur cospicue sostanze di famiglia. Si recò quindi in Spagna, ormai alla
disperata ricerca di una qualche occupazione, ma anche qui non andò meglio: fu
gettato in prigione con motivi pretestuosi e la faccenda durò più di un
mese. Lasciò la Spagna e approdò in Provenza, dove però si ammalò gravemente
(gennaio 1769). Fu assistito grazie all'intervento della sua amata Henriette
che, nel frattempo sposatasi e rimasta vedova, aveva conservato di lui un
ottimo ricordo. Riprese presto il suo peregrinare, recandosi a Roma, Napoli,
Bologna, Trieste. In questo periodo si infittirono i contatti con gli
Inquisitori veneziani per ottenere l'agognata grazia, che finalmente giunse il
3 settembre 1774. Dal ritorno a Venezia alla morte. La narrazione delle
Memorie casanoviane cessa alla metà di febbraio del 1774. Ritornato a Venezia
dopo diciott'anni, Casanova riannodò le vecchie amicizie, peraltro mai sopite
grazie a un'intensissima attività epistolare. Per vivere, si propose agli
Inquisitori come spia, proprio in favore di coloro che erano stati tanto decisi
prima a condannarlo alla reclusione e poi a costringerlo a un lungo esilio. Le
riferte di Casanova non furono mai particolarmente interessanti e la
collaborazione si trascinò stancamente fino a interrompersi per "scarso
rendimento". Probabilmente qualcosa in lui si opponeva a esser causa di
persecuzioni che, avendole provate in prima persona, conosceva bene.
L'ultima abitazione veneziana di Casanova Rimasto senza fonti di
sostentamento, si dedicò all'attività di scrittore, utilizzando la sua vasta
rete di relazioni per procurare sottoscrittori alle sue opere.[49] All'epoca si
usava far sottoscrivere un ordinativo di libri prima ancora di aver dato alle
stampe o addirittura terminato l'opera, in modo da esser certi di poter
sostenere gli elevati costi di stampa. Infatti la composizione avveniva
manualmente e le tirature erano bassissime. Nel 1775 pubblicò il primo tomo
della traduzione dell'Iliade. La lista di sottoscrittori, cioè di coloro che
avevano finanziato l'opera, era davvero notevole e comprendeva oltre
duecentotrenta nomi fra quelli più in vista a Venezia, comprese le alte
autorità dello stato, sei Procuratori di San Marco in carica[50] due figli del
doge Mocenigo, professori dell'Padova e così via. Va rilevato che, per essere
un ex carcerato evaso e poi graziato, aveva delle frequentazioni di altissimo
livello. Il fatto di far parte della lista non era tenuto segreto, ma in una
città piccola, in cui le persone che contavano si conoscevano tutte, era di
pubblico dominio; dunque le adesioni dimostravano che, malgrado le sue
vicissitudini, Casanova non era affatto un emarginato. Anche qui è opportuna
una riflessione sull'ambivalenza del personaggio e sul suo eterno oscillare tra
la classe reietta e quella privilegiata. In questo stesso periodo iniziò
una relazione con Francesca Buschini, una ragazza molto semplice e incolta che
per anni avrebbe scritto a Casanova, dopo il suo secondo esilio da Venezia,
delle lettere (ritrovate a Dux) di un'ingenuità e tenerezza commoventi,[52]
utilizzando un lessico molto influenzato dal dialetto veneziano, con evidenti
tentativi di italianizzare il più possibile il testo. Questa fu l'ultima
relazione importante di Casanova, che rimase molto attaccato alla donna: anche
quando ne fu irrimediabilmente lontano, rattristato profondamente dal
crepuscolo della sua vita, teneva una fitta corrispondenza con Francesca, oltre
a continuare a pagare, per anni, l'affitto della casa in Barbaria delle Tole in
cui avevano convissuto, inviandole, quando ne aveva la possibilità, lettere di
cambio con discrete somme di denaro. Il nome della calle deriva dalla
presenza, in tempi antichi, di falegnamerie che riducevano in tavole (tole, in
dialetto veneziano) i tronchi d'albero. La calle si trova nelle immediate
vicinanze del Campo SS. Giovanni e Paolo. L'ultima abitazione veneziana di
Giacomo Casanova è sita in Barbarìa delle Tole, al civico 6673 del sestiere di
Castello. L'identificazione certa è stata ricavata da una lettera a Casanova di
Francesca Buschini, ritrovata a Dux (odierna Duchcov, Repubblica Ceca), datata
13 dicembre 1783.L'appartamento occupato da Casanova e dalla Buschini (di
proprietà della nobile famiglia Pesaro di S. Stae), affittato a 96 lire venete
a trimestre, corrisponde alle tre finestre del terzo piano situate sotto la
soffitta che si vede in alto a sinistra (vedi foto). La lettera in questione,
spedita dalla Buschini a Casanova ormai in esilio, faceva riferimento alla casa
antistante "È morto la molgie del maestro di spada che mi stà in fasa di
me quela casa in mezzo al brusà, giovine e anche bela la era..." (testo
originale tratto dall'edizione critica delle lettere di F. Buschini Marco
Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus, Trieste,
Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, cit. in bibl.) Poiché tutti
i caseggiati antistanti erano andati distrutti a causa di due successivi
incendi, avvenuti nel 1683 e nel 1686, l'area era rimasta praticamente priva di
fabbricati e destinata a giardino. L'unico fabbricato ancora esistente era
quello dinanzi al 6673[53]. In seguito la situazione non ha subito modifiche di
rilievo; l'edificio in questione, antistante al 6673, si trova tra il ramo
primo e il ramo secondo "Del brusà" e quindi l'identificazione appare
fondata e verificabile[54]. Negli anni successivi pubblicò altre opere e
cercò di arrabattarsi come meglio poté. Ma il suo carattere impetuoso gli giocò
un brutto scherzo: offeso platealmente in casa Grimani da un certo Carletti,
col quale aveva questionato per motivi di denaro, si risentì perché il padrone
di casa aveva preso le parti del Carletti. Decise a questo punto di vendicarsi
componendo un libello, Né amori né donne, ovvero la stalla ripulita in cui, pur
sotto un labile travestimento mitologico, facilmente svelabile, sostenne
chiaramente di essere lui stesso il vero figlio di Michele Grimani, mentre Zuan
Carlo Grimani sarebbe stato "notoriamente" frutto del tradimento
della madre (Pisana Giustinian Lolin) con un altro nobile veneziano, Sebastiano
Giustinian.[55] Probabilmente era tutto vero, anche perché in una città
in cui le distanze tra le case si misuravano a spanne, si circolava in gondola
e c'erano stuoli di servitori che ovviamente spettegolavano a più non posso,
era impensabile poter tenere segreto alcunché. Comunque, anche in questo caso
l'aristocrazia fece quadrato e Casanova fu costretto all'ultimo, definitivo,
esilio. Tuttavia la questione non passò inosservata, se si ritenne opportuno
far circolare un libello anonimo, con cui si replicava allo scritto
casanoviano, intitolato "Contrapposto o sia il riffiutto mentito, e
vendicato al libercolo intitolato Ne amori ne donne ovvero La stalla ripulita,
di Giacomo Casanova".[56] Ritratto del 1788 Annotazione
della morte di Casanova nei registri di Dux Lasciò Venezia nel gennaio 1783 e
si diresse verso Vienna. Per un po' fece da segretario all'ambasciatore
veneziano Sebastiano Foscarini; poi, alla morte di questi,[57] accettò un posto
di bibliotecario nel castello del conte di Waldstein a Dux, in Boemia. Lì
trascorse gli ultimi tristissimi anni della sua vita, sbeffeggiato dalla
servitù,[58] ormai incompreso, e considerato il relitto di un'epoca tramontata
per sempre. Da Dux, Casanova dovette assistere alla Rivoluzione francese,
alla caduta della Repubblica di Venezia, al crollare del suo mondo, o perlomeno
di quel mondo a cui aveva sognato di appartenere stabilmente. L'ultimo
conforto, oltre alle lettere numerosissime degli amici veneziani che lo
tenevano al corrente di quanto accadeva nella sua città, fu la composizione
della Histoire de ma vie, l'opera autobiografica che assorbì tutte le sue
residue energie, compiuta con furore instancabile quasi per non farsi precedere
da una morte che ormai sentiva vicina. Scrivendola, Casanova riviveva una vita
assolutamente irripetibile, tanto da entrare nel mito, nell'immaginario
collettivo, una vita «opera d'arte». Morì il 4 giugno del 1798, si suppone che
la salma fosse stata sepolta nella chiesetta di Santa Barbara, nei pressi del
castello. Ma riguardo al problema dell'identificazione corretta del luogo di
sepoltura di Giacomo Casanova, le notizie sono comunque piuttosto vaghe, e non
ci sono, allo stato, che ipotesi non correttamente documentate.
Tradizionalmente si riteneva che fosse stato sepolto nel cimitero della
chiesetta attigua al castello Waldstein, ma era una pura ipotesi. Altre
opere: “Zoroastro, tragedia tradotta dal Francese, da rappresentarsi nel Regio
Elettoral Teatro di Dresda, dalla compagnia de' comici italiani in attuale
servizio di Sua Maestà nel carnevale dell'anno MDCCLII. Dresda); La
Moluccheide, o sia i gemelli rivali. Dresda 1769Confutazione della Storia del
Governo Veneto d'Amelot de la Houssaie, Amsterdam (Lugano). 1772Lana caprina.
Epistola di un licantropo. Bologna. 1774Istoria delle turbolenze della Polonia.
Gorizia. 1775Dell'Iliade di Omero tradotta in ottava rima. Venezia); Scrutinio
del libro "Eloges de M. de Voltaire par différents auteurs". Venezia.
Il duello; Opuscoli miscellaneiIl duelloLettere della nobil donna Silvia
Belegno alla nobildonzella Laura Gussoni. Venezia. 1781Le messager de Thalie.
Venezia); Di aneddoti viniziani militari ed amorosi del secolo decimoquarto
sotto i dogadi di Giovanni Gradenigo e di Giovanni Dolfin. Venezia. 1782Né
amori né donne ovvero la stalla ripulita. Venezia. 1784Lettre
historico-critique sur un fait connu, dependant d'une cause peu connu...
Amburgo (Dessau). Expositionne raisonée du différent, qui subsiste entre le
deux Républiques de Venise, et d'Hollande. Vienna. 1785Supplément à l'Exposition
raisonnée. Vienna); Esposizione ragionata della contestazione, che susiste trà
le due Repubbliche di Venezia, e di Olanda. Venezia. 1785Supplemento alla
Esposizione ragionata.... Venezia); Lettre a monsieur Jean et Etienne Luzac....
Vienna); Lettera ai signori Giovanni e Stefano Luzac.... Venezia); Soliloque
d'un penseur, Prague chez Jean Ferdinande noble de Shonfeld imprimeur et
libraire. 1787 -Histoire de ma fuite des prisons de la République de Venise
qu'on appelle les Plombs. Ecrite à Dux en Bohème l'année 1787, Leipzig chez le
noble de Shonfeld 1788. Historia della mia fuga dalle prigioni della republica
di Venezia dette "li Piombi", prima edizione italiana Salvatore di
Giacomo (prefazione e traduzione). Alfieri&Lacroix editori, Milano 1911.
1788Icosameron ou histoire d'Edouard, et d'Elisabeth qui passèrent quatre
vingts ans chez les Mégramicres habitante aborigènes du Protocosme dans
l'interieur de notre globe, traduite de l'anglois par Jacques Casanova de
Seingalt Vénitien Docteur èn lois Bibliothécaire de Monsieur le Comte de
Waldstein seigneur de Dux Chambellan de S.M.I.R.A., Prague à l'imprimerie de
l'école normale. Praga. (romanzo di fantascienza) 1790Solution du probleme
deliaque démontrée par Jacques Casanova de Seingalt, Bibliothécaire de Monsieur
le Comte de Waldstein, segneur de Dux en Boheme e c., Dresde, De l'imprimerie
de C.C. Meinhold. 1790Corollaire a la duplication de l'Hexaedre donée a Dux en
Boheme, par Jacques Casanova de Seingalt, Dresda. 1790Demonstration geometrique
de la duplicaton du cube. Corollaire second, Dresda. 1792 Lettres écrites au
sieur Faulkircher par son meilleur ami, Jacques Casanova de Seingalt, le 10
Janvier 1792. 1797A Leonard Snetlage, Docteur en droit de l'Université de
Gottingue, Jacques Casanova, docteur en droit de l'Universitè de Padoue.
Dresda. Edizioni postume: Le Polemoscope, Gustave Kahn, Paris, La Vogue.
1960-1962Histoire de ma vie, F.A. Brockhaus, Wiesbaden e Plon, Parigi. Edizioni
italiane basate sul manoscritto originale: Piero Chiara , traduzione Giancarlo
BuzziGiacomo Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965. 7 voll. di
cui uno di note, documenti e apparato critico. Piero Chiara e Federico
Roncoroni Giacomo Casanova, Storia della mia vita, Milano, Mondadori "I
meridiani" 1983. 3 voll. Ultima edizione: Milano, Mondadori "I
meridiani", 2001. 1968Saggi libelli e satire di Giacomo Casanova, Piero
Chiara, Milano. Longanesi & C. 1969Epistolario (17591798) di Giacomo
Casanova, Piero Chiara, Milano. Longanesi & C. Rapporti di Giacomo Casanova
con i paesi del Nord. A proposito dell'inedito "Prosopopea Ecaterina II
(1773-74)", Enrico Straub. Venezia. Centro tedesco di studi veneziani.
1985Examen des "Etudes de la Nature" et de "Paul et
Virginie" de Bernardin de Saint Pierre, Marco Leeflang e Tom Vitelli.
Utrecht, Edizione italiana: Analisi degli Studi della natura e di Paolo e
Virginia di Bernardin de Saint-Pierre, Gianluca Simeoni, Bologna, Pendragon, Pensieri
libertini, Federico di Trocchio (sulle opere filosofiche inedite rinvenute a Dux),
Milano, Rusconi. 1993Philocalies sur les sottises des mortels, Tom Vitelli.
Salt Lake City. 1993Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte
intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Édition présentée
et établie par Francis Lacassin.
2-221-06520-4. Éditions Robert Laffont. 1997Iliade di Omero in veneziano
Tradotta in ottava rima. Canto primo. Riproduzione integrale del manoscritto a
fronte, Venezia, Editoria Universitaria. 1998Iliade di Omero in veneziano
Tradotta in ottava rima. Canto secondo. Riproduzione integrale del manoscritto
a fronte. Venezia, Editoria Universitaria. 1999Storia della mia vita,
traduzione Pietro Bartalini Bigi e Maurizio Grasso. Roma, Newton Compton, coll.
« I Mammut », Dell'Iliade d'Omero tradotta in veneziano da Giacomo Casanova.
Canti otto. Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna. 2005Iliade di Omero in
veneziano. Tradotta in ottava rima. Riproduzione integrale del manoscritto a
fronte. Venezia, Editoria Universitaria,
Dialoghi sul suicidio. Roma, Aracne,
88-548-0312-X 2006Iliade di Omero in idioma toscano'. Riproduzione
integrale dell'edizione Modesto Fenzo. Venezia, Editoria Universitaria.
Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard
Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et
Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard.
Parigi. Histoire de ma vie, tome I.
Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont,
Bouquins. Parigi. Histoire de ma vie, tome
II. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont,
Bouquins. Parigi. Histoire de ma vie,
tome II. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et
Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut
Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade (nº 137), Gallimard.
Parigi. Histoire de ma vie, tome III.
Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna
avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection
Bibliothèque de la Pléiade (nº 147).Gallimard. Parigi. Histoire de ma vie, tome III. Édition établie
par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi. Icosameron, traduzione di Serafino Balduzzi,
Milano, Luni Editrice, , 978-88-7984-611-0
Istoria delle turbolenze della Polonia, Milano, Luni Editrice, Valore
letterario e fortuna dell'opera casanoviana Presunto ritratto di Giacomo
Casanova, attribuito ad Alessandro Longhi o, da alcuni[62][63], a Pietro
Longhi. Sul valore letterario e la validità storica dell'opera di Giacomo
Casanova si è discusso parecchio.[67] Intanto bisogna distinguere tra l'opera
autobiografica e il resto della produzione. Malgrado gli sforzi fatti per
accreditarsi come letterato, storico, filosofo e addirittura matematico,
Casanova non ebbe in vita, e tantomeno da morto, nessuna notorietà e nessun
successo.[68] Successo che arrise invece all'opera autobiografica, anche se si
manifestò in tempi molto posteriori alla morte dell'autore. Disegno
di un busto di Giacomo Casanova, ubicato in origine a Dux, oggi al Museo
delle Arti Decorative di Vienna La sua produzione fu spesso d'occasione, cioè
di frequente i suoi scritti furono creati per ottenere qualche beneficio.
Principale esempio è la Confutazione della Storia del Governo Veneto d'Amelot
de la Houssaye, scritta in gran parte durante la detenzione a Barcellona nel
1768, che avrebbe dovuto servire, e infatti così fu, a ingraziarsi il governo
veneziano e a ottenere la tanto sospirata grazia. Lo stesso si può dire per
opere scritte nella speranza di ottenere qualche incarico da Caterina II di
Russia o da Federico II di Prussia. Altre opere, come l'Icosameron, avrebbero
dovuto sancire il successo letterario dell'autore ma così non fu. Il primo vero
successo editoriale fu ottenuto dall'Historia della mia fuga dai Piombi che
ebbe una diffusione immediata e varie edizioni, sia in italiano sia in francese
ma il caso è praticamente unico e di proporzioni limitate a causa delle
dimensioni dell'opera costituita dal racconto dell'evasione. Sembra quasi che
Casanova tollerasse le sue creature autobiografiche e il loro successo,
continuando a inseguire, con opere non autobiografiche, un successo letterario
che non arrivò mai. Questo aspetto fu acutamente osservato da un memorialista
suo contemporaneo, il principe Charles Joseph de Ligne, il quale scrisse[70]
che il fascino di Casanova stava tutto nei suoi racconti autobiografici, sia
verbali sia trascritti, cioè sia la narrazione salottiera sia la versione stampata
delle sue avventure. Tanto era brillante e trascinante quando parlava della sua
vita[71]- osserva de Lignequanto terribilmente noioso, prolisso, banale quando
parlava o scriveva su altre materie. Ma sembra che questo, Casanova, non abbia
mai voluto accettarlo. E soffriva tremendamente di non avere quel
riconoscimento letterario o meglio scientifico a cui ambiva. Da ciò si
può comprendere l'astio nei confronti di Voltaire, che nascondeva una profonda
invidia e una sconfinata ammirazione. Quindi anche contro la volontà
dell'autore, quasi invidioso dei suoi figli più fortunati ma meno prediletti,
le opere autobiografiche avrebbero potuto essere un grande successo editoriale
quando egli era ancora in vita. Ma ciò avvenne in misura molto ridotta per vari
motivi: principalmente perché questo filone fu iniziato tardi. Si pensi ad
esempio che la narrazione della fuga dai Piombi, che costituì per decenni il
cavallo di battaglia del Casanova salottiero, fu pubblicata soltanto nel
1787. Inoltre l'opera "vera", cioè quella in cui aveva trasfuso
tutto sé stesso, l'Histoire, fu scritta proprio negli ultimi anni di vita e il
motivo è semplice: infatti lui stesso affermò, in una lettera indirizzata a
quel Zuan Carlo Grimani, da lui offeso molti anni prima e che era stato la
causa del secondo esilio: "... ora che la mia età mi fa credere di aver
finito di farla, ho scritto la Storia della mia vita...". Cioè sembra che
per mettere su carta tutto in forma definitiva, l'autore dovesse prima
ammettere con sé stesso che la storia era terminata e di futuro davanti da
vivere non ce n'era più. Ammissione questa sempre dolorosa per chiunque, in
particolare per un uomo che aveva creato una vita-capolavoro
irripetibile. Ma un altro aspetto, questo strutturale, ha ritardato la
fortuna dell'opera autobiografica: l'Histoire era all'epoca assolutamente
impubblicabile. Non è un caso che la prima edizione francese del manoscritto,
acquistato[73] dall'editore Friedrich Arnold Brockhaus di Lipsia nel 1821, fu
pubblicata, dal 1826 al 1838, però in una versione notevolmente rimaneggiata da
Jean Laforgue, il quale non si limitò a "purgare" l'opera,
sopprimendo passi ritenuti troppo audaci, ma intervenne a tappeto modificando
anche l'ideologia dell'autore, facendone una sorta di giacobino avverso alle
oligarchie dominanti. Ciò non corrispondeva affatto alla verità storica, perché
di Casanova si può dire che era ribelle e trasgressivo, ma politicamente era un
fautore dell'ancien régime, come dimostrano chiaramente il suo epistolario,
opere specifiche e la stessa Histoire. In un passo delle Memorie, Casanova
esprime chiaramente il suo punto di vista sull'argomento della Rivoluzione: «Ma
si vedrà che razza di dispotismo è quello di un popolo sfrenato, feroce,
indomabile, che si raduna, impicca, taglia teste e assassina coloro che non
appartenendo al popolo osano mostrare come la pensano.[75]» Per
l'edizione definitiva delle memorie si dovette attendere fino a quando la casa
Brockhaus decise di pubblicare, insieme all'editore Plon di Parigi, dal 1960 al
1962, il testo originale in sei volumi curato da Angelika Hübscher. Ciò fu
dovuto all'impianto generale dell'opera che era, a detta dell'autore e di
smaliziati contemporanei come de Ligne, di un cinismo assolutamente
impresentabile.[77] Quello che essi chiamarono cinismo sarà considerato, due
secoli dopo, modernità e realismo. Casanova è già uno scrittore di
costume "moderno". Non teme di rivelare situazioni, inclinazioni,
attività, trame e soprattutto confessioni che erano all'epoca, e tali rimasero
ancora più di un secolo, assolutamente irriferibili. Naturalmente il primo
problema, ma questo limitato a pochi anni dopo la morte dell'autore, fu quello
di aver citato personaggi di primissimo piano, con circostanze molto precise
del loro agire. Le memorie sono affollate all'inverosimile dagli attori
principali della storia europea del Settecento, sia politica sia culturale.
Probabilmente si farebbe prima a dire di chi Casanova non ha scritto, e chi non
ha incontrato, tanto vasto è stato il panorama delle sue
frequentazioni.[78] Ma questo, come si è detto, è marginale. L'altro
problema, questo insuperabile, fu la sostanziale "immoralità"
dell'opera casanoviana. Ma ciò deve intendersi come contrarietà alle abitudini,
ai tic, alle ipocrisie della fine del Settecento e, ancor di più, del
successivo secolo, ancora più fobico e per certi versi molto meno aperto di
quello che l'aveva preceduto. Casanova ha precorso i tempi: era troppo avanti
per diventare un autore di successo. E forse se ne rendeva perfettamente conto.
Nella lettera a Zuan Carlo Grimani, ricordata in precedenza, Casanova, parlando
dell'Histoire, scrive testualmente: ... questa Storia, che verrà diffusa fino a
sei volumi in ottavo e che sarà forse tradotta in tutte le lingue... E poi,
richiede una risposta ... perché io possa porla nei codicilli che formeranno il
settimo volume postumo della Storia della mia vita. Tutto questo è avvenuto
puntualmente.[79] Riguardo all'uso della lingua francese, Casanova vi
fece riferimento nella prefazione:
«J'ai écrit en français, et non pas en italien parce que la langue
française est plus répandue que la mienne.[80]» «Ho scritto in francese e
non in italiano perché la lingua francese è più diffusa della mia.» Certo
dell'immortalità della sua opera, se non al fine di garantirsela, Casanova
preferì utilizzare la lingua che gli avrebbe consentito di raggiungere il
maggior numero possibile di potenziali lettori. Molte opere minori, del resto,
le scrisse in italiano, forse perché sapeva bene che esse non sarebbero divenute
mai un monumento, come avvenne invece per la sua autobiografia. Carlo Goldoni,
altro celebre veneziano, coevo al Casanova, scelse allo stesso modo di scrivere
la propria autobiografia in francese. L'autobiografia del Casanova, a
parte il valore letterario, è un importante documento per la storia del
costume, forse una delle opere letterarie più importanti per conoscere la vita
quotidiana in Europa nel Settecento. Si tratta di una rappresentazione che, per
le frequentazioni dell'autore e per la limitazione dei possibili lettori,
riferisce principalmente delle classi dominanti dell'epoca, nobiltà e
borghesia, ma questo non ne limita l'interesse in quanto anche i personaggi di
contorno, di qualsiasi estrazione, sono rappresentati in modo vivissimo. Leggere
quest'opera è uno strumento importante per conoscere il quotidiano degli uomini
e delle donne di allora, per comprendere dal di dentro la vita di ogni
giorno. La fortuna dell'opera casanoviana, presso i protagonisti di
vertice della scena letteraria mondiale, è stata ristretta solo all'opera
autobiografica ed è stata vastissima. Iniziando da Stendhal, al quale fu
attribuita la paternità dell'Histoire, a Foscolo il quale mise addirittura in
dubbio l'esistenza storica del Casanova, Balzac, Hofmannstahl, Schnitzler,
Hesse, Márai. Molti furono solo lettori e quindi influenzati in modo inconscio,
altri scrissero opere ambientate nell'epoca di Casanova e di cui egli era
protagonista. Innumerevoli sono i riferimenti, nella letteratura moderna,
a questa figura che ha finito per diventare un'antonomasia. In Italia
l'interesse si è manifestato tra la fine dell'Ottocento e i primi del
Novecento. La prima edizione italiana della Historia della mia fuga dai Piombi
fu curata nel 1911 da Salvatore di Giacomo, il quale studiò anche i ripetuti
soggiorni napoletani dell'avventuriero e su questo argomento scrisse un
saggio.Seguirono Benedetto Croce[ e via via molti altri fino a Piero Chiara. Un
capitolo a parte andrebbe dedicato ai "casanovisti" cioè a tutti
quelli che si sono occupati e si occupano, più o meno professionalmente, della
vita e dell'opera del Casanova. Proprio a questa legione di sconosciuti si
debbono infinite identificazioni di personaggi, revisioni e importantissimi
ritrovamenti di documenti. Molto dell'opera casanoviana è ancora inedito,
Nell'Archivio di Stato di Praga rimangono circa 10 000 documenti che attendono
di essere studiati e pubblicati, oltre un numero imprecisato di lettere che
probabilmente giacciono in chissà quanti archivi di famiglia sparsi per
l'Europa. La grafomania dell'avventuriero fu veramente impressionante: la sua
vita a un certo momento divenne totalmente e ossessivamente dedicata alla
scrittura[91] Riguardo al mito del seduttore, Casanova, insieme a Don
Giovanni, ne è stato l'incarnazione. Il paragone è d'obbligo ed è stato tema di
numerose opere critiche. Le due figure finirono addirittura per fondersi,
benché ritenute antitetiche dai maggiori commentatori: a parte il fatto che il
veneziano era un personaggio reale e l'altro romanzesco, i due caratteri sono
agli antipodi. Il primo amava le sue conquiste, si prodigava con generosità per
renderle felici e cercava sempre di uscire di scena con un certo stile,
lasciando dietro di sé una scia di nostalgia; l'altro invece rappresenta il collezionista
puro, più mortifero che vitale, assolutamente indifferente all'immagine di sé e
soprattutto agli effetti del suo agire, concentrato unicamente sul numero delle
vittime della sua seduzione. L'interpretazione del suo mito sarebbe
fornita proprio dal libretto del Don Giovanni di Mozart, scritto da Lorenzo Da
Ponte, in cui Leporello, il servo di Don Giovanni, in un'aria notissima recita:
Madamina il catalogo è questo, delle belle che amò il padron mio... e prosegue
snocciolando le innumerevoli conquiste, diligentemente registrate. Il fatto che
alla redazione del libretto sembra abbia partecipato anche Casanovacome è stato
sostenuto basandosi su documenti trovati a Dux, sul fatto che Da Ponte e
Casanova si frequentassero e che l'avventuriero fosse sicuramente presente la
sera in cui a Praga andò in scena la prima dell'opera mozartiana (29 ottobre
1787)è tutto sommato marginale.[senza fonte] La partecipazione, comunque molto
limitata, di Casanova alla composizione del libretto di Da Ponte per l'opera mozartiana
Don Giovanni, è ritenuta molto probabile da vari commentatori. L'elemento
fondamentale è un autografo, rinvenuto a Dux, che contiene una variante del
testo che si è ipotizzato facesse parte di una serie di interventi operati in
accordo con Da Ponte e forse anche con lo stesso Mozart.[94] Quel che è certo è
che Casanova si misurò col mito di don Giovanni e ne costruì uno ancora più
grande, certamente più positivo e soprattutto reale. Mostre 1998 Praga,
Palazzo Lobkowicz, "Casanova v Čechách" (Casanova in Boemia).
Catalogo: Casanova v Čechách, Praga, Gema Art 1998. 1998 Venezia, Ca' Rezzonico
"Il mondo di Giacomo Casanova". Catalogo: Il mondo di Giacomo
Casanova, un veneziano in Europa 1725-1798, Venezia, Marsilio, 1998. 88-317-7028-4
Francia "Casanova for ever, 33 expositions
Languedoc-Roussillon". Catalogo: Casanova For Ever, Emmanuel Latreille
(dir.), Parigi, Editions Dilecta, Parigi, Bibliothèque nationale de France
“Casanova, la passion de la liberté” (dal 15 novembre al 19 febbraio ). Catalogo: Casanova, la
passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France /
Seuil, . 978-2-7177-2496-7 (BnF) 978-2-02-104412-6 (Seuil) Stati Uniti d'America "Casanova: The
seduction of Europe", varie sedi: Museum of Fine Arts, Boston; Kimbell Art
Museum, Forth Worth; Fine Arts Museums, San Francisco. Catalogo: Casanova The
seduction of Europe MFA Pubblications Museum of fine arts, Boston. 978-0-87846-842-3. Filmografia su Casanova
Casanova (1918). Regia di Alfréd Deésy Il cuore del Casanova (Germania) Regia
di Erik Lund. Soggetto di Enrik Rennspies. Sceneggiatura di Bruno Kastner. Con
Bruno Kasner, Ria Jende, Rose Lichtenstein, Karl Platen. Casanovas erste und
letzte Liebe (Austria, 1920). Regia di Julius Szoreghi. Casanova (1927). Regia
di Alexandre Volkoff Les amours de Casanova (Francia, 1934). Regia di René
Barberis L'avventura di Giacomo Casanova (Italia, 1938). Regia di Carlo
Bassoli. Le avventure di Casanova (Les Aventures de Casanova) (Francia, 1947).
Regia di Jean Boyer. Il cavaliere misterioso (Italia, 1948). Regia di Riccardo
Freda. Con Vittorio Gassman, Gianna Maria Canale, María Mercader, Antonio
Centa. Le avventure di Giacomo Casanova (Italia). Regia di Steno. Con Gabriele
Ferzetti, Corinne Calvet, Marina Vlady, Nadia Gray, Carlo Campanini. Last Rose
from Casanova, titolo originale Poslední růže od Kasanovy, (Cecoslovacchia,
1966). Regia di Vaclav Krska. Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo
Casanova, veneziano (Italia). Regia di Luigi Comencini. Con Leonard Withing,
Maria Grazia Buccella, Tina Aumont, Ennio Balbo, Senta Berger, W.
Branbell, Clara Colosimo, C. ComenciniDe Clara, Silvia Dionisio, Evi
Maltagliati, Raoul Grassilli, Mario Scaccia, Lionel Stander. Cagliostro
(Italia, 1975). Regia di Daniele Pettinari. Con Bekim Fehmiu, Curd Jürgens,
Rosanna Schiaffino, Robert Alda, Massimo Girotti. (Casanova è uno dei
personaggi). Il Casanova di Federico Fellini (Italia, 1976). Regia di Federico
Fellini Con Donald Sutherland, Tina Aumont, Olimpia Carlisi, M. Clementi, Carmen
Scarpitta, C. Browne, D. M. Berenstein. Il mondo nuovo (Italia, 1982). Regia di
Ettore Scola. Con Jean Louis Barrault, Marcello Mastroianni, Hanna Schygulla,
Harvey Keitel, Jean-Claude Brialy, Andréa Ferréol, M. Vitold, A. Belle, E.
Bergier, Laura Betti. David di Donatello 1983 per la migliore sceneggiatura,
scenografia e costumi. Il ritorno di Casanova, titolo originale Le retour de
Casanova (Francia, 1992). Regia di Édouard Niermans Con Alain Delon, Fabrice
Luchini, E Lunghini. Goodbye Casanova (Stati Uniti, 2000). Regia di Mauro
Borrelli. Con G. Scandiuzzi, Y. BleethGidley, C. FilpiGanus, E. Bradley. Il
giovane Casanova (Francia, Italia, Germania, 2002). Regia di Giacomo Battiato.
Con Stefano Accorsi, Thierry Lhermitte, Cristiana Capotondi, Silvana De Santis,
Catherine Flemming, Katja Flint. Casanova (Stati Uniti, 2005). Regia di Lasse
Hallström. Con Heath Ledger, Jeremy Irons, Lena Olin, Sienna Miller, Adelmo
Togliani. Historia de la meva mort (Spagna/Francia ). Regia di Albert Serra.
Con Vicenç Altaió, Lluís Serrat, Eliseu Huertas. Casanova variations
(Austria/Germania/Francia/Portogallo ). Regia di Michael Sturminger, con John
Malkovich, Fanny Ardant, Veronica Ferres. Zoroastro, Io Casanova (Italia )
Regia di Gianni di Capua, con Galatea Ranzi Dernier Amour (Francia ). Regia di
Benoît Jacquot, con Vincent Lindon (Giacomo Casanova), Stacy Martin (Marianne
de Charpillon), Valeria Golino, (La Cornelys). Film solo lontanamente ispirati
alla figura di Casanova Casanova farebbe così! (Italia 1942). Regia di Carlo
Ludovico Bragaglia. Le tre donne di Casanova (Stati Uniti 1944). Regia di Sam
Wood. Casanova '70 (Italia 1965). Regia di Mario Monicelli. Film comici La
grande notte di Casanova (Stati Uniti 1954) Norman Z. McLeod. Casanova &
Company (Austria/Italia/Francia/Rft 1976). Regia di Franz Antel. Tony Curtis,
Marisa Berenson, Sylva Koscina, Britt Ekland, Umberto Orsini, Marisa Mell, Hugh
Griffith. Telefilm su Casanova Casanova (Regno Unito, 2005). Regia di Sheree
Folkson. Con David Tennant, Rose Byrne, Peter O'Toole, Laura Fraser, Nina
Sosanya, Shaun Parkes. Onorificenze Cavaliere dello Speron d'oronastrino per
uniforme ordinariaCavaliere dello Speron d'oro — Roma, 1760 Riguardo
l’onorificenza, Casanova nelle Memorie descrive l'incontro con il pontefice e il
successivo conferimento dell'Ordine (cfr. G. Casanova, Storia della mia vita,
Milano, Mondadori 2001, II pag. 925 cit.
in bibl.). Si è dubitato anche in questo caso, come in altri, che il racconto
autobiografico risponda a verità. Per chiarire i dubbi sono state compiute
approfondite ricerche nell'Archivio segreto vaticano al fine di ritrovare il
breve papale di conferimento, sia nel periodo di cui parla Casanova (dicembre
1760-gennaio 1761) sia in periodi precedenti e successivi, senza alcun esito.
Il che non significa che l’onorificenza non sia stata effettivamente conferita,
in quanto potrebbe essersi verificato un errore burocratico, di trascrizione o
altro. Sta di fatto però che intorno allo stesso periodo furono conferite
onorificenze ad altri personaggi come Piranesi, Mozart, Cavaceppi e il breve
relativo è stato ritrovato. Quindi manca, allo stato, un riscontro oggettivo.
Si aggiunga che il cavalierato dello Speron d’Oro era all’epoca già piuttosto
inflazionato, al punto da sconsigliare l’esibizione in pubblico della
decorazione. Lo stesso Casanova in un passo dell’opera autobiografica Il duello
scrive, riferendosi all’onorificenza, "il troppo strapazzato ordine della
cavalleria romana" (cfr. Il duello cit. in bibl.).[95] Note Esplicative Casanova visse a lungo in Francia e conobbe
personalmente molti protagonisti del movimento illuminista tra cui Voltaire e
Rousseau. Inoltre, in patria, frequentò membri dell'oligarchia aristocratica
dominante appartenenti all'ala progressista, come Andrea Memmo. In più aveva
anche aderito alla Massoneria, il che lo pose a contatto con tutta una serie di
personaggi portatori di idee progressiste. Malgrado tutto questo egli fu, e si
definì sempre, un conservatore, legato a doppio filo con la classe nobiliare
cui, pur non appartenendovi formalmente, riteneva d'esservi membro in pectore,
reputandosi a torto od a ragione il figlio naturale di Michele Grimani. Allo
scoppio della Rivoluzione francese e nel periodo alquanto turbolento che ne
seguì, scrisse numerosissime lettere (cfr. Epistolario P.Chiara cit. in ) in
cui deprecava in modo reciso l'accaduto e soprattutto non riconobbe mai, negli
eventi, la paternità culturale del movimento illuminista. Ad esso aveva
assistito come semplice spettatore, non avendone percepito mai la dirompente
potenzialità e non condividendone nessuna delle istanze che, ad esempio,
Montesquieu espresse nei confronti dell'iniquo sistema già dal 1721 (cfr.
Montesquieu, Lettres Persanes) e riteneva che, pur con qualche modifica, il
governo della classe nobiliare fosse il migliore possibile. Un esame attento ed
approfondito della posizione politica del Casanova è stato compiuto da
Feliciano Benvenuti (Casanova politico, atti del convegno: Giacomo Casanova tra
Venezia e l'Europa, 16.11.1998, Gilberto Pizzamiglio, fondazione Giorgio Cini,
Venezia, ed. Leo S. Olschki, 2001, pag. 1 e seg.) Il cognome Casanova è attestato appartenere a
nobile famiglia vissuta a Cesena, Milano, Parma, Torino-Dronero Casanova afferma che dalla città
spagnola il suo antenato, padre Jacob Casanova, a seguito del rapimento di una
monaca, Donna Anna Palafox, sarebbe fuggito, nel 1429, a Roma in cerca di un
rifugio dove, dopo aver scontato un anno di carcere, avrebbe ricevuto il
perdono e la dispensa dei voti sacerdotali da parte del pontefice in persona,
potendo così unirsi in matrimonio con la rapita. A questo riguardo è
interessante la tesi di Jean-Cristophe Igalens (G. Casanova, Histoire de ma
vie, tome I. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne,
Laffont , pag. XL , op. cit. in Opere postume) il quale sostiene che la
genealogia inserita dal Casanova all'inizio delle Memorie sia del tutto
fantasiosa. Si tratterebbe di una sorta di parodia di ciò che facevano
regolarmente i memorialisti aristocratici dell'epoca i quali, all'inizio
dell'opera, enunciavano il loro antico lignaggio, quasi a ricercare una
legittimazione per il fatto di esporre, in un'opera letteraria, le vicende di
cui erano stati protagonisti, almeno quelle pubbliche, poiché le private rientravano
nell'ambito dell'autobiografia. La tesi appare fondata se si considera che la
ricostruzione genealogica proposta dal C. risale addirittura al 1428, cioè a
tre secoli dalla sua nascita ed è relativa a un cognome, praticamente un
toponimo, estremamente comune. A
conferma del fatto che la nascita illegittima di Casanova fosse oggetto di
chiacchiere, va citato un passaggio de La commediante in fortuna di Pietro
Chiari (Venezia 1755) in cui si tratteggia un ritratto precisissimo di Casanova
che chiunque era in grado di riconoscere sotto le spoglie di un nome di
fantasia, il Signor Vanesio "C'era tra gli altri un certo Signor Vanesio
dì sconosciuta e, per quanto dicevasi, non legittima estrazione, ben fatto
della persona, di colore olivastro, di affettate maniere e di franchezza
indicibile". Evidentemente il riferimento a tratti somatici tipici e
riconoscibili fa pensare che le dicerie fossero suffragate da una notevole
somiglianza fisica con Michele Grimani. L'identificazione del Signor Vanesio
con Casanova è pacifica, tra i tanti autori, concordi sul punto, si veda:
E.Vittoria Casanova e gli Inquisitori di Stato cit. in bibl. pag. 25. (Immatricolazione 29 novembre 1737 col numero
122, iscrizione al secondo anno 26 novembre 1738, fede di terzeria del 20 gennaio,
22 marzo e I maggio 1739. Fonte: Bruno Brunelli, Casanova studente, in “Il
Marzocco” 15 aprile 1923, pag 1-2) Il 2
aprile 1742 firmò un testamento in qualità di testimone. Sull'ubicazione esatta della casa natale di
Casanova e di quella in cui trascorse l'infanzia dal 1728 al 1743, anno della
morte della nonna materna Marzia, si è discusso moltissimo. Certo è che al
momento del matrimonio Gaetano e Zanetta Casanova non disponevano di un reddito
tale da sostenere un spesa come quella affrontata, dal 1728 in poi, di 80
ducati annui. Quindi molto probabilmente, dopo il matrimonio avvenuto il 27
febbraio 1724, i coniugi andarono a vivere a casa della madre di Zanetta,
Marzia Baldissera, cheera vedova essendo mortole il marito Girolamo Farussi
poche settimane avanti il matrimonio della figlia. E questa con ogni
probabilità fu la casa in cui Casanova nacque il 2 aprile 1725 con l'assistenza
della levatrice Regina Salvi. L'identificazione esatta della casa natale è
assai ardua, ma comunque è stata tentata. Il casanovista Helmuth Watzlawick ha
identificato la casa di Marzia Baldissera con l'attuale civico 2993 di Calle
delle muneghe. Questa sarebbe dunque la casa natale di Casanova (Fonte: Helmuth
Watzlawick, House of childhood, house of birth; a topographical distraction, in
Intermédiaire des Casanovistes, Genève Année XVI 1999, pag. 17 e seg.). I
coniugi Casanova si trasferirono nella casa di Calle della Commedia al ritorno
dalla fortunata tournée londinese quando rientrarono a Venezia col
secondogenito Francesco, nato a Londra il primo di giugno 1727. Tale abitazione
risulta essere stata di gran rappresentanza, su tre livelli, con un salone al
secondo piano che fu usato in occasione di feste. L'affitto di 80 ducati annui
era circa il doppio della media che veniva corrisposta nel vicinato per
appartamenti evidentemente meno lussuosi. A questo punto sembrerebbe tutto
chiaro, si tratta solo di trovare in Calle della commedia un'abitazione che
corrisponda alla descrizione: grandezza, salone al secondo piano e camera al
terzo, nonché corrispondenza con la proprietà che si sa essere stata con
certezza della famiglia Savorgnan. L'unica che potrebbe corrispondere alla
descrizione è quella sita nell'attuale Calle Malipiero (già Calle della
Commedia) al civico 3082. Ma su questo non tutti gli studiosi concordano, tanto
che la lapide apposta in calle Malipiero dice "In una casa di questa
calle, già Calle della Commedia, nacque il 2 aprile 1725 Giacomo Casanova"
senza alcun altro più specifico elemento. Alcuni sostengono che a causa di
rimaneggiamenti interni non è più possibile identificare la struttura
originaria. Uno studioso dell'argomento, Federico Montecuccoli degli Erri, ha
pubblicato (L'intermédiaire des Casanovistes, Genève Année XX, 2003, pag.3 e
seg.) un'analisi molto approfondita basata sulle cosiddette
"Condizioni" cioè sulle dichiarazioni dei redditi immobiliari che
venivano presentate dai proprietari. All'epoca, per verificare l'esattezza dei
dati dichiarati, si procedeva ad un'ispezione diretta casa per casa effettuata,
in ogni parrocchia, dal parroco. Egli procedeva con un certo ordine chiedendo a
ognuno il titolo di possesso. I proprietari dichiaravano il titolo di proprietà
e gli affittuari dovevano o esibire il contratto oppure giurare le condizioni
contrattuali. Poiché è stato ritrovato il documento in cui la madre di Zanetta,
Marzia, giurava per la figlia, nel frattempo trasferitasi per lavoro a Dresda,
che il contratto prevedeva un affitto di 80 ducati annui e che l'immobile era
di proprietà Savorgnan, conosciamo con certezza i dati contrattuali e la
residenza indicata sull'atto, cioè Calle della Commedia. Purtroppo le modifiche
urbanistiche e catastali intervenute non consentono con certezza
l'identificazione, anche perché all'epoca non esistevano dati catastali
precisi. Secondo lo studioso citato, l'abitazione è da identificarsi con la
casa al civico 3089 della Calle degli orbi che all'epoca potrebbe essere stata
designata come Calle della Commedia. Corrisponderebbero sia l'aspetto fisico
che la proprietà. Comunque tutte queste ipotesi si muovono entro un fazzoletto
di spazio di poche centinaia di metri; infatti è certo che i Casanova
abitavano, per motivi di lavoro, nei pressi del Teatro San Samuele, di
proprietà dei Grimani. Documento: Calle della Commedia 324|casa|Giovanna
Casanova comica al presente s'attrova in Dresda, giurò Marzia sua Madre|N.H
Zuanne e F.llo Co. Savornian|d.ti 80 (annui) Registro dell'anno 1740 Atti della
Parrocchia di S.Samuele. Non nel noto lazzaretto
del Vanvitelli, ma in quello in uso precedentemente. Si è mantenuta la cronologia quale risulta
dal testo delle Memorie. L'autore ha qui, come in altri casi, confuso le date o
fuso insieme più viaggi. In realtà la permanenza nel Lazzaretto era durata dal
26 (o 27) ottobre 1743 al 23 (o 24) novembre 1743. Quindi l'intervallo tra i
due viaggi è stato di tre mesi, non di sette. Come affermato dall'autore, il
soggiorno si svolse nel Lazzaretto "Vecchio", in quanto quello
"Nuovo", pur terminato nel febbraio del 1743, iniziò a funzionare
solo nel 1748 allorché la Reverenda Camera Apostolica se ne prese carico.
Sull'argomento si veda: Furio Luccichenti, Quattro settimane nel Lazzaretto in
L'Intermédiaire des Casanovistes Genève, Année XXVIII, anno pag. 711. In tale studio viene ricostruita la
situazione dei lazzaretti di Ancona e confrontato il racconto casanoviano con
le risultanze di archivio relative ai progetti e all'iconografia degli edifici
adibiti alle quarantene.La cronologia della permanenza è stata stimata
dall'autore nel periodo 26.10/23.11.1743. Un'altra cronologia differisce di un
giorno soltanto: 27.10/24.11.1743 (J. Casanova, Histoire de ma vie. Texte
intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Robert
Laffont, I, Cronologia, pag. XXX, cit.
in bibl.) Il progetto di ristrutturazione del Lazzaretto "Vecchio",
datato 1817, si conserva nell'Archivio di Stato di Roma (Collezione Mappe e
Piante, Parte I, Cart. 2, n° 87/I, II, III.). Esso consente di verificare lo
stato del fabbricato all'epoca della permanenza del Casanova. Il personaggio di Teresa/Bellino ripropone
una tematica ricorrente cioè la questione dell'aderenza alla realtà dei fatti
riportati nell'Histoire e il considerare il personaggio descritto come
realmente esistito. L'identificazione di Teresa con Angela Calori, nota
virtuosa, cioè cantante, di gran successo, si basa su ricerche effettuate già
dai casanovisti del passato, come Gustavo Gugitz, il quale però ritenne che il
personaggio fosse in realtà una costruzione letteraria. Teresa viene spesso
citata nell'Histoire sotto il nome fittizio di Teresa Lanti, maritata con
Cirillo Palesi, nome anch'esso fittizio. Ma molte delle notizie, date e fatti
riferiti nel racconto casanoviano non quadrano con quelli attribuibili alla
Calori. Quest'ultima è anche ricordata direttamente nell'Histoire allorché
Casanova riferisce di averla incontrata a Londra e di aver provato, vedendola,
le stesse sensazioni avute in occasione di un incontro, a Praga, con
Teresa/Bellino, il che ha indotto taluni a considerare questo fatto una prova
che la Teresa delle memorie fosse effettivamente la Calori. Molti studiosi (tra
gli altri Furio Luccichenti) propendono per l'assemblaggio d'invenzione, cioè
pensano che Casanova abbia costruito il personaggio di cui parla con elementi
derivanti da più persone diverse, il che non esclude che l'autore possa essersi
ispirato, in larga misura, anche alla Calori. Comunque gli studiosi non
demordono: Sandro Pasqual (L'intreccio, Casanova a Bologna, 2007, pag. 33 e
seguenti, cit. in bibl.) ha ipotizzato trattarsi non della Calori, ma di
un'altra famosa cantante bolognese, Vittoria Tesi, nota per il suo fascino
androgino e per aver interpretato spesso en travestie parti maschili. La
tendenza a romanzare del Casanova sarebbe in questo caso particolarmente
stimolata dall'ambiente e dai ruoli dei personaggi descritti. Egli ebbe sempre,
infatti, fortissimi legami col mondo teatrale, essendo figlio di attori e
avendo frequentato tutta la vita teatri e teatranti. Curiosamente, ogni volta
che rappresenta un personaggio femminile che ha a che fare col teatro, sia
cantante o ballerina, lo descrive, salvo rarissimi casi, in modo
particolarmente negativo; come se, pur attratto da quel mondo, ne disprezzasse
profondamente gli interpreti, attribuendo, soprattutto a quelli femminili, le
peggiori inclinazioni alla falsità, all'avidità e al calcolo. Teresa/Bellino è
una delle eccezioni, il che farebbe propendere per l'idealizzazione, cioè per
la non rispondenza alla realtà del personaggio, peraltro nascosto, come si è detto,
sotto un nome fittizio. Sul rapporto tra l'Histoire e il mondo del teatro si
veda, di Cynthia Craig, Representing anxiety. The figure of the actress in
Casanova's Histoire de ma vie. L'intermédiaire des casanovistes, Genève, Année
2003 XX. Marco Barbaro (19 luglio
1688-25 novembre 1771), patrizio veneziano del ramo Barbaro di San Aponal,
figlio di Anzolo Maria, morto senza figli, lasciò a Casanova un legato di sei
zecchini al mese. (Fonte: Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte
intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Robert Laffont
cit. in bibl. I pag. 997, che rinvia a
Salvatore di Giacomo, Historia della mia fuga dai Piombi, Milano) Marco Dandolo, patrizio veneziano del ramo
Dandolo di San Giovanni e Paolo. Documento: Testamento di Marco Dandolo 28
marzo 1779 in Archivio di Stato di Venezia. Legato testamentario
"...Raccomando alla loro bontà la persona di Giacomo Casanova, che mi fu
in tutta la sua vita attaccato col cuore, e amoroso alla mia persona, e che ha mostrato
in ogni tempo la più comendabile gratitudine a' miei pochi benefizj. Dichiaro
che a lui appartengono tutti i mobili, che sono nella stanza in cui
dorme.......... Al suddetto Giacomo Casanova lascio il mio orologio d'oro e le
mie quattro possate d'argento" (Fonte: L'Histoire de ma vie di
Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in , pag.29 nota 104). L'identificazione di "Henriette"
insieme a quella di "Suor M.M." è stato uno degli argomentipiù
dibattuti dai casanovisti. Il motivo di tante accanite ricerche è connesso con
la centralità sentimentale di questi due personaggi nella vita di Casanova. Il
nome di Henriette ricorre di con tinuo nelle Memorie e la sua identità è
stata mascherata accuratamente dall'autore. Tra le identificazioni che si sono
susseguite quelle più autorevoli sono da ascrivere a: John Rives
Childs (1960), che sostenne trattarsi di Jeanne-Marie d'Albert de
Saint Hyppolite, nata il 22 marzo 1718, sposata a Jean-Baptiste Laurent Boyer
de Fonscolombe, nipote di Joseph de Margalet, proprietario del castello di
Luynes, che si trova nella zona descritta da Casanova come quella di residenza
di Henriette. Helmut Watzlawick (1989), che sostiene trattarsi di Marie
d'Albertas, nata a Marsiglia il 10 marzo 1722. Louis Jean André (1996), che avrebbe
identificato Henriette in Adelaide de Gueidan (1725-1786). Quest'ultima
ricostruzione è sostenuta da un apparato critico impressionante che, attraverso
una raccolta minuziosa di elementi (lettere, atti, iconografia, topografia
della zona), conduce a una notevole verosimiglianza dell'identificazione.
Immagini del castello di Valabre, residenza della famiglia De Gueidan, che
secondo André corrisponderebbe perfettamente alla descrizione datane da
Casanova senza nominarlo, sono visibili qui. Manca ancora però la prova
inoppugnabile, una lettera o un qualsiasi manoscritto del Casanova stesso che
consenta l'identificazione certa. Molti
studiosi hanno tentato l'identificazione di suor M.M. Lo studio più completo
sull'argomento si deve a Riccardo Selvatico, che la identifica con Marina
Morosini (R. Selvatico, Note casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di
Scienze, Lettere ed Arti T. CXLII (1983-84) pag. 235-266. Sul rapporto tra romanzo e autobiografia
nelle Memorie si veda tra gli altri L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova
Michele Mari, pag. 237 e seguenti, cit. in .
Balletti era il nipote della Fragoletta, l'attempata attrice amata dal
padre di Giacomo, Gaetano, al seguito della quale era arrivato in giovane età a
Venezia. (Fonte: Charles Samaran, Jacques Casanova, Vénitien, une vie
d'aventurier au XVIII siècle, Pag. 26, note 1,2,3. Cit. in bibl. con rinvio a
un passaggio delle Memorie di Goldoni)
Casanova fu iniziato nella loggia Amitié amis choisis, probabilmente su
presentazione di Balletti (Fonte: Jean-Didier Vincent, Casanova il contagio del
piacere, cit. in bibl. pag. 145, nota 35).
L'affiliazione di Mozart alla Fratellanza Massonica avvenne il 14
dicembre del 1784, nella loggia “Zur Wohltätigkeit” (Alla Beneficenza) di
Vienna (Fonte: Lidia Bramani, Mozart massone e rivoluzionario, pag. 56. Bruno
Mondadori, 2005). Nel novembre del 1750,
Casanova ricevette i gradi di Compagno e Maestro nella loggia di S. Giovanni di
Gerusalemme (cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova,
Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard
Lahouati, , cit. in bibl.) Malgrado la
diuturna applicazione, il fatto di aver avuto eccellenti maestri come Crebillon
e di aver potuto fare ampia pratica durante la permanenza in Francia, il
francese di Casanova non fu mai ritenuto sufficientemente perfetto nella forma
scritta, soprattutto a causa degli “italianismi” che si riscontrano
numerosissimi nelle Memorie. Casanova riferisce con dovizia di particolari il
suo incontro con Crebillon e la successiva intensa frequentazione allo scopo di
imparare la lingua. Ammette anche i suoi limiti: infatti scrive: Per un anno
intero andai da Crebillon tre volte alla settimana ma non riuscii mai a
liberarmi dei miei italianismi (Fonte: G. Casanova, Storia della mia vita,
Mondadori). L'imputazione e la sentenza:
21 agosto 1755 Venute a cognizione del Tribunale le molte riflessibili colpe di
Giacomo Casanova principalmente in disprezzo publico della Santa Religione, SS.
EE. lo fecero arrestare e passar sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor.
Antonio Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. L'oltrascritto
Casanova condannato anni cinque sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor.
Antonio Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. (VeneziaArchivio di
StatoInquisitori di StatoAnnotazioniB. 534245)
Riferte di Giovanni Battista Manuzzi, confidente degli Inquisitori di
Stato Incaricata la mia obbedienza dal Venerato Comando di riferire chi sia Giacomo
Casanova, generalmente rilevo ch'è figlio di un comico e di una commediante;
viene descritto il detto Casanova di un carattere cabalon, che si fa profittare
della credulità delle persone come fece col N.H. Ser Zanne Bragadin, per vivere
alle spalle di questo o di quello... Giovanni Battista Manuzzi, 22 marzo 1755.
...Mi sovvenne allora che lo stesso Casanova parlato mi avea ne' giorni passati
della Setta de' Muratori, raccontandomi i onori e vantaggi che si hanno ad
essere nel numero de' confratelli, che vi aveva dell'inclinazione il N.H. Ser
Marco Donado per essere arrolato a detta Setta... Giovanni Battista Manuzzi, 12
luglio 1755. Secondo il casanovista
Pierre Gruet, il motivo fondamentale dell'arresto di Casanova è da ricercare
proprio nella relazione con suor M.M. che, se l'identificazione con Marina
Morosini è corretta (sul punto si veda R. Selvatico, Note casanovianeSuor M.M.
Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti), apparteneva ad una
delle più potenti famiglie del patriziato veneziano. I Morosini avrebbero
quindi fatto pressioni sugli inquisitori per far cessare la scandalosa
situazione. Cfr. Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral
du manuscrit original,....Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol I, pag 1065.
Bibliografiche Giacomo Casanova,
Histoire de ma vie, Wiesbaden-Paris, F. A. Brockhaus-Librairie Plon,
1960-62. Giacomo Casanova, Examen des
"Etudes de la Nature" et de "Paul et Virginie" de Bernardin
de Saint Pierre, 1788-1789127. Carlo
Goldoni, Memorie, Torino, Einaudi, 1967158.
Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LVI in Casanova, Histoire de
ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in
bibl. G.Casanova,Storia della mia vita,
Mondadori 2001, I, pag. 502 cit. in
bibl. (Fonte: P.Molmenti, Carteggi casanoviani) (Fonte E.Grossato, Un bizzarro allievo dello
Studio Padovano. Giacomo Casanova, in Padova e la sua provincia) (Fonte:
P.Del Negro, Giacomo Casanova e l'Padova, estratto da Quaderni per la storia
dell'Padova n°25, 1992) Aprile, maggio
1741 secondo la cronologia delle Memorie. Cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie,
pag. LVIII in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.
(Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII in Casanova, Histoire
de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit.
in bibl.) Helmut Watzlawick,
Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition
publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl. Fonte: Silvio Calzolari, Vita, Amori, Mistero
di un libertino veneziano, cit. in bibl. pag.32: Ma perché fu fermato? Non
aveva da scontare alcuna pena. L'arresto fu probabilmente organizzato dal
Grimani che voleva dargli una lezione per aver venduto di nascosto i mobili
della casa paterna e per aver maltrattato un suo incaricato, Antonio Razzetta,
che doveva occuparsi della questione. Si
veda di Furio Luccichenti, La prassi memorialistica di Giacomo Casanova, L'Intermédiaire
des casanovistes, XII (1995), pag. 27 e seguenti. Si veda di Pierre-Yves Beaurepaire, Grand
Tour', ‘République des Lettres' e reti massoniche : una cultura della mobilità
nell'Europa dei Lumi », in Storia d'Italia, Annali 21, La Massoneria, Gian
Mario Cazzaniga, Torino, Giulio Einaudi, 200632-49 cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag.
LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.
cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire
de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit.
in bibl, Fonte: Elio Bartolini, Vita di
Giacomo Casanova, pag. 140 e seguenti, cit. in bibl. Fonte: Bruno Rosada, Il Settecento veneziano.
La letteratura, Venezia, Corbo e Fiore, 2007, pag. 231, cit. in bibl. Riguardo alla paternità del quadro in
questione, la precedente attribuzione a Mengs (risalente a Johann Joachim
Winckelmann) è stata praticamente abbandonata dalla critica e, allo stato delle
ricerche, il quadro è probabilmente attribuibile a Francesco Narici, pittore di
origine genovese attivo a Napoli. La tela fu scoperta nel 1952 a Milano da un
restauratore di Bologna: Armando Preziosi, il quale sosteneva di aver trovato
tra la cornice, sicuramente coeva, e il quadro, un biglietto manoscritto che
recava le parole Jean-Jacques Casanova 1767. Il fatto che il soggetto
rappresentato possa effettivamente essere Giacomo Casanova, si basa su una
serie di dati che sono: l'osservazione delle fattezze, soprattutto il
naso; il fatto che essendo il quadro a grandezza naturale consenta di
ipotizzare trattarsi di un uomo della stessa statura di Casanova che è nota; il
fatto che i tratti assomiglino in maniera sorprendente all'altro quadro, di
mano del fratello Francesco, di sicura attribuzione, sia per l'autore che per
il soggetto. Inoltre l'insieme del ritratto: l'amorino, i libri, fanno pensare
a una simbologia molto affine al personaggio di Casanova che, pur nello stile
di vita brillante e mondano, teneva sempre a porsi come un letterato. Il quadro
passò, nel 1993, da Preziosi alla collezione privata del casanovista Giuseppe
Bignami di Genova. Per documentarsi sull'argomento si veda: Giuseppe Bignami,
Aggiornamenti e proposte sull'iconografia casanoviana, in L'intermédiaire des
casanovistes XI, 1994, pagg. 17-23. Il
mondo di Giacomo Casanova.... (catalogo della mostra a Ca' Rezzonico, 1998,
cit. in bibl.). Giuseppe Bignami, Casanova tra Genova e Venezia, La Casana, n°
3 luglio-settembre 2008, pag. 25-37. Una summa dell'iconografia casanoviana,
che si compone di nove opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è
consultabile in Casanova, la passion de la liberté, catalogo della mostra
organizzata dalla BNF, , Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France /
Seuil, pag.68-71 Marino Balbi
(1719-1783), monaco somasco. Era un patrizio veneziano appartenente a una
casata barnabota, cioè a una di quelle famiglie patrizie che avevano perso ogni
ricchezza e i cui membri erano ridotti a vivere di espedienti. Erano detti
barnabotti in quanto gravitavano intorno a Campo San Barnaba (Fonte: L'histoire
de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, pag. 22, citato in ). Si trattava di un certo Andreoli, custode del
palazzo, che il Casanova vide approssimarsi, da una fessura del portone,
"in parrucca nera e con un mazzo di chiavi in mano". Sul punto, per
maggiore approfondimento, si veda il commento di Riccardo Selvatico Cento note
per Casanova a Venezia, Furio Luccichenti, ed. Neri Pozza 1997, pag. 316. Sentenza di condanna a carico di Lorenzo
Basadonna, carceriere del Casanova Lorenzo Basadonna era custode delle Prigioni
de Piombi, che esisteva nei camerotti per difetti del suo ministero, da quali
ne provenne la fuga al primo novembre decorso da Piombi stessi delBalbi
somasco, e di Giacomo Casanova, che vi erano condannati, per tenui motivi di
contrasto con Giuseppe Ottaviani pur condannato ne' camerotti, ne commise la
interfezione. Presi dal Tribunale gl'essami per rilevare l'origine, e i modi
del non ordinario avvenimento, risultò infatti per la confessione stessa del
reo il caso per proditorio in ogni sua circostanza. Tutto che però meritasse il
supplizio maggiore, la clemenza del Tribunale con pieni riflessi di carità e di
clemenza è devenuta alla sentenza qui contro estesa''. Alvise Barbarigo Inq.r
Lorenzo Grimani Inq.r Bortolo Diedo Inq.r 175710 giugno. Lorenzo Basadonna sia
condannato ne' Pozzi per anni dieci. Alvise Barbarigo Inq.r Lorenzo Grimani
Inq.r Bortolo Diedo Inq.r Venezia, Archivio di Stato, Inquisitori di Stato,
Annotazioni, R. 535 c.83. Jeanne Camus
de Pontcarré marchesa d'Urfé 1705-1775, sposò nel 1724 Louis-Christophe de
Lascaris d'Urfé de Larochefoucauld marchese di Langeac, dal quale ebbe tre
figli. Rimase vedova nel 1734 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed.
Mondadori 2001, II pag.1634 nota) G. Casanova, Historie de ma vie, Libro 2,
Volume 5, Capitolo 3 Molti commentatori
hanno avanzato dubbi sul racconto casanoviano relativo all'istituzione della
lotteria, che sarebbe servita a finanziare la costruzione della École
militaireprogetto che era sostenuto in modo pressante dalla Pompadoure su
particolari, relativi all'architettura dell'operazione ideata dai fratelli
Ranieri e Giovanni Calzabigi, così come esposti nell'Histoire. Comunque, vista
la rilevanza della documentazione, è indubitabile che Casanova abbia svolto un
ruolo chiave, probabilmente mettendo a disposizioni le sue forti entrature
politiche. Il che dimostrerebbe anche che il rapporto con de Bernis e il suo
entourage era molto solido. Sul punto si veda G. Casanova, Storia della mia
vita, Mondadori 2001 cit. in bibl. II,
Pag. 164 nota 1, in cui si puntualizza che la lista dei 28 ricevitori,
pubblicata nel febbraio 1758, non riporta il nome di Casanova in relazione alla
ricevitoria di Rue Saint Denis, citata nel racconto autobiografico. Secondo
Samaran, (Jacques Casanova ecc.. Cit. In bibl.) Casanova avrebbe diretto una
ricevitoria dal settembre 1758 a tutto il 1759, ma a Rue Saint Martin. Si veda
anche Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie…. Éd. Robert Laffont 1993
cit. in bibl. II, pag 21 nota 4
(con rinvio a C. Meucci, Casanova Finanziere, cit. in bibl. pag. 66 e seg.),
pag. 23 nota 2, (con rinvio a A. Zottoli, Giacomo Casanova) e Jean Leonnet, Les
loteries d'état en France aux XVIII e XIX siécles. Imprimerie nationale, 1963,
pag 15 e seg. Il decreto di fondazione della lotteria è un arrêt delConsiglio
di Stato del re Luigi XV, datato 15 ottobre 1757 (BnF, Departement des
Manuscrit Française 26469, fol. 198).
Del viaggio nei Paesi Bassi, come incaricato di una missione diplomatica
descritto da Casanova, vi è un riscontro obiettivo: il passaporto, ritrovato a
Dux, rilasciatogli il 13 ottobre 1758 da Matthys Lestevenon van Berkenroode
(1715-1797), ambasciatore della Repubblica delle Sette Province a Parigi dal
1750 al 1762 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed. Mondadori). Il
documento originale è riprodotto in Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma
vie. Texte intégral du manuscrit original,.... Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol
II, Appendice Documents pag. 1193 e seg.
Dopo il naufragio dei progetti matrimoniali di Giustiniana, la madre
Anna Gazini (che aveva sposato, dopo la nascita della primogenita, sir Richard
Wynne) decise di lasciare Venezia per evitare che i pettegolezzi danneggiassero
le altre due figlie, Mary Elizabeth, nata nel 1741, e Teresa Susanna, nata nel
1742. La partenza avvenne il 2 ottobre 1758 (Fonte: Andrea di Robilant, Un
amore veneziano, Milano, Mondadori, 2003, pag. 23 e seg. e pag. 120 e seg.). La lettera autografa di Giustiniana Wynne è
andata all'asta all'Hôtel Drouot (Parigi) il 12 ottobre 1999. Il collezionista
che l'ha acquistata, e che ha voluto mantenere l'anonimato, ne ha però
consentito la pubblicazione integrale (cfr. Helmut Watzlawick, L'Intermédiaire
des Casanovistes anno 2003 pag. 25)
«...siete filosofo, siete onesto, avete la mia vita nelle mani,
Salvattemi se c'è ancora rimedio, e se potete...» G. Casanova, Storia della mia vita,
Mondadori, Edizione 2001, II, pag. 394,
cit. in bibl. Histoire, volume 15, capitolo XIX Nous avons ici une espèce de plaisant qui
serait très capable de faire une façon de Secchia Rapita, et de peindre les
ennemis de la raison dans tout l'excès de leur impertinence... (Fonte: Œuvres
complètes de Voltaire avec des notes... Parigi 1837, II pag. 91)
Fonte: Frédéric Manfrin in Casanova, la passion de la liberté, Parigi,
Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil, , Chronologie, pag. 221. G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori
2001, II, pag. 1508 cit. in bibl. Marie Anne Geneviéve Augspurger, detta La
Charpillon, (circa 1746-1778), nota cortigiana londinese (Fonte: G. Casanova,
Storia della mia vita, ed. Mondadori 2001,
III pag.117 nota). Un riscontro
del soggiorno di Casanova a Berlino deriva da una annotazione nel diario di
James Boswell, datata 1º settembre 1764, in cui lo scrittore scozzese accenna
all'incontro avvenuto da Rufin, cioè alla locanda Zu den drei Lilien (Ai tre
gigli) in Poststraße, dove anche Casanova alloggiava. In particolare scrive: Ho
mangiato da Rufin dove Nehaus, un italiano, voleva brillare come grande
filosofo e quindi sosteneva di dubitare di tutto, a cominciare dalla sua stessa
esistenza. Lo ritenni un perfetto cretino. (A.Pottle, The Yale edition of the
Private Papers of James Boswell, London 1953,
IV, pag. 67). Il nome Nehaus è la traduzione di Casanova in tedesco (con
un errore di grafia = Neuhaus) e risulta che Casanova abbia usato il suo
cognome tradotto, con diverse forme. Ad esempio, in una lettera a lui
indirizzata a Wesel, si legge come destinatario comte de Nayhaus de Farussi,
Farussi era il cognome della madre del Casanova. (Fonte: Helmut Watzlawick,
Casanova and Boswell, nota in L'Intermédiaire des Casanovistes, XXIII 2006, pag
41). Fonte: Elio Bartolini, Vita di
Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XVII pag. 271. Casanova passò la frontiera
russa a Riga sotto il nome di Farussi, cognome della madre (cfr. Helmut
Watzlawick, Chronologie, pag. LXXIV in Histoire de ma vie, tome I. Édition
publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.) Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo
Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 273, 274. Secondo quanto affermato nelle
Memorie, Casanova incontrò varie volte la sovrana, sottoponendole vari
progetti, ma senza alcun risultato.
Franciszek Ksawery Branicki, conte di Korczak, (1730–1819). Sul contesto
storico in cui si muoveva Branicki, che era un rappresentante della nobiltà
filorussa, la cui collusione con la potente nazione vicina rappresentò un vero
e proprio tradimento, si può consultare la voce dedicata a Tadeusz Kościuszko,
in particolare il paragrafo "Ritorno in Polonia". Anna Binetti (cognome di nascita Ramon)
celebre ballerina, nota in tutta Europa. Sposò nel 1751 il ballerino Georges
Binet. Dopo il ritiro dalle scene (circa 1780) si dedicò all'insegnamento della
danza a Venezia (Fonte: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori
2001, III pag.1183 nota) G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori
2001, III, pag. 285 e seguenti, cit. in
bibl. La vicenda sollevò un clamore
notevole e fu riportata nelle cronache. Una descrizione dei fatti, che ricalca
sostanzialmente il racconto casanoviano e ne attesta la veridicità, si trova in
una lettera datata 19 marzo 1766, scritta da Giuseppe Antonio Taruffi, segretario
del nunzio apostolico Antonio Eugenio Visconti, e spedita da Varsavia a
Francesco Albergati Capacelli (Ernesto Masi, Ed. Zanichelli Bologna, 1878. La
vita i tempi gli amici di Francesco Albergati pagg. 196 e seg. e nota 1 pag.
203.) Fonte: Elio Bartolini, Vita di
Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 288. Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo
Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 293. Cfr. anche, per la data di morte di
Bragadin e la data in cui la notizia fu appresa da Casanova (26 ottobre), Helmut
Watzlawick, Chronologie, in Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.)
Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova. I soggiorni romani di
Casanova furono tre: il primo dal 1º settembre 1743 al 23 febbraio 1744; il
secondo dal dicembre 1760 al 5 febbraio 1761; il terzo dal 14 maggio 1770 a
fine maggio 1771. I personaggi descritti, numerosissimi, sono noti alle
cronache del tempo e quindi è possibile ritenere veridico il racconto che
consente riscontri obiettivi. Uno dei riscontri è costituito da un documento
che certifica la presenza a Roma del Casanova durante la Quaresima del 1771.
Documento: Stato delle anime 1771, in Registri parrocchiali di S.Andrea delle
Fratte Piazza di SpagnaCasa del Conservatorio di S.Eufemia Francesco Poletti anni
51 M. Angela moglie .anni 40 Margarita figlia zitella anni 16 Tommaso figlio anni
20 Vincenzo figlio anni 14 Anna Proli serva anni 40 Piggionanti
Giovanni Nicolao Fedriani anni 22 Giuseppe fratello anni 18 D. Giacinto Cerreti
anni 37 Il signor Giacomo Casanova...anni 46 L'immobile in questione è
quello, antistante l'Ambasciata di Spagna, sito nella piazza all'attuale numero
civico 32. L'abitazione del Casanova era al secondo piano. (Fonte: A.Valeri
Casanova a Roma cit. in bibl.) Si
è a lungo discusso circa l'esistenza di ulteriori capitoli che dovrebbe essere
comprovata dal titolo originale dell'opera: Histoire de ma vie jusqu'à l'an
1797, come risulta dalla prima pagina della prefazione. Tuttavia ciò rimane
solo un'ipotesi, perché non è stato mai trovato un manoscritto riguardante il
periodo successivo al 1774. Va quindi considerato che, fino alla data in
questione, la fonte primaria delle vicende di Casanova sono le sue Memorie;
dopo il termine temporale delle medesime ci si è basati su epistolari o notizie
di altro tipo: scritti di contemporanei, registrazioni amministrative, notizie
apparse su gazzette. Alcuni autori hanno tentato una ricostruzione cronologica
dei fatti utilizzando i documenti disponibili, tra cui il Brunelli (Bruno
Brunelli, Vita di Giacomo Casanova dopo le sue memorie, cit. in bibl.) e il
Bartolini (Elio Bartolini, Casanova dalla felicità alla morte 17741798, cit. in
bibl.). Evidentemente le notizie riguardanti il periodo compreso temporalmente
nelle Memorie sono enormemente più numerose di quelle relative al periodo
successivo. Circa l'attendibilità e la precisione delle notizie riportate nelle
Memorie, il dibattito è stato amplissimo, ma numerosissimi riscontri ne hanno
comprovato la sostanziale veridicità. Il
viaggio da Trieste a Venezia iniziò il 10 settembre 1774; la data è
verificabile da una notizia apparsa sulla Gazzetta Goriziana “Sabato 10
corrente è passato per qua il signor Giacomo Casanova di Saint Gall celebre per
li diversi famosi incontri da lui avuti, girando l'Europa; come non meno per le
opere da lui stampate, fra le quali abbiamo già annunziato in un nostro foglio
la Storia delle vicende di Polonia; ha egli inaspettatamente ottenuto il suo
perdono e dopo venti anni si è restituito a Venezia sua patria”. (fonte: Rudj
Gorian Editoria e informazione a Gorizia nel Settecento: la “Gazzetta
goriziana” , Trieste, Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia , pag.
221-223). È da osservare che la
notorietà del personaggio era grande e che anche della sua attività di
scrittore, oltre che di avventuriero, si parlava molto, negli ambienti
intellettuali, ancor prima del suo rientro a Venezia. In una lettera datata
Venezia Elisabetta Caminer, rivolgendosi a Giuseppe Bencivenni Pelli, scrive
"...È dunque costì quel famoso Casanova che ha fatto tante pazzie e alcune
cose buone? Io lo conosco assai di nome, e mio padre lo conosce anche di
persona. Ditemi, in che le sue maniere sono diverse dalle vostre? Qual tuono è
il suo? Voi già sapete la sua prodigiosa fuga da' piombi di Venezia. Stampa
egli codesta sua Storia della Polonia? Avete voi letta la sua confutazione
dell'opera di Amelot della Houssaye?..." (Fonte: Rita Unfer
Lukoschik, Lettere di Elisabetta Caminer,
organizzatrice culturale, Edizioni Think Adv, Conselve, Padova, 2006). Si tratta di Lorenzo Morosini, Alvise Emo,
Pietro Pisani, Nicolò Erizzo, Andrea Tron, Sebastiano Venier. L'elenco completo dei sottoscrittori è
consultabile in: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero
Chiara, vol VII. (pag.293 e seg.) Delle
lettere di Casanova alla Buschini non resta nulla ma, poiché spessissimo la
Buschini, nel testo, ripete le notizie inviatele e le richieste di notizie
rivoltele, è facile ricavare, almeno in parte, il testo delle lettere ricevute.
A Dux sono state reperite da Aldo Ravà 38 lettere di Francesca Buschini che
coprono il periodo dal luglio del 1779 all'ottobre del 1787. Di queste, 33 sono
state riportate nel volume Lettere di donne a Giacomo Casanova Aldo Ravà,
Milano, Treves 1912 cit. in bibl. L'edizione critica più recente delle lettere
di Francesca Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, è stata edita
Marco Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna , Grenoble, Antonio Trampus,
Trieste, cit. in bibl. La corrispondenza consente di ricostruire gli anni
successivi al secondo esilio di Giacomo Casanova. Attraverso esse si vive il
dramma umano della Buschini la quale, col passare degli anni, era sempre più
avvolta da una cupa povertà, da dolori familiari causati dal fratello, che
praticamente viveva alle sue spalle e dalla madre, che col tempo diveniva
sempre più intollerante. Quando Casanova dovette sospendere i suoi aiuti in
denaro, essendo ormai nell'impossibilità materiale di inviarne, la Buschini si
ritrovò letteralmente in mezzo alla strada, dovendo lasciare l'appartamento di
Barbaria delle Tole, non avendo più la possibilità di pagare l'affitto. Nessuna
notizia ulteriore ci è giunta, ma la sua testimonianza di lenta emarginazione è
oltremodo toccante. A.Ravà, Lettere di
donne a Giacomo Casanova, cit. in bibl. p.176 e nota. Fonte dell'ammontare del
canone: A.Ravà, J. Marsan, Sui passi di
Casanova a Venezia. Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in
bibl. pag. 347 Fonte: G. Casanova,
Analisi degli studi sulla natura... G. Simeoni. Ed. Pendragon 2003, pag. 9. Il
testo del libello è stata oggetto di una pubblicazione a tiratura limitata
Furio Luccichenti, ed. Il collezionista 1981. Si è ipotizzato che il Grimani
abbia incaricato della redazione della replica Girolamo Molin, tuttavia il
libello non fu mai dato alle stampe all'epoca, ma fu fatto circolare in forma
manoscritta (Fonte: Bruno Brunelli, Vita di Giacomo Casanova dopo le sue
memorie, cit. in bibl. pag.68 nota 9).
Foscarini morì il 23 aprile del 1785.
Il conflitto con la servitù del castello divenne con gli anni sempre più
acuto, tanto da far giudicare insostenibile la permanenza al castello del
maggiordomo Georg Feldkirchner, che fu infatti rimosso dall'incarico. La
diatriba fu poi oggetto dell'opera Lettres écrites au sieur Faulkircher...
(vedi in ) nella quale Casanova trasfuse tutto l'astio accumulato per le
persecuzionia suo diresubite. Il
concetto è ripreso da un passo di Piero Chiara (cfr. G. Casanova, Storia della
mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag.13, 14) ...Ma il
Casanova è quello che è, e non vuole essere altro; vero eroe del suo tempo per
l'audacia, la sincerità con la quale lo visse, allo sbaraglio, senza temere i
colpi di spada o di pistola, il carcere o l'esilio, pur di consumare fino
all'ultimo l'avventura della sua esistenza in un'epoca in cui la vita era
un'opera d'arte e si poteva farne, con vera gioia, un capolavoro dei
sensi..... Il casanovista Helmut
Watzlawick ha pubblicato (cfr. L'intermédiaire des casanovistes, anno XXIII,
2006 pag. 38) una breve nota intitolata Lieu de sepolture de Casanova, in cui
riferisce la notizia, comunicatagli da uno studioso tedesco, Hermann Braun, di
una testimonianza sull'argomento individuata nell'opera di un memorialista e
storico coevo al Casanova: Johann Georg Meusel (1743-1820), professore di
storia a Erlangen. Meusel, nella sua opera Archiv für Künstler und
Kunst-Freunde (Dresda, 1805 I parte seconda,
pag. 172) fa il seguente commento: «L'aîne, Jacques Casanova, Docteur en Droit
de Padoue et bibliothécaire de Comtes de Waldstein-Warthemberg, à Dux en
Bohème, où il mourût aussi, immortalisé par un monument plein de goût que le
Comte lui a fait ériger dans son jardin, où il le faisait aussi enterrer selon
son propre désir.» Pare quindi evidente che la sepoltura fosse ubicata
all'interno del parco del castello e il conte vi avesse fatto erigere un
monumento “pieno di gusto” in memoria del suo bibliotecario. Il conte Waldstein
aveva certamente dell'affetto per Casanova, oltre al legame derivante dalla
comune appartenenza alla Massoneria, se è vero che gli conferì un incarico
formale di bibliotecario ma in pratica, visto lo scarso impegno che comportava,
una pensione, che lo mantenne per lunghi anni provvedendo a tutti i suoi
bisogni e che spesso dovette far fronte ai suoi debiti, talvolta cospicui, con
gli editori. È quindi più che logico che abbia deciso di onorarne la memoria
con una sepoltura degna e con un monumento funebre. Inoltre il Meusel è
conosciuto come un biografo scrupoloso e non avrebbe avuto motivo per inventare
un dettaglio facilmente verificabile da parte dei suoi lettori, tra i quali
Francesco Casanova, fratello minore di Giacomo e famoso pittore, al quale
Meusel dedicò, nella medesima opera, un contributo biografico e che era ancora
in vita al tempo della redazione dell'opera. Come sostiene Watzlawick, per
avere la prova certa, bisognerebbe revisionare la contabilità del castello al
momento della morte del Casanova, cercando la traccia dei pagamenti effettuati
per la sepoltura e l'erezione del monumento.
Edizione in tre tomi basata sul manoscritto conservato presso la BNF,
con le varianti di testo relative a passi rimaneggiati dall'autore. Attualmente
() è l'edizione critica di riferimento.
Archivio Alinari, su alinariarchives.
Archivio GrangerNew York Opere di
LonghiCasanovaUbication: Firenze Miti e
personaggi della modernità: Dizionario di storia, letteratura, arte,
musica e cinema, edizioni Bruno Mondadori, : «Nell'arte. Di Casanova esistono
alcuni ritratti, tra cui un dipinto giovanile a opera del fratello, uno di Lon ghi
che lo raffigura all'epoca della maturità (Collezione Gritti, Venezia), e un
terzo attribuibile a Mengs» (NDR: oggi quest'ultimo è attribuito a Francesco
Narici) Il quadro, conservato un tempo
nella collezione Gritti di Venezia, poi a Firenze, e qua riprodotto in bianco e
nero in una fotografia o una stampa eseguita forse negli anni '30, sarebbe
stato eseguito presumibilmente nel 1774 allorché Casanova rientrò a Venezia
dall'esilio. Sembra si trattasse di un lavoro a olio su tavola di dimensioni
sconosciute donato dall'artista a un membro della famiglia Gritti.
Successivamente passò a Francesco Antonio Gritti di Treviso, zio materno
dell'avvocato Ugo Monis di Roma che lo ereditò dalla sorella di Francesco
Antonio, Maria Gritti Rizzi. Nel 1934 il quadro faceva ancora parte della
collezione di Monis. Molto dubbia l'identificazione del Casanova nel soggetto
ritratto che apparentemente non sembra superare la quarantina mentre, all'epoca
in cui dovrebbe essere stato eseguito il ritratto, Casanova era vicino ai
cinquant'anni. Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove
opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in Casanova,
la passion de la liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF, ,
Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France/Seuil, pag.68-71. Su
Alessandro Longhi si veda l'amplissimo studio di Paolo Delorenzi (consultabile
su Ca' Foscari online). In particolare a pag. 237 vengono riassunte le vicende
del ritratto con richiami bibliografici a Ver Heyden De Lancey C., Les
portraits de Jacques et de François Casanova, «Gazette des Beaux-Arts», Bernier
G., Beau garçon, Casanova?, «L‟OEil», La questione è stata oggetto di un
cospicuo dibattito sul quale spesso ha pesato il giudizio moralmente negativo
circa la personalità dell'autore. Soprattutto al primo apparire di opere
critiche sulla questione, cioè alla fine dell'Ottocento, primi del Novecento,
si tendeva a separare la indiscussa validità storica delle Memorie, nel loro
complesso, dal giudizio di riprovazione morale nei confronti dell'autore e dei
passi delle memorie ritenuti sconvenienti. Posizione questa ad esempio assunta
da Benedetto Croce il quale si occupò ripetutamente di personaggi e vicende
casanoviane (si veda: Personaggi casanoviani in Aneddoti e profili
settecenteschi, ed. Sandron 1914) pur definendo le Memorie "un libro
osceno" (B.Croce, Salvatore di Giacomo e il canto del grillo in "la
Critica"). Col tempo il valore storico e letterario cominciò ad avere
sempre più numerosi sostenitori, come Ettore Bonora il quale scrisse ...fissati
i loro limiti. i Mémoires restano un libro eccezionale, rappresentativo
quant'altri mai del mondo settecentesco, un libro che, per la sua stessa
ricchezza di materiali quanto pochi altri, può rivelare a un lettore paziente
lo spirito della vecchia società che la Rivoluzione doveva distruggere
(E.Bonora Letterati, memorialisti e viaggiatori del Settecento, pag 717, citato
in ). Fonte: T. Iermano, Le scritture della modernità, citato in . Emblematico a questo riguardo è il caso del
romanzo utopistico Icosameron (Praga, 1788) che costituì un tale insuccesso
editoriale da minare definitivamente la già non florida situazione finanziaria
del Casanova. Malgrado gli sforzi dei volenterosi sottoscrittori, si accumulò
una perdita di duemila fiorini, secondo una nota autobiografica rinvenuta a
Dux, di ottocento zecchini secondo una lettera a Pietro Antonio Zaguri. Cifre
comunque di grande rilievo che costrinsero l'incauto scrittore e improvvisato
editore a ricorrere a prestiti usurari, dando in pegno i pochissimi beni
residui e perfino capi di vestiario (Fonte: Elio Bartolini Vita di Giacomo
Casanova, ed. Mondadori 1998, pag. 389 e seg.).
Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova. La redazione della
Confutazione fu soltanto uno dei tanti elementi della lunga strategia che
condusse all'ottenimento del perdono da parte delle autorità della Repubblica e
il consenso al ritorno in patria dell'esule, il che avvenne peraltro anni dopo.
La pubblicazione dell'opera fu sicuramente appoggiata da Girolamo Zulian il
quale, pur privo di parentele influenti, stava compiendo un percorso politico
lusinghiero e attraverso il sostegno a Casanova si aspettava di ottenere dai
patrizi che lo appoggiavano, alcuni dei quali molto influenti come i Memmo e il
procuratore Lorenzo Morosini, di essere aiutato a sua volta nel prosieguo della
carriera. Zulian era anche vicino ad ambienti massonici il che spiegava
ulteriormente il suo agire. Sul gruppo di patrizi che sosteneva le ragioni di
Casanova ed era fautore del perdono si veda Piero Del Negro, Il patriziato
veneziano nell'Histoire de ma vie, in L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova,
Michele Mari, cit. in , pag.25, 26 nota 90. Si veda inoltre la lettera di
Casanova a Zulian scritta da Lugano nel luglio del 1769, Epistolario di Giacomo Casanova, Piero Chiara, cit. in
bibl. pag. 105,106. Il brano, un
ritratto in prosa, fu intitolato dall'autore Aventuros. De Ligne riuscì a
cogliere con straordinaria esattezza e rendere con estrema obiettività gli
elementi del carattere del Casanova. Il passo può essere consultato qui
(Mémoires et mélanges historiques et littéraires, ed. Ambroise Dupont et C.
Parigi 1828). Su come Casanova
esercitasse il suo fascino sull'uditorio, con il racconto delle sue avventure,
vi è una testimonianza assai qualificata, per lo spessore del personaggio, che
è stata lasciata da Alessandro Verri il quale, in una lettera al fratello
Pietro, inviata da Roma nel 1771, scrive: ...V'è un certo uomo straordinario
per le sue avventure, per nome il signor Casanova, Veneziano: egli è
attualmente in Roma. Egli ha molto spirito e vivacità; ha viaggiato tutta
l'Europa...Fu posto nei camerotti a Venezia...gli riuscì di fuggire...Egli
racconta questa dolorosa anecdota della sua vita, successagli quindici anni or
sono, con tanto interesse e forza, come se gli fosse accaduta ieri... Alla
risposta del fratello, che avanzava dei dubbi sulla veridicità del racconto,
Alessandro replicava: ...Ultimamente gliel'ho sentita raccontare da lui stesso.
Egli ha tutta l'apparenza di dire la verità: scioglie le obiezioni, ed ha
un'eloquenza naturale ed ha una forza di passione che v'interessa
infinitamente.. Fonte: Riccardo Selvatico Cento note per Casanova a Venezia,
Furio Luccichenti ed. Neri Pozza 1997.
La lettera, datata Dux 8 aprile 1791 è consultabile in: G. Casanova,
Storia della mia vita ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag. 340 Alla morte di Casanova, il manoscritto
originale dell'Histoire, unitamente a quattro saggi, passò a Carlo Angiolini
che nel 1787 aveva sposato Marianna, figlia della sorella di Giacomo, Maria
Maddalena. Quest'ultima aveva lasciato Venezia raggiungendo la madre Zanetta a Dresda,
dove aveva sposato l'organista di corte Peter August. Il manoscritto e i
quattro saggi furono venduti, nel 1821, all'editore Brockhaus. Il 18 febbraio ,
il ministro francese della cultura, Frédéric Mitterrand, ha annunciato
l'acquisto del manoscritto dell'Histoire e degli altri carteggi di proprietà di
Hubertus Brockaus, da parte della Bibliothèque nationale de France. Molti studiosi hanno analizzato, parola per
parola, l'adattamento operato da Laforgue giungendo alla conclusione che si è
trattato di una vera e propria riscrittura. Un'interessante analisi della
questione è quella operata da Philippe Sollers (Il mirabile Casanova). L'autore
procede per exempla, indicando il passo com'era stato scritto da Casanova e la
versione di Laforgue, mettendo in luce la raffinatezza e la meticolosità con
cui era stata operata la trasformazione (o meglio manomissione) dell'intera
biografia, al duplice fine di ammorbidire i passaggi ritenuti troppo licenziosi
e modificare l'ideologia dell'autore, attenuando o eliminando le affermazioni
che mostravano, ad esempio, l'animosità nei confronti del popolo francese e dei
crimini (tali Casanova li giudicava) di cui si era reso responsabile durante la
rivoluzione, cosa diffusa tra molti intellettuali dell'epoca, anche non espressamente
conservatori comunque legati al vecchio mondo, (come Vittorio Alfieri, nella
Vita scritta da esso e nel Misogallo).
G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001, I pag. 733, cit. in bibl. A questo proposito de Ligne scrive ...le sue
memorie, il cui cinismo,tra l'altro, pur essendo il loro più grande pregio,
difficilmente le renderà pubblicabili. (C.J. de Ligne, Aneddoti e ritratti,
pag. 189, cit. in bibl.), Illuminante, a
questo riguardo, il passo di una lettera datata 20 febbraio 1792, inviata da
Casanova a Giovanni Ferdinando Opiz in cui lo scrivente dichiara: Per ciò che
riguarda le Mie Memorie, più l'opera va avanti più mi convinco che è fatta per
essere bruciata. Da questo potete capire che fin quando saranno in mie mani non
verranno certo pubblicate. Sono di una tale natura di non far passare la notte
al lettore; ma il cinismo che vi ho messo è tanto spinto che passa i limiti
posti dalla convenienza all'indiscrezione (Fonte: Epistolari 1759-1798 di
Giacomo Casanova, Piero Chiara, ed. Longanesi & C.) Si veda in Giacomo Casanova tra Venezia e
l'Europa, Gilberto Pizzamiglio, Editore Leo O. Olschki 2001, pag. 171, cit. in
bibl. G. Casanova, Storia della mia
vita, Mondadori, Piero Chiara/ L'affermazione si legge nella prefazione dell'Histoire
(Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit
original,....Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol I, pag 10). Quindi la scelta
sarebbe stata orientata soltanto dalla possibilità di maggiore diffusione
dell'opera. Ma il pensiero dell'autore viene chiarito, ampliato e approfondito
nella cosiddetta “Prefazione rifiutata” (Pensieri libertini, F. Di Trocchio,
cit. in bibl. Pag. 55), Casanova dice Ho scritto in francese, perché nel paese
dove mi trovo, questa lingua è più conosciuta di quella italiana; perché, non
essendo la mia un'opera scientifica, preferisco i lettori francesi a quelli
italiani; e perché lo spirito francese è più tollerante di quello italiano, più
illuminato nella conoscenza del cuore umano e più rotto alle vicissitudini
della vita. Come si vede, la scelta andava ben al di là di un problema di
diffusione. Stendhal fa, nella sua
opera, numerosi riferimenti a Casanova e all'Histoire cfr. Promenades dans Rome,
Paris, Levy/ Sul punto si veda anche Furio Luccichenti Il casanovismo fra
Ottocento e Novecento in L'histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari
cit. in bibl. pag. 383. Foscolo, durante
il soggiorno londinese, recensiva opere di autori italiani. A proposito dell'Histoire
casanoviana scrisse, in due diverse occasioni (sulla Westminster review
dell'aprile 1827 e sulla Edinburgh review del giugno dello stesso anno), che il
protagonista era di pura fantasia e le vicende narrate completamente
inventate. Balzac si ispirò largamente
alle Memorie casanoviane utilizzando personaggi, nomi ed episodi per
l'ambientazione veneziana delle sue opere, come nel caso di Facino Cane o per
desumere spunti narrativi, come nel caso di Sarrasine. Sul punto si veda
Raffaele de Cesare Balzac e Manzoni e altri studi su Balzac e l'Italia,
Mondadori. Molte parti del libro, comprese le pagine indicate con relativa
note, sono consultabili on line. Sempre sui collegamenti tra l'opera
casanoviana e Sarrasine si veda L'histoire de ma vie di Giacomo Casanova,
Michele Mari, cit. in bibl. pag. 95 nota 5 con rimando a J.R. Childs,
Casanova. Biographie nouvelle, pag. 64. Ed. Jean-Jacques Pauvert, Paris
1962 Hofmannstahl nel 1898 è a Venezia e
scrive al padre: ..mi sono comprato le Memorie di Casanova dove spero di
trovare un soggetto. Il soggetto fu il Casanova stesso, rappresentato nella
commedia L'avventuriero e la cantante (1899) (Fonte: L'avventuriero e la
cantante con postfazione di Enrico Groppali, ed. SE). Schnitzler scrisse varie opere ispirate alla
vita dell'avventuriero, tra cui Le sorelle ovvero Casanova a Spa (ed. Einaudi)
e Il ritorno di Casanova (ed. Adelphi).
Hesse scrisse il racconto La conversione di Casanova (ed. Guanda 1989)
che fu pubblicato nel 1906. Márai
scrisse il romanzo La recita di Bolzano (ed. Adelphi), pubblicato a Budapest,
che ha come protagonista l'avventuriero veneziano. Salvatore di Giacomo "Casanova a
Napoli" in Nuova antologia 1922.
Benedetto Croce "Aneddoti di varia letteratura", Napoli 1942.
"Di un cantastorie del Settecento e di un luogo delle Memorie di Giacomo
Casanova" opera il cui autografo di sei pagine è andato all'asta a Milano
il 21.5.92. Piero Chiara curò per
Mondadori (1965) la prima edizione italiana basata sul manoscritto originale
delle Memorie, scrisse un saggio Il vero Casanova, Mursia (1977) e molti
articoli sull'argomento. Scrive Casanova
in una lettera all'Opiz Scrivo dall'alba alla sera e posso assicurarvi che
scrivo anche dormendo, perché sogno sempre di scrivere. (Fonte: Piero Chiara Il
vero Casanova, Mursia 1977, pag.209).
Tra le altre si veda Margherita Sarfatti, Casanova contro Don Giovanni,
ed. Mondadori (1950), citata in . La
tesi è esposta in modo articolato da Francis Lacassin (Jacques Casanova de
SeingaltHistoire de ma vie. Ed. Robert Laffont, I, Préface, pag. X). Di questo avviso Piermario Vescovo (Il mondo
di Giacomo Casanova, pag. 187, , ed. Marsilio 1998, citato in bibl.).
Un'analisi particolarmente approfondita si deve ad Andrea Fabiano il quale
esamina, in dieci tesi, tutti i motivi che rendono probabile la partecipazione
(Giacomo Casanova tra Venezia e l'Europa, G. Pizzamiglio, ed. Leo S. Olschki
2001, pag. 273 e seg.). In sostanza è stato osservato che Da Ponte e Casanova
si conoscevano e frequentavano, che Casanova era certamente presente a Praga
nei giorni che precedettero la prima, che sia lui che Mozart erano massoni, che
una serie d'incidenti aveva procrastinato la rappresentazione, costringendo a
varie modifiche del testo per manifesta insoddisfazione di alcuni cantanti, che
Casanova era stato sempre molto vicino per gusti e frequentazioni al mondo
teatrale e autore egli stesso di opere di teatro quindi perfettamente in grado
di apportare le modifiche necessarie. Inoltre sembra assai improbabile che,
rientrato a Dux, si mettesse a ipotizzare varianti al testo del libretto per
puro passatempo. Sull’argomento si veda
lo studio di Furio Luccichenti, in L'intermédiaire des casanovistes, Genève
Année XVII 2000, pag. 21 e seg. In cui vengono minuziosamente riferite le
ricerche effettuate, senza esito, nell'Archivio vaticano. Lettere a G.C.
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Libertino (personaggio) Storia della mia fuga dai Piombi Manon Balletti
Silvia Balletti Matteo Bragadin Francesco Casanova Gaetano Casanova Giovanni
Battista Casanova François-Joachim de Pierre de Bernis Zanetta Farussi Michele
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Giacomo Casanova, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. (IT, DE, FR) Giacomo Casanova,
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Manoscritto originale dell'Histoire de ma vie su Gallica, su gallica.bnf.fr. Sito della BNF con notizie sul manoscritto e
iconografia, su expositions.bnf.fr.
Testo dell'Histoire de ma vie edizione 1880, su
www-syscom.univ-mlv.fr.Testo dell'Histoire de ma vie edizione integrale in
inglese, su hot.ee. Filosofi italiani. Aspetti poco noti della vita di Casanova
vengono portati alla luce della recente consultazione dei documenti inediti
custodii nell'archivio storico Waldstein a Praga. Emergono cosi' nuove
testimonianze che non solo confermano il suo straordinario fascino esercitato
sulle donne ma rivelano anche che il libertino veneziano ebbe in incontri
sessuali con uomini. Ad esempio si cita i ripetuti rapporti con un uomo in
maschera con cui fa un esplicito giocco erotico. Partendo da verifiche sull'opera
autobiografica ''Storia della mia vita'', in cui descrive, con la massima
franchezza, le sue avventure, i suoi viaggi e i suoi innumerevoli incontri
galanti. Si ipotizza che ha rapporti sessuali (o 'conversazioni') con almeno
una ventina di uomini. La prima testimonianza di un rapporto sarebbe legata
alla sua adolescenza, quando, in seminario, dove studia per diventare prete, fu
scoperto a letto con un uomo, cosa che costa a Casanova l'espulsione del
seminario. Ma il numero di uomini con cui Casanova e' stato a letto non e'
significativo. E' molto piu' importante sottolineare il *modo* in cui Casanova
racconta le sue avventure sessuali con un uomo. E' il primo a sottolineare la
qualita' del godimento, ad affermare l'idea che la comprensione del sesso e' la
chiave per una comprensione di se'. Oggi, dopo oltre un secolo di dottrina
psicoanalitica freudiana, cio' puo' apparire normale, ma nel secolo XVIII non
lo era affatto. E questo e' un grande merito di Casanova.L’ultimo amore di
Casanova: Una grande storia d'amorebooks.google.com › books· Translate this
page Fausto Bertolini · 2021 FOUND INSIDE ai tempi di Padova e ai giorni delle
lezioni dell'abate Gozzi, che l'aveva istruito con amore per avviarlo al
sacerdozio, e con un po' più di passione e di attenzione se lo era portato a
letto per iniziarlo alla pratica omosessuale che Casanova si ... – Grice: “His
first experience was with a Venetian nobleman; his second one cost him the
expulsion from the seminary – Altham alleges he (Casanova, not Altham) slept
with “at least” twenty males!” – Grice: “Altham’s favourite is the description
of the ‘erotical game’ as masked in Venice -- Giacomo Casanova. Keywords.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casanova: conversazione sessuale, conversazione
e conversazione” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51775479910/in/dateposted-public/
Grice e Casati – Eurialo e Niso; ovvero, dell’amicizia –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I like Casati; he
is from Milano, and therefore, as the Italians say, intelligent! – or ‘clever’”
– His dissertation is on ‘shadow’ as used by Plato to explain that there’s
‘man,’ and “man” and the idea of “man,” so the thing is the thing, but the idea
stands for the thing, and the expression stands for the thing that stands for
the thing! But he has also explored ‘amicizia’, as in the case of Oreste’s
alter ego, ‘Pilade,’ – also into the philosophy of sports – in sum, a typical
Renaissance man of a philosopher, as he should!” Studia a Milano con
Bonomi. Pubblica la raccolta di racconti filosofici Il caso Wassermann e altri
incidenti metafisici (Laterza). Si occupa di fenomenologia dello spazio e
degli oggetti. Analizzato la rappresentazione di questi due elementi secondo il
senso comune. Buchi e altre superficialità (Garzanti), e Semplicità
insormontabili (Laterza). Buchi e altre superficialità è un tentativo di
analizzare i diversi tipi di buco, superando il paradosso di classificare un
elemento che evoca l'assenza, il vuoto e il nulla. Utilizza strumenti di
filosofia della percezione, geometria, logica e topologia, ma anche linguistica
e letteratura. Un esperimento epistemologico che dimostra come l'esperienza e
il linguaggio quotidiani si trasformino quando diventano oggetto di un'indagine
filosofica e di una formalizzazione scientifica. Un concetto che sembra
semplice, di uso quotidiano, diventa sfuggente e ambiguo. Tra i suoi
principali contributi si annoverano la teoria della filosofia come arte del
negoziato concettuale; la teoria 'conversazionale' degli artefatti. Tra i
contributi alla metafisica analitica: la teoria dei suoni come eventi
localizzati, la regione spaziale immateriale, la struttura parte/intero
totto -- -- nel dominio degli oggetti materiali, la teoria del futuro "strizzato"
nella metafisica del tempo (cf. Grice/Myro). Studia il fenomeno percettivo
delle ombre e il loro contributo alla ricostruzione delle scene tridimensionali
grazie alla scoperta di doppie dissociazioni nella rappresentazione delle ombre
(ombre corrette che appaiono sbagliate, ombre sbagliate che appaiono corrette),
scoprendo o prevedendo svariate illusioni percettive (l'illusione
"copycat", l'illusione di Lippi, l'illusione della doppia ombra, la
cattura delle ombre, le ombre delle ombre, il mascheramento delle ombre, le
ombre di oggetti non materiali). Una parte della sua ricerca ha riguardato il
modo in cui l'ombra è stata rappresentata nella pittura ed è stata usata per il
ragionamento geometrico, in particolare in astronomia (La scoperta dell'ombra).
Un'altra linea di ricerca riguarda gli artefatti cognitivi. I risultati
principali in questo settore sono la prima e finora unica semantica formale per
le mappe, una sintassi e una semantica per la notazione musicale standard, la
teoria dei "micro crediti" nelle pubblicazioni scientifiche, e una
teoria generale dei vantaggi cognitivi degli artefatti rappresentativi. Autore
di un progettodenominato Wikilexper l'uso di strumenti wiki nella scrittura
normativa, in un contesto di democrazia partecipata. La sua Prima Lezione
di filosofia difende una concezione della filosofia come arte del negoziato
concettuale. Da questa tesi discende che la filosofia è molto diffusa nella
società e nella scienza anche al di fuori dell'ambito accademico che le è
proprio, che non esistono problemi filosofici fuori dal tempo e dalla storia,
che non c'è un canone filosofico né un modo canonico di insegnare la filosofia.
Altre opere: “L'immagine. Introduzione ai problemi filosofici della
rappresentazione, La Nuova Italia); Buchi e altre superficialità, Garzanti); La
scoperta dell'ombra, Arnoldo Mondadori Editore, Laterza); Semplicità
insormontabili: 39 storie filosofiche (Laterza); Il caso Wassermann e altri
incidenti metafisici, Laterza); Il pianeta dove scomparivano le cose. Esercizi
di immaginazione filosofica (Einaudi); Prima lezione di filosofia, Laterza);
Contro il colonialismo digitale: istruzioni per continuare a leggere,
Laterza); Dov'è il sole di notte? Lezioni atipiche di astronomia, Raffaello
Cortina); L'incertezza elettorale, Aracne Editrice); Semplicemente diaboliche.
100 nuove storie filosofiche, Laterza); La lezione del freddo, Einaudi). Isola
di Arturo-Elsa Morante. Stramaledettamente logico. ELEMENTI DI UNA TEORIA DELL'
IMMAGINE. L'IMMAGINE COME OGGETTO MATERIALE. Paradigma e definizione.
Materialità e causalità. Soggettività e realismo. L'OGGETTO DELLA VISTA E
L'OGGETTO VISIVO. Le caratteristiche del mondo visivo. L'oggetto visivo. Ombra.
Casi limite: trasparenza, riflesso, specchio. Vedere un oggetti materiali: la
nozione di aspetto.Vedere una cosa muovendosi. Sguardo. IMMAGINE E PERCEZIONE
DELL' IMMAGINE. L'immagini come medio percettivio. Aspetto ed immagine.
L'Illusorio, il pre-sentativo, realismo. Le forme del realismo e il problema dello
spettatore. Intenzione, convenzione, somiglianza. In favore della teoria della
somiglianza Somiglianza e rappresentazione. Alcuni casi limite.
Contro la teoria della somiglianza. La complessità della percezione
dell'immagine. Immagine ed im- maginazione. Vedere-come, vedere-in. LO SPAZIO
NELL' IMMAGINE. Vivere nell'immagine. Direttrice, orizzonte, visione canonica e
scorciatura. La continuità degli spazi. Punti di vista da nessun luogo. QUADRO
E SCENA. Patologia dell'immagine: l'immaginazione e la storie percettiva.
L'INDICALITÀ E IL PROBLEMA DELL'AUTO-RITRATTO. Dizionario iconografico. Quadro
ed eticheta. Indicali. Verso una soluzione: lo specchio nel quadro. Alcuni
esempi. Quadro nel quadro. L'IMMAGINE NELL' IMMAGINE. Contesto di
interpretazione. Iterazione. Scena e immaginatori. Credenza iterata. Cornice e
finestra. Cornice ed aspetto. Relazioni causali. Iterazione ridondante. I
CONFINI DELL' IMMAGINE. Il Paradosso del vedere. L'implicatura di Escher e il
fondamento della rappresentazione. L'implicatura di Magritte: rappresentare e
immaginare. PROBLEMI APERTI. Gerarchia concettuale e gerarchia estetica. IL
PRIMATO DELLA RAPPRESENTAZIONE. L'annullamento dell'immagine nella materialità.
La geometria dell'espressione. La dissoluzione della rappresentazione. Lo Stilo
rappresentativo. Forma e contenuto; tema e mezzi di esplicitazione. L'IMMAGINE
E IL SEGNO. La metafora euristica del segno e la comunicazione. Critica.
Riferimento e generalità. La teoria che Grice e Casati propongono può
chiamarsi teoria meta-cognitiva dello spunto per la conversazione -- ma
‘conversazione’ è qui un segna-posto per candidati alternativi. La teoria di
Grice e Casati sostiene che un artefatto (segno artificiale, non-naturale --
'che p') e un oggetto prodotto con lo scopo precipuo essere ri-conosciuto come
emesso in base all’intenzione di profferire una espressione che... – dove si
può immaginare vari modi di riempire lo spazio lasciato vuoto dai puntini di
sospensione. Un modo di riempire lo spazio vuoto è il seguente. Una emissione
conversazionale è un oggetto con lo scopo precipuo di essere riconosciuti come
creati in base all’intenzione di creare un oggetto che servisse a suscitare una
qualche conversazione sulla loro produzione. Cominciamo con lo sgombrare il
campo da possibili equivoci. Un’obiezione semplice è che “molte cose vengono
create con lo scopo di suscitare una conversazione, e queste non sono opere
d’arte, come per esempio la produzione di gesti che conducono alla
disseminazione di pettegolezzi, o affermazioni roboanti sulla stampa”.
L’obiezione non coglie nel segno in quanto la teoria metacognitiva dello spunto
conversazionale non dice che le opere d’arte vengono create con l’intenzione di
suscitare una conversazione. Di fatto la teoria è compatibile con l’ipotesi che
le opere d’arte non vengano create con l’intenzione di suscitare una
conversazione. L’intenzione pertinente è un’altra: è l’intenzione di creare
oggetti che vengano riconosciuti (per esempio, in virtù di certe
caratteristiche fisiche) come creati allo scopo di suscitare una conversazione.
È irrilevante per la soddisfazione di questa intenzione se vi sia un’intenzione
di suscitare una conversazione, o se una conversazione venga poi effettivamente
suscitata 4 . Vediamo subito anche alcune conseguenze immediate, tenendo
presente il fatto che i due competitori diretti della teoria sono la teoria
della comunicazione e quella dell’intenzione artistica, laddove la prima
compete sull’aspetto sociale, e la seconda in quanto teoria intenzionale.
Secondo la teoria metacognitiva dello spunto conversazionale i prodotti
artistici non servono per una “comunicazione” semplice tra l’artista e il
pubblico – non sono latori di “messaggi” nel senso della teoria della
comunicazione. Sono piuttosto oggetti che hanno un legame preciso con
l’attenzione, che devono attrarre (quindi, anche se sono oggetti utilitari,
devono far coesistere questo fatto con una sovrapposizione di altri elementi
che vanno al di là dell’uso), il tutto all’interno di un contesto sociale in
cui potrebbero venir usati come oggetto di discussione in quanto sono
riconosciuti come tali. Questa ipotesi permette di inquadrare alcuni dei fatti
poc’anzi elencati. Va notato che la teoria non dice che l’artista debba creare
l’opera sulla base della formulazione di un’intenzione di inserirsi in una
conversazione specifica (che è molto probabilmente quella comune nella sua
epoca), ma dice piuttosto che l’opera deve essere in grado di esser vista come
creata allo scopo di inserirsi in una conversazione qualsiasi. Questo fatto
impone dei vincoli importanti sulla struttura delle opere d’arte. Si tratta di
oggetti che devono portare dei segni chiari dell’intenzione che li ha animati.
4 La teoria metacognitiva sembra tagliata su misura per performances
artistiche come le opere di Duchamp. In realtà se la teoria è vera certe opere
d’arte sono particolarmente interessanti proprio perché rendono espliciti gli
aspetti impliciti di tutte le opere d’arte. 17 La teoria spiega perché i
prodotti artistici riescono a sopravvivere al tempo (se ci si pensa bene,
questa sopravvivenza è un fatto molto strano, e comunque poco compatibile con
l’idea che i prodotti artistici contengano un messaggio.)5 Passano il test del
tempo perché la capacità di essere riconosciuti come creati allo scopo di
suscitare una conversazione non dipende dalle contingenze specifiche di questa
o quella conversazione, ma dai parametri generici che regolano la nostra
capacità di inserirci in una conversazione, di generarla, di mantenerla. Anche
quando non è più possibile conoscere i termini della conversazione in cui il
prodotto avrebbe inizialmente dovuto inserirsi come stimolo, resta comunque la
possibilità di recuperare il prodotto all’interno di una nuova conversazione.
In modo simile, le teoria spiega perché le opere d’arte passano il test dello
spazio, ovvero possono venir apprezzate da comunità che sono distanti dalla
comunità originale del creatore. La teoria spiega perché i prodotti artistici
hanno l’aspetto che hanno. I prodotti artistici devono risolvere svariati
problemi - massimizzare la novità - attrarre l’attenzione (essere
sufficientemente differenti da artefatti utilitari) - essere sufficientemente
complessi (per via della loro forma apparente, o per via della storia della
loro origine) da massimizzare la possibilità di venir utilizzati come spunti di
conversazione in quanto li si è riconosciuti come tali. La teoria spiega le
fluttuazioni di valore estetico ed economico dei prodotti artistici. Non basta
avere delle buone qualità per essere un buono spunto di conversazione: deve
anche esserci una conversazione per cui tale qualità può venir rilevata. La
teoria spiega perché i prodotti artistici sopravvivono, sono soggetti a effetti
di moda, e muoiono (laddove la maggior parte delle latre teorie impone cesure
irriconciliabili tra grande arte e arte demotica). La teoria conversazionale
spiega l'origine dell'arte e degli artefatti artistici. L’arte non è stata
inventata. Le opere d'arte sono state scoperte, nel senso che si è visto che
certi artefatti erano produttori di interazioni sociali e davano al loro autore
un credito che questi poteva riutilizzare in altre produzioni. Solo in seguito
si è cristallizzata l’intenzione di produrre oggetti che soddisfassero certi
requisiti. La teoria spiega perché gli oggetti utilitari possano essere opere
d'arte (come nel caso dell'architettura, che alcune estetiche puriste cercano
di espungere dal novero dell'arte.) 5 Riprendo nel seguito ed espando
alcuni elementi da Casati 2002. 18 Spiega l'esistenza di gradi di artisticità,
e del perché certe cose siano considerate arte da alcuni, non arte da altri
(sono predicati estrinseci con un fondamento nel lavoro che l'artista ha
profuso per rendere un certo oggetto massimalmente “conversazionabile”). La
teoria spiega perché gli artisti amano parlare del loro lavoro e corredarlo di
spiegazioni (questo è particolarmente arduo da spiegare in una teoria della
comunicazione o dell’espressione). La teoria spiega perché i quadri hanno le
etichette e i pezzi di musica dei titoli. La teoria spiega perché le opere
d’arte vengono acquistate senza alcun riguardo per l’autore, come inviti alla
conversazione scollegati dalla persona dell’autore. La teoria è compatibile con
svariate strategie che possono venir messe in atto dagli artisti perché l’intenzioe
che è alla base dell’opera vada a buon fine: sospensione delle routines (Bullot
2002), esposizione in spazi privilegiati, ecc. Per finire, dato che la teoria
ipotizza che gli artisti producano con un occhio di riguardo alle possibili
conversazioni sulla loro opera, questo permette di risolvere, in modo del tutto
immediato, il problema dell’unità del genere opera d’arte. Le opere d’arte sono
oggetti creati con lo scopo precipuo di rendere possibile una conversazione. La
clausola principale è metarappresentazionale: l’autore deve avere un’intenzione
appropriata di creare un’opera che sia riconoscibile come... La clausola
esclude casi in cui certi artefatti siano di fatto moneta per lo scambio
conversazionale, come le teorie matematiche, senza essere opere d’arte. Dove
interviene lo studio della cognizione nella teoria conversazionale? Nel fatto
che non tutti i soggetti sono riconoscibili come creati allo scopo di fornire
spunti per la conversazione. Studiare i vincoli normativi sul successo dell’intenzione
meta-conversazionale permetterà di fare interessanti predizioni empiriche sul
contentuto e la forma degli artefatti astistici. Un progetto di ricerca, una
antropologia della visita museale, potrebbe essere un primo passo in questa
direzione. Che cosa dice chi passa davanti a un quadro in un museo? Conclusione
La teoria metacognitiva dello spunto conversazionale rappresenta un’ipotesi che
cerca di rendere giustizia dell’unità delle nostre intuizioni su che cosa è
un’oggetto artistico di fronte all’estrema varietà degli oggetti artistici e
all’estrema varietà delle risposte che tali oggetti suscitano. Anche se è una
teoria che si situa nella regione della dipendenza della risposta, non non è
una teoria della riposta estetica – le risposte estetiche sono un tipo di
risposte agli oggetti artistici, e si applicano anche a oggetti non artistici.
Non è quindi una teoria del bello, come del resto ci si dovrebbe aspettare di
fronte al fatto che i giudizi estetici possono variare a fronte del 19
riconoscimento che quello che alcuni giudicano bello e altri brutto resta
un’opera d’arte. Un altro fattore importante di questa teoria è che considera
le opere d’arte come oggetti creati con una funzione specifica, e la cui forma
dipende da questa funzione; una funzione che richiede un’intuizione di
controllo il cui contenuto è sociale e metacognitivo. Anche se la teoria
metacognitiva non non è certamente l’ultima parola su che cosa fa di un certo
oggetto un’opera d’arte, si tratta di un’ipotesi che mi sembra sufficientemente
articolata per fare predizioni empiriche precise (per esempio, riconoscere un
oggetto come opera d’arte attiverebbe aree cerebrali deputate alla cognizione
sociale). Queste predizioni non sono però al momento inquadrate in un’ipotesi
comprensiva dei meccanismi soggiacenti: si potrebbe certo sostenere che esiste
uno pseudo-modulo per le intuizioni artistiche che recluta componenti sociali e
componenti percettive. Tuttavia la struttura e la natura degli pseudo-moduli
richiede una considerazione metodologica a sé stante. Casati, R.,“L'unità del
genere opera d'arte. Rivista di Estetica. Formaggio, D. 1990 L'arte come idea e
come esperienza. Milano: Mondadori. Zeri, F., intervistato su La repubblica.
Luigi Speranza, "Gilbert Proebsch e George Passmore", Luigi Speranza,
"Kosuth" -- Luigi Speranza, "Keith Arnatt" -- Luigi
Speranza, "Unità etica ed unità emica" -- Luigi Speranza,
"Fenomenologia" -- Luigi Speranza, "Concettualismo".
Roberto Casati. Keywords: Eurialo e Niso; ovvero, dell’amicizia, “la
conversazione come arte del negoziato”; teoria conversazionale dell’artifatto,
segno, comunicazione, imagine, intenzione, Grice, Ricominiciamo da capo –
logico, stramaledettamente logico – implicatura come stramaledettamente logica --
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casati” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51775216784/in/dateposted-public/
Grice e Casini – naturismo –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I
like Casini – he takes, unlike me, physics seriously! But then so did Thales,
according to Aristotle! – At Clifton we did a lot of ‘physical’ rather than
‘metaphysical’ education!” – Linceo. Studia a Roma sotto Nardi, Antoni, e
Chabod. Si laurea sotto Spirito (disc. Gregory) con “L'idea di natura”.
I suoi interessi di ricerca in storia della filosofia si sono
successivamente estesi all'intreccio tra filosofia e scienze sperimentali nel
Settecento, soprattutto attorno alla figura di Isaac Newton e alla diffusione
della sintesi newtoniana nella cultura filosofica europea, a proposito di
filosofi come D'Alembert, Buffon, Maupertuis, Clairaut, Eulero, non senza tener
conto dell'opera divulgativa di Voltaire, fino a collocare in tale contesto
Kant. Insegna a Trieste, Bologna, e Roma. Le sue ricerche riguardano
Diderot e la filosofia dell'illuminismo, i nessi tra rivoluzione scientifica e
riflessione filosofica, l'origine e diffusione della fisica di Newton, le
vicende del mito pitagorico tra "prisca philosophia" e "antica
sapienza italica", le dispute sorte attorno al darwinismo. Altre
opere: “Diderot "philosophe", Laterza); Mecanicismo --
L'universo-macchina: origini della filosofia newtoniana, Laterza); Rousseau,
Laterza); Introduzione all'illuminismo, Laterza -- razionalismo); Newton
e la coscienza europea (Il Mulino); “Progresso ed utopia” (Laterza); “L'antica
sapienza italica. Cronistoria di un mito” (Il Mulino); “Hypotheses non fingo”
(Edizioni di Storia e Letteratura); “Alle origini del Novecento:
"Leonardo", rivista filosofica di Firenze (Il Mulino); Il concetto di
creazione (Il Mulino). La lista di autorità e l’accenno alla
filosofia nazionale preludono al Platone. --Paolo Casini. Si tratta
di un saggio dedicato all'evoluzione del mito pitagorico nella cultura europea.
Senza cadere mai nella rassegna erudita, l'autore segue passo passo le
trasformazioni del mito dalla sua prima incarnazione nella cultura romana alla
riscoperta operata nel Rinascimento, alle discussioni
storico-archeologiche e alle strumentalizzazioni politiche del Sette-Ottocento.
Giuseppe Bottai o delle ambiguità
(Un'erma bifronte - Leader revisionista - Nella babele corporativa - La guerra
di Pisa - «Starci con la mia testa» - Apologia – Espiazione) - 2. Ugo Spirito:
«scienza» e «incoscienza» (Una teoresi postidealista - Teorico dell'economia
corporativa - Il «bolscevico» epurato - «Mutevolezza e instabilità» -
«Scienza», «ricerca», «arte» - Guerra e Dopoguerra - Alla ricerca del padre) -
3. Camillo Pellizzi: il fascio di Londra e la sociologia (Genius loci - Tra
Roma e Londra - Pax romana in Albione - «Aristòcrate» - Dottrina del fascismo -
Il postfascismo e la «rivouzione mancata» - Verso la sociologia) - 4. I doni di
Soffici («Si parla» - «Scoperte e massacri» - Sguardi retrospettivi: tragedia e
catarsi - Docta ignorantia - «Commesso viaggiatore dell'assoluto» - Genus
irritabile vatum - Un dialogo tra sordi - Amici e nemici) - 5. Un autoritratto
(A metà ventennio – Riflessi - Tra casa e scuola - Agrari in Toscana - I primi
pedagoghi - L'Istituto Massimo sj - Vinceremo! - Il passaggio del fronte –
Dopoguerra - Scuola a Firenze - Al Liceo Tasso) - 6. Studium Urbis (Gli anni
Cinquanta - Nardi e Chabod - Eredità idealistiche - Ideologie in crisi –
Diderot - Roma, gli amici - Savinio, Carocci - La naja – Intermezzi - Olivetti,
Ivrea - La "cultura" della RAI – Let Newton Be - Anni di prova) -
Indice dei nomi Order Zoogonia e "Trasformismo" nella
fisica epicurea Giornale Critico Della Filosofia Italiana 17 (n/a): 178. 1963.
Like Recommend Bookmark L'universo-Macchina Origini Della Filosofia Newtoniana
Laterza. 1969. 1 citation of this work Like Recommend Bookmark 10 Zev
Bechler, Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific
Revolution. Boston Studies in the Philosophy of Science 127. Dordrecht: Kluwer
Academic Publishers, 1991. Pp. xviii + 588. ISBN 0-7923-1054-3. £103.00,
$189.00, Dfl. 300.00 (review) British Journal for the History of Science 27
(2): 229-230. 1994. Like Recommend Bookmark 6 The "Enciclopedia
italiana". Fringes of ideology Rivista di Filosofia 99 (1): 51-80. 2008.
Political Theory Like Recommend Bookmark Éléments de la philosophie de Newton
(review) British Journal for the History of Science 26 (3): 360-361. 1993.
Isaac Newton Like Recommend Bookmark 10 Rousseau e l'esercizio della
sovranità Rivista di Filosofia 104 (2): 285-294. 2013. Jean-Jacques Rousseau
Like Recommend Bookmark 9 Il momento newtoniano in Italia: un
post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia 2. 2006. Like Recommend
Bookmark 5 Newton in Prussia Rivista di Filosofia 91 (2): 251-282. 2000.
Isaac Newton 1 citation of this work Like Recommend Bookmark 27
François-Marie Arouet de Voltaire, Éléments de la philosophie de Newton,
critical edition by Robert L. Walters and W. H. Barber. The Complete Works of
Voltaire, 15. Oxford: Voltaire Foundation, Taylor Institution, 1992. Pp. xxii +
850. ISBN 0-7294-0374-2. No price given (review) British Journal for the
History of Science 26 (3): 360-361. 1993. 17th/18th Century French Philosophy
Like Recommend Bookmark Lo spettro del materialismo e la "Sacra
famiglia" Rivista di Filosofia 17 261. 1980. Like Recommend Bookmark Lumi
e utopie in uno studio di Bronislaw Baczko Rivista di Filosofia 13 109. 1979.
Like Recommend Bookmark 21 The New World and the Intelligent Design
Rivista di Filosofia 100 (1): 157-178. 2009. Anti-Darwinist ApproachesDesign
Arguments for Theism Like Recommend Bookmark Scienziati italiani del Seicento e
del Settecento Rivista di Filosofia 75 (3): 457. 1984. Like Recommend
Bookmark 9 Kant e la rivoluzione newtoniana Rivista di Filosofia 95 (3):
377-418. 2004. Kant: Philosophy of Science Like Recommend Bookmark » Ottica,
astronomia, relatività: Boscovich a Roma (1738-1748).« Rivista di Filosofia 18
354-381. 1980. Like Recommend Bookmark Introduzione All'illuminismo da Newton a
Rousseau Laterza. 1973. Like Recommend Bookmark Newton e i suoi biografi Rivista
di Filosofia 84 (2): 265. 1993. Like Recommend Bookmark Diderot e Shaftesbury
Giornale Critico Della Filosofia Italiana 14 253. 1960. Like Recommend
Bookmark 9 L'iniziazione Pitagorica Di Vico Rivista di Storia Della
Filosofia 4. 1996. Like Recommend Bookmark Per Conoscere Rousseau with
Jean-Jacques Rousseau Mondadori. 1976. Jean-Jacques Rousseau Like Recommend
Bookmark Toland e l'attività della materia Rivista di Storia Della Filosofia 22
(1): 24. 1967. 17th/18th Century British Philosophy, Misc Like Recommend
Bookmark L'eclissi della scienza' Rivista di Filosofia 61 (3): 239-262. 1970.
Like Recommend Bookmark Rousseau, il popolo sovrano e la Repubblica di Ginevra
Studi Filosofici 1 (n/a): 77. 1978. Like Recommend Bookmark Il mito pitagorico
e la rivoluzione astronomica Rivista di Filosofia 85 (1): 7-33. 1994. Like
Recommend Bookmark Newton, Leibniz e l'analisi: la vera storia Rivista di
Filosofia 24 397. 1982. Like Recommend Bookmark 13 Francesco Bianchini
(1662-1729) und die europäische gelehrte Welt um 1700 Early Science and
Medicine 12 (1): 109-111. 2007. History of Science Like Recommend Bookmark
L'antica Sapienza Italica Cronistoria di Un Mito . 1998. Pythagoreans Like
Recommend Bookmark 16 Candide, Theodicy and the «Philosophie de l'Histoire»
Rivista di Filosofia 102 (3): 381-404. 2011. Voltaire Like Recommend
Bookmark 7 La filosofia a Roma Rivista di Filosofia 94 (2): 215-284.
2003. Like Recommend Bookmark Vico's initiation into the study of Pythagoras
Rivista di Storia Della Filosofia 51 (4): 865-880. 1996.
Pythagoreans Topic Order Teoria e storia delle
rivoluzioni scientifiche secondo Thomas Kuhn Rivista di Filosofia 61 (2): 213.
1970. Like Recommend Bookmark Il problema D'Alembert Rivista di Filosofia 1
(1): 26-47. 1970. Like Recommend Bookmark 5 Semantica dell'Illuminismo
Rivista di Filosofia 96 (1): 33-64. 2005. Like Recommend Bookmark George Cheyne
e la religione naturale newtoniana Giornale Critico Della Filosofia Italiana
383. 1967. Like Recommend Bookmark 1 Newton's Physics and the Conceptual
Structure of the Scientific Revolution (review) British Journal for the History
of Science 27 (2): 229-230. 1994. Isaac Newton Like Recommend Bookmark 1
Diderot and the portrait of eclectic philosophy Revue Internationale de Philosophie
38 (148): 35-45. 1984. Denis Diderot Like Recommend Bookmark 6
"Magis amica veritas": Newton e Descartes Rivista di Filosofia 88
(2): 197-222. 1997. Isaac Newton Like Recommend Bookmark La Natura Isedi. 1975.
Like Recommend Bookmark Voltaire, la geometria della visione e la metafisica
Rivista di Filosofia 87 (1): 83-94. 1996. Like Recommend Bookmark 9
Leopardi apprendista: scienza e filosofia Rivista di Filosofia 89 (3): 417-444.
1998. Like Recommend Bookmark 6 Studi stranieri sulla filosofia dei Lumi
in Italia Rivista di Filosofia 97 (1): 117-130. 2006. Like Recommend
Bookmark 1 Il metodo di Foucault e le origini della rivoluzione francese
Rivista di Filosofia 83 (3): 411. 1992. Like Recommend Bookmark Rousseau e
Diderot Rivista di Storia Della Filosofia 19 (3): 243. 1964. Like Recommend
Bookmark Diderot « philosophe » Revue Philosophique de la France Et de
l'Etranger 162 324-324. 1972. Continental Philosophy 1 citation of this work
Like Recommend Bookmark Newton: gli scolii classici Giornale Critico Della
Filosofia Italiana 1 (1): 7. 1981. Like Recommend Bookmark La ricerca
embriologica in Italia da Malpighi a Spallanzani Rivista di Filosofia 78 (1):
137. 1987. 1 citation of this work Like Recommend Bookmark L'empirismo e la
vera filosofia: il caso Scinà Rivista di Filosofia 80 (3): 351. 1989. Like
Recommend Bookmark The Newtonian moment in Italy: A post-scriptum Rivista di
Storia Della Filosofia 61 (2): 299-316. 2006. Classical Mechanics Like
Recommend Bookmark 6 James, Freud e il determinismo della psiche Rivista
di Filosofia 93 (1): 65-88. 2002. Sigmund Freud Like Recommend Bookmark 1
Stanley Grean: Shaftesbury's philosophy of religion and ethics. A study in
enthusiasm (review) Studia Leibnitiana 2 (n/a): 147. 1970. Like Recommend
Bookmark Herschel, Whewell, Stuart Mill e l'«analogia della natura» Rivista di
Filosofia 21 (3): 372-91. 1981. Like Recommend Bookmark 14 Newton: the
classical scholia History of Science 22 (1): 1-58. 1984. 1 reference in this
work 15 citations of this work Like Recommend Bookmark Diderot et le portrait
du philosophe éclectique Revue Internationale de Philosophie 38 (1): 35. 1984.
1 citation of this work Like Recommend Bookmark Morte e trasfigurazione del
testo Rivista di Filosofia 83 (2): 301. 1992. Like Recommend Bookmark L'universo-Macchina
Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. 1969. 1 citation of this work Like
Recommend Bookmark 10 Zev Bechler, Newton's Physics and the Conceptual
Structure of the Scientific Revolution. Boston Studies in the Philosophy of
Science 127. Dordrecht: Kluwer Academic Publishers, 1991. Pp. xviii + 588. ISBN
0-7923-1054-3. £103.00, $189.00, Dfl. 300.00 (review) British Journal for the
History of Science 27 (2): 229-230. 1994. Like Recommend Bookmark Éléments de
la philosophie de Newton (review) British Journal for the History of Science 26
(3): 360-361. 1993. Isaac Newton Like Recommend Bookmark 6 The
"Enciclopedia italiana". Fringes of ideology Rivista di Filosofia 99
(1): 51-80. 2008. Political Theory Like Recommend Bookmark 9 Il momento
newtoniano in Italia: un post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia 2.
2006. Like Recommend Bookmark 10 Rousseau e l'esercizio della sovranità
Rivista di Filosofia 104 (2): 285-294. 2013. Jean-Jacques
Rousseau Topic Order 5 Newton in Prussia Rivista
di Filosofia 91 (2): 251-282. 2000. Isaac Newton 1 citation of this work Like
Recommend Bookmark 27 François-Marie Arouet de Voltaire, Éléments de la
philosophie de Newton, critical edition by Robert L. Walters and W. H. Barber.
The Complete Works of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire Foundation, Taylor
Institution, 1992. Pp. xxii + 850. ISBN 0-7294-0374-2. No price given (review)
British Journal for the History of Science 26 (3): 360-361. 1993. 17th/18th
Century French Philosophy. Paolo Casini. Keywords: naturismo, “antica sapienza
italica” razionalismo, la metafora della lume, illuminismo, Bruno, il patto
sociale -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casini” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773734737/in/dateposted-public/
Grice e Casotti – volere – filosofia
fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice:
“I like Casotti; of course, he reminds me of my master at Clifton! Casotti is
into the teaching of philosophy: did Socrates teach Alcibiade or did Alcibiade
learn from Socrate? On top, Casotti tried to systematise WHAT you have to
teach: his first volume is telling: ‘l’essere’, which of course reminds me of
my explorations on the multiplicity of being in Aristtotle – a human being in
an ‘essere,’ but my tutee A. G. N. Flew would scorn philosophers who use a verb
with an article “l’essere” – or a pronoun with an an emphatic word meaning
‘same’ – “the self!” Figlio di Enrico e Virginia Sciello. Studia s Pisa sotto
Amendola e Gentile. Con quest'ultimo si laurea con “La concezione idealistica
della storia” in cui esprimeva la propria entusiasta adesione alla dottrina
gentiliana dell'attualismo. Dopo aver
aderito all'appello Per un Fascio di Educazione Nazionale in vista di un
rinnovamento della scuola italiana, indirizza il proprio percorso professionale
in direzione della pedagogia, orientata alle teorie idealiste di Gentile, da
lui riprese e rielaborate anche nelle prime esperienze a Pisa e Torino.
Collabora nella redazione delle riviste Levana e La nuova scuola Italiana. Motivazioni personali, unite all'esigenza di
approccio più realista all'educazione, lo portano il ad allontanarsi in maniera
piuttosto repentina dalle posizioni idealistiche precedenti e ad aderire
all’aquinismo. Insegna a Milano, sviluppando una filosofia ispirata a
Lambruschini, Rosmini, e Bosco, basata sulla “perennis philosophia”
dell'aristotelismo aquinista. Egli
avversa da un lato l'attivismo e il naturalismo, recuperando l'importanza della
«lezione» e della «disciplina», in una prospettiva di insegnamento rivolta
all'«imitazione di un ideale regulativo». Dall'altro reinterpreta il rapporto
tutore/tutee nell'ottica di Alcibiade-Socrate. Contesta la pretesa
dell'attualismo gentiliano di risolverne il dualismo (tutore-tutee) in unità,
concependolo piuttosto come con-divisione di uno stesso cammino di crescita,
incentrato su una rivelazione, nel quale la filosofia è vista come un'arte, che
consente il passaggio dalla potenza all'atto.
Fonda la rivista Supplemento pedagogico a Scuola italiana moderna,
rinominata in Pedagogia e vita. Pubblicò in due volumi una sintesi della sua
filosofia, che vede la filosofia contraddistinta, «come arte» e “come
disciplina” -- sia da un aspetto etico, finalizzato a un ideale, sia da uno speculativo
basato sulla sperimentazione del metodo più oppurtuno da seguire e adattare
alle difficoltà del contesto. Altre
opere: “La concezione idealistica della storia” (Firenze, Vallecchi); Introduzione
alla pedagogia, Firenze, Vallecchi, La nuova pedagogia e i compiti dell'educazione,
Firenze, Vallecchi, Lettere sulla religione, Milano, Vita e Pensiero, La
pedagogia di Lambruschini, Milano, Vita e Pensiero); Il moralismo di Rousseau.
Studio sulle idee pedagogiche e morali di Rousseau, Milano, Vita e Pensiero, Maestro
e scolaro. Saggio di filosofia dell'educazione, Milano, Vita e Pensiero, La
pedagogia d'Aquino. Saggi di pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Educazione
cattolica, Brescia, La Scuola, Scuola attiva, Brescia, La Scuola, La pedagogia
di Rosmini e le sue basi filosofiche, Milano, Vita e Pensiero, Didattica, Brescia, La Scuola, Pedagogia
generale, Brescia, La Scuola, Esiste la pedagogia?, Brescia, La Scuola, La
pedagogia del Vangelo, Brescia, La Scuola, Educare la volontà, Brescia, La
Scuola, Il metodo educativo di Don Bosco, Brescia, La Scuola, L'arte e
l'educazione all'arte, Brescia, La Scuola, Memorie e testimonianze Brescia, La
Scuola. Franco Cambi, Mario Casotti, su treccani. Appello per un "Fascio di educazione
Nazionale", su «L'educazione nazionale», Franco V. Lombardi, Filosofia e pedagogia
nel pensiero di Casotti. Dall'Idealismo alla Neoscolastica, Ugo Spirito, L'idealismo italiano e i suoi
critici, Firenze, Le Monnier, Maria Rossi, La pedagogia italiana contemporanea:
il pensiero di Casotti, in «Supplemento pedagogico», Filosofia e pedagogia nel
pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto
dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e
sulle professioni», Il rapporto
maestro-allievo nel confronto tra Casotti e Gentile, «CQIA rivistaFormazione,
lavoro, persona», Dizionario biografico degli italiani. Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia
Neo-Scolastica», Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto
dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e
sulle professioni», Il rapporto maestro-allievo nel confronto tra Casotti
e Gentile, «CQIA rivistaFormazione, lavoro, persona», Dizionario biografico
degli italiani. 40 L’Appello per un Fascio di Educazione Nazionale , in « L '
Educazione Nazionale » , 1920 , n . ... L ' Idea Nazionale » , 18 , 20 , 21 e
22 aprile 1920 ) vedere M . Casotti , Dopo il Congresso Nazionale , in « La
Nostra Scuola » , 1920 , nn . 1 - È costituito un Fascio di
educazione nazionale fra gli insegnanti di ogni ordine e grado e fra i cultori
dei problemi concernenti la ... Sullo stesso fascicolo rispondeva a Pellizzi
Mario Casotti , il quale riconosceva l'opportunità di abbandonare ...
Casotti Mario , La nuova pedagogia e i compiti dell'educazione moderna ,
Vallecchi , Firenze , 1923 . Mazzoni Elda , L ' idealismo ... GENTILE GIOVANNI
, Il Fascismo al governo della Scuola , Sandron , Palermo , 1924 . SGROI
CARMELO . Casotti makes a dramatic break with actualism early in his career. A
tutee of Gentile, he nevertheless underwent a conversion in the 1920's and was
called to teach pedagogy at Milan in 1924. There he worked with Neo-Thomist
scholars and produced works on education with a distinct orientation. He is
particularly remembered as the founder and director of the review Pedagogia e
vita, a journal that took on new importance in the postwar years. A
spiritualist who came out of the idealist tradition, he is considered a pioneer
in neospiritualist pedagogy, taught in Pisa and Turin; he underwent a
conversion, and was called to the chair of pedagogy a Milan. He produced
critiques of idealism from a neoscholastic point of view. Eventually, he began
a systematic study of divided into three parts: teleology (the aim or end);
anthropology (study of the philosophical tutee); and methodology. In his
"anthropological" writings, he defends personalism against idealism
and materialism. He was a contributor to and editor of the education journal
Scuola italiana moderna. He encouraged systematic child study in a way that
later became more widespread among Italian philosophers. AQUINOSaggi di
filosofia generale INDICE Prefazione, La Pedagogia di S. Aquino, L'educazione
naturale, L'anima della pedagogia, Filosofia, Religione e " Filosofie
" nelle Scuole Medie, Pedagogia cattolica, L'Insegnamento religioso nelle
Scuole elementary. Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si
ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di
saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto
fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la filosofia in
Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il
secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non
aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima
tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al
più grande maestro: Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non
ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non
trattavano se non fuggevolmente il problema della filosofia, i filosofi più noti o non assurgevano a un concetto
filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza
agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo
stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta,
per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia
cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere,
di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di
trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile
stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo
fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri
occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è
anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità
d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli
altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il
campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo
di noi. Ecco perché Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e,
insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo
- il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una
intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La
pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire,
archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un
passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un
pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita
quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or
non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche
studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione
moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va
subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha
nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di
parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di
libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa
dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella
Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più
deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso,
oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si
vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come
cattoliche, tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di
avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione
Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e
Scolaro, mi annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così
volete: ma alla maniera d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se
acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine
«autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione»,
che conviene solo a Dio.Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi
migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa
collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello
sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della
mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della
Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o
meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della
educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per
un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile,
che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital
bergsoniano. La filosofia d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle
quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di
rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i
suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato abbastanza,
in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di pedagogia
cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio discepolato
verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più fedele e
generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia fatica non
sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose ricerche per
arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di partenza: una
conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione, dal Dottore
Angelico LA PEDAGOGIA DI S. TOMMASO D’AQUINO Saggi di pedagogia generale
MARIO CASOTTI Professore nell’Università del Sacro Cuore BRESCIA, Editrice “La
Scuola”, 1931 * * * INDICE 5 Prefazione 9 La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino
65 L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia 125 Filosofia, Religione e
" Filosofie " nelle Scuole Medie 163 Pedagogia cattolica 195
L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementari * * * PREFAZIONE Non c'è
nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo
presentare ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia
pur nella maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto
in altri nostri lavori. Questo: che la pedagogia cattolica in Italia, e anche
in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha
sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo
riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione
dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande
maestro: San Tommaso d'Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora
non ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non
trattavano se non fuggevolmente il problema dell'educazione, i pedagogisti
cattolici più noti o non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia,
o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della
filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo
dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di
qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia cattolica italiana
contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere,
è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi
un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile stare a
discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto.
Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi,
piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche
più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar
criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri ci
debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con
minor fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo di
noi. Ecco perché San Tommaso d'Aquino è il soggetto del primo saggio qui
raccolto e, insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora -
possiamo dirlo - il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li
stringe in una intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento
lettore. La pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento,
vorremmo dire, archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno
monumento d'un passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi
problemi che un pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della
verità, suscita quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello
spirito moderno. Or non è molto, giudicando il movimento contemporaneo
della ècole active, qualche studioso asseriva che i più sani principi onde va
tanto orgogliosa l'educazione moderna, si trovano già in San Tommaso.
Affermazione verissima, che però va subito completata con quest'altra: ciò che
di più vacuo e superficiale v'ha nelle teorie pedagogiche recentissime, quel
continuo riempirsi la bocca di parole vane ed imprecise, quel parlare a
sproposito di autoeducazione, di libertà, di «creazione», quell’ingenuo
ottimismo naturalistico, che fa dell'alunno e del bambino un mezzo Dio
(naturalismo denunciato testé nella Enciclica Pontificia sull'educazione)
trovano già in San Tommaso il critico più deciso e radicale che si possa
desiderare. E la sua critica al concetto stesso, oggi tanto in voga, di
«autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si vuol correre il rischio,
attratti dalla novità, di accettare addirittura, come cattoliche, tutte le
teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di avere
amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione Nazionale
che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e Scolaro, mi
annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così volete: ma
alla maniera di S. Tommaso d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi
se acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine
«autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione»,
che conviene solo a Dio. Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi
migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa
collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello
sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della
mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della
Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o
meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della
educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per
un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile,
che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital
bergsoniano. La pedagogia di San Tommaso d'Aquino! Quando penso alle
immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è
tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma
non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi,
se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto
tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango
che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e
là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la
mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose
ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di
partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione,
dal Dottore Angelico. Da quelle teorie, anche così come le abbiamo prese
e tentato di rivivere, emana già una luce che non può essere, come i nostri
avversari vorrebbero, la luce scialba d'un crepuscolo che preceda la notte d'un
passato morente, ma è la luce vivida dell'alba, che precede il giorno nuovo
pieno di speranze e di promesse. A coloro che nel riprendere il pensiero
di S. Tommaso e, in genere, della scolastica, vedono un pericolo per la libertà
e l'originalità della ricerca scientifica s'è già risposto, e nel nostro volume
Maestro e Scolaro e, qui, nel saggio Religione, filosofia e « filosofie » nelle
scuole medie. Ora vogliamo ricordare, per finire, che non certo la pedagogia
cattolica si può accusare di scarsa originalità. L'alba del giorno nuovo
illumina delle figure che giganteggiano già nella storia della moderna
educazione: basta menzionare Don Bosco, la cui grandezza e fecondità, anche
come teorico e pedagogista, si comincia appena adesso a scoprire. Le numerose
opere della pedagogia cristiana aspettano solo chi le studi, le illustri, le
faccia conoscere al pubblico studioso, con quello stesso amore che altri
mettono nell'illustrare le più piccole iniziative delle scuole nuove o
rinnovate. Anche questa volta i figli del mondo sono stati più abili ed
intelligenti dei figli di Dio. Ma non sarà sempre così. Cortemaggiore
(Piacenza) Convento di S. Francesco, 4 Gennaio 1931, nella Festa del SS. Nome
di Gesù. NOTA. - I saggi che si raccolgono in questo volume furono tutti
pubblicati, a vario intervallo di tempo, dal 1925 in poi sulla Rivista Scuola
Italiana Moderna. Eccezion fatta pei seguenti : L'Educazione naturale
(Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani,
Firenze 1927, e apparsa negli Atti); L'anima della pedagogia (Rivista di
filosofia neoscolastica, 1925) e Pedagogia cattolica (Rivista Levana, Firenze
1923). La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino Esiste una pedagogia di S.
Tommaso d'Aquino? E si può, senza temer di cadere nelle solite esagerazioni che
ci fanno attribuire troppo spesso ai grandi uomini del nostro cuore una
sapienza sterminata ed estesa un po' a tutto l’universo scibile umano, asserire
che il dottore angelico abbia segnato, anche nel campo delle teorie sull'
educazione, l'impronta di quell'altissimo ingegno che, stringendo insieme cielo
e terra costruiva un edificio di dottrina al quale le età venture avrebbero
guardato sempre con commossa riverenza, quasi a testimonianza imperitura di
quel che possa la scienza quando si congiunge colla fede? Fortunatamente, la
risposta a tale domanda non ammette dubbi di sorta. Ché nella vastissima opera
dell'Aquinate non solo la pedagogia c'è, in quanto dappertutto vi si possono
cogliere spunti di teorie sull'educazione, in ordine a tutta la concezione
dell'uomo e della realtà e al fine della vita, ma c'è anche come problema
esplicitamente discusso e risolto con tale rigore scientifico e con tali
esigenze critiche che dovranno passare dei secoli, nella storia della
pedagogia, prima che sia possibile riprenderlo, quello stesso problema, colle
medesime esigenze. Il problema, infatti, che San Tommaso affronta nel suo
De magistro è un problema di per sé così delicato e difficile che solo rare volte,
e in periodi di cultura filosofica molto diffusa, i pedagogisti anche più
valenti riescono a proporselo con tutta la chiarezza desiderabile. E
questo perché i pedagogisti sono premuti di solito dalla necessità di risolvere
altre questioni più particolari e delimitate che loro sembrano e forse, sotto
un certo aspetto, anche sono più urgenti, come quelle che riguardano
l'organizzazione pratica dell'educazione, i metodi e via dicendo. Tutte
questioni che non si possono, certo, risolvere senza far capo a un concetto
filosofico dell' educazione, ma che spesso permettono, questo concetto, di
sottintenderlo e di presupporlo, o di discuterlo, se mai, solo a proposito di
quei particolari problemi pedagogici e didattici che si stanno trattando,
piuttosto che di stabilirlo e discuterlo direttamente, per se stesso. Ciò
spiega come mai le più celebri opere che la storia della pedagogia ricorda,
dalla Didattica magna del Comenius ai Pensieri sull'educazione del Locke,
all'Emilio del Rousseau, alla Education Progressive della Necker de Saussure,
efficacissime nel descrivere e nell'analizzare in concreto il processo
educativo, riescano tutte quanto mai deboli ed inefficaci nello stabilire, con
sicuro metodo, una definizione dell'educazione che giunga ad appagarci sotto
l'aspetto filosofico. Siamo, quasi, costretti a riconoscere che, se la
pedagogia e la didattica sono antichissime, la filosofia dell'educazione è
ancora bambina: ed era, forse, necessaria la rude scossa data dall' idealismo
italiano contemporaneo col suo paradosso, gravido di verità, della
identificazione completa tra filosofia e pedagogia, perché le indagini di
filosofia dell'educazione riacquistassero, nella cultura pedagogica odierna,
quel posto di prim'ordine che debbono avere. Questo breve preambolo occorreva
per fare intendere che il problema pedagogico, così come San Tommaso lo
annette, potremmo dire, alla filosofia scolastica, sotto il classico titolo «De
magistro», è appunto il maggior problema della pedagogia, trattato con tutto
quel rigore scientifico e filosofico che potrebbe desiderare, oggi, uno
studioso. Non si tratta neppure della domanda: «che cosa è l'educazione?»
domanda alla quale, in fondo, è dato rispondere anche restando sul terreno
sperimentale, ma dell'altra e ben più difficile domanda: «come è possibile
l'educazione?». Che l'educazione avvenga è un fatto che si può analizzare e
descrivere sotto i più diversi aspetti, ma poi la filosofia deve sapere che
cosa valga questo atto e quali siano le ragioni che lo spiegano e che lo
rendono intelligibile. Ora, per arrivare a porre il problema così, bisogna
cominciare dal compiere una certa astrazione (non spaventi questa parola oggi
tanto malfamata) sui dati del problema educativo quale, a prima vista, ci è
offerto dall'esperienza, bisogna, cioè, prescindere per un momento da tutte
quelle particolari circostanze che rendono così interessanti e suggestivi,
nella pratica, i problemi didattici, e avere il coraggio di ridurre
l'educazione stessa alla sua più semplice espressione, a ciò che di veramente essenziale
e caratteristico v'ha nel processo educativo, a ciò da cui non è possibile,
davvero, prescindere, senza annullare o sfigurare gravemente l'educazione
medesima. Il che viene poi ad essere un puro e semplice rapporto fra un
soggetto che insegna ed un soggetto che impara, fra un soggetto che possiede
determinate cognizioni od attitudini, e un soggetto che da lui riceve queste
stesse cognizioni o attitudini che prima non possedeva: fra il maestro, cioè, e
lo scolaro. Ebbene, domandare come è possibile l'educazione non significa altro
che domandare come è possibile questo rapporto fra due soggetti pensanti, in
virtù del quale l'uno può all'altro trasmettere determinate cognizioni ed
attitudini. Ed ecco la cerchia entro la quale si svolge la ricerca del De
Magistro di San Tommaso: ricerca che, appunto per questa sua rigorosa
impostazione critica, sembra come anticipare i risultati delle più moderne e
scaltrite filosofie dell'educazione. * * * Posto così, il problema dell'
educazione ha suscitato, si può dire, in ogni tempo, e ogni volta che qualche
pensatore l'ha approfondito, alcune serie difficoltà, oggi note a tutti, ma il
formulare precisamente le quali è costato alla filosofia dell' educazione uno
sforzo non indifferente. Poiché il chiedere soltanto come è possibile che un
soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate
cognizioni ed attitudini sembra implicare, se non addirittura una
contraddizione, certo una difficoltà quasi insormontabile, dato che il termine
«trasmettere» o «comunicare» o qualsiasi altro termine consimile che si adoperi
a definire l'azione del maestro sullo scolaro, non sembra possa riflettere, se
non in maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico
del processo educativo. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale,
allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse comunicarsi, trasmettersi o
cambiar sede, come una moneta che passa di mano in mano, ma nell'educazione ciò
che si trasmette è essenzialmente un valore ideale e immateriale, come la
scienza e la virtù. E questi valori tanto poco si lasciano «trasmettere», nel
significato materiale della parola (poiché essi hanno la loro base in un atto
interno del pensiero e del soggetto pensante), e un atto di tal genere è tanto
impossibile trasportarlo da un soggetto ad un altro soggetto, quanto è
impossibile che un soggetto trasmetta ad un altro ciò che costituisce la sua
intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in
Alcibiade. E allora, al pensatore che sperimenta questa difficoltà, si affaccia
spontanea una ipotesi che sembra semplificare nel miglior modo l'intricato
problema, troncando alla radice ogni obiezione ed incertezza. Dato che la
difficoltà prima nasce dall'aver concepito educatore ed educando come due
soggetti distinti, perché non togliere addirittura di mezzo la dualità stessa,
e concepire l'educazione come lo svolgimento d'un unico soggetto che, invece di
ricevere il sapere dall'esterno, lo sviluppa dall'interno? Teoria antica per lo
meno quanto la correlativa difficoltà, poiché ad essa si può ridurre già la
maieutica socratica, e perché, fra l'altro, con l'intento di stabilirla su
salde basi, Platone costruiva la sua celebre teoria della reminiscenza
(mentovata, appunto, nel De Magistro tomistico) e lo schiavo ch'egli immaginava
interrogato da Socrate nel Menone aveva proprio il compito di servire a
dimostrare, indirettamente, la tesi che l'opera del maestro consiste nello
stimolare o nell'aiutare la mente del discepolo perché cerchi, e, cercando,
cavi fuori la scienza che ha già in sé, non nel pretender di trasmettere al
discepolo una scienza bell'e fatta. Che è poi e in Socrate e in Platone e più
tardi in tutta la pedagogia moderna, la dottrina che va per la maggiore, la
dottrina dell'autodidattica, o, come anche si dice, dell’autoeducazione:
dottrina, cioè, che riduce l'educazione ad autoeducazione, qualunque sia poi la
concezione filosofica colla quale pensa di confortare tale riduzione. La teoria
dell'autodidattica infatti (e questo è appunto uno dei motivi che hanno più
contribuito alla sua diffusione) permette una grande varietà e latitudine di
giustificazioni filosofiche, dal misticismo, se così si può chiamarlo, che
immagina il sapere infuso da Dio direttamente allo spirito umano e da questo
via via scoperto e reso esplicito mediante l'opera dell'educazione, al
soggettivismo estremo il quale crede che il pensiero nostro crei liberamente la
sua scienza nell'atto stesso del pensarla e non possa perciò ricevere dall'
insegnamento e dalla scuola, altro che uno stimolo a tale creazione, o per dir
meglio, alla chiara consapevolezza di questa creatività, che costituisce la sua
essenza, e della quale non può mai spogliarsi. II Ora, di dottrine che
potevano concludere in qualche modo un sistema di autodidattica S. Tommaso ne
aveva presenti due. Molto diverse, è vero, per valore e significato, tanto
diverse, anzi, quanto può essere diversa una dottrina vera, e vera di una
profonda verità, ma incompleta, un errore aperto e tutto contesto di acuti ma
inconsistenti sofismi. Basta ricordare che l'uno era la dottrina esposta da
Sant'Agostino nel suo De Magistro e l'altro era l'averroismo: quella
interpretazione di Aristotele che, movendo dal pensiero del grande stagirita
attraverso il commento di Averroè e degli altri commentatori arabi, finiva in
un sistema panteistico, mezzo idealista e mezzo naturalista, che sembrava
anticipare in pieno medioevo la crisi ideale della quale dovrà poi tanto
soffrire il pensiero moderno. Basta, diciamo, ricordare questo per intendere
subito il diverso atteggiamento che l'Aquinate doveva prendere verso l'una e
verso l'altra delle due dottrine, pur essendo costretto necessariamente a
ravvicinarle nel corso di quella discussione dalla quale dovevano limpidamente
scaturire i concetti fondamentali della pedagogia tomistica. Il De
Magistro di Agostino è a sua volta, non meno del De Magistro tomistico, tenuto
conto, si capisce, d'ogni differenza e di tempo e d'ambiente e di mentalità, un
modello nel suo genere. Modello d'una ricerca che non si arresta neppure essa,
come non si arresterà poi l'indagine di S. Tommaso, ai particolari problemi
della pedagogia e della didattica, ma ascende subito al problema massimo su cui
s'appoggia la filosofia dell' educazione. “Come è l'educazione possibile?” S.
Agostino, né più né meno di S. Tommaso, incomincia da questa domanda. “Come è
possibile, cioè che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo
scolaro) determinate cognizioni?” L'indagine del De Magistro agostiniano prende
in esame il mezzo principale e più appariscente, che sembra appunto garantire
tale comunicazione tra il maestro e lo scolaro, non meno che tra gli uomini in
genere: il linguaggio. Sembra, infatti, che proprio la parola, parlata o
scritta, con tutto il corteggio di altre espressioni grafiche, foniche, mimiche
ond'è accompagnata, debba essere per eccellenza il veicolo attraverso il quale,
se così può dirsi, la scienza passa dal docente al discente; talché chi mette
la mano su questo problema ha, di necessità, la strada aperta ad una esauriente
critica delle forme nelle quali si costituisce e si svolge normalmente
l'espressione didattica. Sennonché la vigorosa e geniale ricerca sul
linguaggio perseguita nel De Magistro agostiniano, e alla quale non si può rimproverare
altro che, talvolta, di indulgere a qualche sottigliezza eccessiva (spiegabile
del resto, col carattere stesso dell'opera che, piuttosto che una esposizione
compiuta d'una dottrina vuol essere ed è una magnifica realizzazione di metodo
socratico) finisce, chi ben guardi, non solo col dichiarare il linguaggio uno
strumento inservibile per la trasmissione della scienza dal maestro allo
scolaro, ma anche collo svalutare, volta a volta, tutti gli altri mezzi dei
quali il magistero umano si serve per rendere più concreta ed efficace la
parola stessa. Sembra, è vero, che il maestro possa, per insegnare allo
scolaro, servirsi di cose oltre che di parole, come ha sempre creduto la
pedagogia, nei suoi sforzi verso un metodo «intuitivo» od «oggettivo», ma in realtà
Agostino adduce contro quella pretesa un argomento molto forte, del quale S.
Tommaso farà poi gran conto. Il mostrare una cosa non ci dice, per sé, quale
sia l'elemento essenziale e quali gli elementi accidentali della cosa stessa:
così se io cammino per mostrare ad altri che sia il camminare, gli spettatori
potranno forse prendere per essenza della mia deambulazione l'andatura più
lenta o più frettolosa ch'io ho tenuto e credere che il camminare sia, per
esempio, l'affrettarsi. E se voglio evitare l'equivoco devo ricorrere
alle parole o ad altri segni affini, poiché, effettivamente, anche nel mostrare
una cosa debbo servirmi di segni che non sono identici alla cosa stessa, e se,
poniamo, per spiegare che cos'è la parete la indico col dito tacendo, il mio
dito teso a indicare non è la parete, ma un segno della parete: né più né meno
della parola trisillaba «parete» [Cfr. S. agostino: De Magistro Cap. III, 5 e
6]. Segni sensibili: ecco la natura del linguaggio, parlato, scritto,
mimico o grafico che sia. Ora, i segni hanno appunto questo inconveniente: che,
quando noi li percepiamo, o li conoscevamo già oppure non conoscevamo le cose
ch'essi significano. Se le conoscevamo, allora i segni ci servono, ma non
inducono in noi nessuna nuova cognizione, se non le conoscevamo, i segni non ci
dicono nulla e diventano affatto inutili. La parola latina saraballae, ad
esempio, è un segno che non mi significa niente, proprio perché io non so che
saraballae erano chiamate certe fogge di copricapi. Bisogna, dunque, che già
l'abbia saputo, e l'ho potuto sapere non col mezzo di altre parole, ma perché
già sapevo che cosa è il capo e che sono i copricapi, per aver visto l'uno e
gli altri. Anzi, nemmeno la parola «capo» la prima volta che la udii mi disse
nulla, e fu necessario ch'io la mettessi in relazione con quella cosa già da me
conosciuta ch'era la testa mia o d'altri, per intendere il suo significato [Op.
cit. Cap. X, 33, 34]. E allora non sono i segni che fanno intender le cose, ma,
al contrario, le cose che fanno intendere i segni; e il linguaggio del maestro
che è, anch'esso, un sistema di segni, ben lungi dal procurare allo scolaro una
scienza ch'egli non possedeva, può significargli qualche cosa solo in ordine
alla scienza ch'egli aveva già. Il che vuol dire ottenere un risultato nullo
quanto alla sola cosa che ci premeva: la possibilità d'una effettiva
comunicazione e trasmissione di scienza dal maestro allo scolaro. Ed ecco
la conclusione. Le parole non possono essere veicolo di scienza dal maestro
allo scolaro, perché sono puri segni sensibili, invece la scienza non è un
segno o una cosa sensibile, ma un atto interno della mente, alla quale appare
la verità o la falsità delle nozioni che le vengono date «Che se per i colori
consultiamo la luce, e per le altre cose che sentiamo attraverso il corpo
consultiamo gli elementi di questo mondo... per le cose intelligibili noi
consultiamo con la ragione la verità interiore». E che cos'è questa verità?
«...colui che è consultato insegna: quel Cristo che fu detto abitare nell'uomo
interiore, cioè l'immutabile Virtù ed eterna Sapienza di Dio; chi consulta, del
resto, ogni anima ragionevole; ma tanto a ciascuno si apre, quanto ciascuno può
prenderla secondo la propria o cattiva o buona volontà» [Op. cit. cap. XI, 38 e
XII, 39]. Che significa, appunto, concludere a una vera e propria
autoeducazione nella quale non il maestro, ma solo Dio infonde direttamente il
sapere allo spirito umano, ch'è precisamente, come abbiamo notato altra volta,
una delle possibili giustificazioni, in sede filosofica, dell'autodidattica, e
si trova, un pò come tutta la filosofia agostiniana, sulla stessa linea del
platonismo e, in questo caso, della sua celebre teoria della
reminiscenza. Dio, dunque, è l'unico maestro dell'uomo: l'unico maestro
al quale non faccia ostacolo quella tale difficoltà della comunicazione fra
soggetto docente e soggetto discente. Affermazione giustissima certo, sotto
l'aspetto positivo, in quanto non solo si deve riconoscere che Dio può
insegnare imprimendo senz'altro nella mente il lume intellettuale e la verità,
ma appare evidente che il magistero divino debba essere la causa prima e il
fine ultimo di ogni magistero umano. Ma affermazione insufficiente sotto
l'aspetto negativo, poiché, in fondo, arriva a negare addirittura la
possibilità dell'educazione e a dichiarare insolubile il problema, dal quale ha
preso le mosse, dei rapporti fra maestro e scolaro. Nonostante gli spunti
geniali della sua ricerca, Agostino non riesce che a far sentire più acute e
tormentose le difficoltà del problema stesso, cioè, in ultima analisi, a farci
desiderare con maggiore intensità una soluzione veramente razionale, che è
infatti il grandissimo merito del De Magistro agostiniano. S. Tommaso dovrà
precisare, dovrà, talora, rettificare dovrà, soprattutto, procedere oltre; ma
la sua pedagogia non potrebbe poggiare così in alto, se l'opera di Agostino non
le offrisse già una base sicura: l'impostazione rigorosamente critica del
problema, che il De Magistro tomistico riprenderà tale e quale. III L'altra
corrente filosofica alla quale guardava San Tommaso nell'impostare il problema
del suo De Magistro è, certo, ben lungi dall'avere la chiarezza o, meglio la
molteplicità di documenti e di manifestazioni che oggi permettono a noi di
accostarci con tanto profitto al pensiero agostiniano. Poiché, ancora, il Renan
nella sua opera su Averroé e l'averroismo era costretto a considerare
l'averroismo piuttosto come una tendenza dottrinale da ricostruirsi attraverso
le confutazioni che ne avevano fatto gli avversari, che come un insieme di
teorie positivamente sostenute negli scritti di determinati autori. Studi più
recenti hanno cambiato questo stato di cose: dopo il notissimo saggio del
Mandonnet su Sigieri di Brabante, oggi noi conosciamo non soltanto i nomi di
alcuni averroisti, ma possediamo alcuni testi di notevole interesse, i quali ci
permettono, in ogni caso, di asserire che l'averroismo latino fu, almeno dopo
il 1230, qualcosa di ben più reale e concreto che una semplice tendenza. Il
che, del resto, appare chiaramente, per non dir altro, dalla differenza che
passa già, in questo ordine di idee, fra il trattato di Alberto Magno De
unitate intellectus, e l'omonimo trattato di S. Tommaso d'Aquino, scritto
quindici anni dopo: dove l'uno è costretto in certo modo a escogitare lui le
tesi averroiste fondandosi sugli scritti dei peripatetici, l'altro mostra di
polemizzare contro una dottrina avversaria ben costituita ed effettivamente
insegnata. In ogni modo, però, la conoscenza che abbiamo oggi dell'averroismo è
ancora ben lungi dall'essere soddisfacente, sia pur solo in ordine ai numerosi
problemi che fa sorgere in noi l’interpretazione di San Tommaso, ed è certo da
augurare e da sperare che nuovi testi averroistici possano essere dati alla
luce in un prossimo avvenire. Cosa che permetterebbe di studiare con maggior
esattezza la stessa filosofia dell'educazione, esposta da S. Tommaso, e nella
questione disputata De Veritate (della quale fa parte il De Magistro) e nella
questione 117 della Summa Theologica (Parte Ia). Poiché e nell' una e nell'
altra San Tommaso attacca l'averroismo intorno al problema dei rapporti fra
maestro e scolaro, e della possibilità che un uomo riceva scienza da un altro
uomo. Ora, l'averroismo aveva effettivamente prodotto qualche opera nella quale
quel problema fosse, di proposito, esaminato, oppure, come adesso sembra più
probabile, si trattava di conseguenze implicite in tutta la dottrina
averroistica? Evidentemente, solo i progressi futuri della storiografia
filosofica intorno all'averroismo potranno permettere una risposta definitiva a
questa domanda. Comunque, se circa questo problema della possibilità
dell’educazione, i precedenti storici del pensiero tomistico in ordine
all’averroismo paiono incerti quanto ai particolari, nessun dubbio vi può
essere invece circa i due punti che ora c’interessano. È certo, cioè, non solo
che nel trattare il problema della educazione S. Tommaso guarda all'averroismo
come all'avversario da sconfiggere, ma che, di più, egli suole, benché con
intenti nei due casi molto diversi, trattarlo insieme alla dottrina
agostiniana, o platonico-agostiniana, che abbiamo or ora richiamata. L'abbiamo
già detto: la tesi agostiniana appare, in massima, vera ma incompleta, dove la
tesi averroistica appare manifestamente falsa. Ma appunto da quella
incompletezza S. Tommaso doveva pensare essere facile passare a questa falsità,
non solo per la ragione generica del pericolo che presentano sempre le teorie
incomplete, ma anche per alcune ragioni specifiche e positive che possiamo
benissimo rintracciare attraverso le poderose argomentazioni del De Magistro, e
che ci vengono subito in mente appena ci troviamo a richiamare i principi
fondamentali dell'averroismo. L'averroismo, infatti, qualunque possa
essere lo sviluppo che gli abbia dato in particolare l'uno o l'altro suo
fautore, ci si presenta, nelle sue linee generali, abbastanza ben definito, si
potrebbe dire, attorno a due tesi fondamentali riguardanti, l'una, la natura
dell'anima umana, l'altra i rapporti di Dio col mondo. La prima tesi, riguarda
la notissima questione della unità dell'intelletto: e non s'andrebbe lontani
dal vero asserendo ch'essa rispondeva, nella mente dei pensatori medioevali, a
un ordine di preoccupazioni non molto dissimile da quello cui rispondono, nella
mente dei pensatori moderni, le dottrine idealistiche del soggetto unico e
dell'io trascendentale. «Quod intellectus omnium hominum est unus et idem
numero» [V. MANDONNET Siger de Brabant, Louvain 1911. Vol. 1° pag. 111 n.. - Si
cfr. nel vol. II° a pag. 187 fra le proposizioni condannate dallo stesso
Arcivescovo nel 1277: «Quod scientia magistri et discipuli est una numero...»
Che è proprio una delle affermazioni confutate nel De Magistro, all'Art. 1° (ad
sextum)]: ecco come la condanna portata nel 1270 dall'Arcivescovo di Parigi
contro l'averroismo definiva la prima proposizione riprovata. Noi non possiamo,
ora, addentrarci nelle sottili questioni di interpretazione aristotelica che
questa dottrina coinvolge: basti notare, adesso, la soluzione del problema
della conoscenza ch'essa richiede. In sostanza, come pure è chiarito sia dalla
polemica di San Tommaso sia da un'altra delle proposizioni condannate,
qualunque fosse la maniera colla quale interpretava Aristotele, l'averroismo
intendeva fondarsi su ragioni speculative, fra l'altro, su questa: che l'atto
del pensiero sembra non potersi attribuire in proprio a questo o a quel
soggetto pensante particolare, ma doversi attribuire invece a un intelletto
unico che si rifrange, sì variamente attraverso le singole anime e i singoli
corpi da esse informati, ma che, ciò nonostante, resta unico, come la luce che
illumina in diverso modo i vari oggetti, e tuttavia è sempre la stessa luce. Le
differenze fra i singoli soggetti, ossia fra l'una e l'altra anima individuale
sembravano, cioè, agli averroisti differenze che cadessero, se così ci si può
esprimere, su un piano diverso da quello nel quale si svolge la funzione del
pensiero vera e propria: differenze riguardanti, insomma, la materia piuttosto
che il pensiero [O, al massimo, la sensibilità e l'immaginazione: l'anima
sensitiva. V. quanto diciamo a pag. 29], fino a far dell'anima individuale, in
quanto forma dell'uomo, qualcosa che si corrompe colla morte, né più né meno
del corpo. Fermiamoci un momento a questa celebre tesi, per la quale
l'averroismo ben merita di essere chiamato, pur colle debite differenze
d'ambienti e di problemi, l'idealismo del Medio Evo, cosi come, d'altra parte,
ben si potrebbe chiamare oggi l'idealismo un averroismo moderno, molto più evoluto
e raffinato del suo antico progenitore. Quali conseguenze si possono trarre da
questa tesi dell'intelletto unico in ordine al problema dell'educazione? È
chiaro: se l'intelletto è uno solo in tutti gli uomini, è uno solo anche nel
maestro e nello scolaro, i quali, dunque, non sono più due soggetti, ma un
soggetto solo, almeno quanto alla funzione del pensiero. Ma allora ecco risolta
quella tal difficoltà della «comunicazione» fra maestro e scolaro che
tanto aveva tormentato Agostino. Il maestro non ha più bisogno di comunicare
dall'esterno collo scolaro, per la semplice ragione che l'uno e l'altro già
comunicano nella maniera più intima possibile, attraverso lo stesso intelletto,
che è unico in ambedue. E perciò l'opera esteriore del maestro si riduce, non
già al trasmettere scienza, ma solo a stimolare lo scolaro perché disponga la
fantasia e la sensibilità [Si veda S. Tomm. Summa theol. I, 117 art. I (nel
corpo)] in modo da attuare convenientemente quella scienza che già possiede -
allo stesso titolo del maestro - nell'intelletto unico. Così la teoria
averroistica accresce la sua autorità con tutto il peso degli argomenti fra i
quali si era dibattuto il pensiero agostiniano, anzi, ci si presenta come la
sola teoria capace di spiegare in maniera rigorosamente scientifica il problema
dell'educazione. Né l’avere ammesso, come Agostino, Dio come solo maestro,
costituisce un ostacolo: poiché quell'intelletto unico di Averroé e degli
averroisti si trova già, filosoficamente, in una posizione equivoca, nella quale
non è difficile riconoscergli attributi divini, quali la capacità di creare o,
almeno, di infondere immediatamente le forme nella materia. E non basta: la
teoria averroistica sembra venire incontro anche a quelle esigenze circa
l'autodidattica, che da Socrate e da Platone in poi si erano fatte
energicamente sentire, nella storia della pedagogia, poiché lo scolaro non vi
riceve scienza dal maestro o, comunque, dal di fuori, ma solo trae da se
stesso, o da quell'unico intelletto che pensa in lui, tutta la scienza che gli
abbisogna. Sì che, in sostanza, averroismo, autodidattica, Dio unico maestro,
finiscono col formare una sola dottrina, che pare rispondere mirabilmente alle
difficoltà già sollevate da Agostino circa il problema dell'educazione, e fornirci,
anzi, quel completamento e quella rielaborazione critica che la pedagogia
agostiniana attendeva. Ricordiamo quello che avevamo detto al principio di
questo studio: il difficile problema di intendere come un soggetto pensante (il
maestro) possa trasmettere il suo sapere a un altro soggetto pensante (lo
scolaro) è risolto appunto col toglier di mezzo la dualità, riducendo
l'educazione all'atto di un soggetto unico. Non resta che tracciare una linea
ideale attraverso il tempo, la quale congiunga Aristotele e Averroé con
Cartesio, Kant ed Hegel, fino all'idealismo contemporaneo, e avremo
rintracciato, nel bel mezzo delle dispute medioevali, le origini almeno di una
fra le più cospicue correnti della pedagogia moderna. Ma la teoria
dell'intelletto unico prendeva un significato ancor più deciso, quando la si
considerava insieme a quell'altro gruppo di tesi cosmologico-metafisiche che si
riscontrano non solo in Averroè e negli averroisti, anche in altri commentatori
arabi di Aristotele, come Avicenna od Algazele. Le tesi averroistiche
condannate nel 1270 affermano, aristotelicamente, il mondo essere eterno, e Dio
non conoscere nulla fuori di se stesso e tutto ciò che accade nel mondo,
compresi gli atti della volontà umana, essere soggetto non alla Provvidenza divina,
ma alla necessità e all'influsso dei corpi celesti. D'altra parte, in tutti i
commentatori di Aristotele sopra citati ricorre pertinacemente questa
affermazione: che Dio non ha creato direttamente - se pur si può ancora parlare
di «creazione» da questo punto di vista - tutti gli esseri, ma solo
l'intelligenza prima, o l'intelletto separato, il quale, a sua volta, ha dato
la forma a tutti gli esseri, magari attraverso una gerarchia d'intelligenze, le
superiori delle quali agiscono sulle inferiori. Così l'importanza e la dignità,
se si può dire, metafisica di Dio come causa prima, mentre sembra aumentata
riesce, invece, stranamente diminuita. Sembra che sia tolto a Dio ogni contatto
diretto colla materia e cogli esseri, inferiori: in realtà questo accade sol
perché si sono dati alle cause seconde degli attributi che dovrebbero
spettare solo alla causa prima, ad esempio la facoltà di creare, la facoltà
d'imprimere immediatamente le forme nella materia, il dominio sulle
intelligenze. La stessa materia e il mondo materiale diventano qualche cosa che
sta e si svolge per sé indipendentemente da Dio: onde quella strana cecità e
indifferenza di Dio per quanto accade nel mondo. Il che significa ridurre,
anziché aumentare, l'importanza della causa prima, tanto da ammettere
addirittura, implicitamente o esplicitamente, l'esistenza di parecchie cause
prime. C'è insomma, e nei commentatori arabi di Aristotele e nell'averroismo,
questa interessante posizione filosofica: un ingenuo materialismo che sta
insieme a un non meno ingenuo idealismo, un sistema dell'immanenza che finisce
in un vero e proprio naturalismo. Ce ne dovremo ricordare dopo, esaminando il
De Magistro di S. Tommaso. IV Il quale S. Tommaso due volte, nelle due
diverse trattazioni che dedica al problema dell'insegnamento, torna a discutere
la dottrina averroistica: una volta, prevalentemente, per ciò che riguarda la
teoria dell’intelletto unico, un'altra volta per ciò che si riferisce alle
teorie metafisico-cosmologiche. Nella Summa Theologica, I, q. 117, art.
1, l'averroismo è, infatti, esposto e confutato quanto alle sue conseguenze
circa i rapporti fra maestro e discepolo che riguardano la teoria della
conoscenza. Averroè, dice S. Tommaso, affermò esser unico l'intelletto in tutti
gli uomini e perciò ammise che il maestro non può causare allo scolaro una
scienza diversa da quella che quest’ultimo ha già, ma solo può spingerlo ad
ordinare i fantasmi nella sua immaginazione in modo che siano ben disposti a
riflettere la luce dell'unico intelletto e a provocare, perciò, l'apprensione
della scienza. “ Et secundum hoc ponit, quod unus homo per doctrinam non causat
scientiam in altero aliam ab ea quam ipse habet; sed communicat ei eamdem
scientiam quam ipse habet, per hoc quod movet eum ad ordinandum phantasmata in
anima sua, ad hoc quod sint disposita convenienter ad intelligibilem
apprehensionem”. Dove bisogna tener presente che, secondo l'averroismo, l'anima
sensitiva, alla quale appartengono la fantasia e i fantasmi, è forma del corpo,
e, quindi, a differenza dell'anima intellettiva, è propria di ciascun singolo
soggetto e molteplice secondo la molteplicità dei soggetti. Onde, l'atto del
pensare si può attribuire all'uno o all'altro singolo soggetto, al maestro o
allo scolaro, non in quanto puro atto del pensare (nel qual senso va attribuito
solo all'intelletto unico) ma in quanto pensiero che si riflette e, per così
dire, s'incorpora nei fantasmi, i quali appartengono in proprio all'uno o
all'altro individuo o soggetto particolare. La differenza fra il maestro e lo
scolaro non sta, dunque, nel fatto che l'uno sappia e l'altro non sappia, uno
abbia la scienza e l'altro no, dal momento che maestro e scolaro hanno tutti e
due, per natura, lo stesso intelletto e, perciò, la stessa scienza. Ma sta,
invece, nel fatto che il maestro ha già disposto i fantasmi della sua
immaginazione in modo che essi rispecchino e realizzino le forme intellettuali
dell'intelletto unico; mentre lo scolaro non li ha ancor disposti così, ma deve
tuttavia disporli. Il maestro, quindi, non «comunica» né trasmette scienza nel
senso vero e proprio della parola, ma solo stimola con l'insegnamento lo
scolaro a formare e ordinare quei fantasmi che permetteranno, se ci si consente
l'espressione, alla luce dell'intelletto unico, che pur c'era nella sua anima,
ma era come adombrata e annuvolata, di passare a risplendere in tutta la
sua chiarezza. Teoria, bisogna pur dirlo, simile in modo addirittura
impressionante a certe dottrine moderne le quali non hanno su di lei che il
vantaggio di non formulare sempre chiaramente le ultime conseguenze cui
giungono, ma le quali, viceversa, ammettono un «Io» unico per tutti i soggetti
particolari, e debbono poi rinviare alla sensibilità quando vogliono spiegare
la differenza, almeno apparente, fra un soggetto e l'altro, proprio come già
faceva, a suo modo, la teoria averroistica. Più esperte e scaltrite, le teorie
moderne sono pronte a coprire col divenire e la dialettica ogni loro
deficienza; più ingenuo e grossolano, l'averroismo si lasciava subito sbarrare
il passo da questa formidabile difficoltà. Se l'intelletto è unico, diverso e
separato dalle singole anime individuali, come si può poi attribuire a queste
singole anime, e ai singoli soggetti, Tizio, Caio e Sempronio, l'atto del
pensare, l'atto, cioè, di un soggetto per definizione affatto diverso da loro?
Abbiamo visto, è vero, che gli averroisti tentavano di vincere questa
difficoltà amalgamando l'intelletto unico con l'anima individuale attraverso il
termine medio dei fantasmi e delle forme o specie intelligibili. Ma si tratta
di una soluzione che non risolve nulla, poiché tale «continuatio vel unio» come
la chiama S. Tommaso non spiega in qual modo l'azione dell'intelletto si possa
attribuire a questo o quel soggetto particolare. Il fatto che le specie o forme
intelligibili siano nei fantasmi dell'anima individuale non significa punto che
siano da essa pensate, così come l'essere il colore in una parete non vuol dire
che la parete vegga il colore, o che si debba attribuir alla parete l'azione
del vedere. Per avere in sé il colore, la parete non vede, ma è veduta; per
avere riflesse nei suoi fantasmi le forme o specie intelligibili, l'individuo,
Tizio o Caio, non penserebbe, ma piuttosto, sarebbe pensato, dall'unico
intelletto [S. Theol. I, q. 76, art. 1 (in corp.)]. Difficoltà, si noti
bene, che non si risolve col far entrare a forza l'intelletto unico dentro i
soggetti particolari, o col renderlo, come oggi si preferisce dire,
«immanente». Poiché la questione non è di lontananza o vicinanza, di continuità
o di contiguità, ma di possibilità o impossibilità logica e metafisica. Si
chiede appunto se sia possibile rendere «immanente» un intelletto unico nei
singoli soggetti particolari, e proprio qui si trova la difficoltà insolubile.
Non è ora il caso di addentrarsi oltre nell'acuta critica che San Tommaso fa
alla teoria dell'intelletto unico tutte le volte che gli accade di trattare
dell'averroismo sia direttamente che indirettamente; né di enumerare i poderosi
argomenti in proposito della quest. 76 (I, art. 1 e 2) ch'egli stesso richiama
alla quest. 117. Qui basti ricordare che l'aver criticato quella teoria
averroistica porta l'Aquinate a denunciare un equivoco, nel quale altre teorie,
ben più moderne e scaltrite dell'averroismo, sarebbero poi cadute. Questo: che,
nell'insegnamento, perché si possa garantire la comunicazione fra maestro e
scolaro e il loro reciproco intendersi, non occorre che la scienza del maestro
sia una di numero [Cfr. supra, pag. 24, nota, la proposizione condannata nel
1277] con quella dello scolaro, quasiché il medesimo sapere dovesse passare da
una mente all'altra come un pezzo di legno passa di mano in mano. Ma basta
soltanto che la scienza dello scolaro sia eguale o simile a quella del maestro:
identica per la identità delle cose conosciute pur attraverso due processi
mentali distinti e diversi e non per una materiale coincidenza e
sovrapposizione della mente del maestro a quello dello scolaro, «...non si dice
che il docente trasfonda la scienza nel discepolo, come se la stessa scienza -
numericamente la stessa scienza - che è nel maestro passasse nel discepolo; ma
che, mediante l'insegnamento passa nel discepolo una scienza, simile a quella
che è nel maestro...» [De Mag. Art. I ad 6.tum « ...docens non dicitur
transfundere scientiam in discipulum, quasi illa eadem numero scientia
quae est in magistro, in discipulo fiat, sed quia per doctrinam fit in
discipulo scientia similis ei quae est in magistero”]. Che significa, in
sostanza, dimostrare quanto poco sia fondata l'idea che la teoria dell'intelletto
unico possa facilitare o addirittura risolvere il problema della educazione,
colla sua materialistica contrazione di tutti i soggetti pensanti in un
soggetto solo, quasiché i soggetti fossero oggetti materiali che se non si
sbattono gli uni contro gli altri non c'è verso di metterli in rapporto fra
loro. V Nel De Magistro, invece, la teoria averroistica non è considerata
per ciò che si riferisce al problema della conoscenza, ma più in generale per
ciò che riguarda il problema metafisico e i rapporti fra la causa prima e le
cause seconde. Tanto è vero che l'autore esplicitamente citato non è Averroè,
come nella quest. 117 della Summa, ma Avicenna: ossia proprio colui che più
insiste sul carattere metafisico dell'intelletto separato, considerandolo come
l'intelletto primo, il solo prodotto immediatamente da Dio, e, in pari tempo,
il datore delle forme a tutti gli esseri. Una specie di idealismo monistico,
dunque, secondo il quale, e il problema metafisico e il problema morale e il
problema della conoscenza sono risolti con l'ammettere che le forme degli
esseri, la virtù e la scienza derivino dall'intelletto unico e da esso
fluiscano, per così dire, sia negli oggetti sia nei soggetti individuali.
Accanto a questa dottrina S. Tommaso ne ricorda, per criticarla parimente,
un'altra che sembrerebbe quasi una teoria materialistica, se non ci aiutasse il
riscontro con la citata questione 117 della Summa. Altri credettero, è detto
nel De Magistro, che tutti codesti elementi, forme, scienza, virtù, fossero,
anziché in un primo agente, nelle cose stesse, e venissero poi soltanto in luce
per opera dell'azione e degli agenti naturali: come se tutte le forme delle
cose fossero già immanenti nella materia. «Quidam vero e contrario opinati
sunt; scilicet quod omnia ista rebus essent indita, nec ab exteriori causam
haberent, sed solummodo quod per exteriorem actionem manifestantur: posuerunt
enim quidam, quod omnes formae naturales essent actu in materia latentes» [De
Mag. art. I (in corp.)]. Ma nella quest. 117 della Summa è detta opinione dei
Platonici "opinio Platonicorum" quella secondo la quale gli agenti
naturali preparano soltanto a ricevere le forme che la materia acquista per
partecipazione delle Idee. «Sic etiam ponebant, quod agentia naturalia
solummodo disponunt ad susceptionem formarum, quas acquirit materia corporalis
per participationem specierum separatarum» [S. Theol. I, q. 117, art, 1 (in
corp.)]. E il richiamo alla concezione platonica è efficacemente riconfermato
dal De Magistro stesso, ove, tra le conseguenze di questa teoria si menziona
appunto il concetto che all'anima individuale sia concreata la scienza e che,
perciò, l'insegnare e l'imparare in altro non consista se non nel ricordarsi
che fa l'anima della scienza già posseduta fin dall'inizio e poi obliata col
suo ingresso nel corpo [De Mag. loc. cit]; cioè precisamente la dottrina
platonica della anamnesi, che è appunto, come sappiamo, una delle più antiche
giustificazioni della autodidattica. La dottrina platonica, dunque (che è
anche, in gran parte, non dimentichiamolo, la dottrina agostiniana) e la
dottrina averroistica sono da S. Tommaso non tanto contrapposte, come potrebbe
avvenire di una teoria materialistica e di una idealistica, ma anzi poste sulla
stessa linea, come due forme diverse di un medesimo idealismo. E,
infatti, quanto all'insegnamento, che differenza ci può essere fra la teoria
averroistica che concede al maestro solo di stimolare lo scolaro a disporre i
suoi fantasmi in modo che lascino passare la luce dell'unico intelletto la
quale già ardeva, ma velata, nella sua anima, e la teoria platonica che vede
nell'insegnamento una rimozione degli ostacoli che il corpo e i sensi
frappongono, nell'anima stessa, al ricordo della scienza che già possiede, ma
ottenebrata e obliata? E che differenza c'è, si potrebbe aggiungere, fra queste
antiche dottrine e le teorie dell’idealismo più moderno che nel maestro e nello
scolaro vogliono vedere due aspetti o momenti diversi di un Soggetto solo, per
cui debbono ammettere che lo scolaro ha la stessa scienza e lo stesso pensiero
del maestro, ma solo in un grado di consapevolezza oscuro e involuto e che
l'insegnamento avrà per unico compito di render più chiaro ed evoluto? In
realtà siamo sempre allo stesso punto: idealismo e autodidattica. Nel
combattere la possibile deformazione dell'agostinismo in senso averroistico, S.
Tommaso ha effettivamente innanzi a sé già i motivi fondamentali di quella che
sarà poi pur con altre forme e altra mentalità, la pedagogia idealistica
moderna. E all'autodidattica e all'idealismo che ne è il fondamento, S.
Tommaso si sforza con successo, in questi suoi scritti sul magistero, di
togliere proprio quella pericolosa arma che derivava loro dal presentarsi come
l'unica soluzione capace di rimuovere sul serio tutte le difficoltà inerenti al
problema educativo: prima fra le altre, si capisce, quella riguardante la
possibile «comunicazione» fra maestro e scolaro. Se lo scolaro non ha già in sé
e nel suo interno la scienza, come potrà riceverla dall'esterno? Abbiamo visto
che per S. Agostino un argomento fondamentale contro l'efficacia didattica dei
«segni» ond'è intessuto il linguaggio era proprio questo: o lo scolaro già
conosce le cose da essi significate, o non le conosce: se le conosce, essi non
servono a insegnargliele, se non le conosce, non capirà nemmeno i segni.
A ciò S. Tommaso risponde negando senz'altro il dilemma, col richiamarci uno
dei più importanti caratteri della conoscenza, che non è un oggetto o una cosa,
la quale o c'è o non c'è, ma un processo che si svolge per gradi e si può
considerare sotto diversi aspetti. Ha lo scolaro in sé la scienza,
dall'interno, senza che il maestro gl'insegni? In un certo senso, sì, giacché,
per poter conoscere, ogni singolo soggetto deve avere in sé non solo l'attività
conoscitiva, il lume intellettuale, ma anche alcuni concetti primi, alcune
«forme» o «categorie» come più modernamente si direbbero (l'essere, l'uno, la
sostanza, la causa ecc.) applicando le quali al materiale offertoci dalla
sensibilità e dall'esperienza noi formiamo poi tutti gli altri concetti. E se
ne avessimo il tempo, sarebbe, ora, interessantissimo fermarsi su questa teoria
tomistica della conoscenza, che non è affatto un «innatismo» simile a quello,
poniamo, di Cartesio, ma piuttosto un vero e proprio «apriorismo» capace di
richiamarci quello che con molti gravi inconvenienti e con una consapevolezza
critica assai minore del tomismo doveva costruire più tardi la filosofia
moderna [la quale distruggeva, con Hegel e dopo di lui, quello che aveva costruito,
almeno in parte, con Kant; e dopo aver ammesso, con Kant, l'«a priori» nella
conoscenza, distruggeva, dopo Hegel, ogni distinzione fra «a priori» ed
«a posteriori»]. Questa teoria, secondo San Tommaso, che riconosce un «a
priori» nella conoscenza, sta nel giusto mezzo fra le due teorie estreme sopra
ricordate: che vorrebbe tutt'e due nell'anima il possesso completo della
scienza (benché, eventualmente, oscurato) sia per concreazione che per
partecipazione dell'Intelletto unico. Laddove la scienza c'è, se si vuole,
nell'animo nostro, ma solo «in potenza» ed implicitamente. L'attività
dell'intelletto nostro ha in sé alcuni germi di scienza «quaedam
scientiarum semina», cioè alcune, virtualità, o disposizioni a formare
immediatamente, appena stimolata dall'esperienza sensibile, i principi primi, o
le «categorie». Che contengono già, in certo modo, tutta la scienza, ed ogni
scienza possibile, passata, presente o futura, appunto perché sono i concetti
primi e più universali dell'intelletto, concetti presupposti da ogni altro
concetto e senza i quali nessun altro concetto si forma, né si potrebbe
formare. Così come, per servirsi di un paragone grossolano, nelle sette note
musicali sono contenute, in potenza, tutte le sinfonie che la mente umana abbia
escogitato o sia mai per escogitare. Ma (proprio come, benché nelle sette
note musicali sia contenuta tutta la musica in potenza ed implicitamente,
esplicitamente non c'è nessuna sinfonia, e l'inesperto benché tocchi quanto
vuole i tasti del pianoforte non ne cava nulla) nei primi principi è contenuta
tutta la scienza, e tutto lo scibile umano in potenza ed implicitamente; ma in
atto ed esplicitamente non v'è in essi nessuna scienza concreta e determinata
o, meglio, vi è quella sola scienza che riguarda i primi principi stessi,
poniamo il concetto dell'essere, il concetto dell'uno ecc. E dunque lo scolaro
sa o non sa, ha o non ha nell'interno del suo animo quella scienza che il
maestro gli insegna? Sa e non sa, ha e non ha, nello stesso tempo. Sa ed ha, in
potenza ed implicitamente; non sa e non ha in atto ed esplicitamente. Sa, in
quanto possiede, nel suo intelletto, i primi principi, nei quali ogni scienza è
contenuta; non sa, in quanto dai primi principi non ha ancora ricavato quelle
determinate e particolari cognizioni che il maestro gli insegna. L'opera del
maestro è, quindi, inutile o superflua? Nemmeno per sogno. Senza di essa lo
scolaro sarebbe come l'inesperto musicista che ha innanzi a sé, nella tastiera
del pianoforte, tutti i capolavori possibili ma, sciaguratamente, non sa
cavarne fuori che, al massimo, una scala. Giacché proprio questo è,
secondo San Tommaso uno dei caratteri fondamentali dell'intelligenza umana:
essere una vis collativa o, come più modernamente si direbbe, una «attività
sintetica». A differenza del senso che si comporta egualmente rispetto a tutti
i suoi oggetti sì che poco importa, ed è una circostanza accidentale che
percepisca prima gli uni o gli altri, l'intelletto non si comporta egualmente
nel considerare tutti gl'intelligibili; ma subito vede alcune cose, come quelle
che sono per sé note, nelle quali sono contenute implicitamente alcune altre
che la stessa potenza intellettiva non può intendere se non esplicando per
mezzo della ragione le cose che nei principi sono implicitamente contenute [De
Mag. Art. I (ad XII. mum) « ...non se habet aequaliter ad omnia intelligibilia
consideranda; sed statini quaedam videt, ut quae sunt per se nota, in quibus
implicite continentur quaedam alia quae intelligere non potest nisi per
officium rationis ea quae in principiis implicite continentur explicando
»]. L'intelletto, cioè, afferra immediatamente i primi principi, e poi,
mediante quelli, conosce tutte le altre cose, compie un atto semplice e
immediato pei primi principi, e un processo mediato per tutte le altre cose. Ed
è attività unitiva e sintetica appunto perché tutto quello che conosce, nella
scienza, come vero, lo conosce in quanto lo può connettere ai primi principi
mediante il processo del ragionamento. Tanto che se «si propongono ad alcuno
cose non incluse nei principi per sé noti, o che non vi si manifestano incluse,
non si produrrà in lui scienza, ma opinione, ovvero fede». VI. Sia
concesso prima di procedere oltre, fare un'osservazione: questa teoria di
S. Tommaso riguardante i primi principi, benché più volte abbia dato
origine a delle critiche, non è mai stata, né poteva esserlo, veramente
contraddetta neppure dalle più audaci e radicali teorie moderne della
conoscenza. Le quali, sebbene abbiano protestato contro l'immediatezza dei
primi principi e ci abbiano voluto vedere quasi un segno di umiliante passività
dell'intelletto, non hanno, viceversa, poi, mai potuto far a meno, per conto
loro, né dei primi principi, né della immediatezza relativa. Sì che tutto si è
risolto, in ultima analisi, nel cambiare il nome dei primi principi serbandone,
più o meno, immutata la sostanza. Cosi al posto dei principi si sono messe le
«categorie» di Kant, l' «io» di Fichte o i momenti e gradi dello spirito degli
idealisti moderni. Ma anche nella più estrema ipotesi, anche ridotte, cioè,
tutte le categorie ad una sola, quella dell'«io», resta sempre vero che esse
così si sono credute di poter ridurre, appunto, in quanto è sembrato che l'
«io» solo fosse un principio immediatamente per sé noto, e tale che tutte le
altre cose potessero esser note solo in quanto da lui si deducono e a lui si
riconducono. Che è precisamente, con molte parole diverse e qualche asserzione
assai discutibile per di più, la stessa posizione nella quale si trovano i
«principi primi» della teoria tomisticoaristotelica, la quale sotto questo
aspetto è dunque tanto «moderna» e critica come qualsiasi altra. Nessun
filosofo degno di tal nome potrà mai negare il duplice carattere, mediato
quanto alle conclusioni e immediato quanto ai principi, della conoscenza
intellettuale. Appunto per questo l'attività intellettuale ha bisogno di
un «motore» (indiget... motore) che la faccia passare dalla potenza all'atto. E
ne ha bisogno proprio perché il processo della scienza pel quale dai principi
si ricavano le conclusioni, non è un processo che si svolga per una necessità
meccanica e fatale, cosicché posti da Dio nella mente umana i primi principi
debba conseguirne senz'altro la scienza, così come un grave lasciato a se
stesso deve fatalmente cadere. L'intelletto umano d'altra parte non è come
l'intelletto angelico che scorge immediatamente nei principi le conclusioni e
che con un solo e semplice atto coglie la verità: esso, invece, scorge
immediatamente la verità dei primi principi, e quella di tutte le altre
cognizioni solo in quanto le può ridurre, mediante il ragionamento, ai primi
principi stessi. Ora, proprio in questo processo di riduzione ai principi e
deduzione da esso, il discepolo ha bisogno d'aiuto; sia perché può sbagliare,
sia perché può non avere la forza e la maturità mentale sufficiente per
effettuare certe deduzioni e conclusioni. Inconvenienti ai quali rimedia il
maestro in quanto gli mostra l'ordine dei principi e delle conclusioni: «
inquantum proponit discipulo ordinem principiorum ad conclusione? qui forte per
seipsum non haberet tantam virtutem collativam » [S. Theol. loc. cit]. Ma
il soggetto pensante non ha in sé come sola fonte di conoscenze, il lume
intellettuale e i primi principi, ha anche un'altra maestra: l'esperienza, o,
meglio, la conoscenza sensibile. Già i primi principi, i concetti primi e per
sé evidenti, abbiamo visto che sono nel nostro animo, forme a priori,
disposizioni o virtualità che passano all'atto solo al primo stimolo della
esperienza. Passati all'atto e costituiti che siano essi non producono nuove
conoscenze se non in quanto si applicano, daccapo, ai dati che l'esperienza
sensibile ci offre. Coi concetti di «uno», di «essere», ecc. (primi principi)
io non posso formare i concetti di «animale», di «vegetale», di «uomo» ecc. se
l'esperienza sensibile non mi dà la percezione dei singoli uomini, vegetali,
animali ecc. dai quali astraendo certe caratteristiche essenziali comuni io
formo appunto il concetto di «animale», «vegetale», «uomo » ecc. Processo che
S. Tommaso descrive così : «Cum autem aliquis hujusmodi universalia
principia, applicat ad aliqua particularia, quorum memoriam et experimentum per
sensum accipit, per inventionem propriam acquirit scientiam eorum quae
nesciebat...» Non basta, cioè, che ci siano i primi principi, occorre che ci
siano anche le cognizioni particolari da ridurre ad essi; se no il processo che
abbiamo descritto prima, col quale la mente umana conosce la verità, non
potrebbe aver luogo. Ora, la conoscenza di queste particolari nozioni manca, o
meglio, è scarsa ed imperfetta nello scolaro, che ha esplorato la propria
esperienza sensibile molto meno e molto peggio del maestro. Ed ecco un altro
modo col quale il maestro aiuta il discepolo: presentandogli, appunto, delle
nozioni o proposizioni particolari, la verità delle quali egli possa saggiare
da sé al lume dei primi principi, ovvero proponendo alla sua osservazione
oggetti ed esempi sensibili da cui possa ricavare direttamente le cognizioni
stesse [«...cum proponit ei aliquas propositiones minus universales, quas tamen
ex praecognitis discipulus dijudicare potest; vel cum proponit ei aliqua
sensibilia exempla, vel similia vel opposita, vel aliqua hujusmodi, ex quibus
intellectus addiscentis manuducitur in cognitionem veritatis ignotae». S.
Theol. loc. cit. (in corp.)]. Far questo, S. Tommaso lo dice, da parte del
maestro: procurare allo scolaro «aliqua auxilia vel instrumenta» aiuti e
strumenti di lavoro, potremmo dir noi, giacché il loro uso è proprio simile,
sotto quest'aspetto, agli strumenti materiali, che facilitano il lavoro pur
senza diminuire, anzi accrescendo la attività e la solerzia di chi li
adopera. Che cosa c'è di vero, dunque, nella teoria agostiniana, secondo
la quale è Dio che, dall'interno, mostra la verità all'anima umana? Questo: che
da Dio appunto viene all'anima nostra la facoltà di conoscere, il lume
intellettuale, i primi principi, la sensibilità. Ma poi lo sviluppo di questa
facoltà e il suo passaggio dalla potenza all'atto avvengono non già per intervento
diretto della Causa Prima, sibbene per intervento di una causa seconda, qual è
precisamente il maestro umano. Il che non diminuisce affatto la potenza o la
dignità della Causa Prima, la quale ha creato appunto le cause seconde, fra le
quali i maestri, non perché ottenessero nell'universo solo un effetto
decorativo, ma perché davvero «causassero», cioè producessero qualche cosa
«...prima causa ex eminentia bonitatis sua? rebus aliis confert non solum quod
sint, sed etiam quod causae sint» [De Mag Art. I (in corp.)]. Dio ha conferito
alle cause seconde, non solo l'essere, ma anche il causare, l'esser cause. Onde
significherebbe non accrescere, ma diminuire la bontà e la potenza di Dio,
supporre ch'Egli avesse fatto delle cause incapaci di causare, quasi sbagliandosi
e contraddicendosi nell'opera sua stessa. Ch'è appunto l'inconveniente
rimproverato da San Tommaso alle due teorie, averroistica e platonica, le quali
volendo riferir tutto, o all'azione dell'Intelletto unico, o all'azione delle
forme separate (idee) finiscono col non vedere più, negli agenti naturali e
nelle cause seconde, se non qualcosa d'illusorio e irreale. Il che accade alle
teorie dell'autodidattica, che ammettono la esistenza del maestro, salvo poi a
togliergli ogni possibilità e capacità effettiva d'insegnare. La teoria
dell'autodidattica così è colpita proprio al cuore: nelle dottrine filosofiche
che ne costituiscono la giustificazione. * * * Ma, e quel tale, difficile
problema della «comunicazione» fra maestro e scolaro? E quella tale impossibilità
che la scienza si trasmettesse, mediante i puri segni sensibili del linguaggio,
dall’uno all'altro soggetto ? Per rispondere a queste domande S. Tommaso
tiene a chiarire alcuni equivoci che saranno, in ogni tempo, i più potenti
motivi delle teorie pedagogiche tendenti all'autodidattica. E, in primo
luogo, il passaggio della scienza dal maestro allo scolaro è proprio vero che
si debba considerare come il passaggio di un oggetto materiale da una mano
all'altra? Anzi, è vero che sì possa parlare, in genere, di «passaggio» della
scienza dal maestro allo scolaro? Un oggetto materiale passa da una mano
all'altra sempre restando lo stesso oggetto, uno e identico. La scienza passa
anche lei di mente in mente restando sempre una? Abbiamo già visto che non è
così. Lo scolaro non riceve la stessa scienza del maestro, ma se ne forma una
simile, la quale benché coincida, e contenga, cioè, le stesse cognizioni, non è
numericamente una con quella del maestro. Così, per prendere un esempio
volgare, due ciliege sono eguali fra loro come ciliege, ma sono tuttavia due e
non una, e due rimarrebbero sempre anche se fossero uguali persino nelle più
insignificanti particolarità, come due macchine di una identica serie. E,
dunque, chi non accetta l'intelletto unico di Averroé non ha punto l'obbligo di
mostrare come una stessa scienza passi, quasi oggetto materiale, dal maestro
allo scolaro: basta che dimostri come lo scolaro possa formarsi - con
un'attività che resta sua e interna al suo animo - una propria scienza, pur simile,
nel contenuto delle nozioni, alla scienza del maestro. In secondo luogo:
pensano alcuni (e lo pensano anche oggi) che siccome nel maestro e nello
scolaro si svolge un processo sostanzialmente identico, così cada ogni ragione
di distinguerli l'uno dall'altro, almeno nell'atto dell'insegnare e imparare.
Che cosa c'è, infatti, nel maestro? Il processo della conoscenza. E nello
scolaro? Ancora il processo della conoscenza. Dunque le leggi dell'educazione
sono quelle della conoscenza, anzi l'educazione è addirittura la conoscenza, e
allora la pedagogia è una scienza senza oggetto proprio, la quale si risolve
nella teoria del conoscere e basta. Altro equivoco simile al primo. E’ ben vero
che il modo col quale apprendiamo scienza da noi stessi è simile e sottostà
alle medesime leggi del modo col quale apprendiamo scienza dal maestro. Ma, al
solito, simile non vuol dire uguale e sottostare alle medesime leggi non vuol
dire essere identici né uno di numero. VII Per esempio, nella medicina,
il medico guarisce l'ammalato non facendo altro che aiutare e stimolare le
forze intrinseche dell'organismo, il quale, rigorosamente parlando, poteva
guarire da solo, tanto è vero che qualche volta guarisce di fatto senza bisogno
di medici né di medicine. Allo stesso modo il maestro procura scienza allo
scolaro non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche
dell'organismo intellettuale: l'intelletto, l'esperienza, l'uso dei primi
principi. Il medico per guarir l'ammalato si fonda sulla conoscenza delle leggi
fisiche e fisiologiche, il maestro per insegnare si fonda sulla conoscenza
delle leggi intellettuali. Anche lo scolaro poteva, rigorosamente parlando,
imparare da sé, tanto è vero che vi sono sempre stati degli autodidatti. Che
cosa significa questo? Soltanto che «...in his autem quae fiunt a natura et
arte, eodem modo operatur ars, et per eadem media, quibus et natura» [De Mag.
Art. I (in corp.)] il che, come è ovvio, non vuol dire affatto che, dunque,
l'arte non esista, o sia identica alla natura. «Come la natura chi
soffrisse per il freddo riscaldandolo lo sanerebbe, così fa anche il medico:
onde anche si dice che l'arte imita la natura. Similmente avviene pure
nell'acquisizione della scienza, che, ricercando e ritrovando, il docente
conduce altri a sapere cose ignote nello stesso modo in cui alcuno conduce se
medesimo a conoscer l'ignoto» [Ibid. Si cfr. la traduzione Guzzo, Vallecchi ed.
Firenze]. Dunque, la somiglianza fra natura e l'arte o il fatto che
l'arte imiti la natura, nell' insegnamento come nella medicina o in altre cose,
non prova punto che l'arte non esista, o si possa considerare come una entità
trascurabile. Ma, e quel tal problema della «comunicazione»? Com'è possibile
che il maestro, imitando la natura, possa, sia pur non «trasmettere» nel senso
materiale della parola, ma anche solo provocare o stimolare nel discepolo, una
scienza eguale alla sua? Ecco, come S. Agostino, ancheS. Tommaso non
mette in dubbio che lo strumento principale della comunicazione fra maestro e
discepolo sia il linguaggio e siano i «segni» ond'esso è costituito: solo, non
si arresta alla difficoltà che S. Agostino aveva creduto insuperabile, di
conciliare la materialità e il carattere sensibile dei segni linguistici colla
idealità e l'interiorità della scienza. Poiché il «segno» del linguaggio ha,
per S. Tommaso, una fisionomia tutta speciale: è «sensibile», sì, ma d'una, se
vogliamo così chiamarla, «sensibilità» affatto diversa da quella che possiamo
attribuire alle qualità degli oggetti materiali ed alle vere e proprie
sensazioni: sensibile della sensibilità che tocca piuttosto all'immaginazione e
al suo prodotto, il «fantasma» o l'immagine, che è una sensibilità di un grado
più elevato ed immateriale di quello che compete alle sensazioni pure e
semplici. Poiché il fantasma linguistico (parola od altro segno che sia), a
differenza delle sensazioni o percezioni che ci vengono dagli oggetti materiali
suppone già l'esistenza dei concetti nella mente, e, nasce per esprimerli; e
sta, perciò, con essi, in una relazione molto più immediata che non sia quella
della sensazione coi medesimi concetti. Facciamo un esempio. Si prende la
legge fisica: «il calore dilata i corpi». Che è quella legge? Niente altro che
una «forma». Nella natura é la «forma» di quel processo che è, appunto, la
dilatazione. Ora una forma, nella natura, può esistere solo come esistono in
generale le forme in una materia, come conformazione, cioè, di determinati
oggetti o di un determinato accadere. Nella natura la legge della dilatazione
dei corpi è, appunto, il dilatarsi dei singoli corpi a, b, c ecc. e la
conoscenza che ne abbiamo è appunto la sensazione o percezione dei corpi a, b,
c, mentre si dilatano. Potrei, dunque, arrivare a formular la legge della
dilatazione partendo dalle sensazioni e percezioni pure e semplici dei corpi?
Certo che potrei e posso, in quanto, osservando prima il corpo a, poi il corpo
b, poi il corpo c ecc. posso arrivare e arrivo ad estrarre, da queste
percezioni particolari, un concetto e una legge universale riguardante la dilatazione.
E come posso arrivarci io, posso condurvi lo scolaro, lasciando che osservi a
sua volta i corpi a, b, c, e poi ne tragga, se gli riesce, la legge della
dilatazione. Si noti, però, la difficoltà e la lentezza di questo
processo. Quanti uomini hanno osservato sensibilmente il dilatarsi dei singoli
corpi, eppure non sono riusciti a formulare la legge della dilatazione! Quanti
videro i corpi cadere, e non ne seppero trarre la legge della gravitazione
universale! E si capisce: quella «forma» che è la legge della dilatazione
esiste nei corpi, ma non come forma pura e come concetto, bensì come forma
d'una materia. Come forma pura e come concetto non la troviamo bell'e fatta, ma
bisogna che la costruiamo noi, con tutte le difficoltà e incertezze che ne seguono.
Ma si prenda, invece, la stessa legge della dilatazione qual è formulata in un
trattato di fisica, o dalla voce del maestro, con queste precise parole: «il
calore dilata i corpi». Anche qui essa viene espressa con segni sensibili,
all'udito o alla vista, le parole. Segni tanto sensibili quanto lo è
appunto la percezione dei corpi a, b, c. Ma con questa differenza. Che per
poter dire o scrivere le parole «il calore dilata i corpi» si è già dovuto
formare il concetto della dilatazione colla legge relativa. La legge della
dilatazione ha dovuto esserci, cioè, non più come forma di quell'accadere
materiale ch'è il dilatarsi dei singoli corpi, ma come forma pura nella mente
del fisico. E perciò chi legge o ascolta quelle parole non ha bisogno di tutto
un complicato e difficile lavoro per cavarne fuori la pura forma della legge
scientifica, ma assume direttamente da esse la legge in quanto pura forma o
concetto scientifico. Tanto è vero che è possibile vedere mille corpi a
dilatarsi e non ricavarne la legge della dilatazione, ma non è possibile udire
dal maestro o leggere nel libro di fisica le parole «il calore dilata i corpi»
(udire e leggere davvero, s'intende, e non solo far finta) e non ricavarne la
legge della dilatazione. Per lo meno: anche se il processo della visione e
della sensazione si compie regolarmente senza essere turbato in alcun modo, e
cioè anche ammesso ch'io osservi colla massima attenzione i singoli corpi, non
è detto che per questo io arrivi ad astrarre la legge della gravitazione o della
dilatazione. Mentre se lo leggo od ascolto regolarmente le parole colle quali
il fisico si spiega, io dovrò necessariamente intendere la legge della
gravitazione o della dilatazione, a meno che qualche ragione, diciamo così,
patologica non impedisca alla mia lettura o audizione di svolgersi
regolarmente. In quest'ultimo caso, insomma, svolto normalmente il processo, ne
ho come necessaria conseguenza l'apprendimento; nell'altro caso, no. È
questa, forse, una delle più originali caratteristiche della pedagogia
delineata da S. Tommaso. Per la quale, a differenza di ciò che succede in
moltissimi altri sistemi pedagogici, la parola del maestro non è né eguale né,
tanto meno, inferiore in valore agli oggetti esterni e, in genere,
all'esperienza sensibile dello scolaro, come accadrà poi, tanto spesso, nei
vari metodi «intuitivi» od «oggettivi» escogitati dalla pedagogia moderna, da
Comenius in poi. Questo non vuol dire certo che S. Tommaso svaluti l'esperienza
- abbiamo visto invece che la valuta moltissimo - né che non le attribuisca
tutta l'importanza che deve avere. Ma fra gli oggetti sensibili che possono
variamente essere offerti allo scolaro e la parola del maestro c'è, per S.
Tommaso, una differenza essenziale che c'impedisce di considerare quest'ultima puramente
come uno fra gli altri oggetti di possibile esperienza per lo scolaro. Giacché
è vero che in un certo senso "le stesse parole dell'insegnante, udite o
viste in iscritto, quanto al causare scienza nell'intelletto si portano come le
cose che sono fuori dell'anima: perché e dalle une e dalle altre l'intelletto
riceve le intenzioni intelligibili". Ma poi la somiglianza cessa qui,
poiché le parole dell'insegnante causano scienza "più da vicino" che
non i sensibili che esistono fuori dell'anima, in quanto le parole sono segni
delle intenzioni intelligibili [De Mag. Art. I (ad XI.nium) "ipsa verba
doctoris audita, vel visa in scripta, hoc modo se habent ad causandum scientiam
in intellectu sicut res quae sunt extra animam, quia ex utrisque intellectus
intentiones intelligibiles accipit; quamvis verba doctoris propinquius se
habeant ad causandum scientiam quam sensibilia extra animam existentia,
inquantum sunt signa intelligibilium intentionum "]. E sappiamo già che
cosa vuol dire quel "più da vicino", (propinquius) che non è punto
indice di vicinanza o lontananza materiale, ma solo del fatto che abbiamo
visto, dell'essere cioè presenti nel linguaggio le forme pure già astratte
dalla materia ed esistenti nella mente: le "specie" o
"intenzioni" intelligibili; le quali invece non sono presenti negli
oggetti esterni e nelle sensazioni. Talché lo scolaro le può assumere
senz'altro dalle parole del maestro; mentre non le potrebbe assumere
dalle cose e dalle sensazioni: non le potrebbe se non mediatamente, attraverso
un complesso e delicato procedimento astrattivo il cui risultato finale resta,
in ultima analisi, incerto, almeno rispetto a quelle particolari forme e verità
che l'insegnante vuol fargli, volta a volta, scoprire. In fondo, è ancora la
giusta osservazione di S. Agostino che S. Tommaso accoglie e sviluppa da par
suo: nelle cose che facciamo percepire solo sensibilmente allo scolaro, questi
non sa, né può sapere, dalla sola percezione, quali siano gli elementi
essenziali e quali gli elementi accidentali della cosa, quali gli elementi su
cui abbiamo voluto fermare la sua attenzione e quali quelli che può anche
trascurare. E da questa incertezza, causa feconda di errori, non si esce se non
aggiungendo, alla percezione della cosa, l'insegnamento verbale del maestro,
che solo può metterci innanzi le forme già astratte dalla materia e farci
subito distinguere l'essenziale dall'accidentale, l'oggetto proposto al nostro
pensiero, da altri oggetti reali o possibili. Così il linguaggio del maestro,
lungi dal sopprimere l'esperienza dello scolaro, è proprio quello che la
spiega, l'ordina, l'organizza e, insomma, le dà un vero significato e
valore. È risolto, così, quel tal problema della «comunicazione» fra
maestro e scolaro? Certo, ed è risolto proprio col rispettare ambedue quei dati
del problema che a prima vista parevano inconciliabili: il carattere sensibile
del linguaggio, o, in genere, dei «segni» fonici, mimici o grafici di cui si
serve il maestro per operare ab estrinseco sulla coscienza dello scolaro e,
insieme, il carattere affatto intimo e interno che sempre ha la scienza
nell'animo dello scolaro medesimo, poiché vera «causa» di scienza allo scolaro
- San Tommaso non si stanca di ripeterlo - sono non già i «segni» del maestro,
ma il lume intellettuale e i «primi principi» dello scolaro stesso, il quale
scopre la verità (o la falsità) di ciò che il maestro gli ha insegnato, non già
ricevendo soltanto le forme intelligibili, ma riducendo i concetti così
formati, sotto i primi principi, mercé quella attività collativa nella quale
consiste il raziocinio, attività, senza nessun dubbio, originale e spontanea,
che il maestro può stimolare e aiutare come abbiamo visto, ma in nessun modo
sostituire. L'opera del maestro — altro errore che San Tommaso combatte
continuamente negli argomenti acclusi al primo articolo del De Magistro — non è
già un'opera creativa; come se il maestro dovesse dar lui al discepolo il lume
intellettuale e i primi principi. Ma ciò non vuol dire che sia un'opera
superflua e inesistente: crederlo, è l'illusione di coloro che scambiano
l'attività colla creazione, l’operare col trarre dal nulla; e non potendo
riconoscere in un uomo qual è il maestro un'attività creativa propria solo di
Dio, finiscono col negargli ogni e qualsiasi attività od operazione.
L'arte dell'insegnamento non crea la natura intellettuale; la presuppone. Ma la
natura stessa dell'intelletto umano è così fatta che senza l'insegnamento
rimarrebbe una vuota potenza non realizzata, o, almeno, realizzata attraverso
un processo assai lento e malsicuro. La dimostrazione esauriente di questa tesi
si trova nel secondo articolo del De Magistro, che è una delle critiche più
brillanti e spregiudicate che siano mai state fatte all'autodidattica. * * *
VIII Articolo paradossale in apparenza, e che suona stranamente
agli orecchi di noi moderni abituati ormai da una lunga tradizione a ritenere
l'autodidattica non solo un fatto evidentissimo e una realtà
incontrastabile, ma addirittura il centro e il principio vitale di ogni
educazione. Può dirsi qualcuno maestro di se stesso? A noi sembra di sì:
sembra, anzi, che tutti e non soltanto qualcuno, siano, in certo modo almeno,
maestri di se stessi. Ebbene, San Tommaso risponde senz'altro di no; e val la
pena che, prima di scandalizzarci o di spaventarci, intendiamo bene il
principio sul quale l'Angelico dottore fonda la sua dimostrazione; ch'è poi, in
ultima analisi, lo stesso principio sul quale ha fondato la dimostrazione
precedente. E, anzitutto, si faccia bene attenzione alla differenza che c'è
fra queste due espressioni, apparentemente simili: «acquistar scienza da sé ed
«esser maestro di se stesso». Che cosa vuol dire «acquistar scienza da sé»
secondo la dottrina tomistica? Niente altro se non quello che abbiamo già
visto. L'uomo possiede il lume intellettuale e i primi principi. Applicando
tale sua attività al materiale offertogli dalla esperienza sensibile egli
giunge da sé ad astrarre certi concetti, cioè ad accogliere nella sua mente
come pure forme intelligibili quelle stesse forme che, nella natura, esistono
solo come forme di una materia. Ne abbiamo visto, prima, un esempio a proposito
della gravitazione e della dilatazione. È questa, così ottenuta, scienza
vera e propria? Senza dubbio. Anzi, scienza alla cui estensione e complessità non
ci è dato mettere un limite a priori. Supposta, da parte del soggetto umano,
una continua e indefinita esplorazione della esperienza sensibile e una
correlativa astrazione di forme, nulla si oppone a che ne risulti una scienza
anch'essa in via d'indefinito accrescimento e a che chiunque si possa
costruire, per questa via, un sapere teoricamente illimitato. Tale è l'acquisto
della scienza che si ha per opera della natura, quando, cioè, la ragione
naturale per se stessa giunge a cognizione delle cose ignorate [De Mag. Art. I
(in corp.)]. E questo modo S. Tommaso lo definisce, per evitar confusioni, con
un termine suo proprio: trovare, o scoprire: inventio. Ma se questo
processo é, innegabilmente, «acquisto di scienza», è poi anche «insegnamento»,
o magistero? Qui la cosa cambia aspetto. L'insegnamento è un'operazione che si
svolge mediante il linguaggio e che suppone, perciò, l’esistenza delle forme
intelligibili come forme pure. Ora, un'esistenza tale noi sappiamo che quelle
forme non possono averla nell'esperienza sensibile e nella natura, dove sono
soltanto forme d'una materia: debbono averla nella mente. Ma nella mente di
chi? Nella mente di colui che impara e ricerca, no di certo, altrimenti egli
non imparerebbe e ricercherebbe, ma già saprebbe. Dunque nella mente di un
altro, ossia del maestro. E allora l'insegnamento è un processo che lo stesso
soggetto non può esercitare su sé medesimo per la contraddizione che ne
consegue: perché dovrebbe al tempo stesso avere e non avere nella sua mente le
forme intelligibili e i concetti, averle, dico, non in potenza e come
possibilità di formarli, ma in atto, già formati e come principi positivamente
esistenti e operanti. Per potere insegnare a me stesso, per esempio, la legge
della gravitazione universale, io dovrei non soltanto avere la percezione dei
corpi che cadono e astrarne poi la legge, il che sarebbe inventio, o scoperta e
non insegnamento; ma dovrei già conoscere ed esprimere la legge come pura
legge; il che è assurdo, poiché, evidentemente, se già conoscessi la legge non
avrei bisogno di cercarla né di impararla. Sembra un'oziosa questione di
parole, e non lo è. Poiché S. Tommaso non chiama con due nomi diversi
l'acquistar scienza da sé (inventio) e l'insegnamento (doctrina, disciplina)
per il solo gusto di complicare il vocabolario, ma appunto per definire bene
due concetti che gli sembrano, e sono, distinti. Abbiamo noi il diritto di
estendere a una vera e propria azione qual è l'insegnamento, ciò che è
caratteristico, invece di un processo spontaneo e naturale come la scoperta e
l'invenzione? Abbiamo cioè, il diritto di considerare anche il naturale
acquisto della scienza che avviene spontaneamente e necessariamente in ciascuno
per il solo fatto d'esistere, di pensare, di guardarsi attorno, come una vera e
propria completa azione? A San Tommaso sembra di no, e questo è appunto
l'argomento sul quale tutta la dimostrazione del secondo articolo si regge. Per
potersi parlare di vera e propria «azione» (azione «perfetta») é necessario che
l'agente il quale fa da causa, contenga in sé in maniera essenziale e non
accidentale ciò che produce poi nell'effetto [De Mag. Art. II (in corp.)].
Così, ad esempio il fuoco è agente di sanità, per colui che soffre di una
malattia guaribile col calore, ma agente accidentale (imperfetto) poiché non
contiene se non fortuitamente e per accidens ciò che in quel dato caso produce
la guarigione. Ma lo stesso fuoco è agente essenziale (perfetto) nell'incendio
d'una casa, appunto perché, come fuoco, contiene già in sé tutto ciò ch'è necessario
agli effetti della combustione. E dunque se l'insegnamento ha da essere una
vera e propria «azione» (azione perfetta) occorre che nell’agente sia già
contenuto tutto ciò che sarà poi prodotto dall'azione. Il che accade soltanto
se il soggetto maestro è diverso dal soggetto scolaro, ossia ha già in sé in
atto, esplicitamente e perfettamente, tutto ciò che per sua opera sarà poi nel
discepolo: la scienza. La autodidattica, invece, o, meglio, l'inventio è azione
solo imperfetta, cioè non vera e completa azione, poiché in essa la causa, sia
l'intelletto e i primi principi, sia l'esperienza sensibile, contiene sì ciò
che sarà poi nell'effetto (la scienza, le forme intelligibili come forme pure)
ma lo contiene solo implicitamente e potenzialmente, quanto al suo essere di
scienza e di forma pura. E questa non è - si badi bene - un'astratta
escogitazione teorica senza nessuna rispondenza alla realtà. Al contrario, S.
Tommaso c'invita ad osservare con lui che le cose stanno proprio in tal modo.
Noi siamo, è vero, portati a lodare l'autodidatta e, perciò, attribuiamo
all'autodidattica un valore superiore, in certo senso, a quello del semplice
insegnamento. Ma nel far questo ci lasciamo sviare da un'osservazione che
dovrebbe, se ben interpretata, suggerirci proprio la conclusione contraria a
quella che abitualmente ne ricaviamo. Perché, infatti, esaltiamo, e
giustamente, l'autodidatta? Ma appunto perché fa uno sforzo eccezionale; se no
non avremmo ragione di lodarlo. Ora, l'eccezionalità di questo sforzo consiste precisamente
nel fatto che l'autodidatta non segue nel costruire la sua cultura, il processo
normale dell'insegnamento. Così l'equilibrista cammina sopra un filo, e merita
elogio: ma diremo per questo che il migliore, più sicuro e spedito modo di
camminare sia quello d'andar su un filo? No certo, anzi, diremo tutti che
l'abilità dell'equilibrista consiste, invece, nell'aver scelto, per camminare,
uno dei modi peggiori, meno sicuri e meno spediti. E, dunque, anche
dell'autodidatta dobbiamo dire che l'autodidattica, lungi dall'essere il modo
migliore e più sicuro di apprendere è, anzi, il peggiore e il più malsicuro, e
che proprio per aver saputo acconciarsi a questa maggiore difficoltà
l'autodidatta merita lode «...sebbene il modo di acquistare scienza mediante la
ricerca sia più perfetto riguardo a chi riceve la scienza, in quanto egli si
segnala più abile a sapere, pure, rispetto a chi causa la scienza, è più
perfetto il modo d'acquistare scienza attraverso l'insegnamento» [De Mag. Art.
II (ad 4.tum.) «quanivis modus in acquisitione scientiae per inventionem sit
perfectior ex parte recipientis scientiam, inquantum designatur habilior ad
sciendum; tamen ex parte scientiam causantis est modus perfectior per
doctrinam»]. Né si creda che quel ridurre a scienza «più speditamente»,
sia solo una sfumatura: anzi, c'è sotto una questione di principio, così
importante che solo chi l'ha afferrata può dirsi abbia inteso veramente la
differenza fondamentale che intercede tra la filosofia scolastica e certe
filosofie moderne, quali il materialismo positivistico o l'idealismo. C'è
la scienza, prima di essere insegnata? Strana domanda, dirà qualcuno, eppure a
questa domanda una corrente, certo rispettabile, e notevolissima della
filosofia moderna, risponde addirittura di no. La scienza non c'è ma si fa,
s'inventa, o si crea, nell'atto stesso dell'insegnamento. Come, poi, si fa o si
crea? Dal pensiero nostro, il quale è, o dovrebbe essere un atto, secondo la
filosofia moderna; ma viceversa è un atto che non è mai completamente realizzato,
ma sempre deve realizzarsi, perciò diviene e si svolge all'infinito sempre
facendosi altro da quello che era prima. Ora, un atto di questo genere:
un atto che non è tutto realizzato, o tutto realizzantesi, un atto che non è,
insomma, tutto quel che può e deve essere, ma aspetta di svolgersi e di
completarsi sia pure in un processo infinito, un atto di questo genere, la
filosofia scolastica non lo chiamerebbe punto atto, bensì potenza. Il pensiero
nostro, come abbiamo visto, possiede sì, tutta la scienza passata presente e
futura, ma «in potenza» o come pura possibilità di conoscere, non già come
atto, o come conoscenza positiva e concreta. Ebbene, una pura potenza può esser
causa reale di un atto? Una pura possibilità può dar origine a una realtà? Lo
può, ma in quanto presuppone, a sua volta, un atto antecedente, così come il
seme può dar origine alla pianta, ma è, a sua volta, derivato da un'altra
pianta. Non è la pura «possibilità» di vivere che genera l’uomo, ma l’opera di
un altro essere in cui la vita è già in atto: il padre, la madre. E dunque il
supporre che la scienza, nello scolaro e nel maestro, derivi solo dal pensiero
in quanto è una pura potenza o possibilità di conoscere, è così assurdo come
supporre che il figlio nasca, non dal padre e dalla madre, ma dalla
«possibilità» di vivere. Perché ci sia la scienza in potenza, ci deve essere
già stata, la scienza in atto: perché ci sia il seme, già ci vuol la pianta
completa. Ecco la differenza fra la scolastica e l'idealismo o il materialismo
moderni. Secondo questi sistemi, tutta la realtà procede, in fondo, da una pura
potenza, da un germe, un X spirituale o materiale che non è nulla al principio,
ma tutto si fa o diviene: l'essere, insomma, deriva dal non essere. Secondo la
scolastica, la realtà procede da un Atto assolutamente puro, senza mistura di
potenza, nel quale sussistono eminentemente e perfettamente realizzati e
realizzantisi ab aeterno, tutti quei valori che, nella realtà stessa, la nostra
mente poi rintraccia: Dio, principio primo e fine ultimo d'ogni cosa. Ed
ecco, quindi, la diversità fra la doctrina e l'inventio, fra l'insegnamento e
l'autodidattica, fra lo «scoprire» e l'imparare. Si capisce che per coloro i
quali seguono certe teorie filosofiche moderne, la doctrina presupponga
l'inventio: se prima non abbiamo «scoperto» o tratto dal nulla la scienza, che
cosa potremo mai insegnare? Ma in realtà, per San Tommaso e la scolastica, è
vero il contrario: l’inventio presuppone la doctrina, noi possiamo, cioè,
scoprire una scienza solo in quanto essa c'è già, ed è già in atto, se no, che
cosa scopriremmo, il vuoto? Le forme stesse realizzate nella materia che ci dà
la natura, non potrebbero ivi esistere, se prima non esistessero come pure
forme nella mente di Dio, alla quale ogni scienza deve necessariamente risalire
come a sua causa prima: sistema di idee, o rationes aeternae, come anche la
scolastica le chiama, cioè archetipi e modelli di tutte le cose. Di qui il
valore insostituibile della doctrina, cioè del vero e proprio insegnamento,
poiché, nella mente del maestro, la scienza ha un'esistenza d'ordine superiore
a quello che ha nella natura e nell'esperienza: una esistenza, se così ci si
potesse esprimere, più lontana dalla materia e più vicina a quella delle
rationes aeternae nella mente di Dio. Onde il genialissimo concetto tomistico
dell'insegnamento, fondato proprio al polo opposto dell'autodidattismo moderno,
non sull'imperfezione e sul divenire, ma sulla perfezione intrinseca della
scienza che, quasi per sovrabbondanza, sembra irraggiare ed effondere, nel suo
atto, dalla mente del maestro alla mente dello scolaro. * * * Andare più
oltre vorrebbe dire superare i limiti della presente trattazione, addentrandosi
in una esposizione analitica del De Magistro, che, nella abituale densità e
concisione del pensiero tomistico, presenta quasi ad ogni passo dovizie di
dottrina, il cui adeguato svolgimento produrrebbe tutta una organica teoria
della educazione da esporsi in un vero e proprio trattato, e non in un breve
saggio [Chi desidera approfondire l'argomento può confrontare il nostro volume
Maestro e Scolaro. - Soc. Ed. «Vita e Pensiero», Milano, 1930]. Basti qui
ricordare, per concludere, che a questo punto il pensiero di S. Tommaso si
ricongiunge a quello di S. Agostino, dando origine a una concezione della
scienza e dell'insegnamento che si può considerare caratteristica dell'età in
cui il sapere umano s'impose la più rigida e, insieme, la più feconda
disciplina intellettuale: vogliamo dire il Medio Evo. La scienza come doctrina
piuttosto che come inventio: non perché l'invenzione non possa e non debba
avere la sua funzione legittima, ma perché la doctrina è un organo superiore,
il mezzo più elevato e sicuro, del quale Dio stesso si è servito per
ammaestrare il genere umano, al quale ha dato non solo la sensibilità, il lume
intellettuale e i primi principi, abbandonandolo poi a tutte le incertezze
d'una ricerca puramente naturale, ma una vera e propria scienza, rivelata
dapprima ai Patriarchi e ai Profeti, poi agli Apostoli, ai Padri, ai Dottori e
a tutta la Ecclesia docens, il cui perenne magistero si estende attraverso i
secoli. I geni di Agostino e di Tommaso si uniscono in questa visione della
scienza come procedente da Dio; ma mentre il primo preferisce insistere
sull'azione diretta e immediata di Dio nell'anima e sulla operazione dello
Spirito che agisce, soprannaturalmente, in ciascuno di noi, l'altro mette in
luce, piuttosto, l'azione delle cause seconde e il magistero umano che Iddio
medesimo ha voluto stabilire nella Chiesa, come organo della Rivelazione,
oltreché nella scuola come strumento della cultura puramente naturale. Ma anche
per S. Tommaso, come per S. Agostino, il problema dell'educazione e
dell’insegnamento non si vede tutto, se non si considera, oltre che sotto l'aspetto
naturale, sotto l'aspetto soprannaturale. Per questa parte il De Magistro
tomistico non s'intende, senza ricorrere a quella triplice analisi della
scienza qual è nella mente divina, nell'intelligenza angelica e
nell'intelligenza umana, che si trova nella Summa Theologica: analisi alla
quale si debbono aggiungere gli articoli che trattano della necessità e
possibilità d'una Rivelazione. Ch'è poi sempre il grande metodo della
Scolastica: stabilire, con la sola ragione, la legittimità e l'esistenza della
Rivelazione, ma poi adoperare la rivelazione per estendere, disciplinare,
consolidare l'opera della ragione. Taluno, certo, obietterà che questo
metodo e questa concezione della scienza riducono a nulla l'attività e la
libertà umana, condannate soltanto ad assoggettarsi, e a ricevere passivamente
un sapere già fatto, fuori di loro, onde, si maledirà il Medio Evo, come
l'epoca per eccellenza mortificatrice dell'umana originalità. Obiezione tanto
impressionante a prima vista, quanto intrinsecamente debole e fondata
sull'equivoco. Poiché la libertà dell'intelletto sta appunto nel
conoscere il vero, e non nel conoscere il falso; e, perciò colui che riceve
dottrina da un maestro, se questa dottrina è vera, non riceve una violazione,
anzi un incremento della propria attività e personalità, così come, viceversa,
colui che inventa o scopre, se inventa degli errori, riceve una vera propria
violazione e diminuzione della sua attività intellettuale. E, dunque, colui che
riceve scienza da un maestro più sapiente di lui, riceve non schiavitù, ma
libertà intellettuale, e più ne riceve quanto più il maestro è sapiente e,
perciò, la dottrina vera; e il massimo ne riceve quando il maestro è il più
sapiente di tutti: Dio, e la dottrina la più vera di tutte: la dottrina rivelata.
Schiavo in apparenza, il pensiero medioevale, col suo centro nella sacra
teologia, era il pensiero più libero e audace che mai ci sia stato; un pensiero
che tutto osava discutere e su tutto argomentava, un insegnamento della cui
vastità e organicità le Somme ci sono, anche oggi, testimoni; ben lungi
dall'anemica povertà dei criticismi o dei positivismi che hanno voluto liberare
le intelligenze coi dubbi e fare la luce con l'oscurità. La pedagogia moderna
cadde in un grosso equivoco quando confuse due concetti fra loro tanto diversi
come quello di attività o libertà e quello di «autodidattica», quasiché per
essere libero o attivo lo scolaro dovesse inventar tutto da sé, e non fosse
vero invece il contrario e cioè che tanto più attivo e libero sarebbe riuscito
lo scolaro quanto più energicamente gli si fosse data dal maestro una dottrina
completa e vitale; e, per converso, tanto meno libero quanto più si fosse
lasciato agli errori e alle incertezze delle sue personali invenzioni. Figlia
di età indisciplinate e sterilmente irrequiete, la pedagogia moderna ha, così,
affaticato gli intelletti giovanili senza nutrirli, e ha dato origine a quei
gravi inconvenienti che uomini, pur poco tradizionalisti e niente affatto
«medioevalisti», come il Lambruschini e il Capponi, hanno, durante il secolo
scorso, con tanta efficacia denunciato. Tra gli sforzi di questa
pedagogia così affaccendata e disorganica, il pensiero di S. Tommaso ci fa,
oggi, l'effetto che fa sempre il ritorno all'antico, quando è, come nel nostro
caso un antico «più vero» e, perciò, più «moderno» del moderno: l'effetto di
una novità addirittura rivoluzionaria. Studiare S. Tommaso vuol dire, in questa
come in tante altre questioni, ritrovare noi stessi. Una pedagogia del passato?
Diciamo, piuttosto: una pedagogia dell'avvenire. L'Educazione naturale
(Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani,
Firenze, 1927) In due sensi può parlarsi di educazione naturale o
soprannaturale: quanto al contenuto e quanto alla forma. Si dice, cioè, nel
primo significato, soprannaturale l'educazione che ha per oggetto nozioni od
atti che non si riducono alla natura umana e che non sono una semplice
esplicazione di potenze in essa contenute. Si dice, nel secondo significato,
soprannaturale l'educazione che, pur nel realizzare nozioni od atti,
normalmente impliciti nella natura stessa, li realizza ricorrendo a mezzi i
quali sono, essi, affatto irriducibili, ai naturali procedimenti
dell'educazione. Per spiegarmi meglio, prenderò due esempi. Ecco un uomo che
s'accosta tutti i giorni ai Sacramenti e, così facendo, progredisce via via
nelle virtù dell'umiltà, della pazienza, della temperanza, della castità e,
viceversa, reprime i vizi dell'orgoglio, dell'ira, dell'intemperanza, della
lussuria. Orbene, questa educazione potrà dirsi naturale nel contenuto, ma
soprannaturale nella forma. Naturale nel contenuto, giacché l'umiltà, la
pazienza, la temperanza, la castità, sono virtù non soltanto possibili in tesi
generale alla natura umana, ma tali che, nella maggior parte dei casi, la loro
possibilità sarebbe distrutta, se la natura umana fosse diversamente
costituita. Soprannaturale nella forma, perché quelle stesse virtù,
potenzialmente insite nella natura umana, vengono sviluppate, colla frequenza
dei Sacramenti, mediante un'azione che non è l'ordinaria disciplina o
l’ammaestramento che un uomo può esercitare, sugli altri o su se stesso, con
l'opera o la parola bensì la misteriosa, indefinibile azione d'un Dio che a noi
s'assimila attraverso le specie eucaristiche. Prendiamo, invece, un
maestro mentre spiega il catechismo ai suoi alunni, e parla loro di un Dio solo
in tre persone distinte: avremo, evidentemente, un caso di educazione naturale
per la forma e soprannaturale per il contenuto. Naturale per la forma, poiché
nulla v'ha di più consono alle possibilità della natura umana che il leggere un
libro e commentarne alcuni passi. Soprannaturale pel contenuto, poiché la
nozione del Dio uno e trino nel senso cattolico della parola, è inattingibile
alle sole forze della ragione nostra, e può ottenersi solo mediante una
rivelazione divina, che la Chiesa ci ha conservato in fedele deposito
attraverso i secoli, e alla quale l'umile maestro attinge quando istruisce
nella religione i suoi scolari. Evidentemente, oltre questi due casi in
cui nell'educazione l'oggetto è naturale e soprannaturale il metodo e
viceversa, v'hanno anche i due casi più semplici, in cui e l'oggetto e il
metodo sono entrambi naturali, o entrambi soprannaturali. Appartengono al primo
tutti i più consueti esempi di educazione e d'istruzione che siamo soliti
considerare nella scuola, nella famiglia e nel collegio, ove nozioni e
attitudini naturali all'uomo, come le arti, le scienze, la morale, la filosofia
vengono insegnate con quei metodi che la ragione e l'esperienza suggeriscono
agli educatori. Appartengono al secondo caso, invece, tutti quei fatti, così
numerosi nella storia del cristianesimo, ove una particolare rivelazione o
mozione divina è veicolo, per dir così, di nozioni, atteggiamenti od affetti
che l'uomo, secondo la pura possibilità della natura propria non avrebbe,
nonché raggiunto, neppure sospettato. Cito un solo, ma tipico esempio: la
discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. I quali, appunto perché uomini, e
quindi abituati a misurare tutto alla stregua della natura umana, avevano fino
allora trovato di colore oscuro, benché Cristo medesimo le avesse loro
inculcate, tante verità soprannaturali come la preannunziata morte e
risurrezione del Salvatore, la redenzione del genere umano attraverso le
lacrime e il dolore d'un Dio, la concordanza fra l'antica legge e la nuova, i
rapporti fra il Padre ed il Figlio e via discorrendo, verità che, invece, dopo
che le lingue di fuoco furono discese sul loro capo, s'impressero così profondamente
nel loro animo da permetter poi loro d'insegnarle, con quell'efficacia che
sappiamo, a tutto il mondo allora conosciuto. Io non parlerò adesso -
poiché non è mio compito - della educazione in quanto soprannaturale nel
contenuto e nella forma, e neppure soltanto nel contenuto. Io non parlerò
dell'educazione, cioè, in quanto puramente soprannaturale, e neppure in quanto
veicolo di nozioni, o di attitudini soprannaturali. Mi limiterò, dunque, a
parlare dell'educazione naturale. II Sarebbe abbastanza interessante
poter esaminare alla luce di queste nozioni oggi molto trascurate, quando non
addirittura respinte e derise come assurde dagli studiosi, le più importanti
concezioni pedagogiche, nelle quali il pensiero umano si è, attraverso la
storia, rispecchiato. Ma, non potendo arrischiarci in un lavoro di così vasta
mole, ci limiteremo ad affermare semplicemente che tutte le più importanti
teorie dell'educazione sono, in un certo senso, naturalistiche, perché tutte
confidano, anche quando non vogliono riconoscerlo, in una immanente capacità
della natura umana, che le permette di svolgersi colle sue proprie forze, verso
la verità e la moralità. Capacità che, essa stessa, si può coltivare e aiutare
con mezzi puramente umani come l'insegnamento, l'esempio, il governo, la
disciplina, dei quali è formata, appunto, l'educazione naturalmente e
umanamente intesa. Senza questa fiducia, e nelle forze stesse della natura
umana e nella possibilità di aiutarle, l'educazione sarebbe un perditempo
assurdo. Se l'uomo non fosse fatto per la verità e la moralità, egli non
potrebbe conoscere l'una e praticare l'altra, come effettivamente non la
conoscono né la praticano gli animali, i minerali o le piante. Se, d'altra
parte, in questo suo sforzo verso il vero e il bene, la natura umana non
potesse essere aiutata con mezzi e strumenti adatti tanto varrebbe chiudere
tutte le scuole, bruciare tutti i libri, abolire tutti i maestri, e lasciare
che ognuno se la sbrigasse, alla meglio, da sé. Anzi, non si sarebbe trovato
mai nessuno così pazzo da spender tempo e fatiche nell'educare i propri simili;
o, se si fosse trovato, la disperata inutilità del tentativo, lo avrebbe,
subito, persuaso di smettere; e scuole, collegi, libri, maestri, non sarebbero
mai stati. Fin qui, dunque, fino a questa legittima persuasione intorno alla
possibilità di educare l'uomo con mezzi naturali, tutte le teorie pedagogiche
si debbono trovar concordi: né la pedagogia cristiana stessa, potrebbe fare
eccezione. E lo dimostra la storia del cattolicesimo, il quale, nonostante la
grandissima importanza da lui attribuita, nell'educazione, all'elemento
soprannaturale, ha sempre rifiutato come eretica, la teoria la quale afferma
impossibile all'uomo il conseguimento del vero e del bene senza una positiva
rivelazione divina e proclamando «errori» la filosofia e «peccato» le virtù dei
pagani, volentieri condannerebbe al rogo come futili sciocchezze, ogni scienza,
ogni progresso, ogni civiltà. Così, invece di gettar via la scienza del
paganesimo, il cristianesimo poté mantenerne viva la fiaccola nei suoi
chiostri, nelle sue scuole, nelle sue Università e, ricongiungendo
sapientemente il nuovo all'antico, poté serbare intatta quella tradizione della
civiltà occidentale che ci fa, oggi, giustamente orgogliosi. Ma, oltre
questo «naturalismo» ch'è, in fondo, una ragionevole fiducia nelle forze della
natura umana, la quale, se ha in sé delle tendenze al male e all'errore, ha
pure in sé delle tendenze altrettanto spontanee al bene e alla verità; oltre
questo saggio naturalismo senza cui non è possibile parlare neppure di
educazione, molte dottrine pedagogiche, specie moderne, hanno in sé un altro
«naturalismo» niente affatto utile o necessario all'educazione. Tale
naturalismo, non si limita a dichiarare che l'uomo ha nella sua propria natura
le energie necessarie al suo ordinato svolgimento: afferma che ogni educazione
si riduce allo spontaneo svolgimento della natura umana secondo le proprie,
immanenti leggi costitutive. E non si limita a riconoscere che l'uomo ha nella
sua propria natura una tendenza al vero e al bene, cioè che è fatto, in ultima
analisi, per la conoscenza dell'uno e l'attuazione dell'altro, ma afferma che
l'uomo solo è a sé stesso il vero e il bene, perché appunto nello svolgimento
delle sue umane energie, o per sé prese o nei loro rapporti colla circostante
natura, consiste il solo vero e il solo bene possibile. E non si limita,
quindi, ad affermare la legittimità d'una educazione naturale dell'uomo,
ma respinge come assurda e satireggia come ridicola pur l'idea d'una
educazione soprannaturale, o, comunque, di un elemento soprannaturale
nell'educazione. III Distinguiamo, anzitutto, due cose che si sogliono,
per lo più, confondere: la possibilità d'una educazione naturale, e la sua
effettiva realtà. Che l'uomo possa essere educato, e, anzi, sia fatto per
essere educato al vero e al bene, non c'è dubbio, ma che tutti gli uomini
siano, effettivamente, educati al vero e al bene, che tutti gli uomini
arrivino, in realtà, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene, almeno
nella misura necessaria a ciascuno per condurre decorosamente la sua esistenza
umana, nessuno vorrebbe certo, affermarlo, fino al giorno in cui tutti i
viziosi e gl'ignoranti non saranno eliminati dalla faccia della terra. Si può,
è vero, sempre sottilizzare e rispondere che nemmeno l'uomo più rozzo ed
ignorante del mondo vive senza accogliere nella mente un barlume di verità, che
nemmeno il peggiore delinquente può fare a meno di vagheggiare, in fondo
all’animo, qualche sentimento buono, e che, perciò, l'educazione del genere
umano, fino a un certo punto, avviene sempre, e non può non avvenire. Ma è
facile obiettare che la bontà la quale pure possiamo scoprire nel delinquente,
o la verità che regna anche nel cervello dell'ignorante, non sono quella verità
e quella bontà di cui si preoccupa l'educazione. Prodotte da una necessità
delle cose, e non da una libera adesione dello spirito, inconsapevoli di sé,
esse si distruggono e ci danno come risultato l'ignoranza nell'ignorante, e la
delinquenza nel delinquente. O vorremo presentare il delinquente e l'ignorante
come il tipo dell'uomo «educato»? Una tale ipotesi è così assurda che si
confuta da sé. Se ci dovessimo contentare di quel vero e di quel bene che, come
lo Spirito di Dio, riempiono il mondo e che, anche negandoli, l'uomo è sforzato
in ogni condizione a riconoscere col solo fatto di esistere e di pensare, da
lungo tempo l'umanità avrebbe chiuso le scuole e bruciato i libri e ricacciato
i fanciulli ad istruirsi nella selva primitiva. Se, invece così non ha fatto, e
le scuole e i libri, e i metodi costituiscono ancora la sua preoccupazione
dominante, si è perché tutti sanno che il vero e il bene nell' uomo
inconsapevole sono come l'oro, che non ha alcun valore finché non sia estratto
dal fango col quale si trova mescolato. Torniamo, dunque, alla nostra primitiva
affermazione. Benché l'uomo sia, per natura, potenzialmente educabile, questa
possibilità non è ancora una realtà; e tutti i laboriosi sforzi fatti dal
genere umano per educarsi, sono l'implicito riconoscimento della notevole
differenza che intercede fra quella possibilità e la sua realizzazione
effettiva. Riescono, almeno, questi sforzi? L'educazione naturale riesce,
almeno, a portare ciascun uomo che apre gli occhi alla luce, alla conoscenza
del vero e alla pratica del bene? Non pretendiamo ch'essa formi sempre dei
santi, degli scienziati o degli eroi: forma almeno, sempre, onesti uomini,
capaci lavoratori, buoni padri di famiglia? Ahimè, questa volta la risposta è
troppo facile davvero! Se così fosse, oggi che, nelle nazioni civili
l'istruzione è obbligatoria e la scuola tutti accoglie fra le sue mura, non
dovrebbero esserci delinquenti, viziosi, vagabondi o inetti, le prigioni
dovrebbero chiudersi, gli ospedali diminuire notevolmente; le famiglie, tutte
ordine pace e armonia, non conoscerebbero i tristi germi che ne rodono la vita;
la corruzione non insudicerebbe più carte ed anime colle sue oscene figure;
dappertutto il lavoro innalzerebbe la sua lieta canzone, e la gioia e la
serenità soltanto tesserebbero innanzi ai nostri occhi il loro ordito
incantevole. Ahimè! Basta dare uno sguardo alla cronaca dei giornali per vedere
questo sogno svanire come nebbia, al tocco della triste realtà. Anche nel più
modesto mestiere, sono in maggior numero i capaci o gl'incapaci? i dotti o
gl'ignoranti? i laboriosi o i fannulloni? gl'imbroglioni o gli onesti? No, non
sarebbero tanto stimata l'onestà, tanto ricercate e pregiate la capacità, la
competenza, l'attitudine al lavoro, se fosse possibile trovarle a tutte le
cantonate! Ma poi, badiamo, non si tratta, qui, di più o di meno, di
maggioranza o minoranza, che la scienza non si fa come i congressi o le
elezioni. Quand'anche l'educazione universalmente diffusa avesse reso tutti
onesti, tutti bravi, tutti capaci, tutti intelligenti, e di fronte a questi
fortunati mortali un uomo - uno solo - fosse uscito dalle nostre scuole
vizioso, fannullone, stupido e caparbio, io dico che quest'uno solo basterebbe
colla sua esistenza per dare una solenne smentita a tutti i maestri e i
pedagogisti e i metodi e i sistemi di cui si vanta la nostra civiltà.
Quand'anche non si potesse citare che un solo uomo - uno solo - circondato da
tutte le cure e cresciuto in una famiglia esemplare, e affidato ai migliori
maestri, e tirato su fin dall'infanzia nelle più virtuose abitudini, dal quale
poi fosse venuto fuori un giorno un bel fior di canaglia - quand'anche non si
potesse citare che un solo esempio di questo genere - l'educazione umana,
l'educazione naturale, dovrebbe considerarsi incapace di fatto (benché capace
di diritto) a realizzare i propri fini: incapace a far diventare realtà
concreta, quella potenzialità, quella tendenza al bene e al vero che esiste
nella natura umana. E che importa conquistare il mondo, quando si è persa una -
una sola - anima? In quell'anima era tutto un mondo: in lei non è stato
sconfitto solo un individuo, ma il pensiero e il volere umano, irreparabile
sconfitta, poiché quel pensiero e quel volere sono appunto la natura stessa che
non solo si supponeva educabile, ma si presumeva di fatto educare coi nostri
sottili accorgimenti. E invece tale natura ci si ribella e ci si mostra d'un
tratto, in quell'unico individuo, chiusa, avversa, inaccessibile a tutti i
mezzi coi quali l'abbiamo lavorata; come preda d'un fato misterioso contro cui
ogni nostro potere sembra disarmato. IV Finora abbiamo parlato in
generale. Ma le stesse considerazioni particolari e tecniche di cui è piena la
storia della pedagogia, valgono a confermare la nostra tesi. Vediamolo, anzitutto,
per il problema dell'istruzione. Che cosa c'è di più facile, in certo senso,
dell'istruire? Il maestro parla, il discepolo ascolta. Le idee, mediante quel
loro naturale veicolo che è il linguaggio, passano dalla mente dell'uno alla
mente dell'altro. Se il discepolo è stato «attento», se i ghiribizzi della sua
fantasia non l'hanno distratto, se un po' di pigrizia non lo ha intorpidito, se
il maestro ha messo nelle sue spiegazioni l'ordine e la chiarezza necessari, la
lezione ha raggiunto il suo scopo, e lo scolaro imparato ciò che doveva
imparare. In sostanza si tratta soltanto di assicurarsi che nessuno dei piccoli
malanni or ora enumerati abbia intralciato il regolare andamento delle cose, e
per fare questa verifica lo stesso strumento che ci ha già servito ci può
ancora servire. Il linguaggio, il naturale veicolo delle idee, già usato per la
lezione, servirà per l'interrogazione e le ripetizioni, le quali dimostreranno
se il discepolo è stato attento e ha compreso, se il maestro è riuscito, nelle
sue spiegazioni, chiaro ed efficace. E quando, sventuratamente, così non
fosse stato, chi ha prodotto il male, ci darà anche il rimedio. Il linguaggio è
sempre là per correggere, chiarire, spiegare di nuovo, interrogare di nuovo, e
dove non bastasse la parola parlata c'è la parola scritta: libri, quaderni,
appunti, riassunti e così via. Ebbene, la storia della pedagogia,
specialmente moderna, è, si potrebbe dire, tutta una critica a questo
semplicissimo e vetusto fra i metodi, di cui l'umanità si è sempre servita per
istruirsi e di cui, con le debite cautele, sempre si dovrà servire. La parola,
infatti, e, con essa l’idea, non è un oggetto materiale che si possa
trasmettere da una mano all'altra, una moneta che l'alunno riceve dal maestro e
chiude nel borsellino. La parola è, prima che suono o segno esterno, atto
interno del nostro spirito, e se questo atto non si produce, l'alunno può
ripetere il suono o il segno senza aver capito niente della cosa significata,
come effettivamente accade tante volte nella scuola. Eppure la ragione di tale
spiacevole inconveniente che, spesso, riduce a una vuota accozzaglia di frasi
nella mente giovanile l'istruzione impartita con maggior cura, è una ragione
chiarissima. La parola è segno dell'idea, e l'idea è, se mi consente il
paragone, lo strumento di una superiore e delicata civiltà che l'uomo adulto e
già colto si è conquistata col sudor della fronte: è un termine ideale che si è
ottenuto astraendolo dai particolari dell'esperienza sensibile. Ma innanzi a
questa superiore civiltà l'alunno e, più, il fanciullo, è ancora un «barbaro»
che vive in mezzo alle cose sensibili, particolari, e ancora non ha imparato ad
astrarne l'idea, o, se lo ha imparato, ancora non sa mantenersi per lungo tempo
in tale sfera superiore, né può lavorare sulle idee, e seguire tutta una catena
di concetti, di definizioni, di ragionamenti, come la scuola pretende. Ne segue
un errore gravissimo, da parte del maestro, il quale crede di aiutare tanto più
lo scolaro, quanto più gli presenta la materia in ristretto, ridotta a poche,
semplici e chiare idee, e non s'accorge, invece, che tanto più rende
l'insegnamento difficile, quanto più presenta idee «semplici», che sono appunto
le più universali e le più lontane dall'esperienza sensibile, nella quale il
fanciullo vive. E allora questi, non potendo capire l'idea, s'appiglia al
partito più facile, e ripete la parola e quanto più il maestro s'affanna a
chiarire, spiegare e «semplificare», tanto più diventa impossibile al discepolo
ripetere altro che parole. Per togliere questi inconvenienti, la
pedagogia moderna ha proposto un celebre e decisivo rimedio: conformar l'istruzione
al procedimento con cui naturalmente si formano in noi le idee
astratte. Procedere, cioè, dal particolare all'universale, dal senso all'intelletto,
dall'esperienza al concetto. Non presentare mai la parola senza la cosa, l'idea
senza l'immagine, la definizione senza l'oggetto definito: procurare, anzi, che
l'alunno stesso opportunamente guidato trovi da sé l'idea sotto lo stimolo
della cosa e dell'immagine. È il cosiddetto metodo «intuitivo» che
innegabilmente, se lo si adopera bene, dà buoni risultati, e al quale è da
augurarsi che ci si ispiri sempre più e meglio in quella riforma di tutte le
istituzioni scolastiche che le moderne nazioni civili vanno da qualche tempo
effettuando. Ma badiamo bene: neppure il metodo intuitivo, pur inteso e
applicato nel miglior modo possibile, è sicuro. Giacché, anche l'esperienza
sensibile, partendo dalla quale si vuol condurre l'alunno alle idee, non è un oggetto
o un processo meccanico, ma un atto dell'anima, che non ha nessun significato
senza un esplicito concorso da parte dell'alunno. E' stato detto assai bene;
anche per spiegare che due e due fanno quattro, avete un bel prendere il
ragazzo, e fargli stendere due dita della destra e due della sinistra, e poi
avvicinarle e far contare: se il ragazzo è «disattento», se si rifiuta di far
scattare la scintilla ulteriore del pensiero, se «non vuole» ascoltare,
nessuna costrizione, fosse anche la tortura, sarà capace di immettere
nella sua testa ribelle quella semplicissima verità. Sicché in ultima analisi,
quantunque i buoni metodi abbiano, certo, molta importanza, tutta l'istruzione
dipende da circostanze imponderabili e imprevedibili che solo la genialità di
un maestro artista può, volta per volta, determinare. Ora, siccome i maestri
geniali ed artisti sono, necessariamente, una minoranza, ne viene di
conseguenza che i tre quarti dell'umanità, affidati a maestri non geniali e non
artisti, ricevono una istruzione difettosa. Ma non facciamo troppo facile
la nostra dimostrazione. Concediamo pure che il metodo «intuitivo» possa, da
solo, garantirci per tutti una buona istruzione [Il che evidentemente non è,
poiché il metodo intuitivo, se contiene un principio gnoseologico verissimo,
troppo spesso ignora o fraintende il valore del linguaggio, ch'è molto
superiore a quello dei sensibili esterni. Si cfr. nel saggio precedente la
teoria di San Tommaso in proposito]. Supponiamo anche ch'esso sia sempre facile
ad applicare dappertutto; anche, mettiamo, alle scienze morali e filosofiche,
nelle quali, pure, tutti vedono non esser tanto semplice trovare, quando
occorre, una esperienza corrispondente alle singole idee. Io domando: chi vi
garantisce che quel metodo possa essere applicato in tutte le scuole? Badate:
sono secoli che la pedagogia conosce i difetti del verbalismo scolastico, e i
pregi del metodo intuitivo; sono secoli che i migliori studiosi lamentano il
deplorevole insuccesso dei sistemi abituali; sono secoli che «sapere
scolastico» è sinonimo di sapore falso, freddo, morto, inutile: eppure ancor
oggi, in mezzo a tutta la nostra civiltà, una migliore organizzazione
dell'istruzione scolastica non s'è potuta ottenere se non incidentalmente, in
alcuni istituti-modello, in alcuni ordini e gradi di scuole, in alcuni paesi
privilegiati. Nella maggior parte dei casi, la scuola continua ad esser tutta
spiegazioni verbali, definizioni astratte, ripetizioni, classificazioni, suoni
e parole che gli studenti ingozzano spesso senza intenderne nulla, per
ripeterle tal quali agli esami, e dimenticano subito dopo. E se un principio
scientifico cosi evidente come quello del metodo intuitivo ha dovuto aspettare
per secoli una parziale e incompleta realizzazione, che sarà di altre verità
pedagogiche più astruse e complicate, eppure non meno necessarie a un buon
andamento dell'istruzione? Quanti altri secoli dovremo attendere perché siano
messe in pratica? Ma supponiamo, ancora, che i metodi secondo cui
l'istruzione s'impartisce nelle scuole siano sempre e dappertutto i migliori
possibili; supponiamo tutti i maestri buoni e tutti i discepoli volonterosi;
supponiamo rimosse le condizioni economiche e sociali che oggi impediscono, o
limitano a taluno la frequenza scolastica. Otterremo, per questo, un'umanità
sufficientemente istruita in quelle fondamentali verità che importa all'uomo
conoscere? Ahimè, non solo il genio, ma anche la comune intelligenza concluderà
che non è in poter nostro ottenerla quando vogliamo. Perché un Dante o un Galileo
può formarsi nonostante tutti i difetti delle scuole, e, viceversa, i più
perfetti metodi del migliore istituto modello debbono confessarsi vinti dalla
impenetrabile stupidità di un ragazzetto? Perché uno nasce aquila ed un altro
gallina? Perché i procedimenti che riescono bene con un alunno, falliscono con
un altro? Domande alle quali non si può dare che la solita risposta: dipendere
il successo dell' educazione o dell' istruzione, da circostanze imponderabili
le quali variano caso per caso. Il che significa, in fondo, riconoscere
l'incertezza, la precarietà e il limitato valore di tutti i sistemi e i metodi
dell'educazione umana e naturale, supposta anche nelle più ideali e favorevoli
condizioni. V Questo, per l'istruzione. Che cosa bisognerà dire per
l'educazione, intesa come formazione morale e, in genere, formazione della
volontà? Se pare tanto difficile la lotta contro l'ignoranza, che sarà della
lotta contro la pigrizia, contro la sensualità, contro l'orgoglio, contro
l'egoismo, contro tutte le tendenze inferiori della natura umana? Anche qui, la
storia della pedagogia è tutta un lamento sulla assoluta insufficienza e di
questa educazione in se stessa, e dei metodi usati per conseguirla. Uomini
dotti, pur coi difetti dei loro metodi, scuole e collegi e atenei ne producono
abbastanza, ma uomini temperati, casti, umili, pronti al sacrificio, generosi
verso il prossimo? E si capisce. Siccome la volontà non può muoversi alla
cieca, senza il lume della conoscenza, le difficoltà dell'educazione morale sono
in certo modo doppie: sono, per una parte, quelle stesse dell'istruzione, e per
l'altra quelle specifiche dell' educazione. È già difficile per le ragioni or
ora esaminate, che tutti gli uomini possano ricevere una sufficiente istruzione
morale: che, cioè, il «non rubare», «non dire il falso testimonio», «non
desiderare la donna d'altri» e simili precetti della morale naturale siano
appresi da tutti, non come semplici suoni di parole che si ripetono pensando ad
altro, ma come nozioni positive che suscitano una vera, interna convinzione.
Ma, anche se questo si potesse garantire, quando ciascun uomo vi sapesse
dimostrare con eccellenti ragioni filosofiche tutti i precetti della morale, si
sarebbe raggiunto appena per metà lo scopo desiderato. Non basta saperli quei
precetti: occorre metterli in pratica; non basta pensarli: bisogna volerli e
applicarli; e non basta metterli in pratica una volta sola, bisogna farli
diventare abitudine di tutta la vita. Saper che non si deve rubare e, ciò
nonostante, appropriarsi, quando si può farlo senza pericolo, la roba altrui,
predicar la temperanza ed essere intemperanti, esaltare la castità e darsi al
vizio, non significa certo essere educati moralmente. Ora, il difetto che la
pedagogia moderna ha più criticato nella educazione morale corrente, si è
appunto il vecchio pregiudizio che basti predicare e insegnare e far leggere
libri o novellette morali, per produrre la virtù: laddove l'insegnamento e la
predica e la buona lettura, sono certo necessari ma concludono poco o nulla se
la virtù non è praticata e fatta costantemente praticare attraverso le azioni.
Il tirocinio effettivo dell'azione deve costituire per la volontà quella
medesima base solida che l'esperienza sensibile è per l'intelletto: le idee
morali debbono, per imprimersi, ricevere dalla pratica quel positivo
significato che le idee scientifiche ricevono dalla sensazione degli oggetti
particolari. Ma questo tirocinio effettivo, pratico, dell'azione,
abbastanza facile ad organizzarsi finche si tratta di azioni materiali e, in
certo modo, esterne, tendenti a rinvigorire la volontà come l'esercizio
ginnastico rinvigorisce i muscoli, diventa poi difficilissimo quando si tratta
d'azioni più specificamente morali, ove la volontà stessa deve ottemperare ad
un giudizio della ragione che le indica questo come male e quello come bene. La
teoria pedagogica in materia che va per la maggiore è la famosa teoria delle
conseguenze naturali: teoria che vorrebbe allontanare dal vizio (e, per
converso, avvicinare alla virtù) col lasciare che l'azione malvagia sia
esperimentata dall'educando stesso nelle sue conseguenze dolorose. Ma tale
teoria, sventuratamente, ha il difetto d'essere inapplicabile proprio in quei
casi dove maggiore sarebbe il bisogno. Io posso, cioè, lasciare benissimo che
il fanciullo, dopo aver rotto un vetro, sia punito della sua sbadataggine dalla
rigida aria invernale che viene a pungerlo attraverso i telai della
finestra; posso lasciargli fare una scorpacciata di dolci perché provi, poi, il
mal di ventre e l'amara purga; posso lasciargli prendere un frutto dall'albero
del vicino, perché il padrone gl'insegni, colle sue rudi maniere campagnole, il
rispetto della proprietà. Ma non posso permettere che quello stesso fanciullo,
cresciuto in età, perda ogni suo avere al giuoco per imparare quanto sia
dannoso il giuoco, o si sciupi l'anima nelle peggiori compagnie per comprendere
quanto sia dannosa la cattiva compagnia, o si dia ai facili amori per provare
l'amaro sconforto delle abitudini viziose. Posso seguire Rousseau finché si
tratta di rompere un vetro, non posso seguirlo, quando mi chiede di entrare,
pel servizio del mio allievo, in un luogo di corruzione. Il rimedio sarebbe
peggiore del male. È vero bensì, che l'esperienza acquistata nelle
piccole azioni si riflette nelle grandi e che lo stesso alunno, il quale ha
riconosciuto a spese proprie ben fondato il consiglio dell'educatore a
proposito di un vetro o di un frutto, avrà una ragione positiva per ritenerlo
ben fondato anche quando si tratterà di cose più importanti. Ma appunto in
questo passaggio sta il pericolo. Chi ci garantisce che, invece, abituato
dall'infanzia a provar tutto da sé, il giovane non trovi strana e irragionevole
questa pretesa di frenarlo, proprio sulle soglie della maturità? Chi ci garantisce
che egli, fatto ormai quasi uomo non respinga come sciocchi e puerili i
consigli dell'educatore e non voglia, una volta di più, esperimentare per conto
suo? Badiamo: non è detto che questo secondo caso debba sempre verificarsi, ma
non è detto neppure che debba sempre verificarsi il primo. In teoria sono
possibili ambedue: e, pur ammettendo che in pratica si dia eguale probabilità
d'incontrar l'uno e l'altro, l'efficacia d'una educazione che raggiunge il suo
scopo solo in una metà dei casi, diventa molto problematica. In ogni modo,
siamo già entrati anche qui nelle circostanze imponderabili che variano volta
per volta e che solo la sagacia d'un geniale educatore può, volta per volta,
scoprire. Ora, noi sappiamo che gli educatori geniali non si fabbricano a piacere,
quando se ne ha bisogno, e neanche dove ci sono riescono sempre, in ogni
momento e per ogni educando, egualmente geniali. Ma l'educazione morale
incontra, purtroppo, un altro ostacolo ben più grave di quel che non sia la
deficienza dei metodi o l'imperizia degli educatori. Tale ostacolo
all'educazione della volontà, se ci si permette il bisticcio, sta proprio nella
volontà male educata: nella volontà umana che tende, sì, alla virtù, ma la
trova dura, difficile e mortificante; e allora s'ingegna di addolcirla, di
mitigarla, di conciliarla cogli interessi e le passioni: di falsificarla,
insomma, per proprio uso e consumo. La storia della filosofia ce ne offre a
bizzeffe, di queste morali falsificate che esaltano a gran voce l'ideale e il
dovere, ma si trincerano in un prudente silenzio quando si tratta, questo
ideale e questo dovere, di vederli concretarsi in un positivo sistema di azioni
o, peggio, forniscono criteri coi quali l'uomo arriva a giustificare qualsiasi
azione. Le dispute, le eterne dispute fra scienziati e fra filosofi non sono
mai state così universali come nel campo dell'etica. E chi ci garantisce che
quei pochi i quali vedono giusto, riusciranno ad imporre, nella scuola e
nell'educazione in genere, la loro morale, contro gli altri, tanto più
numerosi, che sbagliano per deliberato proposito, e che hanno a favore delle
loro dottrine le fragorose voci dell' interesse, delle passioni, delle
inferiori tendenze umane ricalcitranti contro ogni severa disciplina? VI
Da queste considerazioni, e da altre ancora che si potrebbero fare, emerge una
conclusione niente affatto confortante per l'educazione naturale. Se
gl'inconvenienti che abbiamo notato sussistono, se, per essere bene educato,
l'uomo ha bisogno e d'un geniale maestro, e di un buon metodo e di una buona
scuola, e di una buona famiglia, e di una infinità di altre circostanze
imponderabili che rendono fecondo nell'animo suo il concorso di tutti questi
elementi, allora ogni uomo che nasce ha tanta probabilità di essere educato,
quanta, poniamo, di essere ricco, o di vincere alla lotteria, o di diventare un
grande poeta. Con la differenza però, che mentre ogni uomo può vivere benissimo
senza ricchezze, senza vincite alla lotteria e senza essere grande poeta, non
può vivere, intendo vivere da uomo e non da bruto, senza essere morale e
ragionevole, senza adoperare l'intelletto e la volontà, caratteristiche
essenziali della sua natura, per gli scopi pei quali gli furono dati. In questo
senso, per poter riuscire nel suo intento, l'educazione avrebbe l'obbligo
d'essere più universale, pronta e vigile della stessa carità. Eppure,
nonostante tali scarsissime possibilità di riuscita noi dobbiamo, dopo tutto,
meravigliarci non che l'educazione faccia poco, ma che faccia troppo. Invece di
produrre, come dovrebbe a rigor di logica, accanto a un'aristocrazia di pochi
superuomini, sterminate moltitudini avvolte nella peggiore barbarie,
l'educazione mantiene, innegabilmente, nell'umanità un livello intellettuale e
morale non disprezzabile. Scuole, istituti, maestri, compiono la loro missione:
e tanto la compiono che nei paesi ove queste istituzioni sono sconosciute, la
civiltà, e intellettualmente e moralmente, è molto più indietro; tanto la
compiono che, a un limite estremo, se noi potessimo pensare un uomo il quale
dalla nascita in poi non avesse mai ricevuto alcuna educazione, sia pur
difettosa, né dalla madre, né dagli altri suoi simili, dovremmo immaginarlo più
che come un selvaggio, come un animale; tanto la compiono che è in gran parte
merito loro se un popolano dei nostri tempi ha, in molte materie, più
cognizioni che un dotto dell'antichità, e se, dopo secoli e secoli, gli uomini
hanno imparato a camminare per le strade senza sbudellarsi a vicenda e a
mangiare, bere e dormire senza affogarsi nella sporcizia e nel sudiciume; che
di questi progressi medesimi l'uomo possa talvolta abusare, facendosene mezzi
di peggioramento anziché di miglioramento, chi lo nega? Ma di che cosa non può
mai abusare l'uomo? In realtà il genere umano quando spende tante fatiche
nella propria educazione ha fede in un successo le cui probabilità sono,
secondo la logica della ragione naturale, addirittura irrisorie, e che pure si
ottiene, non colla regolarità e l'ampiezza che ciascun cuore generoso
desidererebbe, ma, tutto considerato, in una misura assai larga. Chi affida un
figlio alla scuola sa benissimo di avere soltanto una scarsissima probabilità
ch'esso venga educato coi metodi più perfetti e dai maestri più geniali, e con
tutto quell'insieme di circostanze interne ed esterne necessario a rendere
feconda l'educazione. Pure, ha fede nella buona riuscita, dei suoi e degli
altrui sforzi; ha fede, diremmo, in una misteriosa equazione fra possibilità e
realtà, fra l'educazione in quanto teoricamente possibile e l'educazione in quanto
effettivamente avvenuta, una fede che nessun calcolo potrebbe giustificare,
anzi della quale ogni calcolo ci mostrerebbe il tenuissimo fondamento. Ora, che
cosa è mai questa fede apparentemente irragionevole? E chi è che realizza
quell'equazione misteriosa? È la forza stessa delle cose, l'evoluzione
stessa dell'universo, risponde il positivista. È la razionalità del
reale, lo sviluppo dello spirito, dell'«io» immanente ed onnipresente, risponde
l'idealista. Poiché l'uno e l'altro, in fondo, nelle loro pedagogie riconoscono
lo scarso potere dell'educazione naturale, delle sue istituzioni, dei suoi
procedimenti metodici, e l'uno e l'altro debbono ammettere, nella formazione
intellettuale e morale del genere umano, una forza sconosciuta, superiore ad ogni
nostro accorgimento; un disegno complessivo della realtà al quale sembra
conforme che certe educazioni debbano riuscire nonostante tutti i loro difetti,
e certe altre fallire nonostante tutti i loro pregi. Ma per il positivista come
per l'idealista questa forza non è superiore alla natura: è la natura stessa,
spirito o materia che sia; è l'evoluzione o la storia che forma l'individuo
educato più o meno, come il mare forma onde nell'uno o nell'altro modo senza
che di tale sua cangiante irrequietezza si possa addurre un motivo. Il fatto
non ha altra ragione dal fatto stesso: è così perché è così. Pure, questa
stessa, implicita confessione dei nostri avversari è preziosa, poiché, volendo
allontanare il mistero lo conferma, e volendo tutto ridurre a principi naturali,
riconosce che l'azione stessa di questi principi è, nei suoi effetti e nelle
sue forme, imprevedibile secondo la natura e la ragione. «Materia», «spirito»,
«evoluzione o storia» sono tanti nomi del mistero: tanti nomi i quali esprimono
una realtà che trascende ogni nostro singolo raziocinio ed ogni nostra
esperienza concreta. Ma sono nomi oscuri e contorti, che non possono
appagare nessuno. Spiegare il fatto col fatto stesso, dire: è così perché è
così, significa non spiegare nulla. L'educatore sarebbe come il giocatore che
arrischia il suo avere sulla probabilità che i dadi o le carte o la ruota
producano una fra le tante possibili combinazioni. L'equazione fra possibilità
e realtà si compirebbe a caso. Ora, la fede dell'educatore ha, invece, un significato
ben diverso, non riposa su un calcolo di probabilità e nemmeno sull'idea di una
vaga razionalità sparsa in giro per l'universo: riposa sull'idea di un potere
consapevole ed intelligente che dirige l'umanità nei suoi deboli sforzi per il
proprio miglioramento, secondo un preciso disegno di cui a mala pena possiamo,
talvolta, intravedere qualche parte. Potere che compie, nonostante tutte le
nostre deficienze, l'educazione del genere umano anche là dove parrebbe
temerario tentarla. Potere che forma Dante e Galileo nonostante i difetti delle
scuole, e al quale si deve se l'ignorante e il delinquente non si moltiplicano
in orde barbariche per abbattere la civiltà. Questo potere è il potere di Dio.
Dio è l'autore della misteriosa equazione che si compie tutti i giorni,
nell'opera educativa, fra possibilità e realtà. La pedagogia e la
filosofia debbono fermarsi qui. Più oltre, bisognerebbe entrare nell'ordine
soprannaturale mostrando come il divino Educatore abbia compiuto e compia la
Sua missione, sia con una Rivelazione che ha offerto a tutti gli uomini le
verità e i precetti morali onde avevano bisogno, senza le incertezze della
scienza umana, sia con una assistenza positiva, con la grazia di cui attraverso
la vivente azione della Chiesa ciascuno partecipa; sia in quei modi speciali ed
imprevisti che alla Sua saggezza sono parsi opportuni. Ma la pedagogia e la
filosofia possono garantire, come abbiamo visto, almeno questa importante
conclusione. Senza ricorrere a un elemento soprannaturale, l'educazione, anche
nell'ordine puramente naturale, rimarrebbe indispensabile e, nello stesso
tempo, irraggiungibile al genere umano. Pur non potendolo dire assolutamente
necessario, nel senso logico della parola, poiché l'idea d'una educazione
naturale e della sua conseguente riuscita non presenta alcuna contraddizione
intrinseca, dobbiamo dirlo, l'intervento soprannaturale nell'educazione,
necessario di una necessità relativa e morale: utile nello stesso senso
in cui i teologi parlano della «utilità» della rivelazione. Ecco una
sfera lanciata attraverso lo spazio. Nulla v'è d'assurdo all'idea ch'essa debba
indefinitamente continuare nel suo moto, anzi, appunto, questo dovrebbe
accadere secondo i principi della fisica. Pure la sfera, a un certo punto,
arresta il suo cammino e cade; gli attriti e le resistenze hanno assorbito la
forza da cui era animata. Lo stesso può dirsi della educazione naturale. La
natura umana tende spontaneamente al vero e al bene, è indefinitamente
educabile e perfettibile, dovrebbe continuare all'infinito il suo progresso.
Pure, gli attriti opposti dalle sue tendenze inferiori, dall'interesse, dalle
passioni, dalla sensualità, ben presto la fermano in cammino, e ci vogliono
tesori d'accorgimento, di sapienza, di genialità per farla progredire, per dare
ad un uomo solo, anche la più modesta educazione, così come ci vogliono
macchine complicate e delicate per dare ad un solo oggetto una limitata
quantità di moto. Che diremmo di un fisico il quale volesse far marciare tutti
i corpi, compresi i pianeti e le stelle, a forza di macchine? Che, perciò, di
un pedagogista il quale voglia educare tutto il genere umano colle scuole e i
maestri, i collegi ed i libri? L'educazione naturale è, come il moto perpetuo,
possibile solamente in teoria. Ma per realizzarla, per realizzarla in modo che
tutta l'umanità abbia il suo vero e il suo bene, i suoi giorni laboriosi e i
suoi riposi meritati, le sue messi e le sue industrie, il pane del corpo e il
pane dello spirito, la sua dignità e la sua fede, è necessario il braccio di
Colui che sospese negli spazi, fiammante tappeto ad un trono invisibile, la
corona di soli che i nostri occhi intravedono in un lontano luccichio dorato,
nella notte. L'Anima della pedagogia. (Discorso tenuto per
l'inaugurazione dell'anno accademico nell'Istituto Superiore di Magistero “
Maria Immacolata » il 17 dicembre 1924. È importante che il lettore tenga
presente tale data, poiché alcune critiche contenute in questo studio
rispecchiano, necessariamente, le condizioni dell'Italia liberale e
democratica, che sono — com'è ovvio — assai diverse da quelle dell'Italia
d'oggi.) Domando scusa se sono costretto a incominciare con
l'affermazione di una verità così poco peregrina com'è quella secondo cui la
scuola non è fatta dall'edificio ove si tengono le lezioni, dalle aule, dai
banchi, dagli orari, dai programmi, e nemmeno, rigorosamente parlando, dalle
persone discenti e docenti; sebbene da quell'idea, da quello spirito, da
quell'indirizzo animatore che, dimostrandosi capace d'informare di sé tali
disjecta membra, le stringa davvero in un organismo vitale. Ma voi sapete pure
che le verità, quanto più sono evidenti, tanto più spesso corrono pericolo di
esser dimenticate o non avvertite: come l'aria, della quale viviamo senza
accorgercene, o come — se mi perdonate il brusco trapasso — la felicità che si
va a cercare, talora, in paesi lontani, mentre si avrebbe sotto mano, piena ed
intera quanto alla condizione umana è dato raggiungerla, fra le mura di casa
propria. In particolare, poi, le verità riguardanti la scuola hanno avuto da
noi, in Italia, fino all'altro giorno, la curiosa caratteristica d'esser
proclamate a gran voce, con mirabile accordo, da un notevole numero di persone,
ma di esser poi, con un accordo ancor più mirabile, dimenticate e violate nella
pratica da un numero ancor più notevole di persone fra le quali, sempre, in
primissima linea, coloro che avevano qualche potere in materia di politica
scolastica. Ad esempio, per restare nell'ambito di quel che dicevamo poco
prima, qual è il cittadino italiano immischiato comunque, per dovere od
elezione, nelle cose scolastiche, che non abbia, semprechè l'occasione e la
cultura propria glielo permettessero, fatto dei discorsi sull'«anima della
scuola», sulla sacrosanta necessità «di educare oltreché istruire», sull'
imprescindibile dovere di dare alle nuove generazione un saldo indirizzo
ideale, ecc.? Tanto che chi dovesse, sull'unica base di quei discorsi, formarsi
un concetto intorno alle condizioni della scuola italiana nell'ultimo
trentennio, sarebbe tratto certamente a immaginare che, povera
quantitativamente di edifici, di denaro, di persone, di numero, per le ancor
scarse disponibilità economiche del paese, essa poi fosse forte e rigogliosa
all'interno, tutta pervasa da un unico, ben definito ideale, informante di sé
l'umile opera dell'insegnante come la superiore attività legislativa dei
ministri e del parlamento. Orbene, in realtà è avvenuto proprio il contrario.
Le nostre università sono state numerose più di quelle della dotta Germania o della
miliardaria America, eppure noi non siamo ancora riusciti a diffondere nel ceto
dei professionisti, degli alti funzionari, degli impiegati cosiddetti — forse
per ironia — «di concetto», nemmeno la parvenza di quella cultura decorosa che
tali classi hanno persino fra le più modeste nazioni civili moderne. Le nostre
scuole medie sono diventate, a lungo andare, talmente pletoriche, da
rappresentare infine una specie di piaga nazionale; eppure, gli individui
capaci di leggere, gustandolo, un classico, o di interessarsi, per propria
soddisfazione, a un qualsiasi ordine di problemi scientifici, si contano sulla
punta delle dita. Le nostre scuole elementari sono, non diciamo troppe e
neanche tante da bastare, in sé alla funzione che dovrebbero adempire, ma certo
non poche in relazione ai magri bilanci dei comuni e degli enti pubblici onde
traggono il loro sostentamento; eppure, non solo l'analfabetismo imperversa, ma
è accompagnato da quell'altro, ben più pericoloso fenomeno, che è la
noncuranza, l'accidia, la pigrizia interiore, la sordità ai valori spirituali,
l'«analfabetismo morale» insomma. Né in questo groviglio d'istituzioni
scolastiche venute su alla peggio, sotto la pressione dei più svariati casi o
interessi, burocraticamente amministrate senza alcun riguardo a finalità ideali
e ad esigenze interne, flagellate da una pioggia di decreti, leggi, regolamenti
cozzanti fra di loro nel più assoluto caos, si saprebbe comunque scoprire, non
dico un'anima, ma solo una certa, anche tutta estrinseca, unità e coerenza
d'indirizzo, se indirizzo non si vuol chiamare la proclamazione aperta di non
averne alcuno, che tale è appunto la scuola laica neutra onde siamo stati
deliziati fino a ieri. Tutto ciò, naturalmente, non vale per il nuovo stato di
cose prodotto dalla recentissima legislazione della riforma Gentile: i benefici
effetti della quale, giova credere, presto si faranno sentire nel loro lato
positivo, giacché per ora, come era del resto naturale e giusto che accadesse,
l'esame di stato ed altre misure simili hanno agito piuttosto spazzando via gli
ultimi resti della vecchia mentalità liberale che ancora paralizzava il nostro
organismo scolastico. Ma ecco che mi sperdo in un mare di considerazioni
poco piacevoli e intanto dimentico l'oggetto primo del mio discorso. Ch'era,
semplicemente, di dirvi, in omaggio alla non peregrina eppur troppo spesso
dimenticata verità dalla quale avevamo preso le mosse, come la fondazione di
questo Istituto Superiore di Magistero, che s'intitola al Nome tanto dolce ad
ogni anima cristiana, non possa rimanere solo una di più fra le lodevoli
iniziative onde si vanta l'azione cattolica in Italia, che pur trae dalla sola
vigile carità dei fedeli mezzi ed opere, quali nessuna sapienza di
amministratore saprebbe immaginare e ne fa fede questo stesso Istituto nel
volger di pochi mesi creato e provvisto di tutto il necessario con una
larghezza veramente signorile di cui bisogna render grazie alle Suore che
l'hanno voluto ospitare. Se una scuola non è formata solo dalle aule e dagli edifici
e dal materiale, se, prima di tutto, essa ha da rappresentare uno spirito e un
pensiero, allora è nostro dovere domandarci qual è lo spirito e il pensiero che
ci sostiene, ch'è poi quanto dire in nome di che cosa e con quali idee
direttive i cattolici italiani hanno offerto alla loro patria, già, come
notavamo un momento prima, anche troppo gravata dall'eccessivo numero degli
istituti universitari esistenti fino a ieri, una nuova scuola
universitaria? Problema difficile certo, e tale da render pensosi quanti
si preoccupano delle sorti della cultura cattolica in Italia e del quale io non
presumo davvero darvi qui la soluzione, non solo perché non è argomento da
sbrigarsi in poche parole, ma anche perché io confido a tale uopo nel vostro
futuro concorso, di quando voi stesse avrete superato in certo modo quel duro
tirocinio che vi attende, di disimparare al più presto quello che la
ingloriosamente defunta scuola normale vi ha insegnato o ha finto d'insegnarvi,
per rimparare non dico, che non voglio essere esageratamente pessimista, tutto
il contrario, ma almeno con spirito ben diverso, con altre finalità, con un
differente senso dello «sforzo gioioso» base d'ogni cultura, i primi rudimenti,
ossia gli strumenti del lavoro, d'un vero sapere, non peso morto e oppressione
ingombrante dell'anima, ma compito quotidiano da adempiere se anche con
sacrificio, colla coscienza di riempire d'un nuovo valore la propria vita.
Problema, perciò, del quale io non posso darvi più di un senso e, direi quasi,
un sospetto e un presentimento, fondandomi non solo su quel che avrete certo
visto e sentito dire sul rivolgimento avvenuto, da un anno a questa parte, in
materia scolastica, nel nostro paese ma, soprattutto, sullo spirito che v'ha
infuso la vostra comune Madre, la Chiesa, quando accogliendovi nel suo seno
come semplici fedeli, o inscrivendo talune nella milizia schierata sotto le
bandiere dei diversi ordini religiosi che veggo fra voi rappresentati, ha
trasfuso in voi quegl'immutabili principi direttivi del pensare e dell'operare
che, per divina promessa, dureranno in eterno, anche quando il cielo e la terra
cadranno da sé come vestimenti vuoti. Che cosa sia in sé un Istituto
Superiore di Magistero secondo la nuova legislazione scolastica, voi certo
sapete. Formare insegnanti per le scuole medie, migliorare e allargare la
cultura dei maestri abilitandoli alle funzioni direttive ed ispettive, sono già
compiti veramente nobili, da invogliarci a lavorare con tutta la nostra energia
perché: chi sono gl'insegnanti delle scuole medie? Sono coloro che plasmano, in
sostanza, le classi dirigenti di domani, le quali appunto in quelle scuole
ricevono la prima umana educazione del loro spirito. E chi sono i direttori e
gli ispettori? Sono coloro che hanno in mano tutto l'organismo delle scuole
elementari e, per conseguenza, l'educazione del popolo. Ora, nessuno può negare
che e l'una e l'altra cosa, l'educazione delle classi dirigenti e l'educazione
del popolo, siano, da noi, bisognose di urgenti riforme delle quali i cattolici
non possono in alcun modo disinteressarsi. E non basta che tali riforme siano
ormai sancite da un corpo di leggi del quale l'Italia può oggi andar
giustamente orgogliosa, giacché le leggi ci sono, ma occorre chi «ponga mano ad
esse», ossia chi le realizzi nella propria intelligente operosità. D'altronde
non si guarisce in pochi giorni dalla malattia di oltre un cinquantennio, anzi,
a guardar bene, di secoli. Giacché la nostra patria, per ragioni storielle che
ora sarebbe troppo lungo indagare, non ha da secoli avuto una «cultura» nel
senso di attiva partecipazione delle classi socialmente più elevate ai lavori
dello spirito. Ci sono stati, non meno numerosi che altrove, i geni dell'arte o
della scienza, ma solitari, inaccessibili, chiusi nello sforzo della creazione,
senza un pubblico che li seguisse, senza un'anima nazionale che si
riconoscesse in loro e si assimilasse i risultati della loro opera, fermandola
nella stabilità d'una tradizione. Perciò quando l'unità italiana compiuta
permise la formazione d'uno Stato moderno, il problema tormentoso si
riprodusse: da un lato le grandi personalità solitarie, dall'altro le plebi
misere ed ignare, nel mezzo una classe dirigente improvvisata, sfornita di ogni
vera consistenza interiore, costretta a vivere giorno per giorno d'una politica
di ripieghi. Ed eccoci a quello che dicevamo prima sull'«analfabetismo morale»,
ben più pericoloso dell'analfabetismo grafico. In altre grandi nazioni civili
europee il medico o l’avvocato, l'ingegnere o il funzionario, il banchiere o
l'industriale d'una certa levatura non si limitano a compiere, per delicati e
difficili che siano, i doveri della propria professione, ma spesso sentono il
bisogno di riempire le proprie ore libere con qualche nobile disciplina
spirituale. E il funzionario, uscito dall'ufficio, si dedica a studi letterari,
e il medico, lasciati gli ammalati, coltiva la filosofia, e l'avvocato, dopo le
sue pratiche legali, va acquistando una vera competenza nella storia politica,
e l'industriale, chiusa la fabbrica, non vuol più sentir parlare di registri e
di conti, ma riempie la casa di quadri e di mobili antichi e si esercita con
passione nella critica d'arte. Né è raro il vedere persone già innanzi negli
anni intraprendere, poniamo, per la prima volta lo studio della musica, o iniziarsi
a qualche difficile ramo di ricerche scientifiche, quasi ad apprestare alla
prossima vecchiezza un'occupazione dignitosa che le impedisca d'isterilirsi
nell'ozio e di esaurirsi nella malinconica contemplazione dei propri acciacchi.
Quel che accadesse, invece, da noi fino a ieri, purtroppo ognuno lo sa [Anche
qui si tenga presente quanto s'è già osservato, in altra nota: che si parla,
cioè, dell'Italia di... altri tempi! Oggi si potrebbe, forse, dire il
contrario: la mentalità democratica, tessuta di atteggiamenti menzogneri e
capricciosi, sta facendo perdere alle grandi nazioni europee ogni vera
superiorità culturale. E invece, da noi sotto la nuova, severa disciplina
«romana», le classi dirigenti si sono trasformate con una rapidità che, in
altri tempi, sarebbe parsa incredibile.], dove non solo funzionari e impiegati,
avvocati e medici, industriali e finanzieri non conoscevano — salvo pochissime
lodevoli eccezioni — altro modo d'impiegare il proprio tempo libero che non
fosse il biliardo o il caffè, il giornale e le chiacchiere, il cinematografo e
l'operetta, per tacere il peggio, ma persino alcuni professori e maestri
accoglievano l'obbligo di studiare e di dimostrare ad ogni occorrenza una
cultura larga, soda, frequentemente rinnovata, sancito dalla nuova legislazione
scolastica, con una meraviglia così ingenua da far sospettare che, nei loro
pedagogici cervelli, fra il mestiere dell'insegnamento e l'obbligo di studiare
non fosse mai esistito il sospetto d'una, sia pur lontanissima, relazione. E
quando un simile esempio viene dato da quelle che dovrebbero essere, nel
miglior senso della parola le classi dirigenti, che cosa può fare il popolo se
non disertare la scuola per la bettola e il libro per il mazzo di carte? Il
maggior tempo libero e i più alti salari ottenuti al proletariato dalle
agitazioni socialiste del '20 e del '21 gli servirono non già ad elevarsi
intellettualmente, sebbene a vagabondare, a gozzovigliare, a sfoggiare, con
mentalità pescecanesca, stoffe costose e gioielli. Come vedete la questione
intellettuale si trascina dietro, inevitabilmente, la questione morale, e direi
anche, se voi non interpretaste la parola in cattivo senso, la questione
politica. Sì, perché quel professionista, quel funzionario, quell'impiegato
che, finito il proprio lavoro, invece di godere le vere libertà del
raccoglimento e della meditazione, «va a divertirsi» in un modo più o
meno discutibile, si forma poco a poco le physique o, meglio, le moral du róle,
ossia la mentalità adeguata all'ambiente che frequenta: la mentalità del caffè,
del cinematografo, dell'operetta, il dilettantismo frivolo, il semplicismo,
l'orrore dei problemi seri che implicano fatica e disciplina, l'amore del
lusso, l'insofferenza d'una vita tranquilla e modesta. Proprio come l'operaio
«moralmente analfabeta» che nei suoi salari che gli hanno permesso il
pescecanismo dei polli arrosto o dei vestiti costosi trova l’incentivo più
sicuro all'odio e alla rivolta contro i ricchi, i quali, assoggettandolo al suo
duro lavoro quotidiano, hanno voluto escluderlo da quella pantagruelica
gazzarra in cui gli sembra debba celebrarsi la vera vita. Ora, mentalità
simili, oltre all'anarchia che portano necessariamente alla coscienza morale
dell'individuo, oltre alla corruzione e al vizio di cui necessariamente debbono
pascersi, sono incompatibili colla esistenza politica d'una nazione, che vuol
lavoro e disciplina, serietà e sobrietà, capacità di pensare e spirito di
sacrificio. Ed ecco, allora, anche la politica uniformarsi ai superiori dettami
del caffè e del cinematografo, della pochade e dell'operetta; ecco le
chiacchiere con cui ognuno risolve i più complessi problemi, congiunte alla più
massiccia ignoranza delle cose più elementari; ecco il fumo negli occhi al
volgo gettato dai professionisti politicanti; ecco la corsa alle cariche,
agl'impieghi, alle prebende; ecco la incapacità dell'opinione pubblica ad avere
qualsiasi serietà e consistenza. Come meravigliarsi che per imporre il
principio d'una disciplina in un ambiente simile non ci sia voluto meno del
manganello e della rivoltella con tutti gli annessi inconvenienti? Il buon
pubblico liberale e democratico, quello dello «stellone», non fu purtroppo
accessibile al pacifico lavoro della stampa, alla discussione di problemi
dibattuti nelle assemblee, sulle riviste, nei libri: se non aveva il
«fattaccio» con morti e feriti, non si scuoteva. Pensate, per esempio, a un
altro campo ove si è avuta gran copia di quei metaforici morti e feriti che
sono i «bocciati» alla scuola media. Da quanto tempo noi, poveri pedagoghi, non
avevamo scongiurato, implorato, supplicato coi pacifici e democratici mezzi
dell'articolo, della conferenza, del libro, i padri di famiglia perché
degnassero occuparsi delle scuole ove pure i loro figli trascorrevano in gran
parte la propria vita? Quante volte non avevamo denunciato a gran voce il
vuoto, la nullità, l'inettitudine di quelle pretese fucine del sapere? Quante
volte non avevamo avvertito che così non poteva più andare innanzi e che la
settimana rossa del '14, Caporetto, le agitazioni socialiste del dopoguerra,
fenomeni fra le cui cause doveva certo annoverarsi in primissima linea
l'analfabetismo morale alimentato dalle nostre scuole, erano già indizi sicuri
di quel che poteva un giorno succedere se non si fosse presto messo un riparo
alla degenerazione scolastica da cui eravamo afflitti? Credete voi che i padri
di famiglia ne fossero impressionati? Che! era come parlare al muro. C'è voluto
il «manganello» dell'esame di Stato colle conseguenti bocciature, perché i
signori padri di famiglia, toccati nel punto sensibile della borsa, da una
pedagogia ben altrimenti efficace di quella degli articoli e delle conferenze,
degnassero finalmente accorgersi della esistenza d'un problema scolastico e
finalmente sospettassero che la scuola è stata fatta per altro scopo che non
sia quello di fornire diplomi ai loro figli. La gravità della situazione
che vi ho prospettato dice dunque quanto sia importante il compito al quale
siete chiamate voi, future direttrici e ispettrici di scuole elementari; voi,
future insegnanti di scuole medie. Da anni ed anni noi andiamo sperperando le
migliori riserve morali della nostra razza: quelle magnifiche energie del
nostro popolo, fino a ieri provvidenzialmente salvaguardato dalla sua stessa
incultura, dalle dure necessità del suo lavoro, dalla primitività rurale
delle sue condizioni di vita, contro l'azione disgregatrice del laicismo
imperante nelle città: quelle magnifiche energie che ci hanno fatto vincere la
guerra e ci permettono ancora di ignorare il terribile problema dello
spopolamento incombente su altre nazioni. Se voi poteste soltanto contribuire a
cambiare lo stato di cose che vi ho or ora descritto: se voi poteste diffondere
davvero una cultura nel più alto e nobile senso della parola e fra le nostre classi
dirigenti e nel nostro popolo: se riusciste a sostituire, almeno in parte, il
libro alla bettola, l'arte al cinematografo, la scienza alle chiacchiere del
circolo, avreste già bene meritato della causa che servite. Avreste ottenuto
quello che già ottenete in altri campi: e come nell'assistere ammalati, nel
sollevare poveri, nel conquistare alla civiltà le più inospiti regioni del
mondo conosciuto, gli ordini religiosi hanno fatto sì che il nome cristiano
fosse sempre in prima linea anche in quelle opere socialmente utili di cui il
mondo laico si vanta come di propria conquista perché non è dato scorgervi, a
primo aspetto, alcun carattere religioso, così voi aprendo, anime, dirozzando
intelligenze, opponendo ai «divertimenti» dissipatori il gusto d'un nobile
lavoro dello spirito, dimostrereste che, anche nel diffondere la luce del
sapere, il Cristianesimo sa essere in prima linea, e che tutte le verità, tutte
le conquiste, tutte le vittorie del pensiero, non solo esso le accetta, ma sa
farle fruttificare come nessuna scuola laica ha mai saputo. E io credo che
ringraziereste anche la pedagogia: quella pedagogia da voi imparata a conoscere
nella scuola normale — sia detto con tutto il rispetto dovuto alle zitelle —
sotto la veste d'una zitellona dura ed arcigna, se vi aiutasse a raggiungere un
fine simile, dandovi una più sicura consapevolezza dei problemi educativi, un
più alto senso dell'opera scolastica, un palpito d'amore più puro per questa
grande fucina d'anime ch'è la scuola. E io vado ancora innanzi, e vi dico che
ambizione dei cattolici italiani dev'essere quella di veder sorgere intorno a
questo istituto, vicine o lontane, ma sempre legate ad esso da un'intima
comunione d'intenti e d’indirizzo, tutta una rete di scuole veramente nostre.
Così noi auspichiamo un liceo-ginnasio nostro e un istituto magistrale nostro e
delle scuole elementari nostre, non perché non vi siano in Italia scuole simili
valorosamente rette da cattolici, ma perché desideriamo tenerci con esse nel
contatto più diretto possibile, dando, non solo insegnamenti, ma anche, secondo
la debolezza delle nostre forze, esempi, concretando però in tutto un sistema
d'istituzioni scolastiche quelli che ci pare debbano essere i criteri
pedagogici direttivi dei cattolici d'oggi: e ciò non per dare degli schemi che
tutti debbano pedissequamente copiare, quanto piuttosto per approfittare delle
favorevoli condizioni che solo una scuola modello, libera da ogni
preoccupazione estranea ai suoi fini didattici, può offrire. Come vedete,
è un programma di lavoro che per cinquant'anni e più può bastare alle giovani
generazioni cattoliche. Tuttavia spero di non parervi proprio incontentabile se
aggiungo subito che il fine, innegabilmente altissimo, la cui importanza ho
cercato ora di farvi, alla meglio, comprendere non può, per vasto che paia,
essere abbastanza per voi. E dico per voi, e un momento fa ho fatto appello
alla coscienza cristiana e cattolica per cui la Chiesa in diversi gradi vi
annovera fra le sue figlie obbedienti, perché se il diffondere la cultura,
l'insegnare e l'aprire scuole sono tutte azioni nobilissime, degne delle nostre
migliori energie, vano sarebbe credere che con ciò e soltanto con ciò si
offrisse adeguato rimedio ai mali ond'è travagliata non solo la coscienza
italiana, ma possiamo pur dire tutta la coscienza moderna. Qui comincia il
nostro dissidio dai pedagogisti laici coi quali fino a questo punto abbiamo
marciato di pari passo, e proprio qui dobbiamo dire, se ne siamo capaci, la
parola nuova che si aspetta da noi, che è poi la ragione per cui non c'è
parsa inutile, fra i troppi istituti universitari italiani, la fondazione d'un
altro Magistero. Questa parola eccola: noi non crediamo che il problema
pedagogico odierno sia risolvibile con un programma esclusivamente culturale,
noi non crediamo, cioè, che basti dare alle nuove generazioni una scuola in cui
si studia davvero invece d'una scuola in cui non si studiava per poter dire
d'averle educate. Anzi noi non crediamo che l'insufficienza della vecchia
scuola fosse solo, come tante volte s'è detto, una deficienza tecnica d'uomini
e di programmi, a sanar la quale basti preparare un personale insegnante colto
e conscio dei suoi doveri, rinvigorire le sanzioni giuridiche dei concorsi e
degli esami, amministrare con maggior severità, o restituire ad alcune
discipline formative a torto trascurate come il latino e la filosofia la loro
funzione di prim'ordine; tutte cose, badiamo bene, bellissime e necessarie,
alle quali noi cattolici plaudiamo toto corde, ma che non toccano ancora, secondo
noi, il vero fondo della questione. Giacché il Cattolicesimo è vecchio, miei
cari, e ha troppo buona memoria per dimenticare le lezioni del passato. Quando
gli uomini del Rinascimento ruppero i ponti dell'antica fede e ai Padri e ai
Dottori della Chiesa vollero sostituiti i classici, pensavano anch'essi tutti,
dal precursore Petrarca all'organizzatore e propagandista Erasmo, che la
cultura avrebbe risanato il genere umano e che, fugata l'ignoranza, sarebbe
sparita anche la corruzione, e pareva loro che lo studio delle lettere latine e
greche sarebbe stato 1'ubi consistam di quella piena, elevata, armonica
formazione spirituale ch'essi auspicavano all'umanità redenta dalle tenebre
medioevali. Orbene, l'Umanesimo trionfa, riplasma nel proprio spirito le vecchie
scuole, ne crea delle nuove ove il classicismo regna incontrastato... Ahimè,
non è passato ancora un secolo e già i pedagogisti lamentano nella scuola
umanistica i difetti che gli umanisti avevano voluto satireggiare nella scuola
medioevale: rozzezza, pedanteria, soffocamento delle migliori energie,
disconoscimento brutale delle esigenze intime dello spirito educando. E man
mano che il tempo passa, sempre più la nuova pedagogia s'avvede che di tali
deformazioni dell'anima giovanile è proprio responsabile questa cultura che
agli uomini del Rinascimento pareva principio indispensabile d'ogni umana
elevazione: la cultura classica, la preponderanza dell'esercizio letterario
come fine a se stesso, il cerebralismo della pura dilettazione estetica,
l'immoralismo in quanto divorzio fra il dire e il fare, la vacua retorica.
Allora, mentre le critiche all'umanesmo si moltiplicano, un nuovo astro sorge
sull'orizzonte e il realismo scientifico s'accampa minaccioso contro
l’umanesimo. I pedagogisti del Rinascimento hanno sbagliato: non le lettere
classiche, ma gli studi scientifici, l'osservazione della natura, l'esperienza,
daranno all’ umanità la formazione spirituale di cui ha bisogno. E da Bacone e
Comenio, nei quali il nuovo ideale educativo s'afferma ancora circondato da
riserve e cautele critiche, ai pedagogisti della rivoluzione francese, ai
positivisti del secolo XIX che annegano la scuola addirittura in un'orgia di
scienze positive, il realismo entra poco a poco, come già era entrato
l'umanesimo, nella prassi e nella legislazione scolastica di tutte le nazioni
civili. E se proprio non riesce a detronizzare il rivale, almeno gli impone,
attraverso la filologia che va impregnando di sé gl'insegnamenti delle
letterature classiche, il suo spirito ed i suoi metodi. Il problema è dunque
risolto? L'umanità ha finalmente trovato quella liberazione attraverso la
cultura che andava cercando dal medioevo in poi? Mai più: il realismo
scientifico non ha ancora avuto tempo di celebrare i suoi trionfi, che già un
nuovo avversario è sorto a denunciare le sue malefatte. La pedagogia
idealistica moderna riprende, a sua volta, contro il realismo scientifico, il
medesimo atto d'accusa ch'esso aveva portato contro l'umanesimo letterario.
Eccoli, secondo l'idealismo, i frutti della scuola razionalistica e scientifica
che aveva voluto poggiare il suo insegnamento sulla salda base dei «fatti» e
delle «notizie» e bandire tutto il resto come chiacchiera inutile: pedanteria,
superficialità, soffocamento delle migliori energie, frivolo scetticismo, oblìo
dei valori spirituali, meccanismo burocratico e livellatore. E l'idealismo
contemporaneo non è solo. Sia i grandi pedagogisti moderni, un Pestalozzi, un
Fròbel, già lo stesso Rousseau, già Locke, tutti più o meno simpatizzanti coi
metodi del realismo scientifico, derivano la miglior parte della loro opera
piuttosto che da quest’ultimo, da una oscura ribellione contro l'insegnamento
“ufficiale” delle scuole che fa loro presagire, se pur non diagnosticare
chiaramente, un errore, una stortura, una violazione di non so quali principi,
onde tutto il sistema educativo dei loro tempi riesce falsato; né essi sono mai
tanto eloquenti come quando inalberano la bandiera della rivolta a rivendicare
i diritti dell'anima umana oppressa dalla pedanteria scolastica. E quella
rivolta è sì accettata dall'idealismo contemporaneo, ma allo stesso modo con
cui il realismo aveva accettato dall'umanesimo le critiche dei migliori
umanisti sul “ciceronianismo”: non come indice di un errore infirmante i
criteri stessi con cui si è risolto il problema educativo in genere, ma come il
segno d'una serie d'errori particolari agevolmente rettificabili. In fondo il
realismo aveva consentito con l'umanesimo nell'ammettere che il problema
pedagogico fosse sopratutto problema di cultura, d'una maggiore e miglior
cultura da diffondere fra gli uomini: soltanto gli era parso che l'umanesimo
avesse male risolto questo problema imperniando la cultura sulle lingue
classiche. A sua volta il neoumanesimo idealistico riconosce volentieri al realismo
il pregio d'aver rivendicato i diritti dell'esperienza, della ragione, della
cultura, ma, viceversa, gli ascrive a torto d'essersi esaurito nel proporre
quel particolar tipo di cultura che s'impernia sulle discipline e sui metodi
naturalistico-positivi. Secondo l'idealismo sarà, sì, la cultura, ma una
cultura largamente storico-filosofica che permetterà al maestro moderno di
risolvere il problema educativo. C'è da meravigliarsi se il Cattolicesimo, che
è così vecchio!, ricorda oggi agli immemori che da cinque secoli la pedagogia
laica agita ormai lo stesso programma senza riuscir ad altro che a disfare oggi
quello che ha fatto ieri, non portando “a mezzo novembre” ciò che “ha filato di
ottobre”? Ed è avventata superficialità il profetare che i medesimi
inconvenienti denunciati per il passato nella scuola umanistica e nella scuola
realistica, renderanno domani oppressiva, pedantesca, astrattamente verbale,
anche la scuola neoumanistica ? La ragione? Ma la ragione sta nello
stesso carattere umanistico di tale scuola, intendendo questa volta per
umanesimo non più l’humanitas delle antichità classiche, quanto piuttosto tutta
una concezione della realtà, e precisamente la concezione della realtà come
“uomo” o come “spirito umano”, che è poi il carattere distintivo di tutti gli
ideali pedagogici laici i quali, in un modo o nell'altro, risolvono il problema
educativo additando all'educando come meta ultima l'esercizio di un'attività
umana non soltanto nell'esplicazione, ma anche nell'oggetto, procedente, cioè,
dall'uomo e avente per suo oggetto il mondo umano, in quanto natura, storia,
esperienza, ecc., e poco importa se poi questa attività sia la scienza o
l'arte, la letteratura o la filosofia. Ora, ciascuna di queste attività
umanisticamente intesa è sempre, per forza, finita e limitata: non già nel
senso che ciascuno dei suoi singoli risultati non sia superabile all'infinito,
ma nel senso che racchiude lo spirito in un determinato punto di vista,
cristallizzandolo, per così dire, entro se stesso, vietandogli però di aprirsi
ad una vita superiore. Diciamo la vera parola, la cultura umanistica è una
cultura “egoista”. Nell'arte e nella scienza, nella filosofia e nella
letteratura, lo spirito umano ammira soltanto le cangianti forme di se stesso:
Narciso contempla la sua immagine scomporsi e ricomporsi in mille guise
attraverso l'acqua leggermente mossa della fontana. E non si risponda che pure
per far ciò egli deve sacrificarsi e negarsi, superare la morte e il dolore:
che, dunque, la scuola umanistica sa dire anch'essa le salutari parole della
sofferenza e della abnegazione? anche l'egoista, tutto dedito ai suoi piaceri,
deve affrontare per essi sacrifici e sofferenze? è forse per questo meno
egoista ? No, una cultura — è questo il punto in cui noi ci separiamo
decisamente da ogni pedagogia “laica” — la quale ignori Dio, o, peggio, lo
riduca ad un momento dialettico nel divenire dell'autocoscienza, è sempre una
cultura gretta, limitata, mancante di ogni vero stimolo a rinnovarsi, tendente
a comprimere con dogmatica rigidezza quanto non rientra nei suoi quadri
preformati. E infatti che vuol dire rinnovarsi, se non uscire da sé per mirare
a una realtà superiore? Ora, la cultura laica non conosce realtà superiori;
anche quando guarda all'avvenire, nelle nuove scoperte che nasceranno
all'infinito da lei, essa non può scorgere, ancora e sempre, che l'immagine di
sé. Ben diverso è il caso della cultura cristiana la quale, avendo per fine non
se stessa, ma Dio, tende necessariamente a elevarsi sopra di sé e reca, quindi,
nel suo seno, il più possente stimolo a rinnovarsi che si possa desiderare.
L'enciclopedia laica è un circolo chiuso; per vasto che sia il suo giro, esso
parte da sé e ritorna in sé: cultura letteraria del vecchio umanesimo, cultura
scientifica del realismo, cultura storico-filosofica del neoumanesimo. Ed anche
tutt'e tre insieme, saranno, perciò, sempre, violatrici della più
caratteristica prerogativa dello spirito umano per cui “navigare necesse est,
vivere non est necesse”: quella di ripugnare ad ogni barriera, quella di
spezzare ogni limite per tendere sempre più in alto e sempre più oltre.
Viceversa l’enciclopedia cristiana è, se ci si consente l'espressione, un
circolo che s'apre, colla filosofia e la teologia, al riconoscimento d'una
realtà superiore: infinita via su cui le anime dovranno avanzare colle loro
forze sostenute dalla grazia divina. Né la materialità di queste immagini
v'inganni, quasiché la differenza fra i due tipi di cultura s'iniziasse solo in
un ordine soprannaturale. Poiché il tipo e, direi, l'orientamento di una
cultura non può non essere visibile anche in ogni sua minima parte. Ogni
frammento della cultura laica deve riprodurre in sé il circolo chiuso e ogni
frammento della cultura cristiana il circolo aperto. Così i singoli fatti del
mondo naturale sono, in fondo, nonostante tutte le proteste in contrario, per
la cultura laica, niente altro che la ripetizione di un medesimo spettacolo per
cui l'umanista è assalito dal terrore e dalla noia innanzi alla monotona
infinità dei cieli, e i fatti della storia gli sembrano esauriti quando li ha
sussunti sotto una determinata categoria ideale. Viceversa la scienza cristiana
avverte l'infinito che è in ogni fatto e in ogni oggetto, non come la “mala
infinità” d'una ricerca da proseguirsi indefinitamente, o d'uno spettacolo
multicolore illimitatamente prolungato, ma come la positiva inesauribilità
d'una esistenza concreta le cui radici si perdono in Dio, ch’è quanto dire,
come uno dei modi, sempre originali e imprevedibili, attraverso cui la potenza
creativa di Dio si è manifestata. Ecco perché questa nostra civiltà occidentale
nutrita dal Cristianesimo ha avuto la grande fioritura di scienze e d'arti di
cui oggi va orgogliosa. Ecco perché la vera cultura, ch'è “spirito di libera
ricerca”, alieno dall'oppressione e dalla pedanteria, e “socratica maieutica”
alle anime che facciano nascere, nel dolore e nello sforzo, la verità, non può
andar mai disgiunta dallo spirito cristiano. Ed ecco, infine, la ragione
dell'insuccesso che, dall'umanesimo al realismo e al neoumanesimo, ha sempre
reso e renderà sempre sterili i tentativi di fondare, fuori del Cristianesimo,
una scuola veramente liberatrice. Non basta. Il problema della cultura
non è soltanto un problema di qualità o di intensità; è anche, sopratutto, un
problema di diffusione. Ora, qui è proprio lo scoglio di tutte le pedagogie
laiche che, dato il loro punto di partenza, debbono per forza porre nella
ragione naturale la forma più alta d'autocoscienza, e perciò nella
“consapevolezza” critica e scientifica l'essenza di ogni cultura. Già il mondo
pagano aveva detto che i liberi studi, la ragione, la filosofia erano l'unica
via onde l'uomo, elevandosi sulle proprie passioni, celebra veramente in sé
l'umanità. E si era trovato innanzi al terribile problema: «che faremo dunque,
degli uomini che non hanno, anche volendo, né tempo né modo di studiare?
Negheremo loro la qualifica di uomini?» Problema, si noti bene, assai più
facile in una società che aveva gli schiavi e che non conosceva ancora le
innumerevoli forme d'operosità manuale e materiale ormai indispensabili alla
società moderna. Allora, forse, si sarebbe potuto pensare in linea teorica, che
poche ore di lavoro manuale imposte a ciascuno bastassero per soddisfare i
bisogni della società, garantendo poi a tutti la libertà di rivolgersi ad
occupazioni intellettuali. Oggi non è più così. Il nostro operaio attende molte
ore del giorno ad un lavoro faticosissimo e spesso tecnicamente difficile: e i
mille servizi materiali, di trasporti, di comunicazioni, di cure igieniche, di
polizia e via dicendo, di cui ha bisogno una città moderna, lasciano, a un
intero esercito di persone, proprio il tempo che basta a rinnovare col riposo
le proprie energie. Vorremo educare costoro col latino dell'umanesimo, colle scienze
del realismo, o colla filosofia del neoumanesimo? O, non potendo, li lasceremo
senza alcuna educazione? È il problema della cultura popolare, insolubile per
il razionalismo laico moderno non meno che per il paganesimo antico.
D'altronde, se i beni dello studio e della contemplazione sono i veri beni
umani, con che diritto ne escluderemo la maggior parte dell'umanità ch'è
condannata ai lavori manuali? Che se, viceversa, pare inevitabile quei beni
dover toccare in sorte a pochi, con qual criterio gli uni saranno preferiti
agli altri? Come evitare il sospetto che tutto il nostro sistema sociale sia
fondato su una odiosa ingiustizia? Ed ecco lo spirito di ribellione che getta i
lavoratori in braccio al socialismo e all'anarchismo, ecco il moto sotterraneo
che mina le basi delle nazioni moderne. Anche qui la storia ci ammaestra.
Il problema che la civiltà pagana non aveva saputo risolvere, fu risolto dal
Cristianesimo. Se la santità è superiore alla scienza e la carità alla
giustizia, allora i veri valori spirituali non si attuano nel lavoro
intellettuale piuttosto che in ogni altra qualsiasi forma di lavoro o di
attività umana, sebbene dovunque c'è occasione di accettar dei doveri che
rompano la dura scorza del nostro egoismo. Anzi, più l'attività che esercitiamo
è socialmente umile e materialmente faticosa, meno da essa possiamo aspettarci
ricchezze, beni, onori, più essa è vicina a quella perfezione di sacrificio e
di rinunzia che è l'ideale cristiano. “Qui vult post me venire abneget
semetipsum”. Non basta rinunciare alle cose proprie, alle comodità, al lusso,
alle mollezze, questo lo avevano detto anche i filosofi pagani: occorre
rinunciare a se stesso, ossia rinunciare a quell'altro lusso interiore che è la
gloria, la fama, l'alto sentire di sé in cui il ”saggio” antico trovava
compenso a tutte le privazioni; occorre abnegare semetipsum. Il paganesimo
aveva conosciuto comunità di filosofi che si proponevano come fine la più alta
attività sociale, la scienza. Il Cristianesimo creerà, ammirevole assurdo per la
sapienza mondana, comunità sterminate di religiosi che si proporranno per
fine le attività, socialmente più basse, servili, dispregiate, che non solo
accetteranno con entusiasmo il lavoro manuale, ma chiederanno al mendicante di
dividere i suoi cenci con loro e cureranno le piaghe del lebbroso. Eccolo
risolto, il problema della “cultura popolare”; non inutile tritume di nozioni
da distribuire, ma organica concezione della vita da realizzare; concezione
della vita, notate bene, non riservata a un piccolo numero di studiosi, ma
aperta a tutti, aperta, anzi, con speciale sollecitudine, alle moltitudini
doloranti nel più duro lavoro. All'annunzio della «buona novella» queste
moltitudini non solo non cercheranno di strappare colla rivolta i beni che sono
retaggio esclusivo del ricco e del sapiente (che è un ricco interiore), ma
avranno compassione dell'uno e dell'altro, ben sapendo che quegli apparenti
privilegiati trovano appunto nei loro beni, interni od esterni, il maggior
fomite di attaccamento al mondo e il peggior ostacolo sulla via della
perfezione cristiana, giacché è più facile a un cammello passar per la cruna di
un ago che a un ricco entrar nel regno dei cieli. Né questo deve indurci
a credere che, come favoleggiano taluni, il Cristianesimo, trascorrendo
all'estremo opposto, sia, in odio al razionalismo pagano, divenuto fomite
d'ignoranza e “dottrina da schiavi”. Il vigore col quale la Chiesa ha sempre
rivendicato, contro le eresie irrazionalistiche e fideistiche, i diritti della
ragione; la fermezza colla quale ha tenuto viva la tradizione dell'antica
cultura in quegli stessi conventi ch'erano patrimonio dei «poveri» e degli
«ignoranti», sono lì per dimostrarlo. Allo stesso modo, pur raccomandando in
modo specialissimo la povertà come uno fra i principali consigli evangelici,
Essa non ha mai accettato quelle rozze forme di ascetismo che avrebbero voluto
distruggere i beni materiali della società riportando l'uomo alla caverna
primitiva, così, pur proclamando la donnicciola ignorante pari, nella vita cristiana,
quando non addirittura superiore al più dotto filosofo, Essa non ha mai
misconosciuto i valori della cultura, rettamente intesa. Se cultura e ricchezza
sono pericolose, lo sono soltanto allo stato, direi, naturale e pagano, in
quanto forme di un'attività umana che presume di avere in sé il suo fine e che
di esse orgogliosamente si compiace. Compenetrate dall'ideale cristiano,
perdono il loro aculeo e divengono, anzi, fonte d'elevazione a chi le sa
rettamente usare, al servizio del prossimo e di Dio. Ecco perché la Chiesa,
nemica della ricchezza non ha mai tralasciato di porgere aiuti affinché le
condizioni materiali della vita umana venissero sempre migliorate, e, nemica
del razionalismo pagano, non ha mai cessato di combattere per l'elevazione intellettuale
e morale di tutti. Possiamo dire, anzi, meglio: siccome nel più ci sta il meno,
nel fine soprannaturale che il Cristianesimo propone all'uomo ci dev'essere
implicito anche l'adempimento dei suoi fini naturali, e implicito eminenter,
nel modo più perfetto possibile. Perciò non è da meravigliarsi che tutte le
soluzioni del problema economico-sociale dibattute oggi dalla scienza
(razionale limitazione del lavoro, equa distribuzione della ricchezza, severa
disciplina della concorrenza) siano state già da secoli implicite
nell'operosità sociale cristiana; e non c’è da meravigliarsi che tutti i più
sottili accorgimenti didattici per la diffusione della cultura consigliati dai
grandi pedagogisti moderni siano sempre stati il presupposto indispensabile d'ogni
insegnamento cristiano. L'eccessivo lavoro manuale abbrutisce l'uomo,
impedendogli di attendere la propria elevazione intellettuale e morale? Orbene,
da quanto tempo la Chiesa non combatte perché cessi quel gravissimo scandalo
ch'è la violazione del riposo festivo, stoltissima empietà non meno che — ecco
la vera parola — barbara distruzione della libertà umana, la quale “non
vive di solo pane”. Se le grandi feste di precetto del calendario liturgico
cristiano fossero tutte scrupolosamente osservate, non avrebbe forse anche il
più umile lavoratore un adeguato periodo di tempo da dedicare, al raccoglimento
interiore e alla meditazione, in quei giorni che sono «di Dio» appunto perché
Dio vuole che allora l'uomo, dimenticato ogni altro interesse, si fermi ad
ascoltar la Sua Parola ed a riprender coscienza del proprio posto nella realtà
e nella vita? E se il lavoro di tutti i giorni fosse, anziché esasperato fino
alla vertiginosa tensione cui lo spingono la brama smodata di ricchezza e il
materialismo pratico della moderna vita irreligiosa, contenuto nei limiti che
la morale cristiana impone, lascerebbe esso l'uomo così esaurito da spingerlo a
cercare un sollievo nei così detti “divertimenti”? Né solo il tempo
libero, ma anche i mezzi più adeguati alla positiva diffusione d'una vera
cultura, il Cattolicesimo ha sempre messo, con tutte le sue forze, in opera.
Non abbiamo noi sentito vantare come scoperta della pedagogia moderna il “
metodo intuitivo”, cioè la potenza plastica e suggestiva dell'immagine che penetra
là dove il nudo raziocinio non potrebbe arrivare? Orbene, di questo”metodo
intuitivo” e, quel che più conta, senza i grossolani fraintendimenti del
positivismo materialistico, la Chiesa è stata la prima maestra, quando, non
contenta di predicare la propria dottrina, ha affidato alle belle arti il
compito di realizzarla sotto aspetti architettonici, pittorici e musicali, in
un simbolismo che solo gli stolti potrebbero irridere. Eccolo, quel simbolismo,
nella costruzione del tempio, dalla sua forma generale di una croce, ai più
minuti particolari delle porte e delle colonne su cui i costruttori antichi
avevano una dettagliatissima dottrina; eccolo nelle pitture che adornano le
pareti, ove si rappresentano i principali misteri della fede che il sacerdote commenta
ad uso degli illetterati; eccolo in quell'altra mirabile creazione che è il
canto liturgico, nel quale l'emozione lirica dell'arte è veicolo alla
esposizione dei più profondi concetti cristiani, e il tutto con una facilità di
esecuzione tecnica che rende possibile alle moltitudini più ignoranti di
parteciparvi non da spettatrici, ma da attrici. E la liturgia stessa delle
sacre funzioni, considerata nel suo aspetto umano e naturale, che altro è se
non la partecipazione delle folle a un grandioso dramma ove la poesia,
l'architettura, la pittura, la musica si fanno docili strumenti della verità? —
Oggi si raccomanda il «metodo attivo», si biasima il verbalismo della nostra
cultura, si riscopre il valore educativo del lavoro manuale. Orbene, non sono nate
dal Cristianesimo quelle corporazioni medioevali ove il tirocinio e l'esercizio
del lavoro manuale si compenetravano del medesimo senso d'arte e di libertà
umana che a mala pena e non sempre oggi si ritrova nei grandi lavoratori del
pensiero? Ed è stranissimo che i pedagogisti moderni prendano, di solito, come
tipo dell'educazione cristiana e cattolica le congregazioni insegnanti della
Controriforma e, anche queste, le considerino in una ristretta parte della loro
opera e precisamente in quella parte ove esse hanno dovuto agire
collateralmente a metodi e sistemi, non posti da loro, ma forzatamente dovuti
accettare dalla società in cui si movevano. Non si capisce, ad esempio, perché
i Gesuiti debbano esser presi da tutti i manualetti della pedagogia razionalistica,
come unici rappresentanti della educazione cristiana e dei suoi pretesi
difetti, quasiché la divina Provvidenza avesse loro assegnato il compito di far
da capro espiatorio, attirando sulla propria testa tutte le contumelie del
laicismo anticlericale. E si capisce ancor meno perché mai, dato anche - e non
concesso!- che tutti gl'inconvenienti deplorati dai pedagogisti dei laicismo
nella scuola dei Gesuiti ci fossero effettivamente stati, i Gesuiti debbano
venir giudicati esclusivamente in base all'opera dei loro collegi per
alunni laici, quasiché essi nulla avessero fatto per l'educazione clericale ed
ecclesiastica. Allo stesso nostro Capponi, che pur cita lo spartano e
l'ateniese e il romano antico come esempio di educazioni effettivamente riuscite
alla costruzione di tipi spirituali indelebili, non è mai caduto in mente che
il Gesuita fosse un “tipo” spiritualmente altrettanto originale, ottenuto però
con una educazione efficace per lo meno quanto quella da lui vantata negli
antichi? E che il benedettino, il francescano, il domenicano e via dicendo, per
quanti ordini religiosi - e non sono pochi!- la Chiesa racchiude nel suo seno,
fossero altrettanti “tipi” spirituali non meno ben delineati? Di un metodo
educativo si può, certo, avere un'idea guardando a qualsiasi sua
manifestazione, ma non si può giudicarlo completamente se non là dove esso si è
fatto tutte le condizioni occorrenti alla sua piena realizzazione. Sarà
benissimo che i risultati ottenuti dalle congregazioni insegnanti della
Controriforma non debbano giudicarsi brillantissimi: ma si consideri che quelle
congregazioni, in quanto si proponevano d'esplicare una larga azione sulla
società laica circostante, dovevano forzatamente accettare sistemi e metodi
consacrati dall'opinione pubblica, sia pur per volgerli, in quanto era
possibile, ai propri fini. Così i gesuiti trassero tutto quel bene che si
poteva trarre, da un punto di vista cristiano, dall'umanesimo letterario e
dalla vita moralmente corrotta che nelle classi sociali dirigenti si accompagnava
allora all'ideale umanistico. È colpa loro se la scuola umanistica era, per
intima costituzione, una scuola oppressiva, e se, in fatto di morale pubblica e
privata, il mondo e la famiglia s'incaricavano di erudire l'alunno uscito dai
collegi con una serie di lezioni ben altrimenti significative? Ma si guardi il
rovescio della medaglia, si prenda l'educazione gesuita nella formazione del
gesuita, così come, risalendo nei tempi, si prende l'educazione francescana
nella formazione del francescano e l'educazione benedettina nella formazione
del benedettino, si prendano, cioè, tutti quei sistemi educativi in quanto
hanno la libertà di foggiare interamente l'educando secondo i propri principi
informatori. E poi si dica quale educazione laica, in qualsivoglia condizione,
saprebbe, non solo plasmare, nella rigorosa unità d'una dottrina ferma come la
cattolica, tanta e così varia ricchezza di spiriti quante sono le diverse
famiglie religiose; ma, quel che più conta, indurre in una tal moltitudine di
persone un dispregio dei propri comodi e dei propri interessi, un amore della
sofferenza e del sacrificio, una devozione al dovere, una infaticabile attività
non d'altre ricompense sollecita se non al di là della sfera umana, una umiltà
che rifiuta persino quelle legittime soddisfazioni per cui l'uomo guarda con
compiacenza l'opera propria spesa in servigio di superiori ideali quali sono
quelli che oggi la stessa opinione mondana ammira quando la colpiscono nei
tipi, più facilmente visibili, della suora di carità o del missionario. Né
bisogna poi credere che, anche nelle difficili condizioni presentate dal dover
trattare con gente già imbevuta d'idee e d'abitudini anticristiane, qual è
appunto il caso della educazione che la Chiesa impartisce a laici, l'educazione
cattolica non possa nulla, o possa meno della pedagogia razionalista. E basta,
per convincersene, pensare alle anonime folle che, anche nei tempi più
difficili per la religione, si stringono intorno alla Chiesa e ne ricevono
giornalmente, per bocca d'un umile sacerdote, la parola, il consiglio,
l'ammonimento che trasformano anche la disperazione della più sventurata
esistenza, nella umana dignità d'un sacrificio offerto a Dio, nella nobiltà
d'un dovere adempiuto con serena consapevolezza. Nelle ore torbide della
storia, quando la scuola tace, fatta deserta, e la scienza è travolta dal
turbine che sradica anche le civiltà più robuste, la Chiesa parla e gli stessi
nemici l'ascoltano con deferenza, sia pure per tornare, quando la
burrasca sarà passata, a combatterla: ma che, intanto, l'abbiano dovuta
ascoltare, è altamente significativo. Ma è tempo ormai ch'io concluda
questo lungo discorso, specialmente dacché mi è capitata fra le mani una
conclusione così bella e confortante per voi, maestre cattoliche, una conclusione
che, non ne dubito, anche nella forma troppo pedestre in cui le mie scarsissime
forze hanno dovuto presentarvela, voi terrete presente, durante il nostro
futuro lavoro comune, perché vi sia d'incitamento a fare sempre più e sempre
meglio. E questa conclusione è che, nel prepararvi ad affrontare i maggiori
problemi della pedagogia moderna, voi obbedite a una voce che vi richiama là
dove da secoli la vostra gran madre, la Chiesa, ha combattuto e, possiamo dire
senza tema di smentite, ha vinto, le sue più belle battaglie. Diffondete pure
il sapere fra le moltitudini, ma diffondetelo nei modi e con gl'intenti ch'Essa
vi ha insegnato, sicure di porgere soccorso, cosi, alle tormentose crisi
dell'anima moderna; di soddisfare, così, pienamente alle esigenze della
pedagogia più raffinata e scrupolosa. Allora questa scuola dalla quale sarete
uscite, potrà veramente affermare d'avere, in mezzo a tutte le altre scuole
universitarie, una sua precisa ragion d'essere, potrà veramente, in quanto ciò
è dato ai nostri deboli sforzi umani, non demeritare di raccogliersi sotto
l'altissimo nome che oggi invochiamo a guida e conforto: sotto l'altissimo nome
di Colei che è Vergine Madre, figlia del Suo figlio, umile ed alta più che
creatura, termine fisso d'eterno consiglio. Filosofia, religione e
"filosofie" nelle scuole medie L'introduzione dell'insegnamento
religioso nelle scuole medie e, più, l'esplicita dichiarazione del Concordato
secondo la quale la dottrina cattolica deve essere il necessario fondamento e
coronamento di ogni istruzione, hanno fatto nascere, strano a dirsi, nell'animo
di molti e insegnanti e studiosi un turbamento la cui eco si è sentita
nell'ultimo Congresso nazionale di filosofia (1929), e si sente tuttora negli
scritti e nelle private conversazioni di quanti, o per elezione o per ufficio,
amano discutere i vivi problemi della scuola. E forse non andrebbe molto
lontano dal vero chi dicesse che tale discussione, interessante, senza dubbio,
quando riguarda la scuola media in genere, offre poi un interesse specialissimo
quando tocca l'Istituto magistrale, dal quale (si noti bene) debbono uscire
maestri che hanno l'obbligo d'istruire i loro alunni non solo intorno a questa
o quella singola materia, ma precisamente intorno alla religione cattolica;
cosa che non potrebbero fare certamente, se già non avessero ricevuto
dall'Istituto magistrale una salda istruzione e formazione religiosa. È
bene dirlo subito: intendiamo di deliberato proposito trascurare tutti i
problemi pratici e contingenti che possono nascere e nascono nelle odierne
condizioni della scuola dalla introduzione dell'insegnamento religioso
cattolico. E intendiamo trascurarli, non solo per un legittimo desiderio di
circoscrivere il nostro discorso, ma perché siamo persuasi che il turbamento di
cui si parlava ora deriva, nella maggior parte dei casi, non tanto dal
considerare l'uno o l'altro aspetto pratico della questione, sibbene dal non
aver impostato con sufficiente chiarezza o dall'aver male risolto il problema
filosofico che della questione stessa sta al fondo. Per convincersene
basta aver la pazienza di formulare solamente la difficoltà quale corre, si può
dire, sulle bocche di tutti. — Che significa — si domandano molti — questa
dottrina cristiana che deve essere d'ora innanzi il coronamento degli studi?
Significa forse che si debbano escludere e bandire severamente dalla scuola
tutte quelle dottrine e quegli autori non conciliabili colla ortodossia
cattolica? Ammettiamolo pure. Ma allora dove andrà a finire la libertà di
coscienza dell'insegnante, anzi, dove andrà a finire quella stessa libertà
della ricerca scientifica che si svolge, è vero, e si esplica pienamente solo
negli studi superiori e nelle Università, ma che non si può neppure escludere
del tutto dalle scuole medie, senza ridurre l'istruzione a una semplice
trasmissione meccanica di vuote formule, onde ogni vero senso di intima ricerca
è esulato? Vedete qual differenza fra il Cattolicesimo e il pensiero moderno, e
non certo a vantaggio del Cattolicesimo! Mentre l'uno esclude assolutamente
quella diversità di pareri e di teorie dalla quale nasce la feconda ricerca e
la discussione, senza cui non v’è scienza, anzi pretende di ridurre tutti,
volenti o nolenti, ad un unico modo di pensare; l'altro ha sì gran braccia che
accoglie generosamente, nel suo capace seno, ogni dottrina, poiché in ogni
dottrina riconosce un momento e un aspetto necessario della verità. E dunque,
mentre, secondo il filosofo moderno, anche il cattolico ha diritto di esprimere
il suo parere e di portare nella scuola il suo pensiero, secondo il cattolico,
il filosofo moderno, ben lungi dall'avere questo diritto, deve esser cacciato e
tenuto fuori dalla scuola come un individuo pericoloso. Ora, ognuno vede da
qual parte stia la libertà e la vera tolleranza: mentre il prevalere della
filosofia moderna apre alla scuola tutte le conquiste del pensiero, il
prevalere del cattolicesimo implicherebbe il ritorno al più gretto e ristretto
oscurantismo, segno di remoti e barbari tempi. che la civiltà moderna ha, e
vuole avere, per sempre superato. E, poste queste premesse, ecco che
molta brava gente già si sente venire i brividi addosso. Che, già le par di
vedere l'Inquisizione e il Sant'Uffizio armarsi del braccio secolare, ed entrar
nelle scuole, e buttar sossopra libri e programmi, e, afferrato per il collo
con mano ferrea ciascun insegnante, interrogarlo, e voler sapere per filo e per
segno che cosa dice e che cosa opina, e che cosa pensa, e come e perché. E poi,
al menomo odoraccio di eresia, giù ammonizioni e sospensioni, e rimozioni
dall'impiego, e magari, tanto per essere in armonia col color locale, o meglio,
storico, una buona dose di tratti di fune applicati sulla pubblica piazza, e un
buon rogo, dove se non le persone, che non li usa più, almeno i libri proibiti
formassero un bel falò, a consolazione della gente devota che assisterebbe, fra
cantici di gioia e inni sacri, all'edificante spettacolo. Ora, i timori -
più o meno irragionevoli - sono timori, e la filosofia è filosofia, e forse non
c'è cosa tanto difficile a questo mondo quanto il persuadere certe brave
persone che i timori vanno trattati da timori e la filosofia da filosofia; che
le questioni filosofiche non si risolvono coi timori, ma cogli argomenti.
Accuse di oscurantismo alla religione cattolica se ne sono fatte da che mondo è
mondo, e sempre se ne faranno, fino alla fine dei secoli; sarebbe dunque
puerile meravigliarsi che se ne facciano anche oggi. Ma giustizia vuole che di
queste accuse si esamini spassionatamente il fondamento e il valore, prima di sentenziare.
Giacché le affermazioni sono una bellissima cosa, ma finché non vengono
dimostrate si riducono ad essere semplicemente parole: segni, o suoni, siano
poi i suoni d'arpa eolia coi quali il poeta avvinca a sé i cuori, o gli stonati
rulli del tamburo coi quali i saltimbanchi stordiscono, sulle piazze, la
moltitudine. Sia dunque lecito porre, al presente studio, questo fine:
domandarsi qual valore abbiano quelle accuse, e su quali argomenti poggino
quelle affermazioni, ora riferite, colle quali si vorrebbe sequestrare il
cattolicesimo dalla civiltà e dalla scuola moderna, per relegarlo nei musei
d'un incerto e torbido passato che si dovrebbe inonoratamente seppellire.
Mettiamo da parte i vaghi fantasmi passionali coi quali si cerca di carpire il
consenso attraverso la mozione degli affetti e guardiamo, se ci riesce, di non
arrenderci che alla forza dell'evidenza e della ragione. Cerchiamo, se è
possibile, di ridurre la questione a un tale stato di chiarezza che chiunque ci
segue, amico o avversario, possa senza disperati sforzi d'ingegno o di
dottrina, comprendere le ragioni sulle quali poggia la nostra tesi, od,
occorrendo, scoprire anche il più piccolo errore nel quale ci sia avvenuto
d'incappare. I. Cominciamo con l'osservare subito che la questione che
ora c'interessa non riguarda tanto i rapporti, o i conflitti che possono
nascere, nella scuola media, fra l'insegnamento religioso in quanto puramente
tale, e l'insegnamento della filosofia. Che se il problema fosse questo, molti
amerebbero risolverlo, almeno in pratica, con una pacifica e cortese reciproca
neutralità: l'insegnante di religione insegni la sua religione; l'insegnante di
filosofia insegni la sua filosofia, e tutti pari. Ma il problema riguarda,
invece che l'insegnamento della religione e quello della filosofia, due modi
diversi di concepire l'insegnamento della filosofia, cioè due diverse
concezioni della filosofia, o, meglio, due diverse concezioni della verità,
diverse tanto, che non possono convivere pacificamente fra loro, né stare insieme
senza distruggersi a vicenda. E se poi anche l'insegnamento della religione
finisce con l'essere implicato in questo conflitto, ciò accade pei diversi
effetti che quelle due concezioni producono, e non possono fare a meno di
produrre, nel modo stesso di concepire la religione. Ma quali sono queste
due diverse concezioni in conflitto? L'abbiamo detto; anzi, lo dicono e lo
ripetono a sazietà coloro che formulano, contro la filosofia ispirata al
cattolicesimo, quelle obiezioni che or ora abbiamo sentito. Possibile mai che
la verità debba essere qualcosa di fisso, di statico, d'immobile, definibile
una volta per tutte e racchiusa, per tutti i secoli, entro i ferrei cancelli di
una determinata dottrina? Ma la verità è invece, progresso, sviluppo, divenire:
e, anzi, lo stesso sviluppo e divenire del pensiero che incessantemente si
accresce su sé medesimo, creando sempre nuovi sistemi e nuove dottrine, ognuna
delle quali è un momento e un aspetto immortale del vero, ma nessuna delle
quali può aspirare ad esaurire in sé la verità tutta quanta. Ecco dunque
le cose singolarmente semplificate. Verità fissa ed immobile da una parte;
verità in continuo sviluppo dall'altra; verità trascendente, da una parte,
verità immanente, e identica col divenire stesso del pensiero dall'altra;
verità oggettiva, che il pensiero filosofico può soltanto scoprire e
riconoscere qual è, da una parte; verità soggettiva, eternamente creata dal
pensiero, dall'altra. Per rendere, se non più semplice, più chiara questa
antitesi, molti amano ricorrere alla storia della filosofia e impersonare in
alcuni nomi di filosofi celebri quelle due diverse concezioni. Kant ed Hegel da
una parte e San Tommaso dall'altra, quasi due mondi l'un contro l'altro armati,
la filosofia moderna contro il medioevo e la filosofia scolastica. Contro, si
capisce, per modo di dire poiché, chi crede tutti i sistemi filosofici
veri, non può, senza contraddizione, dar l'ostracismo a San Tommaso e alla
scolastica, ma deve considerarli essi stessi come un “momento” della immortale
verità. E pure Kant ed Hegel per modo di dire, poiché chi pensa la verità come
un continuo sviluppo non può poi, senza darsi la zappa sui piedi, offrirci a
modello un sistema filosofico, sia pure il kantiano o l'hegeliano, a preferenza
di un altro. Kant ed Hegel sì, ma come li pensiamo e li ricostruiamo noi. Kant
ed Hegel con tutti i filosofi venuti dopo, compreso colui che adesso parla o
scrive nel loro venerando nome. Comunque, questo appello alla storia della
filosofia, se anche non riesce molto a chiarire - e, anzi, vedremo che
intorbida - la questione riesce tuttavia ad ottenere un altro effetto di
maggior vantaggio immediato. Quello di far apparire manifestamente vera la
concezione della verità alla quale si vuol dare il nome di “moderna”, e, per
necessaria conseguenza, manifestamente falsa la concezione opposta, quella
tomistica, scolastica o “cattolica” che si voglia dire. Secondo tale concezione
infatti, una sola filosofia sarebbe vera, quella di san Tommaso; tutte le altre
filosofie, da San Tommaso in poi, costituirebbero un cumulo di errori, degni
soltanto della più lacrimevole compassione. Per altra parte, al filosofo che si
proclamasse oggi scolastico e cattolico, non rimarrebbe altra missione che
quella di ripetere alla lettera San Tommaso, e di concentrare tutto l'universo
nelle sacre pagine delle due Somme, alfa ed omega d'ogni sapere, o, piuttosto,
colonne d'Ercole oltre le quali non è permesso spingere la ricerca, nell'oceano
della verità. Di modo che il filosofo cattolico verrebbe a trovarsi in questa
imbarazzante condizione: dover torcere inorridito lo sguardo dalla storia della
filosofia, diventata per lui un enigma indecifrabile (un catalogo d'errori non
è una storia) e di dover, insieme, rinunziare a qualsiasi iniziativa scientifica
nel campo della filosofia pura. Viceversa il filosofo “moderno” non ha
pregiudizi quanto a storia della filosofia, che può intendere e ricostruire
appieno appunto perché può e sa simpatizzare con tutti i sistemi anche più
opposti, persuaso di trovarvi sempre un'anima di verità, e in filosofia pura
può dar sfogo a tutte le ardite idee e intuizioni geniali, significando
liberamente quanto una prepotente ispirazione gli detta dentro e costruendo, se
così gli paresse, anche un nuovo sistema al giorno, con immenso vantaggio per
le magnifiche e progressive sorti del genere umano. Con questo, gli applausi
delle platee sono assicurati al libero filosofo moderno, e i fischi e
gl'improperi ricacciano fra le tenebre medioevali colui che avesse lo
sconsigliato ardire di voler essere al tempo stesso cattolico e filosofo, o
“scolastico”, “tomista” e filosofo. Ci sia permessa, prima di procedere
oltre, una semplice osservazione. Anche a proposito di questo piccolo dramma, o
di questa piccola commedia, dove si fanno muovere con tanta disinvoltura i
personaggi del filosofo moderno e del filosofo cattolico, occorre ricordare che
le parole sono parole e gli argomenti sono argomenti. I termini di “modernità”,
di “libera ricerca”, di “ progresso del pensiero” e simili, fanno sempre un
grande effetto, anche quando la realtà che essi designano sia per avventura - e
ciò accade non poche volte - assai mediocre e meschina. Tutti vogliono essere,
in questo mondo, spregiudicati, liberi, moderni e progrediti, e hanno a noia di
sentirsi chiamare oscurantisti, arretrati e schiavi, così come tutti vogliono
essere intelligenti e civili, e hanno grandemente a noia di sentirsi chiamare
stupidi o barbari. È un troppo naturale effetto dell'amor proprio, sia negli
uomini che nelle dottrine e nei sistemi da essi escogitati. Ma appunto perché è
un naturale effetto dell'amor proprio, bisogna diffidarne; e come a chi ci
venisse innanzi affermandoci di esser molto intelligente e civile noi non
crederemmo già sulla parola, ma domanderemmo le prove della sua
asserzione, e vorremmo sapere quali fatti e quali opere gli danno il diritto di
ambire a quei titoli onorevoli, così ad una dottrina che ci afferma d'esser
progredita e libera, moderna e spregiudicata, noi non possiamo credere
ciecamente, ma dobbiamo domandare quali prove effettive di libertà, di
progresso e di spregiudicatezza, essa sia in condizione d'offrirci. II.
Il procedimento adoperato, di solito, dagli avversari per fare apparire la
filosofia dei cattolici, e, sopratutto, la filosofia tomistica e scolastica,
come retriva e non all'altezza dei tempi, è un procedimento così artificiale ed
artificioso che chiunque si provasse ad usarlo per valutare qualunque altra
filosofia non scolastica né cattolica, si attirerebbe certo un coro di
vituperi. E se queste parole, di solito adoperate a indicare cosa molto diversa
da quella che vogliamo dir noi, non corressero il rischio d'esser fraintese,
diremmo che tale procedimento è assai simile a quella “illusione
cinematografica” del pensiero per la quale si pensa d'aver afferrato e
ricostruito un organismo vivente quando se ne sono raccostate alcune immagini
parziali e frammentarie. E, infatti, tutto l'equivoco si fonda su questo:
quando alcuno dice di ritener vera una filosofia, sia essa scolastica o antiscolastica,
religiosa o irreligiosa, idealistica o positivistica, dogmatica o scettica e
così via, è costretto a dirlo con frasi e parole le quali ci danno, per forza,
di essa soltanto un'immagine approssimativa e inadeguata. E tanto più
approssimativa ed inadeguata, quanto meno è possibile condensare in una breve
formula verbale, qual è quella per cui uno si dichiara scolastico,
materialista, idealista o naturalista ecc., ciò che è veramente essenziale
nella filosofia: gli argomenti coi quali essa stabilisce e dimostra le proprie
tesi. E questo stesso carattere di approssimazione e di inadeguatezza si
estende, in un certo senso, a tutte le parole, e a tutte le frasi, e a tutti i
libri che sono stati scritti per esporla e svolgerla, ognuno dei quali, per importante
che sia, non si può mai dire che esaurisca in sé tutta quella dottrina che pure
insegna, o possa considerarsene un equivalente materialmente completo. Tanto è
vero che da che mondo è mondo si continua a scriver libri per esporre e
difendere le varie dottrine filosofiche, e ancora non s'è finito, né si può
finire. Poiché una dottrina filosofica è un insieme di concetti e di
ragionamenti: e benché concetti e ragionamenti si esprimano, certo, con parole
e con libri, e si possano, magari, riassumere e indicare con brevi formule,
pure, non i libri e le parole o le formule, ma i concetti e i ragionamenti
costituiscono l'essenza della dottrina. E chi, perciò, la dottrina vuol capire,
non deve fermarsi alle parole e alle formule, ma deve, mediante esse, risalire
ai concetti e ai ragionamenti, cioè compiere in sé quell'atto dell'intelletto
pel quale si costituisce e si dimostra una determinata dottrina: che non è,
evidentemente, lo stesso atto col quale si ripete materialmente una formula, o
s'impara a memoria un libro. Segue da ciò che quando un filosofo vi dice
“siate idealisti”, “siate scettici”, “siate cattolici” o “siate scolastici”, e
vi scrive un libro per dimostrarvelo, o vi indica alcuni classici della
filosofia quali Hegel o Sesto Empirico, Aristotele o San Tommaso, come quelli
coi quali il suo pensiero meglio si trova d'accordo, non può essere davvero
così sciocco ed insensato da volervi indurre solo a ripetere pappagallescamente
“siamo scolastici” o “siamo scettici”, o a ripetere tal quali le sue parole,
e ad imparare a memoria i libri di Hegel o di Sesto Empirico, di Aristotele e
di San Tommaso. Ma pretende, invece, che i suoi uditori o lettori, da quelle
formule e da quei libri risalgano ai ragionamenti in essi contenuti, e,
mediante u n positivo lavoro del loro intelletto, li riscontrino veri e se
li approprino, facendo così un'opera di ricerca che è certamente originale,
benché riesca (nihil sub sole novi!) a conclusioni già scoperte da altri
pensatori, siano essi Hegel o Sesto Empirico, Kant o San Tommaso. Né questo
riuscire a conclusioni già scoperte da altri menoma in nulla l'originalità e la
libertà della ricerca; giacché la libertà del pensiero non consiste punto nel
non aver nulla innanzi a sé, ma solo nel non accettare nulla che non sia dimostrato
vero. E quando una dottrina è dimostrata vera, la libertà dell'intelletto è
garantita, in altro non consistendo tale libertà se non nell'esser fatto
l'intelletto per conoscere il vero, e quindi nell'esser libero e attivo sol
quando il vero effettivamente conosce. Ma che cosa fanno, rispetto alla
scolastica, e quindi rispetto al cattolicesimo, i critici poco esperti, o male
intenzionati? Credono, o mostrano di credere, che i filosofi scolastici siano,
essi soli, così insensati da far consistere la loro filosofia, non nel pensiero
ma nelle parole, sì che, presso i soli cattolici esser “scolastici” significhi
non già compiere quell'effettivo e originale processo di pensiero pel quale
ognuno può riscontrare col proprio intelletto la verità della filosofia
scolastica, ma solo mandare a memoria e ripetere, senza mutare una virgola,
l'una e l'altra Summa di San Tommaso. Onde, la facile accusa agli scolastici
d'esser ripetitori pedissequi e di voler, perciò, diseducare il pensiero umano,
riducendo ogni ricerca scientifica alla meccanica fatica di ripetere frasi, o
libri altrui, con quelle pessime conseguenze per l'educazione e per la scuola
che già abbiamo udito deplorare. Accusa alla quale, evidentemente, non si
può rispondere altro che negando l'arbitraria e cervellotica supposizione dalla
quale è partita. Nessun filosofo scolastico, infatti, s'è mai sognato di voler
indicare col termine “scolastica” soltanto la parola e non la cosa, i libri, e
siano pur di San Tommaso, e non la dottrina in essi contenuta, le conclusioni,
e non il concreto processo di pensiero col quale ci si arriva. Nessun filosofo
scolastico, quando dice agli altri “siate scolastici” vuol loro imporre la
irragionevole schiavitù di una dottrina senza dimostrazione e senza ricerca.
Nessun filosofo scolastico, infine, ha mai creduto che la sua filosofia fosse
altro che un concreto processo di pensiero, nel quale certe tesi si dimostrano
vere alla luce della ragione e dell'esperienza e mediante lo sforzo originale
di colui che studia. Il quale, poiché si tratta appunto d'una dottrina e non
d'un pezzo di legno, non potrà certo afferrarla e mettersela in tasca così
com'è, ma dovrà bene arrivarci nell’unico modo possibile, cioè pensando e
ripensando, e non smettendo mai di pensare, argomentando, inducendo, deducendo,
sillogizzando, dialettizzando e così via; che sono precisamente, se non
c'inganniamo, i modi e le forme attraverso le quali il pensiero umano afferma
la propria attività e originalità, garantendosi di conoscere il vero, e
respingendo da sé il falso. Né si vede in che cosa, sotto questo aspetto, la
dottrina scolastica differisca dalle altre dottrine, idealistiche o
positivistiche, materialistiche o scettiche. Che se appare diversamente, è
sempre per quel tale equivoco fra il pensiero e le parole, sul quale gli
avversari della scolastica si compiacciono d'insistere. Infatti, una
dottrina, come or ora s'è visto, la si formula in parole e in libri che,
naturalmente, in un primo tempo, e a chi li guardi dall'esterno, debbono per
forza apparire un puro dato, esterno anch'esso; esterno, ben inteso, finché
colui che esamina la dottrina proposta non sia in condizione di passare
all'interno, cioè di riscontrare vera, mediante la propria ricerca, la dottrina
medesima, persuadendosi così anche della bontà ed esattezza di quelle
espressioni, di quelle formule, di quei libri che prima gli erano apparsi
qualcosa di arbitrario e di indimostrato. Ma questa, se così vogliamo dirla,
imperfezione e limitazione del pensiero umano che non può afferrar la verità immediatamente
e tutto in una volta, ma è costretto a raggiungerla per gradi, non ricade certo
sulla sola filosofia scolastica, bensì appartiene a tutte le dottrine,
idealistiche o positivistiche, materialistiche o scettiche che siano. Le quali,
debbono pure anch'esse formularsi in parole e in libri che, in un primo tempo
appaiono, per forza, un puro e indimostrato dato esterno, finchè colui che le
esamina non è in condizione di dimostrar vera la rispettiva teoria idealistica
o positivistica, materialistica o scettica. Il che è ancor più manifesto
quando si tratta della scuola e dello scolaro; che, appunto perché scolaro non
è ancora in tali condizioni da poter riscontrare da sé e colle sue sole forze
la verità della dottrina insegnata e deve, ancora per un pezzo seguitare a
imparar libri e definizioni e formule delle quali non scorge, o scorge solo
imperfettamente la ragione. Che se in questo fatto cosi semplice si vuol
trovare a tutti i costi una oppressione e un vincolo alla libertà del pensiero
umano, allora non soltanto la scolastica, ma anche ogni altra dottrina,
idealistica o positivistica, materialistica o scettica e, magari, eclettica, si
dovrà dire oppressiva e restrittiva per la libertà del pensiero, e perciò, in
quanto tale, oscurantista e retriva, di fatto, anche se a parole si dichiara
svisceratamente amica della libertà e del progresso. Non si vede infatti perché
il proporsi come testo di studio San Tommaso debba esser più oppressivo, o
restrittivo che proporsi Kant, Hegel o Ardigò, e perché l'imparare definizioni
e formule scolastiche debba esser più avvilente che imparare definizioni o
formule positivistiche o idealistiche, vero essendo che in ogni caso ci
s'imbatte nel solito dilemma dal quale non è dato trovare una via d'uscita. O
il presentare una dottrina restringendola in alcune formule e in alcuni libri
ed autori, che in un primo tempo appaiono, necessariamente, allo studioso come
puri dati esterni da accettarsi solo sull'autorità altrui (salvo a ottenerne,
in un secondo tempo, una compiuta dimostrazione) è ammissibile, oppure non lo
è. Se è ammissibile, nulla ci vieta d' insegnare la scolastica, così come altri
insegna l'idealismo o il positivismo o di prendere per testo San Tommaso così
come altri può prendere Hegel o Spencer. Se non è ammissibile, la scolastica
diventa, certo, una dottrina oppressiva, incompatibile con l'attività e la
libertà del pensiero umano, ma anche l'idealismo, il positivismo, lo
scetticismo e persino l'eclettismo diventano dottrine altrettanto retrive e
incompatibili con l’attività e la libertà del pensiero umano. Ciò è tanto
vero, che, in ogni tempo, ci sono stati autori e scrittori più coerenti degli
altri, i quali, per essere imparziali e non far danno a nessuno, hanno
addirittura dichiarato oppressiva, antiquata e insopportabile la filosofia
stessa, a qualsivoglia tendenza o dottrina appartenente, e si sono vantati di
condurre liberamente la loro vita intellettuale, fuori dalle ristrette gabbie
delle dottrine e dei sistemi. Pretesa assurda certo, poiché, come è noto a
tutti, anche il dire di non credere nella filosofia è fare della filosofia, e
anche il dire di non avere un sistema è un sistema, come lo scetticismo,
l'eclettismo o qualche altro tipo simile. Ma pretesa coerente, anzi
coerentissima con l'assurdo medesimo dal quale è partita, poiché se insegnare
una qualsiasi dottrina rigorosamente definita e formulata vuol dire opprimere
il pensiero, il miglior modo, anzi, l'unico modo di non opprimere il
pensiero sarà addirittura quello di non formulare né insegnare mai
nessuna dottrina, né idealistica, né scolastica, né materialistica né di altro
indirizzo. Soluzione che sarebbe l'ideale dell'economia e della semplicità per
filosofi, scienziati, legislatori, maestri e scolari, se solo non avesse, come
or ora s'è chiarito, il difetto d'essere inattuabile. * * * Colla pura e
semplice denunzia di un equivoco verbale cadono, dunque gran parte delle
irragionevoli e ingiustificate antipatie contro la filosofia scolastica. La
quale non è un insieme di frasi o di formule da ripetere meccanicamente, ma è
un vivente organismo di pensieri da pensare; così come appunto sono, o vogliono
essere, tutti gli altri sistemi filosofici. Una dottrina che, lungi dal
pretendere d'imporsi irragionevolmente o arbitrariamente al pensiero umano, non
vuole essere accettata altro che mediante argomenti e dimostrazioni. È bene
ricordarlo, poiché oggi certe nozioni sono grandemente obliate anche da coloro
che per professione ed ufficio avrebbero l'obbligo di meglio conoscerle. La
filosofia scolastica pretende di essere accettata unicamente perché vera e
dimostrabile tale con argomenti filosofici; e dimostrabile a chiunque, anche a
chi non creda punto in una rivelazione religiosa, anzi a chi non sappia neppure
se una rivelazione religiosa ci sia o no, sia possibile o meno, tutte questioni
che si possono trattare dopo, e non prima che l'indagine filosofica abbia
saldamente stabilito e dimostrato vera una certa concezione della realtà.
Questo spiega perché sia molto meglio e più conforme alla precisione
scientifica parlare di filosofia “scolastica” che di filosofia “cristiana” o
“cattolica”, contenendo questi ultimi termini un riferimento alla rivelazione
religiosa e alla teologia che non è ancora ammissibile, né dimostrabile,
durante la pura ricerca filosofica, laddove il termine “scolastica” ha il
vantaggio di definire direttamente la filosofia dal suo stesso contenuto
dottrinale o speculativo, senza introdurre altri elementi. Che se, ciò
nonostante, è gloria della scolastica aver adoperato e adoperare tuttavia anche
l'altro metodo, ed essersi servita della Rivelazione cattolica e della teologia
per controllare le sue tesi, l'uso di questo secondo metodo non ha mai
infirmato l'uso del primo, che vale durante la ricerca filosofica e prima di
aver saputo se c'è ed è possibile una rivelazione religiosa, così come l'altro
vale dopo averlo saputo ed essersi persuasi, cogli argomenti e della filosofia
e della teologia ”fondamentale” o apologetica, che una rivelazione è possibile,
e c'è, ed è proprio la rivelazione cattolica. III. Risulta, dunque,
evidente da quel che si è detto fin qui che per insegnare filosofia scolastica
da parte del maestro, come per apprenderla da parte del discepolo occorre
precisamente tanto spirito inventivo ed originalità quanta ne occorre per
insegnare od apprendere qualunque altro sistema filosofico, e che, perciò il
meccanicismo, il mnemonismo, il dogmatismo irragionevole e l'oscurantismo sono
da temersi nell'insegnamento della filosofia scolastica appunto quanto sono da
temersi nell'insegnamento di ogni altra filosofia, né più, né meno. Questo
significa che non c'è un criterio estrinseco col quale si possa decidere su due
piedi quali filosofie siano per riuscire, nell'insegnamento, oppressive, e
quali liberatrici; ma che un tale criterio è soltanto interno, in altro non
consistendo che nella maggiore o minore verità delle filosofie stesse.
Fra le quali, secondo quanto già abbiamo avvertito prima, solo una dottrina
vera sarà sul serio liberatrice, e le altre riusciranno sempre e per forza
oppressive, dogmatiche e oscurantiste; poiché solo il vero può imporsi
all'intelletto dello scolaro con l'intima forza della persuasione, senza
ricorrere a minacce, lusinghe, o costrizioni esterne, alle quali, invece,
debbono necessariamente ricorrere i sistemi erronei che riescono, dunque,
sempre malamente dogmatici e oppressivi, e portano, perciò, nella scuola le
cattive conseguenze che si volevano addossare alla scolastica, qualunque sia la
loro etichetta di modernità o l'altisonante affermazione di libertà colle quali
si presentano al pubblico. Ma con ciò eccoci ritornati - sembra - al
punto donde eravamo partiti. Poiché - si dirà - anche col massimo buon volere,
e anche deposto ogni ingiustificato pregiudizio contro la scolastica, è certo
che proprio in questa diversa concezione del quando e a quali condizioni debba
ritenersi vera una filosofia sta la differenza più notevole fra il sistema
scolastico e il sistema moderno, e il conseguente pericolo che la scolastica
introdotta nell'insegnamento porti quei frutti di oppressione e di scarso
spirito scientifico che si temevano. Infatti, s'era già detto: per la
scolastica la verità è qualcosa di già fatto, ed esistente fuori del pensiero
che la pensa, dunque: una sola dottrina è vera, e tutte le altre debbono per
forza esser false. Per il pensiero moderno, invece, la verità e la realtà
medesima coincidono con l'atto stesso del pensare, perciò cambiano, si
svolgono, si accrescono, collo svolgersi del pensiero e, dunque, non una sola
dottrina ma tutte le dottrine sono vere, in quanto ognuna di esse è sempre un
atto del pensiero che si crea ogni volta la sua verità. E rieccoci, allora, a
quelle tali conseguenze tanto deprecate. Poiché, mentre il filosofo scolastico
non potrà che insegnare ai suoi discepoli una sola dottrina, la sua, il
filosofo moderno potrà non solo insegnare tutte le dottrine che la storia della
filosofia abbia mai registrato, ma potrà, anzi, dovrà incitare il discepolo a
“crearne” delle nuove. E va benissimo. Sennonché, a un esame più attento,
questo modo di ragionare che sembra correr cosi piano e facile, si rivela
almeno tanto superficiale quanto il precedente. Poiché, in primo luogo, esso
cela in sé una proposizione non dimostrata né dimostrabile, e cioè che il gran
numero dei sistemi filosofici insegnati nella scuola sia un bene; e che
coincida colla libertà e col progresso del pensiero. Allo stesso modo, si
direbbe scherzando, ragionava quel bravo villico che, convinto che se una
pillola faceva bene due avrebbero fatto meglio e tre meglio ancora, pensò di
guarir subito col pigliar tutte insieme le pillole che gli aveva ordinato il
dottore, ma invece di guarire morì, contrariamente alle sue poco sagge
previsioni. I sistemi filosofici - se si preferisce un paragone meno
malinconico - non sono già come i polli, le pernici, i poderi o i biglietti da
mille, che più se ne ha meglio è. E chi crede che l'insegnamento di molte
dottrine filosofiche coincida per lo scolaro con l'originalità, col progresso e
colla libertà dello spirito, mostra d'aver confuso due cose fra loro tanto
diverse come il “progresso” e il “mutamento”. Pregiudizio, in verità, molto
diffuso ai giorni nostri, e che nasce dall'aver inconsapevolmente confuso fra
loro due ordini di realtà così diversi come il materiale e l'ideale. Se,
infatti, una dottrina filosofica, poniamo la scolastica, fosse un campo o un
orto, si avrebbe ragione di dire che chi si rinchiude in essa, rinunzia a tutto
lo spazio ch'è al di là dei suoi confini, come il misantropo che se ne sta
dietro i cancelli di casa sua e non vuol mettere il naso fuori. Ma una dottrina
non è un campo o un orto, bensì un atto immateriale del pensiero, e in
quanto tale non ha altri confini che il suo riuscire o meno a colpir la verità.
E se riesce a coglierla, essa non si lascia fuori più niente, né ha bisogno di
cercare altrove che in se stessa i motivi d'un infinito progresso e sviluppo:
ché essendo la verità per sua natura infinita, non c'è mai un momento nel quale
si possa dire d'averne esaurito la conoscenza; ed essendo la filosofia un atto
immateriale, non viene mai il momento in cui si possa metter da parte in un
cassetto per riprenderla meccanicamente; ma sempre fa d'uopo ripensarla, cioè
pensarla davvero, con una attività la cui originalità e spontaneità è
inesauribile. Approfondire la verità, questo è il progresso. Per contro, è
proprio l'errore che ci presenta una indefinita molteplicità e un continuo
cambiamento di sistemi; poiché, dove la mente non può acquietarsi nel
tranquillo ritmo progressivo d'una dottrina vera, è costretta a cercare un
simulacro di progresso nel mutamento, e a ripagarsi colla illusoria ricchezza
dei molti sistemi, della effettiva miseria inerente alla loro falsità. Per cui
dal momento che la verità è una e gli errori sono molti, le parti vanno invertite
e quei filosofi che si vantano di permettere, anzi, di introdurre nella scuola
molte dottrine, o non sanno quel che si dicono, o si vantano d'una cosa assurda
com'è insegnare l'errore e mettere al bando la verità. E viceversa, quei
filosofi che vogliono nella scuola una sola dottrina, non solo fanno onore alla
loro intelligenza di filosofi, ma sono, essi, gli unici fautori d'uno spirito
sanamente progressivo e inventivo qual è quello che può aversi dalla conoscenza
della verità. Ma qualcuno può ancora obbiettarci: il vostro ragionamento
ha il solito difetto: presuppone arbitrariamente la vostra concezione della
verità ed esclude la nostra. Si capisce che se la verità è tale che possa esser
colta da una sola dottrina ad esclusione di tutte le altre, voi avete ragione
nel voler che quella sola dottrina venga insegnata. Ma, e se la verità non
fosse tale che potesse coglierla una sola dottrina, ma si trovasse in tutte le
dottrine, come appunto sosteniamo noi? Non avremmo, allora, ragione noi di
sostenere che la presenza, nella scuola, di tutti i principali sistemi
filosofici, sia utile e necessaria? La risposta a questa obiezione non
può essere che una sola: non esistono due concetti differenti della verità,
benché esistano le parole colle quali ci si illude di esprimere un concetto
della verità diverso dal nostro. Ma sono vuote parole; e la dimostrazione ce la
forniscono gli avversari stessi. Quando essi dicono, infatti, di non creder
vera una teoria filosofica ad esclusione delle altre, ma di tener vere tutte le
teorie che la storia della filosofia registra, che cosa fanno essi mai se non
sostenere e difendere come vera una loro teoria filosofica particolare? Dire
che la verità è in tutti i sistemi filosofici, non è forse sostenere una teoria
filosofica? È il solito argomento contro lo scetticismo e l'eclettismo:
filosofie che proclamano, sia di non creder vera alcuna teoria filosofica, sia
di ammetterle tutte, e intanto cominciano, sotto mano, col creder vere se
stesse e solo se stesse. Ora, la contraddizione è evidente. Ritener vere tutte
le filosofie vorrebbe dire ritener vere anche quelle filosofie che affermano
esserci una sola filosofia vera e tutte le altre esser false. Ma ammetter
queste filosofie vorrebbe dire distruggere appunto quella nozione della verità
alla quale tanto si tiene, e che esclude assolutamente potersi sostenere la
verità di una sola filosofia, cioè distruggere lo stesso principio eclettico, o
idealistico. Onde, una delle due: o l'idealismo, l'eclettismo e gli altri
sistemi dello stesso tipo restano fedeli al loro programma di ammetter vere
senza esclusione alcuna tutte le filosofie, e si uccidono colle proprie mani,
perché debbono tener vero anche il concetto della verità opposto al loro.
Oppure ammettono tutte le filosofie, ma eccettuate quelle che sostengono un
concetto della verità opposto al loro, e allora la loro famosa tolleranza e
larghezza di vedute è finita, ed essi sono liquidati come idealismo od
eclettismo, avendo dimostrato col fatto che la verità non sta punto in tutti i
sistemi filosofici, ma solo in alcuni, e precisamente in quelli che s'accordano
con l'idealismo o con l'eclettismo, cioè, in ultima analisi, in un sistema
solo. La libertà, dunque, che la filosofia moderna pensa di garantire in
fatto di sistemi, è molto simile alla libertà di certe democrazie, ove ognuno è
libero di pensarla a suo modo purché, però, non dissenta in nulla dal pensiero
dei governanti. Libero ognuno di scegliersi il sistema filosofico che vuole,
purché questo sistema sia l'idealistico, o almeno s'accordi in tutto col
criterio fondamentale dell'idealismo: essere la verità in divenire continuo ed
essere, perciò, vere tutte le filosofie che lo spirito umano ha escogitato. Ché
fuori di questo concetto non v'è salvezza possibile, e le filosofie che non lo
ammettono, non sono filosofie, ma aborti del pensiero, non vanno neppure presi
in considerazione, anzi, vanno seppelliti sotto l'unanime disprezzo della gente
ben pensante. Ora, quando si è stabilito ciò che in un sistema filosofico è più
importante, cioè il concetto della verità, tutto il resto ne viene di
necessaria conseguenza, e si può ben lasciar libero lo studioso di dedurlo in
un modo piuttosto che nell'altro, di fregiarlo con un titolo piuttosto che con
l'altro, e di compiacersi, così, della propria intelligenza ed originalità
inventiva. Allo stesso modo, per ripigliar l'esempio di prima, poco importa che
in quelle tali democrazie la gente voti in un modo o nell'altro ed abbia l'una
o l'altra costituzione - tutte cose intorno alle quali, anzi, è bene che
ciascuno si diverta a discutere a perdifiato, ricavandone un gran senso della
propria dignità e importanza - purché, alla resa dei conti, siano sempre gli
stessi uomini politici che detengono effettivamente il potere. Così la
storia della filosofia che i pensatori moderni si vantano d'insegnare con tanta
larghezza e liberalità, si risolve in una illusione. Poiché, sotto l’apparenza
di tutti i sistemi filosofici che la mente umana ha escogitato, da Talete ai
giorni nostri, la dottrina insegnata è sempre una sola: l'idealismo, il
concetto della verità come coincidente collo sviluppo stesso del pensiero
umano, e come escludente qualsiasi altra realtà che il pensiero umano non sia.
Ed è ben vero che si parla di Talete e di Platone, di Aristotele e di S.
Tommaso, di Kant e di Hegel, di Stuart Mill e di Spencer, e che ognuno vi può
spaziare entro i confini del materialismo e del platonismo, della scolastica e
del kantismo, del positivismo e dell'agnosticismo e via dicendo. Ma si tratta
di un dramma dove i personaggi si riducono ad uno solo, benché volta a volta
variamente travestito, e dove Talete e Platone, Aristotele e San Tommaso, Kant
ed Hegel, Stuart Mill e Spencer, sono, volenti o nolenti, costretti a
rappresentare un'unica parte, quella del filosofo idealista; ora dell'idealista
in germe, più tardi dell'idealista consapevole fino a metà, poi dell'idealista
evoluto e progredito, dopo ancora, dell'idealista che nega se stesso, ma
prepara così la strada a un nuovo e più moderno idealismo, ma in ogni caso,
sempre e soltanto, la parte del filosofo idealista. Poco importano le forme,
circa le quali, anzi, si può concedere la massima libertà, purché la sostanza
sia sempre quella. Ma che volete farci? - sembra di sentire rispondere un
filosofo idealista - Dal momento che la dottrina idealistica è la vera e che
l'intelletto umano non può, per quanti sforzi faccia, appagarsi se non del
vero, necessariamente in tutti i sistemi escogitati dalla mente umana per
risolvere i nostri problemi si ritroverà, per forza, qualche cosa
dell'idealismo, cioè della verità. Noi, non facciamo altro che metterlo in
luce. - Ah, dunque eccovi colti colle mani nel sacco! Anche voi credete una
dottrina vera, cioè conforme all'intima costituzione della realtà (e sia pur
questa realtà la sola storia) e mediante essa vi assumete il diritto di
giudicare tutti gli altri sistemi. Orbene, che cosa farebbe di diverso la più
intollerante, tagliente ed autoritaria filosofia scolastica? Che cosa, se non
precisamente ritener vera una dottrina e giudicare con essa tutte le altre? Che
cosa, se non mostrarci che anche tutte le altre dottrine, in quanto sono
davvero pensabili, e, cioè vere, e non si riducono a parole e fantasmi
dell'immaginazione in servizio di bisogni sentimentali e pratici, sono,
parzialmente o totalmente, implicitamente o esplicitamente, consapevolmente o
no, conformi alla scolastica stessa? Che cosa, se non configurare tutta la
storia della filosofia, in quanto storia della scienza filosofica, e non delle
aberrazioni o dei bisogni fantastici, passionali e pratici dello spirito umano,
come preparazione, svolgimento, decadenza, rifioritura ecc. della filosofia
scolastica? Ciò posto, non si vede in che cosa, anche per questa parte,
la posizione della scolastica sia inferiore a quella dell'idealismo, o a quella
di qualsiasi altro sistema filosofico che si affermi vero e voglia sostenere la
propria verità coi mezzi consentiti dalla ragione. Né si vede in che cosa la
scolastica meriti più di qualsiasi altro sistema l'accusa d'intolleranza, di
dogmatismo o di oscurantismo, dato che una tale accusa, fallitole il concetto
d'una verità omnibus, è costretta a poggiarsi su elementi puramente
accidentali. Quali sarebbero, ad esempio, il fatto che i sistemi filosofici
riconosciuti vicini alla verità sono in maggior numero per l'idealismo che per
la scolastica, o che sono nati in epoche cronologicamente diverse, poniamo nel
secolo XIII o XIV anziché nel XVIII o nel XIX. Circostanze che non fanno né
caldo né freddo, poiché la verità non ha nulla da spartire colla quantità o
colla cronologia, né si vede perché debba appartenere al secolo XIX anziché al
XIII, o perché debba esser posseduta, in forma scientificamente adeguata, da
molti sistemi anziché da pochi o perché un professore tedesco in parrucca e
codino debba averla vista meglio d'un frate domenicano colla sua brava tonaca e
cintola. E ciò anche a prescindere da apprezzamenti di fatto, i quali ci
mostrerebbero che la scolastica ha i suoi rappresentanti nel secolo XIX non
meno che nel secolo XIII; e grandi - usiamo espressioni volutamente
moderatissime - non meno di qualsiasi altro rappresentante di qualsiasi altra
modernissima “novità” filosofica idealistica, materialistica, pragmatistica e
così via. Supponiamo che qualcheduno dicesse: Signori, io vi dimostro che
l'arte di G. D'Annunzio, o di F. T. Marinetti è superiore a quella d'Omero e di
Pindaro. Infatti quest'ultima è arte antica e quell'altra è arte moderna: ora,
dai tempi antichi, dei Greci, ad oggi si sono effettuati innegabilmente dei
progressi; dunque, anche l'arte d'oggi deve essere in progresso su quella d'una
volta. Un tale ragionamento ci farebbe, certo, assai ridere né vi sarebbe
scolaretto che non ne sapesse scoprire l'errore pel quale, dal fatto che
un'opera d'arte è venuta dopo un'altra, si vorrebbe dedurre ch'essa è anche
migliore dell'altra, e dai progressi dell'umanità, poniamo nelle scienze
naturali, nella vita civile e nella produzione economica, si vorrebbero
inferire i suoi progressi in un campo del tutto diverso qual è l'artistico.
Ora, lo stesso errore che è derisibile applicato alla storia dell'arte, non è
meno derisibile se applicato alla storia della filosofia ove il professore X od
Y, autore di un novissimo sistema, dovrebbe saperne più di Aristotele o di San Tommaso,
sol perché è nato tanti secoli dopo. Si crede di negare tale analogia fra la
storia della filosofia e quella dell'arte con l'osservare che l'arte è
l'espressione del temperamento individuale dell'artista, che è, appunto come
temperamento individuale, non trasmissibile, e perciò esclude il progresso da
uomo a uomo e da tempo a tempo, mentre la filosofia è la conoscenza d'una
verità universale ed astratta, che può e deve, quindi, essere trasmessa e
progredire. Ma si dimentica che progresso possibile non vuol dire progresso
reale, e che anzi il progresso filosofico, il quale sarebbe necessario e
ineluttabile se l'uomo fosse solo puro intelletto come gli angeli, ha da fare i
conti, nelle attuali condizioni umane, proprio colle attitudini, coi bisogni, colle
tendenze, colle passioni, cioè, in una parola, col “temperamento” del filosofo,
che è tanto personale, intrasmissibile, e perciò non suscettibile di passare,
progredendo, da individuo a individuo, quanto il temperamento dell'artista e
che influisce sulla conoscenza della verità in filosofia, quanto il
temperamento dell'artista sulla produzione dell'opera d'arte. E con conseguenze
assai più gravi, poiché se all'arte basta riuscire sincera espressione d'un
temperamento per essere arte, e se anche temperamenti mediocri possono riuscire
artisti, senza bisogno d'arrivare all'altezza di Omero o di Dante; alla
filosofia non basta essere espressione anche sincera d'un temperamento
personale per riuscir vera, anzi, il più delle volte la mediocrità, la povertà,
le scarse doti del temperamento individuale d'un filosofo avranno per
conseguenza il non fargli trovare la verità e il fargli produrre un sistema
sincero e personale sì, ma falso; onde segue che il filosofo, se vuol esser
certo di non sbagliare deve sempre batter l'ala vicino alle altezze di Platone,
d'Aristotele o di San Tommaso, poiché, nel suo caso la mediocrità è la morte. E
la diversità notata sopra tra l'arte e la filosofia vale solo in questo: mentre
l'artista deve esser grande lui e non ammette sostituzioni, il filosofo, se non
è grande lui, può andare a scuola dai grandi e ricevere da loro quella verità
che colle sole sue forze non avrebbe saputo scoprire. In ogni caso, non
c'è da meravigliarsi che i grandi filosofi, come i grandi poeti, siano pochi, e
nascano nelle più diverse epoche che la Provvidenza ha stabilito, senza darsi
pensiero della successione cronologica né del progresso. E dunque è chiaro che
la scolastica può aver le sue buone ragioni nel concedere relativamente a pochi
l'ambìto titolo di filosofi, come la storia dell'arte concede a pochi l’ambìto
titolo di poeti, e che l'opposto criterio, il quale vorrebbe che ogni momento
nascesse un filosofo capace di “creare” una “nuova” filosofia è lungi dal
parere soddisfacente. E può essere anche indizio d'un inadeguato e troppo largo
concetto della filosofia, così come sarebbe segno d'un insufficiente concetto
dell'arte lo scovare i poeti a decine e centinaia per ogni lustro, quando è
risaputo che la vera arte e la vera filosofia sono cose difficili e che,
perciò, in ogni tempo la grande maggioranza di coloro che si qualificano poeti
o filosofi è composta, invece, di pseudo-poeti o di pseudo-filosofi. * * *
IV. Possiamo dunque riconfermare, senza tema di smentite, la nostra
conclusione. Ogni sistema filosofico, idealistico o scolastico, scettico o
materialistico, non può, nonostante ogni sforzo contrario, insegnare mai più di
una dottrina e di una verità, la quale necessariamente esclude la verità di
altre dottrine diverse od opposte. E il sogno di una dottrina che abbracci e
concili in sé tutte le altre dottrine si rivela presto per quello che è, un
puro e semplice sogno, sfornito di qualsiasi consistenza scientifica, l'eterno
sogno irrealizzabile, perché contraddittorio, dello scetticismo e dell'eclettismo.
La verità di questa proposizione risulta manifesta dallo stesso ingenuo sofisma
col quale gli avversari pensano di poter mettere la scolastica e il
cattolicesimo al bando dalla scuola moderna. La nostra filosofia ammette e
giustifica, tanto la scolastica e il cattolicesimo quanto il pensiero
moderno, la vostra, invece, nega il pensiero moderno, e ammette soltanto la
scolastica, dunque voi siete più ristretti ed intolleranti di noi. Sofisma la
cui apparente consistenza è data dal duplice significato che s'attribuisce al
termine “ammettere” o “giustificare”, che una volta si prende nel senso di
“condividere” una dottrina e accettarne la verità, e un'altra volta si prende
nel senso di “giustificarla” storicamente, cioè di indagare le condizioni storiche
nelle quali nacque, i bisogni ai quali rispose e così via. Poiché, se si tratta
di “giustificare” nel primo senso, allora è certo che la scolastica non può
ammettere e insegnare come vero l’idealismo, il positivismo o qualsiasi altro
sistema del genere, ma è altrettanto certo che neppure l'idealismo, il
materialismo o un altro sistema simile possono ammettere e insegnar come vera
la scolastica, tanta essendo l'opposizione della scolastica a quegli altri
sistemi, quanta è per l'appunto l'opposizione degli altri sistemi alla
scolastica. Ma se si tratta di “giustificare” nel secondo senso, allora anche
la scolastica si può prendere il gusto di fare una elegante rassegna di tutti i
sistemi filosofici che ci sono stati da che mondo è mondo, metterli in bell'ordine,
studiarne i corsi e ricorsi, assegnarne le condizioni, enumerare le cause che
li hanno fatti nascere e ne hanno garantito il successo, corredando il tutto
con un grande apparato di erudizione critica e una sesquipedale bibliografia.
Può prendersi il gusto, diciamo, poiché in realtà la scolastica, possedendo un
concetto della verità molto più severo ed elevato di quello che mostrano
d'avere tanti sistemi moderni, è sollecita più della formazione mentale, che
della brillante informazione ed erudizione dei suoi scolari, e teme sempre non
accada loro questa disgrazia: «necessaria non norunt, quia superflua
didicerunt»: il che la conduce a limitare, nella scuola, più che sia possibile
questa parte storico-erudita, nella quale tanto si compiacciono i sistemi
moderni, perché tanto bene si accorda col loro intimo scetticismo ed
eclettismo. E allora la discussione sarà, non più sulla necessità di tener per
veri o meno questi o quei sistemi filosofici, quanto sulla opportunità di fare,
nella scuola media, un posto più o meno ampio alla storia della filosofia, e,
specialmente, alla sua parte informativa ed erudita. Questione di metodo, della
quale adesso non intendiamo occuparci. Ma l'accusa del pensiero moderno,
o del sedicente pensiero moderno, alla scolastica, di essere limitata ed
oscurantista, può facilmente essere ritorta. Si scandalizzano, i nostri
avversari perché la scolastica accusa di falsità la maggior parte dei sistemi
che hanno avuto fortuna nel mondo della cultura filosofica, e domandano indignati:
l'umanità ha dunque vissuto sempre nelle tenebre della barbarie? E come allora
ha potuto svolgersi e progredire fino a raggiungere una civiltà per tanti
rispetti superiore a quella dei tempi antichi? Dimenticano, costoro, nel far
questa domanda tendenziosa, di richiamare i reali rapporti che intercedono fra
i sistemi filosofici ora ricordati, e lo svolgersi dell'umanità e della
civiltà, poiché la filosofia è una scienza difficile e, come tale,
aristocratica sì che solo un piccolo gruppo di dotti, che in confronto
dell'umanità è una trascurabile minoranza, può in ogni tempo coltivarla e
dedicarvisi. Quanti, fra i contemporanei di Spinoza, di Rousseau, di Kant, o di
Hegel, poterono effettivamente leggere quei filosofi, formarsi un'adeguata idea
del loro sistema, e ad esso ispirare la propria vita? Quanti, oggi, nonostante
l'accresciuta cultura e la maggior facilità di studiare, possono far lo stesso
coi filosofi recentissimi? Il grosso pubblico dai sistemi filosofici prende,
per opera di compiacenti divulgatori, solo qualche idea così vaga e generale
che in tale vaghezza e generalità ogni carattere filosofico ha perduto, come
sarebbe l'idea che Dio non c'è e che l'uomo è tutto, o che la società è
organizzata male e bisogna rifarla, o che ciascuno è libero di seguire le
proprie passioni, ecc. Idee che l'umanità avrebbe certo trovato anche senza i
sistemi filosofici, tanto sono comode e larghe. Sì che si può dire, senza tema
d'errare, che le varie dottrine filosofiche, in quello che hanno di
specificatamente filosofico, passano senza toccare la vita dell'umanità nella
sua grandissima maggioranza, onde, nulla v’ha di impossibile a che l'umanità
progredisca e costruisca una civiltà anche se i sistemi filosofici dei suoi
dotti sono errati, potendo la verità farsi strada da sé ugualmente, benché in
forma imperfetta, per altre vie, nell’etica, nei costumi e nelle scienze
stesse. Ben più difficile e ben più intollerante è, invece, la posizione
degli avversari, quando, sforzati dalla logica, sono costretti a condannare non
solo la scolastica, ma, addirittura il cattolicesimo il quale non soltanto è un
sistema che vanta per sé il possesso esclusivo della verità, ma afferma questa
verità di averla ricevuta, per rivelazione, da Dio. E il cattolicesimo non è
una dottrina filosofica che vada solo per le mani di alcuni dotti, e la cui
verità o falsità non interessi la maggior parte del genere umano, ma è una
religione, attraverso l'insegnamento della Chiesa, chiaramente conosciuta,
seguita e praticata da milioni di uomini, i quali costituiscono certamente la
maggioranza del mondo civile; una religione che non ha mai cessato d'avere una
azione importantissima su tutti i prodotti dello spirito umano, sull'arte e
sulla filosofia non meno che sulla morale e sulla politica, sui costumi non
meno che sulle industrie e i commerci, sulle scienze non meno che
sull'economia. Il cristianesimo ha agito, perciò, anche sulla formazione del
mondo moderno e della civiltà moderna, infinitamente di più che le dottrine di
Kant, di Hegel, di Spencer, coi piccoli gruppetti di intellettuali che le hanno
conosciute e seguite. Se, dunque, esso è una dottrina falsa, fondata
sull'illusoria affermazione di un Dio trascendente, come si spiega la sua
vitalità, estensione e fecondità? come si spiega la civiltà moderna stessa che
in sì gran parte deriva da lui? È vero che gli avversari rispondono di non aver
affatto questa malvagia intenzione, ma di voler anzi, ammettere e spiegare il
cristianesimo e il cattolicesimo così come qualunque altra dottrina o sistema. Ma
è proprio qui il punto: ammettere il cristianesimo così come qualunque altro
sistema filosofico umano significa, in realtà, non ammettere affatto il
cristianesimo, bensì sostituirgli una deforme immagine di esso, che prescinde
precisamente da ciò che in esso è fondamentale: l'idea di una Rivelazione
divina effettuatasi in esso e realizzantesi nella Chiesa. Il cristianesimo che
si pensi solo come frutto della ragione umana e dei suoi sforzi filosofici, non
è più cristianesimo, esso è, al più, spiritualismo, che già sfuma
nell'idealismo. Non è dunque il cristianesimo ma l’idealismo che, pur con
diverse parole, gli avversari ammettono e giustificano. Ora, non è questo il
cristianesimo vivo ed operante come religione del mondo moderno, la quale tanto
poco può allontanarsi dall'idea d'essere una Rivelazione divina, che ove solo
attenua e addomestica un po', quell'idea, come ad esempio nel protestantesimo,
sparisce come religione cristiana per ridiventare simile a tutte le altre
filosofie di “cenacoli” intellettuali, quasi a darci una riprova della
costituzionale incapacità del pensiero che pur si dice moderno ad afferrare ed
assimilarsi il principio fondamentale del cristianesimo e del
cattolicesimo. E dunque la difficoltà resta, per gli avversari, in tutta
la sua estensione. Se il cattolicesimo è falso, come ha potuto crescere per
opera sua quella civiltà che pur dite buona e vera, anzi come può continuare ad
esistere, dato che anche oggi, nella società, il cattolicesimo ha un'estensione
e un'importanza infinitamente maggiore di qualunque sistema filosofico?
Condannare il cattolicesimo significa davvero ridurre tutta la storia a
“storia d'errori”, ben più che non lo fosse, o potesse parerlo, per la
filosofia scolastica; significa spezzare in due la grande tradizione cristiana
della civiltà moderna; significa ammettere, irragionevolmente, che prima di
Kant o di Hegel tutti i filosofi bamboleggiassero, e l'umanità giacesse nelle
tenebre dell'errore; significa, infine, negare o misconoscere i maggiori
bisogni dell'umanità stessa, che ha sempre cercato, prescindendo anche dal
cristianesimo, di risolvere i suoi problemi, piuttosto che colla filosofia,
soggetta alle discussioni e agli errori di pochi dotti, colle religioni, che
tutte si presentano come rivelate da Dio, qualunque poi sia il modo col quale
concepiscono tale rivelazione. Giacché la differenza fra il pensiero
della scolastica e il pensiero di quella filosofia che s'arroga il titolo di
“moderna” è, si potrebbe dire, tutta qui: nell'ammettere questa e nel non
ammettere quella, la possibilità di una religione; nell'ammettere questa e nel
non ammettere quella, l'esistenza di un Dio trascendente, e il fatto della sua
rivelazione. Spregiudicata e larga come pare a prima vista, la filosofia
moderna parte, in realtà, da una esclusione e da una limitazione aprioristica
quanto mai settaria e piccina. Tutte le audacie e le libertà sono consentite al
pensiero: purché, però, esso non si provi mai ad affermare l'esistenza di Dio e
la possibilità della rivelazione: questo è severamente proibito. E non ci si
accorge che, con tale gretta esclusione la filosofia ha rinunciato, in
sostanza, alla propria, tanto vantata, libertà di critica, e si è rinchiusa
entro un circolo ove non è più possibile alcun reale progresso e sviluppo del
pensiero. Lo hanno osservato anche filosofi non sospetti davvero di eccessiva
simpatia per la scolastica, che il pensiero umano ha in sé una brama
irresistibile di infinito che domanda, come suo adeguato oggetto, un Oggetto
parimente infinito ed assoluto: Dio. La filosofia moderna gli toglie questo
oggetto, e poiché, tolto l'oggetto, la brama dell'Infinito resta egualmente, ad
esso sostituisce una falsa immagine, il mutamento indefinito del pensiero
medesimo, nella sua irrequietezza e insoddisfazione; e chiama Dio lo sviluppo
storico e il divenire di questa insoddisfazione stessa. Senza por mente che
l'Assoluto non può consistere in una negazione o in una privazione, e che il
semplice mutamento non è progresso o sviluppo. In tal modo il pensiero umano, lungi
dal progredire, resta perennemente immobile, nella sua scontentezza, volubilità
e insoddisfazione che è sempre identica; un apparente progredire che è, in
effetti, un ritornare sempre sulle stesse posizioni, come la storia di certa
filosofia malinconicamente c'insegna. Mentre, al contrario, la scolastica,
concludendo col riconoscere, sopra di sé, un Dio e una Rivelazione apre
all'anima umana i vasti domini di una realtà inesaurita e inesauribile, ove il
pensiero può innalzarsi infinitamente su se stesso, senza mai trovare, per
quanto si sprofondi negli abissi della essenza e delle operazioni divine,
niente altro che nuovi, sconfinati orizzonti, e nuovi stimoli ad elevarsi e
progredire: «Estote ergo vos perfecti sicut et pater vester coelestis perfectus
est »: ecco l'unico programma - il programma della santità cristiana - che
consente anche al pensiero filosofico uno sviluppo e un progresso
infinito. Nonostante ogni dichiarazione in contrario, la filosofia
moderna non è affatto disposta ad aprire la scuola a tutte le più diverse e
disparate dottrine. Che, anzi, essa persegue tenacemente la realizzazione di un
suo ideale, e si propone - né potrebbe non proporsi - di conquistare la scuola
alla sua propria fede. Fede intimamente scettica, come abbiamo visto, ma più
intollerante ed esclusiva delle altre, perché non sa di essere una fede e una
dottrina anch'essa, e con tanta maggiore ostilità, è disposta a perseguitare le
altre dottrine quanto più si crede, ingenuamente, essa solo rappresentante
autorizzata della verità e della filosofia. Fede, perciò, oppressiva e
soffocante, affatto inconciliabile colla sana libertà della ricerca
scientifica, e addirittura contraria ad ogni effettivo progresso e svolgimento
dell'anima umana, nella sua educazione e nella scuola. Poiché l'anima del
giovane e del fanciullo, ha, se così si potesse dire, più ancora che non
l'anima dell'adulto, bisogno dell'Infinito, e la scuola che non può darle Dio,
non può darle che vani trastulli e giocattoli intellettuali, destinati ad essere
infranti subito dopo che una curiosità irrequieta ne ha scoperto il meccanismo.
Pedagogia cattolica Credo che a parlare di un'opera come questa
Rinnovamento dell'Educazione (“Vita e Pensiero”, Milano 1921) di Filippo
Crispolti, possa valere quale sufficiente giustificazione non soltanto la ben
intesa libertà che va tenuta nell'occuparsi dei libri recenti, bensì anche un
fatto di più immediato interesse. E, cioè, che le lettere pedagogiche del
Crispolti non hanno finora avuto, nonostante i loro innegabili pregi, il bene
d'una discussione, d'una recensione o d'un cenno fra coloro che pur si occupano
o dovrebbero occuparsi di problemi educativi. Strani effetti della modestia! Il
Crispolti onestamente dichiara nella prefazione di non essere pedagogista e nemmeno
professore; anzi, di non avere in vita sua addirittura frequentato mai alcuna
scuola fuori dell' Università; rassomiglia il proprio stupore, nell'aver
appreso da altri che certi suoi concetti erano pedagogia, a quello del
bourgeois-gentilhomme quando lo persuasero che, senza saperlo, aveva fatto
della prosa e non invoca per sé altro diritto che l'esperienza della vita.
Probabilmente, i pedagogisti di professione hanno preso queste dichiarazioni
alla lettera e hanno creduto, quindi di poter condannare il libro del Crispolti
alla congiura del silenzio! Noi, per conto nostro, diciamo subito di non
credere a quelle dichiarazioni: o, meglio, di credervi quanto basta per
annettere all'opera del Crispolti un pregio anche maggiore. L'esperienza
in materia educativa è certo - chi lo nega?- una bellissima e necessaria cosa;
ma quando è vera esperienza, non filtrata attraverso gli schemi di un miope
professionalismo, quale purtroppo affligge in educazione assai spesso la gente
del mestiere, proclive molto spesso a dimenticare che, se l'opera educativa si
celebra e acquista esplicita consapevolezza di sé nella scuola, essa presuppone
poi tutte le manifestazioni della vita spirituale nel più largo senso intesa,
talché l'esperienza scolastica val meno che nulla quando non sia sorretta da
una intensa partecipazione alla vita dello spirito in tutte le sue molteplici
forme, dalla quotidiana prassi familiare e sociale alla politica, alla scienza,
all'arte, alla religione. Onde accade talvolta che uomini come il Crispolti, ammaestrati
appunto da questa intensa partecipazione alla vita, riescano a ricostruire
idealmente anche l’esperienza scolastica che loro manca e finiscano col portare
nel campo educativo un occhio tanto più acuto e spregiudicato quanto meno è
irretito dai pregiudizi professionali e quanto meno si preoccupa di abbracciare
tutto un “sistema” pedagogico, per trascorrere, invece, con piena libertà, su
quanto un sano senso critico spontaneamente gli scopre. Se così non fosse,
l'agricoltore Pestalozzi o il mineralogista Froebel sarebbero riusciti
inferiori, non pure al filosofo e pedagogista accademico Herbart, bensì anche
ad un qualsiasi mediocre cattedratico autore di manuali pedagogici. Il segreto
di quei grandi educatori sta precisamente nella loro “irregolarità”, nel loro
irrequieto vagare più o meno attraverso tutti i campi della vita, prima di
fermarsi nell'educazione, alla quale portarono così il possente lievito d'una
personalità vivissima, aperta a tutte le voci dello spirito, sensibile a
tutti i problemi, pronta a soddisfare tutte le esigenze che maturavano nei
nuovi tempi. Tanto basta, e ne avanza, a giustificare il Crispolti di
aver raccolto in una serie di lettere le sue dottrine sull'educazione. Il
Crispolti è, del resto, figura così nota, e nel campo cattolico e nel campo
degli studiosi, da non aver certo bisogno d'una presentazione. Ed era quasi,
direi, in tono col suo cattolicesimo, il quale è manzoniano nel miglior senso
della parola, ch'egli dovesse dar questo segno tangibile d'interesse per le questioni
educative, ove si pensi che quel sano lievito di modernità ond'è reso così
giovane il cattolicesimo manzoniano, risulta proprio dall'aver il Manzoni
intensamente vissuto il cattolicesimo stesso, affiatandolo con tutti i problemi
della vita e della storia, quali il secolo XIX li impose alla coscienza
europea, in una forma in cui il problema morale e il problema - in lato senso -
pedagogico tendevano sempre più a penetrare di sé la letteratura. Salutiamo
dunque, anzitutto, la bandiera sotto la quale il Crispolti entra nel nuovo
agone. Del Manzoni pensatore fu detto che egli, pur riuscendo spesso
ragionatore vigoroso, non arriva ad esser compiuto filosofo per una certa sua
incapacità a mettere in questione i “primi principi” e per una certa sua continua
tendenza a presupporre dimostrata la dottrina religiosa, anche se al fine di
far vedere come partendo da essa diventino volta a volta chiare le singole
questioni prese in esame. Il che è inesatto certo, se con ciò s'intende negare
ogni valore di filosofo a chi proceda con siffatto metodo largamente deduttivo
(quale dimostrazione più soddisfacente d'una dottrina che lo spiegare in base
ad essa i singoli concreti problemi della storia e della filosofia?) ma è
esattissimo come caratteristica del procedimento prediletto in siffatte materie
dal Manzoni e - cosa che qui c'importa soprattutto - anche dal Crispolti. Le
sue lettere pedagogiche s'ispirano infatti, come egli stesso ci dice, al
“programma di far toccare con mano in quale amplissima misura il Cristianesimo
debba contribuire alla formazione dell'intero carattere morale e a certe
necessità dello sviluppo intellettuale dell'uomo”(p. 205), ma non s'ingegnano
prima di dimostrarci perché sia un bene morale e una necessità di ragione che
il cristianesimo debba avere un siffatto influsso, o perché non si possa
concepire, poniamo, una educazione che dal cristianesimo prescinda interamente
o al massimo ne tenga conto solo come uno fra altri fattori, uno fra gli altri
prodotti dello spirito umano, alla stessa stregua, p. es., dell'arte, della
scienza, della filosofia, delle antichità classiche e via discorrendo. Non
siamo, insomma, neanche qui nella sfera dei “primi principi”, delle grandi
affermazioni e negazioni: il Crispolti, benché uomo di vasta cultura e non solamente
letteraria, non ha affrontato in pieno la tormenta del pensiero filosofico
moderno nel suo duplice aspetto immanentistico dell'idealismo e del
positivismo. La religione non è quindi per lui qualcosa che abbia bisogno
anzitutto d'essere instaurata contro e insieme nella scienza moderna: è,
piuttosto, un possesso sicuro da far fruttificare. Onde, il tono fondamentale
di tutta la sua indagine, che è rivolta a quelli di casa prima che quelli di
fuori, ai cattolici prima che ai “laici”, filosofi o pedagogisti, anche se,
nello stesso tempo, tiene l'occhio vigile su tutto il mondo circostante della
cultura e della vita. Si direbbe anzi, più precisamente, che il Crispolti
avesse voluto con queste sue lettere parlare a quelli che trascorrono nell'altro
estremo, soffrendo d'una malattia opposta al filosofismo laico, a quei
cattolici cioè che, per eccessiva sollecitudine di mantener la loro fede, in
tutta la sua purezza, salva dalle concessioni snaturatrici alla mondanità, non
annettono, nel campo educativo, grande importanza a tutto il complesso delle
doti spirituali che, pur non interessando apparentemente la religione,
fanno dell'uomo un uomo colto o rispettabile nel significato mondano della
parola, poniamo al coraggio, al senso della responsabilità sociale, alla
cultura dell'intelletto. Frutto di siffatta timidezza che, per timore di mal
fare si appaga del non fare, è, secondo il Crispolti, un doloroso divorzio fra
l'educazione dell'uomo e la religione, di cui non pur l'uomo ma la religione
stessa finisce, in ultima analisi, con l'essere vittima nella comune
estimazione dei buoni. Ecco degli esempi: quando noi vedremo il probo
commerciante tener fede alla sua firma, il coraggioso nuotatore salvare uno che
annegava, la brava popolazione d'un villaggio distrutto dall'incendio
accingersi con virile rassegnazione a ricostruirlo da sé, noi applaudiremo
tutti costoro in quanto coraggiosi, probi, o virilmente rassegnati in faccia
alla sventura: non ci verrà mai fatto di applaudirli in quanto cristiani, di
attribuire, cioè, lo splendore di queste loro qualità ad una educazione
religiosa e, più specificamente, cristiana o cattolica. Altrettanto avviene
nella coscienza del cattolico stesso, il quale, pur apprezzando certo in cuor
suo quegli atti e quelle doti, non osa farne una conseguenza
imprescindibilmente necessaria della propria fede religiosa, ma è disposto con
facilità ad ammettere che si possa restar buoni cattolici anche senza lavorare
a svilupparle eminentemente in sé, specie poi quando si tratta di doti che, come
il coraggio, possono, se coltivate oltre un certo punto, condurre facilmente
alla trasgressione di precetti eticoreligiosi cristiani, ad esempio di quelli
contro la violenza. Effetto del timore che le virtù umane troppo curate
dall'educazione possano ritorcersi contro la fede religiosa o quanto meno finir
col reclamare per sé un'assoluta autonomia, non può non essere, a lungo andare,
proprio lo stesso male che voleva evitarsi. Giacché così si crea in tutti la
persuasione che l'educazione, intesa come sviluppo delle fondamentali
attitudini dell'uomo al vivere e al pensare, trovi nel cristianesimo, anziché
un aiuto, un ostacolo o, nella migliore ipotesi, né l'uno né l'altro; ch’è
quanto dire, pedagogicamente, nulla. Onde si ritorna, dopo un non lungo giro,
se non all'irreligione, almeno al neutralismo e al laicismo educativo. Contro i
quali al Crispolti sembra aperta come unica via quella che «l'educazione
cristiana sia resa così piena, da non esserci nessuna abitudine o inclinazione
deplorevole che non debba venir combattuta a titolo religioso; nessuna
abitudine o inclinazione lodevole a cui la religione non dia cagione e valore»
(p. 14). Ora, in qual modo realizzare siffatto programma? Il Crispolti,
sulle orme del Manzoni e delle Osservazioni sulla morale cattolica rammenta che
il Vangelo contiene qualsiasi ideale di perfezione umana e che i sentimenti
naturali retti non possono mai essere in contraddizione colla legge di Dio, e
tanto gli basta per dimostrare come la religione cattolica abbia l'attitudine a
informare di sé qualsiasi magari raffinatissimo ed esigentissimo sistema
educativo. Che fu, in sostanza, la grande preoccupazione del romanticismo
neocattolico successo all'illuminismo rivoluzionario, da Chateaubriand in poi
il cui famosissimo libro vuol essere appunto una descrizione di tutti i
vantaggi arrecati in ogni suo campo d'attività allo spirito umano dalla
religione cattolica. Ma il Crispolti ha anche una preoccupazione nuova che
certo, direttamente o indirettamente, consapevolmente o inconsapevolmente,
dev'essergli derivata dall'influsso dell'etica moderna in uno dei suoi
fondamentali problemi. “Politica della virtù” , definì or non è molto il Croce
il concetto sostituito dalla più recente speculazione al vecchio rigorismo
kantiano; “politica”, ossia non impossibile sterminio di tutte le umane
passioni e tendenze sulle cui rovine si erga la legge morale, ma loro
sapiente organizzazione a beneficio della moralità stessa. Sarebbe troppo
domandare a un cattolico, per cui la legge morale deve sempre rimanere, in
ultima analisi, trascendente, né può comunque risolversi nella sintesi delle
passioni, il chiedergli di condividere senz'altro questo concetto. Dal punto di
vista cattolico vi ha sempre una soluzione superiore del problema, la santità
che non ha bisogno d'una politica della virtù poiché «non raggiunge le virtù e
la conseguente eliminazione di ciò che loro contrasta, correndo loro dietro una
per una e poi tenendole tra loro serrate con un'agitazione scrupolosa e a
fatica, ma le coglie tutte insieme, per un ardore che tutte le supera e le
fonde» (p. 16). La carità, l'amore di Dio possono, nelle anime educate alla
santità ed elaborate dalla grazia divina stessa, essere motivo sufficiente
dell'azione virtuosa senza che per ciò si richieda il sussidio di speciali
abilità o l'esca di determinate passioni e sentimenti umani. Ma, giustamente
ammonisce il Crispolti, la santità eminente non è da tutti. «Molti educatori
sentono, sia pure talvolta in confuso, questa complicazione dell'economia della
vita cristiana; sanno che l'ardente carità, dalla quale può venirle la maggiore
semplificazione pratica, non è dato ad essi d'infonderla negli alunni, poiché è
un raro e diretto dono di Dio alle creature chiamate a santità e allora, senza
che formulino a sé e agli altri il proprio timore, temono che il voler trarre
dal cristianesimo anche l'addestramento alle qualità naturali, belle per sé ma
che non sono ancora virtù, come il coraggio, l'amabilità nel convivere, la
coltura della mente, e via discorrendo, accresca la difficoltà dell'educazione
cristiana, costringendo gli animi ad accogliere tante più cose, quindi a
tenerle insieme in un equilibrio sempre minore, e a rischio di più frequenti
discordanze» (p. 19). Timore, secondo il Nostro, ingiustificato e pericoloso,
poiché in quanto quella carità vittoriosa venga a mancare - e impossibile è
all'educatore garantire ch'egli saprà infonderla puntualmente nell'educando -
verranno d'un subito a mancare anche tutti gli altri motivi (che non si sono
coltivati in lui) d'ordine umano coi quali di solito gli uomini si garantiscono
pur imperfettamente dal male. «Eppure ogni metodo di educazione è condannato a
prefiggersi di far buoni i mediocri, poiché i sommi oltrepassano per lo più le
sue speranze e i suoi poteri» (ibid.) e questi mediocri sono la gran
maggioranza degli uomini non chiamati a santità, ma non per questo da
abbandonarsi senza difesa ai disordinati impulsi animali. Prendiamo, secondo
l'esempio caro al Crispolti, una figura manzoniana, quella di Don Abbondio, che
per viltà d'animo si lascia trarre dalle minacce di Don Rodrigo a obliare uno
dei più essenziali doveri del sacerdozio. Eccoci nel caso di un uomo al quale
manca quella ardente carità che dovrebbe rendergli facile l'adempimento di
qualsiasi dovere, ma al quale, di più, mancano gli stimoli umani con cui il
“laico” si garantisce dalla paura; manca, cioè, un'adeguata educazione del
coraggio materiale. Poniamo «che Don Abbondio fosse stato un ragazzo e che i
maestri, prevedendo che potesse diventar parroco in tempi in cui il dovere
parrocchiale era esposto a minacce di prepotenti, gli avessero voluto insegnare
l'arte di non farsi vincere da quelle minacce»: che cosa avrebbero dovuto fare?
Sanamente diffidando della possibilità d'infondergli il calore dell'amor divino,
avrebbero dovuto coltivare in lui «una qualità terrena che poteva in certo
grado servire all’uopo e che colla persuasione, cogli esercizi convenienti, e
occorrendo con l'arma del ridicolo, si riesce ben più facilmente a metter negli
animi adolescenti la qualità del non aver paura». E allora Don Abbondio, sia
pur per motivi umani, e senza il merito di quei più alti motivi che il
cardinale Federigo gli ricordava, non avrebbe piegato innanzi alle minacce di
Don Rodrigo, e non avrebbe gravato la propria coscienza dell'oblio di un
dovere così importante per un sacerdote, come quello di esercitare fino in
fondo le sue funzioni parrocchiali, nonostante tutti gli ostacoli che potessero
da altri venir frapposti. Ed ecco rinascere entro l'educazione cristiana stessa
la necessità d'una «politica della virtù». Poiché il Crispolti rammenta certo
che «sta scritto: non tentare il Signore Iddio tuo» e che, confidare in un dono
direttamente divino per dirigersi nelle difficili vie della virtù, sarebbe
pretendere troppo da Dio, onde la illuminata pietà e la saggezza pedagogica non
possono su questo punto non andare d'accordo colla ben intesa umiltà cristiana
nell'accumulare il maggior numero possibile di difese contro le suggestioni al
male. Al chierico non meno che al laico, l'educatore dovrà dire : “Se
l'occasione se ne presenti, voi dovete già esser preparati perché non vi
trattengano né i disagi né i rischi. La strada regale di questa preparazione
sarebbe quella di sentire il valore degli atti meritori, con tanto ardore da
sormontare in grazia sua qualunque ostacolo anche improvviso. Ma v'è una strada
più modesta, e che ad ogni modo deve esser battuta anche perché a mani
educatrici riesce più sicuramente il condurvi in questa che in quella: e
consiste nel rendervi familiare la lotta contro quei rischi e quei disagi,
seppure lì per lì essa non mostri di servire a nulla” (p. 49-50). La «strada
più modesta» è appunto la politica della virtù, sebbene concepita in un senso
diverso da quello consentito nell'economia d'un'etica immanentistica come
quella del Croce. Poiché qui è successa una inversione per cui ciò che là era
fine morale, è diventato mezzo pedagogico nella nuova gradazione di valori
richiesta dall'etica religiosa. Per la quale, le virtù nel significato umano della
parola, comprendendo fra di esse non pur quelle che sorgono sul vero e proprio
terreno praticomorale, come il coraggio o l'abnegazione od altro, ma altresì
quelle che sono immanenti in qualsiasi altra funzione dello spirito, come
poniamo la genialità estetica o il vigore speculativo, debbono necessariamente
avere alcunché di imperfetto, frutto appunto del loro carattere umano:
allegarsi, cioè, con una certa dose di orgoglio, compiacenza di sé,
soddisfazione, che le rende tutte «più o meno passionali» perché presentano
all'uomo, qualunque sia la somma d'ostacoli ch'esse offrono, il loro esercizio
sempre come un allargamento e una esaltazione del proprio io. Di contro ad esse
sta la vera, perfetta, suprema virtù: la santità, l'unica che non si fondi per
sussistere sopra siffatto stimolo, ma sopra una diretta ispirazione di Dio.
Talché, appellarsi alle une per rendere possibile o, comunque, preparare,
facilitare, supplire l'altra, significa da un punto di vista religioso
ricorrere già ad una «politica della virtù»: non perché si sia facilitata la
virtù ricorrendo alla dialettica delle passioni come nell'etica immanentistica,
ma perché, esorbitando la virtù «pura» dai mezzi di educazione umana, si è
ricorso per garantire l'uomo dal male ad un sistema di virtù «umane» e perciò
già in sé stesse «passionali». Conclusione di tutto ciò è dunque per il
Crispolti che l'educazione cristiana, ben lungi dal disinteressarsi delle doti
umane, deve e può servirsene come di mezzi atti a facilitare potentemente
quell'economia delle virtù che solo anime eccezionalmente ispirate da Dio
possono raggiungere d'uno slancio. Deve, cioè, in ultima analisi, prendere
anch'essa in considerazione il curriculum della consueta pedagogia, evitando
due errori egualmente pericolosi come la dissociazione delle attività umane dal
fine religioso e, insieme, la incauta persuasione che l'uomo pio sol perché pio
riesca eccellente in tutti i campi del pensiero e della vita. Incominciamo
dall'educazione fisica, di cui il Nostro si occupa nella lettera su
l'educazione cristiana del coraggio materiale per riprendere acutamente, dal
proprio punto di vista, quel concetto della pedagogia moderna secondo cui
il rinvigorimento del corpo non è già la formazione del «robusto ed agile
animale», bensì quella del robusto ed agile uomo, che ha l'obbligo di preparare
il proprio organismo fisico a tutti gli sforzi necessari all'adempimento dei
propri doveri di essere spirituale. Al qual proposito bene osserva il
Crispolti, parlando delle società cattoliche di educazione fisica, il loro
carattere religioso dover consistere, non tanto nel titolo di cattoliche o nel
compimento, in esse, di funzioni sacre, quanto nel tener sempre presente alle
menti giovanili «lo scopo di far servire le membra fortificate all'adempimento
degli obblighi virtuosi e di ciò che nella virtù sopravanza l'obbligo...
cosicché imparassero con precisione a tenere dentro i giusti limiti la loro
progressiva vigoria» (p. 48). E quindi ai troppo facili satireggiatori della
«ginnastica cattolica», il Nostro può con ragione rispondere che, oltre a una
ginnastica, ben vi può essere anche una «cucina» cattolica, da quando in alcuni
giorni della settimana si preparano nelle case dei cristiani i cibi di magro. E
se la Chiesa non sdegnò di porre il suggello religioso su un'operazione umile
come il mangiare, perché la pedagogia cristiana sdegnerà di porre la stessa
impronta su qualsiasi attività umana? «Non si andrà incontro così ad un
pericolo nuovo, che, sviluppando per mezzo della stessa educazione religiosa il
pieno valore della persona umana, questa diventi superba?» (p. 72). No certo,
se teniamo presente che la pedagogia cristiana ha in mano il più potente dei
mezzi, per combattere quella superbia ingiustificata, nella cultura
dell'opposto sentimento dell'umiltà; cultura che e insieme, ancora, un dovere
religioso ed un ottimo espediente pedagogico. L'opinione che ai giorni nostri
si ha dell'umiltà cristiana, ben osserva il Crispolti, è spesso quella ch'essa
consista soltanto nell'«ansia costante e smaniosa di stornar gli occhi dal
proprio io, per il pericolo di potervi scoprire dei pregi e provarne
compiacenza» (p. 74). È un concetto negativo dell'umiltà ben diverso da quel
concetto positivo che si ritrova nella tradizione cristiana e medioevale (si
ricordi il titolo di donna umile dato a Beatrice), secondo cui invece «l'umiltà
è concepita in forma positiva, come un avanzare non come un fuggire, come una
confidenza, non come un viluppo di precauzioni » (p. 74) e consiste nel
dimenticarsi di sé stesso a tal punto da non aver tempo di starsi a
considerare, ma insieme nel sapere che il proprio valore e la propria bellezza
accrescono il pregio dell'offerta di sé fatta a Dio. Sentimento che, fatta la
solita riserva dell'ardente amor divino il quale assorbe d'un subito in sé la
creatura e le rende disgustoso ogni amor proprio, si può raggiungere
pedagogicamente in grado meno splendido «col solo riverire la verità, quella
verità che ci fa conoscere il nostro nulla verso Iddio e la difficoltà di
misurare sia il valore vero dei fratelli, sia la fragilità di qualsiasi maggior
pregio che ci elevi sopra di essi» (p. 77). Ogni cosa nel mondo dello spirito è
frutto di umiltà, le grandi opere «sorsero sempre in un'ora di umiltà, ossia
d'abbandono, di dimenticanza di noi, verso qualche cosa che era fuori di noi.
Non sarà stata sempre umiltà verso Iddio; sarà stata umiltà verso la scienza,
l'arte, la patria, l'umanità o che so io» (p. 81). La filosofia qui rincalza la
religione, nessun filosofo potrebbe rifiutare di sottoscrivere queste parole.
Il concetto pagano della immortalità come gloria è tramontato irrevocabilmente
appunto dopo il sorgere del concetto cristiano della umiltà. Questa
introduzione dell'umiltà come principio fondamentale nel sistema della
pedagogia cristiana, porta alla benefica conseguenza cui già abbiamo accennato,
che, cioè, l'educatore religioso non meno del laico acquista il dovere di
preoccuparsi della formazione della attività umana in base alle sue immanenti
leggi, senza presumere che la fede religiosa basti per se stessa a rendere
automaticamente l'uomo eccellente in tutti i campi della scienza,
dell'arte, della vita. Prendiamo ad esempio un altro punto del curriculum
pedagogico: la cultura intellettuale. Ecco un caso in cui l'umiltà cristiana
sanamente intesa consiglia l'uomo a irrobustire il proprio intelletto e a
renderlo erudito e agguerrito in ogni sorta di discipline, perché che razza di
fede, sarebbe quella che non comandasse alla creatura di offrire a Dio le
primizie della sua intelligenza e, nello stesso tempo, di rendere questa
offerta sempre maggiore con l'accrescere, mediante lo studio, il valore della
propria intelligenza stessa? La fede del carbonaio è bellissima, ma nel
carbonaio. Il dotto ha altri e più complessi doveri verso Dio: e l'uomo in
genere, pur non mancando di rispetto verso il carbonaio, ha anche l'altro
dovere, implicito della sua natura di essere pensante e razionale, di
avvicinarsi quanto più può alla condizione del dotto e non a quella del
carbonaio. Non fa nulla che ci fossero dei santi poco dotti e delle cose di Dio
e delle discipline umane; al solito, noi non possiamo «tentare Iddio»
pretendendo ch'egli estenda a tutti quel dono della sua diretta ispirazione che
solo in casi eccezionali sopperì, unico, a tutte le umane deficienze. Talché,
tratte le somme, il cattolico non solo ha, come il laico, il dovere di
addottrinare l'intelletto nelle discipline umane, bensì, in più, il dovere di
rivolgere la sua mente allo studio delle cose divine, e di fornirsi d'una
cultura religiosa quanto più estesa può. D'altra parte, osserva col consueto
acume il Crispolti, la cultura può anch'essa recare in più modi soccorsi umani
alla fede, fra l'altro, associando ad essa le compiacenze della vita
intellettuale. «Le quali sono grandissime; innalzano la natura umana, seppure
non valgono a salvarla da tutto il male, come si credeva nei tempi recenti in
cui fu di moda la formula stolta e subito smentita dai fatti "ogni scuola
che si apre è un carcere che si chiude "; ci salvano... dai gusti
bassamente viziosi; moltiplicano i nostri rapporti con le cose, ossia il nostro
senso del vivere; procurano all'uomo una esplicazione dell'attività ed un
interessamento che unico dura oltre la giovinezza e la maturità degli anni »
(p. 137). Ch'è, in fondo, lo stesso principio della cultura come disciplina
dello spirito su cui si fonda la pedagogia moderna, ma opportunamente ristretto
con una osservazione che meriterebbe d'esser discussa da vicino in sede
pedagogica. Il sapere è certo un potentissimo esercizio di superamento dei
propri impulsi particolari a beneficio d'una legge superiore, ma può esso
bastare da solo alla formazione del carattere morale? Il cattolicesimo e la
Chiesa hanno da molto tempo risposto di no, e hanno disposto tutto un sistema
di pratiche dirette precisamente alla disciplina della volontà, per esempio gli
esercizi spirituali di Sant'Ignazio. In ogni modo, chiudendo questa breve
parentesi, il Crispolti ha in materia di cultura religiosa le stesse idee dei
grandi pedagogisti che, cattolici o no, si travagliarono su questo problema, ad
esempio, di Froebel o della Necker de Saussure. Qualunque sia l'importanza
d'una elaborazione dottrinale, filosofica della religione, che insegni all'uomo
a credere «secondo spirito e verità» è certo ch'essa va preceduta dalla
conoscenza immediata della religione stessa in tutto il suo complesso di riti,
culti, precetti e loro applicazioni; così come lo studio della filologia non
può nascere se non dalla diretta conoscenza e dall'uso delle lingue. La
religione deve, per usare un'espressione cara a quei grandi pedagogisti,
crescere con l'uomo stesso: essere sentimento, pratica, culto, prima che
filosofia o teologia. Argomento sempre importante per quanti, come noi,
vogliono nella scuola un insegnamento religioso vero e proprio che cominci col
catechismo e credono un assurdo sogno illuministico quello di assicurare
l'educazione religiosa a una vaga religiosità circolante un pò dappertutto
nella vita spirituale. Qualcosa di simile al già detto per la cultura
intellettuale, ripetasi per la cultura estetica ove il principio dell'umiltà
riceve un'altra importante applicazione pedagogica nella lettera su i pericoli
della letteratura apologetica nuova. Ove il Crispolti ha avuto sott'occhio i
gravi pericoli cui può andare incontro oggi una letteratura o una poesia che
dal cattolicesimo voglia trarre, insieme ai propri motivi d'ispirazione, anche
una presunzione della propria superiorità su l'altra letteratura o poesia non
cattolica. Qual è, insomma, la ragione per cui il cattolicesimo non ha, oggi,
poeti suoi da contrapporre, poniamo, a un D'Annunzio o ad un Pascoli? La
ragione è sempre la stessa: pretendono gli artisti cattolici «di poter ricevere
o tradurre nelle opere le ispirazioni artistiche (della fede), senza nessuno
sforzo da parte loro». Tutta la fatica, secondo loro, dovrebbe farla Iddio.
Pretendono quindi che ogni opera di soggetto religioso, purché lastricata di
buone intenzioni, ottenga il favore della critica a preferenza di opere anche
elaboratissime di autori profani od avversi. Quando poi debbono essi stessi
confessare che i Canti di Leopardi così lontani dal Cristianesimo, valgono più
dei canti loro, non sanno come raccapezzarsi; quasi sembra loro che la fede
abbia fatto torto a se stessa. Non si rassegnano a riconoscere di non aver
fatto verso la fede tutti gli sforzi di dottrina e di meditazione, necessari a
rendersi i degni interpreti di lei. Non si piegano a confessare che non è colpa
della luce ma della deficienza o pigrizia loro, se anche questa volta «i figli
delle tenebre» sono stati più prudenti dei figli della luce ( p. 163). Ciò è
quanto dire che, dal punto di vista pedagogico, anche l'attività estetica ha
bisogno d'un apposito tirocinio dal quale nessuna fede religiosa può
dispensarci. Ma la seconda applicazione dello stesso principio che nel campo
estetico fa il Crispolti, viene esplicitamente incontro a quanto il pensiero
moderno in sede filosofica e pedagogica ha via via elaborato in materia: ove si
pensi che la degenerazione dell'arte in vuota “letteratura” e il conseguente
ridurre la cultura estetica a una artificiosa ricerca di parole e di frasi atte
a far colpo sul lettore o di esempi di “bello scrivere” contro cui la critica
moderna ha tanto combattuto, è sempre frutto, secondo il Crispolti d'un difetto
opposto all'umiltà cristiana: della vanità che ai pensieri veri e alle
convinzioni sincere, preferisce i pensieri nuovi o i sentimenti mirabolanti.
Umili perché casti «parchi e lontani da tutti quegli artifici che, piacendo ad
un gusto passeggero, fanno così facilmente il nido alla vanità» gli scrittori
classici: umili tutti coloro che non pensarono a scriver bene, ma «presi da
alti pensieri, da alti affari o da alti scopi morali, ossia tanto assorbiti
dalla gravità del proprio tema che la parola si facesse umile innanzi a quello»
(p. 158) riuscirono, perciò solo, necessariamente grandi scrittori. E
inversamente, grandi scrittori sono non soltanto quelli che fecero professione
di letterati, bensì «uomini in qualunque campo grandi, cioè tali, che a qualche
cosa di superiore la loro parola abbia dovuto umilmente ubbidire» (ibid.):
talché, per esempio, i Francesi bene hanno fatto a far rientrare fra i classici
della loro letteratura anche San Francesco di Sales e Napoleone. Una siffatta
riforma della storia letteraria sulle basi dell'estetica moderna quale si è
affermata dal Croce in poi avrebbe in più per il Crispolti questo di
interessante nel senso cattolico: che giustificherebbe l'introduzione dei
grandi santi a maestri d'espressione letteraria oltrechè di vita. Ma
sopratutto interessante in queste osservazioni che il Crispolti viene con tanta
finezza facendo intorno a questioni educative, si è ch'egli molto spesso arriva
a toccare sul viso i più importanti problemi dibattuti dal pensiero pedagogico
e filosofico moderno, pur senza avere di questo pensiero una conoscenza diretta
ed approfondita (come si vede ad esempio dalla lettera su Le precauzioni
intellettuali contro gli errori religiosi, in cui nel parlare delle
ragioni scientifiche di dubbi intorno alla religione, ricorda il positivismo e
lo scientismo, ma non fa cenno dell'idealismo immanentistico postkantiano). Ciò
riesce una ottima conferma della bontà di quel procedimento se anche qua e là
porta l'autore a qualche inevitabile incertezza. Diamone degli esempi,
scegliendo tra i numerosi argomenti trattati in queste lettere pedagogiche.
Nella lettera quinta, toccando dei rapporti fra la pedagogia e la morale, il
Crispolti afferma che la certezza di quest'ultima la quale determina il fine
della vita non può estendersi alla prima, la quale invece determina i mezzi per
attuare il fine stesso e va perciò soggetta a un'inevitabile incertezza data
dalla infinita varietà dei temperamenti, delle attitudini, delle situazioni
spirituali cui quei mezzi debbono applicarsi. Sta bene. In linguaggio più
propriamente filosofico si direbbe che la pedagogia è sempre sospesa a una
concezione totale della realtà, in base a cui viene determinato quello che il
nostro chiama appunto «il fine». Ma ciò non implica soltanto superiorità
gerarchica dell'etica o di qualsiasi altra scienza sulla pedagogia. Poiché il
legame è reciproco, e se la pedagogia ha da fare i conti con l'etica e con
tutto il sistema delle scienze dello spirito, viceversa anche l'etica e la
filosofia tutta hanno da fare i conti colla pedagogia, hanno da preoccuparsi,
cioè, che il loro concetto della realtà sia tale da rendere possibile la
educazione. Ne fa fede il Crispolti stesso, il quale non potrebbe mai
accettare, poniamo, un concetto giansenistico o falsamente predestinazionista
del cristianesimo, fra altre ragioni perché lo sguardo da lui dato ai problemi
pedagogici gliene chiarirebbe l'assurdità, e infatti da quel punto di vista non
è concesso, se non per una felice incoerenza, parlare di educazione. È questo
proprio il caso in cui una diretta conoscenza delle questioni recentemente
dibattute nel campo filosofico sui rapporti della pedagogia colle scienze
filosofiche, avrebbe giovato al Nostro. Parimente altrove, nella lettera
tredicesima ove, a ragione, combattendo la falsificazione delle idee intorno al
fanciullo che una grossolana psicologia ha introdotto nei metodi educativi
moderni, egli pone la mano su una questione importantissima, e vi sorvola su
senza approfondirla. Si deve sfruttare la capacità intuitiva e immaginativa del
fanciullo per introdurlo al più presto nel mondo spirituale degli adulti,
oppure val meglio cominciare con l'indugiarsi insieme a lui nel suo mondo
fanciullesco? Sia il caso del linguaggio: «voi vedrete — dice il Nostro — che in
tutti i luoghi e in tutti i tempi, i genitori, invece di valersi immediatamente
di questa disposizione meravigliosa per abituarlo a pronunziare le parole
esattamente conversano con lui ripetendogli le parole storpiate ch'egli
incomincia a pronunziare» (p. 132). È il principio del “punto di partenza” da
trovare nell'animo dell'alunno. Ma il Crispolti, con queste sue parole, viene a
dubitare che esatta conseguenza di quel principio sia l'identificazione
assoluta del mondo spirituale del fanciullo con quello dell'adulto, come
vorrebbe la pedagogia idealistica moderna, per la quale il mezzo più sicuro di
educare il fanciullo è quello di imporgli decisamente - sia pur con le debite
precauzioni - il mondo spirituale dell'adulto. Il Crispolti giustifica qui, in
certa guisa, l'idea di un mondo fanciullesco, d'una letteratura per ragazzi e
di altre simili cose respinte da alcune correnti della pedagogia moderna.
Valeva la pena che egli approfondisse questo suo dissenso e ne sviscerasse bene
le ragioni. Ma queste piccolezze sono poi un niente, in confronto alla
piacevole urbanità con cui il Crispolti profonde il suo ingegno intorno ad una
quantità di problemi importanti, che il tirannico spazio ci vieta di discutere,
come pur ci piacerebbe, con lui. Ci sia concesso, prima di finire, di esprimere
ancora un consenso e un dissenso. Un consenso per quanto egli scrive nella sua
lettera ventunesima sulla cultura femminile. La quale, perciò che il
pensiero moderno ha proclamato, dopo il cristianesimo, al di là di tutti i preconcetti
naturalistici, l'eguaglianza spirituale dell'uomo e della donna, non per questo
ha cessato di essere un problema, per il complesso di funzioni e d'abitudini
diverse da quelle maschili che fa della donna un essere, pur pari di natura e
di valore all'uomo, ma che si presenta tuttavia fornito d'una sua specifica
fisionomia di cui l'educatore non può non tener conto. L'aver dimenticato
questo ha portato come effetto nella società moderna una duplice piaga che il
Crispolti ben analizza: quella delle donne ignoranti da un lato, e quella delle
donne pedantescamente saccenti dall'altro. Il che si deve appunto, secondo il
Crispolti stesso, all'aver preteso di istruire, quando si è istruita, la donna,
cogli stessi procedimenti scolastici che si erano mostrati efficaci per l'uomo,
«come se tra i licei femminili e l'ignoranza non ci fosse nessuna via di
mezzo». E invece non si è pensato alla differenza di abitudini mentali per cui
l'uomo, presto distratto nella vita da un tumulto di nuovi interessi è più
spregiudicato, reagisce con un salutare oblio all'eccessivo pedantismo del
sapere scolastico, conservandone solo il nocciolo vitale, mentre la donna, più
docile e più rinchiusa nei doveri domestici, si assimila dalla scuola il sapere
con tutto l'apparato pedantesco con cui fu impartito. A questo inconveniente
c'è, per il nostro un rimedio: dare alla donna nella scuola solo i primi
indispensabili elementi, e lasciare all'educazione familiare e sociale la cura
di fare il resto. «La più elevata e piacevole erudizione delle donne è quella
acquistata involontariamente nella conversazione colla gente eletta. Per un
padre colto che desideri le figlie colte non v'è miglior via; farle partecipare
in modo insensibile e continuo alle sue alte occupazioni, svegliare in loro non
soltanto l'intelligenza delle cose serie, ciò che è agevole; ma l'interesse
verso di esse, ciò che è più difficile» (p. 200). Non importa se per questa via
la donna non otterrà delle idee precise e collegate sistematicamente fra loro:
per chi non debba proprio compiere un lavoro determinato in un certo campo
dello scibile come l'uomo, il beneficio della cultura sta non nelle singole
idee che dà, ma nella elevazione spirituale che procura all'animo; elevazione
per cui la donna «non pretenda di scoprire né di classificare, ma giunga a
compiacersi nella visione delle cose alte; non s'affanni a far camminare il
mondo, ma possa accompagnarlo nel suo cammino, ad ocelli aperti e con amore»
(p. 202). Giacché la difficoltà della cultura femminile è tutta qui, non nel
far assimilare alla donna un certo contenuto, cosa di cui essa è tanto capace
quanto l'uomo, bensì nel suscitare in essa il senso dell'importanza e del
valore di ciò che studia; cosa assai più difficile. Istruire la donna «è una
difficoltà non intellettuale ma morale; è una coltivazione non dell'ingegno ma
dell'animo» (pp. 200 - 201). Osservazioni tutte giustissime e sulle quali con
qualche ben intesa riserva, siamo d'accordo col Crispolti. La riserva, se mai,
sarà questa: che vi sono donne nelle quali una eccezionale formazione interiore
ha suscitato il bisogno di studi più alti, e alle quali perciò non è possibile
rifiutare la stessa cultura dell'uomo, anche se esse siano per far valere in
quella interessi tutti propri diversi da quelli dell'uomo e per occupare, nella
repubblica delle lettere, un posto a sé. La stessa necessità di collaborare con
l'uomo per fondare l'unità spirituale della famiglia, può render talora
necessaria alla donna anche una completa cultura scolastica, giacché pur fra
gli uomini ci sono in tal senso differenze, e ciò che basta magari alla moglie
di un colto professionista avvocato, ingegnere ecc., può non bastare alla
moglie d'un grande poeta, d'un celebre filosofo, d'un illustre scienziato, i
quali di necessità richiedono alle loro donne una più robusta formazione
mentale e una ben più vasta cultura per esserne anche soltanto accompagnati,
seguiti, intesi nell'esercizio delle loro attività. Ed eccoci ora al
dissenso. Parlando della cultura e dell' arte pratica della vita, il Crispolti
torna a proporsi indirettamente, per conto suo, la vexata quaestio dei rapporti
fra teoria e pratica, pensiero e vita. E, naturalmente, vede da par suo la
diversa formazione mentale richiesta agli uomini d'azione e agli uomini di
pensiero, nonché la diversità di funzioni a cui gli uni e gli altri sono
chiamati. Ma appunto questo poi gli suscita un dubbio: non sarebbe, per caso,
la troppo intensa cultura intellettuale un grave ostacolo allo sviluppo del
senso pratico? «Mi sto domandando se il guardarsi attorno intelligentemente
senza posa; l'elevare alle regioni del pensiero tutto ciò che ci ferisce la
vista, ossia il menare una vita intellettuale intensa, che debitamente frenata
dalla ponderazione può darci frutti copiosi, originali e buoni nelle lettere e
nelle scienze, non ci renda più inetti all'alta vita pratica, di quel che
facesse la vecchia abitudine degli studi accademici e degli sfoghi retorici,
nei quali la mente non osservava e si può dire non pensava, ossia non
acquistava nessuna verità intorno al mondo e agli uomini, ma si contentava di
baloccarsi colle parole. Probabilmente questa vuotaggine, funestissima alle
scienze e alle lettere, lasciando in riposo e come da parte la capacità quasi
istintiva di sapersi regolare cogli uomini e di saperli regolare, la conservava
intatta» (pp. 191 - 192). E che ciò possa essere e sia, nel fatto, stato, anzi,
che tutto ciò rappresenti la soluzione più spiccia del problema della cultura
pratica, che nella maggior parte dei casi viene appunto risolto lasciando
inaridire nell'uomo le opposte tendenze alla speculazione, va bene. Ma che
possa diventare, sia pur a titolo d'ipotesi, un ideale pedagogico, no: le
soluzioni più spicce non sono sempre, in educazione, né le più efficaci né le
migliori. Il Crispolti qui si è fatto prender la mano, mi sembra, dalla natura
stessa degli esempi che arreca a conforto della sua tesi: d'un Cavour, d'un
Bismark, d'un Napoleone che, pur forniti di mediocri attitudini alla scienza e
d'un mediocre sapere in materia di dottrine politiche, riuscirono più
vastamente pratici ed efficaci nel governo degli uomini, di altri magari più di
loro valenti nel campo dottrinale, sia pur della cultura politica stessa. Dove
giusta è l'osservazione, ma ingiusta la conseguenza pedagogica che il Crispolti
sospetta se ne possa trarre. Trascuriamo, anzitutto, di far la vecchissima
questione se davvero quegli uomini dovessero dirsi meno colti di altri, o se,
invece, la vera cultura politica non fosse proprio da parte loro e da parte
degli altri soltanto l'apparenza libresca di esso o la morta erudizione.
Limitandoci, invece, solo agli aspetti del problema che possono offrire qualche
maggior interesse di novità, il Crispolti aveva qui proprio nel cattolicesimo
un criterio per scoprire il punto di vista sotto cui la innegabile grandezza di
quegli uomini ci si rivela inadeguata a un ideale educativo. Il secolo XIX
infatti (per restringere solo ad esso il discorso) produsse queste grandi
personalità tutte assorbite dal fuoco dell' azione: ferocemente chiuse o addirittura
diffidenti ed ostili verso ciò che non interessasse la loro opera pratica (si
pensi allo spregio di Napoleone verso gli « ideologues »!). E che siffatte
personalità dovessero nascere e adempissero una necessaria funzione storica,
non è dubbio. Ma, appunto per quella loro unilateralità di cui essi stessi,
prima o poi, rimasero vittime, la loro fu una grandezza direi quasi barbarica e
pagana consumatasi tutta nell'atto stesso dello sforzo, del dominio,
dell'imperio divenuto fine a sé medesimo. Lo sgomento del Manzoni che innanzi
alla morte di Napoleone si domanda: «fu vera gloria?» e non sa rispondere se
non col rappresentarsi l'interna tragedia di quell'anima arbitra fra due
secoli, due volte sbalzata dal trono alla polvere, e pacificata solo in fine,
là, «dove è silenzio e tenebre la gloria che passò»: lo sgomento del Manzoni
temperamento insieme e cristiano e moderno, è molto significativo ove si pensi
che cristianesimo e modernità bene intesa sono in ultima analisi concordi
nel richiedere a chiunque, uomo teoretico o pratico che sia, di ricordarsi
anzitutto d'essere uomo; cioè, azione, sì, ma anche pensiero; sforzo e volontà
di conquista, sì, ma anche contemplazione delle cose divine e raccoglimento
interiore. L'uomo pratico che non frena se stesso con l'esercizio del pensiero,
che disavvezza la mente dal considerare sé e le cose sub specie aeternitatis,
potrà acquistare sì una intensissima facoltà di dominio su sé e sugli altri, ma
finirà fatalmente col perdere ciò che col Crispolti chiamerò il senso
dell'umiltà: il senso della necessaria subordinazione del proprio agire ad una
realtà superiore, la religiosità, senza cui anche le più grandi opere restano
edificate sulla sabbia. Specificazione eccessiva significa sempre unilateralità
e unilateralità significa limite: ora, come educare in base a un limite, sia
pur ragionevole quanto si voglia? Quell'ideale napoleonico di grandezza è
andato, del resto, consumandosi da sé per istrada; e oggi è consueto lamento,
innanzi alle situazioni storiche intricate, che ahimè non nasca più un
Napoleone per districarle; lamento in cui, pur fatta la dovuta parte
all'esagerazione e tenuto presente che ogni secolo ha sempre, prima o poi, i
suoi grandi uomini, c'è questo di vero, che la qualità di grandezza politica
richiesta nel complicatissimo sistema della vita moderna, è una forma di
grandezza più umile, meno appariscente, più cristiana, direi, ma non per questo
meno reale. È grandezza più, nel buon senso della parola, democratica, che
aspetta meno dalle personalità eroiche e più dal quotidiano eroismo di
ciascuno, dalla illuminata dedizione di tutti al proprio dovere. È la necessità
per ciascun uomo di scienza di lasciare quando occorra la sua torre d'avorio
per sobbarcarsi a compiere quei doveri, maggiori o minori, che la vita pratica
gl'impone; è la necessità, per ciascun uomo pratico, di avere delle idee e di
fare gli sforzi richiesti a formarsi un chiaro concetto della realtà entro cui
bisogna operare. Dopo il lungo, tormentoso esperimento di oscillazione fra la democrazia
e l'imperialismo che, dalla rivoluzione francese in poi hanno attraversato le
grandi nazioni europee, le virtù puramente “politiche”, la pura e semplice
capacità di dominio sugli uomini, hanno perso credito; e, in tempi
recentissimi, si è più volte assistito all'istruttivo spettacolo di individui
espertissimi nel maneggio pratico degli uomini e delle cose che non hanno più
saputo orientarsi in mezzo alla nuova situazione creatasi nello spirito
contemporaneo, e hanno dovuto rassegnarsi a clamorosi insuccessi. Dirò al
Crispolti, tornando a parlare in termini più strettamente pedagogici, che non è
affatto dimostrato che il miglior mezzo per coltivare un'attitudine sia quello
di inaridire tutte le altre. E, ad evitare un discorso troppo lungo, gli ricorderò
che le attività spirituali si coltivano sì con l'esercizio, ma anche con un
opportuno riposo e che, d'altra parte, ogni attività presuppone per il suo
normale sviluppo lo sviluppo parimente normale di ogni altra attività, non
essendo qui il caso di trasformare in regola le eccezioni per cui grandi
personalità poterono colla sola forza del loro intenso volere colmare d'un
subito in sé, le deficienze e lacune di tal genere. L'antica abitudine della
retorica accademica sembra al Crispolti il modo con cui gl'italiani protessero
e lasciarono crescere il loro senso pratico: ed è strano che a questo proposito
altri pedagogisti - ad esempio il Gabelli - abbiano attribuito al genio
italiano carattere proprio opposto ed abbiano inteso quella stessa retorica
come eccessivo sfogo dato alla speculazione e all'immaginazione a scapito delle
doti pratiche che si sarebbero cosi inaridite. Ciò dimostra certo come sia
difficile raccogliere in una formula generale i caratteri d'un popolo che si
sono venuti formando attraverso il multiforme sviluppo di parecchi secoli. Ma
ciò dimostra anche, a parer mio, come sia rischioso l'interpretare il fiorir
delle grandi personalità italiane, dalle Signorie in poi, a beneficio d'un
singolare incremento dello spirito pratico in Italia. Quelle grandi
personalità sono spesso (mi si conceda l'espressione) retoricamente
individualiste: la loro attività politica si consuma in sé stessa come un
sogno, o come - fu già notato a proposito del Rinascimento - un'opera d'arte
che non ha risultati fuori della sua bellezza; raramente si inquadrano
nell'armonico insieme d'un sistema che le perpetui e le fecondi. E in quanto
esse ci offrono siffatte deficienze, dimostrano appunto che l'abitudine della
retorica fu, in ogni campo, teoretico e pratico, un difetto dello spirito
europeo e non solo italiano. Giacché v'è una retorica della pratica,
consistente appunto nel fatto ch'essa, esaltata per sé sola, finisce col non
esser più pura pratica, ma col farsi di sé medesima una religione e una
filosofia: filosofia dello sforzo, del dominio dell'eroismo, della Realpolitik,
dell'astratto machiavellismo, che noi moderni ben conosciamo sotto tutte le
possibili forme e ch'è una concezione unilaterale della realtà in servigio dei
puri fini pratici, la quale deforma coi suoi schemi ciò che lo stesso sano
istinto pratico (che non è mai praticistico) ispirerebbe. Significa ciò, forse,
che bisogna trascurare una cultura specifica delle attitudini pratiche? No
certo: significa solamente che l'educazione ha da formar tutto l'uomo, e che
attitudini pratiche e attitudini teoretiche possono essere e sono, distinte, ma
non è possibile, né desiderabile, che diventino opposte. L'INSEGNAMENTO
RELIGIOSO NELLE SCUOLE ELEMENTARI Non è ancora spenta l'eco delle
discussioni suscitate dal discorso di Giovanni Gentile per la inaugurazione
dell'Istituto fascista di cultura napoletano: discussione alla quale organi
autorevolissimi (come l'Osservatore Romano e Il Popolo d'Italia) hanno recato
il loro contributo. Noi non pretendiamo certo partecipare a un dibattito nel
quale è meglio che le competenti autorità politiche e religiose siano lasciate
libere di esporre come meglio credono il loro pensiero, al di fuori di ogni
altra minore e, necessariamente, più limitata polemica. Ma, posto che «I Diritti
della Scuola» hanno creduto opportuno fare qualche osservazione in materia, sia
pur contenendola esclusivamente nel campo che può interessare la scuola, e la
scuola elementare in special modo, non sarà male che anche noi aggiungiamo,
sulla stessa materia, qualche altra osservazione in margine, se così può dirsi,
a quelle fatte, - del resto, giova riconoscerlo, con molto garbo e molta
cortesia - dalla Rivista romana. Notano, dunque, «I Diritti della Scuola»
che l'insegnamento religioso nella scuola elementare attende ancora la sua
definizione precisa. A norma del decreto 1 Ottobre 1923, doveva trattarsi, come
pare ovvio, d'un insegnamento impartito secondo la teoria e la prassi della
Chiesa Cattolica. Ma i programmi didattici, e la circolare dell'on. Gentile del
gennaio 1924 sembrano invece, al redattore de «I Diritti», ispirati a una ben
diversa concezione. Non «arido dottrinarismo» o «meccanico formalismo» ma
«poesia e quasi canto della fede», doveva essere l'insegnamento religioso; e
non più la Chiesa, ma l'opera religiosa del Manzoni e le figure più edificanti
del suo romanzo, erano additati come guida a questo nuovo lavoro del maestro. E
il significato di quelle espressioni è, sempre secondo i «Diritti della
Scuola», molto chiaro. Ci si permetta di riferirne le testuali parole: «La
tendenza era dunque sempre più verso una educazione religiosa che
parlasse al cuore del fanciullo, che facesse vibrare la sua anima ingenua
dei sentimenti più puri, delle più sante aspirazioni a una vita di bene per sé
e per gli altri. Alla Chiesa, se mai, l'insegnare la dottrina cristiana nella
sua veste letterale, non sempre accessibile al fanciullo; alla scuola il
proiettare la luce e il calore della fede sui fatti umani, sul cammino che il
fanciullo dovrà percorrere nella vita. È avvenuto invece l'opposto. A poco a
poco l'insegnamento religioso si è irrigidito nella teologia, nella liturgia,
nei dogmi e nei misteri; si è schematizzato nell'aridità del dialogo
catechistico, anzitutto nelle scuole dove l'ora di religione viene assunta dal
sacerdote; e poi via via anche nelle altre, perché il sacerdote rimane sempre
il giudice del maestro, accompagnandosi all'ispettore per verificare se e come
la religione si impartisce; ed egli non sa, il più delle volte, deflettere (e forse
non deve) dalla lettera dei sacri testi». Noi non vogliamo rivolgere a «I
Diritti della Scuola» alcun rimprovero: le stesse cose sono state dette tante
altre volte, e con intonazione assai meno cortese, che, quanto alla forma, noi,
e con noi i cattolici tutti, non abbiamo nulla da eccepire. Ma è impossibile
trattenersi dall'osservare che, pur sotto la loro forma deferente e garbata,
quelle parole celano una sostanza ben amara per la religione Cattolica e per i
suoi ministri. L'argomentazione de «I Diritti » si basa tutta su un
presupposto, pacificamente e...tacitamente ammesso come incontrovertibile
verità, della quale nessun uomo, sano di cervello, potrebbe minimamente
dubitare. Ecco il presupposto: la «teologia», la «liturgia», i «dogmi» e i
«misteri» costituiscono, non già la religione ma un suo «irrigidimento»: il
catechismo è, non la formulazione dottrinale precisa della fede cattolica, ma
un «arido dialogo», e l'uno e gli altri sono poi assolutamente incompatibili
con l'«anima ingenua», le «aspirazioni sante», i «sentimenti puri» del
fanciullo e dell'uomo. Il sacerdote e la Chiesa di cui egli è ministro non
possono portare nella scuola che «arido dottrinarismo» o «meccanico
formalismo»: se volete la «poesia» e il «canto» della fede, dovete rivolgervi
altrove. Non c'è, dunque, che prendere o lasciare. Se tenete il decreto Gentile
1 Ottobre 1923, insegnerete la religione secondo la teoria e la prassi della
Chiesa Cattolica, cioè con tutto il bagaglio del Catechismo, della Liturgia,
della Teologia, ecc. - ma avrete l'«arido dottrinarismo» che si voleva evitare.
Se v'appigliate, invece, ai programmi didattici o alla circolare del Gennaio
1924, avrete il canto, la poesia, i sentimenti puri e l'anima ingenua, ma vi
converrà gettare a mare la Chiesa, i sacerdoti, la teoria, la prassi e
l'insegnamento cattolico. Evidentemente, fra due posizioni così diverse ed
avverse, bisogna scegliere. E questo appunto domandano, con molto rispetto ma
con molta fermezza, «I Diritti della scuola». Ripetiamolo ancora: sarebbe
ingiusto addossare a «I Diritti» la responsabilità d'un cuore così largamente
diffuso; tanto più diffuso quanto più corrisponde a un pregiudizio che, duole
il dirlo, si trova talora anche fra gli stessi cattolici. La liturgia, arido
formalismo! La liturgia opposta alla poesia ed al canto! La teologia opposta ai
sentimenti buoni e alle aspirazioni generose! Ma brava gente - verrebbe voglia
di dire - avete mai aperto un messale? Avete mai sfogliato un breviario? Avete
mai assistito a una cerimonia religiosa? Intendo, assistito non come vi
assistono le panche o i pilastri, ma comprendendone davvero, intimamente, tutte
le parole e tutti gli atti? E sapete che il messale è fatto delle sacre
scritture, e così pure il breviario? E che quelle sacre scritture sono i libri
biblici, i profeti, i salmi, i vangeli, gli atti degli apostoli, le epistole di
San Paolo e di altri, gli scritti dei Padri, i più begli inni cristiani e via
discorrendo? E non vi pare che come «poesia» e come «canto» ce ne sia
abbastanza da scegliere, anche per le persone di più difficile
contentatura? Non sarò certo io a dir male del Manzoni e della sua opera; ciò
nonostante, mi sembra che, poniamo, San Paolo, Isaia, o Davide siano a loro
modo «poeti» non certo inferiori al grande nostro italiano: il quale, del
resto, appunto da quegli o da altri simili autori, nonché dalla sua vasta
cultura profondamente cattolica e ortodossa trasse, ad esempio, l'ispirazione
dei suoi Inni sacri. Certo, si osserverà, non tutta la poesia delle sacre
scritture è accessibile o comprensibile al fanciullo: ma, d'altra parte, è
evidente che nemmeno siamo obbligati a spiegargliela tutta o tutta in una
volta, o tutta collo stesso grado di profondità. E poi la liturgia non è solo
nelle parole: è nella musica, nel canto, nell'azione del celebrante e degli
assistenti, nel colore dei paramenti sacri, nella architettura stessa del
tempio, elementi organizzati e concatenati da una sapientissima disciplina che
riescono quanto mai plastici, sensibili ed «intuitivi» e parlano all'animo
anche delle persone più illetterate. E la sapienza colla quale tutti quegli
elementi sono proporzionati, volta per volta, alle circostanze e allo stato
d'animo cui si riferiscono! Le Messe funebri, colla loro solenne mestizia,
quelle della Natività, del periodo Pasquale e, in genere, delle grandi feste,
colla loro trionfale esultanza; quelle dell'Avvento e della Quaresima col loro
pensoso raccoglimento, quelle del periodo dopo Pentecoste colla loro luminosa
serenità costituiscono un vasto poema - il ciclo liturgico - nel quale la
natura medesima ha spesso la parola, e le luci e le ombre, i caldi o i geli, le
stagioni e le opere, le più varie circostanze della vita e i fondamentali
sentimenti dell'anima umana trovano necessariamente un'adeguata espressione.
Poiché la Chiesa ha conosciuto molto prima dei pedagogisti il metodo
«intuitivo» e colla musica, col canto, colle pitture, con l'architettura dei
suoi templi e il suono delle sue campane, ha saputo parlare alle plebi
illetterate quando ispettori, maestri, direttori, leggi scolastiche, letterali
e poeti erano di là da venire! Certo, la conoscenza assidua e amorosa
della liturgia non è, neppure fra i cattolici, oggi diffusa quanto si potrebbe
desiderare. Ma il movimento liturgico, promosso e diretto dall’instancabile
zelo e delle autorità ecclesiastiche e di molte organizzazioni cattoliche va
facendo ogni giorno progressi. E basti qui ricordare l'opera della Società
francese di San Giovanni Evangelista, e, fra noi, quella dell'Abate Emanuele
Caronti per la volgarizzazione e la diffusione della liturgia: per tacere dei
molti, ottimi testi per le scuole elementari, dove la liturgia ha, molto
opportunamente, una parte notevole. Per gli amatori di «curiosità» pedagogiche
ricorderemo gli esperimenti fatti in Ispagna, a tal proposito, col metodo
Montessori; la partecipazione dei fanciulli all'Offertorio della Messa,
mediante un'offerta che risuscitava le più antiche tradizioni della Chiesa: il
grano e la vite coltivati, pure dai fanciulli, come materia delle specie
sacramentali, e via dicendo. Tutti espedienti, senza dubbio, utili e
giovevolissimi, ma che sono ben lungi dal costituire, come forse taluno
potrebbe credere, una novità rispetto alla teoria e alla prassi della Chiesa,
che ha sempre chiamato i fanciulli al servizio degli altari, come si può vedere
persino nelle più remote parrocchie dei più remoti villaggi: anche senza le
panchettine, le pilettine, gli inginocchiatoi minuscoli e tutto l'armamentario
a scala ridotta del metodo montessoriano. E passo all'altro,
apparentemente più scabroso argomento della «teologia» o del «catechismo», che
sarebbe, in fondo, una teologia elementare per fanciulli, come la teologia è un
catechismo degli adulti. Ora, la teologia è il pensiero di cui la liturgia è la
esterna e multiforme espressione, è l'anima di cui la liturgia è il corpo.
Evidentemente, chi ignora l'una non può afferrar bene l'altra, a meno di
non essere un filosofo o uno scienziato così abituato a muoversi fra i concetti
puri, da potervisi collocare stabilmente senza bisogno di altri sussidi; e
anche allora l'ignoranza della liturgia (cioè la negligenza nell'usare quei
mezzi che la Chiesa ha messo a nostra disposizione appunto per comprendere e
praticare la sua dottrina) produrrà sempre i suoi effetti funesti, poiché in
fine l'uomo, anche scienziato, non è una intelligenza pura, ma un composto di
anima e corpo, di senso e intelletto, né può fare a meno in nessun caso di
sorreggere il proprio pensiero con stimoli sensibili. Si capisce, dunque,
facilmente, che presso coloro i quali non sono né filosofi né scienziati, o
comunque hanno trascurato di completare la propria cultura religiosa con una
buona cultura liturgica, il catechismo sia spesso una anima senza corpo, dia,
cioè, quell'impressione di arido formalismo e di dottrinario schematismo che
tanto dispiace, e nella scuola e fuori, e che tanto urta le delicate esigenze
dell'anima infantile. Ma ricostituite quella unità che avete spezzato:
ricongiungete la teologia alla liturgia, secondo, appunto, la teoria e la prassi
della Chiesa Cattolica, e le verità del catechismo, aride in apparenza, si
vestiranno dei più smaglianti colori: diverranno verità, non solo, apprese o
ripetute a parole, ma vissute, sentite, amate, alle quali neppure l'anima del
più rozzo analfabeta saprà rimanere insensibile. È difficile il concetto della
transustanziazione? Eppure anche il fanciullo e la donnicciola cantano e
sentono il Pange lingua. È difficile l'idea della resurrezione della carne?
Eppure nessuno, che non sia un idiota o un deficiente, può ascoltare senza
fremere le parole del vangelo giovanneo, dette dal sacerdote: Ego sum
resurrectio et vita. Questo non vuol dire, d'altra parte, che anche il
catechismo puro e semplice non possa dì per se stesso costituire la base d'un insegnamento
vivo, agile, plastico, "intuitivo" ed "attivo" condotto
secondo i migliori criteri pedagogici. Tutto sta nel modo con cui viene
insegnato. Accusarlo di aridità perché lo si vede, sulla carta, costituito da
tante domande e risposte, sarebbe come accusare di aridità l'aritmetica perché,
nel libro, altro non si trova che l'enunciato dei problemi o le definizioni
nude e crude. Quelle domande e quelle risposte sono l'oggetto
dell'insegnamento, il termine ultimo cui si deve arrivare; non sono il metodo,
la via, o il punto di partenza. E sul metodo appunto la didattica catechistica
odierna ha una quantità di studi notevolissimi, ove, ad esempio, le questioni
inerenti al metodo "intuitivo" e ai suoi sussidi didattici sono state
discusse e trattate esaurientemente. Citiamo, per restare fra i nomi italiani,
le interessanti ricerche dei Monsignori Pavanelli e Vigna. Il movimento circa
la didattica catechistica, da vari anni già, è non meno notevole e non meno
confortante del movimento liturgico. Ora, ignorare tutto questo, e continuare a
parlare del catechismo come se fosse insegnato a memoria, e magari, a suon di
scappellotti, significa precludersi senz'altro la via di discutere con
imparzialità e competenza. Che se, qualche volta, nemmeno l'istruzione
catechistica impartita coi metodi migliori, dà i risultati che se ne potrebbero
attendere, la colpa non è davvero della Chiesa o dei suoi sacri testi. Datemi
una società come quella cristiana primitiva, e io vi dispenso dall'osservanza
di qualsiasi didattica; sicuro che, per quanto schematiche, le parole del
maestro troveranno sempre, nella vita religiosa quotidiana, di che riempirsi in
abbondanza anche per il fanciullo più scafato e testardo del mondo; sicuro che
le massime, gli esempi, le abitudini d'una società e d'una famiglia troppo
spesso indifferenti o ribelli alla parola della Chiesa non mi ridurranno le
definizioni catechistiche allo stato d'una pallida larva. Anche qui, dunque, il
segreto per avere una cultura religiosa, ricca, calda, piena di pathos e di poesia,
e perciò armonica ai fondamentali bisogni dell'animo infantile, sta non
nell’allontanarsi, ma nell'avvicinarsi sempre più all'insegnamento genuino
della Chiesa. Non sapremmo, perciò, vedere alcuna contraddizione fra il
decreto Gentile del 1 Ottobre 1923 e la circolare del Gennaio 1924 dello stesso
ministro, o i programmi didattici, poiché, seguire la teoria e la prassi della
Chiesa Cattolica nell'insegnamento religioso, significa per l'appunto dare al
fanciullo la "poesia", il "canto" e tutte le altre belle
cose annesse e connesse. Né può lasciar adito a equivoco il nome del Manzoni,
il laico così geloso della propria ortodossia, da riuscir più ortodosso di
molti sacerdoti suoi contemporanei, quali, poniamo, il Lambruschini o il
Gioberti. Che se contraddizione c'è stata fra il decreto e la circolare, o il
decreto e i programmi, essa è stata piuttosto nella mente del loro autore che
nella realtà delle cose e appartiene, dunque, alla storia della cultura o della
filosofia italiana e non a quella della legislazione scolastica. Il
cattolicesimo, non è il protestantesimo, e perciò sarà sempre un osso troppo
duro pei denti dei filosofi volenterosi che si proveranno a maciullarlo e a
convertirlo in poltiglia per uso delle loro costruzioni metafisiche. Sotto questo
aspetto, la nota de "I Diritti" è, per noi, molto significativa e
confortante: è il sintomo d'un grandioso insuccesso, da parte di chi aveva
creduto poter introdurre il cattolicesimo nella scuola, come veste mitologica
inferiore d'una verità filosofica che, più tardi, lo avrebbe superato e
divorato. Dal 1923 sono passati cinque anni e il cattolicesimo, ben lungi
dall'essere “superato” è lì, colla sua teologia e la sua liturgia, i suoi dogmi
e i suoi misteri, che minaccia gravemente di "superare" gli altri e
di mangiarsi in due bocconi le stesse filosofie più evolute, alle quali sta
contendendo energicamente il possesso delle scuole medie e superiori che pure
s'erano riservate. Lo scandalo diventa grave: e "I Diritti " hanno
tutte le ragioni d'esserne preoccupati, posto che stia loro a cuore davvero, la
sorte delle filosofie "evolute": il che, sinceramente, non auguriamo.
INDICE 5 Prefazione 9 La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino 65 L'Educazione
naturale 93 L'Anima della pedagogia 125 Filosofia, Religione e " Filosofie
" nelle Scuole Medie 163 Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso
nelle Scuole elementary. Il problema della dialettica oxoniense suscita una
difficoltà. Il chiedere soltanto come è possibile che il tutore (Socrate)
comunichi al tutee (Alcebiade) una determinate cattitudine psicologica sembra
implicare, se non addirittura una contraddizione, certo un paradosso quasi
insormontabile, dato che il termine "tra-smettere" o
"co-municare" o qualsiasi altro termine consimile che si adoperi a definire
l'azione di Socrate su Alcebiade ("conversare") non sembra possa
riflettere, se non in maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente
caratteristico del processo filosofico. Se si trattasse, infatti, di un oggetto
materiale o corporale, o fisico, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso
potesse "co-municar-si", "tras-metter-si" o cambiar sede,
come una moneta che passa di mano in mano, ma nella dialettica oxoniense *ciò
che* si "tras-mette" è essenzialmente un valore ideale, immateriale,
non-fisico, spirituale, come la scienza, la cognoscenza, la virtù, un contenuto
proposizionale, un complesso proposizionale non-naturalistico. E questo
complesso proposizionale (in parte sensibile) tanto poco si lascia
«tras-mettere», nel significato explicito dell'espressione (Latino, mettere
trans), poiché il complesso proposizionale ha la sua base percetuale, come
Peacocke nota, in un atto interno della mente del soggetto Socrate. E un atto
di tal genere è tanto impossibile "tras-portarlo" dall'anima del
soggetto Socrate all'anima dell'altro soggetto Alcebiade, quanto è impossibile
che il soggetto Socrate trasmetta ad Alcebiade ciò che costituisce la sua
intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in
Alcibiade! Mario Casotti. Keywords: volere, sì che Socrate si tramuti in
Alcibiade! Grice: “And perhaps Socrates *becomes* Alcibiades!” -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Casotti” – The Swimming-Pool Library https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51714156301/in/photolist-2mSSQnN-2mMNyYv/
Castelli
Grice e Castrucci – sul conferimento di
valore – filosofia italiana – Luigi Speranza (Monterosso al Mare).
Filosofo. Grice: “Castrucci is wrong.” Frequenta il liceo classico di La
Spezia, iscrivendosi quindi all'Firenze, dove si è formato negli studi
filosofico-giuridici e storico-giuridici alla scuola di Vallauri e di Grossi,
laureandosi in giurisprudenza. Ha ricoperto in quell'ateneo il ruolo di ricercatore
universitario di filosofia del diritto. A Firenze è entrato in contatto per un
breve periodo, pur senza aderirvi, con l'area di Autonomia Operaia espressa
all'epoca da Negri, con la cui consulenza ha scritto la sua tesi di laurea (Tra
Stato di diritto e pianificazione, Firenze). Insegna a Genova e Siena. I
suoi studi riguardano principalmente la filosofia politica e la storia delle
idee giuridiche, avendo come oggetto alcuni aspetti costitutivi della
dimensione contemporanea, tra i quali si possono ricordare: i presupposti
antropologici del politico; i fondamenti dello jus publicum europaeum, la
critica dell’ideologia dei diritti dell'uomo. La sua ricerca riguarda inoltre
le origini e le forme del pensiero giuridico europeo moderno, la ricostruzione
delle linee fondamentali della teoria dello Stato tedesca del primo XX secolo,
le radici giuridiche e teologiche della tradizione culturale dell'Occidente. Castrucci
ne ha sviluppato autonomamente la concezione del manierismo politico nei propri
scritti sulla filosofia politica convenzionalista del XVII secolo. Nel corso
della sua ricerca ha approfondito in
particolar modo filoni di pensiero riconducibili alla rivoluzione conservatrice
europea, contribuendo inoltre alla diffusione nella giurisprudenza italiana del
nomos della terra, con cura editoriale dello storico della filosofia di Volpi e
di Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale. “Convenzione”,
“forma”, “potenza” sono i concetti chiave della riflessione filosofico-politica
europea di cui, nel suo analisi si ritrova tracciato lo sviluppo
storico-genealogico e vengono indagate le implicazioni teoriche. La convenzione,
o per meglio dire l’ordine giuridico convenzionale, è il concetto che
corrisponde al modo in cui la razionalità giuridica affronta il problema di un
ordine giuridico tecnico, artificiale, positivista, svincolato da quelle
premesse di valore di tipo teologico o metafisico o naturale che
avevano caratterizzato il diritto romano. Delinea in questo senso la
storia e la teoria di un ordine convenzionale (o artificiale e non naturale) nel
quadro della modernità matura, che dal Seicento barocco procede fino alla crisi
della cultura del primo Novecento. Accade in questo quadro che il primato
classico dell'idea filosofica di forma venga sostituito da quello, tipicamente
moderno, dell'idea di decisione. La decisione si contrappone così alla forma.
Confrontandosi con i campi diversi della filosofia politica, dell'etica e della
letteratura, l'analisi incontra figure significative di filosofi e scrittori
come Benjamin, Musil, Valéry. Il complesso apparentemente discorde delle loro
voci, che Castrucci analizza, porta all'idea di una forma elaborata su basi
rinnovate rispetto all'impostazione “formalista” e “normativista” di ascendenza
kantiana, a lungo prevalente nel campo dell'estetica e della teoria del
diritto. Nello sviluppo storico e genealogico dell'idea metafisica di
potenza si possono infine riconoscere, secondo Castrucci, le linee di
un'antropologia politica fondata su basi individualistiche (potenza come
acquisizione di spazio, ossia affermazione individuale nella spazialità:
Selbstbehauptung), che però non trascura il serio problemaposto nel corso del
Novecento dalla migliore dottrina costituzionale tedescadel radicamento
materiale e simbolico del singolo individuo nella comunità politica di
appartenenza (potenza come stabilizzazione, ossia radicamento individuale e
comunitario nella spazialità). Risulta evidente in tutto ciò il riferimento
all'idea schmittiana di Ortung, ossia localizzazione o radicamento, elaborata
da Schmitt, ma anche secondo quanto sostiene Castrucci all'idea di potenza già
rinvenibile nell'antropologia filosofica di Spinoza e di Nietzsche.
L'analisi di Castrucci muove più in generale dal proposito di riconsiderare,
seguendo il modello della lotta delle idee proprio della critica della cultura,
una serie di concreti problemi teorici su cui la cultura europea aveva
concentrato l'attenzione in un passato non troppo lontano, per poi distoglierla
"nell'inseguimento di una discutibile attualità". Tra questi problemi
particolare rilievo tematico acquistano, nel discorso filosofico di Castrucci,
la ricerca di un'etica fondata su basi epistemologiche convenzionaliste,
l'approfondimento delle implicazioni politiche presenti nel pensiero di autori
classici della filosofia tedesca come Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger e
Cassirer, la critica radicale delle tesi di autori più recenti come Habermas,
nonché infine la questione cruciale delle linee virtuali di costruzione di un
mito politico nell'età del nichilismo compiuto. Hanno suscitato polemiche
alcuni suoi tweet, a partire da uno pubblicato il 30 novembre col quale si riferiva a figure storiche
naziste come Adolf Hitler ritratto col il cane Blondi e il commento di
Castrucci "Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere
che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il
mondo" e Corneliu Zelea Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro; dopo
la diffusione di questo tweet, ne sono stati portati in evidenza altri,
ritenuti di matrice filonazista, razzista e antisemita,nonché presunti insulti
nei riguardi del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell'ex
Presidente della Camera Laura Boldrini. Replica affermando di aver
semplicemente espresso un giudizio storico personale avvalendosi, al di fuori
della sua attività didattica, del principio di libertà di pensiero e
successivamente, in una memoria difensiva dei suoi avvocati, di non aver mai
aderito ad alcuna ideologia nazista, ma di essere un libero pensatore,
sottolineando inoltre come la propria critica, volutamente provocatoria e
paradossale, andasse piuttosto intesa come indirizzata contro la grande
speculazione finanziaria, con esplicito riferimento alla lotta contro la
finanza speculativa, l'usura e il signoraggio bancario di Pound. Il suo account
è stato chiuso. Il 2 dicembre il rettore dell'Università degli Studi di Siena
Francesco Frati ha preso le distanze da Castrucci, annunciando di aver
"dato mandato agli uffici di attivare i provvedimenti conseguenti alla
gravità del caso" e, successivamente, di aver presentato un esposto in
procura dopo aver ravvisato "un profilo di illegalità" nelle parole
del docente, ipotizzando il reato di odio razziale con l'aggravante di
negazionismo. Dopo la sospensione, Castrucci non si è presentato alla
Commissione disciplinare dell'ateneo dichiarandola non legittimata a giudicare
sul suo caso[33], mentre l'iter procedurale che avrebbe potuto condurre al
licenziamento è stato bloccato in seguito alla richiesta di pensionamento
presentata dal professore stesso. L'inchiesta penale è stata affidata per
motivi di competenza alla procura di La Spezia. Ordine convenzionale e pensiero
decisionista, Milano, Giuffrè); Tra organicismo e "Rechtsidee". Il
pensiero giuridico di Erich Kaufmann, Milano, Giuffrè Editore); La forma e la
decisione, Milano, Giuffrè Editore); Considerazioni epistemologiche sul
conferimento di valore, Firenze, S. Gallo); Introduzione alla filosofia del diritto
pubblico di Carl Schmitt, Torino, G. Giappichelli Editore); Hume e la
proprietà, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze
storiche, giuridiche, politiche e sociali, Convenzione, forma, potenza. Scritti
di storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffre); Schopenhauer
filosofo del diritto, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di
scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali); Ricognizioni. Quattro studi
di critica della cultura, Firenze, S. Gallo); Lezioni di filosofia del diritto,
Roma, Aracne Editrice); Per una critica del potere giudiziario. Sugli articoli
101 e 104/1 della Costituzione, Firenze); Profilo di storia del pensiero
giuridico, Firenze); Per una critica dell'ideologia dei diritti dell'uomo,
Firenze); Nomos e guerra, Napoli, La Scuola di Pitagora); Il regime giuridico
delle situazioni d'eccezione, Firenze); Le radici antropologiche del politico,
Soveria Mannelli, Rubbettino Editore); La teoria indoeuropea delle tre funzioni
in Georges Dumézil e altri saggi, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre); La forma
giuridica: Concetto e contesti. Tre studi di filosofia del diritto, Napoli, La
scuola di Pitagora); Individualismo e assolutismo. Aspetti della teoria
politica europea prima di Thomas Hobbes (1600-1640), Emanuele Castrucci, Milano,
Giuffrè Editore); Carl Schmitt, Il nomos della terra, Franco Volpi, traduzione
di Emanuele Castrucci, Milano, Adelphi); Il nomos della terra, Franco Volpi;
Milano, Adelphi); Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi
giudiziale, Emanuele Castrucci, Milano, Giuffre). Le radici antropologiche del
'politico' (Soveria Mannelli, Rubbettino); La ricerca del Nomos, in Il Nomos
della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, Adelphi,
Milano); Retorica dell'universale: Una critica a Habermas, in Filosofia politica, 15, Il Mulino); Dai diritti individuali ai
diritti umani: un totalitarismo in costruzione. Alcuni spunti in margine ad un
recente scritto di Castrucci, in Il Politico, Università degli studi di Pavia; Itinerari
della forma giuridica. Studi sulla dottrina dello Stato tedesca del primo
Novecento, Milano, Giuffrè); Ordine
convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali
dello Stato moderno nel Seicento francese, Milano, Giuffre); La forma e la
decisione” (Milano, Giuffrè); Ordine convenzionale e pensiero decisionista.
Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno; La forma e la
decisione; Convenzione, forma, potenza: storia delle idee e di filosofia
giuridico-politica, Milano, Giuffrè). Emanuele Castrucci. Castrucci. Keywords:
sul conferimento di valore, il guerriero
indo-germanico – Pound, conferire valore, implicanza pragmatica, l’implicanza
di speranza, l’impieganza di speranza, Apel, prammatica. ; Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Castrucci” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51774520261/in/dateposted-public/
Grice e Catalfamo – metafisica della
libertà – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania).
Filosofo. Grice: “I love Catalfamo; his ‘metaphysics of freedom’ is better than
anything that soi-dissant Dame Mary Warnock wrote on ‘existentialism’!
Catalfamo, like most Italian philosophers, take, as Strawson and I do, the
concept of a ‘person’ seriously – indeed, so seriously that he, along with a
few other Italian philosopher, turn it into an –ism: his is a critical
personalism, though, best defined as an expansion from scepsis to hope. Della
corrente del "personalismo storico o critico". Si laurea in Pedagogia e in Scienze
Politiche. Prima assistente volontario di Galvano Della Volpe (che definisce
unico filosofo a livello di Croce), poi discepolo di Vincenzo La Via (che si era
formato alla scuola di Gentile, del quale era stato assistente), e suo
collaboratore dal 1946, diviene libero docente, incaricato di Pedagogia e
infine ordinario di Pedagogia. Fonda e diviene direttore dell'Istituto di
Pedagogia all'Messina. Il suo pensiero
si snoda in quattro fasi: dell'epistemologo, del personalista storico ed
antidogmatico, dello scettico, dell'uomo di fede. La formazione filosofica (fu
Assistente di ruolo di Filosofia e scrisse sulla rivista "Teoresi",
fondata dai suo maestro La Via) traspare nel suo pensiero pedagogico,
concepito, e nel tempo modificato, all'insegna dell'apertura e dell'innovazione
anche didattica. Nel suo personalismo, che ha come principi critici la
storicità, la trascendenza e la problematicità "egli rintraccia nuovi
aspetti... e incomincia a fare i conti con la storia e le sue
fenomenologie", " il personalismo... lentamente ma inesorabilmente si
qualificherà come «storico»; la persona assume una significanza fenomenologica
di unità... in costruzione", "Catalfamo collega l'esserci e il farsi
della persona al flusso della realtà oggettiva, nel doppio senso:
nell'influenza e stimolazione di questa verso quella e della trasformazione
della realtà oggettiva ad opera della persona". "L'uomo come soggetto
agente impedisce che l'esperienza sia un limite, cerca di oltrepassarla vedendo
in essa quello che non è e quello che potenzialmente è. La persona, dunque, è
una realtà trascendente". L'aspetto problematico del suo pensiero, infine,
fa riferimento alla "posizione stessa della persona, la quale, costituita
nell'esperienza, è radicata nella problematicità di essa, perché "il mondo
per la persona è sempre un problema, così come un problema è il suo essere nel
mondo". Catalfamo è stato fondatore
e direttore della rivista "Presenza" assieme al prof. Gianvito Resta;
fondatore e direttore di "Prospettive pedagogiche", dal 1964 fino al
1988. È stato anche Prorettore
dell'Messina. Gli è stata conferita dal Presidente della Repubblica, la
Medaglia d'oro al merito della Scuola, della Cultura, dell'Arte. Il 12/02/, la
Giunta del Comune di Messina gli ha intitolato un tratto di strada nei pressi
dell'Università, all'Annunziata alta. Più recentemente, a Messina, si è tenuta
una solenne cerimonia, nel corso della quale è stata scoperta una targa
commemorativa, che riporta una sua rilevante riflessione, e gli è stato
intitolato un Istituto Comprensivo. Altre
opere: Kant, Lezioni di pedagogia, Ed. Messina Empirismo pedagogico e
filosofia, "Teoresi", anno IV, nn.1-2 Pedagogia e Filosofia,
"Biblioteca dell'educatore", AVE, Milano Marxismo e Pedagogia, Avio,
Roma Il fondamento della pedagogia. Disegno di una pedagogia personalistica, Sessa,
Messina Personalismo pedagogico, (1958), Armando, Roma La pedagogia contemporanea
e il personalismo, Armando, Roma L'educazione fondamentale, Armando, Roma I
fondamenti del personalismo pedagogico, Armando, Roma La pedagogia
dell'idealismo (corso universitario), Providente, Messina Elementi di
psicopedagogia e pedagogia sperimentale (corso universitario), Providente,
Messina Storia della pedagogia come scienza filosofica, Barbera, Firenze
Criteriologia dell'insegnamento: la didattica del personalismo, Bemporad
Marzocco, Firenze Personalismo senza dogmi, Armando, Roma Giuseppe Lombardo
Radice, Ed. La Scuola, Brescia La pedagogia marxista sovietica (in
collaborazione con Salvatore Agresta), Edizioni dell'Istituto, Messina La
filosofia contemporanea dell'educazione, Istituto di Pedagogia, Messina
Compendio di psicopedagogia e pedopsichiatria (in collaborazione con M.
Vitetta), Parallelo 38, Reggio Calabria L'individualizzazione dell'insegnamento
(in collaborazione con Salvatore Agresta), Peloritana editrice, Messina Lo
spiritualismo pedagogico, EDAS, Messina Introduzione alla psicologia dell'età
evolutiva (in collaborazione con L. Smeriglio), A. Signorelli Editore, Roma
Ideologia e pedagogia, EDAS, Messina La pedagogia del personalismo storico, EDAS,
Messina L'ideologia e l'educazione, Peloritana, Messina Aspetti della
socializzazione, Peloritana, Messina Le illusioni della pedagogia, Milella,
Lecce Fondamenti di una pedagogia della speranza,La Scuola, Brescia
L'educazione politica alla democrazia, Pellegrini Editore, Cosenza Educazione
della persona e socializzazione, EDAS, Messina Preliminari ad una dottrina dell'apprendimento,
Catalfamo e il personalismo critico. "Nuove Ipotesi" a. IV, 246–248, D.U.E.M.I.L.A., Palermo. Il personalismo
Catalfamo, Accademia Peloritana dei Pericolanti. Elzeviro Catalfamo. Il
personalismo di Catalfamo. Giuseppe Catalfamo. Keywords: metafisica della
libertà, il concetto di persona, la transubstanziazione dell’umano nella
persona, identita personale, il concetto di persona, pronome personale, la
prima persona duale --, il ‘noi’ -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catalfamo”
– The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773681967/in/dateposted-public/
Grice e Catena – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Venezia).
Filosofo. Grice: “I love Catena – of course he thought he was being an
Aristotelian – and the confusing title he gave to his philosophising – Universa
loca Aristotelis’ would have you think that – but he is a thorough Platonist –
consider ‘pulcher’ as applied to Alicibiades – but ‘pulcher’ gives ‘pulchrum,’
an universal --!” Precursore della rivoluzione scientifica rinascimentale e
indaga i rapporti tra matematica, logica e filosofia, occupando la stessa
cattedra in seguito occupata da Galilei. Filosofo, eccellente conoscitore del
latino. Lettore pubblico di metafisica a Padova. Gli succedettero Moleti, poi Galilei. Pubblica a Venezia “Universa loca in logica
Aristotelis in mathematicas disciplinas” -- la raccolta dei brani delle opere
aristoteliche che riconoscevano il prevalente carattere speculativo del sapere
matematico, tema a cui dedicò anche un'altra opera. Altre opere: “Super loca
mathematica contenta in Topicis et Elenchis Aristotelis”; “Astrolabii quo primi
mobilis motus deprehenduntur canones” (Impressi Paduae, Giacomo Fabriano);
“Oratio pro idea methodi” Patauij, Grazioso Percacino). Agostino Superbi,
Trionfo glorioso d'heroi illustri, et eminenti dell'inclita, & marauigliosa
città di Venetia, per Euangelista Deuchino. Domus Galilæ Biografia universale
antica e moderna ossia Storia per alfabeto della vita pubblica e privata di tutte
le persone che si distinsero per opere, azioni, talenti, virtù e delitti; Catalogo
breue de gl'illustri et famosi scrittori venetiani, presso gli heredi di
Giouanni Rossi; Le filosofie del Rinascimento, B. Mondadori); Alle radici della
rivoluzione scientifica rinascimentale: sui rapporti tra matematica e logica.
Con riproduzione dei testi originali, Domus Galilæana. On
this subject Catena wrote two works , in one of which , Universa Loca in Logica
Aristotelis in Mathematicas Disciplinas , Venice , 1556 , he tried to supply
the lost mathematical basis for Aristotle's theory of demonstration as
explained in the Posteriora Analytica. Pietro, in Dizionario biografico
degli italiani. PETRVS CATHENA ARTIVM ET THEOLOGIAE
DOCTOR , PROFESSOR PVBLI. CVS ARTI VM LIBERALIVM IN GYMNASIO PATAVINO , SVPER
LOCA MATHEMATICA contenta in Topicis & Elenchis Ariſtotelis nunc & non
antea, in lucem ædita. ka CVM PRIVILEGIO , LOLOTILLON 0 V EN E TIIS Apud
Cominum de Tridinum Montisferrati, M D L XI . > PETRVS CATHENA DOMINICO MONTE.
SORO DOCTORI MEDL song CO EXCBLLBN TISSIMO OPICORVM libri din Elenchorum
Ariſtotelis quædamloca obſcuriuſću la contincbant qnæ apud Gręcos philofophos
erant in primis clara, & per ea co tera loca maiori difficulta ti
inherentia declaraban tur , ob id autem illis con tingit , quod veritatis
amatores & philoſophiæ principes videri apud exteras nationes cupiebant,
quod & re ipfa tales exiſtimarentur, niſi furto å Caldeis, egiptijs, &
alijs abſtuliſſent, id autem , alįe na ſua feciſſe, vitio non omni ex parte
abeſt, La tini vero quidam auaritiæ fine præſtituto( latinos hoc loco voco cos
qui litteris illisRomanis, vel voce, vel etiam fcriptis ſuos conceptus
explicant) philoſophiæ extremis partibus ita incumbunt A vt ſemper
lutuoli,verlantesin excrementa naturæ appareant, quod quidem laude dignum
effet,fi vt præclară prolem, quemadmodú boni viri faciunt aliqui egros
inuiſerent, quo igiturme uerterem in inuio, non erat conſilium ,ničí Reuerendus
domi nus Laurentius Venetus ex nobis familia foſca . rena Canonicus Veronenſis,
virum Dominicum Monteſorum Gręca ambitione & auaritia immu nem oftenderet,
cui hæc noſtra loca immo Ari ſtotelis declarata dedico, quæ fi Ariſtotelis fco
pum attigerint, vt exiſtimo & tibi fore grata co gnouero ad reliqua
philoſophiæ Ariſtotelis loca declarandanon piger animus noſter erit , quod fi
minus,cenſoriam amicorum virgam nonfugiet hæc noftra expoſitio,interimmegratum
habeas. Vale. IN PRIMO CAPITE PRIMI LIBRI TOPIC ORVV M. I DETV Ř autem hic
modus differre à dictis ſyle logiſmis nequeenim ex veris, &primis ratioci
natur pſeudographus,neque ex probabilibus, nem in deffinitionem non cadit ;
neque enim quæ omni . bus videntur accipit, neque quæ plurimu i ,neque qnæ
fapientibus, & his neque omnibus neque plu . rimum, neque probatiſſimis; ſed
ex proprijs quidem alicuiſcientie fumptis,non tamen veris ſyllogiſmumfacit ,nam
vel.eo quod femi circulos deſcribit non vt oportet , vel eo quòd lineas aliquas
dicit non vt ducendæ ſunt paralogiſmum facit. VNC textum declarant Greci, &
Latini vſque ad locum illum quo Ariſtoteles exemplo vtitur Geo. metrico,ad quem
locum pręclari expoſitores cum per uenerint Tantis Tinebris vinctum loris ,
& funibus reliquerunt Ariſtotelem , vt ab Alexandri tempore(vo reor) vſque
modo, omnes qui illas preclaras interpretationes legea rint, illius loci
notitia priuati fint, quos prçclaros expoſitores pro prio ſuo citarem nomine ,
vt amatores Ariſtotelis eos cauerent vt infames ſcopulos acróceraunię, fed eos
prçtereo vt in hacparte inu liles, line Geometria logiculos , legantfine liuore
& vafricia expo fitores illius lociomnes, & has noftras declarationes
non quidem criſpis naribus, ſubinde iudicent,fi intellexerint, quanti ingenö
fuit , ficut in cæteris ipſe Ariſtoles , hæc citra in Alatas buccasdixiſſe ve
lim , quiſquevt intelligat, fed vt litterarum aliquando illuſores re primantur
pariterque eorum indocta audatia, fufcipiatur igitur re cta linea, a bquę
feccetur quomoçunque contingat in puncto c , & ſuper vtranearī a ccb,
ſemicirculus,non vt primīī petitū docet, facto d centro vnius & e alterius
deſcribatur perperā ſemicirculus a h c,alter chb, quiſeſe Tangantin puncto h
ſuſcipiaturque centrū huius ſemicirculiah cipſum d , illius autem ch b ſit
centrum e, a punctis igitur d ; & e,ſemicirculorum centris ducantur duæ
lineæ ad h contactum , & intelligatur Triangulus d he , quoniam autem 3 5
dur'lineædc & dhexeunta centro ad circunferentiam ipfæ per dif finitionem
circuli funt æquales, pariter per eandem definitionem duæ lineæ ec & ehſunt
æquales , duæ igiturdc & ce duabus d h & eheruntæquales, duæ autem ille
dc, ceſuntvnum latus trian guli dhe,ergo vnum latus d e trianguli d heeft
æquale duobus la ceribus eiuſdem triangulidh & e h ,quod eſt impoſsibile
contra vi gefimam primi elemērorum Euclidis,duo enim latera omnis trian guli quomodocunque
ſumpta , ſunt maiora reliquo & non æqua lia, vtpſeudographo ſyllogiſmo
machinabátur proteruus,hocau . cem vitium non ex coprouenerat qex falfis
fyllogiſmus fic con fectus,quia ex veris , & immediatis, & exeodem
ſcientię genere, vt ex definitione 17 primi elementorum ſyllogiſthus affectus
eſt ,ſed error atque peccatum proceſsit ex co ofemicirculos defcribit non vt
oportet, quod notauit nobiliſsimus geometra Ariſtoteles, fic 1 a 6 etiamhi qui
falfo fyllogizant,vnum fatus trigonimaius eſſe duo bus reliquis trigoni
lateribus, no vt oportet femicirculos diſcriben tes , fic.n.linca a b &
puncta in ea ſuſcipiantur cd & circa vtranq ac , &db , rectam
ſemiciruli deſcribantur fe inuicem tangentes in puncto e alter a ec cuius
centrum f,reliquus bed cuius centrum g , &a centro fprotrahatur recta fe
fimiliter a punctog protraliatur gerecta , tunc triangulusfe g habebit latus f
g maius duobus lateribusfe, & ge, quod fic perſuadetur,lineafc eft æqualis
lineæf e cum vtraque exeat,a centro ad circunferentiam , fimiliter linca g deft
æqualis geeadem ratione , fi igitur c d linea addatur lineis fc, & dg,
equalibusfe & gcefficiunt linea fg latus trigoni fe gma jusduobus lateribus
fe, & ge quod eſt impoſsibile per 20 primi clemcntorum ,vel eo q lincas aliquas
ducit non vi ducendæ funt d g paralogiſmum facit, ſi ducatur linea a centro fad
centrum g , illa non tranfibit per contactum e,vtin hac fecunda figura apparet,
ve linea abf,in g,non tranſit per punctum e vt oporteret, per xi tertij
clementora Euclidis, fi duo circuli fe contingunt & acentro ynius ad
centrum akerius recta ducatur linea illa de neceſsitate applicabi tur
contractui, ex mala igiturdeſcriptione attulit Ariſtoteles exem plum de
ſyllogiſmo falſigrapho , qui oſtenſiuo fyllogiſmo oppo . Situs eft . CAPVT CAPY
T SEPTIMVM. SIMILITER vero e ſi cubilali magnitudinepoſita dixe rit, quod
ſuppofitum eft cubitalem magnitudinem ere, eo quid eft dicit, & quantum
fignificat. RES duorum generum propinquorum continuiatas diſcre. ti vnius tamen
generis remoti &analogi, quantitatis videlicet, in vnacubitali magnitudine
continetur,obid, duodicit, qui magnicu dinem cubitalem ,effe magnitudinem
duorum cubitorum , &quid , quando dicit magnitudinem , et quantum , quando
dicit,cubitorum duorum , hinc manifeftum eft in ynoquod prædicamento reperiri
quid,vthoc Ariſtotelis exemplo patet demagnitudine,aliud eft no tandum ,
quomodo vnum accidens,vt duorum ,quod ad Arithme ticam pertinet,accidere
magnicudini,quod ad Geometriam attineta CAPVT DECIMVMTERTIVM, QVAEDAM enim
statim &nominibus alia ſunt,vtacu to in voce contrarium eſt graue, in
magnitudine autem , acuto , obtufum contrarium est. Multiplicita - tem huius
vocis # (acutumdemon Itrat Ariſtoteles, quia et angulum norar, & vocem , #
US Angulus accutus rectominor & contrarius eft obruſo , &voxac cuta
graui vociopponitur, et graui contrariatur accutum in voce, leue in
ponderibusgraui oppugnāt. Sed dubitatur,cum quantitati nihil fit contrarium ,
quo pacto acuto angulo obtufus contrarius fit ? Dico quod angulus noneft
quantitasfed ex quantitate quan . titati adiuncta proueniens accidit quãtitati
vt fit accata vel obtuſa pariterque pondus &lauitas funt quidem
magnitudiniadiuncta , fed no eſ pondus,et leuitas, quatitas, ſi contraria fint
leue et graue. cantus IPSIvero queà conſiderando eft, quòd diameter cofta incom
menfurabile , nihil. DEincommenfurabilitate coſtæ cum diametro abunde faris in
pofterioribus declaraui,quantum vero adhunc locumattinet, Art ſtoteles inquit,
non effe quippiam oppofitum ipfi incommenſura bilitaci,vrpura commenfurabilitas,
inter coftam atque diametrum quadrati nihil contrarij eft,dubitatur,cum in
præcedenti textu, ſit de terminatum,& ea quęaddita eránt magnitudini, vt
pondus & leui tas contrariarentur,hæc autem quæ magnitudini coſtę &
diainetro, vtincommenſurabilitas, non contrarietur commenſurabilitati?
Reſpondeo, prius dicta cótraria pondus et leue in naturalibus reppe
riebantur,hæcautem incommenſurabilitas in abſtractis geometria cis; Præterea,
nonfuit dictum omnia quæ in magnitudinibus re periuntur eſſe contraria
,Pręterea & li opponanturcommenſurabi liincommenſurabile,non tamen
contraria ſunt, vel etiam fi contra ria fint,non tamen ratione ſubſtractorum
,quçſuntquantitates,co fta & diameter, contraria effe dicuntur , potus enim
fitinon eft nifi quodammodo contrarius, delectatio autem , quæ ex potu prouenit
opponitur contrarie triſtitiæ , quæ prouenit ex fiti, Præterea graue &
leweſuntabſoluta quædam in diuerfis ſubiectis poſita ſeorfim ,
incommenſurabilitas autem relatio eft ; quæ indiſcriminatim funda tur in coſta
,ad diametrum & in diainetro ad coftam . CON SIMILITER autem et acutum ,nam
non eodem mo do in omnibus idem dicitur,nam vox acuta quidem velox ,quemad
modum quidem dicunt ſecundum numeros armonici. NOTA dignnm eft hocloco
conſiderandum , a vox hoc lo co non accipienda eft pro humana voce tantum , ſed
pro ſono , qui quidem fita cordulis inſtrumentorum , nam gratilior corda fitan
gatur plures aeris percuſsiones facit quain crafsior cordula , fiea dem vi
moueatur, modo inter percuſsiones multas aeris cordulæ gratilioris ad
percuſsiones cordulæ craſsioris fi inultitudine repere ris duplam ,diapaffon,
fi fefqualteram , diapente , fi vero epitritam diateſaron, vt aiunt Armonici
continentiam inuenies, quia tamen Ariſtoteles de generatione animalium libro
quinto capite feptimo pucat concinentiam fieri ex alia caufa quam ex
proportione illo, rum ſonorum numeratorum ad alios fonos numeratos,vt pytha .
gorici volunt, ideodicit quemadmodum quidem, vt dicuntarmo nici, quia fententia
Ariſtotelis alia atque diuerfa eft ab illis armoni cis, qui Pythagoræ affentiri
videbantur, CAPITE DECIMO VARTO, ET quòd pun&tusin linea do vnitas in
numero , nam vtrun . que eft principium . PRÍNCIPIV M lineæ punctus ,
principium autem nu merivnitas eſt, ſed punctus non componitlineam alős punctis
ap pofitus,vtin pofterioribus demonftraui,vnitas vero cuin alñs vni tatibus
numeruin conftituunt atque componunt, principium tamé lineç atque finis
,punctus eſt ex cuius fluxu linea fit vt Ariſtoteles in mechanicis & ego in
diſcurſu geminico determinaui, non tamen linea ex punctis conſtat , LIBRO
SECVNDO CAPITE SECVNDO. 2 VEL duplicis & dimidij. AN ſit ne eadein
diſciplina duplicis atque dimidă conſiderare oportet, quod profecto allerere
videtur ex capire de relatiuis, cum nemo ſciat duplum ,niſi cuius ſit duplum
ſciueric, quod diinidium eft, fi pro relatiuis vtrunque ſuſcipiatur. HOC autem
non ſemper faciendum , fed quando non facile pojumus communem in omnibus vnam
rationem dicere, quemad modum Geometra quòd triangulus duobus rectis æquos
isabet tres angulos. NVLLI id in controuerſiam venit, an omnis triangulus ha
beat tres angulos duobus rectis æquales , ſed illud dubium eft,an id quod
rectilineumeft,habens angulos duobus rectis æqualis,trian gulus ſir, velquid
horuin in plus fe habeat, & non fit vtrunque ſe cundum q ipſum, ſed
vniuerſalius fit, habereangulos duobus reo Ctis æquales, atque comunius,an
potius triangulum effe, ad quam dübitacionein , dico quod duobusrectis pates
habere angulos, eſt quid communius , quam efſetrigonum , id autem inanifeſtum
eſt de pentagono , cuius quodlibet latus, duo ex reliquis lateribus fec cat
latera , id autem per primam partem 32, primiElementorum bis fumptam & per
fecundam partem eiuſdem zz. ſemel ſum pram, vt in figura ſubſcripta deduci
facile eft, & fi habere tres çqua les duobus rectis conuertatur cum
trigono,non tamen habere om nes angulos equales duobus rectis ,conuertitur cum
effe trigonuir . Dico igitur, quod habere omnes angulos equales duobus
rectis,co mune eſt ipſi trigono, & pentagono, cuiusvnum latus ſeccat duo ex
reliquis latera , habet tamen penthagonus quinque equales tri bus, qui tres
duobus rectis pares funt, & fic figuramihabentem B omnes angulos
duobusrectis pares communius eft, quam fit trian gulus, non igitur eſt affectio
trianguli neque angulorum triangu . li, fed quid communius trigono, vel tribus
angulis trigoni, non eft igitur eius proprium ,quod videturfoluere dubium fuper
textu mo tum ,fed affectio trianguli eft habere tantum tres equales duobus
rectis,velęqualitas duobus rectis, conuenit tribus angulis figuræ triangulari,
& non omnes angulos, elle çquales duobus rectis. VEL pt buius a fecundum
lechu ius ſecundum acci dens, vt fecundum Se quidem quòd tri angulus duobus re
b Etis æquales habeat tres angulos, ſecun . dum accidens autē, quòd æquilaterus,
quoniam enim acci dit triangulo,& qui. laterum effe trian gulum , perhocco
gnoſcimusquòdduo bus reétis habeat internos. QVIDAM interprætes fic perperam
exponunt Ariſtotele , quod habere tres duobus rectis pares,ipfi triangulo per
ſe infit,ipfi vero Iſoſcheli cõuenit quidem habere tres duobus rectis parcs,
ſed non per ſe,ſed per accidens , fic vt hæc predicatio , Iloſcheles habet tres
duobusrectispares, ſit accidentalis,hec quidem ſua interprę. tatio & nulla
eſt, &nullo modo ad Ariſtotelis textum facit, quod nulla fit, & falfa,
manifeſtum eſt ex capite de per fe in poſteriori. bus, quia quod enim ſuperiori
per fe ineft &inferiori pariter per ſe ineſt, ineſt tamen ſuperiori perfe
& primo, inferioriautem , per ſe fed non primo. Aliter igitur exponendus
venit is textus , primo igitur aduertendum quod circa idem ſubiectum fit
prædicatio per fé & per accidens, vtpura circa triangulum , per fe quidem
fic, tri angulus habet tres duobus rectis pares, per accidens vero ſic, trian
gulus eſt Iloſcheles; vbi aduertendum ,vtin præcedentibus libris declarauit
Ariſtoteles,omne inferius ſuo ſuperiori accidens eſt,cum abeffentia fuperioris
omnino fecludatur inferius, & vt alienum a fui natura ſibi conueniat. LIBRO
QVARTO. CAPITE PRIMO SIQVIS infecabiles ponens lineas , indiviſibile genus
earum dicat eſſe , nam linearum habentium diuifionem non eft quod di Etum eſt
genus, cumſint indifferentes ſecundum ſpecicm , indiffe-, rentes enim ſibi
inuicem fecundum fpeciem rectæ lineæ omnes. TRACTATVS quidem de lineis infecabilibus
extat,e greco latinitati donatus quem Ariſtotelis quidem effe exiſtimant,
tametfi Georgii pachimerñ nonnulli effe dicunt, quod, quia cuiuf cunque
fuerit,non facit ad expofitionem litteræ affequendam , me rito prætermitto
auctorem fore inueſtigandum ,vt Ariſtotelis decla rationi infiftamus, pro quo
in memoriam reuocandī eft id, quod Porphyrius habet, ſuperius genus de
inferioribus ſpeciebusneceſe, fario predicari, quod fi de illis non
prædicauerit,neque ad illas, illud eſſe genus manifeſtum erit, quapropter
fiquis inſecabiles poſuerit lineas,atque ad illas genus id, quod eft
indiuifibile,effe dicat,ftatim in contradictionem reducitur,ob id , quia
,diuiſibile,genus eſſe ad li ncas conſtat,modo lineas omnes eandem
deffinitionem ſuſcipien . tes,eiufdem ſint fpetiei, fieri autem nequit , vt
aliqua eiuſdem ſint ſpeciei, & genere fint diuerfa, quod quidem
contingeret, fi indiuifi bile,ad lineas aliquas, genus effe diceretur,tunc enim
indiuiſibile di ceretur de lineis infecabilibus p hypothefim cũ fic ſupponatur
( fal ſo tamen ) ad illas eſſe genus, & etiam de alñs, quæ per 10. primi
Elementorum ſecabiles ſunt cum etiam adillas ſit genus, quod qui dein efle,
nullo modopoteft, propter contradictionem , CAPITE SECVNDO. ET ſi differentiam
ingenere poſuit tam quimſpeciem ,vt im par quidem numerum , Differentia quidem
numeri, impar, & non ſpeties eſt, neque videtur participare differentia
genus,nam omane quod eft, genus, velfpeties, vel indiuiduum eſt, differentia
autem , neque fpeties, neque indiuiduum , manifeftum igitur quoniam non
participat genus differentia , quare neque imparopetieserit , fed differentia
quoniamnon participat genus. B ñ 9 tra NVMERV S quieſt ex vnitatibus profuſa
multitudo,paro ; titur in numeruin imparem , &in numerum parem , vel perhas
differentias diuiditur, quę ſunt, paritas, & imparitas, quarum neu includit
numerum, qui genus eſt ad omnes numeri ſpecies,& fi ifta vera fic,rationale
et animal, quando ly rationale accipitur pro Specie, quæ homo eft, & non
pro rationalitate in abſtracto, qux eſt hominis conſtitutiua differentia ,eodem
modo, & numerus prædi catur de pari in concreto & non de abſtracta
paritare, hęcenin & fimiles illi, ſunt ſemper falle, paritas eſt numerus,
vel imparitas eſt numerus,quodquia oinnia manifeſta , & nora Ariſtoteles cíle
vo . luit, exemplo arithmetico declarauit, A 11 PLIVS ſi genus in petie
pofirit, vt contiguitatem id ipſum quod eſt continuitatem , non enim
neceſſariuin contingui. tatem continuitaternelle, led e conuerſo ,
continuitatem contigui tatem non enim omne contiguum continuatur, led quod
cortina tür contigurn eft. CONTINVVM illum effe dico cuius partes copulantur ad
terminuin vnum communem, qui quidem terminus elt tantuin potentia inter illas
partes ipſius continui, nõ etiam actu, &opere, vt linea lineæ continuatur
per punctum , qui non actu exiſtit, ſed tantum potentia inter illas duas lineas
, velinter duas partes linex , quod & de partibus ſuperficiei , quæ per
lineam in potentia copu lantur, &corporis partes, per ſuperficiem in
potentia, Contiguum autein illud effe dico , quod alteri applicatur &
iungitur non per mediuin potentia exiſtens,fed per mediuin quod actu &
opere exi 1tit, vt manifeſtum eſt de cæleſtibus orbibus , concaua eniin ſuperó
ficies ſuperioris orbis augem defferentis, & fuperficies connexa or bis
differentis epy ciclum ſunt due ſuperficies actu exiſtēres inedia , per quas
continguantur adinuicem illi orbes, non tamen continu : antur adinuicem: Cælum
primū continuum quoddam eſt, & con. tiguaru: Cælo nono ſecundum fuperficiem
concauam ipfius pri mi mobilis actu exiſtentem ,non tamen fequitur , primum
mobile eſt contiguum cum nona ſphera , igitur continuum eſt cum nona iphera
,quemadmodī non fequitur, quinque digiti adinuicem funt contigui , igitur
quinque digiti ſunt continui, ſed bene ſequitur , quinque digiti ſunt continui,
igiturquinque illi digiri ſunt conti gui, vt quando clauditur manus, vel manus
aperiatur quinæ digi zi aeri ſunt contigui ,vel aquç contigui, li in anforæ
aquam inanum ponas , vel etiain cirotececontiguantur , & ratio eft, quia
vnum quodque naturale corpus, alteri contiguatur , ne vacuum daretur in natura
, 7 CAPITE TERTIO . CONSIDERAN DV M autem eſt , fi quod translatiue. dictum
eſt, ut genus aſsignauit,vt temperantiam , confonantiam , nam omnegenus proprie
deſpeciebusprædicatur,conſonantia ve. ro detemperantia ,non proprie,fed
translatiue, omnis enim confo Wantia in ſonis eft. CONSONANTIA eſt diſsimilium
vocum acuti gra . uiſque in vnum redacta concordia, quæ fine ſono, quę aeris
percuſ fio eft fieri nullo modo poteſt, illa autem confonantia quæ transla tiue
dicitur, quæ effrenatam libidinem moderat , non quidem a ſo no , quæ eft aeris
percuſsio , fed illa quidem eſt , quæ a concordia diſsimilium dicitur, hæc
autem non neceſſario in Conis reperitur, vt eſt illa ſupercæleſtis Armonia ,
quæ nil aliud eſt , quam coeleſtium motuumdiuerſorum ,in vnam munditotius
conſeruationem apta concordia, quam celebrant quidem illi ſapientes pythagorei,
quos gratis in libris de cælo redarguit Ariſtoteles, quam armoniam di ces illam
effe de quaMarcus Tullius in 6 derepublica, cui de ſoin . no Scipionis nomen
indidit, docte meminit, hanc quidein dico nul lo modo conſtare in fonis, ſed
illam quam libro primo capite deci mumtertio & in hoc capite tetigit
Ariſtoteles , ... CAPITE QVARTO. AVRSV M ji non ad idem dicitur fpecies 2
ſecundum ſe, da fecundumgenus , vt fi duplum dimidiy dicitur duplum o multi
plum dimide oporter dici, li autem non, non erit multiplam genus cupli,
abundansſimiliter cicitnr ſimpliciter ſecundum om . nia fuperiora genera ad dimidium
dicetur. ABVNDANS numerus is eſt, cuius partes omnes fimul additæ in vnum
exuperant totum illud cuius partes erant , vt duo, cenarius eſt abundans , quia
6,4, 3 , 1, ſiin vnum aggregentur 16 coinplent maiorem numerum duodenario , de
quo quidem abun . danti, qui eſt fimilis centimanugiganti , non loquitur
Ariſtoteles hoc loco, fed abundansillud eft, quod ſuperius eſt ad multiplum, ad
ſuperparticularem , & ſuperparrienrem , abundans præterea ,vthic accipit
Ariſtoteles,eſt ad aliquid, quod etiam de multiplici, at& lu
perparticulari, & ſuperparrienti, &de omnibus ſub illis contentis,
dicitur ,duplum igitur triplum ,quadruplumque cummultiplun lit & pariter
vnumquodq; abundans erit, fi igitur abundansnon eſt, non eritmultiplum ,neque
etiam duplum , itaque abundans vniuer lale magis quam multiplum eft . 1 era
CAPITE SEXTO, QVONIAM autem muſicum , qua muſicum eftfciens,elle muſica
ſcientia qua eft. MVSICA enim quathenusmuſicũ effe facit , nõ quathenus
cantorem , qualitas eſt de prima qualitatis fpecie ,quathenus autem ſcientia
eft, &fciens facit, relatiuum quidem eft, vt in capite ad ali quid fuit in
prædicamentis determinatum . NVMERVM diuiſibile,e conuerſo autem non,nam
diuifibi le non omne, numerus, DIVISIBILITAS non modo magnitudini ſed etiam
numero conuenit, non tamen omni numero , ſed numero tantum pari,impari autem ob
vnitatis interuëtum nequaquam , Veletiam melius erit dictu , diuifibilitas in
duo æqualia , numero tantum pari conuenire, diuiſibilitas autem fimpliciter
omni numero conuenire, id quod Ariſtoteles hoc loco velle videturdicere, ſeu in
duo æqua. lia,vel in duo inæqualia numerus ipfe diuidatur , fic vtdiuiſibilitas
in partes integrales cuilibetnumero conueniat , non diuiſibilitas in partes
aliquotas omni numero, ſed tantum numero pari conuenire eft neceffe, aduerte
etiam quod ipfinumero primo conuenit diuili . bilitas in tot partes, quot
vnitates habet;in plus igitur ideft ,quod diuiſibile eft, quam id ,quod numerum
eſſe, quia diuiſibile, eſt com mune ad diſcretum , quod in partes aliquotas &in
partes integran tes diuiditur etiam ad continuum ,ſequitur igitur recte,numerus
eft, igitur diuiſibile, ſi diuiſibile accipiatur commune ad id, quod in ali
quotas & integrantes diuidatur partes, &non econuerſo , vt diui fibile
eft , igitur numerus, LIBRO QVINTO, CAPITE PRIMO. LOGICV M problema . PROBLEMA
apud Euclidem eſt propoſitio ,in qua vnum datur, & aliud (vt in pluribus)
quæritur, vt ſuper datamrectam li neam triangulum collocare, linea quidem datum
eſt, quefitum au tem ef trigonum ipſum conftituendum ſuper lineam datam , ſem
per enim problema verſatur circa praxim ,quapropter, problema Geometricum
,eftpropofitio practica , Theoremavero Geometri. cum ,eſt ſpeculatiua
propoſitio ,modo Ariſtoteles non ingnarus hu. ius duplicis fignificationis
problematis Geometricc, & logice,pro pofitionem dubiam ad vtráque partem,
dixit problema logicum , &non Geometricum debuifTe intelligi, inquit enim ,
logicum au tem eſt problema,ad quod rationes fiunt, &crebræ quidē, &
bong CAPITE SECVNDO . ERIT enim ſecundum hoc bene poſitum humidiproprium , vt
qui,qui dixit humidiproprium , corpus quod in omnem figuranı ducitur, vnum
aßignauit proprium , o non plura ,erit fecundum boc bene pofitum humidi
propriuns. FIGURA hicaccipiatur in corpore locante humidum ,humi. dum enim cum
corpus fluxibile atque dilatabile fit , ſuſcipit quan cunque figuram a re
locànte, quæ figura, feu natura, fiue etiamarti ficis opere introducta fit , in
illo vaſe locantehumidum , accipere igitur hocmodo figuram a re locante ,
proprium eft ipfius humi di, & non alterius cuiuſque, NON omne ſenſibile
extra ſenſum faftum ,immanifeftum eft, latens enim eft, fi adhuc ineft, eo quòd
fenfu folo cognoſciiur, erit autem verum hoc ,in his, quæ non ex neceſitate
ſemper conſequun tur, vt quia, qui pofuitſolis proprium , aštrum quod fertur
fuper terram lucidiſſimum , tale vſus eſtin proprio ( ſuper terram in ,
quamferri) quod ſenſu cognoſcitur, non vtique erit benefolis af fignatum
proprium immanifeſtum enim erit cum occiderit ſol , si adhuc ferratur fuper
terram , eo quòd nos tunc deſeruimus fenfium . CECVS enim huius quod eft, folem
fuper terram ferri,nul. lam habet ſenſationem ,ſed videns, illius ſenſationem
habet quan do folem ſuper terram in die artificiali conſpexerit, quam primum
autem fol occiderit , & fub orizonte conditus fuerit , definit ſenſus
percipere folem fuper terram ferri, fi igitur illud proprium eſſet folis , illo
deficiente, ( quod contingeret nullo conſpiciente ſo lem ferri ſuper terram )
proprio , & Sol , effe defficeret , quod quia abſurdum , non igitur
proprium eft folis eum videri ferri fuper terram , licet femper Sol ſuper
terram fereatur, id etiam , haud folis proprium eft , cum fyderibus omnibus,
Igni, Aeri ſem per conueniat , id autem quod proprium eſt , conuenit omni foli
& femper,inodo fecunda particula, (quod eft foli) non conue nit foli, fed
etiam alijs a ſole, & a fyderibus, & elementis, conuenit; Præterea
folem femper ferri ſuper Terram , & fi proprium ſolis ef fet,illud tamen
non eſt ſenſibile, led immaginatum ,perceptibile,vel intelligibile, particula
tamen illa aftrum lucidiſsimum , ipfi tantum foli conuenit, CONSTRVENTI vero ,
fi tale aßignauerit proprium , quod non ſenſu est manifeſtum , aut cum ſit
ſenſibile ex neceſsitate ineſe manifeftum eft,hoc benepoſitum proprium , vt
quia, qui po fuit fuperficieiproprium quòd primum coloratum eſt, ſenſibili qui
dem aliquo vfus eft (coloratum eſſe inquam) tale quidem quod ma nifeſtum est
ineſſe ſemper, erit fecundum hoc, bene aſsignatum fit perficiei propriim.
IMMEDIATVM ſubiectumn coloris fuperficies eſt , ſub . ftantia enim colorata
eſt, quia corpus coloratum ,etideo corpus co loratum eft, quia ſuum extremum
eft coloratū , extreinum autem, ſeu terminus, ſub quo corpuscontinetur
ſuperficies eft , in qua im mediate color fuſcipitur, iſtud autem proprium ,non
ex natura ſu perficiei profluit , fed extrinſece aduenit color ipſi ſuperficiei
, quæ quantitas quidem eſt, color, autem qualitas , fed cum ſenſibili per
fenfum percipiatur, & fecundum apprehenſionem fiat exiſtimatio, et quia
ſuperficies omnis,affecta ſit colore, ſequitur quod recte pro prium afsignabit
ſuperficiei , fiquis dixerit eain effe coloratam & erit proprium
ſuperficiei, proprium quidem ſenſibile,non tamen ex intrinſeca natura
ſuperficiei. CAPVT TERTIVM. PRIMVMergo deſtruenti quidem, infpiciédum eſt ad
vnum quodque eorum cuius proprium aßignauit, vt ſi nulli ineſt; aut fi non
fecundum boc quidem verificatur, aut fi non eſt proprium c18 iuſ que
eorumſecundum illud cuius proprium aſsignauit; non enim erit proprium ,quod
pofitum eſt elle proprium , vt quia de Geome tra non verificatur
indeceptibilemeſe ab oratione (nam decipi tur Geometra cum pſeudographiäfacit )
non erit hocſcientis pro prium , non decipi ab oratione. HIC locus videtur
opponi ei quod Ariſtoteles determinauit de Geometra primo poſteriorum ,vbi ait
Geometram non mentiri concipientem 9 concipienten lineam bipedalem, quæ
tamenminimebipedalis eſt, fed fiquis recte inſpiciat,nulla certe oppoſitio
apparebit , fed vtera quelocorum mutuo ſeſe alternatim declarabit, cuinam in
dubium illud venit,fępemens ynī interne concipere, quod falax manus ex
trinſece, illud peruertit: hoc quidé prothagoręfæpe contigiffe reffe runt, vt
aprehenfo, ad ſcribendum calamo,id ſcripfiffe quod men ti fuę opponeretur,
& id vitii non ſolum manui, fed linguæ ſæpe etiam contingit , quis enim id
in feipfo non eft expertus . vt quan doque ynum ex inſperato lingua profferat,
Q tamen aliter mente prius conceperat,id autem etiam cuidam Geometræ, ſi
contingar, vt perperam ſemicirculos deſcribat veltrahat lineas,non vt opor tet
( vt interiusprius mente concepir) ficut primo topicorum capite primo fuit
declaratuin ,non tamen id proprium eft Geometræ ,cum non ſemper vnicuique
Geometræ conueniat , ſed raſo etiam vni accidat. LIBRO SEX TO . CAPITE TERTIO,
SIMPLICITER igiturnotius , quod prius eſt poſteriore , vt punctum linca, o
linea ſuperficie , & ſuperficiesſolido , quem admodum vnitas numero prius
enim &principiã omnis numeris. VIDETVR hic textus contra determinationem
philoſophi primo de phiſico auditu capite de primo cognito, vbi determinat de
circulo p priino cognoſcitur, quam quod fit figura plana vna linea contenta :
pro cuius loci huius &illius intelligentia , fcire debes deffinicum cum
ignotum ſit, per deffinitionem explicatur,ipſa vero definitio per ea quę nota ſunt,
ingnotum definitummanife ftum facit, quod Euclides,vbilineam rectam deffinit
primo Elemē. torum prius punctum explicuit,quiin deffinitionem lineæ ponere ,
tur, vt furt declaratum capite de per ſe,primopofteriorum fubinde lineam per
punctum , & fuperficies per lineam , & tandem libro 11 , corpus per
ſuperficiem deffiniuit , quo autem modo diuerſo ſe ha heat punctus in linea ab
eo modo, quo vnitas in numero,id in na lyticis capite de per ſe fuit
manifeſtīt, ſed id in dubiữ verticur , quo nam modo corpore ſuperficies, &
fuperficie linea , &linae punétus noctiora fint:'cīí hæc omnia apud
Geometrā, & ftereometram ab ſtracte conſiderentur. Dico quod cum
abſtractione in his omnibus minor & maior fimplicitas repperitur,vt in
puncto quam in linea &fic deinceps, Adid autem de primo phiſicorum de
circulo nulla videtur oppofitio in Ariſtotelis verbis, ibi enim de vniuerfali
con fufe aprehenſo hicauté de ſinipliciori dictincte concepto loquitut C 1 pro
no OPORTET autem non latere quædam fortaſſe aliter deffi niri non poffe,
vtduplum , line dimidio. ID notandum euenit hoc loco , quod Ariſtotiles capite
de ad ali quid poft multa examinara ibidemn determinauit,quodad aliquid non
eft, cuius effe fit elle alterius, fed cuius eile eft ad aliud quodam modo
refferri , vt dupli efTe, fic eft, vt abfque relatione ad illud cu ius eft
duplum minimne poflit percipi, licet non cognoſcat illud fub nomine &
natura dimidii,ſed tantum quathenus duplationen ter minat, quę fundatur in eo,
quod illa duplatione duplum eft. OPORTET autem ad deprehendenda talia fummere
mine orationem , vt quod, dies, eſt ſolis latio fuper terram. QVI deffiniet
diem artificialem ( qui incipit ab emerſu ſolis ſu pra orizontem vſquequo
accidat ) ponit in definitione lationem ſtelle apparentis fuper terram (qui fol
dicitur )nam qui die vtitur & ſole vei neceffe eft , acquiſolem deffinir,
ſtellam in die apparentem dicit, in qua deffenitione alterius,alterum ponit eo
modo quo ea , quæ ad aliquid deffiniuntur, RVRSVS fieo quod e diuerſo diuiditur
, id quod e diuerſo di uiditur diffiniuit, vt impar eſt qui vnitate maror eſt
pare , fimul enim natura, quæ ex eodem genere e diuiſo diuiduntur, impar au.
tem & parediuerſo diuidunt,nam ambonumeri differentia . PRETER eas quas
Euclidesin elementis & Boetius primo Arithmeticæ deffitiones de impari
atque,pari numero dederunt,hęc Vna eít ,qua in comparatione & non abfolute
imparemnumerum in ordinead parem deffinit fic vt neuter abfque altero intelligi
que at , & alter indeffinitione alterius ponatur,vtocto par , vnitatem
imparem feptem ſuperet , & hic fenarium parem eadem vnitate maior euadat.
Duo enim funt quæ diuidunt e diuerſo ipſum nume rum par, & impar, & in
deffinitione alterius alter ponitur,cum ad feinuicem rellatiue conſiderantur
& non abfolure , SIMILITER autem & fi per inferiora ſuperiora
deffiniuit, pt parem numerum quibipartiteſecatur , name bipartite ſuma ptumest
à duobus quæ paria ſunt. HIC textus obfcuriuſculus redditur in littera,ſenſus
tamen fa . cilis eſt , ſuperius enim fi per ſuum inferius deffinitur, vt notius
fia at, fuperius hic eft quod, bipartire ſecatur,inferius autem numerus eſt
par,optime enim fequitur, hic numerus par eft igitur, bipartite fecatur,fed fi
arguas bipartite ſeccatur igitur numerus eft,incõftans eft ifta argumentatio ,
neque y ſquam valida eft, nifi intelligatur 1 numerus in confequente pro numéro
numerato , vt funt etiam ma. gnitudines, quæ nuineri ſunt, vt in
pofterioribusdeciaratum eft per me, ita vtin conſequente accipiatur numerus pro
quodam comu. ni ad numerum numeratū &ad numerum qui eſt ex vnitaubus
profuſus aceruus,fic enim quod bipartitīī par numeruseft, & ficin
deffinitione ſuperioris, quod eſt bipartiri veimur oumero pari,qui inferior eſt
ad bipartiri ſimauis, bipartiri,a binario numero capias qui binarius
inferioreſtad numerum parem ,cum quaternarius, & ali quam plurrimi fint
pares numeri,modoqui in deffinitione nu . meri paris vtitur bipartiri , ille
quidem in ſuperioris definitione Vtitur ſuo inferiore , CAPITE QVARTO . AVT
rurſum qui deffinit noĉtum umbram terra . TERRA eniin cum ſit opacum corpus
radë Colaresnon pof. funt illud ingredi & vltra progredi ( quod in
traſparenti aericone tingit ,) ſed impediuntur a parte terræ , quæ pars ad
folem reſpicit, ex alta autem terræ parte,luminis priuatio contingit, quæ
priuatio luminis folaris fuper terram nox appellarur & cft liquis igitur no
Etem definiat, fic inquiens nox eft priuatio luininis folis ob er iæ opacitatem
proueniens , fimiliter terram quis deftiniens dicet, terra eſt corpus ex cuius
opacitace nox fit, vide quo pacto &ter am in deffenitione noctis, &
noctem in deffitione terræ & vtrun que in vtriufque deffinitione ponitur,
fequuntur quædam Ariſtore lis verba in textu de multiplici & ſubmultiplici,
atque de duplo & dimidio , quæ quia alias declarata ſunt pretereunda duxi ,
fed id no. tandum eft quod in deffinitione priuatiui , vtputa noctis , ponitur
poftiuum , vtputa terra , quod etiam in multis eft aduertendum , quia non ſolum
ponitur pofitiuum ,fed etiam priuatiuum , vtly pri uatio lurninis, CAPITE
QVINTO, Si autem aliquurum complexorum aßignetur terminus, con fiderandum eft
aufſerendo alterius eorum , quæ comple & tuntur ora tionem , fi eft &
reliqua reliqui, Nam fi non ,manifeftum quonia, neque tota totius, vtſi quiſpam
deffinit lineamfinalem rectam fic nem plani habentis finis , cuius medium
ſuperaditur extremis , ſi finalis linca ratio est ,finis plani habētis fines
recte oportet effe re liqui, cuius medium fuperadditur extremis,fed
infinita,neque me dium neque extrema habet, re &ta autem est, quare non est
relo qua reliqui oratio. ст · AVTEM quain ad expofitionem textus deueniam primo
liç terai Ariſtotelis in tralatione Argyropili et in textu Auerois cor rigendam
puto de mense Ariſtotelis ex Euclide iuxta cheonem , le gitur enim in vtroque
textu cuius medium ſuperadditur extre mis , vbi legi debet , cuius mediuin '
non reſulta ab extremis 86 Aueroes in expofitione fic interpretatur,cuius
inedium non occu . lit duo extrema, & videtur afſentiri ipfi Platoni
deffinienti rectă , recta inquit linea eſt, cuius medium non obumbrat extremna
, cæ , terīt mens Ariſtotelis eſt, quo pacto complexum deftiniatur often dere,
vt fi homo gramaticus deffiniatur,hæcenim erit ſua deffini tio , fíue
terminus,aninal rationale mortale recte legens atque ſcri bens, tota quippehec
ratio, huic toti coplexo , nempe, homo gram maticus,conuenit,modo liably homo,
ly gramaticus aufferatur, &ab ly animal rationale mortalely recte legens
atque ſcribens, vt fic dicatur, homo eſt aniinal rationale mortale ,
&gramaticus eft recte,legensatque ſcribens, peroptime data erit deffinitio
primo ipſius complexi,homo gramaticus,quod Ariſtoteles in Geometria
exemplificat,iminaginans (de mente aliorum ,) planum efle infini tum ſecundum
longitudinem tantum , finitum ſecundum latitudi. nem , quod quidein terminatur
linea recta, quæ eius finis ſecundū latitudinem ellet, modo ſiquis definiret
lineam finalem rectam die cens,effe finem planihabentis ( ſecundum latitudinem
) fines ,cuius ( quidein finis) medium non relultat ab extreinis ,hæc
particula, fi nes plani habentis fines , in definitione pofica recte conuenit
lineæ finalis, fed hæc particala , cuius medium non reſultat ab extremis ,
nonconuenit illi particulæ pofitæ in complexo, quæ eſt ly recta , velly linea ,
quia non conuenit niſi recrę lineç finicę , & non infi nitę, quęinfinita ,
vt fupponebatur, non habet medium , neque ex . trema,ideo deffinitio ipſius
totiuscomplexi minime recte data erat quia ficut vna ablata particula in
deffinitione conueniebat ablatę particule deffiniti , non fic reliqna particula
deffinitionis conuenit relique particule complexi deffiniti, $ I autem
differentia terminum alignauit confiderandum , fi eg alicuius numerun comunis
est aſſignatus terminus , vt cum imparem numerum aliusmdium habentcm dixerit ,
deter minandum est , quo pacto medium habentem , nam numerus qui dem , comunis
in vtrique rationibus eſt , imparis autem coaſſum pta eſt oratio , habent autem
&linea & corpusmedium , cum non fintimparia, quare non vtique erit
deffinitio hæc imparis. 12 IMPAR numerusin duoæqua dicendinequit ob vnitatis in
teruentum medium indiuilibilis denumerantis totum numerum cuius illa
vnitasıncdium eft , linea autem & corpus & ſi medium habeat,linca
quidem punctum medium , quod per 10 primielemen torum inuenitur fi diuidatur ,
& fuperficies medium habet diame trum, illa tamen media ,vt nec punctum
lineam ,neque linea ſuperfi ciem dimittuntur, neque illa componunt ea , quoruin
media ſunt, determinatū igitur eft, quo pacto numerus medium habet, & quo
pacto linea atque ſuperficies, & hoc de numero iinpari intelligas, cuius
inedium interduas partes æquales,vnitas eſt , & non de pari, ficut etiam
Ariftoteles ait in textu , CAPITE SEXTO . ex eis QV AE DA M enim ſic ſe habent
ad inuicem, vt nibil ex fiant ; vt linea numerus. LINEA in lineam fiducatur vt
45 primielementorum Eucli dis docet & prima et ſecunda; ſecundi elementorum
fuperficies pro ducitur, pariterque numerus, ſi in numerumduxeris,numerus pro
ducetur , vt ex ſeptimo elementorum manifeftum eſt , non tamen idem prouenit
per additionem, quia linea lineæ addita non facit ſur perficić, &fi hoc
milliesmillienamillia addieris adinuicemlineas, non reſultabit ſuperficies,
neque fi puncta ad fe inuicem addideris linea vnquam reſultabit, vnitas tamê li
vnitatibus, velvnitati,nu. merus (tatim reſultabit, qui acccruus eft ex
vnitatibus protufus, vt etiam in prædicamento quantitatis fuit declaratum.
LIBRO SEPTIMO. CAPITE PRIMO . Avr fi eodem ab vtroque ſublato , quod
relinquitur eſt alte rum, vt ſi duplum dimidi , co multiplum dimidij idem
dixerit elje , fublato enim ab vtroque dimidio , reliquu oporteret indicare,
non indicant autem, nam duplum &multiplum non idem fignificant. VLTRA cà
quæ de duplo & multiplo libro quarto capite quarto ibi dicta ſunt,vnum
illud conſiderandum eſt, quod a nega . tionc dupli ad interremptionem multiplex
fiquis argueret commit teret conſequétis falatiam vniuerſalius enim eft ipfum
multiplum ipfo duplo , vt eft animal equo vtrunque tamen ad aliquid eft, &
duplum ad dimidium , &multiplum ad ſubmultiplum . LIBRO OCTAVO. CAPITE
SECVNDO . . VIDET V R autem &in diſciplinis quædam ob definitionis deffe
&tum , non facile deſcribi, vt quoniam quæ ad latusſeccat planum linea
,fimiliter diuidit &lineam &locum , definitione au tem di&ta ftatim
manifeftum eft quod dicitur,nam eandem ablatio nem babent.loca d linea , eft
autem definitio eius orationis hac. DEFFINITIO ſecunda tertń elementorum
intellectum prebet huius deffinitionis pofitæ ab Ariſtorele , definitū eft ly
linea fec cās planum , definitio eft ly linea fimi a Jiter diuidēs lineam
&lo ct , fic enim Jittera ordi netur , linea quæ ad latus ſeccat pla num ,
eft li. nea diuidens lineam et locuni terminatum ab ipla linea recta , fieri
enim non po teft , vt linea ſecet planum terminatum linea , quin il.. la linea
terminans planum ſeccetur ab eadem feccante linea , id autē manifeſtum g eft ex
fecunda , tertia , & quarta definitione tertń elementorum Euclidis, &
alisexipfo tertio elemen forum , & xi fecundi, ly li. mea quæadlatusfeccat
pla num,vocatAriftoreies orationem in hocloco , vbi ait, oautem : deffinitio
eius orationis, hæc, id etiam dignī notatu cum deffinitio per genus, &
differentiam detur,loco generis in hac definitione, eſt ly linea diuidens
lineam , inodo cum linea prior fit plano, manife , ftum eft,quodde genere
dicendum erat in hac definitione, SIMPLICITER autem prima elementorum , pofitis
qui dem definitionibus ( vt quid linea vel quid circulus) facillimum oftendere,
verum non multis ad vnumquodque eorum eft argumen tari, eo quòd nonſunt multa
media , ſi autem non ponanturprinci piorum definitiones,fortaſſe autem omnino
impoßibile. PRIM A elementorum hoc loco ,non ſunt intelligenda princie pia, quæ
definitiones,petita,& animi conceptiones ſunt, ſed princi, pia ipſa,ſunt
propoſitiones,quæ in probleniata & theoremata diui duntur , quæ prima
elementorum, ideo dicunturcum per ipfa , quæ proponuntur in alís ſcientñs
probentur, vt quid fit linea,videlicet longitudo illatabilis, & quid linea
recta,cuius mediñ ſua ex æquali interiacet figna,tunc ſuper datam lineam rectam
triangulum colo care proponit prima, primi elementorum, & pofita
definitione cir culi per ipſam probatur triangulum ſuper datam lineam colloca.
tum effe æquilaterum , & folum perilla media videlicet definition nem
circuli 17 & primam animi conceptionem primi elemento rum, quæ definitio ,
& animi conceptio fi prius non ponantur diffi cile erit oftendere ,
fortaſſe omnino impoſsibile, quod triangulus conftitutus fuper datam lineam ſit
æquilaterus, 1 SIMILITER autem his & in his quæ funtcirca orationes Je habe
nt ; non igitur latere oportet , quando difficilis argumenta bilis eft poſitio
,quòd eft aliquid eorumquæ di&ta funt. LINE A quidem , atque circulus ſunt
quædam incomplexa quæ diffinibantur ab Euclide deffinitione tertia & 17
primi ele mentorum,fed linea quæ ad latus ſeccat planum , fiue linea ſeccans
planum ad latus , id totum complexum eft,atque compoſitum , & licut fieri
non poterat, vt oftenderetur æqualitas laterum trianguli, abſque definitione
incomplexicirculi, fic etiam fieri non poterit, vt quippiam de quopiam
demonftretur , quando in demonſtratione ingreditur aliquod extremum complexum ,
quia tunc vtimur toto iſto tanquam principio ,ly linea leccans ad latus planum
, nifi prius ipfius complexi atque orationis præierit deffinitio , quę eſt,ly
linea fimiliter diuidens lineam terminantem locum &locum , ita vtpar.
ticula illa circa orationes non intelligatur yt gramatici, & rhetores
intelligunt orationes, fed oratio , pro quodam intelligatur comple xo
indiſtantitamen , hoc eft fine copula, & verbo principali,parti cula illa ,
pofitio, cum inquit Ariſtoteles quãdo difficilis eſt pofitio , non intelligitur
pro petitione, feu petito , quia petitum non eft argu mentabile,hoc eſt per
argumentum probabile,neque difficile, ne facile , cum ſit primum principium
&non probetur , fed petitio in hoc loco accipitur pro ipfa propoſitione,
quæ probanda venit , ſeu fpeculatiua,vel etiain practicafit, feu problema, vel
etiam theore, ma fuerit,et tunc talis propofitio difficile argumérabilis eft,
quando inter probandam ipſam ,contingit aliquod deffiniendī , quod com plexum
fit, quod nifi delfiniatur,difficilis argumentabilis eſt propo ſitio , &
fortaffe omnino inpoſsibile , quando id quod dictum eſt contigerit,videlicet
quod complexum deffiniendum interueniat, ly fortaffe autem omnino impoſsibile
in præcedenti textu non dubi tatiue ſed magis comprobationis particula
accipienda eſt . 1 CAPITE TERTIO . VELV T Zenonis quòd non contingitmoneri,
neque ſtadium pertranfire. PROTERVI Zenonis eft fententia dicentis ftadium ,
quod octaua pars milliaris eft ,pertranfiri non polle, inter genera menſu .
rarum quæ magis notæ ſunt,ftadium numeratur,quod iuxta Ptho. Jamei ſententiã
primo Geographiæ eft milliaris Italici pars octaua. CAPITE QVARTO , OPORT ET
autem eum quibene transfert diale &tice,& non contentioſe transferre,
vt GeometramGeometricæ,fiue falſum fiue verum fit ; quod concludendum eft.
DIALECTIC A trallatio eft,quæ apparens quidem eft,et conuenientiam habet ad
illam remi fecundumquam trallatio facta eft , & non debet effe
dubia,contentiofa , & fophiſtica, ſed magis ad inſtar geometræ, qui nõ
errat aliquo pacto circa ſuam materiam er formam , vt primo poſteriorum
declaraui , vel etiam quitransſeng hanc vocem triangulus, a ternario numero, et
quadratum a nunc ro quaternario propter ternarium, & quaternarium numerum vel
æquicrus a duobusæqualibus tibás, vel gradatus propter tria 1112 - qualia
latera , quæ vt gradus concipiuntur, 2 CAPITE QVINTO. AXT fiquis corum qua
ſequuntur ſeinuicem ex neceſſitateal Strumpetat vt latus incomenſurabile cle
diametrofi oportet dia meter lateri. PRIMO pofteriorum fuit declaratum &
demonſtratū quo pacto diameter quadrati coftę fit incommenſurabilis , quantum
autem ad hunc locum attinet, non ſemper per ca que ſe conſequun tur
immediate,probatio fieri debet, fed medium debet effe aliquo modo idem cū
extremis,&aliquomodo diuerſum , vt in 10 clemë torum de diametro ,
&cofta eftmanifeftū ,Prçterea,non eft proban dumaliquod ingnotum per equc
ignotum, quod fi alterum peta tur in alterius probatione, nil penitus
demonſtratur, IN PRIMO ELENCORVM. CAPITE PRIMO, POSTQVAM enim ipſas per ſe res
in difputationem alla tas vfurpare dicendo non eſt, ſed vocum veluti
nutibus,rerum die ce primur, ſiquid in id incidit vitij,in ipſis eſſe rebus, nõ
in vocibus putamus,quod vfu venire his,qui calculisrationem ineunt, ſolet.
CALCULATORES noſtri temporis characteribus caldaicis vtuntur, per quos, in
numerorī cognitionem trahuntur , ficut per voces in rerum cognitionem ducimur,
IN TERTIO CAPITE, DIVISIONE vero,vt quoniam quinqueſuntduo et tria , fieri vt
paria fint imparia, & maius fit æquale . SI diuiſim ſummas3.& 2.
nunquam , quinque faciunt , ſecue autem fi coniunctim ,
&ceffatomnisinftantia. Neque dixit terna fium , & binarium , quia due
ſpecies numeri , non componunt terº tiam fpeciem numerorum ,ſed quinque vnitatcs
pro materia quiné sii accipiuntur. VD ANTVM vt quale,quale vt quantum . IN
primo pofteriorum in de triplici errore circa vniuerfale fuit oftenfum
,proportionem proprie circa quantum &non circa qua le effe, ita vi ſiquis
putet proportionem proprie eſſc circa quale, is quale pro ipſo vretur quanto
vitioſe. IN QVARTO CAPITE. AVT quod idem eiuſdem duplum , & non duplum ,
duplum quidem in longuni, non duplum antem inlatum . CVM dederic eiufdem ad
diuerfa : vt duo ad uſum &ad tria dat deinceps exemplum eiuſdein ad idem
fecundâ diuerfa tama, Vt linca a b quatuoc,ad lineam a cduo actu dupla eft ,no
autem dú pla in latū immo quadrupla elt a badac duo quod eft effe fuũ in
potentia , quod manifeſtuin eſt, in triangulo a bccuius ca b'rectus eft , id
autem manifeftum eft ex 46 primi Elementorum , Eucli dis, vel dicas ab duplam
ad a cin longitudine, non autem in latiu dine, qua caret, eft dupla 1 : 6
CAPITE ÖVINTO. NEQYE ſi triangulusduobus rečtis tres æquoshabet, & ei .
velfigură ,del primum ,vel principium eſſe dicit;quod velfigura , del primum ,
vel principium eſt triangulus eft, nam non quathe nusfigura del primum pel
principium , ſed quatbenus triangulus demonftratio erat . TRIANGVLVS enim
rectilineus figurarum rectilinea . sum prima eſt,ita vt fic & figura ,
& prima, & principium ,vt qui buſdam placet omnium figurarum
rectilinearum ,non tamen id ve tum eft fecundum Euclidis fcicum ; vtAs primi
clementorum dos cet, &vt Amonius determinat capite deſpecie ſupra porphirit
, ſed hoc loco famoſe loquitur Ariſtoteles, & determinat quod no con uenit
criangulo habere tres duobus rectis æquales , ratione corum quæ de eo dicta
funt, fed ratione ſui ipſius,non aucem quathenus,fi gura ,vel primī, &
principium neque etiam fi ifta fuſius accipian tur,figura,primüm principium
inferunt triangulum efle , arguere. tur enim ex conſequente ad antecedens,
& exmagis vniuerfale ad minus vniuerfale,ex ſuperiorique ad inferius,
figura enim nedum triangulo conuenit, ſed pentagono &alijs multis,primum
nedum figuræ, fed etiamnumero principium quoque in naturalibus, & his quæ
arte fiunt repperitur, nedum in figuris cöpofitis (vt ais. bant ex triangulo
ſape ſumpto , Hoc autem ab accidente differt, quoniam accidens quidem 1 I 1 in
uno ſolo ſummere eft, vt idem ,elle flauum of melse album ege cygnum ,quod
autem propter confequens in pluribusſemper opora tet,nam quæ vni & eidem
funteadem er fibi ipſa poſtulantur elle eadem propter quodfit ea quæ propter
conſequens eft redargutio, eſt autem non omnino verum , viſifit album ſecundum
accidens , nam &nix cygnusalbedo idem ,autrurſum Melyſji oratio, ide elle
poftulat,fa &tum eſſe , &principium babere', autæqualisfieri Geandem
magnitudinem accipere ,quoniam enim principium ba bet quodfa &tum eft.co
quod factum eſt, babet principium ,fa &tum elle postulatstam quam ambo
eadem fint eo quod principiū fa &tu elle finitumquc habent, ſimiliter auto
e in his que æqualiafa &ta Junt, ſi eandem magnitudinem & vnam ſumendo
æqualia fiunt, et quæ æqualia faéta funt eandem dim onam magnitudinem ſum munt,
quare conſequens ſummit. TRES modos errandiin falatia conſeguentis adducit
philofa phus , primade accidente, ve de albo,aiebant quidam cõſequencia hác
valere, cignus eft ,igitur album eſt, & econuerſo ,album eft ,ige tur
cygnus eft ,determinat Ariſtoteles, quod album elle,vniuerſali us fit,quã effe
cygnum , a magis comune ad minus comuneargud do cõinictitur fallacia
cõrequêtis,albedo enim nedum eft in cygno, fed etiã in niue, & alñs
reperitur: Secundo vt Melyflus aiebat, hæc duo videlicet, ly factum efle, &
ly principium habere, vt recte fer quebatur fecundum Melyſſum factum eft,
igitur principiñ habet, principium habet igiturfactum eſt, principium enim
habere , vni uerfalius eft quam factum effe cælum enim principium habet, ma
teriain ſuam ſcilicet &formam , attamen, non eft factum , quia fer cunduin
falſam Ariſtotelis opinionem ſemper fuit, principiữenim .comune eft & ad id
quod materiam &formă haber, & adid quod cæpit efle , in tempore modo a
magis comune ad minus comune arguendo committitur error confequentis , Tertio
loco , aduertic Ariſtoteles quod eadem magnitudo , &æqualis magnitudonon
couertuntur,in plus eniin eſt æqualia effe,quam cadem effe,fiquis igitur
inferat,magnitudo magnitudini eadem eft,igitur magnitudo
'magnitudiniæqualiselt,recte quidem intulit, vi in probatione ſce cunde partis
quintæ lib. primi Elementorī vna &eadem linea di fit balis in duobus
triangulis eft , fibiipfi æqualis & in quinta & ſexta terti Elementorum
vna &eadé linea a centro exiens ad cor cunferentiam ( quæ duabos lineis ali
comparatur )elt æqualis fibi, fed non omne quod eft æquaļe alteri,elt fibi ipfi
idem , vipatet, in 1 . . tertia primi, Elementorum ,cuin de longiori æqualis
breuiuri ſinex linea feccacur, ob id Euclides, In quinto Elementorum propofitio
, ne 11.propoſuit probandum ,quod quæ vni ſunt cadera &libica: dem
ſunt,quod fi principiuin primafuiſſet, licuti eft, quæ vni ſunt E qualia inter
ſe ſunt equalia , non propoſuillet illud in quinto eile probandum ,quod
Ariſtoteles confiderauit, CAPITE OCTAVO. QVARE manifeftum eft, quodeo demonſtraționes
redargu. tiones funt &veræ quidem ,nam quæcunque demonftrare licet, ca
Gredarguere eū,qui contradi tione veri ponet,licet, vtſicomen furabilem
diametra pofuerit;redarguatquis demonftratione, quod incomenſurabilis;quare
omnium oportet efle , nam alia quidem ea quæ in Geometriaſunt principia
eorumque concluſiones &cæt. SIQ VIS diametrum commenſurabilem coſtæ ponat
redar , guitur ab Euclide lib , 10 elementoruin propoſitione 115, vel leo
cundum campanuin , per illam demonſtrationem , quæ ibi adduci . tur,quæ
demonftratio ,redargutio eft ipfius proteruiafferentis con . trarium , fic vt
pro declaratione huius textus fatis fit , quod ipía de monſtratio
veri,redargutio eft falli allerti,vel afferendi a proteruo, NAM ſecundum
vnamquanque,artem ſyllogiſmus falfus est, vt fecunlum Geometriam Geometricus ,
" VIDETVR ex hoc textú quod geometra paralogizet quod oppoſitum eft ei ,
quod determinatum eſt in poſterioribus, Geometram videlicet non paralogizare,
Dico Ariſtotelem loqui non de Geometrico fyllogiſmo in quo,neque circa materiam
nec circa formam error contingit , fed de fyllogiſmo in quo terminus, ſeu vox
aliqua repperitur Geometrica, contraria lux fignifica tioni a Geometra pofita ,
vt quod triangulus pro circulo accipia tur,vel error paratur in conſequentia
,vt fi triangulus, igitur dua. bus lineis clauditur , & vtroque modorum
erit pfeudogeometri cus fyllogifmus , vt fi quis pſeudogeometra per numerum
inipa sem æqualem pari fyllogizer diametrum commenſurabilem effe ipfi coſtr,hoc
ſuo fyllogilino non falſum redarguit, quin potius fal fum ingerit, de quo
fyllogiſmo pſeudogeometrico , hic Ariſtoteles Intelligatur , & non de
Geometrico , vt in pofterioribus determi, nauit philoſophus, & per me fuit
declararā , quo modo Geometra non paralogizat lad ſyllogizat, & id, hoc
loco in memoriam reuo candum eft , quod in prioribusde prima figura dictum fuit
, quo nam pacto Geometra illa vtatur, IN NONO CAPITE. ET la cuis viletur plura
ſignificare triangulus, deditque, nos, vt cam figuram de qua concludebat quòd
duo re&tis, verum ad in telle &tum illius difputauit,hic an non?
TRIANGVLVS enim eft figura plana tribus rectis li . neis contenta de qua
Euclides ſecīda parte 32.primi elementorum demonſtrat quod habet tres angulos
duobus rectis equales, modo fiquis immaginaretur quod triãgulus aliquid aliud
fit, a tali figura ( qui triangulus eſt ) propter id quod omnes anguli ipfius
figuræ fint etiam duobus rectis æqualcs , vtoninesanguli pentagoni,cu . ius
vnumquodque lacusſeccat duo ipſius reliqua latera, talis pro fecto non diſputabit
de triãgulo , quiaad intellectuin triangulinon reſpicit,fed ad aliud, vt ad
talem pentagonum , no enim neceffe eft, vequicquid habet angulos duobus rectis
pares, fit triangulus, nes quod habent tres duobus rectis pares , fed quæ
figura habet tan tum tres angulos duobus rectis pares,ille triangulus eſt.
VNITATEs binarijs in quaternzrijsæquiles efle,at binse rij hic quidemſic infunt
illiautemſecus, SIQ VIS ex illo principio, quæ vni & eidem ſunt æqualia,
inferre tentauerit quod binarij fint quaternarii, hoc medio, omnes vnitates
ſunt ęquales vnitatibus binarë,omnis numeri quaternarij vnitates ſunt
æqualesvnitatibus binarë, iglur omnes vnitates quaternarñ ſunt æquales
Vnitatibus binarij,igitur quacernarius eft binarius,ad maiorem & minorem
prime coufequentiæ dicendum, quod fi vnitates ſingulę & diuiſion
accipiantur concedendæ ſunt vtræque & confequentia prima , fed fecunda
confequentia interris matur , fi vero vnitates in maiori & minori
acceruarim ſuſcipian , tur vtraque præmiſſarum eft falla & fequitur
conclufio falfa , & les cundę conſequentiæ anteccedens eft falluin , &
conſequentia fequi tur, & conſequens etiam falſum eſt . CAPITE DECIMO ,
NEOVE liquod pſeudographum circa verum eft vt Hyppo cratis quadratura que per
lunulas, ſed qualiter Brifo circulã qua, drauit,tametficirculus quadretur,tamen
quis non ſecundum rem ideo ſophiſticus est, quare etiam qui de bis apparens
ſyllogiſmus cft,oratio plane eſt contentiola. / ! HYPPOCRAS tentauit circulum
quadrareper lunulas et reduxit lunulam deſcriptam ſuper coſtarn quadrati
inſcripti in ciro culo ad figuram rectilineam &exiſtimauit omnem lunulam
redu ci poffe ad rectilineam figuram , ob id fuppofuit lunulas deſcrip tas
fuper latus exagoni circulo inſcripti,poffe reduci adrectilineam figuram ex quo
ſuppoſito non demonftrato, progreſſus eſt ad cir . culi quadraturam
&variauit diagramma,tranfiens à quadrato ad exagonum , & tranfiens a
lunula exiſtente ſuper lacus quadrati in fcripti circulo ad lunulam deſcriptam
fuper lacus exagoni inſcripti in circulo , & fic preudographus factus eſt ,
Briſo fimiliter errauit circunſcribens circulo & infcribens circulo
quadratum ,vterque fo phiſtice proceſsit,et fyllogizarunt contētiofe, fed alter
in diagrāma te vt Hyppocras, reliquus vero in principäs proprös neque in illa
rione, reliquus autem in conſequentia , & quia vtebatur principös
coinmunibus, & fi circulus quadretur fophiftice , tamen non fecun dum rem ,
vt non per principia propria , neque per deſcriptionetti diagramatum ,hoceft
per cõſtructionem debitam figurarum ,nec ex neceffaria cófequutione
principiorum ad conclufionem ex illis principñsneceffario illatam, fyllogiſinus
igitur quo Hyppocrates & Briſo fyllogizabant quadraturam circuli,
contentioſa erat al tera ,vt quæ Brilonis, non contentiofa vero reliqua, vi hyppocra
. cis ,vti Ariſtoteles inferius in hoc capite declarat inquiens, CONTENTIOS A
vero quodam modo ſic ſe ad dialetti cam habet,quemadmodum pleudographa ad
Geometriam , namex eiſdem , diferendi modo,captiose & pſeudographa
Geometrice de cipit,fed hæc quidemnon eſt contentiofa,quia ex principys &
con clufionibus quæ funt fub arte pſeudographa facit ,quæ autem ex his
eftquafuntfub diale & tica,circa alia quide contentiofam efle mani feftum
eft,vt quadratura quidem , quæper lunulas non contentio Sa , Brifonis autem
contentiofa eft. ILLA ars quę falſum cöcludit vel potius artifex ille,an potius
pſeudoartifex qui ſyllogizat falium ex principiis veris vel ex theo rematibus
probatis, vt fecit Hyppocras in quadratura circuli,non contentioſe procedit,
quia ex propriis principiis & theorematibus Geometriæ ,Briſo autem
proceſſic ex his, quæ nedum Geometria , fed etiam aliis diſciplinis applicari
poffunt, vt, quæ vni & eidem funt æqualia inter fe æquaha effe conftat,quod
principium et Geo metriæ Arithmeticæ ſtereometriæ &ei quæ de ponderibus
tractat diſciplinæ applicari poteft, pariter ratio Antiphontisde quadratu. G 16
ra contentiora eft, qua negat principium Geometriæ , quod eft fe cundum
theorema certii elementorum Euclidis , & negat etiam li . neain poffe in
infinitum diuidi, & dicit rectum eſſe curuum , & cur uum rectum , &
dari duo puncta inmediata in linea circulari, quæ omnia fequuntur ex
conſtitutione hilochilium triangulorum qui conſumunt lunulam contentam a
circunferencia circuli & recta linea , CAPITE DECIMOTERZO . VT impar
numerus ejt medium habens, eſt aut numerus im par, eft igitur numerus, numerus
medium habens. IMPAR numerusa pari differt vnitatis incremento vel im
minutione, vt quinarius a quaternario , & ſenario, in his igitur vo cibus,
ly numerus & ly impar committitur vitium nugationis, quale committitur in
his quæ ad aliquid dicuntur , vt fimitas naſi quidem curuicas eft,modo fic
ordineturfyllogiſmus, Omnis impar eſt numerus habens medium . Sed numerus eft
impar Igitur numerus eſt numerus habens medium Ecce quod bis numerus reppetitur
in concluſionc, inaniter factum . LIBRO SECVNDO. CAPITE PRIMO , ACCIDIT autem
quandoque ficut in mathematicis confia gurationibus , vt illic quæ foluimus
quandoquecomponcre iterum non queamus. OVADRATVM, penthagonum , & cæteras
figuras re . etilineas reſoluimus in triangulos,non tamen ex triangulis quadra
tum fit ſed ex dacta linea recta in fe ducta deſcribitur&, 45primi
clementorum Euclidis, & cæteræ figuræ , vt ex quartolibro elemen torum
Euclidis patet,fed per id non videtur factum effe fatis textui Ariſtotelis,nifi
dixeris , quod non ea facilitate idem componimus, qua facilitate ſoluitur in
triangulos, vel etiam dicas quodin Geo metria abſolute non componitur figura ex
triangulis, & fi omnia figura rectilinea in triangulos refoluatur, fecus
autemin Arithmeti ca de mente pythagoræ , tefte Boetio libro fecundo
Arithmetices immo vnaqueque figurarum ſpecies , componitur ex præcedenu fpecie
et triangulo ,vt eo loco demonftratur, vel meliusex tot vni tatibus,
quotpræcedensſpeciesconſtat, & vnitatibus triangulorum , vt illis
declaratur locis, FINIS. VNIVERSA LOCA IN LOGICA M A R то тв LIS IN
MATHBMATICAS DISCIPLINAS HOC NOVVM OPVS DECLARAT. сум PRIVILEGIO. aistas f 4
VBNBTUIS IN OFICINA FRANCISCI ,COLINI, M D LVI . GROENIGLICHEN AD LECTORES .
Primum limen huius ingreſſus eft in hunc librum ,utintel ligat lector Euclidein
citatum eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim .
Pretcrca illud aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum
Ioannem Grammaticum , & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs , aut ly
uel,in fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco
numerus denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois , Illustriſsimo
Venetorum Confilio cautum eft , ne quis hoc Opus imprimere audeat ante
decenniuń , fubpena Ducatorum centum , áammißionis librorum ; ut in Priuilegio
conceſſo Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori ,
pro feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano : LASERLICH HOFBIB
WIEN L MARCOLINI, M D LVI . GROENIGLICHEN AD LECTORES . Primum limen huius
ingreſſus eft in hunc librum ,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe
fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim . Pretcrca illud
aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem
Grammaticum , & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs , aut ly uel,in
fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus
denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois , Illustriſsimo Venetorum
Confilio cautum eft , ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń ,
fubpena Ducatorum centum , áammißionis librorum ; ut in Priuilegio conceſſo
Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori , pro
feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano : LASERLICH HOFBIB WIEN
LCOLINI, M D LVI . GROENIGLICHEN AD LECTORES . Primum limen huius ingreſſus eft
in hunc librum ,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe fecundum Theonem
& fecundum Campanuim indiſcriminatim . Pretcrca illud aduertendum eſt quod
Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem Grammaticum , & nume rus
alius, cui præponitur ly aliàs , aut ly uel,in fronte ca pitis denotat
partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus denotatpartitionem
commentationis mas goæ Auerois , Illustriſsimo Venetorum Confilio cautum eft ,
ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń , fubpena Ducatorum centum ,
áammißionis librorum ; ut in Priuilegio conceſſo Domino Presbitero Petro
Cathena artium & facræ Theologie Doétori , pro feßorique publicoliberalium
artium in Gymnaſio Paduano : LASERLICH HOFBIB WIEN LIOTHEK PETRVS CATHENA
VENETÝS PRESBITERORVM OMNIVM MINIMVS REVERENDISSIMO DOMINO MARCO LAVRETANO
EPISCOPO NONENSI, · AC PATRONO S V O COLENDISSIMO . S. P. மரா NTER
munera ,quæ diuiniore calculo benigna humanitatis arti fex natura nobiscontulit,
uirtu tum de litterarum facratiſsime antistes , ad poftremum haud quaquam
adducitur ipſa ratio , nempe ad quamomnia prope quæhumana addicuntur ſubstan
tiæ ad unum adhæferunt, cuius munere ſi quis minime recte ufus fuerit ipſum
naturæ aduerſari , atſi bonis artibus que de periere iam &deciderunt,
quippiamſplendoris &utilitatiscor rogauerit & farcuerit, illum
rationismunereperfunctumeſſe ne mo nefciat , hac de caufaconſiderans hominum
mentes eodem effe quo arua fato , quæ ſi excolantur bona ſinegligantur mala
perfe runt germina,uidiſſem multos , qui philofophi nominari uolunt prepoſteris
imbutos litteris,quorum mentes ſentes alunt Gmon stra , quibusuellicandisne
unus quidem Herculesſatiseffet , uin Etum in inestricabiles laberinthos quin
potius in carcerem te terrimum Aristotelem ut ciuimilites traxiſſe,qui
inutilibus que stionibus &Græcis tenue intincti literis, bomis
artibusnegletis , fimiles factifunt oculo , qui quòd in tenebris fit lucem
flocifecerit Aij decreuiquoingenijuires ,etiam fi exignas( nam apprime noui
quàm fitmihi curtaſuppellex ) expenderem in eruendo Ariſtotele ex illo obfcuro
, id autem tam comode quàm apte fieri putabam ſi Mathematica exempla ſua
expreſsiora redderem , quibus in ex plicandis Logicis ufusfuit ipſe prefertim
hoc tempore qua publi cis lectionibus Mathematicis in PaduanoGimnaſio
incumbebam , ad huius etiam clariſsimi Philofophi elucidationem accedebat hor
tatio iuuamen ReuerendissD.. Ioannis Marie Piſauri Epiſco pi Paphenſis
&mecenatis optimi cuius expenſis opus imprimeba tur , hortabaturque me ille
, ne opus hocpermiterem ex ire in ho minummanus fine duce aliquo cumpreſertim
milta, &fere difi cilima hac tempestate contineret, que aut ab
interpretibus uniuer fis omiffa , autoppoſita his effent que interpretati ſunt
. Te igitur patronum Dominum meum delegi,qui & Ariſtoteleam Philo ſophiam
uniuerſam cales, &qui has liberalesartes Latinis duri bus inuulgauit.
Itaque ea. Aristoteles loca qua potui diligentia il lustraui, & quæ lucem
claritatemque deſiderare uide bantur , curſimebreuis annotamenti lumine perui
afeci , qua in reſi effe cerim quod uoluizesło iudex &cenfor. Has autem
primores inge - ný nostri fæturastuo nomini Reuerendiss. Domine eam ob rem
dicatas uolui,quo plane intelligeres noftri animigratitudinem pro innumeris quibus
me in dies cumulare deſideras beneficijs , eoque quod aliter non datur temeum
reuerear benefactorem ; neque ob aliud ſanete reuerear quàm quòd omni laude
digniſsimum : Vale præfulum decus . ed RE agat , ueletium num in ſemen uiri,
uelmulieris , uel inmatricem , { OTS PORPHYRII DE GENERE PE T R I C Α Τ Η Ε Ν Α
PRESBITERI VENETINOVA IN T E R P R E T ATIO . IcetVR & alio modo genus
uniuſcuiuſque principium or tus , tam ab co, qui genuit , quám a loco in quo
eft quiſ piam ortus . Dicitur quòd locus , os pater cauſe funteffè &trices
genis ti , diuerfimodetamen ,quippe pater aétiua fit caufa , locus uero conſer
uatiua tantum ,que ad cauſam effe's Etricem non immerito reducitur ,aps te
magis quàm adquodcunque aliud cauſé genus. Dico tamen quod , & locusnedum
conſeruatiuum prin cipium est , fic ut genitum folummodo conſeruet poftea quam
genitum ipfum acquiſiuerit effe fuum ,ſed etiam adiuuin principium eſt ipſe
locus affe Ausrefpectu geniti accidentiumſententia est ipſius Ariſtotelis, quòd
per acceſjum atque receſſum planetarumſub circulo obliquo fiunt in hæc
inferioragenerationes atquecorruptiones , folis igitur , e planetarum aliorum
lumine, ac motu , affectus locus, aštiue agit hoc pacto adgenera = tionem ,
atque parentes , fi fecus quis audiuerit, tunc sol, & pater non
generarenthominem cum Sol non niſiſuis radijs reétis reflexis autfrae étis
alterando aerem agatin ipſum , ca in contentum , quo autem pacto age quodmodo
eidemſimili,quo etiam in uiſcera terre producitmineralia , o interræ fuperficie
plantas . 6 PORPHY RIVS DE SPE. DE SPET I E. VLCR A Fucies , debita parilitate
demiſſa,coloria bus lineamentiſuć luculenter affecta,fpetiesà Pors phyrio in
prima ſpetiei ſignificatione uocatur. , ut Facies priami dignaeſt imperio , ad
cuius fi militudinem , ill . est , quefub aßignato generepoa nitur , curus
pulcritudo , est differentia fpecifica , qua pulcritudine informe genus
contrahitur , atque pulcrumfit. Et Trianguluun , figuræ fpetiem ſimili modo
ſignificat,fie gura rectilinea genus est ad triangulum , non figura in
uniuerſum quamſic fufamfiguram Euclides primo Elementorum partitur in eam , que
una clauditur linea , & in eam quæ pluribus lineis continetur, qui
Triangulus Axties fitfigure reftilinee per hanc ſpecificam différen tiam qua
est , claudi tantum tribus reftis , qua etiam differentia pula crum redditur
figure genus . Indiuidua funt'infinita . Non intela ligas hoc uelim , niſi
potentia ,qua infinitatis affectione etiam numerus ita intelligatur ; ſed modo
quodam diverſo , numerus enim , quicunque fit , aexiſtat , finitus eſt ,
terminatus ,ſic pariter indiuidua on nia , quæ exiſtunt finita funt, ſed que
preceſſerunt omnia,o que futu rafunt ex utraqueparte infinita diceret
Ariſtoteles, numerus uero cum statum ad unitatemhabeat duplici modo finitus
eſt,« actu , o deſcenden do ,uerum indiuidua duobus modis dictis funt infinita
, unico autem modo ut quæ præfentiafunt, finita etiamfunt. IN PREDICAMENTA
ARISTOTELIS DE O V A N TITATE. ENARAI numeri partes , ut quinque, & quinque
. Animaduerſione dignum exemplar hoc in loco pofuitAriſtoteles., cum dixit
quinque,& quin que partes eſe denarij numeri, non enim dixit quis narium ,
oquinarium denarium numerum compone re , quia nulla numerorun fpeties
componitur ex di uerfisſpetiebus,neque etiam ex unis indiuiduis eiufdem fpetiei,ut
diuerfa fpeties fiat, ex unis ternis uel quaternis , ant quinnis numeris
nonfitfe nariusuel oftonarius aut denarius, ex unitatibus tamen quinis o quinis
D DE VⓇANTITATE
* que materia eft. Cuiuslibet numeri, denari fpeties conflutur, eas ſententia
Euclidis , Nichomaci, atque Boetij. Similiter & in cor pore fuimere
aſsignareque lineam fuperficiemuè comu. nem terininun potes, quo partes
corporis copulantur . Punctum eſſe lincæ terminum , or lineam ſuperficiei , e
ſuperficiem corporis nemo neſcit , niſi qui Euclidis doctrina dignus est ,ſed
illud unum maiori egeret indagine , quo nam pa&o lineaſitforſan etiam ima
mediatus corporis terminus ,ne id Ariſtoteles aſſerens , quippiam affe rat
contra Euclidis fcitum, prima enim deffinitione undecimi Elemen torum inquit
ille , corpus ſiue ſolidum est, quod longitudinem latitudia nem ocraßitudinem
habet , folidi uero terminus fuperficies est , uide ergo quod ſolidi
terminusnonſit linea ipfa , ut Ariſtoteles aſſerit. Ves rum quòd linea
terminusfit corporis manifeſtum est , fi idquod Euclides ait deffinitione nona
undecimi elementorum non ignores ,folidus(inquit) angulus est , qui ſub
pluribus duobus planis angulis comprehenditur non exiſtentibus in eodem
plano,ad unum ſignum conſtitutis , plurium linearum igitur contactus ( nulla
ſuperficierum habita conſideratione) qui estfolidus angulus corpus terminat,fub
illis igitur lineis angulusfox Tidus contentus , terminusest illius folidi,
ville lineæ termini ſuntnes dum illarum ſuperficierum corpus ambientium , quin
etiam inmediati terinini funtillius corporis , cum linea continentes illos
angulos in puran Etum unum concurrant. Preterea idipſum Euclides afferit de
angulo, quod fit immediatus terminusfolidi problemate tredecimo, libri tredeci
mi Elementorum , & in fequentibus quatuor problematibus idem uit ,in quibus
docet conſtruere corpora regularia , queſuis angulis tangant ſu perficiem
concauam circumſcribentis pheri , qui quidem uniuerſi angis li ſub tribus ad
minus &pluribus tribus rectis lineis ad unum pun &tum concurrentibus
continentur , &punctus ille , nedum est linearum terris minus, fed etiam
regularis corporis finis ,cum ſit terminus omnium linea rum , quo termino
tangit fphærum ,patet igitur id, quod Ariſtoteles dixit de lineis nedum
ueritatem habere , ſed ut etiam pun tusſit terminus ips fius corporis, ſecundum
Euclidis ſcitum, perinde dicendum eft de ſuper ficie , quòd non tantum lineis ,
ſedetiam ipſis pun tis terminata fit,fide ea, quæ rectis lineis claudatur
fermofiat, øde corpore Iſoperimetro, fiue quod pluribus re&tis
fuperficiebusclauditur , hocquod dictum est in telligatur . Adid uero , quod
Euclides primo Elementorum ait deſuper ficie fiuefigura rectilinea deffinitione
uigefima , refponde , quod uerum 8 DE OVANTITATE. dicit , figura rectilinea , inquit,
contineturfub lineis reftis , enon die cit contineturfub pun£ tis , agequod
contineriſub pun &tis diuerfum eſt, ab terminari punctis . Ariſtoteles hoc
uidens , dixit corpus lineis termia narinon tamenfub illis contineri,quod
deſuperficie ſimiliter eft dia cendum . Vel etiam reétè dices , fi ita fenferis
, quòd figura in uniuer. ſali , linea claudatur , neque una,neque pluribus,
& corpus in uniuer far liambitu ſuperficie claudatur , neque itidem una aut
pluribus , o neua tra deffinitio fic in uniuerfum accepta habet exclufiuam
particulam ,cum autem ad circulum uel ſpherum defcenderis,unum linea una
clauditur re liquum uero una tantum fuperficie ſcias elſe claufum ,reliquæ
uerofigur re rectilineæ non deffiniuntur cum particula exclufiua abEuclide,vel
di cas , quòd in littera Ariſtotelis, eſt fua met interpretatio, ubi enim dixe
rit , in corporefumere aßignarequelineam comunem terminum , statim correxit ſe,
dicens fuperficiem eſſe comuném terminum corporis & Ex * clides non dixit
quòd punctus , ſed quod angulus tangat fphærum . Rurſus in pago quidem , multos
homines , Athenis au tem paucos dicimus eſſe, qui tamen funt illis plures ,
& in domo quidem multos in theatro uero paucos,qui quidem & ipfi multo
funt illis plures .Aduertas Ariſtotelem utroque exi emplo, o paucos &
multos dixiſſe , comparationem faciens hominum ad loca in quibusfunt , non
habens rationens hominum ad homines , ut fimile exemplun daretur ſiquis dicat
pauciaurcifunt in arca , @mule ti in crumena , fi in crumena eſſent tantum fex
, decem in arca , DE HIS QV Æ AD ALIQVID . VADRATIONIS enim circuli , &
fcibilis eſt, ſcientia quidem nondum eſſe uidetur eft autem fcibilis ipſa.
Quadam libertate hoc lo co loquutus eſt Arift.afferens id quod ignorauit, quia
ſi non ignoraſcet eam ,habuiſſet illiusſcientiam , o non dixiſſet (niſi forſan
mendatio) ſcientia quidem now dum eſſe uidetur,fciens etiam quod nullus
adtempus uſqueſuum proprijs principijs quadraturam inuenerit , nequecitra ad
hanc ufq; horam ,quis oftenderit,nififorſan quibufdamſuppoſitis,quu ,et ipfa
non minoriproba tione egerent quàm ipſa circuli quadratio ,fedquidper iftud
exemplum utilitatis Ariſtot. attulerit , illud effe puto , ut ammoto fcibili,
oſcien tia ARISTOTELIS. tia eiusremoveri neceſſe eſt , ut putacaufa nunquam
cauſante nuſquam effectus erit , quadratio igitur circuli cum non ſit ,
nequefcientia de ip . fa quadratura circuließepoteft . Quid nam antiqui de
quadratura ſe na ferint in fractionibus Mathematicis declarabitur . DE QUALI ET
QVALITATE. VARTVM qualitatis gen'us eft figura & ca quæ circa unumquodque
eft forma , & in fuper rectitudo , & curuitas, & quicquid eſt hiſce
fimile . De figura fcias Ariſtotelem lom qui, non ut de ea Geometrica abſtracte
conſiderata, Jed de figura in re figurata exiſtente ,ueluti in fubie & o,
idem de forma, rectitudine , atque curuitate intelligas. Aduere tendum tamen
ordinem quendam feruaffe hoc loco Ariſtotelem in his que proponit , à
ſimpliciori ad magis compoſitum . Primo enim defi gura ,quæ linea , uel lineis
clauditur , fecundo de his , quæ ſimplici bus lineis , aut ſuperficiebus
uniformibus , nempe uel tantum re tis , aut tantum curuis , uelſolummodo
conuexis ,aut etiain tantum concauis continentur , modus iſte ſecundus à primo
non nihil differt , in hoc differentia est inter utrumque , quia primomodo de
co quod planum eft , ueluti ipſa papyrus , ſecundo modo, de eo quod corpus,
utmons , ficuti uulgus,quodfubtile eſt (ut papyrus) planum uocat , quod autem
eft ualde craſſum , corpus appellat, ut montem, a facilioriperſuadens tya
runculis ea,quæ etiam à uulgo principium cognitionis ſumunt. Triana gulus autem
& quadratum cæteræque figuræ , non uidens tur talem rationem ſubire .
Ariſtoteles parum ante dixit , que: nam ſint et , quæ magis, minufue ſuſcipiunt
, ut puta qualia ipſa, gridus fufcipiunt intenfionis ,modo uides quod neque
trianguliis,nequequadras tum ,qualia ſunt , fed quanta, que intenſione
remißioninonſunt apta. Nam ea, quæ trianguli rationem
circulinefuſcipiunt,trians guli fimiliter , aut circuli ſunt oinnia . Senſus
huius eft , quòd triangulus. quilibet , uel omnia que triangula ſunt, niſi id
quod tribus clauditur lineis ,aliud non eſt, a circuli omnes , nil aliud
funtquam und çlaudi linea , in cuius medio punctus eſt quod centrum dicitur, à
quo oma. nes recte linea uſque ad circunferentiam ductæ inter fefunt
cquales.com hoc nihil aliud quàm circulus eſt,nõ enim triangulus circulus,neque
cira B 10 IN PREDICAMENT A culus triangulus eft , neque utrunque aliquid unum
eſt , licet utrunque figura ſit ,ſed hoc æquiuoce , & non uniuoce eſt. Neque
te turbet hoc quia Ariſtoteles prius de triangulo , « quadrato propoſuit,c
finit ſena tentiam de triangulo , e circulo , & non de triangulo , quadrato
, quia de triangulo o quadrato dicens , ſubiunxit cæteræque figuræ quo uerbo
etiam circulă intellexit, de quo ultimo loco explicite loquitur. Eorum uero ,
quæ rationein hanc, non ſuſcipiunt, nihil alio magis minúſie tale dicetur,non
enim quadratum ma gis quàm altera parte longius circulus elt , quippe cum neu
trum circuli fubeat rationem atque fimpliciter. Si non fubeat propoſiti, in
quofit comparatio rationem , alteruin altero magis tale mi nuſueminimèdicetur .
Quadratum neque circulus eſt, nec etiam altera parte longius circulus eſt ,cum
igitur propoſiti circuli rationem neus trum ſuſcipiat , neque quadratum circulus
eft ,nec etiam quadratum mas gis quam altera parte longius circulus est , idem
age de altera partelons giore. Atquefimpliter pro hoc uerbo, ſcito
Ariſtot.ſententiam hanc eſe , o ſi quadratum , &altera parte longius
circulus eſſet, atque in eo conuenirent, quia tamen neutrum eorum , atque
circulus, non eft qualis tas , fed quantitas,ideo à quadrato, o abaltera parte
longiori, lymas gisminúfue,ſecludenda funt.Expoſitio hæc uidetur contra id ,
quòd Aris ſtoteles determinauit in capite de quali oqualitate , quo loco ait
quara tum qualitatis genus eft figura,ad quodfoluendum , dicas figuram capi uno
, atquealtero modo,primo figura conſideratur in ſe abſtracta aſus bie &to
quocunque , cmſic quantumfeu quantitas eft,o non qualitas,nec etiam in quartoqualitatis
genere ,alio autem modo conſideraturfigura in refigurata, cui largitur tale
eſſe, or ſicfigura in fubieéto aliquo,quam. litatis naturam non refutat .
NequeMuſica , cuiuſpiam muſica , niſi generis ratione ad aliquid , & ipſa
dicatur. De uniuerſali Ariſtoteles,& non para ticularimuſica loquens , ſiue
humant uoce uel inſtrumentis praxis fiat, uel Theorica ipſa intelligatur ,
biffariam eam conſiderat, quatenus à fubieéto uel obiecto ſeu genere ipſo
caufetur,et quatenus cauſata in ſubie eo quopiam eſt , primo modo ad fubie
&tum quod genus uocat , tan quàm ad effectricem caufam reffertur , ut ad
ſonum numeratum , non due tem ad Platonem in quo recepta est , relatiue
dicitur. Vel etiam dicas, quòd refertur rationefuigeneris , ut quatenusfcientia
adfcibile. ARISTOTELIS. IL DE MODIS PRIOR IS. HR N DEMONT SRATIVIS
ſcientisprius eſt nimirum atque pofterius ordine, Elemen ta nanque
deſignationibus ordine priora ſunt . Scito elementa , ut deffinitiones , petita
, animi conceptiones precedere ipfis propoſitiones in ſcientijs , id quod in
Euclidis methodo patet,proa poſitio nem ſubſequitur expoſitio , quam
expoſitionem statim deſigndz tio diagrammatisconſequitur , hancdeſignationem (
que beneficio petia torum tantun fit) determinatio , determinationem
demonſtratio , ſexto loco epilogus, ſiue propoſitionis repetitio. Vel dicas
elementa ,ipſatana tum eſſe petita reſpectu deſignationis tantummodo. Elementa
etiam non tantum principia ,utdeffinitiones,petita , & conceptiones animi,
reſpectu propoſitionum , que per ea probantur dicuntur, fed ipſa propoſia
tiones probatæ , quatenus ad alias fequentes propoſitiones probandas fumuntur ,
dicuntur elementa , hac de caufa , quidam uolunt libros quindecim Euclidis
uocari elementa , alij nero non ob id, quindecim libri dicuntur elementa ,ſed
quia fingulis libris fua affiguntur principia , ut apud Campanum , ſed neuter
modus dicendi placet, quin potius elea menta dicuntur oinnia , quæ in illis
quindecim libris continentur, nedum propter deffinitiones,petita, Oʻanimi
conceptiones ,ut iſti ,neque prou pter hoc , quòd alique prime propoſitiones ,
que demonſtratæ funt , fint pro alijs propoſitionibus fequentibus probandis
principia , &elea menta ,ut illi dicunt , quia tunc ultima propoſitio
noneſſet elementuin ad. quippiam , cum ipſa ultima eſſet, ſed elementa , atque
principia omnia illa dicuntur , reſpectu omnium propoſitionum per ipfa
probandarum infcientijs fubalternatis ad illos quindecim libros.. Bij 12 IN
PREDICA MENTA DESPETIEB.V.S. MOT V S. i bЬ & CRET 10 ' , alteratio non eft.
Hoc perſuaa det Ariſtot. exs * emplo Geometri co ( quod etiam multis modis in
Arithmetica Boetius docet)Gnomon quidem ,ut in fecundo clementorum deffinitione
ſecunda ha betur,figura eſt ſex laterum ,compoſi ta ex uno quadrato conſiſtente
circa diametrum , « ſuplementis duobus , quefigura ab Euclide primo elemen
torum propoſitione tirgeſima quar ta habetur, quæ est 6 , quam fi huic
addideris quadrato a , quadratiſpe ties minime alteratur, licet fiat acre tio
quantitatis , ſic ut in hac figu ra ab , quod una diuerfa peties alteri fpetiei
addita non uariet fpes tiem ,exempla plus centum in tabule Pythagora , apud
Nicomachum , Boetium ,in numeris inuenies , ut pu ta ex duobus longilateris
altrinfecus ad quadratum pofitis, bis medio fumpto quadrato , quod fit, quadra =
tumest ,licetfacta ſit acretio, ut ex duobus , fex , vbis quatuor, ut ofto ,
ſexdecim exoritur ,qui etiam quadratus eft , pari modo ,ex duo bus quadratis,
er bis fumptomedio longilatero, nempe ex quatuor, e nouem ,bisfumptoſenario
longilate ro, uiginti quinque quadratus ortus alb ARISTOTELIS.i . 13 est , que
intelligas uolo ex in ateria primi quadrati , atque longilateri, ut ex ipſis
unitatibus , ego non de numeris tūlis formaliter fumptis , cum prius
corrumpaturſpeties preceden tis quadrati minoris, atque longilas • teri, in
aliam petiem maioris quas drati , qui ex illis oritur , acretio . igitur ubique
facta eſt , nulla intera ueniente alteratione in fpetie ipſius quadrati , licet
e gnomonis atque longilateri apertiſsime facta fit alte ratio . Aduertas tamen
, ad id quòd Ariſtot. ait in hoc exemplo de addia • tione gnomonis ad quadratum
, ſic , utfpetiesquadrati nõ alteratur.licet • fiat acretio , in Geometria
uniuerſali ter ueritatem habet , fed non eſt ita planum in Arithmetica, niſi
intelles Xeris de fpetie ſubalternāte ,quòd ip fa non uariatur, uaristur tamen
qua dratiſþeties ſubalternata , oſpetia liſsima,quòd patet ex eo quòdſi nu mero
quadratoſexdecim ,addus gno monem uiginti, statim ex pariter paa ri, ut puta
ſexdecim , fit impariter par, uidelicet triginta fex , quorums uterque , o
fifit quadratus , diucrfarum tamen fpetierum funt , ut ex libris Euclidis de
Arithmetica mani feftum eft ,quod exemplo fubſcripto manifeſtatur fatis,
quapropter uni uerfaliter Ariſtotelem intelligas de quadrati , quatenus quadratum
eft ', Apetie , hoceſt de fpetie quadrati in uniuerfum , non de quadratiſpe=
tie ppetialifsima . vel etiam dicas quòd Ariſtoteles intelligit exemplifia cari
in Geometria uniuerfaliter non autem uniuerfaliter fimpliciter , hoc oft non in
omnibus difciplinis . 11 14 : IN PRIM VM LIB . IN PRIMO PRI O R V M AN T E SEC
V N D V M S E C.TV M. n A M fine uniuerſali nô erit fyllogiſmus aut non ad
pofitum aut quod ex principio pea tetur,ponatur enim mulicam uoluptatem &
c. Sed magis efficitur inanifeſtum in de ſcriptionibus, ut
quòdæquicruriæquales, quiad baſin , ſintadcentruin ductæ a ,b , fi igitur
æqualem accipiata , c , d , angulum , ipſib , d , c ,non omnino exiſtimans
æquales , qui ſemicirculorum , & rur. fus c, ipfi d ,non omnem aſunens eum
qui ſeçti. Amplius ab æquis exiſtentibus , totis Angulis , & ablatorum,
æqua les eflc reliquos e ,f; quod ex principio petet, nifi acceperit ab
æqualibus æqualibus demptis ,æqualia dereli nqui. Plaa num igitur quòdin omni
oportet uniuerſale exiſtere. Si dubitaret quis ,an. ſemicirculi eiuſdem ornnes
anguli ſint equales, ſic perfuaderi uidetur, b omnes diametri eiufdem
circuliſunt æquales per primam deffinitionem tertij elementorum ,peripheria
eiuſ de circuli uniformis eſt per xv. def finitionem primi elementorit, o me
dietas circunferentiæ est æqualis al teri medietati eiufdě circunferentia
cumque omnes recte à centro ad cir cunferentiam du &tæ fint æquales,fe
quitur igitur , quod duo anguli a , c , d ,cb, d , c , ſemicirculorum eiufdem
circuli a , b , c , d , ſint ad inuicem æquales , hæc perfuafio fiat ei, qui
non omnino exiſtimat æquales , qui ſemicirculorum , rurfus inquit c , ipſi d ,
angulus uidelicet uterý; minoris portionis æqualis eft alteri,nonaccepto toto
angulo, ideſt,toto angulo ſemicirculib, d,c, e a cd , quod ſic perſuadetur,
árcus c, d , eiuſdem est peripherie , que unir formis eſt, c , d , eſt unice,
om eadem re&ta ,ſi igitur utrunque angus lorum minoris portionis ab
utriſque ſemicirculorum angulis detraxeris, qui anguli reininent uidelicet e,
of, erunt æquales æquicrurus igitur. PRIORVM ARISTOT. 15 triangulus habet ad
bafim poſitos æquales angulos , quod demonſtratum fuit ,ſumpta iſta uniuerſali,
ſi ab equalibus æqualia aufferantur , reli qua æqualia remanent, IN PRIMO PRIOR
VM ANTE TERTIVM SECT V M. ECVNDVM uero unumquodque entium elia gere , ut de
bono ,aut fcientia,priuate auten fecundum unamquainque , funt plurima quare
principia quidem quæ ſecundum unu quodq; funt,experimenti eſt tradere,dico au
tem ,ut Aſtrologicam experientiain aſtrolo gicæ ſcientiæ , acceptis enim
apparentibus fufficienter, ita inuentæ funtaſtrologicæ demonſtrationes, &c
. Compertum eſt aſtrolabio ſolem plus temporis conſumere à principio Arietis ad
uſas finem Virginis, quam à principio Libre uſque ad Piſcium fines,idquod o hiſtoria
traditum eft , propter hoc etiam Hiſtoria dereli&tum est Solem tres habere
orbes, quorum medius,eccentricus eſt. Quibus habis tis apparentibus, facile
eftdemonſtrationes de Sole concludere,oſimili ter in unaquaque diſciplina ,
prima principia hiſtoria data , &dereli Eta ſine probation funtpofteris ,
quibus principijs tanquàm uerisſupa poſitis ( hiſtoriæ enim proprium eft
ueritatem narrare) demonſtratio nes fiuntſi autem de principijs aliquafiat
demonſtratio ,illam « impro priain , a poſteriori, feu à ſigno eſſe , nemoeſt
quineſciat . ANTE MVT V AM SYLLOGISMO RVM RESOLVTIONEM . On oportet autein
exiſtimare penes id, quod exponimus , aliquid accidere abfurdum nis hil cnim
utimur eo , quod eft hoc aliquid elle ſed quemadınodum Geometra , pedalem ,
& rectam hanc , fine latitudine dicit, quæ non ſunt: Textushic exponitur
primo pofteriorum T. 52 fed hic tantum dubitatur,quo pacto intellectus ea
poſsit ſufficienti appres henſione capere, quenon funt, ut quæ nunquam , fub
fenfu fuerunt ? 16 IN SECVNDVM LI B. Adfecundum refpondeo, quod animam eſſe ,
intelligit intellectus , quam tamen nunquam uidit oculus, aut manus tetigit .
Ideo multa intelligit ins telle &tus,quorum nunquamſenfus ſenſationem
habuit. Ad primum dico, quodficut intellectus concipit coclearem artem abſtraftam
, quætamen kon eſt , niſi indeterminatis , ſingularibus hominibus , fic etiam
li ncam ſuperficie?n intelligit , que tamen non ſunt , niſi in linea atrd .
mento picta , o ſuperficie , in corpore naturali , IN SECVNDO PRIORVM CAPITE DE
PETITIONE PRINCIPII. - o cautem eft quidem fic facere,utſtatim cens ſeat quod
propofitum eſt , contingit uero, & in alia tranſeuntes apta nata per illud
mon ſtrari, per hæc demonftrare quod ex princie pio,uelutiſi ,a, monftretur per
b ,b autein per C, c autem natun efſet monitrari per a accidit cnim ita
ratiocinantes ipſum a ,per ipſuninet a monſtrare, quod faciunt, qui coalternas
putant fcribere latent enim ipſi ſeipſos talia accipientes, quæ non eſt
poſsibile monſtra : re non exiſtentibuscoalternis, quare accidit ita
ratiocinans tibus unumquodque eſſe dicere, fi eft unumquodque , ſed ita omne
erit per feipfum cognoſcibile , quod impoſsibile eft.Si propoſitum ſit probare
, quod e ſit a , &id oftendatur per mes dium b,c fieret talis fyllogiſmus (
e est b , beſt a , igitur e eſt 4. Pros batio primæ minoris uidelicet quæ eſt
hæc , e eſt b , fit per hoc medium f , ut in hoc Syllogiſino ( e eftc, c, eſt
b, igitur e eſt b) Cuius minor , uis delicet hæc , & eft c ,fiprobetur .
Tunc reſumitur prima concluſio pris mi Syllogiſmi,quæ à principio probanda
erat, ut in hoc Syllogiſmo e eſt 4,4 eſt c,igitur e eftc) &fic e eft a
,quia e eſt a, Ofic error ijte uerfatur in probanda minore primi Syllogiſmi per
plura media per c, oper a , propoſitio uero que probanda proponebatur , hæcuidelicet,e
eft a, per tria media per b., perc , & per a , probatur , ſimiliter errant
illi, qui nituntur probare parallelas effe per hoc, quod Triangulum habent tres
æquales duobusreftis , quod quidem hoc probaretur modo, ſit triangu = lus a , b
, c . cuius latusbc, ſi protendatur ,caufabitur augulus d, c, d , exterior
equalis duobus angulis a , b , intrinſecis ex oppoſito colla * catis PRIORVM
ARISTOT. 19 [ b N catis , ut patet ex prima parte tri q geſimæſecunde primi
elementorun Euclidis , à punéto c , parallela dua catur ipſi b , a , quæ fitc,
e, patea bit per ſecundam partem eiufdemn tri geſimæſecundæ primi elementorum ,
- quòd triangulus a , b , c , habebit tres duobus re&tis æquales . Si aus
tem fumatur probandum quod b , a , uc , e , fint parallelæ , per hoc medium ,
quia triangulus b , a , c , habeat tres duobus re&tis æqua . les , ideo
ipſe parallelæ ſunt , ſic , exterior æqualis eft duobus intrinſe cis ex aduerſo
poſitis , qui exterior angulus a , c , d , in duos pars titur angulos in a , c
, e ,we, c , d , , c , e æqualis eſt b , a,, ere, c , d , eft æqualis a ,b , c
; quorum utrunque probatur per lis neas eſſe parallelas,ut per uigeſimamnonam
primi elementorum ,feques retur igitur , quod a ,b ,oc, e , parallelæ funt,quia
parallelæ ſunt,ut b , a ,oc, f , parallelæ funt,quia triangulus a , b , c ,
habet tres duoc bus rectis equales , fed a , b , c , triangulus habet tres
Angulos duos bus reftis equales , quia a , b , & c,e, parallelæ ſunt,igitur
a, b ,a col, parallele ſunt , ,quia parallelefunt, quod uanum eft , oprobare
quipe piam prius per aliquod pofterius , quod pofterius æget illo priori adſui
probationem . Aliter exponatur Textus,ut fiintentü fit defcriberec, d , queſit
parallela ipſi a , b, per uiges ſimamtertiam primi Elementorum d fiat angulus e
, c , d, æqualis angulo 4,6,6, & argue poſtea ,quod d , 0,4 , ſit æqualis
angulo b , a , 6 , quod eſſe non poteſt, niſi b , d ,egu c , d ,"
parallele fupponantur , fic b connectatur inductio , quia Trian gulus a , b , c
, habet duobus reftis æquales,parallelæ funt a ,b , c,d, &quia paralellæ
funt , ideo Triangulus habet duobus rectis æqualis , igitur paralella funt ,
quia parallele fit . a : í с 18.INSECVNDVM LIB. DE EO QUOD NON EST PENES HOC.
VONIAM idem utique falſum per plures fup pofitiones accidere, nihil fortaffe
inconue niens , ueluticoalternas coincidere, & fimas jor eft extrinſecus
intrinſeco , & fi triangu lus haberet plures rectos duobus . Quod autem
parallela a , b , c, d , coincidunt fic perſuaderiui. detur Angulus extrinfecus
e , 8 , 6, maior eft angulo intrinſeco g, b , d, (quod quidem ſummitur falfum ,
pe nes quodſequitur impoſsibile ) ſed 9 4,8,6,6,8, ho per xiij.primi a -b
Elementorumſunt æquales duobus re&tis igitur b, 8,5,64,6,8, erunt d minores
duobus reftis per illam igi tur communem fententiam , ſi una f recta ſuper duas
rectas ceciderit at que ex una parte cadėtis linee duo anguli intrinſeci
fuerint minoris duobus reétis, illas duas reétas ad pars tem illorum angulorum
concurrere neceſſe erit, fi protrahantur . Et fi triangulushaberet plures
rectos duobus . Duo Anguli g , h, k ,68, k , h , ſuntmaiores duo . bus
re&tis , multo magis igitur b , h , k , d , k , h , ſuntmaiores duos, bus
rectis,igitur duo a , h , k , k , h , ſunt minores duobus res a. h b & is ,
quia omnes quatuor 6 , h , k. a , b , k . d , k , h . @c , k , h . og ſunt
æquales quatuor reftis per des cimamtertiam primi Elementorum bis fumptam
,igitur b , a , d , c , f adpartem a , c , protracte concurs rent, per illam
animi conceptionem ,fire &ta ſuper duas reétas cadensfes cerit duos
angulos'ex una parte minores duobus reétis, illa duæ lineæ ad illam partem
protracte neceſſario concurrent . ! Co Cс PRIORVM ARISTOT. IN DE DECEPTIONE QVÆ
FIT SECVN DVM SVSPITIONEM. ELVTI fia , ineft omnib , buero omni c , a omni c
inerit , fi itaque quiſpiam nouit quòda ineſt omni , cuib, nouit & quòd cui
c, fed nihil prohibet ignorare c, quòd eft, ut ſia duo recti, in quo autem b ,
triangulus,in quo uero c , ſenſibilis triangulus , fufpicari nanque poflet
aliquis non eſſe c ,fciens quod omnis trian gulus haberet duosrectos, quare
fimulnoſcet,& ignorabit idem . Textum ſimilem habes in pofterioribus in
principio primi,preu ter ea , quæ ibi dicentur pro nunc ad explanationem huius
Textus, prie mo littera exponatur , omne b eft a , omne c eſt b , igitur omne
ceſta , uel omnis triangulus habet tres duobus rectisæquales , qui conſtitutus
eſt in tabula est triangulus , igitur qui conſtitutus eft in tabula habet tres
: duobus reétis æquales,ſed ſimul dicas o charateres terminos,omne, b trigonum
eſt habens tres angulos duobus rectis æquales , omnec fen . fibiletriangulum
eſt triangulum , igitur omne c ſenſibile triangulum habet tres angulos æquales
duobus re &tis . Cum teneret quis hanc uni uerfalem , omnis triangulus
habet tres angulos æquales duobus reétis nondum fciebat , quòd ſenſibile
triangulum effet huiuſmodi , quòd han beret tres , uidelicet duobus re &tis
æquales , niſi potentia , non autem actu ; quàm primum autemfyllogizauit
ſubſumptaminore , statim intua. lit , «cognouit , quod ſenſibilis triangulus ,
tres duobus rectis pares haberet. Cum autem ait ſuſpicarinanque poſſet aliquis
, non eſſec , non eft intelligendum , ſic ut Græci , o omnes exponunt , quaſi
quod ignos retur an fit c , fed hoc non uult Ariſtoteles dicere ,ſed cum inquit
fufpicari nanque poſſet aliquis non eſſe c , hoc intelligas modo , quod stante
prima uniuerſali, poterit ignorare anc, habeat tres duobus re &tis equales
, licet non ignorauerit c effe , fed ignorabit c eſſe huiuf modi, utputa , quod
habeat tres duobus rectis æquales ; ſcietigitur po tentia in uniuerſali
propofitione , Waétu ignorabit in particulari ante quàmfiat fyllogiſmus.
Syllogiſmo autem fačto ,feu fa & ainduftione Geos trica de qua inprimo
posteriorum Textufecundo)a & tu ſcit, quòdfenſis bilis triangulus duobus
re&tis tres pares habeat,nihil igitur prohibetfi . Cij 20 IN SECVN. RIO.
ARIST. mulſcire , ignorareidem ſecundum diuerſa , ut ſcire potentia iniſud
uniuerſali , & antequam fiat inductio, oignorare ſimpliciter , ut pus ta in
particulari. DE A BDVCTIONE. VT Rurſus fi pauca ſint media ipſorumb , c ,
nanque & fic proximius ipfi cognoſcere uelutiſid eſſet quadrati, in quo
autem e ,re etilineum , in quo uero z circulus , fi ipfius é z ſolum eſſet
medium ,hoc , quod eft cum lunulis, æqualem fieri circulum rectilineo ce
ſīpoflet prope ipfum cognofcere . In predicamento ad ili quid circa quadrare
circulum fuit determinatum quantum fiebat fa tis ad Ariſtotelis intentionem , e
de quadratura fuſius in fragmena tis noftris , fuper Logicis , multa declarabo
, quo ad preſentem te - xtum Ariſtoteles facit fyllogifmum , cuius minor ,
cumſit dubia e oba ſcura , dicit unum eſſe medium ad probandam illam , arguit
e, rectilis neun , d quadratur , ſed z , circulus fit reetilineum , igitur
circulum quadrari,poſſet quis eſſe prope cognoſcere, minorem tentauit Antipho ,
Hypocrates chiusprobare per id medium , quod lunulas ad rectilis neas figuras
nixi ſunt reducere, diuerſis tamen medijs , alio enim mos do tentauit Antipho ,
o aliter Hypocrates chius , qux figure reetilis neæ reducebantur poſtea ad
quadratum , eo artificio , quo Euclides docet ultima ſecundi Elementorum ,
oſyllogiſmus connectatur ſic , ut fimul dicam characteres , me terminos
Ariſtotelis , e , rectilinea figura , d quadratur , fed z circulus e figura
rectilinea facta est, igitur zcirculus, d , quadratur . 21 IN PRIMVM LIBRVM
POSTERIO RVM ARISTOTELIS, PETRI CATHENÆ NOVA INTERPRETATIO . TEXTVS SECVNDVS.
VPLICITER autem neceffarium eft præ cognofcere , alia nanque , quia ſunt prius
opinarineceffe eft,aliaueroquid eft , quod dicitur intelligere oportet, quædam
autein utraque , ut quoniam omne quidem , quod eſt , aut affirmare, aut negare
uerumeſt quia eſt , Triangulum autem quoniam hoc fignificat ; ſed unitatem
utraque , & quid ſignificat, eſt quia eft , non eniin fimiliter horum
unumquodque manifeftum eſt nos bis . Græci omnes , pariter & Latiniuniuerſi
confuſione plenum rede dunthoc in loco Ariſtotelem , nedum qui ſcripſerunt ,
fed etiam recens tiores , quihac tempeſtate eum interpretantur , & priuatis
colloquijs, epublicis etiam lectionibus. Anſammultorum errorum pofteris omnis
bus prebuit . Ioannes Grammaticus Cognoinento Philoponus , ſuper hoc Textu in
cuius expoſitione plufquain errorum mille contra Ariſto telis
ſententiamfcripſit , qua decaufa , ipfa ueritate fretus, &uniuers fæ
logicorum utilitati conſulens , lucidum , facilein , atque clarum Aris stotelem
in hac parte reddere decreui, o inſaniam ignorantiæ depri = mere, ne etiam in
futura tempora amplius à forticulis doctrina tamclan
rißimiPhilofophilabefactetur , ſcito in primis , tres eſſe modos pres
cognofcendi, quos Aristoteles ponit , in hoc Textu , unicuique hos rum modorum
aptißimum ,atquefacilimum exemplum poſuit , feruans exemplorum ordinem cum
ordine modorum precognofcendi, ſic , ut primo precognofcendi modo primum
exemplum aptet ,ſecundo modoſe cundum , atque tertium tertio . Nequete
perturbet , quod Ariſtoteles IN PRIMVM LIB . ait , dupliciter fit neceſſarium
præcognoſcere'. Tripliciter autem dixes rim ego , primo autemmodo , opus eft
præcognoſcere , quia eſt tantum, alio autem modo , quid eft id , quod nomen dat
intelligere folummodo quos duos modos ab inuicem ſeiunctos , in tertio modo in
unum aggregat uerum methodum compoſitiuam ſeruans . Duo igiturfunt modi precos
gnoſcendi, alter quidem in parte oſeparatim , reliquus uero in totum , oin
parte quidem biffariam . Vnus tantum quia eft ,reliquus uero tans tum quid
ſignificet , in toto uero ille eft modus , qui horum utrunque in ſe comple
&titur . Exempla Ariſtotelis multos Geometric ignaros turs batosego stupidos
reliquerunt , qui ab Apoline reprehenfi , &fpreti à Platone , uagantes
fomniauerunt , hoc in loco , tria attůlliſje Ariſtotes lem exempla , in
ſcientijs diuerſis . Nempe Methaphiſica ,Geometria , O Arithmetica , quod
chimericum eſt , ex ipſa uunitate magis uanum , fi enim ueftigijs fapientum
Methaphiſices,Geometrie , & Arithmetica, prima limina attigiſſent, non
incidiſſent in hasſuas philoſophicas furias, dicunt enim , quod artificio , id
Ariſt. fecit,ut de demonſtratione agens, que inſtrumentum uniuerſale est , tria
exempla (ſuam oftendensfacuns diam ) in ſcientijs tribus fpeculatiuis ,
&uniuerſalißimis attuliffe , ſic , uttandem concludant in ſua expoſitione
Ariſtotelem uoluiſſe equinam ceruicem humano capiti iungere , &uarias
plumas diuerſarum ſcien tiarum inducere , ut tandem tria formoſa , &pulcru
exempla deſinant in nihil dicere. In una demonſtratione , datum eſſet unitas ,
queſitum triangulus , e principium Methaphiſicum , ualeat pereatque cim ins
terpretibus hæc interpretatio . Non est Ariſtotelis confuetudo , exeine pla
afferre ( aliter effet edire &to contra exemplorum naturam ) niſi ,ut
do&trina , que aliquatenus non innitiatis uidetur obfcura , atque diffi
cilis , fole clarior , atque perfacilis omnibus reddatur , quid rogo cons
fufius, quàm in una re logica explicanda , tria exempla mutila , o tim diuerfa
afferre ? ut in unotantum quia,in alio exemplo,folum quid ,c . in tertio
exemplo , ey quia , &quid , ut tandem in piſcem definat fora mofa
demonſtratio. Dico , omnia tria exempla attulliſſe Ariſtotelem in unica atque
determinata Arte ; uel diſciplina Geometrica , quicquid Niphlus fentiat &
fequaces , ex nulla eſt alia ueritas in hoc Ariſtotelis Textu , neque uerus
fenfus , qui ad Ariftotelem faciat preter hunc , quem fubfcribo , uelint nolint
omnes atque uniuerſi , qui philoponifena tentie initi uidentur, quem nullo modo
ipſemet nec alij recteintelligunt, fcito primum , quod de lineis re&tis a
centro ad circunferentiam du &tis POSTERIORVM ARISTOT. 23 1 Veruin eſt
dicere quod ad inuicem funt æquales, uel non equales, ut etian de quolibet
quidem quod est,aut affirmare,aut negare ucrum est,quia eſt, fimiliter,quòd quæ
uni og eidem funt æqualia interſe funtæqualia ,uel in terſe nonſunt æqualia ,
uerum est dicere quia eſt ,ſed alteram partem hu ius diſiun £ ti fummit
Geometra deffinitione xv. primi Elementorum , cum Similiter alterum alterius
diſiunéti partem prebet prima animi conceptio primi elementorum , &hoc est
uerum , quia est linearum à centro ad circunferentiam protractarum , ut
adinuicem ſintequales , « prima ani mi conceptionis ,utſiab æqualibus equalia
auferantur remanentia æqua lia erunt. Secundo loco exemplum poſitum est ,quid
hæc uox , Triangulus ſignificet,quod etiam fupponit Geometra deffinitione xxi.
primi Elemen torum , ex ſignificatfiguram tribus re &tis lineis contentam
,ſiue illud actu ſit ſiue actu non ſit,Quatenus tamen quæritur,nondü
habetur,poteft tas men eſſe. Tertio loco ponit Ariſt.unitatem ,quæ quidem
unitas , a quid ſignificet , quia eft ,utrunque habet . Hanc ego unitatem contra
oma nes loquentes , « ad Ariſtotelis ſententiam aio , eſſe non eam , qua
unaquaque res una dicitur,ut ea quæ eft principium numeri, ſed eſtres queuna ab
illa unitate , quæ eſt principium numeri dicitur , nempe una linea recta data
ſuper quam triangulum collocare oportet , ſiue ille fit æquilaterus , ut
Euclides proponit , uel iſoſcelesaut gradatus, ut Aris ſtoteles querit in
uniuerſum , quod quidem Proclum diadocum ,& Cam panumfuper primum primi
Elementorum , non latuit, quæ unitas linea feu quæ linea una concluditur in
decimaquarta primi Elementorum , tàm quàm queſitum , in qua quidem decimaquarta
primi Elementorum ni hil de unitate, quæ fit principium numeri, ſed, una linea
concludi tur , quæ linea una eſt datum inprimo problemate primi elementorum Euclidis
, de qua lineæ unitate precognoſcitur , quid , utſit a puncto in punctum
breuiſsima extenſio per diffinitionem tertiam primi elemehtoa rum ,
precognoſcitur etiam , quia est ,cum ipfa detur in prima pros poſitione primi
elementorum . Ab Euclidis igitur methodo non recedens Ariſtoteles facilitat,
declarat exemplis ubique locorumfuam do&tria hæc igitur uera atque germana
Ariſtotelis interpretatio eft , alia , ut dixi nulla , fomnia igitur quæcunque
diluantur , putas ne Arie ftotelem afferre illud Methaphiſice principium ,
nullo modo ad artem ali quam peculiarem contractum, uni Tirunculo in Logica
inſtituendo ? ubi Methodus? que maior ordinis peruerſio ? quis nam in Logicum
eua dere poterit niſi prius Methaphiſicis inniciatus fit? hec omnia uanis 11
nam , 24 IN PRIMVM'LIB. 2 tate plena ſunt, non faciunt niſi ad buccas inflandas
. De unitate aus temdicit Ioannes ſic Ariſtotelem intelligere , ſicut docet
Euclides pros poſitioneſextadecima ſeptimi Elementorum , fi unitas numeret
quemli bet numerum , quoties quilibet tertius aliquein quartum , erit quoque,
pernutatim ,ut quoties unitas numerabit tertium , toties ſecundus quar tum
numerauerit , datum inquit Ioannes , eſt unitas, quæ eft principium numeri, de
qua habetur &quid , & quia eft , o ſi hoc exemplo uidea tur Ioannes
ueritatem quidem dicere , licet non ad mentem Ariſtotelis. Dico tamen quod
Ariſtoteles neq; exponitur, & quòdfalfum eft,id quod Ioannes dicit ,ut quod
unitas,quæ eſt principium numeri , fit datum ,non enim eſt unitas datum in
ſextadecima ſeptimi Elementorum , fed unitas cum refpeétu ad numerum aliquem ,
quem numerat , eſt datum , que = ſitum autem eſt , ut ipfa tertium numerum
numeret , ut ſecundus nus merus numerat quartum , quemadmodum amplius
declarabitur in de tris plici errore circa uniuerſale.Preterea dignitas ſiue
premiſſa in hac loan nis indu &tione eſt duodecinaſeptimi Elementorum , que
probatur per precedentes , onon eſt immediatum principium ,exponitigitur
Ariſtoc telem per unam demonſtrationem , quæ non procedit per immediata prin
cipia , quod non eſt imaginandumin hoc propoſito , preualet igitur ex poſitio
de unitate lineæ , quia ibifit deductio per immediata principia ut per
xv.deffinitionem ,& prima animi conceptionem primi Elementorum Ecce quàm
aliena est loannis expoſitio ſuper Textum Ariſtotelis . Die co igitur datum ,
eſſe unam rectam lineam , quæſitum , ut ſuper ipfarn trigonum conſtituatur ,
&quod , id conſtitutum , ſit trigonum , probas tur per decimamquintam
deffinitionem , vprimam animi conceptionem primi elementorum . TERTIVS TEXT V
S. ST autem cognoſcere alia quidem prius cognofcentem . Aliorum vero , &
fimul notitiam capientem , ut quæcunque , con= tingunt eſſe ſub uniuerſalibus
quorum haa bent cognitionem ; quòd quidem omnis triangulus habet tres Angulos
æquales duobus rectis præfciuit , quòd uero hic , qui in ſemicirculo cft ,
triangulus fit , fimul inducens cognouit. Duos modos ſciendi POSTERIORVM A R
IST. 25 ſciendi hoc textu tangit Ariſtoteles , primus , qui eft per reminiſcens
tiam,de quo nondubitarunt antiqui . Alter uero, es ſecundus est , quo de nouo
aliquid ſcimus , qui fuit alienus ab antiquorum mentibus, ſur per hocſecundo ,
ſit noſtra expoſitio . Ioannes Grammaticushanc para ticulam , fimul inducens
cognouit, interpretatur fic ,ut per inducen tem intelligat eum , qui habens
triangulum in ſemicirculo pićtum , ofub penula abſconſum , oftendat eum
triangulum eſſe , quaſi abijciens penus lam , ey aperiens manum obijciat ipfum
triangulumoculis uidere uolens tium , &Latini omnes fimiliter ,&
Aueroes fequuntur ipſum in hac interpretatione . Non poſſum non mirari
hominisiftius alias doétißimi expoſitionem & omnium fequatium ,que quidem
interpretatio, fi ads mitatur,statim uidetur , quod Ariſtoteles uanus ſophifta
effectus , id do ceat , quod ipſe reprehendit contramale foluentes,ubiinquit in
fequenti textu,Nemoaccipit talem propofitionem ,oinnis triangulus quem tu ſcis
eſle triangulum ,quod utique illi agebant de dualitate abſconfa inmanu,quòd
neſciebant eameffe parem , quouſq;nonuiderent quòd illa eſſet dualitas . Ioannes
&omnes interpretes Ariſtotelis allucis nati ſunt, putantes quod illa
littera Ariſtotelis ſic debeat legi, quod ues ro est in femicirculo triangulus
fit , fimul inducens cognouit ;cognouit quidem quodfit triangulus , per
induétionem , id eſt per oſtenſionem ad oculum , aperta manuin qua
abfcondebatur , ſic ut illa induétio certificet de eſſe triangul , quod
ridiculum est , o uſque ad hæc tempora , falfum pro uero habitum ,henuga
deſtruunt Ariſtotelis ſententiam ; non enim Ariſtoteles de trigono in ſemicirculo
defcripto dubitat an trigonum ſit , neque igitur estopus, ut dubium remoueatur
per oſtenſionem ad oculum quòd trigonum ſit , quia ut dixi, hoc non reuocatur
in dubium , ſed has bita , hac uniuerſali ,omnis triangulus habet tres æquales
duobus res Etis , dubitatur an qui in ſemicirculo eft triangulus , &qui
quidein a &tu uideturſit huiufmodi , utputa , quòd habeattres angulos
equales duo bus rečtis , quod quidem manifeftatur non per ſenſitiuum indu
&tio s nem , quia per illam oftenditur tantum quòd fit triangulus , ut illi
mda li interpretes exponunt. Neque id oftenditur per inductioncm Topia cam ,
que à particularibus ad uniuerfalem procedit , ocontrariatur huic
poſterioriſtico proceſſui , quifit ab uniuerſali ad particularia , rea ftat
igitur declarare quæ induétio fit illa de qua loquitur Ariſtoteles , quam
dicunt aliqui elle ſenſitiuam , aliter tamen ſenſitiuam quàm loans nes
Grammaticus intelligat , dicunt enim quod talis fenfitiua oftenfio 1 1 D 26 IN
PRIM VM LIB . couptatur in Syllogiſmoſic , omnis triangulus habet tres angulos
equat les duobus rectis, ſed hic qui in ſemicirculo , eſt triangulus, igitur
hic qui in ſemicirculo , habet tres duobus rectis aquales,ecce inquiunt,quos
modo minor eſt ſenſitiua , quia ponitur illud pronomen oftenfiuum , isti funt
in errore maiori forſan quàm precedentes , putant eniin quod illud pronomen ,
&fimilia pronomina ſint oſtenſiua ad fenfum , quid igitur dicendum erit de
hisloquutionibus,hic Apolo eſt cui barbam abraderefe cit Dioniſius, huic
Apolini coronam Papus , iufsit fieri, & iſte Aurifexfædauit aurum ;
ueletiam iſte est Euclides,quem Plato in theetes to commemorat , non ne omnia
ifta pronomina oſtenfiua , funt ad intela lectum , & ſi quandoque per
accidens ad ſenſum ſint oſtenſiua ? ideo pronomen in iủa minori , ſiper
accidens oftendatad ſenſum , oſtenſia uum tamen precipue eft ad intellectum ,
aliter cecus non poffet illum Syla logiſmum efficere , quòd manifefte falfum
eft , ueritas non eis obuiam uenit ſic interpretantibus.Laborant adhuc dicentes
,quod ila inductio nil aliud est quàmfubfumptio huius minoris , fed hic qui
inſemicirculo est triangulus , fub illa uniuerſali nota , omnis triangulus
habet tres angulos æquales duobus reétis , illam quidem diſpoſitionem
premijarum in figus ra &modo , uocant inductionem , hoc autem non facit
fatis ad Ariſtotea lis litteram ; quia ante quam inferatur concluſio , neſcitur
de triangulo conſtituto inſemicirculo quod tres habeat duobus reftis æquales
niſi po= tentia , poſt quam autem illatafuerit concluſio ,fcitur a &tu, o
noi ama plius potentia, quòd uult Ariſtoteles,ut poſt quàmfactus fuerit ocoma
pletus ſyllogiſmus, fimpliciter ſcitur,quod qui in tabula ,habet tres æqua, les
duobus rectis . Agamus igitur & nos ,o . Ariſtotelis litteram prius
diſponamus , ſubinde ſententiam exponamus.. De triangulo uero in feinicirculo
conſtituto fimul inducens cognouit. Simulcum uniuerſale triangulo ſcit ipſum
particularem trianguluna, quòd habet tres æquales duobus rectis ,
&hoc,inducens, uerbum hoc inducens du asinductiones ſignificat. Alteram
Geometricam ,reliquam ſyllogiſticam , quæ etiam ordine ponuntur in littera
Ariſtotelis dicentis ,antequàm in duétum ſit,uelfactus fuerit fyllogifmus , quæ
duo uerba, non ſunt fynow nima , ita ut und &eadem res per, utrunque uerbum
, inductum ſit , uel fa& usfuerit fyllogiſmus ſignificetur, quia in
doctrinis,non utitur termin nis ſynonymis ,neque Ariſtoteles multiplicat uoces
, terminos ean dem rem ſignificantes . Dicendum igitur, quod aliam rem uox hæc
indue dio, &aliam ifta uox ,fyllogiſmus,ſignificat , non gūteſt indu
&tio aliqua POSTERIORVM ARISTT.. 29 prediétismodisfupra citatis, ut
probatum fuit , relinquitur igitur, ut inductio per quam ſcimus,quodtreshabeat
æquales duobus reitis is,qui infemicirculo defcriptus est,nulla alia fit,neque
excogitari poſsit quàm Geometrica induétio . Ila autem huiufmodi est ,
fuppofita deſcription per trigeſimamprimum primi Elementorum , Angulus c b d
eft æquas lis ang ulo & c b, per primam par tem uigeſimenos lice primi Ele
- mentorum Euclia dis , &Angulus dibe equalis eft ang ulo cab per fecundam
partem uigeſimenone primi elementorum , totus igitu * cbe , eſt æqualis duobus
angulis cøa, fed cbre, cum c b a per xiij. primi Elementorum equiualet
duobusrectis , igitur angulia , cum eodem c b a , funt equales duobus reétis,quod
inducendum erat, de triangulo ac b in ſemicirculo deſcripto,qui triangulus non
erat abſcon fus immo ante oculos offerebatur, tamen illa oblatio,non erat
inductio de qua Ariſtoteles intelligit , quam inductionem quis unquam utcun
queetiam intin &tus litteris dicet , unum eſſe fyllogifmum ? quofyllogif
mounico (it inferius declarabo) poteratidemfyllogizari , neque enthis meina
unum eft, cum ibi multe ſint conſequentie, Enthimemaautem und tantum
conſequentia eft , quòd neque Topica , inductio , patet ; quia ibi à
ſingularibus ad uniuerfalem progredimur,in hac autem induétioneper
decimamtertiam Guigeſimănonam primi Elementorum ,quæ uniuerſales magis funt
quàmſecunda pars trigeſimæfecundæ primi Elementorum per quam patet intentum de
triangulo in tabula conſtituto . Neque mi reris quod in hacinduétione non
fumitur illa maior , omnis triangulus habet tresangulos æqualesduobus
re&tis , quia illa fumiturin inductione fyllogiftica , in inductione uero
Geometrica , fumitur decimatertia,cui gefimanona primi Elementorum , in utraque
induktione cumGeometri ca ,tum etiam fyllogiſtica fit proceſfusab uniuerſalı ad
particulare,uel ad minus uniuerſale, Syllogiſtica uero induétio,ex duabus
premiſsis, illa ta concluſione conſiſtit, quafyllogiſtica indu &tione
fæpeutitur Ariftoteles ut Tex.xciiy.Secundum partitionem loan.Grammatici,uel
Textu trigeſi monono in paraphraſi, in magna , pero expoſitione Tex
.clxiij.prima Dü IN PRIMVM LI B. poſteriorum , & alibi, habita o ſcita hac
uniuerſali, omnis triangulus habet tres equales duobus reétis ,fatur modo
aliquo idem de conſti tuto in ſemicirculo triangulo , ſimpliciter autem non
fcitur,ofacta ine duftione ſyllogiſticaſimpliciter ſcitur , quod qui in
femicirculo eft triane gulus , ſit huiuſmodi, ſicut ſcita
decimitertiaeuigeſimanona primi elee mentoruin ſcitur potentia , quod qui in
ſemicirculo eſttriangulus , duo bus rectis tres habeat pares ,licet nefciat, an
qui in ſemicirculo ,fit triana gulus,ut Ariſtot,ait Tex.101. uel 169.a{tu autem
, o ſimpliciter fcitur per Geometricam induétionem , quæ ſemper ex ueris,
primis , caufis ila latiuis conclufionis , ex magis notis procedit, non autem
ex immediaa tis ſemper , nequc ex cauſis quedant eße , fed ex his tantum , quæ
dant propter quid iŪationis , tale inſtrumentum quod induétionemGeomes tricam
uoco,non est una conſequentia , fed plures , ut plurimum , neque per
immediatafemper procedit ,fedalternatim per immediata , oper ea que probatafunt
procedit,inmediata autem , uoco propoſitiones per fe notas , etiam illas
propoſitiones demonſtratas,quæ immediate proz bant fequentes , de hoc quidem
toto inſtrumento non aliter Ariftoteles traftauit , nifi per particulas illas ,
utſupra commemoratas , ut ex ues ris Oc. Tractauit tamen de fuis partibus, ut
de enthymemate , quòd pluries fumitur in tali induétione Geometrica,o de
fyllogiſmo, ad quem reducitur talis inductio,non tamenadunun tantum ,ſed ad
pluresfyllogif mos , neque uelim dicas propter hoc, quod Logica, Geometriam
debeat precedere,utplacet nonnullis niſi deLogica,que natura nobis ſuccurrit. Quorundam
enim hoc modo diſciplina eft, & non per inedium ultimum cognofcitur , ut
quæcunque fingularia jamelle contingit, uec de fubiecto quoppiam . Hunc locum
Ariſtotelis extorquent penė.omnes,uerum quidemdicunt, ſed in fua ues ritate duo
errores continentur , primus eft , quod interpretatio non est ad propofitum ,
fecunduserror, quia id quodaiunt contradicit huicloa ÇO Ariſtotelis , inquiunt
enim , quod per medium , ſcitur ultimum , hoc est , quod ultimum . Nempe maior
extremitas concluditur per medium de ipſa extremitate minori . V.ideas quanta
fit horum hominum uanitas, Ariſtoteles negatiue loquitur . Et non per medium
ultiinum cox gnoſcitur. Ipfi autem uani exponunt , per medium ultimum cognofcia
tur , aduertendum quod medium in propoſito intelligit Ariſtoteles ,quod non
tantum fitu ,medium intelligas, quod bis in premißis capitur, fed me dium hoc
loco,nil penitus aliud est quam , quodquid eft ipſius rei , ut POSTERIORVM A R
IST. 29 fparfim in primo poſteriorum , e in ſecundo manifeftuin eſt , in pri moenim
, Textu 201. Juxta partitionein philoponi , uel 39. uel Textu 169. iuxta aliain
partitionem ; ait Ariſtoteles , quod uniuerſale mon ſtratur per medium ,
&non particulare ; uerbi gratia ,hic non per mea dium ,omnis homoest
riſibilis Socrates eft homoigitur Socrates eſt riſi bilis , ly enim hono , non
eft quodquid est , ſed eſt ſubiectum , hic uero per medium , omne animal
rationale eſt riſibile , omnis homoeſt aniinat rationale, ergo omnishomo eft
riſibilis, ibi enim animal rationale eft mes dium , fi inftes fic ,omne animal
rationale eſt riſibile Socrates est animal rationale ,igitur Socrates est
riſibilis . Dico quòd hoc non eft per fe,eta primo de Socrate , quòd fit animal
rationale , nec etiam riſibile per ſe , & immediate,argués igitur fic ,omnis
triangulus habet tres æquales duo bus rectis ,fed qui in ſemicirculo , eſt
triangulus , igitur qui in ſemicir= culo habet tresæqualesduobus rectis . Ibi
enim triangulus non eft quot quid eſt, ſed potius ſubie &tum , feu genus ,
ibi igitur non eſt demonſtras tio , licet fit fyllogifmus , &fi adhuc
inftetur ,quod per decimumtertiam &uigefimamnonam prini,demonftretur quòd
qui in femicirculo , ha beat tres equales duobus rectis , igitur ei qui in
ſemicirculo eſt , non con uenit; quia triangulus;fed per decimamtertiam
euigeſimamnonam pris mi Elementorum . Dico quod in inductione Geometrica , qua
de triana gulo in ſemicirculo cöftituto oftendebatur,quod habet tres æquales
duos bus rectis per decinătertiam ( uigefimamnonam primi, id immediate nõ
conuenit triangulo quatenusſit in femicirculo deſcriptus , fed ut trian . gulus
eſt, ut oſtenditur ſecunda parte trigeſimeſecunde primi Elemen torum
,fecundoautem , &per fe non immediate,omnibus alijs triangulis. Quorundam
igitur ſingularium (quorum quodque non predicatur de ali quo ſubiecto ,
quiafingularenon predicatur deſubiecto aliquo , ut in pre dicamentis
determinatum est ab Ariſtotele ) diſciplina est , non per medium , ultimum
cognofcitur, cognofcitur quidem ultimum nempe mie iorem extremitatemineſſe
minori ,fedhoc non permedium , id est non per quod quid est . Si vero non eft
ita ,quæ in Menone contin . get dubitatio , aut enim nihiladdiſcet feruus
Menonis,aut quæ prius nouit addiſcet non eniin iam ueluti quidam ni. tuntur
foluere dicendum eft particula illa . Si uero non eſt ita,videlicet fi non eft
fcire de nouo,ab uniuerſali ad particulare progre diendo ; tunc , quæ in Menone
eſt, contingit dubitatio , particuld illa : Non enim iam . Yerbum illud
iamfuturi temporis eſt, fic utfit ſens 30 I N P R IM VM LIB . ſus habita mea
doctrina,omodo quo dixi, nos fcire de nouo ,quod id addiſcimus , quod tamen
aliquo modo fcimus, non foluas poſt hac , eo modo , quo illi nitebantur foluere
, fed eo palto ut predocui , it de omni dualitate fciens quod par ſit , de
abfconfa in many dicas, quòd etiam de ea fcis potentia , quodſcit par . Veluti
quidam nituntur ſoliere dicendum eſt . Exponunt Latini &Græci,hunc locum
fic,quidam Platonici dicentes, nos nihil fcia rede nouo ,fed fcire noſtrum
eratreminiſci arguebant illos , qui dices bant quod de nouo fcimus ,
&nitebantur Platonici ducere eos in contra dictionem ,hoc argumento
interrogatiuo, aiunt enim Platonici ipſi jos ne omnem dualitatem eſe parem ,
nec ne anuunt quidam dicentes nos de nouo ſcire , ita eſſe , ſübinde atulerunt
Platonici dualitatem dicentes , igitur fciebatis etiam hanc dualitatem , quam
manu tegebamus eſſe pas rem , quod tamen effe non poteſt , quia nefciebatis
ipſam eſſe dualitatem ecce contradictio , prius fatebantur ſeſcire
omnemdualitatein eſſe par rem , &tamen neſciebantdualitatem hanc parem eſſe
, quod manifeſtum contradictorium eft , reſpondebant autem illi , qui dicebant
nosfcire de nouo , quod interrogati de omni dualitate, an par effet,
reſponderunt non de omni dualitate abſolute , fed de dualitate quam utique dualitatem
effe ſciebant , modo de illa , quæ abfconfam tenebant , oque non erat fibi nota
, ut eſſe dualitas , non fatebantur illam eſſe parem , quia neſciebant illam
effe dualitatem , ita ut hec expoſitio, eotendat , ut Ariſtoteles res prehendat
illos , qui dicebant nos ſcire de nouo , quia male foluebant Argumentum
Platonicorum , xnihil dicat Ariſtoteles contra Platoni. Cos. Expoſitio autem
mea , e directo opponitur , huic omnium expofie tioni , ſic ut Ariſtoteles
arguat Platonicos male foluentes argumentum dicentium nosfcire de nouo , &
contra hos dicentes , quòd fcimus deno uo, nihil in hoc Textu dicit Ariſtoteles
. Pro cuiusfententia declaranda, Queritate , est in primis aduertendum , quod
in hoc textu , quoſdam in telligit Ariſtoteles dicentes , quòd de nouo nos
fcire contingit aliquid , quod tamen etiam preſciebamus in uniuerfali, oiſti
inquiſitiuo argu mento probant intentum contra tenentes , quòd ron ſcimus
quippiam de nouo , quorum negantium de nouofcire reſponſionem redarguit Ariſtoa
teles, einterargüendum , peccant og errant in perſuadendo id , quod probare
nituntur , quem errorem , &peccatum dicentium nos de nouo ſcire , non
redarguit Ariſtoteles propter duas cauſas , altera est , quia eft adeo
manifeftus , ut fine reprehenſione à quolibet cognofcatur pre POSTERIORVM
ARIST. meil , habita intelligentia primi textus huius primi , reliqua caufa
quare: non eos redarguit est , quia primo textu feclufit fuam perſuaſionem ,
dicens omnis doétrina , o diſciplina intellectiua a diſcurſiua , ex præexiftens
ti fit cognitione , ex preexiſtenti non quidem ſenſitiua, quia illa à Singue
laribus ad uniuerſalem , hæc uero poſterioriſtica e contrario, ab uniuer ſali
ad fingulare procedit , ideo eos non reprehendit Ariſtoteles , quia , quifq;
per fe intelle &to primo Tex.cognoſcit; quo modo errabat ilii inter
arguendum . Inquiunt enim arguentes , noftis neomnem dualitatem effe parem
necne ? afferentibus Platonicis attullerunt eis quandam dualitas tem , quam non
exiſtimabant eſſe , quare neque parem , en dicebant iſti arguentes , ſciebatis
in uniuerſali, quod omnis dualitas est par , otas hoc , ideſt paritatem de hac
dualitate , qua manu abſcondebatur neſciebatis , quiaignorabatis quid eſſetin
manu, num dualitas,uel quips piam aliud , autnihil, « nunc uos fcitis iam per
apertionem manus prius eam tegentis , in particulari hanc determinatam , &
particularem dualitatem eſſe parem , ecce quomodo ab uniuerſalicognitione
deuentum fuerit in cognitionem particularis , quod prius dubium apud uos erat .
isti ſic arguentes peccant contra primum textum , utſupra dixi, ocon tra Tex.
112. Neque per ſenſum eft fcire , putabant autem isti ars guentes illam
intuitiuam ſenſationem eſſe doctrinam ſeu diſciplinam . Quia tamen cum
Ariſtotele in intentione , quod de nouo fcimus, & quia etiam error in
perſuadendo manifeſtus eft , ut predocui, de intelle &tiua quidem &
diſcurſiua diſciplina loquitur Ariſtot.ut de uirtute in uniuer ſali etiam in
Menone erat ſermo ideo modo Ariſtoteles dimittit illos ,tam quàm non
concludentes propoſitum , quodfatebantur , & diuertit ſe ad Platonicosmale
foluentes argumentum ,tenentes quod id quodaliquo mo do ſcimus non poſſumus de
nouo addiſcere , uel quòd nostrum ſcire,fit re miniſci, foluunt argumentum ſic,
non enim fatebantur Platonici ornem dualitatem eſſe parem , neque dixerunt
ſeſcire omnem dualitatem eſſe pa rem ,ſed dixeruut dualitatem , quam utique
nouerunt dualitatem effe, mo do cum neſciuerint, an id , quod manu tegebatur
effet dualitas, neque ali quo pacto fciebantipſam eſſe parem uel etiam imparem
,quiaſic aiebant, prius,debemusſcire,an fit dualitas,&poſted ,an parfit,uel
etiam impar, ita ut quandointerrogati fuerant,an omnem dualitatein ſcirent eſſe
parë uel imparem reſponderunt utique de dualitate hoc ſcire , quam quidem
dualitatem eſſe nouerant , uerum eſſe, ſed de dualitate in manu abſconſa, nihil
fciebant , nec quippiam deea aliquo modo fciebant, ideo nefciebant I N P R I
MVM LIB. 3 idem uno modo , ut in uniuerſali de illa dualitate ,quòd effet par ,
u idem ut quod effet par ignorarent in particulari , atqui ſciunt cuius des
monſtrationem habent , & cuills acceperunt. Acceperunt autem non de omni,
de quo utique nouerint; quòd triangulum aut quod numerus ſit , ſed fimpliciter
acceperunt ; illi arguebant deomni numero duali, atque triangulo,&c . Similiter
reſponderunt illi , quod ſciebant omnem dualitatem efle parem . Verba hæcfunt
Ariſtotelis contra tales reſpondentes,nullus enim propo nitſeu interrogat , aut
nulla propoſitio accipitur talis , quòd quem tu . noſti eſſe numerum dualem ,
nofti ne eſſe parem ? aut quam noſti rectili neam figuram eſſe triangulum ,
quòd habeat tres æquales duobis reétis ? ſed accipit de omni numero duali, ede
omni figura rectilinea trilatera, quis enim proponeretſuo tam inerudito
colloquio fic,nunquid nofti oma nem dualitatem quam eſſe dualitatem nofti, quòd
par fit ,autnon ?ines ptam igitur, contra loquendi modumfolutionem reprehendit
Ariftot. reprehendens quidem Platonicos malefoluentes, cui non illos de nouo
fci re dicentes perperam arguentes ; &modum fciendiquo de nouo fcimus fimpliciter
id , quod potentia ſciebamus epylogando dicit , Sed nihil (ut opinor) prohibet,
quod addiſcit aliquis ſic in particula ri , ante ſciuiſſe in uniuerſali , &
in particulari priusignos raſſe, abfurdum enim non eft ,fi nouit quodam modo,
quod addiſcit , ſed ita eſſet abfurdum , ut inquantum ads diſcit, co pacto
ſciat. Idem diſcurſus &expoſitio fiat ſuper Textu fecundo priorum , in
capitulo de Deceptione ſecundum fufpitionem , qué etiam Textum perperam
interpretātur pſeudo philofophi. De dualitate autemſiquis nunc interrogaretur,
noſti ne omnem dualitatem eſſe parent nec ne ? annuat quod ſic , o ſi offeratur
abfconfa in manus dualitas, dia cat quod etiam ſcit eam in potentia parem effe,
licet neſciat a & u , quod dualitas ſit ,e eft fententia Ariſtotelis Textu
101.0 in hoc Textuhas bita una atque altera interpretatione, cui dubium eft
fecundam eſſe pres ftantiorem prima ?niſi quis dicat primam eſſe
preſtantiſsimorum philo fophorum tàm ueterum Græcorum quàm Latinorum omnium
prefertim iuniorum mentem Ariſtotelis interpretantium , fecunda uero interpre
tatio noua est , o hominis uniusfolius,quæ nullo modo preualere poteft contra
tam preclariſsimosphilofophos , quihæc uerba , &fimilia proa ferunt ex
Macrologia loquuntur ,non ualentes intelligere nifi ea , que auctoritate
proponuntur , fpreta ueritate ege ratione, quis iam tam inerudit POSTERIORVM
ARIST. 33 ineruditus est , quiputet Platonicos , qui ætatem confumpferunt in
fua opinione de reminiſcentia , argumentari contra Peripateticos , niſi a
Peripateticis prouocati ſint ? &quomodo prouocari poſſunt niſi exci tentur
? quo pa &to excitabuntur , nifi co argumenti modo , quem in ſecunda
interpretatione narrauimus? deinde quare magis redarguit Ari ſtoteles
ſemiperipateticos illos , qui conueniebantfecum in concluſione, quàm illos ,
quie diametro cpinabantur contra ipfum ? depoſitaigitur emulatone iudicet id
quiſque, quodmagisueritatem ſapit , uerum eſſe, O rationi magis conſentaneum ,
& erit ,fifecunde interpretationi be rebit , primafpreta, &neglecta omni
ex parte . TE X T VS NON VS. ER A quidem oportet eſſe ,quoniam non eſt fcire
quod non eft ,ut quòd diameter fit fie meter. De diametro , coſta pluribus
locis Arifto telesſermonemfacit, utinprioribus, & in Methaphy : ficis ,
quapropter , hoc loco declarabo eius fententiam , ut poſteafit omnibus in locis
clara , primoſcire debes , quod uera eſſe oportet ea , quæ fciuntur , ita ut
ueritas ſuſcipiatur pro illa ueritate que est in concluſione , &non pro
ueritate , quæ in prins cipijs est , a hoc probat indire & te , quia fi
falfum ſciremus , utputa quod diameter eſſet commenfurabilis coſte , tunc
imparia æqualia paribus fierent , o e conuerſo , ut ſi paria equalia
imparibusfunt, igitur diame ter eft coftæ commenfurabilis , quod estfalfumſi
igitur hocſciremus,ſci remus utique quippiam ex non ueris , fed pofuit, quòd
fcire ex ueris fit, igiturſciremus ex non ueris &ex ueris, quod eſſe non
poteft per immea diatam contradi tionem .Diametrum igiturincommenfurabilem
cofte ef ſe noſcimus , quia impar pari æqualisnon eſt ,in qua re,talis eſt
demons ftratio ſecundum Euclidis ſcitum in decimo Elementorum , qua ducitur ad
hocincommodum , pofita iſta , quòd diameterſit commenfurabilis co ftæ,fequitur
, quod numerus impar eſſet par , quod eftcontra primum principium ab Euclide
poſitumfeprimo Elementorum ſexta &feptima deffinitionibus,uel etiam nono
Elementorum prima &ſecundafecundum Campanum . In quare demonftranda fit
diameter a b commenfurabis lis lateri a c (li ponatur) erit per quintam decimi
Elementorum ab ad ac, ficut aliquis numerus ad alium numerum , quia illa
communis , mene Б IN : P R I MVM LIB . b Cee ' . fo ... h............. g k....
ei6 fo L. m 64 kıż8 h 81 . a . fura,fehabebit ad illas duas lineds ,
diametrumfilicet , &coſtam a bigo á c , ficut unitas ad unum atque ad alium
numerum ,unitas enim ut duos numeros illos metitur , ſic illa communis menſura
diametrum , o coſtam dimetiretur,cuius rei ſenfus eſt iſte , quòd quoties
continebitur in uno ats que altero numerorum unitas , toties illa communis
menfura , quæ linea eft, continebitur in diametro , atque coſta , fint ergo
numeri e @ f , qui ſint minimi in fua proportione, eritque ob hoc , alter eorum
impar, quod fic probatur , fi enim uterque eorum effet par , non eſſent iammis
nimi in fua proportione , ſi enim par uterqueſit ,uterque biffariam die uidi
poſſet, outraque mediet asunius ad utramque alterius medietatem eandem haberet
rationemficut totum ad totum ,quorumfunt medietates, ut patet de octonario atq;
ſenario, cuius medietates ſunt quatuor, & qut tuor , atque tria etria,eadem
enim fexquitertiaest,octo ad fex, qua tuorad tria, ſic e ofnon eſſentminimi
inſua proportione quod est contra aſſumptum , quia fuæ medietates effent
minores , quadratiigitür illorum minimorum e « f, ſint ge h , ſi ergo e eſſet
impar , a f par , erit quoque per trigeſimam noni Elementorum g impar , fit
itaque k duplus ad h, eritque k par,ex deffinitione prima noni Eleinentorum ,
quia igitur a b ad a c , ut e -ad f, erit per decimamodtauam fexti, ego
decimāprimam octaui Elementorum , quadratum ab ad quadratum ac, ut g ad h , eſt
itaque g duplus ad h , ſic enim est quadratun a b ad quadratum a c per
penultimam primi Elementorum , quia ita k , etiam dupluseft ad h per affumptum
,ſequitur per nonam quinti Elemen torum , ut g numerus impar ,ſit equalis K
numero pari. Quod fi e fit par , f impar , erit proportio f ad dimidium e ,
quod fit L, ficut POSTERIORVM ARIS T. 4 c ad dimidium ab, quod ſit ad , o ideo
erit quadrati a c ad quadratum a d , ficut proportio numeri h , quieſt impar
per trigeſi mamnoni Elementorumadquadratuin numeri L , quifit m, cui K poa
natur effe duplus , eritque K per deffinitionem primam noni Elemento rum par,
at quia quadratum a c est duplum ad quadratum a d per penultimam primi
Elementorum , erit h duplus ad m . Cumque Kſit etiam duplus ad m , erit per
nonam quinti, impar b , aequalis K nus mero pari , quod impoßibile à principio
proponebatur demonftrandum C f . ........... go!" k ...... A Et ſi
diceretur , quòd uterque eorum , quiſunt in fuaproportione mis nimi, ſit impar
, ut quinque ad tria , ut ſcilicet e ſit quinque, ef tria quadrati illorum fint
go b , eritigitur utraque eorum quadra= ta inparia per trigeſimam noni
Elementorum , ſit itaque K duplus ad h , eritque k par ex deffinitioneprimanoni
Elementorum ,quia igis . tur a bad a c , ut e ad f, erit per decimamoctauam
fextielementorum vundecimam octaui,quadratum ab ad quadratum a c , ut g ad h ,
eſt . itaque g duplus ad h , fic enim est quadratum a b ad quadratum ac, per
penultimam primi elementorum , & quia etiam k duplus est ad h.. per
affumptionem fequitur , per nonam quinti elementorum , ut g numea rus impar ſit
, æqualis k numero pari , quod est impoſsibile . Illatum , ſeu concluſio habita
per hanc induftionem Geometricam eft ,quod impar par ſit , Ariſtoteles autem
dicit , quòd diametrum effe comenſurabilem coft.e non ſcimus, quia ita non est,
ſic ut illud fit conclufum , wnor af fumptum, ut in predi&ta indutione
fa& um est . Vt autem fiatconcluſio Bij 336 " IN PRIMVM LIB. “, id ,
quod aſſumptum fuit , aduertendum , quod ut Ariftoteles in prima Poſteriorum
determinat, Geometra non parallogizat , fed tota illa Geo metrica inductio est
conſequentia formalis,quæ in omnibustenet, cs.com cludit ,nequeinquit,
parallogizat Geometra , ut textus 62 probat Arift. ſubinde aliud etiam eſt
aduertendum , ut in Topicis determinatAri ſtoteles, oſparſim in Logica fua ,
quod illa formalis eſt conſequentit , quando ex oppoſito confequentis infertur
antecedentis oppoſitum , mos do cum ex contradiétione poſita , ut diametrum
cofte eſſe commenfuram bilem ,ſequutum fit quòd impar numerus fit par ,
exoppoſito igitur con ſequentis , ut per numerus eft æqualis impari , igitur
diameter coms menſurabilis ex coſte , id autem fequitur ex falfo poſito , ut
quod ime parſit æqualis pari,igitur id quodſciretur , non eſſèt ex ueris,
ſedpoſie tum fuit quod ex ueris oportet eſſe , igitur manifeſta eſt
contradi&tio ,res linquitur igitur,quód diameter, nullo modo eſſet coſta
commenſurabilis, eft igiturfalfum , igitur nonſcitur , quia uera effe
oportet,quæfcim us TEXTV EODEM VEL TEX. V. OSITIONIS autem , quæ quidemeſt
utram libet partium enunciationisaccipiens,ut dico aliquid effe,aut no elſe,
fuppoſitio eft, quæ ue ro ſine hoc,deffinitio elt; deffinitio enim pofi tio
eft.Ponit enim Arithmeticus unitatem in diuifibilem effe fecundum quantitatem ,
lup pofitio enim non eft. Quid enim eſt unitas, & eſſe unitaté, non idein
eſt. Deffinitio inquit Ariſtot. non ponitur, altero membro contradicéte
reiecto,utfit in fuppoſitione accipienda,fed deffinitionis na tura talis eft,
ut ad hocquod ipfa intelligatur aget docente, eſt tamen & ipfa
deffinitio,poft quam intellecta ſit ,etiam poſitio ,cõmuni uoce diéta,et
legatur textus fic paulatim ,ponitenim Arithmeticus unitatem, utſiArithmeticum
quis interroget, an unitas fit, uel non fit ? annuat quòd ipſaunitas
fit,indiuiſibilem autem fecundum quantitatem ſuppoſia tio noneſt,ſed definitio,
os exponitur àdocente, quia numerus quilibet diuidi poteſt, cumautem ad
unitatem , ex qua numerus cöponitur deuen tum ſit, impartibilis omnifariam reperitur
, ut poſito quocunquenumes ro, ut ternario, ocirca ſe, ex utraque parteſuper ſe
numeri,esſuper illos , alij circumponantur, id toties fieripoterit,quousq; ad
unitate dem POSTERIORVM'ARIST. 37 SH it 13 uentum fuerit,at ubi ad ill.im
deuentum erit ,non fit ultraproceffus,ut cir ca tres,quatuor,& duo,etfuper
hos,quinq; c unum ,medium horū aggre gatorī erit ternaris, hoc exemplari 1 2
345 ſignü eftigitur unitate eſſe principium impartibile omnium numerorīt, ut
Boetius in Arithmetica, docet,modo, exſententia Ariſtotelis, non eſt idem
,unitatem fupponere, oipſam deffinire , quæ deffinitio eſt, unitas eft qua
unumquodque unum effe dicitur, uel eft principium numeri, uel eſt
indiuiſibilis, ex quo tamen indiuifibili, diuiſibilis numerus componitur, ad
differētiam indiuifibilium fecundum magnitudinem , quæ indiufibilianon
componunt diuiſibile ali quod. Age igitur ,ut Ariſtoteli placet, quòd non eſt
fatis ad demonſtratio nem procedere ex fuppofitionibus , etiam immediatis, fed
opus eſt etiam ex immediatis dignitatibus , que etiam dignitates improprie
poſitiones funt, ideo in precedenti declaratione concludebatur ,numerū imparé
eſſe parë,quia ex poſitione,quod diameter.eſſet commenfurabilis coſte, pros
cedebatur, &non ex dignitate &deffinitione intelle &ta ,atque poſita.
TEXT. DECIMUS ALIAS QVINTVS, CH fi re Lisa co UE ofi 18 ар 3 VONIAM autem
oportet credere & ſcire ré, in huiuſinodihabendo fyllogifmum , quē 110
cainus demonſtrationein . Eft autem fic , eò quod ea ſunt,ex quibus eft
fyllogiſmus,necef ſe eſt , non folumpræcognoſcere prima, aut omnia, aut quædain
ſed etiam magis. Quico gnoſcit quòd Triangulus habeat tres equales duobus
rečtis, prius nes ceſſe eft,ut cognofcat XIII . ey xxIx. primiElementorum actu
, non autem ufqueaddeffinitiones fit refolutio pro illa x xXJI cognos feenda ,
omniaautem prima cognofceremus ,ſiuſque ad deffinitiones ago Elementa, ad que
illius XIII. XXIX . primireſolutio fieret, que &fifitfactibilis, tedio
tamennosafficeret , fi femperfieret ufqueadele mentaiſta reſolutio, fedfatis,quod
hoc fieri poßit ,ideo dicit Ariſtoteles neceffe eft præcognoſcere prima,aut
omnia,aut quçdam, Sed etiam magis aduertendum , ut declarabo fuſius Tex . 108 .
huius primi,quòdquanto notitia eft deſimpliciori, illa, certior eft, quam que
compoſitioriseft.Cum autem principium fit minus compoſităipfa concluſione,
neceffe eft, ut &fua notitia ſit magiscerta , quam conclue fionis notitia
,ideo XIII, XXIX. per quas probatur fecunda pars IN PRIM VM LIB.
trigeſimeſecunde primi Elementorum , ſunt magis nota , oſcite ,quàng illa
fecunda pars trigeſimæfecundæ primi. TEXTVS XI. ALIAS V. MA 1 AGIs enim neceſſe
eſt credere principiis, aut oinnibus,aut quibuſdam quam cons cluſioni.
Aduertendum quòd magis credere ,fine pluri, nempe faciliorem effe credentiam
aliud eft , à credere per demonſtrationem , & propter quid, fe ptima, atque
octaua propoſitiones quinti Elementos rum , primo intuitu quando inſpiciuntur ,
facilius eis adheremus oafa ſentimur, quàm aſſentiamur deffinitioni fextæ
,atque o &taua eiufdé quins ti. Ecce quod non magis illis principijs
credimus primointuitu , quins conclufionibus per ea principia demonſtựatis ,
ideo Ariſtoteles ait, aut : quibuſdam , non ſemper omnibus primo intuitu.
Debentem autem habere ſcientiam per deinonſtrationé, non ſolum oportet
principia magis cognoſcere, &, magis ipfis credere, quàm ei quod
deinonſtratur. Sed & cete . Ada uertas quod & finotitia principiorü
uideatur diſtantior intellectui quàm notitia concluſionis, tamen non poteſt
uniri intellectui concluſionis notis tia ,niſi per notitiam principiorum ,quæ
uidebatur ab intelle &u remotior, ut in illis concluſionibus ,
&principijs que precedenti comento citaui. TEXT. XVIII. AVT VIII. I ſiin
omnilinea punctum finiliter eſt. Proprie hoc in propoſito de linea recta
intelligas, que atu punéta habet terminantia , ficut homoactu eſt animal, o fi
etiam de circulari intelligi poßit quæ in puncto à linea recta tangitur, fedde
circulas ri expoſitio uideturfuperftitiofa , aliena à nas tura exempli , quia
exempla per magisfaciliadantur , ita quòd, dequoa cunque uerum eſt dicere, quod
fit linea recta , de co uerum eft dicere, quod in co eſt punctus. POSTERIORVM
ARIS T. TEXT. XIX. VEL IX. 5, Elle P feo to oft 45 oné, 2015 Ado quan ER ſe
autem funt, quæcunqueſunt in co, quod quid cft , utTriangulo ineſt linea ,
& : punctum lineę, ſubſtantia enim ipforum ex his eft , &
quæcunqueinſunt in ratione di cente quid eſt. “ Philoponus & parum dicit
ſuper hoc textu , uel étiam id quod dicit non facit ad propo ſitum Ariſtot.
declarandum , uidetur enim quod tex. his contradicat que : determinat
Ariſtoteles contra Platonem , uidelicet quodlinea non compo natur ex punctis,
præcipue ſexto phiſicorum , primo de generatione, tertiometaphiſice ,ubiex
fententia concludit lineam non poſſe ex punétis componi, quid autem ſuper hoc
textu, qui uidetur oppofitus locis ſupras dictis dici poßit notaui in
prædicamétis, capite de quantitate , uerba aus tem illa , quia ſubſtantia corum
ex ipfis eft, intellige terminatiue, ut linea terminat ſuperficiem triangularem
', pun &tum lineam termis nat, o nullo modo intelligendñ eſt compoſitiue,
ſic ut puncta lineam com ponant , nec etiam linea triangulum , tametfi aliter
ab indoctis intelligas tur, quiafi aliter textus hic concipiatur , ftatim
fequitur , utſi linea ex punctis componeretur, quod diameter o coſta eiuſdem
quadrati eſſent comenſurabiles , quod textu nono, eſſe falſum « impoßibile
oſtējumeſt, quia utrumque per comunem menfuram dimetiretur, nempe per pū
&tum , quod eft contra Ariftot.fententiam ,& contra Euclidis ſcitum .
Preterea tot puncta eſſent in coſta,quot in diametro, &ſic pars effet
æqualis toti, ut coſta ipſi diametro , pro cuius indu &tione , ſit
quadratum a b cd , cuius diameter a d , Cofta uero a c , in qua fuſcipiantur
duo puncta e , f, immediata ſi poßibile ſit , ut aduerfarius ueritatis diceret,
cum com ponatur ex punétis,à quibus, e , of, pun &tis duæ lineæ rectæ
aufpicens tur innitia tranfeuntes per diametrū uſque ad aliă coſtum e regione
pri me coſte collocatam ,certü eft , quòd hæ duæ lineæſecabunt ipſam diame trum
in duobus pun &tis , quæ etiam puneta in diametro immediata erunt, propter
hoc quia lineæ protracte ex hypotheſiſunt immediate , igitur ſi recte lineæ tot
protendantur à coſta in coſtam oppoſitam ,quot pū &ta fue rint in ipſa
coſta, per tot etiam punéta in diametro poſita tranſibūt eedë linee , nec erit
in diametro punétum aliud per quod non tranſiuerit lined aliqua fic protracta
ab immediatis pun&tis ipſius coſte, in puncta imme motia tunin eſt. Uligas,
o achi poßit rcula à ma eguna dicera 40 IN PRIM VM LIB. diata alterius coſte ,
ut patet in hac a. figura ficut f, immediatum eft ipfi e, fic etiam & ,
ipſih , ſi l , fit immedias tum ipſi m , patet propoſitum ,fi au tem interl,om,
intercipiatur pū Aumfitque illud K; ab illo per xxxi. f primi elemétorum excitetur
paralles lus K, o , ipſif , 8 , uel ipſie , he tunc ipſa cadet inter gb , ut in
pun Eto, o , igitur g h , non erant imme diata ,quod eſt contraaſſumptum ,uel
extra utrumqueg ,oh, uerſus b , ueld, & tunc k o , neutri linearū f8 , web,
erit parallelus,quod eſt contra conſtructionem , patet igitur quòd tot eſſent
in diametro quot in coſta pun&ta. De circulari autem linea, quod non
componatur ex pun ftis , fic demonſtratur per tertium petitum primi elementorum
, fuper centrum a, deſcribatur circulus d minor , ocirculus bc, maior ,ficira
cunferentia maioris componatur ex punétis ,duo immediata puneta fi gnentur b @c
, &per primum petitum eiufdem primi ducatur recta alla a ad b, &ab aad
c, hæduæ lineæ tranſibunt per circunferentiam mino ris circuli, ſecabunt igitur
circunferentiam in uno ,uel in duobus pūétis, ſi in duobus, tot punčta erunt in
minori circulo , ficut in maiori, fed ima poßibile eft, duo inequalidcomponi ex
partibus æqualibus numero , ou magnitudine,punctusenim unus non excedit alium
punctum in magnitudi ne,en tot funt in minori peripheria puncta quot ſunt in
maiori, igitur pe ripheria minor eft æqualis maiori peripheric,igitur pars
æqualis eft toa ti,quod pro impoßibile relinquitur, b ſi autem due recte linee
a , b , 4 , C , ſecent minorem circunferens tiam in eodem puncto , fit ille d,
ſu = per illam a c , erigatur linea recta perpendicularis per xi .primi Elea
mentorum ſecansſilicet eam in pun . &to d, quæ fit d e , que erit contina
gens minorem circulum ex corrolda rio x vtertij elementorum , iftad, c.cum
linea 4 b , ex xIII. primi Elemens POSTERIOR V MARIST. 41 2 d IN Elementorum
conftituit duos angulos rectos , aut æquales duobus rectis, @ed cum linea a c
facit duos angulos rectos ex conftru &tione , duo igitur anguli a de , obde
, funt æquales duobus angulis a de , cde per tertiam petitionem prini
Elementorum Euclidis , dempto igis tur communiangulo a d'e , reſidua
eruntæqualia, igitur angulus b.de erit æqualis angulo c d é , &pars toti ,
quod eftimpoßibile. Adiſtud diceret aduerfarius , quod db , odc , non includunt
ali = b . quem angulum ; quia poſſet tunc illi angulo bafis ſubtendià puncto
bad punétum c , quod est oppoſitum po ſiti, quia b c , poſita ſunt ima mediata
, quando igitur diceretur , quod angulus c de , estmaior an gulo b.de negaretur
ab aduerſa rio, quia per angulum b d c, nihil additur in angulo c d e, quia
inter bec nihil mediat , e in concurſu bdoc din d, non est angulus. ifta
reſponſio oſi ex ſe ipſa uideatur ua na , negandoangulum , ubi duæ rectæ line :
bd, cd, concurrunt quæ expanduntur in eadem ſuperficie, oapplicantur non
directe , o fit contra deffinitionem anguli , deffinitione ſexta primi
Elementorum , negando etiam à b inc poffe duci lineam , neget primum petitum
primi Elementorum , tamen quia aduerſarius non putaret iſta inconuenientia ,
quia ſequuntur ad id , quod ipſe dicit , ideo contra reſponſionem aliter ar.
guo , angulus c d e includit totüm angulum b de, oaddit ſaltem pun Aum ſuper b
de , o ſiproteruias quòd non addat angulum , & puns Etus per te , eſt pars
, igitur c d e addit ſuper 6 d e partem aliquam , igitur c d e eſt totum adb d
e . Aſſumptum patet, uidelicet quòd c de addat ſuper bd e , quia ſi angulus
dicatur fpatium interceptum inter lineas non includendo lineas,ut Ariſtoteles
concipit in queſtionibus meca nicis, queſtione octaua , tunc pun &tus
primus lineæ b d extra circunfes rentiam minorem nihil erit anguli bde , o eſt
aliquid anguli c de , igitur c d e maior est b de, a probatum fuit , quòd
æqualis , igi tur aperta contradi&tio , fi autem angulus ultra ſpatiuin
inter duaslie neas,includat lineam includentem ,fpatium tunc primus punctus
lineæ cd extra circunferentiam minorem nihil erit anguli b de, e est aliquid
ans F ino tis 0 th I N PRIMVM LIB . guli c d e , addit , igitur utroque modo
angulus c d e punctum fuper angulum b de , patet igitur ex principali
demonſtratione & folutionis bus ad inſtantias , quod linea non componatur
ex punétis , neque recta ; neque circulari , ſubſtantia igitur lineæ ex punétis
est terminatiue , o non compoſitiue, ut in principio expoſui vel dicas quòd
Ariſtoteles famoſe , oexemplo loquitur de cauſa quæ dat eſe , vel etiam dicas,
quod punétus,in deffinitione Geometrica ponitur, onon Methaphyfice conſiderata
. TEX. X X. ALIAS I X. T rectum ineſt lincæ & rotundum . Verbum il lud rotundum
legit Aueroes circulare, o melius, ut ali bi Ariſtoteles rectum ineft linee o
circulare, ſic ut pro uerbo rotundum ,legatur circulare,ratio quia circula re
lineæ est proprium ,quod uult Ariſtoteles in princis pijs mechanicarum
queſtionum inquiens :In primis enim lineæ illi , que circuli orbem
amplectitur,nullamhabenti latitudinem contraris quodam modo ineſſe apparent ,
concauum ſilicet,&conuexum . Rotondum uero proprie corpori conuenit , non
lineæ , ut etiam placet Ariſtoteli libro fecundo Cali capite primo, quæ lectio
non uidetur difplicere etiam Ioan ni Grammatico , &quodſit iſta mens
Ariſtotelis , utfic legatur manife ftum eſt , per ea, quæ textu decimo ait ,
non enim , contingunt non ineſſc aut fimpliciter , aut oppofita,ut lineæ rectum
aut obliquum ,capiens ob liquum pro circulare. TEXT VSvs X. T par & iinpar
numero . Par quidem ille eft , qui ab impari unitate differt cremento uel
diminue tione , ut quinque à quattuor , uel à fex unitate , Vel par eſt , qui
biffariam ſecatur , impar uero, qui ne in duo æqualia diuidatur, impedimento
eft unia tatis interuentus . POSTERIOR VM AREST. Τ Ε Χ. XXV. ALI AS XI.
NIVERSALE autem dico , quòd cum fit de omni , & per ſe eſt, & ſecundum
quod ipfum eſt . Ioannes Grammaticus & fequaces determinant, ut hæc tria
inter ſeſint diſtincta, fic quod id , quodper ſe eſt inſit abſque eo , quod
fecundum , quod ipſum eſt , 1/oſceli quidem per ſe ineſt habere tres æquales
duobus reétis ,non tamen ineſt ei (inquit Ioannes).ſecundum quod ipſum , quia
fecundum quod ipſum ineſt triangulo. Aduertendum quod famoſa doctrina ( qua
etiam fæpe Ariſtoteles utitur ) perſe Iſoſceli inefthabere tres æquales duobus
reftis non tamen ſecundum quod ipſum . Alio autem modo per fe ,id dicitur
alicui conuenire , quod etiam conuenit ſecundum quòd ipfum , ita quod, id quod
non conuenit ſecundum quod ipſum non etiam conueniat perſe , niſi quodam modo,
fic quod perſe non immedia = te , oſecundum quod ipſum , diſtinguntur tanquam
magis &minus uni uerfale per fe autem immediate , &ſecundum quod ipſum
, hec quidem non diſtinguntur,ita ut unumſine alio poßit ineſſe eidem ,
Peccauit igitur Joannes ofequaces determinantes uniuerſaliter id, quod
particulariter uerum est, uniuerfaliter autem falfum , Triangulo igitur
immediate, cu per ſe, o ſecundum quod ipſum conuenit habere
tresduobusre&tis æqua les , quodam autem modo non per ſe ipſi iſoſceli
conuenit habere tres duobus rečtis equalis . Vt Ariſtoteles ſententia, hæc ſit
, quòd per ſe immediate , ſecundum quod ipſum , idem fint , neque ab inuicem in
aliquo diſtinguuntur, per le autem non primum , “ſecundum quod ip fum , hec duo
uere diſtinguuntur , ut Ioannes ſuisexemplis, immo Ari ſtoteles in
Texu,exemplomanifeſtat . HET luben 10a TE X. X X VI . ALIAS XI I. ## ling
PORTET autem non latere , quoniam fæpe numero contingit errare , & non eſſe
quod demonſtratur primum uniuerſale, ſecundum quòd uidetur uniuerſale
demonſtrari primū, aberramus autem hac deceptione, cum aut ni hil ſit accipere
ſuperius,peti fingulare , aut Fij 44 ? IN PR ÍMVM LI B. ſingularia. Aduertendum
Ioannem Grammaticum & uniueros Ario ſtotelis interpretes , ſiue Greci,
Latini , uel Arabes fuerint perperam eſſe interpretatos hunc Ariſtotelis Textum
, &tres ſequentes textus @rita male fenferunt de Ariſtotele , quòd litteram
pariter & fenfum omnem peruertunt &corruinpunt . Circa Ariſtotelis
litteram , an tequim ad eius interpretationem accedam , falſit as loannis ,
oſequa tium est hoc loco non pretereunds. Primo circa hunc textum , loans nes
adfert exempla multa quorum neque unum tantum facit pro textus declaratione ,
ait enim Ariſtoteles. Cum nihil fit accipere fupes rius. Nihil fit , neque uox
quidem , utputa nomen aliquod fictitium ,& acceptum ,cui tamen in re nihil
refpondeat ut eſt hoc nomen chimera, cui nomini nihil extra in re conuenit ,fic
tandem, ut neque res ſi aliqua fie ue ens aliquod , ita ut nulla ſit res ,
neque ſit nomen aliquod ſignifi cans illud non ens . ipſe autem loannes
explicat Ariſtot . litteram cirs ca illud , cui eſt accipere fuperius ,
&circa illud , cui nomen impoſitum eſt,ut est, Terra ,' Sol, øMundus ,
&triangulus , horum omnium ex tant nomina , ut manifeftum eft; o ſingulum
ſuperius est ad ſua indiuis dua , nempe ad hancterram , ad hunc Solem , ad hunc
mundum , ad -Scalenonen , perperam igitur interpretatur loannes hunc textum cum
ipfe adferat exemplum de eo , cui ſit accipere fuperius , cui nomer impofitum
eſt , Textus autem Ariſtotelis dicat , cum non fit accipere fuperius. T E X.
XXVII. i VT fi quid eft, fed innominatum fit in difo ferentibus fpetie rebus.
Ioannes Toto errat Cees loo .fequentes ipfum , circa litteram e doctrinam Ari
stetelis ,textusfic habet . Si quid eft ,illud tamen innominatum fit in
differentibus fpetie res bus . Ioannes inquit , non exiſtente commune aliquo de
quo non exiſtente , prebet exempla deexiſtentibus , contra feipſum V etiam de
nominatis in differentibus petie rebus , contra Ariſtotelis textum , ait enim
Ariſtoteles . Sed innominatum ſit in differens tibus fpetie rebus , exempla
adfert Ioannes de Triangulo, qui nominatur , eft in pluribus fpetiebus
differentibus , ut in Iſopleuro Iſoſcele , Scaler.one , o fimiliter de quanto
prebet cxemplum loane nes , quod nedum nomen habet , fed in differentibus
fpetie pluribus est POSTRIO RVM ARIST. 45 par A @ etiam in pluribus
generibusdifferentibus eft , neque mireris uelimſi Joannes ocæteri expoſitores
aliò pedem retullerint, cumfaltus aſperie tatem ſenſerint &iuerit uſque
Gorcie inficias , obfcurans Ariſtotelem Platonicis ſuadelis . TEXTVS VIGESIMVS
OCTAVVS. VT contingat eſſe ficut in parte totum in quomonftratur his enim quę
funt in te , ineft quidem demonſtratio , & erit de omni, ſed tainen non
huius erit primi uni uerfalis demonftratio , dico autem huius primi , ſecundum
quod huius demonſtra tionem , cumfit primi unirerfalis. Bonus Ioannes ofequaces
prefertim Niphus fueſſanus medices Neapolitanus philotheus Augu ftinus
philoſophus, og fequaces multi fimiles ſine nomine , pleni nominis bus, quos in
interglutiendam uniuerſam Ariſtotelis philoſophiam, os ho rum textū ſuffocauit
, cū ad exempla deuenerint,quibus Ariſtoteles cla rum reddit id, quod in tribus
modis errandi circa univerſale dixit, loan nes ( eg peius cæteri) circa finem
comenti huius textus fic ait ,in reliquia trium modorum exempla per bec
exponit, uerū non utitur ordine exem plorum cum ordine modorum errandi,
propofitum enim exemplum ters tij eſt modi, Dico philofophum fummoartificio
ordiri otexere modos errandi cum exemplis , ſicut modo cuique errandi
correſpondeat pros prium &peculiare exemplum , ut quemadmodum tres
numerauerit ers randi modos circa uniuerfale , tria exempla , ipſis
correſpondentia fubiecit, ſic ut primum exemplum primo errandi modo, fecundum
exem plum ; ut in littera Ariſtotelis ponitur fecundo modo errandi correſpon
deat, otertium exemplum ipſi tertio modo errandi apte conueniat, quo ordine
confuſionem omni ex parte inter cxempla os modos errandi fuæ giens, in primis
ſuo artificio , modum errandi &exemplum fibi corre fpondens notificauit
circa id quod debet effe medium demonſtrationis , ſe cundus errandi modus
&exemplum fibi correſpondens, cõcernitfubies Sum demonſtrationis, tertius
modus errandi circa uniuerfale cum exem plo ſibi coherente, concernit totam
demonftrationem , feu arguendi mo dum qui dicitur permutata proportio , errauit
igitur Ioannes v omnes alij, qui aliter quam ut hucufque dixi extorquent
Ariſtotelis textum , non intelligentes. 3 I N P R I M VM LIB. · Pro
declaratione igitur uigeſimi fexti textus , fit hæc noftra prima ina ter
expoſitores dilucidatio uel ſi difpliceat , dicas eam eſſe ſecundam ,uel etiam
millefimam . Primī modum errandiexpono ſic, ſcias quòd de duas bus lineis
reétis , tanquam de ſubiecto , concluditur hec paßio , nempe quod non
intercidant; uidelicet quòd parallelæ ſint ſeu equidiſt antes, per hoc ,
tanquam per medium , quia linea recta ſuper duas line as rectas cadēs eſt
poſita in omnibus quatuor angulis rectis , ideo ille due recte parallelæſunt,
oetiam per hoc me dium , quod cum linea recta ſuper duas lineas rectas
cadensfecerit an- A. 6 gulos quomodolibet æquales, utputa alternos acutos ſibi
inuicem æqua- c . d les, uel alternos obtufos ſibi inuicem equales, illæ duæ
lineæ funt æquidis ftantes , iterum per hoc medium quãdo linea recta cadens
fuper duas alias rectas lineas fecerit exterio rem angulum æqualem interiori ex
eadem parte, ille duæ lineæ paraller le ſunt , &adhuc per iftud medium , ut
fi linea recta cadens ſuper duas rectas lineas , fecerit duos intrinſecos
angulos æquales duobus reftis ,ut probant X X VII. XXVIII. primi elementorum
quod adhuc illæ due recte linee parallelæ ſunt. Modo ſi Geometra putaret
demonſtras, tionem factam per ſingulum mediorum di&torü ,eſſe uniuerſalem
,erraret primo errore circa uniuerfale ,quia nullibi medium eſt uniuerſale et
unī; nulla enim natura, nec res aliqua eft cómunisad omnes quatuor angulos rectos,
ad binos acutos, binoſque obtuſos,ad intrinſecum et extrinfecum ex eadë
parteſumptos , et ad duos intrinſecos ex eademparte acceptos, niſi quis uudeat
dicere,quòd quædam cõmunis natura,eſt ad omnes pres nominutos angulos, utputa
æqualitas angulori, quæ quidem angulorum equalitas,ratio eſſet, ut cõcludas
lineas eſſeparallelas, iſtud ſomnium ,ul tra quodfit falfitate plenum , eft
etiam nimis procul ab apparenti mena dacio, non ne etiam in concurrentibus
lineis repperitur æqualitas angu lorum ? ut puta in his angulis qui ſunt ad
uerticem poſiti, cauſati à linea cadenteſuper duas rectus lineas,illa enim
cadens cum utralibet earumf1 . per quas cadit , caufat uerticales angulos
æquales ut ſunt anguli a gd, @ b8f, uel anguli c fe, em gfb, ſtatim hoc reiciet
dicens,quod de al 1 POSTERIORVM ARI'S T. 47 ternis angulis intelligenda eſt
illa equalitas , ut natura illa communis tantum ſit equalitas coalternorum ,
hec reſponſio eft uana cũ illa equa a litas ſitequiuoca , uel dicas analo gam ,
ad equalitatem retorum , acu torum , obtuforum angulorum , @etiam dico, quod
totã hoc,& qua litas angulorum,non eft und abſolu = ta naturd,una abſoluta
( utputa) eſt unus atq; alter angulorum , reliqua natura eſt reſpectiua et ad
aliquid , ut æqualitas inter utrumq;, ſi diceret quod accipitur pro medio,
tantuin equalitas in omnibus illis fine pluri,dico quòd per æqualitatem non con
cluditur, quod lineæ parallele ſint,niſi per æqualitatě talium angulorī, Et
dico etiam quòd non tantum per equalitatem coalternorīt , ſed etiam per æqualitatë
extrinſeciad intrinfecum, et per duos intrinſecos,quorīt alter acutus reliquus
obtufus,qui equalesfunt duobus re & tis, quæ omnia non habent unum
ſuperiusuniuocum , igitur non eft aliquid accipere ſus perius ad hæc omnia ,
igitur petimus tunc ſingularia media in propoſito concludendo, &ſicerramus
, ſi nobis uideatur uniuerſale demonſtrare primū. Error igitur iſte circa
uniuerſale,eſt circa medium demonſtratio nis quod quidem medium uniuerfale, cum
non fit , fingularia media peti mus, ſimile habes huic per XXVII ( XXVIII primi
Elementorū, Euclidis per quas Ariſtoteles manifeſtat propoſitum . Itidem fimile
per quintam , fextam , a ſeptimum fextiElementorum ,quibus probat Eucli des per
diuerſa media ſingularia , o non per unum uniuerſale medium , triangula eſſe
equiangula. Aliud etiam in Euclide habes xui primi Elementorum « in ſexto
Elementorum propoſitione xxx, quibus lo cis ſimile huic probat, quod duæ lineæ
,in dire&tum cõiun&tafunt et lines und, ohoc per ſingularia odiuerfa
media, quibus non eft aliquid unis accipere fuperius. Vigefimiſeptimitextusſit
hec mea declaratio , immo.eft ipſius Ariſto telis ad unguem , quam Ioannes
grammaticus , neque nouus aliquis , ſiue antiquus etiam interpres, non percepit
, hoctextu affert Ariſtoteles les cundum errandi modum , à primo modo errandi
longe dißimilem , atque diuerfum , in primo modo errandi nulla natura communis
accipiebatur 48. IN PRIM VM LI B. 1 fuperior, neque nomen aliquod, ſeu quæpiam
uox habebatur, in hoc aue, tem ſecundoerrandi modo, natura ipſa communis eft, o
inſuper nomen . ei impoſitum eſt. Verum quia natura illa non habet ſub ſe
plures fpe= ; cies , ideo illa, &fi fit, anominata ſit, in pluribus tamen
differentibus fpecie rebus, innominataeſt, ob defficientiam ipſarum ſpecierum ,
quiail Leſpecies non ſunt, ut folis , terre , mundi natura , eſt innominatain
plu ribus ſpeciebus terre , quia plures ſpecies terre nonſunt , fi igitur quiſ
piam demonſtrationemde cælo tentaret, & quodfit dextrum in ipſo com
cluderet, &putaret quod eſſet ſuademonſtratio uniuerſalis , quia no eft
aliud primum cælum ,erraret quia non de hoc cælo , primofitdemöſtra tio , fed
de natura coeli , ut eft quid uniuerfalius ad hoc primum cælum , ſeu de cælo ,
fine contratione ad hoc ſingulare cælum, quam doctrinants Ariſtotelesſuis mathematicis
exemplis, &quidem aptißimis , fole cans didiorum reddit ; inquit enim in
exemplo fecundo , quod quidem fecundo errandi modo correſpondet , oſi
triangulus non effet aliud quàm 1f0a) ſceles , ſecundum quod Iſoſceles eſt .
Videretur utiqiie ineſſe primo,has bere tres æquales duobus rectis, cum nullus
effet alius triangulus,uel nul la alia eſſet ſpecies trianguli quam fofceles ,
&tunc error ſecundo mos : do contingeret. Explico Ariſtotelis ſententiam .
In primis eft aduerten dum , quòd triangulus re ipſa hubet ſub ſe tres ſpecies
triangulorum , fo pleurum , iſoſcelem oScalenonen , quod ſi tamen per
imaginationem ponamns , quod non haberet ſub ſe ljopleurum, neque Scalenonen ,
per ſecluſionem illarum duarum ſpecierum , tantum haberet ſpeciem unā, ut iſoſcelem
, eſſet tunctriangulu : innominatus in Scalenone atque Iſos: pleuro, quia fi in
illis ſpeciebus triangulus nominaretur , ut fic,Scalenon eft triangulus,
Iſopleurus eft triangulus , iam illæ ſpecies duæ triangu . lorum effent , quas
ſuppofuit Aristoteles, ut non eſſent,ut ſuum oſtendat . propoſitum . His
ſuppoſitis , ſiquis de foſcele concluderet ; quòd tres haberet æquales duobus
reétis ,o putaret quòd uniuerſalis effet bec des monftratio, quia nullus eft
alius triangulus , quam foſceles, crraretſes. cundo errandi modo , quia
Iſoſceles habet fuperius o uniuerſalius fe , nempe triangulum , de quo primo
concluditur talis affectio, & talis era , ror multa diuerſa à prinoerrandi
modo habet,quorum unum eft, ut pri mus modus errandi,ſit circa.medium , &
iſte ſecundus modus errandi fit. circaſubiectum demonſtrationis . Aliud , ut in
primo nonſitfuperius ali quid nec etiam nominatum , In hoc ſecundo eſte
ſuperius og nominas, tum , ut triangulus, Tertio illud innominatumſit in
pluribusmedijs, hoc. autein ? POSTERIORVMARIST. 49 DS autemfecundo modo
innominatumfit in duabusfpeciebus tantum , uideli cet in Iſopleuro w Scalenone,
Ibi ut in omnibus fit innominatum , Hic aue tem nominatum ſit tantum in una
ſpecie, ut triangulus in 1fofcele. Advigeſimum octauum textum cã acceſſerit
philoponus ad orchos in greſſus, non potuit ex inextricabılı labirintho egredi,
ita ut ea, quæ pue rilia ſuntin interpretatione, perperam ej tortuoſe ſit
interpretatus,vt puta uerbum hoc, aliquando , non temporaliter,inquit,audiendü
eſt, ſed quaſi diminutius ut ait ipfe, non exacte fit audiendum , fimili modo
ergo ijtud uerbum , Nunc,haud ,inquit,temporaliter audiendum eſt , quin po tius
, exacte, o ſecundum Methodum demonftratiuam , Pedagogorā mo dum inſequutus,
qui quattuorgrecis litteris intineti temerario aufu, ſi ne quacunquefcientia
aut liberaliarte ad explicandum Ariſtotelem uens toſi cum accefferint ipſi
implicati non ut loannes plicis binis uel ternis terminos exponit, ſed denis
centenis atq; millenis epiſtolis ſuos codiculos imptent promittunt etiam multis
nobilibus ſe expoſituros Ariſt.uocantų; fepe illos nobiles nominatim ut teftes
tādem ſint ſue infanie , et ut uidean tur etiam ipſi aliquid in Ariſtotele ſuo
chere illuſtraſſe, cum nondum pri ma philoſophie elementa fufceperint, Pereant
ipſi cum ſua ignorantia , uelfuis fericis ueftibus addifcere poft multa těpora
incipiant,oſiferico indueti,atque equoinfedentes, o rabini facti addiſcere
uerecundantur. fufcipiant eam quam decet philofophum , ueftem , o Euclidis
honeſtate accedant ad Socratem ; ne fintpoſt hac , fomenta praua difpofitionis
preſtantißimæ iuuentuti in celebratißimis terrarum gymnaſijs . Qui dam alij
interpretes quorum eſſe nefcio, quia ſuum eſſe nihil eft, neq; fuit unquam
abradunt ly nunc, & locofuo,legunt, non, &ly aliquando,fo litarie fine
fenfu relinquunt , quibus expofitionibus uel potius torturis iam iam incipiat
Ariſtotelis lamétatio, Abigatur igitur cum mufcis afta bulòunaatque alteru
interpretatio, feu magis Ariftotelis deprauatio , et legatur textus ut lacet in
greco, quitextus græcus habet has particulas, aliquando, et nunc, que uerba
temporaliter onullo alio modo intelligan tur, neque intelligi aliter poſſunt,
onon legatur , loco de ly nunc , non, ut quidam facit hoc tempore, quenſcies,
ſi tua ſcripta ab ipſo accepta le geris, Pro declaratione igitur uera ,
queunaſola eft, quă inferius fübi ciam , et nulla alia ab ifta uers effe poteft
, ad Arijtotelem redeundo , textum expono . Proportionale, quod commutabiliter
eſt. Aduertendū quod iftud de proportionale, exemplum , eft tertij modi, pro
cutus declaratio 03 of 21 that * MA es G so IN PRIMVM LIB, ne dico Ariſtotelem
proprium quantitatis determinaffe in fine predicar menti quantitatis dicentem ;
Proprium autě quantitati cft maxi. me çqualitas & inequalitas,reliqua uero
queno ſunt quan ta no proprie æqualia ac inęqualia eſſe dicuntur, Velutidiſpo
ſitio ,uel etiam habitus æqualis, inequalisue non omnino propriedicitur, fed
familispotius,atá; dißimilis, & album itidem æqualeinæqualeue non onnino
dicitur, fed fimile dici atque dißimile dicifolet, Proportio ſeu ratio, ut ab
Euclide deffinitur in quintoElemětorum eft duarum quantæcunquefint eiufdem
generis quantitatum alterius ad alte ram habitudo quædam , ex Ariſtotele igitur
habetur , quod proprium eft ipſi quantitati, esſe quale aut inequale. Ex
Euclide uero quòd propora tio eſt quantitatumfolummodo, ex utroqueuero , quod
tantum in quana titate proprie reperitur proportio , quæ quidem eſtæqualitatis
, in equalitatis ; inequalitatis uero proportio biffariamſecatur fecundum
Boetium in primo Arithmeticæ in inequalitatem maiorematque minoa, rem
,equalitatis proportio eſt quandofundamentā et terminusfunt æqua lia, ut duo ad
duo, inequalitatis uero proportio eft quando fundamenti eſt maius , terminus
autē minor , et hæceft maior inequalitas.uerominor eft,quando fundamentum
eftminus terminus uero maior,ut sunr ad 21, maior,et 11 ad 1 1 1 1 minor,
Præter hæc ſcito , quidam modiarguenda quibusmathematici utuntur(de
quibusEuclides in quinto) indifferenter applicatur quantitatibus eiufdem , fiue
etiam alterius generis, dummos do bina ſintuniusgeneris et bine alterius, ut in
equaproportionalitate patet, hic autem modus-arguendi qui dicitur commutata
proportio non niſi quantitatibus, quæ eiufdem generisſunt attribuitur . Quibus
pras intelectis o declaratis , uides Platonem improprie applicuiffe uirtutia
bus in Gorgia cõmutată proportionalitaté, quibus etiã qualitatibus,pro portio
nonconuenit, ex deffinitione proportionis fuperius data,quapro, pter non eſt
propria rerum natura, neque uera e propria Ariſtotelis ſententia ,aliena
docirina perturbanda. Vbienim ait Ariſtotelesloquens de tertio errandimodo,aut
cótingit efle, ficut in parte totūztoti hoc loco,uniuerſale intelligendum eft
,partem uero inferius ad ipfum uni uerfale , Mododico,quòd antiqui philofophi
qui precefferütEuclidem Ariſtotelem ſæpißime errauerunt hoc tertio errandi
modo, putantes de toto, feu uniuerfalemfacere demonftrationem , que tamen erat
in par te demonstratio ,hoc eſt particularis &non univerſalis, ideoait
philoſos plus quemadmodum demonftratum , eft aliquando , uidelicetabantiquis
POSTERIORVM ARIST. philoſophis, qui tempore Ariſtotelem ,atque Euclidem
preceſſerūt,quia ipfi non aduerterunt quod quantum , eſt id (id eſt natura
aliqua) quod fum perius accipitur , nominatum eft in pluribus differentibus
fpecie res büs, differt igitur iſte modus à primo, quia ibi non erat accipere
aliquid ſuperius, o etiam differt àſecundo, quia in fecundo illud fuperiusnon
erat nominatuin in pluribus differentibus ſpecie rebus, hoc autem , quod hic
conſideratur, eft in pluribusſpeciebusnominatum, & comune,atque uniuerſale
onnibus quantis, fiue illa diſcreta , ſeu cötinua ſint, quorun effe fucceßiuuki
, feuetiam permanensſit , ut numeri ſunt,lines , folida, tempora , &alia
huiufmodiſpecie differentia , feorfum ab inuicem ali quando acceperunt antiqui
deſingulis demonſtrationemfacientes. Nunc uero, inquit,philofophus uniuerfale
demonftratur, fenſus, uniuerſali ad hæc omnia,modusiſte arguëdi imediate et
perſe attribuitur, ut ipſi quan titati , quatenus tale . Nunc dico , nedum in
eo Ariſtoteleo quidem tempo të , & à philofophis reéte fapientibus , ſed
etiam oprimo abEuclide; cuius clarißimi philofophi beneficio habetur
demonſtratio uniuerſalis omnibus quantis, ut fuo quinto libro Elementorum docet,
propoſitione fextadecima, Errabant igitur antiqui aliquando , arguendo
permutatim in numeris ſeorſun , in lineis feorfum , cæteris feorfum , nunc au =
tem non contingit iſte error his , qui ſequuntur Euclidis ſcitum , quia nunc,
ideſt poſt Euclidis fcripta uniuerſaliter demonſtratur , hoc eſtmo:.
dusiftearguendi primo per fequantitati conuenit , quægenuseft ergo üniverſale
adomnia quanta , hæc autem eſt mea interpretatio , uera og germanaipſi
Ariſtoteli, ut etiam ipſe ſuis uerbis manifeftat Text. 93. ubi apertißime
declarat propoſitum . Propter hoc nec fi aliquis monſtret, unumquēque trian
ĝulum demonſtrationeaut una , aut altera quod duos re čtos habet unuſquiſque
Iſopleurus feorfum & Scalenon ,& Iſoſceles, nondum cognouit triangulum
, quòd duos rectos habet , niſi ſophiſtico inodo ,rieque uniuerfaliter triangu
huum ,ne quidem fi nullus eſt , pręterhæc triangulus alter,no enim fecüdum quod
trianguluseft cognouit,neque fi om= nem triangulum ,ſed quatenus ſecundum
numerum , ſecun dum autem fpeciem no omnem , & fi nullus eſt , quem non
nouit . Non eſt ſurdaaure pretereundum artificium fummum , quod in hoc exemplo
Ariſtoteles docet, fcias hoc exemplo de triangulo , com ✓ ple &ti duos errandi modos, vel
facerepro duobus modis, errandi, ſecun Gij sa IN PRIMVM : LIB . do, atque
tertio, cum primum defingulo modo , fecundo &tertio , fe. paratim exempla
aptißima e peculiaria pofuit , ftatim attulit aliud exemplum utrique, ſecundo
uidelicet,atque tertio modo feruiens, Com. poſitiuam methoduin etiam in
exemplis feruauit. Littera autem per particulas, ſic declaratur ; inquit enim,
demonſtratione aut una aut al tera; una enim demonſtratione numero fieri-non
poteft , ut deIſopleuro folcele, C Scalenone , concludatur quod tres equales
duobus reftis habeat , uia igitur fpecie demonſtratio erit, qua de his tribus
triangu lorum fpeciebus demonſtrabitur , quod tres habeat æquales duobusree
Atis , ideo dixit Ariſtoteles demonſtratione aut una aut altera ; ac fi dices
ret pluribus numero demonſtrationibus, de tribus ſpeciebus illis cons cludi,
quod tres duobus rectis pares habeat hæc autem demonftratio , nullo modo
intelligi potest , quòd fyllogiſtica ſit , quia tuncmaior pre. miſſa acciperet
de uniuerfalitriangulo , quod haberettres equales duo bus reftis ,ſic
fyllogizando , omnis triangulus habet tres angulos æquam les duobus rectis ,
ſed Iſoſceles , uel Iſopleurus , uel Scalenon , eſt triangulus , igitur
foſceles , uel Iſopleurus ,uel Scalenon habet tres, æquales duobus rectis, Sic
igitur fyllogizando uel particulatim abſque illo diſiunto , fed uno tantum
affumpto triangulo , non ne , ſcio de triangulo uniuerſaliter , in maiori
aſſumpta quòd triangulus habet tres æquales duobus reftis ? quod e diametro
opponitur ei quod Arift. ait,ut et fi de Iſopleuro, et cæteris fciuero,quòd habeat
tres æquales duo bus,nondūſcio de triãgulo,niſiper accidens,per accidés dico
quatenus in ferius omne, ſuperiori accidit,modus igiturilledicendi , quein
uidentur omnes latini atque greciſequi, non poteſtſtarecum Ariſtotelis ſentena
tia, quia iam priusſciretuniuerſale in maiore fumpta et per uniuerſale in
cognitionem particulariñ deueniretur ,qui error non eſt , ſiquis autem di
ceret, ut fic intelligi debeat demonſtratione,aut una fyllogiſtica , aut alte
ra Geometrica, dico quod nullo modode ſyllogiſtica poteft intelligi, quia
ſequeretur idein incommodum eo modo arguendiſyllogistice,contra dos Arinam ex
litteram Aristotelis , ut fupra dixi, quia tunc per cognitio nem uniuerſalis
deueniremus in cognitionem particularium quod ex ſi id uerum ſit, modusquo ipſe
textu Il docet, quo modo de nouoſci mus,non hoctamen in hoc textu pertractat,
ſed agit,hoc textu ,& in hoc , exemplo, de errore , qui opponitur uero modo
ſciendi,onon de mo: do , quo de nouofcimus quippiam. Niſi quis de ſyllogiſtica
demonſtratio neintelligensafingularibus ad uniuerſale progredereturfic, omnis 1
/ 0 POSTERIO RVM 'ARIS T. ſceles habet tres equales duobus rectis,fed
triangulus iſoſceles est , igis tur triangulus habet tres duobus rectis pares,
&de alijs fpeciebus limie liter, & tunc fciret iste ſecundum numerum i
particulariſubiecto I fofce le ad uniuerfalem triangulum progrediendo,quod no
diſplicet, et ſic una fpecieſyllogiſtica concluderetur de uniuerſali per
particularia , uel etiã altera,nempe Geoinetrica . Pro cuius ellucidatione , eft
fciendun ; ultra ea , quæ de Geometrica demonſtratione dictum eſt in textu
tertio , quod Euclides ſecunda parte trigeſimeſecunde primi Elementorun
demonſtrat quod triangulus qua. tenus triangulus est, habet tres angulos
æquales duobus-rectis , fi quis modo, utcunque intructus bonis litteris ( non
dico Ariftelis deuoratos, res uel potius carnium «acephalorum ſeptem , unis
bycis uoraces , quiafi uerbauinitateplena habeant non tainen Aristotelis
do& rinam tenent,quam falſo profitentur)iſus fuerit illa. demonftratione
oſtendens de 1fofcele , quòd habeat tres e qualesduobus reftis per
decimamtertiam O vigeſimumnonam primi Elementorum , aut altera numero , eadem
ta menſpetie de Iſopleuro & Scaleno.ne idein oftendat , ita quòd de ſingus
lis trianguloruin þetiebus inducat , quod habeat unaqueque ſpecies triangulorum
tres equales duobus, nonduin cognouit inquit , triangus lum quòd duobus reftis
æquales habet , niſi ſophiſtico modo, neque uni uerſaliter trianguluna effe
huiufmodi , ne quidein fi nullus eft , preter, hec, triangulusalius , non enim
quod triangulus eft huiufmodi cogno uit , nequeſi omnem triangulum , hoc habere
contingut , utputs duobus reftis æquales,ſed quatenusfecundum numerum , ideft
fecundum nume rumfpetierum triangulorum, ſecunduin autein fpetien , in uno
uidelicet uniuerfali, non omnein ca ſi nullus eft fecundum ſpetiem , id eſt ſe
cundumnumerum trium triangulorum petieruin , ſeparatim ,quem non nouit. Erraret
igitur duplici errore ille , qui putaret eße unia uerſale fubie&tum , &
totum , id quod effet particulare fubieétum , parsfubieétiut , quia tunc
acciperet in parte totum , id eft partem , to tum effe exiftimaret . Si autem
triangulus immaginetur faluari in unica tantum fpetie , ut in iſoſcele, tunc
exemplum intelligatur , aptari feo cundo modo errandi tantum , non etiam tertio
. Vides igitur amice, quod Ariſtoteles modos tres attulit errandi circa
uniuerfale,quorum cuique proprium , &peculiare exemplum aptauit . Neque
legas poſt hac lyaliquando , prominus exacte , nequely nunc,pro exacte ita ,ut
neutrum ,tempusſignificet , fed utrunque temporaliterlegatur , neque 1 i 54 IN
P R I M V M L I B. legendum eſt ly nunc pronon , ut quidam , qui nullus homo
est facit . Ad id autem quod Ioannes de Gorgia tetigit , aie quod quantitas ,
natura ipſa , qualitatem precedit , fic ut quantitas , fit prior ipſa qualitate
non dico tempore necetiam natura ſed ordine , oid quod propriumquan titati eſt
prius est proprio qualitatis, fimiliter et modi,quiſunt ipſiquãti tati proprij
, ut eſt proportio, & modus arguendi , qui dicitur permu . tata proportio ,
funt hæc quantitati propria oſibi primo conueniunt, deinde etiam qualitatibus
ſecundario « improprie attribuuntur. Quem admodum etiamSyllogiſmus , qui
omnibus philoſophiæ partibus eft com munis per attributionem , de eo tamen
primo oproprijsſime Logicafa cultas agit , quòd ſi ſubſtantijs quantitate
prioribus , quis tribuat come mutabiliter proportionari, tunc uniuerfaliter
reſponde , quod omnibus entibus poteft attribui commutabiliter proportionari
improprie tamen , oper quandam attributionem fecrındariam , quatenus omnia
entia,has bent quantitatem molis , aut uirtutis in ſe ,o ſic Plato attribuit in
Gori gia commutabiliter proportionari illis qualitatibus improprie , opro ut
ille qualitates includunt quantitatem uirtutis , quæ funtgradus pera feftionis.
TE X. XXIX. ALIAS XIIII. VANDO igitur non nouit uniuerſaliter, & quando
nouit fimpliciter , manifeftum eft utique. Quoniain , li idem erit triangulo
eſſe & Iſopleuro , aut unicuique,aut omnibus fi uero non idem fed alteruin
& cætera. Littera ſic exponatur , fi eadem deffinitio quæ trianguli est ,
cſJet ipſius etiam Iſopleuri propria o peculiaris , aut unicuique 1fos pleuro
iſoſceli o Scalenoniſeparatim , aut etiam omnibus fimul in com muni à quanon
ſit alia deffinitio ipſis conueniens , ſi uero non idem , id est finon est
eadem unica deffinitio , quæ bis omnibus æque primo conue ! niat , fed alterum
, id eſt diuerfum nempe deffinitio trianguli est figura tribus lineis rectis
claufa , fed iſopleurus est figura tribus lineis rectis æqualibus claufa ,
iſoſceles est figura tribus lineis duabus nanque æquae libus , una inequali
claufa , gradatus eſt figura tribus lineis inæquae libusclaufa , ecce modo ,
quàm diuerſa ſint deffinitiones , fi ineſt igitur tres habere his omnibus , hoc
quidem eft unicuique , fecundum quod eſt triangulus , uelfecundum quod eft
figura tribus rectis claufa , o non POSTERIORVM ARIST. 55 脚 叶 , 關 洲 加以 如 叫 加 has
pro eta quia illis lireis equalibus , uel inequalibus claudatur. Vtrum autem
fecundum quod eft triangulus , aut fecundum quod Iſoſce les infit, & quãdo
ſecundum hoc, eſt primun, &uniuerfale, cuius eſt demonſtratio,
manifeſtūeſt, quando remotis infit primo,ut Iſoſceli, æneo remoto ,triangulo
infunt duobus rectis pares , fed æncun eſle remoto, &Ifoſceli etiam remo to
infunt tres duobus rectis pares, fed non inſunt tres duo bus rectis pares
figura & termino remotis, quia etiam ipfis inſunt duobus rectis tres
æquales , fed eis non primo, ut fi gura que clauditur termnino uel terminis ,
quo igiturprimo reinoto , cui priino conuenit ; remouetur , & habere tres,
fi itaque triangulus remoueatur, remouebitur & habere tres duobus rectis
pares , & ſecundum hoc igitur , id eft few cundum triangulum ineſt, &
aliis per ipſum & huiuſmodi trianguli uniuerſaliter eſt demonſtratio .
Littera fic ordináta, artificiun Ariſtotelis est conſiderandum , in hac regula
, quam prebet ad cognofcendum , quando erit uniuerfaliter demonſtratio , ego
exem plum eft contraſecundum modum errandicirca uniuerſale,ſic ,utſeruans hanc
regulam ,non errabitſecundo modo errandi circauniuerfale,& pri mo,remotis
accidentibus indiuiduorī ,utremoto ere,non remoueturaf feétio uniuerfalis ut
habere tres duobus reétis pares, as enimfeu aneum effe ,non conuenit fpeciebus
triangulorum , niſi quia indiuiduis triangulis conuenit remota,fubinde fpecie
trianguli , ut Ifofcele remoto , non pro pterea remouetur affectio uniuerſalis,
quæ eft habere tres duobus reétis pares , quia in alijs fpetiebusſaluatur
natura,cui primo conuenit habere tres,ut in ſopleuro,e Scalenone ſaluatur
naturatrianguli,cui prinoco uenit habere tres,tertio remouet genus ad
cuiusremotionem remouetur villa affeétio ,ut remotafigura, &tres habere
duobus re &tis pares remo uetur , Quarto cultimo remota deffinitione
generis, ut remoto termino figura enim eſt , que termino uel terminis clauditur
, remouetur og illa affectio ſed non primo , primo enim conuenit ipſi triangulo
, triangulo igitur remoto, statim remouetur & illa affectio , habere tres
duobusre Atis pares, demonftratio igitur qua concluditur quòd triangulus habet
tres angulos equalesduobus reātis , eft uniuerſaliter . & eft Te i IN
PRIMVM LIB. TEX. XXXVII . ALIAS XX. Pro quo VORVM autein genus alterum eft ,
ficut Arithmeticæ , & Geometriæ ,non eft enim Arithmeticam demonftrationem
accom modare ad inagnitudinum accidentia niſi magnitudines numeri fint. Gnarus
Ari ſtoteles Geometrie & Arithmetica non dubitanz do loquutuseft inquiens
,niſi magnitudines numeri fint , fed fuæ regulæ uniuerfalis exceptionem faciens
, niſi inquit magnitudines numeri ſint. aduertas magnitudines nunquam fieri
numeri nifi numeri nuo merati , o adhuc numeri illi numerati non fit diſcreta
quantitas , ſic ut illinumerati numeri, non copulentur ad aliquem communem
terminum , ſicut numeri, ofillabe, no:1 ad terminum copulantur communem ,fed ad
comunem terminum copulantar ille magnitudines que numeri funt per folum tamen
intellectum à fe inuicem feparatæ intelliguntur ille quidem magnitudines quæ
numerati numeri,Sunt non quod intellectus aliter quã ſint, eas percipiat oppoſito
modo , fed eas tantum conhder atparticunt Latim , no intelligendo eas niſi
priuatiuenon effe coniunctas ,non tamen in telligendo eas negatiue , non effe
coniunétas, ut pro exemplofufcipiatur id ,quod Euclides proponit propoſitione
quinta deci f mi Elementorum commens ar d ſurabiles magnitudines,ad inuicem
rationem habent quam numerusad numeră be cuius deinonftratio talis est. Sint
due inagnitudines a b communicantes, dico quod earum pro portio eft,ſicut
alicuius numeri ad alium numerumfit enim maxima quan titas c cõmuniter
menfurans a ®b, reperta ut docet xiij. Elementorum quæ inenfuret a fecundum
numerum d, o b fecundum numerum e, erita; a ad c, ut d'ad unit atem eo quod
ſicut a eft multiplex Citad eſt multiplex unitatis, at c adi b, ut unit as ad e
, quoniam ſicut c eft ſubmultiplex b, ita unitas eſt ſubmultiplex e, igitur per
aquam propor tionalitatem a adb, ut d ad e quod eft propoſitum , Ecce quod f
linea fecans a lineam in puncto F, non ſeparatprima partē linet a, à fecunda
parte CH POSTERIORVM ARIST. st n parte linee a, quis, punctus copulansprimam
partem lineæ & cum fes cunda parte , manet idem , immo eſt communis punétus
&ipfi lined a & ipſi f, intelle &tus tamen intelligit primam ,
atquefecundam partem li nea 4, abſque quòd conſideret,ut ad comunem punétum f
copulentur. Ecce uides quomodo Euclides utitur medio Arithmetico,ut puta nume
ro in constructione , «æqua proportionalitate ad probandam affeétio
nëdemagnitudinibus, In vis uel 1 x propoſitione decimi utitur uns decima
octaui, tamquam principio Arithmetico in concludenda affe ftio ne de
magnitudinibus , hocfepißimefacit in toto decimo libro Eles mentorum
Magnitudines , numeri funt, quando ille habent communem menfuram qua communiter
dimetiantur , diameter igitur quadrati , Oſuacostanunquam funt, neque dicentur
quod ipfæ numeriſint,de ma gnitudinibus etiä que numeri ſunt trattat Euclides
in ſecundo Elemento rā à prima propoſitione ufq; ad undecimãexclufiue, Ecce quo
pacto utis mur arithmetico principio,circa Genusgeometricã, quod græciala - tini
non aduertentes prætereunt exponentesregulam Ariſtotelis uniuer faliter ,
quãipſe uult intelligi cumparticula exceptiua, In hac parte ex= ponenda
Aueroesimperitißimusfuit, ita utſua littera e directoſit con tra Ariſtotelis
fenfum , inquiens &propterea demonſtratio, quæ eft de queſito computatiuo,
non poteft trăsferri in aliam à computatiua,quem uirum clarißimum non miror,
ſimendacium hoc dixerit in ifta re parut ſed magis ,eum admiror quòd cum
aliàsdiſciplinas mathematicas inuen taspropter ingenij exercitationem ,
&quia etiam philofophus dixerit eas puerost adipiſci, ipſumuero Aueroin
,neque pueritia ,necſuafeneétu te eas fuo ingenio intellexiſſe , niſi dixeris ,
quòd ipſe elleuatus in eſtaſi intelligebat omnia per intellectum in actu , quo
multa peruerſo modo,e ordine intelligebat ſicut quædam fui fequaces Aueroico
uerbo cupientes Aueroiſtas dici , ignorantes tamen que Ariſt. mathematicis
explicanda propofuit, de quo intellectu poßibili, qui nihil eft eorum quæ uere
ſunt ante quam intelligat,utproponit philoſophus,aliquando aperiam ,quòd non de
ſeparato illo chimerico intellectu ex littera cmente Aristotelis, debemus
intelligere,ut quidã Aueroiſta perperăget fequaces peßime in= terpretantur,
pertranfeo tamëhæc inpræfentiarü,et quia non eft hiclo cusdifferendiillud, et
utfic docentes falfo ,reſipiſcăt, et ueritatem Arifto telicăianiam incipiãt et
intelligeret &alios post millenos annos docere. Hoc autem quemadmodum
contingit in quibuſdam , po fterius dicetur. littera fic intelligi debet ,
magnitudines quando ſint 1 1 H S8 IN PRIMVM LIB: 3 numeri in quibufdam ,nempein
temporibus, ideft quádo ipfa tempord, ut numeri concipiuntur, Poſterius
dicetur,ut in libris de philoſophia et de anima.Hoc loco habemus artificium ab
Ariſtotele, quoGræcorumexpo fitorum abufius mille ,o latinorü millies millena
millia errorum cognoſci mus,De interpretibus uero noſtri temporis,ſierrent,non
dico ,fed intelli gas uelim , ut quot uerba proferunt, tot mendacia contra
Ariſtotelis or dinem ýmethodum committunt. Quis enim legit Grecos , Latinos, o
noftri temporis expoſitoresAriſtotelis , non uideret conſiderauerit, illos
ſepe, & fepe fepius adducereloca odoctrinam datamin philofo phia uniuerſá,
in libris de anima, methaphiſicis, pro declaratione lo coruin logices , quis
modus iſte obfcuritatis eſt , per ignotißima declarda re ea , quæ aliquo modo
ignota funt ? eper ea quibus accommodantur principia, ipſaprincipia uelle
declarare, oper poſterior aignota decla rare ipſum prius, ſic utfupponant iſti
declaratores,hominem eſſe philoa fophum , animaſticum , & methaphiſicum
antequàmfiat logicus,utille no Ater bonus homo docebat, quòd Ariftoteles
attulit tria exempla in fecun do textu ,in tribus ſcientijs,ut ibi notaui
ha,ha,pereat modus iſte contra Ariſtotelis doctrinam ,qui poftquàm exceptuationem
uniuerſalis regulæ fue fecit, inquit, hoc autem , quomodo contingit , posterius
dicetur , fic ut id ,quod inphilofophia dicit, nonreuocetin logicis declarandis
, fedt diuerſo,exceptione qua in hoc locofacit,utetur tanquam nota in philofo
phia , ut ex notis ad ignota o utex uniuerfali ad particularia tēpora
procedat,perfuadeturigitur illa exceptio exx . libro Elementorū ut des claratum
eft , & non ex philofophiæ locis , vt procedamus utpúta ex his, quæ in
Geometria notafunt , ad ea declaranda , quæ inlogicis traa & antur , ut
uera methodo , à notis diſcuramus adignota , fed fi idem in theologos
ſacrosobijcias , qui indiſcriminatim ad declarındas theologia cas queſtiones
loca uniuerſalis philofophiæ adducunt , igitur ipficra rant,refpondeo , In
thcologia cui omnesſcientic &tota uniuerſalis phi lofophia ancilantur
tanquam ſcalares gradus non inconuenit philofoe phic eliberalium artium
theoremata adducere, quia proceditur à nos tis ad ignota declaranda . Ita ut
ultra modum quo intelligimus Sacran do&trinam per reuelationem , ſunt
quidam alij modi intelligendi, ſuppoſia ta tamen reuelatione primo, unus eſt
modus deuotionis fpiritalis, quo particulariter dominusfuisfanétis, licet alias
indoctis tribuit intelligere, ut Petro intelligebat ea,quecontinebantur in
epiſtolis fratris noftri Pau li, quæ indocti deprauant ad fuum fenfum , non
intelligentes, Alius mo POSTERIORVMARIS T.59 0 4 Ac LE FO r dus intelligendi
facras litteras prouenit ex ingenij uiuacitate tantum , qui modusmultas hærefes
attulitfidelibus . Tertius eft modus intelligendi beneficio naturalis
philoſophic , &hic etiam decipit innaniterfideles nis fiunctione
fanétifpiritusmoliaturfua duricies , hoc quidem tertio modo non intelligit
aliquis facras litteras , niſi inſtructus illis difciplinis , que precedunt ipfam
reginam theologiam , valeant igitur, eantuna oma nes ad olas carnium ,
nonadScotia Thome libros, qui, his artibus &philofophia non callent, non
peccant igitur Theologitertio modo di di, copeccato, quo multiGræci, Latini ,
&præfertim noui interpretes in Ariſtotelem peccant,confundentes docendi
ordinem . Videtur hæc ex poſitio, Ariftoteli oppugnare, ubi inquit Ariſt.
pofterius dicetur , ut in libris philofophiæ , dixi tamen ego ex decimo
Elementorum . Dico Arie ftotelem promittere quomodo continuum diſcretum
căcipiatur , fed Eye clides quo modo per principium Arithmeticum de
magnitudineaffeflio demonſtretur atq; concludatur. • Ex codem enim genere cft,
extrema & mcdia eſſe, fi namqucnonfunt per ſe accidentia erunt, propter hoc
Geo metrię non eft demonſtrare, quod contrariorum eadein eſt diſciplina , ſed
neque quòd duo cubi ſunt unus cubus, ſit heclitteræ expofitio, ut media
oextrema debeant effe eiufdemgeneris, media intelligas, feu in conſtructione
medium , ſeu medium ad probadum , quod eft, aut principium, uel etiam
propoſitiopredemonftrata,que fus mitur ad probandam aliam , propofitionem ;
extremorum autem nos mine ( ubiait extrema) intelligende funt ipſa concluſiones
, utfitfenfus facilis, premiſſão concluſiones ex codem genereeſſe debent. Sed
ne que quòdduo cubi unus cubus fit , Quomodounus tantum cus buserit,cum duo
fint ?duo prius feparatim erant,quiſi in unum redigan tur, unum tantum
efficiunt ,ut due lincæ etiam una linea tantum efficis citur, utdocet XIIII
primi Elementorum xxx ſexti Elementos rum ,vltra aduertendum quod cötrariorum
cadem eſtdiſciplina,ſed hoc non probat Geometra ſimilitcr duo cubiunus cubus
eft ,quod etiam Geo metra non probat, his habitis odeclaratis., ſtatim perit
declaratio. cus iufdam philoſophi noui qui maiorigrauitate quàm pondere utitur;
dicit enim illa ſua innani interpretatione, duo cubi in Arithmetica non faciunt
ynum cubum , quod eft di&tu , quod duo cubi numeri nonfaciunt unum cu bum
numerum ,ifta interpretatio opponitur littere Ariſtotelis ; li ttera anim
affirmatiuc loquitur, quòd duo cubi unumfaciuntcubum,oiſte no ни ex 46 in is hi
De IN PRIMV M LIB. ) uus philofophus exemplificat negatiue , quo mododuo eubi
non faciunt unum cubum ; reiciatur igitur ſuainterpretatio , & Philoponi
expoſitio ſuſcipiatur , quæ hoc in loco fatis conſiderata eft , atque docta
;Ratio enim quare non demonſtrat Geometra,quòd duo cubi unum cubum far ciunt,
eſt quia non uerſatur Geometra circa genus folidorum , ut circa ſuuinſubiectum
, fed uerſatur tantun circa planorum genus , ut circa proprium ſubiectum ,
Stereometra autem habet demonſtrare , quod duo cubi adinuicem aditi cubum unum
cõficiunt, ut ftatim explicabo inferius, cum de duplatione are delorum , &
in fragmentis logicis de triplatione, quadruplatione, quincuplatione,
fexcuplatione , eptuplatione, es dein ceps demonſtrationes fecero. In qua re ut
Ioannes refert Apolonij peri gei talis eft demonſtratio ab innumeris mendis
purgata , opermepri ſtino candori redita cum Euclidis propoſitionibus in locis
fuis ,utdecet appoſitis, ac ſiab Apolonij manibus nunc procederet. Pro
cuiusdemonſtrationis notitia, aduertas quòd Art Delio Apoli ni dicata , eſto
ſiuis ut trium eſſet pedum , quando Apolo imperauit dea lijs peſte
laborantibus, eiuſdem Are duplationem , qui Geometrie impe riti (ut peneſunt in
preſentiarum omnes totius orbis Gymnaſiste )adide runt alteram tripedalem Aram
prime are, etſicturbata ,atý; corrupta forma cubica are primæ,dederunt are
duplate formă trabis, fic ut fex pedű extendereturlongitudine, latitudineuero
& craſitie trium pedum extenſa eſſet Ara, forma in qua complacebat Apolo
deperdita ,fþreti igi tur propter hoc delij ab-Apoline , & graue peſte
adhuc laborantes , ad Platoně confugerunt,qui eos redarguens, utGeometric
imperitos tana dem eos adhuc dubios reliquit dicens eis , ut duas lineas medias
inter exa tremas inuenirentſecundum eandem proportionem continuam . Et tunc
ſcirent duplare Aram , formam habětem cubicam , In qua re plurimigre corum
laborauerunt tandem unus Apolonius perigeus , duas inuenit lia neasillas medias
Oſummo artificio duplarunt Aram delij ,fubinde ad peſte quieuerunt. Dátis
igitur duabus lineis inæqualibus, quarum altera ſit longitudo Ar & primo
fabricatæ triumpedum , fecunda uero lineaſit ed, que deno tet longitudinem
trabis quamcompoſuerunt delij, &eſto pedum fex,ina ter has duas reperiendæ
funt duæ alia medie in continua proportionam litate,quod in numerisfieri
neutiquam eſt poßibile, fint igitur duæ data , primafit b c , quæ erat
longitudo prime Are , e a b.longitudo tras bis, &ponatur per undecimam primi
Elementorum uel per uigeſima POSTERIORVM ARIST. tertiam eiufdem primi, ut
rectumangulum contineant,eum uidelicet qui füb a b c o
compleaturparallelogrammum bd ; per tertiam atque tri geſimamprimam primi
Elementorum ;qg diameter ipſius per primum po ſtulatum primi Elementorum
ducatur a c o circa triangulum ac di per quintam quarti Elementorum deſcribatur
circulus a d.c, os produ catur linee b a ,b c , per fecundum poſtulatum primi
Elementorum in directum ufque ad fe 8,0 per primum poſtulatum coniungan tur f
& , per lineam f g tranſeun b tem per punétum d , ita ut fe , æqualis fit
lineæ e g , hoc enim tan quàm petitum ſummitur indemons Äratum . ( De quo,
forſan poſterius noſtra palade non nihil dicetur) ma nifeſtum utique eſt, quod
ex fe æqualis eft ipfi dg per hipoteſim , @primam animi conceptionem . f a f 6
f 6 6 G gд g fil 6 g ď 6 6 egg f fa d Б6 c 1M14 8 с C f f a d AB Xa -f MC À с a
TE lik mo Ma Quoniam igitur extra circulum a dc punctum fumptum est feab ipſo
dufte linee rette f b , feſecant circulum ad punéta a v d , quod igi tur fit ex
bf in fa , per trigeſimamquintam tertij Elementorum ,æqua le eſt ei , quod fit
ex ef, in fd , ac eadem ratione , &quodfit ex b & in c g æquale est, ei
, quod fit ex dg ing e , aquale autem eft id quod fitex dg in g e , ei quodfit
ex e f in f d , utraque enim utrij que equales funt , e f ſilicet ipſi d 8 , og
f d , ipſi eg, igitur , ego quòd fit , ex bf in fa, æquale eftei, quod fit ex
bg ing c , eſt igitur , 62 IN PRIM VM .; L 1 B. ut fb ad b & perfecundam
partem decimequinteſexti Elementorum , ita g c ad f a ,fed ut fb adb 8, fic es
fa ad ad per iij.fextiEleé mentorum , igitur per xi . quinti Elementorum g c ad
f a ,ut f a ad ad, fimiliter per eandem xi. quinti Elementorum , ut dc adc 8 ,
fic cg ad fa, quia utraqueeft ,ficutea , que est fb ad b 8, altera per fecundam
partem xv. reliquaper quartam fexti ;ut d.c.ad cgpro pter fimilitudinem
triangulorum , est autem dcdqualisipfi ab,04 d , ipſi b c per xxxiij.
primiElementorum , igituraut ab ad cg ita f a ad ad , erat autem , out f bad
bg, ideft ut a bad c g ,fic cg ad fa , igitur out ab adog, fic oipfacg.ad fia ,
o ipſa fid , ad b c , quatuor igitur rectæ linea 46,8c,fa,bc, inuicem prom
portionales funt,o propter hoc erit ; uta bad b c , ita quifit ex 4 b cubus ,
ad cubum , qui ex g cega qui ex g c , ad illum qui fit ex f a, e qui ex fa , ad
illum qui ex b c ex corrolario xxxiij. undecimi Elementorum , igitur ut a b ad
b © , ita cubus quiex f a ad cubum qui ex b c , fed a b dupla fumpta fuità
principio , ipſius b.c, eft igia tur cubus , qui exfa, duplus ad cu bum , qui
ex b c , quod demon - g strandum errat . Berlin . g c.8 F G f 6 f 6 6 a . 6 6 G
8 6 g ggġ Ġ gofa dic figffa d . o ga a 6 2. BВ POSTERIORVM ARIS T. 63 Eleg TEX.
XLI. VEL XXII. F G ta 16 ORVM quæ ſæpe fiuntdemonſtrationes funt & fcientiæ
, ut lunæ deffectus , Quee dam noua queſtio à quodam nouo interprete moues tur
, circa particulas in textu poſitas , unde eft , quòdfæpefiat demonſtratio of
ſcientia de lune men ſtruo? Cumſit, quod luna nonſemper , nequeſe pe eclypſetur,
neque meſtruum patiatur? Queſtio mota fuit ex dus plici ignorantia queex
duplici menſtruoſitate contingit , uidelicet Solis ♡Lune , quia ille , qui eam mouerit , neque
in die , neque nocte uidet , quid uelit Ariftoteles, ſi tamen alta uoce
Ariſtoteles streperet in huius doctoris aures, hoc apponeretforſan miringam ,
ſın ditë, ſurdus ipſeerit ideo ille bonus homo,qui quidam homo erat ,fed nunc
nefcio an aliquis ho mo ipſe ſit, monſtruoſamde lunæ menſtruo folutionem ,uel
potius ligas mina tribuit auditoribus centum . Videas , ſepeenim inquit nofter
nos uus interpres, fit Lune eclipſis , quia quandofit,tunc orientalibus quar ta
hora , occidentalibus autem hora tertia , magis autem occidentalibus hora
ſecunda noctis &alijs etiam ad indos magis tendentibus prima non & is
hora apparet luna menſtrua:a, ecce inquit ille interpres do&tus,quid
ſepefit , ut puta intot horis noftis, utfecunda&tertia atque alijs plu
rimis. Quemirabilis doctrina @ſcientia , in dialogis &fabelis , quas apud
ignem raulieres habentreponenda magis , quàm àuiro quoquo moa do etiam docto
redarguenda eft , uel etiam à quouis audienda . Litteraſic ordinetur , eorum
demonſtrationes & fcientia ſunt , eorum dico , que fæpefiunt . Dico igitur
lunc deffe tusſæpe , atque ſemper fieri in plenie lunio , quum terra
diametraliter ponatur inter Solem Lunam , quod quidemnon in omni plenilunio
contingit , fed cum sol in capite, & Lue na in cauda draconisfuerit , quod
Plato explicans ait linea re& ta eft cu ius medium obumbrat extrema,
quamfententiam non intelligens quidam alius potius paraſcitus quàm doctor,
&ille est , quem ſuperius dixi hae , bere grauitatem maioren , quàm pondus
, redarguebat in quodam cons uiuio deffinitionem quam Paduano Gymnaſio in
primis meis le &tionibus publicis dederam , explicans deffinitionem lineæ
rectæ , que eft , à pun Ao in punctum breuißimaextenſio , aut cuius medium ex
æquofua inter 1 incet ſigna, hoc eft , cuius medium non reſultat ab extremis ,
ſic explis 64 IN PRIM VM LIB. cabam per fenfitiuam & materialem lineam , ut
facilius ipfa Geomes trica linea à tirunculis intelligeretur , linea recta eft
, cuius medium non obumbrat extrema , neque eſt hæc mea explicatio rectæ lineæ
, Contrda ria illi à Platone datæ , cum hæc in Geometria , illa uero Platonis
in Aſtronomia accomodanda ſit, neque in hoc ignofeendum erat, quia igna rus
Grecarum litterarum eſſem , ut ille efuriens greculus non lingua ne que natione
, fed apparentia tantum , Tipto propter tiptis duo agebat dicens mefalfam
le&tionem Latinam vidiffe , qua legeram in Platone, lie nea recta eſt cuius
medium non obumbrat, cum Græcus textus , affira matiue legatur fic cuius medium
obumbrat extrema, mitto hæc in Cora bonam , oad propoſitum à quo uidebar
digredi redeo, Cauſis igitur illis commemoratis concurrentibus, femper & ſaepe
fit Luna defectus , de qua Luna menſtruata habetur ſcientia , per medium illud
, quæ eft ter re interpoſitio inter Solem atque Lunam diametraliter , que cauſa
pro pria, & propinqua eſt ad Eclipfim de Luna concludendam, modo anfe pe
fiat demonſtratio uelfepe habeatur fcientia de Eclipſi Lune , hoc non tangit
Ariſtoteles., quia ly ſæpe eſemper , non determinant ly demon ſtrationes,
olyſcientia ,fed determinantlydeffe &tusLune ; illis igia tur cauſis
contingit Luna deffeétus fæpec ſemper,non autem illis quas commemorauit ille
phantaſticus , ſecunda uel tertia hora noétis . TEXTVS XLII ALIAS XXIII. VONIAM
autem manifeftum eft, quod unữ. quodque demoſtrare non eſt, ſed aut ex uno.
quoque principiorum , fi id quod demonſtra tur, ſit,ſecundum quod eft illud,
non eſt ſcire hoc quidem fi ex ueris & indemõſtrabilibus monſtretur, &
inmediatis , eſt enim ficmon , ſtrare, ficuti Briſon Tetragoniſinum ,per
commune enim demonſtrant rationes huiuſmodi , quod & alí ineſt, unde &
alíjs conueniunt hæ rationes non cognatis, Quicquid anti qui dequadratura
circuli fenferint , dicam quid fenferim ego , habita prius notia littere,
&cognito textusſenſu, li ex ueris premißis, oins demonſtrabilibus ,
immediatis, fiat demonſtratio , non autem fiat ex præmißis proprijs,
opeculiaribus illi generi,de quo fcientia queritur, ex illa demonſtratione per
talia principia primadi&ta non habeturſcien tid POSTERIORVM ARIST. 656
tla,immoneq; illa erit demonftratio, quia per principia fieret talis pros
ceſſus, que non tantum arti Geometrie, fed alijs difciplinis accommo dari
poffunt , quo errore Brifo.crrauit tentans reducere aream circuli ad figuram
rectilineam quadratam , quæ t alia erant principia datur max ius, datur minus ,
igitur datur æquale , quidamſciolus laborat , ut hæc principia uniuerfalia ,propria
fiant ipſiGeometric ,dicens,daturquadra tum maius circulo , datur quadratā
minus circulo, igitur datur quadras kun sequale ipſi circulo , et
gloriaturinnani , & hoc fuum chimericâ con tulerit cum yno do&tißimo
huiys noftri Gymnasij, qui non folum perfua fionemualidam , fed et
demonftrationem eam effe affirmauit ; fcito enim , quòd os folidis, e linels ,
o numeris coaptatur iſta dedu &tio , ut datur numerus maior denario eminor
denario , igitur datur equalis nume rus denario, es ſic in alijs plurimis ,
dico tamen quod huius fcioli do&to ris contra tio in propoſito nulla eft ad
oſtendendum intenti , quia ultra quod Briſo errans,proceßit per comunia
principia ,errauit etiam errorç peßimo in conſequentia ,ut ex his
quæfuperquintadecima terty Elemen torī Euclidis demonſtrantur &fuper
trigeſima ciufdem ,Ariſtoteles au tem folum redarguit ipfum in co , quod egit
contra regulam de proprijs principijs ,quicquid de confequentia
fitprætermittens tanquam non res Marguendum , ut oppoſitum ſuedat& regul« .
De quadratura, errore Brifonis , Anthiphontis, Hipocratisc Boetij atque
iuniorum trattabo in fragmentis mathematicis ſuper live bro pofterioruin.
TEXTVS XLV ALIAS XXIII. ED demonftratio non.conucnit in aliud nus, aliter quàm
ut dictum eſt, Geometricæ in mechanicas, aut perſpectiuas, & arithme ticæ
in harınonicas. XXXVII textu determis nauit Ariſtoteles quòd ad Geometram non
pertinet de BRAVAS PRINT monſtrare quod duo cubifaciant unum cubum , ratio , ut
ibi declarani aßignabaturquia Geometra O stereometrauerfantur cir ca
diuerſagenera, alter circa planum , & reliquus circafolidum, hoc au fem
textu dicit, quod geometrice demonftrationes conueniunt in genus mechanicum ,
ait enim geometrice in mechanicas , pro qua apparenti contradictione, eft
aduertendum quòd Stereometrica per principia Gear I 66 IN PRIMVM.LIB . metric
probantur quia in terminis corporis, qui ſunt ſuperficies , ille geometricæ
demonſtrationes attribuuntur , ideodemonftratio Geometri ca hoc modo in
mechanicas,conuenit , o ſinon fint circa idem genus, necfubfe inuicem
diſcipline. TEXTVS XLVI ALIAS XXIIII. VID quidem igitur fignificent, &
prima , & quæ ex his funt, accipiendum eft, quòd au: tem ſint principia
quidem , eft accipere, Alia uero demonftrare, ut unitas, & quid rectum ,
& quid triangulus,effe autem unitate accipe re & magnitudinem ,altera
uero demonftra re. Dedatoibi quid fignificent de dignitatibus ibi & priina.
De que fito ibi, & quæexhisfunt. Exempla omniafunt in boc textu dedato;
primum eft in decimaſextaſeptimi elementorum ubi de unitate,que ſe ba bet ad
aliquemſecüdum numerum , ficut quilibet tertius adaliquem quar tum ,concluditur
q, ipſa unitas, itafe habebit ad tertiã numerum , ſicutfc cãdus numerus ad
quartum ,fecundã exemplum eftde data linea in prima propofitione
primiElementorum ,de qua demonſtratur quàd fit æqualis, welminor cæterisduabus
lineis re&tis continentibus,Iſopleurum , uel ifo feelem , uel Scalenonem
,uel etiam exemplum hoc apparet indecima pri mi Elementorum ubi concluditur de
linea recta , quòd ſit biffariamfe &ta, Tertium exemplum de dato, eſt in
xxx 11 primi Elementorum , ubi de dato Trigono concluditur . habeat tres
angulos duabus re&tis paresnon tantum , quid ſignificentoportet
preaccipere, fed etiam iſta effe , vt tan dem de dato nonfolum quidfignificet,
quod etiam eſt queſiti,preaccipes re, fed eo quidſignificet effe, vtrumque
fupponendum ſit (licet non femper,)ut quid ſit unitas,et unitatem effe
,quemadmodum ſecundo textu predocuit Ariſtoteles , uerbum hoc , magnitudinem ,
intelligendum eſt, rectam lineam ,ut decima primi elementorī ,et triãgulum ,ut
trigeſima ſe cīda primi elemétorum ,quem triangulum ,et reetū, explicite
protulit ab unitate,inquiens alia uero demonſtrare, ut quid unitas , quid
rectiem , Oquid triangulus fignificet, elle autem unitatem accipere & magnitus
dinem , hoc loco aduertendum est Ariſtotelem , ſeiunctam poſuiſſe unita tem à
refto trigono, quæ duo nempe reétum & trigonum amplexi fuifſe in unico
uerbo hoc , magnitudinem , propter hoc ut intelligenda POSTERIORVM ARIS T. 67
effet unitas de qua hic loquitur principium numeri feu multitudinis , de. qua
quidem unitate alia affe&tio concluditur , quàm de unitate linee , de qua
loquebatur in fecundo textu huiusprimi, wratio interpretationis apparet
exlittera , quia de quolibet dato. feparatim concluditur pro prium queſitum ,
ut hoc textu declaraui. TEX. XLVII VEL XX IIII & 24 Allia 721, pe Court
Alle Blato che * with rima alis -life pri eld Side Vntautē quibus utimur in
demonftratiuis ſciētíjs alia quidē propria uniuſcuiufq fcič tiæ , alia uero
cómnunia, comunia autemfer cundum Analogiă, quoniam utile eft,quá. túeft in eo
(quod eft fub fcientia ) genere, propria quidem , ut lincã elſe huiufinodi.
&rectum , De dignitatibus hoc loco loquens, exempla de dignitatis bus
prèbens ait. Alia quidem propria uniuſcuiuſq & c.Propria Geometrie ſunt
ifta , utlineam elfelongitudinem illatabilem or ſine pro fonditate ,hacde caufa
dixit lineameſſe buiufmodi,id efthabere banc defa finitione, & reétum , vt
puta recta linea est , que ſua ex æquali intera iacetſigna,uel linea recta eft
à punéto in punctum breuißima extenſio, non intelligas lineam, &rectum ,
Jolitarie o incomplexe,quia hoc loco de dignitatibus,que complexa funtloquitur
: non de incomplexis utde linea tantă , ca de recto tantum ſed , dehoc cöplexo
linea est longitudo illa tabilis ; ¢ linea recta eſt ,quæ ex æquali ſua
interiacet ſigna ,de linea in uniuerfali, fubinde de contracta uſpecificalinea
recta exempla explicăs , Communia autein ut æqualia ab æqualibus ſi
auferas,quòd æqualia reliqua ſunt. Aliqui indoctirelatores interpretum et inter
pretes Arifto, non intelligentes hunc locum ; naturam Geometrie ſcien tie
perdunt, dicentes Geometram per principia communia procedere, id autem eft
contra ueritatem ex parte rei econtra Ariftotelis do &tria nam . Pro
cuiusdifficultatis nodo extricando , aduertendum quod princi pium iftud,de
quolibet ente,uerum eftdicere quodeſt,uel no eſt tale, nun quam in
demonftratione ponitur , nec eo utimur niſicontrate, oquae dam
determinationeadgenus aliquod terminatum, er pro altera diſiuna Eti
parteaccepto ,nulli enim fcientia eft, aut diſciplina , que utatur illo
principio pro utrag; diſiunéti ,fed pro altera tantū parte , Sinile de hoc (
& alijs huiufmodi) principio, fi ab .equalibus æqualia auferas, que re MON
jpes non exti ell I i IN PRIM VM LI'B . Manent,æqualia funt, audiendum eft,
nulla quippe diſciplinaest, que es utatur niſi contracte, fic quòd Geometra
nunquam eo ufus eft præters quam inhisquæ circa planum uerfantur, utfi ab
equalibus lineis,uel fu perficiebus,aut angulis,equates lineæ, uel fuperficies
aut anguli deman tur, quæ remanent lineæ ,uel fuperficies ,aut anguli
funtæquales ,quão primum autem principium hoc contrahitur , non eft amplius
commune Guniuerfale, fed fit proprium illius generis fcientiæ ad quod contrahis
tur, quod uerohæc noftra declaratio fit ad Ariſtotelis mentemmanifes. ſtum eſt
ex predicamento quantitatis ubi de diſcreto econtinuo agens, determinat quod
utrique proprium eft peculiare fecundum eamæqua leuel inæquale dici, ſi
inſtetur ex menteAriſtotelis dicentis, principiunt . - iſtud effe commune,
inquit enim ,cõnunia autē &c. Dico illud prin cipium eſſe commune, ſi non
contrahatur , quàmprimim uero contrahi tur non eftcommune amplius , ftatim enin
fequeretur contradi&tio , quod eſſet commune ono commune, doétrina
hæcmeacoheret his,quæ Aucroes commentationemagna affentiriuideturfuper hoc
textu, o his que Ariſtoteles hoc loco dicitinquiens ;fufficiens eft
autemunumquoda que iftorum quantum in genere eſt,hoc eft quatenusad determinatū
get nus contrahitur, de principijs loquens ,ubi de datis dixerit, & tertio
lo co de queſitis, ibi quodautē ſint demóftrant, o fi adhuc inftes e Theon
&Campanus non contracteinquatuor primis libris Elemento rum , a quod
Euclides affixit illud principium primo libro , dico quod Căpanus &TheonbreuiloquioStudentes
accipiuntipſum principiū fne Contractione , femper tamen op ubique uolunt ipſum
intelligi contra &te cum determinatone ad illud genus ad quod-co utimur ,
aliter. errarent , Euclides autem primo libro affixit , quid utitur ipfo con
tracto in primis quatuor libris, Adhuc fi fortiuscontra hanc expo fitionem
precipue inſtetur quod fiquid ueritatisſaperet , statim haberea tur circuli
quadratura per hæcprincipia contra&ta , datur quadras tum maius circulo ,
datur quadratum minus circulo igitur dabitur quadratum æquale circulo ,
refpondeo , quò du os errores commiſit Briſo, o talis argutus doctorolus inter
arguendum , primo quia Brie so per principia comunia , iſte audem do&tor
per contra &ta illa princi pra, feduterque in æquiuocisarguebat, circulus
enim et quadratum equi uoce funt figuræ altera enim curuilinea reliqua uero
re&tilinea eft , hunc errorem fecundum non inuenies in mea hac
expoſitione,&contra ipfam inftantianulla est , de crrore autem
Briſonisfuſius in noftris fragmentis POSTERIOR V MARIS T. 3 Logicis . Idem enim
faciet & fi non de omnibus accipiat fed in magnitudinibus folum ,
Arithmeticæ autein in numeris. Diuinus Philoſophus quàmprimum explicuerit , quæ
namfunt propria per duplex exemplum uniusfeientia Geometria, linee uidelicet ,
&lia neæ recte , •fubiunxerit , que nam ſint communia principia exent plum
prebens tale, nquit, ut æqualiaab æqualibusfi auferas quod æqua lia ſint
remanentia , ſubiunxit quomodo hoc principium &fimilia cone trahantur ad
proprium genus ſcientiæ &propriafiant dicens , ſuffia ciens eſt,unum
quodque iſtorum , quantum in genere est , fufficiens quie dem acſi peculiaribus
atqi proprijs principijsuteretur Geometra uteng iſto principio, æqualia ab
æqualibus ſi auferas æqualia remanent , non quidemſi de omnibus accipiat , non
quidem dico demonstrabit Geometra: fi fic de omnibus & uniuerfaliter ſine
contractione utatur , fed demon , ſtrabit quidem , inquit Philofophus,ſi in
magnitudinibus folum , id eſt contracte o determinatim ,eo ufus fuerit .Vtfic,
fi ab æqualibus lineis ſuperficiebus , angulis, Arithmeticus, fi ab æqualibus
numeris æqua les lineas ſuperficies angulos uel numeros auferas quod æquales
linea fuperficies anguli onumeri remanebunt. Tunc uult Ariſtoteles quód iftud
principiumſic contractumreddatur propriumipſi Geometra , og Arithmetico
&unicuique artifici in fua arte , ac fi peculiari epros prißimo uteretur ,
non procedit igiturGeometra per communia prins cipia neque ob id , quia per
cominunia procedit Geometria , ideo non fit dicenda ſcientia ipſa Geometria ,
ut quidam ingeniofus noftri teme poris immaginatur . Sunt autem propria quidem
& quæ acci piuntureſſe , circa quæ , fcientia fpeculatur , quæ ſunt per le
, ut Arithmetica unitates , Geometria autem figna & lineas. Euclides in
Arithmeticis ab oskaud propoſitionenoniElemene torum uſque ad tredeci mam
incluſiue accipit unitates , ſed ſigna id eſt punta accepit in ſecunda
wtrigeſima prima primi Elementorum , lie neas uero in primt, ſecunda,&
tertia primi,atque in undecima undecimi Elementorum . Hæc enim accipiunt eſſe,
& hoc eſſe , idemo dixit in principiofecundi textus,ut de dato
precognoſcatur utrunque &quid &quia est , accipiunt eſſe,id est
deffinitionemſeu deſcriptionem welquid per nomenfignificatur, ex hoceffe
,nempeactueſſe , uel mente oaštu.confideratiuo effe, id quod concipiunt , quod
eſſe potentia ,uel effe aptitudinedicunt . Horum autem pafsiones funtper fe
quid quidem figni 70 IN PRIMVM L'IB. ficet unaquæque accipiunt , ut Arithmetica
quidem quid par , Sicut uigefimaquinta noni Elementorum , aut impar , ut trige
fimanoni Elementorum , Aut quadrangulus,ut xxxvi. noni Ele mentorum ,
&quilibet numerus à duobus duplus,ut xxxv. eiufdem , a eut declaraui ſuper
textu xx. de altera parte longiori, Aut cubus ut quarta noni Elementorum ſic
intelligantur termini exemplorum in Arithmetica;Geometra uero quid
irrationale,ut XI. X. Elementorum , aut inflecti per contactum in unico puncto
ex xij.ex xv.tertij Elemen . aut concurrere, ut xv.xi. Elementorum oprima
Elementorum Geo metrie Vitellionis . Animaduerſione dignum est hoc , quod
Geometra nunquàm hanc affectionem , ut irregularitatem deunica lineafola con =
fiderat , neque etiam de una tantum linea id concludit , quicquid Cama panus
ſentiat , fed id de linea una ad aliam comparata atque relata, cum qua non
habet uliquam communem menſuram , ut est diameter wcofta quadrati . Inflexio
uero in una atque eadem linea circulari eft , quætan gat aliam rectam lineam
uel alium circulum interne , uel etiam exterins, in unopuncto tantum , quia
inflexa non fecat nequere & amlineam , nes que etiam circulum , quorum
utrumlibetfaceret linea recta , eifdem ! recte linee 6 circulo non contingenter
neque in directum applicata . Quod autem fint paſsiones per fe demonſtrant per
coin munia & ex his quæ demonftrata furt & Aftronomia funi liter . De
datis dequibusaccipiebamus quid fignificarent &effe , de monſtrant
artifices Arithmeticus OGeometra per communia , idef per uniuerſalia principia
(que tamen unius generis ſint) v ex his etiam propoſitionibus, quæ prius
demonſtrata funt, affectiones illas predis Etas , ſicut etiam aſtronomus facit
, utper ea quæ in Geometria probas ta ſunt, etiam per propoſitiones probatas in
Aſtronomia concludat etfiEtionesfequentrum Theorematun . TEX . XLVIII. ALIAS X
XV. VASDAM tamen fcientias nihil prohibet quædain hortin defpicere ,'ut genus
non ſupponere effe , & fit manifeftum quoniam eft,non eniin ſimiliter
manifeftuin eft,quo niam numerus fit, & quoniam calidur , & frigidum
fit. Natura enim &per fenfum notum POSTERIO RVM ARIST . 70 $ 200 ill 0 si
est, quonian calidum eft, ideo non eft opus precipere mente o ſuppoi fitione
aliqua intellettuali, «quadamſcrupuloſa indaginefuum quiade calido , quando
calidum eſt ſubiectum ſeu datum uel genus, hoc cafu , quandoeft notum quia est
dati , deſpicitur præcognoſcere mentis inda gatione de dato , an fit ? Quod
noncontingit ſimiliter de numero, quans donumeruseft datum , de eo enim eft
necefſe mente e intellectuali acte preaccipere quia numeri, Videlicet quod
numerusaétu est mente con: ceptus , ac fiexifteret aétu , uel aptitudinem ad
exiftendum habeat, en hoc quidempropter hoc , quod numerus neque nataraneque
fenfu aetud liter percipiturquòd fit , fed tantun intelleétu dignofcitur , @
hæc duo exempla de dito prebetnobis Ariſtoteles,ſubinde de queſito feu paßione
facit exceptionem dicent , & paſsiones non eft accipere quid fi gnificent
ſi fint manifeltæ , ut puta ſi fit notiſsimum quodtale no men -notifsimam rem
ſignificet . Tunceo cafu non prerequiritur indas gando quid fignificet illud
nomen , quia iam notum eſt. De dignitatibus.au tem idein excipit ab
uniuerſaliregula ,qua dixit fecundo textu , alia nana que quia funt prius
opinari neceſſe eſt,utomne quidem quod est ,aut affir mareaut negare uerum eſt
, quia eſt , o textu xlvi.aliud prebet exem plum , utæqualiaab æqualibus
fiauferas , quòd æqualia reliqua ſunt , de his communibus principijs non eft
preſuponerequia eft . Cum ipſorīt ugritas quafi natura nota fint , quaſi natura
dico, utputa quia notis ter minis ipſarum dignitatum , statim notum est, quia
est ipſarum dignitatum fecus autem eft de dignitatibus proprijs cuique
arti,quia tunc non est,fa tis ,quid fimplices terminiſignificent
preaccipere,fed opus etiam eſt pré cognofcere copulationem terminorū effe
neceffariam , ueram ,ut quòd circulus fit figura plana unicalinea contentain
cuius medio punctus est à quo ad circunferentiam omnes recta linea duétæ
funtæqualesfecludit , igitur ariſt.àfubie&to ipſum quia quandoipſum
eſſe,manifesti est ,non ſecludit ipfum quid est , ut exponit loan .Gram .
Alexander, A queſito ſecludit aliquádo quid eft,era comunibus dignitatibus
ipſum quia,quando notumeft quid queſitumfignificet, &quando
ueritasdignitatum eſt mani feftifsima quod autem hæcde datofeuſubiecto
expoſitio ſit germanatex. Ariſt.ut uidelicet excludat àſubiecto ipſum quia
,& non ipſum quid,mani feſtă eſt in littera,ubi ait ,Genus non fupponere
efle fi fitmanife ftūquoniã eſt non dicit Arift.genus no ſupponere quid
ſitexemplü de queſito,quandonon accipiturquidſignificet est propoſitione
xiiij.primi : Elemen.quod est,indiređã linea una,quod quidē quid ſignificet non
tung OI MI deo per da Jet OB um 10 & IN PRIM VM LI B. preaccipitur,cumfit
notum ex deffinitione quarta primi Elementorum , quodnon queratur , quia eft ,
quando est notum ,id apertißime dicit philofophus textu fecundo ſecundi
Poſteriorum ,inquit enim ,inuenien tes autem , quia deficit pauſamus, & fi
in principio ſcirc mus, quia deficit ,nó queremus utruin , cum autem fcimus
ipſum quia ,ipſum propter quid querimus & c. TEXTVS LII ALIAS XXV.
EQYEGeometra falſa ſupponit,ſicut qui dam affirmant dicentes , quòd non oportet
falſo uti , Geometram autem mentiri, dis centem lineam eſſe unius pedis,quę
unius pedis non eft , autrectam lincam , non ree &tam cxiſtentem , ut in
prima propoſitione prin mi elementorumfuper datam rectam lineam triangulum
collocare , etiam in decima primi Elementorum datam lineam rectam , eum
biffaria diuidere iubet Geometra, os ſiilla linea , que atramento pingitur ,
uel penna aut ſtilo protrahitur reta non fit, non ob id tamen dicendum eft, Geometram
errare , quia non ad id intentionem dirigit Geometra quod oculis fubijcitur ,
fed ad id potius , quod intus animo concipit , dirigit intentionem , ideo non
contingit Geometram circa aſſumptam materiam errare et mentiri, Geometra enim
nihil concludit fecundum hanc lie neam pitam , quam ftilo pinxerat , fed
fecundum intus conceptam lie neam , demonſtrationem percurrit ,idem habet
Ariſtoteles primo priorã ante mutuamfyllogifmorum reſolutionem non errat etiam
Geometra cir ca formam fyllogiſticam , ut textu 59 62, ait Ariſtoteles, igitur
cer tißimefunt diſciplinegeometria, et non quiafenfatæ fint, ut falfo quis dam
dicunt, Quia intus concipiuntur. TEXTVS LIX ALIAS XXVIII. VONIAM autem ſunt
Geoinetricæ inters rogationes non ne funt & non geometri. cæ ? & in
unaquaque fcientia,fecundü qua lem ingnorantiam funt Geoinetricæ ? & utrum
quiſecundum ingnorantiam fyllo giſmus eft, fit qui ex oppoſitis fyllogifo mus,
POSTERIORVM ARIST. 3 dis 2018 pria vik est 200 gt mus; an paralogiſinus? In
unaquaque fcientia contingunt fieri in terrogationes, ficut in Geometria , In
geometria autembiffariam contin git interrogatiofieri, uno quidem modo,ut nihil
fapiat de illo, quod inter rogat, ut fiquis querat an icoceruus habeat tres
æquales duobus rectis, ignorans omnifariam &quidfit Icoceruus , & quid
ſithabere tres duo bus reétis æquales , hic interrogans habet ignorantiam
fecundum nega. tionem , quia omnis habitus negatur in eo de illa re, quam
querit. Altero autem modo, ut interrogās ſciat quippe partim de illo , quod querit,
par tim uero non, ut adinuicem parallelas concurrere,fciat nanque que nani
lineæ rectæ fint, oſcit quòd in utranque partem protrahuntur , ſcit etiam ,
quisnam ſit duarum linearum concurſus , &quatenus iſta nouit et
interrogat,Geometrica queſtio atq; Geometrica interrogatio eft, quate inus
autem opinatur an parallelæ in infinitum protrate concurrant,hac ex parte,non
eft Geometrica quæſtio , et habet hic ignorantium habitus, idest fecundum
habitum, quo fcit lineas rectas , ceas in infinitum pro trahi polle, et
concurſum linearum effe in eadem ſuperficie, cum illo qui dem habitu , ſtat hec
ignorantia , ut ne ſciat quòd etiam ſi in infinitura protrahantur, non
căcurrunt. Errore hoc peßimo in interrogatione er rauit Pſcelus Grecus,
quifuitilla tempeſtate quorundain Grecorum ho minum , qui præter uoces re ipfa
nihil penitusaut parum doctrinæ has bebant, in quam calımitatem credo
plurimosnoſtri temporis Græculos incidiſſe, Tentauit ipfe diuidere tonum, qui
fexquioctaua proportione co ſtat accipiebatô; neruos duos, qui tacti,
interuallum foni haberent, quos rum utrumlibet biffariam diuidebat, fubinde
arguens agebat, totus ners uus maior ad totum neruun minorein habebat toni
ratione, igitur medie tas nerui ad nerui alterius medietate ,ut medietas toni
ad toni medietaté, poyo fic putabat dimidium Toni , hoc eſt ſemitonium uerum
adinueniſſe, ignorans pauper , quod proportio totius nerui ad totum neruum
eadem eft , que dimidij nerui ad dimidium alterius nerui per decimamoctauam
@decimamnonam ſeptimi Elemětorum , erat igitur non Armonica quæa ftio, qua
quærebat, an tonus dividi biffariam poſſet ? Verus autem Geo . metra ille eft ,
qui non habet ignorantiam neque ſecundum negationem , neque fecundum
priuationem , «ille non facitinterrogationes non geo metricas, neque interrogationes
partimgeometricas opartim non geo métricas, ſed interrogationesfacit
omnifarians geometricas, ut, an trian gulus cõſtitutus in tabula, habeat tres
æquales duobus reitis pares, Geo metra non errat , circa uffumptam materiā,ut
tex. 52. determinauit phi lik line et K 74 IN PRIM VM LIB .. lofophus,non errat
circa interrogationes, ut hoc textu patuit, neque era rat in forma, in ſua
induftione, ut demonſtrat Ariſtoteles in textu. 62. nullus igitur error in
Geometria contineri poteſt ex mente Ariſtotelis, hanc eandemfententia habet
Galenus in de erroribuscognoſcendis et cor rigendis, quo loco innumeras
Geometrie utilitates narrat. TEXTVS LXII ALIAS XXIX. ONTINGIT autem quofdam non
fyllogi. ſtice dicere propter id quod accipiunt ad utraque conſequentia , ut
& Ceneus facit, quod ignis in multiplicata analogia fit . Scito Ariſtotelem
Cenei mentē recte intellexiſſe, que quia in formafyllogiſtica errabat
parallogizădome rito eum redarguit, ut Joannes exponit ,ſed aduertendum eſt in
materia parallogiſmi , quo modo id cita creſcat in multiplicata analogia , quia
ut Alexander errauit in hac expoſitione quëadmodum Philoponus ei ima ponit non
minustamen & ipfe etium loannes grammaticus grauiter era rauit aliter
exponens quàm Alexander,oſi fuam expofitionem confir met Procli diadochi
auctoritate, qui Proclus , ſi ita fenferit , ut ioana nes refert, perperam hunc
locum interpretatus eſt,«mentem Cenei nõ intellexit,inquit Ariſtoteles de mente
Cenei, quod in multiplicata analo gia creſcit, id cito creſcit , non autem ait,
quod in multiplicationetermi porum analogia creſcit , id cito creſcit ſicut
ipſe loannes & Proclus terminos analogie multiplicentfic , 1,2,4, 8 , 16,
32, 64, 128, 256 , $ 12 , 1024, 2048. Egouero aliter de mente Ariſtotelis ♡Cenei dico ex doctrina Eucli dis
deffinitione undecima quinti Elementorum , &ex deffinitione primi Geometrie
uitellionis ubi quantitates denominantes ipſas proe portiones multiplicantur
non termini, ut loannes ♡Proclus
facies bant,arguebat ſic Ceneus ,quæcung cito creſcit augentur in multiplicata
Analogia , ſed ignis augetur in multiplicata Analogia , igitur ignis cito
creſcit ,ubi maior &minor in ſecundafigura ſunt affirmatiua. Talis au tem
error parallogizando à Geometra non committitur , igitur certiſie ma, ca in
primo certitudinis gradu Geometria reponitur, POSTERIOR VM ARIST . 75 248 2 3
3.2 ov 4 64 16 1 2 8 16 2 S6 256 S 12, 1 256 65536 4 0 24 2 048 ei ad CI , C.
qué mee erit 4096 8 1 9 z 1.63 8.4 32768 6 ss36 Julia ima 1 eta infor TEXTVS
LXIII ALIAS XXIX. ină Tomi club = 56 wich ro cies ONVERTVNTVR autem magis , quæ
funt in mathematicis, quoniam nullum reci s piunt accidens . Secunda pars
trigeſimaſecunde primi Elementorum eſt , quodomnis triangulus duos bus rectis
paret habeat , id autem probat prima pars trigefimaſecunde ,& ſecunda, o
prima pars uigefi menone, &tertia decima primiElementorum , quæ omnes
propoſitio nes concurrunt ad probandam illam conclufionem , quæ conclufio ſi in
fua principia illatiua reſoluatur,non niſiin illareſolui poteſt, que ſupra
commemoraui, ubi cernis &compoſitiuam methodum , ab illis principijs ad
illam illatam conclufionem , reſolutiuam methodum ab illa conclus fione ad illa
principia regrediendo , quihabitus reſolutiuus altißimus eft, e profecto ſignum
eft re &te fapientis. Cumautem conclufiones in mathematicis fequantur ex
determinatis principijs , tunc ibi facie lior eft reſolutio à concluſione in
principia quàm in Topicis , ubi ex uagis, ofolum apparentibus, quandoque
etiamfufpeftis odiuerſis, cito # Bie Kij 7.6 IN PRIMVM LIB . @non ex unis
principijs concluditur quippiam de hac re , abundantius infragmentis nostris
mathematicis fuper Ariſtotelis loca dicturus fum . TEXTVS LXIIII ALIAS XXIX .
& fit par eſt ers VGENT VR autein , non per media , ſed in aſſamendo, ut a
de b , hoc autem de c , rurfus hoc de d, & hoc in infinitum . Et in Iatus,
ut a de b, & de e, ut eſt numerus quantus , uel infinitus ,hoc autem fit in
quo eſt a, nunerus impar quantus in quo b, numerus imparin quo c,eft ergoade c,
& fit quantus numerus, in quo d par numerus in quo e, go a de e. Exépla duo
attulit primo in poſt ſumendo,ſecüdo in litus ſu mendo, primo exemplī prebet in
numerisin poſtfumendo,ut a numerus , de b numero impari, et b ,de numero c
primodicitur igitur a numerus de c numero primodicitur, In latus ſumendo numero
pariter exemplificat, pro cuius notia, imaginare arborem porphirianam ,cui
fimilē in numeris finge, &numerum quantū ,qui etiam potentia infinitus eſt,
loco ſubſtans tiæ apta ; infinitus ait propterhoc, quia omnes imparis atque
paris nu = meriſpecies,quæ in infiritum crefcunt,potentia continet
,ſicutſubſtan = tia fuas inferiores potentia fpeties continet, his autem
numerus non po teft effe aliquis determinatus quantus , quia quicunque daretur
, aut par effet , aut impar, qui non poteft effe communis pari &impari, fed
talis debet eſſe numerus uniuerſaliter ſumptus, noluit autem uti iſto uer bo,
uniuerfaliter, quia non eſt terminus Arithmeticus,ſedſpectat magis ad
dialecticuin , ideo loco debito ufus eſt proprio uerbo hoc, uidelicet, ins
finitus,quæ uox numero conuenit, ſicut incremento creſcat in infinitum inſuis
fpetiebus, & numerus fic acceptus diuiditur in imparem , atque pa rem ,
&imparis numeri diuiſio est , in primum numerum ,ocompofi tum , prinus
autem numerus dicitur in fui natura, &ſine comparation, ne ad alium
quemcunque numerum ,o ille eſt quiſola unitate metitur,ut. 3 , 5, 85" 7,
13. Compoſitus numerus eft, qui alio numeroaf e ,oo ab unitate diuerſo ,
dimetitur, ut 9, aut 25 , à ternario , & à quinario dimetiuntur, is
compoſitus diuiditur in parem , atque imparem , et par quidem numerus ille eſt
,qui biffariam ſecari poteft, ohic partitur in pariter parem , qui in duo
æqualia fecantur , partes eius, quoufquc POSTERIORVM ARIST. 77 1 ad unitatem
uentum ſit , ut trigeſima. In pariter imparem qui quidem in duo equalia
partitur, partes in duo æqualia non fufcipiunt ſectios niem ,ut quatuordecim .
In impariter partem , qui quidem in duo æqualia diuiditur partes ſimiliter in
duo æqualia , fed hæc partitio , uſque ad unitatem non peruenit , ut
trigintaſex , de quibus Euclides libris ſeptia mo o octauo, nono Elementoruin ,
Nicomacus atque Boetius primo Oſecüdo Arithmetice, Quo autem ad Ariſtotelis
textī attinet, manife ftum erit exemplumſuum , numerus infinitus fiue
quantusſit a numerus autē quantus &determinatus ſub ipſo ſit b , numerus
alius nempe infes rior ad b ſit cog,par autem numerus quantus ſit d, qui
trifaria ſeca tur in e k l, ut dictum fuit fupra , eft ergo a ded , &etiam
de e k lo In latus autem dixit ,quiane dum per rectam lineam arboris, fed ex
utra que partefumptio facta fuit. ES 11 in Exemplum in poſt.fummendo. 5,
Exemplum in latus fummendo. 11: 111erus 111 : 11CTUS -is 14 impar primus 13 50
ut impar 6 d par ed S A i primus compofitis . 16 14 pariterper impariterpar
pariter impar. 12 is 14 inte Aduertendumquod exemplum in numeris eſt
contractius , quàm prius propofuerit per litteras ,ideo ne labores in numeris
tot numerosfübfea inuicem poſitos, quot litteras, ibicommemorat, exempla duoin
numeris appofui ut alia ipſe in textufecit, ne alia aliterdefiderentur. mo . 6
8 IN PRIMVM LIB. > TE X. LXIIII. A LIAS X X X. Iffert autem quia &
propter quid fcire primo quidem in eadem ſcientia & in hac dupliciter uno
quidein modo, ſi non per immediata fiat fyllogiſmus , non enim accipitur prima
cau fa , quæ uero fcicntia proprer quid , per pri mam caufam eft . Hoc quidem
primo modo non prebet exemplum aliquod philofophus , quicquid Aueroes ,
Philopou nus , fequaces fentiant , fed exemplum profecundo modo appofuit unicum
folummodo pro quia , de ſintillatione planetarum , de rotons ditate autem Lune
dedit etiam exemplum ,pro fecundomodo quia ,quo ta men exemplo declarat etiam
quo pacto fieret propter quid demonſtratio O ob id imminutus aut ſuperfluus non
fuit , quia primo modo textus est clarus ſatis, c profecundo modo quia ,duo
exempla prebetin diuers ſis ſcientijs , utrunque exemplum est in ſcientijs
medijs , alterum est in optica , reliquum est in Aſtronomia , &quia textus
est ſatisclarus in duobus exemplis quantum ad inductionis modum . Primo declaro
prie, mum modum , quo, quia à propter quid differt de quo primo modo,quo, quia
a propter quid differt nullum dat exemplum ,ubi ait uno quidem modo,fi non per
immediata fiat fyllogif. ita habet textus Philo ponio Aucrois Argiropilus autě
habet , uno quidē modo fi ratio tinatio non per ea, quę uacant medio
fiat,utloco uerbiſyllogiſ. legatur ratiotinatio, omelius meo iudicio, cum illud
uniuerſalius fit uer bū , fenfus tamen ille est, utfi fiat deduétio, non per
immediata,erit demon ſtratio quia ; ut fide homine concludatur reſpiratio, eo
quod ſitanimal, ſi uero de homine concludatur quòd reſpirat , eo quòd pulmonem
habet , eritdemonſtratio propter quid, oin utroque modo,concluditur res
spiratio follogifmo ut omne animal reſpirat ,cæt.velomne habens pul:
monemreſpirat & c. Si uero lectiofiat ſecundum Argiropilum ,Olegatur
ratiotinatio , Tunc exemplum dari poteft pro primo modo, quando non per
immediata fiat inductio, ut prima pars xxxij . primi Elementorum probatur per
uigefimamnonam primi elementorum , & non per immes diata principia , fic ut
fenfus fit , quod illa que probantur per alias pro poſitiones probatas prius,
talia quidem probatione quia probataſint illa uero queprobanturper immediata
principia propter quid demonftrens POSTERIORVM ARIST. 79 zmo citer fiat maus
prio DOM -cpon cofuit bton uo ta cratio extus iuers mes : FUS IN • prie quo,
dem philo atio ogil uer tur , ut eſt queſitum primi, ſecundi, atque tertij
problematum primi Elea mentorum ,que quæfita per immediata principia
demonſtrantur , facta prius deſcriptione , ut conuenit , neque dicendum est ,
ut quidam exiſtie mant,quod eafit propter quid ,quando
perimmediataspropoſitionesfiat deductio imediationem illam tribuentes adſitum
propoſitionū ut fecundit pars xxvIII. per primam partem illius, oprima pars
uigeſimeoctaua per uigefimumfeptimam primi Elementorum,fed hoc loco , non imme
diata accipit Ariſtoteles, omnes propoſitiones probatas,uel etiam , quæ per
prima probare poſſunt , cum demonftratio fiant ex primis , & im mediatis,
oppungat,ut immediatafint , o non fint primaabſolute . Et in Geometria etiam
alio modo quia eſt , differt à propter quit , ut quando ab effeétu ad caufam
progreffus fit , neinpe quando per æqualitatem an = gulorum concluditur
equalitas laterum ,ut fexta primi Elementorum Eu. clidis proponit.Propter quid
autem eſt,quádo à caufa ad effectum proces ditur , utputa quando ab equalitate
laterum trianguli infertur æqualitas angulorum illa latera reſpicientium , ut
prima pars quintæ elementorum Euclidis proponit . Atio autemmodo per immediata
quidem non auteng percauſam , ſed per notius eorum que conuertuntur , ut
lucidum non ſcintillare,o prope eſſe , fimiliter, creſcere per rotunda
incrementa luz. cida , ceſſe rotundum æqualiter defe inuicem prædicant,notius
tamen eft , non ſcintillare , quàm prope effe , ¬ius eſt creſcere per
increa menta lucida rotunda, quàm eſſe rotundum , & primum eft per fenfum ♡per induétionem in fingulisplanetis
notummagis , non tamen caufa eft quare planetæ prope ſint, fed
econtrario.Secundum etiam , ut quod incremento creſcere,non eſt caufa
rotunditatis , licetfit notumfolummo do per ſenſum , non autem per inductionem
à pluribus determinatis ſie mul exiftentibus, quia hoc tantum de unico
incremento creſcente certi fumus , *cum per ipfa, fiunt inductiones , quòd
planeta propefint, aut quod Luna rotundit ſit, talis utriuſque inductio eſt
quid, quod fi ccontra riofieret, tunc propter quid, anon quia, erit
demonſtratio , ifti igitur duo modi à fe diuerſi ſunt, eo quod primus, per
priora quidem , non tas men immediata procedit. Alius autem per immediata non
tamen per priora , fed ea quæeſt propter quid colligit utraque, & quod ex
prio ribus fit, atque ex immediatis . Amplius quare planetæ , haud fcina
tillare uideantur fuſius ſuper problemateultimo quintadecimæfectio nis problematum
Ariſtotelis fiet per me declaratio , quæ etiam faciet fatis huic textui , eft
tamen hoc loco aduertendum Ioannem dicere fira MON mal , het, pw atur non ros
illa IN PRIM VM L I B. tillationem prouenire , quod protendentes uifus ufque ad
aſtra fixa de biliores fiunt, quaſi quòd uiſio fieret per extramißionem
radiorum , ut Thimeo &Empedocli placituin erat , quos Ariſtoteles
reprehendit capi te ſexto De Senſu &ſenſili. In hac igitur parte reiciendus
est Philopo nus , niſi exemplo loquatur famoſo . Alterum De rotunditate Lune
fus per problemate oftauo eiufdem feftionis aperietur , ubi querit Ariftote les
unde eſt , quòd Luna uideatur plana, cum fit rotunda. TEXTVS LXV. ALIAS X XX .
MPLIVS in quibus inedium extraponitur etenim in his nó propter quidſed ipfius,
quia demonſtratio eft , non enim dicitur caufa , ut propter quid non reſpirat
paries, quia eſt ani mał . Tertium modum quo quia in eadem ſcientia à propter
quid differt , nunc affert Ariſtoteles inquiens amplius eft, que quando neque
cauſa probat 1,ut primus modus effe&tum infert , neque est,quando ex
effectu caufa infertur , fed quando ex nega: tione pene cauſe infertur ipſius
effe &tus negatio , feu etiam econuerfo , ut quia non funt parallele, ideo
alterni anguli non funt æquales, opdo ri modo , quia extrinfecus angulus non
eft æqualis intrinſeco'ex eadem parte , igitur parallele non funt ; oeſt hic
modus tertius , quo quia à propterquid differt in eadem ſcientia , dixi quando
ex negationepene caufe, oc. Quia parallelas effe,non eft caufa ut alterni
anguli ſintæqua les ,nifi fuper ill. linea recta ceciderit, que propinqua caufa
eft, quod al terni anguli fintæquales,ficut animal quidem longinqua caufa eft
refpira di, propinqua eſt pulmo, totalis autem eſt animalhabemus pi Imonem me
dium enim ad probandă affeétionem in perſpectiut accipitur extra perſpe fiuã,
utputa in Geometria & Mechanica ad Stereometriam.ld no tißimum erit pariter
v iocundum , fi id quod ait Ariſtoteles in ques ſtionibus mechanicis questione
x l'intelligatur ,onera qua mouentur ſua per ſcytalas facilius mouentur, quam
fi ſuper plauftra mouerentur,ultrd rationes illas Phiſicas quas ibi Ariſtoteles
adducit , etiam ratio propter quidſummitur ex primoſtereometrie Euclidis
deffinitione decimao taud uel undecima ex Theonis littera, Q * tertio Elementorum
deffinitione fez cunda, minus enim offenfant ſeytale, quam plauſtrorum rote ,
quia ana gulus fcytalarum longe maior eft, quàmfit angulus rotarum plauftrorit
ut angulus POSTERIORVM ARIST. 81 1 unt 41 utangulus rota a fe, uel etiam a fd
longe minor eft quàm angulus fcytale af c, & ideo minus ad planum af b
offenſat ſcytala quam rota ,quidfcytals,que in uſu noſtro tempore eſt, in
questionibus mechaa nicis declarabo, pro nuncfcito illas eſſe ftangulas ,quibus
utuntur lapi cide in trahendis magnis lapidibus, f & Harmonica ad
Aritmetica a -6 Tonum in duo equalia diuidiſemito nia minime poteſt,quod
muſicus dea terminat , ut Boetius re&te fentit lis bro tertio capite primo
muſices, le quicquid Pfelus Greculus ſentiat , fedfecaturin apothomen eſemi
tonium minus, huius autem propter quid ratio , ab Arithmetico reddia tur,
quiafuperparticularis propor tio non poteſt diuidi in duo equalia , ut Boetius
in Arithmeticis docet. Tonus autem cum in ſeſquioctaua ſonorum proportione
conſiſtat in duo equalia ſemitonia diuidi haud quaquam poteft. & Apparentia
ad Aſtronomiam . Apparentia , ipfa eft phenomena de qua Euclides, e Aratus
poeta agunt, atque VergiliusAgricolas docens tempus quo mila lium
feminaredebent , ait in Georgicis loquens de occafu hellaco , Candi dus auratis
aperit cum cornubus annum Taurus, oaduerfo cedens cda nis occidit
aſtro,rationemſiqnis agricola deſideret , cur eo tempore cda nis, qui et Alabor
dicitur, occidat beliace ,id totum ab aſtronomo petat, qui rationem propter
quid redet; Sol enim in orbe eccentrico à propria intelligentisex occidente in
orientem motus , quicquid fomnietAlpetra gius Fracaſtorius, &
fequaces,accedit annud orbita ad illud fydus, quod eft in geminis &fuo
maximofplendore , non finit illud uideri, id autë fit cum Sol diſcurrës perſignum
Tauri , attingit extremam partem Tauri, tunc enim canis perdit lumen ſuum , non
uidetur amplius, propter So lis ad ipſumſydus uiciniam , quouſque iterum per
motum eccentrici ab co fydere ellongetur Sol, quod iterum oriri heliace incipit
; hi ſunt igitur modi quatuor , quibuspropter quid , à quia differt , tres
quidem funt in eadem ſcientia fubalternante,oquartus, quando id quoddemon
ſtrandum eft inſcientia media ,per ea quæ in ſubalternante ſcientia nota funt,
probatur , in quo quarto modo , funt plures demonſtratiomisgraa dus fpeculandi,
quos quia Ariſtoteles non tangit,præterco. L Me hen 1 1 IN PRIMVM LIB . -7.
Sunt autem hæc quæcunque alterum quiddam exiſten tia ſecundum fubftantiam,
utuntur fpeciebils, Mathenati cæ enim ſecundum fpeciein funt, non enim de
ſubiecto alia quo,fi cnim & de fubiecto aliquo Geometrica funt, ſed no
quatenus Geometrica,de fubiecto funt. In præcedenti particu la huius textus
dixit de ſcientia quia, quód fenfibilium eft, inquiens,Hic enim, ipſum quia
ſenſibilă eft fcire, de fcicntia uero propter quid ,quòd uniuerfalium ejt , per
caufas habetur,ait ,propter quid autem mathemde ticorum , hi enim habent
caufaruin demor.ſtrationes, ofrequenter neſci unt ipſum quia, ficut illi
uniuerſale conſiderantes , fepe quædam ſingula rium neſciunt propter id, quod
non intendunt; Ecce quantimathematis cos ficiat philofophus, dicens eos
noningnaros illorum, que uulgus tra Etat, fed Socratico more, ea non intendere
quæfumuno ſtudio, amplectun tur uulzures, Differentia igitur ipſius ,quiu à
propter quid,adhuc magis explicans,ait, funt autě ip / e quidemfcientiæ, quia
quecunq;,utuntur ſpe ciebus (fenfibilibusuidelicet, alterã quiddam fecundum
fubjtantiam pecu lantes, alterum quiddam non folum fecundum ſubſtantium ,fed
etiamaltes xum quiddamn in exiſtentia,hoc eft in ſubiecto materiali exiſtens,
Mathem matice enim , nempe quæ propter quid fient, circa fpccies ſunt , dubita
. tur hocloco, cum ſcientia quia utatur fpeciebus, o ſciétia propter quid circa
ſpeciesſit , quo nam puto , in quia , & quo modo in propter quid fpecies
intelligatur. Dico , quod quia ſenſibilium eſt , ut ait Ariſtoteles, utitur,
quia ſpeciebusſenſibilibus,quarum beneficio fenfus ſenſata perci piunt , fed
propterquid,utiturfpeciebus abftractis àſubiecto materiali, ut ſuperficie ,
linea, puncto, &ſimilibus, quatenus affectiones aliquas de ipſis inipſis
cognoſcit demonſtrator,non tamē circa hæc uerſatur Geo metra quatenus in
ſubiecto funt ,ſed preciſius abſtractione , ea conſides rat , fi talia nufquam
, ſine fubiecto ſint. Habet autem fead perſpectiuam , ficut hæc ad Geome triam
, & alia ad iftam , ut id quod de, iride eft. Traslatio Ar giropoli in hac
, precedenti particula facilior ,atque candidior eft, quàmfit textus Philoponi,
ne uidear tamen in precedenti particula , e hac preſenti, litteram ſequi, quam
pedagogio neoterici non doctores, ut fe præferunt , fæpe encruat ; loannis
textum in utraque particula ex pono, quo etiam plura uirtute continentur quam,
contineat textus, Are giropoli tum etiam, quia accedit ad hæc Procli
interpretatio , ut teftatur loannes, ſcientiasigitur quas in præfenti
Ariſtoteles cõmemorat,fub ale POSTERIORVM ARIST. 83 terno quodã ordine pofitæ
funt;primo Geometria,cui imediate perſpecti ua,perfpe & iue autē ſpecularia
&huic ſpecularie, ea ſcientia, quæ eft de Iride in qua,
quæponuntur,perfpecularia probantur&, quæ in peculi ria , per ea quæ in
perſpectiua funt notamanifeſtantur , qu : autê in pera fpectiua , per ea quæin
Geometrianoșa, fuerunt , ut quòd iris ſit tricos lor,oquòdnunquamplures duabus
Iridibus appareant ; et quòd denigs Rõ fit nidor femicirculo , per fcientias
ſuperiores, hee omnia probatur. Multæ autein & non fubalternarum ,
ſcienriarun fe has bent fic , ut medicina ad Geometriam , q eniin uulnera , cir
cularia tardius fanentur medici eft fcire quia, propter quid autein Geometræ .
Parum ſupra in anteprecedenti particula dixit philofophus ,qu& namfcientiæ
effentfere uniuoce inquiens, fere autem uniuocefunt hurumſcientiarī alique,ut
aſtrologia ' et mathematicaet na ualis , o harinonica quae mathematica , oque
fecundum auditum , in hac autem particuladeterminat de his fcientijs que nullo
modouniuoce funt. ut Geometria os medicina que etiam fubalternate non funt, he
enim due non ſubalternantur inter ſe, quia ſubiectum Geometrie eſt , id quod
circa planum uerfatur , medicine uero ſubiectum eſt corpus jarabi le ,id , eft,
quod proponit; ut quod in alterafcientia proponitur,probatur per ea,quæ in alia
fciētia nota funt; non tamen hæ fevětiæ funt uniuoce , neque fubalternatæ ,ut
in chierurgia ,que pars eft medicina proponitür uulnusrotundum , difficultate
fanari, ut canumexcoriatoresteftantur. Geometria autem nobilis fcientia reddi
propter quid , primo Elemento * rum deffinitione decimaquinta, quia exomni
parte æqualiter diftat cas * o , ficut ibi acentro ipfa circunferentia. ly tie
20 SMS TEXT VS L XVII ALIAS X X X. 170 ot cs, tro autem modo , differt ipſum
propter quid ab ipfo quia , quodelt , peralia fciené Stianu nrruinqué,
ſpeciilari , Huiuſmodi au Matem funt , quæcunque fic fehabent, utals terum fub
altero fit, ut perſpectina ad Geo metriani. vbi ait, per aliam ſcientiam fic
intellis gatur per altam magis uniuerfalem et fubalternantem in aliam minus
univerfalem . Vtrunquefpeculari, utrunque dixit refferens &propter. quid,
quia, alia enim fcientia fpeculatur propter quid, c alia fpecus Ljj 84 IN
PRIMVM LIB. 1.3 latur ipſum quia, ut Geometria proprer quid , perfpeétiuauero,
quia, inquitenim Ariſtoteles. Hæ enimipſum quia, fenfibiliumest fcire, prom
pter quid autem mathematicorum . Verbi gratia,oculus exiſtens in a uidens cd,
uidet ipfam quantitatens minorem , quamſi idein oculus fiat in b , quia inquit
perfpe&tiuus,uide tur ca ſubmaiori angulo ab oculo exiſtente in b , quam ab
eodem oculo in a exiſtente,& quód angulus dbc ſit maior da c, Geometra id
demon ſtrat primo Element propoſitione xxi. Dubitatur circa hoc , quod di
cebatur de mente Ariſtotelis in dia & o exemplo perſpectiuo , quodne que
percurrendum eſt ſicco pede,ut indoctifaciunt no intelligétes bonas artes ,
quicum ad Mathematica ex empla accedunt,pedem referunt,dia centes non eſſe uim
ponëdum in illis . Ego autem econtrario dico , totum neruiim rei, eſſe in
exempli intelles ione, ubi ait , quod perſpectiuus oftendit maius uideri id ,
quod de prope eft , demonftratione quia , o Geometra , idein propter quid ,
demonſtrat in vigeſimaprima primi Ele mentorum , qua uigefimaprimaprimi
Elemen.non propter quid demon ſtratur , fed demonſtratione quia , ut
demonftratio quia diſtinguitur , a propter quid primo modo, ficut textu 64.
declaratumfuit, quòd illa des monftratio , quæ per mediata a probatas
propoſitiones procedit , eft demonftratio quia , diftinguiturab illa ineadem
ſcientia, quæ proces dit per immediata principia ,quæ demonftratio propter quid
dicitur,mo do ex fexagefimoquarto textu ,determinatur quòd demonftratio uig eſi
miprima primi Elementorum eſt , quia , hoc autem exemplo perſpectis uo dicit ,
quod eft propter quid , contradictio igitur manifeſta uidetur . Dico de mente
Ariſtotelis hoc loco,&eft etiam loannis Grammatici ins tentio fuper textu fexagefimoquarto
,dicentis . Quodammodo autem in precedéribus dicebamusquod ipſum quia eſt
primomado,permediata mo firare, cum fecundo modo ipſumquia per
immediata,ſimiliter w propter quid , unde aduertendum , quod demonftratio ,
quæfit fuper uigeſimam primam primi Elementorum ,que per uigefimam decimāfextam
primi elementorum procedit, fi ad demonſtrationem prime propoſitionis Elc .
POSTERIORVM ARIST. es mentorum , quæ per immediataprincipia procedit comparetur
demon Atratio quia, merito dicitur, ſi mero comparetur adperſpectiuam demone
ftrationein , tunc propter quid dicetur , quia perſpectiuus pier eam pros bat
intentum , u ſictricic apparentis argumenti explicite funt ,fc cundum
philofophiſcitum . TEX. LXVIII. ALIAS XXXI. IG V R A R v M autem faciens ſcire
maxime pri ma eſt , etenim Mathematicæ fcientiarum per hanc demonſtrationes
ferunt, ut Arith metica , & Geometria , & perſpectiua, & fes re (ut
eſt dicere) quæcunque,quæ ipfius pro pter quid faciunt conſiderationem ,aut
enim omnino ,aut licut frequentius , & in plurimisper hanc fi guram (quieſt
propter quid fyllogifmus) fit, Textus hic uis detur edirecto contra
expoſitionem nouam factam permeſuper iỹ. tex tu de inductione illa Geometrica ,
que tanquam fictitium quoddam , uanißimum , &nullo Greco &
Latinoexpoſitore do&tißimoexcogitatū, inquit enim Ariſtoteles , etenim
Mathematicæ ſcientiarum , per banc primam figuram demonſtrationes ferunt , non
igitur Mathematic & fea runt demonftrationes per illam Geometricam
inductionē , utibifuit des terminatum . Inftantia hæc,eft hominisuaniloqui,qui
ea profert& fcri bit ; quæ nonfunt notæ earum , quæin anima paßionumſunt,
cum non folumanimamtanquàm abraſam tabellam habeant , fed potius tanquam
ficcamcucurbitain , in qua nonniſi uentus reperitur , quia tamen nonfo lummodo
fapientuin habenda eft ratio , stultis etians atque infipientibus pariter
reſpondendum effearbitror , ne in fua ignorantia glorientur ua ne . In hoc
textu Ariſtoteles nil aliud determinat , niſi quod preſtantior est prima, quàm
fecunda & tertis figuræ ,&quód Mathematica hac fepe utuntur , &hoc
quidem quandofyllogiſtica arguunt, ut ait in tex . dicens , oin plurimis per
hancfiguram , que eſt propter quidfyllogif mus fit , modo quid refert , ſi
Geometra, utatur fyllogifmo, non nece ibi in tertio textu fuit declaratum , quo
modofyllogiſmo utitur Geomes tra , &quomodo inductione Geometrica ?fimodo
quis ex hoc textu uca lit inferre , quod illa indu&tio Geometrica non detur
, ipfe faciet mendas cem Ariftotelem , dicentem in tertio textu , quòd nedum
fyllogifmo fed 70 IN PRIMVM LIB. , oinduétione , ſcitur quòd triangulus in
femicir culo conftitutus, habeus tres angulos æquales duobus reitis . TEX .
LXXXVII . ALIAS XXXVI. EMONSTRATTO enim eft ex his , quæcun queipſa quidem
inſunt, fecundum ſeipſa rebus , ſecundum feipſa uero , dupliciter , quæcunque
enim in illis infunt in co quòd quid eft , & in quibus, ipſa in eo quodqınd
eft inſunt ipſis , ut in numero, impar, quod ncit quidem numero , eft autem
ipfe numerus in ratione ipfius , & iteruụn multitudo ,aut diuiſibile in ratione
nua meri , horum autem neutrum contingit infinita eſſe ,nec ut impar numeri,
Secundum fe ipſum bipartitur , ut quando prie mum deffinitio de deffinito
predicatur. uel etiam quädo deffinitum de def finitione , ut numerus est
multitudo ex unitatibus aggreguta , ut Euclia des ait fecundadeffinitione
ſeptimi Elementori,et etiam multitudo ex unii tatibus agregata numerus est :
impar nuſquà inuenitur in deffinitione nu meriupud Arithmeticū , neq; etiä
numerusin deffinitione paris, quid igi tur uelit Arift. hoc exemplo noſatis à
Græcis etLatinis explicatum est, puto tamen egoquod ficut in deffinitionibus,
quædum fecüdum quod ipfa inueniuntur,pariter etiam id in diuiſione fit , ut fi
quippiam , nume rus eſt , id quidem impar uel par statim eſſe dignoſcitur ,oſi
quid ims par uel parfit illud tale numerumeffe patet , ſic ut exempluinprimum
Ariſtotelis , ſit circa diuiſionem , fecundum exemplum de deffinitios ne , quia
tamen addit , aut diuiſibile in rationenumeri, nullibi apud Eus clidem
reperitur quod diuſibile in numeri ratione ponatur , quatenus nu merus eſt ,
fed in deffinitione numeri paris ; recteponitur , ut diuidatur in æqualia, ut
primadeffinitione noni Elementorum manifeſtum eſt, par numerus eft , qui in duo
æqualia poteſt diuidi , & quicquid in duo equa lia diuiditur , id numerus
effe patet , fiueboc de numero , quo numerisa mus , feude numero numerato, hoc
intellexeris, ueritatemhabet. Meto dumdiuifiuam , in his exemplis ſeruauit
Ariſtot. primo enim in diuiſione ſubinde in deffinitione,et tertio loco infpecie
contenta, fub deffinito ufus eft exemplo,Numeriigitur primadiuiſio eſt in
imparem atqueparem ; ut Boetius docet capite tertioprimi Arithmetica ,
definitio estſecunda fe-. POSTERIORVM ARIST. 87 ptimi Elementorum , deffinitio
autem paris ; patet ex prima definitione noni Elementorum . Horum autem omnium
nullum contingit infinita eſſe, numerus enim in imparem atque parem , impar in
primum , compoſia tum , compoſitum in quadratun , o non quadratum , igitur
quadratus compoſitus impar numerus eft , onumerus , eſt impar compoſitus qua
dratus, feu numerus eft impar prinus , er prinus , impar numerus eft , ♡ ſicuti status eſt innumero ,ut tandem ſit
ultima particulaque à par te fubieéti ponatur , ſiiniliter ſtatus erit in alijs
particulis , que ponun tur à parte predicati, quando ipfe numerus àparte
ſubiecti pofitus erit neque igitur inſurlum ,ncque igitur in deorſum infinita
pre dicantia contingit eſſe in demonſtratinis fcientís , de quiz bus intentio
eft, in furfum ait deffinitionem refpicientes , neque in deorfum diuiſionein
feu partitionem animaduertit. d ac 38 در ۴ را mi TEX . LXXXVIII ALIAS XXXVII.
for ONSTRATJslautem his , &e . Non te prea terit, quòd habere tres duobus
reétis equales conie nito Joſcelio Scalenoni , neutri tamen per alte,
rumconuenit ,fed utriqueperhoc , quodfigurarea Eilinea trilatera eft , idfæpe
fuit in precedentie bus declaratum exfecunda parte trigeſimeſecunda primi
Elementorum .. other VA 16 . TEXTVS.XCI. ALIAS XXXVIII. M ST autem inuin cuin
iinmediatun fiat & una propoſitio ſinplex eft immediata & queinadınodum
in alís eſt principium fimplex , hocautem non idem ubiqueeſt, fed in graui
quidem untia , in melodia ,alle tem diefis , aliud autein in alio , fic eft in
fyllogitno unum , propofitio immediata, Secundum antiquos rumfcitum , ut
Campanus refert ſuper oriaus xiiij . Elementorum unumquodqueintegrum in
xij.partes æquales per rationen og intelle Etum diuiferunt, ♡ ipſum totuin fic diuifum in partes illas
, aſſem uoc4 = werunt , undecim earum dixerunt deuncem , decem dextantem ,
nchem IN PRIM V M. LIB : dodrantem , o &to beſſem , feptem ſeptuncem , fex
uero partes femiffen , quinque quincuncem , quatuor trientem , tres quadrantem
, duas ſexa tantem , unam autem appellauerunt unciam , quam unciam in minorafra
gmenta nonfecat philoſophus , quia eft ultimum fragmentum integri à quofuum
initium fumit ipfum integrum, tanquàm ab immediato prins cipio ,ex
quo,fumiturfimile, quod in fyllogifmo etiam est ipſa immediata propoſitio,
ultra quam nonfit refolutio in terminos,ſicut etiam ultra un ciam non fecit
conſiderationem in minoresminutias, licet hoc fieripoßit, ficut propoſitio in
terminos etiam quandoquidem refolui poterit. In melodia autem dieſis, Non eſt
pretereundum filentio id,quod hoc loco Ariſtoteles tangit , id autem eſt, quod
qui Logicam ipſiusprofi tetur quiſquis fit ille ,omnibus diſciplinis
Mathematicis debetin primis fſe inſtitutus,aliter enim euenietei , ut in adagio
dicitur, operam fimul ooleum perdet , quid per dieſim intelligat , notum erit
fitonum ſimpli cem , interuallum integrum , nondum ad armoniam pertingens
diuidi in duas equus partes eſe impoßibile quis prius perceperit , ut etiam in
tex. Lix. prædemonftratum eft , duas tamen in partes inæquales diuidi , quarum
altera maior eft , quæ apothomen , ſeu ſemitonium mas ius, reliqua uero eft
minor, quæ minusfemitonium nuncupatur , oip fum minus femitonium in duas partes
æquales diuiditur , quartum utras que dieſis appellatur à uetuftioribus muſicis
, ut Boetio atque Nicomas co primo libro Muſicæ ,capite xxi. placet
,idprincipium toni eft , quid minimum . Practici uero Muſici dieſim uocant
inciſionem duarum linearumfuper alias duas ſic *quam incifionem fignant ipfi
practici Cantores , ſuper eam notam , ſub quain deſenſus toni, faciunt defen
fum ſemitonij , ſed id cantoribus relinquatur , prima dieſis acception
Ariſtotelis ſententiam explicat , quia dieſis in illa acceptione , eft minia
mum conſideratum à mufico, fiue id , quodminimum eſt in concinentia
conſideratum , ſicut uncia in ponderibus oimmediata propofitio in de
monſtrutione fyllogiſtica , o boc intelligas de minutijs integri , non de
minutiaruin minutijs, de quibus phylolaus apud Boetium libro tera tio capite
octauo agit ,quiabec ad Ariſtotelisfententiam non faciunt pretermito. MAGIS tur
POSTERIOR VM ARIST. 89 TEXTVS XCII. ALIAS XXXIX. AGIs autein ſeiinus
unumquodque , ciim ipfum cognoſcimus ſecundun ipſum, quam fecundum
aliud,utmuficun Coriſcum ,quá do Coriſcus muſicus eſt , quàm quod homo muſicus
fit, Hoc loco tentat Ariſtoteles elencho ar gumento probarequod particularis demonſtratio
ſit uniuerfali potior . Quis nam fit muſicus aperit Nicomacus atque Boes tius
primo libro muſices capite xxx111. ille quidem eft, quinon ex eo quod manu
cytheram pulfat , fed ille qui rationis imperio cantillenas rum distonice ,
cromatice,atque enarmonice ratum , atque firmum ſta tum agnoſcit diiudicat,
atque imperat, qua re intellectu ,quærit Ariſto teles,num illa demonftratio,
qua Coriſcus muſicus, an illa, qua homo mu ſicus co:rcluditur , quod eft , an
particularis, uel ipſa uniuerfalis fit pos tior, Cui rationi reſpondendum; ut
Ariſtoteles innuit per interemptios nem , negando quodCoriſcusſit muficus per
fe , fiue quòd ifta cognofca tur per fe, Coriſcus eft muſicus. BI 74 1 142 ca
TEXTVS XCIII. ici ha 10% OTior autem eſt, quæ eſt de eſſe quain de non eſſe,
& propter quam non errabi tur quàin proptcr quam crrabitur eſt au tem
uniuerſalis huiuſmodi, procedentes enim demonſtrant uniuerſale, quemadmo dum de
eo quod eſt proportionale ,ut quo = niam quod utique fit talc,erit
proportionale, quod ncque linea; neque numerus, ncque ſolidum , neque planum
eft, fed præter hæc aliquid. illud idem totum quod text. xx v di& um fuit,
hoc loco repetatur, ubi Ariſtoteles text. xx v dixit hæc uer ba, nunc
uniuerſalemonſtratur,hoc textu , magis aperit dicens , proces dentes enim
demonſtrant uniuerfale, quod neque lined, &cæt. fed pre ter hæc aliquid ,
quod quidem eſtipſum quantum , quatenus quátum eft, quod uniuocum eft omnibus
quantis , neque illudeſſe tale immagineris, quod oquanto &quali
communefit,ut immaginabatur,lo4nnes gram M IN PRIMVM LIB. maticus afequaces,
quia illud,analogum eſſet, quod à propoſitoſecludit Ariſtotelesnonagefimo
quinto textu reſpondens ad fecundam difficulta tem . TEXTVS XCIIII. S IGIT VR
triangulus in plus eft, & ratio eadem , & non fecundum æquiuocationem ,
conuenit triangulo & Iſoſceli , & ineſt oinni triangulo duobus rectis
æquales,non utique triangulus ſecundum quod eſt Iſoſceles , led Iſoſceles
ſecundum quod eft triangulus,ha bet huiufmodi angulos. Concludit Ariſtoteles
hoc textu uniuers falem demonſtrationem particulari demonſtratione potiorem
eſſe , o eft quando per rationem uniuocam concluditur affectio de ipſo
uniuerfali, eper eandem uniuocam rationem concluditur eademet affeétio de par .
ticulari aliquo, ut habere tres æqualesduobus reétis, probatur infecun da parte
x x x 11primi Elementorum de triangulo primo , deinde de iſopleuro , ſoſcele,
oScalenone non primo , fed quatenus trianguli ſunt, &hoc idem de illis
concluditur perfyllogifmum , uel etiam per ean dem induétionem trigeſimæ ſecñde
primiElementorum Eft in hoc textu non minima conſideratione dignum , quod etiam
non eft prætereundura immobili calamo, Ratio enimtrianguli uniuoca eſt , quia o
nomine for rede uniuerfali triangulo ode particulari Ifofcele prædicatur ,
utpuu tafigura,quæ tribus reétis lineis clauditur , non tamen per ipfam ratios
nem , cõcluditur de Trigono uel iſoſcele habere tres duobus reftis equa les,
ſed per primam partem trigeſimæ ſecunda , eper uigeſimā nonam Otertiä decimă
primiElementorum , quapropter non uidetur quod exemplumſit ad propoſitum regulæ
Ariſtotelis,de ratione uniuoca ,Di cendum , quod naturaexemplieſt, ut non
conueniat. Cum re in omni mor do,quia tunc non eſſet exemplü rei, ſed eſſet res
ipſa.Dico fecundo quod memoria eſt dignum cum præfertimà nullo fit hucuſque
perpéfum ,quod nulla demonftratio mathematica eſt potißima , & ob
idmathematicæ nul leſunt ſciētie ſiſtetur in doétrina Aristotelisratio,quia in
nulla conclu ditur aliqua affectio deſubie &to per deffinitionem fubie
&ti,quod tamen uo lunt uirigraues de mente Scoti, neque etiam per
deffinitionem paßionis ut alij determinant de mente Thomæ, Modo dicas,quod
quando per cane dem deffinitionem ,fiue uniuocam rationem, demonſtratur
affectio aliqua POSTERIORVM ARIST. 91 ineſſeſubie o uniuerſali , &eadem
ineſſeparticulari per eandem deffini tionem , quòd de uniuerſali , immediate
& per fe,de particulari autem non immediate, neque per ſe, ſed per
uniuerſale concluditur, ideo uniuer. falis ipſa particulari demonſtratione
potior, atque præftantior est , ut fi per rationale mortale, concludatur de
homine riſibilitas , &deinde per id, de Socrate, quod fit riſibilis , illa
in qua de homine , quàm illa in qua de Socrate demonftratio, eft potior, ſicuti
de triangulo uerbigratia ,in fecunda parte trigeſime ſecunde primi Elementorum
, &etiam de 1foſce le, probatur habere tresæquales duobus reftis, illa
tamen inductio ,que probat de triangu o potioreſt illa industione, quæ de
iſoſcele idem cons cludit, quia primo de triangulo uniuerſali, ſubinde de
particulari trian . gulo concluditur , hoc pacto Ariſtotelis regula o exemplum
intel ligendafunt. TEXTVS XCVII. fed 72 th po 1 MPLIvs uſque ad hoc quæriinus
propter quid, & tunc opinamur ſcire, cum non fit aliquid aliud propter quid
fciamus, quàm hoc, aut quòd fiat, aut quòd fit , & cetera uſque ibi, Cum
igitur cognoſcamus quidē, quod quiſunt extra æquales funt quatuor ſcétis ,
quoniam æquitibiarum ,adhuc decft propter quid , quia triangulus , & hoc,
quia eft figura rectilinea, ſi aus. tem hoc , non amplius propter quid aliud ,
tum maxi mc ſcimus & uniuerſale, tunc uniuerſalis itaque eft. Hoc tex tu
Ariſtoteles determinatquòd , tunc arbitramurſcire cum ufque ad ul timas cauſas
procedit nofter reſolutiuus diſcurſus , ait enim cum igitur cognoſcamus quidem
quod, hi , quiſunt extra æquales ſunt quatuor rea &tis , o redit rationem ,
quoniam equitibiarum , ſed quia æquitibic figu ræ funt etiam quadrilatere,
pentágone , adiecit proximiorem cau Jam dicens , quia triangulus, quia tamen
trianguli diuerfa funt latera ,ut curua , conuexa, conuexa o curua, curua
Qrecta ,conuexa a recta,ut omnia hæc excludat ait, qui eſt figura re{ tilinea,
que cauſa magis udhuc proxima eft, quæ quidem ultima& propinqua cauſa,
cumfucrit inuens taoaßignuta, non amplius propter quid aliud querimus, pq tunc
mas xime fcimus, uniuerſale, o cæt. Quantum autem ad id , quod exem = plo ,
Ariſtoteles ait , paucis explicetur in fubie&ta figura a bc, cuius 1 1 Mij
IN PRIM VM LIB. mnes extrinfecos angulos , quatuor reétis æquales effe dico,
protrahan tur enim omnis latera a b, br, ca, uſque add, e, f, eritqüe per
tertiã decimam primi elementorum duo anguliad c , pofiti æquales duobusrex
& is , eadem ratione duoilli ad a , o reliqui duo ad b ſimiliter equales
duobus re& tis, itaque omnes fex intrinfeci uidelicet,o extrinfeci,ſunt
æquales ſex reftis , fed per fecundam partem trigefimæ fecunde prie mi
Elementorum , tres intrinfecifunt æquales duobus re&tis , igitur tres
reliqui extrinſeciſunt quatuor reftis equales,quod demonſtrandū erat. Non enim
omnis triangulus uni uerfaliter fumptus , hahet tres an gulos duobus reétis
equales , ſed ali quis habet duos angulos rectos , tertium acută , et quidam
triangulus eft qui habet tres angulos rectos, ut Ptholameus cap. x. ſecüda
dictionis magnæ cõſtructionis theoremate pri G mo, e ſequentibus manifestum faa
cit, neque tamen id cötrariatùr pro poſitioni xyli primi elementorum, Euclidis
ut quod duo anguli cuiusli bet trianguli fint minores duobus rectis , nec etiam
eſt contra fecundam partem xxxl primi Elemen . Euclidis , quòd uidelicet omnis
triangulos, habet tres duobus reftis æquales , ratio , quòdnulla inter hos
fapientißia mosſit contradictio, eſt, quia de rectilineis Euclides , de
fphelaribus ues ro Ptholameus & curuilineis triangulis agit , quod
aduertens Ariftotea les adiecit , quia est figura rectilinea ; ut fit abſolutus
fenfus, quod equis tibia figura trilatera rectilinea , habet extrinſecos
angulos quatuor ree Stis equales. TEXTV S CI. I MPLIV's autein & fic ,
uniuerſale enim ina . gis demonſtrare eft, co quòd eſtper medium demonſtrare,
cuin propius fit principio , pro xime autem immediatum eſt , hoc autem eft
principium ;fi igitur quæ ex principio eſt , ea quæ non eft cx principio, quæ
magis ex prin POSTERIORVM ARIST. cipio , ea quæ minus eft, certior eft
demonſtratio . Hoc textu Ariſtoteles apponit extremammanum determinans,quòd
uniuerfalis ſit particulari demonfiratione dignior , in quo quædamnon
conſiderata à grecis,neque à latinis. , difta tamen ohic ab Ariſtotele tertio
tex tu , ibi, quorundam enim hoc modo diſciplina eſt, onon permedium ube timum
cognoſcitur , ut quæcunque iam fingularia eſſe contingit , nec de fubiecto
quopiam , ubi aduertit quod quidammodus est, quo fciuntur af fertiones
deſingularibus, onon per medium ,modus etiam est quo affea &tiones fciuntur
de particularibus per medium , fed non primo de eis , ut declaraui in textů
tertio 'nonageſimoquarto huius , affectiones uero que de uniuerſali
cognofcuntur, he quidem per medium cognoſcuntur, hac de caufa uniuerfalis
demonſtratio , eſt ipſa particulari potior , quia particularis non per medium ,
uniuerfalis uero per medium demonftrat, ut ait, uniuerſale enim magis
demonſtrare est ,eo quod eft per medium de monstrare,id autem Geometrico
exemplo-manifeſtat dicens,quod ſi quis cognouit , quia omnis triangulus habettresduobus
rectis æqualesfciuit , quodammodo, & quod ifcoſceles duobus reftis tres
pares habet,utputa potentiafcit, quia uniuerfale fciens aetu , potentia etiam
fcit. ea, quæfub. ipfo continentur, &ſi non cognouerit 1fofcelem quòd actu
,oper aper tionemmanus (ut Philoponus tertio textu ofequaces interpretabane
tur) triangulus ſit, hanc habens propoſitionem ,hæcparticula legenda eft , cum
particula aduerfatiua fic ,hanc autem habens propoſitionem , nempefciens tantum
potentia quod Ifoſceles habet tres duobus rectis pa rés, uniuerſale nullo modo
cognouit, ut quòd triãgulushabeat tres equa les duobus rectis , neque potentia
, neque actu , non quidem potentia, quia Iſoſceles non eſt uniuerfale ad
triangulum ,uniuerſale enim potentia ſua inferiora continet. Accedit ad hoc
etiã, quia ſi non fcitur uniuerſale atu , non ſcitur potentia fuum particulare,
fi igitur particulare non ſcie tur actu, ſed potentia tantī ,quifieripoteft ,ut
propter id ,ſuū uniuerſale potentia fciatur ? non etiam actu fcitur
uniuerfalepropterea,quòd fuum particularefcitur potentia, quia ex ſcibile
potētia , non inferturſcitum actu. Exhoc textuę precedentibus quibus determinat
Ariſtot.uniuerſa lem demonftrationem esſe potiorem demonftratione particulari
habetur de particularibus difciplinam eſſe , particularem eſſe demonſtratioa
nem quæcunquefit illa ,aliter enim nulla effet comparatio Ariſtotelis in ter
uniuerfalem o particularem demonſtrationem . Preterea etiam nos tatu dignum
habetur , contra omnes interpretes , id autem eft, quod ali 94 IN PRIMVM LIB .
quatenus ij. textu ta&tum fuit, ubi determinat quod de nouo quippians
ſcimus, introducit eos , qui tenentes quòd de nouo fciebamus interrogae bant
Platonicos tentantes oſtendere ipſis Platonicis , quod de nouo ſci mus inquiunt
enim , noftis ne quod omnis dualitas par ſit ,nec ne ? Vel etiam , quòd omnis
triangulus tres duobus re & tis æquales habeat, annuen tibus autem
Platonicis attulerunt dualitatem , uel triangulum manu aba fconfum dicentes ,
ecce quomodo uos de nouoſcitis , hanc dualitatem eſſe parem , quia
priusneſciebatis hanc eſſe dualitatem Neotericies antiqui expoſitores inuoluunt
locum , ſic ut nedum ipſi intelligant , fed eshi qui cos audiunt ita
faſcinentur , ut nedum Ariſtotelem fed & feipfos pers dant. Dicunt enim
ſine propoſito , quod prius non poterantfcirede dua litate in manu abfconſa,
ueltriangulo conſtituto in tabula quod eſſet par, uel duobus rectis æquales
haberet , quia neſciebant illam eſſe dualitatem , vel illum effe triangulum ,
putant iſti exponere Ariftotelis"doctrinam fic dicentes , anon aduertunt ,
quòd id dicunt quod Ariſtoteles reprehens, dit , quod illi qui dicebant de nouo
fcire , male tamen perſuadentes per oſtenſionem ad fenfum , egr reſpondentes
perperam , dicebant fe nonſcia re eſſe purem , niſi quam dualitatem eſſe
ſciebant,apertißimehic Aristo. teles dicit , quòd qui ſcit omnem dualitatem
eſſe parem , uel quòd omnis triangulus tres duobus re &tis pares habet ,
fcit quòd dualitas ſitpar , quod Ifofceles , tres duobus reftis æquales habet
potentia , licet neſciat a &tu perſenfum , quòd iſoſceles triangulus ſit,
quem locum à me notae tum inter cetera pulcriora exiftimo animaduerſione dignum
propter fal fos Ariſtotelis interpretes ad hanc ufque noftram etatem . • TEXTVS
CVII. ALIAS XLII . T ca certior quæ non eſt de ſubiecto , ca quæ eſt de
ſubiecto , ut Arithmetica armo nica . Numerus , ſubiectum eſt in ipfa
Arithmetica qui quidem abſtractißimus est , nullum materiale ſubie &tum
concernens , Armonica , uero de nume ro ſonoro , uel magis , de ſono numerato ,
quod magis concernitmateriain , ut fonum ipſum ., qui fonus numeratus, ſub
iectum in armonia eft , ut Boetio placet libro primo muſices , modo Arithmetica
cum circa ſubiectum minus immerfum matericfit , certior POSTERIORVM AR IS T. 95
estquamſit ipſa Armonia , quæfubie£tum conſiderat magis immerſum ipſimateria ,
eftigitur alia certioraltera propterſubiecti maioremabe ſtractionem ? TEXTVS
CVIII. T quæ eft ex minoribus certior eſt , & prior ea , quæ eft ex
appofitione , utArithmetica Geometria . Dico autem ex appoſitione ,ut unitas
fubftantia eft fine poſitione , pun . tum autein fubftantia pofita ,hoc autem
eft ex appoſitione. Hoc in primis conſiderandum eft, quod hoc textu non
loquitur Ariſtoteles de ſubie&to fcientiæ.,ſecundum quòd magis og minus
abſtracteconſideratur, quia id in precedenti tex . determinauit ; una
enimſcientia determinat de abſtracto numero , reli qua uero defono numerato,
unitas enim de qua hoc textu loquitur, non est ſubiectum in Arithmetica,
niſiforfan in aliqua particularidemonftra tione , utin 15 ſeptimi
ElementorumEuclidis ,in quibuſdam alijs des monſtrationibus trium librorum
Arithmeticæ Euclidis . Dico autem ,ut unitas , ſubſtantia eſt, fine
appoſitione, punetum autemfubftantia poſia ta , hoc est ex
appoſitione,Nicomacus ,Boetius, Tonſtallus Anglus,Lu cas Paciolus , in primis
lordanus , o Euclides recte interpretarentur huncAriſtotelis textum ſiadeſſent
, quem locum obſcurant rabini cum * ueſtra excellétia ex appoſitione
nominati,heu me, in manusquorü inter pretum incidifti Ariſtoteles ? quæ hominum
dementia te torquet : erant ne ſimile hominum genus tuo tempore , ita inſipidi
atque macrologia op preßi, qui Platonem , quique te audirent , expoliati
Geometricis, &dis fciplinis orbati?ut funthoc tempore nedum iuuenes non
recte imbuti lite teris , fed magis ſeneſcentes in fua , non tua philoſophia
homines , exurs gant Romani uiri , liberalibus diſciplinis præditi, quorum
bonarum are tium hereditas , negligentia pofteritatis , uerfa eft ad extruneas
nationes o inter Barbaros fruftratim etiam dilaniatur , eo locum hunc inter
pretentur. Non eget unitas ipſa;ut ſit in ſua natura,quod fit puncto affe &
a , uellined , uelalio quoppiam alieno , fed punctus , uel linea', ſeufuæ
perficies , uel etiam corpus ,impoſsibile eft, quod ſit,quin pun &tus unus,
uel una ſuperficies , aut corpusunum , uel plurafint : Plura autem pun & a
, eſſe non poffunt , niſi prius punctum unum ,uel unafuperficies,aut corpus
unumfit, minus igitur eft unitas , quim punétum unum , utetiam 96 IN PRIMVM
LIB. ipfa uocemanifeſtum eſt.Vnitatem Arithmetica conſiderat : non ut fuum
fubie &tum , fed ut id , quod adſuum ſubie tum quodam ordine attribuia tur
tanquàm pars ad ſuum totum . Vnum pun &tum , feu lineam unam , uel etiam
unum corpus Geometra, atque stereometraconſiderans appos nit lineam ,pun &
um &corpus ipſum unitati, uel illis unitatem appos nens , ex pluribusfacit
fuam conſiderationem ,quàm fit illi Arithmetici, qui unitatem conſiderat
abſtractiſsime , nulli reiappoſitam . Ex hac declaratione patet id quod
Ariſtoteles ait primo de anima in principio, quòd fcientia de anima nobiliſsima
, eſt , duabus de cauſis prima ex nobi litate ſubie &ti , ſecunda ex
certitudine , ex certitudine dico , non ut quis dam inueterati in philofophia
craſſa exponunt , uidelicet ex demonſtra tionis certitudine,ſedcertior dico ,
quia exſubiecto ſimpliciori eft, que anima eſt, atque minus compoſito ,
quàmſint ſubiecta librorum ,librum de anima precedentium , ex precedentis
textus , atque huius expoſis tione id totum colligas uelim , ex precedenti, ſi
de anima , ex præfens ti autem ſi de anime particula , loca libri de anima
intelligantur . Claret etiam , ex hac noftra interpretatione,quod Mathematicæ
diſcipline non ideo dicendæfunt non ſcientia , quia non funt circafubftantias ,
ut ans tiquusætate indostus quidam in hac parte , philoſophus non erubes
fcitaſſerere', ofequaces ,quia illas inquit merito dicendasſcientias los quitur
, quæ tantum circa fubftantiasfunt ; non autem que circa accia dentia , ut funt
Mathematicæ , quod apud Ariſtotelem nunquam legitur Dico quòd Mathematice uere
e in primis ſcientie , ſecundum nos & re ipfa funt , ex fententia
doétifsimi Boetij in principiofue Arithmeticæ ,ubi ait , ſcientiæ atque
ſapientia uerehe funt , quæſunt circa res , quæ nunquàm mutantur , fed fua
natura femper funt,utſunt fubftantia ,a quantitates ; quo nammaiore auctore hec
noſtra ſentens tia corroboratur , quàm ſitipſemet Ariſtot. in hoc præexpoſito
textu ! qui in fua doctrina conftans , punctum ſubſtantiam appellit, itidem
unitatem ſubſtantiam dicit , ſi igitur fole ille ſint ſcientiæ , quæ circa
fubftantiasfunt , in primis Arithmetica atque Geometria merito ( quics quid
balbitiant alij) ſcientiæ appellande nedum nomine, fed natura digna funt. Quia
tamen de mente Ariſtotelis teneo Mathematicas diſciplinas, non eſſe ſcientias ,
non ob id , quia de accidentibus ſint,neque ex eoquod percominunia principia
procedunt, ſed quia affectiones que in ipſis con cluduntur , non
perdemonſtrationem , quemfyllogifmum ſcientialem Ariſtoteles uocat,
concluduntur ut declaratum fuit textu nonageſia men , mo POSTERIORVM ARIST.
moquarto ,merito ſcientia non funt , ſiſcrupulofa indagine ſcientiæ not men
indagari, quis uelit . TEX. CXII . ALIAS XLIII . 3 EYE per fenfum eft ſcire id
, Exemplis duobus. Altero Geometrico reliquo, Vero Aſtro Nnomico , declarat
Ariſtoteles , ſi enim ſenſus uifus uideret id , quod intellefius percipit
fecunda par te trigeſimæſecundeprimi Elementorum ,quód trian gulus. uidelicet ,
habet tres duobus rellis pares, non tamen propterea uidens illud diceretur fciens,
fed ut fciensfieret ad huc demonſtrationem quereret ,o huius rationem reddit
dicens, necef= feenimquidem eſt ſentireſingulariter , ſcientia autem eſt in
cognoſcen= douniuerfale , unde eſi ſupra Lunam eſſentus, utputa inſupremo orbe
defferente augem Lune , uel in orbe defférente caput draconis,uel etiam in cælo
Mercurij, uideremus Lunam ingredi umbram terra, e par timenftruum non propter
hoc diceremur fcientes, quia illud , quod uiá deretur ,effet ſingulare ,
&cum ſcientia ſit circa uniuerſale diſcurrene do, o per intellectionem
ipſius uniuerfalis , ſequitur , quod per ſenſum non eft fcire . Aliter etiam
exponaturſic , ut ſi eſſemusſuper planetum , qua Luna est , &in illa parte
planete que terram , & centrum uniuerſi confpicit, &foc'es noſtra
uerſus idem centrum mundi,quod.eſtterre cen trum ſentiremusquidem per ſenſum
uifus, quòd deficeret Lund tunc, fed non propter quidomnino,quiaſenſus non
plures percipit ecclipſes ſimul neque actu ,neque potentia ,fed unam tantum
,necobid tumen ſcientes dice remur , non enim uniuerfalis est ſenfus, fed
particularis ut ait , ex conſi deratione multotiesaccidente univerſale uenantes
demonſtrationem ha bemus , non ſecludit hoc loco Ariſtoteles ſcientiam de
purticularibus, ut Tex. iij. fuit determinatum , fed ita intelligas , quod
ſenſus eft tantum particularium , intellectus autem utriuſque , Sunt tamen
quædam reducta ad fenfus defeétum in propofitis & c . · In hac particula
huius textus , idem perſuadet diuerſo exemplo, quòd . videlicet neque per
ſenſum eſt ſcire , in prima huius textus particulas Exemplum attulit in
phænomena eGeometria , in hac autem particula exemplum est in perſpectiua , eft
etiam quoddam aliud diuerfum , quia precedensexemplumeft,de unica wſingulari
eclypſi. In hac auten pars N IN PRIM VM LIB. ticula exemplum præbet de multis
illuminationibus faétis per uitra pera forata , ſiue foraminailla ſint pori
uitrorum , feu etiam foramina ſint ma gna,artificio quodam facta, que
fenfusuifus in multis uitris confpiciens, compertum haberet , &manifeſtum
eſſet , & propter quid illuminat , id eft,propter ,quid illuminationes
multæ fierent,quoniam , ut inquit,uis deremus quid ſeparatum in unoquoque uitro
, id est foramina multa , per qua radijtranſeuntes illuminationes multe fierent
in pariete e re gione collocato , uel in pauimento domus,quapropterſi plures
eclypſes ſimul perciperet fenfus uifus,quodtamenfierinequit, &uideret etiam
hoc euenire ex obiectu terræ inter Solem of Lunam , illud de Luna ex emplum
nullo modo diuerfum eſſet ab iſto de uitris perforatis , niſi quod alterum in
Phænomena , reliquum eſſet in perſpectiua ; Ne.credas tam men propter multas
irradiationes a uiſu ſimulperſpectas, Q uiſis etiam fingulis foraminibusſimul ,
uel poris in uitris per quos radiationes fica rent, quòd quis ob id diceretur
fciens,ſed ex his fingularibusfenfu pera ceptis unum uniuerfale intellectus
intelligens,deeo.fcientiam generaret qua poftea merito quis diceretur fciens ,
illud autem uniuerfale non cola ligebatur, ab intellectu ex unica tantum
eclypſi uiſa , fed ex pluribus die uerſis temporibusobſeruatis,Ex hoc loco
habetur quod non est ſatisad demonſtrationem habere propter quid., niſi propter
quid habeatur, per difcurfum (fenſus autem non difcurit ) ab uniuerſalibus ad
minus uniuer ſalia , ſenſusenim percipiebat quod multæ illuminationes propter
multa foramina fiebant , nulla tamen erat ibu demonſtratio. TEXTVS CXIIII. IRCA
Textus particulam illam , Aut æquale maius , autminus, Scire eſt , quod primi
Elea mentorum eſt conceptio animi apudEuclidem , ut fi una quantitas comparetur
ad aliam eiufdem genes ris , aut erit ei æqualis , aut eadem maior , uel e46
dem minor , ut quatuor , ad quatuor , uel ad tria , aut ad quinque,ſi
comparentur, fieri nequit , quod eadem quantitas qus tuor,ad quantitatem unam
di &tarum comparata , fit æqualis, a maior minoreadem,statim enim fequitur
contradictio,fedfi ad diuerfas quan titates comparetur , verumquidein poteft
effe, quòd unaſit maior emi nor & equalis,ſi non ad unicam tantum , fedfi
ad plures fit comparata, POSTERIORVM ARIST . 99 P TEX. CX V. ARTIC VI. A huius
Textu , Neque omnium . uerorum principia funt eadem , neque con ueniunt,ut
unitates punétis non conueniūt , læ quidem enim non habent poſitionein ,illa
autem habent, Deappoſitione in punétis , eo pacto intelligas , ut tex.108
declaraui. Exemplo enim loqui tur de principijs ,non quidem ex quibus inferatur
conclufio , fed ex qui dus compoſitumfit , quia ex unitatibus pluribus ſimul
coaceruatis com ponitur numerus , ex pluribusautem punctis non componitur
quippiam ut terminaui tex. xix .huius, ſimpliciores ob idfunt ipſe unitates ,
que funt numerorum principia, quamfint puncta,que lineas terminant, uni tas
enim ,uel etiam unitates non ſupponunt punétum ,uel punéta,punétus 'tamen uel
puncta eſſe non poſſunt , quin uel punctum unum,uel plura pun & ta fint
,non igiturconueniunt inter fe propter appoſitionem unitatis pñ to appoſite ,
wepropter non appoſitionem , puncti ipſi unitati , unitas enim non ideo unitus
est, propter unum punétū,ſicutpunctum unum eſt, propter unitatis appofitionem ,
®ultra ait , quòd diuerſafuntgenere, ille enim in diſcreta , hecuero in
continua conſiderantur quantitate: TEX. CXX. ALIAS XLIIII . VONIA'M autem idein
multipliciter dicitur eft autem , ut non commenfurabilein enim eſſe diametrum
uere opinari inconueniens eſt , ſed quia diameter (circa quam ſunt opi. niones)
idem , fic eiufdem eſt , ſed quod quid erat eſſe unicuique,ſecundum rationem
non eſt idem , Circa eandemdiametrum ſcientia poteſt eſſe, opinio per media
tamen diuerſa , falfam quidem opinionem habet ille qui diametrum
commenſurabilem coſte eſſe ſentiet, ueram autem obtinebit ille qui Eucli dis
demonftrationibus inftrúctus diametrum inconmenſurabilem coſte efje protulerit
in qua re tex : 1x. huius determinatum & demonſtratum fuit, quod ipſe
diameter incommenſurabilis eſt ipſi coſte,aliter enin , par numerus , impar
effet , Circa idem igitur contingit diuerſitas , feu idem multipliciter dicitur
, ut quòd diameter ſit commenfurabilis &inz commenfurabilis cofta . Nij IN
SECVNDVM LIBRVM POSTERIORVM ARISTOTELIS, PRESBITER PETRVS CATHENA : V ENETV S.
** 3 TEX T VS II ALIAS I. TEATRI V M enim utrum hoc infit , aut hoc , quærimus
in nume rumponentes,ut utrum deffi ciat Sol, uel non , ipſuin quia quærimus.
Luna enim defficit in ſe a lumine , a patitur menſtruum , propter interpoſitam
terram diame traliter inter Solem u Lunam , Sol autem non defficit lumine
unquam in ſe, fed tantum non illuminat, quana do in capite uel cauda draconis
res peritur fimul cum Luna hoc quidem prouenit , ex eo quod inter afpes Eum
noſtrum o corpus folare interponitur Lund , quæ cum ſit core pus denfum ,
coppacum magis quàm alia pars fui orbis impedit fo lares radios , enon finit
eos ad afpe&tum nostrum protellari . Dubita tur circa id quod fuit
di&tum paruin ante,o quód fæpißimeait Ariſtote les, præfertim in
ſequentibus,ufque ad textum nonum an Luna defficiat penitus lumine , quando
patitur menftruum , quod eſt querere,an Luna habeat aliquod lumen àfe, uelſi
non àfe, an conſeruet lumen in ſe imbis bitum tamen à Sole, utfomniat Aueroes ,
propterea quod , quandotota eclypfatur uidetur non nihilhabere luminis ,
apparere fubnigra, etiam apparet uideri eius rotunditas extra plenilunium , ad
quod reſõſio abſolutißimafit,quod Luna nullum habet lumen,niſi à Sole
ſecundoquod non imbibit lumen, quemadmodum ſpongia liquorem aquæum, cauſaaus të
apparitionis luminis tempore eclypſis, uelfuæ rotunditatis antequam POSTERIOR V
MARIS T. 102 fit in oppoſitione Solis eft, quă ſtatim declarabo quibuſdam
paucis pres intellectis , cum ipſa ſint corpus denfum &politum quemadmodum
cæte ra fydera , radijſolaresquifortes ſunt, cuin ad ipfam pertingunt non
talentes ultra penetrare propter denſitatem ad terram reuerberantur, Tempore
autem eclypſis, radij ſolares impediti a terre occurſu nõ attın gunt lunam, ſed
tunc radij aliorum fyderum , qui debiliores ſuntſolaribus radijs, pertingunt
corpus lunare , &fua tenui uirtute Lunam illuftrat, ob id Luna uidetur
habere nõ nihil luminis tempore ſuæ eclypſis, et pro pter hanc eandem caufam
dicatur quod eius rotunditas apparet citra ple nilunium . TEXT VS I x . + 1 1 +
VID conſonantia, ratio numerorü ,in acu to & graui, & propter quid
conſonat acue tum graui, propter id, quòd rationem has bent numerorum graue
& acutum , utrum eſt conſonare acutum & graue , utrum ſit in numeris
ratio corum ,accipientes autem quia eſt, quid igitur eſt ratio querimus. inter
ea quæ elucidan da funt in hoc textu , idin primis occurrit , notatu dignum ;
graue enim Cum motum fuerit , citius ad quietem redit quam leue æquali pulſumo
tüm , Aliud etiam eft animaduerſione dignum hic notandum quòd neruus
cumpellitur ininftrumentis non unumfolummodo ſonum efficere ſedmul tos ,
quiquidem multi à feinuicem distinti non percipiuntur , ut diſtins Eti, propter
celeritatein unius poſt alium , Exemplum præberem de Tur bone,uiride, aut rubra
linea lineato,qui propter celerem motumtotus ui deretur uiridis, aut rubcus ,
ſunt igiturmulti foni à grsui corda effceti ad quos, fi foni illi , qui leuiori
neruo procreatifunt ,comparentur has beanto ad illos ratione, ut quatuor ad
tria ,tūc diateſſaron cõfonantiaria minimam efficient, fi ueroeam quæ eſt nouem
adſex diapente, odiapaf fon fi illam efficient , quæ quatuor ad duo , que
concinentie , cum ſint ſimplices; exipſis aliæ que compoſitæ funt
generantur,tanquam ex ſuis proximis elementis, ut eft diapentediapaffon ,o
biſdiapaſſon, quæ ome nia ex Boetio clara habentur , o ſibi do toresqui
Calepino student, in declaratione Ariſtotelis hec gratis prætereant , Alia
exempla à tertio textu uſque ad undecimum ,que Ariſtoteles præbetfua Palade in mathea
1 1 02 IN SECVNDVM Ľ IB maticis, quæ quiaaliàs in præcedétibus dilucidata per
mefuerunt,nunc conſulto pretereo, fed quæ di&ta funtfuper hoc textu non
plane ſatisfae ciunt nostre menti,ubi enim nonfuerintplures pulfus ad pa
uciores com parati, ut in humand uoce , căcinentia quidem reperitur inter re ,
ala licet nõ niſi ſingula,&fingula uox emittatur,non igitur interfonos paus
ciores tantum, eu plures concinentia , ſed primo inter graue ego acutum
reperitur , quæ autein uocum diftantia inter ſe reperiatur , ut debita ; fiat
concinentia, tum ex hominum ufu ab inſtrumentis accepto , cumetiä per ea que
Boetius tractat manifeſtum est , ſed'in dubium occurrit illud, quod
muſicifaciunt , quando fuper breuem ſillabam , plus temporis cona ſummunt, quim
par ſit, eſuperfillabam longam, breui temporis notu la festinant, ita ut ea
,quæ naturaſunt breues, fiant longe , &quæ longe ſuntſillabæ ,breuesfiant,
ſic ut'nonmodesta &doctaſit ipfa muſica , fed Barbara o contra ufum
loquendi appareat , Ad quod dico , ſequen tia dubia quæ funt,an concinentia
proueniat ex mouente , ut Aristoteles in libris degeneratione animalium , uel
ex motis rebus , ut in rethoricis, an exnumeratis pulſibus, ut hoc textů tangit
, quòd in nostris fragmens tis logicis hæc omnia clarafient, fed pro
declaratione littera , huius tex tus ,uideturexpoſitio feciſſe fatis. TEXTVS
XIX. ¿ ALIAS II: MPLIvs omnis demonſtratio aliquid de aliquo demonſtrat , ut
quia eſt, aut non eft , in deffinitione autem nihil alterum de altero
prædicatur , ut neque animal de bis pede,neque hoc de animali,neque de plano
figura , non eniin planum figura eſt, neque figura planum eft . Euclides póst
quam deffinitionem plani dederit in primoElementoruin deffinitione quinta ,
ſtatim de angulis planis , e de fiquris planis adiecit deffinitiones, que
figure ideo planæ dicuntur, quia in plano picte ſunt,feu quia in ſuperficie
plana ſunt deſcripte , fi gura plana, hefunt due particulæ deffinitionis ,
quarum altera deals tera non predicatur, quia id quod planum , & id que in
plano figura fit, 11on idem eft, demonſtratio uero cõcludit, quia eft hoc de
hoc, ut de trian gulo, quod tres duobus rectis equales habeat, et q latus
trigoni , quod fubtendien maiori angulo, nõ eft minies lateri fubtenſo minori
angulo. POSTERIORVM ARIST. 107 TEXTVS XLIX ALIAS X I. V ANIFEST VM eft autem
& fic , propter quid rectus eſt, qui in ſemicirculo eft, quo exiftente
rectus eft ,fit igitur rectus in quo a , inediun duorum rectorü in quob, qui
eft in feinicirculo in quo c, eius igitur , quod eſt a rectum inelle c, qui
eſtin ſemi circulo caufa eft b, hic quidem ipfi a æqualis eft, c autem ipſi b,
duorum enim rectorum dimidium eft b, igitur exia ſtente dimidio diiorum
rectorum a, ineſt ipſi c, hoc autem erat in ſemicirculo rectum eſſe . Euclides
xxx tertij uniuerſa lius proponit id, quod Ariſt. hoc loco ait magis contracte
, ut ſecundum Ariſtotelem conſtruatur fic , ſit ſemicirculus a b d cuiuscentrum
c, quo perpendicularis excitetur per undecimā primi Elementorum cd , ſecans
arcum a b in puncto d, à quo, duæ lineæ protrahantur ad ter minos diametri
dia,db, ſequiturper quintam primi angului a dc, bdc effe medietates reéti,quæ
ſimulmedietates additæ faciunt angų lum a d bre&tum ,ficut duæ unitates bi
narium numerum , quia tamē non uide tur quòd philofophus particulariter
proponat id , quod uniuerfaliter Eucli des docet, ut uidelicet quod perpendi
çularis à puncto c excitetur, &quòd folus angulus,qui fit in puncto de
deter minato , ubi perpendicularis ſecat ar cum , re & tus ſit, licet illa
due medietates formaliter ſint unius re &ti, fina gulađ; dimidium refti,
quæ pro materia recti accipiuntur, ficut due uni tates materia numeri binarij,
Ideo aliter declaro & litteræ philoſoa phi magis cohærebit non in figura
præfcripta ,ſit angulus rectus a datus, b autemfit medietas duorum rectorum , c
uero in ſemicirculo conſtitus tus, ſit æqualis b , quæ uero uni veidēfunt
æqualia inter ſe funt æquae lia , cum autem a ſit æqualis b, quia uterqueeſt
medietas duorum res. & orum , or ſimiliter c qui in ſemicirculo eſt ſit
eidem b æqualis, c ipfi a equalis erit, a quippe rectus eſt ex dato igitur c,
in ſemicircula conſtitutus rectus eſt , quod propoſuit Ariſtoteles , quis ſit
angulus rer 104 IN SECVNDVM L I B. Aus patet per deffinitionem octauam primi
Elementorum , quod autem b in quocunque puncto peripherie femicirculi fit
medietas duorum rectos rum , patet per trigeſimam tertij Elementorum ,
quodetiam omnis alius angulus in quocunque puncto arcus ſemicirculi fit æqualis
6 , utputa 0 , patet per uigeſimam tertij Elementorum , qubi in priori
expoſitione di cebatur ,quòd duæ medietates erant materia totius relti anguli,
hic dica's tur,quòd illiduo partiales anguli b , ſunt materia torius anguli
recti, fic ut demonftretur , quod angulus , qui in ſemicirculo conſtitutus ,
eſt re ctus , per materialem caufam , quæ materialis caufa , ſunt iple partes
recti anguli ipſum integrantes . TEX TVS LIII. ONTINGIT autem idein &
gratia alicuius eſſe , & ex neceſsitate , ut propter quid pe netrat
laternam lumen , etenim ex neceſsitas te pertranſit , quod in parua eft
partibilius, per maiores poros fiquidein lumen fit per tranſeundo ,
Minutiſsimæenimſunt; aut potius fub tiliſsime ſpecies uiſibiles ignis ,quæ
propter ſubtilitatem ſuam per poros uiri in quofranguntur exeuntes clarum iter
oſtendunt, ne adlapidem pe: des offendamius , exemplum eſt in
optica,inaterialis caufa eft uitrum , fi nalis,neolfendamus ; fornalis eft illa
compago uitrorum ,lignorumq;, effi ciens autem ,eſt ipſe luterne artifex
,quantum ad matheſimſpectat non eft niſi materialis cauſa in conſideratione, o
radios fractos ipfius ignis in corpus disphinum , per quos illuminationes fiunt
. TEXTVS LVI. ALIAS XII . CLIPSIS Lunæ futura , preſens , atque prete rita
,medio interpofitionis terre , diametraliter in ter Solem & Lunam ,nunc ,
olum , & in futurum con cluditur , cumfuerit Luna in capite uel cauda dras
conis uelprope , o ſub'nadir Solis . SICVT POSTERIORVM ARIST. 105 TEX.LVII.
ALIAS XIIII. IGVt ergo non funt puncta , adinuicem co pulata , ticque, quæ
facta ſunt, utraque enim indiuifibilia funt. Puncta enim fiadinuicem copula
rentur , statim haberetur , lineam ex pun &tis componi quod impoßibile effe
demonftratum eft in primo , textu Wdecimo octauo . TEXTVS LX. ALIAS X VII. I co
autein in plus ineſſe quæcúque, infunt quidem unicuique uniuerfaliter ,Atuero
& alij ,ut eft aliquid quod oinni Trinitati , in eft fed & non
Trinitati , ficut ens ineft Trini tati, ſed & non numero, numerum quemlibet
ex materia oforma conſtare nemo eft qui neſciat , aliter cnim numerorumſpecies
noneſſent numerofinitæ , potentia ueroinfis nite per unitatis additionem ,
fpecies autemexgenere odifferentia con ftat, genus uero materia differentia
autemforma eft in numero , materia numeriſunt ipfæ unitates, ut in ternario
numero, tres unitates materia eft numeri ternarij,formaautem eft ipfa Trinitas,
ens inquit ineſt Trinita ti népe ternario numero,o hoc prædicatū , ens, extra
genus arithmetică eft, quod quidem ens , alijs multo diuerſis genere à
numeroconuenit. Impar uero & ineft omni Trinitati& in plus eſt . Etenin
ipſi quinario ineft , fed non extragenus , ens quidem alijs ab arithmetico
genere conuenit, imparuero nullis alijs niſi his, quæ infra arithmeticum genus
continentur cõuenire poteſt,utquinariofeptinario &alijs multis.
Huiufmodiigitur accipienda funt uſque ad hoc quouſ: que, tot accipiantur primum
, quorum unumquodque qui dem in plus ſit, omnia autem non in plus. inquit
quouſque tot dccipiantur primum , uerbum hoc, primum intelligatur ex æquo, feu
ad equate , ut tot uenetur quis particulas deffinientes,quòd non fint ſuper
abundantes, neque diminuteparticule, ſed ad idtendat, ad quod ille,qui
tetragonicum latus alicuius figuræ quærit, utin libris de anima iubet phi
bofophus. Duo præterea funt hic notanda precepta ,ut unumquodquefit LO 6 IN
SECVNDVM LIB . cum non in plus , nempeunaqueque particula deffinitionis
uniuerſalior ſitdeffini to, ut animal,rationale,mortale ,capaxbeatitudine, que
omnes particu ie, in hominis deffinitione ſuntpofitæ, cunaqueque uniuerſalior
eft ip sohomine, omnesautem fimul fumpte,nihilaliudnifihomo funt,Dubie tatur ,
an illa , quae in Elementorum Euclidis libris deffinitiones poſite funt,
utunapromultis fimilibus excogitetur hæc,triãgulusredilineus, eft figura, plana
,claufa,tribuslineis re&tis,fit conftituta ex omnibus par ticulis deffinientibus,quarū
una ,et altera,atqueſingulaſit uniuerſalior, ipſo triangulo rectilineo ?
Dicendum confequenteradAriftotelem pro pter particulam illam , tribus lineis
reftis , illam non eſſe deffinitionem , fit uniuerſalior ipſo triangulo
rectilineo , quapropter ſunt ma gis dignitates appellande, quàm deffinitiones
,nifidixeris, quodAriſtote les intelligit de his particulis definientibus , quæ
recto cafu, & non oblis quo explicantur, & fic proprie dicerentur
deffinitiones, que interpreta tio qualiſcunque fit,non habetur ex Ariſtotelis
littert, neque tamen ual de difplicet. Hanc enim neceſſe eſt fubftantiam rei
eſſe, ut trinitati in cft oinni,numerus,impar, primusutroque modo, & ficut
non menfurari numcro, & licut non componi ex numeris, hæ duæ particulæ ,numerus,impar,nõ
patiuntur, difficultaté ,quinipſo. ternario uniuerſaliores ſint , ſed particula
iſta primus utroq; modo,decla ratur ab ipfo Arift. quod fit uniuerſalior
ternario numero ,propter altes rī modorū, quonumerus primus dicatur eſſe ut
unitatefola metiri poßit, multis conuenit numeris, ut quinario, ſeptenario
,atque ternario , et alijs multis non cõponi ex numeris pariter multis cõuenit,
ut ternario , qui ex binario ounitate conſtat, ſimiliter binario ,qui conſtat
non ex pluribus numeris ,fed ex binis unitatibus, Ex hoc locohabeturnefcio quid
contras Etius,quàm Euclides proponat,in feptimo Elementorü deffinitione x 15,
XIII, quibus ait, quod primus numerus eſt, qui fola unitatemetie tur,
Compoſitus autem eſt, qui dimetitur alio à fe ego ab unitate numero, quo loco
uidetur quòdaliud fit dimetiri numero ; &aliud numeris dia uerſis componi ,
ut ſeptenarius , nullo alio número ab unitate dimetina tur eſi componatur ex
diuerfis numeris,ut ex binario o quinario ,c . ex ternario &quaternario ,
primo enim modo aliquis poterit effe pris inus , qui compoſitus erit fecundo
modo ut-XI, 0 X111, atque alij, quos vagu VI, VITI V Componunt nullus tamen
eorum dimetia tur eorum alterum , var vi nullo modo dimetitur XI, VIII pariter
POSTERIO RVM ARIST. 109 to v nullo modo dimetiuntur x1, cum neuter fit alicuius
maioris pars, ut ex prima deffinitione quinti , &tertia deffinitione
feptimiEle.. mentorum Euclidis manifeſtum eſt ,hoc igitur loco dico , quod
Ariſtotea les non loquitur fecundum Euclidis ſcitum ,fed famoſe , ut philofophoa
rum quorundam aliqui, Vbifecundum Ariftotelem tam partes aggregae tiua, que c
irrationales , e integrantes dicuntur , quàm partes ali quote ,qua rationales,
odimetientes, dicuntur numerum compone re, ſed ſecundum Euclidis fcitum , non
niſi partes proprie fumpte , que aliquotæfunt, numerum componunt ; quod etiam
Nicomachus & Boce . tius in arithmeticis aſſentiuntur, niſi dixeris quod
etiam fecüdum Euclia dem ,non omnem numerum ,qui alium componit compoſitum
dimetiri, fed ubi hoc Euclides fomniet non uidi. TEXTVS LXXVIII ALIAS XXV.
ARTICVLA difficultatis ſe offert in hoc textu, quam Grecio Latini pretereunt ,
Aueroes tamen magna comentatione tangit nefcioquid , fed fcopum rei non tetigit
iudicio eorü qui Ariſt.et Euclidis inſe quuntur,ueſtigis , Textus Ioannis
grāmatici etArgi lopili obfcurăt aliquo modo primo intuitu pulchram
Ariſtot.doctrinam , quam aperit textus Aucrois, ſiue Abramum , ſeu Bu, rinam
inſpexeris, ipfius Aucrois interpretes , qua Ariſtotelis doctrina ex Aueroico
textu bahita, illam poſtea ex loanne grammatico , Argi ropilo uidebis
neceſſario effluere , loannis textus ita habetur , fi uero ficut in genere ,
finiliter fe habebit ,ut propter quid con mutabiliter, Analogum eſt. Alia enim
eit cauſa in lineis, & in numeris, & eadem , inquantum quidem lineæ ,
alia eft ,in quantuin nero habens augınentun tale , eadem eſt, fic in omnibus,
Argilopilus ſichabet fi fint ut in genere, medium ha bebunt finiliter ,ueluti
propter quid etiam mutato ordia oc, funilitudinein ſubeunt rationum , eft enim
alia caufa in lincis, & in numeris, atque eadem alia quidem eſt, ut linea
rum rationem fubit ,eadem autem, ut tale habet incremen tum , & codem in
omnibus modo; Aueroes fic habet commentar tionc magna,li autem fuerit fecundum
modum generis,eft eis . affection 108 IN'SECVNDVM LI B. uinum fimilitudine,
uerbi gratia , cur quando permutantur : fint proportionalia, huius cnim caufæ
in lineis & numeris ſunt diuerfæ , qua autem addit , hac ſpecie additionis
, hoci modo eft una per ſe in omnibus,hoc textu nõ minus laboris fum pſi
propter uarietatem textuum , quam etiam ob id , quod interpretes: non ita
interpretari uidentur , ut textui Ariſtotelis cohæreant fue interpretationes
aut nug & potius , præter Aueroin , qui magna come mentatione , confuſo
tamen ordine dicit aliquid , faciens ad Ariſtotex : lis ſententiam , non tamen
aperit uerum fenfum littera Ariſtotelis Pro uera igitur Ariſtotelis ſententia
,in primisſcire debes , quod mas gnitudines ſeu continue quantitates,
&multitudines feu quantitates die ſcrete omnes , uerfantur circa unum genus
quanti, omnes enim quane titates funt , quæ antequàm permutentur ,
proportionalia eſſe debent , ut affeétio hæc,permutata proportionalitas ,ſeu
permutatim proportios nari, concluditur de quantitatibus proportionalibus,
ratio autem qua concluditur hoc ; de lineis, fuperficiebus,temporibus , vt
corporibus, eadem de numeris concluditur , primum demonftratur propoſitione dea
cimafexta quinti Elementorum Euclidis per alia principia , opropos ſitiones
diuerſas ab his propoſitionibus &principijs , quibus de nume ris eadem
permutata proportio concluditur in feptimo Elementorum , propoſitione
decimatertia uel decimaquarta. Ecce igitur alia ratio in li neiseft,quia
diuerſa e uniuerſalior , atque per diuerſa media , à ratio : ne qua idem de
numeris concluditur , huius enim caufæ in lineis &nume ris ſunt diuerfæ ,
cauſas has , eas uoco , quæ folum dant propter quid & de his cauſis , que
etiam dant eſſe, hoc loco minime intelligas uelim , quia tamen dicebam ,quòd
non concludebatur hæc affe &tio,permutata pro portio niſi de
proportionalibus quantitatibus . Si modofieret queſtio, o
cauſainueftigaretur,quare quantitates dicantur proportionales, uel que nam ſint
quantitates proportionales , aut quando proportionales funt , Ariſtoteles dicit
unam eſſe cauſam in omnibus , cum difcretis tum etiam continuis , quæ eft ex
additione fimili utrobique pro cuius notitia mania feſta deffinitio ſexta
quinti Elementorum , minime negligenda eſt, oeft Quantitates quedicuntur eſſe
fecundum proportionem unam , prima ad fecundam vtertia ad quartam ſunt , quarum
prime otertiæ æques multiplices , ſecunde «quarte equemultiplicibus comparat
& , fimiles fuerint uel additione , ueldiminutione,uel æqualitate ,eodem
ordinefum POSTERIORVM ARI T. 10% ple . V'nica eſt héc caufâ, ut quantitates feu
difcrete ſint , feu etiam continuefuerint,héc uidelicet fimilis
additio,ueldiminutio,feu æquatio inter equemultiplicia,hoc autem eſt.quod ait
in textu Ariſtoteles, in quantum uero habens augmentum tale , eadem eft fic in
omnibus,hac igi: tur ſpecie additionis est una pér fe caufa in omnibus. Similem
autem eſſe colorem colori , & figuram figuræ , aliam efſe alñ æquiuocum
enim eft fimile in his . Hic quis dem eſt fortaſsis ſecundum analogiam habere
latera , & æquales angulos. Figuræ rectilinee funtfimiles ex prima
deffinitione fexti Elemen.quæ habent angulos omnesæquales, es latera
illosæquales angulos continentia proportionalia,ſimilitudo igitur,non habet
commus nefiguris ocoloribus, niſi nomenclaturam , non autem rem naturam unam ,
in coloribus enim non concernes , neque latera , neque angulos . Habent autem
fe fic propter conſequentiam ad inuicem caufa, & cuius caufa,& cui eſt
cauſa, unumquodque tamen accipienti , cuius eſt. cauſa, in pluseſt, utquatuor
rectis æquales , qui funt extra plus ſunt, quàm triangulus, aut quadrangulus,
in omnibusautem æqualiter. Quæcunque eniinquatuor rectis equales,qui ſuntextra
,textus hicdeffétis uus eft , & mutilus apud Ioannem Grammaticum &
Argiropilum , ma. gne commentationis textus est clarior , ſed non ad plenumfacit
fatis ,ut mens Ariſtotelis , fatim appareat . Caufe illationis , ſeu
conſequentie , que mutuæ funt , feinuicem inferunt pro cuius exemplo, ad ea ,
quæ pri mo libro tex . xcvij. di &ta fuere inſpiciendum eſt, oultra
aduertas quod uniuerſaliuseft habere omnes angulos extrinfecos æquales quatuor
res Ais ,quàm eſſe triangulum ,uel quadrangulum ,aut pentagonum ,uel exago num
, aut quippiamtale feorfum , fi autem accipiatur fic reétilineum est, igitur
omnes anguli quiſunt extra, funt equales quatuor re& is , oecon uerfo , fic
infertur , omnes anguli quiſunt extra funt æquales quatuor rectis ,igiturid
cuiusfunt anguli extrinſeci accepti, rectilineñ eft,quo uet bo , re
&tilineum , comprehenduntur nedum triangulus, quadrangulus,co penthagonus ,
fed omnes figuræ re& ilinec , hoc igitur uult Ariſtoteles quandoinquit ,
quod habere extrinfecos quatuor re&tis æquales , uniuer Jalius eſt trigono
, otetragono , ſi uero hec omuia accipiantur , ut in hoc uerbo , rectilineum ,
omnes figure rectilineæ comprehenduntur, ajo fic hoc pacto habentſe propter
confequentiam ,ut ad inuicem caufa «cu us caufa , &cui eft caufa . ilo :
CAVSAB IGITVR ILLI SVMMAB SIT ILLS LAVS QY AM LINGVA ET VNIVERSA MENS CONCIPERE
POTEST . FINISI > R E G I S T R V M. . A B C D E F G H I K L M N O. Omnes ſuntduerni.
CORRECTIO OPERIS. 37 Pac. 4. lined s publicis , à publicis. fac.4.li.6
incumbebam ,abſtinere decreui..li.io laberinthos ,labyrinthos.li.21 literis
litteris ubique . Pd.4 li.3 comode, commode .li. 11 prefertim , præfertim
ubique . li.12cales, calles. li. 16 Ariſtoteles , Ariſtotelis . Facis li.24 age
, aie . Fac . 6.li. 2 pulcra , pulchra ubique. li, z fpetie, fpecie percubique.
li. 32. quinnis, quinis . lin. 3 3 unis,pluribus ubique. Fac. 7 lin.6 neſcit ,
fcit.Fa.8 li.25 comunem ,communem ubique. F2.13 li. 3 precedentis,precedentis
ubique F &c.14 li.9 affumens , afſummens ubique. li.16 ſempliciter ,
fimpliciter. li. 12 equales æqualesubique. Fac.15.li.20 probation , probatione.
Fa. 26 li. 26 reſumitur , reſummitur ubique. Fd. 19.3 1 Geotrica , Geomes trica
. fac.20 li. o quadrati , quadrari. li. 10 e e Spoffet, effe poffet . li. 20
eeſſ;eſe. Fac.22 li. 10 A poline, A polline. Pac. 23 li. innitide tus,initatus.
Fac.30 li. 12 fcit ,ſit .fac.31.li.12 atulerunt attulerunt. fa. 3 2.li.27
manus, manu . fac . 34.li.7 ſilicet , ſcilicet ubique . fuc.36.li.4 Textus ,
Textu . li.25. aget, & get. fac.41. li:3 2 queſtione, queſtione ubique.
fac.4.3 li. 25 texu, textu.fa. 48 li.34 prinus , primus. Fac.49 li.16.fue , ſua
. fac.49.li.20 induéti , induti . fac. stili . 12recte ,recti. fac.53 li. 11
A'riſtelis , Ariſtotelis .fac .53 li . 12 bucis , buccis ubique. li. 6 nltera ,
altera. fac.54.li.2.ie, git. fac. 57 li. 24 puerost , pueros, li. 25 illeuatus
, eleuatus . fac.59 li. 7 olas , ollas . li. 3i ſimilitcr, ſimili ter. li. 3
4.innani,inani ubique. fac. 60 li.z eubi,cubi. li.25 . apolini, apollini per ,
, ubique.lin . 28 pret , preti.fac.61.li.14.palade,pallade, li.24 filicet,
ſcilicet ubique.fac.62 li. 23 rrrat, erat. fac.64. lin . 31 nos tid ,
notitia.fa.67 li.14 prebens,prebens.li.16.profonditate,profundis tate. fac. 68
li. 20 queſitis, quæfitis.fa, 9.li.6.nquiinquit. fac.75 li. s. paret, pares .
fac. 76 li.16 .notia .notitia . fac. 8 2.li. 13 ingnaros, ignaros.li. 27
preciſiua, preciſiua. li. 31. preedenti,precedentiubique fac. 83. li .
8.ſcienriarum , ſcientiarum . lin . 21.chierurgia , chirurgia . fac. 86 li. 10.
neft, ineft.li. 17.angregata , aggregata. fac. 88 lin. 10 pretereundum ,
prætereundum.fac.91.li. 10.triangu o, triangulo. li.28. redit,reddet.fac.95li,31.
eget,eget.fac.96.li.20 fequacea , fequaces. li. 32, balbitiant,balbutiant.fac.
104.11.18.uirum ,uitrum . ܐܐ ܀ Et fi qua alia ( que non funt
pauca ) pretermiffa funt , diligens le& tor surum colligat &mufcas
abigat .Petrus
Cathena. Petrus Catena. Pietro Catena. Keywords: logica matematica, logica
aritmetica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catena” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773531898/in/dateposted-public/
Grice e Cattaneo – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “I like Cattaneo; in fact, I LOVE
Cattaneo; he is so much like me! I taught at Rossall, and he defended the the
teaching in what the Italians (and indeed the ‘Dutch’) call the ‘gym’ not just
of Grecian and Roman, but Hebrew – He famously claimed to know Hebrew when he
interviewed for a job as a librarian! – From a semiotic point of view, he saw
semiotics as the phenomenon the philosopher must consider when dealing with
communication – he explored semantics, but also ‘sintassi’ in connection with
‘logic,’ and obviously, pragmatics – He was interested in comparing systems of
communication in Homo sapiens sapiens and other species – and being an Italian,
he was especially interested in how Roman became Latin – he opposed the Tuscany
rule!” -- Grice: “Only a philosopher
like Cattaneo is can understand Cattaneo’s contributions to semiotics!”. Figlio
di Melchiorre, un orefice originario della Val Brembana, e di Maria Antonia
Sangiorgio, trascorse gran parte della sua infanzia dividendosi tra la vita
cittadina milanese e lunghi e frequenti soggiorni a Casorate, dove era spesso
ospite di parenti. Fu proprio durante questi soggiorni che, approfittando della
biblioteca del pro-zio, un sacerdote di campagna, si appassioa alla filosofia,
soprattutto dei classici della filosofia romana. Il suo amore per le
lettere humanistiche classiche lo indusse a intraprendere gli studi nei
seminari di Lecco prima e Monza poi, che avrebbero dovuto portarlo alla
carriera ecclesiastica, ma già all'età di diciassette anni, abbandonò il
seminario papista per continuare la sua formazione presso il Sant'Alessandro di
Milano e in seguito al ginnasio e liceo classic di Porta Nuova dove si diploma.
La sua formazione filosofica fu plasmata, durante gli studi superiori, da
maestri quali Cristoforis e Gherardini, i quali gli aprirono le porte del mondo
filosofico milanese. Grazie a queste opportunità, oltre alla passione per gli
studi classici, Cattaneo inizia a nutrire interessi di carattere sstorico. Sempre
in questo periodo furono fondamentali per la sua formazione filosofica le
letture presso la Biblioteca di Brera e il contatto con il cugino paterno,
direttore del gabinetto numismatico, era anche un importante esponente del
mondo filosofico milanese. Altro punto chiave per il percorso formativo degli
suoi interessi furono la frequentazione assidua dell’Ambrosiana, grazie alla
sua parentela materna Sangiorgio con il prefetto Pietro Cighera, e della
biblioteca personale dello zio. La Congregazione Municipale di Milano lo
assunse come insegnante di latino e poi di umanita nel ginnasio comunale di
Santa Marta. Approfondizza le sue frequentazioni con gli filosofi milanesi,
entrando a far parte della cerchia di Monti. Di questi stessi anni sono le sue
amicizie con Franscini e Montani. Dopo aver iniziato a frequentare le lezioni
di Romagnosi nella sua villa, ne divenne presto amico e allievo. Si laurea Pavia
con il massimo dei voti. Risale il suo saggio dato alla stampa e apparso
sull’antologia, si tratta di una recensione all'assunto primo del concetto di
“giure naturale”. Saggio sulla Storia della Svizzera italiana. Convinto
sostenitore di richieste di maggiore autonomia del regno lombardo-veneto dalla
corte di Vienna, pensava di puntare su una politica non violenta per avanzare
tali richieste. Il motivo del suo rifiuto nei confronti della violenza si può
comprendere da questa affermazione poco conosciuta del filosofo milanese che al
tempo stesso lascia trasparire cosa egli ne pensasse di un'annessione al Regno
di Sardegna. Siamo i più ricchi dell'impero, non vedo perché dovremmo uscirne.
Ottenne alcune concessioni dal vice-governatore austriaco, subito annullate
dal generale austriaco Radetzky. Purtroppo l'evoluzione tragica delle
Cinque giornate di Milano, degenerate in violenza, fecero capire a Cattaneo che
un dialogo tra la nobiltà lombarda e la corte di Vienna e effettivamente
difficile, stessa impressione che curiosamente ebbe anche Radetzky che nel
periodo del suo governo nel lombardo-veneto punta a cercare il favore del
volgo. Cattaneo e i suoi amici parteciparono quindi e contribuirono alle cinque
giornate di Milano, senza agire con azioni di violenza gratuita. Ma dopo di
esse, rifiuta l'intervento piemontese. Considera il Piemonte meno sviluppato
della Lombardia e lontano dall'essere democratico. Presidente del Consiglio di
guerra di Milano, che governa insieme al Governo provvisorio fino alla caduta
di Milano al ritorno degli austriaci. Dopo una serie di moti popolari, nel
frattempo, viene proclamata la repubblica romana, guidata da un triumvirato
costituito da Mazzini, Saffi ed Armellini. In seguito alla conclusione
dei moti ripara nella ivizzera e si stabilì a Castagnola, nei pressi di Lugano,
nella villa Peri. Qui ebbe modo di stringere maggiormente la sua amicizia con Franscini,
potente filosofo ticinese, e di partecipare alla vita filosofica del Cantone e
della città. Fonda il liceo di Lugano, che volle fortemente per creare
un'istruzione pubblica laica libera dal giogo del papa, al fine di formare una
generazione liberale e laica che era alla base dello sviluppo economico del
resto della Svizzera. Amico di Manara, anda a Napoli per incontrare Garibaldi,
ma poi tornò in Svizzera, perché deluso dall'impossibilità di formare una confederazione
di repubbliche. Pur essendo più volte eletto in Italia come deputato del
Parlamento dell'Italia unificata, rifiuta sempre di recarsi all'assemblea
legislativa per non giurare fedeltà ai Savoia. Viene ricordato per le sue
idee federaliste impostate su un forte pensiero liberale e laico. Acquista prospettive
ideali vicine al nascente movimento operaio-socialista. Fautore di un sistema
politico basato su una confederazione di stati italiani sullo stile della
svizzera. Avendo stretto amicizia con filosofi ticinesi come Franscini, ammira
nei suoi viaggi l'organizzazione e lo sviluppo economico della Svizzera interna
che imputa proprio a questa forma di governo -- è più pragmatico del romantico
Mazzini -- è un figlio dell'illuminismo, più legato a Verri che a Rousseau, e
in lui è forte la fede nella ragione che si mette al servizio di una vasta
opera di rinnovamento della communità. Pur essendogli state dedicate numerose
logge massoniche e un monumento realizzato a Milano dal massone Ferrari, una
sua lettera a Bozzoni, consente di escludere la sua appartenenza alla
massoneria, per sua esplicita dichiarazione, sovente in quel periodo tenuta
segreta e negata. Per lui scienza e giustizia devono guidare il progresso
della communità, tramite esse l'uomo ha compreso l'assoluto valore della
libertà di pensiero. Il progresso umano non deve essere individuale ma
collettivo, comunitario, attraverso un continuo confronto con l’altro. La partecipazione
alla vita della communita à è un fattore fondamentale nella formazione
dell'individuo. Il progresso può avvenire solo attraverso il confronto
collettivo comunitario. Il progresso non deve avvenire per forza o
autoritarismo, e, se avviene, avverrà compatibilmente con i tempi: sono gli
uomini che scandiscono le tappe del progresso. Nega il concetto di
“contratto” comunitario o sociale. Due uomini si sono associati per istinto. La
comunita, la diada, la società è un fatto naturale, primitivo, necessario,
permanente, universale -- è sempre esistito un federalismo delle intelligenze
umane -- è sorto perché è un elemento necessario di due menti
individuali. Pur riconoscendo il valore della singola intelligenza
monadica, afferma però, che più scambio, conversazione, dialettica, e confronto
ci sono, più la singola intelligenza monadica diventa tollerante dell’altro
nella diada. In questo modo anche la società e la comunita diadica e più
tollerante. Le due sistemi cognitivi dei individui della diada devono essere
sempre aperti, bisogna essere sempre pronti ad analizzare nuove verità.
Così come le due menti si devono federare, lo stesso devono fare gli stati
europei che hanno interessi di fondo comuni. Attraverso il federalismo i popoli,
le comunita, possono gestire meglio la loro partecipazione alla cosa pubblica. La
communita, il popolo deve tenere le mani sulla propria libertà. La comunita, il
popolo non deve delegare la propria libertà ad un popolo lontano dalle proprie
esigenze. La libertà economica è fondamentale per Cattaneo -- è la
prosecuzione della libertà di fare -- la libertà è una pianta dalle molte
radici. Nessuna di queste radici va tagliata sennò la pianta muore. La libertà
economica necessita di uguaglianza di condizioni. La disparità ci saranno ma
solo dopo che tutti avranno avuto la possibilità di confrontarsi nella
conversazione aperta. E un deciso repubblicano e una volta eletto
addirittura rinuncia ad entrare in parlamento rifiutandosi di giurare dinanzi
all'autorità e la forza del re. Viene richiamato quale iniziatore della
corrente di pensiero federalista in Italia. Fonda il periodico Il Politecnico,
rivista che divenne un punto di riferimento dei filosofi lombardi, avente come
intento principale l'aggiornamento tecnico e scientifico della cultura
nazionale. Guardando all'esempio della Svizzera cantonale (improntata alla
democrazia diretta), define il federalismo come "teorica della
libertà" in grado di coniugare indipendenza e pace, libertà e unità. Nota
al riguardo che abiamo pace vera, quando abiamo gli stati uniti dell’Europa,
alla svizzera. Cattaneo e Mazzini videro negli nella Svizzera l’unico esempio di
vera attuazione dell'ideale repubblicano. Federalista repubblicano laico di
orientamento radicale-anticlericale, fra i padri del Risorgimento, e alieno
dall'impegno politico diretto, e punta piuttosto alla trasformazione culturale
della società. La rivista Il Politecnico fu per lui il vero parlamento
alternativo a quello dei Savoia. In accordo con il Tuveri redattore del
Corriere di Sardegna, intervenne in merito alla questione sarda in chiave
autonomistica locale. In tal senso, denuncia l'incapacità ed incuranza del
governo centrale nel trovare una nuova destinazione d'uso al mezzo milione di
ettari (più di un quinto della superficie dell'isola) che avevano costituito i
soppressi demani feudali, sui quali le popolazioni locali esercitavano il
diritto di ademprivio, per usi civici. A lui è dedicato l'omonimo
istituto di ricerca. Altre opere: “Scritti filosofici”; “Interdizioni
israelitiche”; “Psicologia delle menti associate” – questo saggio –
associazione -- non è stata completata e rimane allo stato di frammenti. Il
tema de saggio sarebbe dovuto consistere nel cercare un'interpretazione sociale
– diadica -- nello sviluppo dell'individuo o monada. La città – cittadino –
cittadinanza -- considerata come principio ideale delle istorie italiane;
Dell'India antica e moderna; Notizie naturali e civili su la Lombardia Vita di
Dante di Cesare Balbo Il Politecnico, Repertorio mensile di studi applicati
alla prosperità e coltura sociale e comunitaria; Dell'Insurrezione di Milano e
della successiva guerra. Rapporto sulla bonificazione del piano di Magaldino a
nome della società promotrice, In Lugano, Tipografia Chiusi. Le cinque giornate
di Milano di Carlo Lizzani -- interpretato da Giannini. Cattaneo e le cinque
giornate di Milano Secondo una tesi, non
comprovata e non accolta dai dizionari biografici, Cattaneo sarebbe nato a
Villastanza, frazione del comune di Parabiago in provincia di Milano. Certamente
più antica è la Villa prospiciente la Chiesa, sulla piazza ed attualmente in
proprietà del signor Luigi Gagliardi, cui è giunta per eredità dagli avi.
Un'insistente tradizione vuole che in questa casa, abbia avuto i natali
nientemeno che Carlo Cattaneo. Ma il Cattaneo deve aver passato qui soltanto
alcuni anni della sua infanzia, ospite nei mesi estivi della famiglia amica ai
propri genitori. Si veda, a tal riguardo, “Storia di Parabiago, vicende e
sviluppi dalle origini ad oggi, Unione Tipografica di Milano. (G. Tortora), da
Filosofico (Diego Fusaro) Arch. Rebecca
Fant Milano Bertone, Camagni, Panara, La
buone società: Milano industria. Almanacco istorico d'Italia, 1, Battezzatti. Carlo Cattaneo genealogy
project, su geni_family_tree. 16 marzo .
Il Famedio, su del Comune di
Milano. Carlo G. Lacaita, Raffaella Gobbo, Alfredo Turiel La biblioteca di
Carlo Cattaneo, Le riforme illuministiche in Lombardia, articolo dal saggio
introduttivo a Notizie naturali e civili della Lombardia, come riportato da
Mario Pazzaglia in Antologia della letteratura italiana, Il monumento milanese che lo raffigura reca
l'iscrizione «A Carlo Cattaneo -- La massoneria italiana» Mola, Aldo A., Storia della Massoneria
italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano, Bompiani.
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Cinque giornate di Milano Federalismo in Italia Giuseppe Ferrari (filosofo)
Liceo di Lugano Stati Uniti d'Europa Sostrato (linguistica) Università Carlo
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dell'VIII legislatura del Regno d'Italia Deputati della IX legislatura del
Regno d'Italia. Linguaggio e ideologia: la posizione di Carlo Cattaneo
Pubblicato il 1 novembre 2020 da Comitato di Redazione
matania_edoardo_-_ritratto_giovanile_di_carlo_cattaneo_-_xilografia_-_1887-2_imagefullwide
Edoardo Matania, Ritratto giovanile di Carlo Cattaneo, xilografia, 1887
di Alessandro Prato La centralità della figura di Carlo Cattaneo
(1801-1869) nell’ambito della cultura italiana della prima metà dell’Ottocento
è giustamente ricollegata al suo pensiero liberale e laico, agli studi
giuridici che hanno contrassegnato l’intera sua formazione, all’interesse verso
l’etnografia e la psicologia sociale [1]. La sua personalità di studioso
poliedrico e sfaccettato, fortemente influenzata dalla cultura classicista e
dalla filosofia dell’illuminismo, si è concretizzata in varie forme tutte di
grande rilevanza: il filosofo, l’economista, il critico, lo storico, lo
scrittore politico, il fondatore della rivista Il Politecnico (1839-44) e, non
da ultimo, il linguista. Nel quadro di questa ricerca intellettuale così
ricca e variegata un posto rilevante assumono i suoi studi etnico-linguistici
di impianto storico-positivo e i suoi progetti politici orientati sul concetto
di “nazionalità”. Con questo termine egli si riferiva allo stesso tempo sia
alla più alta e unitaria aggregazione culturale, sia alla diretta
partecipazione popolare allo sviluppo della società civile. Proprio sugli
interessi linguistici di Cattaneo [2] concentreremo la nostra attenzione
mettendo in evidenza l’impulso che egli ha dato alla costruzione
dell’italiano come lingua comune che riflette il nesso tra la vitalità della
lingua e la vitalità culturale della nazione di cui la lingua stessa è «il vincolo
unitario in senso geografico e sociale» (Vitale 1984: 457), perché è da essa
che dipende la possibilità per gli italiani di partecipare al progresso della
cultura del proprio Paese. La forte coscienza del carattere comune della lingua
faceva sì che Cattaneo potesse prescrivere la rinnovabilità della lingua –
rifiutando quindi le angustie del purismo, i grecismi e i particolarismi
provinciali – e sostenere anche un’opposizione recisa, basata su una coerente
visione culturale di impronta europea, sia al neotoscanismo e al fiorentinismo
manzoniano, sia all’accademismo della Crusca, in nome di un principio di unità
di cultura e di vita civile nazionale. Questa impostazione spiega poi la
sua duplice posizione rispetto ai dialetti: da una parte riproponeva in termini
nuovi, non antitetici, i rapporti fra i dialetti e la lingua,
riconoscendo la validità dei dialetti in quanto depositari di un patrimonio
storico da preservare, apprezzando i valori riposti nelle culture popolari e
sottolineando anche il valore della letteratura dialettale; dall’altra però
considerava i dialetti come elementi superabili nel processo dialettico
fondativo della lingua comune, essendo consapevole che il coinvolgimento dei
parlanti nella lingua comune poteva avvenire nella misura in cui essi
riuscivano progressivamente ad abbandonare l’uso esclusivo del dialetto.
Il primo scritto di linguistica di Cattaneo è quello sul Nesso della nazione e
della lingua Valacca coll’italiana, pubblicato nel 1837 [3], come parte di un
lavoro più generale che riguardava l’influenza delle invasioni barbariche sulla
lingua italiana e che non venne mai condotto a termine. Si tratta di uno studio
sul passaggio dalla società tardo romana a quella feudale e poi comunale,
condotto sulla scia dell’insegnamento di Romagnosi ma con una sostanziale
differenza: mentre Romagnosi tendeva a ridurre la storia della civiltà in
storia degli istituti giuridici e solo marginalmente si interessava di
questioni linguistiche, Cattaneo già in questo primo scritto – il cui carattere
storico generale è evidente – metteva al centro della sua trattazione il
problema linguistico, considerando la lingua come espressione della nazionalità
e testimonianza delle vicende della storia dei popoli. La funzione
sociale e in senso lato politica della lingua viene così enfatizzata con la
finalità di studiare le interconnessioni tra le cose, cioè gli anelli che
compongono le catene sociali che tengono uniti gli individui in quanto membri
di una comunità: le parole, che sono ricche di sottili significati, possono
essere comprese pienamente solo se situate in un contesto sociale più ampio di
quello del loro svolgersi immediato (Lewis 1987:17). Il nucleo che tiene
insieme le memorie individuali e collettive è insomma costituito dalla lingua e
l’esercizio della lingua rafforza tale nucleo dal quale poi dipende in buona
parte l’identità di un popolo, la sua coscienza storica. In questo caso
Cattaneo non si riferiva alla lingua solo come insieme di regole sintattiche e
di etichette fonologiche, ma anche come modalità socialmente e regionalmente
differenziata, dunque non la lingua come sistema, bensì come norma e
istituzione: «è nelle parole della lingua che si condensano i path, i
“sentieri” della memoria propri di ciascuna comunità» (De Mauro 2008: 67).
poliCattaneo mostrò fin dagli anni giovanili grande interesse per l’opera di
Vico, anche grazie all’influenza che ebbero su di lui le opere di Romagnosi e
Ferrari che la interpretavano alla luce dell’antropologia laica
dell’illuminismo. Proprio dal libro di Ferrari, Vico e l’Italie uscito a Parigi
nel 1839, egli prese spunto per un saggio Sulla scienza nuova che pubblicò sul
Politecnico nello stesso anno [4]. L’interesse per le età primitive e per la
vita collettiva dei popoli, il rapporto tra lingua e nazione [5] denotano la
presenza di motivi vichiani, con i quali Cattaneo corresse certi eccessi del
razionalismo settecentesco, senza mai però rinunciare all’idea di progresso, e
allo stesso tempo senza farsi influenzare dagli aspetti teologici della filosofia
di Vico. La sua formazione illuminista lo portò a non condividere nessun mito
del Risorgimento romantico e spiritualista, a celebrare come maestro Locke
contrapponendolo alle fumosità dell’idealismo, ad avversare le posizioni di
Rosmini, Gioberti e anche Mazzini. L’illuminismo nella sua opera «si
rivela sotto il carattere di una radicale antimitologia» (Alessio 1957: XIX).
Rispetto al Romanticismo la posizione di Cattaneo è contrassegnata da una
sostanziale estraneità: giustamente Timpanaro (1969: 233-34) osserva che
parlare – come spesso si è fatto – di un romanticismo di Cattaneo può essere
giusto se ci riferiamo al romanticismo come una categoria spirituale generale,
definendo romantico ogni forma di interesse per le età primitive, per le tradizioni
popolari e per il nesso lingua\nazione. Ma questo non ci deve far dimenticare
che per il Romanticismo inteso come movimento culturale storicamente definito
Cattaneo – come del resto anche Leopardi – mostrò sempre un atteggiamento
critico e distante motivato dalla sua avversione al medievalismo, a quella
concezione religiosa della vita che i romantici – sia pure con sfumature
diverse – condividevano e al modo ambiguo con cui veniva da loro esaltato lo
spirito popolare, inteso più come attaccamento alle tradizioni locali e forma
di ingenuità, che come aspirazione democratica. Sui rapporti tra romani e
barbari e sulle origini della lingua italiana Cattaneo tornò diverse volte in
altri scritti successivi quel primo saggio del 1837 [6], sostenendo la derivazione
dell’italiano dal latino volgare e limitando al massimo l’influsso delle lingue
dei barbari sulla formazione dell’italiano, tanto più che secondo lui il numero
dei barbari dominatori era stato assai esiguo contrariamente a quanto pensavano
molti storici. Per valutare al meglio questa continuazione dell’italiano dal
latino volgare per Cattaneo era necessario tener conto anche dell’influsso
esercitato dalle antiche lingue dei popoli italici conquistati dai romani
(etrusco, umbro, celtico ecc..). Questa è l’importante teoria del
sostrato senza la quale è difficile ad esempio spiegare la varietà dei dialetti
italiani e che coinvolge soprattutto la fonetica piuttosto che il lessico: non
si tratta quindi di una generale mescolanza di lingue, ma della stessa nuova
lingua pronunciata in modo diverso in base ad abitudini fonetiche precedenti
che rimanevano vive perché radicate dall’uso dei parlanti [7].
Gli studi sull’origine dell’italiano sono importanti anche per spiegare
la posizione che Cattaneo ha assunto nel dibattito sulla questione della
lingua, che ha avuto del resto una grande rilevanza nella cultura italiana del
tempo. Cattaneo, infatti, non vedeva una scissione tra il suo impegno di
linguista militante e i suoi studi di linguistica storica, al contrario
riteneva lo studio storico delle lingue come la base, e dunque il fondamento,
della linguistica normativa [8]. Di fronte al problema di come la lingua
italiana avrebbe dovuto essere formata e regolarizzata, egli sosteneva una
rigorosa battaglia antitoscana, svolta su due fronti essenziali. Il primo era
diretto – riprendendo una polemica che era stata inaugurata dagli illuministi
lombardi del Caffè – contro il modello arcaico e passatista dell’Accademia
della Crusca, che sosteneva una concezione immobilistica della lingua, estranea
a ogni innovazione e fondata sulla netta scissione tra lingua e cultura. Il
secondo fronte riguardava il modello certamente più moderno e funzionale del
Manzoni, ma che ai suoi occhi risultava troppo accentrato e basato su un
concetto di popolarità che egli non condivideva: «la dottrina della
popolarità da cui primamente si presero le mosse, oramai non significa più che
si debba agevolare l’intendimento e l’arte della lingua agli indotti: ma bensì
che si debbano raccogliere presso uno dei popoli d’Italia le forme che, più
domestiche a quello, riescono più oscure a tutti li altri. Si intende
un’angusta e inutile popolarità d’origine, non la vasta e benefica popolarità
dell’uso e dei frutti» (Cattaneo 1948: I, 8). 2560350164442_0_0_0_696_75In
alternativa, Cattaneo opponeva una forma di lingua che costituisse un punto
d’incontro delle varie tradizioni dialettali italiane in maniera da poter
svolgere veramente una funzione unificatrice della nazione. Una lingua, allo
stesso tempo illustre [9], «insieme austera e moderna» (Timpanaro 1969: 237),
adeguata non solo alla cultura letteraria, ma anche a quella scientifica e
filosofica. Fin da quel primo articolo, cui abbiamo già
fatto riferimento, Cattaneo ha dimostrato inoltre di avere due maggiori
capacità rispetto ad altri autori italiani suoi contemporanei. La prima era
quella di saper andare al di là dei ristretti confini nazionali, interessandosi
ad esempio delle lingue germaniche e del romeno. La seconda consisteva
nell’avere ben presente il principio che la comunanza di origine tra due lingue
è dimostrata dalla somiglianza delle strutture grammaticali, più che dei
vocaboli – principio che ricavava dalla nuova linguistica comparata di Bopp e
dei fratelli Schlegel [10] che, proprio in quegli anni, erano diventati per lui
importanti interlocutori anche polemici e avevano impresso nuovi sviluppi alle
sue idee linguistiche. Nel 1839 Bernardino Biondelli [11] cominciò a pubblicare
sul Politecnico una serie di articoli sulla linguistica indeuropea, recensendo
anche importanti opere dei comparatisti [12], informando così il pubblico
italiano sui risultati scientifici da loro raggiunti. Questi articoli hanno
indotto Cattaneo a prendere una posizione critica di fronte a questa corrente di
studi e a scrivere il saggio Sul principio istorico delle lingue europee
[13]. In questo saggio Cattaneo criticava l’idea che dall’affinità delle
lingue fosse possibile ricavare una comunanza d’origine dei popoli, perché era
invece convinto che non ci fosse una connessione essenziale tra affinità
linguistica e affinità razziale e che la linguistica e l’antropologia andassero
attentamente distinte; inoltre credeva che si fosse troppo insistito sull’unità
dell’indoeuropeo, trascurando le differenze tra le varie lingue dovute al
sostrato. Guardava con sospetto l’esaltazione orientalizzante che costituiva
forse la conseguenza più effimera e fuorviante del comparatismo indoeuropeo
(Marazzini 1988: 406). Per Friedrich Schlegel [14] il sostrato svolgeva
soprattutto una funzione negativa corrompendo la perfetta forma del sanscrito;
per Cattaneo, al contrario, la commistione del sanscrito con le lingue europee
primitive ha dato luogo a un innesto fecondo perché il sostrato «rappresentava
appunto il principio della varietà linguistica, non cancellata dall’azione
unificatrice esercitata dal popolo colonizzatore» (Timpanaro 1969: 266). La
parentela linguistica non è quindi nel sistema di Cattaneo identità di origine,
bensì il risultato di un lento e progressivo avvicinamento delle popolazioni,
dovuto all’istaurarsi fra di esse di rapporti politici, economici e culturali.
Non si tratta, quindi, di un punto di partenza, ma di arrivo: «Le lingue
vive d’Europa non sono le divergenti emanazioni d’una primitiva lingua comune, che
tende alla pluralità e alla dissoluzione; ma sono bensì l’innesto d’una lingua
commune sopra i selvatici arbusti delle lingue aborigene, e tende
all’associazione e all’unità. Se una volta in diverse parti d’Italia e delle
isole si parlò il fenicio, il greco, l’osco, l’umbro, l’etrusco, il celtico, il
carnico, e Dio sa quanti altri strani linguaggi, come tuttora avviene nella
Caucasia, la sovraposizione d’una lingua commune avvicinò tanto tra loro i
nostri vulghi, che ora agevolmente s’intendono tra loro. Il tempo che cangiò le
lingue discordandi in dialetti d’una lingua, corrode ora sempre più le
differenze dei dialetti; e lo sviluppo delle strade e la generale educazione
promovono sempre più l’unificazione dei popoli. Non è che una lingua
madre si scomponga in molte figlie; ma bensì più lingue affatto diverse,
assimilandosi ad una sola, divengono affini con essa e fra loro; e per poco che
l’opera si continui, o a più riprese si rinovi, divengono suoi dialetti e
infine mettono foce commune in lei» (Cattaneo 1957: 450). Sulla base di queste
considerazioni, Cattaneo, nell’ambito dell’acceso dibattito sulla monogenesi o
poligenesi del linguaggio, sosteneva una posizione particolare: rifiutava
evidentemente il primo, ma allo stesso tempo era anche distante da quel
particolare tipo di poligenismo sostenuto da Schlegel, che consisteva nel
separare nettamente pochi tipi linguistici originali dai quali sarebbero
derivate tante lingue cosiddette “figlie”. Per lui invece esistevano tante
lingue primitive originarie che si erano ridotte di numero, via via che le
tribù avevano cominciato a unirsi in aggregati più ampi. Non esistevano quindi
– come per Schlegel – delle lingue perfette fin dall’inizio (le lingue
flessive); tutte le lingue avevano origini umili o, come scriveva lui stesso,
“ferine”. I modelli di questo modo di intendere il poligenismo linguistico sono
Epicuro, Vico e Cesarotti [15]. Sempre contro Schlegel, rivendicava la
giustezza della teoria agglutinante secondo la quale anche le forme flessionali
più perfette e sofisticate derivavano dall’agglutinazione di monosillabi che
all’origine avevano una funzione autonoma. E in quel primo articolo del 1837
osservava infatti che le declinazioni della lingua latina e greca potevano
derivare da semplici nomi con un articolo affisso (Cattaneo 1948: I,
228).
psicologiadellementiassociatecarlocattaneoeditoririuniti_1024x1024-1La polemica
con Schlegel riguardava anche la questione dell’origine del linguaggio: mentre
per il primo la flessione indoeuropea era dovuta sostanzialmente a un
intervento divino, per Cattaneo, l’origine del linguaggio non poteva che essere
umana, e su questo avrebbe mantenuto una posizione coerente anche negli scritti
successivi come le Lezioni di ideologia del 1862, dove, ad esempio, confutava il
sofisma di Bonald che negava all’uomo la facoltà di costruirsi un linguaggio.
Su questo tema come per tanti altri Cattaneo è vicino alla grande tradizione
della linguistica illuminista che con Locke e Herder aveva respinto recisamente
la concezione delle idee innate e l’origine divina del linguaggio (Prato 2012:
17-22) ed è del tutto immune dalla concezione misticheggiante della linguistica
tanto cara ai romantici. Proprio nel Saggio sul principio istorico delle
lingue europee, Cattaneo si proponeva di verificare il rapporto tra fenomeni
linguistici e tradizioni culturali, considerando la ricerca linguistica in
stretta correlazione con una riflessione propriamente filosofica. L’analisi dei
fenomeni linguistici non si riduceva per lui solo a una raccolta estemporanea
di dati ma si traduceva in una vera e propria scienza sociale. Alla filosofia
analitica degli Idèologues – che era rappresentata per gli scrittori italiani
soprattutto da Condillac e Tracy – egli riconosceva senz’altro il merito di
aver esaminato con acume e precisione i problemi del linguaggio, inserendoli in
una prospettiva il più possibile concreta e razionale. Allo stesso tempo era
tuttavia consapevole anche dei suoi limiti, che consistono nell’aver indicato
come proprio oggetto di riflessione una figura di uomo dai caratteri astratti e
indipendente dal rapporto con i suoi simili. Proprio «la famosa ipotesi della
‘statua’ condillachiana gli appariva emblematica di un concetto destorificato
della natura umana» (Gensini 1993: 238). Non a caso alle conferenze tenute a
partire dal 1859 presso l’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Cattaneo
volle dare il titolo di Psicologia delle menti associate [16], dove il termine
di “psicologia sociale” è inteso appunto in senso antropologico sia come riflessione
sull’uomo a partire dai rapporti che lo legano agli altri suoi simili, sia come
ricostruzione delle mentalità e dei sistemi simbolici quale risultato di
mediazioni sociali. In queste lezioni Cattaneo osservava che il lievito che fa
fermentare le idee non si svolge in una mente sola perché «la corrente del
pensiero vuole una pila elettrica di più cuori e di più intelletti» (Cattaneo
1957: 277-78). La genesi delle idee, che Locke aveva dimostrato scaturire
dal linguaggio, in questa nuova prospettiva aperta da Cattaneo, non può che
radicarsi nella pratica sociale: «Nel commercio degli intelletti, promosso da
felici condizioni, si svolgono le idee, come nel mondo materiale, al contatto
delli elementi, si svolgono le correnti elettriche e le chimiche affinità»
(Cattaneo 1960: II, 16). Il linguaggio stesso è la società (Cattaneo 1957:
316), ed è proprio su questo terreno che l’ideologia – ovvero l’analisi delle
idee – iincontra la linguistica. Ideologia è del resto il titolo di una parte
del corso di Filosofia che Cattaneo aveva tenuto presso il liceo di
Lugano. Non a caso aveva scelto questo titolo se consideriamo che per la
sua chiara derivazione illuminista, l’ideologia [17] rappresentava la sola
reale forma di opposizione al conformismo della cultura del suo tempo perché
l’ideologia era «un’arma efficace per una filosofia democratica, atta ad
opporsi alla marea montante della filosofia restaurata, allo spiritualismo
eclettico in Francia, all’ontologismo cattolico in Italia» (Formigari 1990:
153). I principi che contrassegnano l’intera ricerca di Cattaneo e che spaziano
dal riconoscimento del valore del pensiero scientifico, alla negazione della
metafisica e alla difesa della laicità, la rendono insomma pienamente aderente
ai problemi e alle esigenze del nostro tempo, oltre che aperta a ulteriori
forme di sviluppo e approfondimento. Dialoghi Mediterranei, n. 46,
novembre 2020 Note [1] Per un ritratto complessivo di Cattaneo e dei
rapporti con i suoi contemporanei rimandiamo a Alessio (1957) e Mazzali (1990).
[2] Studiati in particolare da Timpanaro (1969: 229-83). Si veda anche Gensini
(1993: 237-40), Benincà (1994: 576-80), Geymonat (2018). [3] Negli Annali
universali di statistica, si leggono ora in Cattaneo (1948: I, 209-37). [4] Si
trova in Cattaneo (1957: 39-75). [5] Anche per Giordani la lingua è il
vincolo di una comunità che si identifica con la nazione (Cecioni 1977: 59),
[6] Per esempio nella recensione alla Vita di Dante di Balbo pubblicata sempre
sul Politecnico del 1839 (ora in Cattaneo 1957: 380-395) di cui viene criticato
il contenuto religioso e metafisico e la difesa del neo-guelfismo. [7] Questa
teoria del sostrato come è noto verrà ripresa da Ascoli nei suoi celebri
scritti linguistici. Sul rapporto tra Cattaneo e Ascoli rimandiamo alle dense
pagine di Timpanaro (1969: 284 sgg) e Timpanaro (2005: 237-51). [8] Qui lo
scrittore lombardo riprendeva un’idea ben radicata nella cultura italiana e che
risaliva al De vulgari eloquentia di Dante. [9] Su questo si può cogliere l’eco
della Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca
(1817-1822) del Monti che Cattaneo del resto aveva letto fin da giovanissimo
con passione e interesse. [10] Sulla linguistica dei comparatisti si veda
Morpurgo Davies (1994). [11] Sulla funzione positiva svolta da Biondelli per lo
sviluppo degli studi linguistici in Italia vedi De Mauro (1980: 49-52). [12]
Per esempio la Deutsche Grammatik di Jacob Grimm. [13] Pubblicato sul
Politecnico nel 1841 è certamente il suo scritto linguistico-etnografico più
ampio e originale. [14] Qui Cattaneo fa riferimento al libro: Uber die Sprache
und Weisheit der Indier del 1808. Sulle idee filosofico-linguistiche di
Schlegel vedi Timpanaro (2005: 17-56). [15] In particolare su Cesarotti e sul
suo Saggio sulla filosofia delle lingue (1800) che è stato per Cattaneo una
lettura importante vedi Gensini (2020). [16] Pubblicate postume da Bertani
nella raccolta di Opere edite e inedite in 7 volumi usciti tra il 1881 e il
1892, si leggono ora in Cattaneo (1957: 270-326). [17] Ideologia è del resto il
titolo stesso di una parte del corso di Filosofia che aveva tenuto presso il
liceo di Lugano: si trova ora in Cattaneo (1960: III, 3-204). Riferimenti
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Giovanni Battista Ramusio correttore ed editore delle Navigationi et viaggi,
Roma, Viella. Rusconi M. (1842), Sopra i lai o canti degli anglo-normanni, in
“Giornale dell’I. R. Istituto Lombardo di scienze, lettere ed arti o Biblioteca
italiana”, III, pp. 177-187. Delle Lezioni tenute al Liceo di Lugano tra
anni Cinquanta e Sessanta, si analizzano le versioni preparatorie di un
paragrafo dedicato all’originarsi della poesia da canti e balli popolari (con
particolare attenzione alla cosiddetta ballata). Ciò consente di riconoscere in
Cattaneo, che in quel periodo ha ripreso l’attività di studio e divulgazione,
il perdurare d’interessi terminologici e il legame con dibattiti che avevano
coinvolto suoi maestri, colleghi e amici nella prima metà dell’Ottocento.
Curiosità e passioni di gioventù s’intrecciano con letture nuove, alcune delle
quali avranno eco nella seconda serie de "Il Politecnico", altre
rimarranno limitate alla pratica didattica e si possono in parte scoprire
grazie agli appunti preparatori. Indice del saggio su Cattaneo linguista –
recensione Resurggimento. Carlo Cattaneo. Keywords: cinque giornate, community,
communita, diada, monada, associazione, contratto sociale, conversazione,
psicologia filosofica, psicologia, sociologia filosofica, ego e alter ego,
logica e linguaggio, il latino, l’italiano di lombardia, il natale di Cattaneo
– regione Lombardia – provincia -- – Milano. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cattaneo” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773904359/in/dateposted-public/
Grice e Cattaneo – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I love Cattaneo, but then you would,
wouldn’t you – He reminds me of H. L. A. Hart, and then *I* am reminded that
Cattaneo translated Hart to Italian as a pastime! What I like about Cattaneo is
that instead of focusing on “Roman law” and Cicero – he focuses on Pinocchio!”.
Si laurea a Milano sotto Treves. Su consiglio di Treves e Bobbio ha
soggiornato al St. Antony's, criticando Hart, professore di Giurisprudenza, di
cui su suggerimento di Bobbio e Entreves ha tradotto “Il concetto di legge”.
Insegna a Ferrara, Milano, Sassari, Treviso. Analizza l'evoluzione storica
delle teorie della pena e le opere dei grandi giuristi italiani. Membro della Società
Italiana di Filosofia Giuridica e Politica. Altre opere: Il concetto di
rivoluzione nella scienza del diritto” (Milano); “Il positivismo giuridico”
(Milano); “Il partito politico nel pensiero dell'Illuminismo e della
Rivoluzione” (Milano); “Le dottrine politiche” (Milano); Illuminismo e
legislazione” (Milano); “Filosofia della Rivoluzione” (Milano); “Diritto
liberale” “Giurisprudenza liberale” (Ferrara); “Filosofia del diritto,
Ferrara); La filosofia della pena” (Ferrara); Delitto e pena” (Milano); Il
problema filosofico della pena, Ferrara); Stato di diritto e stato totalitario,
Ferrara); Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, Milano); “Metafisica
del diritto e ragione pura, studi sul platonismo giuridico di Kant” (Milano);
“Goldoni ed Manzoni: illuminismo e diritto penale, Milano); “Carrara e la
filosofia del diritto penale, Torino); “Libertà e Virtù” (Milano); Pena,
diritto e dignità umana” (Torino); Diritto e Stato nella filosofia della
rivoluzione” (Milano); Suggestioni penalistiche”; “Persona e Stato di diritto
Discorsi alla nazione europea, Torino); Critica della giustizia, Pisa); L'umanesimo
giuridico penale” (Pisa); Pena di morte e civiltà del diritto” (Milano); Terrorismo
ed arbitrio, Il problema giuridico del totalitarismo, Padova); Il liberalismo
penale di Montesquieu” (Napoli); Dignità umana e pace perpetua, Kant e la
critica della politica” (Padova); “L’idolatria sociale (Napoli); “L’umanesimo
giuridico, Napoli); Kant e la filosofia del diritto” (Napoli); Diritto e forza.
Un delicato rapporto, Padova); Giusnaturalismo e dignità umana, Napoli); Dotta
ignoranza e umanesimo” (Napoli); La radice dell'Europa: la ragione, uno studio
filosofico-giuridico (Napoli). “Analisi del linguaggio e scienza politica”
(Filosofia del diritto); “Il concetto di rivoluzione nella scienza del diritto,
Milano, Istituto editoriale Cisalpino); “Il positivismo giuridico e la
separazione tra il diritto e la morale” (Istituto Lombardo di Scienze e
Lettere, Milano. Richiamo a istituti di diritto privato per la risoluzione del
problema dell'origine dello stato, in “La norma giuridica: diritto pubblico e
diritto privato, Atti del IV Congresso di Filosofia del diritto, Pavia, Milano,
Giuffre); “Il realismo giuridico” in »Rivista di Diritto Civile”; Alcune
osservazioni sui concetto di giustizia in Hobbes, in Il problema della
giustizia: diritto ed economia, diritto e politica, diritto e logica, Atti del
V Congresso Nazionale di Filosofia del Diritto, Roma (Milano, Giuffre); “Hobbes
e il pensiero democratico nella Rivoluzione inglese e nella Rivoluzione
francese, in »Rivista critica di storia della filosofia”; “Il positivismo
giuridico inglese: Hobbes, Bentham, Austin, Milano, Giuffre); Il partito
politico nel pensiero dell'illuminismo e della Rivoluzione francese, Milano,
Giuffre); Le dottrine politiche di Montesquieu e di Rousseau, Milano, La Goliardica
Stampa); Il positivismo giuridico, in »Rivista Internazionale di Filosofia del
Diritto«, “Il concetto di diritto” (Milano, Einaudi); “Considerazioni sul ‘significato’
della proposizione, ‘I giudice crea diritto«, in »Rivista Internazionale di
Filosofia del Diritto«; Illuminismo e legislazione, Milano, Edizioni di
Comunita); Leggi penali e liberta del cittadino, in »Comunita«, Montesquieu,
Rousseau e la Rivoluzione francese, Milano, La Goliardica); dispense del corso
di Storia delle dottrine politiche, Milano); Quattro Punti, in »Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto«, Liberta e virtu nel pensiero politico
di Robespierre, Milano-Varese, Istituto Editoriale Cisalpino); Considerazioni
sull'idea di repubblica federale nell'illuminismo francese, in »Studi
Sassaresi”,Liberta e virtu nel pensiero politico di Robespierre, Milano, Istituto
Editoriale Cisalpino); Filosofo e giurista liberale, Milano, Edizioni di
Comunita); Filosofia politica e Filosofia della pena, in Tradizione e novita
della filosofia della politica, Atti del Primo Simposio di Filosofia della Politica,
Bari, 11-13 maggio 1970, Bari, Laterza); Pigliaru: La figura e l'opera, testo
della commemorazione tenuta i125 giugno 1969 nell' Aula Magna dell'U niversita
di Sassari, in »Studi sassaresi«, Serie Ill, 11 (1968-1969), Milano); Le
elezioni e il liberalismo. Autonomia dell'Universita e neo-corporativismo, in
»La Rassegna Pugliese«, Anti-Hobbes, ovvero i limiti del potere supremo e il
diritto co-attivo dei cittadini contro il sovrano (Milano, Giuffre);
Anti-Hobbes o il diritto co-attivo dei cittadini --; Considerazioni suI diritto
di resistenza e liberalismo, in »Studi Sassaresi«, Ill, Autonomia e diritto di
resistenza, Milano); La dottrina penale nella filosofia giuridica del
criticismo, in Materiali per una Storia della Cultura Giuridica, ICorso di
filosofia del diritto, Ferrara, Editrice Universitaria); La filosofia della
pena nei secoli XVII e XVII: corso di filosofia del diritto, Ferrara, De
Salvia). Discutendo giurisprudenza con Treves, pone il problema che sarebbe
stato al centro di tutta la sua vita di uomo impegnato nello studio,
nell'insegnamento, nella vita civile. Interrogandosi suI rapporto fra “rivoluzione”
e “ordine giuridico”, vale a dire fra “fatto” (de facto) e “diritto” (de iure),
giunge alIa conclusione che da un punto di vista epistemico-doxastico-giudicativo-conoscitivo-descrittivo
non e possibile distinguere tra ordine giuridico e regime di violenza,
autoritatismo, perche il diritto non e giusto per sua intrinseca natura, ma
soltanto se e concretamente rivolto ad attuare il valore del giusto e rispetto
della persona umana. Il rapporto fra forza autoritaria e la forza della legge,
che da il titolo a uno suo saggio, e la relazione fra diritto o gius come
valore, costituisce infatti la questione su cui non cessa mai di interrogarsi,
nella prospettiva del fondamento metafisico (escatologico, propriamente) del
concetto di ‘giure’ non e riducibile alla volizione o ragione pratica del
legislatore propriamente adgiudicato (alla Aristotele). In questo modo,
Cattaneo indica la ricerca del giusto come compito specifico della filosofia
del diritto e pre-annuncia il suo intero percorso filosofico
caratterizzato da un assunto basilaro. La filosofia, come assere Socrate, ha il
suo carattere precipuo nel porre un problema piuttosto che nel risolverlo o
dissolverlo, e, come nel mito platonico della caverna, l’analisi concettuale si
muove suI piano della trascendenza escatologica, diverso e superiore a quello
della realta empirica o naturale. Anche la filosofia giuridica, in quanto
filosofia, e aperta alla escatologia metafisica e, avendo come base la
conoscenza del codice u ordine del diritto romano-italiano *positivo*, pone il
problema della sua valutazione escatologica alIa luce del valore della dignita kantiana
umana e del concetto di un “stato di diritto”. Compito del filosofo non e dunque
*descrivere* il diritto positive fattico empirico esistente, ma conoscerlo per
condurne una meta-analisi critica al fine del suo adeguamento al modello ideale
platonico socratico di giustizia contro il neo-trasimaco di Hart. Il problema
giuridico della rivoluzione. Il concetto
di rivoluzione nella scienza e nel diritto, Milano-Varese. Neokantismo nella filosofia
del diritto di Treves, in Diritto, cultura e liberta. Diritto e forza. Un
delicato rapporto, Paova. La filosofia del diritto: il problema della sua
identita, in Filosofia del diritto. Identita scientifica e didattica oggi,
Cattania. IL SAGGIO DI MARIO A CATTANEO “CARLO GOLDONI E ALESSANDRO
MANZONI ILLUMINISMO E DIRITTO PENALE IL tema del rapporto tra
Diritto e Letteratura è stato più volte trattato dal Prof. Mario Cattaneo che
ha pubblicato i seguenti saggi: ”Riflessioni sul <De Monarchia> di Dante
Alighieri” del 1978, “L’Illuminismo giuridico di Alessandro Manzoni” pubblicato
nel 1985 nelle Memorie del Seminario della Facoltà di Magistero di Sassari.,
“Carlo Goldoni e Alessandro Manzoni. illuminismo e diritto penale” nel 1987 e
“Suggestioni penalistiche in testi letterari “ del 1992. Nella Introduzione del
volume su Goldoni e Manzoni rileva che i rapporti tra diritto e letteratura e
la discussione di problemi giuridici in opere letterarie non sono stati in
generale molto studiati; non mancano tuttavia alcune ricerche concernenti
soprattutto il diritto nel teatro Sono stati compiuti degli studi sul
significato giuridico di alcune opere di Shakespeare da R. von Jhering
(1818-1892) e J. Kohler (1849-1919) ed è stato esaminato il
pensiero di alcuni poeti tra cui in Italia soprattutto Dante del quale si sono
occupati Francesco Carrara (1805-1888), Vaturi , Giorgio Del
Vecchio (1878-1970), Mossini e lo stesso Cattaneo . Vi
sono importanti opere della letteratura europea che hanno affrontato problemi
giuridici rilevanti come il “Michael Kolhaas” pubblicato nel 1810 da H.
von Kleist (1777-1811) e “Delitto e Castigo” di Dostoevskijj ,l’ Autore
rileva peraltro che la presenza di temi giuridici nella letteratura è
particolarmente rilevante nell’illuminismo data la sensibilità civile di questo
movimento. Il volume è dedicato all’esame degli aspetti giuridici – soprattutto
di diritto penale – di due grandi autori italiani : Carlo Goldoni ed Alessandro
Manzoni. Cattaneo rileva l’accostamento tra i due grandi letterati deriva
da alcuni elementi di contatto : Goldoni passò l’ultima parte della vita in
Francia e vide il declino dell’ancien regime francese e Manzoni trascorse parte
della giovinezza in Francia nel periodo napoleonico. Goldoni visse gli ultimi
anni della sua vita a Parigi nei primi anni della Rivoluzione francese ma non
sappiamo come abbia seguito le fasi della stessa mentre Manzoni li seguì e
scrisse l’ode “Del trionfo della libertà” che manifesta le opinioni del suo
Autore e verso la conclusione della vita scrisse “La rivoluzione francese del
1789 e la rivoluzione italiana del 1859” un saggio che fu pubblicato postumo e
che, secondo Cattaneo, è ispirato a sentimenti di libertà i due
scrittori hanno un orientamento differente Goldoni, bonario ed ottimista,
esamina gli aspetti gioiosi della vita pur con una punta di satira e critica
della società mentre Manzoni esamina gli aspetti essenziali e drammatici
della esistenza umana, sotto il profilo religioso Goldoni risulta tiepido ed
alquanto indifferente mentre Manzoni nelle sue opere affronta il problema
religioso. Cattaneo evidenzia che l’accostamento tra i due letterati è
già stata istituita da alcuni studiosi e cita l’opinione espressa da Ferdinando
Galanti nel 1973 che evidenzia che Goldoni diede all’ Italia la nuova
commedia, il ritratto della vita sulla scena, Manzoni è importante per la nuova
tragedia ed il romanzo lasciando un popolo di caratteri originali, vivi e che
rimarranno nella memoria di tutti come figure casalinghe, parlanti, che saranno
ereditate di generazione in generazione quale caro tesoro di famiglia. Galanti
ritiene che Manzoni abbia continuato , nel cammino della verità, l’opera di
Goldoni. Questo giudizio è ripreso da Federico Pellegrini in uno scritto
del 1907 che indica come elemento comune <il rispetto della natura>
e ricorda i giudizi favorevoli di Manzoni su Goldoni in materia di lingua.
Pellegrini rileva che nelle Commedie di Goldoni come nei Promessi Sposi
l’esuberanza della fantasia non offende la sobrietà dell’insieme e vi è una
processione di personaggi buoni e cattivi al di sopra dei quali vi è una
idealità: la vittoria del bene sul male, questo è la morale di tutti i drammi.
Pellegrini raffronta ed accosta i personaggi delle opere dei due
letterati e conclude affermando che: i geni si incontrano . Il Mazzoleni ha
istituito un confronto fra “I Promessi Sposi” e “La Putta onorata”
commedia in cui Bettina, fidanzata di Pasqualino, viene rapita dal marchese
Ottavio. Le coincidenze tra le due opere peraltro escludono l’influsso di
Goldoni su Manzoni, per cui vi è affinità non dipendenza. Il Petronio nel
suo libro ”Parini e l ‘illuminismo lombardo” mette in rilievo che. “ben quattro
volte l’Italia ha tentato una letteratura realistica” : “Una prima volta con
l’illuminismo, col Parini e il Goldoni; una seconda con il romanticismo
lombardo, i tentativi generosi del Berchet nel verso e i risultati luminosi del
Manzoni nella prosa; una terza col verismo meridionale e la soluzione geniale
ma singolare, senza seguito, del Verga; una quarta in questo secondo
dopoguerra” Lina Passarella ha associato Goldoni, Manzoni e
Collodi nel suo studio “Goldoni filosofo” ed ha definito i tre letterati “i più
grandi umoristi del mondo” scrivendo che “Mentre il Manzoni narra di lotte
intime di uomini travolti dalla malvagità e Collodi sorride delle cadute e
degli sforzi di quel Pinocchio fatto di legno ed emotivo e vivo di tutti gli
elementi dell’essere umano, sintesi di tutta l’umanità aggrappantesi sulla
ripida china che conduce a essere degni di chiamarsi umani, il sorriso col
quale Goldoni guarda i suoi attori dice che il suo problema è la socialità:
scontri ed incontri, beffe e incomprensioni, cadute e risollevamento nelle
opinioni altrui” Cattaneo evidenzia anche che un breve cenno
comparativo tra Goldoni e Manzoni sotto il profilo giuridico è svolto anche da
A. C. Jemolo il quale scrive a riguardo che Goldoni, che aveva studiato
giurisprudenza, cercò nella commedia “L’Avvocato veneziano” di darci una
figurazione di avvocato virtuoso, per cui la toga è davvero una divisa di
soldato: Manzoni nel mondo del diritto non ci ha lasciato che la immagine
imperitura di Azzecca-garbugli, il ricordo caricaturale delle Gride dei
Governatori e quello del conte-zio, alto burocrate del suo tempo, il quadro
atroce dei giudici della Colonna infame. Padoan ha rilevato in un suo
scritto che << anche oggi, e non senza qualche ragione, potremmo indicare
in Goldoni una polemica contro l’ozio nobiliare, anteriore al Parini; un
atteggiamento di interesse verso il mondo degli umili, che non fu senza
influenza sul Manzoni…>>> Cattaneo conclude l’introduzione
al volume affermando che le citazioni prima esposte sono sufficienti a
giustificare la trattazione dei due autori in un unico volume , la sua
analisi prende in considerazione la visione del problema giuridico dei due
scrittori ed analizza il pensiero giuridico nelle sue premesse di fondo .nelle
sue fondazioni filosofiche , nella misura in cui fare questo è possibile; a tal
fine ritiene che l’elemento unificatore dei due autori in relazione al diritto,
indicato anche nel titolo è l’illuminismo L’autore evidenzia che
nel Goldoni avvocato, difensore della professione forense, che mette in rilievo
diversi problemi giuridici in molte sue commedie, si risente , in modo non
marcato, l’influenza dell’Illuminismo , che è la radice della sua satira
sociale, della sua garbata critica della nobiltà e delle disuguaglianze
sociali, come in Manzoni critico della giustizia umana e della incertezza
giuridica, che satireggia i pubblici funzionari e gli avvocati,
raccogliendo l’eredità del grande nonno Cesare Beccaria (1738-1794) In
conclusione Cattaneo ritiene che, oltre le apparenti differenze,.<< sia
rintracciabile, nel pensiero di Goldoni e di Manzoni, il filo conduttore dato
dai principi fondamentali dell’illuminismo giuridico, principi che si possono
individuare essenzialmente nella certezza del diritto e nella dignità della
persona umana>> Nel primo capitolo del volume l’autore
riferisce degli <Studi su Goldoni avvocato> rilevando che la critica ha
tenuto presente in modo primario del significato letterario delle sue
opere un breve cenno agli studi giuridici di Goldoni era stato fatto da
un grande recensore contemporaneo al commediografo Friedrich Schiller
(1759-1805) nelle due recensioni alla traduzione tedesca dei
“MÉMOIRES.” nella letteratura italiana Zanardelli, importante esponente
dell’Italia risorgimentale, cita Goldoni in alcuni passi del volume
“L’Avvocatura” soffermandosi sulla figura della commedia “L’Avvocato
veneziano” delineato come il tipo ideale dell’avvocato. Gli scritti
italiani più importanti dedicati a Goldoni avvocato, scarsamente
ricordati nelle bibliografie goldoniane, sono opere di due studiosi parenti di
Cattaneo. Il primo è l’articolo “Carlo Goldoni avvocato” di Alessandro
Pascolato (1841-1905) il secondo è di Mario Cevolotto , avvocato di
Treviso Il Pascolato rifiuta la tesi che Goldoni sia stato un
dilettante della giurisprudenza ed afferma la reale e profonda cultura
giuridica attestata dall’esercizio dell’attività forense a Pisa dove vinse
persino tre cause in un mese e che evidenziano il carattere schietto e buono
anche in mezzo ai volumi dei dottori ; il Cervolotto esamina gli studi
giuridici di Goldoni di tre anni a Pavia, ad Udine nel 1726, la sua attività di
coadiutore del cancelliere criminale a Chioggia nel 1728 e la sua laurea in
legge a Padova del 1731. Un capitolo è dedicato alla attività professionale a
Pisa (1744-1748) dove esercitò più nel criminale che nel civile. Il penultimo
capitolo è dedicato all’esame degli aspetti giuridici delle commedie goldoniane
specie la commedia “L’Avvocato veneziano” che costituisce una esaltazione del
foro veneto e altre note commedie. Cervolotto ritiene che Goldoni fu senza
dubbio giurista, oltre che avvocato di valore non certo mediocre o comune
evidenziando i buoni studi benché saltuari da lui compiuti e la sua conoscenza
di molte questioni giuridiche presenti nelle sue opere . Cattaneo cita anche
gli studi Gaetano Cozzi e di Gianni Zennaro Il secondo capitolo è
intitolato “Goldoni, la procedura criminale e Il problema penale” e
Cattaneo riporta un passo dei “Mémoires” di Goldoni che tratta il tema della
procedura criminale ed è commentato dal Pascolato che rileva che <<quella
procedura criminale, colla continua ricerca della verità, coll’assiduo studio
dei caratteri, lo aveva ammaliato: è una lezione interessantissima per lo
studio dell’uomo. Di verità e di caratteri Goldoni faceva allora provvisione
per i giorni, ancora lontani, della sua gloria. E intanto voleva diventare
cancelliere>> Goldoni sottolinea la presenza nel diritto
vigente di limiti posti all’inquisizione dell’imputato, a tutela di questi ma
non appaiono nelle sue opere chiari intenti riformatori della procedura criminale.
IL terzo capitolo è intitolato “L’Avvocato veneziano : Goldoni fra diritto
civile e diritto naturale” Cattaneo rileva che Goldoni stesso mette in rilevo i
due fondamentali temi della commedia : la difesa della onorabilità della
professione forense mettendo in scena la figura di un avvocato onesto ed
onorato e la contrapposizione di due sistemi giuridici e giudiziari, quello di
diritto comune e quello veneto, dando a quest’ultimo la preferenza; la
commedia come è stato evidenziato da alcuni studiosi, rompe una tradizione
letteraria e teatrale di derisione e messa in cattiva luce della figura
dell’avvocato, dell’uomo di legge che troveremo invece nella figura
completamente negativa del dottor Azzeccagarbugli ne “I Promessi sposi”
Il quarto capitolo si intitola “Il giusnaturalismo illuministico di
Goldoni: <<La Pamela>> e altre opere” Cattaneo rileva che le
radici illuministiche e giusnaturalistiche del Goldoni si manifestano in
rapporto alla procedura penale, al diritto penale, al problema delle fonti del
diritto, ai rapporti fra la funzione del giudice e le opinioni dei giuristi. Il
giusnaturalismo e l’Illuminismo di Goldoni si manifestano soprattutto nelle
opere teatrali aventi come oggetto , o come sottofondo, il tema fondamentale
della uguaglianza fra gli uomini, al di là delle differenze fra le classi
sociali. Tra le opere significative per questa prospettiva giuridica teatrali
emergono “La Pamela”, “Il Cavaliere e la Dama” , “Il Feudatario” “Le femmine
puntigliose” il dramma giocoso per musica “I portentosi effetti della Madre
Natura” e la tragicommedia (così definita dall’autore stesso) in versi “La
bella selvaggia” che trattano il contrasto tra natura e società, infine la
commedia in versi “La peruviana” che vengono esaminate negli aspetti più
essenzialmente rilevanti sotto il profilo filosofico-giuridico
dall’autore che conclude il capitolo affermando che : “Quando si
trattava dei valori supremi, come la pace, anche Goldoni sapeva essere
religioso e invocare la grazia del cielo” La seconda parte del volume è dedicata
all’analisi di Alessandro Manzoni. Il primo capitolo si intitola “Studi
su Manzoni e il diritto” e Cattaneo passa in rassegna gli studi esistenti
dedicati espressamente ed esclusivamente o all’idea di giustizia nel pensiero
di Manzoni, o agli aspetti giuridici della sua opera. L ‘autore commenta il
lungo articolo di Michele Zino del 1916 “Il diritto privato nei “ Promessi
Sposi” , esamina poi l’articolo di Alessandro Visconti “Il pensiero
storico-giuridico di Alessandro Manzoni nelle sue opere” del 1919. Il più
importante e più completo studio sul pensiero giuridico di Manzoni è il volume
di Roberto Lucifredi del 1933 “Alessandro Manzoni e il diritto” . Tale volume
si conclude con alcune considerazioni generali sulla mentalità giuridica di
Manzoni e Lucifredi ritiene che Manzoni era molto dotato per lo studio del
diritto e sarebbe divenuto un ottimo cultore delle discipline giuridiche, un
ottimo magistrato, un ottimo avvocato nel senso più nobile della parola e della
funzione. . Nel 1939 Fortunato Rizzi ha pubblicato il volume “Alessandro
Manzoni. Il Dolore e la Giustizia” di cui la terza parte è dedicata al
problema della giustizia. Nel 1942 è uscito il saggio di Enrico Opocher “ Il
problema della giustizia nei Promessi Sposi” in cui ribadisce che tutto
il capolavoro manzoniano è essenzialmente un poema sulla giustizia e conclude
affermando: ”I Promessi Sposi non costituiscono soltanto la storia attraverso
cui la Provvidenza sana le sofferenze del giusto, ma anche, e vorrei dire
soprattutto, la storia attraverso cui la Provvidenza feconda queste sofferenze,
facendone lo strumento della redenzione degli oppressori” Nel 1961 il Tanarda
ha pubblicato uno scritto “Il diritto nell’opera di Alessandro Manzoni”
in cui ribadisce che Manzoni era cresciuto in una famiglia coperta da una
grande aureola giuridica, nipote di Cesare Beccaria, familiare dei Verri, amico
di Rosmini; per lo scrittore lombardo l’uso del diritto autentico non può mai
contrastare con la morale. Concludo ricordando la strenna natalizia
dell’editore Giuffrè pubblicata in occasione del bicentenario manzoniano con il
titolo “<Se a minacciare un curato c’è penale>”Il diritto nei
Promessi Sposi” con saggi di noti docenti quali E. Opocher e S. Cotta.
(1920-2007) Il secondo capitolo si intitola “Valori morali, giustizia, diritto
naturale” Cattaneo ritiene opportuno esaminare la concezione manzoniana della
giustizia, anche nelle sue premesse teoriche sulla base sia di alcuni brani, di
pensieri inediti e di scritti di sapore filosofico. Dalla analisi di due
postille redatte da Manzoni e da un brano scritto dallo stesso Cattaneo deduce
che il grande scrittore lombardo esalta la tesi della certezza delle verità
morali, tra le quali l’idea del giusto istituendo un paragone tra verità morali
e verità matematiche. Secondo Cattaneo questo brano manzoniano è
affine alla dottrina platonica delle idee espressa nel dialogo
“Parmenide” , vi è inoltre una affinità con Kant che afferma che non è
cosa assurda pretendere di far derivare il concetto di virtù dall’esperienza, perché
ciò significherebbe fare della virtù qualcosa di ambiguo e di mutevole secondo
le circostanza. In realtà è sulla base della idea di virtù che si
giudicano gli esempi empirici di virtù e di comportamento morale.
L’Autore richiama anche la filosofia di Rosmini , il più grande filosofo
italiano dell’Ottocento , la cui filosofia si fonda sull’idea dell’essere e
cita un brano del “Nuovo saggio sull’origine delle idee” .Va anche
evidenziato che Manzoni ribadisce una sostanziale e piena identità fra morale e
religione, come si rileva dal capitolo III delle “Osservazioni sulla morale
cattolica “ dedicato alla critica della distinzione fra filosofia morale e
teologica . Cattaneo sottolinea che per Manzoni le leggi umane non raggiungono
mai la giustizia, viceversa, la religione conduce naturalmente alla giustizia,
senza ostacoli, perché si appella alla coscienza, perché porta a dare
volontariamente (in vista di un bene futuro), il che non provoca opposizioni,
ma solo ringraziamenti e benedizioni. Il capitolo terzo si intitola “Le
gride e l’illuminismo giuridico ne < I Promessi sposi>” . Cattaneo
rileva che se il problema morale e religioso della giustizia pervade tutta
l’opera di Manzoni, ed in particolare il suo celebre romanzo, Stefano Stampa,
figliastro dello scrittore lombardo, narra che Manzoni dichiarò che la prima
idea del suo romanzo gli venne dalla lettura della grida fatta vedere dal
dottor Azzeccagarbugli a Renzo, nella quale sono minacciate pene contro coloro
i quali <con tirannide> e con minacce costringono un prete a non
celebrare un matrimonio . Dall’esame dei brani di ”Fermo e Lucia” e
dei “I Promessi sposi” risulta che Manzoni muove una pesante critica al
sistema, in quei tempi diffuso, di consorterie e di caste , inoltre, descrivendo
criticamente la società e la situazione giuridica di Milano sotto la
dominazione spagnola, indica chiaramente il modo in cui le leggi penali non
dovrebbero essere e le caratteristiche che le stesse non dovrebbero avere
Il risultato pratico di quella legislazione è da un lato l’impunità del
colpevole e dall’altro la vessazione degli innocenti e dei privati indifesi da
parte dell’autorità Manzoni raccoglie l’eredità dell’Illuminismo
giuridico nella critica alla proliferazioni delle leggi e dell’incertezza
giuridica, che può sorgere sia dalla mancanza di determinazione precisa delle
fattispecie penali, sia dalla enumerazione eccessivamente prolissa dei delitti,
a questa critica è connessa la denuncia dell’arbitrio degli esecutori della
legge, che possono aumentare a capriccio le pene delle gride ed ai quali è
sottoposta ogni mossa dei cittadini Lo scrittore lombardo critica anche
la comminazione di pene sproporzionate , misura considerata ingiusta ed
inefficace per la prevenzione dei crimini , l’impunità dei colpevoli è indicata
dagli illuministi come il risultato pratico che spesso deriva dalla eccessiva
severità o crudeltà delle pene. Il quarto capitolo si
intitola “La critica dell’utilitarismo e della prevenzione sociale” .
Cattaneo sottolinea che la sfiducia di Manzoni nella giustizia penale umana si
traduce in un atteggiamento critico verso la prevenzione generale come compito
e funzione della pena, che si riscontra in numerosi passi de “I Promessi Sposi”
; l’autore cita a proposito il brano del capitolo V in cui è inserita la
conversazione alla tavola di Don Rodrigo, a cui assiste Padre Cristoforo,
relativa al tema della carestia. Il conte Attilio raccoglie la tesi che la
carestia dipenda dagli intercettatori e dai fornai che nascondono il grano e
ribadisce che bisogna impiccare senza misericordia tali delinquenti senza
processi, in tal modo il grano sarebbe saltato fuori da tutte le parti. .
Questo brano rappresenta la mentalità violenta ed aggressiva che sta alla base
della teoria della pena come <esempio>, cioè una pena esemplare
esorbitante rispetto alla effettiva colpevolezza del reo , mirata
esclusivamente a <dare un esempio> agli altri, per uno scopo sociale ed
utilitaristico; in tal modo viene peraltro giustificata la punizione
dell’innocente. In altri passi del celebre romanzo manzoniano si rileva un
atteggiamento mirato ad indicare non solo l’ingiustizia ma anche l’inefficacia
e l’inutilità della prevenzione generale, unitamene ad una condanna della
moltiplicazione dei supplizi, che finisce per favorire l’impunità, come messo n
evidenza dagli scritti di molti giuristi illuministi. Significativo è a
riguardo la conversione dell’Innominato e le ragioni per cui il potere pubblico
non intende procedere contro lo stesso per i suoi passati delitti, in al modo
viene dimostrata l’inefficacia della punizione nel caso di una persona che ha
cambiato vita perché questa potrebbe avere solo l’effetto opposto a quello
voluto Nel penultimo capitolo il commento di Manzoni sulla situazione del
bando di Renzo dal Ducato di Milano dopo le vicende della giornata di San
Martino denota la tesi dell’impunità come risultato dell’eccessiva
proliferazione di minacce legislative e del carattere esorbitante, situazione
che porta ad una frattura tra il comando legislativo e l’esecuzione della
pena. Cattaneo conclude il capitolo istituendo un parallelo sostanziale
ed oggettivo (se pure a qualcuno potrà apparire sforzato) tra Manzoni e Kant,
dato che: “la visione della morale, nonché del diritto, ed in particolare
del diritto penale è svolta in una prospettiva anti-empiristica e
ani-utilitaristica, ed è caratterizzata da un <liberalismo cristiano >,
vòlto a difendere la persona umana da ogni prevenzione collettivistica e
<sociale>” Il quinto capitolo si intitola“ La storia della Colonna
Infame” L’autore ribadisce che il motivo fondamentale della critica conto
la ragione di stato, contro l’utilitarismo sociale, contro il prevalere
dell’interesse generale e sociale sui diritti individuali sta alla base
dello scritto “Storia della Colonna Infame” del 1842 due anni dopo l’edizione
definitiva de “I Promessi Sposi”. . Di recente tale opera ha sollevato critiche
severe sotto il profilo storiografico e si è accusato il Manzoni di non essere
uno storico , ma di guardare alla storia da moralista, sul modello del
cosiddetto <astrattismo> illuministico settecentesco , e quindi di non
studiare le vicende storiche con partecipazione e simpatia ma di giudicare i
comportamenti umani secondo un codice morale superiore Tale critica è stata formalizzata
da Benedetto Croce . Dopo una lunga ed attenta analisi dello scritto e di
alcuni dei suoi maggiori studiosi Cattaneo conclude che i punti di vista in
relazione ai quali il volume manzoniano ha dato un importante contributo sono
tre: 1) Manzoni ha dato un contributo alla comprensione della storia,
affermandone la non inevitabilità e questo punto ha suscitato le maggiori
discussioni interpretative e le reazioni negative dei seguaci dello storicismo.
2) Tale scritto manzoniano, come ha sottolineato Giuseppe Rovani, <non è per
nulla inferiore alle altre opere del Manzoni , anzi rivela il suo ingegno e la
sua dottrina e la profonda sua acutezza anche nelle materie
giuridiche> Tale scritto è un’opera giuridica, è senza dubbio la più
giuridica del Manzoni. 3) Il significato più importante del libro è quello
morale, come rilevato da Tenca , Rovani e Passerin d’Entreves (1902-1985) e
consiste nella difesa del libero arbitrio , della libertà del volere e nella
rivendicazione della responsabilità morale dell’uomo. Libertà interiore
dell’uomo, responsabilità morale, dignità umana; questo è il trinomio in cui
Manzoni fonda la sua lezione morale o, come potremmo dire, la sua lezione
etico-giuridica Il sesto capitolo si intitola “Manzoni e la
criminologia” L’autore evidenzia che l’analisi della “Storia della
Colonna Infame” ha portato a mettere in rilievo l’idea del libero arbitrio
dell’uomo quale elemento centrale dell’impostazione manzoniana dei problemi
giuridico-penali, della sua condanna dell’operato dei giudici milanesi del
1630. Vi sono studiosi come Graf e Sergi che hanno creduto di vedere in
tale opera di Manzoni ed in alcune figure di criminali de “I Promessi Sposi”
dei precorrimenti delle correnti criminologiche sviluppatesi nell’ambito della
Scuola positiva di diritto penale, che, rileva Cattaneo, ha respinto l’idea del
libero arbitrio dal problema dell’imputabilità penale ed ha seguito la strada
del determinismo . L’autore esamina in particolare lo scritto di C Leggiadri
Laura “Il delinquente ne <Promessi Sposi> rivolto ad interpretare il
pensiero manzoniano in chiave naturalistico-deterministica e lo
scritto del Preve “Manzoni penalista” che segue l’interpretazione del Leggiadri
Laura e delinea nelle figure dei criminali del romanzo i tipi classificati dalla
scienza lombrosiana. Dopo un attento esame critico di numerosi passi delle
opere dei due autori prima citati e di altri studiosi Cattaneo conclude
che non ritiene valida la concezione di Manzoni come precursore del positivismo
penale e criminologico, dato che per i positivisti non è questione di giustizia
e di libertà del volere, bensì di determinismo e di difesa sociale
Il settimo si intitola “Manzoni teorico generale del diritto ?”
Secondo l’autore la forma mentis giuridica di Manzoni appare evidente anche
negli scritti storici e storico-giuridici, in particolare essa si manifesta in
modo tipico nel “Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in
Italia” oltre che nello scritto postumo sulla Rivoluzione francese.
Cattaneo mette in evidenza un aspetto meno noto che è peraltro presente nel
libro: le osservazioni concernenti il rapporto tra Romani e Longobardi e le
leggi regolanti la loro convivenza, osservazioni che sono di natura di
<<teoria generale del diritto>. Le osservazioni riguardano in
particolare la concessione data agli Italiani di vivere secondo la legge romana
che fu considerata dal Muratori <un bel tratto di clemenza, e una prova, fra
le mole, della dolcezza e saviezza dei conquistatori longobardi> Manzoni
dimostra una sensibilità moderna perché si preoccupa secondo Cattaneo di
rendersi conto di come fosse strutturato l’ordinamento giuridico sotto i
Longobardi e evidenzia la <struttura a gradi> dell’ordinamento giuridico,
per dirla come Kelsen e definisce alcune norme <leggi costituzionali>,
le leggi così designate sono le <norme di competenza> di Ross e le
<norme secondarie> di Hart , cioè le norme che conferiscono il potere di
emanare, modificare, abrogare le altre norme, concernenti direttamente il comportamento
dei cittadini. Manzoni si preoccupa di esaminare quali fossero le norme di
statuto, di competenza o secondarie, espressione del potere longobardo, le
quali regolavano la permanenza delle leggi romane, che regolavano il
comportamento dei cittadini di origine romana. L’ottavo capitola si
intitola “Manzoni e la Rivoluzione francese” Il rapporto tra Manzoni e la
Rivoluzione francese durò in varie forme per tutta la vita del letterato
lombardo. Questi visse molti anni in Francia nel periodo napoleonico, nel 1800
a 15 anni scrisse il “Trionfo della Libertà“ un poemetto di sentimenti
giacobini ed anti-monarchici con la condanna delle spietate repressioni
penali. Nel ”5 Maggio” Manzoni fornisce un giudizio equanime su Napoleone
dapprima glorioso e poi rapidamente caduto e rileva la caducità degli idoli
umani Nel dialogo “Dell’Invenzione” Manzoni esamina la figura di
Robespierre ed abbandona il cupo giudizio di <mostro> del politico
francese pur non abbandonando la tesi di una responsabilità avuta da Robespierre
nel Terrore ridimensionata dalle moderne storiografie Lo studio che
esprime nel modo più chiaro il rapporto di Manzoni con la Rivoluzione francese
è il saggio pubblicato postumo a cura di Ruggero Bonghi “La rivoluzione
francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859” I motivi su
cui si basa La critica di Manzoni alla Rivoluzione francese sono A) La
mancanza di un giusto motivo per la distruzione del governo di Luigi XVI e di
una autorità competente nei deputati del Terzo Stato che ne furono gli autori
B) Questa distruzione avvenne indirettamente ma effettivamente in conseguenza
dei loro atti C) Il nesso di queste cause con gli effetti indicati Le
riforme legittime, sentite dal popolo francese, avrebbero potuto avvenire per
vie pacifiche e legali; Manzoni peraltro non si rende conto che la sua
critica non tiene conto della situazione dell’ancien régime, in cui il potere
trovava la legittimità dal diritto divino mentre la critica da lui avanzata è
accettabile entro i presupposi giuridico-costituzionali creati dalla
Rivoluzione francese Il letterato lombardo sottolinea l’aumento del
dispotismo dal Terrore, al Direttorio, al bonapartismo come risultato
immediato degli atti iniziali della Rivoluzione francese. Trattando della
“Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo” Manzoni discute il suo rapporto
con la precedente Dichiarazione americana sottolineando le differenze. Lo
scritto di Manzoni ha senza dubbio il merito di evidenziare il contrasto fra
gli ideali e le realizzazioni pratiche della Rivoluzione francese, nella sua
critica lo scrittore lombardo critica, come in altre opere, il potere politico
umano che riveste in forme giuridiche la sostanza dell’arbitrio e della
prepotenza ed ad esso contrappone il valore assoluto dell’idea del diritto ,
che è <una verità> Tale considerazione induce Cattaneo a proporre
un altro parallelo fra la posizione di Manzoni e quelle di Kant e Robespierre.
Kant ha negato il diritto di un popolo alla rivoluzione ed ha considerato
l’esecuzione di Luigi XVI un crimine inespiabile ma nello stesso tempo è stato
un convinto sostenitore della Rivoluzione francese ; Robespierre
<rivoluzionario legalitario, giudicato non equamente dal Manzoni, fu un uomo
dal forte sentimento giuridico e , nel momento della sua caduta ,pur
proscritto e ricercato all’Hotel de la Ville, benché fosse esortato dagli amici
a redigere un appello all’insurrezione popolare esitò e si chiese <Au nom de
qui?> come è attestato dalla sorella Charlotte Nella lunga
ed articolata conclusione Cattaneo ribadisce che il pensiero giuridico di
due letterati ha numerosi elementi in comune e svolge alcune considerazioni sul
metodo seguito. L’autore evidenzia che il suo saggio ha <un taglio
diverso> dagli studi citati sull’attività forense di Goldoni , sul
significato riformatore delle sue commedie e sulle implicazioni politiche del
pensiero di Manzoni. Il punto di vista seguito nel volume dal docente è
quello della considerazione a un lato del diritto come <categoria
autonoma>, dotato delle sue specifiche caratteristiche e dall’altro del
diritto inteso come fondato filosoficamente, posto in relazione con problemi
storici, politici e sociali. Lo studio degli aspetti giuridici e dei problema
del diritto nl pensiero e nell’opera di Goldoni e Manzoni non è stato disgiunto
all’esame dei temi della riforma sociale e della riflessione politica nella
loro attività letteraria. Il punto di vista seguito sempre dall’autore ,
come da lui steso dichiarato, è stato quindi¨<quello dell’ autonomia del
diritto , ma non inteso secondo una prospettiva meramente logico-formale,
bensì basato su una fondazione filosofica, e dotato di rilevanza politica. >
. L’angolo visuale usato come punto di riferimento per i due letterati è
l’illuminismo giuridico. L’illuminismo è coevo di Goldoni, che anticipa
Rousseau nella proclamazione del principio dell’uguaglianza naturale ed è
aperto al problema della riforma sociale ,come è riconosciuto da numerosi
interpreti delle sue opere. I rapporti tra Goldoni e l’illuminismo giuridico
sono più evidenti nel passo dei “Mémoires “ sulla procedura criminale e nelle
commedie L’uomo prudente e L’Avvocato veneziano . Manzoni è posteriore
all’illuminismo ma l’autore ha cercato di indicare la presenza di una eredità
Illuministica , con riferimento ai problemi giuridici, ne “I
Promessi sposi” e nella “Storia della Colonna infame” dove peraltro sono
presenti degli elementi di superamento delle concezioni illuministiche.
Il docente ritiene di rifiutare la tesi diffusa di coloro che interpretano
Manzoni esclusivamente dall’angolo visuale della linea agostiniana-pascaliana
con venature giansenistiche negando il profondo legame con l’illuminismo, in
realtà Manzoni si dimostra erede dell’illuminismo per l’habitus mentale
razionalistico del suo pensiero, per la sua considerazione della ragione e per
la sua ricerca delle radici razionali della fede; in tal modo il grande
scrittore lombardo fa propria l’eredità migliore dell’illuminismo, il filone
etico-religioso che si contrappone al filone ateo e materialistico di
alcune correnti. Ragonese e Caretti hanno bene
sottolineato i rapporti tra Manzoni e l’illuminismo. Cattaneo conclude il
suo volume ribadendo che il motivo comune fondamentale di Goldoni e Manzoni è
il principio cristiano ed illuministico (e kantiano) della dignità umana.
In Goldoni questo principio è meno evidente ma è legato soprattutto
all’idea della comune natura umana, al di là delle differenze sociali, che
appare in numerose commedie ed opere drammatiche, in Manzoni la difesa della
dignità umana è svolta ad un livello di maggior profondità ed è connessa ad una
prospettiva religiosa come traspare chiaramente dal testo recitato dal coro de
“Il Conte di Carmagnola” Nella Appendice viene riproposto lo
studio di Alessandro Pascolato “Carlo Goldoni Avvocato” pubblicato su “Nuova
Antologia” il 15 dicembre 1883 CAPITOLO V IL VOLUME DI MARIO A
CATTANEO “SUGGESTIONI PENALISTICHE IN TESTI LETTERARI” Nel 1992
Cattaneo ha pubblicato il volume “Suggestioni penalistiche in testi
letterari”. Il libro, che è dedicato alla memoria del Prof. Renato
Treves, per molti anni ordinario di Filosofia del Diritto all’Università degli
Studi di Milano, tratta le opere di numerosi letterati. Il libro , che si
articola in 12 capitoli ed una appendice, tratta di scrittori che
nelle loro opere hanno affrontato il tema della pena o problemi di natura
giuridica. Il lavoro , rileva l’Autore, non ha avuto una genesi unitaria
Il primo saggio scritto riguardava Giuseppe Parini (1729-1799), un “poeta
civile” rappresentante di un Illuminismo cristiano ed equilibrato , è seguito
il saggio su Collodi (1826-1890), l’uomo del Risorgimento che ha combattuto a
Curtatone e che mostra nel suo aperto scetticismo nei confronti della legge e
dell’autorità costituita una opinione diffusa di molti uomini dell’Italia
post-unitaria tra cui il grande giurista liberale Francesco Carrara
(1805-1888) .Il terzo saggio è stato dedicato a Foscolo (1778 -1827) che
nello scritto < L’orazione sulla giustizia> ed altri due scritti <La
difesa del sergente Armani> ed <una lettera al “Monitore Italiano”>
tratta problemi relativi alla pena Il primo saggio del volume si intitola
“Studi Dante e il diritto penale” Lo studio riguarda il rapporto tra il
grande poeta Dante (1265-1321) ed il diritto penale. . Cattaneo rileva che gli
studi di storici e filosofi del diritto che hanno trattato il pensiero
giuridico di Dante hanno trascurato l’aspetto penalistico. Dante non si è
occupato di diritto penale ma l’analisi del suo capolavoro mostra un elaborato
sistema di rapporti tra colpa e pena. Numerosi studiosi hanno rilevato che le
pene crudeli descritte nell’Inferno del poema dantesco sono molto lontane dalle
prospettive della legislazione penale moderna anche se occorre distinguere tra
la prospettiva morale e religiosa del poema dantesco e le finalità delle
legislazioni penali attuali Dante peraltro opera una distinzione tra peccati
puniti fuori e dentro la città di Dite che può corrispondere ad una
distinzione tra peccati e delitti, il più rilevante contributo indiretto dato
da Dante al diritto penale è il criterio di graduazione delle gravità delle
colpe e le corrispondenti pene come è stato evidenziato da Giorgio Del
Vecchio. Il maggior contributo diretto di Dante alla cultura
giuridica moderna sono l’affermazione del principio di uguaglianza e di
personalità delle pene e l’affermazione della volontà del volere dell’uomo
quale presupposto della conseguente valutazione del merito o del demerito delle
sue azioni. Cattaneo conclude che :” Certamente , fare apparire Dante
come un grande giurista, un grande penalista, può risultare sforzato e
retorico,…..Ma nello stesso tempo, non è assolutamente possibile e lecito
ignorare il contributo, diretto o indiretto, che Dante ha dato anche al diritto
penale; la Divina Commedia è un costante punto di riferimento per qualunque
problema, religioso, filosofico, umano; ricordo che mio Padre diceva che
nella Commedia <<c’è tutto>>” Nella introduzione ho accennato
a due recenti approfonditi studi su Dante ed il diritto , un tema caro a molti studiosi
Il secondo saggio si intitola “Giuseppe Parini e L’Illuminismo
giuridico”. Cattaneo rileva che Parini, sacerdote non per vocazione
ma uomo profondamente credente, fu sensibile a numerosi ideali illuministici di
riforma civile ed attraverso una delle sue Odi riprende le idee
illuministiche sul diritto penale, che propugnavano il principio umanitario
della doverosità della mitigazione delle pene considerando l’inefficacia di
pene eccessive in determinati contesti sociali. Vi è dunque una continuità di
principi da Parini, cattolico ed illuminista, a Manzoni e Rosmini (1797-1855),
cattolici liberali, una continuità di principi ed ideali umanitari relativi al
problema della pena e nell’ode Il bisogno è presente una concezione penale
cristiana ed illuminista. Cattaneo conclude il suo saggio affermando che
Parini poeta civile e morale interpreta il momento migliore dell’Illuminismo e
si fa portavoce dei suoi più significativi valori . Il terzo saggio si
intitola “Ugo Foscolo e la giustizia come forza”. L’Autore rileva
che notoriamente Foscolo fu un poeta impegnato nelle vicende politiche del suo
tempo segnato dalla rivoluzione francese e dall’epopea napoleonica. Negli
scritti di natura penalistica il poeta accoglie i principi della dottrina
giuridica illuministica, come la difesa della certezza del diritto ed il
rispetto delle garanzie processuali. Foscolo inoltre critica la teoria della
retribuzione morale e quella della prevenzione generale. Il quarto capitolo è
intitolato . “Le <veglie notturne> di Bonaventura e la critica dei
giuristi” un libro tedesco poco conosciuto in Italia, opera uscita
anonima nel 1805 a Penig (Sassonia) presso il poco noto editore F Dienemann ,
che l’aveva pubblicata nel suo <Journal von neuen deutschen Original Romanen>.
Cattaneo evidenzia che nelle pagine dedicate a temi giuridici viene messo in
rilievo l’invito a rendere il diritto più umano ed a metterlo al servizio degli
uomini. La descrizione del giudice freddo paragonato ad una macchina o ad una
marionetta , il rimprovero ai giuristi che si assumono il compito di tormentare
i corpi, come i teologhi tormentano le anime, l’uccisione della giustizia da
parte dei tribunali, il richiamo al diritto naturale , che dovrebbe essere il
vero diritto positivo, la critica di una giurisprudenza svincolata dalla
morale sono chiari segnali di una aspirazione ad umanizzare il diritto,
specie quello penale. Il V capitolo è intitolato “Heinrich Heine e la
satira delle teorie della pena” L’Autore analizza il breve scritto
che Heine (1797-1856) aveva aggiunto quale appendice al suo volume “ Lutezia”,
opera scritta tra il 1840 ed il 1843. Lo scritto è dedicato al problema
della riforma delle prigioni ed alla legislazione penale e porta il titolo
<Gefaengnisreform und Strafgesetzgebung> . Il saggio, pur nella
brevità, è un esame attento delle teorie fondamentali della pena. Cattaneo
suggerisce che l’analisi critica del poeta si traduce in una satira delle
dottrine della retribuzione, dell’intimidazione e dell’emenda e coglie i punti
centrali di tali concezioni. Heine sottolinea l’ingiustizia della teoria
dell’intimidazione generale ed evidenzia il carattere patriarcale e
paternalistico delle teoria dell’emenda. Nell’esaminare il principio di una
prevenzione dei delitti commessi con mezzi diversi dalla pena, Heine ritiene
che bisogna agire con durezza , reclusione ed addirittura con la pena di morte
concepite come prospettiva di difesa sociale. Cattaneo rileva che è sempre più
chiara e più facile la parte negativa della filosofia penale , cioè la critica
delle dottrine sulle pena che la parte costruttiva cioè l’indicazione di
un fine positivo nella funzione penale. Heine critica inoltre il sistema
carcerario filadelfiano e quello auburniano Il capitolo VI è intitolato “Victor
Hugo e la pena come fonte di delitti” L’Autore rileva che il problema
giuridico penale è presente nell’opera letteraria di Hugo (1802-1885) con una
severa critica del sistema penale dell’epoca e la sua difesa della dignità
dell’uomo. Il problema emerge chiaramente nel celebre romanzo “Les
Miserables” e nel suo protagonista l’ex-forzato Jean Valjean. Il romanzo
affronta il problema di una pena sproporzionata ed inumana, che è causa di
nuovi delitti e di una spirale indefinita di reati e pene successive. Il tema è
sviluppato nella figura centrale di Valjean. Tutte le tragiche vicende
del protagonista nascono da un tentativo di furto dovuto alla miseria ed alla
fame; a causa del furto di un pezzo di pane ,che poi viene gettato via ,Valjean
è condannato a 5 anni di detenzione e, in seguito a tre successive evasioni di
breve durata, la sua detenzione dura ben 19 anni. Vi è una enorme
sproporzione tra il danno causato dal reato e la pena che trasforma ed
indurisce Valjean, la cui psicologia viene analizzata in profondità da Hugo. La
pena continua a gravare su Valjean anche dopo la liberazione per cui questi
riesce a lavorare solo per una giornata data la sua qualità di ex-forzato. Hugo
critica sia l’atteggiamento di diffida e di rifiuto di tutta la popolazione sia
la macchia di infamia stabilita dalla legge . Cattaneo rileva che è ammirabile
la battaglia combattuta da Hugo contro la pena di morte, la sua denuncia
della sproporzione tra la gravità dei delitti e le pene, la critica
dell’assurdo criterio nel valutare la recidiva. Queste battaglie sono
importanti contributi all’evoluzione del diritto penale ed alla difesa della
dignità umana. Il settimo capitolo è intitolato “Dostoevskij la
coscienza e la pena” . L’Autore evidenzia la centralità del tema del
delitto, della colpa e della pena nello scrittore russo, come è stato rilevato
nel profondo scritto di Italo Mancini , che ha evidenziato sia la validità di
una ricerca su Dostoevskij pensatore e filosofo sia che per lo scrittore
russo < la questione penale non rappresenta solo un contenuto ma il
contenuto>. Pietro Gobetti a proposito dei personaggi dello scrittore russo
ha rilevato che <I suoi personaggi non si sforzano mai di arrivare ad una
verità, ma piuttosto di chiarire e capire sé stessi>> Nel volume “I
ricordi della casa dei morti “ lo scrittore russo ricorda l’esperienza
personale della prigionia in Siberia e sottolinea chiaramente
l’incapacità del carcere di procurare l’emenda del reo dato che
Dostoevskij rileva che nel corso di parecchi anni non ha visto tra quella gente
il minimo segno di pentimento, il minimo rimorso per il delitto commesso; lo
scrittore russo indica anche nella solitudine e nella mancanza di
privatezza un elemento di particolare tormento della prigione. Il lavoro
nella prigione, rileva lo scrittore russo, non era faticoso ma era penoso
perché obbligato sotto la minaccia di un bastone. Dostoevskij evidenzia anche
l’ineguaglianza della pena per i medesimi delitti in relazione alla classe
sociale, da cui deriva l’ingiustizia e l’inefficacia della pena. Radicale è la
sua critica svolta nei confronti del regolamento carcerario e del comportamento
ottuso e crudele delle guardie carcerarie , severo è il giudizio sulla prassi
della fustigazione definita una piaga della società> Nel <L’idiota>
lo scrittore russo pone un giudizio duro e severo sulla pena di morte in
bocca al principe Miskin nelle prime pagine del romanzo. Nel brano
Dostoevskij sottolinea la svalutazione del carattere meno afflittivo della
decapitazione rispetto ai supplizi accompagnati da tormenti e la sofferenza
morale generata dalla attesa della esecuzione, che è peggiore della sofferenza
fisica. Nel romanzo “Delitto e castigo” Dostoevskij evidenzia la tesi
della necessità della pena giuridica quale espiazione della colpa e come
risultato del rimorso avvertito dal colpevole. La trama del romanzo mette
in luce la progressiva conversione, il rimorso e la ricerca di espiazione del
colpevole. Cattaneo sottolinea che il Leitmotiv del celebre romanzo è la
ricerca della espiazione sulla base di una spinta interiore e del rimorso e
che tale impostazione pone lo scrittore russo sulla linea del Platone del
Gorgia e di Boezio nel <Consolatio philosophiae>. La conclusione
giuridica processuale del romanzo rileva una sensibilità giuridica moderna che
pende in considerazione le circostanze attenuanti, le cause sociali,
psicologiche e morali del delitto ed il recupero morale e sociale del
colpevole. Il finale giuridico evidenzia la complessità del problema penale e
l’interesse di Dostoevskij , spirito umanitario e riformatore, per la
riforma del procedimento penale, d’altra parte, sul piano morale, rileva
il desiderio di espiazione che conduce all’emenda.
Dostoevskij manifesta l’atteggiamento del cristiano che si sente
corresponsabile delle colpe degli altri e riprende le parole di Cristo “Chi di
voi è senza peccato, scagli la prima pietra contro di lei” Cattaneo ribadisce
che per Dostoevskij il punto che più conta è il rimorso per la colpa commessa e
la auto-condanna da parte del delinquente . La pena giuridica non ha rilevanza,
ciò che conta è il processo di autocondanna, di espiazione e di redenzione che
avviene nella coscienza del colpevole Il capitolo VIII è intitolato
“Tolstoj e la abolizione della pena” . L’Autore ribadisce che lo scrittore
russo postula una radicale abolizione del diritto penale in una prospettiva di
amore cristiano e di non violenza. I temi giuridici vengono affrontati da
Tolstoj un due opere “Resurrezione” e la novella “Il racconto di Koni”.
Il romanzo Resurrezione è fondato su una vicenda processuale , la
condanna ad alcuni anni di deportazione in Siberia della protagonista Ekaterina
Maslova , diventata prostituta a seguito di tristi vicende. Tolstoj analizza il
processo e la successiva pena dei forzati deportati ed evidenzia che negli
istituti di pena gli uomini erano sottoposti ad ogni genere di umiliazioni
inutili, catene, teste rasate , divise infamanti per cui si inculcava l’idea
che qualsiasi violenza, crudeltà e atrocità era autorizzata dal governo per chi
si trovava in prigionia nella sventura. Lo scrittore sottolinea il distacco tra
la condanna e la concreta esecuzione della pena con le sue brutalità. In
Tolstoj il tema fondamentale è l’indicazione dell’ingiustizia dell’intero
sistema repressivo-penale e la sottolineatura delle cause sociali dei delitti
come Victor Hugo. Lo scrittore suggerisce anche la necessità di
abolire la pena e sostituirla con il perdono, un ideale sublime ma difficile da
realizzare in pratica e che indica tutta la complessità del problema, Cattaneo
si chiede se si tratta “del sogno di un visionario , una utopia generosa o di
un ideale verso cui la società deve tendere.” Il nono capitolo è
intitolato “Pinocchio e il diritto” L’Autore rileva che l’opera di Collodi
è stata oggetto di numerose indagini . Le ricerche sulla natura
pedagogica ed educativa sono state sviluppate da Bertacchini , Il testo di
Collodi è stato esaminato sotto il profilo filosofico e teologico nei due
volumi scritti da Vittorio Frosini e Giacomo Biffi . Frosini evidenzia
che: << Il mito di Pinocchio si rivela……come un mito tipicamente
risorgimentale, al tramonto di un’epoca; e anzi proprio di un
risorgimentalismo di stampo repubblicano e mazziniano>> basato su
principi di umanitarismo positivistico. Giacomo Biffi sottolinea che Pinocchio
fu scritto quando l’Italia era unita politicamente ma non era una nazione
consapevole di sé e concorde sui valori che danno senso alla vita. Il Collodi
aveva un cuore più grande delle sue persuasioni, un carisma profetico più alto
della sua militanza politica, così poté porsi in comunione forse ignara con la
fede dei suoi padri e con la vera filosofia del suo popolo. . La lettura
di Pinocchio evidenzia interessanti problemi e temi di natura giuridica e
filosofico-giuridica e lo scritto di Cattaneo evidenzia soprattutto i temi più
rilevanti dal punto di vista penalistico. Cattaneo sottolinea che Carlo
Lorenzini (1826-1890) (ovvero Carlo Collodi) era un fine umorista che
sapeva cogliere il lato ridicolo ed insieme doloroso della vita umana
(opinione espressa anche da Lina Passarella nel suo scritto prima citato su
Goldoni filosofo), e cita ad esempio l’episodio dei pareri opposti dei
medici al capezzale di Pinocchio in casa della Fata dal Corvo e dalla Civetta e
quello della condanna del burattino derubato degli zecchini dal
giudice-scimmione. Nel terzo capitolo Pinocchio scappa di casa ed è acciuffato
da un carabiniere per il naso (Cattaneo rileva in tal modo la naturale
predisposizione dei cittadini ad essere oggetto delle interferenza da parte del
potere); dopo la riconsegna di Pinocchio a Geppetto e le sue proteste il
carabiniere, a seguito dei commenti della gente, rimette in libertà il
burattino e conduce in prigione Geppetto che piange disperatamente. L’episodio mostra
un membro dell’apparato giudiziario che arresta Geppetto sulla base delle
opinioni della <voce pubblica> compiendo un atto arbitrario senza
motivazioni precise e mostra un innocente debole ed inerme che non riesce a
difendersi di fronte all’atto arbitrario del potere. Un altro episodio
interessante è narrato nel capitolo XXVII, dove si descrive la battaglia con i
libri di testo fra Pinocchio ed i suoi compagni. Un grosso volume scagliato
verso Pinocchio colpisce alla tesa un compagno che cade come morto. Tutti i
ragazzi fuggono e rimane Pinocchio a soccorrere il compagno. Arrivano due
carabinieri che ,dopo un breve colloquio, arrestano Pinocchio malgrado le sue
dichiarazioni di innocenza. Il burattino fugge inseguito dal cane Alidoro al
quale salva la vita mentre stava per annegare. Cattaneo evidenzia a riguardo
che la vittima del potere è l’innocente , l’unico trovato vicino ad Eugenio,
che viene arrestato perché le circostanze sono contro di lui La frase dei
carabinieri “Basta così” è commentata da Biffi che evidenzia che l’invito a
ragionare insospettisce spesso l’autorità, la quale è incline a tagliar corto.
In molte vicende giudiziarie si nota che una concatenazione di indizi
sfavorevoli dà l’avvio a processi indiziari seguiti da condanne di persone
innocenti. Un altro episodio clamoroso di palese ingiustizia è la vicenda
che conclude il rapporto tra Pinocchio ed il due truffatori La Volpe ed il
Gatto. Pinocchio incontra la Volpe ed il Gatto e viene convinto a
seminare i 4 zecchini d’oro nel Campo dei miracoli vicino alla città di
Acchiappacitrulli. Tale città descritta minuziosamente da Collodi è
,secondo Cattaneo, e il simbolo dell’ingiustizia e di un diritto positivo
basato sul puro potere politico; tale città esprime in modo chiaro il pericolo
del prevalere della politica sulla giustizia nella amministrazione della
giustizia, come dimostra l’episodio giudiziario che riguarda Pinocchio.
Pinocchio accortosi di essere stato derubato delle monete d’oro torna in città
e denunzia al giudice i due malandrini che lo avevano derubato, ma ,invece di
ottenere giustizia, è vittima di una tragica beffa. Il giudice scimmione,
al quale Pinocchio si era rivolto, ordina che il burattino venga
messo in prigione. L’ordine viene eseguito da due mastini che tappano la bocca
al burattino , il quale resta 4 mesi in prigione e viene liberato a seguito di
una vittoria dell’imperatore della città di Acchiappacitrulli. Per
ottenere la libertà Pinocchio dichiara al carceriere di appartenere al numero
dei malandrini e così viene salutato rispettosamente e può scappare. Cattaneo
rileva che la figura dello scimmione sottolinea la miseria della giustizia
umana ed il carattere insoddisfacente dei tribunali umani dove, come scrive
Platone, si discute sulle “ombre della giustizia” Biffi nel suo volume rileva
dapprima l’aspetto positivo della figura del giudice che è descritto come un
personaggio rispettabile, benevolo, attento al racconto del burattino,
successivamente Biffi sottolinea che la figura dello scimmione della razza dei
gorilla rappresenta la caricaturalità della giustizia terrena rispetto a quella
vera, per cui il giudice finisce con applicare la legge umana che con i
suoi meccanismi colpisce il debole anche se innocente. Cattaneo rileva che la
situazione proposta da Collodi ricorda quella descritta da Manzoni ne I
Promessi Sposi dove i violenti erano organizzati e protetti ed i deboli , non
sorretti da consorterie, erano vittime dei soprusi del potere. La
lettura di Pinocchio di Collodi ed in particolare di alcuni brani può dar luogo
a considerazioni di natura filosofico-giuridica e giuridico- penale, come
suggerisce acutamente Cattaneo nel suo volume. Merito indubbio di Collodi
è descrivere alcune situazioni caratterizzate da abuso di potere, oppressione dei
deboli e sfasamento dei corretti rapporti stabiliti dagli ordinamenti
giuridici, come del resto è stato rilevato da numerosi importanti interpreti.
E’ opportuno sottolineare che il capolavoro di Collodi, come molte altre opere
letterarie, affronta importanti problemi giuridici tra i quali va segnalata
l’importante e costante aspirazione perenne che la legge in essere non sia solo
la volontà del gruppo sociale dominante , una forma di controllo sociale, e che
inoltre l’ordinamento giuridico tuteli la dignità e le aspirazioni degli uomini
come attesta la storia del diritto. Il capitolo decimo è intitolato “Oscar
Wilde e le sofferenze del prigione” Wilde (1854-1900) in alcune sue opere
ha descritto la sua penosa esperienza carceraria ed il clima del carcere., lo scrittore
inglese fu condannato a due anni di carcere che scontò interamente.
Cattaneo evidenzia che <Wilde fu il tipico capro espiatorio dell’ipocrisia
della società vittoriana> Lo stesso letterato nel <De
Profundis>, redatto in carcere, attesta di essere passato dalla gloria
all’infamia con un mutamento dell’opinione pubblica dalla esaltazione al
disprezzo. Le osservazioni di Wilde sul problema della pena nel suo celebre
<De Profundis> e nella accorata <The Ballad of Reading Gaol> hanno
fornito un importante contributo alla battaglia per la riforma del sistema
carcerario. Il volume <De profundis> fu redatto da Wilde negli ultimi
anni carcere. L’opera è redatta sotto forma di lettera all’amico Alfred Douglas
<Bosie> e contiene molti rimproveri all’amico per i suoi atteggiamenti
durante il processo ed il successivo carcere. L’opera, dopo molte controversie,
fu pubblicata definitivamente nel 1949 dal figlio di Wilde Vyvyan Holland .
All’inizio dell’opera Wilde rimprovera l’amico Douglas e soprattutto
sé stesso e riflette sul suo stato di persona imprigionata e rovinata <a
disgraced and ruined man> lo angoscia dopo la sentenza e
l’esperienza carceraria e e. Lo scrittore inglese rileva che per chi vive in
carcere la sofferenza che lo domina è la misura stessa del tempo ed il
fondamento del proprio continuare ad esistere Wilde evidenzia che la
terribile esperienza in prigione sia stata per lui più dolorosa che per altri e
si e si lamenta per la perdita della patria potestà sui due figli e rimarca
l’ingiustizia di tale procedimento che incrina il rapporto familiare. Lo
scrittore rileva che per i poveri la prigione è un dramma che tuttavia suscita
peraltro la simpatia delle altre persone mentre per gli uomini del suo ceto la
prigione li rende dei <paria> , per cui i condannati di ceto abbiente non
hanno più diritto all’aria ed al sole ,la loro presenza infetta i piaceri degli
altri e bisogna tagliare i legami con l’esterno dato che l’onore e la
reputazione della persona condannata è leso. Wilde evidenzia anche che
molte persone ,quando escono di prigione, nascondono il fatto di essere stati
in carcere che considerano una sciagura e, rileva lo scrittore inglese,, è
orribile che la società li costringa a tale comportamento. La società ha il
diritto di punire i colpevoli ma non riesce a completare ciò che ha fatto e
lascia l’uomo al termine della pena, quando dovrebbe iniziare la
riabilitazione, sarebbe giusto invece che non ci fosse amarezza o rancore tra
le parti (colpevoli e vittime). Cattaneo evidenzia l’ipocrisia che sta dietro
l’idea della retribuzione morale e cioè che subendo la pena il colpevole
abbia pagato il suo debito verso la società, se si applicasse tale principio ,
dopo la fine della pena tutto dovrebbe cessare e non dovrebbero esservi più né
fedine penali né casellari giudiziari. Nella realtà comune resta una macchia
sulla persona che è stata in carcere, un pregiudizio che la società perpetua e
l’onta non deriva dal delitto commesso ma dalla pena scontata. La società
riconosce implicitamente l’inutilità della pena perché l’onta del colpevole
incarcerato rimane. Analizzando la vita in carcere Wilde sottolinea che le
privazioni e restrizioni del carcere rendono una persona ribelle ed impietrisce
i cuori dei condannati. L’abito dei carcerati li rende grotteschi come clowns,
oggetto di derisione e berlina della gente. Tali sofferenze ed umiliazioni dei
condannati sono contrari al principio della dignità umana che Wilde riafferma
come profonda esigenza morale della società. Lo scrittore afferma anche che tutti
i processi sono processi per la propria vita e tutte le sentenze sono sentenze
di morte; spesso anche una condanna alla prigione genera delle sofferenze che
conducono alla morte e va rilevato che Wilde stesso morì pochi anni dopo il
carcere nel 1900 in Francia . Wilde scrisse anche <The Ballad of
Reading Goal> nel 1897, l’anno del suo rilascio. in questa lunga ballata il
poeta inglese descrive le sofferenze e le crudeltà cui aveva assistito
durante la prigionia e dalle sue considerazioni sulla triste sorte dei
carcerati risulta un grande senso di pietà per i carcerati ed i condannati a
morte. La poesia è pervasa da spirito religioso e Wilde mette in confronto il
vero spirito cristiano, la pietà per i sofferenti ed i peccatori con
l’atteggiamento chiuso, duro ed indifferente delle istituzioni religiose
ufficiali e dei cappellani delle carceri . Cattaneo rileva che la tragica
esperienza personale ha portato Wilde ad affrontare il tema della riforma delle
prigioni e del sistema penale del quale si era occupato nello scritto “The soul
of man under socialism” . Dalle riflessioni dello scrittore inglese
redatte nelle opere dopo il carcere si ricava una denuncia della brutalità del
trattamento carcerario e della inumanità nell’esecuzione della pena con critiche
alla utilità sociale della stessa Il capitolo XI è intitolato
“André Gide e il non giudicare” Il problema giuridico-penale è stato
esaminato anche da un noto scrittore francese contemporaneo André Gide
(1869-1951), che lo ha affrontato in tre stimolanti scritti “Souvenir de la
Cour d’Assise” che racchiude la sua esperienza quale giurato in alcuni processi
penali del 1912, “L’affaire Redureau” e “La sequestrée de Poitiers” che poi
sono stati pubblicati insieme in una raccolta dal titolo ”Ne jugez pas”
Cattaneo rileva che di tale scritto non si sono occupati molto i critici ed i
commentatori, come sempre avviene quando si tratta di problemi giuridici in
veste letteraria . L’analisi del volume di Gide è interessante perché il libro
è molto rilevante per lo studio di rapporti tra diritto penale e
letteratura e costituisce delle precise prese di posizione dirette su temi
giuridico-penali, desunti dalla realtà della vita. Cattaneo mette in luce
l’attenzione, la precisione , la serietà e la preparazione dimostrate dallo
scrittore francese nel trattare i temi giuridici , soprattutto per la
precisione del linguaggio giuridico. Gide dimostra competenza nel trattare
problemi giuridico-penali e probabilmente “l’ indagine di certi casi criminali
lo induce all’analisi di talune zone inesplorate della psiche umana”
L’atteggiamento dominante di Gide è il “favor rei” che si
esprime in due modi o a due livelli: da un lato sul piano processuale lo
scrittore volge l’attenzione al rispetto delle garanzie dell’imputato, ad una
equilibrata ed equa conduzione dell’interrogatorio, alla escussione di tutti i
testimoni, specie quelli della difesa. Lo scrittore francese solleva
anche nei suoi scritti l’esigenza di una riforma del modo di porre le
domande ai giurati e di chiarire il loro contenuto . Gide si mostra sempre
umano e compassionevole verso i colpevoli, mostra l’esigenza che la pena sia in
generale ridotta e che si tenga conto degli elementi che valgono a titolo di
difesa, quali motivi di giustificazioni e scuse. Lo scrittore francese si
preoccupa che la pena possa causare mali peggiori e cerca di evitare risultati
negativi della stessa. Cattaneo evidenzia che in sostanza nel libro di Gide “è
primaria l’attenzione per l’uomo, la sua complessità e la sua imperscrutabilità
psicologica , che porta al dubbio e alla perplessità circa il fatto che alcuni
uomini possano giudicare altri uomini, queste pagine sono dunque dominate dal
monito evangelico, per cui particolarmente adatto risulta il titolo complessivo
della raccolta: Ne jugez pas.” Il capitolo XI è intitolato “Franz
Kafka, la legge e il totalitarismo” Cattaneo ha discusso in molte
opere il problema del totalitarismo che è stato analizzato soprattutto nel suo
volume “Terrorismo ed arbitrio Il problema giuridico del totalitarismo”
Analizzando le opere di Kafka (1883-1924) Cattaneo premette che è
particolarmente rilevante il pericolo di un forte divario fra la letteratura
critica ed interpretativa ed il testo originario dello scrittore per cui
ritiene che siano legittime molte diverse interpretazioni dell’opera di Kafka,
e molte <chiavi di lettura> . , certamente l’interpretazione più
interessante dello scrittore ceco è quella data dall’amico Max Brod, che
evidenzia la religiosità ebraica presente nelle opere di Kafka ed in questa
chiave interpreta i brani relativi al problema della legge, del processo e
della colpa. Una interpretazione giuridica delle opere di Kafka è stata
compiuta da Pernthaler .Cattaneo intende esaminare alcune opere di Kafka dalle
quali il problema della legge emerge anche dal punto di vista
filosofico-giuridico In tali opere di Kafka ricorre il tema del difficile
rapporto dell’uomo con la legge, che è interpretato in chiave religiosa o in
chiave psicologica o psicoanalitica ma che può essere analizzato anche dal
punto di vista filosofico-giuridico. Cattaneo esamina alcuni temi che emergono
da “Il Processo” dall’apologo “Vor dem gesetz”, dallo scritto ”Zur Frage
der Gesetze” e dalla novella “In der Strafkolonie” e dall’analisi complessiva
di tali opere interpreta Kafka come profeta e critico del totalitarismo che fu
instaurato in alcune nazioni dopo la sua morte, lo scrittore ceco delinea
situazioni di angoscia, di incertezza, di impossibilità di comunicazione, di
errore e di ferocia tipiche del totalitarismo . Kafka collega la burocrazia e
l’oppressione del potere sugli uomini caratteristica del nascente
totalitarismo . Pietro Citati rileva che <Nel Processo , l’immenso Dio
sconosciuto, di cui non ascoltiamo mai pronunciare il nome, ha invece una vita
così intensa e un potere così illimitato, come forse non ha ma avuto nei
tempi> L’interpretazione di Citati è più psicanalitica che religiosa ma è
priva di prospettiva giuridico-politica. Di impronta psicoanalitica è
l’interpretazione data da Sgorlon del <Processo> di Kafka ma la
prospettiva giuridico politica, trascurata da questi studiosi, è presente e
Cattaneo evidenzia che proprio nel primo capitolo, in cui è narrato
l’improvviso arresto mattutino di Joseph K esprime in modo preciso proprio la
sensazione del passaggio graduale ed insensibile dallo Stato di diritto allo
Stato totalitario .Di seguito le indicazioni che Joseph K riesce a
ricevere da parte di vari personaggi connessi al Tribunale concernenti il
meccanismo, il funzionamento, l’andamento del processo mettono in luce la
totale assenza di garanzie giuridiche e processuali, di tutela dell’imputato,
elementi che costituiscono l’esatta antitesi dello Stato di diritto Il tema
della inconoscibilità e irragiugibilità delle leggi è ripreso da Kafka nello
scritto <Zur Frage der Gesetze> In tale scritto Kafka delle <nostre
leggi> che non sono conosciute da tutti, ma sono un segreto del piccolo
gruppo della nobiltà che ci domina. Kafka dichiara di non avere in mente tanto
gli svantaggi derivanti dalle diverse possibilità di interpretazione, quando
questa è riservata ad alcuni e non all’intero popolo, questi svantaggi non sono
poi molto grandi. Le leggi sono antiche , secoli hanno lavorato alla loro
interpretazione, l’interpretazione è diventata essa stessa legge, e sussistono
sempre, benché limitate, alcune libertà di scelta dell’interpretazione Il
motivo dominane l’intero scritto è il carattere inconoscibile della legge, dato
che la legge è misteriosa e nessun membro del popolo è in grado di conoscerla
per cui è comprensibile che vi sia qualcuno che arriva a negare l’esistenza
delle leggi e riconosce peraltro il diritto all’esistenza della nobiltà
La fredda descrizione di uno strumento di supplizio , nell’ambito di un sistema
processuale completamente privo delle fondamentali garanzie è il messaggio del
racconto <In der Strafkolonie> ( Nella colonia penale) e la conclusione
della novella di Kafka riflette la logica del totalitarismo per cui quando il
viaggiatore comunica all’ufficiale di essere avversario di questo sistema
punitivo, l’ufficiale si rende conto di essere rimasto il solo difensore di
tale sistema punitivo e libera il soldato dalla macchina del supplizio, si
denuda e si pone lui stesso sul lettino al posto del condannato, la macchina del
supplizio inizia a funzionare e l’ufficiale muore senza aver capito il
senso del supplizio come ogni sistema totalitario si autodistrugge
e divora i propri figli Cattaneo cita la fucilazione dei coniugi Ceausescu nel
1989 operata nell’ambito del totalitarismo comunista. L’Appendice del
volume è intitolata “Vaclav Havel e la legge come <<alibi>> nel
sistema post-totalitario” Havel ( 1936-2011) ,noto scrittore
contemporaneo, che è stato Presidente della repubblica cecoslovacca, è autore
di numerose opere letterarie e teatrali. Cattaneo ritiene che se Kafka
rappresenta il tempo del pre-totalitarismo, Havel rappresenta il
post-totalitarismo ,al quale ha dedicato uno scritto bblicato nel 1978 che
l’autore del volume esamina nella traduzione tedesca. Havel
delinea l’opposizione al comunismo, nel suo momento post-totalitario, come
tentativo di vivere nella verità; la verità, intesa come opposizione ad un
sistema che si fonda e si regge sulla menzogna. Lo scritto ha un carattere
etico-politico ma contiene importanti pagine di natura giuridica e di critica
dell’ordinamento giuridico proprio del regime totalitario e
post-totalitario. Tale sistema politico è caratterizzato, secondo lo
scrittore ceco, come una dittatura della burocrazia politica su una società
livellata. Lo scrittore ceco elenca le caratteristiche del sistema
<post-totalitario> che lo distinguono dalla dittatura tradizionale ed
evidenzia che A) tale sistema non è delimitato territorialmente ma domina
in un ampio blocco di forze ed è retto da una superpotenza B) mentre le
dittature classiche non hanno una solida radice storica, la radice di tale
sistema dono i movimenti operai e socialisti del XIX secolo. C) Tale
sistema dispone di una ideologia strutturata ed elastica che ha i caratteri di
una religione secolarizzata ed offre una risposta ad ogni domanda dell’uomo in
una epoca di crisi delle certezze esistenziali D) Alle dittature
tradizionali spettano elementi di improvvisazione per quanto attiene alla
tecnica del potere mentre lo sviluppo di 60 anni nell’Unione sovietica e di 30
anni nei paesi dell’Est europeo ha dimostrato la creazione di un meccanismo
perfetto , che permette la manipolazione diretta ed indiretta della società. La
forza di tale sistema è incrementata dalla proprietà statuale e dalla
amministrazione centralizzata dei <mezzi di produzione> E) Nella
dittatura classica vi è una atmosfera di entusiasmo rivoluzionario, di eroismo
, di spirito di sacrificio che sono scomparsi nel blocco sovietico. Tale blocco
sovietico, che è un elemento solido del nostro mondo, è caratterizzato dalla
stessa gerarchia di valori presenti nei paesi occidentali sviluppati e
sono una forma di società consumistica ed industriale. Il sistema sopra
descritto è designato da Havel come <post-totalitario> perché è un
sistema totalitario con caratteristiche diverse dalle dittature classiche e ,
rispetto al totalitarismo classico, è caratterizzato da una misura più
attenuata di terrore ed arbitrio Havel considera il sistema
post-totalitario come caratterizzato dalla menzogna, ciò è un effetto del
dominio della ideologia; gli uomini non devono credere alle mistificazioni
totalitarie ma tollerarle in silenzio ed accetta, ciò è un vivere nella
menzogna e lo scrittore insiste sul valore e sul significato morale
ed esistenziale della dissidenza. Per quanto riguarda l’ordinamento giuridico
nel sistema post-totalitario lo scrittore rileva che tale sistema
sente la necessità di regolare tutto con una rete di prescrizioni, norme,
istituzioni e regolamenti per cui gli uomini sono delle piccole viti di un
meccanismo gigantesco. Le professioni, le abitazioni ed i movimenti dei
cittadini e le sue manifestazioni sociali e culturali sono controllate, ogni
deviazione viene considerata un passo falso ed una manifestazione di egoismo ed
anarchia. Havel rileva che non bisogna prendere alla lettera l’ordinamento
giuridico e ciò che conta è< come è la vita> e se le leggi servono alla
vita o la opprimono ¸la battaglia per la <legalità> deve vedere questa
<legalità> sullo sfondo della vita come è realmente. Analizzando il
rapporto tra la società post-totalitaria e la moderna civiltà tecnologica, con
riferimento anche agli scritti di Heidegger, Havel rileva che il sistema
post-totalitario è solo un aspetto della generale incapacità dell’uomo
contemporaneo di divenire <padrone della propria situazione> e la
prospettiva giusta è quella di una <rivoluzione esistenziale>
generalmente comprensiva L’aspetto più interessane di Havel è la
delineazione dei caratteri del sistema post-totalitario come fenomeno sorto
dall’incontro della dittatura con la società industriale e consumistica.
Per quanto riguarda i problemi giuridici, Cattaneo rileva che Havel sottolinea
il significato autentico del diritto, che deve avere coscienza dei propri
limiti naturali, il diritto ha un significato esteriore, deve difendere alcune
esigenze minime (tutela della convivenza civile dalla violenza e dalle
invasioni nei diritti altrui ma non deve pretendere di adempiere a compiti per
cui non è adatto - In tal modo , sottolinea Cattaneo, il letterato ceco
riprende la migliore lezione del liberalismo classico per cui il diritto non è
al servizio del potere , ma può essere un valore solo in quanto esso sia un
mezzo di difesa e la garanzia della libertà e della dignità dell’uomo
Il grande insegnamento del letterato Havel è la tutela del valore più
calpestato dal totalitarismo , la dignità umana che è lo scopo fondamentale ed
essenziale del diritto, dato che diritto e libertà sono collegati ed il
diritto ha valore se garantisce e protegge la libertà. Grice: “Cattaneo’s
philosophical background is much stronger than Hart’s! Hart always doubted his
philosophical abilities – as he kept comparing himself to me! When Cattaneo was
at St. Antony’s, Hart found that he had to play brilliant, since a
‘continental’ was watching! Cattaneo is especially good in the study of
Roman-Italian giurisprudenza, from Cicero, Goldoni, Carrrara, and Manzoni,
onwards! They don’t need no stinking Hart!” -- M. A. Cattaneo. Mario A. Cattaneo.
Mario Alessandro Cattaneo. Mario Cattaneo. Keywords: eidolon, autorita,
autoritarismo, positivismo di H. L. A. Hart, il concetto della legge, filosofia
del linguaggio ordinario, scuola oxoniense di filosofia del linguaggio
ordinario, il gruppo di giocco di Austin, il primo o vecchio gruppo di giocco
di Austin al All Souls, giovedi notte; il nuovo gruppo di giocco di Austin
sabato alla mattina. Hart, Hampshire, Grice. Grice, neo-Trasimaco, giustizia,
fairness, valore legale, valore morale, le legge e la morale, priorita della
moralita sulla legalita, concetti di priorita, priorita evaluativa,
neo-trasimaco, neo-socrate, platonismo giuridico, positivismo pre-Kelsen:
hobbes, bentham, autin. I giuristi italiani. Storia della giurisprudenza
italiana. Goldoni, Carrara, Manzoni, Collodi, Lorenzini, Pinocchio, Foscolo,
Perini, Beccaria, Colonna infame, letteratura italiana, fizione italiana, prosa
italiana, giurisprudenza italiana, avvocatura ed implicatura. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cattaneo” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51772445997/in/dateposted-public/
Grice e Catucci – l’altro – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Grice. Filosofo. “I love Catucci – Ogden and
Richards, whom I’ve read profusely, expand on Husserl – and Catucci is “our man
in Husserlian phenomenology of intersubjectivity!” – Grice: “As a typical
Itaian philosopher, viz. eclectic, he has philosophised on Luckacs, and Foucault,
too!” -- Grice: “Catucci’s approach to
Lukacks is via ‘poverty,’ which has little to do with my idea that the poorer
the semantics the richer the pragmatics: ‘His semantics was poor, but it was
honest!”. Altre opere: “La filosofia critica di Husserl, Milano, Guerini &
Associati); Beethoven Opera Omnia. Le Opere. Fabbri Classica); Bach e la musica
barocca, Roma, La Biblioteca); Introduzione a Foucault, Bari-Roma, Laterza); La
storia della musica, Roma, La Biblioteca); Spazi e maschere, Roma, (a cura di,
con Umberto Cao), Meltemi Editore); Per una filosofia povera, Torino, Bollati
Boringhieri); Imparare dalla Luna, Macerata, Quodlibet. Si laurea a Roma sotto Garroni. Studia a Bologna. Legge Tugendhat e
Tertulian. Insegna a Camerino e Roma. Pubblica il saggio La filosofia critica
di Husserl (ed. Guerini e Associati) la cui preparazione ha richiesto un
periodo di ricerca presso lo "Husserl-Archief” di Leuven, in Belgio. Il
lavoro sui manoscritti di Husserl lo ha portato alla pubblicazione di diversi
saggi di carattere fenomenologico, tra cui “Le cose stesse”; “Note su
un’autocritica trascendentale della fenomenologia di Husserl”, basato
sull’analisi di testi husserliani inediti. Pubblicato per Laterza un saggio su
Foucault. Quindi è stata la volta del saggio “Per una filosofia povera”, uno
studio ad ampio spettro sulla filosofia italiana nella Grande Guerra (ed.
Bollati Boringhieri). Ha inoltre collaborato alla stesura del Dizionario di
Estetica curato per Laterza da Gianni Carchia e Paolo D'Angelo. Ha numerosi
saggi su Foucault (La linea del crimine) sull’estetica, sull’architettura e
sulla musica, in particolare musicisti come Wagner e Stockhausen. Potere e
visbilità (ed. Quodlibet). La sua ricerca Imparare dalla Luna (ed. Quodlibet)
ha ottenuto ampia risonanza anche al di là del campo degli studi filosofici,
portandolo fra l’altro a tenere conferenze al Festival delle Scienze di Roma,
al Festival Wired di Milano, e al
Congresso Nazionale della Società Italiana di Fisica. Membro della Società Italiana
di Estetica. Coordina “I Concerti del Quirinale”. “Tutto Wagner”. Collabora
regolarmente con l’Accademia Nazionale di S. Cecilia, Orchestra Sinfonica
Nazionale della Rai, Teatro dell’Opera di Roma, Teatro Regio di Torino,
Festival Mi-To Settembre Musica) e ha organizzato manifestazioni di tipo
filosofico-musicale per la Biennale Musica di Venezia e per il Festival Play.it
di Firenze, L'arte è un progetto? Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo
book: Estetica Elementare - L'esperienza del coro fra etica e tecnica Catucci,
Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Insieme. Canto, relazione e musica
in gruppo - La storia dell'estetica come critica e come filosofia Catucci,
Stefano - 01a Articolo in rivista paper: AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale
studi di estetica) - Di cosa parliamo quando parliamo di teoria Catucci,
Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Cinque temi del moderno contemporaneo.
Memoria, natura, energia, comunicazione, catastrofe - Bellezza Catucci, Stefano
- 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Parole del XXI secolo - - Il
Kitsch: ieri, oggi, domani Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book:
Riga - Aesthetics and Architecture Facing a Changing Society Catucci, Stefano -
01a Articolo in rivista paper: International Yearbook of Aesthetics (JP
Službeni glasnik, ) Introduzione a Foucault. Nuova edizione riveduta e ampliata
Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico Imparare dalla Luna.
Nuova edizione riveduta e ampliata Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato
Scientifico Il corpo e le forme.
Note sul discorso spirituale nella filosofia e nell'arte Catucci, Stefano - 02a
Capitolo o Articolo book: Della materia spirituale dell'arte - On the spiritual
matter of art - - Perché gli artisti nei luoghi del disastro Catucci, Stefano -
02a Capitolo o Articolo book: Terre in movimento - The Prison Beyond its
Theory. Between Michel Foucault's Militancy and Thought Catucci, Stefano - 02a
Capitolo o Articolo book: Prison Architecture and Humans - Postfazione Catucci,
Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Qualcosa sull'architettura. Figure e
pensieri nella composizione - Prefazione. Vite di architetture infami Catucci,
Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Incompiute, o dei ruderi della
contemporaneità - Potere e visibilità. Studi su Michel Foucault Catucci,
Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico Prefazione a L. Romagni,
Strutture della composizione Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione
book: Strutture della composizione. Architettura e musica - - Presentazione.
Leo Popper: l'etica e le forme Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista
paper: AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi di estetica) L'angelo
della matematica Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La vetrata
artistica della Scuola di Matematica. Disegno di Gio Ponti per Luigi Fontana -
A roadmap toward the development of Sapienza Smart Campus Pagliaro, Francesca;
Mattoni, Benedetta; Gugliermetti, Franco; Bisegna, Fabio; Azzaro, Bartolomeo;
Tomei, Francesco; Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume conference:
16th International Conference on Environment and Electrical Engineering, EEEIC
2016 (Florence Italy) book: EEEIC 2016 - International Conference on
Environment and Electrical Engineering - Luce, Illuminazione, Illuminismo
Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: I percorsi dell'immaginazione.
Studi in onore di Pietro Montani - L'opera d'arte e la sua ombra Catucci,
Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: L'estetica e le arti. Studi in onore di
Giuseppe Di Giacomo - (La linea del crimine. Michel Foucault e la vita degli
uomini infami Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: AGALMA (-Roma:
Meltemi -Roma : Castelvecchi, = Materia primordiale e Growing Design Catucci,
Stefano; Lucibello, Sabrina - 01a Articolo in rivista paper: ANANKE (Firenze :
Alinea, Preliminari a un'estetica della plastica Catucci, Stefano - 02a
Capitolo o Articolo book: Plastic Days. Materiali e Design / Materials &
Design - Antropomorfismo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Wikitecnica - Arte Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Wikitecnica - Einfühlung Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - Movimento Catucci, Stefano - 02d
Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - (Sovrastruttura Catucci,
Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica -
Strutturalismo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Wikitecnica Il nome del presente. The name of the present Catucci, Stefano -
01a Articolo in rivista paper: DOMUS (Rozzano Milan Italy: Editoriale Domus)
Imparare dalla Luna Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico book:
Imparare dalla Luna - Filosofia dell'eccedenza sensibile Catucci, Stefano - 02a
Capitolo o Articolo book: Vice Versa - La Gaia estetica Catucci, Stefano - 02a
Capitolo o Articolo book: Costellazioni estetiche: dalla storia alla
neoestetica. Studi offerti in onore di Luigi Russo - - Conversazione con
Stefano Catucci Gregory, Paola; Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo
book: Progetto e Rifiuti. Design and Waste. No-Waste - La contingenza
impossibile: note su alcuni modelli espositivi dell'opera d'arte. Catucci,
Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Il museo contemporaneo. Storie,
esperienze, competenze - Metamorfosi : un'architettura dopo il postmoderno
Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Autocostruzioni. O degli
ultimi spazi del progetto - - Mission to Mars- Catucci, Stefano - 01a Articolo
in rivista paper: HORTUS (Roma: Facoltà di Architettura "Valle
Giulia" , universita' la "Sapienza" Direttore -Necessity and
Beauty Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Parks and territory:
new perspective in planning and organization -
Eyes Wide Shut. Architecture without Philosophy Catucci, Stefano - 04b
Atto di convegno in volume conference: The Signifiance of Philosophy in
Archtectural Education (Patrasso - Grecia - Dipartimento di Architettura
dell'Università di Patrasso) book: The Signifiance of Philosophy in
Archtectural Education - Estetica della speranza Catucci, Stefano - 02c
Prefazione/Postfazione book: Teoria critica del desiderio - "Reimparare a
sognare". Note su sogno, immaginazione e politica in Michel Foucault
Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La coscienza e il sogno. A
partire da Paul Valéry -Visione e dispersione. La regia architettonica di Luigi
Moretti Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume conference: Luigi
Moretti architetto del Novecento (Facoltà di Architettura, Università di Roma
"Sapienza") book: Luigi Moretti architetto del Novecento - Critica
del contesto Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: PIANO PROGETTO
CITTÀ (-Avezzano (AQ) : LISt- Laboratorio Internazionale di Strategie
editoriali, 2010 -Avezzano (AQ): Ed'A- Editoriale d'Architettura -Pescara: Sala
Editore Pescara Pescara : Clua, 1984-) Essere giusti con Marx Catucci, Stefano
- 02a Capitolo o Articolo book: Foucault-Marx: paralleli e paradossi - La terza
dimensione Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: VEDUTE
(Roma-Macerata : Quodlibet, «Eine eigene fremde Welt»: le utopie terrestri di
Karlheinz Stockhausen Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: ATENEO
VENETO (Ateneo Veneto:Campo S. Fantin Venice Italy: "Des moustiques domestiques”:
Notes on the Tautology of Visual Writing Catucci, Stefano - 04b Atto di
convegno in volume book: Beyond Media: Visions, catalogo della 9. Edizione
dell’International Festival for Architecture and Media - Prolegomeni a
un'architettura della relazione Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo
book: L'esplosione urbana - I generi musicali: una problematizzazione Catucci,
Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: (Enciclopedia Treccani
Terzo Millennio), vol. II, Comunicare e rappresentare - Senso e progetto. Il
contributo dell’estetica Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Il
progetto di architettura come sintesi di discipline - Il progetto di
architettura come sintesi di discipline Catucci, Stefano; Strappa, Giuseppe -
03a Saggio, Trattato Scientifico Il lavoro della dispersione Catucci,
Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: L’idea e la differenza. Noi e gli
altri, ipotesi di inclusione nel dibattito contemporaneo. - Introduzione a
Foucault Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico Tutto quello
che "la musica può fare". Conversazione con Francesco e Max Gazzè.
Magrelli, Valerio; Moretti, Giampiero; Piperno, Franco; Giuriati, Giovanni;
Catucci, Stefano; Scognamiglio, Renata; Caputo, Simone - 02a Capitolo o
Articolo book: Parlare di musica
Costruire, abitare, patire Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo
book: Arte, Scienza, Tecnica del Costruire - Elogio del parlare obliquo: la
musica classica alla radio Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book:
Parlare di musica - La proprietà intellettuale come problema estetico Catucci,
Stefano - 01a Articolo in rivista paper: FORME DI VITA (Roma : DeriveApprodi)
L’architettura al tempo di Nikolaj Rostov Catucci, Stefano - 01a Articolo in
rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa
& Nolan, - Per una critica delle narrazioni urbane Catucci, Stefano - 01a
Articolo in rivista paper: PARAMETRO (Faenza Italy: Gruppo Editoriale Faenza
Editrice) Michel Foucault filosofo dell’urbanismo Catucci, Stefano - 02a
Capitolo o Articolo book: Lo sguardo di Foucault - La cura di scrivere Catucci,
Stefano - 04b Atto di convegno in volume book: Dopo Foucault. Genealogie del
postmoderno -La via dialogica dell’arte: i nuovi linguaggi urbani Catucci,
Stefano - 04a Atto di comunicazione a congresso conference: Nel convivio delle
differenze. Il dialogo nelle società del terzo millennio (Roma - Pontificia
Università Urbaniana) book: Nel convivio delle differenze. Il dialogo nelle
società del terzo millennio, a cura di E. Scognamiglio e A. Trevisiol -
Spartacus : i dilemmi della libertà Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo
book: Una strana rivista : «Gomorra» Dizionario di Estetica Catucci, Stefano -
02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Il colosso
senza immaginazione Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book:
Osservatorio Nomade: immaginare Corviale. Pratiche ed estetiche per la città
contemporanea Il visibile e l’invisibile. Riflessioni sul potere in Michel
Foucault Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Conoscenza e potere.
Le illusioni della trasparenza - Un passato che non passa. Bachelard e la fine
dell’abitare Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Simbolo,
metafora, esistenza. Saggi in onore di Mario Trevi - Corridoi Transeuropei
Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001
Roma : Castelvecchi Milano : Costa & Nolan, La “natura” della natura umana
Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Della Natura Umana. Invariante
biologico e potere politico. - Estetica e Architettura Catucci, Stefano - 02a
Capitolo o Articolo book: Contaminazioni culturali. Materiali di studio del
Dottorato di Ricerca in Riqualificazione e Recupero Insediativo - ( Criticare
l’estetica per criticare il presente Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista
paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa &
Nolan, Le Corbusier a Pessac: un paradigma moderno Catucci, Stefano - 01a
Articolo in rivista paper: SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM
DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CAMERINO) Michel Foucault: dalla novità storica
all’estetica dell’esistenza Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper:
FORME DI VITA (Roma : DeriveApprodi La pensée picturale Catucci, Stefano - 04b
Atto di convegno in volume conference: Colloque de Cerisy - Michel Foucault: La
littérature et les arts (Cerisy - Francia) book: Michel Foucault, la
littérature, les arts - Attraverso Velázquez: Foucault, Las Meninas, la
filosofia Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Il classico violato.
Per un museo letterario del ‘900 - Tre versioni del misurare Catucci, Stefano -
01a Articolo in rivista paper: SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM
DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CAMERINO) Per una filosofia povera: la Grande
Guerra, l'esperienza, il senso ; a partire da Lukács Catucci, Stefano - 03a
Saggio, Trattato Scientifico book: Per una filosofia povera: la Grande Guerra,
l'esperienza, il senso ; a partire da Lukács - L'angelo dei rifiuti Catucci,
Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma :
Castelvecchi Milano : Costa & Nolan, Estetica dell'abitare Catucci, Stefano
- 02a Capitolo o Articolo book: La nuova Estetica italiana - Spazi e maschere
Catucci, Stefano - 06a Curatela Ambiguità Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica Poetica Catucci, Stefano -
02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
Architettura, teorie della Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Censura Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Distruzione delle opere
d'arte Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario
di Estetica - Fenomenologica, estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Fisiognomica Catucci,
Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
Fotografia, teorie della Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Dizionario di Estetica - - Kitsch Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Marxista, estetica
Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di
Estetica - Musica, teorie della Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Opera d'arte Catucci,
Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
Originalità Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - Particolarità Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Realismo Catucci,
Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - -
Retorica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - Rispecchiamento Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Ritmo Catucci, Stefano -
02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - -
Scientifica, estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Sociologia dell'arte Catucci, Stefano - 02d Voce
di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Storicità Catucci,
Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
Struttura Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - Strutturalista, estetica Catucci, Stefano - 02d Voce
di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Terapie artistiche
Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di
Estetica - Tipico Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - - Autenticità Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Oggetto estetico
Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di
Estetica - - Estetica e politica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Dizionario di Estetica - Fra tempo
e spazio: rassegna sul vuoto in musica Catucci, Stefano - 01a Articolo in
rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa
& Nolan, 1998-) - Estetica della censura Catucci, Stefano - 02a Capitolo o
Articolo book: La cortina invisibile - (888744501X) 11573/166387 - 1997 -
Figures de l’art, figures de la vie. Une idée de philosophie chez le jeune
Lukács Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Life - L'etica e le forme
Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Scritti di estetica - - Saggi
di Estetica Catucci, Stefano - 06a Curatela - Gli animali di Céline
Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: RIVISTA DI ESTETICA
(Rosenberg & Sellier:via Andrea Doria 14, I 10123 Turin Italy::
tina.cesaro@rosenbergesellier.it, Dall’estetica all’ontologia. Lukács lettore
della «Critica del Giudizio» Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book:
Senso e storia dell'estetica - La filosofia critica di Husserl Catucci, Stefano
- 03a Saggio, Trattato Scientifico book: La filosofia critica di Husserl - La
fenomenologia negli Stati Uniti: metodo e fondazione Catucci, Stefano - 02a
Capitolo o Articolo book: Specchi americani. La filosofia europea nel Nuovo
Mondo - La fenomenologia come teoria estetica. Note in margine a: Recensione a
F. Fellmann, Phänomenologie als ästhetische Theorie Catucci, Stefano - 01a
Articolo in rivista paper: STUDI DI ESTETICA (Sesto San Giovanni MI: Mimesis,
2014- Bologna: CLUEB) Stefano Catucci. Catucci. Keywords: la via
conversazionale, l’originarieta della conversazione; estetica della
conversazione, filosofia dell’eccedenza sensibilie, rispecchiamento, parlare
obliquo, Lukacks, filosofia povera, filosofia ricca, Husserl, Husserl-Archief,
Leuven, Belgio, “la cosa stessa”, “la linea del crimine”, potere, la luna,
musica, estetica della musica, estetica dell’archittetura, critica
fenomenologia, Foucault. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catucci” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Cavalcanti – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “I like
Cavalcanti; he thinks he is an Aristotelian, but he is surely Platonic –
therefore, obsessed with ‘eros,’ or ‘amore,’ as the Italians call it – Like
Alighieri’s, his philosophy of ‘eros’ is confused, but interesting!” Come del
corpo fu bello e leggiadro, come di sangue gentilissimo, così ne’ suo fiosofare
non so che più degli altri bello, gentile e peregrino rassembra, e
nell’invenzione acutissimo, magnifico, ammirabile, gravissimo nelle sentenze,
copioso e rilevato nell’ordine, composto, saggio e avveduto, le quali tutte sue
beate virtù d'un vago, dolce stile, come di preziosa veste, sono adorne.
Lorenzo il Magnifico, Opere). Alighieri e Virgilio incontrano all'Inferno.
Ritratto di Cavalcanti, in Rime. Figlio di Cavalcante dei Cavalcanti, nacque in
una nobile famiglia guelfa di parte bianca, che ha la sua villa vicina a
Orsanmichele e che e tra le più potenti della regione. Il padre fu mandato in
esilio in seguito alla sconfitta di Montaperti. In seguito alla disfatta dei
ghibellini nella battaglia di Benevento, padre e figlio riacquistarono la
preminente posizione sociale a Firenze. A lui e promessa in sposa la figlia di
Farinata degli Uberti, capo della fazione ghibellina, dalla quale Guido ha i
figli Andrea e Tancia. E tra i firmatari della pace tra guelfi e ghibellini nel
Consiglio generale al Comune di Firenze insieme a Latini e Compagni. A questo
punto avrebbe intrapreso un pellegrinaggio -- alquanto misterioso, se si
considera la sua infamia di ateo e miscredente! Muscia, comunque, ne dà
un'importante testimonianza attraverso un sonetto. Alighieri, priore di
Firenze, fu costretto a mandare in esilio l'amico, nonché maestro, con i capi
delle fazioni bianca e nera in seguito a nuovi scontri. Si reca allora a
Sarzana. “Perch'i' no spero di tornar giammai” e composto durante l'esilio. La
condanna e revocata per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute. Muore a
causa della malaria contratta durante l'esilio forzato d’Alighieri.È ricordato
oltre che per i suoi componimentiper essere stato citato da Dante (del quale fu
amico assieme a Gianni) nel celebre nono sonetto delle Rime Guido, i' vorrei
che tu e Lapo ed io (al quale Guido rispose con un altro, mirabile, ancorché
meno conosciuto, sonetto, che ben esprime l'intenso e difficile rapporto tra i
due amici, “S’io fosse quelli che d'amor fu degno”. Alighieri, remmorso, lo
ricorda anche nella Divina Commedia (Inferno, canto X e Purgatorio, canto XI) e
nel De vulgari eloquentia, mentre Boccaccio lo cita nel Commento alla Divina
Commedia e in una novella del Decameron. La sua personalità,
aristocraticamente sdegnosa, emerge dal ricordo che ne hanno lasciato gli
filosofi contemporanei, Compagni, Villani, Boccaccio e Sacchetti. Il gentile figlio
di Cavalcante Cavalcanti, nobile cavaliere e cortese e ardito, ma sdegnoso e
solitario, e intento alla filosofia. La sua personalità è paragonabile a quella
di Alighieri, con la importante differenza del carattere laico. Noto per
il suo ateismo, Alighieri l’incontra nell’Inferno (Inf. X, 63). Boccaccio
(Decameron VI, 9: si dice tralla gente volgare che questa sua speculazione
filosofica sull’amore e solo in cercare se puo trovarse che Iddio non e.
Villani (De civitatis Florentie famosis civibus). La sua eterodossia è stata
tra l'altro rilevata nella grande canzone dottrinale o manifesto “Me prega” --
certamente il testo più arduo e impegnato, anche sul piano filosofico -- di
tutta la poesia stilnovistica, in cui s i rinvenge il carattere di correnti
radicali dell'aristotelismo. Famoso e significativo l'episodio narrato dal
Boccaccio di una specie di scherzoso assalto al filosofo da parte di due
fiorentini a cavallo, di cui schivava la compagnia. L’episodio e ripreso da
Italo Calvino in una lezione in cui il filosofo con l'agile salto da lui
compiuto, diventa un emblema della leggerezza. L'episodio figura anche
nell'omonimo testo di France ne "Santa Chiara" dove, peraltro, i
fatti risalienti della sua vita vengono riportati sotto una veste quasi
mistica. La opera di Cavalcanti consta di cinquantadue componimenti, di
cui due canzoni, undici ballate, trentasei sonetti, un mottetto e due frammenti
composti da una stanza ciascuno. Le forme maggiormente utilizzate sono la
ballata ed il sonetto, seguite dalla canzone. La ballata appare congeniale alla
sua poetica, poiché incarna la musicalità sfumata e il lessico delicato, che si
risolvono poi in una costruzione armoniosa. Peculiare di Cavalcanti è, nei
sonetti, la presenza di rime retrogradate nelle terzine. Temi Quadro di
Johann Heinrich Füssli. Teodoro incontra nella foresta lo spettro del suo
antenato Guido Cavalcanti. I temi della sua opera sono quelli cari al
stilnovista; in particolare la sua canzone manifesto “Me prega” è incentrata
sull’effetto prodotti dall'amato sull’amante. La concezione filosofica su cui
si basa è l'aristotelismo radicale che sostene l’eternità e l'incorruttibilità
dell'anima separata dal corpo e l'anima sensitiva come entelechia o perfezione
del corpo. Va da sé che, avendo le varie parti dell'anima funzioni differenti,
solo collaborando esse potevano raggiungere il sinolo, l’armonia perfetta –
anima/corpo entelechia. Si deduce che, quando l'amore colpisce l’anima, la
squarcia a e la devasta, compromettendo il sinolo e ne risente molto l’anima
inferiore vegetativa – L’amante non mangia o non dorme). Da qui la sofferenza
dell'animo che, destatasi per questa rottura del sinolo, rimane impotente
spettatore della devastazione. È così che l'amante giunge alla morte. L’amato,
avvolto come da un alone mistico, rimane così irraggiungibile. Il dramma si
consuma nell'animo dell'amante. Questa complessissima concezione
filosofica permea la poesia ma senza comprometterne la raffinatezza o
superfizialita letteraria. Uno dei temi fondamentali è l'incontro dell’amante e
l’amato che conduce sempre, ed al contrario che in Guinizzelli, al dolore,
all'angoscia kierkegaardiana, e al desiderio di morire. La opera dell’amore di
Cavalcanti possiede un accento di vivo dolore riferio spesso al corpo
dell’amante. Cavalcanti e un fine filosofo – scrive Boccaccio: lo
miglior loico che il mondo avesse -- ma non ci resta nulla di sue saggistica
filosofica, ammesso che ne abbia effettivamente scritte. Il poetare di
Cavalcanti, dal ritmo soave e leggero è di una grande sapienza retorica.
I versi di Cavalcanti possiedono una fluidità melodica, che nasce dal ritmo
degli accenti, dai tratti fonici del lessico impiegato, dall'assenza di
spezzettature, pause, inversioni sintattiche. Cavalcanti: la poetica e lo
Stilnovo, L’amico di Dante” (Roma-Bari: Laterza). “Species
intelligibilis”, Cavalcanti laico e le origini della poesia italiana,
Alessandria: Edizioni dell'Orso); Cavalcanti auctoritas”; Cavalcanti laico; La
felicità: Nuove prospettive per Cavalcanti (Torino, Einaudi); Cavalcanti
(Torino, Einaudi); Cavalcanti: poesia e filosofia, Alessandria, Edizioni
Dell'Orso); Cavalcanti: uno studio sul lessico lirico, Roma, Nuova Cultura);
Per altezza d'ingegno: saggio su Cavalcanti, Napoli, Liguori); L'ombra di
Cavalcanti; Roma, L'Asino d'Oro, . Guido Cavalcanti, Rime, Firenze, presso
Niccolò Carli). Dizionario biografico degli italiani; Il controverso
pellegrinaggio Cavalcanti”; “La Divina Commedia. Inferno, Mondadori, Milano);
La società letteraria italiana. Dalla Magna Curia al primo Novecento. La fama
o, meglio, l’habitus di filosofo Cavalcanti lo deve essenzialmente ad una sua
poesia: la canzone celeberrima e alquanto complessa, sia per la metrica che per
i contenuti, Donna me prega. In essa il poeta parlerà di “amore” con gli strumenti
della filosofia naturale (“natural dimostramento”), conducendo un’analisi
razionale volta a spiegarne la natura e le cause. Una prima importante
informazione circa l’essere dell’amore Cavalcanti ce l’ha già fornita
nell’incipit della canzone: egli, infatti, ci ha detto che l’amore è un
accidente e che, di conseguenza, non è una sostanza. Questa definizione,
tuttavia, ha un significato tecnico preciso, che il poeta mutua dalla filosofia
di Aristotele. Occorre, pertanto, fare una premessa. La sostanza, secondo il
grande filosofo greco, è ciò che ha vita propria, ciò che cioè esiste
autonomamente, mentre gli accidenti esistono solo come qualità di essa; in
altre parole, l’accidente si aggiunge alla sostanza esprimendone una
caratteristica casuale o fortuita. Ad esempio, un certo uomo è una sostanza,
mentre l’insieme delle qualità che esso può avere (alto, basso, pallido,
paonazzo, ecc…) sono gli accidenti. Tornando dunque a Cavalcanti, egli afferma
che l’amore non è una sostanza poiché non possiede un’esistenza autonoma come,
ad esempio, gli uomini (l’amore, infatti, non ha né corpo né figura); esso
esiste piuttosto come qualità della sostanza, ovvero come sentimento (qualità)
dell’uomo (sostanza). Innanzitutto, Cavalcanti ci dice che l’amore si insedia
nella memoria. Anche qui, però, occorre richiamare per sommi capi la psicologia
di Aristotele, poiché essa è indispensabile per intendere i versi del poeta.
Nel De anima, Aristotele definisce l’anima forma del corpo; egli, tuttavia, per
forma non intende l’aspetto esteriore di una cosa, ma la sua natura propria, la
struttura che rende quella tale cosa ciò che è. L’anima, dunque, vivifica e dà
al corpo la sua struttura essenziale. Essa, inoltre, secondo Aristotele, pur
essendo unica, può essere divisa, a seconda delle funzioni che svolge, in tre
parti: anima vegetativa, anima sensitiva e anima intellettiva. La prima
riguarda le funzioni vitali minime (come, ad esempio, la nutrizione e la
riproduzione) degli esseri viventi a cominciare dalle piante; la seconda,
invece, comprende i sensi e il movimento ed è propria solamente degli animali e
dell’uomo; la terza, infine, riguarda il pensiero, le funzioni intellettuali,
ed propria solo dell’uomo. La memoria, per Aristotele e, quindi, anche per
Cavalcanti, appartiene all’anima sensitiva; essa, cioè, è un prolungamento o
estensione della sensazione. In altre parole, l’anima sensitiva non solo
permette all’uomo di vedere, sentire, gustare gli altri corpi, ma gli permette
anche di avere di questi ultimi delle immagini. La passione amorosa, dunque, è
creata da una sensazione: il diletto per la vista della donna fa si che
l’immagine di essa si imprima nella memoria; l’amore è il nome che si dà ad una
operazione dell’anima sensitiva, poiché ad essa, come abbiamo visto, appartengono
sia la funzione della vista che quella della memoria. Il poeta, tuttavia, ci
dice che questa immagine trova “loco e dimoranza” anche nell’intelletto
possibile. Che cosa intende con questi versi? Bisogna ritornare brevemente alla
psicologia aristotelica. Abbiamo visto che l’anima, a seconda delle sue
funzioni, può essere vegetativa, sensitiva e intellettiva. L’ultima delle tre
riguarda il pensiero, le operazioni intellettuali proprie dell’uomo. Secondo
Aristotele, dopo che un oggetto è stato percepito dai sensi e che l’immagine di
esso si è impressa nella memoria, esso viene pensato dall’intelletto. In che
modo? Una parte dell’anima sensitiva, che egli chiama intelletto possibile,
riceve l’immagine dell’oggetto percepito dai sensi grazie all’azione di
un’altra componente della stessa anima, che egli chiama intelletto agente. Per
fare un esempio, si potrebbero paragonare l’intelletto possibile ad un quaderno
ancora intonso e l’intelletto agente all’azione dello scrivere. Dunque, mentre
i sensi producono nella memoria l’immagine della donna, l’intelletto agente
imprime nell’intelletto possibile la forma astratta di questa immagine.
Ricapitolando, nell’anima sensitiva si sviluppa la passione amorosa attraverso
la vista della donna e la memoria della sua immagine, mentre niente di tutto
questo avviene nell’anima intellettiva, la quale ha dell’amata soltanto un
concetto astratto e disincarnato. L’amore non è una virtù morale (queste,
infatti, sono un prodotto della ragione, dell’anima intellettiva), ma è una
virtù sensibile, appartiene all’anima sensitiva. Cavalcanti ci dice che non
l’anima intellettiva, ma bensì l’anima sensitiva è perfezione dell’uomo, poiché
essa attua tutte le potenzialità insite nell’individuo umano. Il poeta,
infatti, seguendo l’interpretazione che di Aristotele aveva dato il filosofo
arabo Averroè, ritiene che esista un unico intelletto sempre in atto ed eterno
separato dagli uomini, con il quale le facoltà superiori dell’anima sensitiva
di ciascun essere umano entrano in contatto ogni qual volta si sviluppa il
pensiero. In altre parole, egli, affermando l’esistenza di un intelletto unico
ed eterno, separa l’anima intellettiva, unica ed eterna, dalle anime sensitive
concrete e mortali di ciascun uomo. Questa complessa psicologia che Cavalcanti
mutua da Averroè è la base del suo celebre pessimismo amoroso. La passione
amorosa ottunde la capacità di giudizio poiché l’immagine della donna amata,
ormai insediata nella memoria e desiderata dai sensi, determina il netto
prevalere dell’anima sensitiva su quella intellettiva. Questo non vuol dire,
però, che l’amore ottenebra l’intelletto; come abbiamo poc’anzi visto, infatti,
le facoltà intellettuali sviluppano la conoscenza, non il desiderio; inoltre,
il poeta, seguendo Averroè, ha appena sostenuto che l’anima intellettiva è
separata dalle anime sensitive degli uomini. Quello che Cavalcanti intende,
dunque, è questo: la passione amorosa, “se forte”, impedisce all’uomo, dominato
totalmente dai bisogni dell’anima sensitiva, di stabilire un contatto con
l’intelletto e quindi di avere raziocinio. In questo senso egli parla
dell’amore come di un vizio, che porta chi ne è colpito a non saper più
distinguere il bene dal male (“discerne male”). Ciononostante, Cavalcanti ci
dice che l’amore non è cosa contraria alla natura (“non perché oppost’a
naturale sia”); anzi, al pari degli altri bisogni naturali, la passione amorosa
sviluppa una potenzialità propria dell’anima sensitiva e, pertanto, rinunciarvi
sarebbe deleterio e controproducente. Come interpretare questa affermazione
apparentemente contraddittoria? È necessario, anche in questo caso, richiamare
Aristotele. Nell’Etica Nicomachea, il filosofo greco afferma che ognuno è
felice quando realizza bene il proprio compito (ad esempio, il costruttore sarà
felice quando realizzerà oggetti perfetti). Il compito dell’uomo, però, non
potrà certo essere quello di assecondare l’anima vegetativa o quella sensitiva;
egli dovrà piuttosto vivere secondo ragione; pertanto, secondo il filosofo
greco, la felicità per l’uomo consiste nell’attività razionale, nella vita
secondo ragione. Cavalcanti, dunque, seguendo Aristotele, ci dice che l’amore è
deleterio e mortale solo quando ci allontana violentemente da questo tipo di
vita; poiché una vita vissuta in preda ai bisogni a agli istinti dell’anima
sensitiva è una non-vita, più adatta agli animali che agli uomini. Viceversa,
l’amore che riesce ad essere temperante, e che cioè non allontana l’uomo dalla
vita razionale, è espressione di un naturale bisogno della nostra sensualità.
Guido Cavalcanti. Keywords: lo sviluppo della teoria dell’amore in Aristotele –
amore e morte, amore e anima vegetativa (l’amante non mangia, l’amante non
dorme) – l’animo e il corpo come entelechia, sinolo perfetto – l’amore come
incontro disastroso di due entellechie. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cavalcanti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691357581/in/photolist-2mN8u25-2mKMHH8-2mPV6V9-2mKHtgX-2mKBEmt
Grice e Cavallo – elettrico – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Napoli). Grice: “I love Cavallo, and so did most of
the members of the Royal Society!” Grice: “Cavallo wasn’t strictly onto
mythology, but the Italians on the whole are: the Elettridi are a couple of
islands off the mouth of the shore where Fetonte fell – due to … electricity,
as Cavallo called it – Cavallo is what at Oxford we would call a ‘natural
philosoophy’ – for which there was once a chair – it’s very odd that it’s the
chair in transnatural or ‘metaphysical’ philosophy that still sub-sists, as
Heidegger would put it! By using ‘elettricita’ in the feminine abstract,
Strawson criticsed Cavallo – but Strawson criticised most!” -- Autore di
trattati di elettricità, magnetismo ed elettricità medicale, compe anche studi
relativi ai gas e all'influenza dell'aria e della luce sulla biologia. Propone
numerosi apparecchi elettrostatici di misura e di ricerca. Intue la possibilità
di volare utilizzando palloni aerostatici. Costrue il primo elettroscopio.
Altre opere: TreccaniEnciclopedie. Figlio di un
medico. Si dedica alla filosofia e al commercio a giudicare da alcuni suoi
studi. Si ritaglia un posto di rilievo come ideatore di esperimenti, inventore
e realizzatore di strumenti di precisione e di apparati sperimentali, anche su
commessa, e autore di trattati sistematici molto valutati per chiarezza,
sistematicità e completezza. Si lo ricorda in particolare per i suoi
studi di aeronautica, legati alla possibilità di usare l’idrogeno come gas
portante. E il primo a effettuare esperimenti sistematici sulle capacità
ascensionali dell’idrogeno, gas che era stato scoperto quindici anni prima da
Cavendish. Inizia con bolle di sapone riempite d’idrogeno, e che per questo
salivano in verticale. Prova poi con involucri di carta, che però si rivelano
inadatti perché permeabili al gas, e infine con vesciche di animali, troppo
pesanti per sollevarsi ma in grado di far misurare una riduzione del peso. Non
riusce a trovare un involucro abbastanza leggero da sollevarsi una volta
riempito di gas. Cavallo, Tiberio. - Fisico (Napoli 1749 - Londra 1809);
recatosi per commercio in Inghilterra nel 1771, ivi si dedicò a ricerche di
fisica e di chimica. Già nel 1777 aveva intuito la possibilità del volo per via
aerostatica, mediante un pallone ripieno di gas leggero; eseguì in proposito
una serie di ingegnose esperienze servendosi di bolle di sapone gonfiate con
idrogeno. Deve considerarsi il vero inventore dell'elettroscopio. Fisico e filosofo naturale italiano. I suoi interessi
includeno l’elettricità , lo sviluppo di strumenti scientifici, la natura delle
"arie" e il volo in mongolfiera. Membro della Royal Academy of
Sciences di Napoli. Presenta tredici volte di seguito la Lezione Bakeriana della
Royal Society di Londra. Nacque a Napoli, Italia, dove suo padre era un medico.
Apporta diversi ingegnosi miglioramenti agli strumenti scientifici. È spesso
citato come l'inventore del “moltiplicatore di Cavallo”. Sviluppa anche un "elettrometro
tascabile" che usa per amplificare piccole cariche elettriche per renderle
osservabili e misurabili con un elettroscopio. Parti dello strumento e protetto
dalle correnti d'aria da un involucro di vetro. Lavorato alla refrigerazione. In
seguito al lavoro di Cullen e Black, fu il primo a condurre esperimenti
sistematici sulla refrigerazione utilizzando l'evaporazione di liquidi
volatile. Si interessa alle proprietà fisiche delle "arie" o dei gas
e condusse esperimenti sull '"aria infiammabile" (idrogeno gassoso).
Nel suo “Trattato sulla natura e le proprietà dell'aria” fece "un esame
giudizioso del lavoro contemporaneo", discutendo sia la teoria del “flogisto”
(citado da Grice in “Actions and events”) di Priestley che le opinioni
contrastanti di Lavoisier. Alla Royal Society venne letto un articolo che
descrive il primo tentativo di sollevare in aria un palloncino pieno di
idrogeno. La sua “Storia e pratica dell'aerostazione” e considerata "una
delle prime e migliori opere sull'aerostazione pubblicate nel diciottesimo
secolo". In esso, discute sia i recenti esperimenti in mongolfiera, sia i
suoi principi fondamentali. Si rivolge a un pubblico più generale in questo
lavoro, evitando il gergo tecnico e le prove matematiche, ed era un efficace
comunicatore scientifico sia per i suoi colleghi che per il pubblico in
generale. Influenza i pionieri dell'aerostato Charles, i fratelli Blanchard .
Storia e pratica dell'aerostazione , Tiberio Cavallo. La piastra I, che
illustra l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per la generazione di
idrogeno La piastra II, che illustra l'apparato chimico e i palloncini
utilizzati per la generazione di idrogeno Cavallo pubblicò anche sul
temperamento musicale nel suo trattato “Del temperamento di quegli strumenti
musicali, in cui sono fissati i toni, le chiavi o i tasti, come nel
clavicembalo, nell'organo, nella chitarra, ecc . Il memoriale di Burdett
Coutts, Old St. Pancras. Il nome di Cavallo è verso il basso, ma mancano le
lettere B e C. Secondo quanto riferito, fu sepolto nel cimitero di Old St. Pancras
in una volta vicino a quella di Paoli. La tomba è perduta ma è elencato nel
memoriale di Burdett Coutts alle molte persone importanti sepolte in
essa. Altre opere: Pubblica numerosi lavori su diversi rami della fisic ,
tra cui: “Trattato completo di elettricità in teoria e pratica” (Firenze:
Gaetano Cambiagi); “Teoria e pratica dell'elettricità medica”; “Trattato sulla
natura e le proprietà dell'aria e di altri fluidi permanentemente elastici”; “Trattato
completo sull'elettricità in teoria e pratica”; “Storia e pratica
dell'aerostazione”; “Trattato sul magnetismo”; “Proprietà mediche dell'aria
fittizia”; “Elementi di filosofia naturale e sperimentale”. Per la Cyclopædia
di Rees ha contribuito con articoli su Elettricità, Macchinari e Meccanica, ma
gli argomenti non sono noti. Un resoconto di alcuni nuovi esperimenti elettrici
del Sig. Tiberio Cavallo comunicato dal Sig. Henley, FRS, Transazioni
filosofiche della Royal Society di Londra. TRATTATO COMPLETO D'ELETTRICITÀ
TEORICA E PRATICA CON SPERIMENTI ORIGINALI DEL SIGNORE TIBERIO CAVALLO TRADOTTO
IN ITALIANO DALL'ORIGINALE INGLESE Con addizioni e cangiamenti fatti dall'
Autore , 9 FIRENZE MDCCLXXIX . PER GAETANO CAMBIAGI STAMP. GRANDUCALE CON
LICENZA DE SU PÈRIORI. 1 ' A SUA ALTEZZA I OR D NASSAU CLAVERING PRINCIPE E
CONTE DICO W P E R PRINCIPE DEL S. ROM. IMP. E PARI DELLA GRAN BRETTAGNA ec .
AVoi folo Altezza e non ad altri dovea dedicarſi queſta verſione dall'origi
nale ingleſe che ha l'onore di IV di renderſi pubblica colle preſenti ſtampe e
di compa rire ſotto il Voſtro autore vole patrocinio . Ella è d'uno della
Voſtra Nazione , è ſtata intrapreſa per Voſtro comando , fatta ſotto i
Voſtriocchi, e quafi tutti gli addotti ſperimenti reiterati nel Voſtro copioſo
ed elegante Gabinetto, che avete voluto rendere quaſi pubblico a comune vantag
gio di chi brama profittare delle ſcoperte fiſiche ſperi mentali . Proſeguite
come fate in que queſta Voſtra generoſa in trapreſa ; mentre ſotto i Vo ftri
fortunatiſſimiauſpicjcol più profondo riſpetto mi glorio di poter paſſare a di
chiararmi DI VOSTRA ALTEZZA Di Caſa 26. Marzo 1779. Umiliſſimo Servo > IL
TRADUTTORE VII A VV 1 SO DEL TRADUTTORE. " Mi ſarei facilmente
diſpenſato dal fare veruno avviſo a queſt' opera ſe non mi foffi creduto in
dovere di rendere in teſo l'Autore della medeſima , della ſtampa che meditavo
fare della preſente verſione , anco per ſentire da ello ſe avea niente da
aggiugnere o mutare al ſuo lavoro. Avendogli dunque ſcritto il Sig . Ma gellan
alle richieſte d'un mio amico ſu queſto propoſito, gradì molto queſta parte , e
traſmeſſe alcune addizioni e cambiamenti che deſiderava che foſſerofatti, come
èſtato eſeguito , accompagnati con una corteſe let tera del tenore ſeguente .
Signore . Incluſa in queſta Ella riceverà una nota di alcune poche addizioni e
cam bia 1 a 4 VIII A V VISO biamenti che bramerei foſſero inſeriti nella
traduzione del mio Trattato ſull'E . lettricità . La prego fare intendere al
Traduttore e al di Lei corriſpondente che ſono loro molto obbligato per aver mi
dato parte di queſta intrapreſa , e che ſon pronto a ſervirgli in quel poco che
poſſo . Nov. 30. 1778. Suo Tiberio Cavallo , Sig. Magellan Nevils Court Ferter
Lane . 1 NEL TRATTATO DI CAVALLO SULL' ELETTRICITA' . Pag. 2.8 . v. 6. In vece
di è quaſi tutte le dure pietre prezioſe ſi legga ad alcune altre dure pietre
prezioſe . Pag. 40. Il paragrafo che comincia fiz nalmente concluderemo e
finiſce da un corpo ad un' altro ſi dee totalinente omertere . Pag. DEL
TRADUTTORE } Pag. 99. Il paragrafo che comincia Le caufe e gli effetti ſono
così intimamente, e termina nella pag. 100. colle parole cer tezza epreciſione
fi dee omettere affatto . Pag. 137. Alla nota in cui ſi deſcrive l’Amalgama ſi
poſſono aggiungere i fe guenti verſi : Il Dott. Higgins ha ultima mente
inventato un Amalgama che è molto preferibile a quello di ſtagno , perchè una
piccoliffima quantità di effo non solo fa agire il vetro più potentemente , ma
dura anco più lungo tempo ſullo ſtrofinatore che quello di fagno. Queſt'
amalgama è fatto d'un feſto di zinco e cinque ſefti di mer . curio meſcolati
inſieme. Pag. 279. v. 12. Si dice non ſarà at tratta del ec. ma più toſto
recederà dal punto ſpecialmente ſe l' ago ſi preſenti velociſſimamente verſo
ilmedeſimo: Ora leparole di queſto paſſocheſono interpun tate deono ometterſi ,
cioè dee dir così , non ſarà attratta dal medefino. a 5 Pag. X À VVISO 1 Pag.
335.v.8 . Tra le parole poichè e l'e lettricità ſi dee aggiugnere in parità di
circoſtanze . Pag. 393. v. ult. cioè della nota In ve ce di Vol. XLVIII. e
LXVII. ſi legga Vol. LIV. e LXVII. Del reſto polo aſſicurare il mio Lettore che
la maggior parte degli ſperimenti in queſto Trattato riferiti ſono ſtati
ripetuti Sotto i miei occhi nel ricco e ſcelto Gabi netto di S. A. il Sig.
PRINCIPE COWPER che ne ha dato tutto il comodo, ed ha colla sua autorità
promoſſo queſto lavoro . In tanto vivi felice , e godi di queſta fatica . 1 . 1
i r 1 PRE 2 XI PREFAZIONE DELL'AUTORE. HL diſegno di queſto Trattato è di pre
ſentare al pubblico un proſpetto che comprenda lo ſtato preſente dell'elettri
cità ridotto in quei limiti più riſtretti che la natura della ſcienza può
tollerare . Eſſo è diviſo in quattro parti, in ciaſcuna delle quali ſono
contenute certe particolarità che avevano anche minor conneſſione col
rimanente, e la cui diſtinta veduta ſi è creduto , che poteſſe eſſere un mezzo
da impedire la confuſione dell' idee nella mente di quei lettori che non fi
erano prima refa molto familiare queſta materia . La prima parte tratta
ſolamente delle leggi dell'elettricità ; cioè di quelle leggi naturali relative
all' elettricità che per mezzo d' innumerabili ſperimenti ſi ſono tro ) 1 XII
PREFAZIONE il trovate coſtantemente vere , e che non dipendono da veruna
ipoteſi. In queſta parte l'autore non è diſceſo a veruna par ticolarità , la
quale non foſſe chiaramente ſicura , o la quale foſſe di poca conſeguen za ; ma
nel tempo medeſimo ha procu rato di non omettere coſa alcuna impor tante , o
che ſembraſſe promettere ulte riori: ſcoperte La ſeconda parte è meramente
ipote tica , non per rapporto ai fatti, ma in ri guardo all opinioni. La grande
improba bilità della maggior parte di queſte ipo teſi ha deterininato l'autore
a renderla più breve che foſſe poſſibile . La parte terza contiene la pratica
dell' elettricità . Qui l'autore ha procurato d'in ferire una deſcrizione di
tutti i nuovi mi glioramenti fatti nell'apparato , i quali nel tempo medeſimo
ſervono a minorare la fpefa , e a facilitare l'eſecuzione degli eſperimenti. In
riguardo agli eſperimenti mede 1 DELL' AUTORÉ . XIII medeſimi , egli ha principalmente
inſiſtito ſu quei pochi primari che gli ſon parſi i più neceſſari a illuſtrare
e confermare le leggi dell'elettricità , omettendo un gran numero d'altri che
ha trovato non eflere altro che i primi in qualche coſa va rjati . Egli niente
di meno ha dato un rag guaglio di alcuni altri che quantunque non affolutamente
neceſſari, gli parvero però meritare che ſene defle notizia . La quarta ed
ultima parte contiene un breve ragguaglio dei principali ſperi menti eſeguiti
dall'autore medeſimo in conſeguenza di quanto gli è accaduto nel corſo dei ſuoi
ſtudj in queſta parte di fi loſofia . Quì egli ha laſciato di far men zione non
ſolo di quei tentativi che non hanno prodotto verun conſiderabile effet to ,
maancora d'innumerabili congetture che ha formato intorno a' medeſimi , e
intorno ad altri non ancora ridotti alla ſicurezza dell'attuale oſſervazione .
L'au XIV PREPAZIONE · L'autore prende queſt' opportunità di dimoſtrare la ſua
riconoſcenza a varj ſuoi ingegnoſi amici per diverſe eſperienze comunicategli ,
e particolarmente al Sig. Guglielmo Henly il quale ha fatto quel che per lui ſi
poteva per informarlo di ciaſcuna particolarità che ha creduto po teſſe
arricchire e abbellire l'opera . Non è ſembrato neceffario il nominare quei
ſoggetti, le di cui eſperienze e of fervazioni recate in queſt' opera erano
avanti ben cognite al mondo ; per lo che l'autore ſi è riſtretto a far menzione
di quelle perſone le cui eſperienze erano nuo ve , o non comunemente note agli
ſcrit tori di queſta materia . Per rendere il trattato più intelligibile ed
utile ſono ſtate aggiunte tre tavole in rame, e un copioſo indice delle materie
che meritano maggiore attenzione . Neroduzione pag. 1 . PARTE PRIMA.. Leggi
fondamentali dell'elettricità . II . CA P. I. Contenente la spiegazione d '
alcuni termi ni che fono principalmente uſati nelle lettricità CA P. II. Degli
elettrici , e dei conduttori .... 15 . CA P. III. Delle due elettricità 24 CA
P. IV . Dei differenti metodi di eccitare gli elet trici . Dell elettricità
comunicata 48. CA P. VI. Dell' elettricità comunicata agli elettri ci . 63 . CA
P. VII. Degli elettrici caricati , ovvero della Boc cia di Leida ' . 71 . CA P.
VIII. Dell elettricità atmosferica go. CA P. IX. Vantaggi derivati dall
elettricità ....96 . CA P. X. Che contiene un proſpetto compendioſo del le
proprietà principali dell elettrici tà . 119. PAR 4 XVII 1 PARTE SECONDA.
Teoria dell'elettricità , CA P. I. Ipoteſi dell' elettricità poſitiva , e
negati Va 126. CA P. II. Della natura del fluido elettrico 136 . CA P. III.
Della natura degli elettrici , e dei con duttori... 149 CA P. IV . Del luogo
occupato dal fluido elettrico . 153 . PARTE TERZA. Elettricità pratica . CA P.
J. Dell'apparato elettrico in generale . 101 . CA P. II. Deſcrizione d' alcune
particolari macchine elettriche 387 . CAP. XVIIL ze... CA P. III.
Deſcrizioneparticolare di alcune altreparti neceſſarie dell'apparato elettrico
. 200. CA P. IV. Regole pratiche riguardanti l'uſo dell' ap parato elettrico ,
ed il fare l'eſperien 216. CA P. V. Sperimenti relativi all'attrazione , e re
pulſione elettrica 226. CA P. VI. . . Sperimenti ſulla luce elettrica ... 262
CA P. VII . Sperimenti colla bottiglia di Leida . 289. CA P. VIII. Sperimenti
con altri elettrici caricati. 3 34 . CA P. IX . Sperimenti ſull' influenza
delle punte , e ſull' utilità dei conduttori metallici ap puntati per difendere
gli edifizj dagli effetti del fulmine 345 CAP. 1 1 1 1 XIX са CA P. X.
Elettricità medica .... .. 364 CA P. XI. Sperimenti fatti con la batteria
elettri 369. CA P. XII. Sperimenti promiſcui 384. CA P. XIII. Ulteriori
proprietà della boccia di Leida ovvero degli elettrici caricati. 409. PARTE
QUARTA. Nuovi ſperimenti dell' elettricità .. 413. CA P. I. . Coſtruzione dell'
aquilone elettrico , e di altri ſtrumenti uſati con ello 421 . CA P. II.
Sperimenti fatti con l' aquilone elettri 435. co CAP. XX CA P. III. . .
Sperimenti fatti coll.elettrometro atmosfe rico , e coll' elettrometro per la
prog gia . 405. CA P. IV. Sperimenti fatti coll' elettroforo comune mente
chiamato macchina per eſibire l'elettricità perpetua · 474 CA P. V. Sperimenti
ſu i colori . 487 CA P. VI. Sperimenti promiſcui 494 . Indice 505. . . . . . .
IN 1 INTRODUZIONE L E arti e le ſcienze a guiſa dei re gni e delle nazioni,
anno cia ſcuna alcuni fortunati periodi di gloria e di fplendore, in cui eſſe
mag giormente attirano l'umana attenzione , e fpandendo una luce più viva che
in qualunque altro tempo divengono l'oga getto favorito e la moda del ſecolo ;
ma queſti periodi terminan preſto , e pochi anni di luſtro e di fama reſtano
ſpetto oſcurati da interi ſecoli d'oblivione . Da queſto faro infelice per
altro alcune ſcien ze ſono riſervate ed elenti , le quali in grazia della vaſta
e neceſſaria eilenſione del loro uſo e delle fruttuole produzioni che da loro ſi
ricavano , ſono ſempre flo ride ; e ſebbene una volta ſiano ſtate in А CO
INTRODUZIONE cognite , pure quando la fama ne ha fatto riionare il lor
naſcimento o pubblicato i loro progreſli , giammai dopo declina no , e benchè
divenute languenti per l'età in verun tempo periſcono . Di queſto ge nere è
l’Elettricità la più dilettevole e la più ſorprendente tra tutte le parti della
Filoſofia naturale , che mai ſia ſtata coltivata dall'uomo . Queſta ſcienza
dopo aver fatto conocere l'eſtenſione e la ge neralità della ſua forza , dopo
che ſi è conoſciuto eſſer uno dei più grandi agenti della natura , è ſtata
ſempre in voga , è ſtata col maſſimo profitto coltivata , e ſenza interruzione
alcuna ha fatto tali progreſſi , che ora è ridotta a uno ſtato in cui in vece di
divenire ſterile , ſembra ulteriormente impegnare la generale at tenzione e
ripromettere ai ſuoi ſeguaci le più degne e le più vaſte ricompenſe. Gli Ottici
è vero , moſtrano molte in cantatrici ed utili proprietà , ma ſempre relative
alla ſola viſione : il Magnetiſmo rappreſenta la forza d'attrazione , re
pultione , e direzione verſo le parti po lari di quella ſoſtanza che ſi chiama
ca lamita ; la Chimica tratta delle varie compoſizioni e riſoluzionidei corpi :
ma l ' Elettricità contenendo per così dire tutte queſte coſe dentro di ſe ſola
eſibiſce gli effetti di molte ſcienze , combina in ſieme le diverſe energie e
ferendo i ſenſi in una particolare e forprendente manie ra , dà piacere ed è di
grand'uſo all'igno rante ugualmente che al Filoſofo , all' opulento ugualmente
che al povero . Nell' Elettricità ci divertiamo contem plando la ſua penetrante
luce rappreſen tata in innumerabili diverſe forme, am. miriamo la ſua
attrazione e repulſione che agiſce ſopra ciaſcun genere di corpi , reſtiamo
ſorpreſi dall'urto , atterriti dall' eſploſione e forza della ſua batteria ; ma
quando la conſideriamo ed eſaminiamo A 2 , CO 4 INTRODUZIONE come cauſa del
tuono , del fulmine , dell' aurora boreale , e di altri fenomeni na turali , i
cui terribili effetti poliamo in parte imitare , ſpiegare , ed anche allon
tanare , allora sì che reſtiamo attoniti per la maraviglia , la quale non ci
per mette di contemplare altro che l'ineſpri mibile e permanente idea
dell'aminira zione e della ſorpreſa . Il più remoto rag guaglio a noi cognito ,
che abbiamo di qualche effetto elettrico eſiſte nell ' opere del famoſo antico
naturaliſta Teofraſto che fiori circa trecento anni avanti Cri ſto . Ei ci dice
che l'ambra il cui nome greco è nextpor , e da cui il nome d'E lettricità è
derivato , come pure il Lin curio ( 1 ) poſſiede la qualità di attrarre i corpi
leggieri . Queſto ſolamente era tutto cio ( 1 ) E ftato in qualche maniera
provato cbe il Lin curio di Teofraſto è la medeſima ſoſtanza che va ſotto il
nome di Turmalina, di cui avremo occae fione di parlare nel corſo di queſto
trattato . 1 INTRODUZIONE 5 ciò che ſi conoſceva ſu tal ſoggetto per circa 19.
ſecoli dopo Teofraſto , nel qual lungo periodo non troviamo nell'iſtoria fatta
menzione di alcuna perſona che abbia fatto veruna ſcoperta , e ne pure
ſperimento alcuno in queſta parte di Filoſofia , eſſendo rimaſta queſta ſcienza
affatto nell'oſcurità fino al tempo di Guglielmo Gilbert medico Ingleſe , che
viveva ful principio del decimo fertimo ſecolo ; ed il quale a cagione delle ſue
ſcoperte in queſto nuovo e inculto cam po può giuſtamente chiamarſi il padre
della preſente Elettricità . Offerva egli che la proprietà d'attrarre i corpi
leg gieri dopo la confricazione non è una proprietà particolare dell'ambra o
del Lincurio , ma che molti altri corpi la poſſeggono egualmente . Rammenta un
gran numero di queſti e nel medeſimo tempo varie particolarità , che conſide
rando lo ſtato della ſcienza in quel ſe colo poſſono ſembrare veramente grandi
ed intereſſanti. Dopo Gilbert la ſcienza avanzando benchè con piccoli progrefli
, paſsò per così dire dall'infanzia alla puerilità , a vendo intrapreſo alcuni
eccellenti filo ſofi ad eſaminare la natura in queſte ope razioni . Tale fu
Franceſco Bacone , Ro berto Boyle , Ottone Guericke , Iſacco Newton , e più di
tutti il Sig. Hawkesbee ſoggetto a cui ſiamo molto obbligati per alcune
importanti ſcoperte e per il reale avanzamento dell'Elettricità . Il Sig.
Hawkesbee fu il primo che oſſervò la gran forza elettrica del vetro , ſoſtanza
che fin da quel tempo fu generalmente uſata da tutti gli elettriciſti in
preferenza di qualunque altro elettrico . Egli fu il primo che notaſie le varie
apparenze della luce elettrica e il fragore accom pagnato con eſſa , inſieme
con una varietà di fenomeni relativi all'attrazione e ri pulſione elettrica .
Do INTRODUZIONE 7 Dopo il Sig. Hawkesbee la ſcienza dell' elettricità per
quanto fin lì foſſe avanzata , rimaſe quaſi per venti anni in uno ſtato di
quiete , eſſendo l'attenzione dei Filoſofi in quel tempo occupata in altri
filoſofici ſoggetti, i quali in riguardo alle nuove ſcoperte dell'incomparabile
Iſacco Newton erano allora grandemen. te in reputazione . Il Sig . Grey fu il
pri-, mo dopo queſto periodo d' oblivione a portar la ſcienza di nuovo alla
luce del mondo . Egli mediante le gran ſcoperte che fece la inſinuò di nuovo
alla cogni zion dei Filoſofi e da lui ſi può dire che prenda la ſua data la
vera e florida epoca dell' Elettricità . Il numero degli elettriciſti che ſi è
giornalmente moltiplicato dal tempo del Sig . Grey , le ſcoperte fatte , e gli
uſi che ne ſon derivati fino al tempo preſente , fono materia realmente degna
d'atten zione e meritano l'ammirazione di qua lun 1 1 8 INTRODUZIONE 1 lunqne
amatore delle ſcienze ed amico dell'uman genere . Chiunque vuole informarſi dei
parti colari progrelli fatti in queſta ſcienza , legga l'elaborata iſtoria
dell'Elettricità compilata dall'eccellente D: Prieſtley , opera che lo può
informare di tutto ciò che è ſtato fatto in rapporto a queſto ſoggetto fino
alla ſua pubblicazione . Io per me mi diſpenſerò dal farre un lungo dettaglio
iſtorico ; queſto trattato eſſendo diretto a dare un ragguaglio dello ſtato
preſente dell'Elettricità , e non a for marne un'iſtoria . Soltanto oſſerverò
in generale , che quantunque la ſcienza ab bia , mediante l'indefella
attenzione di molti ingegnoſi foggetti , e mediante le ſcoperte che furono
giornalmente pro dotte , eccitata la curioſità dei Filoſofi e impegnata la loro
attenzione ; con tut to queſto ſiccome le cauſe di ciaſcuna cola piccola o
grande , cognita o incognita, di rado ſono oſſervate con at tenzione , ſe i
loro effetti non ſono sfol goranti e ſingolari; così l'Elettricità è ſtata fino
all'anno 1746. ſtudiata da nel fun altro che da Filoſofi . La ſua attra zione
può eſſere rappreſentata in parte dalla calamita , la ſua luce dal fosforo , e
in una parola neſſuna coſa ha contria buito a rendere l'Elettricità il ſoggetto
della pubblica attenzione , e ad eccitare una generale curioſità , fin che non
fu . accidentalmente fatta la primaria ſco gran cumulo della ſua forza , in ciò
che ſi chiama boccia di Leida in ventata dal Sig. Muſchenbroeck nel 1746.
Allora lo ſtudio dell' Elettricità divenne generale , ſorpreſe ciaſcuno
oſſervatore , e invitò alla caſa degli elettriciſti un più gran numero di
ſpettatori di quello che avanti ſi foſſe mai unito inſieme per oſſervare
qualunque altro filoſofico ſpe rimento . Dal perta del 1 5 INTRODUZIONE 1 Dal
tempo di queſta ſcoperta il pro digioſo numero d'elettriciſti , di ſperi menti
, e di fatti nuovi che ſono ſtati giornalmente prodotti da ciaſcun angolo
dell'Europa e da altre parti del mondo , è quafi incredibile . Le ſcoperte ſi
cumu larono ſopra altre ſcoperte , i megliora menti ſopra altri meglioramenti ,
e la ſcienza da quel tempo fece un così ra pido corſo , ed ora ſi eſtende con
sì mi rabile velocità , che ſembra che il fog getto dovrebbe eſſere tutto
eſaurito , e gli elettriciſti pervenuti al fine delle loro ricerche : per altro
non è così . Il non plus ultra è con tutta probabilità ancora molto lontano , e
il giovane elettriciſta ha avanti a ſe un vaſto campo che mé rita altamente la
ſua attenzione e che gli promette ulteriori ſcoperte forſe o d' uguale o di
maggiore importanza di quelle che ſono ſtate già fatte .Of Natural Philosophy
;—~its Name ;•—its Objeft —its Axioms ; —and the Rules of Philofophizing . T HE
word Philofophy, though ufed by ancient authors in fenfes fomewhat different,
does, however, in its moft ufual acceptation, mean the love of general
knowledge. It is divided into moral and natural. Moral philofophy treats of the
manners, the duties, and the condud of man, confidered as a rational and focial
beings but the bufinefs of natural philofophy, is to colled the hiftory of the
phenomena which take place amongft natural things, viz. among# the bodies of
the Univerfes to inveftigate their caufes and effeds ; and thence to deduce
fuch natural laws, as may afterwards be applied to a variety of ufeful
purpofes*. Natural * The word philofophy is of Greek origin. Pitagoras, a
learned Greek, feems to have been the firfl who called himfelf philofopher j
viz. a lover of knowledge, or of wifvol. r. b dom. 2 Of Philosophy in general.
Natural things means all bodies ; and the aflemblage or fyftem of them all is
called the univerfe. The word phenomenon fignifies an appearance, or, in a more
enlarged acceptation, whatever is perceived by our fenfes*. Thus the fall of a
ftone, the evaporation of water, the folution of fait in water, a tlafh of
lightning, and fo on ; are all phenomena. As all phenomena depend on properties
peculiar to different bodies ; for it is a property of a ftone to fall towards
the earth, of the water to be cvaporable, of the fait to be foluble in water,
&c. therefore v/e fay that the bufinefs of natural philofophy is to examine
the properties of the various bodies of the univerfe, to inveftigate their
caufes, and thence to infer ufeful deductions. Agreeably dom, from the words
piaoj, a lover or friend , and croplxi, of knowledge or wifdom. Moral
philofophy is derived from the latin mos , or its plural mores , fignifying
manners or behiyiour. It has been likewife called ethics, from the Greek r,ccs,
mos, manner, behaviour. Natural philofophy has alfj been called p hylics ,
phyfology, and experimental phi Ifophy: The ftrft of thofe names is derived
from nature, or gv-T.hr., natural ; the fecond is derived from pvair, nature ,
and >. a dijeourfe ; the laft deno nination, which was introduced not many
years ego, is obvioufly derived from the juft method of experiment. ' inveftigation,
which has been univerfally adopted ftnee the r P.vul of learnin-"- 'n
Europe. * Phenomenon, whofe plural is phenomena, owes its origin to the Greek
word pf.-.ai, to appear. and the Rules of Philofophizing. 3 Agreeably to this,
the reader will find in the courfe of this work, an account of the principal
properties of natural bodies, arranged under diftincft heads, with an
explanation of their efFefts, and of the caufes on which they depend, as far as
has been afeertained by means of reafoning and experience; he will be informed
of the principal hypothefes that have been offered for the explanation of
faffs, whofe caufes have not yet been demonflratively proved; he will find a
flatement of the laws of nature, or of fuch rules as have been deduced from the
concurrence of fimilar facts ; and, laftly, he will be inftrudted in the
management of philofophical inflruments, and in the mode of performing the
experiments that may be thought neceffary either for the llluftration of what
has been already afeertained, or for the farther inveftigation of the
properties of natural bodies. We need not fay much with refpect to the end 01
defign of natural philofophy.—Its application and its ufes, or the advantages
which mankind may deuve therefrom, will be eafily fuggefted by a very
fuperficial examination of whatever takes place about us. The properties of the
air we breathe ; the action and power of our limbs ; the light, the found, and
other perceptions of our fenfes ; the adcions of the engines that are ufed in
hufoandry, navigation, &c. ; the viciffitudes of the feafons, the movements
of the celeflial bodies, and io forth ; do all fall under the con fideration of
b 2 the 4 Of Philosophy in general ; the philofophcr. Our welfare, our very
exiftenee-. depends upon them. A very flight acquaintance with the political
ftate of the world, will be fufficient to fhew, that the cultivation of the
various branches of natural philofophy has actually placed the Europeans and
their colonies above the reft of mankind. Their . difcoveries and improvements
in aftronomy, optics, navigation, chemiftry, magnetifm, mineralogy, and in the
numerous arts which depend on thofe and other branches of philofophy, have
fupplied them with innumerable articles of ufe and luxury, have multiplied
their riches, and have extended their powers to a degree even beyond the
expectations of our predeceffors. The various properties of matter may be
divided into two claffes, viz. the general properties, which belong to all
bodies, and the peculiar properties, or thofe which belong to certain bodies
only, exclufively of others. In the firft part of this work we fhall examine
the general properties of matter. Thofe which belong to certain bodies only,
will be treated of in the l'econd. In the third part we fhall examine the
properties of fuch fubftances as may be called hypothetical ; their exiftenee
having not yet been iatisfadtorily proved. In the fourth we fhall extend our
views beyond the limits of our Earth, and fhall examine the number, the
movements, and other properties of the celeltial bodies. The and the Rules of
Philofophizing. 5 The fifth, or laft part, will contain feveral detached
articles, fuch as the defeription of feveral additional experiments, machines,
&c. which cannot conveniently be inferted in the preceding divilions. The
axioms of philofophy, or the axioms which have been deduced from common and
conftant experience, are fo evident and fo generally known> that it will be
fufficient to mention a few of them only. I. Nothing has no property; hence, JI.
No fubftance, or nothing, can be produced from nothing. III. Matter cannot be
annihilated, or reduced to nothing. Some perfons may perhaps not readily admit,
the propriety of this axiom ; feeing that a great many things appear to be
utterly deftroyed by the action of fire ; alfo that water may be caufed to
difappear by means of evaporation, and fo forth. But it mud be obferved, that
in thofe cafes the lubftances are not annihilated ; but they are only
difperfed, or removed from one place to another, or they are divided into
particles fo minute as to elude our fenfes. Thus when a piece of wood is placed
upon the fire, the greateft part of it difappears, and a few afhes only remain,
the weight and bulk of which does not amount to the hundredth part ot that of
the original piece of wood. Now in this cafe the piece of wood is divided into
b 3 its 6 O/Philosophy in general ; its component fubdances, which the atdion
of the fire drives different ways : the fluid part, for inftance, becomes
fleam, the light coaly part either adheres to the chimney or is difperfed
through the air, &c. And if, after the combuftion, the fcattered materials
were collecded together, (which may in great meafure be done), the fum of their
weights would equal the weight of the original piece of wood. IV. Every effect
has, or is produced by, a caufe, and is proportionate to it. It may in general
be obferved with refpedt to. thofe axioms, that we only mean to affert what has
been conflantly (hewn, and confirmed by experience, and is not cont rad idled
either by reafon, or by any experiment. But we do not mean to affert that they
are as evident as the axioms of geometry; nor do we in the lead prefume to
preferibe limits to the agency of the Almighty Creator of every thing, wvhofe
power and whofe ends are too far re- moved from the reach of our underBandings.
Having dated the principal axioms of philolophy, it is in the next place
neceffary to mention the rules of philofophizing, which have been formed after
mature confideration, for the purpofe of preventing errors as much as poffible,
and in order to lead the dudent of nature along the fhorted and fifed way, to
the attainment of true and ufeful knowledge.—Thofe rules are not more than
four; viz. I. We and the Rules of Philofophizing. 7 I. We are to admit no more
caufes of natural things, than fuch as are both true and fufHcient to e:g in
the appearances. II. Therefore to the fame natural effects we muft, as far as
poffible, affign the fame caufes. III. Such qualities of bodies as are not
capable of increafe or decreafe, and which are found to belong to all bodies
within the reach of our experiments, are to be efteemed the univerfal qualities
ol all bodies whatfoever. IV. In experimental philofophy we are to look upon
propofitions colledted by general induction from phenomena, as accurately or
very nearly true, notwithftanding any contrary hypothefes that may be imagined,
till fuch time as other phenomena occur, by which they either may be corrected,
or may be fhewn to be liable to exceptions With refpeft to the degree of
evidence which ought to be expected in natural philofophy, it is neceifary to
remark, that phyficai matters cannot in general be capable of luch abfolute
certainty as the branches of mathematics.—The propofitions of the latter fcience
are clearly deduced from a fet of axioms fo very fimple and evident, as to
convey perfect convi&ion to the mind ; nor can any of them be denied
without a manifeft: abfurdity. But in natural philofophy we can only fay, that
becaufe lome particular effects have been conflantly produced under certain
circumftances ; therefore they will moft likely continue to bV produced as long
E 4 as 8 Of Philosoph Y in general $ as the lame circumftances exifl ; and
likewife that they do, in all probability, depend upon thofe circumftances. And
this is what vve mean by laias of nature \ as will be more particularly defined
in the next chapter. We may, indeed, affume various phyfical princi[>ies,
and by reafoning upon them, we may ftndtly demontliate the deduction of certain
confequences. But as the demonftration goes no farther than to prove that luch
confequences muft neceflarily follow the principles which have been afl'urned,
the conlequences themfelves can have no greater degree of certainty than the
principles are pofieftedof; fo that they are true, or falfe, or probable,
according as the principles upon which they depend are true, or faife, or
probable. It has been found, for inftance, that a magnet, when left at liberty,
does always direct itfelf to certain parrs of the world ; upon which property
the mariner’s compafs has been conftructed ; and it has been likewife obferved,
that this directive property of a natural or artificial magnet, is not
obftructed by the interpofition or proximity of gold, or filver, or glaft, or,
in fhort, of any other fubftance, as far as has been tried, excepting iron and
ferrugineous bodies. Now afluming this obfervation as a principle, it naturally
follows, that, iron excepted, the box of the mariner’s compafs may be made of
any fubftance that may be moft agreeable to the. workman, or that may beft
anivver other purpofes. Yet it muft be confefted. and the Rules of
Philofophizing. 9 confe fifed, that this proportion is by no means fo certain
as a geometrical one ; and (luctly lpeaking it may only be laid to be highly
probable ; for though all the bodies that have been tried with this view, iron
excepted, have been found not to afifefl the directive property of the magnet
or magnetic needle , yet we are not certain that a body, or fome combination of
bodies, may not. hereafter be difcovered, which may obftrudt that property.
Nqtwithftanding this obfervation, I am far from meaning to encourage fcepticilm
; my only objedt being to fhew that juft and proper degree of conviction which
ought to be annexed tophyfical knowledge ; fo that the ftudent of this fcience
may become neither a blind believer, nor a uielels fceDtic*. Befides a ftriCt
adherence to the abovementioned rules, whoever withes to make any proficiency
in the ftudy of nature, (liould make himfelf acquainted with the various
branches of mathematics , at leaft with the elements of geometry, arithmetic,
trigonometry, and the principal properties of the conic * Scepticifm or
fkepticifm is the do&rine of the fceptics, an ancient let of philofopbers,
whofe peculiar tenet was, that all things are uncertain and incomprehenlible ;
and that the mind is never to afient to any thing, but to remain in an absolute
date of hefitation and. indifference. — The word fceptic is derived from the
Greek anc7flM®~y which fignifies confederate, and inquiftive. 10 A General Idea
of Matter , conic fedions ; for fincc almoft every phyfical effed depends upon
motion, magnitude, and figure, it is impofiible to calculate velocities,
powers, weights, times, &c, without a competent degree of mathematical
knowledge ; which fcience may in truth be called the language of nature. Cavallo.
Tiberius Cavallo. Tiberio Cavallo. Keywords: elettrico, filosofia naturale,
filosofia trans-naturale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cavallo” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51774090555/in/dateposted-public/
Grice e Cazzaniga –
l’iniziazione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice:
“I like Cazzaniga – he shows that latitdunial unity is not a myth! He has
researched on Cocconato – and he has seriously spoken of the ‘catene d’unione’
– the handshake – which is crosses the longitudinal and latitudinal unities –
consider Thatcher: “There’s no such thing as societies; only individuals! The
‘catene d’unione’ is represented most easily by a handshake, but this is in a
catena usually a circle – need it be a close circle? It should be! Perhaps
Austin and the Play Group formed such a circle!” -- Gian Mario Cazzaniga
(Torino), filosofo. Studia a Milano. Si laurea a Pisa con Massolo. Insegna a
Pisa. Quaderno Rosso. Il potere operaio. Funzione e conflitto. Forme e classi
nella teoria marxista dello sviluppo, Napoli, Liguori); La religione dei
moderni, Pisa, ETS); Metamorfosi della sovranità: fra stati nazionali e
ordinamenti giuridici mondiali. Società geografica italiana, Roma, Pisa, ETS);
La democrazia come sistema simbolico "Belfagor" (LV); Le Muse in
loggia. Massoneria e letteratura nel Settecento (Milano, UNICOPLI); Storia
d'Italia. Annali 21: La Massoneria, Torino, Einaudi) Storia d'Italia. Annali
25: Esoterismo, Torino, Einaudi). Gian Mario Cazzaniga, “Massoneria e
letteratura: Dalla 'République des lettres' alla lettera- tura nazionale,” in
Le muse in Loggia, ed. Gian Mario Cazzaniga et al. (Milan: Unicopli,
2002), Gian Mario Cazzaniga, “Origine ed evoluzione dei rituali carbonari
italiani,” in Cazzaniga, La Massoneria, Chi anche in questa fine di
millennio continua a nutrire interesse per la storia delle vicende umane, per
la storia delle idee e dei tentativi messi in atto per concretarle -
soprattutto se le idee in questione sono quelle di libertà, fraternità,
uguaglianza - trova in libreria un testo di sicuro interesse: “La religione dei
moderni”. Convinto con Eraclito che per trovare oro è necessario scavare molta terra,
Cazzaniga ha dissodato a fondo un terreno a prima vista assai ingrato:
l'arcipelago multiforme e delirante della massoneria e delle sue sette. Il
risultato è però la dimostrazione di come la nottola di Minerva possa tornare
con un bottino non solo erudito, ma capace anzi di rinnovare la nostra stessa
auto-comprensione spiccando con metodo il suo volo anche sulle strane isole e
penisole culturali in cui vivono illuminati, teofilantropi, filaleti, U.S.D.
(leggasi: Uomini Senza Dio) e come diavolo con nome di rigenerazione si sono
ribattezzati i mille e mille fratelli costruttori decisi ad erigere una carcere
per il vizio e un templi alla virtù. Tra loro spiccano in ogni caso alcuni tra
i massimi intellettuali italiani: e anche Lessing, Herder, Goethe, a Mirabeau,
Condorcet, Fichte, Heine. Chi indotto da recenti vicende italiche rischiasse di
confondere massoneria e piduismo, può finalmente scoprire momenti e figure assai
più nobili e rilevanti di questa istituzione e apprende come nella loggia e
nato praticamente ogni ideologia - liberalismo, democrazia cristiana,
comunismo... - risultati costituitivi della modernità occidentale. A chi si
chiedesse cosa e chi ha spinto allo studio dell'ambiente massonico un
intellettuale lucido, raffinato e dalla ben nota militanza nel movimento operaio
come Cazzaniga, il saggui non manca di rispondere. Da esso emerge netta
l'opzione per una filosofia curiosa dei luoghi storico-sociali capaci di
generare il nuovo e attenta ai valori della differenza, nutrita da quella
passione per le radici culturali del nostro mondo che già aveva indotto
Cazzaniga a esplorare "Fin'amors e cortezia nella poesia trabadorica"
quali matrici dello "spirito laico". Nel caso attuale si aggiunge
un'indicazione di Marx che, in compagnia di Engels, criticava i
"critici-critici" tedeschi alla luce delle esperienze realizzate
della critica pratica del cervello sociale messo in moto dalla Rivoluzione
Francese. Cazzaniga stesso segnala il debito con i dioscuri fondatori del
moderno partito politico di massa. Lo fa con ironica signorilità citando a conclusione
del commento su Nicolas de Bonneville le parole che hanno costituito l'input
decisivo per l'avvio di un'indagine che, partita dal Cercle social indicato
dalle pagine della Sacra Famiglia quale origine del "movimento
rivoluzionario moderno", si è poi allargata all'intero mondo delle logge
rivelatosi uno dei luoghi più fecondi dell'attività mito-poietica alla base
della "invenzione" del legame sociale, soprattutto allorquando i
membri dell'istituzione muratoria si sono fatti "massoneria
pubblica", identificando il luogo di rifondazione del legame sociale nel
terreno dell'attività politica organizzata. Fenomeno che abbraccia l'Europa e
le due Americhe, la massoneria si rivela uno dei più rilevanti tentativi
moderni di fornire risposta alla crisi aperta nel fondamento del legame sociale
dalle guerre di religione del Cinquecento-Seicento. Per molti cittadini della
République des Lettres la massoneria più che società segreta è infatti una
società che tratta segreti, terreno embrionale di una nuova possibile
convivenza inter-umana, progetto e luogo possibile di rifondazione di quel
legame sociale posto in crisi dalla nascita dell'individuo come nuovo
protagonista spirituale della storia europea e dalla distinzione tra religione
naturale e religioni positive. Con le sue radici giusnaturalistiche e
neo-stoiche, dal mondo classico il progetto massonico recupera anzitutto l'idea
di cittadinanza, primo grande esperimento riuscito di costruzione artificiale
di un legame sociale ispirandosene per costruire, nella situazione di crisi
dell'ancien régime, un progetto analogo. Collocandosi da questa prospettiva la
ricerca di Cazzaniga trascende ampiamente la storiografia auto-celebrativa
intra-massonica e illumina di nuova luce origine e natura della politica,
identificata, in sintonia con Giarrizzo, come una “religione”. L'elezione del
mondo delle logge massoniche quale oggetto di analisi avviene cioè in base alla
convinzione storica-teorica circa il loro carattere di "laboratorio"
di nuove forme del vivere associato, anzitutto a proposito del vero opus magnum
ch'esse hanno contribuito ad edificare, ovvero la costruzione di quella forma
politica, sostenuta da partiti di massa, che fu lo stato-nazione d’Italia. Che
poi la nottola filosofica spicchi il suo volo in condizioni oggi hegelianamente
ideali, al tramonto dell'egemonia organizzativa, culturale e morale dei partiti
politici di massa, per oltre un secolo protagonisti della democrazia
rappresentativa e di una vita politica basata sulla cittadinanza, insieme al
tempismo di Cazzaniga è dimostrazione di come la sua fedeltà al marxismo
intelligente non abbia spedito in soffitta neppure quell'Hegel che qui, insieme
a Heine, ottiene il tributo di due splendidi saggi. Oggi la storia ha
cominciato un capitolo nuovo e l'autore non ha dubbi che si stia voltando
pagina. Non condivide però la convinzione che ciò significhi fine della
modernità. Se le crepe nella sovranità degli stati nazionali pongono in crisi
partiti e sindacati, ovvero "i legami sociali artificiali sui cui la
modernità ha costruito la propria storia", la transizione in atto
"lungi dall'essere una negazione dei principi costitutivi della modernità,
è in realtà "un'affermazione radicale di essa". E la prospettiva
indicata da Marx non è affatto radiata in secula seculorum dalla storia. Il
comunismo resta all'ordine del giorno, solo che se ne riprospetti il nucleo
vivo e fondamentale non costituito né dall'eguaglianza, né dalla giustizia
sociale, né tantomeno dal recupero di una dimensione comunitaria solidaristica,
ma dalla capacità progettuale collettiva, dal controllo consapevole del
ricambio con l'ambiente naturale, dalla possibilità storica che si apre per la
società e per i singoli, in rapporto alla rivoluzione scientifica e
tecnologica, di essere finalmente padroni del proprio destino. Nessun dubbio
per noi che qui l'impeccabile storico di questa religione riveli la sua personale cifra ideologica e la
passione per il marxismo. E' l'unico luogo in cui la sua prosa, peraltro sobria,
cede a frasi fatte come la padronanza del destino. Una espressione, questa,
inerente, più che alla politica, a un ambito filosofico-esistenziale, a
tematiche, cioè, con cui questa religione deve forse ancora imparare a
cimentarsi. Mario Cazzaniga. Gian Mario Cazzaniga. Keywords: l’iniziazione,
massoneria, esoterismo, democrazia come sistema simbolico, sovranita, stato
nazionale, conflitto, liberta, fraternita, iguaglianza. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Cazzaniga” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51774044075/in/dateposted-public/
Grice e Ceccato – il perfetto filosofo –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Montecchio Maggiore).
Filosofo. Grice: “I like Ceccato – like other Italian philosophers, he has an
obsession with geometrical conjunctions
and my favoruite of his tracts is “La linea e la strischia’ – but he has
also philosophised on other issues – notably on ‘cybernetics,’ where he
purports to give a ‘mechanical explanation’ of language – he has also talked
about the ‘mind,’ – ‘mente’ – an expression Italian philosophers hardly use as
they see it as an Anglicism, preferring ‘anima,’ – “He has rather boldly
philosophised on ‘eudaimonia,’ without taking into account J. L. Ackrill’s
etymological findings – but then the Italians use ‘felicita’! – ‘the
ingeneering of happiness’ – and also of the ‘fabrica del bello’ --. Grice: “How
to, and how not to” “Are all ‘how not to’ ironic? Ceccato thinks not – he has
philosophised on sophistry in ‘how NOT to philosophise’ – and he sees Socrates,
who claims to be ‘imperfect,’ (i. e. ever unfinished), and echoing Shaw on
Wagner, as the perfect philosophy – ‘il perfetto filosofo’!” Filosofo
irregolare, dopo aver proposto una definizione del termine
"filosofia" e un'analisi dello sviluppo storico di questa disciplina ha
preferito prenderne le distanze e perseguire la costruzione di un'opzione
alternativa, denominata inizialmente "metodologia operativa" e in seguito
"cibernetica". Filosofo prolifico, ha numerosi saggi -- rendendosi
noto in particolare nella cibernetica. Pur ottenendo notevole successo di
pubblico con i suoi saggi, riscosse scarso successo nell’ambiene filosofico
bolognese. Fu tra i primi in Italia ad interessarsi alla traduzione automatica
di testi, settore in cui ha fornito importanti contributi. Sperimentò anche la
relazione tra cibernetica e arte in collaborazione con il Gruppo V di
Rimini. Studioso della psicologia filosofica, intesa come l'insieme delle
attività che l'uomo svolge per costituire i significati, memorizzarli ed
esprimerli, ne propose un modello in termini di organo e funzione, scomponendo
quest'ultima in fasi provvisoriamente elementari di un ipotetico organo, e
nelle loro combinazioni in sequenze operazionali, in parte poi designate dalla
espressione semplice e della espression complessa (frastico, frase) e del
‘codice’ utilizzato nel rapport sociale. Fondò ed animò la "Scuola
Operativa Italiana", il cui patrimonio è tuttora oggetto di studio e ricerca.
Studia Giurisprudenza, violoncello e composizione musicale. Fonda Methodos. Costrue
“Adamo II”, un prototipo illustrativo della successione di attività proposte
come costitutive dei costrutti (la lingua adamica) da lui chiamati
"categorie" per analogia e in omaggio a Immanuele Kant. Insegna a Milano.
Diresse il Centro di Cibernetica e di Attività Linguistiche a Milano. Incontró,
durante una cena di gala, il Professore di Sistemi di controllo, a Pavia, Mella.
Successivamente a questo incontro ispiratore decise di partecipare come attore
nel film "32 dicembre" di Crescenzo, interpretandovi il ruolo del
folle Cavalier Sanfilippo che si crede Socrate. Un tecnico tra i
filosofi, così intitolò il saggio apparso nelle Edizioni Marsilio di Padova, con
i rispettivi sottotitoli: "Come filosofare" e "Come non
filosofare”. Altre opere: “Il linguaggio con la Tabella di Ceccatieff”, Actualités
Scientifiques et Industrielles, Éditions Hermann, Paris); Adamo II, Congresso
Internazionale dell'Automatismo, Milano); “Un tecnico fra i filosofi, Marsilio,
Padova); “Cibernetica per tutti, Feltrinelli, Milano); “Corso di linguistica
operativa, Longanesi, Milano); “Il gioco del Teocono, All'Insegna del Pesce
d'Oro, Milano); “L’anima vista da un cibernetico, ERI, Torino); “La terza
cibernetica. Per una anima creativa e responsabile, Feltrinelli, Milano); “Miroglio,
Ed. Priuli&Verlucca, Ivrea); “Ingegneria della felicità” (Rizzoli,
Milano); Il linguista inverosimile, Mursia, Milano); “Contentezza e
intelligenza (Rizzoli); Mille tipi di bello” (Stampa alternativa, Viterbo);
“C'era una volta la filosofia” (Spirali, Milano); Il maestro inverosimile”
(Bompiani, Milano) (CL In Italia la Società di Cultura Metodologica Operativa a
Milano, il Centro Internazionale di Didattica Operativa. l Gruppo Operazionista
di Ricerca Logonica. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, La cibernetica italiana della mente nella civiltà
delle macchine. Origini e attualità della logonica attenzionale a partire da
Ceccato, Mantova, Universitas Studiorum. 2.00 PRIMI STUDI PER UN ATTEGGIAMENTO
ESTETICO NELLE MACCHINE , di Silvio Ceccato. LA TRADUZIONE NELL'UOMO E NELLO
MACCHINA, by Silvio La Mecanizzizione delle Attivita ... L ' Anatomica
methodus , di Andrés Laguna ( 1499 - 1560 ) . Pisa , Giardini , 1968 . Ceccato
, Silvio , comp : Corso di linguistica operativa . A cura di Silvio Ceccato .
Centoventotto illustrazioni nel testo . Milano , Longanesi , 1969 . 321 p .
lllus. Language and Behavior ( 1946 ) was published in Italian translation in
1949 , thanks to Silvio Ceccato ( cf . Petrilli 1992a ) . Silvio Ceccato ,
padre della cibernetica italiana , che in quegli anni stava mettendo a punto
insieme a Enrico Maretti un prototipo di calcolatore “ intelligente ” , di cui
si può leggere in una nota su “ La grammatica insegnata alle macchine. Studi
in memoria di Silvio Ceccato - Page 5books.google.com › books· Translate this
page 1999 · Snippet view FOUND INSIDE – PAGE 5 In memoria di Silvio Ceccato
Felice Accame Nei giorni immediatamente successivi alla sua morte , i giornali
hanno dedicato pochi , imbarazzati e , a volte , imbarazzanti articoli alla
figura di Silvio Ceccato . Se qualcuno , tramite questi articoli ... Silvio
Ceccato's little volume Corso di linguistica operativa ( Ceccato 1969 ) sits on
a quiet shelf in Lauinger library , the work of a semantic pioneer. Silvio
Ceccato . Silvio Ceccato . ( Civilta delle Macchine , Nos . 1-2 , 1956 ) This
monograph presents a discussion of the problems encountered by members of the
Italian Operational School in their attempts to develop techniques to be used
in ... Foundations of Language - Volumes 1-2 - Page 171books.google.com ›
books 1965 · Snippet view FOUND INSIDE – PAGE 171 ... with his hand , when he
moves the pieces , he performs a manual , a physical activity . Foundations of
Language 1 ( 1965 ) 171-188. All rights reserved . The two types of activity
can be distinguished in a 171 SILVIO CECCATO CECCATO. I use an operational
approach to mental activity based on Silvio Ceccato ' s " TECNICA
OPERATIVA " ( Ceccato - 1953 , 1961 ) , one of the earliest approaches
implemented on a computer ( University of Milan , 1961 ) . 2 - I look at the.
Debbo la spinta a studiare processi di questo tipo alla ' tecnica operativa '
di Silvio Ceccato , di cui un primo abbozzo in Language with the Table of
Ceccatieff . Paris : Herman & Cie . 1951 . Die Ceccato si verdano anche
articoli in Methodos ... Silvio Ceccato , the Italian pioneer in the analysis
of mental operations and construction , told me that once , after a public
discussion of his theory , he overheard a philosopher say : " If Ceccato
were right , the rest of us would be fools ! Silvio Ceccato's group exploited
semantic pattern matching using semantic categories and semantic case frames ,
and Ceccato's approach ( 1967 ) also involved the use of world knowled. Grice:
“Ceccato developed a theory very similar to mine – Like myself, he is an
unusual philosopher!” -- Silvio Ceccato. Ceccato. Keywords: il perfetto
filosofo, logonia – logonico, tabella di Ceccatieff, Adamo II, lingua adamica,
operativismo, Teocono, ingegneria della felicita, il genitore come ingegnero,
tutee di Dingler, tutee di Bridgman, influenza di Gentile, modelo cibernetico
della communicazione, adattazione, soprevivenza, organo ipotetico – organo e
funzione – codice conversazionale, modello mentale, psicologia filosofica,
adamo II, lingua adamica, -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceccato”
– The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51710802336/in/photolist-2mMZzKx-2mMvnXw-2mPiqeP/
Grice e Cellucci – il paradiso – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Santa Maria Caputa Vetere). Filosofo. Grice: “I love
Cellucci; for one, he wrote on Cantor’s paradise, which is an extremely
interesting tract and figure! There’s earthly paradise and heavenly paradise and
Cellucci knows it!” – Grice: “Cellucci, like me, also philosophised on ‘logic,’
in my case because of Strawson; in his, because of me!” Si laurea a Milano.
Insegna a Siena, Calabria, e Roma. Si occupa soprattutto di logica e teoria
della dimostrazione, filosofia della matematica, filosofia della logica, ed
epistemologia. Altre opere: “Breve storia della logica italiana: dall'Umanesimo
al primo Novecento” (Lulu, Morrisville); “Perché ancora la filosofia” (Laterza,
Roma) – perche no? “La filosofia italiana della matematica del Novecento” (Laterza,
Roma); “Filosofia e matematica” (Laterza, Roma); “Le ragioni della logica,
Laterza, Roma); “Teoria della dimostrazione” (Boringhieri, Torino); “Alcuni
momenti salienti della storia del metodo” La Cultura; “I limiti dello scetticismo,
Syzetesis); “La logica della scoperta, Scienza & Società, Creatività; Conoscenza
scientifica e senso comune. In La guerra dei mondi. Scienza e senso comune, ed.
A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni, Torino); Razionalità scientifica
e plausibilità. In I modi della razionalità, eds. M. Dell'Utri & A. Rainone.
Mimesis, Milano); Filosofia della matematica, Paradigmi, Il paradiso di Cantor, Bibliopolis, Napoli La
filosofia della matematica, Laterza, Roma); Breve
storia della logica: Dall'Umanesimo al pr imo Novecento [Lulu Press,
Morrisville; Perché ancora la filosofia Laterza, Rome, La filosofia della
matematica del Novecento, Laterza, Rome, Filosofia e matematica, Laterza, Rome,
Le ragioni della logica, Laterza, Roma; Teoria della dimostrazione,
Boringhieri, Turin, “La rinascita della logica in Italia”, in “Momenti di
filosofia italiana, ed. F.Pezzelli & F. Verde. Efesto, Rome – quando e
morta? -- Alcuni momenti salienti della storia del metodo, La Cultura. La
logica della scoperta, Scienza e Societa. Creatività. “Aristotele e il ruolo
del nous nella conoscenza scientifica”, In Il Nous di Aristotele ,
ed. G.Sillitti, F. Stella & F. Fronterotta. Academia Verlag, Sankt
Augustin; Conoscenza scientifica e senso comune. In La guerra dei mondi.
Scienzae senso comune , ed. A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni,
Torino, Razionalità scientifica e plausibilità, In I modi della
razionalità , ed. M. Dell'Utri & A. Rainone.Mimesis, Milano; “La preistoria
della logica polivalente nell'antichità o la storia antica, Bollettino
della Società Filosofica Italiana. Gli approcci di Turing alla computabilità e
all'intelligenza. In Per ilcentenario di Alan Turing fondatore dell'informatica
, Accademia Nazionale dei Lincei, Scienze e Lettere, Roma; Intervista di
Antonio Gnoli, La Repubblica; Breve storia della logica antica; Ripensare la
filosofia. Un colloquio con (e su) Carlo Cellucci; La spiegazione in matematica.
Periodicodi Matematiche (For Grice, unlike Kantotle, mathematics “7 + 5 =
12” has zero-explanatory value; Dialogando con Platone, in Il Platonismo e le
scienze , Carocci, Roma); Logica dell'argomentazione e logica della scoperta”,
in Logica ediritto: argomentazione e scoperta , Lateran University Press,
Vaticano); Ragione, mente e conoscenza, in Fenomenologia della scoperta , Bruno
Mondadori, Milano); Filosofia della matematica top-down e bottom-up. Paradigmi.
L’ideale della purezza dei metodi, I fondamenti della matematica e connessi
sviluppi interdisciplinari Pisa-Tirrenia,
Mathesis, Rome); Per l'insegnamento della logica. Nuova Secondaria. La
logica della macchina, in Le macchine per pensare ,La Nuova Italia, Firenze); Logica
e filosofia della matematica nella seconda metà del secolo, in La filosofia
della scienza in Italia nel ‘900 , Franco Angeli, Milano; Bolzano, Del
metodo matematico, Boringhieri, Torino; Il ruolo delle definizioni esplicite in
matematica; in C. Mangione (Ed.), Scienza e filosofia ,Garzanti, Milano; Storia
della logica, Laterza, Bari, Il fondazionalismo: una filosofia regressiva,
Teoria. La complessità delle dimostrazioni nella logica dei predicati del primo
ordine, Logica Matematica, Siena. Il ruolo del principio di non contraddizione di
Parmenide nelle teorie scientifiche. Verifiche. “È adeguata la teoria dell’
adaequatio?” Scienza e storia , Il Laboratorio, Napoli. Il paradiso di Cantor.
Il dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi. Bibliopolis, Napoli. Proprietà
di coerenza e completezza in L-omega1-omega. Le Matematiche. Proprietà di
uniformità e 1-coerenza dell’aritmetica del primo ordine, Le Matematiche. La
logica come teoria della dimostrazione, in Introduzione alla logica , Editori Riuniti,
Roma. La qualità nella dimostrazione matematica, in La qualità , Bologna (il
Mulino). Teoremi di normalizzazione per alcuni sistemi funzionali, Le Matematiche.
Logica matematica. EditoriRiuniti, Roma. Il problema del significato. Il
Veltro. Una dimostrazione del teorema di uniformità. Le Matematiche. Un
connettivo per la logica intuizionista. Le Matematiche. I limiti del programma
hilbertiano, Società Filosofica Italiana, Roma. L’evoluzione della ricerca sui
fondamenti, Terzo programma. Operazioni di Brouwer e realizzabilità
formalizzata, Pisa, Classe di Scienze. Concezioni di insiemi, Rivista di filosofia.
Qualche problema di filosofia della matematica. Rivista di filosofia. Un’osservazione
sul teorema di Minc-Orevkov, Unione Matematica Italiana. La filosofia della
matematica, Laterza, Bari). La teoria del ragionamento matematico: meccanico o
non meccanico? In L’uomo e la macchina, Edizioni di Filosofia, Torino. Categorie
ricorsive, Bollettino dell’Unione Matematica Italiana. Filosofia della
matematica. Paradigmi. La ricerca logica in Italia. Acme, Cisalpino, Milano. Prospettive
della logica e della filosofia della scienza, ETS, Pisa, Logica e filosofia
della scienza: problemi e prospettive, ETS, Pisa); Temi e prospettive della
logica e della filosofia della scienza contemporanee, CLUEB, Bologna, Logiche
moderne, Istituto dellaEnciclopedia Italiana, Rome, Il paradiso di Cantor. Il
dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi, Bibliopolis, Napoli, La filosofia
della matematica. Laterza, Roma. C .
Cellucci ha illustrato gli scopi della logica matematica di Peano . Anche se
con motivazioni diverse , tali scopi sono pressoché analoghi in Peano e Frege ,
e consistono principalmente nell ' ottenere. Carlo Cellucci. Keywords: il
paradiso, Peano, logico filosofico, philosophical logic, logica filosofica, il
paradiso di Peano, la rinascita della logica in italia, storia della logica in
italia, formalismo, platonismo, teoria dell’adequazione, calcolo di predicato
di primo ordine, regole d’inferenza, spiegazione matematica, logica antica, la
logica nella storia antica, connetivo, connetivo russelliano, connetivo
intuizionista, prova, dimostrazione, Aristotele e la mente, il nous, l’anima.
Concetto di nomero, definizione splicita, implicita, gradual del numero, peano,
frege, logica della scoperta, revivirla? il paradiso di Rota, il paradiso di
Cantor, parmenide, non-contradizzione, il significato, il problema de
significato, il problema del significato in Hintikka, Grice divergenza
connetivo logico e connetivo nella lingua volgare (‘non,’ ‘e,’ ‘o,’ ‘si,’
‘ogni’, ‘alcuno (al meno uno)’, ‘il,’. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Cellucci” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51711681535/in/photolist-2mMzTj8
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