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Is Grice the greatest philosopher that ever lived?

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Monday, June 7, 2021

NOME 11

 

cocconato: Grice: “I like Coconato – I used to say that the first task for the historian of Italian philosophy, unless you are a member of La Crusca, is to decide on the surname – I like Cocconato! He spent some time in London, as I did – and he shows that the average Italian philosopher is a nobleman, or vice versa!” – Grice: “Venturi revived Cocconato, as did the re-issuing of his “Moral Discourses”!” -- “Manhood and unbelief” -- Alberto Radicati, conte di Passerano e Cocconato (Torino), filosofo. Libero pensatore, fu il «primo illuminista della penisola», secondo una definizione di Piero Gobetti. Cocconato matura il suo pensiero anti-clericale nel clima dell'anticurialismo sabaudo ben presente in alcuni settori della corte di Vittorio Amedeo II, re di Sardegna. S'ignora tutto della sua prima formazione, verosimilmente affidata a qualche ecclesiastico. Un infelice matrimonio precoce, combinato dalle famiglie, lo coinvolge ventenne, e già due volte padre, in una serie di penosi contrasti il cui significato travalica i conflitti coniugali. Mentre a prendere le parti della moglie si mobilita il partito devoto-clericale, Radicati trova sostegno a corte in chi appoggia il re sabaudo nei suoi conflitti giurisdizionali con la Curia romana.  Il grottesco-ironico racconto della sua «conversion pubblicato a Londra e ripubblicato con il titolo “A Comical and True Account of the Modern Cannibal's Religion” induce a datare intorno agli anni venti il precipitare della crisi della fede cattolica in cui il conte era stato cresciuto. Nell'opuscolo autobiografico presenta la sua personale vicenda come un caso emblematico di «uscita dalla minorità. Narra infatti come, a partire dal contrasto tra santoni bianchi e santoni neri monaci cistercensi e quelli agostinianisui presunti miracoli operati da un'immagine della Vergine, rinvenuta nel convento agostiniano, avesse cominciato a vacillare in lui la fede e come, verso i vent'anni, avesse cominciato anche in campo religioso “a far uso della mia ragione.”Importante per la sua ulteriore maturazione intellettuale è il viaggio compiuto nella Francia della "Reggenza" tin cui poté ampliare il raggio delle sue conoscenze e forse procurarsi testi libertine come La Sagesse di Charron, l'Hexameron rustique di Vayer o il Traité contre la Médisance di Brosse, in cui ricorrono motivi che troveranno eco e sviluppo nelle sue opere. Il suo scritto principaleI discorsi morali, storici e politici redatti su diretto incarico di Vittorio Amedeo II nel mutato clima conseguente alla ratifica del Concordato stipulato tra regno sabaudo e Benedetto XIII diverrà anche la ragione vera del suo esilio. Il conte, che da un riacquisito potere dell'Inquisizione a Torino deve temere per la sua libertà e per la sua stessa incolumità, lascia segretamente il Piemonte per dirigersi a Londra, dovendo poi subire per questa fuga non autorizzata dal sovrano il sequestro e la confisca dei beni.  A Londra pubblica con un discreto successo l'instant book che ricostruisce i retroscena della recente abdicazione di Vittorio Amedeo II mentre, al contempo, lavora alla stesura del più audace e radicale dei suoi scritti, “La Dissertazione filosofica sulla morte,” che, tradotta da JMorgan, uscirà dai torchi londinesi destando un enorme scandalo. Nella Dissertazione, che gli costa anche l'esperienza delle carceri della tollerante Inghilterra di Walpole, propugna il diritto al suicidio e all'eutanasia sullo sfondo di una esplicita filosofia materialistica che scorge nel Deus sive Natura spinoziano-tolandiano il suo unico grandioso orizzonte di senso. Nella sua meditazione sulla morte e sulla liceità del suicidio si inserisce in un dibattito che già Montesquieu aveva rilanciato nelle Lettere Persiane, riprendendo una discussione inaugurata nel Seicento da Donne con il suo Biothanatos. Interessato a proporre un progetto politico che esige come sua prima tappa essenziale una riforma radicale della cristianità occidentale, capace di affrancarla dal giogo clericale- o se si vuole, in termini più neutri dal potere pastorale- la scelta del tema del diritto individuale alla morte non è scelta casuale per quanto la meditazione sul suicidio non sia priva di elementi autobiografici. Le chiese cristiane di ogni confessione ritengono infatti un loro preciso dovere intervenire direttamente nella gestione del trapasso a quella che esse, in base alla loro fede, considerano la vera vita, quella ultraterrena. Del resto non solo il mondo cristiano, lo stesso ebraismo e l'islam, finendo con il recepire come un dogma l'interpretazione agostiniana del suicidio come omicidio di se stessi, per secoli hanno considerato la morte volontaria come il più grave e irreparabile dei peccati, suprema manifestazione di oltranza e ribellione alla volontà divina, mentre le autorità statali, dal canto loro, si distinguevano per la crudeltà inumana con cui trattavano i cadaveri dei suicidi e i beni dei loro eredi.  Se i Discorsi partivano dalla morale ricavata essenzialmente da una lettura pauperistico-comunistica dei Vangeli che faceva di Cristo, al pari di Licurgo, il grande critico dell'istituto familiare, nonché il fondatore di una democrazia perfetta in cui non esiste né il mio, né il tuo»per poi occuparsi di politica e concludersi in concrete proposte riformatrici, nella Dissertazione filosofica fornisce una risposta alla legittimità del suicidio muovendo da una concezione complessiva del mondo e dell'esistenza umana. Nonostante il suo titolo, la Dissertazione filosofica sulla morte non rinnega affatto l'istanza spinoziana che intende la filosofia quale gioiosa meditatio vitae, apertura mentale a una possibile transizione da una condizione di servitù a una condizione di più ampia libertà che è, simultaneamente, incremento della capacità del corpo di comporsi e ricomporsi con altri corpi per realizzare la sua potenza e ampliare la sua capacità di comprendere le cose.  Definisce l'individualità umana a partire dalle relazioni che essa intrattiene con il tutto. Per quanto grandezze infinitesimali noi siamo materia della materia che costituisce l'Universo nella sua indefinita immensità. La certezza che ci resta, quando ci liberiamo dall'ignoranza in cui nasciamo e dagli idola tribus, i pregiudizi con cui siamo allevati, è che noi siamo vicissitudini della materia. La materia a cui pensa tuttavia nel suo esilio londinese e poi olandese non è lo squalificato sostrato inerte che dai greci giunge fino a Cartesio che, limitandosi a identificare materia ed estensione, continua ad aspettarsi dal Dio creatore l'impulso motore e la creazione continua. Come per il Toland delle Lettere a Serena e del Pantheisticon, la materia pensata dal Radicati è la materia actuosa che reingloba nel meccanicismo moderno motivi provenienti dal naturalismo rinascimentale a cui ineriscono direttamente movimento e autoregolazione.  L'universo è un mondo infinito in perpetuo movimento: in esso nulla continua ad essere anche solo per un istante la stessa cosa. Le continue alterazioni, successioni, rivoluzioni e trasmutazioni della materia non incrementano né diminuiscono tuttavia il grande tutto, come nessuna lettera dell'alfabeto si aggiunge o si perde per le infinite combinazioni e trasposizioni di essa in tante diverse parole e linguaggi. La natura, mirabile architetta sa sempre come utilizzare anche il minimo dei suoi atomi. La fine della nostra individualità costituita dalla morte non è quindi fine assoluta, perché niente si annichila nella materia e il principio vitale che ci anima come non è nato con noi troverà sicuramente altre forme di esplicazione: come la nostra nascita non è avvenuta dal nulla, non sarà nel nulla che ci dissolveremo.-- è estranea ogni forma di lirismo e, tuttavia, una concezione non lontana dalla sua rifiorirà in una delle pagine finali di uno dei maggiori romanzi lirici della modernità, nell'Hyperion di Hölderlin che fa dire alla sua eroina, Diotima: “Noi moriamo per vivere: «Oh, certo, i miserabili che non conoscono se non il ciarpame arrabattato dalle loro mani, che sono esclusivamente servi del bisogno e disprezzano il genio e non ti venerano, o fanciullesca vita della natura, a ragione possono temere la morte. Il loro giogo è diventato il loro mondo, non conoscono niente di meglio della loro schiavitù: c'è forse da stupirsi che temano la libertà divina che ci offre la morte? Io no! Io l'ho sentita la vita della natura, più alta di tutti i pensierie anche se diverrò una pianta, sarà poi così grande il danno? Io sarò. Come potrei mai svanire dalla sfera della vita, in cui l'amore eterno che è partecipato a tutti, riunifica le nature? come potrei mai sciogliere il vincolo che riunisce tutti gli esseri?»  Opere Antologia di scritti, in Dal Muratori al Cesarotti. Politici ed economisti del primo Settecento, tomo V, F. Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi, Dodici discorsi morali, storici e politici, T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò editori, Dissertazione filosofica sulla morte, T. Cavallo, Pisa, Ets Vite parallele. Maometto e Mosè. Nazareno e Licurgo, T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò editori, Discorsi morali, istorici e politici. Il Nazareno e Licurgo messi in parallelo, introduzione di G. Ricuperati (check); edizione e commento di D. Canestri, Torino, Nino Aragno Editore, Dissertazione filosofica sulla morte, F. Ieva, Indiana, Milano  Piero Gobetti, Risorgimento senza eroi. Studi sul pensiero nel Risorgimento, Torino, anche in Opere completeSpriano, Torino, Einaudi Franco Venturi, Adalberto Radicati di Passerano, Torino, Einaudi,  Franco Venturi, Settecento riformatore, I, Torino, Einaudi,  Silvia Berti, Radicati in Olanda. Nuovi documenti sulla sua conversione e su alcuni suoi manoscritti inediti, in «Rivista Storica Italiana», S. Berti, Radicali ai margini: materialismo, libero pensiero e diritto al suicidio in Radicati di Passerano, in «Rivista Storica Italiana», J. I. Israel, Radical Enlightenment. Philosophy and the Making of Modernity Oxford, Oxford University Press, passim Tomaso Cavallo, Introduzione a A. Radicati, Dissertazione filosofica sulla morte, Pisa, Ets, Tomaso Cavallo, Le divergenze parallele. Mosè, Maometto, Nazareno e Licurgo: impostori e legislatori nell'opera di Alberto Radicati, introduzione ad A. Radicati, Vite parallele. Maometto e Sosem. Nazareno e Licurgo, Sestri Levante, Gammarò, Vincenzo Sorella, Un partigiano della ragione umana, in «I Quaderni di Muscandia», G. Tarantino, “Alternative Hierarchies: Manhood and Unbelief in Early Modern Europe, in Governing Masculinities: Regulating Selves and Others in the Early Modern Period, ed. by S. Broomhall and Jacqueline Van Gent, Ashgate, ,TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere, M. Cappitti, Le Vite Parallele di Alberto Radicati su blog.carmillaonline. Se poca fortuna ebbe come uomo politico e consigliere di monarchi, non diversa fu la sua sorte di filosofo; e la sua filosofia che ha a tratti momenti di luce viva e che riuscirono a destare interessi e preoccupazioni persino nelli liberi circoli, giacquero come cose inanimate dopo la sua morte, come se questa le avesse private, come il loro autore, di quello spirito vitale che le fa palpitare. E l'oblio scese su di loro, crudele e inesorabile, facendo perdere la conoscenza di la sua filosofia. Infatti il Saraceno pubblicando il « Manifesto» e le due « Lettere » indirizzate, l'una a Vittorio Amedeo II, l'altra a Carlo Emanuele III e premettendo alla sua edizione alcune notizie di carattere biografico e bibliografico, limita, pur credendo di darne l'elenco completo la sua filosofia a quelli saggi da lui pubblicate e a quell'altre contenute nel Recueil edito a Rotterdam. Cat. del British Museum sotto il nome di Thomas Joseph Morgan, il suo traduttore. Più la “History” edita a Londra. Da quel momento, per quei pochissimi che del nostro s'interessarono, le parole del Saraceno furono vangelo, e la filosofia dimenticata scomparvero definitivamente, come non-esistente, dalla sua bibliografìa. La sensazione iniziale di una possibile lacuna nell’elenco della sua filosofia, divenuta certezza in seguito ad alcune notizie rinvenute nel carteggio diplomatico tra l’inviato piemontese a Londra e la Corte di Torino, in cui era fatta la sua parola, mi determinò alla ricerca di questa filosofia sperduta. Quasi del tutto infruttuose furono le ricerche in Italia -- due sole lettere rinvenni all'Ai-, di Stato di Torino --. Fortunate invece all'estero e precisamente alla Biblioteca Bodleiana di Oxford, al British Museum di Londra, ed alla Staats Preusische Bibliothek di Berlino, dimodoché tenendo conto dei nuovi materiali trovati, la sua filosofia risulta in una elencazione definitive. Manifesto di A. I. R. di P. (Archivio R. di P., Castello di Passerano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. Memoria rilasciata al Marchese d'Aix. Lettera scritta dal conte A. R. di P. a S. M. il Re Vittorio Amedeo lì inserviente di prefazione ai discorsi da lui compilati e che intendeva dedicare alla prelodata Maestà sua. (Ardi. Stat. di Tor., Storia della Real Casa, Cat. terza, Storie pari). Lettera alla Contes. di S. Sebastiano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. “Christianity set in a True Light” in “XII Discourses Political and Historical. By a pagan philosopher newly converted” (London. Printed for J. Peele at Lockes Head in Pater-noster-Row; and sold by the Booksellers of London and Westminster). “The History of the Abdication of Victor Amedeus II, Late King of Sardinia with his confinement in the Castle of Rivole, Shewing the real Motives, which indue'd that Prince to resign the Crown in Favour of his Son Charles Emanuel the present King, as also how be came to repent of his Resignation with the secret Reasons that urg’d him to attempt his Restauration. On a letter frorn the Marquis de T. . . a Piemonlais now at the Court of Poland; to the Count de C. in London. Printed and sold by A. Dodd without, Tempie-Bar; E. Mutt and E. Cooke, at the Royal. Dell'opera n. 9 ne fa recentemente parola il NATALI, Milano. Royal Exchange ; and by the Booksellers and Pamphletsellers of London and Westminster MDGCXXXII. “A phliosophical [sic] dissertation upon death composed for the consolation of the unhappy, by a friend to Truth” (London. Printed for and sold by W. Mears at the Lamb on Ludgate-Hill). Lettera a S. M. il Re Carlo Emanuele III0 colla quale supplica la prelodata S. M. di voler gradire la dedica della opera da lui composta e già presentata alla fu S. M. il Re Vittorio Amedeo IIC . (Arch. Slato Torino - Storia Real Casa - Cat. Ili - Storie particolari). Twelve discourses concerning Religion and Governement, Inscribed to all lovers of Truth and Liberty by Albert Comte de Passeran, Written by Royal Command, The second Edition” (London, printed for the Booksellers, and at the Pamplet shops in London ad Westminster). Recueuil de pieces curieuses sur les matieres les plus interessantes – Rotterdam, Chez la Veuve Thomas Johnson et Fils - contenente: Dedica a Don Carlos; Factum d'A. R. de P. parce quel on voit les motifs qui l'ont engagé a composer cet ouvrage. Douze Discours Moraux, historiques et politiques, preceduti da una Declaration de l'Auteur, Histoire abregée de la profession sacerdotal, ancienne et moderne a la tres illustre et tres celèbre secte des esprit-forts par un Free-Thinker Chrètien, Nazarenus et Licurgos mis en parallele par Lucius Sempronius neophyte, Epitre à l'Empereur Trayan Auguste, Recit fìdelle et comique de la religion des Cannibales modernes par Zelin Moslem, dans lequel l'auteur declare les motifs qu'il eut de quitter celte abominable Idolatrie, traduit de l'Arabe a Rome par M. Machiavel [sic] imprimeur de la Sacrée congregation de Propaganda fide, con prefazione dell'editore. Projet facile, équitable et modeste, pour rendre utile à la Nation un grand nombre de pauvres enfans, qui lui son maintenant fort à charhe, traduit de l'Anglois. Sermon perché [sic] dans la grande assamblé des Quakers par le fameux frere E. Elwall dit l'Inspirée, traduit de l'Anglois a Londres, au depens de la Compagnie. La religion Muhammedane comparée à la paienne de l'Indostan par Ali-Ebn-Ornar, Moslem epitre a C.inknin, Bramili de Visa - pour traduit de l'Arabe. A Londres au depens de la Compagnie. Notiamo, ora di queste opere le notizie e di caratteri più salienti. Fu edita dal Saraceno, nell'opera più volte citata. Il testo rimane nella sua grafia del tutto immutato, con le inconstanze di scrittura (et, ed; chino e hanno) caratteristiche del filosofo; alquanto mutata è invece la punteggiatura, e gli alinea, la prima più scorretta nel testo originale, i secondi inesistenti nel MS., che corre tutto di seguito. Questa lettera con la quale comunica a Vittorio Amedeo II il suo desiderio di fargli pervenire la cassetta e di cui abbiamo notizia sia dalla lett. del March. d'Aix, sia dalla risposta del March, del Borgo, che c'informa pure del suo contenuto, per quante ricerche abbia fatte all'Arch. di Stato di Torino, non mi è stata possibile trovarla. Questa Memoria inedita si trova all'Ardi, di Stato di Torino. Fu edita dal Saraceno ed è una copia della lettera originale andata perduta. Delle lettere comprese sotto questi due numeri abbiamo notizia da una lettera del Cav. Ossorio al March. Del Borgo e dalla risposta del Del Borgo. Ma non mi è stato possibile poterle rintracciare. Quest'operetta edita, in un elegante Vili0, dopo due anni di soggiorno in Inghilterra, doveva nella mente dell'Autore essere composta di dodici discorsi. Fu edita invece incompleta contenendo solamente un “Preliminary discourse in wich the Author gives a particular account of his conversion” e il Discourse I, “Of the Precepts and Life of Jesus Clirist”. Al primo di essi corrisponde alquanto mutato nella forma e nell'estensione il Recit, contenuto nel Recueil. Al secondo corrisponde invece esattamente il Discorso I. Cfr. Twelve Discourses riprodotto poi integralmente dal Discours, Des Preceptes et des Mrnurs de Jesus Christ, dei Douze Discours, moreaux ecc.editi nel Becueil „. Ritornando al Preliminary discourse abbiamo detto che questo discorso fu riprodotto nelle sue linee sostanziali dal Recit incluso nel Recueil, ma molte varianti, e alcune di valore capitale sussistono fra i due testi. Accenneremo, qui, da un punto di vista generale, le caratteristiche più salienti dei due testi, e la maggior importanza che può avere, da un punto di vista biografico, l'edizione inglese; e infatti, pur essendo quest'ultima mancante dell'introduzione che troviamo nel testo di Rotterdam. L'imprimeur au lecteur judicieux, e della apocrifa Bolla di Benedetto XtlI, le numerosissime note esplicative, che svelano luoghi, nomi e date, la rendono di una importanza capitale per la ricostruzione della vita del filosofo. Senza questa edizione, corredata di note e di avvertimenti, veramente preziosi, sarebbe stato impossibile, per qualsiasi biografo, fare risultare dal semplice testo le notizie importantissime documentanti la conversione del filosofo al calvinismo. L'assenza di note del Recit e l'espressione più attenuata, in taluni punti, del testo inglese costituiscono i caratteri differenziali fra le due edizioni. I titoli dei discorsi annunciati, ma non editi nellla Christianity sono i seguenti: Discourse II: Of the Doctrine and Manners of the Apostles and Primitive Christians. Discourse III: The Christian Religion to the Religion of Nature itself. Discourse IV: What were the Causes of the Corruption of the Christians. Discourse V. Of the Mischief done to Christianity by the great Number of Churches and Ecclesiasticks. Discours VI. By what Means the Bishop of Rome are become Souvereigns of that Capital of the world. Discourse VII: That neither the spiritual nor temporal power of priests is authorized by the Gospel. Discourse VIII. Of the claims, by which the Papal Monarchy has maintained, continues to maintain and will maintain itself, as long as it can make use of them. Discourse IX. Of the evils caused by priests to sovereigns and their states. Discourse X: Of Natural right: Of the origin ond Nature of Government. Discourse XI: Of Religion in General. That all authority Spiritual as well as Temporal belongs, de jure, to the Sovereign; and how Ecclesiastical Affair should be regulated. Discourse XII: Of the Advantage that will accrue to Sovereigns and States, from the Observance of the Rules. Come si può presumere dai titoli i discorsi mancanti non avrebbero dovuto essere altro che quelli contenuti nei “Twelve Discourses” come di fatto prova il primo discorso contenuto nella Christianity del  tutto analogo al primo di quelli contenut i nei “Twelve Discourses” cosa, del resto, ch e si può rilevar e facilmente confrontando rispettivamente i titoli delle due edizioni, che, pur essendo vi qualche tenue variante di espressione, sintettizzano reciprocamente un analogo contenuto. Copia di questa edizione l'ho trovata soltanto al British Museu m di Londra. Di quest’opera falsamente attribuita al Marchese Trivié o ad un certo Lamberti ma che già il Saraceno ed il Carutti avevan o rivendicat a al filosofo, furono fatte numerosissime edizioni. Citiamo quelle che abbiamo potuto rintracciare e confrontar e con l'edizione inglese che possediamo. Anecdotes de l'abdication du roy de Sardaigne Victor Amédée II, ou l'on trouve les vrais motifs qui ont engagé ce prince a resigner la couronne en faveur de son fils Charles-Emmanuel a présent roi de Sardaigne. Comment il s’en est repenti, avec les raisons et les intrigues secretes qui l'ont porte à entreprendre son rétablissement par le marquis de F*** piemontois, à present à la Gour de Pologne; en forme de lettres écrite au comte de G*** a Londres. S. 1. in Vili. Histoire de l'abdication de Victor Amédé e nel volumetto La politique des deux partis, ou Recueil de pièces traduites de l'anglois de Bolingbroke et des Frère s Walpole (la Haye). Con la stessa intitolazione: Génève contenente una seconda lettera da Ghambery, probabilmente pur essa de filosofo. Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Paris, in 4°, erratament e attribuiti dall'Oettinger ad un Lamberti non meglio identificato. L'Oettinger dà una traduzione tedesca dell’Histoire edita a Francoforte. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne, et de sa detention au Ghateau de Rivoli. Où l'on voit les veritables motifs qui obligerent ce prince d'abdiquer la couronne en faveur de Charles-Emmanuel, son fils, et ceux qu'il eut ensuite de s'en repentir et de vouloir la reprendre. Lettre écrite au Conte de C*** a Londres, par le marquis de Trivié, qui est à présent à la Gour du roi de Pologne, edita nel " Recueil de pièces qui regardent le gouvernement du royaume d'Angleterre, et qui ont rapport aux affaires présentes de l'Europe, traduit de l'Anglois, la Haye. Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Genève, pure attribuita dall'Oettinger al Lamberti. Cfr. OETTINGER, Bibliographie biographique universale, Paris. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne etc. de sa detention au Ghateau de Rivoli et des moyens qu'il s'est servi pour remonter sur le trone, à Turiu. De l'impremerie Royal. Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée II,  Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée II. Edita sotto il nome di Marchese di Fleury che il Qnerard ritiene pseudonimo di Marchese di Trivié. Histoire de l'abdication de Victor Amédée Roi de Sardaigne ecc. De sa detention au Ghateau de Rivole, et des moyens dont il s'est servi pour remonter sur le trone. Nouvelle édition sur celle de Turin de 1734-, a Londres, 1782. Non abbiamo creduto necessario per quanto il testo inglese rappresenti il testo originale redatto dal P. di annotare le poche varianti che esistono più di forma che di contenuto. N. 9 di questa operetta, che ho trovato solamente al British Museum, catalogata sotto il nome di Thomas Morgan (l'indicazione della bibliografia del B. M. è : " A philosophical dissertation upon Death - Composed for the consolation of the Unhappy (By A. Badicati Count di Passerano translated or edited by John, or rather Thomas Morgan? era data notizia tanto dal Cav. Ossorio, che ne espone in brevissime righe il contenuto e ci avverte che fu causa di prigionia per l'autore e il traduttore, quanto dal Lilienthals, dal Kahl e dall'Henke (1). Completamente dimenticata dai più recenti studiosi del R. compare citata dal Natali senza indicazione nè di data nè di luogo di stampa. Secondo quanto afferma l'Ossorio, l'operetta stesa in lingua italiana dal R. sarebbe stata tradotta da " un de ses compagnons „ " en bon Anglois „ e sotto il nome di questo traduttore, che si seppe più tardi essere, Thomas Morgan essa andò per alcun tempo. N. 10 fu edita dal Saraceno (4) ed è una copia della lettera originale andata smarrita. La scoperta di questa nuova edizione, ricordata in alcune opere Cfr. HENKE , op. cit. loco cit. LILIENTHALS , op. cit. loco cit. FREYTAG , op. cit. loco cit. VOGT , op. cit. loco cit. BAUER : op. cit. loco cit., WAHIUS , op. cit. loco cit. Cfr. NATALI: II settecento. Ove però compare come semplice elencazione bibliografica, senza indicazione nè di luogo di stampa, nè di data. quasi contemporanee, fa cadere l'affermazione che i " Discours „ siano stati stampati per la prima volta a Rotterdam nel " Recueil „, e che quindi sino al 1736 i " Discours „ medesimi siano rimasti manoscritti nelle mani del R. Risulta invece, (poiché posto che esista la primissima introvabile edizione in tutti i casi non la possiamo ammettere edita prima del 1733 per le ragioni stesse che giustificano l'edizione de! 1734) che il nostro si decise a dare alle stampe i " Discours „ dopo aver visto che non sarebbe mai riuscito a dedicarli a C. E. (3), e che di conseguenza dallo stampare o no quanto aveva inviato a V. A. non sarebbe più dipesa la possibilità di ritornare o meno in Piemonte. Comparve in tal modo l'edizione inglese dei " Discours „, la quale messa in confronto con quella di Rotterdam ha dato i seguenti risultati: Mancano nell'edizione inglese la " Dedica „ a Don Carlos (sedizione Rotterdam pag. Ili a pag. X) e il " Factum „ fonte di preziose notizie biografiche (edizione Rotterdam da pag. 1 a pag. 10). mentre che la Declaration de Vauteur „ contenente i motivi che hanno spinto alla compilazione dell'opera, e i criteri seguiti nel suo svolgimento, che nell'edizione londinese occupa dieci pagine (V-XV) e che sotto riproduciamo è ridotta nell'ediz. di Rot. ad una pagina e un terzo. TH E AUTHOR' S DECLARATION . Tho' prefaces are quite out of fashion, I yet hope the benevolent reader will forgive me for making a short declaration concerning the publication of this work , as follows. BAUMGARTEN : Narichten von einer Ilallischen Bibliothec, ENGEL : Bibliotheca selectissima seu catalogus librorum omni scientiarum genere rarissimorum - BERNAE, TRINIUS : Freydenken Lexicon. - Leipzig, und Bemberg, Erster Zugabe zu Freydenken Lexicon, Voi. I, pag. 1098 . MASCH I Beilriige zur Geschichte merkwiirdiger Biicher, Wismar, SCHROCK : Cristliche Kirchengeschichte seil deiReformation - Leipzig  SCHLEGELS : Kirchengeschichte des 18 Jahrunderts, Heidelberg. Il RENOUR D nel suo " Catalogne d'un Amateur  citato dal QUERARD. Les supercheries litteraires dévoillés, Paris, sotto il nome Ali-Ebn-Omar-Moslen) afferma parlando del P: Il n'existe de son Recueil que deux exemplaires sur grand papier, celui de la Bibliotheque du Roi, et le mien „ Di questa edizione, probabilmente in foglio o in 4° grande, (" sur grand papier „) non siamo però riusciti ad averne traccia nè notizia alcuna. Infatti la lettera indirizzata dal P. a CARLO EMMANUEI.E rimase senza risposta. Cfr. lettera, cit. In primis & ante omnia. I do declare that this Work was written at the Command of a great PRINCE, who would be plainly inform'd of all the matters contain'd in it : and as that PRINCE was then reputed to be one of the greatest Politicians of his Age, I was oblig'd to proportionate my Labour to his profound Capacity. So that if I have reveal'd some Religious or Civil Mystery, which had generally been conceal'd, I have methink given a suffìcient Reason for it: However, I have alter'd some Passages and soften'd some Expressions, to make them more intelligible and more agreeable to the Reader. I do solemnly declare, that in all this Work I had nothing in view but Truth, Equity, or Justice: In a word, the Good of Mankind in general; and I flatter my self that all who shall peruse it with candour, shall be convinced of the Rectitude of my Intentions. I do declare, that I have kept dos e throughout this Work to the Doctrine and Morality of our Saviour, occording to the best of my knowledge; and I hope I have not advanc'd anything without good authorities. I do protest before GOD and Men, that whatever is said in this Work concerning the Church or Clergy is to be understood of the Popish Church and Clergy only (who really have long since abandon'd and despis'd the most sacred Precepst of our Blessed LAWGIVER) and not of any other church whatsoever; whose Clergy and Prelates being very humble, vastly charitable, pious, and such utter Enemies to Grandeur and Riches; may justly be stiled the true and only Imitators of Crist's Disciples, and of those primitive good Prelates (*) instituted by the Apostles. (*) See the 54th page of this Book, and you will fìnd what their duty was, and with what Qualities they were endued. Item. I do declare, that I have not her e opposed the superstitious Tenets of the Popish Church ; for this has been so often done ever since the Reformation, and by so many Learned Divines, that it would be vain to attempt it. Besides, Popish Princes little regard at this time wha t is said against Transubstantiation, Purgatory, Confession, Invocation of Saints, and such like; as (pag. X ) things, which ways affect their temporal Interest : so, whethe r these opinions are well or ill-grounded ; whethe r they spring from Heaven, or from Huma n Malice, 'tis no matter. But wer e they to know how prejudicial the Popish Religion is to their AUTHORITY, and to the WELFARE of their several Countries; they then would undoubtedly think upon the proper Expedients to preserve themselves and their Subjects from Ruin ; and this is wha t I have endeavour'd (pag. XI ) to make evident in the ensuing Work . I tlierefore hope it will prove very beneficiai to such Princes, and even be of some service to this Country, particularly at this time, whe n " the Emissaries of Popery (as a worthy Divine (*) has observed) have increased their Diligence in gaining Proselytes, and are now more industriously employ'd in every Corner of our Metropolis than ha s been any time known in the present Age „. (*) Dr. Clarke' s Sermons, pag. 18,  LASTLY, ] declare that I have made use of ali the Reason and Understanding 1 ara master of, to discover (pag. XII ) the TRUTH S contained in the sacred Writings, so hidden and involv'd in Mysteries ; in order that by them TRUTH S I might procure my own Happiness and that of others. I presume I have found them, and for that reason 1 now publish them. But if I have unluckily fallen into any involuntary Error, as I know myself not to be infallible. I earnestly entreat ali the orthodox and eminent Divines of this happy Kingdom, to poiat them out to me, and to convince my Reason by Reason itself, that I may both retract and avoid them. (pag. XIII ) And I farther beg of our SPIRITUAL DIRECTORS that in case they, f'avour me with this salutary Advice, to do it not with Passion and Bitterness, but LAWGiVER ha s expressly commend (*). For nothing is paser, worlliy, and more scandalous; nay, mor e contrary to the very Principles of the Christian Religion, tlian to rad, calumniate, to load with odious Appellations, and persecute those who labour Day and Night to find out the TRUTH, buried as it is in the dark Abvss of Errors and Superstitions. (*) Matth, XVtlI, 21, ete. AFTER having made this plain Declaration, as I know myself to be wholly destituted of Freinds; I hope that the ALIGHTY GOD, whose Powe r is above ali Huma n Artifice and Malice, will protect me against those, that will certainly promote my Destruction, for having openly espoused the Cause of TRUTH and EQUITY. Il Discorso I (Ediz . lond . pag . 1-13 ; Ediz . Rot . pag . 15-26 ) è integralmente riprodotto nella edizione olandese: uniche varianti sono le seguenti : Pag . 2 - in not a Collins è qualificato : 0  great and goodman „ attribut i c h e mancan o nell'Ediz . de l 1736 . Pag . 11 - manc a la not a sul ministr o Jurie u ch e si trov a a pag . 2 4 dell'Edizion e di Rotterdam . Il Discors o II (Ediz . lond . pag . 14-25 ; Ediz . Rot . pag . 27-37 ) è pur e ess o integralment e riprodotto . Unich e varianti : pag . 21 - in not a su Bayl e (cfr. pag . 3 5 ediz . di Bot.) è aggiunt o " and 1 shall not be tought in the vrong for vanking him withe Heliogabalus „. Pag . 24-25 , nota , dop o le parol e " universally observed „ " généralement observées „ pag . 3 7 ediz . Rot.) ch e no n si trov a nell'edizion e del 1736 : " I say universally observed: for wer e there a Society or Republic, however great it might be, that should be inclined to observe the Laws of Gbrist, it would be obliged for their own preservation, to lay aside the laws of Christ, or suffer themselves to be destroyed by following them. - In a word, a Society of true Christians, wer e they as numerous as the whole Empire of China, could no more make head against a single Infide], who had a mind to plunder them, than a hundred thousand Rabbits could make head against a hungry  Lion, that should fall in among them. But if ali Men, without exception, were good Christians, it is most sure they would be exceding happy. For, being without Ambition, Envy and Revenge, nothing would be capable of di sturbing Iheir Quiet - Here on Gonsult - Bayle's Pensées diverses chap. 141 - continuation des Pensées - Ghap. 123 - 124 „. Il Discorso III (Ediz. lond. pag. 26-52 ; Ediz. Rot. pag. 38-60) ò invece del tutto diverso - Cfr. quindi il medesimo riportato in Appendice. Il Discorso IV (Ediz. lond. pag. 53 72; Ediz. Rot. pag. 61-76) è quasi del tutto riprodotto integralmente; però da pag. 63 (dopo le parole " le gouvernement de leur Eepublique „, pag. 69 dell'ediz. di Rot.) il testo prosegue con 2 pagine in più che qui appresso riproduciamo. But they wer e never practised, for, if we carni fully examine the Epistles of the Apostles, we shall find that in effect they ali agreed in acknowledging that the Christian Religion wa s the best, but differed excedingly as to the Principles of it For, Paul proposing to persuade Christians of the Trut h of that Religion, and shew them wherein it consisted, says expressly, and in so many words, that we ar e " not to boast of our good works, but of Faith alone in Jesus Ghrist, for that good works ncither justify, nor save (*); but to him, saith he, that worketh not, but believeth on him that justifieth the ungodly, his Faith is counted for Righteousness (**) and shall save him „. James, on the other hand, in a few words summing up the Essentials of Religion, and not amusing himself with vain disputes, as Paul did, tells us; that " Faith without good woorks will neither justify, nor save „ ; and gives us to' understand that " good works will save us independent of Faith”This Doctrine is highly just and reasonable, and more orthodox than Paul's. For wha t avails it for a man to bellieve that Ghrist dieci to save him, so long as he is cruel, covetous, revengful, and i*) Rom. IV. 5. (**) James II, etc. (***) Rom III. 26, 27, 28. See also Gal lì. 16 {pag. 64) proud? were he not better without that Belief, but good, charitable, and humble ? it is much better for a man to be a Christian in practice without speculation, than to be a Christian in speculation, without the practice; that is, it wer e better being a Savage, who. tho' without any Religion, stili practised the duties of a true Christian, who is resolved absolutely to obey none of the precepts of his Religion, tlio' he firmly believes in its mysterles. This notion, so agreeable to the Justice and Wisdom of God, and Intentions of Ghrist, would be of great advantage to Society, wer e it put in practice. Now it is indisputable that the Apostles, by building Religion upon various. and different foundations bave caused an infinite numbe r of Quarrels and Schisms to spring up in the Christian Gommon-wealth, by whieh it ha s been,  and will ever be tome asunder most assuredly, if it does not lay aside the mysterious, or incomprehensible speeulations of Divinity, and frx wholly to those most holy and simple Tenets, which Christ hath taught us, and are very easy to be observed, being the same as those of Nature, as he himself has told us, saying: " Come unto me, ali ye that labour, and are heavy laden, and I will give you Rest (*). Take my yoke upon you, and learn of me, for I am meek, and lowly in heart, and ye shall find rest unto (pag. 65) your Souls. For my yoke is easy, and my burden is light„, and not grievous and insupportable, like that of cruel and ambitious men. (*) Mat. Xt. 28, 29, 30. Il Discorso V (Ediz. lond. pag. 73-92; Ediz. Rot.) è riprodotto integralmente. Notiamo soltanto che a pag. 80, in nota su S. Cipriano dopo la parola " aucupari „, il testo segue: " Non in Sacerdotibus Religio Devota, non Ministris fides integra, non in operibns misericordia, non in moribus disciplina; sed ad decipienda corda simplicium callide fraudes, circumveniendis fratribus subdolae voluntates - Cyprian de Lapsis „, mentre è mutilo alla medesima parola “aucupari” nella Edizione di Rotterdam. Il Discorso VI (Ediz. lond. pag. 93-124; Ediz. Rot. pag. 95-123) è riprodotto nell'Edizione Olandese fedelmente. Il Discorso VII (Ediz. lond. ppg. 125-144; Ediz. Rot.) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti sono: Pag. 129 nota (dopo le parole " alors soni fausses „ pag. 128 Ediz. Rot.): " See what Bayle Says in his Pensées diverses, eh. 49, et Contin. des Pensées diverses eh. 47. in arder to shew how ridiculous it is lo enquire whant a thind is, before we have examined whether it really exist „. Pag. 138 manca la nota della pag. 136 ediz. Rot. la parola “religion” è tradotta nelle due ultime righe di pag. 139 dell'Edizione Rot. con " Superstition „. Il Discorso Vili (Ediz. lond. pag. 145-164; Ediz. Rot.) è riprodotto nell'Ediz. Olandese fedelmente. Il Discorso IX (Ediz. lond. pag. 165-188; Ediz. Rot) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti sono: Pag. 166 manca la nota Ediz. Rot. Pag. 186 manca la nota " cependant ces Emissaires „ di pag. 180 81 dell'Ediz. Rot. Il Discorso X (Ediz. lond.; Ediz. Rot.) ha subito una restrizione nelle pagine 189 a 200 ridotte nell'Ediz. Olandese a sole cinque; riproduciamo qui di seguito il testo inglese. By natural right (ius naturale), I mean the faculty given by nature to each individual, whereby each of them is forced or determined to act, according as he finds it necessary for the preservation of his own being. All animals are forced by nature to eat, drink, sleep, etc. Therefore it follows, that they eat, drink, and sleep of natural and absolute right, when they stand in need of them. In the same manner, fish being by nature determined to swim, and the greater to devour the smaller, consequently they enjoy water by natural right, and the greater by the same right devour the smaller. Thus, birds are determined by nature to fly, and by consequence possess the air by natural right, and birds of prey by the same right feed upon the tame. For it is most certain that Nature considered in the general, has an unlimited right over every part of herself: that is, this right extends as far as her power extends, so that every thing that she can do is lawful for her to do. For the power of nature is the very same as that of God, whose right is eternal, and consequently unalterable. Now as the power of nature is the same with that of every individual who make up that Nature, without exception, it follows, that the right of no one is limited, but extends as far as the strength and industry that nature has bestowed on them; and as it is a general law for all beings, that each of them in particular shall perpetuate his kind, as far as lies in his power, without regarding anything save his own preservation. it follows, that the natural right of every indivual is, to subsist and act to that end according to the power which nature has given him. In this state man is not to be distinguished from the rest of natural beings, no more than the words, reason, or wisdom, and folly; virtue, and vice; honest, and dishonest, just and unjust are, etc. Wherefore there is no difference between the wise and the foolish, the virtuous and vicious; for every individual has a right to act according to the laws of his constitution or organization. that is, according as he is determined by nature to such and such a thing, without being able to act otherwise. So that considering man under the empire of nature, as unacquainted with what philosophers call reason, or virtue; and not having acquired a habit of either, they have, I say, as much right to life in pursuing the dictates of their appetite, as they have that live according to the laws of reason, virtue, and justice, with which they have conneted their ideas. That is, that, as he who is called wise in society has a right to do any thing that is dictaded to him by reason, and to live according to the light of it; so the ignorant and foolish man in the state of nature has a right to every thing his appetite suggests, and to live according to its dictates. For, according to the apostle’s opinion before the law, or in the natural state of man, no man could sin. Rom. 4. V. 15.  It is not then the business of that reason, or justice, to regulate the right of nature, but of the desire or strength of every individual. For, so far is nature from determining us to live according to the law and rules of this reason, that, on the contrary, notwithstanding education, and the penalties appointed in order to natural impulses. Such is the power of nature. New as we are obliged, as far as in us lies, to preserve our natural being, so we cannot do it but by acting in obedience to the laws of appetite, since nature denies us the actual use of that reason, and none of us are more obliged to live according to the rules of good sense, introduced among us by the civilised part of mankind, than an ant is to live according to the nature of an elephant. From whence it follows that, in the state of mere nature, we have a lawful right (ius iudicatum) to all things whatever without exception, because nature has given all to every man, and may use it without a crime, if we can get it, whether by force, or cunning, by entreaties, or threats, so far as to look any one as enemy, who hinders, or endeavours to hinder us from satisfying our appetite. Therefore, by natural right, an animal may wish for whatever he pleases, and do whatever is in his power to support his own individual, or satisfy his inclination. However we are not to imagine that so unlimited a liberty can produce any great disorder amongst animals of the same kind, as many have thought, because nature has previded them necessaries in abundance; upon which foot, they can have none, no, not thel esst dissension among them, as I have Lions, Wolves with Wolves. Foxes with Foxes, Eagles with Eagles, and so all other species who are in the state of nature. It is to be owned indeed that *discord*, not con-cord, envy, and an implacable hatred reign between one species and another. And this would in reality be a great defect and imperfection in nature, if her wisdom consisted in making an animal happy for ever. For, upon such a supposition, the pidgeon would have reason to complain of nature for not bestowing upon him a sufficient strength to defend himself against the eagle. A hare mìght make the same complaint as to a wolf; and he again as to the lion. But each complaint would be unjust. For, Nature granted an animal his life but for a certain limited time, which is an effect of her infinite goodness, to the end that every being may succeed one another, and enjoy her benefits. Which could never be, if an animal, once alive, were to be immortal. Therefore, since he must necessarily die to make room for another, it imports little whether he dies in this or that manner. Nay more, I insist that a pidgeon that is the eagle's prey, and the wolf that is the lion’s, are happier than the eagle or lion that have devoured them. For his death is sudden, and his pain short, whereas the Eagle and Lion, languish and suffer long before they die, if they die a natural death. Besides, a Lion or an Eagle may at his death complain of nature's injustice, by making him the prey of innumerable and invisihle animals, that lodge in their bones, and throughout their whole bodies, which  feeding upon the best and finest substance in their blood, and wasting alt llieir animal spirit, kill him without mercy. For, those invisible animals that kill not only a lion, but a man too, and every beast that dies of a natural death has no more thought of the mischief they do in feeding upon their blood, than a lion or a man when he kills another animals for food without mercy, they having ali a power to do so by an absolute and natural right. An animal therefore, far from complaining, tough constantly to thank Nature for her infinite justice and goodnes to him, in giving them a limited life only. For, had she created him immortal, she had shewed herself exceeding cruel; considering we are all assured there is no condition of life, however happy, but what at last grows rneasy and burthensom. As we see by those, who having passed most of their time in the polite world, are desirous of retiring, and leading a private life in the country; so he that lives in solitude, often longs for the pleasures of the world; and lastly, he that has long enjoyed bolli, grows tired and out of humour with them, and wishes for a new life thro' death. Now since an animal is tired of life, he may be perpetually diversifying his pleasure, considering the short date of his life; what would it be, were they to live for ever, without ever varying the pleasures they (See the account of the Strulbrugs in Gulliver's Travels. Part 3) had tasted in the first fifty years of life? Nay, how justly might not they complain, who drag an uneasy languishiug life from the infirmities to which they are subjects, or who perpetually groan under the yoke of another animal, who makes himself no uneasiness in making him miserable, in order to gratifiy his appetite? Every animal therefore ought to look upon death as the most signal blessing he has received from the hands of Nature, and as the effect of her incomparable wisdom; Death putting an end to their pain, aud making them equal with his tyrant. What I have been now saying ought to surprise no man, since Nature is not confined within the bounds of reason, or the instinct of an animal; for the word Nature, of which an animal is but as so much a small point, means an infìnity of other things that relate to an eternal order, and that inviolable law, which gives being, life, and motion to all things. So that what seems ridiculous, unjust, or wicked to an animal, and above all to a man, appears such only because we know things but in part, and because we cannot have an exact idea of the ties and relations of nature, we not comprehending the immense extent of her wisdom and power. Whence it preceeds, that what reason sets before us as an evil, is far from it in regard to the order and laws of universal nature, but only in regard to those of our own. This supreme natural right, which every animal enjoy, exclude not moral good and evil, which is really to be found in the state of nature. I call “morally good” any action of an animal tending to the preservation and propagation of his own individual or his species, for he is then performing their duty, by aiming at the end, proposed by Nature in their Greation. On the contrary, I cali moral evil ali those actions of Animals, that are either in the whole, or in part contrary to those notions, or sensations that Nature has implanted in each of them, that they may perceive and know what is proper for their subsistance, and for perpetuating their Species as far as in them lies. Allwise Nature, the tender mother of ali Animals, not satisfied with impressing on their mind those notions, has always affixed a proporlional recompense to moral good, and a like punishment to moral evil, to the end that ali Animals may chuse the one, and avoid the other with pleasure. Not that she had any occasion to setlle such rewards and punishment in order lo be obeyed; for, as she is Almighty, she well knew she should be obeyed, as she is in fact by ali except one Species, which is Man. And it was for them se appointed them, because knowing they had several cavities in their brains fdled with animai spirits, which by a high fermentalion would so heat their imagination, as to make them fall into a sort of madness, on Delirium. Nature, I say, to bring them back from their wandring, has thought lil severely to punisti them, whenever they swerve from their duty and act agreeably to the false notions with whict that madnes inspires them, which notions tend to the destruction of their own individuai, and to make their Species unhappy. I will explain my self. It is well known, that ali Animals, except Man, act according to the notions infused into them by Nature, commonly called Instinct, for instance, knows its proper food, and the actions to be performed in order to live in health, and perpetuate its Species. Consequently to these notions it acts, by chusing at first such places as are agreable to it: some live in Marchs, some in the Fields, some in the Plains, and others on Hills; some swim, other crawl, and in short, some, called amphibious, live bo!h on Land, and in Water. Ali these Animals perceive what they are to do in order to subsist Wherefore they eat, drink, and make use of their females, when they have occasion ; mor did, or do, any one of them ever force itself to eat, or drilli or enjoy its females, when it was satisfied; nor did ever any of them ever voluntarily refuse to eat, drink, or make use of their females, whenever Nature required it; thus by denying themselves nothing necessary, and by never forcing themselves to do what is beyond their strength, they lead a healthy and a happy life. But this is not the case of Mankind. For, tho' they pretend to a greater share of wisdom and reason than other Animals, their actions shew they have less than the rest of them ; some thro' excessive folly eating and drinking when they are neither hungry, nor dry, so far as lo bring distemper upon  and kill Ihemselves; and forcing themselves upon venereal pleasure when they are exhausted, is so much as to destroy themselves : Others from a contrary madness, denying themselves meat, and drink, and the enjoyment o' Women, and dragging a miserable life, consume and pine away. Thus by not allowing Nature what she absolutely requires, or forcing her beyond her strength, they are guilty of real moral evil, from whence the Physical takes its rise, which cruelly torments them their whole life time. Anolher madness, to which Mankind are subject, is Avarice, which puts Men upon perpetually heaping up riches, without making any use of them, for fear of wanting; so that the Miser not only makes himself miserable, but greatly contributes to the misery of others. There is stili another kind of madness, called ambition, that lords it over Man, which puts most Men upon depriving themselves of what is really necessary to life, for Ghimeras, that are entirely useless and superfluous to them. The ili effects of this last folly have not stopped there, but produced the greatest disorders amongst Men, and made theme more unhappy than alt other Animals. For, it has happened, that some of them thinlcing themselves better than others, have endeavoured to get above them, appropriate to themselves what belonged to the rest by Naturai right, and make their companions their slaves. which by the opposition they have found, has occasioned tumults, and civil Wars. These different Phrensies that have taken possession of the minds of Men, and that have in ali times scattered trouble and confusion amongst the race of Men, have from time to time obliged wise Men (who made use of their reason in order to preserve themselves from falling into that sad and terrible Delirium to which they were liable) to admonish the rest with a view of reclaiming them from their errore ; and those admonitions had sometimes so good an effect, that a whole Nation perceiving anddetecting their Frenzy, voluntary submitted to the decisions of those wise Men, and each Man, renouncing and disclaiming his naturai right, promised obedience to them, upon condition that they on their side should always endeavour to make that Nalion happy. This was the rise and formation of Aristocratical Government. Da pag. 200 in poi (pag. 186 Ecliz. 1736) il test o corrispond e esattament e nelle du e edizioni; salvo le lievi differenz a qui sott o notate . Pag . 207 - i puntin i di quest a edizione son o son o sostituiti nell'edizione olandes e (pag. 102) " le coeur de Nobles en àrbitraire ou absolu „. Pag . 22 3 : mancano le ultime due righe del testo di pag. 20 6 ediz. Rol . 11 Discorso XI (Ediz. lond. pag . 224-248 ; Ediz . Rot.) Titolo : "Wherein it is proveci that religion was introduced into Society by legislatore, in order to give a sanction to their laivs; and that consequenty ali sacred and civil authority belong de jure to the Prince „.  Le pagine 224 e 236 costituiscono, in confronto dell'edizione olandese, una parte del tutto nuova, e corrispondente alla prima parte del titolo, che difatli non si trova nell'Ediz. Rot. Diamo un breve riassunto di queste pagine, che non parve necessario trascrivere integralmente. Il R. così comincia: My design then in this Discourse is to make Princes sensible that Religion was institued by legislators, in order to give strength and credit to their Laws, and that Sovereign Princes, having the administration of civil Laws, ought by consequence too have that of Religion; and thereby 1 propose tvvo benefits. Tho first to Princes, by joining the sacred and civil authority in one, and the second, to the People, by rescuing the from the Tiranny of Priests. This then is what the most celebrated Historians teli us concerning the Establishment of Religions „. A dimostrazione di questa tesi, l'intera pagina è dedicata ad una di citazione Diodoro Siculo, libr. I pag. 49, Ediz. Han.; l'inter pag. 227 ad una citazione di Strabone, Geograph. libr. 16 pag. 524, ecc.; indi dicendo di non voler citare anche Plutarco, Polibio, Erodoto e Livio, il R. procede a citare " a Zaeloux and Leavned Jew „ cioè Flav. Joseph, contra Appion. libr. 2, pag. 1071 - Edit. 1634, in fol., e " a very candid popish Priest „ (pag. 230-235) è cioè Gharron, of Widson, book 2 eh. 5. In nota a pag. 235, così meglio identifica il Gharron : " Ile was Canon and Master of the School of the Church of Bordeaux - He lived in Montagne's time, and ivas his intimate freind - See Bayle's Did. Artide, Charron „. E con tutte queste citazioni la dimostrazione è raggiunta: " Wherefore 1 may be allowed to say without any impietg, that lleligion might be subject to the Prince, to Religion „ (pag. 235). Dopo di che da pag. 236 a 248 continua con la seconda parte, che corrisposde all'intero Disc. XI dell'Ediz. Rot. Unica differenza è che la nota a pag. " See in the life of Peter, late Czar of Moscow how be wisely reduced the high Priest's exorbitant authority io his own power „ è estesa nel testo a pag. 211 dell'Ediz. di Rotterdam. " Enfin chacun fait toutes les autres nouveautéz „. Il Discorso XII (pag. 249-271 Ediz. lond.; Ediz. Rot. pag. 211-238) è riprodotto integralmente, ed unica differenza è data dalla mancanza a pag. 259 della esistente nell'Ediz. di Rot. a pag. 228. N. 12: Abbiamo già parlato a proposito del N. 11 degli scritti " a-b-c „ contenuti nel " Recueil „ ed a proposito del N. 7 dello scritto " f „ ed abbiamo notato come la loro prima comparsa, eccettuato per il " b „, sia avvenuta in lingua inglese, e quali cambiamenti abbiano subito nella loro ultima redazione francese.  Notiamo invece per le operette " d „, " e „ che il testo dato dal " Recueil „ deve presumibilmente essere l'unico lasciato dal P. ; nè infatti abbiamo trovato di esse ediz. inglesi, anteriori o posteriori al 1736, nè elementi o prove che suffraghino questa possibilità; potrebbe essere presumibile che queste operette scritte dal R. ancora in Inghilterra e forse già pronte per essere tradotte, siano rimaste a noi nel loro testo originale per la fuga del P. in Olanda, oppure che compossle in Olanda, non avendo più possibilità di trovare un traduttore, le abbia conservate e poi edite nella loro lingua originale. Lo scritto " g „ è la traduzione dell'operetta analoga dello Svvift: " A modest proposai for preventnig the children of poor people in Ireland from beìng a burden to their parents or country, and for making them beneficiai io the publick „ (1). Non esiste tra le due edizioni alcuna differenza, che possano mutare lo spirito del testo originale le due uniche varianti che abbiamo notato sono; l'introduzione a pag. 369 del " Recueil „ della parole: " Gastigat ridendo mores „ immediatamente dopo il titolo, e omesso dall'originale; e la sostitutuzione della parola " Spain „ del testo inglese, con la parola " Rome „ della versione del R. pure a pag. 369. Fu fatta nel 1749 a Londra una ristampa di tutto il N. 12 (" Recueil de pieces curieuses sur le matieres les plus interessantes par A. R. comte d. P. a Londre) ma dall'esame di questa nuova ediz. posseduta dalla Bib. Querini-Stampalia di Venezia, è risultata l'identità, persino negli errori di stampa coll'ediz. di Rotterdam. N. 13-14 formano nell'Ediz. originale un volume solo, senza titolo generale, con pagine numerate progressivamente (da 1 a 47 il testo n. 13, da 49 a 104 il testo n. 14). L'attribuzione di paternità al R. del primo di questi opuscoli, e convalidata non solo da quanto afferma il " Dictionary of National Uography „ edito dal Leslie Stephen, il Querard ed il Barbier, ma dalla rispondenza che questo opuscolo ha con il Discorso III dei " Twelve discours „. Notiamo le principali variati: Pag. 2: " peché originai „ manca la nota del testo ing. Pag. 4-, nota 2: manca la cit. del testo ingl. ; pag. 5, nota 1 e 3: manca il (1) Cfr. op. cit. in: The Works of Jonathan Swift, London MDCCLX, V, IV, pag. 66-77 . (2) Cfr. Dictionary of national biography, edited by LESLIE STEPHEN , sotto 'Elicali.’ Cfr . QUERAR D op . cit . Col . 1231 , T III. Cfr. BARBIER : Dictionaire des onorages anonymes etpseudonym.es - Paris, 1827 > T . III . N . 16186 .  commento e la cit. del testo ingl.; pag. 8, nota. 1, mancal a cit. del testo ingl.; pag. 10: " vòtre pere celeste „ manca la nota del testo ingl.; pag. 11, nota 2: manca la nota del testo ingl.; pag. 12 nota 1: manca il lungo commento del testo ingl.; pag. 17 " ces Docteurs „ il testo ingl. ha “our Priest” e nota 2: manca la cit. e il comrn. del testo ingl.; pag. 18 " vous dis-je mes Frères „ manca nel testo ingl.; pag. 19 nota 1: manca la cit, del testo ingl.; pag. 21 nota 2: manca la spiegaz. esistente nel testo ingl.; pag. 22: "et comment auroit-il mieux „ manca la nota del testo ingl.; pag. 26: " Amerique „ manca la nota del testo ingl.; pag. 27 e 28 sino ad: " Enfiti temoin... „ mancano nel testo ingl.; pag. 32, nota 2: manca il lungo coni, del testo ingl.; pag. 24 nota 2; manca la citaz. del testo ingl.; pag. 35: " les hommes hereux „ manca nel testo ingl. la nota corrispondente; pag. 38 dopo le parole " ... leur dependence „ manca quasi l'intera pagina 47 del testo ingl.; pag. 40: " mes cheres Frères „ manca nel testo ingl.; pag. 4 nota 2 : differisce dalla rispondente nel testo ingl.;: l'ultimo periodo (“l'esprit... vrais Quakers”) manca nel testo ingl. In merito al N. 14 l'attribuzione di esso al R., è affermata dal Querard (1) e dal Barbier (2) che svolgono lo pseudonimo Ali-EbnOmar con il nome del R., è confermata dal fatto che a pag. 100 dell'operetta in una nota l'autore citando se stesso rinvia al " Discorso Ili „ dei “Twelve Discourse” e tale attribuizione, per ambedue, N. 13 e 14, sostengono pure lo Henke, il Lihienlhals, il Freytag (3). Anzi a proposito di quest'ultimo che viene ad affermare che spesse volte l'opera n. 13 viene seguita dalla n. 14 con un seguirsi di pagine progressivamente numerate (tale è l'ediz. da noi esaminata), come facenti parli del " Recueil „ edito a Londra e Rotterdam nel 1736, facciamo rilevare come ciò non risponda a verità. A parte la confusione dell'ediz. londinese del “Recueil” con l'ediz. Olandese, tanto nell'una che nell'altra non troviamo stampate le operette di cui si tratta, nè infatti potevano essere incluse nell'ediz. del 1736 essendo venute alla luce la prima volta nè nell'ediz. del 1749, che riproduce esattamente la precedente, nè possiamo considerare questa ediz. dell'operette, che abbiamo esaminata, come stralciata dal volume del 0  Recueil „ stante la appariscente diversità dei caratteri di stampa. Come mai esse siano state edite a Londra, mentre già da quattro anni almeno si trovava in Olanda, non siamo in grado di dire: forse trovate fra le sue dopo la sua morte e fatte stampare da qualche suo amico nella capitale inglese? e allora non perchè a Rotterdam dove era già uscito per i tipi della Ved. Johnson il “Recueil” più volte citato? Sono questi tutti interrogativi che ci poniamo senza avere la possibilità di potere rispondere, per mancanza di documenti che giustifichino una ragione piuttosto che un'altra; e questa è un'altra lacuna nella perfetta conoscenza della vita del R. Cocconato. Keywords: implicature della morte. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cocconato” – The Swimming-Pool Library.

 

 

CILIBERTO (Napoli). Filosofo. Grice: “I like Cilberto; he philosophised on Machiavelli – in an interesting way: confronting his ‘reason’ with the ‘irrational’; myself, I have not explored the irrational, too much – but I suppose Strawson might implicate that everything I say ON reason is an implicature on the irrational – Ciliberto uses the vernacular for the ‘irratinal,’ to wit: pazzia!” – Uno dei massimi esperti del pensiero di Bruno. Si laurea a Firenze sotto Garin con “Machiavelli”. “Lessico Intellettuale Europeo”. Insegna a Trieste, Pisa. Istituto di Studi sul Rinascimento, Firenze. Dal 1998 è presidente di I. R. I. S. A. Associazione di Biblioteche Storico-Artistiche e Umanistiche di Firenze. Lince. Al centro della sua filosofia sono tre problemi: il rinascimento con speciale attenzione a Bruno e Machiavelli, la ‘tradizione’ no-analitica, no-continntale, ma la ‘tradizione italiana’ (Gramsci, Croce, Gentile, Cantimori, Garin); e la filosofia politica e in maniera specifica la crisi della democrazia rappresentativa.  Altre opere: “Il rinascimento. Storia di un dibattito” (Firenze, La Nuova Italia); “Intellettuali e fascismo” (Bari, De Donato); “Lessico di Bruno” (Roma, Edizioni dell'Ateneo & Bizzarri); “Come lavora Gramsci. Varianti vichiane, Livorno); “Filosofia e politica nel Novecento italiano. Da Labriola a «Società», Bari, De Donato); “La ruota del tempo. Interpretazione di Bruno, Roma, Editori Riuniti); Bruno, Roma-Bari, Laterza); Bruno, Roma-Bari, Laterza); “Umbra profunda” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Implicatura in chiaroscuro” Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il dialogo recitato” “Preliminari a una nuova edizione del Bruno volgare, Firenze, Olschki); “La morte di Atteone”(Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “I contrari”; “Disincanto e utopia nel Rinascimento” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il teatro della vita” (Milano, Mondadori); “Il laico” “Il libero” dell'Italia moderna, Roma-Bari, Laterza); “Democrazia dispotica” – etimologia di dispotismo – (Roma-Bari, Laterza); “Intellettuale nel Novecento, Roma-Bari, Laterza), “Parola, immagine, concetto” (Edizioni della Normale, Pisa); “Croce e Gentile” “La cultura italiana e l'Europa, (direzione) Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, . Rinascimento, Pisa, Edizioni della Normale; Il nuovo Umanesimo, neo-classicismo, neo-umanesimo”, classicism, neo-classicismo come ironia” (Roma-Bari, Laterza); “Pazzia e ragione” (Roma-Bari, Laterza); “Il sapiente furore” (Collana gli Adelphi, Milano, Adelphi) Michele Ciliberto, Lessico di Giordano Bruno. Michele Ciliberto. Keywords: intelletuale fascista, lessico, lessico di Bruno, lessico di grice, lessico filosofico europeo, umbra profunda, implicatura in chiaroscuro, i contrari, il laico, il libero, despotismo, immagine e concetto, parola, immagine, e concetto, il pazzo, il ragionato, istituto su studi sul rinascimento, la tradizione italiana, la tradizione filosofica italiana, democrazia rappresentativa, concetto di rappresentazione, Grice e Ciliberto sulla rappresentazione. Il primo ministro britannico ripresenta suoi costituenti. Il barone della camera alta del parlamento, parlamento ed implicamento, il team di cricket rippresenta Inghilterra: fa per Inghilterra quello che Inghilterra non puo fare: gioccare cricket. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ciliberto” – The Swimming-Pool Library.

 

CIMATTI (Roma). Filosofo. Grice: “I like Cimatti – for one, he develops a biological semiotics, and he takes seriously the issue that man IS an animal -- -- and has thus philosophised on animality!” Si laureato sotto Mauro con “La communicazion animale” -- Insegna ad Arcavacata di Rende. Altre opere: “Linguaggio ed esperienza visive” (Rende, Centro Editoriale e Librario); “La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell'animale umano” (Bollati Boringhieri); “Nel segno del cerchio. L'ontologia semiotica di Giorgio Prodi, Manifestolibri La mente silenziosa. Come pensano gli animali non umani” (Editori Riuniti); “Mente e linguaggio negli animali. Introduzione alla zoosemiotica cognitiva” (Carocci); Il senso della mente. Per una critica del cognitivismo” (Bollati Boringhieri); “Mente, segno e vita. Elementi di filosofia per Scienze della comunicazione,Carocci); “Il volto e la parola. Per una psicologia dell'apparenza, Quodlibet,  Il possibile ed il reale. Il sacro dopo la morte di Dio” (Codice Edizioni); Bollettino Filosofico. Linguaggio ed emozioni” (Aracne); Lingue, corpo, pensiero: le ricerche contemporanee” (Carocci); Naturalmente comunisti. Politica, linguaggio ed economia” (Bruno Mondadori); “La vita che verrà. Biopolitica per Homo sapiens, , ombre corte, Filosofia della psicoanalisi. Un'introduzione in ventuno passi” (Quodlibet); Filosofia dell'animalità (Laterza); “Corpo, linguaggio e psicoanalisi” (Quodlibet); “A come Animale: voci per un bestiario dei sentimenti” (Bompiani); “Il taglio” “Linguaggio e pulsione di morte, Quodlibet);  Filosofia del linguaggio: storia, autore, concetto” (Carocci); “Psicoanimot, La psicoanalisi e l'animalità” (Graphe); “Lo sguardi animale” (Mimesis); “Per una filosofia del reale” (Bollati Boringhieri); “La vita estrinseca”; “Dopo il linguaggio” (Orthotes, Salerno); “Abbecedario del reale” (Quodlibet, Macerata); “La fabbrica del ricordo (Il Mulino). Grice: “I share a lot with Cimatti; we both believe that there’s a semiotic continuity, and more important that it’s psi-transmission that matters: a pirot perceives that the a is b, and communicates that the a is b to another pirot, who perceives the communicatum, ‘the a is b’ and comes to think that the other pirot thinks that the a is b – I use ‘think’ as dummy. ‘accept’ may do, to cover willing, since it’s willing that’s basic, though! Felice Cimatti. Keywords: homo sapiens, storia innaturale, animale, bestia, linguaggio, segno, vita, zoosemiotica, prodi, corpo, codice, mente, cognitivismo, comunicazione, animale, soglia semiotica, mentalismo, storia innaturale, comunicazione giovenile, fundamenti naturali della comunicazione, percezione e comunicazione, comunicazione come percezione trasferita, psi-transfer. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cimatti” – The Swimming-Pool Library.

 

CIONE (Napoli). Filosofo. Grice: “I love Cione; my favourite is “The age of Daedalus – which reminds me of Gilbert’s statuette and the Italian model who posed for him – the story of a failure!” Grice: “But Cione philosophised on various other subjects as well, such as Leibniz, and of course, Croce – in his case, first-hand knowledge! – and mysticism, and Mussolini, and the rest of them – He thinks there is a Neapolitan dialectic, and really is in love with his environs – his study of ‘romantic Naples’ reminds me of my rules of conversational etiquette! – especially the illustrations involving gentleman-lady interaction!” Di tendenze socialiste, e in un primo momento anti-fasciste, studia sotto Croce. Perseguitato della prima ora dal fascismo, viene rinchiuso nel campo di Colfiorito di Foligno e poi mandato al confino a Montemurro. Attratto dal nuovo indirizzo espresso dal Manifesto di Verona, aderisce alla Repubblica Sociale Italiana. Chiede e ottiene il consenso di Mussolini (il quale si rende esplicitamente concorde) per la costituzione di una formazione politica indipendente dal Partito Fascista Repubblicano, denominata in un primo momento Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista e, in seguito, Partito Repubblicano Socialista Italiano. A tale formazione politica, su suggerimento dello stesso Mussolini, sarà concessa anche la pubblicazione di un quotidiano L'Italia del Popolo. Il Duce però non aveva nessuna fiducia né nell'uomo né nell'impresa, tanto che durante una conversazione con l'ambasciatore Rudolf Rahn preoccupato per una possibile apertura "a sinistra" del capo del fascismo ebbe a dichiarare:  «Per ingannare i nostri avversari ho lasciato, non appena ho pensato che il nuovo fascismo in Italia fosse abbastanza forte, che alcune contro-correnti dicessero la loro, tra l’altro ho permesso che si formasse un gruppo di opposizione sotto la guida di Cione. Non ha una gran testa, e non avrà successo. Ma la gente che ora sta cercando di crearsi un alibi si raccoglierà intorno a lui e quindi sarà perduta per il comitato di liberazione che è molto più pericoloso. Salvatosi dalle epurazioni partigiane nel dopoguerra, si costruirà una carriera politica nell’Italia repubblicana. Milita nel Fronte dell'Uomo Qualunque. Successivamente, quando il partito di Giannini si sciolse, entra nel Movimento Sociale Italiano e venne eletto consigliere e poi assessore della giunta di Achille Lauro. Si candida al Senato con la lista della fiamma nel colleggio di Afragola ma non fu eletto. Deluso dai missini, adiere alla democrazia cristiana, senza però svolgere una militanza attiva nel partito. Negli ultimi anni di vita cercò di conciliare il messaggio di papa Giovanni XXIII con le aperture di Nikita Kruscev oltre la cortina di ferro. Altre opere: “Valdés: la sua vita e il suo pensiero religioso con una completa  della sua opere e degli scritti intorno a lui” (Laterza editore); “Sanctis, Ed. Giuseppe Principato); “L'opera filosofica, coautore Franco Laterza, Laterza editore); “Napoli romantica” (Gruppo Editoriale Domus); “L'estetica di Sanctis” (Pennetti Casoni Editore); “Da Sanctis al Novecento” (Garzanti); “Nazionalismo sociale” “l'idea corporativa come interpretazione della storia” (Achille Celli Editore); “Napoli e Malaparte” (Editore Pellerano-Del Gaudio); “Storia della repubblica sociale italiana” (Ed. Latinità); “Croce, coll. "I Marmi", Longanesi); “Crociana” (Fratelli Bocca); “Sanctis” (Montanino); “Questa Europa” (M. Mele); “Fascino del mondo arabo: dal Marocco alla Persia, Cappelli Editore); “Croce” (Loganesi); “Fede e ragione nella storia: filosofia della religione e storia degli ideali religiosi dell'Occidente” (Cappelli Editore); “La Cina d'oggi, Filippine, Formosa, Giappone” (Ceschina); “Leibniz” (Libreria scientifica editrice); “Narrativa del Novecento, Istituto editoriale del Mezzogiorno); “L’eta di Dedalo”; “Un viaggio elettorale, Bompiani). Dizionario Biografico degli Italiani. Un ex allievo di Croce negli ultimi mesi di Salò crea un "partito contro" su suggerimento del ministro dell'Educazione Biggini di Silvio Bertoldi.Domenico Edmondo Cione. Keywords: l’idea corporativa, corporativismo, storia del nazionalismo sociale, icaro, la caduta d’icaro, icaro caduto, dedalo e la civilta greco-romana, corporativa, principio corporativo, principio cooperative, corpotivismo, corporatismo, corporativismo, ideale corporativo, conservative as corporativo, ugo spirito, “pocca testa”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cione” – The Swimming-Pool Library.

 

CIVITELLA (Montorio al Vomano). Filosofo. Delfico-de-Civitella (under Ser Marco). (Montorio al Vomano). Filosofo. Grice: “I love Delfico – while he wrote on Roman jurisprudence – Hart’s favourite summer read! – mine is his (Delfico’s, not Hart’s) little thing on the beautiful – we must remember that back in them days of Plato, ‘kallos, ‘pulchrum,’ or ‘bellum,’ is a diminutive of ‘bonus,,’ as in ‘bonello’ – the point is important for for Platonists, love (that makes the world go round) is desire for the ‘bello’ including the MORAL bello – so it is the key concept in philosophy – and not as Sibley and Scruton narrowly conceive it!” Civitella è giustamente ritenuto il Nestore della letteratura napoletano. Questo illustre autore di molte opere di storia e di una varietà di soggetti interessanti, unisce ad una vasta istruzione una accuratissima e profondissima conoscenza di ogni aspetto che interessa la sua terra; e possiede, ad un'età così avanzata, l'ancor più raro merito di saper comunicare le preziose esperienze acquisite con una amenità di maniere, una facilità e semplicità di espressione che le rendono più apprezzate a quelli che le ricevono. Figlio di Berardo e Margherita Civica, nacque nel castello feudale di Leognano, in provincia di Teramo. Le origini della sua famiglia risalivano almeno al secolo XVI quando Pir (o Pyr) Giovanni di Ser Marco, generalmente riconosciuto come il capostipite della famiglia, cambia il proprio cognome in “Delfico” e adotta il motto “eat in posteros Delphica Laurus”. Secondo alcuni, e tra questi Luigi Savorini, il cognome originario era “de Civitella”. All'interno della sua famiglia va individuato come Melchiorre III. Rimasto ben presto orfano di madre, fu dapprima affidato ad ecclesiastici ed in seguito inviato a Napoli,  per il completamento degli studi. Nella capitale del regno ebbe maestri insigni quali Genovesi per le materie filosofiche per l'economia, Rossi per le materie letterarie, Ferrigno per il diritto e Mazzocchi per l'archeologia.  Nella città partenopea si laureò in utroque iure sotto la direzione di Filangieri e redasse subito diverse memorie per il governo. Ha già indossato l'abito ecclesiastico, ma se ne spogliò subito per motivi di salute.  Nella prima parte della vita si dedica in particolare allo studio della giurisprudenza e dell'economia politica, scrivendo numerosi trattati che esercitarono un grande influsso nel miglioramento e l'abolizione di molti abusi.  Con il ritorno in patria si inizia un periodo fondamentale per la storia della città e dell'intero regno di Napoli. Intorno a loro si riunisce un importante gruppo di filosofi che crea le premesse per un profondo rinnovamento sociale, politico ed economico del territorio in cui agiscono. Tra questi troviamo Cicconi, Comi, Lattanzi, Nardi, Quartapelle, Tulli, Nolli, Orazio Delfico, il figlio di Giamberardino, che fu allievo di Volta e Spallanzani, e l'altro nipote, Michitelli, che fu architetto noto in tutto l'Abruzzo. Si appassiona al collezionismo, in particolare di libri antichi e monete di epoca romana e pre-romana. Nominato presidente del Consiglio Supremo di Pescara e poco dopo membro del governo provvisorio della Repubblica Partenopea.  Caduta la Repubblica Partenopea anda in esilio per sette anni nella Repubblica di San Marino che gli riconobbe la cittadinanza. Scrisse il saggio “Memorie storiche della Repubblica di San Marino”, prima storia organica dell'antica repubblica. La Repubblica del Titano ha emesso una serie di 12 francobolli e ha coniato una moneta d'argento dal valore nominale di 5 euro per commemorare il filosofo e ricordarne la permanenza sul proprio territorio.  Sotto Giuseppe Bonaparte, nominato re di Napoli, entra a far parte del Consiglio di Stato, ricoprendo varie cariche ministeriali.  Restaurato il governo borbonico, fu nominato presidente della commissione degli archivi e successivamente Presidente della Reale Accademia delle Scienze. Venne eletto deputato al Parlamento napoletano e fu chiamato alla presidenza della Giunta provvisoria di governo. Si stabilì definitivamente a Teramo. La famiglia di Melchiorre Delfico si estingue con Marina, sposata al conte Gregorio De Filippis di Longano, ando origine all'attuale famiglia dei conti De Filippis marchesi Delfico. La filosofia di Civitella si forge nel fermento culturale del Secolo dei Lumi e del diritto naturale, le cui idee gius-naturalistiche furono compiutamente esposte da un lato nell'opera di Locke, dall'altro in quella di Rousseau, nelle quali i principi del diritto naturale erano rappresentati dalle idee di libertà e di eguaglianza di tutti gli uomini. I fermenti culturali del periodo assunsero una valenza rivoluzionaria e contribuirono all'abbattimento di una struttura sociale logora ed invecchiata, che si reggeva ancora ai capricci bizantini dell'autorità invadente.  Proprio tali tesi gius-naturalistiche furono gli strumenti a cui si richiamò l'opera del Delfico, permeata dall'anti-curialismo, anti-Roma, dalla compressione della feudalità, dall'anti-fiscalismo e soprattutto dall'abbattimento del monopolio forense, ritenuto il baluardo principale del regime. Ciò che caratterizza la sua visione politica è una nuova concezione dello Stato, non più ispirato al predominio politico e svincolato dalle regole della morale corrente.  Come politico e come giurista, e eminentemente pratico, così da poter essere ricordato come uno dei più illuminati riformatori del suo tempo.  Al suo nome sono intitolati a Teramo il Convitto nazionale, il Liceo Classico e la Biblioteca provinciale che ha la propria sede nel Palazzo Delfico. Numerosi i comuni che hanno intitolato strade a filosofo. Altre a Teramo  e alla frazione di San Nicolò (nello stesso comune teramano), si segnalano Sant'Egidio alla Vibrata, Penna Sant'Andrea e Roseto degli Abruzzi in provincia di Teramo; Montesilvano, Pescara e Milano. È noto che esistono Logge massoniche intestate a Civittella, ma ci si chiedeva se lui stesso fosse stato massone.  Questo interrogativo è stato posto da parecchi storici ma non esisteva una risposta documentale. Esistono invece molte prove indiziarie relative alla sua appartenenza alla Massoneria, per le quali rimandiamo all'appendice del volume di Franco Eugeni, Carlo Forti, allievo di N. Fergola. I principali indizi si possono così riassumere:  I maestri ed amici di Civitella, come Genovesi, Pagano, Filangeri, furono tutti noti massoni;  In un diario del curato Crocetti di Mosciano appaiono notizie di una Loggia massonica esistente a Teramo. Assieme a Quartapelle, subisce due processi per miscredenza. Promuove un movimento culturale detto '’La Rinascenza'’ di chiaro stampo illuminista. Nella rinascenza militano tutti i filosofi del tempo: i Tulli, i Quartapelle, Comi, Pradowski ed altri; La poesia di Pradowski sembra proprio la descrizione di una Loggia. Manda il nipote Orazio Delfico, futuro Gran Maestro della Carboneria teramana, a studiare a Pavia da Spallanzani, Volta e Mascheroni, tre noti massoni del tempo.  Perrone pubblica un saggio basato sulla corrispondenza di Münter con noti massoni napoletani lo dà come sicuramente massone, anche se "il suo nome non s'incontra nelle logge razionaliste". Altre opere: “Saggio filosofico sul matrimonio” (s.n.tip. ma Teramo, Consorti e Felcini); Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del regno” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Riflessioni su la vendita de’ feudi” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); Pensieri sulla Istoria e su l'incertezza ed inutilità della medesima, Forlì, dai torchi dipartimentali Roveri); “Nuove ricerche sul bello” (Napoli, presso Agnello Nobile); “Della antica numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche” (Teramo, Angeletti).  Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   Il Palazzo Dèlfico, Edigrafita  Nico Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio, Giacinto Cantalamessa Carboni, Sulla vita e sugli scritti del commendatore Malchiorre de' Marchesi Delfico, in Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti,  Raffaele Liberatore, Melchiorre Delfico. Necrologia, in Annali civili del Regno delle Due Sicilie, Ristampato come Delfico (Melchiorre), in: De Tipaldo Biografia degli Italiani illustri, Venezia, Ferdinando Mozzetti, Degli studii, delle opere e delle virtù di Melchiorre Delfico, Teramo, Angeletti, Gregorio De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere, Teramo, Angeletti, Raffaele Aurini, Delfico Melchiorre, in: Dizionario bibliografico della gente d'Abruzzo,  ITeramo, Ars et Labor, ora in Nuova edizione, Colledara (Teramo), Andromeda editrice, Vincenzo Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, l'attività presso il Consiglio delle finanze, Roma, Edizioni di storia e letteratura, Vincenzo Clemente, Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, Donatella Striglioni ne' Tori, L'inventario del Fondo Delfico. Archivio di Stato di Teramo, Teramo, Centro abruzzese di ricerche storiche, Gabriele Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, Pisa, Edizioni ETS,  Nico Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione, Palermo, Sellerio. Treccani. Il dritto romano e sempre incerto ed arbitrario. Tale il suo carattere, poichè sebbene non gli mancassero ancora degli altri nei, pure quelle sole qualità (incertezza e arbitrarieta) sono bastanti per renderlo mostruoso e deforme. E di esse specialmente imprendo a trattare, come quelle che portarono a luce la vantata giurisprudenza romana. Ed accio questo ordinatamente si vegga, fiaci opportuno il seguir la storia che della nascita e de felici progressi di essa ci somministra i lumi i più importanti. Fra gli innumerevoli doccumenti tal oggetto riguardanti, prescelgo quello di cui tutti gli i filosofi si servirono, quasi di testo alle loro ricerche e commenti. Già si vede che io parlo delle opera del giureconsulto Sesto Pomponio, della quale si avvalsero i compilatori del dritto giustinianeo, rapportando nel titolo dell’origine del dritto, tuttocid che il nomato giureconsulto aveva raccolto su tal oggetto nel suo Manuale. E poichè Pomponio incomincia la storia del dritto dai re di Roma, dello stesso momento conviene seguirlo. In questa prima epoca abbastanza oscura non vi sarà pero materia di dispute, poichè Sesto Pomponio parlando conformemente alla ragione ed alla storia dice che Roma da principio visse con incerte lege gi e con dritto incerto e tutto dal regio arbitrio e governato. Ciocchè si deve intendere per quella parte che appartene al capo dell’aristocrazia nella qual forma Roma ebbe il suo incominciamento. Quindi Pomponio si espresse nelle precise parole. Populus sine lege certa, sine jure cento primúm agere instituit. Ne altrimenti doveva avvenire, poichè quella prima associazione essendosi formata di gente malatta al vivere socievole, e non avendo ancora positiva forma di società, doveva essere piuttosto regolata dalla forza del comando che da un stabilimento positivo. Ciascuno sa che Romolo per accrescere il numero de primi suoi compagni, prese l’espediente di aprire un asilo da era retto ve s9 ) da che si puo comprendere quali fossero i primi fondatori di Roma. I di lui favoriti furono i più valorosi briganti, e questi divennero i padri della patria, i forti, i primi quiriti, e formarono il senato come una Dopo questi primi tratti caratteristici relativi al le leggi Pomponio siegue a raccontare tradizione, che essendo cresciuta in qualche modo la città, Romulo divise il popolo in tante parti chiamate curie e col voto di esse prende. 9 va cura delle pubbliche cose, e fece in seguito la legge che si chiama legge curiata, come no , fecero ancora i re successivi, e tutte furono, raccolte da Sesto Papirio, il quale visse al tempo di Tarquinio il superbo, e dal nome dell'autore quella raccolta fu chiamato “dritto papiriano”. Non m'impegnerà nelle dispute istoriche e critiche delle quali si occuparono gl' interpreti di Pomponio, ma osservero che sebbene da principio parli dello stato informe di Roma e dell’autorità regia non modificata dalle legge, fa dindi vedere come fu data una forma, non una costituzione alla città nascente, e come dai re fu promulgata la legge curiata. Per due secoli e mezzo in circirca; quanto duro la regia signori , Roma non ebbe dunque che questa o quella legge occasionale, e la società fu mantenuta più col governo che colle legge. Prima intanto di passar oltre, e per la migliore intelligenza de’ tempi seguenti, non sarà inutile il presentare in poche parole lo stato politico del popolo romano sotto l’epoca dei re, e quale fosse l’indole della legislazione per tutto quel tempo. E poichè di cose che non ebbero autori contemporanei o vicini, non è possibile il ragionare con precisione ed esattezza; percio scortato dalla natura delle circostanze e dalle tradizioni pervenutaci, m’ingegnero di esporle nell’aspetto il più ragionevole. Fra l’oscurità delle origini romane possiamo rilevare che quella società incomincia da un adu namento di persone appartenenti a vari popoli non solo italici, ma greci e celtici ancora. Codesta tumultuaria associazione avendo Romulo per capo visse da principio di prede e di rapine, gusto che fece il perpetuo carattere della nazione, trasformato poi in quello di conquiste, come gli avol toi comparsi a Romolo nel prendere gli auguri furono poscia nobilitati in aquile vincitrici. In tale stato di cose non vi fu da principio bisogno di leggi, la legge, poichè non vi era proprietà, essendochè Roma fu fondata come Livio si esprime in fondo alieno, e le piccole private dispute erano decise dalla volontà del capo, come presso tutti i popoli barbari, e nelle società de’ briganti è sempre ava venuto. Avviene similmente che nel formarsi tali associazioni, si gittino i fondamenti dell'aristocrazia , e così avvenne di Roma. Il palagio di Romolo fu una succida capanna: il di lui trono quattro zolle che lo rialzavano dal suolo. Il Senato fu la scelta de’ commilitoni o complici delle sue rapine. I patrizi quelli che poterono vantare certezza di natali e qualche superiorità di ricchezze; e tutto il resto fu vile plebe o volgo profano. Questa è la divisione naturale dell’aristocrazie nascente. ‘Padre,’ ‘patrizio,’ ‘patrone’ furono nomi di versi appartenenti alle stesse persone secondo i va. rj rapporti ne' quali erano considerati, o di Senato consultivo, o di corpo aristocratico, o di superiorità immediata su le divisioni della plebe, la quale che che ne dicano i tardi autori della storia non ebbe alcuna parte di potere nè costituzionale nè amministrativo. Gli stessi autori dai fatti fanno scorgere questa verità alla quale contrariano colle parole. Festo il quale aveva trascritto le notizie dagli antichi autori, parlando dell’origine delle clientele si esprime in termini rappresentativi della verità, cioè come d’una divisione di gregge piuttosto che d'un popolo. Patrocinia appellari capra sunt cum plebs distribuia est inter paires. Ne si devono contare per un ordine intermedio di citetadini quegli equiri o celeri o i fossuli nominati fin dai principi di Roma, poichè non appartenevano allo stato politico ma al stato militare. Non è possibile il seguire i naturali progressi di quella società nascente, e vedere come a poco a poco si andasse a consolidare in quella forma nella quale da principio era stata abbozzata. Sotto il re Numa vediamo i primi passi di qualche civilizzamento, lo stabilimento della proprietà territoriale: la prima legge relativa alla religione ed al delitto, lo stabilimento dei ministri e degli interpreti della divinità; ed in somma un principio di governo teocratico, pel quale pare che sieno passate tutte le nazioni prima di portare su le cose civili le considerazioni proprie della ragione. Ma quello che specialmente riflettere dobbiamo è che sotto quel re teosofo ebbero i primi principi le scienze ancora della legge e del politico governo. Non si dee durar gran fatica per trovare de’ rapporti religiosi in tutti gli atti umani e farli nascere ancora in un popolo quanto ignorante tanto superstizioso. Così par che facesse Numa o per idea propria o per imitare i stabilimenti della sua nazione o pel natural corso del sociale andamento; cosi gitid i veri fondamenti di quell’aristocrazia sommamente poderosa poichè combina nello stesso corpo gl’interessi del sacerdozio e dell’impero, o le due aristocrazie, politica e sacerdotale. Su questo piano Roma crebbe successivament sotto i re. L’aristocrazia fu sempre salda contro le regie intraprese, e la storia ci mostra con quali mezzi crudeli e sacri seppe sostenersi. Massacrarono Romolo e ne fecero un dio. (Cristo). Tale idea pero del primo governo di Roma è stata generalmente sconosciuta, ed il primo per quanto io sappia a darne l’idea fu il nostro Gian Battista Vico, il quale riunendo alla multiplicità delle filologiche cognizioni la filosofia indagatrice delle origini sociali, fra le tenebre della rimota antichità, e fra le favole e le ricordanze degli antichi costumi seppe scoprire come un principio naturale politico, che nel comune corso delle nazioni la società primitiva comincia sempre dall’aristocrazia, la quale deve nascere dalla qualità delle circostanze, dall’ignoranza de’ dritti, e della compagna superstizione. Le luminose tracce di Vico furono poi seguite dal Duni e fermatosi particolarmente a considerare il governo romano, dimostra che Roma nacque aristocratica, che il re none che il capo dell’aristocrazia, che i soli patrizi ebbero la quarta di cittadini che furono in perfetto stato di combinazione l’aristocrazia politica e l’aristocrazia sacerdotale, e che il nome di ‘popolo’ ne’ primi tempi ai soli patrizi appartenne, come quelli che soli godevano del dritto della cittadinanza (cives polis), i quali poi furono gradatamente dalla plebe acquistati. Egli concilia luminosamente la contradizione in cui par che cadesse il giureconsulto Pomponio e fa vedere che il re non ha che una parte del governo o dell’amministrazione, ma che la somma dell’autorità , la vera sovranità, il potere legislativo, il dritto della pace e della guerra risedevano nel corpo de’ patrizi, come anche il dritto di eliggersi il loro re o principe. Furono essi i depositari delle leggi e delle medesime i (Duni Orig. del Citted. Romano . 1) ministri ed interpreti: e siccome per un’eterna verità l’aristocrazia non si sostiene che sull’appoggio della superstizione. Cosi dal corpo aristocratico si sceglievano i vari sacerdozi, e fra essi il corpo de’ pontefici fu specialmente destinato a dar i giudici alle divine cose ed umane. Quindi la conoscenza della legge e l’amministrazione delle medesima fu un dritto esclusivo e divenne una dottrina arcana, conservata con tutta la gelosia del mistero, dispensata solo a modo d’oracoli e strettamente custodita nell’ordine de’ patrizi. Codesta emanazione della prima teocratica idea non solo si conserva per quanto ebbe di durata il governo del re ma per quanto visse la Roma. Una repubblica, colla sola differenza pero che come crebbero le cognizioni ed i necessari riflessi della ragione, e da essi nacquero i sentimenti di libertà e di eguaglianza, così quelle idee si andiedero a poco a poco estenuando, finchè non ne rimasero che i soli simboli commemorativi, o il nome senza la cosa, o le cose senz’alcuna effettiva in Auenza. E necessaria questa breve esposizione, per cogoscere quale fosse lo stato della legge, dell' am ministrazione giudiziaria e della giurisprudenza ne’ primi tempi di Roma; e senza impegnarci nella particolari legge sotto il re emanata dal senato regnante, possiamo con sicurezza affermare che la legge fu minima, eventuale ed incerta, e che l’interpretazione delle medesine essendo stato un dritto di corpo o di ordine affidato ad alcuni individui, possiamo dire ancora che la giurisprudenza fu incerta, irregolare, arbitraria, e quale ad una nazione anco sa ignorante e superstiziosa poteva solo convenire: e per conseguenza esser stato pur vero ciocchè Pomponio scrisse, che sotto i re sine lege Gerta , sine jure certo vissero i romani. Lascio agli ambiziosi di glorie filologiche legali l’andar raggruzzolando I pochi superstiti frammenti della legge regia, poichè i stessi antichi giure consulti ne fecero poco conto e le lasciarono finalmente perire. Chi volesse però riconoscerle, troverebbe in esse la conferma di quelle idea superstiziosa caratteristiche della prima aristocratiche associazione. Espulso il re si crede comunemente che il governo di Roma cangiasse d’aspetto e da quel momento si cominciano a contare gli eroi della libertà. Ma chi - giudica senza prevenzione non vi troverà che gli eroi dell’aristocrazia . Anche quessti parlano di libertà; della propria libera però non della liberta pubblica, e per servirmi delle parole di Dionisio, della libertà propria e del dominio su gli altri. Quindi Roma non vide alero cangiamento che di due re invece di uno e la legge e l’amministrazione politica e civile rimasero nella stessa condizione. L'incertezza fu seguita dell'incertezza; l’arbitrio dall’arbitrio, ciocchè ci dà manifestamente ad intendere Pomponio dicendo: Exactis deinde regibus . .ae . iterumque cæpic populus Romanus incerto magis jure & consuetudine ali quam per latam legem, idque prope sexaginta annis passus est. L’aristocrazia era stata alquanto abbassata dall;ultimo re, per cui ebbe fine il suo governo, ma dopo la sya espulsione ritorno presto nel pria miero vigore. Quindi gli effetti dovevano essere conseguenti, e tutta la storia è una pruova dimostrativa. Infatti si sa che dall’anno fatale ai Tarquini, fino al tempo della leggi decemvirale, il potere legislativo ed il potere giudiziario furono privativi del corpo aristocratico. Troppo lungo sarebbe ora il seguire tutta la serie de dibattimenti intervenuti fra i patrizi ed i plebei, quando questi già stanchi dell’incertezza della leggi civile, della forma esclusiva di governo, e della schiavitù nella quale erano tenuti, tentarono de’ mezzi per alleviarsi in qualche modo dalle gravezze ond’erano oppressi. Ottenuto il tribunato si avvidero ben presto che esso era troppo debole ostacolo contro la tirannia de patrizi, la quale efforcivamente era annidata dentro la stessa legge e fortificata dallo spirito di corpo (sprit du corps) , che fieramente la difende. L’insurrezione, la secessione, soli mezzi che può escogitare un popolo schiavo ancora dell'opinione, furono più volte ripetute; ma le loro domande erano incerte, le loro querele generali, ed i loro desideri si riducevano ad essere considerari come uomini e come cittadini: Ut hominum ut civium numero simus . In questo stato compassionevole compresero finalmente che niun mezzo vi poteva essere migliore per ottenere l’intento che quello di formarsi una legislazione generale, poichè la sola legge puo stabilire la libertà e l’uguaglianza civile, potevano esser riguardati come uomini cittadini. Strano ed arrogante sembra al patrizio il desiderio della plebe, e strano parrà sempre al possessore del potere arbitrario il desiderio del ristabilimento della legge e della giustizia. Quindi il patrizio non lascia mezzo intentato per frastornare il plebeo dalla lodevole intenzione e persuaderli che i patri costumi erano sufficienti e che di nuova legge non vi era bisogno; mores patrios observandos, le ges ferre non oportere. Furono intanto inutili le persuasioni , e lo stato infelice nel quale il plebeo si trovava detta suo questo solo espediente. Non altrimenti che l’oracolo consultato da Locresi sul modo di sedare le civiche discordie rispose loro: fatevi la legge; i Romani plebei sentirono l’oracolo della ragione e della infelicità nella qua Je gemevano. Vollero quindi la legge, ma ciascuno sa, come tutte le arti aristocratiche furono messe in uso per ingannare quel popolo che spesso riposava colla più buona fede sopra i suoi naturali e costanti nimici. Si sa come i deputati i quali dovevano mandarsi in Atene e nelle altre Città della Grecia e dell'Italia a raccorre la legge per la nascente regina del mondo, si occulta rono in qualche luogo d'Italia , e la legge poi fu tirata dalle arche pontificali  e perchè nulla mancasse di condimento aristocratico, si fecero poi impastare e disporre da quell’Ermodoro esiliato da Efeso dal partito popolare. La storia relativa E 3 alla moeten alla legge delle dodeci tavole se fosse trattata con quell’accuratezza che pur le converrebbe, sarebbe un articolo sommamente istruttivo; ma questa ricerca veramente politica è stata molto trascurata. Il popolo domanda una legge della quale il console si dovesse servire e che non dovessero aver più in luogo di una legge il capriccio o la privata autorità; non ipsos libidinem ac licentiam pro lege habituros. Il patrizio risponde che di una nuova legge non fa mestieri, e che bastavano la usanza, no la legge. Il popolo adduce ragioni, il patrizio face parlare la religione, e questa spesso parla per bocca de buoi e di altri animali, del linguaggio de quali si fa un merito d'essere interprete. I plebei volevano che la legge si facessero dal popolo legitimamente e liberamente congregato. Il patrizi sostiene che non vi sarebbero stata altra legge, che quelle ch'essi stesse avrebbero fatte: darurum legem neminem, nisi ex parribus ajebant. Il popolo vuole una legge di uguaglianza. Il patrizio le promette in parole; sicuro di non essere nel fatto obbligati a mantener. Finalmente dopo tante vicende le dieci tavole furono pubblicate e successivamente le altre due come ci fa sapere la storia. La storia ci dice ancora che con esse ogni diritto e resi uguali: omnibus summis infimisque jura æquasse: e ci dice ancora che il popolo la esamino e la approvó solennemente. Ma la storia stessa ci dice che quel bravo legislatore a anche più bravo tiranno; che sconvolsero tuttol'ordine pubblico e secondo Livio nihil juris in civitate reliquerant, che per quella legge ogni consuetudine aristocratica e conservata, che la vantata uguaglianza resiò in parole; e che al primo momento di paragone il popolo riconobbe d' essere stato ingannato. La favola dell’invio de’ deputati in Grecia è stata pienamente scoverta da molti autori e specialmente dal Vico, da Bonamy e da Duni: la favola d;essere state leggi di uguaglianza e di giustizia, la può scoprire facilmente ognuno che voglia leggere con critica la storia •gli avanzi di quelle leggi . La scovri ancora il E 4 po . (Vico : Scienza nuova; Bonamy, Memoir. de litterar. de l' Accad. de Paris. Tom . XVIII; Duni : Dėl Cittad. Rom) popolo , quando ritornato in cal ma dopo l’abolizione del decemvirato potè tranquillamente esaminar la legge, ed invece di vederne tali che classificasse la gente come uomini e come cittadini, non trova che una legge civile, una legge criminale, una legge funeraria e una legge religiose, che punto o poco l'interessavano. Per essere classificati per uomini o per cittadini vi bisognavano una legge costituzionale che avessero ragguagliati i dritti, che li avesse egualmente interessati alla cosa pubblica, che li avesse ammessi ai suffragi. Niente di tutto questo; e la plebe resto delusa della sua troppo malfondata speranza. Vedremo in seguito come seppe rinnovare le giu ste sue pretenzioni ; ed in tanto senza voler fare l'analisi di que’miseri frammenti delle leggi decein virali , è pur giusto portarvi uno sguardo generale per vedere almeno, se meritano tutti gli elogi de' quali sono state ciecamente onorate dagli antichi é da moderni ; ed osservare in seguito, se ne pro venissero quegli effetti felici, ai quali produrre era no state destinate. Cicerone in più luoghi esaltan dole sopra tutte le leggi conosciute , non è poi molto felice nel darne le pruove ; così condanna Solone , per non aver imposto pera al parricidio , supponendolo impossibile , o volendolo supporre talo tale per onore dell'umana natura; ed elèva la seviezza della Romana legislazione per aver saputo inventare una pena orribile e crudele. O singola , sem sapientiam ! esclama egli dopo aver lungamen: te ragionato con Logica forense. Tale fu la sa viezza di que’ legislatori ne' varj rami di quelle leggi ; poichè se si riguardano per la parte crimi nale esse furono Aristocratiche , ingiuste , severe , é crudeli. Se per la parte del dritto pubblico, del la quale poch’indizi ci sono restati, andavano al la conservazione dell ' Aristocrazia : se per quella della Religione e de' funerali, corrispondevano ai superstiziosi concepimenti del tempo: se per ciò che riguarda l'ordine giudiziario, dovevano esser ana loghe alle leggi ed all' usanze : se per la parte te stamentaria , è facile il vedere, ch' esse contene yano la massima ingiustizia politica , per conser vare in forza gli Aristocratici dritti : della stessa indole furono le indegne leggi relative alla patria potestà ed alle altre relazioni domestiche nelle quali sempre campeggia lo spirito di famiglia. In quanto al contratto, la legge furono pur sempli ci , come devono essere in un popolo barbaro con pochi rapporti civili; ma le usure d'ogni spe cie furono terribili. Chiunque vorrà esaminar quel te leggi in buona fede , e misurarle secondo i vem ri rapporti che le leggi devono avere colla natura e collo stato civile , troverà senza fallo ingiusti ed irragionevoli gli encomj alle medesime attribui. ti . Ma forse neppur in Roma si pensò tanto favo revolmente di esse, poichè col tempo par che fos - sero del tutte néglette e dimenticate. Cicerone stesso riferisce che al suo tempo neppure erano ben intese , e sebbene egli nell'infanzia le avesse ap prese a memoria , era poi passato di moda tal co stume : discebamus enim pueri XII. ut carmen ne cessarium , quas jam nemo discit. Ed in seguito al riferir di Gellio erano cadute . in tale disprezzo ed obbllo, ch' erano derise come fossero le leggi dei Fauni e degli Aborigeni . Si può trovar intanto qualche motivo, pel quale si possono difendere gli antichi panegiristi delle leggi decemvirali ; poichè per quanto fossero selvatiche quelle leggi , godevam no pur dei dritti che danno l'opinione e l' anti chità; e paragonata la giurisprudenz'antica a quel la degli ultimi tempi della Repubblica, il paragone risultava in favore della prima. Ma che i Giure consulti moderni , e quelli specialmente della setta degli eruditi riguardino ancora lo studio dei mi peri frammenti superstiti come il più interessante per MC 75 per la conoscenza del giusto, e rincariscano su gli elogj degli antichi, cið non può essere che l'effetto d'un Letterario fanatismo Se Livio chiamo le leggi delle XII tavole fonté ogni equità fu troppo credulo alle espressioni ed alle promesse degl’iniqui decemviri. Qual nie fu infatti l’utilità pel popolo Romano? La severa ed ingiusta costi tuzione non fu cangiata , e da quella vantata ugua glianza la plebe neppure ottenne di acquistar la condizione desiderata . Per quel principio Teocrático , di sopra accen nato , ciò che distingueva in tutti gli effetti civili tanto pubblici che privati , il patrizio dal plebeo , era il dritto degli Auspicj . Era questo dritto che dava la vera qualità di cittadino negli affari sacri e ne'civili ; ed incominciando dal primo vincolo sociale , cioè dalle nozze ' , con i soli auspicj si produceva il connubio o nozze solenni, dalle qua li derivava il carattere di padre di famiglia , la patria potestà , e la facoltà di testare ; e questa specie di nozze era de' soli patriz; ; poichè gli al tri ridotti al matrimonio civile o naturale senza prevj auspicj non potevano godere delle stesse prerogative. Gli auspicj e propriamente gli auspi cj maggiori poi erano i soli mezzi per aver drito 1 ( 76 ) alle Magistrature , e far parte dell'ordine regnante dello stato. Or niun cangiamento fu fatto da quel le vantate leggi su di un articolo tanto importante in quella costituzione nella quale tutto era sacro ; e la Storia c'insegna, quanto poi costasse di tran quillità alla Repubblica, il voler introdurre in qual che modo l'uguaglianza. Sebbene si vänti l ' Oratoria e la giurisprudenza de' tempi più antichi di Roma , pure si può asse rire , ch ' esse non avessero propriamente la loro origine che dopo la pubblicazione delle XII tavole . Si crederà intanto che quel prezioso codice avendo acquistata due qualità principali, cioè d'eso ser pubblico e generale, avesse resa ceria e stabia le la legislazione. Autorizzato dal popolo , fisso nel foro e delle curie , ciascuno doveva trovarvi la certezza de' giudizj , la sicurezza de'suoi dritti la legittimità de' suoi dominj; ma su questa con seguenza ci fanno nascer gran dubbj gli antichi Autori e molti fatti conosciuti. Convien sempre ricordare che il principal carac tere delle prische Aristocrazie fu la misteriosa cu stodia delle leggi o consuerudini, e della religione, ciocchè formava il privilegio esclusivo, o la pri yatiya di quella sola sapienza che gode del bujo & del ( 77. Det ZE = ; pro ice e della pubblica ignoranza . Ma codasta sapienza Romana era fondata parte su l’ingiustizia , parte su l'errore : su questo , perchè la loro scienza saa cra ed arcana non consisteva nel celare al volgo i misteri della natura , l'origine della cose, l'enera gia della forza motrice, la fecondazione dell’universo, ed altri tali idee nascoste ai profani presso le altre nazioni : la loro scienza arcana si raggira va sul cantare o cibarsi dei polli , sul volo degl uccelli, sull'andamento del fumo su i tremori delle viscere , e simili cose , alle quali non pud appartener mai il nobile titolo di scienza o sapien . ma quello solo di vane osservanze . L'errore poi lo facevano servire all' ingiustizia , poichè con tali mezzi si mantenevano nell'assoluta disposizio ne delle leggi , facendole servire alla conservazione del preteso dritto del più forte, cioè alla soy version ne di tutte le idee del giusto. Or poichè quelle leggi qualunque fossero erano pur pubblicate , una parte della scienza arcana e dell' aristocratico potere sarebbe andato a svanire , se non si fosse trovato un modo col quale si ae vesse potuto riparare una perdita si grave. Ques sto si effetrul col conservare il potere giudiziario Dell'ordine de' patrizj , e col rendere inutili le lege es za 7 bid SSO rvi ti chi Tale Cu ne, ori ujo el gi ( 78 )* gi; se non fossero state avvalorate dalla doro re condita sapienza . Essi dovevano spiegarne il sen so ; essi conoscere qual dritto nasceva da una tal legge ; qual era l'azione che ne proveniva , quale il modo o la formola di proporla, quale l'eccezione che poteva impedirla ; e finanche si arrogarono come un mistero sapere i giorni ne' quali si poteva amministrar la giustizia senza offendere i Numi . Ecco insomma la giurisprudenza , ossia il mezzo di rendere inutile anzi dannoso alla società il beneficio d'una Legislazione. Essa vanta un ori gine Aristocratica , un origine che si confonde coll' errore , colla malizia , e colla prepotenza . Sebbene dunque la giurisprudenza fosse nata su bito che vi furono leggi incerte ed arbitrarie ; pu re non si confermd , estese e stabilì nelle forme , che dopo la pubblicazione delle XII . tavole ; dopo questo prezioso compendio dei dritti degli uomini e degli Dei. Pomponio conferma le mie parole. Dopo pubblicate (egli dice) le leggi delle XII tavole, come naturalmente avvenir suole , s'incominciò a desiderare per l'interpretazione delle medesime l'autorità de' giurisprudenti , e le ne by cessarie dispute del foro. Tali dispute e tal drit » to non scritto composto dai giurisperiti non ha s pes, 79 ) 9 ji però un nome proprio come le altri parti del dritto , ma con pocabolo comune è chiamato dritto civile. Quasi nel tempo medesimo da „ quelle stesse leggi si fecero nascere le azioni, colle quali si doveva discettare a litigare : ed sacciò non fosse in libertà di ciascuno il farne uso, si pensò a farle essere certe e solenni ' ; e que „ sta parte del dritto fu denominata azioni della legge , o sia azioni legittime E cosi quasi ad - un tempo nacquero queste ' tre specie di dritto cioè leggi delle XII. tavole ; dritta çivile deriva „ to da esse; ed azioni della legge, composte su i s dritti antecedenti , La scienza poi tanto delle » leggi quanta dell'interpretazione , e delle azioni %, stesse era riservata al collegio de Pontefici, quali in ogni anno destinavano persona che pre sedesse ai privati affari o litigi ; e con questa , consuetudine visse il popolo per cento anni in » circa , „ Quale orribile contradizione ! Appena pubblieata una legislazione tanto vantata per la sua perfezione, fu trovata cosi insufficiente, ch'eb be immediato bisogno di sostegni e di interpreta zioni . E codesto fu il codice superiore a tutte le biblioteche de’ filosofi? Ogni parola di Pomponio contiene una contradizione alle idee di leggi e le gis 80 ) gislazione che somministra il buon senso il più comune. Il dritto civile tanto encomiato non fu altro dunque che il risultato delle interpretazioni de'Giu. risprudenti e delle dispute forensi ? E qual razza di prudenti erano mai quelli! Ciascuno sa che quella fu l’epoca della più crassa ignoranza; la spada, la zappa, i polli e le usure erano le sole idee che fiorivano in quelle teste leggislatrici . Ma poichè col progresso del tempo , e colla frequenza de' giudizi qualunque fosse stato quel dritto con suetudinario poteva pur ridursi in massime o in principj di giustizia , e cosi divenire di comune. intelligenza e di un uso generale; si pensò il mo. do onde questo non avvenisse , e si mantenessero sempre le leggi nel bujo e nell'incertezza . Ne cið era sicuramente per una vanità dottorale , ma per conservare un potere ed una leggislazione arbitra sia , qual era il grande scopo dell' ordine Aristo, cratico . L'unico mezzo che essi viddero il più opportu 80, fu quello d'inventare le azioni , cioè delle for mole colle quali non solo si doveva agire o ecce pire in giudizio , ma secondo le quali si doveva no regolare i contratti e gli altri atti civili , accið por ve far potessero avere un effetto legale. Non bastò loro di aver la privativa de' giudizj ; poichè colle leg gi certe difficilmente avrebbero potuto abusarne : bisogno dunque inventare un nuovo dritto di esso e della nuova pratica una nuova legis lazione da surrogare all'antica scienza mistica delle leggi, per tenerle sempre in quella severá cu stodia, colla quale prima delle XII. tavole teneva no le antiche consuetudini . E perchè non si man casse di venerazione a tale straordinario stabili . mento, i Pontefici ne furono fatti depositarj egual mente e disponitori . Chi' può trovare in questa specie di legistazione altro carattere che di una volontà arbitraria diret ta non a dispensar giustizia , ma a conservare ľ Aristocratico dispotismo , darà segno , di non aver avuto mai idea di ciocchè costituisce il carattere delle leggi. Ma non si trattava già di fac leggi , si trattava solo di tener il popolo in schia vitù : perchè se avendo già esso acquistato i drit ti di privata cittadinanza avesse potuto godere anche quello d'Isonomia , cioè dell' eguaglianza delle leggi , qual'era stato il suo intendimento nel promuovere una pubblica leggislazione , avrebhe fatto un gran passo verso quella libertà che tanto F ambiva , ma che più sentiva che conosceva . Escla . md esso sovente contro quella specie di occulta o privala legislazione , dicendo, che la sua condizio de ea in questo assai peggiore di quella dei po poli vinti ; essendogli negato il poter sapere cioc che riguardava i più comuni affari çivili , e fino i giorni legali e feriali, ciocchè agli altri non era Ignoto : segno sicuro che l'aristocrazia romana era inolto più feroce o severa di quella delle altre città o popoli vicini. Il dottissimo Vico con gran proprietà d' intelli genza penso che quel notissimo motto di Solone: conasciti, fu piuttosto un précetto politico che mo rale . Pieno l'animo di tutti i sentimenti della ve ra giustizia Solone ricorda va con quel motto all' oppresso popolo di riconoscer se stesso , cioè di riconoscersi per uomini ed uguali ip dritto a colo ro che li opprimevano. Il popolo Romano non eb be un Solone , che gli desse così utili ricordi ; ne forse ne aveva bisogno , poichè abbastanza si ri conosceva , ed agli insulti de'Patrizi rispondeva , che non erano fioalmente essi ne discendenti do’ Dei , nè venu i giù dall' Empireo . Avrebbe perd avuto bisogno di un Solone , per aver lidea d'una costituzione , senza la quale arrivo si a distruge gero gere la maggior parte degli abusi del potere Ari „ stocratico, ma non giunse mai a formare una pere ferta Repubblica, fondata su i veri rapporti sociali e su i dritti primitivi della Giustizia naturale e positiva : per cui se Roma corse rapidamente alla grandezza dell'impero e delle ricchezze, cadde an che presto nella voragine del disporismo . Ma ritornando a quella Giurisprudenza che suc cedè immediatamente alle XII tavole, e che diede nascita a quel nuovo dritto così stranamente am ministrato, dirò , che sebbene da quanto semplice mente espone Pomponio, se ne possa giustamente fare il carattere; pure ad esuberanza aggiungerd, che l’illustre Gravina , tuttochè pieno d' entusiasmo per la Romana Giurisprudenza, non seppe nascon dere , quanto fosse infelice quella de' tempi de'qua. li abbiamo ragionato. Antiqua jurisprudentia nun. cupatur quæ statim post latas leges XII. tabularum prodiit : aspera quidem illa tenebricosa & tristis non tam in æquitate quan in verborum superstitione fundata. Se il Gravina rinunciando ai pregiu dizj Filologici, avesse voluto mettersi in grado Gray. de Ortu Tur. Civ. cap. 46. F 2 di giudicare giustamente , come riconobbe per tenebrosa l'antica giurisprudenza , avrebbe ricono sciute per arbitrarie e maligne le successive giuris prudenze dette media e nuova , ed avrebbe discon * fessato gl ' inopportuni encomj , che in generale yolle ad esse tributare . Per quanto perd si è finora ragionato , non ho toccato che leggermente la nequizia della giuris prudenza e della giustizia sacerdotale ; ma chiun que per poco abbia di buon senso converrà meco, che una delle tristizie maggiori in fatto d' Ammi nistrazione è il sottrarre le leggi del pubblico uso e conoscenza , e ridurle per vile ambizione e su dicio interesse ad arcani misteriosi . Nascondere le leggi, è nascondere la luce civile ', è precipitar gli uomini ne' vizj e nella corruzione. Le leggi con molta proprietà e verità d'espressione si chiamano la ragion civile , onde il celarle, il corromperle , val lo stesso che privare gl'individui del corpo po litico di quella ragione che loro deve servir di guida in tuui gli affari sociali. I patrizj giurispru. denti non lasciarono mezzo per tenere il popolo nell'oscurità , poichè non solo coll' inventare le azioni e farsene' una privativa di ordine, occultaro no le leggi e le guastarono ; ma de' nuovi stabili men ( 85 ) menti anche s'impossessavano per poterne disporre a loro talento. Livio n'è amplissimo testimone di cendo : institutum etiam ab iisdem coss. ( cioè Lo Valerio e M. Orazio ) ut Senatusconsulta in ædem Cereris ad ædiles plebis deferrentur , quia ante ato. bitrio Consulum supprimebantur vitiabanturque. Non fu però sufficiente questa legge, come vedre mo in altro luogo , e i giurisperiti seguitarono ad essere veri Monopolisti delle leggi . Dobbiamo credere però che i più virtuosi Ro mani avessero a vile codesto mestiere d'ingan no e di soverchieria ; e perciò . la storia ci pre senta sempre con elogj coloro i quali quasi senz’intervallo tornando dai campi di Marte cambiava no coglistrumenti rurali gli arnesi guerrieri , o coronavano l'aratro di allori trionfali . Si sa che Roma allora e per alui secoli non presentava al cuna occupazione che potesse allettare alla vita cittadinesca , la quale dalle belle arti , dalle scien ze, e dal prodotto da, esse spirito sociale si rende solo piacevole ; perciò chi non amava l'intrigo, nè la vita oziosa soffriva , in vece di darsi alla cabalistica (Livio) e viziosa giurisprudenza , si riparava nella esercizio dell'agricoltura sempre preferibile ad una mestiere cosi pernicioso. Infatti la storia ci pudo istruire , mostrandoci , che la famiglia la più in festa allo Stato , la perpetua persecutrice della li bertà popolare e della Giustizia pubblica fu una famiglia di giurisprudenti. Tale fu la Claudia ; e sempre si è veduto che dove dottori e forensi 80 no, la discordia prende il luogo della pace e della naturale tranquillità . Ma ritorniamo a Pomponio . Egli ci dice che quella mistica giurisprudenza si sostenne quasi per un secolo : la storia pero a gli altri autori dicono , ch' ebbe una durata eguana le a quella della Repubblica , toltene alcune diffe renze dalle quali non fu alterato il fondo del la cosa · Seguita dindi Pomponio a racconta re , come quelle formole ed azioni , essendo ri , dotte in forma da Appio Claudio , cotal mistico libro gli fu involato da Gneo Flavio figlio d'un libertino e scriba dello stesso Claudio : ed aver . , dolo pubblicato e fattone un dono al popolo , » questo gli fu si grato , che lo fece pervenire ad » esser Tribuno della plebe , Senatore , ed Edile „ Questo libro contenente quelle azioni delle quali > si è già parlato , dal nome dell'editore fu deno ( 87 ) Si po , mitato drino civile Flaviano , benchè egli nulla » vi aggiungesse del suo. Nel crescere poi in Romi la popolazione e nel multiplicarsi gli affari maticando alcune specie di formole , Sesto Elio non » guari dopo compose nuove azioni e ne pubblico co un libro chiamato Dritto Eliano , . trebbe" ragionevolmente pensare , che pubblicate le leggi e resa publica la scienza arcana , il dritto cívile , le ' azioni, la pratica, e le leggi stesse diven cassero di pubblica ragione; e che il popolo illua minato su i principj legali , sulla condotta degli affari , sul modo di amministrar la giustizia , . sulle ordine giudiziario , non avesse più bisogno della maduduzione de' patriaj per distinguere il giusto , e sapere i mezzi d'ottenerlo . Ma tuu ' al trimenti andiede la bisogna į poichè non volendo i patrizj perdere per alcun modo la custodia e la dispensazione di quella scienz'arcana , che forma va la base principale del loro ingiusto potere, tro* varono il'modo , onde far rimaner il popolo de fuso . E come nelle sette se si vengono a scopris se i segni mistici destinati al riconoscimento, pres stamente si cangiano , e de ' nuovi si surrogano , onde sia salvo it mistero ; cost i bravi Giurispe siti eseguirono , cost posero in salvo i pretesi F drica, dritti dell' ordine , e conservarono il grande arcano della Giurisprudenza . Le formole e le azioni furono cangiate , e forse in maggiori cifre involute onde potessero rimanere ancora lungo tempo nascoste ed inintelligibili allo sguardo plebeo . Ma ascoltiamone, Cicerone, il qua le ce ne dà il più distinto divisamento ; Erant in In igna potentia qui consulebantur : a quibus etiam dies, tamquam a Chaldæis petebantur. Inventus est scriba quidam Gn. Flavius qui cornicum oculos con Fixerit , & singulis diebus ediscendos fastos populo proposuerit  & ab ipsis cauris jurisconsultis coruin sapientiam compilarit . Itaque irati llli , quod sunt, veriti , ne , dierum ratione, pervulgata & cognita șine sua opera lege posset agi . notas quasdam com posuerunt, ut omnibus in rebus ipsi inieresseni Non fu di alcun utile dunque l'aver trafitti gli oc chj a quelle cornacchie poichè in breve tempo seppero rinnovarli e renderli migliori. Per quanto quindi prosiegue , la Storia troviamo sempre costantemente e già pel corso di quattro secoli gli stessi sentimenti , gli stessi principj , la 2 stes (Cic. pro Mur.) cha stessa condotta". La Giurisprudenza fu latente , in çerta , arbitraria , ignota al popolo ,, e privativa del solo ordine paurizio sacerdotale, il quale lungi da quella virtù che sola consiste nella beneficenza » da quella sapienza che cerca il vero , per render lo di comune demanio ; da quella Giustizia trova i principj nella ragione, e gli espansivi sens țimenti nel cuore ; da quella naturale benevolenza e da quel sentimento di pietà, che distinguono l'uo mo civilizzato ; da'veri sentimenti di patriotismą che non può essere mai scompagnato dalla Giusti, zia ; , lungi dico da tutte queste qualità e gli Eroi del Campidoglio non sembra che provassero altri sentimenti che quelli dettati dallo spirito di corpo, sempre contrario, anzi distruttivo de' sentimenti so ciali , dal vile interesse personale e pecuniario Fros, duttore di tutti i vizj , e dall'abuso di un illegiti mo potere. E pure questi furono i patriarchi della giurisprudenza ! Seguitando quindi Pompopio ad esporre i fonti del dritto Romano ci accenna l'origine de' plebi. - . sciti e de' senatusconsulti, specie di leggi dettate dal popolo o dal Senato , e delle quali in appressa, vedremo gli effetti ee'l'l valore , e soggiunge , che » nel tempo stesso anche dai Magistrati nacque » un' 1 el gobierno un' altra specie di dritto s poichè , tecid saw pessero i cittadini , di qual dritto i Magistrati in si sarebbero serviti intorno ai varj oggetti di giudicatura , & perchè vi andassero premuniti, pubblicarono degli editri , da quali si costitui il » Dritto onorario , cost detto perchè proveniya dall'onor del Pretore , • E dopo aver parlato finalmente dell'altra parte del dritto che nacque delle costituzioni de' Principi , cost riepiloga tutti i fonti che costituiscono il 'dritto Romano . ,, Nel la nostra Città dunque dice egli ) la legisla os zione è costituita del dritto" o sia legge ; da » quello che propriamente si chiama Dritto civile , che non è scritto , è consiste nella sola interpre mtazione de' prudenti : dalle azioni della legge » le quali contengono le formole di agire; dai plebisciti che furono fatti senza l'autorità del » Senato , dagli edini de'Magistrati,da' quali nasce il dritto onorario ; dai Senatusconsulti costituiti dal Senato senza legge particolare ; e finalmente , dalle costituzioni de' Principi , Ecco tutta la Storia seguita , che Pomponio ci ha lasciata del dritto Romano, ed intorno alla quale presso a poco gli autori tunti convengono . Abbiamo finora voduto quale fosse il dritto é la C 91 ) fa giurisprudenza Romana prima è dopo dello leggi decemvirali , e quindi come per quattro secoat li e più le leggi e la Giurisprudenza avessero 1 caratteri d'irregolarità , d'incertezza e di arbitrio i é non ostanteche la ragion popolare andasse ac quistando qualche dritto su l'Aristocrazia , puro questa sostenuta dal Sacerdozio , qnantunque per Necessità cedesse in qualche cosa de’dritti pubblici, fece perð ogni sforzo per tener recondite le leggi , e sotto le chiavi del mistero tutto quello che ri guardava l'anministrazione della giustizia. Conoba bero ben essi che nei stati di qualunque sorte, quel If anno veramente il massimo di potere effettivo cho possono disporre a loro modo delle leggi e della giu stizia , e che tanto più diventa tale autorità effica cé , quanto più le leggi sono oscure incerte ed ar bitrarie . Ma per vedere come questo continuassets e come la Giurisprudenza seguitasse ad esser sem pre della stessa indole , prima di venir a ragionia re de' plebisciti e de' senatusconsulti ch' ebbero di yerse fasi, ci fermeremo ad esaminare quel dritto; cui si volle dare il titolo di onorario , ma che ves dremo' non essere stato degno di alcun onore. Se si volesse parlare del la ridevolezza di quelle vantate formole , che costituivano la Romana Giurisprudenza , ci porterebbe a perdita di tempo , ma se i Romani di buon senso e Cicerone stesso le. deridevano e tenevano in altissimo disprezzo , cre do che dopo due mille anni potremo far noi al- , trettanto , e chiunque non sia un’ vero divoto , e cieco adoratore della Romana antichità e giurispru-, denza. Rifletterà solamente , che quando di cose sem. , plicissime si vogliono far misteri , allora dovendo vi aver luogo l'arte d'imporre , le idee semplici si devono involgere in un numero di parole non necessarie , e surrogare impropriamente le imma gini e le finzioni alla semplicità e realità delle co se e delle idee : specie di geroglifici che deve ace: compagnar sempre il mistero, e l'impostura Siccome non è mio intendimento però di fare la Storia del governo civile di Roma, mà solo indicare il corso infelice delle leggi e della giurisprudenza, cosi non m'impegnerò nelle lunghe dispute e di bauimenti fra la plebe e i patrizi, quando quella per acquistare i dritti di cittadinanza , e questi per allontanarli , facevano tuttogiorno rimbombare de loro schiamazzi il foro Romano; ma accennerò so , lamente ciocchè importa , per passare all'origine del dritto onorario . La forza dell' opinione non aveva più molio. scevano valore contro la forza reale ed effettiva ; per cuti essendo riusciti i plebei a partecipare ad alcuni di quegli officj che fin allora erano stati privativi de patrizi , come fu quello della questura e de' tria buni militari , non parve foro di aversi assicuraii i sospirati dritti , se non ottenevano la massima delle Magistrature , vale a dire il Consolato . E poichè già per lunga e dolorosa esperienza cono che sempre col manto della Religio ne i patrizj cercavano coprire le loro pretese , o tependone lungi il volgo profano , ailontanara lo da tutte le magistrature che de' sacri auspicj abbisognayano ; così i plebei videro che per farsi strada al Consolato, si rendeva necessario l ' ardi mento di entrar ne' sacri pene trali , ed andar an che essi a studiare e consultare un poco i libri Sibillini. Quindi fra le rogazioni che fecero cor rendo alla fine il quarto secolo di Roma , furo no queste cose combinate ; cioè che invece de' Duumviri addetti alle cose sacre si facessero de De. cemviri , e che di questi cinqué patrizj fossero ed altrettanti plebei : e che nella nuova elezione de Consoli l'uno fosse del loro ordine , e l'altro pae trizio . Invano Appio Claudio montà in tribuna per fare non arringa ma una predica Teologica contro le 94 et le nuove idee filosofiche sorte negli animi della plebe Romana : invano ricorse alle idee teocrati che già fatte obsolete ; invano minacciò d anate ma quel popolo , che potea far a lui più reali mi nacce : Roma ( diceva egli ) fu fondata cogli au spicj: futiociò che vi è di pubblico , di privato , di sacro , di profano , in guerra , in pace , in cae sa e fuori , tutto doversi cogli auspicj trattare : che i soli patrirj in esclusione de' plebei per inveterato costuma godevano del dritto degli auspicj: che niun magistrato plebeo fu mai creato cogli auspicjse che in fine canto era il creare i Consoli dalla ple. be , quanto il rovesciare interamente la religione , ed incorrere nell'ultima indignazione degli dei. Non ostantino però tante e si gravi rimostranze Lucio Sestio nel 387. ottenne finalmente il conso lato . Se questo colpo fosse doloroso a sostenere per i patrizi, è facile l'immaginare ; ma al male già accaduto non potendo portare alcun riparo ef ficace , si rivolsero ad escogitare qualche rinfranco , per non perdere intieramente quel privativo potere che dipendeva dal consolato . Pensarono dunque sta ( 12 ) Lir. lib. YI. cap. 36 mabilire una nuova Magistratura, che potesse con servare nell'ordine patrizio l'amministrazione del da Giustizia, il potere giudiziario , e tuttociò che riguarda l'esecuzione delle leggi civili. Quindi col pretesto che i Consoli erano quasi sempre fuori di città alla testa degli eserciti , onde non poteva no adempire agli ufficj della giudicatura , proposent to di stabilire un nuovo magistrato che adempisse & questa parte dell'Amministrazione , e fu ordinato che si traesse dai patrizj e si chiamasse Pretore . La pretura dunque fu stabilita per conservare nell'ordine de' padri eutto il sistema giudiziario o forense del quale avevano facto fin allora uno scempio cosi crudele . Le leggi e la Giurispruden za seguitarono ad essere malversate , ma per poia chi anni durd privativamente nelle mani de' patri zj la Pretura . Eccoci intanto al tempo nel quale si pud fissare veramente l' epoca di quella Giuris prudenza che passo di mano in mano fino agli ul. timi tempi ne' quali ebbero qualche celebrità il no . me Romano e l'Impero . Questa parte del dritto , come testè ci ha insegnato Pomponio , nacque da gli editti , che emanavano į Pretori nell'entrare in esercizio della loro Magistratura , ed essa façeva il maggior latifondio della Scienza forense . L'im para the S6 ) portanza dunque della medesima ci merte nel do vere di portarvi sopra uno sguardo particolare , seguendola brevemente nel corso della Storia' , ve derne in qualche modo l' uso , il carattere ; e gli effetti , Dopo lo stabilimento della pretura e della comu nicazione a tat officio delle plebe , e più dopo ese guito il censo di Fabio Massimo il governo di Roo ma perde la forma Aristocratica , benchè non ne perdesse lo spirito ; ed io non ardirei dire col cos mune de' dotti , che si trasformasse mai in quella forma costituzionale che si chiama Democrazia: La libertà popolare fu molta , e qualche volta ecces siva a segno che degenerd' in licenza , poichè essa non era limitata dalla legge ; ed il dritto de' suf fraggj ed il potere legislativo non ebbero mai quel la regolarità ed uniformità , che può rendere nel tempo stesso un popolo regnante e tranquillo . E non fu mai tale il popolo Romano, poichè la for ma del suo governo non fu costituita su d'un pia no antecedentemente ragionato nel quale dalla considerazione de' varj rapporti sociali si fosse ri montato alla necessaria divisione del pubblico po tere , e questo ripartito in modo che le varie par ti non si potessero nuocere fra loro , e non si po tes. → toa 97 ) tessero riunire ; ma per un nesso naturale tutte coordinatamente contribuissero al grande scopo della perpetua conservazione sociale . Non avremo perciò quind' innanzi frequente oco casione di parlare dei disordini dell' Aristocrazia patrizia o sacerdotale , poichè gittati i semi del disordine e della corruzione , essi si moltiplicarono dovunque trovarono suolo adattato alla facile germi nazione. Llibertà produsse i suoi necessarj vantag ki , non però tutti quelli che sarebbeo nati da una vera e legittima costituzione. Ma passiamo final mente a vedere quale fosse stato il fato della Giu risprudenza in questo nuovo ordine di cose. Fra i Scrittori che di proposito e più accurata , mente trattarono degli editti pretorj sono da distin guere il celebre Giureconsulto Eineccio ed il Sig. Bouchaud dell'Accademia delle Iscrizioni, i quali per trattare il più compitamente che fosse possibile questo importantissimo articolo relativo alla Storia politica ed alla Giurisprudenza Romana, non tralasciarono ricerca alcuna conducente al loa G TO ( 1 ) Heinec. Hist. Edict. ( 12 ) Memor. de l'Accadem . des Inscr. com. 72. ma 98 ) ro scopo . Trovarono che in Roma e per l'Impe , so ancora non solo quelli che propriamente Man gistrati erano detti , ma diverse altre cariche ed officj ancora che non avevano tal carattere , ebbe To pure il dritto o il costume di fare degli edinti Quante che fossero adunque le divisioni e suddi visioni del potere esecutivo o giudiziario , ed in quanti diversi rapporti fossero esse costituite, pren dendo un tal dritto , ebbero l'uso e la facoltà di straordinariamente comandare. Cosi , incominciando dai Pontefici e dai Tribuni della plebe , nè gli uni nè gli altri Magistrati , e passando ai Consoli e Pretori fino ai menomi Magistrati Civici tutti vol. lero avere il dritto di far editti , e godere di quel. Ja parte di potere che in tale facoltà o prerogativa era compresa . Fra tanti Magistrati perd che eb bero o si arrogarono cotale autorità , gli editti di maggiore celebrità , e che contribuirono a creare una nuova Giurisprudenza furono quelli de'Pretori. Abbiamo già detto di sopra che dai patrizj fu inventata e fatia stabilire questa nuova Magistraa tura a consolazione ed indennizzamento della per dita che avevano fatta d'un Consolato passato al la plebe ; e quindi ottennero , che il Pretore dal loro ordine dovesse essere prescelto Non durd mol , ( 99 molto intanto questo, privilegio poichè la plebe veggendo di quale importanza fosse la Pretura , non molti anni dopo cioè nel 417. volle anche para tecipare a tal carica , mentre ancora era unica e non divisa nei due Pretori Urbano e Peregrino ; ciocchè' avvenne circa un secolo dopo , cioè nel anno 510. Coll’andar del tempo si multiplicarono maggiormente , ed oltre dei due mentovati e dei Pretori Provinciali altri ve ne furono nella Città , de' quali alcuni erano addetti a rami di cause para ticolari, Ricordandoci ora di ciocchè abbiamo detto del la origine della Pretura , ciocchè ci viene attesta 10 da Livio e da altri , cioè che essa fu surro gata al potere giudiziario, che i Consoli esercita vano , si dovrebbe naturalmente pensare , che se i Pretori cagionarono alterazione nell'antica Giu risprudenza , e ne fecero nascere una puova , çið essere accaduto per effetto delle loro decisioni o decreti o sentenze , le quali avessero per la loro giustizia meritata la conferma della pubblica auto rità , e passate quindi in dritto consuetudinario Ma non fu certamente per tal motivo , nè si po trebbe facilmente immaginare , che essi a priori fossero autori di un nuovo dritto e d'una nuova Giu. 3 . G 2 ( 100 ) Giurisprudenza . Eppure non fu altrimente : essen do essi semplici giudici o ministri di giustizia , colla facoltà di fare degli editti seppero per tal modo usurpare l'autorità Legislativa , che il dritto fu cangiato , e gli editti più che le leggi furono osservati , e maggior uso ed autorità ebbero nel Foro . Ma se i Pretori non erano altro che Giudici cioè Magistrati di Giustizia , il loro officio era solo di applicare .la legge al caso particolare , o sia ve der i rapporti fra la legge e ' l fatto del quale si di. sputava. Un Giudice non può creare un dritto col le sue sentenze , poiché esse altro non sono che la dichiarazione del dritto medesimo ; cioè che la legge nel caso proposto si verifica per la tale azio ne o d'eccezione dedotta in giudizio. E se decidendo , cioè esercitando l'attualità della Magistra tnra non può crear un dritto , molto meno dee cid poter fare per la sola qualità di Magistrato o in forza della Magistratura. Gli editti pretorii dunque per i quali si alteravano , si cangiavano le leggi , e se ne stabilivano delle altre temporarie , ci pre sentano degli atti di autorità arbitraria , tempora ria , ed incerta che non possono formar mai una parte del dritto , il quale può solo emanare dalla - potestà legislativa , e dev'essere certo generale o perpetuo , fino a che non sia abrogato dalla stessa autorità. Quando dunque in una carica siriuniscos no contro tutti i principi della ragion pubblica quelle facoltà , che devono essere divise da limiti insurmontabili , si può dire che tal carica contenga almeno in potenza (come dicevano i Scolastici) i principj del disporisano , e dispotico si può chia mar il Magistrato che l'esercita . Nel crearsi la Pretura io voglio supporre che non s'intese produrre un mostro di tal fatta , ma come codesta carica fu surrogata al potere giudi zionario che avevano prima i Consoli , il quale era riunito al potere esecutivo , cosi' e per questo per quel grado d'autorità che prendevano dall ' or dine da cui erano tratti , non fu difficile il farvi passare di tali abusi . A considerar dunque giusta mente la cosa non nacque nella Pretura tale abuso dal semplice potere giudiziario , ma da quello di far gli editti . In fatti se si va all'origine di que sto dritto , ne troveremo la ragione: Edicimus (dicevano gli antichi) quod jubemtis fieri : espres sione tanto generale , che potrebbe comprendere l'esecuzione di tutte le potestà non esclusa la le gislativa ; e perciò fiequentemente le parole di G leggi e di editti furono di uso promiscuo : Ma Papiniano è quello che più nettamente ci ha la sciata la vera idea del dritto pretorio dicendo che fu introdotto a pubblica utilità , per adjuvare supplire, e corriggere il drilio civile . Jus prætorium adjuvandi, vel supplendi , vel corrigendi juris gratia propter publicam utilitatem introducium : Ecco dunque la vera origine del drixco Pretorio, e propriamente di quello che proveniva dal fare gli editti . Ajutare intanto indica debolezza , supplire , mancanza, cor reggere , errori . Si dice ch'è nell' ordine naturale delle idee di amministrazione , che quando al caso non si trovi alcun stabilimento di dritto , alcuna legge scritta , la volontà del Magistrato o di colo ro che governano supplisca a questo difetto che il loro piacere tenga luogo di legge questa volontà sia giusta o ingiusta , utile o noci va alla Repubblica ( 13) . Ma che altro è mai il Dispotismo , l'odio de' popoli czualmente e de' buoni regnanti : Se le leggi mancano, bisogna far le , e non solo il Ministro di giustizia , ma niun Magistrato è mai autorizzato non dico a fare alcu > o che na (13) Bouchaud Memoir. cit. tom. 72. ( 103 11 0 7 I na legge , ma nè a soccorrerle cadenti , nè a sup plirle difettose , nè a correggerle erronee , nè ad interpretarle oscure · Lascio le tre prime condizio ni o circostanze delle leggi , sopra le quali non pud cadere alcun dubbio , che il restituirle in qualun que modo non possa spettare ad altri che al So vrano ; ma in quanto all' interpretarle , . sopra di cui il probabilismo forense pare che abbia stabia lita la sua autorità , rifletterò che l'interpetra re o interpatrare da principio fu in Roma del so to ordine del patrizi , quando tutti i poteri e spe cialmente il legislativo erano ristretti nell' ordine "Aristocratico . Essi dunque che facevano le lega gi erano i soli che potessero interpretarle , uno e l'altro potere era illegitimamente stabilico ed abusivamente amministrato . Quando una leg ge è oscura , non vuol dir altro , che il non sa persi precisamente , ciocchè essa comandi o pre scriva ; lo spiegarlo deve venir dunque dalla stes sa autorità , che l'ha emanata , sola interprete le girima di se stessa . Ne i giudici dunque nè i giurisperiti possono arrogarsi un autorità illegittima della quale è tan 10 facile l'abusare ; e percid gli ottimi legislatori e Giustiniano stesso ogn'interpretazione proibiro G 4 ma l i 10 . ( 104 ) no . Le leggi bisognose di sussidj ed interpretazio. ni indicano abbastanza i loro difetti , de' quali di sopra abbiamo accennato il rimedio , ed il maggior male da esse prodotto fu d' aver fatta nascere la Giurisprudenza , ed in seguito la corruzione della giustizia : nel qual fatto osserva l ' Eineccio , che i Romani furono cogli Ebrei sotto lo stesso paral lelo (14 ) Or l'autorità data ai Pretori cogli editti prova visibilmente due punti: il primo che le leggi era no così incomplete , come sono quelle dei popoli bara bari ; e che i Romani lo furono a tal segno , che non seppero conoscere, quanto il confondere le po testà , ed il lasciar il poter arbitrario ai Magistrati fosse contrario alla Giustizia ed ai principi di ogni buon governo . Scuserò i pretori se ne abusarono, ma come scusare quel modello delle Repubbliche, quella Repubblica stabilità su la virtù , e che con nobbe più delle altre la libercà e l'uguaglianza ? Non togliamo a Roma gli onori che merita. Essa fu la prima inventrice degli editti, essa fu la sola Re. Heinec. De prohib. a Justin. interpret. facult. Cros bertan Repubblica per quanto si sappia , che li avesse in costume. A vedere quale era il dritto Pretorie lungi dal dover credere i Pretori Magistrati giudiziarj , do vremmo anzi prenderli per riformatori o corret . tori delle leggi . Tali furono in fatti , ma non per uno stabilimento autorizzato dalla potestà le gislativa : lo furono solo per abuso , vergogno so ai costituenti di sì strana Magistratura , e fer nicioso sommamente al popolo soggetto. Se Roma avesse conosciuti i difetti delle sue leggi , e l'in congruenza nella quale dovevano essere per la dif ferenza de' tempi , e per i politici cangiamenti ; ed avesse voluto imitar veramente le leggi ed i sta bilimenti di Atene , avrebbe trovato più oppor tuno mezzo ' a correggere e modificare la sua bar bara legislazione . Ciascuno sa che in Atene vera un Magistrato detto de’ tesmoreti , il quale propo neva annualmente i cangiamenti o correzioni da farsi nelle leggi , e queste erano poi approvate o riggettate dal potere legislativo . Non deve farci intanto molta meraviglia che la pretura s' introducesse con tali abusi e tant' auto rità straordinaria , se rifletteremo che quella. Magi stratura fu da principio stabilita privativamente per l’ordine patrizio, il quale la conservò in suo potere per trent'anni . Per sapere poi come quell'abusivo potere si esercitasse , devo ricordare , che vi erano quattro specie di editti , cioè Repentina : perpetuæ jurisdi fionis caussa : translaticia : nova . E senz' andar esponendo il valore di ciascuno , ciocche fino alla sazietà da molti autori è stato eseguito , mi ri stringerò ad alquante osservazioni più importanti. E primamente dirò , che quelli editti i quali do vevano contenere il sistema giudiziario attuale del la pretura , furono quelli appunto , da'quali deri varono maggiori abusi , cioè quelli perpetuæ jufts dictionis causa , pei quali il Pretore esponeva nell' albo le formole delle azioni , delle cauzioni, delle eccezioni, secondo le quali avrebbe fatto giustizia. Or avendo veduto che la Giurisprudenza anzi il dritto civile de' Romani in tali formole era com preso, chi era autore delle formole, lo era in con seguenza del dritto medesimo. Chiunque nell'agire in giudizio mancava a quelle formole per qualun que causa , cadeva dall ' azione , o rimaneva con inutile eccezione cioè perdeva la lite anche che intrinsecamente avesse avuta dal canto suo la giustizia e la disposizione delle leggi. Ecco dunque il Magistrato div enuto legislatore , ed arbitrario it sistema di giudicare. Dobbiamo però credere , che tuttociò fosse fatto senza principj , e che non aven do idee certe e generali de' principj del driito , fa cessero gli editti ciascuno secondo le proprie co gnizioni ed idee: poichè come le ultime deriva zioni e ramificazioni delle leggi si possono ritrar tutte della retta ragione e dalle idee di giustizia universale, cosi se i loro editti fossero derivati da tali fonti , non sarebbero stati prescrizioni annua li , ma avrebbero avuta una continuazione o vera perpetuità. Nè ci faccia illusione il nome di perpetuæ jurisdictionis , poichè quella perpetuità era ristretta ad un sol anno . Il Pretore o Pretori che succede vano alla carica , avevano il dritto assoluto di proporre nel nuovo albo un nuovo sistema giudi ziario , e cangiare a lor grado la formola ed i principj ; e sebbene questo non si fosse fatto sem. pre nè in tutto, poichè spesso i succes'sori conser vavano integralmente o parzialmente gli edirii an tecedenti , ciocchè diede il nome di translatixj agli editti di tal indole , era sempre però in liber tà de' nuovi Magistrati di farne di nuovo co nio , che perciò portarono il titolo di nova. Se maggiori irregolarità , incertezze ; ed arbitrj . si possono portare nell' ordine giudiziario e ne ! dritto , lo lascio giudicare agli amici della Giu stizia e della ragione. La Giustizia dipendeva solo dal capriccio pretorio , e gli attori in giudizio do vevano essere ben intrigati in variar le loro fora mole , e su di esse disputare ed argumentare , per trarre le disposizioni o le opinioni legali al loro partito. Questo portò col tempo , che fossero mol te le azioni per lo stesso giudizio , ciocchè faceva un nuovo intrigo , ed accresceva l'arbitrio de’ magistrati . Più anche dovette crescere quando i Pre tori furono varj , e vi era in Roma quasi una po polazione di Magistrati , poichè ciascuno a suo modo proponendo gli editri , quel ch'era giusto pres. so di uno , si trovava ingiusto presso un altro . La morale pubblica e quella delle leggi particolara mente era dunque così incerta, che non aveva per regola che le opinioni o il capriccio, e si dilatava o ristringeva , allungava o accorciava secondo le sublimi Teorie del probabile , le quali sorgono sem . pre dall' arbitrio e dalla corruzione . Se il Pretore fosse stato uno solo , se l' Ammi nistrazione giudiziaria fosse stata ristretta ad una sola specie di Magistratura , non avrebbe potuto 1 dirs ( 109 ) diffondersi tanto l'incertezza della Giustizia e la forza dell' arbitrio : ma gli ammiratori o visionarj della Sapienza Romana , trovano ragioni sufficien ti per ogni disordine . Il progressivo accrescimento della Città o della Repubblica porto secondo essi multiplicità e varietà di affari , per cui si doveano coerentemente multiplicare e variare le Magistra ture e le Giurisdizioni . Esempio pur croppo fune stamente imitato nei vari stati di Europa '! Nel progresso delle Società si aumenta è vero la po polazione o il numero degl' individui; ma non per questo crescono i rapporti naturali e necessarj che essi hanno collo stato , col governo, e fra se stessi . Non crescendo i rapporui non devono multi plicarsi e variarsi le leggi , le quali ne sono I espressione ; ne devono quindi" crescere e di versificarsi in varj generi e classi i Magistrati che ne sono i Ministri o dispensatori . Possono crescere in numero bensi ed in divisioni , ma de vono essere costantemente della stessa specie e con i stessi nomi. Quindi il dividere i giudizj crimi nali e civili in tante varietà , giurisdizioni , e le gislazioni differenti è il produrre volontariamente una confusione , e multiplicare gli abusi dell'arbi crario potere : ciocchè però non accade quando si vedono nettamente e con precisione i rapporti deb cittadino . In questo caso, la legislazione sarà uni voca , generale, uniforme ; i limiti del potere giu diziario resteranno distintamente marcati ; e le giurisdizioni , e le Maggistrature non saranno sta bilite e divise sopra rapporti immaginarj e fattizj . Più , non nascerà pelle Magistrature quello spirito di corpo per cui sono in continua contesa o guer. ra fra loro, e , per conseguenza col governo o collo stato. Lo spirito di corpo è in ragion inver sa della grandezza del corpo medesimo , onde più saranno piccoli , più avranno i difetti della piccio lezza , più saranno capricciosi , irragionevoli , ed abuseranno della forza e dei momenti favorevoli : . Un gran corpo di Magistratura ben costituito e con venevolmente diviso , senza gelosia e senza inte- , ressi contrarj avrà la dignità che deve aver la Magistratura , ma non ne avrà le follie . Per quanto però fosse ampio ed esteso il dritto o potere che i Pretori esercitavano , non sembro loro ad ogni caso sufficiente ; e poichè delle cari che non limitate o mal circoscritte dalla legge si . passa facilmente da abusi in abuşi , essi non fu sono contenti dover osservare i loro stessi princi pį idee e sistemi per quella perpetuità annua , ma , pensarono d'abbreviarne il termine a loro piacere Fenomeni di tal natura sono forse del tutto nuo vi nella storia ! Una magistratura costituzional mente arbitraria , si arroga anche il dritto di can . giar quelle norme legali divenute leggi per mezzo della pubblicazione , e farne delle nuove senza pre, vio esame , come, un corpo leggislativo farebbe , ma di propria volontà e piacere come un Despota potrebbe fare . Questo pur si faceva nel foro Ro mano , e spesso durante l'anno della Pretura si vedeva quasi magicamente scomparir l'albo espo sto , ed un altro a quello sostituito . Pensi chi vuole , che fosse quella una sublimità di condos. ļa , o la surrogazione d' idee più giuste ed al paba blico vantaggiose; io penserò cogli antichi , che i pretori, nol fecero per altro che per favore , per interesse e per altre tali cagioni , stimate ferite mortali per la Giustizia . Cosi penso anche l'Ei neccio, il quale benchè impa stato di vecchia giu risprudenza , pure abominò il dritto pretorio ed i più illegali abusi de' Pretori . Si erano essi accom modati talmente a cotal giuoco, che portandolo, ormai all'eccesso , e facendo vero scempio della giustizia , si svegliò finalmente un'anima virtuo sa compassioneyole per la pubblica disgrazia, la qua la en le tentò d'apportarvi riparo. Come infatti si pud vedere lo strazio che della giustizia fanno gli stes si di lei sacerdoti , e non sentirsi l' animo com mosso da pietà egualmente e da 'nobile disdegno. Paulo Emilio nudrito nelle semplici idee di quella véra sapienza che accoppia i doveri alla beneficenza, e l'umanità alla virtù , vedeva con orrore l ' amministrazione della giustizia Romana tanto nel la Città quanto nelle più infelici provincie . Vede va condannati gl'innocenti , i deboli oppressi , ed i Magistrati impuniti ; e questo' nell'epoca la più memorevole della Romana virtù . Sdegnò egli (co me rapporta Plutarco ) i studii che la nobile gio venid coltivava ai suoi tempi per giungere alle cariche : quindi non comparve mai nel foro , o a piatire innanzi ai Magistrati , o ad umiliarsi al po polo per ambizione ; ma corse libero la strada del la gloria e superò tutti i suoi contemporanei in virtù ed in valore . Nè vi vuol meno d’un tal carattere per attaccare i pregiudizj potenti , gli abu. 81 interessati , ed i sistemi di corruzione . Essendo infani pervenuto al Consolato non fu tardo a proporre le sue idee ajutatrici, e quali che fossero le generali opposizioni trionfo su la pub- . blica corruttela , stabilendo, che i Pretori non potesssero cambiare più i loro Editri = V. K. Apria lis . Fasccs penes Æmilium S. C. factum est , uti prætores ex suis perpetuis edictis jus dice teni. Paulo Emilio fu in dovere di partir subi . to per la Macedonia , dove ebbe più durevoli trion fi su i lontani nimici , che quelli ottenuti su i ne mici che Roma aveva dentro delle sue mura. Que. sii fecero infatii rimaner invalida la legge ; e non è raro che i nimici del bene pubblico riescano con mezzi di vittoria più efficaci. Da quest'anno cha fu il 585 di Roma i Pretori seguirono ad imbal danzire alle spese della Giustizia , e di quell' equirà medesima , che tanto vantavano nei loro editri a nella loro giudicatura . La Repubblica sempre in disordini correva già al suo termine per i vizi della casuale costituzio ne ; ma tra i disordini , la Giurisprudenza pretoria era giunta ad un punto insopportabile . A nulla valevano le accuse contro de ' Magistrati , poiché i mezzi di salvarsi erano molto conosciuti . Quello però a cui un Console non potè riuscire con ef fetto susseguente , riuscì un virtuoso Tribuno della plebe, con tuttocchè fosse stato contrariato dai suoi compagni . Questi fu C. Cornelio Silla il quale o tocco dai stessi sentimenti di Paulo Emilio, o scan H 1drlezzato specialmente dalle depredazioni di Verre e de' simili a lui , fra le altre utili leggi , propose la rinnovazione del Senatoconsulto per moderare la smodata cupidigia de' Pretori. Livio e Dion Cassio ed altri autori ci attestano in que' tempi non solo la sfrenatezza pretoria , « ma il grand' interesse de nobili specialmente a conservarsene il possesso; per cui la proposta del Tribuno eccitd tumulto tale ne' Comizj , che i fasci Consolari andiedero in pezzi , ed i sassi facendosi sentire più delle vo ci , convenne dimettere, o posporre la lodevole im, presa ad altro tempo più tranquillo . Infatti secon do Asconio Pediano la legge passò = Multis 12 mon invitis quæ res tum gratiam ambitiosis Prætoribus, qui varie jus dicere assueverunt , sustit lit. Gli oppositori della legge non avendo potuto impedirla , rivolsero lo sdegno loro contro l'autore accusandolo di Fellonia , e Cornelio fu debitore della sua salvezza alla facondia di Cice. rone : Troppo tardi perd pel popolo Romano vena ne quel beneficio ; la Repubblica era già spirante i disordini irreparabili , ed apparecchiati i ferri per le Ascon . in Orat. pro Cond . le nuove catene . Roma non godè mai della liber ' tà , non seppe conoscerla , nè conobbe mai i moa menti favorevoli , ne' quali avrebbe potuta ren : derla eterna , Se colla Repubblica però fini la grande autorità de' Pretori , e se nuova Legislazione , nuova Giu risprudenza e nuovo metodo giu diziario furono introdotti dal Dispotismo; la legislazione, la Give risprudenza , l' ordine giadiziario restarono perd perpetuamente infetti dagli usi o d'abusi, che l'ar te Pretoria figlia della vecchia Giurisprudenza in trodotti y aveva . Nuove parole ' , nuove azioni , nuovi atti legittimi ingombrava no le leggi e la giurisprudenza ; ma quello che poi fu il colmo dell' abuso , ridicolo per se stesso, e tristo assai per gli effetti, fu l'aver inventato un nuovo metoda di considerar in giudizio gli oggetti , .i rapporti e le azioni ; in sostanza le finzioni legali : Anche questo bel ritrovato lo dobbiamo alla Romana intelligenza . Senz'averè molta perizia nella Giuris. prudenza , basta la più semplice ragione per ve dere , che tali invenzioni furono i sussidi dell'igno tanza ed i sostegni della ingiustizia. Si possono perdonare ai Romani ; ma come perdonare a que' moderni Giureconsuli , i quali ancora dalla Ro se 1 mulea feccia pretendono far sacri libamenti alla Giustizia? Tale fu l’Alteserra, il quale offerendo al Sig. de Lamoignon l'opera de Fictionibus Juris , così s'espresse = quid enim aliud istæ fictiones , quam juris remedia et jurisprudenium supulua IC , qui bus difficiliores casus expediuntur , et aurræ claves quibus Jurisprudentiæ secreta aperiuntur ? = e peg gio altrove . Tale fu l'Eineccio ancora il quale nel la Dissertazione, De Jurisprudentia Heuremarica versd gran copia d'erudizione per giustificare le finzioni legali , e farne vedere la bellezza e l'im portanza. Chi sarà vago di conoscere quelle auree chiavi della Giurisprudenza , potrà consultare i cita ti autori e la maggior parte de' Giureconsulti erų - diti . lo aggiungero soltanto , che esse ebbero ori gine da ignoranza o da malizia. Per la prima av. venne , che nei progressi della civilizzazione can giandosi gli antichị barbarựci modi de' tesçamen tị , de contratti , de’ litigj , credettero quasi che fosse cangiata la realità , e chiamarono finzioni i modi che a queli furono surrogati . Per la secon da, le finzioni s'introdussero in fraude delle leggi, per eludere le loro prescrizioni, e per estenderle a que'casi, de'quali non avevano espressamente par Jato. Origini entrambe poco degne della Giustizia dottissimo Vico portando le sue perspicaci osservazioni su quelle strane usanze e richiamando, le ai loro principi, chiamò il vecchio dritto . Roma- , no un Poema serio , poichè le immagini si erano Sosti uite alla realità , e non si erano trovate poi espressioni più semplici e più adattate . „ In con „, fum tà di tali nature ( dice il lodato autore ) l'antica Giurisprudenza tutia fu Poetica , la qua . le fingeva i farti non facii , i non fatti, fatti, na y ti gli non nati ancora , mori i viventi , i morti vivere nelle loro giacenti eredilà : introdusse tan , te maschere vane senza subjenti , che si dissero , » jura imaginaria ; ragioni favoleggiate da fanta e riponeva tutta la sua riputazione in rim „ trovare sì fatte favole , che alle leggi serbassero y la gravità , ed ai fatti somministrassero la ragio talche tutte le finzioni dell’antica Giurism prudenza furono verità mascherate, e le formo , s le colle quali parlavano le leggi , per le loro circoscrit te misure di tante e tali parole , nè più, nè meno, nè altre si dissero carmina. Ed altrove ragionando della Giurisprudenza Eroica ciod . H 3 bara sia : 99 he : (Vico Princ. della Scien. Nuo.) barbara de' Romani , la paragona a quella della se . conda barbarie , dicendo , Cost a tempi barbari ,, ritornati la riputazion de' dottori era di trovar , cautele intorno a contratti , o ultime volontà red in saper formare domande di ragioni ed ar ticoli, che era appunto il cavere e de jure respon . dere de’ romani giureconsulti. Da tuttociò si rileva, che sebbene la RomanaRepub . blica progredisse in quanto allo stato politico verso la libertà , ed in quanto ai costumi verso la civiliz zazione, in quanto alle leggi però ad alla Giurisprus , denza i Romani erano rimasti in quello stato poetico, o barbaro , che caracterizza i primi passi sociali o lo stato (dirò cost) di necessaria Aristocrazia. Se di ciò si voglia indagar la cagione , si troverà facilmente ne' tardi progressi che fecero i Romani nel perfezionamento dello spirito o della Ragione ; poichè da questo solo possono essere migliorate le : costituzioni , le leggi politiche , e le civili . Mi dispenso volentieri, è credo ragionevolmente, di andar ragionando di tutte le novità, che i Pre cori introdussero nel dritto , se da quanto si è detto finora , la Giurisprudenza pretoria resta ab bastanza caratterizzata ; e chi volesse meglio istruir sene , può ricorrere agli autori che ne favellano. Se qualcuno sarà preventivamente infatuato del'no me di Roma , vi troverà cose maravigliose e pelle grine , compiangerà l'attuale barbarie , e gemerà su le ruine del Campidoglio : ma se sarà una persona ragionevole e senza prevenzione , riderà di molte fole , compiangerà coloro che ne sono restati illu si , e farà voti sinceri, accið tali memorie indegno di uomini ragionevoli passino ' nell ' obblio . Volendo dunque giudicare con principi di ra gione non adombrata dall'ammirazione e dai pre giudizi della infanzia , dovremo dire , che i Preto - ri poterono essere buoni o cattivi , come in tuli gl ' impieghi sociali accader suole ; e che perciò molti di essi si servirono in bene delle loro pre rogative ', riducendo all' equità , o sia alla giusti zia accompagnata all'umanità , le leggi troppo se vere. o barbare che allora esistevano . Ma dall' al tra banda dovremo pur confessare , che la maggior parte de pretori si abbandonarono ciecamente ai nobili istinti di tesaurizzare e signoreggiare , per cui , più che ministri o sacerdoti furono conculca tori della Giustizia . Riconosceremo nel tempo stes 50 , che questo nacque , dal non essere stata limi ta e legittimamente circonscritta la di loro autori tà o potere ; e per questo d'ogni arbitrio abusan н 4 do 1 do resero l'ordine de' giudizj arbitrario , la Giurise prudenza equivoca ed incerta' , e fecero nascere una nuova specie di dritto , che tali qualità tutte in se comprendeva ; e sebbene non autenticato da alcun atto del potere legislativo , divenne . pure . un dritto consuetudinario più esteso e più usato delle leggi , e durò con perpetua continuità insiem . me colla Repubblica e coll' Impero Romano . Non ci lasciamo dunque illudere dalla tanto vantata eruiià pretoria : l'equià ve a fu solo de' buoni , e quella specie di equità può solo valutarsi do ve la legislazione non è nè rispettabile nè giusta. Considerando le antiche azioni della leg gé , gli atti legittimi , e le finzioni legali , ci com parirà molto giusto che Giustiniano le chiami favo le cioè azioni Drammariche, poichè in sostanza erano delle vere scene che si rappresentavano innan zi ai Magistrati . Cosi tutte le azioni che si face Justin . In proem instit. = ur liccat vom bis prima legum cunabula non ab antiquis fabulis discere , sed ab imperiali splendore appetere, A cotal intrinseco difetto della Romana Repub . blica non parmi che si pensasse gianımai a pora, tar un vero rimedio . , per cui la vantata libertà che senza leggi non nasce ,nè si può sostenere, non sedè mai lieta su le sponde del Tevere , e fuggi . finalmente di mezzo a un popolo , che non la co nobbe , e non fu mai degno d'adorarla . Il latte della lupa si perpetuò nelle vene de' Romani , ne quina 7 vano per æs & libram , le rivindicazioni, le cré zioni , le manomissioni , le nunciazioni di nuove opere , le usutpazioni , le licitazioni , le antestazio lé elezioni & c. non solo erano faite conceptis verbis , dalle quali non si poteva trascendere , me con azioni e rappresentanze particolari , che rende. vanò comiche le processure giudiziarie . Questo però non significa altro , se non che, nei tempi d'ignorana ga si sostituisce il linguaggio d'azione all' espres sione naturale delle idee e de sentimenti ; e percið i simboli , i geroglifici, le gesticolazioni furono nei tempi barbari il supplemento della lingua parlata é divennero poi il linguaggio rituale solenne e sacro ; in che principalmente consisteya la Giurisprudonza Romana quindi conobbero mai i sentimenti di sociabilità , i piaceri della società , le regole che all'adempimen to di essi prescrive la Natura . Perciò e per effet to della loro barbarie ed ignoranza , si disputò , si discusse , si combatte , si decise sempre sopra idee particolari, nè mai seppero elevarsi a generalizza re i principi , che la ragione ci mostra per la buo na' costituzione de corpi sociali, Dai campi ai Co. mizj era quasi continuo l alternativo passaggio maquanto furono felici colla forza o colla frode altrettanto infelici furono nell'uso della ragione . Essi non ebbero mai sentimenti univoci , e se la plebe fu qualche volta superiore di fatto, l’aristocrazia conservò sempre la sua condotta , ne seppero far cessare il nome di plebe , che vergo gnosamen te li caratterizzava , e distingueva pre giudizievolmente il cittadino dal cittadino . Dell uguaglianza non ebbero mai la vera idea , e quindi non poterono averla della libertà , che sola per quella sussiste , ed il vantato censo , non diro quello di Seryio Tullio , ma quello stesso della Res pubblica non fu una invenzione sublime. Se cotali riflessioni potranno sembrare ad alcuno superflue in rapporto al soggetto della Giurispru denza Romana , rispondero , che tali non sono poic ( 123. Det poichè quando si parla delle leggi , convien neces sariamente avere le giuste idee del popolo che ne fu l'autore , dei suoi sentimenti , e della forma e condizione del potere legislativo. Or potrà sembrare strano il dire , che Roma era formata quasi di due stati l'uno nell'altro , e che il potere legislativo fosse diviso in due corpi o anche in tre , e che poi quelle leggi fossero di un uso generale . E pure tal fu di Roma nel tempo in cui fu più celebre e risplendente . $' egli è vero, che nella undecima delle dodici tavole fosse contenuto il Dritto pubblico de' Ro mani , dobbiamo pur riconoscere che fu la più negletta e la meno rammentata , poichè i fram menti o le quisquilie che di essa ci rimangono sono le più meschine . E quantunque io sia nell' idea , che quella tavola non contenesse che i prin cipali dritti dell' Aristocrazia , qual' era appunto la legge de'cornubj, tanto detestata dalla plebe , e ro versciata vittoriosamente da Canulejo ; pure in un frammento rimastoci , troviamo quale avrebbe dovuto esser il vero stabilimento del dritto Legisla tivo , cioè QUOD POSTREMUM POPULUS JUSSIT ID JUS RATUM E $ TO. Ma se vogliamo seguire, la ragioneyole interpretazione del Vico e del Duni, la parola popolo non fu ivi presa nel senso proprio ; e nel significato generale, per esprimere la collezio ne di tutti gl'individui componenti lo stato , ma di quelli soli che godevano il dritto , e meritava no il vero nome di Cittadini , quali erano i soli Patrizj. Quando poi la plebe gradatamente venne a partecipare alle qualità civiche , la parola po . " polo divenne generale , e non essendovi più di visione privilegiata d'ordini nello stato , ma solo di classi , ciocchè la cennata legge prescriveva , passò ad essere nel suo vero uso e valore , cioè , a far , sì che legge si chiamasse , ctocchè l'intiero popolo avea prescritto e comandato . Se tale è però il principio costitutivo delle Rear pubbliche, e secondo il Gravina il più convenien te ancora alla natura umana , vi devono esse re delle regole , accið lespressione della volon tà generale sia certa legittima libera ed uguale , onde ciascun cittadino senta essere una parte in tegrante del Sovrano , dello Stato , e della Patria : Tali sono le leggi costitu zionali , che riguardano il dritto del suffragio , o la maniera di communi care la propria volontà al corpo sociale , e fare che la volontà pubblica sia realmente il risultato del. le volontà particolari. Il Dritto di suffragio costi tui yang tuisce dunque principalmente la qualità di cittadi. no , e il modo di darlo , forina quasi una misura di graduazione del Cittadino mede simo . cioè che tanto più si è Gittadino , quanto più il dritto del suffragio è libero ed uguale . Troppo lungi mi porterebbe l'andare esaminan do particolarinence colla Storia , come questo drit to si stabilisse in Roma: , cioè nella formazione casuale di quella Repubblica , alla quale contribul molto più la natura o il corso naturale delle sa cietà , che i priacipj d'intelligenza e di ragione . Dirò solo , che quel popolo sempre rozzo ed ignorante fu tanto lontano dal conoscere l'importanza di queste idee , che şi conteniò di essere con vocato al suon d'un corno di bue alle grandi Assemblee de' Çomizj; e mandra od ovile fu chiamato quel luogo, dove si radunava , per compir l'atto il più degno , il più glorioso p er un popolo , cioè il dar leggi a se stesso . Ma cotai nomi ed usanze erano avanzi dell'antico stato Aristocrațico ; e pa stori e mandre sono correlativi necessarj. Delle tre maniere intanto nelle quali si diedero į suf ( 18) Dionys. Antiqu. Romanarum lib. z. ( 126 e i suffragj, quella de' Comizj tributi si può dire che fondasse veramente la libertà o la potestà del po polo , giacchè i Comizj delle Curie furono obblia ti , nè ebbero in effetto il potere legislativo ; ed i Comizj centuriati davano la preferenza o la pre ponderanza alle ricchezze . Vi fu inoltre il Senato, il quale sebbene non avesse altro dritto , che di esaminare o consultare , si arrogo pure in parte il potere legislativo . O la Nazione dunque radu nata per Tribd , o essa stessa convocata per Cen turie , o il Senato ebbero o in dritto o in fatto l'esercizio del potere legislativo . Le risoluzioni per tribù dette plebisciti , non ottennero che dopo molte contese la vera for za di leggi , cioè di obbligare tutti i cittadi ni , giacchè da principio non obbligavano che la plebe soltanto . Tanto è vero che i Patrizi si cre devano un altro popolo un altra Nazione ; che quelle leggi nelle quali non avevano potuto far prevalere, le loro idee e le loro volontà , per mol to tempo non le fecero valere per leggi. L'auto rità de' Senatusconsulti fu meramente abusiva , poichè nè per le leggi Decemvirali ne per al cun stabilimento posteriore, il Senato da se solo aveva in alcun modo la potestà legislasiva. ( 127 ) el 3 2 tiva . Quelle risoluzioni però che portarono parti colarmente il nome proprio di leggi, furono le de cisioni dei Comizi centuriati , delle quali non oc corre ripetere nè il metodo nelle proposizioni , nè quello della convocazione , nè quello delle deci sioni . Tuttocið fu vario nel corso della Repubbli. ca , e si può trovare presso mille autori , che del governo Romano anno ragionato . Ho voluto solo ricordare queste poche notizia per mostrare , come il potere legislativo fu stabie lito in Roma sotto varie forme, le quali influivano di molto su la realità , e come il dritto di suffra . gio, non fu lo stesso nè uguale nei diversi comizi. Nei centuriati la qualità di Cittadino era misus rata su le ricchezze , e non si può dire , che fosa se la volontà del maggior numero de' cittadini , che rappresentasse la volontà generale , come don vrebb' essere per natura . Și sa ancora quanti abu si vi s'introdussero per farle essere le decisioni del minor numero , e spesso la quarta o quinta parte del popolo aveva già decretata la legge, men tre la volontà di tutti gli altri rimaneva inutile e , delusa . Che quello fosse un sistema meraviglioso lo potranno dir solamente gli Entusiasti , ma non chi nel giudicare suol prendere per guida la ragione : Dirò di più , e ciò fu contro i principi di ogni regolare amministrazione , che quei comizj oltre al potere legislativo si arrogarono ancora la facoltà governativa' , ed in molte occasioni simil mente il potere giudiziario ; ciocchè indica , qua le idea essi avessero di un vero ' e buon Politico sistema . Fu sicuramente un effetto delle distinzioni sco lastiche dell' antica Roma il dire , che i Tribuni del popolo non fossero Magistrati , perchè non avevano nè imperio nè dritto di vocazione, nè giu risdizione , nè auspicj , ma in verità se non erano magistrati nominali , lo erano in effetto , ed eser citavano un potere amplissimo su la plebe , sul Senato , e sopra tutta la Repubblica : ad es si apparteneva il convocare i comizj tributi i quali secondo me formavano il vero corpo le gislativo , se in essi il dritto del suffragio ap parteneva egualmente ed integralınente ad ogni . cittadino . Il Cittadino vi figurava come Citra dino libero , e non era il rango o la ricchezza , che davano la preponderanza . E pure questa par te della legislazione non meritò mai il nome di legge , come l'ebbero le risoluzioni de'Comizj cen turiati . lo non decido pai se al paragone le leggi Orno proposte dại Tribuni fossero più giuste ed utili allo stato , che quelle proposte nei Comizj centu riati dai Magistrati maggiori . Possiamo però ri Aettere , che tutte le leggi riguardanti la costitu zione politica , o relative alla libertà ed al lo stato popolare , le quali si possono chiamare leggi di Umanità e di Giustizia uni versale , furono tutte o quasi tutte proposte dai Tribuni . Nè si pud dubitare che esse fossero leggi necessarie, poi che erano le leggi naturali della libertà , e quindi necessarie e costituzionali per un popolo che voleva essere libero , Nè è da imputar loro che non fos sero migliori ; giacchè la mancanza d'idee e di buone cognizioni era comune ai patrizi ed ai ple bei . Lo stesso Cicerone contuttoche fosse Aristo cratichissimo , non potè far a meno , di con fessare , che se si avessero voluti annoverare i misfatti de' Consoli, non sarebbero stati pochi , ma che toline i due Gracchi , non si potevano contare altri Tribuni perniciosi. Infatti, e varj plebisci ti furono salutarissimi alla Repubbiica , e le leggi an. (Do Leg.)anche civili dai Tribuni promosse furono effettiva. mente a pubblico vantaggio . La maggior parte però delle leggi , dei plebisciti, e de' Senatusconsulti furono una specie di leggi volanti o temporarie , essendo per lo più pro mosse per occasioni particolari ; ¢ sebbene si procurasse di dare ad esse tutta l'autenticità so. lenne , non si riducevano però in un corpo , che avesse l'autorità d'un codice di legislazione ; ne io credo, che ad uso pubblico sempre s' incidesse ro in ' tavole o lamine di bronzo , come pur ci vo . gliono far credere alcuni autori antichi . Sono in dotto a pensar cosi da varie testimonianze , e spes cialmente da una di Cicerone . Possiamo da esse raccogliere , che quando le leggi furono una scienza arcana de' Patrizj e de' Pontefici , si conservaro no e custodirono con gelosia e con mistero, trat tandosi quasi della loro proprietà più preziosa , e proprietà come abbiamo veduto molto dispo nibile . Il tempio prima di Cerere par che fosa se a ciò destinato, e poi il pubblico Erario , accid i Consoli'o i Senatori non le corrompessero o in volassero; ma quando le leggi divennero di ragion pubblica , gli antichi curatori non le curarono più , e funne generalmente negletta la custodia Al ( 131 ) si . Almeno cosi ci attesta Cicerone , assicurandoci , che per saperle , o per conoscerle , bisognava far capo dai Portieri e dai Copisti = Legum custodiam nullam habemus : itaque hæ leges sunt , quæ apparia tores nostri volunt ; a librariis petimus ; pubblicis literis consignaram memoriam publicam nullam ha bemus . Græci hoc diligentius , apud quos xquaquaames creantur : nec hi solum literas ( nam id quidem een iam apud majores nostros erat , sed etiam facta hominùm obsesvabant , ad legesque revocabant. E la credė egli così necessaria , che nel suo Co dice , legislazione stabilisce appunto nell'Erario la conservazione o custodia pubblica delle leggi Forse però i Romani si avvidero, che le loro leggi non meritavano tale attenzione ed onore. Ho avver che Tacito caratterizzò con molto favore le leggi Decemvirali , non perchè meritas sero elogj di equità e di giustizia , ma perchè, al meno in apparenza , avevano avuta una certa re golarità di formazione e di pubblicazione ; ed a causa delle leggi posteriori , prive di tali qualità . Qualunque fossero in facti le regole per convocare I 2 i co tito di sopra , 1 (Cic. de leg.)i comizi, per dare i suffra gj, per creare le leggi oltre la viziosa costituzione , è da credere ancora , che il disordine e la confusione sempre vi avesse ro luogo , e spesso vi avesse parte la violenza, la cerruzione , e tutti quegl' inconvenienti soliti a nascere da personalità , da privato interesse , e da spirito di vendetta . Cosi di fatti c'indica Tacito dicendo compositæ duodecim tabulæ , finis omnis æqui juris : nam sequuræ leges , etsi aliquando in maleficos ex delicto , sæpius tamen dissentione ordi hun , et adipiscendi inlicitos honores, aut pe'len di claros viros, aliaque ob prava , per vim taie sunt . ( 20) Questo fatto finalmente mette il colmo, a quan to abbiamo detto della irregolarità ed incertezza di quelle Leggi, che meritarono tanti encomiatori . Le espressioni della volontà generale d ' un popolo libero e giusto , avrebbero veramente meritate P adorazione , e l'accettazione della posterità , se stabilite secondo i principj della Natura e della ra. gione ci avessero presentato un archetipo degno d'imitazione . Ma colla scorta della Storia , e sce vri (Tac. Annal.) ba ia di 10 18 tie 1 vri della infantile prevenzione tutt'altro abbia - mo trovato . Se Dionigi d' Alicarnasso ci presen " ta Romolo come un legislatore Filosofo , ed in struito della storia degli alui stati ; la storia vera ce lo presenta come capo di un' Aristocrazia pri mitiva , cioè barbara e feroce , la quale risorin - geva nel suo ordine, tutte le qualità di uomo e di cittadino : ma la storia del primo Regno e de gli alııi successivi è quasi tutta incerta simbolica e favolosa , come si potrebbe provare su le poche tracce , che non sfuggono ai critici indagatori del le origini civili . In tutto quel tratto di an ni altro non veggiamo in risultato , che dopo una prima aggregazione di forti e di deboli, senza altre leggi che le consuetudini Aristocratiche , si co minciò a dare una forma alla nascenie società. Il re videro , che il loro potere era un nulla , se invece di esser capi de'patrizj , nol divenivano del la plebe o del popolo ; ma Romulo scompar ve per diventar Quirino ne' cieli , Servio fu tru cidato , ed il secondo Tarquinio espulso . In tanta incertezza di cose , come i storici assai posteriori parlarono dei tempi passati colle idee dei tempi loro , così si aprì la strada a credere , che le stes. se parole corrispondessero alle stesse idee in epo che di is ble che assai differenti e lontane; quindi i scrittori suse seguenti si tormentarono prima lo spirito in tante ricerche , e poi si distillarono il cervello per con cordare le contradizioni, che ad ogni passo incon travano fra le idee prima formatesi , ed i fatti che poi trovavano nella Storia. Quindi tante ricerche e tante dispute inopportune e difficili per la man canza di monumenti , ed inutili affatto ai progres si della ragione. La legge regia però non meri tando alcuna particolare attenzione, importava so lo al nostro assunto il vedere , che l' incertezza delle leggi cominciò col nome Romano , e porta rono questa marca vergognosa in tutte le epoche, e in tutta la durata della Repubblica . Tali poi furono anche il dritto civile , le azioni legitime , gli Editri de' pretori o sia il dritto onorario, e finalmente le leggi propriamente dette , le quali sempre più confusero e resero incerto il drit , to e le leggi antecedenti. Parmi dunque poter drittamente dai fatti con chiudere , che le leggi e la Giurisprudenza Roma na furono immeritevoli di quelle lodi colle quali sono state esaltate , ed indegne di reggere un po polo qualunque , mancando di quelle qualità che poteyano renderle pregey oli e sacre , cioè collo stabilire la regola eterna della giustizia, render P urmo suddito di esse , e non dipendente dall' arbitrio; ciocchè positivamente distingue la libertà del dispotismo , qualunque sia del resto la forma o la costituzione sociale . Se le specolazioni de' politici si fossero fermate principalmente su quest'articolo , avrebbero facil mente ravvisato , che Roma non cadde oppressa della sua grandezza , poichè per gli edifici mate riali o politici è essa anzi una cagione di resi stenza e di durata. Cadde quella mole immensa per mancanza di base , e per difetto di Architettum ia . La base della Società è sempre la Giustizia tanto nella legge e nel principio, quanto dell'amministrazione ed esecuzicne di esse. Che poi l'ossa tura politica fosse mal congegnata ed un prodotto progressivo del caso , credo averlo di sopra abba stanza dichiarato. La giustizia di Roma fir in principio quale può essere nella barbarie; d'indi qua le suol' essere nell'amministrazione arbitraria; e fi nalmente quale dev'essere nell’anarchia , nella confusione della legge e nella generale corruzione. Dell' origine dell'idea che abbiamo della Bellezza. Il Bello della Natura. Il Bello dell'arte , ossia della imitazione e del Bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. Opere complete (Teramo, Fabbri). Indizi di morale. Il metodo della morale. Il sentimento morale. L’origine del sentimento morale. Lo sviluppo del sentiment morale. Divisione della morale. La libertà civile. L’eguaglianza. La proprietà. Lo vviluppo della morale nella diada sociale. Il senso morale. Il dovere morale. L’obbligazione morale. L’amor proprio (l’amore proprio – Butler – self-love). La virtù. La benevolenza – la benevolenza conversazionale. La giustizia. L’educazione. La felicità. La passione. Note agli "Indizj di Morale" di G. Pannella Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana. La giurisprudenza romana dal tempo de' re fino all'estinzione della repubblica. Sequela dei carattere della giurisprudenza romana sotto gl'imperatori. I cultori della giurisprudenza. L’amministrazione della giustizia. Memorie storiche della Repubblica di S. Marino. La Situazione corografica della Repubblica di SAMMARINO e dei varii nomi dati successivamente al capoluogo dello Stato. L’origine della Repubblica di S. Marino, e prime sue memorie fino al secolo decimosecondo. Le memorie di S. Marino nel secolo decimosecondo, e nel seguente. Proseguimento delle memorie istoriche per tutto il secolo decimoquarto. Proseguimento delle memorie per rutto il secolo decimoquinto. Proseguimento delle memorie per tutto il secolo decimosesto. Proseguimento delle memorie pel secolo decimosettimo. Sequela del secolo decimottavo. Il governo politico della Repubblica di San Marino. Diplomi ed altri monumenti citati nell'opera. L’istoria, la sua incertezza ed inutilità. Ai dotti e agli studiosi delle scienze della natura. L’origine naturale della storia e dei progressi ed abusi della medesima. La storica incertezza. L’autorità degli storici contemporanei del cavalier Tiraboschi. L’inutilità della storia e dei pregiudizi derivati dalla medesima. Verificazione degli antecedenti principj con esempi tratti dalla storia della romana repubblica. I bello. Ai giovani educati. L'origine dell'idea che abbiamo del bello. Il bello della natura. Il bello dell'arte, ossia della imitazione e del bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. L’antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini italiche.  Alla reale accademia ercolanese di archeologia e a S. E. reverendissima monsignor Rosini presidente della medesima e della R. Società Borbonica di Napoli. Le origini italiche. Le antiche monete della città di Atri nel Piceno. I pelasgi e I tirreni. Rischiaramenti ed alcune osservazioni fatte sull' opera della Numismatica atriana. Lettera a S. E. il sig. conte D. Giuseppe Zurlo. Antologia di Firenze. Articolo di G. Micali. Biblioteca Italiana. La Numismatica atriana ed agli altri opuscoli. AL. Sorricchio. Saggio istorico delle ragioni dei sovrani di Napoli sopra la città di Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca. Saggio filosofico sul matrimonio. Lo stabilimento della milizia Provinciale. La coltivazione del riso nella Provincia di Teramo. Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi . Il tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle, provincie confinanti del regno. La necessità di rendere uniformi i pesi e le misure del regno. Il tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma. La vendita dei feudi umiliate a S. R. M. La tassa fondiaria. L’istruzione pubblica. La sensibilità imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle nazioni lette nella Reale Accademia delle scienze. La perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell’educazione con alcune vedute sulla medesima letta nella R. Borbonica Accademia delle scienze. La perfettibilità organica considerata come il Principio fisico dell'educazione letta nella Reale Accademia delle scienze. Alcuni mezzi economici per supplire agli attuali bisogni dello stato. L’importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale. Lo stabilimenti di umanità e di pubblica beneficenza. L’organizzazione dei tribunal. Un porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara. A Berardo Quartapelle. A S. E. il sig. Duca di Cantalupo. Al Cav. sig. Pasquale Liberatore. Ai Capitani Reggenti la Repubblica di S. Marino. Al marchese Luigi Dragonetti (Aquila). Al signor Roberto Betti (Napoli). A Giacinto Cantalamessa Carboni in Ascoli. A Giuseppe M. Giovene (Molfetta). Ad Alberto Fortis. A Bernardino Delfico. Al Sig. Abate D. Cataldo Jannelli. Saggio di lettere indirizzate a Melchiorre Delfico Gaetano Filangieri a M. Delfico Pietro Borghesi a M. Delfico F. Neumann a monsieur l'Abbé Fortis. Spallanzani all'abate Fortis. Al medesimo Fortis in Napoli ..... pag. 138  Spallanzani a M. Delfico ..... pag. 140  Luigi Grimaldi a M. Delfico ..... pag. 141  Toaldo a M. Delfico ..... pag. 142  Spannocchi a M. Delfico ..... pag. 143  V. Comi a B. Q. [Berardo Quartapelle] ..... pag. 148  Michele Torcia a G. Berardino Delfico ..... pag. 148  Gaspare Mollo a M. Delfico ..... pag. 151  Alessandro Carli ..... pag. 152  F. Mùnter a M. Delfico ..... pag. 154  Mùnter a Delfico in Napoli ..... pag. 159  Mùnter a M. Delfico ..... pag. 160  Filippo Mazzocchi a M. Delfico ..... pag. 163  Gazola a M. Delfico ..... pag. 163  Giuseppe Micali a M. Delfico ..... pag. 170  L'abate Bertola a G. Bernardino Delfico ..... pag. 178  Il medesimo a M. Delfico ..... pag. 179  L. Brugnatelli a M. Delfico ..... pag. 179  Antonino Anutos a M. Delfico ..... pag. 180  Gio. Andrea Fontana a M. Delfico . Il Duca di Cantalupo a M. Delfico ..... pag. 183  Giuseppe Palmieri a M. Delfico ..... pag. 180  Tommaso Gargallo a M. Delfico in Teramo ..... pag. 190  Giuseppe M. Galante a M. Delfico ..... pag. 194  Giovanni C. Amaduzzi a M. Delfico ..... pag. 194  Mattia Ab. Zarillo a M. Delfico ..... pag. 195  Giuseppe M. Giovene a M. Delfico ..... pag. 197  C. Amoretti a M. Delfico . Francesco Soave a M. Delfico ..... pag. 203  Giovanni Acton a M. Delfico (Teramo) ..... pag. 205  Fortis a M. Delfico ..... pag. 205  Pietro Zannoni a M. Delfico ..... pag. 206  Bossi a M. Delfico ..... pag. 206  Tommaso Frantoni a M. Delfico ..... pag. 209  Daniele Felici a M. Delfico ..... pag. 209  G. Napoleone a. M. Delfico ..... pag. 212  G. Giacomo Trivulzio a M. Delfico ..... pag. 212  G. Melzi a M. Delfico ..... pag. 223  San Severino a M. Delfico ..... pag. 23  Il duca di Sant'Arpino a M Delfico ..... pag. 231  Tracy a M. Delfico . Antonio Canova a M. Delfico ..... pag. 240  Angelo Maria Ricci a M. Delfico ..... pag. 241  Donati Gioli a M. Delfico ..... pag. 243  Luigi Dragonetti a M. Delfico ..... pag. 243  Giuseppe Zurlo a M. Delfico ..... pag. 246  Michele Arditi a M. Delfico ..... pag. 249  Antonio Orsini a M. Delfico ..... pag. 250  G. M. Burini a M. Delfico ..... pag. 251  Taranto a M. Delfico ..... pag. 252  Francesco Sorricchio a Delfico ..... pag. 252  L. Cicognara a M. Delfico ..... pag. 258  F. Santangelo a M. Delfico ..... pag. 259  Sebastiano Ciampi a M. Delfico ..... pag. 260  Donato Tommasi a M. Delfico ..... pag. 261  Il Duca di Laurenzana a M. Delfico ..... pag. 262  Giuseppe Grimaldi a M. Delfico ..... pag. 264  N. Santangelo a M. Delfico ..... pag. 271  Lodovico Bianchini a M. D. ..... pag. 272  Carlo Filangieri a Melchiorre Delfico ..... pag. 272  G. B. Niccolini a M. Delfico ..... pag. 274  Giuseppe Rangone a M. Delfico ..... pag. 276  Leopoldo Pilla a M. Delfico ..... pag. 278  Il Duca di Gualtieri a M. Delfico ..... pag. 281  II Barone Poerio a M. Delfico ..... pag. 283  Leopoldo Armaroli a M. Delfico ..... pag. 283  G. Neroni a Leopoldo Armaroli ..... pag. 286  Francesco Fuoco a M. Delfico ..... pag. 287  Giuseppe Micali a Gregorio de Filippis ..... pag. 288  Aggiunta agli opuscoli. Fiera franca in Pescara ..... pag. 293  Al sig. Pasquale Borelli ..... pag. 307  Al sig. Antonio Orsini ..... pag. 313  Al sig. Conte Armaroli ..... pag. 315  Alessandro Volta a Orazio Delfico ..... pag. 317  Rapporto sull' Italia inviato a Napoleone, e attribuito a M. Delfico . Piemonte . Liguria . Regno D' Italia . Toscana ..... pag. 326  Stati Romani ..... pag. 327  Napoli . Memoria per la conservazione e riproduzione dei boschi nella provincia di Teramo ..... pag. 335  Discorso del Cav. Comm. Gian Berardino Delfico letto in occasione del solenne giuramento prestato a S. M. Giuseppe Napoleone Re di Napoli e Sicilia dalla Città e Provincia di Teramo ..... pag. 363  La famiglia e le opere di Melchiorre Delfico . I titoli nobiliari . Episodi della vita del Delfico . Opere ignorate del Delfico . Il contenuto delle opere . Catalogo per materia delle opere di M. Delfico . Lettere del Delfico e al Delfico . La Repubblica di S. Marino in onore di M. Delfico . M. Delfico a Gaspero Selvaggio . A Paolo D' Ambrosio M. Delfico. Il teramano Melchiorre Delfico (1744-1835) è uno dei più cosmopoliti e al tempo stesso dei più autenticamente provinciali tra i riformatori meridionali della seconda metà del Settecento (1). Durante il suo primo soggiorno a Napoli, interrotto dopo tredici anni nel 1768 perché malato di emottisi, il giovane intellettuale abruzzese segue le lezioni di Antonio Genovesi e frequenta il gruppo che si riunisce attorno alla cattedra dell'abate (2), che dal 1754 al 1769 costituisce il fulcro del movimento riformatore meridionale. Sarà questa scuola composta da Longano, Galanti, Palmieri, Grimaldi, Filangieri, Pagano ed altri, ad imprimere una «benefica scossa» (3) alla cultura napoletana e avviare negli anni successivi un serrato e articolato dibattito sui problemi più urgenti del Regno, suggerendo le linee di un possibile rinnovamento della società civile che non di rado contrasteranno con l'angusta politica del governo borbonico (4).  È soprattutto dalla rilettura del genovesiano Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze (5), considerato il manifesto dell'illuminismo napoletano, in cui viene rivendicato un uso pratico del sapere, che Delfico matura una nuova concezione della cultura e dell'intellettuale, la cui attività sia, come diceva Genovesi, «più pratica che teoria» (6), e la convinzione della necessità di un impegno politico più diretto. Un atteggiamento anticuriale e giurisdizionalistico, di ascendenza giannoniana (7) e di eredità genovesiana (8), egli manifesta nei due lavori, con i quali inaugura nel 1768 la sua attività di scrittore, in difesa dei diritti del Regno di Napoli sui territori di Benevento, dal 1077 sotto il dominio pontificio, e di Ascoli Piceno, anch'esso dal 1266 annesso allo Stato ecclesiastico (9). Nelle due Memorie denuncia le tendenze temporali dell'autorità ecclesiastica, dimostrando «false o insussistenti» le pretese giurisdizionali del pontefice su quei possedimenti, ottenuti non già per legittimi diritti di sovranità, ma con l'usurpazione, titolo «vergognoso» perché «prodotto per dolo o per frode» (10).  Sebbene notevole sia stata l'influenza di Genovesi sul movimento illuminista meridionale, non tutte le molteplici espressioni della cultura riformistica degli anni Settanta e Ottanta possono essere ricondotte alla sola riflessione del pensatore salernitano. Anche per i rappresentanti della corrente «più provinciale», «più tecnica e descrittiva»(11) della scuola genovesiana, l'insegnamento del Maestro non sempre costituirà l'unica matrice culturale. Lo stesso Delfico, sebbene riconosca il suo debito nei confronti dell'abate, non trova in lui il pensatore che la «propria ragione gli faceva desiderare» (12), bensì il pubblicista che ricerca e analizza i mali economici e sociali della sua terra. «La fortuna però - scriverà più tardi - avendomi fatto pervenir nelle mani le immortali opere di Loke [sic] e di Condillac, parve che il mio spirito prendesse una nuova modificazione, e quindi una inclinazione pel vero, ed un gusto particolare per i morali sentimenti» (13).  Già nel Saggio filosofico sul matrimonio, apparso a Teramo nel 1774, alcuni anni dopo il suo ritorno in provincia, s'intravede l'orientamento filosofico dello scrittore abruzzese basato su una visione tutta empiristica e sensistica dei rapporti umani, che indurrà la Congregazione del Sant'Uffizio a porre l'opuscolo nell'Index librorum prohibitorum il 19 gennaio 1776. L'opera è una vera e propria esaltazione sia dello stato coniugale che dell'amore, inteso come desiderio, come piacere fisico ma soprattutto morale. In polemica con Rousseau, Delfico considera il vincolo matrimoniale una fonte continua «di sensazioni e di sentimenti aggradevoli» (14) e sostiene, richiamandosi a Hume, che esso debba essere il più possibile completo e duraturo. La critica del celibato e più ancora del libertinaggio è l'occasione per un'attenta disamina della condizione della donna, di cui sostiene l'emancipazione e la rivalutazione nella famiglia e nella società, fino a rivendicare una legislazione sulla parità dei diritti e dei doveri fra i sessi.  Del 1775 sono gli Indizi di morale, interrotti per ordine dell'assessore Pietro Paolillo che ne dispone il sequestro mentre sono ancora in corso di stampa, i quali «svelano assai più a fondo e gl'ideali politici del Delfico e la sua cultura» (15). Sul piano filosofico infatti essi segnano una piena adesione all'empirismo e al sensismo di Locke e Condillac. Dalle idee filosofiche dei due pensatori il Teramano non si discosterà più, restando sino alla fine legato alla dottrina sensistica. Confesserà molti anni dopo ad un amico: «Dopoché il mio spirito soffrì la modificazione dal Trattato delle sensazioni, non l'ho turbato più perché mi vi sono trovato comodo, non trascurando però le successive osservazioni le quali hanno potuto migliorarlo» (16). Egli riconosce alla morale il fondamento empirico proprio delle scienze fisiche e riconduce l'origine dei sentimenti morali alle sensazioni. Poiché è nella società che gli uomini acquisiscono le prime nozioni di moralità e le loro azioni diventano utili o dannose, ne consegue che la sfera delle loro idee e con essa quella delle loro attività si dilatano soprattutto in quelle forme politiche in cui maggiormente cresce la possibilità di comprensione della qualità degli oggetti e gli individui sono messi nelle condizioni che meglio permettono la individuazione dell'amor proprio. «È nel passaggio dall'Aristocrazia allo stato popolare», scrive, che «le nazioni godono del colmo della virtù» e «nasce quella gara di Eroismo che è difficile a trovarsi nelle Monarchie» e che si verifica ogni qualvolta «l'interesse di tutti i particolari va a riunirsi col pubblico»(17) e i cittadini partecipano maggiormente alla sovranità e al potere.  L'affermazione non si concreta in una scelta della democrazia come forma di governo, né in una rivendicazione di ordinamenti politici alternativi a quelli in cui si incarna la monarchia borbonica. L'allusione alla repubblica resta in lui vaga, sottintesa e comunque priva di un reale contenuto politico-istituzionale, mentre egli non nasconde la propria simpatia per il despotisme éclairé (18). Vi è, da parte sua, una svalutazione della politica in quanto problema teorico, a favore di un impegno politico più immediatamente finalizzato alla soluzione di questioni politiche contingenti. Suo obiettivo principale è il perseguimento del bene pubblico, realizzato attraverso un'avveduta e coraggiosa politica di riforme. Un processo di trasformazione che miri innanzitutto all'uguaglianza politica e che non ha niente a che vedere con la «fatale» comunione dei beni, fomite di disordini e di eterne contese. Il problema dell'uguaglianza, di cui le garanzie politiche costituiscono una imprescindibile componente, consente a Delfico di condurre a fondo l'attacco contro la struttura feudale della società napoletana, in cui ancora assai diffusa e radicata è l'ineguaglianza sia essa generata dall'abuso del potere che da quello delle ricchezze. «Conosciuti i mali che provengono dall'ineguaglianza - afferma a conclusione del capitolo sulla proprietà - deve essere un canone politico quello di ravvicinare gli estremi, e non dar luogo ad altre ricompense che a quelle del merito personale e dell'industria» (19). Al contrario, il persistere dell'ineguaglianza non fa che produrre «lusso e corruzione» ed aggravare la già precaria condizione dei più miserevoli, privati della loro stessa dignità perché costretti a mercanteggiare persino «la vita, l'onore, la stima, la virtù, ed i più sacrosanti doveri» (20).  Dopo il sequestro degli Indizi di morale e la messa all'«Indice» del Saggio filosofico, Delfico incorre in un nuovo spiacevole episodio con le autorità provinciali. Soprattutto a causa del vescovo Pirelli e dell'assessore Giacinto Dragonetti, con cui pure aveva avuto rapporti di amicizia, è ingiustamente inquisito e condannato per la fuga di certe monache dal monastero di S. Matteo di Teramo (21). L'exequatur del Tribunale del capoluogo abruzzese (5 febbraio 1778) con il conseguente ordine di carcerazione, emesso nei confronti suoi e di altri «lajci seduttori» (22) presunti responsabili dell'insubordinazione, lo costringono ad allontanarsi dalla città e a recarsi a Napoli, dove rimarrà circa tre anni, fino alla conclusione della vicenda giudiziaria, giunta con l'indulto regio del 17 giugno 1780.  Questo secondo soggiorno partenopeo, avvenuto a dieci anni di distanza dalla fine del primo, si rivela assai fecondo per lo scrittore teramano che ha l'occasione di  rinsaldare i legami con gli ambienti riformatori della capitale e stringere rapporti con vari esponenti della cultura, quali tra gli altri i fratelli Di Gennaro e Grimaldi, Filangieri, Pagano, Torcia e Fortis. È anche il periodo in cui egli matura l'idea che la provincia possa imprimere, attraverso la denuncia dei mali prodotti dal sistema feudale, un nuovo e maggiore impulso alla politica governativa ed avverte la necessità di una ridefinizione del rapporto tra capitale e province, tra i centri periferici più sani e dinamici e quella Napoli corrotta ed inerte dalla quale tutti attendono una politica di riforme.  Ritornato a Teramo, Delfico pubblica nel 1782 il Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, che gli varrà, l'anno successivo (20 giugno 1783), la nomina ad Assessore militare della sua provincia. Lo scritto, dedicato all'amico Filangieri, inaugura un'intensa stagione che vede l'illuminista abruzzese farsi promotore di numerose riforme. Nel Discorso la questione militare acquista rilevanza politica, avendo intuito l'Autore l'importanza che una buona costituzione militare poteva assumere per la vita di uno Stato. Criticando lo «spirito di corpo» dei militari, quel «sentimento dissociale» che li porta a disprezzare la vita civile e che fa di loro una classe di privilegiati distinta dal corpo sociale, egli mira a riqualificare il ruolo del soldato all'interno della società, non soltanto in tema di sicurezza, ma anche, soprattutto, di progresso civile, riunendo, sull'esempio di Rousseau, la qualità di soldato a quella di cittadino (23), così che i due termini diventino sinonimi fra loro.  Ad alimentare la fiducia nei primi anni Ottanta che si potesse realizzare sul piano legislativo e amministrativo quanto si veniva sostenendo su quello dottrinario, contribuirono sia la istituzione della Reale Accademia di Scienze e Belle Lettere (che però tradì presto le attese suscitate) che quella del Supremo Consiglio delle Finanze. Sorto nel 1782, il Consiglio si prefiggeva di riformare gli antichi e perniciosi abusi del sistema e di restituire l'abbattuto vigore alla Nazione promuovendo i canali della ricchezza dei sudditi e dello Stato. Ad esso Delfico vorrebbe sottoporre la sua Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo, pubblicata a Napoli nel 1783. Considerato «forse il più limpido e ragionato» (24) dei numerosi suoi scritti economici di quegli anni, il testo è una dura requisitoria contro il persistere di pesanti imposizioni feudali e di certi abusi economici e politici, responsabili di mantenere tale coltivazione in uno stato di sottosviluppo (25). La risposta delficina è in favore di un ammodernamento della tecnica di produzione e della rimozione di tutti gli ostacoli, compresi i controlli e le restrizioni governative, che impediscono la realizzazione di un'economia di mercato.  Nell'estate dell'83 Delfico è di nuovo a Napoli, dove si fermerà fino alla fine dell'anno. Ma non sarà questa una permanenza piacevole. All'entusiasmo iniziale, infatti, subentrerà presto un sentimento di profonda amarezza per l'andamento della vita politica della capitale. Egli prende coscienza della incapacità dello Stato di dar vita ad un programma organico di risanamento dell'economia del Paese, messa di nuovo a dura prova dal terribile terremoto calabrese della primavera del 1783. La condotta della corte borbonica gli appare quanto mai improvvisata e piena di incertezze e di contraddizioni.  Ritornato a Teramo è raggiunto, nel febbraio del 1784, dalla notizia della scomparsa dell'amico Francescantonio Grimaldi, cui dedica, come ultimo tributo, un Elogio (26) che ne rievoca il pensiero e il valore. Dopo un rapido excursus delle opere giovanili (27), lo scrittore abruzzese si sofferma sulle Riflessioni sopra l'ineguaglianza tra gli uomini, pubblicate a Napoli in tre volumi tra il 1779 e il 1780. In esse l'Autore confuta le tesi roussoiane  sull'uguaglianza  tra  gli uomini,  correggendo quei «paradossi», scrive Delfico, che «fra molte vere e nobili osservazioni» (28) sono racchiusi nel Discours sur l'origine de l'inégalité. Contrariamente al Ginevrino, che ritiene l'ineguaglianza essere «presque nulle dans l'Etat de Nature» (29), Grimaldi ne afferma il principio dell'origine naturale, smentendo quanti sostenevano che gli uomini nascono eguali. Una particolare attenzione rivolge infine all'ultimo incompiuto lavoro di Grimaldi, gli Annali del Regno di Napoli. Sin da ora emerge chiara in lui l'idea di una storia non più concepita come piacevole passatempo per «gli oziosi e gli annojati», ma in funzione «d'un utile presente» (30) per l'umanità e, in particolare, per la nazione per la quale si scrive. Ciò che interessa non è più il nudo racconto di fatti isolati o di particolarità legate a circostanze del momento, bensì la conoscenza delle cause che stanno dietro i fenomeni e la vita morale delle nazioni.  Alla fine di giugno del 1785 Delfico si trasferisce di nuovo a Napoli, dove si trattiene, salvo una breve parentesi nella città natale nell'estate dell'86, fino alla metà del 1788. Risale a questo periodo l'incontro con il danese, di origine tedesca, Friedrich Münter, venuto in Italia nell'autunno del 1784 con l'incarico di propagandare l'Ordine degli Illuminati di Baviera (31). A Münter, con il quale visiterà assieme a Filangieri e allo storico tedesco Heeren le rovine di Pestum, egli si legherà da profonda amicizia, di cui è testimonianza una corrispondenza più che trentennale (32), accomunati dalla passione per l'archeologia e, soprattutto, per la numismatica.  A Napoli Delfico pubblica nel 1785 la Memoria sul Tribunal della Grascia (33), considerata, assieme a pochi altri testi, «il vangelo del liberismo napoletano» (34) dell'epoca. Lo scritto sferra un attacco contro il «terribile mostro» del Tribunale della Grascia, istituito lungo il confine tra l'Abruzzo e lo Stato pontificio e simile per alcuni versi a quello «più odioso dell'inquisizione», che impedisce ai due Stati pacifici di scambiarsi liberamente i prodotti, fomentando dovunque corruzione e violenza e lasciando quelle popolazioni in «un languore di dissoluzione» (35). Vi è nella Memoria l'affermazione del principio della libertà di commercio e dell'abolizione del sistema protezionistico, a proposito del quale vengono fatti i nomi di Verri, Genovesi, Filangieri e del celebre Smith, di cui il Teramano è uno dei primi in Italia a citare La ricchezza delle nazioni.  Nel 1788 vede la luce il Discorso sul Tavoliere di Puglia (36) in cui Delfico rivendica, dopo un'aspra requisitoria contro le concentrazioni latifondiste e il mantenimento delle rendite, la divisione di quelle terre in favore dei contadini e un diverso ruolo dell'agricoltura, non più limitata e subordinata alla pastorizia. In un Paese così «infelicemente» amministrato, dove regna una troppo marcata diseguaglianza e una «ripugnante ed infelice» contrapposizione tra ricchi e poveri, l'aumento dei proprietari è un obiettivo che risponde non soltanto a criteri di giustizia sociale, ma anche ad una necessità dello Stato. Tutti «i più savj governi - scrive - distinsero sempre la classe dei proprietarj, come quella che dava il vero carattere di cittadino» (37). La proprietà infatti è il primo e più saldo principio della società, poiché crea nei proprietari «sempre affezione» nei confronti dello Stato, a cui essi chiedono di riconoscere e tutelare i loro diritti, interessati come sono, più di ogni altra classe, al buon funzionamento delle sue istituzioni e alla corretta applicazione delle sue leggi. Della parte settentrionale della Puglia l'illuminista abruzzese si era occupato una prima volta nel 1784 nella pur breve ma incisiva ricognizione geografico-economica del tratto costiero «desolato» che va dal Fortore al Tronto (38), in cui denunciava le gravi «avarie» commesse dai governanti con la creazione di continue dogane che, ostacolando il libero scambio dei prodotti tra quelle popolazioni, finiva per immiserirle sempre più.  Si coglie in questi scritti non soltanto la totale adesione di Delfico al liberismo, ma anche la sua piena consapevolezza del ruolo che lo Stato è chiamato a svolgere in favore di un sistema economico imperniato sulla libertà di scambio. Un rapporto, quello tra Stato ed economia di mercato, che egli affronta anche nella Memoria sulla libertà di commercio della fine degli anni Ottanta (39), in cui esalta il principio del laissez-faire contro le regolamentazioni e i vincoli del sistema mercantile. Il rifiuto di «ogni coazione economica» si fonda sulla convinzione che la libertà (di produzione, di consumo, di commercio, di concorrenza) favorisca un progresso e uno sviluppo economico tali da recare benefici sia ai privati cittadini che allo Stato stesso. È solo attraverso la rimozione di tutti i controlli governativi che ostacolano l'allargamento del mercato e impediscono che le attività economiche si svolgano nei modi loro naturali che la scienza economica riesce a far fronte al suo duplice compito di mantenimento dello Stato e di accrescimento della ricchezza e del benessere individuali.  In quest'ultimo soggiorno napoletano prima dello scoppio della rivoluzione francese, Delfico si attiva non poco, presso le Segreterie della capitale, per sollecitare iniziative e soluzioni di problemi riguardanti le provincie del Regno. Ma le sue istanze non sempre trovano il riscontro desiderato (40). Ciò non fa che accrescere in lui un sentimento di sfiducia nell'azione riformatrice del governo. Un'insofferenza, quella nei confronti del potere politico partenopeo, che lo porterà nell'estate del 1788 ad allontanarsi da un ambiente dove gli era diventato penoso vivere, non prima però di aver presentato a Ferdinando IV il suo ultimo lavoro, Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri (41). Nello scritto condanna la giurisdizione feudale in nome dei principi roussoiani di indivisibilità e inalienabilità della sovranità fino a ritenere qualsiasi forma di alienazione o di usurpazione della sovranità stessa «non solo un atto nullo, ma anche ingiusto» (42).  La notizia della rivoluzione francese raggiunge Delfico lontano dal Regno napoletano, mentre si trova nel Nord Italia, dove si era recato nel novembre del 1788 per accompagnare a Pavia il nipote Orazio che studiava Scienze naturali sotto la guida di Volta e Spallanzani. Durante il suo soggiorno ha modo di frequentare gli ambienti riformatori milanesi ed entrare in contatto con Beccaria, il filosofo e pedagogista Francesco Soave, i fratelli Verri, Parini, il giurista senese Giovanni Bonaventura Spannocchi, lo studioso di scienze agrarie ed economiche Carlo Amoretti ed altri ancora, con alcuni dei quali manterrà un rapporto di amicizia. Sugli avvenimenti francesi non gli è difficile tenersi informato. È lecito credere anzi che, oltre a seguire, egli guardi con simpatia a quanto sta accadendo oltralpe. La rapidità e la determinazione con cui si conduce l'attacco contro l'Ancien Régime lo spingono a ritenere che la rivoluzione di Francia favorisca il progetto riformatore e rappresenti «un esempio favorevole per i Principi savj» (43) affinché non indugino più sulla strada delle riforme.  Rianimato da queste speranze, nel dicembre del 1789, dopo aver fatto da poco ritorno nella sua città natale (44), Delfico si trasferisce a Napoli, dove dà alle stampe, nell'estate del 1790, le Riflessioni su la vendita dei feudi (45) in cui, ispirandosi al dibattito costituzionale d'oltralpe, conduce un attacco più diretto ed esplicito contro il sistema feudale e la giurisdizione baronale in particolare. Nel 1791 pubblica le Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori (46), che rappresentano «la più forte manifestazione del pensiero illuministico italiano nei confronti del diritto romano» (47), cui viene negato ogni valore. Ad emergere è l'idea di un sistema legislativo nuovo, «uguale ed uniforme per tutti gl'individui» che, a differenza di quello vigente, troppo legato alla tradizione romana, risulti più inerente «all'indole delle nazioni e dei governi presenti» (48). Sull'esempio di quanto accade in Francia, lo scrittore abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile e regolare, una legittima costituzione che ne sia il presupposto e ne costituisca il necessario fondamento. Il sistema politico che egli predilige si fonda sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul conferimento dell'autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica senza restrizioni di rango o di censo e sul decentramento dell'amministrazione della giustizia attraverso lo stabilimento di magistrature locali e provinciali.  Da una soluzione di tipo monarchico-costituzionale Delfico non si allontanerà mai. Alla politica illuminata del sovrano restano per lui legate le condizioni di cambiamento della società meridionale. Nonostante tuttavia la sua predilezione per la monarchia, a partire dalla seconda metà del 1791 si ravvisa nel Teramano un conflitto tra l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che lo spinge a credere ancora nell'intesa tra dinastia borbonica e intellettuali, e il crescente scetticismo nei confronti della volontà governativa di attuare un programma di rinnovamento. Deluso, decide di abbandonare la capitale dove si sorprende sempre più spesso «scontentissimo».  Il rientro a Teramo, nel dicembre del 1791, segna la fine di un periodo di grande impegno politico e letterario, al termine del quale egli vede svanire la possibilità che la rivoluzione francese imprima un nuovo impulso alla politica del governo napoletano. È, questo, un periodo di grande sconcerto e delusione per quanti, come Delfico, avvertono i limiti della politica ferdinandea. Alla fine del 1793 la consapevolezza che la grande stagione riformistica sia definitivamente conclusa è radicata nel suo animo. Essa segna l'inizio di una lunga interruzione della sua attività di scrittore, a conferma di come egli ritenesse allora non solo vano ma addirittura pericoloso farsi sostenitore di una politica di rinnovamento del Regno borbonico. La sfiducia diverrà pressoché totale durante il soggiorno nella capitale partenopea tra la primavera e l'autunno 1794. A Napoli s'imbatte in una città in preda alla più forte «agitazione». È l'epoca della scoperta della congiura giacobina che porta all'arresto e alla condanna di numerosi patrioti ed esponenti giacobini. Coinvolto è pure l'amico e concittadino Troiano Odazi (49) che egli considera innocente e spera invano venga presto scagionato.  L'accentuarsi del carattere reazionario della politica napoletana non determina tuttavia in Delfico, come in altri illuministi, il passaggio «da regalista in giacobino» (50) o repubblicano, anche perché egli, a differenza di molti di loro, non vede più nella Francia del '93-'94 concretarsi i suoi ideali riformistici. L'avversione per gli eccessi rivoluzionari lo porta ad anticipare un modulo storiografico che avrà fortuna negli anni successivi: la contrapposizione tra una prima fase della rivoluzione, l'89, con le sue idee di libertà e di uguaglianza, ed una fase successiva, il '93, caratterizzata da «tanti orrori».  Alla fine di ottobre del 1795 Delfico lascia di nuovo l'Abruzzo per compiere un secondo viaggio fuori del Regno, dapprima a Roma, restandovi per circa un mese, quindi in Toscana dove rimane fino alla primavera successiva ed ha modo di rivedere gli amici Giovanni Fantoni e Giuseppe Micali e legarsi al nobile fiorentino Neri Corsini e all'uomo di Stato francese André-François Miot (51). A spingerlo verso il Granducato è una certa simpatia politica per quello Stato, suscitata dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che ancora vi regnava. Ritornato a Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo raggiungono le notizie dell'avanzata francese in Piemonte e in Lombardia. Nessun dubbio nutre sulle mire espansionistiche di Napoleone, di cui disapprova non solo le condizioni gravose imposte alle città occupate, ma anche le innumerevoli requisizioni, ruberie e saccheggi dei suoi soldati.  Nella seconda metà del 1796 si riaccende nello scrittore teramano l'interesse per la Grande Nation, in quanto vede delinearsi nella vita politica del Direttorio la possibilità per la Francia di riprendere e consolidare quel processo di trasformazione avviato negli anni precedenti la parentesi giacobina; interesse che si manifesta anche attraverso il desiderio, mai realizzato, di compiere un viaggio transalpino (52). Ciò nonostante, appare poco probabile una sua partecipazione al concorso indetto dall'Amministrazione generale della Lombardia il 6 vendemmiaio anno V della Repubblica francese (27 settembre 1796) sul quesito Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia, di cui risulterà vincitore il piacentino Melchiorre Gioia (53).  Immutato è invece il giudizio sulla corte napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97 egli accenni ad una ripresa di dialogo con il governo borbonico (54), non scorge alcun cambiamento nella sua politica. Sempre più, inoltre, dovrà guardarsi dalla gelosia dei suoi nemici, soprattutto nel 1798, quando verrà nominato portolano della città di Teramo, con responsabilità amministrative di rilievo. La situazione si aggraverà nell'estate di quell'anno, allorché alle trepidazioni per una probabile invasione straniera si uniranno quelle per il susseguirsi di infondate accuse di giacobinismo costruite ai suoi danni da parte di anonimi concittadini. Già nel 1793 era stato costretto a dare formale prova del suo lealismo monarchico in seguito a delazioni da parte di alcuni «malevoli di Napoli fra quali il Vescovo in unione colla magistratura» (55). Sempre più si alimenta il sospetto di una sua cospirazione antimonarchica, tanto che il 27 settembre 1798 è tratto in arresto, nel proprio palazzo, assieme a tutta la famiglia (56). Liberato l'11 dicembre successivo dall'arrivo a Teramo delle truppe francesi (57), è dapprima posto a capo della Municipalità della città e successivamente nominato presidente dell'Amministrazione Centrale dell'Alto Abruzzo. Il 12 gennaio 1799 è chiamato a presiedere a Pescara il Supremo Consiglio (58), l'organo politico più importante esistente in Abruzzo, che avrebbe dovuto fungere da raccordo tra il comando francese e i due nuovi organismi repubblicani - i Dipartimenti dell'Alto e del Basso Abruzzo - in cui il generale Duhesme, con il proclama del 28 dicembre 1798, aveva diviso il territorio regionale.  Non vi è dubbio che la collaborazione di Delfico con i Francesi, per quanto piena e convinta, vada vista come il tentativo di reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale egli da sempre confida. Tale partecipazione, tuttavia, non segna il passaggio dello scrittore teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella repubblicano-giacobina (59), dal momento che l'esperienza non provoca quella vera e propria «lacerazione» e «rottura» nella sua biografia intellettuale che è stata riscontrata invece nei riformisti meridionali passati alla rivoluzione (60). Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante la parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie del passato. Persino il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia pei Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni (61) del 24 piovoso anno VII (12 febbraio 1799), l'atto legislativo più importante del Consiglio Supremo pescarese col quale viene introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui maggiore è l'istanza egualitaria, non sembra discostarsi da certi suoi principi e aspirazioni precedentemente espressi. Il Piano, che si inserisce fra i provvedimenti di riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica napoletana, sanciva, in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il decentramento dell'autorità giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni capoluogo di cantone e un tribunale per ogni capoluogo di dipartimento; l'amministrazione gratuita della giustizia e la corresponsione di uno stipendio ai giudici e a tutti coloro che collaboravano all'attività giudiziaria; l'assistenza gratuita ai poveri; la «prontezza» e «l'imparzialità» dei giudici nell'applicazione delle norme; l'abolizione della carcerazione per debiti, a meno che non venisse provata la «frode» del debitore; il controllo dell'attività giudiziaria nonché la possibilità di ricorrere in appello.  Volentieri egli si sarebbe portato nella capitale partenopea dove, il 23 gennaio 1799, era stato nominato membro del Governo Provvisorio dal comandante in capo Championnet. Ma a Napoli Delfico non potrà recarsi mai a causa delle insorgenze antifrancesi. Di qui il rammarico per non poter partecipare all'attività legislativa del Governo Provvisorio a cui muove l'accusa di aver non solo «abbandonato» ma addirittura «obliato» le province abruzzesi, lasciando che ovunque si verificassero «le più ferali tragedie» ad opera di briganti e di scorribande antifrancesi (62). Non è da escludere a questo punto che proprio durante il periodo pescarese Delfico abbia elaborato, secondo una prassi piuttosto diffusa in Italia nel triennio rivoluzionario, una Tavola dei Dritti e dei Doveri dell'uomo e del Cittadino (63). Il testo, che si ispira alle Dichiarazioni francesi dei diritti del 1789, del 1793 e del 1795, proclama l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i diritti inalienabili di libertà, sicurezza, proprietà, resistenza all'oppressione e i doveri inviolabili di subordinazione, benevolenza, giustizia e obbedienza alle leggi. Fa risiedere la sovranità nella Nazione, cui spetta, attraverso i suoi rappresentanti, emanare le leggi, stabilire le imposizioni, cambiare la costituzione e il governo. Ammette la possibilità di armarsi contro ogni forma di manifesta violenza e di tirannia e non esclude il ricorso all'insurrezione, ma solo in casi estremi, mentre condanna le rivolte e i perturbatori dell'ordine pubblico, per odio forse  delle sommosse che si stavano verificando agli inizi del '99 e di quanti sobillavano le masse contro le nuove istituzioni.  Il 28 aprile 1799, di fronte al crescente stato di abbandono delle province abruzzesi e alla partenza dei Francesi da Teramo, Delfico preferisce, prima ancora della caduta della Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il falso nome di Carlo Cauti riparare via mare nelle Marche, per poi raggiungere nel settembre successivo San Marino (64). Nella piccola Repubblica rimarrà fino al 1806, quando Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo fianco con la carica di consigliere di Stato.  Durante il soggiorno sammarinese Delfico si interrogherà a lungo sulla «tempestosa crisi» di fine secolo di cui, come Cuoco (65), critica l'«immatura ed intempestiva» manifestazione, come pure il metodo rivoluzionario, ritenuto «distruttivo» (66). La confusione dei princìpi, l'eccesso di passioni assieme a mal fondati calcoli avevano fatto nascere delle idee politiche così «mostruose» che per i loro intrinseci difetti non avevano potuto a lungo sopravvivere. Fu la Francia, afferma, a far sorgere dei canoni politici «falsi e irregolari». L'Italia, «abbagliata ed attonita - scrive - non ebbe tempo a riflettere, che le confuse proclamazioni di libertà, benché le provenissero da quella nazione che aveva prodotti i più grandi filosofi politici del secolo, Montesquieu, Rousseau, Sieyès, pure non aveva mai essa veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva avuta la pratica né la finezza del senso e il gusto per conoscerla, così non poteva avere le forze intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale palingenesia» (67).  Dal ripensamento della vicenda rivoluzionaria Delfico trae l'indicazione della necessità di un recupero della tradizione storica nazionale: «Se si fosse consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si sarebbe trovato, che lo spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il soggiorno o la sede della libertà nei secoli più remoti» (68). A questo senso di moderazione l'Italia deve continuamente richiamarsi e gli eventi recenti ed i fatti antichi devono persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua tranquillità e alla sua felicità. La critica delficina dell'esperienza rivoluzionaria si risolve, in definitiva, nella ricerca di una linea politica saggia e realistica che non miri alle magiche trasformazioni ma proceda per «proporzionate graduazioni» alla realizzazione di un programma costituzionale a cui è lecito aspirare. Tutta l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi civili più adatti e convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle forme politiche stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una definizione vichiana, nei governi umani, di cui proprio il piccolo Stato di San Marino, nonostante il suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed involuzioni, rappresentava un modello politico reale che, in modo non utopistico, «mostrava non essere impossibile alla specie umana una tal forma di società» (69).  Dalla piccola Repubblica Delfico uscirà diverse volte per riordinare la biblioteca pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà alcuni mesi nella casa del marchese Giovanni Maria Belmonte, la cui amicizia risaliva al 1784, o per andare a Bologna dal suo amico Alberto Fortis, in quel tempo prefetto della biblioteca nazionale della città. Da gennaio ad aprile del 1803 soggiornerà ad Ascoli Piceno dal fratello Giamberardino. Nel 1804 si porterà a Milano per seguire la stampa del suo libro sulla storia di San Marino. Nel capoluogo lombardo, dove sarà l'ispiratore della ristampa dei Principj della legislazione universale di Georg Ludwig Schmidt d'Avenstein, rivedrà Vincenzo Cuoco e stringerà nuove amicizie, tra cui quelle con Giuseppe Bossi, Pietro Custodi e Francesco Saverio Salfi. Ma, soprattutto, si legherà a Gian Giacomo Trivulzio, a Leopoldo Cicognara, grazie al quale entrerà in contatto con il celebre scultore Antonio Canova, e a sua moglie Massimiliana Cislago, donna assai colta e amica di Melchiorre Cesarotti, con il quale resterà, come con gli altri, in corrispondenza. Infine, dall'autunno all'inverno di quello stesso anno si fermerà di nuovo ad Ascoli, da suo fratello.  È, quello sammarinese, un periodo in cui Delfico, fuori dalla vita politica attiva, riprende gli studi e pubblica le Memorie storiche della Repubblica di S. Marino e l'opera sua più famosa, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima che, usciti a Forlì nel 1808, vedono in poco tempo altre due edizioni (70). Lo studio della storia in stretta relazione con la realtà presente, già ricorrente negli scritti giovanili, trova nelle Memorie storiche diretta applicazione. Nonostante, infatti, l'Autore dichiari, nelle battute iniziali della prefazione, di non essere nell'opinione di coloro i quali riguardano la storia come «maestra della vita e dispensatrice della civile sapienza» (71), in realtà poi egli, attraverso una ricerca diligente e vasta, scrive una vera storia. In essa indaga le ragioni del «mito» di San Marino, di come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria libertas e serbato l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere a modello politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini, Lodovico Zuccolo e Matteo Valli. Sotto tale aspetto dunque scrivere la storia della piccola Repubblica era tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe mostrato le vicende di un popolo che poteva costituire «un esempio degno d'imitazione» (72). Questa «rivalutazione» dell'esperienza storica (73) appare quanto meno strana in un pensatore considerato da alcuni l'espressione più radicale dell'antistoricismo italiano (74).  Nei Pensieri Delfico affronta il problema della conoscenza storica in tutta la sua interezza ed estensione, per stabilire «se la scienza di ciò che fu, debba preferirsi a quella dell'esistenza» (75). Con quest'opera esprime l'esigenza, già manifestata nell'Elogio al Grimaldi, di una storia utile, che indaghi e interroghi il passato in funzione del presente. Ma perché questo avvenga è necessario ideare un nuovo modo di fare storia. Alla tradizione storiografica, infatti, egli rimprovera l'uso di sistemi metodologici inadeguati e parziali che sarebbe la causa della mancata conoscenza del passato. Come e più di Fontenelle, Voltaire, d'Alembert, Rousseau, Condorcet, Volney, delle cui Leçons d'histoire (76) risente la stesura dei Pensieri (77), nega che le ricostruzioni dei fatti fino ad allora condotte siano state in grado di riprodurre fedelmente la verità storica. E se priva di certezza, la storia non presenta alcuna vera utilità per il genere umano. Egli si pone principalmente il problema della manière d'écrire l'histoire, proprio della storiografia illuministica. A tal fine, denuncia deficienze e manchevolezze che ancora permangono negli studi storici e lamenta che la proliferazione incontrollata degli stessi abbia dato luogo ad una loro stagnazione piuttosto che a un ripensamento critico dei principi e dei criteri della pratica storiografica. Occorre distogliere l'analisi storica dal proporre il «secco e nudo racconto» di pochi avvenimenti, per indurla a valutare le circostanze nel loro complesso, ad indicare i rapporti che intercorrono tra gli effetti e le loro cause. Essa dovrebbe consistere in un'esposizione analitica di fatti gli uni dipendenti dagli altri, per scorgere come dai primi e più semplici siamo gradatamente giunti alle attuali positive cognizioni, di modo che «mostrandoci i due estremi c'indicherebbe più facilmente la strada da percorrere, per andare in cerca delle altre verità desiderose di venire alla luce» (78). Così concepita, l'indagine storica permetterebbe di recuperare positivamente l'eredità del passato, che cesserebbe di appartenere alla memoria per divenire una componente integrante del processo storico contemporaneo. Una convinzione, questa, che trova conferma in un successivo scritto delficino del 1824, Discorso preliminare su le origini italiche (79), in cui viene ribadita l'opportunità di interrogare il passato e «registrare i fatti del tempo» in funzione dei bisogni presenti. Quest'azione di cerniera tra il tempo andato e quello avvenire rappresenta l'aspetto più interessante della storia. Essa la pone su un piano di parità con le altre scienze a cui l'accomuna il merito di protendere al miglioramento fisico e morale dell'uomo. Ma perché la ricerca storica possa adempiere a queste funzioni conoscitive si richiede che essa sia «qual non esiste», cioè una disciplina nuova, ancora intentata, che Delfico chiama anche «storia delle scienze». Le cognizioni storiche perdono allora il carattere di sterile nozionismo, che hanno sempre avuto, e acquistano un valore intrinseco: «Sobriamente conoscendo quel che fu», afferma a conclusione della sua opera, «potremo facilitarci la strada a saper ampiamente quel che è» (80).  Un atteggiamento polemico egli assume anche nei confronti delle mitologie la cui origine sarebbe dovuta a superstizione, ad ignoranza o ad incapacità di fornire una spiegazione razionale a fenomeni naturali. È il caso degli incantatori di serpenti e del loro presunto potere antiofidico, contro cui egli insorge in una Lettera di poche pagine, senza titolo, inserita a guisa di nota nel VI tomo degli Annali del Regno di Napoli di Francescantonio Grimaldi (81) e rimasta a lungo sconosciuta agli studiosi (82). La dissertazione, che si colloca nel filone della letteratura illuministica di confutazione delle superstizioni, è una dura requisitoria contro gli «impostori» serpari, i quali spacciano per miracoli e portenti ciò che in realtà non avrebbe nulla di prestigioso ma sarebbe solo il risultato o di una conoscenza particolare delle caratteristiche dei serpenti o di effetti naturali.  Una diversa considerazione, invece, egli ha dei cosiddetti «favoleggiatori». Come il «virtuoso» Socrate e il «divino» Platone, Delfico tiene in grande considerazione il racconto allegorico. Quando ancora lo spirito umano, afferma nel Discorso sulle favole esopiane del 1792 (83), non aveva maturato le sensazioni e le esperienze necessarie per poter generalizzare le idee ed esprimerle con precisione e proprietà di linguaggio, fu naturale che i primi pensieri morali, il sentimento di giustizia, le nozioni di bene e di male e molti altri concetti fossero acquisiti attraverso gli apologhi, che divennero così «la morale dell'infanzia dell'umanità». La loro utilità non verrebbe meno neppure nei tempi moderni dal momento che gli apologhi, se convenientemente scelti, possono giovare non soltanto ai giovani ma anche a quella parte del popolo che, ancora vittima dell'«errore» e del «pregiudizio», si trova in uno stato «più infelice» (84) di quello dei secoli remoti.  Il ritorno a Napoli dei Francesi, nel febbraio del 1806, viene salutato come l'inizio di una nuova stagione politica. Esso rappresenta per lo scrittore teramano quell'inversione di rotta che «era ormai tempo che si facesse» (85) e che lo induce a riportarsi, nel giugno di quell'anno, dopo sette anni di esilio sammarinese, nella capitale partenopea dove farà parte, per quasi un decennio, della nuova amministrazione francese. Nell'età napoleonica egli intravede la possibilità di un recupero di quello «spirito di ragione e di moderazione», a cui riteneva necessario ricondurre la politica dopo la crisi di fine secolo e che costituiva l'unica via possibile di sviluppo, sia contro gli eccessi dei rivoluzionari, sia contro le intemperanze dei reazionari.  Nominato da Giuseppe Bonaparte consigliere di Stato (3 giugno 1806), Delfico viene assegnato alla sezione delle Finanze, per poi passare nel 1809 alla presidenza della sezione dell'Interno, divenendo uno dei quattro presidenti del Consiglio di Stato. Regge più volte ad interim il ministero dell'Interno, facendo parte delle Commissioni per le lauree, per le pensioni, per le riforme del Codice civile, per la procedura delle cause feudali in Cassazione, per la riforma della pubblica istruzione, per la ripartizione dei demani, per la vendita dei beni dello Stato. Presidente della Commissione degli Archivi generali del Regno, nominato commendatore dell'ordine delle Due Sicilie, nel 1815 viene insignito da Gioacchino Murat del titolo di Barone (86).  I numerosi incarichi di responsabilità non lo distolgono dalla tensione intellettuale, tutta incentrata sullo studio della fisiologia e di altre fisiche cognizioni. Evidente appare il suo debito nei confronti di Pierre-Jean-Georges Cabanis (1757-1808), sostenitore della sensibilità fisica quale fondamento dell'attività umana. Delle teorie dei Rapports du physique et du moral de l'homme (1802), l'opera più importante del filosofo francese, risentono soprattutto le Ricerche su la sensibilità imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle Nazioni del 1813 (87) e la Memoria su la perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell'educazione con alcune vedute sulla medesima del 1814, cui segue, l'anno successivo, la Seconda memoria (88). Del 1818 sono, infine, le Nuove ricerche sul Bello (89), pubblicate a Napoli da Agnello Nobile.  Con la restaurazione dei Borboni, nel 1815, Delfico dirada il suo impegno nella vita politica. Ciò nonostante, all'indomani dello scoppio insurrezionale del 1820, Ferdinando I gli affida l'incarico di tradurre la Costituzione spagnola del 1812 e subito dopo, il 9 luglio 1820, lo nomina (assieme ad altri 14) membro della Giunta provvisoria di governo, chiamata a sostituire il Parlamento fino al suo insediamento. Successivamente sarà uno degli 89 deputati di quel Parlamento che, costituitosi il 1° ottobre 1820, vivrà solo fino al marzo 1821, quando Ferdinando I chiederà l'intervento austriaco per porre fine all'esperienza costituzionale e dar vita ad un nuovo governo reazionario. Deluso, decide di allontanarsi definitivamente dagli ambienti governativi.  Dopo il crollo del dominio francese in Italia, egli teme non soltanto la rivalsa delle forze reazionarie ma anche (soprattutto) che si interrompa quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale, avviato dai Napoleonidi (90), che lentamente stava facendo risorgere il Paese. Nell'azione di ripristino dell'antico, che si svolge all'insegna della ricomposizione della vecchia alleanza tra trono e altare, il Teramano vede profilarsi la minaccia di rendere il mondo «stazionario» se non addirittura di farlo a grandi passi o salti «retrogradare». Un'ipotesi resa, a suo avviso, ancora più probabile da letture ideologicamente distorte di grandi autori, non ultimo Niccolò Machiavelli, che alimentano l'esistenza di pregiudizi dei quali ci si serve per sostenere fini politici particolari. Questo clima è per Delfico l'occasione (o forse soltanto il pretesto) per una rilettura del «gran politico pensatore», di cui in gioventù aveva subìto qualche influenza. Scrive così, agli inizi degli anni venti dell'Ottocento, le Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino (91), nate dall'esigenza di confrontarsi con Machiavelli intorno ad alcuni temi, come la religione, la libertà, il problema costituzionale, l'uguaglianza, per smascherare alcuni pregiudizi che si sarebbero formati sotto la sua «potente autorità» (92), senza tuttavia tralasciare alcune sue verità che potrebbero risultare ancora utili per le civili società. Da questo confronto fuoriescono talora divergenze più o meno accentuate o giudizi critici, ma anche affinità e valutazioni positive.  Dell'«illustre autore» Delfico sottolinea il realismo politico e l'aderenza alla realtà effettuale. Egli guarda il Principe non come un'astratta speculazione politica, bensì come uno scritto d'occasione contenente una particolare proposta operativa, in relazione ad un obiettivo politico contingente, qual è la rigenerazione dell'Italia. Senza farne a tutti i costi un precorritore del Risorgimento o un assertore dell'unità nazionale, secondo un'interpretazione del Fiorentino allora assai diffusa, egli ammira in lui la «viva passione», la disperata ricerca di soluzioni politiche capaci di porre fine alla grave crisi della società italiana del Cinquecento. Ma la condizione di immobilismo e di decadenza politica e civile dell'Italia, per la quale Machiavelli suggerisce la soluzione del Valentino quale liberatore degli Stati italiani, non porta lo scrittore teramano a condividere interamente tutte le tesi del Segretario fiorentino: «Se si possono giustificare le sue intenzioni, e la persona» afferma «questo non vale per le sue dottrine» (93). Infatti, se da un lato egli comprende le preoccupazioni di Machiavelli e fa proprie le sue speranze di una prossima rigenerazione, attuabile quest'ultima solo attraverso mezzi eccezionali, dall'altro manifesta più di una perplessità di fronte al suo realismo politico, non riuscendo di fatto ad accettare la dissociazione machiavelliana tra etica e politica e il principio che «per regnar tutto lice» (94).  Divergenze emergono anche dal tentativo che Delfico in seguito compie di ricondurre il pensiero machiavelliano ai tempi presenti per poi valutarlo sulla base delle proprie convinzioni ed esperienze storiche, politiche e culturali maturate tra il XVIII e il XIX secolo. Molte sono tuttavia le idee del Fiorentino che considera ancora valide e attuali, come l'identificazione dell'origine dei conflitti sociali con l'ineguaglianza giuridica ed economica, l'assoluta inconciliabilità tra gli «umori» del popolo e quelli dei grandi (95) o la condanna del ruolo antisociale dei «gentiluomini», di quegli uomini cioè che, «oziosi», vivono dei proventi dei loro ingenti possedimenti (96). Ma, soprattutto, riconosce a Machiavelli il merito di aver legato la «questione militare» alla «questione politica», di aver ritenuto la soluzione dell'una imprescindibile da quella dell'altra. Tale correlazione presuppone ed implica un nuovo rapporto tra governanti e governati basato sul reciproco impegno, da parte del popolo, di assicurare la propria «affezione» allo Stato, così da garantirgli una maggiore stabilità; da parte dei governi, di soddisfare le aspirazioni dei sudditi, migliorandone le condizioni. Lo sviluppo di questo vincolo, che con assoluta originalità Delfico fa derivare dal nesso tra dimensione militare e dialettica politica, è concepito all'interno di una monarchia costituzionale, considerata la forma più «conveniente all'Umanità ed ai veri bisogni sociali», la giusta soluzione tra rivoluzione e reazione. L'emanazione di una carta costituzionale, di cui aveva manifestato l'esigenza sin dai primi anni della rivoluzione francese, risponde soprattutto all'esigenza di assicurare l'uguaglianza politica e la tutela dei diritti individuali dei cittadini, garantendo loro la sicurezza reale e personale.  Nel maggio del 1822 Delfico torna a Teramo, ma nell'autunno successivo si reca di nuovo a Napoli dove rimane per alcuni mesi, fino alla primavera del 1823, quando lascia la Capitale per non farvi più ritorno. Nel capoluogo abruzzese, dove trascorre il resto della sua vita, senza mai più allontanarsi, l'anziano scrittore continua a studiare e a scrivere. Fra i lavori di questi anni (alcuni dei quali ancora inediti e, di questi, molti non terminati o soltanto abbozzati e frammentari) ricordiamo la memoria Della importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale del 1823 (97), in cui ribadisce la sua concezione materialistica della conoscenza e concepisce la ragione come strumento critico e operativo, che non deve tuttavia ostinarsi ad indagare l'essenza delle cose e tutto ciò che non può realmente conoscere ma rivolgersi alle cose utili e necessarie al benessere e alla felicità del genere umano, e gli scritti sulla numismatica pubblicati a Teramo dai tipi Ubaldo Angeletti nel 1824 con il titolo Della antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche (98).  Non verrà meno neppure il suo impegno riformatore che lo porterà ad interessarsi di Pescara in due scritti, dal titolo Fiera franca in Pescara del 1823 e Breve cenno sul progetto di un porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara del 27 aprile 1825 (99), con i quali si prefigge di rivitalizzare le attività produttive in questa zona ancora poco sviluppata del Regno. Decisivo gli appare a tal proposito un rilancio del commercio, considerato «la sola sorgente inesausta della ricchezza e floridezza delle Provincie» (100), non senza però aver prima creato le condizioni e le strutture necessarie per facilitarlo. Una di queste potrebbe essere la realizzazione di un grande emporio o fiera franca, che non solo ridurrebbe sensibilmente le frodi e il contrabbando, ma assicurerebbe un notevole afflusso di merci, di provenienza anche straniera, senza l'imposizione di alcun dazio di importazione, che eviterebbe ai negozianti, ai mercanti e a molti proprietari abruzzesi di rivolgersi, non senza grave danno, ai mercati dello Stato pontificio di Fermo, di Ascoli o a quello più grande e lontano di Senigallia. Tutto ciò non farebbe che ripercuotersi favorevolmente sul commercio che potrebbe così finalmente «divenir attivo» (101) e moltiplicare i capitali e far nascere nuove attività economiche o migliorare e accrescere quelle esistenti.  La creazione di uno moderno scalo marittimo alla foce del fiume Pescara costituisce l'oggetto della riflessione che Delfico conduce nel Breve cenno. L'idea che il «mare anziché separare riavvicini le Nazioni fra loro» (102), permettendo infinite comunicazioni tra i popoli, costituisce la determinazione dalla quale lo scrittore teramano muove per sostenere l'utilità che la creazione di un porto sicuro per i naviganti rivestirebbe per l'incremento del commercio e per lo sviluppo economico in generale. La scelta di Pescara quale centro di scalo portuale trova giustificazione nel fatto di avere la cittadina adriatica il fiume con la foce più ampia e di essere «punto centrale nel litorale degli Abruzzi», crocevia delle tre principali strade, l'una diretta verso Napoli, le altre, entrambe costiere, in direzione la prima verso lo stato pontificio, la seconda verso le province meridionali. Non solo, ma sarebbe anche l'unico porto ad avvalersi di una «piazza forte» che renderebbe sicuro il trasporto e la conservazione delle merci. Così il porto di Pescara potrebbe riacquistare quell'importanza che aveva avuto un tempo quando era conosciuto con il nome di Ostia Aterni e gli imperatori romani vi avevano fatto confluire le tre strade, la Claudia, la Flaminia e la Frentana per agevolarne gli scambi commerciali (103).  A metà degli anni Venti un libro anonimo, dal titolo La vérité sur les cent jours, principalement par rapport à la renaissance projetée de l'Empire Romain, par un Citoyen de la Corse (H. Tarlier, Bruxelles 1825), di cui uscirà nel 1829 una traduzione italiana incompleta dal titolo Delle cause italiane nell'evasione dell'imperatore Napoleone dall'Elba, con la falsa indicazione del luogo e dell'editore del testo originale, riferisce di una congiura che sarebbe stata ordita nel 1814 da alcuni italiani per affidare la corona d'Italia a Napoleone Bonaparte. Dei presunti cospiratori, rimasti anonimi nel libro, l'Autore fa il nome soltanto del conte Luigi Corvetto (1756-1821), «justement regardé comme un des meilleurs jurisconsultes de Gênes» e di Melchiorre Delfico, «un des hommes les plus vertueux de l'Italie», ritenendoli, erroneamente, entrambi deceduti. Al Teramano viene anche attribuita la stesura di un Rapport adressé à S. M. l'empereur Napoléon à l'île d'Elbe, par le principal émissaire en Italie, datato Napoli 14 ottobre 1814 (104), sulle condizioni politiche e morali dei vari Stati italiani, che sarebbe dovuto servire all'imperatore francese per meglio valutare le possibilità di successo dell'impresa. Ma nessuna conferma in proposito è mai venuta dalle carte delficine, né da successive ricerche, per cui ancora oggi l'ipotesi di una partecipazione del Nostro al progetto resta legata a quest'unica notizia.   Nel 1829 Delfico pubblica la lettera Della preferenza de' sessi (105) alla contessa Chiara Mucciarelli Simonetti in cui riprende i temi della condizione ed emancipazione della donna affrontati in gioventù nel Saggio filosofico sul matrimonio. Trascorre gli ultimi anni della vita continuando a coltivare i suoi interessi intellettuali. A questo periodo risalgono i suoi studi sulla scienza medica testimoniati da numerose pagine, ancora inedite, conservate presso il «Fondo Delfico» della Biblioteca Provinciale di Teramo, e la stesura di alcuni manoscritti di cui uno dal titolo Sugli antichi confini del Regno e un altro dal titolo Sull'origine e i progressi delle Società civili che invia al marchese aquilano Luigi Dragonetti, il quale ne caldeggia la pubblicazione, ma invano perché il suo autore intende «rivederlo» (106). Nel 1832 riceve la visita di Ferdinando II, in giro per le regioni del Regno, e viene insignito, l'anno successivo, dell'onorificenza di Commendatore dell'Ordine di Francesco I. Nel capoluogo abruzzese Delfico muore il 21 giugno 1835.  Dopo la notorietà di cui aveva goduto in vita, alla sua morte Delfico cade in un lungo e ingiustificato oblio. Uscito grazie a Giovanni Gentile (107) dal ristretto ambito locale, che lo aveva reso per tutto l'Ottocento un autore sostanzialmente sconosciuto, e proiettato in una dimensione più ampia, nazionale, Delfico è oggetto di una diversa considerazione a partire dal secondo dopoguerra. Una rivalutazione che si determina in coincidenza con il rinnovato interesse storiografico per la cultura e la storia del Settecento e, in particolare, per alcune esperienze intellettuali e politiche significative dell'illuminismo italiano (108). Merito di questa storiografia è quello di aver ricondotto e legato il riformismo delficino all'esperienza e al fervore culturale del movimento riformatore napoletano della seconda metà del XVIII secolo. Una lettura che ha privilegiato il Delfico «riformatore», la sua fase riformistica, contrapponendosi alle rivisitazioni critiche precedenti, sia della storiografia neoidealistica che del ventennio fascista (109). Di recente, nuove linee interpretative stanno approfondendo altre fasi fondamentali della biografia intellettuale di Melchiorre Delfico (alcune delle quali scarsamente scandagliate), come quella relativa al decennio rivoluzionario 1789-1799 o quelle che contrassegnano la sua evoluzione, agli inizi dell'Ottocento e durante gli anni della Restaurazione, da riformatore nutrito dell'illuminismo napoletano a filosofo della storia e della politica.  _______________  (1) Era nato il 1° agosto 1744 in un paesino vicino Teramo, Leognano, dove i genitori, Berardo e Margherita Civico, si erano rifugiati durante l'invasione austriaca del Regno di Napoli. Morirà a Teramo il 21 giugno 1835, all'età di novantun anni. Per le notizie biografiche, la migliore fonte resta quella del nipote G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico. Libri due, Angeletti, Teramo 1836, arricchita di un'elencazione degli scritti editi ed inediti del Nostro (alcuni dei quali successivamente pubblicati), nonché di quelli non terminati e dei frammenti. Rimasta incompiuta, l'opera continuò sul «Giornale abruzzese di scienze lettere e arti», a. VI (1841), vol. XVIII, n. LIV, pp. 147-173  e  a. VII (1843), vol. XXI, n. LXIII, pp. 129-153, col titolo Notizie intorno alle opinioni filosofiche ed alle opere di Melchiorre Delfico e, sempre sulla stessa rivista, a. VII (1843), vol. XXII, n. LXVI, pp. 163-171, col titolo Notizie sulla vita e sulle opere di Melchiorre Delfico.  (2) Molti degli amici e dei discepoli del Genovesi furono abruzzesi. Fra loro ricordiamo, oltre ai fratelli Giamberardino, Gianfilippo e Melchiorre Delfico, il teatino Romualdo de Sterlich, Tommaso Maria Verri di Archi, Giuseppe De Sanctis di Penne, l'aquilano Giacinto Dragonetti, Giovanni Alò di Roccaraso, il teramano Giammichele Thaulero e Troiano Odazi di Atri, che nel 1781 successe al Maestro nella cattedra di economia. Sulla presenza anche in Abruzzo di quello che è stato definito il «partito genovesiano», cfr. G. De Lucia, Abruzzo  borbonico. Cultura, società, economia tra Sette e Ottocento, Cannarsa, Vasto 1984, pp. 23-31 e 46-49; U. Russo,  Studi sul Settecento in Abruzzo, Solfanelli, Chieti 1990, pp. 25-31 e 53-63.  (3) F. Diaz, Dal movimento dei lumi al movimento dei popoli, Il Mulino, Bologna 1986, p. 317.  (4) Sul riformismo borbonico, cfr. F. Valsecchi, Il riformismo borbonico in Italia, Bonacci, Roma 1990, pp. 103-155;  I Borbone di Napoli e i Borbone di Spagna, a cura di M. Di Pinto, Guida, Napoli 1985, vol. I; E. Chiosi, Il Regno dal 1734 al 1799, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Edizioni del Sole, Roma 1986, pp. 373-467, e la sintesi di a. M. Rao, Il riformismo borbonico a Napoli, in Storia della società italiana, vol. 12, Il secolo dei lumi e delle riforme, Teti, Milano 1989, pp. 215-290,  e la ricca bibliografia in essa contenuta.  (5) Lo scritto, dedicato a Bartolomeo Intieri e pubblicato assieme al Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l'agricoltura dell'abate Ubaldo Montelatici colla Relazione dell'erba orobanche detta volgarmente succiamele e del modo di estirparla di Pier-Antonio Micheli, uscì a Napoli nel 1753.  (6) A. Genovesi, Lettere accademiche su la questione se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati (Napoli 1764), Lettera XI, in Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Feltrinelli, Milano 1962, p. 497.  (7) Per una valutazione dell'influenza di Pietro Giannone sulla cultura napoletana del XVIII secolo oltre al lavoro sempre valido di L. Marini, Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli nel Settecento. Lo svolgimento della coscienza politica del ceto intellettuale del regno, Laterza, Bari 1950, cfr. G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Ricciardi, Milano-Napoli 1970; Pietro Giannone e il suo tempo, a cura di R. Ajello, Jovene, Napoli 1980, 2 voll., sp. il contributo di E. Chiosi, La tradizione giannoniana nella seconda metà del Settecento, vol. II, pp. 744-780.  (8) Sulla posizione di Genovesi nei confronti dell'autorità temporale e dottrinale della Chiesa, cfr. E. Pii, Antonio Genovesi. Dalla politica economica alla «politica civile», Olschki, Firenze 1984, p. 158 sgg.; G. Galasso, La filosofia in soccorso de' governi. La cultura napoletana del Settecento, Guida, Napoli 1989, p. 383 sgg.  (9) Le due Memorie, dal titolo Intorno a' dritti sovrani di Napoli sulla città di Benevento e Saggio istorico delle ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città d'Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca, furono commissionate a Delfico dall'avvocato della Corona Ferdinando De Leon. Della prima, tuttora inedita, esiste una copia autografa presso l'Archivio di Stato di Teramo, «Fondo Delfico», b. 16, fasc. 178, dal titolo Del territorio beneventano. La seconda, invece, fu pubblicata la prima volta su «La Rivista abruzzese di scienze e lettere» nel 1890 (a. V, fasc. I, pp. 22-30; fasc. III-IV, pp. 142-168; fasc. V-VI, pp. 248-261; fasc. VII, pp. 305-322 e fasc. VIII, pp. 358-365), preceduta dalle Notizie di L. Volpicella sulle vicende del manoscritto. Il Saggio istorico è stato riedito nelle Opere complete, vol. III, Fabbri, Teramo 1903, pp. 9-80. La raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti delficini (alcuni dei quali pubblicati successivamente, altri ancora inediti), esce a Teramo dal 1901 al 1904, in quattro volumi, a cura di G. Pannella e L. Savorini.  (10) M. Delfico, Del territorio beneventano, cit., p. 17.  (11) F. Venturi, Introduzione ai Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi italiani, Ricciardi, Milano-Napoli 1962, p. XVI.  (12) G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 11.  (13) M. Delfico, Memoria autobiografica, inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Misc. 3, n. 846.  (14) M. Delfico, Saggio filosofico sul matrimonio, in  Opere complete, cit., vol. III,  p. 126.  (15) A. Garosci, San Marino. Mito e storiografia tra i libertini e il Carducci, Edizioni di Comunità, Milano 1967, p. 167.  (16) Lettera di Delfico a Luigi Dragonetti del 10 luglio 1826, in Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, a cura del marchese G. Dragonetti suo figlio, Uffizio della Rassegna Nazionale, Firenze 1886, p. 122. La lettera è stata riedita nelle Opere complete, cit., vol. IV, p. 54.  (17) M. Delfico, Indizi di morale, in Opere complete, cit., vol. I, p. 36.  (18) Sull'ambiguità concettuale di tale espressione cfr. M. Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato, La Nuova Italia, Firenze 1986, pp. 1-24; L. Guerci, L'Europa del Settecento. Permanenze e mutamenti, Utet, Torino 1988, pp. 501-508.  (19) M. Delfico, Indizi di morale, cit., pp. 48-49.  (20) Ivi, p. 47.  (21) Per una ricostruzione dell'intera vicenda rinvio a V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano (1777-1798). L'attività di Melchiorre Delfico presso il Consiglio delle Finanze, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1981, pp. 71-85.  (22) L'espressione è ricorrente nella Relazione di Mons. Luigi Pirelli alla Sacra Congregazione del Concilio del 14 febbraio 1778, in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 86-99.  (23) Cfr. M. Delfico, Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, in Opere complete, cit., vol. III, pp. 164-165.  (24) F. Venturi, Nota introduttiva (a M. Delfico), in Riformatori napoletani, cit., p. 1168.  (25) Favorevole nel 1783 ad un più moderno sviluppo dell'attività risiera per una ripresa economica della sua provincia, Delfico assumerà alcuni anni più tardi un atteggiamento decisamente contrario alla risicoltura. Su tale mutamento, cfr. V. Clemente, Cronache della defeudalizzazione in provincia di Teramo: le risaie atriane (1734-1831), in «Itinerari», a. XXIV (1985), n. 1-2-3, pp. 21-154.  (26) M. Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, presso Vincenzo Orsino, Napoli 1784, in Opere complete, cit., vol. III, pp. 222-260.  (27) Delfico ammira soprattutto la Vita di Ansaldo Grimaldi (Napoli 1769), poiché in essa l'Autore era riuscito a saldare la vicenda dell'uomo di Stato genovese con la storia politica dello Stato stesso e a far vedere come la mancanza di costituzioni e di leggi fondamentali tenesse lo Stato «in continua rivoluzione» (Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 235).  (28) M. Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 245.  (29) J.-J. Rousseau, Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes (1754), in Oeuvres complètes,  vol. III, Gallimard,  Paris 1964, p. 193.  (30) M. Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 253.  (31) Su tale associazione, fondata il 1° maggio 1776 ad Ingolstadt da Adam Weishaupt, cfr. C. Francovich, Gli Illuminati di Baviera, in Storia della massoneria in Italia dalle origini alla rivoluzione francese, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 309-334.  (32) Alcune lettere sono state pubblicate nel quarto volume delle Opere complete di Delfico, cit., pp. 154-162; altre sono apparse nel primo volume di Aus dem Briefwechsel Friedrich Münters. Europäische Beziehungen eines dänischen Gelehrten 1780-1830, herausgegeben von Ø. Andreasen, Erster Teil, P. Haasse, Kopenhagen-Leipzig 1944, pp. 215-220. Due di queste ultime sono state riprodotte in appendice al libro di A. Di Nardo, Storia e scienza in Melchiorre Delfico. (Studi e ricerche), Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di Lettere e Filosofia, Chieti 1978, pp. 154-155 e 157-160, il quale ha pubblicato altre lettere di Delfico a Münter, assieme ad alcune lettere di Delfico alla sorella del Danese Federica Brun (ivi, pp. 140-166). Altre, ancora inedite, sono conservate presso la Biblioteca Provinciale di Teramo.  (33) M. Delfico, Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del Regno, Porcelli, Napoli 1785, ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 265-323.  (34) G. Solari, Studi su Francesco Mario Pagano, a cura di L. Firpo, Giappichelli, Torino 1963, p. 201. Sullo stesso piano l'Autore pone l'altro scritto di Delfico, Memoria sulla libertà del commercio, e l'opera sull'Annona di Domenico Di Gennaro, duca di Cantalupo, pubblicata anonima a Palermo nel 1783.  (35) M. Delfico, Memoria sul Tribunal della Grascia, cit., p. 279.  (36) M. Delfico, Discorso sul Tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma, Napoli 1788, ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 359-396.  (37) M. Delfico, Discorso sul Tavoliere di Puglia, cit., p. 370.  (38) Il testo è stato pubblicato da L. Tossini, Una lettera inedita di Melchiorre Delfico a Michele Torcia, in «Nord e Sud», a. XXIV (1977), terza serie, n. 31-32, pp. 191-199. La lettera è datata Teramo, 7 ottobre 1784.  (39) Scritta tra il 1789 e il 1790, su invito dell'Accademia di Padova agli scrittori italiani di occuparsi del problema della libertà di commercio, la Memoria fu stampata la prima volta nel 1805 a Milano, presso Destefanis, nel t. XXXIX della raccolta Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi. L'opuscolo è stato recentemente riedito (De Petris, Teramo 1985) con un'introduzione di M. Finoia. Sul problema Delfico tornerà alcuni anni dopo con il Ragionamento su le carestie, in cui apporta alcune «modificazioni e moderazioni» al principio della libertà assoluta e illimitata di commercio, auspicando nel mercato l'intervento diretto dello Stato, cui riconosce il compito di prevenire il «terribile flagello» delle carestie e di altri simili avvenimenti. Il testo, letto il 1° dicembre 1818 nella Reale Accademia delle Scienze di Napoli e pubblicato nel 1825 negli Atti dell'Accademia stessa (vol. II, parte I, pp. 3-43), è stato riedito a Teramo nel 1985 assieme alla Memoria sulla libertà del commercio.  (40) Se, dopo varie insistenze, all'inizio del 1788 ottiene, come aveva richiesto due anni prima nella Memoria per il ristabilimento del Tribunale Collegiato nella Provincia di Teramo (in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 255-257), il ripristino a Teramo di detto Tribunale, in luogo dei magistrati unici, più agevolmente portati all'abuso del potere, non altrettanta fortuna incontreranno invece le sue richieste sia di abolizione della servitù degli Stucchi, del 1786, sia di istituzione di una Università degli Studi a Teramo ad indirizzo «fisico» ed orientamento laico, avanzata agli inizi di maggio del 1788. Sugli sviluppi delle iniziative delficine si vedano R. Di Antonio, Stucchi e Doganelle nel teramano, Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di Scienze Politiche, Teramo 1978, pp. 7-24, la quale pubblica in appendice la Memoria sugli Stucchi e le Memorie su di un nuovo sistema per le Doganelle, e G. Carletti, Introduzione a M. Delfico, Una «piccola» Università a Teramo, Quaderni dell'Università di Teramo, Teramo 1999, n. 6, pp. 3-7.  (41) La Memoria è pubblicata in appendice al volume di a. M. Rao, L'«amaro della feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del '700, Guida, Napoli 1984, pp. 349-367.  (42) M. Delfico, Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri, cit., p. 354.  (43) Memoria delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Ined., n. 402.  (44) In Lombardia Delfico si trattenne fino al mese di giugno del 1789 per poi trasferirsi prima a Verona, dove rimase due mesi, e in seguito a Vicenza, Padova, Venezia e Ferrara, finché nel novembre del 1789 rientrò in patria. Su questo viaggio e sui legami di amicizia che ebbe modo di stringere e di rinsaldare, cfr. G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 25 sgg.  (45) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 403-431.  (46) L'opera, che provocò subito «molto chiasso», sia per le reazioni della classe togata, sia per gli elogi che ricevette da più parti, fu pubblicata a Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli, nel 1791 e fu ristampata a Firenze nel 1796 e una terza volta di nuovo a Napoli nel 1815.  (47) C. Ghisalberti, La giurisprudenza romana nel pensiero di Melchiorre Delfico, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», a. VIII (1954), vol. VII, parte II,  p. 432.  (48) M. Delfico, Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana, in Opere complete, cit., vol. I, pp. 225 e 105.  (49) Troiano Odazi (1741-94), nativo di Atri, in provincia di Teramo, fu tra i maggiori economisti napoletani della seconda metà del Settecento. Allievo del Genovesi, nel 1768 ne curò l'edizione milanese Delle lezioni di commercio o sia d'economia civile. Nominato nel 1779 professore di Etica nel Reale convitto della Nunziatella, nell'ottobre del 1781 fu chiamato a ricoprire la cattedra di Economia e Commercio che era stata del Genovesi e rimasta vacante per diversi anni. Esponente della massoneria napoletana, fu coinvolto nel fatti del '94. Arrestato, morì suicida nelle carceri della Vicaria il 20 aprile di quell'anno. Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. Beltrani, Don Trojano Odazi. La prima vittima del processo politico del 1794 in Napoli, in «Archivio storico per le province napoletane», a. XXI (1896), fasc. I, pp. 853-867.  (50) B. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, Laterza, Bari 19264, p. 24.  (51) Sulle tappe di questo viaggio, cfr. G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., pp. 38-46.  (52) Si veda la lettera di Delfico a Fortis del 9 gennaio 1797 da Teramo, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, in «Rassegna della letteratura italiana», a. 87 (1983), serie VIII, n. 3, p. 419.  (53) L'ipotesi di una partecipazione al concorso origina da De Filippis-Delfico, il quale riporta tra le opere delficine «non-terminate» (cfr. Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 122), un opuscolo di 26 pagine privo di intestazione e da lui intitolato Sul quesito: Quale sia il miglior de' governi per l'Italia?, anche se poi nessuna notizia, sia in merito a questo testo sia relativa al concorso, fornisce nella ricostruzione biografica dell'Autore. Su questo aspetto si veda G. Carletti, A proposito di un'anonima dissertazione. Note sulla presunta partecipazione di Melchiorre Delfico al concorso del 1796, in «Trimestre», a. XXXII (1999), n. 3-4, in corso di pubblicazione.  (54) Sono del 1797 le delficine Memoria per la Decima imposta al Regno; Memoria intorno a' danni sofferti nella provincia di Teramo dalla cattiva monetazione dello Stato pontificio, e de' mezzi opportuni da ripararli ed infine Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale per rapporto al commercio delle provincie confinanti del Regno, ancora tutte inedite.  (55) Lettera di Delfico a Fortis del 7 novembre 1793, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit.,  pp. 415-416. Il vescovo a cui allude è Luigi Maria Pirelli (1740-1820), nobile di Ariano, religioso dell'Ordine dei Regolari teatini, vescovo di Teramo dal 1777 al 1804 e sin dal suo arrivo avverso alla famiglia Delfico. Nella Relazione risponsiva alle accuse, del 18 dicembre 1793 (pubblicata da L. Tossini, Autodifesa di un illuminista, in «Archivio storico per le province napoletane», terza serie, a. XVI (1977), pp. 86-97), egli era costretto a difendere la propria reputazione dinanzi al Supremo Consiglio a causa di «vaghe» e «calunniose imputazioni» di qualche delatore. La denuncia del '93, pur non avendo gravi conseguenze, riuscì tuttavia ad impedire che Delfico succedesse al fratello nella presidenza della Società Patriottica di Teramo. Nel 1794 una nuova denuncia anonima era stata all'origine del rifiuto del Supremo Consiglio di accogliere la richiesta del Teramano del titolo di conte. Non avrebbe ottenuto il titolo neppure in seguito, ma con decreto del 25 marzo 1815 Gioacchino Murat gli avrebbe conferito quello di barone.  (56) Il pretesto è fornito da alcune lettere «rivoluzionarie» sequestrate ad una loro domestica, da poco licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli Piceno. Interrogata, la donna avrebbe affermato di averle ricevute da Alessio Tullj e da Eugenio Michitelli, entrambi frequentatori di casa Delfico. Si veda in proposito la Memoria della persecuzione subita dalla famiglia Delfico nel 1799, scritta presumibilmente da Giamberardino Delfico «allo scopo - è precisato in un'annotazione - di ottenere il dissequestro dei propri beni», dopo che, condannato dai Regi inquisitori nel processo contro «i rei di Stato» e trasferito nell'agosto del 1800 nei castelli di Puglia, era stato liberato in seguito all'indulto generale del 1° maggio 1801. Il testo è stato pubblicato da V. Clemente su «Storia e civiltà», a. IV (1988), n. 4, pp. 368-385 e a. V (1989), n. 1-2, pp. 39-56. L'episodio che portò all'arresto dei Delfico è a p. 375 sgg.  (57) I Francesi, al comando del generale Rusca, erano entrati in Abruzzo il 6 dicembre 1798. L'11 dicembre in 1500 arrivarono a Teramo. Messe in fuga dai rivoltosi, le truppe francesi riconquisteranno la città il 23 dicembre, per poi occupare Pescara, Sulmona e Penne il 24 e Chieti il 25. Per una ricostruzione di queste vicende, fondamentale resta l'opera di L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, voll. I e II, Vecchioni, L'Aquila 1928, voll. III e IV, Tip. Consorzio Nazionale, Roma 1939. Sull'arrivo e sulla permanenza dei Francesi a Teramo cfr. anche le tre cronache del periodo rivoluzionario, A. De Jacobis, Cronaca degli avvenimenti in Teramo ed altri luoghi d'Abruzzo 1777-1822 (in L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, cit., vol. III, pp. 38-440); G. Tullj, Minuta relazione dei fatti sanguinosi seguiti in Teramo dall'anno 1798 al 1814, con postille e con la continuazione del canonico Niccola Palma (pubblicata da V. Clemente col titolo Una cronaca inedita teramana (1798-1814), in «Storia e Civiltà», a. IX (1993), n. 3-4, pp. 269-285; a. X (1994), n. 1-2, pp. 93-116 e n. 3-4, pp. 148-172; a. XI (1995), n. 1-2, pp. 94-118 e n. 3-4, pp. 175-196; a. XII (1996), n. 1-2, pp. 58-86 e n. 3-4, pp. 171- 195); C. Januarii, Avvenimenti seguiti nel Teramano dal 1798 al 1809, Teramo 1999.  (58) Il Consiglio, di cui fecero parte, oltre a Delfico, i lancianesi Carlo Filippo De Berardinis e Antonio Madonna, entrò in funzione subito dopo e svolse la sua attività non oltre la fuga del suo presidente da Pescara avvenuta il 28 aprile successivo. Cfr., in proposito, M. Battaglini, Abruzzo 1798-1799. Una repubblica giacobina, in «Rassegna storica del Risorgimento», a. LXXV (1988), fasc. I, pp. 11-12, ora in La Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma 1992, pp. 188-189. Sull'esperienza pescarese di Delfico, cfr. anche F.  Masciangioli, Melchiorre Delfico e Pescara. Per una storia del rapporto tra intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo, in «Trimestre», a. XX (1987), n. 1-2, pp. 41-69.  (59) Sullo spirito di moderazione di Delfico, interessato a trovare una mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze reazionarie, cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, ETS, Pisa 1996, p. 135 sgg.  (60) Cfr. G. Galasso, I giacobini meridionali, in «Rivista storica italiana», a XCVI (1984), fasc. I, p. 78 sgg., ora in La filosofia in soccorso de' governi, cit., p. 519  sgg.  (61) Il testo è stato pubblicato da R. Persiani, Alcuni ricordi politici nella massima parte abruzzesi al cadere del XVIII e principio del XIX secolo con documenti e note, in «Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti», a. XVII (1902), fasc. VII-VIII, pp. 435-439. Senz'altro meno importante è l'altro atto a firma di Melchiorre Delfico, Proclama sulla sicurezza pubblica del 15 ventoso anno VII (5 marzo 1799), con il quale venivano fissate alcune disposizioni per combattere il vagabondaggio. (Ivi, pp. 441-442). I due testi sono stati recentemente riediti assieme ad altri scritti delficini da G. Carletti, La «Pescara» di Melchiorre Delfico, Edizioni Tracce, Pescara 1999, pp. 51-55 e 57-58.  (62) Cfr. la lettera di Delfico al Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7 Rep. (27 marzo 1799), in Il Monitore Napoletano 1799, a cura di M. Battaglini, Guida, Napoli 1974, pp. 695-696. Sulle insorgenze nella regione, cfr. R. Colapietra, Le insorgenze di massa nell'Abruzzo in età moderna, in «Storia e politica», a. XX (1981), fasc. 1, pp. 1-46, e il più recente volume Per una rilettura socio-antropologica dell'Abruzzo giacobino e sanfedista, Edizioni Città del Sole, Napoli 1995.  (63) Per il testo cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico, cit., pp. 138-139.  (64) Sulla permanenza del Teramano nella Repubblica sammarinese, cfr. F. Balsimelli, Melchiorre Delfico e la Repubblica di San Marino, Arti Grafiche Della Balda, San Marino 1935.  (65) Cfr. V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, II ed. con aggiunte dell'Autore, Dalla Tipografia di Francesco Sonzogno, Milano 1806, p. 96 sgg.  (66) Si veda l'ormai nota Prefazione alle Memorie storiche della Repubblica di S. Marino (Milano 1804), in Opere complete, cit., vol. I, pp. 249-250.  (67) Ivi, p. 472.  (68) Ibidem.  (69) Ivi, p. 250.  (70) Il libro, il cui titolo originale era Esame della Storia, e dei suoi vantati pregi, vide la luce due anni dopo che Delfico l'aveva consegnato alla stamperia Roveri e Casali. La seconda e la terza edizione uscirono a Napoli nel 1809 e nel 1814.  (71) M. Delfico, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 249.  (72) Ivi, p. 246.  (73) Cfr. M. Agrimi, La vicenda rivoluzionaria e le riflessioni sulla storia: Melchiorre Delfico, in «Itinerari», a. XXIII (1984), n. 3, p. 94.  (74) Cfr. G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, Edizioni della «Critica», Napoli 1903, p. 46 sgg., il quale afferma che nessuno prima di allora aveva negato la storia nel modo assoluto del Teramano. Un estremo radicalismo nell'«antistoricismo» delficino è stato rilevato anche da B. Croce, La storiografia in Italia dai cominciamenti del secolo decimonono ai giorni nostri: 1. Il «secolo della storia»  e  2. Il nuovo pensiero storiografico, in «La Critica», a. XIII (1915), rispettivamente fasc. I, pp. 16-18 e fasc. II, p. 95, poi rielaborati nel volume Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Laterza, Bari 1921, e da G. De Ruggiero, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza, Bari 1921, pp. 158-165.    (75) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, in Opere complete, cit.,  vol. II, p. 11.  (76) Il titolo per esteso dell'opera è Leçons d'histoire, prononcées à l'École Normale en l'an III de la République française, par C.-F. Volney, chez J.A. Brosson, Paris an VIII.  (77) Sull'affinità di vedute dei due autori, cfr. C. Rosso, De Volney à Melchiorre Delfico: l'histoire, une discipline aussi inutile que dangereuse, in L'héritage des lumières: Volney et les idéologues, Presses de l'Université, Angers 1988, pp. 345-356.   (78) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 43.  (79) Ora in Opere complete, cit., vol. II, pp. 307-325.  (80) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 174.  (81) Porcelli, Napoli 1781, Epoca I, pp. 329-338. Grimaldi si era rivolto all'amico teramano per avere notizie sull'esistenza nella Marsica moderna di antiche costumanze di carattere ofidico e su eventuali relazioni tra queste e i rituali moderni. La Lettera delficina venne ricordata alle pp. 18-21 della recensione al volume di Grimaldi apparsa nel fascicolo del febbraio 1784 del «Nuovo Giornale enciclopedico» per mano, molto probabilmente, del suo principale estensore Alberto Fortis.  (82) Per un esame critico del testo, riprodotto in appendice, cfr. G. Profeta, Una ignorata dissertazione di Melchiorre Delfico sugli incantatori di serpenti, in «Lares», a. XLV (1979), n. 1, pp. 5-53, ora anche nel volume Lupari incantatori di serpenti e santi guaritori nella tradizione popolare abruzzese, Japadre, L'Aquila-Roma 1995, pp. 79-138.  (83) Lo scritto, ideato e posto come prefazione alle ancora inedite Favole morali di Alessio Tullj, è stato pubblicato da A. Marino, in «Aprutium», a. IV (1986), n. 3, pp. 32-48.  (84) M. Delfico, Discorso sulle favole esopiane, cit., pp. 39-40.  (85) Lettera di Delfico a Teresa Onofri del 21 marzo 1806, in F. Balsimelli, Epistolario di Melchiorre Delfico. Lettere sammarinesi, Arti  grafiche Della Balda, San Marino 1934, p. 53.  (86) Sull'attività del Teramano nell'amministrazione francese, cfr. G. Palmieri, Melchiorre Delfico e il decennio francese (1806-1815), Edizioni del Gallo Cedrone, L'Aquila 1986, il quale riproduce in appendice alcuni scritti delficini del periodo; R. Feola, La monarchia amministrativa. Il sistema del contenzioso nelle Sicilie, Jovene, Napoli 1985, pp. 125-135.   (87) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 471-497.  (88) Ora in Opere complete, cit., vol. III, rispettivamente pp. 501-528 e pp. 531-550.  (89) Ripubblicate nelle Opere complete, cit., vol. II, pp. 187-294, le Nuove ricerche sul Bello sono state recentemente riedite a cura di A. Marroni, Ediars, Pescara 1999.  (90) Per un quadro d'insieme dell'attività amministrativa e dell'opera legislativa dei Napoleonidi nel Regno napoletano, oltre al volume, notevolmente arricchito e ampliato rispetto alla prima edizione del 1941, di A. Valente, Gioacchino Murat e l'Italia meridionale, Einaudi, Torino 1976, pp. 231-332, cfr. P. Villani, Il decennio francese, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, cit., pp. 575-639. Spunti critici anche in Studi sul Regno di Napoli nel decennio francese (1806-1815), a cura di A. Lepre, Liguori, Napoli 1985.  (91) Rimasto inedito, il testo finale è tuttora irreperito ma di esso si conservano due stesure pubblicate da A. Marino, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Solfanelli, Chieti 1986, rispettivamente pp. 19-42 e 59-79.  (92) M. Delfico, Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino, cit., p. 20.  (93) Ivi, p. 67.  (94) Cfr. ivi, pp. 29 e 70.  (95) Cfr. N. Machiavelli, Istorie fiorentine, in Opere di Niccolò Machiavelli Cittadino e Segretario fiorentino, Italia 1813, vol. I, lib. II, cap. XII,  p. 79.  (96) Cfr. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Opere, cit., vol. III, lib. I, cap. LV, p. 159.  (97) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 567-588.  (98) L'opera, notevolmente ampliata, fu ristampata a Napoli nel 1826, per i tipi di Angelo Trani, col titolo Dell'antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini italiche, ora in Opere complete, cit., vol. II, pp. 299-505.  (99) Pubblicati nelle Opere complete, vol. IV, pp. 293-305 e vol. III, pp. 631-644, i due testi sono stati riediti da G. Carletti, La «Pescara» di Melchiorre Delfico, cit., rispettivamente pp. 23-36 e pp. 37-50.  (100) M. Delfico, Breve cenno, cit., p. 37.  (101) M. Delfico, Fiera franca in Pescara, cit., p. 32.  (102) M. Delfico, Breve cenno, cit., p. 38.  (103) Cfr. ivi, pp. 47-49.  (104) Ora, tradotto, in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 325-333, col titolo Rapporto sull'Italia inviato a Napoleone e attribuito a M. Delfico.  (105) M. Delfico, Della preferenza de' sessi. Lettera all'ornatissima signora contessa Chiara Mucciarelli Simonetti del 12 marzo 1827, pubblicata a Siena nel 1829 ed ora in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 31-45.  (106) Cfr. la lettera di Delfico a Dragonetti dell'8 marzo 1834, in Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, cit., p. 156.  (107) Cfr. G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, cit., pp. 18-87.  (108) Per un quadro d'insieme di queste esperienze, cfr. il volume di D. Carpanetto - G. Ricuperati, L'Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, lumi, Laterza, Roma-Bari 1993, e la ricca bibliografia in esso contenuta.  (109) Per una ricognizione degli studi delficini, cfr. G. Carletti, Recuperi, oblii e prospettive. Per una storia critica della storiografia delficina, in «Trimestre», a. XX (1987), n. 1-2, pp. 5-40. Il cavaliere Commendatore Melchiorre dei Marchesi Deflico. Melchiorre III Delfico de Civitella. Melchiorre Delfico. Civitella. Keywords: giurisprudenza romana, sul bello, estetico, sensus, il vero carattere della giurisprudenza romana, suoi cultore,  benevolanza conversazionale, giustizia conversazionale, il principio di sensibilita imitativa, l’estetico, l’imitazione della natura, l’espressione. La storia romana, incertezza e unitilita – la giurisprudenza romana fino alla caduta della repubblica, aristocrazia versus benevolenza, benevolenza conversazionale tra iguali. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Civitella” – The Swimming-Pool Library.

 

 

COCO (Umbriaco). Filosofo. Grice: “Typically, while in the Italian North, Conte can play with words, in the Italian South, Coco must work for the workers! Is conversation a work? I think so – lavoro – In the ‘codice civile’ or rather the ‘codice’ of the civil laws – there is a section on ‘lavoro’, and a title on ‘co-operativa’, short for ‘cooperative society’ – This is all due to Coco – It sounds slightly fascist, and he did write a little tract with ‘fascist’ in the subtitle! – Coco is a performativist, so he understands that ius must ‘constitute’ and define: so he goes on to analyse what I’ve been analysing too – what is to cooperate – in a common task or ‘lavoro’ – what is ‘mutuality’ – what are the requirements for mutuality, and so on – It’s not as legalese and boring as it sounds! And it provides a framework for my pragmatics – since a lawyer, and especially a Griceian one, can be VERY SMART! Coco is!” --  Dal punto di vista sistematico molto vicino alla visione del grundnorm, teoria da Kelsen.  Si laurea a Napoli. Sostituto procuratore del Re a Cassino. La Regia Procura di Roma. Procuratore Generale presso la Corte d'appello di Roma. Fondatore dell'Ufficio del Massimario. Insegna a Roma. Noto soprattutto per aver partecipato ai lavori di stesura del nuovo codice civile italiano nonché del codice di procedura civile, entrambi entrati in vigore nel 1942. Si occupa prevalentemente della stesura di leggi in materia del contratto, obbligazione, e diritto del lavoro. Altre opere: “Gli eclettismi contemporanei e le lezioni di filosofia del diritto” (Lagonegro, M. Tancredi & Figli); “La filosofia del diritto”; “Una quistione di diritto transitorio in tema di farmacie” (Milano, Società Editrice Libraria); “Sull'ultimo capoverso dell'art. 375 del codice penale” (Milano, Società Editrice Libraria); “Luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra” (Cassino, Soc. Tip. Ed. Meridionale); “Per la tradizione giuridica italiana” (Milano, Società Editrice Libraria); “Saggio filosofico sulla corporazione fascista” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Sulla costituzione di parte civile delle associazioni sindacali” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Corso di diritto inter-nazionale (recensita da Santi Romano, seconda edizione riveduta ed ampliata, Padova, CEDAM); “Intorno alla pre-giudiziale penale nel giudizio del lavoro” (Roma, U.S.I.L.A.); “Raffaele Garofalo” (Napoli, SIEM); “Il contratto collettivo di lavoro e la impresa cooperativa” (Roma); “Una inchiesta sulla criminalità” (Napoli, SIEM). Annuario Camera dei fasci e delle corporazioni. Rivista penale. Rassegna di dottrina, legislazione, giurisprudenza, Roma, Libreria del Littorio, Rivista di diritto pubblico. La giustizia amministrativa,  Roma, Società per la Rivista di diritto pubblico e la Giustizia amministrativa, Una vita per il Diritto Giusto, La giustizia penale. Rivista critica settimanale di giurisprudenza, dottrina e legislazione, Società editoriale del periodico La giustizia penale, Tale trasferimento avvenne per via di un suggerimento pervenutogli al Re dagli allora procuratori presso la Corte d'appello di Napoli Salvatore Pagliano e Giacomo Calabria.  La giustizia tributaria. Dottrina, giurisprudenza, legislazione, Città di Castello, Società tipografica Leonardo da Vinci. Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, La scuola positiva. Rivista di diritto e procedura penale, Milano, Vallardi. Iniziò la sua carriera a 24 anni e nel 1906 fu nominato pretore di Lagonegro. Quattro anni dopo divenne pretore di Moliterno, per assumere in seguito le funzioni di sostituto procuratore a Cassino. Venne trasferito a Roma presso la Procura. Oltre vent’anni dopo, fu Presidente di sezione della Corte Suprema di Cassazione, oltre che Professore di Filosofia del diritto. Dotato di una solidissima dottrina e di un rigorosissimo lavoro applicativo,  partecipa ai lavori per la stesura del nuovo Codice Civile e del  Codice di Procedura Civile. Cura vari aspetti dell’allora nuova normativa: contratto, obbligazione, diritto del lavoro. Una delle sue grandi doti fu quella di riuscire a non farsi condizionare dal regime dell’epoca. Non accetta la candidatura in Parlamento offertagli dai suoi conterranei della Calabria.  “Una Vita per il diritto giusto” si lascia leggere con piacere, in diversi passaggi si incontreranno i tratti che lo hanno contraddistinto come uomo,  come magistrato e giurista, troveremo, inoltre, la sua attività di ricerca e di elaborazione teoretica, il tutto in un arco temporale di oltre quarant’anni. Sotto il profilo sistematico si accosta alla visione di Kelsen per quanto riguarda l’ordinamento e le codificazioni, nonché, proprio per la ricerca e per l’identificazione di una grande norma fondamentale (grundnorm). Dal punto di vista epistemologico, rappresenta la condanna dell’ideologia e della prassi delle scomposizioni in una galassia di frammenti superficialistici. Lo sguardo al pensiero Coco ci consente anche di sottolineare la sua analisi critica, egli non si ferma alla semplice stigmatizzazione della responsabilità oggettiva nei confronti del singolo. Prende spunto da queste aberrazioni per sottolineare come all’accanimento contro la condotta individuale della persona fisica non corrispondesse eguale severità verso gli atti illeciti e dannosi della pubblica amministrazione. Proprio negli anni ‘30 scrisse “la responsabilità della pubblica amministrazione”.  -- è stato anche filosofo e storico al tempo stesso. Un’uomo molto impegnato nel suo lavoro che ci sembra doveroso ricordare. Dal padre, persona di cultu­ra, ricevette  i primi  rudimenti  di storia, letteratura, e filosofia, che si ritroveranno, succes­sivamente, in taluni suoi saggi filo­sofici su Aquino. Iniziò la carriera giudiziaria a soli venti­quattro anni e ottenne la nomina a  Pretore di Lagonegro. Divenne Pretore di Moliterno, per assumere successivamente le funzioni di Sostituto Procuratore del Re a Cassino. Trasferito a Roma , presso quella Regia Procura , col viatico di rapporti ol­tremodo favorevoli e lusinghieri dei Procuratori Generali Pagliano  e Calabria  della Corte d’Appello  di Napoli,  dove  vi  permarrà per passare alla Procura Generale presso la Corte d’Appello. Ottenne  la nomina a Procuratore Generale del Re presso la Corte d’Appello di Cagliari, ma non ne assumerà di fatto la titolarità. Chiamato, invece, a presiedere il Tribunale Supremo delle Acque, era Presidente di Sezione della Corte Suprema di Cassazione. Il giornale  “Il  Tribunale”, pubblicazione mensile  edita a Roma, lo sa­luta a tale nomina. È della nostra famiglia, di quell’aristocratica famiglia giornalistica, alla quale non disdegna di apparte­nere, nonostante  l’altissimo  grado che ricopre nell’ordine giudiziario, oggi lieti di salutarlo, insieme con quello forense, Presidente di Sezione della Suprema Corte. Noi lo abbiamo visto nella Corte di Cassazione sin dagli anni ormai lon­tani della sua felice unificazione. E stato, infatti, tra i fondatori e promotori di quell’Ufficio del Massimario che raccoglie il vasto e prezioso materiale giurisprudenziale  della Suprema Corte. Non appena conseguita la promozione al grado IV°; ha ricoperto la carica di Consigliere, partecipando attivamente alla fun­zione giudiziaria di così eminente consesso. Ci asterremo, di proposito, da ogni aggettivazione che non sa­rebbe di buon gusto né riuscirebbe gradita al nostro Amico e collaborato­re; non possiamo, peraltro, esimerci dal ricordare fra le benemerenze e il titolo di Professore di Filosofia del Diritto nel­la  Scuola di Perfezionamento di Diritto Penale né l’altro, per  noi particolarmente  caro, di Redattore Capo della    Rivista di Diritto Pubblico. La  recente nomina, se indubbiamente  costituisce un nuo­vo riconoscimento dei meriti di così eletto Magistrato, rappresenta però un onere, che si aggiunge all’onore di così ambita carica. Ma l’accoglierà  di  buon  grado, assolvendo anche dal nuovo seggio presidenziale le delicate  funzioni giudiziarie, alle quali porta il va­lido contributo della sua competen­za, ma soprattutto una grande se­renità ed equanimità. Riguardo ai meriti  illustrati dall’articolo dell’epoca, c’è da dire che il suo cursus honorum non è stato caratterizzato soltanto da so­lidissima dottrina e da rigorosissi­mo lavoro applicativo, ma anche dalla partecipazione costante all’e­voluzione dell’ordine giudiziario, e tappa importante in tale attività, fu la Sua nomina a membro del Consiglio Superiore della Magistratura, ossia dell’organo po­litico e politico-amministrativo, anche se in base alla legislazione dell’epoca il Consiglio Superiore della Magistratura non aveva ancora il potere e l’importanza che la Costituzione e la successi­va normativa di attuazione gli die­dero. Ancora, circa la indicata fondazione del Massimario civile della Corte di Cassazione Unificata va detto che Lui effettivamente fu tra i principali ideatori; era, quello, un periodo di grandi innovazioni, perchè all’atto dell’Unità d’Italia, oltre alla Corte di Cassazione di Torino esistevano quella di Firenze nonchè le due Corti Supreme di Giustizia di Napoli e di Palermo (che assunsero anch’esse la denomina­zione di Corte di Cassazione). Con la legge, vennero soppresse le Corti sopra indicate, mentre quella di Roma fu trasfor­mata in Corte di Cassazione del Regno. Fu titolare dell’insegnamento di Filosofia del Diritto presso la Scuola di Perfezionamento in Diritto Penale dell’Università di Roma “La Sapienza”. In questo ambito, svolse attività accademica per quel periodo che vide la Scuola annove­rare i più bei nomi della dottrina penalistica italiana, le cui teorie risultano, ancora oggi, alla base della trattatistica più importante. Altro aspetto rilevante della sua eccezionale figura di giurista, come si rileva da un saggio del nipote dell’alto Magistrato, che porta con orgoglio lo stesso nome, il Professore Nicola Coco, dell’Università di Roma “La Sapienza”, è costituito dal coerente ri­ferimento alla legalità, cioè allo stato e all’ordinamento giuridico quali unica garanzia di contratto sociale. Per questo, il periodo che va  dal  primo  dopoguerra all’ av­vento del fascismo, costituisce una parentesi temporale di efficace  e prorompente elaborazione delle basi di quel diritto del lavoro e sin­dacale, o “giuslavorismo”, costi­tuendo davvero una novità assolu­ta nelle scienze giuridiche del tem­po. Così, quando si verificheranno gravissime crisi socio0eco­nomiche che metteranno a rischio l’assetto della produzione, la poli­tica e i sindacati troveranno i loro punti d’incontro nel noto  Statuto del Lavoratori, una ri-edizione ag­giornata delle linee guida tracciate, agli inizi del “secolo breve”, dai primi “giuslavoristi”, tra i quali ap­punto Coco. Altro aspetto qualificante del giurista è l’aver concorso alla stesura del Codice Civile, ai cui lavori preparatori, dai Ministri Solmi e Grandi (che è il sottoscrittore anche del Codice di Procedura  Civile, emanato anch’esso, furono chiamate le più belle e fertili menti di magistrati e giuristi. Cura vari aspetti della normativa (il contratto, l’obbligazione, diritto del lavoro), tant’è, che nell’immi­nenza della promulgazione, il Ministro Dino Grandi gli inviò una lettera personale di ringraziamento per il prezioso contributo offerto per il Codice. L’ultima parte della sua vita coincide  con  l’immane  conflitto mondiale, con la guerra civile e con la scia di vendette e iniquità che ne conseguirono. Dopo la fuga del Re e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, viene invitato ad assumere la Presidenza della Corte di Cassazione trasferitasi a Brescia e fors’anche la carica di Ministro Guardasigilli, ma egli fermamente rifiuta. Ebbene, nono­stante tale ferma presa di posizione nei confronti del regime fascista, sulla base di taluni articoli che ave­va scritto su “Il Messaggero” di Pio Perrone, di commento a leggi e que­stioni giuridiche di alto livello, ovviamente di epoca fascista, l’occhiu­ta Commissione di epurazione, su decine di articoli scritti in una plu­ridecennale collaborazione, ne sco­va qualcuno che suona come apologetico del Fascismo. Nulla di più falso, quando era nota a tutti la dirittura morale del magistrato in­tegerrimo, del quale va appena ri­cordato, ammesso ve ne fosse biso­gno, che la sorella del Duce, Edvige Mussolini, gli fece pervenire solle­citazioni per una causa che la inte­ressava. Ebbene, Coco pro­cedette secondo coscienza, quindi non nel modo auspicato dalla sorella del Duce! L’epurazione ingiusta, nella quale probabilmente influirono anche motivazioni non occulte di gelosia e invidia da parte di taluni, soprattutto per il fatto che per me­riti poteva benissimo aspirare alle funzioni di Primo Presidente della Suprema Corte, ne mina rapida­mente le condizioni di salute. Negli ultimi mesi non volle proporre ri­corso contro i provvedimenti che lo avevano colpito e rifiuta cortese­mente anche una candidatura in Parlamento, per le elezioni, che i conterranei di Calabria gli avevano offerto con affetto e ri­conoscenza. Spira serenamente, non mancando nel suo testamento di perdonare cristiana­mente quanti gli avevano provocato tanto immeritato dolore. Codice Civile. Del Lavoro. Delle societa cooperative e della mutue assicuratrici, delle societa cooperative – disposizione generali – cooperative a mutualita prevalente. Articoli: societa cooperative; societa cooperative a mutualita prevalente, criterio per la definizione della prevalenza, requisiti delle cooperative a mutualita prevalente.  Del Lavoro. Nicola Coco. Keywords: cooperativa, impresa cooperativa, luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra, giurisprudenza romana, giurisprudenza italiana, eccletismi, filosofia dell’atto, corporazione, contratto e cooperazione, codice civile italiano, codice di procedura civile italiano, la tradizione giuridica italiana, associazione, sindaco, Kelsen, grundnorm, legalita, nipote: Nicola Coco, ordine giuridico, unica garanzia del contratto sociale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Coco” – The Swimming-Pool Library.

 

CODRONCHI – (Imola). Filosofo. Grice: “One would underestimate Codronchi if it were not for the fact that he wrote a smartest little tracts on the two ways I see conversation as: ‘game’ and ‘contract.’ In “Logic and conversation’ I do confess to having been attracted for a while to a ‘quasi-contractualist’ approach to conversation alla Grice (i. e., G. R. Grice) – and I’m not sure the reason I give there for rejecting the view is valid, or strong enough! As for ‘games’ – of course conversation is a game – but I never took that too seriously – perhaps because Austin was obsessed with games and rules of games – and the subject was worn out for me – when Hintikka came along all he did was talk about ‘dialogue games’! – I do use ‘game’ terminology – and cf. ‘contract bridge!” – such as ‘conversational move,’ ‘converaational rule’ of the ‘conversational game’ – and conversational ‘players’ – “Only this or that ‘move’ will be appropriate’, and so on.” Appartenente alla nobiltà, dopo la laurea prosegue gli studi approfondendo la filosofia spinto dal padre. In seguito entra alla corte del regno di Napoli, prima con Ferdinando I e poi con Giuseppe Bonaparte, da cui ottiene la nomina a consigliere di stato. Le sue saggi più celebri sono “Etica” e “Il contratto”, in cui affronta con semplicità l'argomento del calcolo delle probabilità. Distingue in tre classi di contratto. Contratto epistemico: C’e un contratto nel quale è noto il rapporto tra eventi favorevoli e contrari. Contratto empirico. C’e un secondo contrato nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario è fondato sull'esperienza. Contratto misto Finalmente, c’e un terzo tipo di contratto nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario si basa su una legge sicura e in parte sull'esperienza. For a time, I was attracted by the idea that observance of the CP and the maxims, in a talk exchange, could be thought of as a quasi-contractual matter, with parallels outside the realm of discourse. If you pass by when I am struggling with my stranded car, I no doubt have some degree of expectation that you will offer help, but once you join me in tinkering under the hood, my expectations become stronger and take more specific forms (in the absence of indications that you are merely an incompetent meddler); and talk exchanges seemed to me to exhibit, characteristically, certain features that jointly distinguish cooperative transactions: 1. The participants have some common immediate aim, like getting a car mended; their ultimate aims may, of course, be independent and even in conflict-each may want to get the car mended in order to drive off, leaving the other stranded. In characteristic talk exchanges, there is a common aim even if, as in an over-the-wall chat, it is a second-order one, namely, that each party should, for the time being, identify himself with the transitory conversational interests of the other. 2. The contributions of the participants .should be dovetailed, mutually dependent. 3. There is some sort of understanding (which may be explicit but which is often tacit) that, otl1er things being equal, the transaction should continue in appropriate style unless both parties are agreeable that it should terminate. You do not just shove off or start doing something else.  SAGGIO FILOSOFICO SUI CONTRATTI E GIOCHI D'AZZARDO DEL CAVALIERE NICCOLA CODRONCHI. Sor's incerta vagatur , Fertque refertque vices . Lucan. FIRENZE PER GAETANO CAMBIAGI STAMPATOR GRAND. CON APPROVAZIONE. ALL’ALTEZZA REALE DI PIETRO LEOPOLDO PRINCIPE REALE D'UNGHERIA E DI BOEMIA ARCIDUCA D'AUSTRIA GRANDUCA DI TOSCANA &c. &c. & c. 1 NICCOLA CODRONCHI. Questa operetta che sottopone il contratti d’azzardo o aleatorio all'esame della filosofia per fissare, quant'è possibile i I dati onde non discordino dalla giustizia, dovea bene essere umiliata, a VOI, che pieno del le verità della prima, avete consacrati tanti pensieri ad assi curare, e stabilir la seconda; onde può dirsi che il vostro trono è il punto più luminoso della loro unione, che sola può formare la felicità degli stati. Posta questa mia fatica, se non è degna dipresentarsi all'illuminatissima vostra mente, non dispiacere al vostro cuore, che non sdegnerà di riconoscere in esta una significazione dei sentimenti del mio, penetrato del la più viva gratitudine al vostro real patrocinio, e alle copiose beneficenze, auspici sotto de’ quali è nata, e condotta alla luce, e ai quali desidero con tutto lo spirito che sempre più raccomandi l'autore. Non avvi forſe negli uomini un sentimento più costante e universale del desiderio di arricchire. L'uomo tende incessantemente a procacciarsi, ed assicurarsi i mezzi necessari a sostenere e a rendere tranquilla e comoda la vita. La natura, che ha voluto che ciò concorra alla sua felicità alla quale con tanta forza lo stimola, gli ha inserito di sua mano nel petto questo vivissimo ardore; acciocchè se dalla propria industria riconosce egli il sostentamento e gli agi della vita, riconosca però dalle provvide mani di lei l'eccitamento e l'efficacia di questa industria medesima. Questa fiamma sempre operosa accende talvolta un cuore angusto che non ha altro oggetto che se medesimo, o un piccolo e ristretto sistema di persone. Talvolta pero trionfa sovranamente in un animo generoso, a che stima di se minori tutte le mire che non sian vaste e sublimi. Patria, nazione, pubblica felicità, interessi dell’uman genere ecco i grandi oggetti, che egli ha sempre davanti; ed ecco intorno a che si aggirano i lumi del politico pensatore; ecco ciò che forma le vigilie dell’uom’di stato. Quindi è che sempre nuove vie si spianano al commercio, nuovi mezzi si studiano per facilitarlo, nuovi metodi si ritrovano per dilatarlo. Questo ardore medesimo ha fatto sì, che gli uomini vadano sempre inventando un nuovo contratto, o ai ritrovati già prima diano nuove sempre e più estese forme. Chi avrebbe mai detto nei primi tempi delle nascenti civili società, quando altro contratto non conoscevasi che quello di dare i grassi capi dell’armento in cambio degli scelti frutti del campo, che vi sarebbero stati un giorno uomini, che avrebbero ridotte a contratto non solo una cosa esistente, sicura, e da esli ben conosciuta, ma la cosa non esistenti ancora, le incerta, la soggetta al caso, la sconosciute? O chi persuaderebbe alle numerose carovane dei mori che vanno nel fondo dell’Affrica a far coi negri il cambio del sale colla polvere d’or , che sonvi e lecici, e un vantaggioso contratto, che si appoggia solamente all’aleatorio pericoloso e al bizzarro capriccio della fortuna? Il moro che mette il suo sale in un mucchio e lo va sminuendo, se gli pare che il negro con cui commercia, non abbia ammassata in sufficiente quantità l'a preziosa polvere; riderà di coloro che si espongono a gravi perdite delle loro sostanze affidandole all'incertezza della sorte. Eppure, e vi e questo contratti aleatorio, e puo esser ridotti a quella uguaglianza che dopo determinati, o dalle leggi, o dalla consuetudine i prezzo della cosa è necessaria a render giusto qualunque contratto. A fissare il limite e il grado di uguaglianza in tale contratto aleatorio giova maravigliosamente quell’utilissima scienza che arditamente calcola le probabilità e si rende soggetti, per così dire, i sempre vari accidenti della fortuna. Questa scienza è stata chiamata finora aritmetica politica perchè è stata ordinata soltanto a ricercare l’utilità e la miglior sorte a 2 del commercio e di chi lo esercita, e ad apprestare dei nuovi dati a chi veglia alla pubblica felicità . Ma io crederò di potere con parità di ragione chiamarla “aritmetica del giusto” ed asserire che se il gran principio che fra il certo presente e l'incerto avvenire trovasi una vera proporzione è stato quel seme fecondo che ha germogliato al pubblico bene, è quello ancora che dee produr nulla meno la sicurezza e la tranquillità nell’animo di chi sulle tracce dell’onesto e del giusto voglia istituire tale contratto. Non farà però inutil cosa se io cercherò di spogliare della austerità e difficoltà del calcolo una sì vantaggiosa teoria e di ridurla a principi generali e semplici, facendo su di essi opportunamente alcune riflessioni ed applicandone le regole al contratto aleatorio, che verrò con la chiarezza e brevità maggiore che a me sia possibile investigando. Mi lusingherò quindi di aver sempre pronta una misura, più o meno esatta, a norma che eſli più o meno ne siano suscettibili, che ne determini l’uguaglianza, é una bilancia che ne pesi l'equità e la giustizia. Contratto aleatorio io chiamo quel contratto nel quale si fa acquisto di un diritto, o vogliam dire di una speranza (res sperata – emptio spei, emptio rei separatae), il buon esito della quale è affidato all’incertezza della sorte (cfr. Grice, “Intenzione e incertezza”). E quì si osservi che si può nel medesimo contratto considerare l’aleatorio relativamente ad ambedue i contraenti. (parola chiave: “ambedue i contraenti”). Quello, il quale talvolta per far guadagno di una tenue somma di denaro (a) ma certa, vende la speranza incerta di un gran guadagno, sottopone all'aleatorio tutto quel di più che avendo buon esito la ceduta speranza, supera la tenue somma in cui la cambio. L'uguaglianza che dopo fissato dalla legge o dalla consuetudine il prezzo della cosa ricercasa nel contratti perchè sia giusto, vi è ſempre, quando esaminata la cosa che ne forma l'oggetto, ritrovisi in (a). Vedasi più sotto ove si parla del contratto di alii curazione un vero senso egualmente pregevole ciò che danno nel contratto e reciprocamente ricevono ambedue i contraenti. Or chi non vede che l'avere un diritto o una speranza è molto più valutabile che il non averla? E se ciò è vero, è manifeſso che questa speranza puo dirsi avere un vero e real prezzo nel commercio degli uomini. Ma siccome tuttociò che ha prezzo pui avere un prezzo diverso, questa speranza ha anch'essa la sua diversita e puo per conseguen prezzo calcolarsi in guisa da poterne trovare il *rapporto* a quello per cui alcuno desideri di farne acquistom che è quanto dire potrà ridursi ad una vera uguaglianza. Stabiliscasi adunque l’incontrastabile fondamenza il suo tale TEOREMA. Nel contratto aleatorio vi puo essere essere quella uguaglianza, che gli caratterizzi per giusti . ng Too vorrei potere esporre con la maggior precisione e chiarezza la serie delle idee che conducono a fissare il canone per cui si puo in un contratto aleatorio rinvenire l'uguaglianza di cui si parla. Il soggetto è molto arduo e per esporlo nel dovuto lume e farne poi l'opportuna applicazione è neceſſario fare di tratto in tratto molte importanti osservazioni che o sviluppino il principio fondamentale o vagliano a dilucidarlo. E prima di tutto io intendo sempre per nome di prezzo tutto quello o sia certo e determinato, o sia incerto anch'esso o per l'evento la quantità che si espone per far l’acquisto di una speranza. Premio io chiamo quello per cui ottenere si espone il prezzo così definite. Conviene pero osservare che per nome di premio si può intendere , e l'oggetto solo a cui si aspira e il medeſimo più il prezzo che si è o esposto o sborsato per acquistarne la speranza. Ciò ben'inteso parmi che per rintracciare questa uguaglianza sia d'uopo conoscere i o per 8 la diversa speranza. Di due elementi viene egli composto. Tanto è più stimabile una speranza quanto ha un'oggetto più pregevole; e questo è ciò che io intendo per valore intrinseco; ma tanto anche è più stimabile per altra parte quanto è più probabile che ha un esito favorevole, e questo col nome di estrinseco valore vuolsi significare. La probabilità è maggiore o minore secondo che è maggiore o minore il numero di casi favorevoli all'evento rispetto al numero de' sinistri; di modo che se si facesse una tavola che gradatamente, e per serie e sprimeſle questi rapporti si avrebbe una vera tavola delle probabilità. Conſiderando però ciascun evento separatamente e senza rapporto ad altri; la probabilità che esso liegua, vien espressa dal *rapporto* del numero de’ casi a lui favorevoli alla somma dei favorevoli insieme e de’ contrari. Poichè se sianvi in un urna 10 palle bianche e 10 nere; per definire la probabilità dell'estrazione di una palla Bianca fa d' uopo conſiderare le 10 bianche in massa colle nere; giacchè in massa sono quando si fa l'estrazione dall'urna. L'istesso avviene di ciascun evento che sia l’oggetto di una speranza; giacchè deve distaccarsi dalla massa che è il cumulo degli eventi favorevoli e dei sinistri che stan raccolti nell’urna sovrana regolatrice della umana vicenda. Se dato un prezzo con cui si voglia fare acquisto di una speranza, il numero dei casi favorevoli al buon esito sia uguale a quello dei sinistri, è troppo chiaro che a volere la ricercata uguaglianza e necessario che il valore intrinseco della speranza o sia dell'oggetto della medesima, sia *doppio* del prezzo che si espone per acquistarlo; poichè in tal guisa la metà del valore intrinseco resta compensata dal prezzo che si è pagato; l'altra metà, che sola è un vero guadagno è uguale al prezzo medesimo che si è espoſto all'aleatorio; e così deve essere essendo nel caso nostro uguale la probabilità del buon esito e dell’infausto. E non altro appunto significa quella regola infallibile secondo la quale è sempre 10 il valore (a) dell’aspettativa, quando in ugual numero siano i casi favorevoli all’esito bramato e i sinistri. Che se si accresca il numero de’ casi sinistri; siccome scema percið il valore estrinſeco della speranza, converrà che si accresca *proporzionatamente* l’intrinseco accrescendo il valore dell’oggetto medesimo. Per maggior chiarezza di cio suppongasi il prezzo con cui si compra la speranza uguale ad un dato numero e suppongasi il numero dei casi favorevoli uguale a quello dei sinistri. In questo caso la probabilità del buon esito e uguale a quella dell'infausto e la speranza si elide col timore, e per conseguenza il suo valore estrinſeco puo considerarsi = 0; verrà dunque in confronto il solo prezzo col premio; che però queste due quantità dovranno eſſere uguali, benchè il valore intrinſeco della speranza, o sia il premio medesimo preso in una più estesa significazione 111 (a) L’aspettativa non è altro che il grado di probabilità che uno ha di ottenere un’intento fortuito. II sia doppio del prezzo, poichè una metà del premio medesimo non si può chiamare lucro, restando compensata col prezzo già sbor fato ed esposto all’aleatorio. Stabilito adunque questo caso, come per punto fisso dal quale si parte la serie dei valori, è chiaro ugualmente che se il numero dei sinistri casi sia maggiore o minore di quello dei favorevoli, di tanto la probabilità del buon esito a fronte della probabilità dell'infausto farà a proporzione maggiore o minore di zero nel formare il valore totale della speranza; lo che non altro significa, se non che ad avere l'uguaglianza necessaria converrà che a proporzione l'oggetto della speranza superi nel primo caso il prezzo con cui si acquista e nel secondo sia ad esso inferiore, e quindi li puo universalmente stabilire. Nel secondo teorema, i valori delle speranze sono in ragion composta del valore intrinseco dell’oggetto o cosa o reale sperato (res sperata), o dell’spettativa. Ne terzo teorema, nel contratto aleatorio allora visarà l'us 1. Il contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando il prezzo che espone uno de contraenti stia al premio, come il numero dei casi favorevoli a lui, alla ſomma dei favorevoli e dei contrari. Notisi che quì per premio s’intende non solo la porzione che si lucra, ma di più il prezzo istesso che si è aleatorio, aleatato. E siccome, per quanti siano i prezzi dei contraenti, deve verificarsi in ciascun prezzo questo rapporto al premio, ne verrà che i prezzi staranno fra di loro come il numero dei casi favorevoli ad uno dei contraenti di viso per la somma de favorevoli e de’ contrari al numero de favorevoli a quello con cui si istituisce il paragone, diviso anch’esso per la somma dei favorevoli e dei contrari: e così dicasi di quanti siano i contraenti. Da questo teorema si deduce il seguente corollario. Nel contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando i prezzi dei contraenti ſtiano fra di loro , come i numeri dei caſi ri ſpettivamente favorevoli . Dagli enunciati Teoremi chiaramente ap pariſce, che per bene applicarli agl' indivi dui caſi, è neceſſario eſaminare maturamente , qual ſia il vero valore del prezzo con cui ſi compra la ſperanza ; quali ſiano i veri caſi favorevoli, e ſiniſtri; e fiflarne il numero con quella eſattezza che convenga alla naturą del contratto in queſtione. Conſiderando at ; tentamente la natura e le leggi dei diverſi contratti di azzardo , mi è parſo che preſen tino una facile e natural diviſione , per la quale in tre ſeparate, e diſtinte claſſi li pof ſono comodamente diſtribuire. Imperciocchè dalla loro diverſa natura , e dalle diverſe leg gi che gli coſtituiſcono , ne naſce una diverſa maniera di fiſſare i rapporti del numero dei caſi favorevoli, a quello dei ſiniſtri . A tre fi poſſono in fatti ridurre i metodi per fillare 1 14 gli accennati rapporti, e quindi collocare in una di tre diſtinte claſli ciaſcun contratto di azzardo . Primo metodo è quello per mezzo del quale conſiderata la natura , e le leggi del contrat to rilevaſi il ricercato rapporto dal numero delle cauſe e delle ragioni, che poſſono in fluire ſul buon eſito della ſperanza , numero determinabile , e ragioni certe , e ſicure . Il ſecondo è quello nel quale per la natura del contratto , non ſi può fondare il rapporto , ſe non che ſulla ſperienza , e ſulle oſſerva zioni eſatte perd , e molte volte replicate ; e ſopra cagioni incerte , e variabiliffime per le quali il numero dei caſi favorevoli e dei fi niſtri, non può mai eſſer certo , determinato , e ſicuro . Terzo metodo è quello per cui ſi appoggia la indicata proporzione , parte alla conſiderazione di leggi certe e ſicure , e par te alla ſperienza del paſſato , e a circoſtanze incerte ', e di numero indefinito . Nei contratti adunque della prima fpecie , conoſciutene le leggi, fiffato il numero delle cauſe che poſſono influire ſull'oggetto del 1 4 13 contratto , ed eſaminate le diverſe maniere nelle quali poſſono combinarſi, ſi avrà un eſatta ed infallibile notizia del rapporto dei caſi favorevoli ai finiftri . La ſcienza delle combinazioni , e permu tazioni è ſtata nel noſtro ſecolo così illuſtra ta , e dall ’ Ugenio , e dal Bernullio , e dal Moivre, ed è così vaſta ed eſteſa , che vo lendo io trattarne a lungo, non potrei per l'una parte non oſcurare ciò che è ſtato detto con tanta preciſione, e ſicurezza, e non fa prei per l'altra accennar poche coſe , che non laſciaffero un neceffario deſiderio di molte più , intorno alle quali l'intertenermi , oltre paſſerebbe di gran lunga il fine, e l'idea di queſto faggio ; e tanto più , che ſenza la fe verità del calcolo più aſtruſo non ſi potreb bero per avventura trattare tutti i caſi par ticolari . Nel venire però eſaminando la na tura dei diverſi contratti, ed applicando ad effi li ſtabiliti Teoremi , ſi vedranno di trat to in tratto i principj di queſta ſcienza ſvi luppati , ed indicata la maniera di applicarli ad alcuni caſi particolari, ſiccome con l'uſo ! 16 rétto , e ſicuro del calcolo ſi poſſono adattare a tutti i caſi i più compoſti, ed aſtruſi . Il gioco di pura ſorte è certamente uno dei contratti che alla prima claſſe debbonſi riferire . Mi è noto quanto ha ſcritto il cele bre Giacomo Bernulli , per dare le regole ficure onde fiſſare nei giochi di fortuna il numero dei caſi favorevoli e dei contrari , i vantaggi reſpettivi dei giocatori , e il pre mio che può uno eligere, dopo incominciato il gioco per ritirarſi ſenza rinunziare alla miglior condizione , in cui l'hanno già poſto alcuni colpi favorevoli . So che eſſendo la probabilità , o ſemplice, o compoſta , ne ha queſto gran Matematico ridotta la miſura all'interſezione di una linea retta con una curva logaritmica , o di queſta con una pa rabolica , e così ſucceſſivamente aſcendendo alle curve dei gradi più alti . Ma laſciando da parte i profondi calcoli , e i miſteri della fublime Geometria , i quali però ben pene trati ſcuoprono il profondo e inventore in gegno di queſto grand' uomo , piacemi in quella vece di eſaminare ſemplicemente ſen 17 za di effi la natura e le leggi del gioco , per riconoſcere ſecondo l'accennato metodo , come ſi poſſa in eſſo e dare e ſcoprire l'u guaglianza fra i giocatori , e in tal guiſa applicare a queſto contratto gli enunciati univerſali Teoremi . Il gioco di pura ſorte è una ſpecie di con tratto , nel quale due o più perſone, dopo di aver convenuto di certe leggi, e condizio ni , ſi diſputano un premio , che ſi rilaſcia a chi ſarà più felice , per rapporto a certi acci denti l'effetto dei quali non dipende per ve run modo dalla loro induſtria . E quì cade in acconcio fare una rifleſſione comune a tutti i contratti di azzardo . Il dire che una coſa accada caſualmente , non altro ſignifica, ſe non che la cagione ne è a noi ſconoſciuta ; e che non vi abbiamo alcuna volontaria influenza . Per altro quan do fiegue in natura un determinato effetto , qualunque ſiaſi, è certo che neceſſariamente dovea ſeguire . Che due dadi gettati ſu di una tavola , ſcoprano piuttoſto un numero , che un altro ; noi ne ignoriamo la cagione b 18 nell'atto ſteſſo che ne ſegue per le noſtre mani medeſime il tratto . E perd ugualmente vero , che dato quel tal moto alla mano che gli getta , dato quel tal grado d'impeto , e non più nè meno , data la mole dei medefi mi , e il piano ſu cui ſi aggirano , devono neceſſariamente preſentar quel tal dato nu mero e non altro . Così dicaſi dei giochi di carte le combinazioni delle quali dipendono dalla diverſa maniera di meſcolarle , e di dividerle alzandone una parte di eſſe fovra il reſtante ; anzi pure non ſolo del gioco , ma dicaſi, come ſi avvertì di tutti i contratti di azzardo , e generalmente di qualunque evento fortuito ( a ), (a) Non ſolo ne' contratti ove ciò che ſi perde o che ſi guadagna è riducibile ad una miſura diſtinta in gradi coſtanti ed eſattamente marcati , ma anche in tutto il tenore di una vita diretta a un fine fpe rato ma incerto ha luogo il prezzo ed il premio . Le fatiche , gl'incomodi , le priyazioni dei piaceri formano il primo . Nella gloria , nell'autorità , negli onori , nelle ricchezze è ripoſto il ſecondo , che molte volte defrauda le meglio fondate ſperanze , o almeno ad effe perfettamente non corriſponde; onde può dirlig . 19 Varie ſono le ſpecie principali dei giochi di pura ſorte , ſiccome varie ſono le maniere di diſputarſi il premio.O due giocatori eſpon gono all'eſito della forte le loro reſpective porzioni di depoſito con la legge che deb baſi tutto a quello rilaſciare, il quale felice mente s'incontra prima dell'altro in un fa vorevole accidente , che ambi ſi ſono propoſti d'incontrare ; o a quello , che in ugual nu mero di faggi, ſotto le medeſime leggi , di pendentemente dalle medeſime condizioni , 6 2 che così in queſte ſecrete e non ftipulate aſpettative come in quelle per cui s'inſtituiſcono e ſi celebrano i contratti,domina ugualmente quella inſtabile divinità creata dall'ignoranza della conneſſione delle cagioni delle coſe , e del compleſſo delle circoſtanze necef ſarie ai fortuiti eventi , ma che in tutti i caſi ſuol chiamarſi ugualmente Saevo laeta negotio Et ludum inſolentem ludere pertinax . Biſogna però rammentarſi ſempre che le parole che eſprimono gli attributi della fortuna , o del caſo , quando ſono uſate dal Filoſofo , hanno un fenſo di verſo da quello in cui le uſa il Poeta che simboleg gia , e il volgo che non ragiona . << tro , così dire nega incontra quelle combinazioni che preſen tano una maggior ſomma di quegli elementi ond'è compoſto il gioco , e alla quale è at taccata la vincita del medeſimo. Oppure il contratto del gioco è tale che un ſolo dei giocatori s'impegna in un dato numero di ſaggi, e ſotto certe condizioni , d'incontrare un dato favorevole accidente o ſemplice ſia di altri ' compoſto , e quale non incontran do , la ſorte s'intende aver deciſo per l'al la ſperanza di cui per tiva , non ha altro oggetto che l'eſito infe lice delle mire dell'avverſario , non obbli gandoſi intanto a tentare poſitivamente ve run colpo di gioco . Nei priini due caſi egli è chiaro che devo no i giocatori azzardare una egual fomma, o prezzo , altrimenti reſterebbe manifeſtamente tolta di mezzo la neceſſaria uguaglianza . E' chiaro che allora il prezzo con cui ſi acquiſta la ſperanza è eguale alla metà del valore dell' oggetto ; poichè il primo altro non è che la porzione di depoſito di uno dei giocatori e il ſecondo è la ſomma delle due porzioni 2 1 uguali componenti il totaledepoſito .Ma co me trovare in queſto caſo il numero dei caſi favorevoli uguale a quello dei ſiniſtri come pure eſige la ſtabilita Teoria ? E certamente ſe fi conſiderino i caſi favorevoli , ei con trarj diſtintamente in ciaſcuno dei giocatori ; non ſi potrà fiſſare nè ragione di uguaglianza nè altra qualunque . E' queſta una evidente verità , ſe ben ſi conſiderino le leggi di queſto gioco , per le quali dipendendo la ſorte di un giocatore , non dai ſuoi colpi ſolamente ma da quelli ancora dell'avverſario , i ter mini della proporzione ſaranno ſempre rela tivi , e per conſeguenza variabili . Eſaminata però più maturamente la natura del gioco di cui ſi tratta , fi dee riflettere , che il nu mero dei caſi favorevoli a un giocatore , è compoſto non ſolo dei caſi propizi a lui di rettamente , ma dei caſi altresì all'avverſario contrarj ; e al contrario il numero dei finiſtri , altro non è che la ſomma degl'infauſti a lui , e dei favorevoli all'avverſario . Ma quando fi giochi con condizioni eguali , queſte due fomme fono eguali : dunque anche in queſto 22 caſo può reſtare verificato il canone della ſtabilita proporzione , e i prezzi ſtare fra loro come i caſi favorevoli ai finiſtri . Da ciò ne ſegue , che ſe due giocatori proponganſi di incontrare la medeſima favo revole combinazione o la medeſima ſomma di accidenti ; ma che uno voglia far più ſaggi del gioco , o cercar con più mezzi quelle combinazioni che preſentino maggior ſomma degli elementi del gioco , nella guiſa di ſopra accennata ; l'altro in tal caſo dovrà eſami nare di quanto il numero delle combinazioni a ſe favorevoli reſti fuperato dalle ſiniſtre , ed eligere che la porzione di depoſito dell' avverſario ſuperi in tal proporzione quella che egli conferiſce nel gioco . Sia concertato per eſempio , che abbia il premio del gioco quello che fa più numeri con i dadi , ed uno voglia gettarli più volte , o in ugual numero di volte gittarne un mag gior numero , è manifeſto , che dalla natura , e dalle leggi di queſto gioco , ſi potrà con le note regole delle combinazioni ricavare in che proporzione debba egli eſporre all'az 23 zardo ſomma maggiore . Che ſe poi trattiſi della ſeconda ſpecie di ſopra accennata , che è allor.quando uno ſolo dei giocatori ſi eſpone ad incontrare una o più favorevoli combinazioni , in un dato numero di faggi, e ſotto certe leggi , e l'altro guadagna full infauſto eſito dell'avverſario , ſenza tentare egli di per ſe alcuna forte di gioco , è più difficile allora , ed è più operoſo il fiſſare gli opportuni termini della noſtra proporzione . L'intenzione e l'oggetto dei giocatori in tal caſo può eſſere di eſporre all'azzardo una ugual porzione , o di eſporla diverſa . Nel primo caſo il giocatore che intraprende , e faminata la natura del gioco , e le leggi chę a lui propone l'avverſario , potrà ricavarne il numero dei caſi favorevoli e quello dei ſiniſtri, e dimandare quelle condizioni nelle quali queſti due numeri ſi uguaglino: nel ſe condo conviene che dimandi quelle condi zioni nelle quali , il numero dei favorevoli caſi, ſuperi tanto quello dei contrari , di quan to la ſua porzione di depoſito ſupera quella dell'altro , o al contrario . Intraprende uno 14 di gettare un dado in maniera che ſi ſcuopra la faccia la quale moſtra il numero 6. Se lo deve fare in una ſol volta , ſiccome ha cin que combinazioni contrarie , e una ſola fa vorevole , converrà , che l'altro azzardi una ſomma cinque volte maggiore , altrimente la proporzione reſta alterata . Che ſe trattiſi di azzardare una fomma eguale da entrambi i giocatori , e ſi voglia più volte ricominciare , erinovare il gioco , converrà oflervare quanti tratti di dado ſiano neceſſarj per fare che il numero dei caſi favorevoli , ſia uguale a quel lo dei contrarj , del che , e relativamente al noſtro addotto caſo , e ai fimili , ne da una eſtefa tavola il gran Bernulli alla propoſizio ne X. del libro primo del ſuo trattato inti tolato ars conje &tandi; ove dimoſtra un ingan no che in fiſſare queſta proporzione è facile a pigliarſi da chi eſamini queſta ſpecie di gioco ſulla prima apparenza , ſenza internarſi profondamente nelle fue leggi . Diffi, quan do fi voglia più volte ricominciare , e rino vare il gioco , per le ragioni addotte dal Ber nulli nel loco citato ; giacchè fe non ſi ri 25 novi ſucceſſivamente , egli è evidente che chi deve con un ſol dado ſcoprire la faccia del numero 6. per eſempio , ed azzardare una ſomma eguale a quella dell'avverſario , do vrà chiedere di gettare il dado tre volte ; e cid col patto che non s'intendano in queſto numero compreſe quelle volte in cui ſi vol taſſe di nuovo una medeſima faccia del dado già ſtata ſcoperta . Ciò che ſi è detto di due giocatori, dicaſi di più , e ſi conſiderino diſtintamente tutti i contratti che fa ciaſcuno dei giocatori , e l'azzardo a cui eſpone ciaſcuno la depoſitata porzione , e ſi vedrà che non reſta punto terata la noſtra teoria , benchè coll’eſporre una determinata ſomma ſi poſſa guadagnare la medeſima moltiplicata per il numero dei giocatori ( a ) . Anzi è regola univerſale in tutti i caſi compleſſi di gioco , ridurli ai ſem plici dei quali è compoſto , ed eſaminare in ciaſcuno di effi le ſovra ſtabilite maſſime. Dalle medeſime troppo chiaro appariſce (a) Vedi il Corollario del Teorema III . 26 che i vantaggi , che ha in alcuni giochi il banchiere , per eſempio nel faraone quello dei doppietti, quello dell'ultima carta , ed altri che ha ſecondo i vari uſi dei paeſi ove giocaſi tolgono l'uguaglianza , perchè tur bano la fiſſata da noi proporzione; poichè nei caſi medeſimi nei quali il premio che dà il banchiere è uguale alla ſomma azzardata dal puntatore, il numero dei caſi favorevoli al primo è maggiore del numero dei favo revoli al ſecondo ; o in ugual numero di caſi favorevoli il ſecondo azzarda più del primo . Si pretende nonoſtante , che ſe ſi conſideri, non la relazione che ha ciaſcun giocatore in particolare al banchiere ma bensì tutto il ſiſtema del gioco , vi ſiano molti rifleſſi che giuſtifichino queſto vantaggio di condizione . Una ſplendida ſomma ſottopone egli alla cie ca ſorte , e ſi obbliga di laſciarla ſempre in pericolo . Il puntatore per lo contrario può voltar le ſpalle ſdegnoſo a quella avverſa for tuna , che tenta in vano di placare ; o aven dola provata propizia può aſſicurare i ſuoi doni dalla capriccioſa ſua volubilità . Oltre 1 1 27 di ciò la ineguaglianza delle ſomme eſpoſte dai vari giocatori , delle quali alcune per dendo può il banchiere rimanere ftremo , ed eſauſto , ſenza ſperanza di tirar profitto dalla incoſtanza della fortuna ; le altre ſe vin ce appena gli recano un tenuiſſimo guada gno ; la non leggiere fatica per ultimo del banchiere medeſimo poſſono baſtevolmente render leciti i vantaggi che egli ha nel liſte ma del gioco . Io preſcindo dall' eſaminare quale , e quanta conſiderazione eſigano le accennate circoſtanze . Due coſe ſolo aſſeri ſco . E che alcune di queſte ſono quantità non già coſtanti ma variabiliſſime, eſſendo relative a circoſtanze facilmente alterabili; e che conſiderato il gioco in ciaſcuno a par te dei puntatori relativamente al banchiere , come par certamente debbaſi conſiderare, la alterazione della proporzione ſtabilita è mol to notabile in iſvantaggio dei primi , e in manifeſta utilità del ſecondo . Non voglio perd omettere , che eſſendo ſta ta eſaminata con eſatto calcolo la ſerie dei vantaggi del banchiere per ogni pofta fem 1 28 plice , cominciando dalla ſuppoſizione che vi ſiano 52. carte fino a quella che ve ne ſia no quattro due delle quali ſiano dell'iſteſſa figura, ſi è rilevato che la media , è il 5 . per 100. Ma in tutto un giro quando l'avi dità dei giocatori fa che per mezzo dei pa roli o delle paci la forza del gioco ſi traſporti almeno verſo l'ultime 24. carte , allora la media diventa il 9. incirca per 100. Ep pure le circoſtanze che eſigono compenſa zione non variano in modo da efigere que Ita differenza ( a ) . Non ſi ha dunque nell'attuale ſiſtema del faraone la vera maniera di trovare la com penſazione delli ſvantaggi del banchiere . Bi ſognerà dunque per ottenerla , o fiſſare il nu mero delle pofte: 0 por dei termini ſopra , e fotto de' quali non poſſa ſalire o ribaſſarſi la poſta : 0 tentar di fiſſare più che fia poſſibile una ſomma relativa alle diverſe poſte la quale (a) Si noti che il vantaggio di ſopra indicato del ban chiere ſi ripete tante volte quante poite fi fanno , onde ſi vede in un ſol giro quanto ſia enorme ed ecceffivo . 29 effendo un di più della poſta medeſima, ma conoſciuto , non altererà le giuſte proporzioni fra il prezzo ed il premio : o diſperare per ultimo di poter mai annoverare fra i con tratti giuſti il gioco del faraone. Sogliono comunemente dalle fagge leggi vietarſi i giochi di pura ſorte, come quelli che per una certa fatalità luſinghiera , ſi uſur pano il tempo dovuto alle pubbliche cure , alle dotte occupazioni , ed al domeſtico reg gimento delle famiglie , alle quali recano sì di frequente irreparabile ruina ; che non è già sì di rado, che una carta di gioco , o un ſol colpo di dado decida della defolazione, e dell' inopia di molti infelici . Si aggiunge a queſto , che la dura legge del biſogno , e la ſevera faccia dell'avverſa fortuna dettano all'inaſprito giocatore le arti meno oneſte , e i mezzi più indiretti nel gio co medeſimo ; talchè ſi verificano di troppo i celebri verſi di Madama Deshouliers . Le deſir de gagner qui nuit &jour occupe Eft un dangereux aiguillon ; 1 1 1 1 30 Souvent quoique l'eſprit, quoique le coeur foit bon , On commence paretre dupe , On finit par etre fripon . E quanto il gioco di pura ſorte ſia ſtato ſempre deteſtato lo conoſcerà chi oſſervi le Leggi Romane al tit. De aleatoribus , e nei digeſti, e nel codice , e legga i dotti commenti degl' interpreti sù i medeſimi, e vedrà che ſi è ſempre riguardata come oggetto di compal ſione e di orrore la miſera condizione di que gl’incauti quos praeceps alea nudat . Io però e nel gioco , e in tutti i contratti di azzardo eſamino la giuſtizia per rapporto ſoltanto alla ſovra eſpoſta neceſſaria ugua glianza , preſcindendo affatto da qualunque carattere che poſſa rendere i medeſimi, o conformi, o oppoſti alle provide leggi , e ai retti coſtumi. Similiſſima al gioco è un'altra ſpecie di contratti d'azzardo , che chiamaſi comune mente il lotto de go. numeri ; cinque dei quali ſi eſtraggono da un vaſo , e decidono della ſorte di chi ſulla ſperanza , che eſcano 31 dall'urna miniſtra della fortuna , azzarda una data ſomma di denaro . Troppo ſon note le leggi di queſto contratto , e troppo è facile il conoſcerne e combinarne gli accidenti , per poter francamente aſſerire che non vi è forſe contratto di azzardo nel quale , e più nota bilmente e più ſolennemente la ſtabilita pro porzione reſti alterata . Sempliciſſimi elemen ti formano il ſiſtema di queſto contratto , e una ſuperficialiſfima cognizione di calcolo è baſtevole per far conoſcere , che ſebbene una tenue ſomma di denaro può cambiarſi in una ſplendida maſſa di oro , pure a fronte di un caſo favorevole ve ne ſono tanti dei ſiniſtri, che rieſce aſſai più ſuperata la probabilità di gua dagnare da quella di perdere , che non la ſomma azzardata dal promeſſo premio per ricco e grande che poſſa parere . Per ſalvare la giuſtizia di queſto gioco , non giova il dire , che conſentendo i gioca tori con piena e perfetta libertà a queſta diſuguaglianza, queſto baſta per rendere le gitima quella convenzione , che ſarebbe al trimenti tanto leſiva . Queſto argomento pro * 32 verebbe troppo in genere di contratti , e per ciò deve conſiderarſi di neſſun vigore. Sareb be queſta maſſima l'appoggio di moltilli mi contratti ingiuſti, e la difeſa di infiniti illeciti guadagni . Oltre di ciò la maggior parte di quelli che giocano al lotto neppure ardiſce di ſoſpet tare , che ſiavi a loro ſvantaggio una sì di chiarata ſproporzione; anzi moltiſſimi rin graziano come generoſa e prodiga quella mano che premia i vincitori , come ſe foſſe un gratuito dono ciò che non è ſe non una piccola parte di un debito . Più ſolida difeſa potrebbe recarſi riflettendo doverſi in queſto contratto dal padrone del lotto impiegare molti miniſtri, e fare molte e gravi ſpeſe, per lo che può eſigere ragionevolmente un riſarcimento ; ma tutto ciò ancora non baſta a rendere giuſto queſto contratto fe ad altri termini e ad altre maſſime non ſia ridotto . Troppo anche più enorme era la diſugua glianza , prima che con lo ſtabilito aumento foſſe migliorata la condizione dei giocatori ; condizione però , che tuttora è aſſai inferio re a quella del padrone del lotto . / 33 Quì però fa d'uopo dileguare un inganno comune a moltiſſimi che hanno le vedute corte , e limitate dalla prima ſuperficie delle coſe . Altro è l'aſferire , che il lotto conſide rato ſemplicemente come un contratto è in giuſto ; altro è il dire che un Principe giuſto non poſſa ammetterlo nel ſuo ſtato , e debba toglierlo affatto , e ſradicarlo come un mal nato germe della rovina di tanti ſconſigliati . Il lotto può conſiderarſi come un tributo , che viene impoſto a chi ſpontaneamente con fente di pagarlo ; cangiandoſi così in vantag gioſo al pubblico , ciò che potrebbe eſſer tan to pernicioſo al privato . Non ſi può deſcri vere l'ardore che muove ciaſcuno a cercare in queſta guiſa un propizio ſguardo della for te ; nè ſi può immaginare quanto ſia pungen . te lo ſtimolo che ſpinge, e inquieta chi ri fiette che con una tenue ſomma di denaro , che azzardi , può guadagnare di che ſoſten tare una languente e numeroſa famiglia , o pur talora dilatare i confini del proprio luf ſo , o accreſcer anco tal volta un nuovo peſo agl’inoperoſi forzieri . Quindi è che tanti , e 34 tanti ſi affollano a tentare nel lotto la ſorte (a ). Penetrati dall'idea, e ſedotti dalla luſinga di ( a) Non può negarſi per altro , che riccome tutte le cofe hanno un grado di valore e di eſtimazione ri Spettiva che naſce dall' uſo che può o vuol farne chi ne è padrone : può conſiderarſi ſotto l'iſteſſo aſpetto anche il denaro . Oltre il ſuo valor generale che na. ſce dal rapporto che egli ha alla maſſa delle coſe che ſono in commercio , può dirſi che un altro egli ne abbia privato e ſpeſſo mutabile , che naſce dalla qualità e quantità deibiſogni, o reali , o di opinione che à nelle date particolari circoſtanze, chi lo poſſiede; Può darli adunque che ciò che ſi azzarda al lotto , levato da una gran quantità , fia una piccola por zione di eſſa , relativamente ſuperflua; onde il ſuo valore ſia ſtimato sì tenue a fronte di una ſomma ragguardevole che rappreſenta un gran numero di comodi e di piaceri benchè fperabile ſolo per un piccoliſſimo grado di probabilità , che detto valore nella eſtimazione di chi lo gioca ſia conſiderato come zero , o come una quantità più o meno ad eſſo approf. fimante , formandoſi perciò , per così dire , una nuova e riſpettiva proporzione, ſecondo la quale il vantaggio molte volte ſarebbe dalla ſua parte . Queſto ſe non baſta , come ognun yede manifeſtamente , a render giuſto il contratto ſerve a render qualche ragione del traſporto , che hanno a tentar la forte in queſto gioco tanti che pur ne fanno ben conoſcere le condizioni , e calcolar le ſperanze . 35 quel bene che ſperano , non penſano a mi. ſurare i gradi della ſperanza medeſima; e il molto oro che già poſſeggono col penſiero , getta ſugli occhi loro un lampo che abbaglia talvolta anche il più ſaggio filoſofo , e il più freddo calcolatore. Quindi un tale impeto non conoſce freno che poſſa reggerlo , e non legge che poſſa vincerlo . Se un Principe tol ga dal proprio ſtato queſto oggetto dei co muni voti , la ſconſigliata avidità ad onta delle più fagge leggi, e deludendo le più ve glianti ſollecitudini ſi precipiterà in altri ſtati, che ſi arricchiranno a ſpeſe di quello onde il lotto ſia proibito ed eſcluſo . Unſaggio Principe adunque che può far ar gine a queſto torrente , accid non sbocchi al di fuori; deve procurare che ſi ſcarichi tutto a pubblico vantaggio , e che quella porzione di ſoſtanze che fagrificano follemente alla loro avidità i membri del corpo di cui egli è il capo circoli per il medeſimo, e poichè i pri vati ſi eſpongono a riſentire dello ſvantaggio , neſſun nocumento però ne venga alla Repub blica . Così facendo il faggio Principe , e non 1 36 fi attira la taccia di ingiuſto , e merita tutta la lode di prudente , di politico , di difenſore e cuſtode della pubblica felicità . Di queſta verità ne conoſcono per una fe lice eſperienza il frutto in più ſpecial maniera quei popoli , che hanno la ſorte di eſſere go vernati da Principi umani e benefici, che per l'uſo che fanno del loro erario , anzichè pof ſeſſori , ſe ne moſtrano piuttoſto amminiſtra tori a pubblico e generale vantaggio . Havvi un'altra ſpecie di lotti nei quali non è un ſolo il premio , nè un ſolo il colpo fa vorevole della forte , ma molti ſono i premi , come molti e vari i caſi propizi ; e ſecondo l'ordine dell'eſtrazione dei numeri dall'ur na , o ſecondo altre leggi convenute in pri ma ſi decide del maggiore , o minor premio . Tale è il lotto che ſi è fatto in Spagna per la coſtruzione del canale di Murcia , nella quale occaſione ſiccome ha fatta luminoſa comparſa la vaſtità , e penetrazione di ſpirito di chi ha ideato il progetto della grand'ope ſi è diſtinta non meno la finezza , e il di ſcernimento di chi ha regolato il metodo di ra ; . 2 37 accumulare le gravi ſomme di denaro neceſ fario ad un sì grandioſo diſpendio . In queſto contratto come nei ſimili ad eſſo biſogna conſiderare , che varie ſono le ſperanze e molte , perchè vari e molti ſono i premi , e che la ſomma di tutti reſta come venduta a quelli che hanno comprati i viglietti . Sicco me queſti hanno sborſato un ugual prezzo , così devono avere fra loro ugual numero di caſi favorevoli e finiftri relativamente ai di verſi, o maggiori o minori premi ; quali eſſendo per lo più vitalizj, l'uguaglianza fra gli azionarj e il padron dell'impreſa dipen de dalle regole , ſecondo le quali ſi ſtabiliſce la giuſtiza dei vitalizj . Ma non ſi troverà mai eſatta queſta uguaglianza , poichè una parte notabile del denaro che contribuiſcono gli azionarj , non già nel numero o nel valore dei premi ſi impiega , ma ſi deſtina alle ſpeſe delle ideate opere ſontuoſe . In queſto di Murcia però così ſono ſtati bilanciati i di ritti degli azzionarj , e ſono ſtati così grada tamente formati i premi , e in tal numero , e così bene è ſtata regolata l'economia di 38 1 1 queſta sì grandioſa impreſa, che forſe non vi è ſtato mai un'altro lotto , in cui ſiaſi nel tempo iſteffo meglio aſſicurata la ſomma ne ceſſaria alla deſtinata opera , e ſia ſtata me no alterata la proporzione a ſvantaggio de gli azzionarj. Troppo ſon note le lotterie , che con al tro nome chiamanſi dai Franceſi Blanques perchè io impieghi molto tempo in eſami nare le qualità , e i caratteri di tale contrat to . Dall'economo del gioco ſi mette in un vaſo un certo numero di viglietti , dei quali alcuni ſon bianchi ed altri neri , e ſi vende il diritto di eſtrarne uno il quale ſe è nero apporta a chi lo eſtraſſe il guadagno di un premio del valore che è notato ful viglietto medefimo . Ognun vede , che accið ſiavi ugua glianza convien ricorrere alla regola mede ſima, che ſi è data pei lotti che ſi fanno per grandioſe opere pubbliche, avuta anche quì in conſiderazione la fatica , e il diſpendio dell'economo del gioco , e riflettendo che in queſto caſo i premi non ſono vitalizj. Queſto è un contratto della natura di quello che dai 39 Latini chiamavaſi olla fortunae . In fimil guiſa Auguſto dilettavaſi al riferir di Svetonio di compartir doni ai ſuoi cortigiani, chiaman do così la forte ad eſſer miniſtra della ſua beneficenza . Talora un ſolo è il premio che ſi diſputa fra quelli che giocano alla lotteria , e allora ſe il premio non è denaro ma un altra coſa qualunque che abbia prezzo , ſi giuſtifica più facilmente, giuſta l'opinione del Barbeirac , la notata diſuguaglianza : e l'economo del gioco può vendere non ſolo tanti viglietti quanti corriſpondono al valore del premio , ma ancora in maggior numero anche di quello che altronde eſiger pud e l'opera ſua , e il diſpendio , quando ve n'abbia . Queſti lotti fi riducono , dice il citato au tore ad una ſpecie di compra , che ſi fa in comune , a condizione che la ſorte decida a chi debba appartenere la coſa comprata . Se ſiavi adunque dell'alterazione nella propor zione , ſi potrà conſiderare come ſe fi foſſe comprata la coſa ad un prezzo un poco più alto del corrente ; penſando che ciaſcuno tra 40 1 ! fcuri queſto di più che in altra fpecie di con tratto gli parrebbe forſe notabile, ſulla ſpe ranza di guadagnare il premio più o meno fondata a proporzione che uno ha comprata maggiore , o minor quantità di viglietti . Queſta mallima, che non è certamente di ri goroſa giuſtizia , non ſi potrebbe eſtendere perfettamente a quei lotti nei quali , e molti e di vario prezzo ſono i viglierti, e molti e di vario valore i premi ; a tutti quelli in ſomma, nei quali non ſia aſſolutamente u guale la condizione dei ſingoli poſſeſſori di ciaſcun viglietto , benchè lo ſia riſpettiva mente . Prima di paſſare ad altri contratti giovami riflettere , che anche quando il padron del gioco , o qualunque altro che ne abbia di ritto pretende , che ſiano valutate le ſue fa tiche e il ſuo difpendio , non tanto ſi può dire che v'intervenga una compenſazione ; quanto che ſi verifica di fatto a tutto rigore la noſtra proporzione , giacchè quel di più che fi paga , non è a titolo di compra della ſperanza , ma bensì a titolo dell'altrui di 41 ſpendio , e fatica ; e per conſeguenza eſſendo una quantità eſtranea alla detta proporzione non la può in verun modo alterare . Si poſſono ridurre ad un contratto d'az zardo appartenente a queſta claſſe le ſorti ancora propriamente dette . La ſorte, dice l'elegantiſſimo ſcrittore della ſtoria degl'ora coli , è l'effetto dell'azzardo , e come la deci fione , o l'oracolo della fortuna ; ma le ſorti fono gli ſtrumenti di cui uno pud valerſi per ſapere qual ſia queſta deciſione . Le ſorti ſono ſtate in uſo preſſo i più antichi popoli ; e la forte s'interrogava , o col gettare i dadi colle proprie mani, o col gettarli da un urna : e ai caratteri , ed alle parole che ſu i dadi erano ſegnate, corriſpondevano alcune tavole che ne contenevano la ſpiegazione. Altre molte erano le maniere di tentare la ſorte , e di a ſcoltarne gli oracoli . E' incredibile poi quan iti , e quanto gravi affari ſi regolaſſero a ta lento di queſta cieca divinità . Baſta leggere gli autori che trattano dei voti che ſi offe rivano a Preneſte , e ad Anzio , e che parlano diffuſamente delle forti Omeriche , e Virgi 41 liane . I verſi dell'immortale Epico Greco , nei quali dipinge con sì vivi tratti l'impeto , e il furore dell'indomito Achille , ritrovati a caſo nell'aprire l'lliade, erano talvolta la fola innocente cagione della rovina delle più floride città , e della deſolazione d'intiere Provincie. E ſe per lo contrario , aprendo i libri della divina Eneide s'incontravano gli amabili colori coi quali ſi dipinge la man fuetudine e la pietà del figlio d' Anchiſe , gli animi tutti non reſpiravan che pace , e quei pochi verſi baſtavano per dar fine alle guerre più ſanguinoſe . Aleſſandro Severo , ſalito al foglio dei Ce fari , credette di averne avuto un preſagio , quando privato ancora , anzi odioſo all'Im peratore Eliogabalo , aprendo nel Tempio di Preneſte l'Eneide di Virgilio , s'incontrò in quel tratto , ove queſto gran Poeta eſalta le virtù e piange i'immatura morte di Marcel lo , e preciſamente gli ſi preſentarono quelle parole fi qua fata aſpera rumpas Tu Marcellus eris . Ma io non parlo propriamente di queſte forti, e confeſſo anzi eſſere le medeſime uno dei monumenti più ſolenni dell'umana fol lìa . Io quì parlo delle ſorti, che chiamanlı elettive , diviſorie , attributorie , e ſimili delle quali brevemente eſporrò la natura e le qua lità , ed applicherò alle medeſime i più volte enunciati Teoremi . Due , o più perſone han diritto ad una coſa medeſima; eſaminato il valore del lor diritto lo trovano uguale; non vogliono gettare , nè tempo , nè denaro in ſuſcitare queſtioni ; aſcoltano anzi ſentimenti più miti , e commettono alla ſorte la deci fione dell'affare, anzichè affidarlo alle lun ghe , e diſaſtroſe vie dei Tribunali . Conſe gnano i loro nomi all'urna diſpenſatrice della forte , e quello è giudicato favorito dalla me deſima, del quale vien eſtratto il nome; e vien dichiarato pacifico , e ſolo padrone di quella coſa alla quale avea con gli altri ugual diritto . Che ſia lecito commettere in talguiſa alla ſorte un affare dubbioſo o controverſo non v'ha dubbio alcuno , giacchè non vi è ra gione per cui non polfa uno obbligarſi ſotto una condizione tale , che il purificarſi la mede fima dipenda dall'incerto , e vario evento della forte . Ora ſe i diritti ſono uguali , ſe quanti fono i concorrenti tanti ſono i nomi che ſi conſegnano all'urna , ecco che i prezzi che vengono rappreſentati dai diritti che ſi az zardano , ſtaran fra loro come i numeri dei caſi favorevoli ad uno , al numero dei caſi favorevoli a ciaſcuno degli altri riſpettiva mente ; ed ecco ſalvata l'uguaglianza di pro porzione fra i favorevoli, e ſiniſtri caſi, e fra i riſpettivi prezzi della ſperanza , la ſomma dei quali è l'oggetto della medeſima nel caſo di cui ſi tratta . L'iſteſſo può dirſi a proporzione , quando uno abbia un diritto , per eſempio doppio di quello degli altri ; e baſterà che in tal caſo due volte ſi affidi il ſuo nome all' urna fata le ; e così dicaſi di altri ſimili caſi . E di fatto queſto contratto a farne una giuſta analiſi ſi riduce ad un gioco di pura forte, in cui molti depoſitando ugual por zione un ſolo guadagna tutte le porzioni de poſitate, del quale ſi è di ſopra parlato ; e ſi 45 è detto , che uno depoſitando maggior por zione , pud eſigere a proporzione condizioni più vantaggioſe . L'iſteſſe maſſime regolar denno le ſorti elettive che ſi uſano , quando molti avendo un privato diritto ad eſſere eletti a qualche onorifica o autorevole dignità, troncano ogni ſorgente di diſcordanza col tentare la forte , L'iſteſſo dicaſi delle ſorti diviſorie, e di quan te altre poſſono immaginarſi, che tutte ſi ap poggiano ai medeſimi fondamenti, e in tutte nel modo iſteſſo ſi trova la proporzione che coſtituiſce l'uguaglianza fra i contraenti , Fin quì fi è parlato di quei contratti che alla prima delle ſopra indicate claſſi appar tengono . In effi fra la ſperanza che ſi acqui ſta , e il prezzo con cui ſi acquiſta ſi può fif fare un eſatta , inalterabile , e matematica proporzione. Note fono tutte le cagioni che poſſono aver rapporto al favorevole o triſto evento della ſorte , ſi conoſcono tutti gli ele menti dei quali ſi formano le varie combi nazioni, e ſi fanno perfettamente tutti i modi 46 diverſi per mezzo dei quali queſte fi forma no . E' queſto forſe l'unico caſo al quale ſi poſſa applicare lo ſpiritoſo Emblema del ce lebre Moivre, rappreſentante la ruota della fortuna, e ſopra di eſla una ſemicirconferen za di cerchio , che con le ſue diviſioni ſerve a regolare quei capriccioſi giri , che ſono l'og getto di tanti voti, e la cagione di tante vi cende dei mortali . Chi intraprende queſti contratti pud , direi quafi, venire alle preſe con la ſorte , e conoſcendone la forza e l'ar mi bilanciare il deſtino della lotta fatale . Non è così certamente nei contratti che alla ſeconda claſſe ſi riferiſcono , ne' quali il rapporto neceſſario a formare l'uguaglianza fra i contraenti , ſi appoggia alla ſola ſperien za del paſſato, e a cagioni incerte , e varia : biliffime. lo ſo bene che ſi ſono pur trovati dei Filoſofi che hanno francamente aſſerite due coſe . La prima, che nelle umane vicen de che colpi chiamanſi della ſorte, e a noi pajono fortunoſi e irregolari, ſiavi un ordine coſtante , eun'originale diſegno per cui dirette da una provida mano che lor dà moto ſecon 47 1 do certe invariate leggi, eſcano a ſuo tempo ad agire in queſto sì ben congegnato ſiſtema del Mondo . La ſeconda , che l'irregolarità , che non agli eventi medeſimi e alle vicende , ma alle noſtre cortę vedute deveſi attribuire , ſcom parirà finalmente , e replicate l'eſperienze fi vedrà quella conneſſione che ora ci è inco gnita , e ſi conoſceranno i fottiliſſimi punti nei quali ſi uniſcono i tanti fili, che regolano con sì bella armonia l'intero univerſo . Da queſte due propoſizioni argomentano , che dunque dopo un dato tempo , ſiccome cre ſcendo il numero delle ſperienze, queſte ci danno regola per conoſcere ſempre più la probabilità di un evento , che anch'eſſa va ſempre aumentando a miſura che ſe ne co noſce la regolarità, arriverà un giorno queſta probabilità a cangiarſi in certezza . Ecco ciò che aſſeriſcono con molta ſicu rezza alcuni Filoſofi, alla teſta dei quali è l'incomparabile Moivre più altero di aver rintracciato ne' ſuoi intimi penetrali l'ordine della natura , e di averle ſtrappato queſto ſe 43 creto , che non fu già il ſuo celebre concit tadino di aver conoſciuti, e indicati i rego lari moti e le orbite dei pianeti per gl'im menſi ſpazi del cielo . Egli è veriſſimo che la gran macchina dell univerſo ricevè dalle mani creatrici quel grande impulſo , che poi la mantiene in moto coſtantemente , e dal quale come da prima cagione derivano tutti i più piccoli moti della medeſima , benchè immediatamente prodotti dalle ſottiliſſime e varie molle che la com pongono , e le dan forza . Ad eſſo ſi riferiſce ugualmente un'auretta leggiera che diſſipa per la ſelva poche aride foglie, e un procel loſo vento che ſull'immenſo Oceano di ſperde e rompe una flotta ſuperba di mille vele . Le grandi vedute di un politico illumi nato , che formano il ſoſtegno e la forza del Trono , non ſono agli occhi dell' Onni potente niente più luminoſe delle ignobili e ſconoſciute cure di un ſelvaggio , dirette ſoltanto a ſoſtentare la propria vita , e a difenderſi dall'ingiuria delle ſtagioni . Che poi l'Eterna mente che tutto sà e 49 za , o del tutto regola , abbia voluto che fra i varj eventi che inteflono la ſerie delle umane vicende , e che ſon chiamati in più ſtretto ſenſo fortunoſi ſiavi un rapporto più che un altro , un tal'ordine e non un altro , queſto è quello che io credo non poterſi ſcopriregiam mai . Che dopo un certo periodo ricompa riſca di nuovo l'iſteſſo evento , chedopo certe rivoluzioni torni l'iſteſla ſerie di coſe, ridon da egli forſe in maggior lode o della fapien potere eterno , e ſovrano ? Nell'immenſo vortice della divinità fi pers dono le idee , che noi abbiamo di ordine , e conneſſione . O non vi è relativamente agli occhi divini ordine e regola ; o non potiam noi conoſcere in che conſiſta ; o tutto deve dirſi averla ugualmente . Chi vede inſieme col preſente ſiſtema di coſe infiniti altri pof fibili , vede un punto che non è ſuſcettibile di quei rapporti, che ſono idee relative a vedute limitate e finite ; o ne vede infiniti altri , per cagion dei quali pud agli occhi ſuoi parer regolato tutto ciò che noi chiameremmo forſe diſordine, e confuſione, d 50 Ma non è forſe neppur vero eſſere più van taggioſo all'uomo che ſiavi di fatto nelle umane vicende queſta regolarità . Fra le infinite vedute , che l'occhio im menſo ha preſenti per il vantaggio delle ſue creature , chi ſaprà dire quale abbia fillata a preferenza dell'altre ? Se un Sovrano cela ai ſuoi popoli i diſegni che forma, e le impreſe che và maturando, queſta condotta è diretta a tenergli nella dovuta ſommiſſione , e ad allontanarne l'orgoglio : e ſe un padre , ben chè benefico fa l'iſteſſo co'propri figli, non lo fa ad altro oggetto , che ad animarne la cieca confidenza che è uno dei più vivaci alimenti di un reciproco amore . Non vi è dunque argomento che comprovi queſta preteſa regolarità degli eventi che ſi fogliono chiamare fortuiti , e caſuali. Ma ſe ancor foſſevi, io ben non veggo ſu che fondamento ſi aſſeriſca , che agli occhi mortali eziandío dovrà una volta comparir chiara , e ſvanire per conſeguenza quella ap parente irregolarità che alla ſcarſezza delle noſtre notizie , e alla mancanza di eſperien ze , in tale ipoteſi deveſi attribuire . SI Quando ſi vuol fiſſare la contingibilità di un evento , oſſervar dennoſi ogni volta ch ' ei compariſce , le circoſtanze che lo accom pagnano , e l'intervallo di tempo che paſſa fra le diverſe ſue apparizioni . Quanto più creſceranno di numero le oſſervazioni, tanto più potrà conoſcerſi in quali circoſtanze ed in qual tempo debba arrivare . Da queſto ap punto argomentano gl ' indicati filoſofi, che ciaſcuna ofſervazione è diretta a ſcemare un grado della diſtanza che corre fralla irrego larità dipendente a ſenſo loro dalle noſtre corte vedute , e la regolarità che eſiſte di fatti nell'originale diſegno, e lega inſieme ed u niſce ſotto certe leggi tutte le varie vicende . Replicando adunque le eſperienze , rinovan do le offervazioni, ſi potrà arrivare a render nulla affatto queſta diſtanza ; e a ſquarciare del tutto quel velo che cela ai noſtri occhi queſta bella regolarità . Di fatto ſoggiungono , che altro è la cer tezza ſe non un tutto di cui la probabilità è una parte ? Creſcendo adunque queſta per mezzo delle oſſervazioni, potrà arrivare al 1 گرí grado di confonderſi col ſuo tutto : ed ecco fiſſata la certezza di quegli eventi , che ſi fo no ſempre creduti giochi , e capricci di una irregolare fortuna . E' egli per altro evidente queſto diſcorſo ? Potrebb'egli un animo , che non voglia ar renderſi ad altra forza , che a quella della ve rità , dubitare ancora di ciò medeſimo che uomini di grande ingegno hanno tenuto per certo ? E prima di tutto nel formare la tavola dei tempi nei quali ricompariſce l'evento medeſimo , convien riflettere di non notare ſe non quelle volte , nelle quali ſi moſtra ri veſtito delle medeſime circoſtanze . Se così è , e ſe queſte ſono preſſo che infinite , e in finitamente variabili , ne verrà per conſeguen za che quella rivoluzione che dee ricondur l'iſteſſo evento farà sì vaſta , e il circolo che la rappreſenta sì ampio , che o non ſi potran no da chi oſſerva congiungere oſſervazioni sì diſparate e rimote , o sì poche ſe ne po tranno fare , e la probabilità creſcerà sì len tamente da non potere giammai arrivare al 53 grado di confonderſi con la certezza . Tra= laſcio di oſſervare che un evento può com parire a noi accompagnato dalle medeſime circoſtanze, ed eſſervi nulladimeno tanta va rietà , che ſe foſle da noi ben conoſciuta fa rebbe sì che a tutt'altra ſerie da quella di cui ſi fanno le oſſervazioni, dovrebbeſi ri chiamare . Si conſideri ora ſeriamente qua lunque di queſti eventi che fortuiti chiamat ſogliamo, da quante cauſe poſſa provenire , e queſte in quante maniere poſſano combi narſi ; e vedremo , ſe per quante ſi vogliano replicate ſperienze ſi potrà giammai arrivare ad argomentare dalle circoſtanze che altre volte fi videro accompagnare un evento , la eſiſtenza del medeſimo . Quelle ragioni medeſime che immediata mente influiſcono ſugli eventi fortuiti hanno conneſſione con vari ordini di cauſe più o meno rimote , che innumerabili ſono ancor eſſe , e capaci di innumerabili gradi di alte razione . E quì potrei ricorrere a tante fiſiche teorie , le quali dimoſtrano , che un gran fe nomeno può avere la ſua prima ſorgente , tam 54 lora sì rimota che per infiniti giri , e tortuoſi fentieri appena ſi può rintracciare ; talvolta sì piccola , che dopo averla conoſciuta , ap pena ſi può credere che da eſſa derivi . E la ragione , e la immaginazione vanno in queſto caſo d'accordo a preſentare al pen fiero l'enormiſſima ſproporzione che correrà ſempre fra un gran numero di offervazioni quali peraltro non potranno eſſere moltiſſi me , ( ſe vogliano porſi in calcolo quelle ſolo che fimiliſſime ſono , è relative ad oggetti ſimili ) e l'immenſo vortice fra cui fi aggi ra ľ apparente irregolarità . Di quì deriva , che a rigore parlando dubitar deveſi di quella maſſima , che la probabilità di queſti eventi arriverà una volta a cangiarſi in cer tezza . E quì fa d'uopo riflettere , che la proba bilità , e la certezza ſono due atti eſſenzial mente fra loro diverſi , come dicono i meta fiſici, e che fralla maſſima probabilità che arrivi un evento , e la certezza , vi è di mez zo una ſerie infinita di poflibili. Il timore di errare che ſi coinpone con la maſſiına pro . 55 babilità e viene eſcluſo dalla minima cer tezza , è una barriera inſuperabile, per cui non ſi poſſono giammai fra loro confon dere , ed è quello appunto che le rende ( ſia mi lecito uſare un termine di matematica trattando di una materia nella quale ſe n'è fatto uſo con tanto profitto ) quantità in commenſurabili . Le prime oſſervazioni che fi fanno intorno a un determinato evento , non poſſono dargli che un grado di pro babilità così piccolo riſpetto al vortice im menſo della irregolarità , e all' infinita ſe rie dei poſſibili dall'evento medeſimo di verſi , che queſto grado pud conſiderarſi co me un infiniteſimo . Siccome adunque per trasformare un infiniteſimo in una quantità finita deveſi queſto moltiplicare per l'in finito , così queſto grado di probabilità do vrebbe ricevere infiniti aumenti per mezzo di infinite oflervazioni, prima che ſi poſſa chiamare ridotto al carattere della cer tezza . Parlo di caſi nei quali la ſerie dei poſſibili, che è di mezzo fralla probabilità e la cer 56 2 ! tezza , è compoſta di cauſe , che ogn'uno fa eſſere non immaginate ma vere , e poterſi in infinite maniere combinare . Poche oſſervazioni baſtano al filoſofo per render certe , o almeno eſcludenti un pru dente dubbio , alcune ſempliciſſime leggi della natura , dove tanto è lontano che ſi co noſca effervi infinite altre cagioni poſſibili , che anzi per argomenti preſi dai principi delle ſcienze ſi deduce non eſſervi luogo a ſoſpettare che altre ve ne ſiano . E' ben diverſo il caſo noftro ove trattaſi degli eventi che danno occaſione ai contratti di azzardo ; e riguardo a quali ſi pretende ſolo di mettere in diffidenza la maſſima che promette che ſi abbia a cangiare in una aſſo luta e rigoroſa certezza , quella che è mera probabilità , e forſe capace di creſcer ſolo pochi gradi . Che non pud fare l'amor di ſiſtema ? Lo ſpirito calcolatore avvezzo a portar lume ai più aſtruſi miſteri della geometria , e ad ana lizzare le coſtanti leggi della natura col più felice ſucceſſo , ſi lancia ardito dal gabinetto $ 7 di un filoſofo , e prefume di porre in mano ai mortali un filo che ſegni la traccia co ſtante degli eventi più incerti , e di aſſoggets tare alla ſua eſattezza ed uniformità , quan to v'ha di più vario , e mutabile . Non ſolo hanno cercato alcuni di ſcoprire un'ordine conoſciuto dai naufragi, un'ordi ne riſpettato dai morbi , e dalla ineſorabil morte ; ma hanno fperato di poterlo tro vare anche in quegli eventi che più dipen dono da cauſe morali e libere , le quali agi ſcono certamente , non perchè così voglia un ordine e non un'altro , ma perchè così vo glion eſſe , e non altrimenti . Si è perfino tro vato chi ha propoſto le tavole degl'incendii , delle cadute fatali da un precipizio , e di molti altri ſimili fortunofi accidenti come ſe ſi poteſſe ſcuoprire anche in eſſi a ſuo tempo regola , ed ordine . Per quanto poſſa nei caſi dipendenti da fi fiche cauſe trovarſi una conneſſione fralle me deſime per lunga ſerie concatenate , in guiſa che debbano in un dato tempo produrre un effetto più che un'altro ; non ſi potrà mai dire 1 1 . $$ altrettanto quando vi abbia luogo una libera volontà che non ſiegue ordine , o conneſ fione , e che può produrre un'atto ſenza rap porto a verun' altro che abbia altre volte prodotto , o che ſia per produrre in appreſſo . E ſe è vero , che negli eventi , e nei caſi preſi in compleſſo di tutte le loro circoſtanze , e in quelli ſpecialmente che ſono il ſoggetto dei contratti di cui parliamo , qualche o più proſſima, o più rimota influenza vi hanno le cauſe morali ; che ſi può egli penſare di più ſtravagante che il volergli ridurre eſattamen te a regola e pretendere di cangiare la pro babilità in certezza ? E chi fu mai che tentaffe di ordinare le diſperſe, e confuſe foglie , che contenevano le riſpoſte ſull'avvenire, della fatidica Sacer dotella di Cuma ? Ma quand'anche gli argomenti da me ad dotti non provaſſero l'impoſſibilità di arriva re dopo un lunghiſſimo corſo di anni a can giare in qualche certezza la probabilità, pro vano almeno , che per noi , e per ben mol te generazioni queſta farà una ſterile ricer 59 ca ; giacchè per molti , e molti ſecoli, ( ac cordando anche più di quello certamente , che ſi può ) non ſi potrà vincere quel diſordi ne , e irregolarità almeno apparente , che of ſervaſi nelle umane vicende , e che in ſomma il limite delle medeſime è tanto diſcoſto , che pud conſiderarſi come infinitamente diſtante . Dal fin quì detto per altro non ſi può ra gionevolmente inferire , che dunque dal com mercio degli uomini ſi debbano eſcludere i contratti di azzardo che appartengono alla ſeconda delle ſopra indicate clafli . Per provare la verità di queſta aſſerzione convien fiſſare due maſſime conformi alla ragione , e che ſe non erro ſono il fonda mento al quale ſi appoggia la giuſtizia di queſti contratti. Queſta uguaglianza fra i contraenti che è sì neceſſaria a render giuſti i contratti è un termine vago , e che non ha affiffa alcuna idea , ſe allo ſtato di natura vogliam rimon tare . Il prezzo delle coſe introdotto o dalla legge , o dalla conſuetudine che imitatrice della legge la vince di autorità , ecco ciò che 60 ha chiamata l' uguaglianza a preſiedere ai contratti . Alla ſocietà dunque , e alle fire maſſime deveſi attribuire . Si eſamini pero lo ſpirito della ſocietà, e ſi vedrà che nelle ſue maſſime generali non ſi devono comprendere quei caſi che è dello ſpirito della medeſima l'eſcludergli, e l' eccettuarli . Si riduce al lora la queſtione, ad eſaminare ſe ſiano utili alla ſocietà i contratti in queſtione; e ſe nelle bilance del pubblico bene ſia di maggior mo mento il vantaggio che recano , o la preciſa offervanza di quella perfetta uguaglianza ne contratti, che è tanto neceſſaria generalmen te alla quiete , e felicità degli individui , e al buon ſiſtema, e conſervazione di queſto cor po morale , e politico . Pochi elementi , e poche idee ſciolgono il problema . Induſtria eccitata , commercio invigorito , circolazione ampliata . Vantaggi fono queſti generalmente procurati da tali contratti ben regolati , come ſi può ben co noſcere da chi ne eſamini lo ſpirito , e le conſeguenze . Daqueſto argomento riceve gran forza un 61 ſecondo rifleflo . In queſti contratti non ſi può avere fra i contraenti una perfetta ugua glianza di condizione , perchè non ſi può eſattamente miſurare la loro forte . Ma ciò che manca a queſta giuſta miſura è con une ad entrambi . Ad entrambi è egualme ite i gnoto per chi debba eſſere il vantaggio , e per chi il diſcapito , potendo ugualmente nel caſo noſtro , e l'uno , e l'altro a ciaſcun di loro arrivare ; e queſto medeſimo forma una ſpecie di ſorte uguale , la quale pud ſupplire a quanto manca alla perfetta uguaglianza . Diſli alla perfetta uguaglianza , perchè le maſſime ſopra eſpoſte ed impugnate , vacil lano ſoltanto , perchè oltrepaſſano certi li miti , dentro dei quali rinchiuſe provano moltiſſimo, rapporto alla uguaglianza che deve eſſere nei contratti della ſeconda claſſe . Inteſe le maſſime con la dovuta moderazio ne , è veriſſimo che eſtraendo da un'urna ove ſiano alla rinfufa molti viglietti bianchi e molti neri , quante più eſtrazioni fi anderan no facendo , tanto più creſcerà la conoſcen za del rapporto che hanno fra loro : è verif fimo che le oſſervazioni ſegnate in tavole danno ai giovani la prudenza dei vecchi : ed è incontraſtabile che quanto più ſpeſſo ac caderà in natura un evento , tanto più ſi po tranno attrappare le circoſtanze che lo ac compagnano , e farà meno irragionevole l'in duzione che dalla eſiſtenza di queſte, ſi farà della futura eſiſtenza di quello . Si potrà dun que avere un qualche dato per eſaminare la probabilità di un'evento , e proporzionargli il prezzo con cui ſe ne acquiſti la ſperanza . Per formare una ſerie dei diverſi gradi di tale probabilità gioverà eſaminare un qualche contratto in ſpecie, e fiffare i punti dai quali la ſerie ſi parte ; poichè non ſi potrebbe con tanta facilità fare una giuſta analiſi, o alme no egualmente chiara , ſe fi conſideraſſero le idee in aſtratto , e ſenza applicarle ad un de terminato ſoggetto . Fra tutti i contratti che ridur ſi poſſono a queſta ſeconda claſſe parmi che meriti di eſ ſere diſtintamente eſaminata l'aſſicurazione , Efla è un contratto per cui uno dei contraenti ſi obbliga a riparare tutti i danni che può un 63 . altro ſoffrire nelle ſue merci per naufragio , o altre convenute cagioni ; e queſti ſi obbli ga a pagarli una determinata mercede in com penſo del pericolo al quale volontariamente ſi eſpone. 1 Fiorentini che avendo già eſteſo il loro commercio per tutto il Levante aveano fatto conoſcere a tutto il mondo quello ſpirito di lo devole induſtria, e fagacità, che forma il nerbo e la floridezza di uno ſtato , e che fu ſempre del loro carattere , furon quelli che riduſſero a certe leggi queſto contratto, e gli diedero for ma e credito . Inſegnarono così alle altre na zioni commercianti a tirarne quel profitto , che il profondo , ed illuminato Melon aſſe riſce dover eſſere sì ampio per uno ſtato che abbondi di eſperti, ed avveduti aſſicuratori. Di fatto alla Repubblica Fiorentina deb bonſi i primi capitoli di aſſicurazione che furono diſteſi negli anni 1523. , e 1525. A queſti ſucceſſero negli anni 1563. , e 1570. le ordinazioni di Olanda . Non è ſtata queſta l'unica occafionein cui abbiano, gareggiato in fatto di commercio 64 queſte due nazioni , la prima delle quali ha faputo ſempre profittar pienamente delle fe lici fue circoſtanze , e la ſeconda compenſare ognora in mille modi i danni della infelice ſua ſituazione; e inſultar quaſi alla natura di ayerla in eſſa collocata . Gli ſcrittori che hanno trattato di queſto contratto lo diſtinguono in due ſpecie. La prima chiamano eſſi aſſicurazione propria mente detta , ed è quando le merci che ne ſono l'oggetto appartengono di fatto a quello che ne chiede l'aſſicurazione ; e queſto è ciò che intendono ſotto il nome di riſico dell' aſſicurato ; ed inoltre ſono eſſe realmente ſog gette a pericolo , o com'eſſi dicono a ſiniſtro . Per la validità di queſto contratto ricercaſi la coeſiſtenza del riſico , e del ſiniſtro ; ed è quanto dire , che l'aſſicuratore non deve pa gare la ſicurtà , nè l'aſſicurato la mercede , ſe le merci avean corſo già il loro deſtino quan do fi ftipulò il contratto , o ſe non apparten gono all'aſſicurato . Per maggior comodo poi , e dilatazione di commercio fu introdotto il contratto di affi 65 curazione ſulle merci o proprie , ma non nella ſomma che ſi afferiſce , e che cade ſotto l'aſſi curazione : o appartenenti affatto ad altra perſona . In queſto contratto il fondamento conſiſte nella fola eventualità dell'azione; e ſi può in eſſo ravviſare un'apparenza di Scommeſſa della quale però gli mancano ſe condo molti , alcuni caratteri . Anche in queſta ſeconda ſpecie comunemente ricer caſi, che le merci ſiano in pericolo ancora quando ſi fa il contratto ; benchè in alcune piazze ſi ſoſtenga anche nel caſo che le merci aveſſero già corſa la loro forte quando ſi ſti puld il contratto , purchè però queſto non foſſe a notizia dei contraenti . Per ridurre pertanto in qualche vero ſenſo il contratto di aſſicurazione alla Teoria ſopra eſpoſta regolatrice della uguaglianza neceſ faria nei contratti di azzardo , fa d'uopo con ſiderare due fatta di caufe che influir poſſono full'evento incerto , che ne forma l'oggetto . Altre ſono le cauſe fiſiche che per un puro meccanico impulſo della materia agiſcono in dipendentemente da qualunque libera deter 66 minazione di una cauſa ſeconda ; il mare cioè più o meno ſparſo di pericoli , agitato da vortici , terribile per gli ſcogli ; il vento che tormenta più un ſeno di mare che un altro , e domina più in una ſtagione, che in un altra ; la qualità del naviglio , più o me no capace di reſiſtere agli urti , e di inſul tare gli Aquiloni ; e finili altre che a que ſte ridur ſi ponno , anzi con queſte confon derſi . Più incerte affai, e più indocili all'eſat tezza del calcolo ſono quelle cagioni che mo rali ſi chiamano , perchè o conſiſtenti nella libera determinazione di un ente creato , o da quella dipendenti almeno mediatamente . La deſtrezza, e la buona fede del capitano : l'abilità dei marinari e dei piloti : il nume ro , e la gagliardìa dell'equipaggio : la mag giore o minor frequenza dei pirati che infi diano fraudolenti, e poi attaccano rapaci ; o dei nemici armatori che appoggiano le fan guinoſe loro infeſtazioni ai tremendi diritti della guerra , ſono o le uniche , o le più con ſiderabili di queſte cauſe morali . 67 i Se il fondare un calcolo eſatto ſulle fiſiche cagioni ſuaccennate è impoſſibile: il fondarlo che ſi accoſti all'eſattezza difficiliſſimo : lo ſarà molto più l'appoggiarlo alle cauſe morali che non agiſcono per una conneſſione di mo vimenti , e d'impulſi che l'un l'altro fiſie guano neceſſariamente; ma che operano per una mera libera determinazione , che per qualunque congettura la più apparentemente probabile non ſi può preſagire; poichè anche preſa può ſul momento abbandonarſi , per cangiarla in una affatto diverſa , e talora dia metralmente oppoſta, e contraria . Un canone perd univerſaliſſimo, e da non preterirſi giammai in queſto contratto , parmi quello di non conſiderare neſſuna cauſa , o fiſica , o morale , ſeparatamente o iſolata dalle altre ; ma di oſſervare l'influenza reci proca che hanno tutte le cauſe l'una ſopra dell'altra , e quella non meno che hanno ſulle morali ; e l'iſteſſo dicaſi di queſte rapporto alle fiſiche . Il momento di ciaſcuna cauſa ſi altera a miſura che diverſamente è combi nata , o temperata colle altre . e 2 68 Per conoſcere però quanto poſſano queſte cagioni , e ſingolarmente preſe , e in complef ſo , è neceſſaria una lunga ſperienza . In queſto contratto , per caſi ſiniſtri non ſi intendono già tutte quelle combinazioni , che realmente poſſono funeſtare l'aſſicuratore , e perder la nave , nè per favorevoli quelle che ſalva dai naufragi, e dalle oſtili violenze , la confe gnano al ſoſpirato porto . Fatta una tavola di accurate , e frequenti oſſervazioni , e conoſciuto quante volte in parità di circoſtanze ſiaſi perduta la nave , e quante ſia giunta felicemente al deſiato fuo termine ; la ſomma delle prime rappreſenta la ſomma dei caſi ſiniſtri ; e quella delle ſe conde ſi tiene per il numero dei favorevoli ; e ſu queſti dati ſi forma la proporzione da noi ſtabilita nel III. Teorema . Queſta è la ſpecifica differenza che paſſa fra i contratti del primo genere , e queſti che al ſecondo appartengono . Nei primi entrano in calcolo tutti quanti i poſſibili caſi e fini ſtri, e favorevoli, perchè ſi fanno tutti , e ſe ne conoſce perfettamente il numero ; noi 1 69 ſecondi fi calcolano quelli ſoltanto , che dopo una lunga ſperienza ſi ſono oſſervati ; reſtan done non compreſi nel calcolo tanti altri pof ſibili , i quali perd dopo molte e molte oſler vazioni fi fuppongono in proporzione di no tati . La proporzione ſi accoſta tanto più al vero , quanti più ſono i caſi oſſervati, come appunto accade nell'urna che contiene un ignoto numero di palle bianche e nere : delle quali con tanto minor pericolo di errore ſi può fiffare la proporzione , quanto più copioſa ſe ne è fatta l'eſtrazione. In una parola , nei primi è incerto l'eſito della ſorte ; nei ſecondi è incerto anche ciò che può determinarlo . Rariſſimi però ſono i caſi che ſieno riveſtiti perfettamente delle medefine circoſtanze . Fa d'uopo adunque per formare la propor zione ricorrere alle diverſe tavole , ove ſono notate le circoſtanze preſe ſeparatamente; e conſiderarle come tanti elementi dei quali ſono compoſti i dati della proporzione . Scioglie una nave dal Porto , e veleggia per un mare tranquillo , e placido ; queſta circoſtanza è un fondamento della propor 70 zione da ſtabilirſi fra il valor delle merci , e il prezzo dell'aſſicurazione; e la tavola delle navigazioni fatte in queſto mare lo additerà preciſamente. Ma fe queſta nave corra un pericolo di pirati , o di nemici che le altre navi facendo il medeſimo viaggio non avevan corſo giammai , nel formare la proporzione vi entra anche queſto elemento , la di cui forza ſi miſura dalla tavola di altre naviga zioni benchè fatte in altri mari , e ſi compone il minor pericolo che ha queſta veleggiando per un mare tranquillo ; col pericolo che cor ſer altre per la ſola oſtile infeſtazione. Vaglia queſto per eſempio delle proporzioni com poſte di varj elementi , il valor dei quali ſia regiſtrato in diverſe tavole , non obliando giammai nel combinarli la forza che acqui ſtano dalla reciproca loro influenza . Ma può talvolta non eſſervi l'eſperienza baſtante a far conoſcere i gradi di probabi lità dell'eſito lieto , o infauſto . Monta per la prima volta un vaſcello un Capitano, che non ha mai per l'avanti governato naviglio alcuno: infeſta i mari una turma di corſari 1 1 71 sbucati da qualche ſcoglio che alzava prima una barriera alla fanguinaria loro rapacità e dei quali ignoraſi per anco il numero , ed il valore , o a meglio dire la violenza della eſecrabile loro ſete dell'oro e del ſangue ; chi potrà miſurare i gradi dell'influenza che ha ſull'eſito felice la prụdenza e la deſtrezza del primo , e ſull’infauſto l'ardire , e la forza dei ſecondi ? In tal caſo per quanto vogliaſi dare un va lore anche a queſte circoſtanze nuove ; fon dandolo ſu qualche piuttoſto appreſa , che conoſciuta ſomiglianza ad altri caſi; egli è certo però che ſenza una più volte ripetu ta eſperienza, non può fiffarſi una propor zione di cui ſi calcolino i gradi , e ſi nume rino i valori ; e ſenza di eſſa non ſi può for mare una ſerie che ſerva di norma all'u guaglianza ricercata in tali contratti. Tutto alla fine ci conduce a riflettere , che una e fatta proporzione nei contratti del ſecondo genere non può ſperarſi giammai ; che in molti caſi ſi potrà avere meño lontana dall' eſattezza ; in altri ſi troverà dalla medeſima 72 più rimota , come dal fin qui detto chiara mente appariſce . Ma forſe gli aſſicuratori interrogano que ſte tavole , formano calcoli , e ſciolgon pro blemi ? Il filoſofo che ſcortato dalla ragione fino ai loro principi eſamina le azioni degli uomini e le bilancia , conoſce che queſti cal coli ſono neceſſarj a ridurre i contratti all' uguaglianza e comprende che queſta tanto più ſi otterrà facilmente , quanto più ſiano frequenti queſte tavole , e numeroſi i caſi che ad eſſe , come a indicatrici della ſorte ſono af fidati; l'aſſicuratore poi accorto ed illumi nato le conſulta , o le deſidera ; l'indotto , e meno avveduto ha preſente, almeno in con fuſo la maggiore , o minor frequenza de' fini ſtri nelle date circoſtanze ſeguiti , e ſu queſto implicito calcolo forma il ſuo giudicio più o meno eſatto , e non ſi affida totalmente alla cieca all'arbitrio dell'incerta forte . In queſto contratto il prezzo che eſpone l'aſſicuratore , è il valore delle merci , che egli ſi mette in azzardo di dover pagare all' aſſicurato ; quello dell'aſſicurato è la merce: 1 73 de che egli paga all'aſſicuratore in compenſo di queſto azzardo medeſimo . Ma ſiccome fatto il contratto di aſſicura zione , l'aſſicurato deve in qualunque evento pagare all'aſſicuratore la convenuta merce de , pare a prima viſta che per l'aſſicurato non ſiavi azzardo alcuno ; poichè dal punto dello ſtabilito contratto è deciſa la ſua forte ; o a dir meglio riguardo a lui nel ſuo con tratto non ha luogo alcuno la forte . Baſta però una giuſta rifleſſione ſulla natura di tal contratto , per vedere che anche per l'aſſicu rato vi è l'eſito favorevole della ſorte ſicco meancora l'infauſto . Caſo favorevole può chiamarſi quello che rende il contraente pago , e contento di aver fatto il contratto ; talmente che ſe aveſſe pre veduto l'eſito , conſultando ſolo il ſuo van taggio , l'avrebbe nonoſtante fatto , anzi con tanto maggiore alacrità . Per lo contrario infauſto può dirſi quello che in qualche modo gli dà occaſione di pentimento , in guiſa che ſe aveſſe previſto l'eſito avrebbe omeſſo di fare il contratto. Ora quantunque 74 l'aſſicurato , fatto il contratto ſia già ſicuro di dover pagare la mercede , qualunque ſia l'evento ; quando però la nave giunga a ſal vamento , è in caſo di pentirſi del ſuo con tratto ; poichè ſe non lo aveſſe fatto , e avreb be avuta ſalva la nave , e non avrebbe fof ferto il diſpendio della ſtabilita mercede . In queſto ſolo ſenſo , e non in altro , che ſareb be troppo contrario all'umanità , poichè ſi riſolverebbe in compiacerſi dell'altrui dan no , che neppur ridonda in proprio vantaggio , ſi pud intendere ſiniſtro per l'aſſicurato il caſo del ſalvamento della nave ; e in queſto ſolo può ridurſi il contratto al carattere di una vera ſcommeſſa , di cui è eſſenziale ſe condo alcuni , che l'avvenimento favorevole ad uno dei contraenti , ſia per l'altro infau ſto , e ſiniſtro . Conchiuſo il contratto , l'al ficurato che ha ſentimenti di umanità , deſi dera che ſi falvi la nave , ma falvata la nave vorrebbe non aver fatto il contratto . Quello che non ſi può in modo alcuno ri durre a calcolo , ſi è nella perdita di una na ve , la minore, o maggior quantità di merci , ! 75 che ritoglier ſi potranno all'ingordigia dell onde , e ritrarre al lido ; lo che ſuccede mol te volte , e fa che non debbanſi tutti i cafi ſiniſtri giudicare di un carattere egualmente dannoſo ; ma diverſi , a miſura , che più o meno delle aſſicurate merci , ſi perde , e ro vinafi . Il poter prevedere , e calcolare in a vanti tal quantità influirebbe molto a deter minare la mercede che l'aſſicurato promet te . Ma chi potrà mai calcolare le tante cauſe che poſſono influire ſopra un sì variabile ac cidente ? Forſe l'aſſicurato avrà all'ingroſſo preſente queſta varietà di combinazioni ; ma potrà egli dare ai loro effetti un giuſto valore ? I principj fin'ora eſpoſti regolatori di que Ito contratto , quando ha per oggetto merci affidate al pericoloſo traſporto di mare , pof ſono facilmente adattarſi alle merci traſpor tate per terra ; anzi alle merci , o ſituate nei magazzini , o in altra maniera cuſtodite . Tutto ciò che può eſſer ſoggetto ad un fatal accidente , e per quello perire , o deteriorarſi , fi fa eſſere oggetto di queſto contratto . Anzi il guaſto di un incendio divoratore , le ruine 70 di un turbine procellofo che abbatte caſe , porta la deſolazione per le campagne , la vio lenta incurſione di rapaci aſſaſſini, o le ru berie affidate al ſegreto e alle tenebre della notte dalle timide mani infidiatrici , ed altri pericoli di tal fatta , che a prevederli biſogne rebbe nulla meno che lo ſpirito di divinazio ne , ſomminiſtrano in alcuni paeſi occaſione di venire alle mani con la ſorte , ſenza che nè l'una parte nè l'altra poſſa mai, neppure all'in groſſo e colla maggiore ineſattezza , miſurarla . Un'altro contratto non meno intereſſante , e che appartiene a queſta ſeconda claſſe ſi è quello che chiamaſi vitalizio . Gli uomini non contenti di affidare la loro forte a tante , e sì varie combinazioni che alterano , e modificano sì ſtranamente gli ef Teri inanimati ; hanno voluto che ella dipen da anche dalla vita dei loro ſimili , ed hanno fatto sì che un uomo debba ftimarſi infelice ſe un altro gode per lungo tempo sì prezioſo dono del cielo . La vita iſteſſa è venuta tal volta in bilancia con un tenuiſſimo guadagno . Il vitalizio altro non è che l'annuo inte 77 ! reſſe di un capitale collocato a fondo per duto . Chi colloca in tal guiſa il ſuo capitale lo fa ad oggetto di ritrarne un profitto mag giore di quello che riſerbandoſene il dominio potea ſperare. Suol eſſere comune queſto con tratto e a coloro che non avendo perſone congiunte con ſtretto vincolo di ſangue o di amicizia , o che non curando le veci dell' uno , o dell' altra , non hanno nulla che gli ritragga dal provvederſi i mezzi di ſodisfare anche a quei biſogni che ſono figli del più molle, e faſtoſo luſſo ; e a quegl' infelici, che ſenza queſto compenſo condur dovrebbero i triſti loro giorni in ſeno all'inopia, e allo ſqual lore . Il vantaggio di liberarſi da tante fre quenti , e penoſe cure della domeſtica eco nomia luſinga molto , ed è talor neceſſario , a chi trovandoſi in un'età cadente , accom pagnata per lo più da una infaufta dote di mali, vedrebbe da mercenarie mani rapaci diſperſi, e lacerati i ſuoi fondi , rendergli un frutto di gran lunga inferiore a quello che potrebbe ritrarne perchè diviſo con tanci domeſtici fti pendiati uſurpatori. 78 Quello poi che ſi carica di pagare un frutto maggiore dell'ordinario ha per oggetto non folo di fare in un colpo l'acquiſto di una ragguardevole ſomma , ma di vedere la vita di quello a cui lo paga non oltrepaſſare un tal corſo di anni che la rendita ecceſſiva af forbiſca il capitale , e la ſomma degli inte reſſi ordinarj , che egli ne ha ritratti . Aipri mo arride la ſorte fe ſopravviva un tal nu mero di anni che fatta la ſomına delle an nuali rendite vitalizie , queſta ſuperi il fondo perduto e di più le rendite ordinarie del medeſimo . Favoriſce il ſecondo ſe la morte fi affretti a troncare prima di tal termine i giorni dell'altro . Ecco lo ſpirito di queſto contratto . Per rintracciare nel medeſimo la neceſſaria uguaglianza , e per verificare i noſtri teore mi è neceſſario riflettere , che sborſato il ca pitale che ſi perde , e fiſſata la rendita mag giore dell'ordinaria , vi ſarà un certo nume ro di anni , per il corſo dei quali ſopravi vendo , la ſomma degli ecceſſi della rendita vitalizia full' ordinaria uguaglierà il capita 6 79 le . Se quello adunque che perde il fondo foſſe ſicuro di ſopravivere un tal corſo d'an ni , non potrebbe eſiger di più di queſta de terminata rendita vitalizia . Ma ſiccome quel lo che dà a vitalizio non è ſicuro di vivere un determinato numero d'anni ; per poter rendere eguali le condizioni dei contraenti , è neceſſario fiſſare un tal numero d'anni , che la probabilità di ſopravivere ſia uguale a quella di premorire , e che al caſo che uno ſopraviva o due o tre anni , o qualunque altro numero , ſi poſſa con ugual probabilità contrapporre il caſo che muoja un egual nu, mero d'anni prima . Quando dunque ſi tratta di formare un vitalizio , conviene eſaminare quanto abbia ſopraviſſuto un gran numero di perſone , per eſempio mille , all'età di quello che vuol farlo . La ſomma di tutti gli anni che tali perſone hanno ſopraviſſuto di viſa per il numero delle medeſime , dà un numero , che ſi chiama l'età media . Trovato queſto , ſi ſuppone che chi fa il vitalizio deb ba ſopravivere fino a tal termine , e ſi fa il diſcorſo che ſi è detto di ſopra , quando ſi è 80 fatta l'ipoteſi che uno foſſe ſicuro di vivere nè più nè meno un determinato numero d'anni . Nel fiſſare la media ſi ſono conſide rati gli eventi che poſſono favorire il caſo della ſopravivenza eguali in numero a quelli che vi ſi oppongono ; uguaglianza che ſi ac coſterà tanto più al vero quanto ſarà mag giore il numero delle vite dalle quali ſi ri cava la media . Ecco dunque, come in queſto caſo la ſpe ranza può dirſi uguale al timore , e per con ſeguenza può aver luogo l'azzardo ſenza op porſi alla giuſtizia , ed ecco finalmente ridot to il contratto ai termini dei noſtri teore mi . La ſomma del capitale più le rendite ordinarie , che è il prezzo eſpoſto da chi perde il fondo , deve ſtare alla ſomma delle rendite vitalizie che formano il prezzo eſpoſto dall' altro contraente , come il numero dei cafi favorevoli al primo , al numero dei caſi fa vorevoli al ſecondo ; i quali ſupponendoſi moralmente uguali per l'accennata ragione , ne ſegue che la ſomma del capitale , e delle rendite vitalizie dovrà eſſere eguale alla fom 81 ma del capitale , e delle rendite ordinarie computando tal ſomma fino al termine del la vita media , che per ipoteſi ſi dà ſtabilito per l'indicato calcolo . Si ridurrà dunque l'uguaglianza di queſto contratto a diſtribui re per detto numero d'anni queſta ſomma ; o ſia a rendere anche più ſemplice l'eſpreſ fione , ſi tratterà di aggiungere alle annue rendite ordinarie il capitale diſtribuito per detto numero d'anni . E'evidente che per rendere in queſto contratto le condizioni più eguali convien pigliare un grandiſſimo nu mero di vite per formar la media . E quì ſi oſſervi che ſe poteſſe la probabilità della du rata di una vita fino a un dato numero d'an ni cangiarſi in certezza , ſarebbe tolto affatto l'uſo di queſto contratto : lo che dee dirſi di tutti i contratti di azzardo . Si penſa a can giare la probabilità degli eventi in certezza . Se queſto ſi otteneſſe ſarebbe affatto bandita quella cieca divinità alla quale ſi abbando nano gli uomini per formarne un ramo di commercio . Vogliamo adunque miſurar la forte , non eſpellerla . f 82 Tanto più farà facile in queſto contratto fiſſare la media , quanto più ſaranno ridotte a claſſi diſtinte le perſone delle quali ſi ſom mano le età . Qualità di profeſſione, carattere di temperamento , indole di clima , eligono ſeparate oſſervazioni . In fatti, ſiccome per cali favorevoli s'intendono quelli per i quali ſi prolungano le vite , per contrari quelli che le abbreviano ; e i ſecondi , nel fillarſi l'età media vengono conſiderati moralmente ugua li di numero ai primi ; queſta uguaglianza ſarà più vicina alla vera , quanto maggiore ſarà la parità di circoſtanze . Se abbiaſi però riguardo non ſolo alle an nue rendite vitalizie , ma al frutto delle me deſime, potendoſi eſſe, e il frutto loro cangia re ſucceſſivamente in forte fruttifera ; fic come quello che paga l'annua rendita vita lizia paga un frutto maggiore di quello che ritrae ; dovrà a proporzione ſcemarſi l'ecceſſo della rendita vitalizia ſull'ordinaria . Queſto però non ſi oppone alla verità del teorema terzo ; poichè in tal caſo il prezzo che eſpo ne quello che paga la rendita vitalizia non ܪ 83 farà più quell'ecceſſo della rendita vitalizia ſull' ordinaria , che naſcerebbe dalla fillata proporzione ; ma ſarà un ecceſſo tanto mino re , quanto è la differenza del frutto della rendita vitalizia conſiderato ſucceſſivamente , e per ferie cangiato in forte fruttifera , dal frutto della rendita ordinaria conſiderata nell'iſteſſa maniera , e così cangiandoſi pro porzionalmente le eſpreſſioni dei due prezzi , non ſi cangerà l'analogia . Non farà difficile il perſuaderſi dell'indi cata differenza fe fi conſideri, che chiamata la ſorte totale per eſempio A , e una di lei porzione C , alla quale corriſponda l'annuo frutto B , ſarà la ſerie delle annue rate d'in tereſſe o ſia di ciò che ſi deve ogni anno nella ipoteſi che il frutto ſi cangi in forte , eſpreſſa dalla ſeguente formola . (C + B ) A ,( B ) A ( C ( C + B С N o ſia eſprimendo per Nil numero degli anni ſcorſi dal primo (C + B) À laddove quando il N frutto non ſi cangia in ſorte fi avrà una ſe C_A f 2 84 rie aritmetica il di cui primo numero cor riſpondente al primo anno farà il capitale col frutto ; il ſecondo il capitale col doppio del primo frutto ; il terzo il capitale col tri plo del primo frutto . Il valore adunque del frutto del primo anno ſarà la differenza dei termini di queſta ſerie . Siccome poi nel caſo dell'ultima ipoteſi , tanto la rendita ordiną ria , quanto la vitalizia ſi cangiano in forte; fatte le due ſerie di potenze ſecondo la eſpo fta formula , e ridotte ai termini individui del caſo di cui ſi cerca , ſi conoſcerà il valore della ricercata differenza . Richiaminſi però a queſto contratto i prin cipj ſtabiliti in quello dell'aſſicurazione, e ſi abbia in viſta che per caſi favorevoli , altro non s'intende , che il numero di quelle per ſone che in parità di circoſtanze hanno ſo pravviſſuto un dato numero d'anni , per ſi niſtri poi il numero di quelle che ſono man cate prima ; che queſta parità di circoſtanze vien compoſta talora da molti elementi il valore de'quali dev'eſſere prima a parte no tato ; e che la vita dell'uomo dipendendo da 85 cagioni fiſiche e morali , fa di meſtieri riflet tere al diverſo loro carattere , e alla recipro ca influenza delle medeſime. Lodevolilimo però è l'uſo di far le tavole , o regiſtri, nei quali ſi notino la naſcita , la morte , e gli altri accidenti della vita umana ; poichè queſte ſole appreſtano il fondamento ſu cui ſi appoggiano tanti vantaggioſi con tratti ; ed elle ſole danno la miſura delle forti, e delle aſpettative dei contraenti . Sarebbe in conſeguenza deſiderabile che ciaſcun medico regiſtraſſe privatamente le qualità , e gli accidenti dellemalattie che egli tratta ; ſiccome quelle del temperamento di ciaſcun malato , che egli libera , o che non può ritrarre dalle prepotenti fauci di morte . Queſte ridotte in ſiſtema, e reſe pubbliche riſparmierebbero molte volte la pena di com binarne molte formate da indotti oſſervatori , anzi fovente farebbero neceſſarie ; poichè l'imperito regiſtratore omettendo tutte le circoſtanze , o alcuna almeno delle eſſenziali , rende inutili le ſue oſſervazioni, e appreſta piuttoſto occaſione all'altrui errore , o irri fleſſione . 86 Benchè e da quali tavole ſi potrà mai rica vare la giuſta miſura della vita d'un uomo ? Quot non ſunt caufae , dice S'graveſand intro duft. ad Phil. a quibus vita hominis pendet ? Una di queſte tavole forſe la più eccel lente , perchè ricavata da regiſtri d'interi regni e provincie , è quella di Pietro Süſmlich da lui intitolata : La divina providenza nelle vicende dell'umana ſpecie , dimoſtrata dall'or dine delle naſcite , morti e moltiplicazioni . Celebre è anche quella di Hocdſon fatta appunto per fillare le annue penſioni vitali žie , e dedotta dai cataloghi di mortalità di Londra . Gl’Italiani forſe ſono quelli che hanno traſcurato fin'ora più dell'altre nazioni queſti importanti regiſtri. Oh ſe lo ſpirito d'indu ſtria , e di curioſità , che non è l'ultimo pre gio di queſta nazione ſe l'intendeſſe ſempre con la vera , ed utile filoſofia ! Sono ſtate fatte oſſervazioni meteorologiche , ed ulti mamente l'aſtronomo di Padova il chiariſ fimo S: Toaldo ha dato alla luce un libro nel quale ſono regiſtrate le oſſervazioni fatte 87 í per un lungo corſo d'anni . Più palpabile però , per ſervirmi di una eſpreſſione di un fommo Filoſofo , e più immediata ſarebbe l'utilità delle tavole di cui ſi parla . Vi è tutta la ragione di aſpettarla grandiſſima, dalla aſſiduità , ed efficacia dei noſtri Italiani oſſervatori. Il preſagio comincia ad avve raríi felicemente . Già dai regiſtri delle na ſcite , che la noſtra fanta religione rende neceffari, ſonoſi ricavate delle conſeguenze ſull'articolo della popolazione : ficcome dalle oſſervazioni delle frequenti morti dei bambi ni , ſi è preſa occaſione di rintracciarne la cauſa , e d'indagare la maniera di ſalvare queſti teneri germi , che sì facilmente foc combono anche ad un leggiero urto , e ad una tenue ſcoſſa . Al genere dei vitalizj appartiene quella convenzione , che dal ſuo oggetto chiamaſi: la dote della figlia . Un provido padre sborfa una determinata ſomma di denaro con la condizione che fe una tal figlia di freſco natagli manchi prima dell'età nubile , la sborſata ſomma cada in 88 proprietà di quello che l'ha ricevuta ; ma ſe la figlia arrivi all'età nubile riceva eſſa da queſto una ſomma proporzionata agl'intereſſi decorſi del denaro , e al pericolo in cui ella è ſtata di morire in tal intervallo , e di per der così la ſomma dal padre sborſata . Dovrà in tal contratto rifletterſi che il prez zo , che sborſa il padre per la figlia è uguale alla fomma più le rendite ordinarie fino all anno prefiffo ; quello che azzarda l'altro è l'ecceſſo della dote ſopra la sborfata ſomma , e i frutti ordinari: ecceſſo che fi deve per l'incertezza della vita . Deve dunque come il numero dei caſi favorevoli alla vita della figlia fino alprefillo termine , ſta ai ſiniſtri (a) , o fia ai favorevoli all'altro ; così ſtare la ſom ma sborſata dal padre , più le rendite ordi narie , all'ecceſſo della dote che ſi dovrà alla figlia in caſo di ſopravvivenza ſulla ſomma sborſata più le rendite ordinarie . Havvi un'altro contratto per cui un par ticolare, che vuol comprare una conſidera ( a) Anche in queſto contratto i caſi favorevoli , e i finiftri s'intendono come fi dille parlando de' vitalizji 89 bile carica ; per non privare della ſomma ne ceſſaria a tal acquiſto una famiglia a lui ca ra che la ſua morte potrebbe mettere in braccio alla deſolazione, e all'inopia ; fi fa aſſicurare la propria vita per un dato corſo di anni , pagando , o una ſomma, o un'an nua penſione all'aſſicuratore , che ſi obbliga all'incontro di pagare agli eredi di lui la ſom ma ſpeſa nell'acquiſto della carica , ſe egli muoja prima del termine ſtabilito . La eva luazione della vita , si in queſto , come in tutti gli altri caſi ſi ricava dalle non mai ab baſtanza commendate tavole . Si oſſervi, che in queſto contratto quello che riceve la ſoin ma o l'annua penſione, trova vantaggio nella prolungazione della vita di chi la sborſa , al contrario di ciò che accade nei vitalizj , e negli altri contratti ad eſſi analoghi . Nel for mare adunque la proporzione cangian nome fra loro i caſi che nei vitalizj ſi chiamano favorevoli, o ſiniſtri; del reſto non vi è dif ferenza veruna . E' queſto un contratto di cui tanto meno importa trattenerſi ad eſami nare i dettagli quanto importa più alla feli 1 $ 1 1 1 1 1 go cità di uno ſtato che non poſſa mai trovarſi occaſione d'iſtituirlo . Diaſi però in quella vece una rapida oc chiata a quello che dal nome del ſuo inven tore chiamaſi Tontina . Non differiſce que fto dal vitalizio , ſe non in ciò che ove in quello la rendita annua ceſſa alla morte di colui , che collocò il ſuo capitale a fondo per duto ; in queſto ſi diſtribuiſce nei ſuperſtiti che appartengono alla medeſiına claſſe , e che hanno fatto un ſimile contratto col padro ne della tontina . L'ultimo però di ciaſcu na claſſe conſolida ſul ſuo capo tutte le ren dite che ſi pagavano a quegli che gli ſono premorti nella ſua claffe . A formare le diverſe claſli dà norma la diverſa età . E' celebre la Vedova di un Chirurgo di Parigi la quale morì in età di 90. anni , e godeva 35000, lire di annua penlione frutto di uno sborſo di 600, lire . Dalle tavole di mortalità ſi è ricavata la formula che eſprime in un dato numero di vite coetanee quanti anni ſia per durare la più lunga . Da ciò il padrone della tontina pud co 91 lui il pagare a o il noſcere per quanti anni dovrà pagare le ren dite ; poichè per il ſovra eſpoſto carattere di tal contratto , val lo ſteſſo per ciaſcuno la ſua penſione col diritto di ac creſcere , che hanno quelliche ſopravvivono , pagare la fomma di tutte a quella vita che durerà più dell'altre . Potrà per conſe guenza fiſſare il valore di queſte annue pen ſioni . Si è in oltre trovata la formola che eſpri me , dato qualunque numero di vite coetanee , il tempo in cui uno , o due , o più manche ranno , la formola per il caſo che più perſo ne comprino un annualità da dividerſi fra loro mentre vivono , da dividerſi poi dopo la mor te di qualcuno di loro ugualmente fra i ſo praviventi, e da ricadere finalmente tutta all'ultimo ſuperſtite da goderſi durante la ſua vita ; e queſta ancora dà lume agli azionari ſulla contribuzione che devono preſtare. E faminate queſte formole , ed avuto in conſi derazione il metodo tenuto nel fiſſare la pro porzione per i vitalizj , ſi ritrova facilmente la medeſima anche per le contine . 92 1 1 E' oltre ogni credere benemerito dell'u“ manità il gran inatematico Abramo Moivre , che ha trovate , e applicate le anzidette , e molte altre formole , che ſi trovano nella incomparabile ſua opera intitolata la dot trina degli azzardi . Io non le ho riportate perchè il far ciò e troppo lungo ſarebbe , e devierebbe dallo ſcopo fin da principio pro poſtomi. Benchè peraltro l'unico mio oggetto nell’ eſaminare i contratti d'azzardo ſia quello di fiſſare i principj sù cui ſi fonda l'uguaglianza perchè ſian giuſti ; voglio rammentare , che i più illuminati politici hanno deteſtato l'a buſo di queſte pubbliche rendite , come ap punto ſono le tontine , ed altre di fomi gliante natura . E' troppo chiaro che queſte tendono a ſoffocare i germi dell'induſtria , e ad appreſtare alla parte ozioſa , e indolente della ſocietà armi ſempre nuove per oppri inere la porzione che co'ſuoi ſudori dà moto , ed anima al ben eſſere dello ſtato ; oltre di che ſi oppongono alla propagazione , allet tando eſſe a ſituarſi in uno ſtato nel quale il 1 I 93 generar figli ſarebbe un'accreſcere il numero degl’infelici . En fin je ne me plaindrai plus De l'etoile qui me domine ; Il me reſte encore cent ecus Que je vais mettre a la Tontine : O la charmante invention ! Sans avoir du Dieu Mars eſſuyé le orages , Sans avoir fatiguè la cour de mes hom mages , Je ferai ſur l'etat , & j'aurai penſion . Così cantò un elegante Poeta Franceſe in tendendo così di far la ſatira delle tontine ; e pare di fatto che il Poeta potrebbe ora viver quieto ſu queſto articolo eſſendo eſſe molto ſcemate , e andate in diſuſo , benchè non così gli altri contratti del genere di cui parliamo . Ma d'altra parte eſſendo utiliſſimo, e tal volta neceſſario al ben dello ſtato il poter ſollecitamente raccogliere una grandioſa ſomma di denaro , ſenza imporre perciò nuo ve contribuzioni; ed effendovi talora molti cittadini , le circoſtanze dei quali rendono ad eſſi neceſſario il ſoccorſo di queſte pen 94 . fioni vitalizie ſi potrebbero forſe ritrovare provvedimenti opportuni , per fare un eſame regolato dell'età , e delle circoſtanze di quelli che doveſſero eſſere ammeſſi alla compra delle azioni , e con i neceſſari regolamentipreveni re gl ' inganni , che in queſto articolo intereſ fante poteſſero deludere le pubbliche vedute . 1 1 1 1 . 1 Per eſaminare i contratti della terza claſſe ne quali il rapporto su cui ſi fonda l ' ugua glianza fra i contraenti ſi appoggia in parte alla conſiderazione di leggi certe , e ſicure , e in parte alla ſperienza del paſſato , e a cir coſtanze incerte e di numero indeterminato , ſi ripigli l'eſempio dell'urna , nella quale ab biavi un determinato numero , per eſempio di go. palle . Se la ſperanza dell'eſito felice è affidata all'eſtrazione di una palla ; per la natura di tal contratto , o gioco che voglia chiamarſi, e per le ſue leggi, il numero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri farà come 1. 89,0 ſia chiamando il numero totale m farà il mu mero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri come 1 : m - 1 e per conſeguenza l'aſpettativa del buon'eſito farà = mo ſia -112 95 Ma ſe ſia vero che la palla alla quale è affidata la ſperanza eſca più frequentemente dall'urna che qualunque altra , e l'ecceſſo di tal frequenza ſu quella delle altre ſia Þ ; il numero dei caſi favorevoli non ſarà più i ma bensì 1 Xp ; e quello dei ſiniſtri eſſendo m = 1 , la probabilità della ſperata eſtrazione farà Xp L'addotto eſempio è la norma coſtante di tutti i contratti che poſſano mai cadere for to queſta terza claſſe , come comprendenti le condizioni che ne formano il carattere . Di fatti la probabilità dell'eſtrazione della palla fatale dipende dalle leggi del contratto certe , e ficure che danno il rapporto di e dalla ſperienza , ed oſſervazione delle fre quenti eſtrazioni della medeſima, che danno l'ecceſſo di p ſulla frequenza dell'eſtrazione dell'altre palle nell' urna rinchiuſe , la quale i XP fa che l'aſpettativa diventi I : m ; 112 Non è neceſſario che io offervi che per quanto ſiaſi oſſervato queſto ecceſſo p , non 96 dimeno non è ſicuro e certo che piuttoſto eſca tal palla , di quello che ne eſca un'al tra . E queſta è una di quelle circoſtanze che io chiamo incerte e variabili . Che ſe ſi trattaſſe di paragonare la pro babilità dell'eſtrazione fra due palle , ſicco rapporto che naſce dalle leggi certe e ſicure è lo ſteſſo per tutte due , eſſendo in me il I tutte due ſi dovrebbe attendere ſolamen in te la diverſa frequenza dell' eſtrazione di queſte due palle . A queſto eſempio ſi poſſono ridurre fpe cialmente le offervazioni dei giocatori di lotto , e di quelli che ſi travagliano in oſſer vare quali carte ſi moſtrino più ſovente, o quali facce del volubil dado , ad avvicendare nell'agitato cuore dei giocatori la gioja e la triſtezza. Ben' è vero però che per quanto fiano replicate le eſperienze , in moltiſſimi caſi non apparendo neppure in confuſo una minima conneſſione di tal frequenza con una vera cauſa da cui derivi , non potranno giam mai meritare che le abbia in viſta , chi ra 97 giona ſu dati veri , e non fa caſo di mere e vaganti accidentalità . Se ſi aveſſe a queſte riguardo , molti di quei contratti, che nella prima claſſe ho eſa minati , a queſta terza dovrebbonſi riferire . Ma io per le indicate ragioni , a quella ſola nei ſuoi veri termini inteſa giudico i mede ſimi appartenere . Anche in tali caſi perd vi ſono inolti che credono doverſi fare ſcrupo lofo conto dell'oſſervazioni, e per queſta ra gione ancora approverebbero la mia diviſio ne ; eſſendo queſta terza claſſe da me confi derata in modo che può , ſe vogliaſi, compren dere le medeſime, anche quando non appa riſca la ſopra indicata conneſſione . Che ſe il numero delle offervazioni ſia grande , e i riſultati coſtanti , ed abbiavi qual che conneſſione fra l'eſito della ſperanza , ed una cauſa dalla quale poſla derivare tal frequenza di oſſervazioni, allora non v'ha dubbio che ſiamo nel caſo che caratterizza queſta terza claſſe , e la diſtingue dalle altre . Vi ſono in fatti molti giochi , nei quali l'eſito fortunato dipende in parte dalla pro g . 98 pizia ſorte , e in parte deveſi alla propria in duſtria o deſtrezza nel combinare gli elemen ti del gioco , e rendergli coſpiranti al termi ne a cui ſta anneſſo il guadagno del premio deſiderato . L'induſtria però di un giocatore pud conſiſtere o nella ſola avvedutezza e pre ciſione nell'oſſervare l'eſito delle varie coin binazioni del gioco , che ſi vanno ſuccefliva mente preſentando , e la replicata ſperienza delle quali porge la norma ai caſi avvenire ; o nella deſtrezza maggiore di combinare gli accidenti medeſimi del gioco , di dedurre , di ſcuoprire gli artificj dell'avverſario ; e in qualſivoglia di queſti due aſpetti ſi ravviſi l'induſtria , è ſempre vero che i giochi che di effa , e della forte ſi chiamano miſli, hanno un filo non traſcurabile per cui ſi attengono alla terza clafle dei contratti di azzardo , In un gioco miſto è molto difficile che tornino per appunto le medeſime circoſtan ze ; e quindi è che le oſſervazioni ad e {To re lative ſono della natura di quelle dei con tratti alla ſeconda claſſe appartenenti ; in certe cioè , e incapaci di rendere indubitato 99 e ſicuro l'evento , ma fiſabili quanto baſta per formarne un calcolo che miſuri l ' ugua glianza , acciò il contratto ſia giuſto . Ma ſiccome in queſti giochi medeſimi vi ſono dati ſicuri dipendenti dalle loro leggi inva riabili ; quindi è che eſſi appartengono alla terza claſſe , perchè regolati in parte da tali leggi, e in parte da cagioni incerte e inde terminate , e dalla ſola ſperienza . Siccome però poſſono eſſere o molte o poche le com binazioni che conducono all'eſito medeſimo, a miſura che queſte ſono in maggiore o mi nor numero , prevale nei giochi miſti l'in duſtria o la ſorte . Inoltre la deſtrezza di combinare , di de durre , di rammentarſi gli elementi delle com binazioni che ſono uſcite ſucceſſivamente dalla malla totale delle medeſime nel decorſo del gioco , è variabile , come può ognuno of ſervare, quanto è variabile la tranquillità d'a nimo neceſſaria , la perfetta diſpoſizione di ſa lute , e per conſeguenza l'agilità degli ſpiriti, l'elaſticità delle fibre ; in una parola l'atti vità neceſſaria per ben riuſcire in qualunque 100 impreſa richiegga applicazione di mente , e attuazione di fantasia . Conſiderate queſte come cauſe incerte ed indeterminate , e che ſi poſſono ſoltanto dopo un lungo corſo di oſſervazioni fatte giocando col medeſimo avverſario ridurre a calcolo , e quanto alla loro frequenza , e quanto al grado d'influenza ſull'eſito del gioco ; ecco anche in ciò un motivo per cui il fiſſare l’u guaglianza fra i giocatori nei giochi miſti, dipende, e dalle invariate e ſicure leggi del gioco , e da circoſtanze incerte , e indeter minate , Certo è che nei giochi miſti l'induſtria sà tirar profitto dai colpi della ſorte , e il gioca tore avveduto , dice la Bruyere , imita in queſto un gran generale , e un abile politico . Al valore del primo , e alle vedute del ſe condo è miniſtra la forte . Arrivano entrambi francamente al loro intento per quelle ſtrade medeſime che aperſe il caſo ; e che là metton capo , ove forſe non gli avrebber condotti i mezzi più maturati , e i piùmeditatiprogetti . Nei giochi miſti deve farſi la rifleſſione IOI medeſima di cui ſi parlò trattando dei giochi di puro azzardo . O i giocatori tentano con eguali condizioni l'evento medeſimo ; o un folo tenta la ſorte del gioco , e l'altro ſta ozioſo ſpettatore , e riduce la ſua ſperanza unicamente all'infauſto eſito dell'avverſario . Nel primo caſo ſiccome il numero dei caſi favorevoli e dei ſiniſtri dipendente dalle leggi del gioco , è l'iſteſſo per ambidue , ſi riduce a calcolo l'eſperienza ed induſtria , la quale ſi oſſerva nelle medeſime circoſtanze quante volte abbia ſaputo ridurre a buon termine il gioco ; calcolo che ſi fonda ſopra oſſervazioni molto difficili, e incerte . Giacchè farebbe d' uopo che ſi foſſe ſempre giocato col mede fimo avverſario ; eſſendo la deſtrezza , e abi lità di un giocatore affatto relativa a quella dell'avverſario ; e potendoſi queſto rapporto variare ogni giorno , o reſtar coſtante ſecondo i progrelli , o uguali, o proporzionali , o di verſi, che l'uno , o l'altro facciano nel gio co . E' vero però non meno , che trattandoſi di rapporti , poſſono in qualche modo gio vare le offervazioni fatte dell'abilità di un 102 giocatore riſpetto ad un terzo all'induſtria del quale è noto qual proporzione abbia quella dell'avverſario . Nel ſecondo caſo poi l'induſtria non è più riſpettiva , ma aſſoluta ; e fi riduce a calcolo con l'offervare , nelle medeſime combina zioni , o in non molto diffimili per la natura del gioco , quante volte l'avverſario abbia ottenuto quell'intento che ſi era propoſto , fotto le date condizioni; e quante volte non abbia toccato il termine al quale per otte nere il premio dovea pervenire . Generalmente adunque ficcome il numero dei caſi favorevoli e de'ſiniſtri è dipendente in parte dalle leggi del gioco , in parte dalle oſſervazioni, che miſurano la riſpettiva , e afloluta induſtria , converrà diſtinguere , e calcolare queſti due elementi componenti la ſomma dei caſi favorevoli , e ſiniſtri; e formare poi la proporzione eſpoſta nel Teo rema III.', e nel Corollario . Se non due , ina più ſiano i giocatori , ſi rammenti la regola di ridurre i caſi compleſſi ai ſemplici componenti , e di eſaminare in 103 ciaſcuno a parte le ſtabilite maſſime. Sarebbe un ripetere il già detto ; ſe io voleſſi ram mentare i principj ſtabiliti nei contratti della prima claſſe , e in quelli della feconda . Bafli l'avvertire che in queſti della terza claſſe ove trattaſi dei caſi favorevoli o ſiniſtri, in quanto dipendono dalle leggi certe e ſicure del contratto , convien ricorrere ai priini ; ove poi fia queſtione di offervazioni , e di cauſe indeterminate , conviene eſaminare i ſecondi ; non omettendo mai di riflettere quanta alterazione poſſa produrre l'influenza degli uni , ſu gli altri , e la varia loro com binazione . Stabilite così le leggi ſulla ſcorta delle quali ſi giunge a fiſſare la ricercata ugua glianza in qualunque claſſe di contratti di azzardo ; non devo diffimulare , che uno dei più grandi Filoſofi il Signor d'Alembert ha preteſo di abbattere il calcolo delle pro babilità quanto alla ſua applicazione agli ac cidenti umani . Accid , dic ' egli , queſto cal colo foſſe applicabile , ſarebbe neceſſario , che tutti i caſi che ſono ugualmente poſlibili ma 104 tematicamente parlando, lo foſſero anche di fiſica poſſibilità. Sarebbe dunque neceſſario , che gettata infinite volte in alto una moneta , ſopra una faccia della quale vi ſia impreſſa una marca , per eſempio palle , e ſull' altra una diverſa , per eſempio croce , foſſe ugual mente poſſibile che ſi ſcopriſſe ſempre palle , o croce ; e che ſi ſcopriſſero alternativamente queſte due diverſe marche . Ma benchè ciò ſia ugualmente poſſibile matematicamente parlando , non lo è fiſicamente . E queſta di verſità appunto è quella che fa sì, che il cal colo matematico delle probabilità , non è applicabile ai caſi fiſici . Anzi non ſi potrà mai fiſſare il numero delle volte per il quale duri la poſſibilità fiſica di ſcoprirſi ſempre l'iſtella faccia della moneta , e il limite ol tre il quale non paſſi queſta fiſica poſlibilità , durante però ſempre oltre ogni limnite com'è certiſſimo , ed oltre qualunque aſſegnabile numero di getti , la matematica poſſibilità del continuo ſcoprirſi della medeſima faccia . : Lo prova con una inafſima che egli ſtabi liſce per certa : che non è in natura , che un 1 1 1 IOS 1 effetto ſia ſempre, e coſtantemente il mede fino ; ſiccome non è in natura che tutti gli alberi , ſi raſſomiglino fra loro . Queſta maf ſima lo induce ad argomentare che la pro babilità di una combinazione, nella quale il medeſimo effetto ſi ſuppone accader più vol te , in parità di circoſtanze è tanto più pic cola , quanto queſto numero di volte è più grande , di modo tale che quando queſto è maſſimo, la probabilità è aſſolutamente nulla , o quaſi nulla ; e all'incontro quando queſto numero è aſſai piccolo la probabilità non ne reſta che poco , o punto diminuita per queſto riguardo . Adduce egli moltiſſimi eſempi compro vanti la ſua aſſerzione, e conclude che i re ſultati della teoria dei probabili , quand'anche ſiano fuori di ogni queſtione nell'aftrazion geometrica , ſono ſuſcettibili di molta reſtri zione quando i medeſimi ſi applicano alla natura . Alle ragioni però ingegnoſiſſime di un si grand' uomo converrà adunque arrenderſi , e diſperare della cauſa del noſtro calcolo dei probabili ? 1 106 1 Parmi che ben'inteſi i noſtri principj co me ſono ſtati da noi ſtabiliti, o non ſiano at taccati da tali oppoſte difficoltà , o le mede fime reftino ſciolte . Prima di tutto ſi oflervi che noi trattiamo ſolo di calcolare i gradi di probabilità nei caſi nei quali ſi ſuppone po terſi efla rinvenire . Se diaſi dunque un caſo , che non cada in modo alcuno forto la cate goria dei fiſicamente poflibili , e che per con ſeguenza nè il minimo grado abbia di proba bilità ; io dirò che queſto non è oggetto delle mie teorie ; ma non concederò mai che per queſto non ſi poſſano eſſe applicare perfet tainente ai caſi , che ſiano di fatto filica mente poſſibili. Per conoſcere poi quali ſiano i caſi o le combinazioni fiſicamente poſſibili nel ſenſo del Sig. d'Alembert, è neceſſaria una fre quente e replicata oflervazione . Che ſia fiſicamente impoſibiie ( ſe pure ſi può uſar queſto termine ) che una moneta moſtri un inaſſimo o un infinito numero di volte la ſtella faccia , donde ſi ricava , fe non dall'avere offervato che una tale con 107 tinuazione dello ſcoprimento medeſimo non accade , ma che al contrario ſi vanno alter nando , e cangiando di tanto in tanto le facce della moneta ? Benchè non può dirſi a rigore fiſicamente impoſſibile il caſo in cui per un infinito numero di getti ſi paleſi ſempre l'iſteſſa fac cia , a meno che non vi ſia nella moneta qualche fiſica e meccanica cagione che ciò non permetta . Se ſi concedeſſe ancora ( benchè non ſo quanto ſia dimoſtrato ) che ſia fiſicamente impoſſibile, che ſi dia un albero perfetta mente ſimile ad un altro , non che , come fi contenta di dire il Sig. d'Alembert , che ſi raſſomiglino tutti gli alberi fra di loro ; non correrebbe la parità , per dedurne che nel caſo di un infinito numero di getti di una moneta , l'uniforme ſcoprimento di una fac cia della medeſima ſia fiſicamente impoſſi bile . Poichè vi corre una notabiliflima di ſparità . Tutte le combinazioni le quali fanno , che una coſa non ſia fimile all'altra , danno tanti ios riſultati fra loro diverſi. Dalle diverſe com binazioni infinite che faran caufa che l'ala bero A non ſia perfettamente ſimile all'albe+ ro B , naſceranno tanti alberi fra loro diverſi ; o altri corpi dei quali ſi conoſcerà la diffe renza . Ma dalle diverſe combinazioni che poſſono fare che non venga infinite volte di ſeguito la faccia palle della moneta ; non ne poſſono venire che riſultati affatto ſimili , cioè croce ; poichè ogni volta che non ſi ſcopra palle , ſi ſcoprirà croce . Queſto prova che le combinazioni che ſono contrarie alla per fetta ſomiglianza di due coſe , formano infi niti rapporti , infiniti riſultati dei medeſimi, infinite diverſe compoſizioni di parti dipen denti da infinite meccaniche direzioni delle particelle della materia di infinite poſſibili diverſe velocità , figure ec.: coſe tutte che nel caſo noftro non ſi verificano . Di fatto gli elementi che formano la com binazione , che per infinito numero di volte preſenta palle , ſono tutti ſimili fra di loro , ed hanno fra di loro un folo invariato rap porto . Di modo che ſe ſi ſupponeſſe mutato 109 l'ordine col quale eſce prima la infinita ſerie di palle, e ſi ricominciaſſe il getto , e ritor naſſe di nuovo a ſcuoprirſi infinite volte la faccia che preſenta palle , ne verrebbe un or dine fimiliſfimo al primo , potendoſi dire , che l'iſteſla relazione ha il primo ſcoprimento di palle al milleſimo, che ha il ſecondo al cen teſimo , e così dicaſi di tutti . Talmentechè a rigor parlando , non ſi può dire , che fra queſti getti vi ſia ordine che formi fra effi un rapporto piuttoſto che un altro . Non così degli elementi che formano un dato fiore , o albero ; eſſendo combinabili fra di loro con infinite varietà di ſopra ac cennate . Gli elementi fiſici adunque delle combinazioni nel caſo della moneta ſono ſempliciſſimi, laddove nell'eſempio addotto dal Sig. d'Alembert fono infiniti, dal che ne viene , che la parità non corre ; e dalla fiſica impoſſibilità ( ſe fi ammetta ) di trovare mol te , o anche due coſe fra loro ſimili ; non ne viene la fiſica impoſſibilità che una monetan gettata in aria infinite volte moſtri ſempre l' iſtefla faccia . 110 1 La diſparità compariſce più chiara , fe li rifletta che qualunque vedendo in un dato ſpazio tutte le particelle più minute compo nenti i corpi ; e riflettendo alle variazioni poſſibili della velocità , e della figura delle medeſime; e vedendone in un ſimile ſpazio un altro ſimile numero , avrebbe ſubito infe rita l'impoſſibilità di una combinazione ta le , che ne riſultaſſero due alberi ſimili . Laddove vedendo una moneta , e ſapendo che ſi deve gettare in aria infinite volte , non avrebbe avuta una fiſica ragione di preſagire che non ſi ſarebbe un infinito numero di volte ſcoperta l'iſteſſa faccia , e di credere tal combinazione fiſicamente impoſſibile , come la pretende , fondato ſulle addotte ri fleſſioni , il Sig. d'Alembert . In una parola della impoſſibilità ( ſe tal vo glia chiamarſi ) della ſomiglianza di due al beri ſe ne può addurre a colpo d'occhio una fiſica meccanica ragione ; lo che non può dirſi dello ſcoprimento della faccia di una moneta . Lo ſteſſo a proporzione dicaſi delle diverſe , III combinazioni delle lettere che formano la parola Conſtantinopolitanenfibus. Chi attribuirà al caſo , dice d'Alembert , che ſi combinino in modo tante lettere che formino queſta pa rola ? chi vorrà crederlo poſſibile ? Dunque conchiude egli ſarà ugualmente impoſſibile il continuo per infinite volte ſcoprimento della faccia medeſima di una moneta . Queſto eſempio è molto ſimile a quello dei due al beri fimili ; e ſi riſponde anche a queſto , che ciaſcuna lettera può variare rapporto a tutte le altre , e che ciaſcun riſultato ſarà diverſo . La Luna , aggiunge il Ch. Filoſofo , gira attorno al ſuo alle in un tempo preciſamente uguale a quello che ella impiega nel deſcri vere la ſua orbita intorno alla terra ; e queſta eguaglianza di tempo produce ammirazione , e ſi vuol cercare qual n'è la cagione . Se il rapporto dei due tempi foſſe quello di due numeri preſi all'azzardo , per eſempio di 21 : 33 , niſſuno non ne ſarebbe ſorpreſo , e non ſe ne ricercherebbe la cagione ; e pure il rap porto di uguaglianza è matematicamente و II2 parlando ugualmente poſſibile , che quello di 21:33 ; perchè dunque ſi cerca una cagione del primo , che non ſi cercherebbe del ſe condo ? Lo ſteſſo dicaſi della ſituazione dei pianeti e del rapporto che ha la zona nella quale fono rinchiuſe le orbite loro , alla sfera . Per chè ſi conchiude egli che queſto non è effet to del caſo ? perchè queſta combinazione , benchè matematicamente poſſibile al par dell'altre , ſi riguarda .come effetto di un diſegno , e di una regolarità ? E non ſi crederà poi , che il ſolo caſo non può pro durre quella combinazione per la quale la moneta ſcopra infinite volte di ſeguito fem pre palle; e non ſi crederà queſta fiſicamente impoſſibile , benchè abbia una matematica poſſibilità eguale a quella delle altre combi nazioni ? Ma io riſpondo , che di fatto le com binazioni dei citati eſempi hanno avuta una fiſica poſſibilità uguale a quella di tutte l'al tre combinazioni ; che non vi è forſe argo mento che provi che il caſo non le aveſle po tute produrre ; ma che anche ſe ſi vogliono LI3 fiſicamente impoſſibili al ſolo caſo ; ciò è per chè ſon compoſte di elementi infinitamente variabili ; lo che appariſce a chi ſi faccia di propofito a conſiderare le diverſe cagioni , e le diverſe poſſibili combinazioni, che poſſon far sì che i tempi dei due giri lunari non ſia no uguali ; e che la zona delle orbite plane tarie abbia alla sfera un rapporto diverſo da quello che ora ha infatti; cagioni tutte fi fiche , e meccaniche . Di più dico , che l'uguaglianza dei corſi della luna intanto a noi fa impreſſione, in quanto che il rapporto di uguaglianza è quello al quale ſi fogliono riferire tutti gli altri; e tutta la differenza che fra eſſo , e gli altri paffa , non è che metafiſica ; e nulla po ne di fiſico per cui tal combinazione debba eſſere più difficile dell'altre . Lo ſteſſo dicaſi della parola Coſtantinopoli tanenſibus . Queſta combinazione di lettere fa ſpecie a noi che intendiamo il ſenſo della parola , e che al ſuono della medeſima abbia mo legataunidea ; non così a un Turco idio ta il quale non col nome di Coſtantinopli b 114 ma con quello di Stamboul è avvezzo a no minare la ſuperba metropoli dell'Impero Ot tomano . Non contento Monſieur d'Alembert degli eſempi addotti in conferma della ſua aſſer zione , l'appoggia ad altre due rifleſſioni. Si fa che la durata media della vita di un uomo , contando dal giorno della ſua naſcita è all'incirca di 27 anni ; ſi è pure conoſciuto per mezzo delle oſſervazioni, che la durata media delle ſucceſſive generazioni più ome no è di 32 anni ; finalmente ſi è provato per tutte le liſte della durata dei regni di ciaſcu na parte d'Europa , che la durata media di ciaſcun regno è di circa a 20 in 22 anni . Si può dunque dic' egli , ſcoinmettere non ſolo con vantaggio ma a gioco ſicuro che 100. fanciulli nati nel medeſimo tempo non vive- , ranno che 27 anni l ' un' per l'altro; che 20 generazioni non dureranno più di 640 anni in circa ; che 20 Re ſucceſſivi non viveran no che intorno a 420 anni . Una combina zione adunque che non daſſe intorno a 27 . anni la durata media della vita dell'uomo, IIS pigliandone cento a eſaminare , o non dalle di 32 anni la durata media di 100 fuccef five generazioni ; oppure portaſſe che 20 Re ſucceſſivi regnaſſero , o molto più , o molto meno di 420 anni , non ſarebbe fiſicamente poſſibile ; eppure lo ſarebbe matematicamen te parlando . Dal che riſulta che vi ſono al cune combinazioni matematicamente pofli bili , che ſi denno eſcludere, quando eſſe fo no contrarie all'ordine coſtante della natu ra . Dunque la combinazione in cui , o infi nite volte , o un gran numero veniſſe ſcoperta ſempre la medeſima faccia della moneta , benchè di matematica poſſibilità uguale a quella di qualunque altra combinazione , dev’ eſſere rigettata . E' nell'ordine naturale , ché un banchiere di faraone , che ha dei caſi favorevoli più che dei ſiniſtri ſi arricchiſca coll'andar del tempo . Di fatti ſi oſſerva coſtantemente , che non vi è banchiere , che non accumuli groſſe fomme di denaro . Queſto prova , che quelle combinazioni , che hanno più caſi contrari che favorevoli , ſono alla fine di un certo b 2 116 tempo, meno fiſicamente poſſibili che le al tre ; quantunque matematicamente parlando tutte le combinazioni ſiano ugualmente pof ſibili . Dunque conclude egli , la combina zione , la quale preſenti ſucceſſivamente per un gran numero di volte ſempre la ſteſſa fac cia della moneta dev'eſſere eſcluſa . Per riſpondere a queſti due eſempi parmi che prima di tutto ſi poſſa negare la fiſica impoſſibilità , che con tanta franchezza ſi af feriſce della durata media della vita di un' uomo diverſa dallo ſpazio di circa 27 anni. Ed io ſono ben perſuaſo che eſaminando il caſo della vita di molte centinaja d' uomini ſe ne troveranno di quelle , o aſſai maggiori , o aiſai minori dello ſpazio di 27 anni ; dun que tale combinazione non fi deve ſcartare come fiſicamente impoſſibile. L'iſteſſo dicafi di quella , per cui un banchiere in vece di arricchire ſi vedeſſe dal gioco medeſimo ri dotto all' inopia ; caſo che non è poi sì in frequente ad accadere . Dicafi piuttoſto che l'una , e l'altra di queſte combinazioni con tenute nei due eſempi addotti dal chiarilli 117 mo d'Alemberţ ſono molto difficili, e tanto più , quanto l'ecceſſo dei caſi contrarj alle combinazioni medeſime ſupera il numero dei favorevoli ; lo che conviene appunto con li da me ſtabiliti principj . Venendo poi al caſo noſtro dico , che fo no varie , e moltiſſime in numero le cauſe vere , e fiſiche che influiſcono ſulla vita degli uomini . Ma trattandoſi del getto della mo neta , non vi ſono principj fiſici diverſi, e tali , che ſi debba in vigor deị medeſimi pre dire piuttoſto una , che l'altra delle combi nazioni , che a rigor parlando non ſono che due , come più ſopra ſi è offeryato . L'ordine delle umane coſe , e le fifiche qualità , e coſtituzioni dell'uomo, e delle ca gioni che lo poſſono privar di vita , ſon con ſultati nel primo caſo ; nel ſecondo nulla hav: vi di fiſico che ſi poſſa conſultare a formare il preſagio . Dunque fi pud predire , che ioo o maggior numero di uomini avranno preſi inſieme un corſo di vita uguale a quello di altri 100 uomini ; benchè prima di aver faţte le offervazioni non ſi poſſa cal corſo file 1 b 3 118 ſare; così prima di aver’anche fatte le oſſer vazioni, conoſciuto il ſiſtema del gioco del faraone ſi può predire che un numero molto maggiore farà quello dei banchieri che arric chiſcono , che non ſarà quello degli altri che ſi rovinano . E ciò perchè veramente vi ſono delle intrinſeche cagioni che portano a for mare queſto preſagio , e cagioni che naſcono dal ſiſtema del gioco . Ma chi sà dire qual fi fica ragione addur voglia uno , che vedendo gettarall'aria una moneta , aſſeriſca che è fiſicamente impoſſibile, che o per un maſſi mo , o anche infinito numero di volte , pre ſenti ſempre la ſteſſa faccia ? Varie poſſono eſſere le maniere di gettare in alto la moneta . Si può gettare a una gran de altezza , e a una piccola ; con poca forza , e con molta ; con tale direzione che la baſe faccia angolo retto con l'orizzonte ; o che lo faccia obliquo ; oppure in modo che ſia ad eſlo parallela . Si può anche gettare in ma niera che ſomigli quaſi il laſciarla cadere leggermente da un punto fiſſo . Fermiamoci ad eſaminare queſt' ultima ipoteſi; e ſi ve 1 1 119 1 drà , che laſciandola in tal modo cadere , ſpecialmente a piccola altezza , anche in finite volte , non vi è ragione di preſagire , che non poſſa eſſere coſtante lo ſcoprimen to della faccia medeſima . La impoffiſibilità di queſto uniforme ſcoprimento , la inten de egli il Signor d'Alembert in queſto ca ſo , o negli altri caſi ? Se la intende in queſto caſo , come dunque ſi verifica , che il ſolo or dine della natura renda impoſſibile queſto u niforme ſcoprimento ? Se poi non la intende in queſto caſo , come dunque ſi verifica uni verſalinente la ſua maſſima ? Ma io aſſeriſco eſſere più conforme allo ſpirito delle ragioni del Sig. d'Alembert , che anzi egli intenda di queſto ſolo caſo in cui non altro appunto , che un non sò quale fatal ordine della natu ra ,potrebbe cagionare la preteſa variazione . Che ſe pure ſi trattaſſe degli altri caſi , dico che nonoſtante la variabilità delle combina zionidell'impeto ,dell'altezza , della direzio ne ; queſte non poſſono valutarſi in modo da rendere fiſicamente impoſſibile l ' uniforme ſcoprimento; poichè gli effetti di queſte va 120 riabili combinazioni, non ſono che due ; o lo ſcoprimento di palle, o lo ſcoprimento di croce ; e non ogni variazione , e combinazione di tali cauſe influiſce a diverſificare gli ef fetti: come peraltro ſuccede negli eſempi ad dotti dal Sig. d'Alembert , nei quali trattan doſi di rapporto , o di diverſa conſociazione di parti , ognun vede , che ogni variazione influiſce a produrre un effetto diverſo . O ſi riſguardi adunque la diverſità negli effetti ; e negli addotti eſempi, queſti ſono in finiti, nel caſo noftro non ſon che due non potendoſi voltare , che palle , o croce ; o ſi ri guardi la diverſità nelle cagioni che tali ef fetti producono; e negli addotti eſempi, ſo no anch'eſſe infinite , giacchè ogni minima variazione influiſce come nuova cauſa ; nel caſo della moneta non è così , potendoſi dare moltiſſime combinazioni di forza , altezza , direzione, che producano ſempre l'iſteſſo effetto ; potendoſi anche dare che in infiniti getti , o in un numero aſſai grande , ſi man tenga l'iſteſſa direzione , benchè obliqua; l'iſteſſa altezza benchè grande; l'iſteſſo im 1 1 pero , benchè forte; oppure che fi muti ad ogni getto . Parmi adunque che e queſti ultimi e gli altri addotti eſempi, o non combinano con quello della moneta ; o al più provano una no tabile difficoltà nella combinazione che pre ſenti ſempre l ' ifteffa faccia della moneta ; verità che ſi accorda perfettamente con gli eſpoſti principj; poichè le oſſervazioni me deſime ce lo fanno conoſcere ,ed io ſuppon go nell' applicargli, il caſo probabile , e con la ſcorta dei medeſimi ne cerco il grado di probabilità ; dal che ne viene che la teo rìa non è applicabile ai caſi ove o neſſuna o quaſi neſſuna probabilità del buon eſito appariſca , per poterne formare la propor zione . . Quando poi cominci il numero in cui non ſia ſperabile un continuodiſcoprimento di una fola faccia della moneta , le oſſervazioni, e non altro , poſſono moſtrarlo ; quelle oſſer vazioni io dico , che io medeſimo ho prefe per ſcorta in moltiſſimi caſi appartenenti alla materia dei contratti di azzardo. 122 } E' poi tanto evidente che la propoſizione del Sig. d'Alembert non atterra l'uſo del calcolo delle probabilità , che anzi in qual che caſo ſe ne poſſono tirare delle conſeguen ze , che lo conferinano . Chi gettando un dado intraprende di ſcuo prire per eſempio il 6 non vorrà gettarlo una ſol volta , quando debba azzardare una fom ma eguale a quella che azzarda l'avverſario ; ma vorrà gettarlo più volte . La ſua ſperan za è ,che non voltandoſi ſempre l'iſtello nu mero che al primo tratto ſi ſcuopre, e che può non eſſere il 6 , arrivi in più volte a vol tarſi anche il 6 ; altrimenti ſe non fcopren doſi alla prima il 6 ſi doveſſe ſempre ſcopri re in tutti i tratti ſucceſſivi quel numero che ſi ſcopre il primo , la ſua perdita ſarebbe ſicura . La ſperanza dunque di queſto gio catore acquiſta tanto maggior fondamento quanto più è vero che ſia impoſſibile che ſi volti ſempre quel numero che alla prima fi ſcoprì; impoſſibilità , che reſta compreſa nel la impugnata opinione del Sig. d'Alembert . Stabiliti i principj regolatori dell' ugua 123 glianza nei contratti d'azzardo , e difeſane l'applicazione non reſta che a deſiderare , che uomini di ſublime ingegno , e di pro fondo ſapere ſi applichino in gran numero ad eſtendere ſempre più l'uſo di una dottri na sì utile . Quanto a me , mi pare di aver ottenuto il mio intento , ſe poſſo luſingarmi di aver formate ed eſpoſte idee giuſte, e chia in un articolo per una parte sì arduo , e per l'altra sì intereſſante.

CODRONCHI (NrcoLA), na cque in Imola il 2o aprile 1751 ed alla patria e al casato accrebbe lu stro e decoro: perchè già rapida-, mente corsi gli studii delle amene lettere e della eloquenza sotto la disciplina de' Gesuiti, e con pub blico saggio nelle materie di filo sofia sperimentatosi non ancora compiuti gli anni 16, potè dallo stesso genitore nelle matematiche, delle quali era egli peritissimo, essere ammaestrato. E col magi stero di quella scienza sublime, illuminando la mente già ordinata a diritti giudizii e scorto da pre cetti delibati dalla scuola non fal libile degli antichi esemplari, com formò la scrittura alla altezza del pensiero, alla cultura dello spirito ed al candore dell'animo : nè i gravi studii della giurisprudenza cui tennesi in Roma applicato (insegnatore monsignor Giovan nardi concittadino di lui, e fiore de giureconsulti) gli tolse di col tivare la poetica, alla quale senti vasi per tal guisa inclinato, che poco oltre il terzo lustro di età bastò a dettare alcuni componi menti i quali resi pubblici con le stampe trovarono grazia e lode somma ne cultissimi di quel tem pi, e sì pure in Arcadia alla cui accademia appartenne col nome pastorale di Cratino. E sono ne gli scritti di lui altri saggi in tal genere di lettere che a migliori poeti, onde la città di Santerno si onora, il pareggiano: che se come ne sono degni verranno presen tati al pubblico giudizio, ben si farà manifesto aver egli con arte maestra saputi attingere da cia scuno de più valenti Imolesi quei modi sceltissimi onde le loro ope re di bella luce risplendono mel l'italiano parnaso. Il carme in fat to robusto e nervoso tal come u sciva dalla penna di Antonio Zam pieri, e castigato ad un tempo ed elegante, quale il vedi in Camil lo, muove nel Codronchi con quella spontanea e nobile sempli cità che t'invaghisce nel Canti; 282 e si abbella di quelle grazie ed e leganze di che lo Zappi infioriva le soavi e dolci sue rime. Tornato in Imola venne decorato della cro ce di Santo Stefano, e nella Imole se accademia degli Industriosi di cui fu socio si mostrò erudito ed elegante oratore e poeta: d'indi a non molto passato per le caro vame a Pisa ebbe colà lezioni di pubblico diritto da quell'alto spi rito del Lampredi, che il tenne in istima d'ingegnoso e di colto, e che lo ebbe sempre carissimo. Quindi il magnanimo gran duca Leopoldo gli conferì la carica di ispettore delle carovane, e ad un tempo la cattedra di etica; intor no a che compose un trattato qua si corso di lezioni, degno per fer mo di essere fatto di pubblica ra gione: ed a quel principe intitolò il Codronchi una eloquente e dot ta Orazione composta eletta, per incarico da lui avutone, al capito lo de'cavalieri Circa l'origine, le leggi ed i fasti dell'ordine, che fu pubblicata il 1779, pel Cam biagi in Firenze, dai torchi del quale uscì nel seguente anno 1785 altro grave e prezioso libro col titolo di Saggio sui contratti e giochi d'azzardo, ove risplende la dottrina di pubblico economista e di filosofo; ed ove la materia gravissima, e che diresti poter so lo dimostrarsi col soccorso del cal colo, per la chiara sposizione pia ma e facile si mostra alla intelli genza comune, Corse intanto tal fama del sa pere di lui alla corte di Ferdinan. do di Napoli, che con reale decre to del 25 novembre 1787, il no minò membro del supremo consi glio di Finanze; nel qual tempo venne ad egual carica eletto quel sommo ingegno di Gaetano Filan gieri, cui il Codronchi fu poi sempre stretto con vincoli di re ciproca stima e di amicizia tene rissima. E ben di questo è prova il pa rere dal Filangieri proposto al re intorno all'enfiteusi del così no mato Tavoliere di Puglia che leg gesi negli opuscoli di lui pubbli cati pel Silvestri in Milano il 1818. ove egli da maestro discorre ciò che con grave senno e sapere a veva il suo collega consigliere Codronchi proposto , quando a questo fine per sovrano volere eb be a recarsi in queHa provincia. Del quale importantissimo servi gio ebbe onore da maestrati quivi preposti alla agraria economia che con parole di lode il provvedimen to del principe ed il nome del be nemerito consigliere in latina e pigrafe eternarono; e n'ebbe dal monarca eziandio meritato pre mio: imperciocchè gli di grado di consigliere effettivo con voto, e di sopraintendente alle dogane ed alle zecche del regno; nel che adoperò a maniera, che sommo vantaggio m'ebbe lo stato per la retta amministrazione di quegli ufficii, ed a lui vennero per mol te lettere di mano della stessa regnante Carolina onorevolissime lodi. Seguì il Codronchi la real corte a Palermo quando dovè colà ri fuggirsi nel 1798 : e con essa lei tornò al suo impiego in Napoli nel seguente anno 1799. Salito al trono il re Giuseppe, volse tosto gli sguardi ad esso lui come a spec chio di sapiente reggimento e di non comune interesse, e gli confe rì la carica di consiglier di stato, di cavaliere del nuovo ordine del le due Sicilie da esso lui istitui to: ma la mal ferma salute che gli vietò continuare a quel monarca i suoi servigi, e che il tolse a quel regno ove lasciò fama durabile del suo merito, procacciò alla patria il conforto di vederlo tornare fra' suoi concittadini de quali era de siderio e delizia : e ben l'ebbero eglino zelantissimo della pubblica 283 morale, e civile istruzione dei giovani a quali col più potente dei precetti, l'esempio, era di bel la guida e di stimolo; e per l'im portante buon regime delle acque operoso; e di quant'altro poteva interessare il pubblico vantaggio studiosissimo: nè mancavano ai mendici dalla mano benefica di lui generosi soccorsi i quali seppe providamente elargire, anzichè ad alimento dell'ozio, a meritato sollievo della vera indigenza. Illi bato del costume e per la esqui sita erudizione della quale era for nito nella sociale consuetudine piacentissimo, con la serena calma del giusto vide giungere l'ora e strema del vivere, che a suoi cari ed alla patria il rapì nel giorno 15 novembre 1818, in età di an mi 67: e della acerba morte di lui amaramente si dolse l'universale della città desolato per la perdita irreparabile di quest'uomo chia rissimo nel quale si ammirarono congiunte a sapere profondo in o gni maniera di scienze e di lette re, integrità di vita e dovizioso corredo di ogni bella virtù. Nicola Codronchi. Keywords: contratto, tre tipi di contratto, contratto epistemico, contratto empirico, contratto misto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Codronchi” – The Swimming-Pool Library.

 

COLAZZA: (Roma). Filosofo. Grice: “Having gone to Clifton, I love Colazza – he is into ‘iniziazione’ – specially in the equites of ancient Rome, but not much different from mine!” Di una famiglia dell'alta borghesia romana, e istruito agli studi umanistici e si laurea a Roma. Cultore dell'esoterismo e delle dottrine massoniche e teosofiche. Fonda il club antroposofico in Italia. Dall'incontro con l'antroposofia Colazza apprese l'esigenza di seguire pratiche spirituali di concentrazione adatte al contesto occidentale, coltivando in particolare la «via del pensiero cosciente».  Altre opere: Dell’iniziazione (Tilopa); La magia del noi di Ur (Edizioni Mediterranee). Evola e l'esperienza del Gruppo di Ur.  A strong anthroposophical influence came from Giovanni Colazza and Duke Giovanni Colonna di Cesard . Close to the group , which adopted the name UR , were Guiliano Kremmerz ( 1861-1939 ) , founder of the Fraternity of Myriam. Sedute spiritiche che si svolgevano in casa dell'amico Giovanni Colazza, e che talvolta si protraevano sino all'alba. SPUNTI DALLA CONFERENZA TENUTA IN ROMA CIRCA IL TEMA DELL’INIZIAZIONE. VENERAZIONE E CALMA INTERIORE”. Il saggio l’Iniziazione mi fu consigliato da Steiner in francese a Piazza Spagna, come un saggio importante, da tenere sempre presente come guida.  L’uomo così come nella vita quotidiana serve a poco o niente per il mondo dello spirito. Siguo Steiner più o meno il saggio, aggiungendo poi altri insegnamenti estremamente utili per ottenere reali risultati. La nostra persona, di cui siamo coscienti, è solo un riflesso del nostro ‘noi’. È molto utile per giungere alla conoscenza del nascosto ‘noi’, distinguere e separare in noi il pensare che p, il sentire che p e il volere che p. Cita l’aneddoto di Eurialo e Niso, che viveno nell’illusione di essere il suo ‘noi’ contingente. L’esoterismo e facile, se si conforta sempre donandoci personali indicazioni, circa gli esercizi e la pratica esoterica. Ma ora, invece dobbiamo cercare fedelmente e scrupolosamente quello che possiamo accogliere e applicare a noi stessi.   Si dice che è importantissimo cominciare sviluppando il sentimento di ‘venerare’. Non bisogna fraintendere il concetto di “venerazione” con uno stato di esaltazione interiore dovuto all’insegnamento che il tutor ci può dare e che noi accettiamo per co-ercizione intellettuale o sentimentale o per atto di fede: ma non è assolutamente questo. Il fatto da riconoscere è questo. Il calore dell’anima è vita stessa per l’anima. L’accogliere freddamente contenuti spirituali, ci riempie soltanto il ‘noi’ di nozioni, senza far penetrare la forza dello spirito. La venerazione e il calore di nostre anime sono l’attività di nostre anime stesse. Bisogna aprirsi a tali rivelazioni della psicologia filosofica come dottrina dell’anima, con atteggiamento di venerazione. I meravigliosi quadri circa l’evoluzione del cosmo devono risvegliare in noi ammirazione, meraviglia e riconoscenza per la gerarchia.  Tale stato di nostre anime destano in noi questo calore, la venerazione per co-esseri e fatti spirituali, ai quali siamo debitori.  Astenersi dalla critica e dal giudizio, cercare di cogliere nell’altro non il difetto, ma la qualità migliore, incoraggiare ciò che vi è di meglio. Il biasimo è energia perduta. Il sentimento positivo e buono e per le nostre anime come la qualità dell’aria che inspirando mettiamo in circolo nel corpo. Più è pura, più saremo sani. Il godimento rappresenta una lezione per l’uomo quanto il dolore, soltanto che è più difficile leggervi dentro. Non bisogna fermarsi alla sensazione del piacere, ma ricercare nel godimento il contenuto più elevato da cui promana, che ne è l’artefice e il senso, ma la sua essenza più intima. Occorre coltivare momenti di raccoglimento, lavorando sui ricordi: rievocare immagini mnemoniche di fatti passati, o della giornata trascorsa ricercando nelle nostre anime l’eco di ciò che aleggia in quelle passate percezioni. Bisogna passare in rassegna gli eventi con meticolosa analisi, oggettivarli, senza applicare alcuna speculazione né alcun giudizio; osservare tutte le concatenazioni, semplicemente contemplarle in modo neutro, lasciando che siano esse a svelarci qualcosa. Noi dobbiamo fare il silenzio. Tale lavoro equivale ad anticipare ciò che avviene nel sonno, quando la gerarchia penetrando nel nostro corpo astrale e nel ‘noi’, inseriscono i loro giudizi. L’impazienza è un perdere energie. Il tono generale della preparazione è quello di una ri-educazione su nuove basi, della vita di pensiero e di sentimento, tramite speciali esercizi. Bisogna entrare nel ritmo della ripetizione, senza lasciare che la nostra natura inferiore si ribelli, rifuggendo gli esercizi. La noia è un grande nemico. ESERCIZIO DELLA PIANTA CHE APPASSISCE. Bisogna osservare una pianta in pieno sviluppo afferrando tutti i dettagli; osservarla e riceverne una percezione così chiara che, chiudendo gli occhi, possa rimanere come chiara immagine interiore di fronte a noi. Esercitarsi con la forma esterna cercando ad occhi chiusi di ricordarla, visualizzandola. Quando si riceve un’esperienza non bisogna assolutamente tradurla in concetti con le parole: bensì mantenerla in sé e coltivarla. PREPARAZIONE E ILLUMINAZIONE. Altra cosa importante da fare è dirigere l’attenzione sul mondo dei suoni. Analizzare e realizzare la differenza fra i suoni di origine minerale immota, e quelli di natura vegetale o animale. Fra lo scroscio dell’acqua, il fruscio delle foglie nel vento, il rotolare di una pietra e il rumore di una macchina vi è una diversa manifestazione delle Forze cosmiche. Cessato il suono, dobbiamo prolungare in noi il suo effetto, ma non attraverso l’udito, ma tramite l’orecchio dell’anima, senza immaginare nulla: aspettare in Silenzio il sorgere di qualcosa. Le potenze spirituali non si trovano e si lasciano trovare come avviene nel mondo sensibile quando si va a monte di un effetto per ritrovarne la causa: sono Esse a decidere per loro deliberazione, se è lecito o no farsi percepire dal ricercatore. Sono Esse che devono e vogliono trovare l’uomo, solo se posto in un determinato stato di accoglimento interiore. Le percezioni immaginative si manifestano come impressioni interiori paragonabili ad impressioni suscitate in noi da un dato colore fisico; la percezione soprasensibile appare rivestita da un colore perché il suo contenuto animico è affine a ciò che quel dato colore equivale corrispondentemente come manifestazione animica. La percezione di un rosso osservato nel mondo fisico, genera in noi un particolare sentimento, contenente qualità animiche: l’Entità che ci appare immaginativamente se ha in sé del rosso, significa che contiene in lei delle qualità e dei contenuti animici affini a ciò che nel mondo fisico ci appare come rosso. E’ un grave errore ritenere che ci si deva attendere nel mondo spirituale come una “ripetizione” più sottile delle forme del mondo fisico. Lo spirituale ha qualità totalmente dissimili dal fisico. Bisogna sviluppare sempre più simpatia e compassione verso gli uomini e gli animali e sensibilità per la bellezza della natura. IL NON VEDERE RISULTATI DURANTE IL TIROCINIO. Spesso il discepolo non si avvede degli effetti e dei risultati derivanti dagli esercizi occulti. Ciò è dovuto al perché si tende a guardare fisso in una direzione, attendendosi di ricevere qualcosa solo da quella direzione, senza accorgersi che ciò che invece è arrivato, promanava a noi da un’altra direzione. Vi sono due gravi ostacoli nella percezione immaginativa: presupporre e attendersi in modo personale ciò deve avvenire; confondere le percezioni di colore con le sensazioni di colore fisico, quasi cercando con gli occhi all’esterno, ciò che invece può apparire solo interiormente. Le percezioni di colore o di forma, non promanano dall’ente osservato, ma sorgono in noi, nascendo dalla nostra interiorità. La conferma circa l’autenticità di aver avuto una vera esperienza spirituale è confermata dall’avvertire in sé il sentimento di aver come sperimentato uno stato già provato; non che l’immagine percepita ci è a noi nota, ma che il sentimento provato durante l’esperienza è un qualcosa di già vissuto, in un passato remotissimo (atlantideo o lemurico).  È un primo passo verso il riconoscere in coscienza il proprio primordiale passato, quando si era in completa unione con il mondo spirituale. ESERCIZIO DEL SEME. Osservare con gli occhi fisici un seme: forma, colore, peso, dimensioni, rapporti. Fatto ciò, occorre interiorizzare l’immagine, astraendosi dalla percezione fisica del seme, sforzandosi di visualizzarlo nel campo della propria coscienza, ad occhi chiusi. Si pensi che in esso è virtualmente presente in potenza l’intera pianta: vi è in lui un’Idea, una Legge naturale invisibile che lo governa, la quale manifesterà in un futuro sulla Terra la pianta in lui ora nascostamente contenuta. In lui dimora una potentissima forza vivente, che si cela alla nostra vista, invisibilmente. Rappresentarsi poi il processo temporale, di crescita in successione, nel triplice ritmo della sua costituzione: radice,  fusto, fogliame, fiori, frutto. Non è importante curare i dettagli, ma sentire la forza di questa manifestazione, la potenza creativa che si esprime nell’espansione dirompente delle forze insite nel seme. Quel che noi sentiremo come potenzialità espansiva è l’elemento invisibile del seme: la forza eterica. Il ritmo perenne del mondo vegetale trascende il seme stesso come dato immediatamente sensibile e percepibile. Ci si volga di nuovo al seme (aprendo gli occhi?) collegando ad esso l’intero processo immaginativo delle potenziali forme di crescita, dell’invisibile che è diventato visibile. La forza che ne risulterà si tradurrà in noi come facoltà di visione: una specie di nube luminosa, una specie di piccola fiamma di colore lilla-azzurro, aleggiante intorno al seme. Ciò è la vivente forza vitale che edificherà la pianta. ESERCIZIO DELLA PIANTA. Osservare una pianta in completo sviluppo, sforzandosi di vedere in essa immaginativamente l’attuarsi del ciclo seme-pianta-fiore-frutto seme, realizzando così un senso di perennità della vita vegetale, espressa nella sintesi della forma della pianta stessa.  In un certo senso, è come se dalla pianta-spazio momentanea, si estraesse la pianta-tempo, ossia l’Idea totale o Essere di specie vegetale a cui appartiene quella pianta. Pensare poi che vi sarà un tempo in cui questa pianta non esisterà più, sarà scomparsa. Questa pianta verrà annientata, ma non la sua specie: essa ha generato dei semi tramite i quali, l’Idea della specie continua l’esistenza in altre piante. Senza distogliersi dalla percezione spaziale fisica della pianta, bisogna sovrapporvi l’immagine di ciò che ella sarà nel futuro, che avvizzisce e che appassisce, disseccandosi, di quella realtà celata ai nostri occhi. La pianta morirà, ma non morirà l’idea o la legge che l’ha generata e fatta agglomerare. Questo trasportarsi nella dimensione delle potenzialità ora latenti, della pianta in oggetto, produrrà in noi la visione di una fiamma. Un’indicazione personale che voglio offrire, è di cercare di contemplare le forme, partendo da una diversa prospettiva rispetto quella usuale. Se si osserva una pianta, solitamente il fusto è perpendicolare all’asse degli occhi. Si provi a piegare la testa, in modo che esso diventi parallelo all’asse degli occhi. Il modificare il modo abituale di vedere, favorirà l’esperienza spirituale. L’obiettivo di questi esercizi è di trascendere l’oggetto percepito per arrivare al suo contenuto immaginativo. ESERCIZIO DELL’UOMO. Prendere in esame il ricordo di un evento in cui abbiamo assistito alla trasfigurazione nei movimenti e nei gesti di un individuo preda di un fortissimo desiderio. Sforzarsi di sentire in noi quel sentimento di brama o desiderio. Pur sorgendo, trasferendo in noi tale sentimento, esso deve rimanerci estraneo, tanto da poterlo osservare obiettivamente, senza parteciparvi con sentimenti e pensieri. Appariranno diverse gamme di sfumature di colori. Altro errore è di compiacersi inavvertitamente o di stupirsi nell’attimo in cui si ha un’esperienza spirituale: si genera difatti un’onda nel sentire che annega l’esperienza stessa. Altra qualità indispensabile da sviluppare è il coraggio o intrepidezza. Certe esperienze spirituali, dalle quali siamo ordinariamente protetti alla loro percezione, sono impossibili da sostenere senza tale qualità. Aver fiducia nelle potenze spirituali, è come aprire un varco ad esse verso di noi: se veramente desideriamo da loro un aiuto, attraverso la fiducia in esse verremo soccorsi e sostenuti. LA DIETA ESOTERICA. L’alcool è da evitare, anche durante i pasti e anche se assunto in piccole quantità: esso immette nel sangue un elemento anti-Io che si oppone all’autonomia dell’Io; una specie di neutralizzatore fisico dell’esperienza spirituale. L’alcool limita, distorce o impedisce la possibilità di giungere ad una percezione cosciente del mondo spirituale. Bisogna giungere a sentire spontaneamente ripugnanza, un naturale disgusto verso la carne; essa contiene sostanze che favoriscono l’irregolare autonomia di certe condizioni del corpo astrale. Inoltre essa paralizza le forze contenute nel ricambio, le quali sono di natura prettamente spirituale. I vegetali che si sviluppano sotto terra, senza la luce solare, come funghi, legumi, sono meno indicati di altri che si impregnano di luce solare, come i pomodori o le arance. GLI EFFETTI SUL CORPO FISICO SUSCITATI DAGLI ESERCIZI. Tutti gli esercizi antroposofici, tendono a realizzare una maggiore mobilità del corpo eterico: nell’antichità, per ottenere questo ci si aiutava attraverso particolari tecniche di respirazione. Oggigiorno, tali pratiche sono dannose: si realizzano difatti degli strappi fra l’eterico e il fisico; se tuttavia se si verificasse qualche esperienza spirituale, sarebbe priva di controllo, casuale. Le pratiche respiratorie sono sconsigliabili. A seguito degli esercizi antroposofici, la respirazione assume spontaneamente un nuovo ritmo. La mobilità del corpo eterico offre la possibilità di percepire il proprio corpo fisico come un elemento estraneo. Si possono, durante il tirocinio esoterico, avvertire delle trasformazioni che possono, ma non devono venir interpretate come anomalie patologiche. Si può avvertire, come non prima, il proprio sistema osseo interno come un peso. Un’altra sensazione è sperimentare i propri muscoli come percorsi da correnti; si sente scorrere qualcosa nel sistema muscolare, quale moto del corpo eterico. Si può poi avere la sensazione che la nostra coscienza sia distesa e diffusa non più solo nella testa, ma lungo tutto il sistema circolatorio, nel sangue ove vi è il nostro noi. Si avverte poi il il centro del proprio essere nel centro del cervello, mentre nella periferia di esso si percepisce la zona ove opera e agisce la memoria rappresentativa. Il sistema nervoso comincia a rendersi indipendente dalla corrente sanguigna. Si ha poi la percezione di avvertire l’indipendenza e l’individualità dei singoli organi interni. Ciò vale anche per gli organi di senso, che sembrano come “attaccati” al nostro essere. I SENSI. Il tatto non è un senso, ma un urto contro il mondo esterno; tramite gli altri sensi, evocando le relative percezioni di gusto, odore, suono e vista per poi cancellarle ispirativamente, è possibile ritrovare la loro origine spirituale. Il gusto è un organo di percezione dell’etere cosmico. L’olfatto fa percepire l’etere vitale. L’udito è l’involuzione di un organo dell’epoca lunare, allora predisposto per la percezione dell’armonia delle sfere. Il senso del calore ci rimanda all’antico Saturno. La vista ci permette di percepire la manifestazione dell’etere di luce. Un sintomo evidente dell’effetto degli esercizi è sulla memoria: essa viene man mano a perdersi, per venir sostituita da un’altra facoltà mnemonica non fondata come questa su ricordi visivi e uditivi, ma su ricordi o immaginazioni eteriche. Il vero serbatoio della memoria non è il cervello, ma il corpo eterico: qui ogni cosa viene registrata, racchiusa e conservata. Procedendo dal presente a ritroso, rievocando stati d’animo sperimentati, sarà possibile ritrovarvi eventi dimenticati. Nel sentire, si risveglia la memoria. Occorre sviluppare presenza di Spirito: abituarsi ad una grande autodeterminazione, imparando a decidere con immediatezza, senza esitazioni. Occorre poi di decidere responsabilmente di non tradire il mondo spirituale, una volta conseguite le facoltà iniziatiche. Il comunicare insegnamenti a qualcuno che non ne sia preparato, significa assumersi anche la responsabilità karmica delle eventuali conseguenze, circa il buono o cattivo uso che questi ne farà. Lo stare in segreto non deve significare darsi arie misteriose, ma solo non voler nuocere ad altri. Tutto ciò che ci porta alla nostalgia del nostro passato, è una tentazione luciferica. Bisogna cessare di contare i giorni, i mesi e gli anni trascorsi senza risultati nella disciplina. La parola chiave è “Pazienza”. L’impazienza rappresenta un ostacolo: il mondo spirituale per potersi rivelare, per aprirsi un varco, ha bisogno di trovare nel discepolo calma attesa, per potervisi riversare. MITEZZA E SILENZIO. Le potenze spirituali sono in continuo fermento, in perenne attesa per poter essere accolte dall’uomo, purché trovino le giuste condizioni che glielo consentano: esse, datrici di Amore eterno e altruista, trepidano nella fremente attesa di poter riabbracciare i loro fratelli minori. Più che anelare di muoversi incontro a loro, è più giusto intendere che la via giusta è sapersi aprire ad esse. Esse possono riversarsi in noi solo se trovano purezza interiore; esse sono sempre pronte, dai limiti della nostra coscienza, a connettersi con noi. Sono soltanto i veli della personalità soggettiva, l’irrequietezza, i timori, gli impulsi inferiori, a impedire loro di avvicinarsi. Ogni sforzo nel guardare o udire fisico, ogni reazione istintiva, paralizza i sensi spirituali. Bisogna rinunciare alla suscettibilità e alla collericità: tacitare le passioni e i desideri. Bisogna svincolarsi dalla forza del desiderio, che impedisce la percezione dello Spirito. Padronanza di sé: dominio dei sentimenti che sorgono spontaneamente in noi. È consigliabile nei rapporti con gli altri, non la durezza, ma la mitezza. La durezza erige una barriera invalicabile, spezzando un’ulteriore comunicazione. Mitezza e silenzio: positività e astensione dalla critica. Si consiglia di ritirarsi ogni tanto dall’ambiente della vita di tutti i giorni, per raccogliersi e meditare in mezzo alla Natura. Il rumore della vita quotidiana, può impedire il manifestarsi degli effetti degli esercizi. Il discepolo mano a mano si libera così della vita istintiva e dei caratteri ereditari della sua razza e famiglia: si svincola dall’azione delle entità spirituali corrispondenti. Occorre sempre chiedersi se si è degni di questa libertà interiore che si vuole conseguire e se si ritiene di avere le forze necessarie per sostenerla, affinché tale libertà agisca positivamente e correttamente. LE sette CONDIZIONI PER LA PREPARAZIONE ALLA VIA OCCULTA. La salute fisica è connessa al karma: molte volte occorre chiedersi se non vi sia qualche cosa nel campo morale che gravi sul fisico, da purificare o da espiare, che ne impedisca l’atteso miglioramento. Per la salute del corpo occorre sopratutto coltivare la chiarezza del pensare e del discernimento nelle impressioni ricevute dal mondo esterno. Prima di parlare o di esporre una propria considerazione o un’opinione, occorre stabilire con chiarezza il pensiero da formulare in immagini: non è bene difatti cercare a tutta prima le parole idonee, ma soprattutto la figura d’insieme da cui partire. È l’immagine che deve far scaturire l’espressione dialettica. Sentirsi un arto della vita universale, una parte di questa, superando ogni senso di separazione. La sostanza divina è solo apparentemente e necessariamente ripartita nel cosmo: lo scopo finale dell’evoluzione è comunque ricostituire un’unica entità spirituale. Bisogna aspirare ad essere ciò che si vorrebbe gli altri fossero. 3- Si deve divenire consapevoli che i pensieri e i sentimenti hanno la stessa valenza e importanza che le proprie azioni: il movimento del pensiero e dei sentimenti è altrettanto concreto quanto le azioni fisiche operate sul mondo esteriore. Ciò originerà responsabilità per il circostante ambiente animico e fisico. I pensieri permangono e si diffondono, comprendendo nei suoi effetti una moltitudine di esseri. Operare secondo i puri impulsi dell’Io superiore, non dell’Io inferiore. Si deve prendere coscienza che il corpo fisico, nel quale solitamente ci s’identifica, è solo uno specchio, un arto dell’interiorità. Educarsi al mantenimento di una decisione presa; il rinunciare è un cadere nel vuoto dell’incoerenza e dell’indeterminatezza: è mancanza di forza dell’Io. Non bisogna assolutamente mai, prendere decisioni o fissare regole, mentre ci si trova travolti dall’onda di un moto passionale o di un impulso emotivo. Occorre essere riconoscenti, grati al mondo esterno e allo Spirituale. Si deve ricordare che nell’era di Saturno, “Tutto era Uomo”, e che solo grazie al frutto del sacrificio di altri esseri spirituali e esseri fisici rimasti indietro nei regni inferiori, è stato possibile configurare l’umanità attuale. Ringraziare per il sostentamento giornaliero. Considerare la vita e agire in essa, secondo la direzione enunciata nelle precedenti condizioni: dare un’impronta unitaria ed equilibrata alla vita facendo in modo che le finalità delle proprie azioni siano determinate dalle attitudini sopra descritte. Molte cose devono essere abbandonate, e molte altre acquisite per porsi al servizio del divino. LA POSTURA NELLA MEDITAZIONE. La terra è percorsa perpendicolarmente e orizzontalmente da correnti, che possono favorire o ostacolare la meditazione. Le correnti perpendicolari favoriscono: occorre pertanto avere la colonna vertebrale verticale rispetto alla superficie terrestre. La posizione distesa, supina, invece accoglie le correnti orizzontali dirette alle specie animali, inducendo automaticamente ad un tipico stato semisognante. I FIORI DI LOTO. Il corpo eterico è percorso da innumerevoli correnti che muovono in senso longitudinale o circolare radiale. Durante la veglia, il corpo astrale rimane connesso spazialmente al corpo fisico; quando si apre nel discepolo la coscienza spirituale, il corpo astrale si espande in proporzione dello spazio che può essere percepito, ossia diviene grande quanto il suo campo di percezione. Non si parla diffusamente del loto a due petali, fra gli occhi, perché esso è connesso con il risveglio di forze che appartengono alla chiaroveggenza primitiva. Non vi è alcun cenno, per ragioni di sicurezza, del loto della zona basale “kundalini” e del loto”1000 petali”, sul capo.  In un lontano passato, i fiori di loto erano attivi; poi lentamente hanno cessato di funzionare. Attualmente solo la loro metà è attiva; con il lavoro interiore essi si ridestano, cominciando a muoversi e ad illuminarsi. I centri a sedici, (laringe) dodici (cuore)e dieci petali (stomaco), attivati, conferiscono la padronanza assoluta sull’Io inferiore. IL LOTO A SEDICI PETALI (laringe). Gli esercizi della preparazione e dell’illuminazione tendono ad attivare tale centro. Si tratta principalmente di lavorare nel campo delle idee, curando la moralità nell’uso delle parole e la qualità di buon fine delle proprie risoluzioni prese. Tale centro, attivato, conferisce la capacità di entrare in comunicazione con altri Esseri tramite il pensiero (telepatia). Le condizioni da realizzare sono otto, ciascuna equivalente ad ogni petalo dormiente: Formarsi rappresentazioni il più fedeli possibili del mondo esterno, prive di fantasia personale, eliminare l’impulsività, le reazioni dettate dall’emotività; le parole usate in un discorso devono essere sempre rigorosamente connesse all’argomento;  ogni gesto e atto deve essere sempre in piena coerenza alle idee e alle risoluzioni prese; organizzare, pianificare concretamente la propria vita; verificare la saldezza, la moralità e la giustezza delle proprie aspirazioni;  imparare ad osservare retrospettivamente gli eventi della vita;  la giornaliera meditazione per interrogarsi sulla propria fedeltà alla linea tracciata dalle sette condizioni precedenti. È di vitale importanza sviluppare la veridicità; dire sempre la verità promuovendo la perfetta corrispondenza fra mondo esteriore e mondo interiore.  A volte non è molto altruistico dire la verità, ma lo scopo morale non evita il senso di giustezza. Non mentire mai ai bambini e non fare loro mai promesse senza mantenerle. MORALITA’ E CONOSCENZA. Il loto a due petali, nel centro frontale, ha una particolarità: anziché ruotare come gli altri, una volta attivato, esplica la sua azione sporgendosi all’esterno, prolungandosi in direzione orizzontale in una forma a due rami, con il compito di “portare fuori” il corpo eterico. Per mezzo di tale centro, si formano sia le correnti eteriche che scendono verso la laringe e il cuore, sia quelle che muovendosi verso le mani, costituiranno il vero e proprio reticolo che renderà il corpo eterico, un intero organo di percezione.  Bisogna suscitare un rispettoso silenzio riguardo le proprie esperienze, sia con gli altri, sia con sé stessi: occorre accoglierle così come si presentano, senza tradurle in rappresentazioni.  Lo sviluppo dei Fiori di Loto tende a trasformare tutto quello che, nascendo come natura istintiva, si presenta incoerente e non ordinato in un volitivo campo d’azione per l’armonia delle forze spirituali. IL LOTO. A duodice PETALI (cuore). Tale loto conferisce la percezione delle “forme”.  Come gli altri, anche questo centro si sviluppa coltivando alcune qualità: le condizioni da realizzare sono sei (i sei esercizi fondamentali), ciascuna equivalente ad ogni petalo dormiente. Controllo del pensiero; connettere, partendo da un tema o da un oggetto comune, vari pensieri in modo logico e conseguente, distaccandosi così dall’usuale pensare automatico istintivo; in presenza di persone che parlano in modo automatico, superficiale o poco logico, bisogna non intervenire correggendole, ma comporre mentalmente la corrente dei pensieri deformi e correggerli dentro di sé, interiormente senza esporli fuori di sé. Controllo delle azioni; uniformare l’azione al pensiero, perdere l’automatismo dato dagli istinti, prestando attenzione ai propri gesti, alle posture, ai movimenti, in modo che non avvenga che le nostre azioni possano venire determinate da impulsi inconsci non passati al vaglio cosciente del nostro pensiero. Pratica della Perseveranza; perdere la volubilità, la lunaticità, compiendo e portando sempre a termine le decisioni, gli obiettivi, i metodi, gli esercizi o le determinazioni prese. Controllo della tolleranza; sviluppare la conoscenza dei motivi e dei limiti di chi sbaglia, per giungere alla comprensione degli errori altrui, onde sostituire l’istintivo impulso di criticare o giudicare; occorre far nascere in sé il desiderio di voler essere utili all’altro tramite consigli o considerazioni costruttive, non con giudizi che bloccano la sua evoluzione. Pratica dell’obiettività o spregiudicatezza; non respingere immediatamente qualcosa che ci venga detta, e parimenti non rifiutarsi di rivalutare o riconsiderare cose da noi già appianate e conosciute; Sviluppo dell’Imperturbabilità; equanimità, equilibrio degli esercizi sopracitati; esercitarsi a controllare o sospendere le normali reazioni emotive. Lo sviluppo dei fiori di Loto è una disciplina certamente difficile, ma non impossibile. ESERCIZIO CONTRO L’APPRENSIONE. Un buon esercizio è, durante la giornata, quando un pensiero particolarmente importante ci assilla, ci dà apprensione, divenire capaci di sostituirlo con un’altro pensiero completamente diverso, da noi prescelto. IL LOTO A diedici PETALI (Stomaco). Il risveglio di tale centro consente di percepire negli altri le potenzialità future e le capacità latenti di Esseri o Entità. Per il suo sviluppo non sono state predisposte qualità particolari da sviluppare, ma piuttosto si tratta di generare un equilibrio armonico, traendolo dall’intera condotta di Vita.  Occorre considerare la totalità del proprio mondo interiore: l’origine delle cosiddette idee spontanee, dei gusti personali, dei sentimenti di simpatia e antipatia. Per la coscienza ordinaria, l’Origine di tali suddette inclinazioni è ignota: esse risiedono nel corpo eterico, il quale registra molte impressioni che sfuggono alla nostra coscienza. Per divenire consapevoli delle cause che hanno originato tali inclinazioni occorre, riandando indietro nel tempo, risvegliare interiormente il ricordo di ciò che può averle determinate e sottilmente impresse in noi come tendenza del gusto, dell’istintività, dell’avversione o simpatia. In tal modo si produce anche un grande risveglio della memoria: ci si immette nella corrente della memoria eterica. IL LOTO A sei PETALI (all’interno dell’addome). Tramite esso, si può entrare in intimo contatto con esseri spirituali. Si sviluppa tramite l’armonica cooperazione di corpo, anima e spirito. Deve sorgere la spontaneità del pensare, del sentire e dell’agire immersi nello spirito: incedere senza combattere. Non è bene limitarsi e insistere nel lottare duramente contro una propria inclinazione o tendenza molto pronunciata; se tale difetto è così preponderante, a volte lo si può solo dominare o controllare, ma non annullarlo. Si consiglia piuttosto di nobilitare e sublimare le proprie passioni e istinti, anziché procedere con fustigazioni tendenti al voler tenerli a bada con lotte e rinunce. Occorre divenir capaci di sperimentare la gioia di servire nello spirito e per lo spirito. ALCUNE PARTICOLARITA’ SUL CORPO ETERICO E SUI CHAKRAS. L’intero corpo eterico è sempre in perenne movimento: è percorso da correnti che si muovono continuamente, seguendo la circolazione sanguigna. Il centro, o perno del corpo eterico è da localizzarsi nel Loto del Cuore: tramite esso tutti i processi si trasmettono agli altri centri, recando con sé ripercussioni della sua eventuale imperfezione. Esso è un organo di natura Solare. Nella zona centrale della testa vi è un punto specialissimo in cui corpo eterico e corpo fisico sono congiunti; qui inizialmente si formano le correnti del corpo eterico. Prima di rendere operativo il fiore a 12 petali, nel cuore, occorre predisporre un centro provvisorio nella testa, per rendere possibile uno sviluppo interiore condotto in piena coscienza. Successivamente, dopo aver raggiunto un giusto stadio di controllo cosciente delle attività di pensiero, tale centro dovrà venir trasferito nella sua vera sede, presso il Cuore. Gli esercizi di concentrazione e meditazione hanno lo scopo di attivare tale centro nella testa, per poi far discendere nella Laringe e poi nel Cuore l’attivazione. RIEPILOGO DELLE ESSENZIALI FACOLTA’ DA SVILUPPARE. Facoltà di discernere il vero dal falso. Capacità di valutare il giusto dallo sbagliato. I sei esercizi fondamentali. L’amore per la libertà interiore. CONSIDERAZIONI SULLA VIA INIZIATICA. Durante il cammino Iniziatico può capitare di avvertire una specie di senso di maturazione interiore, di compimento; sentire di essere pronti per qualche cosa.  E’ relativamente facile contemplare l’intero cammino iniziatico attraverso un libro, difficile però realizzarlo con la stessa continuità, puntualità, perseveranza e coerenza nella vita: nella vita non è come nel libro, dove un passo viene descritto uno dopo l’altro; a seconda delle occasioni e delle situazioni individuali ogni passo può svilupparsi prima o dopo, in modo assolutamente non conseguente. L’ESPERIENZA DELL’ NOI’ E LA “CONTINUITA’ DELLA COSCIENZA”. Il corpo eterico è di per sé, un principio spirituale: è connaturato con il tempo, è fatto di sostanza temporale. L’uomo non ha assolutamente alcun potere di interferire o di influenzare le forme pensiero, di sentimento, di desideri o passioni da lui generate. Una volta emanate, queste forme non possono più venire controllate. Durante lo sviluppo occulto, in un primo momento, il sé superiore si pone di fronte al proprio mondo inferiore, il suo Ego.  Si ha la percezione che tutto che era la nostra natura interiore, prende forme che tendono a venirci addosso, incontro dal di fuori. Si verifica un rovesciamento delle immagini, tipico del mondo astrale.  Il praticare esercizi in modo non corretto, disordinato o incosciente, senza essere sorretti da una solida base, potrebbe causare la percezione di queste forme pensiero in forme ossessionanti ed aggressive, quali animali o esseri orridi, traendone terrore e anche possessione. Ciò è la percezione della propria anima: tale evento è però indispensabile e necessario per la realizzazione del Sé superiore. E’ qui che comincia l’esperienza dell’Io. La vera realizzazione del Sé superiore comincia quando, si possa vedere la sua immagine. IL LOTO A due PETALI (Centro frontale). L’ esperienza immaginativa del Sé superiore viene attuata tramite il loto a 2 petali (fronte), il quale illumine gli enti e gli esseri spirituali.  Lo sviluppo del Loto a due petali si consegue tramite lo studio e la meditazione degli insegnamenti della scienza dello spirito, in particolar modo ciò che concerne la gerarchia. Tale facoltà rappresentativa, deve essere coltivata tramite l’immagine interiore dei quadri immaginativi forniti dall’Antroposofia, inerenti all’azione interattiva, passata, presente e futura della gerarchia nel cosmo, in tutto ciò che è rintracciabile come loro impronta. L’intero quadro cosmico dovrebbe venir sentito il più possibile come un panorama simultaneo. A poco a poco la realtà spirituale si sostituirà all’immagine, venendo da questa evocata, facendo apparire veri fatti e veri esseri spirituali. Tutti gli esercizi preparano nella coscienza la sede atta ad accogliere la realtà spirituale da raggiungere: costruiscono quasi la sua immagine, affinché questa possa poi diventare reale esperienza. Si arriva poi alla conoscenza delle proprie ripetute vite terrene: il karma. A questo punto l’anima si è congiunta con il Sè superiore, con la sorgente del proprio essere. Da questo momento il discepolo non torna più indietro perché, compenetrato dal Sé superiore, non sente più l’attrazione di quanto gli è inferiore. LE COMUNICAZIONI AL RISVEGLIO. Durante la vita di veglia, l’uomo si trova davanti ad un mondo incompleto, mentre durante il sonno ha la possibilità di vivere nel mondo delle cause, in una completezza. La coscienza di sonno senza sogni è una forma di conoscenza superiore; una facoltà percettiva corrispondente a quella uditiva. I primi messaggi di quel mondo si percepiscono come pronunciati da sé stessi a sé stessi. Si ha come la sensazione di parlare a sé stessi, di rispondersi, quando in realtà parlano in noi esseri spirituali. Tali sensazioni avvengono al mattino, nel risveglio: sono cenni del progresso spirituale. Prima si sperimenta solo l’impressione di aver ricevuto qualcosa, qualcosa che non si riesce a definire.  Poi, i rapporti con gli esseri spirituali assumono la caratteristica di domanda e risposta; si sente al risveglio una voce interna donante luce e chiarezza alla propria vita interiore e alla vita esteriore. Non è bene sforzarsi di ricordare le esperienze notturne di sogno, ma lasciarle sorgere spontaneamente. A poco a poco queste sensazioni al risveglio, questi messaggi diventeranno sempre più chiari, così da portare nella vita di veglia tutte le esperienze della vita spirituale vissuta durante la notte: si instaurerà la continuità fra lo stato di veglia e lo stato di sonno senza sogni. Una volta stabilita, tale continuità di coscienza verrà portata dal discepolo anche attraverso le porte della morte, e con essa la stessa pienezza del ricordo nella vita fra morte e nuova nascita. Condizione indispensabile per tale realizzazione è la pratica della concentrazione, meditazione e contemplazione. Il discepolo potrà porre delle domande in meditazione, durante lo stato di veglia: riceverà le risposte durante il sonno senza sogni: ciò è l’inizio di un colloquio fra esseri spirituali. Il vero scopo dell’Iniziazione consiste nell’instaurare la continuità della coscienza. Ciò è una mèta assai lontana, ma dirigendosi verso di essa si possono cogliere degli sprazzi di luce che indicano le tappe del cammino e ne danno la certezza. LA SEPARAZIONE DEL PENSARE, SENTIRE E VOLERE. Tale realizzazione pone il discepolo ad esperienze inevitabili, che sono dure e difficili; la liberazione delle tre facoltà umane è assolutamente necessaria per lo sviluppo degli organi spirituali. Sono tre i pericoli in cui si può incombere. Pericolo del Pensare: divenire astratti teorici pensanti, distaccati dalla vita, freddi e indifferenti nei confronti dell’esistenza, che trovano soddisfazione solo nel proprio pensare in solitudine; Pericolo del Sentire: una natura sensuale può sentirsi trasportata in un sentimento di devozione eccezionale, fanatica, in un estremo godimento del contenuto della propria coscienza mistica; Pericolo del Volere: divenire super-attivi, trovando appagamento solo nel modificare il mondo esteriore, lasciandosi dominare e trasportare da altri. LA LIBERTA’E L’INDIVIDUALISMO ETICO. Solitamente le tre forze dell’anima si esplicano in modo immediato, istintivo con un loro habitus personale; il discepolo deve distaccarsi da tale automatismo innato, predisposto in lui.  Il fatto di poter dominare le reazioni e i sentimenti conferisce a tutto l’essere un senso di forza e di stabilità, poiché le emozioni non hanno autorità sul suo equilibrio. L’equilibrio interiore si deve fondare su di una nuova personalità morale, il quale deve conferire al discepolo la coscienza di ciò che deve agli altri, di ciò che deve al mondo spirituale e a ciò a cui deve la ragione della propria esistenza. La Libertà prevede che si sia superato l’egoismo, che si sia raggiunto un tale grado di moralità e di equilibrio da poter cominciare a vivere non più per sé stessi, ma per l’umanità.Il discepolo diviene consapevole di dipendere dai mondi superiori, con la libera decisione di servire la Causa degli esseri spirituali. Solo in tal modo si può parlare di una Libertà pura e vera, che non porti danno a lui stesso e agli altri. IL GUARDIANO DELLA SOGLIA. Solo dopo aver liberato pensare, sentire e volere è possibile accedere all’esperienza del guardiano della soglia. LA SOGLIA. Il liberare le facoltà dell’anima significa assumersi direttamente la responsabilità delle proprie azioni. Avendo liberato il corpo eterico e il corpo astrale dagli automatismi del pensare, sentire e volere, si avvicina l’esperienza del guardiano della soglia: si rende obiettivamente visibile il grado a cui si è pervenuti attraverso gli esercizi. Il guardiano diviene un essere indipendente, al di fuori di noi. Mentre precedentemente si era intessuti con lui, ovvero con ciò che rappresenta cosmicamente il nostro essere, ora si presenta esteriormente la nostra interiorità. I propri moti interiori si traducono nella figura esteriore di questo essere. Il guardiano si presenta all’improvviso, appena i chakras cominciano ad attivarsi: è la prima esperienza soprasensibile. Tale esperienza, può suscitare terrore. Molti, al cospetto del guardiano, che palesa il grado di imperfezione e purezza da noi raggiunto sinora, riconoscono la propria inadeguatezza, la propria immaturità nel sopportarne la visione, quindi retrocedono. Si ravvisano le proprie limitazioni: i difetti assumono un carattere obiettivo. Solitamente questo essere si presenta per la prima volta al risveglio, la mattina, in un momento inaspettato, tanto da suscitare terrore. SIMILITUDINE FRA SPECCHIO E GUARDIANO. Supponiamo che un uomo con il viso deforme, pur sapendo di averlo non abbia mai potuto specchiarsi; quale sarà la sua reazione di fronte allo specchio, quando per la prima volta vedrà la sua deformità ? Prendere coscienza della propria figura interiore è l’incontro con il guardiano: egli è noi, che ci appariamo all’esterno. IL GUARDIANO E IL KARMA INDIVIDUALE. Nel guardiano appare il nostro karma; la sua figura riassume il nostro passato vivente con tutte le cause di dolore e gioia. Qualora si trovi la forza d’intrepidezza di guardare in volto il guardiano, da quel momento ci si assume coscientemente la responsabilità di pagare i propri debiti karmici, quasi andando incontro a questi. Ci si accorge che ogni tentativo di evadere o di rimandare il pagamento del proprio karma, provoca un disastro nell’ordinamento spirituale. Ogni mancanza si riflette assumendo forma demoniaca. Occorre assolutamente a cagion di ciò, quali discepoli, superare il sentimento della paura.  Il coraggio di affrontare il guardiano è contemporaneamente il coraggio di prendere il proprio destino nelle proprie mani: dare coscientemente a sé stessi anche ciò che può causare dolore, rinuncia, peso. Smettere di evitare la direzione di vita che offre minore resistenza, per muoversi coscientemente incontro a quanto vi è di più difficile e arduo. Rimandare significa sempre, ritrovare. Il guardiano muterà di forma in modo direttamente proporzionale al nostro adempimento karmico, sino ad assumere figure luminosissime nella misura in cui ci saremo purificati. Fino al momento dell’incontro con il guardiano si ignorano quali e quanti pesi portiamo nel nostro fardello karmico; dopo non si è più gli stessi di prima, dopo aver visto la vera realtà spirituale di sé stessi. Non è più possibile ingannare sé stessi. Finché non si vede e si conosce il proprio karma, non si può dire di essere liberi; solo dopo aver allontanato la guida delle Potenze del karma per prendere noi stessi la responsabile guida di tale compito, solo allora si comprendono le parole. Il Cristo ci ha reso liberi. Ora le forze del Cristo si sostituiscono a quelle del karma. LO SCOPO DELL’UOMO NEI CONFRONTI DELLE GERARCHIE. Bisogna prender coscienza della missione dello spirito di popolo nel quale si è intessuti, il quale conferisce stimoli e impulsi animici che condizionano la nostra vita. Rinnegare il proprio ambiente spirituale, nel quale si è scelto di vivere, è rinnegare la missione di un arcangelo. Il riconoscimento delle intenzioni del proprio Spirito di popolo, e del motivo che ci ha spinti ad incarnaci in tale atmosfera animica, deve portarci a scorgere nel giusto modo cosa vuole dirci la sua forza spirituale, per cogliere appieno la direzione verso la quale dobbiamo spingerci. L’amato deve associarsi a quelle potenze spirituali che guidano sulla terra, nelle nazioni, gli uomini inconsapevoli, verso la stessa mèta che egli cerca oggi lui stesso di conseguire. Il mondo soprasensibile potrà continuare la sua strada soltanto se vi saranno sulla terra esseri capaci di comprendere la direzione. La gerarchia attende qualcosa dall’uomo. E’ la gerarchia umana che deve portare il senso spirituale nella materia. Dopo la morte fisica tutto ciò che l’uomo ha sperimentato durante la sua vita, in seguito alla dissoluzione del corpo eterico e dell’astrale, viene consegnato al mondo spirituale: ciò diviene coscienza del mondo spirituale. (leggenda dell’uomo che dà i nomi alle cose e il nome di “Adonai” a Dio) L’uomo deve portare la coscienza al mondo spirituale, la forza risorgente. Il superamento del mondo sensibile dovrà avvenire, ma i frutti dell’esperienza e i risultati tramite essa conseguiti durante l’evoluzione dell’umano, saranno incorporati dalle Gerarchie nei mondi spirituali. L’uomo nascendo e morendo sulla Terra, genera i germi della vita dell’avvenire: offrendo un nutrimento spirituale al cosmo intero, in modo direttamente proporzionale alle sue azioni pure e feconde. IL GRANDE GUARDIANO DELLA SOGLIA. Tale incontro avviene solo quando il discepolo, dopo aver già sperimentato le regioni spirituali inferiori e stabilito una continuità della coscienza fra veglia e sonno, ha attuato in sé la generazione di nuovi organi del pensare, sentire e volere. L’oltrepassare la soglia del secondo guardiano significa stabilire la continuità della coscienza fra la vita, la morte e la rinascita. La vera libertà è conoscere il proprio karma senza alcun veloe adempiervi in coscienza. All’incontro con il secondo guardiano si palesa una grande tentazione: quella di abbandonarsi alla beatitudine e al godimento procurato dalla possibilità di accedere ai mondi spirituali.Tale tentazione, anche se non detto esplicitamente, sembra essere indotta dagli Asura.  L’unica cosa che può salvare l’uomo da tale seduzione è sentire il dolore del mondo, il silenzio degli esseri umani nel mondo spirituale. Questo tremendo dolore impedisce di accogliere il sentimento egoistico della beatitudine; perché la gioia che egli ora ha, non è condivisa da altri. Se si supera tale ostacolo la liberazione è completa: l’Iniziato partecipa ora attivamente all’opera delle Gerarchie, nella liberazione di tutti gli esseri sulla Terra. La decisione di collaborare con i mondi spirituali porta finalmente l’uomo ad un piano in cui si può dire che la sua volontà ha compiuto tutto ciò che le era stato prescritto dal Principio. Leo. Breno. Kur. Giovanni Colazza. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colazza” – The Swimming-Pool Library.

 

COLECCHI (Pescocostanzo). Filosofo. Grice: “What I love about Colecchi is that while he was a bad Kantian, he was an excellent Vicoian!” Studia ad Ortona, dove sube diverse perquisizioni da parte dell'Inquisizione per la sua tacita simpatia verso gli ideali rivoluzionari. Insegna alla Reale Accademia Militare della Nunziatella. Venne mandato in missione in Russia, dove si dedica alla filosofia speculative.Al ritorno, soggiorna a Königsberg, dove ebbe modo di conoscere l'opera di Kant. Fu uno dei primi filosofi italiani a studiare Kant.Rientrato in Italia, fonda a Napoli una scuola privata di filosofia ed ha tra i suoi allievi i fratelli Spaventa, Sanctis, Settembrini e Caracciolo. Il suo merito principale fu quello di essere, insieme a Galluppi, un assertore del criticismo kantiano in Italia.  Altre opere: “Se la sola analisi sia un mezzo d'invenzione, o s'inventi colla sintesi ancora?” La legge del pensiere; L’analisi e la sintesi; La legge morale, La legge della ragione; “Se il raziocinio sia essenzialmente diverso dalla intuizione”; “Se nell'invenzione eserciti maggior influenza la sintesi o l'analisi; “Se li giudizi necessari sieno solamente gli analitici”; “Se l’identità formale del raziocinio sia valevole a convertire il raziocinio empirico in raziocinio misto?”; “Il principio sul quale poggia il raziocinio quando classifica e quando istruisce”; “Quistioni ideologiche”; “Se diasi una logica pura, ed una logica mista”; “Se una idea soggettiva non altro sia che una idea di un rapporto, L’idea dello spazio e l’idea del tempo; Il primo problema di filosofia: se la sensazione sia esterna di sua natura, o tale diventa in forza del giudizio abituale? Alcune quistioni le più importanti della filosofia; Psicologia, Logica applicata, Ideologia, Frammento apologetico; in G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi. Ricerche storiche, Edizioni della Critica, Napoli, e in Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi,  Firenze;  Tip. «All'insegna di Aldo Manuzio», Napoli); a cura dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, con introd. di F. Tessitore, Procaccini, Napoli); E. Pessina, Quadro storico dei sistemi filosofici, Milano); Necrologia in “Poliorama pittoresco” “Elogio funebre”; Spaventa, Studi sopra la filosofia di Hegel, Torino; L. Settembrini, Lezioni di letteratura italiana, Napoli; F. Fiorentino, Scritti vari di letteratura, filosofia e critica, Napoli; A. De Nino, Briciole letterarie, I, Lanciano; Sanctis, La lettereratura italiana nel secolo XIX, Napoli); Marchi, Il sistema filosofico di Ottavio Colecchi (Tip. Sociale di A. Eliseo, L'Aquila); F. Amodeo, Ottavio Colecchi, in «Atti della Accademia Pontaniana», Discussioni biografiche e documenti inediti, Ravenna); L'istruzione pubblica e privata nel Napoletano; Città di Castello, Colecchi filosofo e matematico: nuove notizie e nuovi documenti, in «Rassegna abruzzese di storia e d'arte», Gentile, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi,  II, Milano); Pedagogisti ed educatori, Milano); Capograssi, Nuovi documenti sull'accusa di ateismo ad Ottavio Colecchi, in «Samnium», Romano, Un antagonista del Galluppi: Ottavio Colecchi, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», A. Cristallini, Ottavio Colecchi, un filosofo da riscoprire, Padova, G. Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Bari; E. Garin, Storia della filosofia italiana,  III, Torino; F. Tessitore, Colecchi e gli scettici, in Introduzione a Quistioni filosofiche, Napoli; G. Cacciatore, Vico e Kant nella filosofia di Ottavio Colecchi, Centro di studi vichiani; Io e Ottavio Colecchi. Narrazione biografica in forma di anamnesi, Japadre Editore, L'Aquila-Roma; Dizionario Biografico degli Italiani. Dalla tomba della setta italica, tenendo dietro alle ori gioi dell’antica lingua del Lazio – la lingua romana -- trasse fuori il Vico que ste divine idee; aveva lello forse Bruno ancora, perchè un’ombra d’idealismo copre spesso la sua filosofia, spezialmente nella “Scienza Nuova”, dove l’uomo passa suo malgrado dalle selve allo stato civile per la sola  opera di una lupa (la lupa capitolina). Se non che l’uomo di Vico rimane nello stesso stato in cui avealo lasciato Enea. Devono le divine idee rideslarsi all'occasione delle sensazioni; njun tentativo per ravvicinare la sensazione all’idea; dovrebbe ciò fare l’induzione, ma la ragione è sempre scontenta di quanto scopre l’induzione. Non ancora siera mostrato Kant per conciliar insieme la sensazione (sensus) e l'idea o concetto. Con questa filosofia, appoggiata all’induzione, si dispose Vico a crear il “diritto universale” della nazione del Lazio – la nazione romana. Ma preoccupalo sempre delle civili cose di Roma, brillando sempre nel suo spirito l'immagine di Roma, si risolse in fine di stabilire Roma come modello di civiltà. Il perchè nella storia, della mitologia, nelle lingue, nel Blasone, e pe’ feudi pur anche del medio evo deesi Roma ripelere,e la romana giurisprudenza diventar quel la di tutte le nazioni del mondo. E come i fatti hanno a servir di occasione per ridestare la idea, così il diritto di Roma, le XII Tavole, tutta la storia, tutta la mitologia concorrer devono a risvegliar le idee del vero, del giusto, a dir breve l’ideale dell’umanità per selta. Ond'è che metafisica, logica, morale, educazione, politica, geografia, astronomia si abbozzano prima della religione de’ padri in mezzo alle famiglie, e poscia in mezzo alla città di Roma; dove il senato si compone degli stessi primi padri, riuniti in Ordini, per reprimere le ribellioni degli ammutipali clienti. Di qui le lante critiche sulla storia positiva per distruggerla. Sesostri e Tanai sono due simboli. La sapienza del poeta vera immagine della sapienza o scienza del filosofo, L’Eneide confuse con la sapienza dei romani. E tutto questo per via di etimologie stirale, di mili forzati, di stranissime analogie. Egli è evidente che tal metodo d’interpretazione deesi ridurre in fine ad una tortura , per isforzare tutt’imonumenti della storia e delle favole a deporre in favore di un sistema. Siegue da questa osservazione che quanlunque tutta la storia, tutta l’erudizione, per la potente sintesi di Vico, pieghi sempre al modello di Roma, no di Koesingberga, e la sua civiltà a poco a poco siasi spenta, fino a che passato il medio evo, col risorgimento delle lettere e delle scienze, ricomioci il suo corso; può non pertanto rimaner il dubbio che il popolo romano altro forse non sia che un fatto isolato. Essendo si in effetto limitato il Vico al uomo del Lazio.Vico, dobbiamo pur dirlo a Gloria d'Italia,Vico è di gran lunga superiore ad Herder, il quale nella sua Storia dell'umanità ha parlato pur anche dell'origine e del progresso della civiltà de'popolo romano. Imperocchè se Herder, amico del sensismo, vede l’uomo del Lazio nella natura, e dalla formazione del cristallo, per una ben lunga scala, va sino all'uomo che è la corona dell'organizzazione. Vico, seguace di Platone e non d’Aristotele, con maggior discernimento del ministro protestante, l’uomo nell’uomo stesso contempla. E se l'analisi di Herder vivamente rallegra l'immaginazione, la sintesi di Vico sembra lalmente falla l'intelligenza per, che il lettore, in onla del suo linguaggio enigmalico e della strapezza delle analogie, viene attirato potentemente dalla magica forza della sua filosofia. Niuno più originale di Vico, e pare che l’originalità dell’italico ingegno siesi sventuratamente nel Vico spenta. De’ suoi principii intanlo, per quel che riguarda il nostro assunto, egli è facile di raccorre, che avendo le legge per iscopo di metter freno alla passione umana, e di render l'uomo migliore; ben possono per esse la *forza*, l’*avarizia* e l’*ambizione* che sono i tre vizi pe’ quali corre a trovarsi il genere umano, convertirsi in *valor militare*, *prudente mercatanzia* e *savio governo*. La legislazione dunque, considerando l’uomo qual é, se dirige ad usi migliori la passione, lo riforma e trasmuta in quello che esser deve. La massima di Vico pertanto, ben lunga dall’opporse alla legge morale, la conferm viemaggiormente e ne presuppone l'esistenza. E qui credo far cosa grata a miei lettori, se da Vico stesso tolgo le prove di questa mia assertiva. L’unico principio e fine del diritto è per Vico la virtù del vero. E'chiama virtù del vero l’umana ragione (la vernunft di Kant), la quale è virtù in quanto combatte con la cupidità -- è giustizia in quanto regola e pondera la utilità. La utilità non e per sè stesse ne onesta nè turpe; ma turpitudine è la sua ineguaglianza, onestà la sua eguaglianza. L’utilità privata di un singolare individuo, o anche nazione o popolo di due uomini, è labile, perchè finisce con l'individuo la diada dei due uomo o con la nazione; ma l’eguaglianza delle utilità, che è figlia dell’onestà, non è cosa caduca, è cosa immutabile ed eterna. Una cosa caduca non puo produrre l’immutabile, nè un corpo dar nascimeoto a ciò che li trascende. Il sistema dunque dei futilitari utilitari, con questi pochi molli del Vico, è distrutto. Ciò si conferma con quel celebre detto di Pedio presso Ulpiano: quante volte una od altra cosa venne con la legge introdotta è buona occasione supplire con la legge stessa le altre cose che tendono alla stessa utilità. Una buona occasione adunque e alla divina provvidenza l’umana debolezza e miseria, per le quali, secondo la loro stessa spontaneità, ritrasse gli uomini dallo stato ferino e bestiale ad essere socievoli, uguagliando tra loro le utilità, come chè ciò non avvenisse da principio per intera onestà, ma per una parte di onestà. Or, la società è una *comunione* di mutua utilità che interviene tra eguali. Si la socielà ineguale è tra un padre (superiore) e un figlio (inferiore); tra la potesta civile e di soggetti – l’eguale è tra fratelli Romolo e Remo o i dioscure – Castores (dual), o Eurialo e Niso, i due amici, tra due cittadini. Di qui due spezie di giustizia rellrice ed equatrice. L'eguaglianza delle utilità, con *geometrica* -- progressione geometrica -- misura determinata, è il subietto della giustizia rettrice, della giustizia *distributive*, la quale mira alla dignità delle due persone. L'eguaglianza poi delle utilità, fatta con *aritmetica* -- progression aritmetica -- misura, è materia della giustizia equatrice, volgarmente detta giustizia *commutativa*, la quale si rapporta al mio ed al tuo – al nostro -- --  ed ba luogo in ogni società eguale. Nè o s t a p u n t o ( come crede Grozio , il quale dital  L'occasione poi, per la quale una cosa accade, non è cagione della cosa stessa, il che Grozio non vide, trattando dell'origine del diritto; e pur doveva ia questa disamina por mente ad una osservazione tanto importante che ne è il cardine. L' utilità dunque non fu produttrice del diritto, come piacque al greco Epicuro, al etrusco Machiavelli, ad Obbes, i quali intesero per utilità la cessazione o del bisogno, o della violenza, o del timore; ma fu l'occasione, per la le gli uomini divisi, deboli, bisognosi tralti furono alla vita sociale. qua.   Siegue da ciò , che l'upa e l'altra giustizia la rellrice c l'equatrice hanno per fondamento l'onestà, e che non può avervi giustizia senza morale: conseguenza importautissima, dedotta dal Vico da vero suo priocipio, e sfuggita al positivista Carmignani, il quale fa della morale e del diritto due cose talmente distinte, quasi non avessero nulla di comune tra loro. Elementi del giusto diritto, per Vico, sono la prudenza, la temperanza, la fortezza. La prudenle deslioazione io falti delle utilità, fatta con ragione, von come della la cupidità, produce il dominio; il moderato uso delle cose utili genera la libertà. La potenza regolala dalla fortezza partorisce la incolpala tutela. La tutela de'seosi e la libertà degli affetti costituisce il diritto naturale, che gli antichi interpreti dicono primitive, e gli stoici appellano il principio della natura. Il dominio, la libertà, la tutela sono cose nalurali all’uomo, e oale per le occasioni. Così la libertà del diritto era prima della guerra; ma venne riconosciuta, ed ebb e il suo nome, introdoltasi, per la guerra, la schiavitu. Similmente con la divisione de'campi siammisero I dominii delle cose del suolo; ma il giure coosultodice: non essersii dominii introdotli:essersisolamente distinti con la divisione. Finalmente dalla potenza, tosto col nascere, proviene la difesa di sè stesso. distinzione siburlarche avendo più socii posto in comune parli disuguali di daparo, prendano parti di lucro con geometrica misura; perciocchè prendono parli di lucro con semplice misura, essendo il daparo,e non la dignita della persona che li agguaglia. Jo falli tanto ciascun socio ne toglie, quanto ne avrebbe preso, se solo a quel negozio posto avesse il daparo. Il dominio della ragione su iseosi e sugli affetti è il diritto naturale dagli stessi interpreti chiamalo secondario, e dagli Stoici conseguenti della natura. Rimontiamo col Vico all’origine di questa distinzione. Iddio di è all'uomo conlapolenza l'essere, con la sapienza il conoscere, con la bontà il volere. Questo divino benefizio deriva del diritto naturale: l’una con cui l'uomo vuole il suo essere, l’altra con cui vuole il suo conoscere: ood'è che l’uomo lalvolla più il sapere chel’essere agogna. Or, nella parte con cui l’uomo desidera il suo essere contengonsi quelli che gli stoici dicono principio della natura; imperocchè egli appreode col pascere, mercè le sensazioni presenti e vive del piacere e del dolore, a seguire le cose utili alla vita, a schivare le nocevoli, e se venga impedito nelle utili, e sospinto nelle nocevoli, nè possa altrimenti quelle con seguire,questeevitare;con la forza allontani la forza, pel diritto che ha di cooservar il suo essere. Questa parte del diritto naturale vien definita: diritto che la natura a ogni animale apprese, e da essa nasce il diritto di respingere da noi la violenza, quello della unione de’due sessi, della procreazione de'bgli e della educazione loro. Ma nella parle con che l'uomo vuole il suo conoscere, contengonsi quelle cose che gli stoici dicono conseguenti della natura, e vien essa definita: per tutto quello che la ragione naturale fra gli uomini stabili ed egualmente fra le genti tutte si osserva.Questa parte del diritto domina la prima: di guise che quando Pompeo, impedito dalla tempesta a partire, disse: è necessario il navigare, e non necessario il vivere, era siquesto suo dello uoa legge che la ragione a talli gli uomini impone è necessario cioè dioperar rellamente,e non necessario il vivere. Nella prima parte del diritto naturale la ragione non riprova, ma permette: nell'altra essa vieta o comanda, e quello che comanda o vieta è immutabile; che anzi per questa seconda parte è immutabile ancor la prima , non potendosi le cose lecite di lor natura vielar con le leggi , non essendo in potere di queste di far sì che non sieno permesse. Vedano ora imoderoi scriltori di diritto: se la distinzione del naturale diritto nel principio della natura, e ne' suoi conseguenti debbasi o no rigettare! Rimembro di averne lello più di uno che la crede inutile. Grozio aperlamente afferma :non esser ella di alcun uso , sen za avvedersi, dice il nostro filosofo e giureconsulto, che nell'egregio suo trattato della guerra e della pace egli stesso l'ammelte tacitamente ; perchè in questo appunto il suo uso consiste, che nella collisione dell'uno e dell'altro diritto, il secondo è da più del primo. Ma bisogna un Vico per rilevar il merito dell’antica giurisprudenza, e mostrare a Grozio spezialmente su quali salde basi ella si reggeva! Il diritto naturale primitivo è, secondo Vico, la materia di ogni diritto volontario; il diritto naturale secondario de costituisce la forma, la quale ove manchi, il diritto volontario è nullo. Perciò Ulpiano define il diritto civile: per quello che nè al tutto dal diritto naturale si diparte, nè inlullo adesso si uniforma; ma in parle viaggiugne, inparte vitoglie. Il perchè la mente della legge e la ragione della legge sono due cose distinte. Mente della legge è il legislatore; ragione dalla legge è l'uniformità della legge al fatto. Possono si mutarsi i fatti, e la mente della legge si muta; tutti può essa utilità riuscire tal fiata per altri iniqua. equa, La ragione della legge fa che ella sia vera; il certo della legge la fa vera in parte, e questa parte di vero sapno propria i legislatori, per ottenere con l’autorità ciò che dal semplice pudore degli uomini conseguir non possono; il che rende ragione della definizione del diritto civile, lestè data da Ulpiano. Ond’è che in ogni fiozione della legge, la quale si rapporta al diritto volontario, evvi due sono quindi i fonti della giurisprudenza: laragio ne e l’autorità. Il vero e della ragione, il certo dell’autorità; ma non può l'autorità opporsi in tutto alla ragione, altrimenti le leggi non sarebbero leggi, ma si mostri di leggi. È dunque inopportuna cosa cercar ragione dall'autorità, la qual , dettando una utilità per com ponesi l’autorità del dominio, della libertà e della tutela, che sono i tre fonti di lutti gli stati. Dalla conoscenza per la quale è l'uomo da più di ogni altra cosa mortale nasce il suodominio sopra tutta la natura; dal suo volere trae origine la libertà, dall’eccellenza del suo essere s’ingepera il diritto di tutela col quale contro tutta la natura mortale si difende. Se dunque il dominio, la libertà, latutela costituiscono l’autorità, seconda sorgente del diritto: se il dominio, la mal’uniformità della legge al fatto non si muta mai. Mutato il fatto cessa la ragione della legge; non però si muta o rivolge in contrario. La mente della legge riguarda l’utilità, la quale variando, fa variar la mente; ma la ragione della legge o l'uniformità della legge al fatto, riguarda l’onestà, e questa è immutabile sempre un certo aspello di vero , che rende certa la legge , m a non del tutto vera ; perchè qualche ragione non concede che ella interamente sia tale. Tetessa walela Sviela ile; laditt Jembro Grozio deon, siela o,sed che ezli cololalores mate il diritto naturale na ni Callo. muu Da una parte dell’autorità, e propriamente dalla tulela, nacque il diritto delle prime genti , che può dirsi ; Diritto della violenza. Divide Vico questo diritto in diritto delle genti maggiori e in diritto delle genti minori. Le genti maggiori furono prima che le città si fondasse, e si stabilissero le leggi : motivo per cui Saturno, Giove, Mercurio, Marte, egli altri numi della mitologia perchè antichissimi tra gli dei ripulali sichiamarono dei delle genti maggiori .Geoli minori si dissero quelle che furono dopo fondale la città e stabiliti i reami; ond’è che Dei minori si appellarono quelli che vennero dalle città consecrati, come Quirino, ed altri Eroi.ParealVicoche tale divisione imitassero in certa guisa i Romani, allor chè denominarono patriziï delle genti maggiori quelli che da' padri scelti da Romolo discesero, e patrizii delle gentiminori quelliche trassero origine da'padri coscritti. Il diritto delle genti maggioriè, come sidisse, il diritto della privata violenza, con che gli uomini, senz’alcun freno di legge , toglievano con la propria mano, ed usucapivano; con la forza si difendevano; il proprio uso o possesso rapivano, e con la privata forza ricupera vano. Perciò i mancipii erano cose in realtà per mano tolte; i debitori neri veramente legati; vere erano le mancipazioni, usucapioni, vindicazioni, usurpazioni, o gli usi ne’rapimenti del possesso, come le mogli usurarie che erano nel possesso, e non già nella potestà de’ mariti, usurpavano lo spazio di tre nolli, cioè libertà, la tutela ha origine dalla naturale disposizione dell'uomo, ed in ogni stato, come Vico sostiene, si manifestano sempre; vedano Hume e Romagnosi con quanta buona ragione asseriscano che genitrice del diritto è l'aggregazione sociale!  per tre nolti continue illoro uso a’mariti rapivano, accið con la usucapione di unannonon passassero in mano, o sia nella poteslà di essi. Si disse ianaozi costar il vero della ragione della legge, il certo dell'aulorità di essa, ed essere stale queste due cose cagione del diritto; imperocchè il dominio, la libertà, la tulela in qualunque stato dell’uomo si manifestano sempre. De esi però notare che il diritto, come che risulti sempre da questi tre elementi,fu non pertanto ne' Governi divini ed eroici più certo che vero; negli umani più vero che certo.Or siccome col Diritto delle genti m a g giori,senza alcun freno di legge, lecose, come testè dicemmo, si usu capivano, con l’uso e con la per pelua adesione del corpo si ollenevano, con la forza si riacquistavano, ed accadevano per questa violenza frequenta risse ed uccisione; si riunirono in ordini i padri di famiglia, e poco fidandosi, per la licenza che tra gli uomini regnava, del loro nalural pudore, conservarono per sè soli la forza, e posero termine ad ogni ulteriore disordine in avvenire. Da ciò nacque la potestà civile; la quale poche cose pubblicamente trallava con la forza: le punizioni cioè e le pene. Affinchè poi gli altri ad essa potestà soggetti, fossero nelle lor pretensioni tranquilli, introdusse certa corporea forma alla materia da lraltarsi in privato, e coosacrò certa formola di parola, alle quali uniformar dovessero la loro ipfioila e svariata volontà i cittadini. la forza di questa formola, di proposito e seriamente, non per frode o inganno, polevano essi acquistare diritti, conservare le proprietà o in altri trasferirle, con le quali tre cose ce lebrayasi ogni negozio di privato diritto. In tal guisa la civile potestà, rimossa ogni violenza, e tolla via ogni in certezza per la solennità de’ giudizi, riforma il costume, e distribui fra i cittadini la cosa certa e civile, che in buona ed in gran parte ricuperarono il vero ed il pudore, che sono i due perpetui aggiunti del diritto naturale. Da questa metamorfosi, per dir così, del dominio, della libertà e della tutela, per la quale il diritto da violento che era si trasmuta in moderato, ebbe origine il diritto civile; e la patura medesima delle cose insegna essere ciò avvenuto a ogni popolo, che dal diritto delle genti maggiori vennero sollo la potestà civile. Dopo dunque l’originaria acquisizione del diritto naturala all’uomo, dopo l’altra introdotta dal diritto delle genti maggiori, coo che il padre, posti i confini, distinsero il dominio delle terre, surse la terza acquisizione introdotta dal diritto civile. E qui sinotiche come il dominio, la libertà, la tutela costituiscono nella cosa pubblica l’autorità civile, il privato diritto del pari a questi tre sommi capi si riducono. Al dominio, col quale le cose che ci appartengono si vendicano, e contro qualunque possessore si ripetono; alla libertà, la quale ogni potere ed obbligazione comprende; all’azione, che allro non e suor chè tutela dalla legge prevedulc. Stabilita questa dottrine, volgiamo da ultimo un rapido sguardo sul diritto de’ romani Quiriti, e le vedremo mirabilmente confirmata. Chiama Vico il romano diritto un serioso poema dell’universale diritto delle genti, altese le tante Ginzioni, delle quali è ripieno. Il primo fondatore in fatto della romana repubblica muta il diritto delle genti maggiori io certe imitazioni di violenza, come sono le mancipazioni, con le quali quasi ogni atto legittimo si transige con la liberale tradizione del nodo, la úsucapione non era più la perpetua adesione del corpo al fondo occupato, ma il possesso con la volontà conservalo; la usurpazione non più consiste in una certa rapina d'uso, ma esprime col modesto significato di cilazione; l'obbligazione non più col nodo de’ corpi ,ma con certo legame della parole si denota; la vindicazione col Gin lo attacco delle mani con una paglia, dellaper. Ciòda Gellio festucaria.Pernon diral la fine di tanteal tre, l’azione personale chiamata condictio non più e l’andar unito il creditore al debitore, o alla cosa dovuta, ma face asi con la semplice denunzia. Le quali cose menano naturalmente a congetturare, che per talicagioni si crede il poeta il primo fondatore della città, come si è scritto di Orfeo e di Anfione vero. Ella è questa, secondo Vico, l'origine ed il progresso dell’universale diritto delle genti, il quale, tenendo fermo al principio di Vico stesso, in istretta amistà con la legge morale mostrasi perpetuamente. Parlando in fatti questo gran filosofo della giustizia universale afferma che siccome la virtù universale eccita la prudenza, la temperanza, la fortezza, perchè si oppongano alla cupidità; la giustizia universale del pari comanda alla prudenza, alla temperanza, alla fortezza, perchè dirigano le utilità. Impone alla prudenza, che ciascuno tratti avvisa la mente utili cose; alla temperanza di non appropriarsi l’altrui; alla forza di cautelar e difendere il proprio diritto. Per favole di tal natura è agevole di osservare, che quanto più il diritto civile da quello delle genti maggiori si allontana, o dalla verità della violenza; tanto maggiormeate al diritto naturale si avvicina, o al pudor della stessa giustizia rettrice ed equatrice, che come e per conoscer anche meglio l’accordo della filosofia di Vico con la legge morale, basta osservare che egli contempla l'uomo: primo nello slalo di solitudine; secondo in quello della famiglia; terzo nello stato aristocratico; quarto e finalmente nello speciali virtù si repulano, uopo è che sieno, secondo Vico,una sola virtù, e perciò universale virtù; la giustizia – il giure -- architettonica difatli, che Aristotele afferma cosi comandare alle inferiori virtù come l'architetto alle arti sue ministre, se risiede nell’animo della civile potestà, e comanda a latte la virtù che mena alla civile prosperità; risiede altre sì, come particolare virtù, nell'animo del sapienle , c regola gli uffizi di tutte le virtù per la privala tranquillilà della vita. E perchè ciò? perchè, risponde Vico, v'ha unica ragione che così della , unico vero bene, unica giustizia, e unico diritto. Ma una pruova luminosa, e senza replica, che melle d'accordo il principio di Vico con la legge morale si è la distinzione da esso lui adottata del diritto naturale primitivo e secondario. Se fa egli consistere il primo nella lu icla de’ sensi degli affetti, el'altro nel dominio della ragione: se quello solamente permette, e questo o vieta o comanda, e ciò che comanda o vieta è immutabile; chi osa negare che il diritto naturale secondario altra cosa non sia che la legge morale? Ne osta punto l’aver egli fatto sorgere il diritto civile dal diritto di violenza, che in tempi a noi remotissimi usa le genti maggiori; imperocchè tal diritto di violenza, non allra regola seguendo che quella del senso e dell’affetto, vero diritto non era, ma diritto certo, tullo proprio dicoloroche più tenevano all’istinto che alla riflessione. Il diritto però di violenza fu poscia l’occasione di far sorgere il vero diritto stato della repubblica e della monarchia. Or, nel primo stato non altra guida ha l’uomo che quella dell’istinto a cui ubbidisce come la pianta e l'animale; ma non è questo certamente il suo destino; la sua facoltà lo chiama ad un bene essenzialmente diverso da quello che dipender potrebbe dal solo istinto. Dev’egli per sè stesso crear questo bene, e passare perciò dalla servitù dell’istinto allo stato di libertà: a quella condizione cioè, per quale ubbidirebbe invariabilmenle alla legge morale, come sino a quel punto ubbidito aveva all’istinto. Deve l’uomo, a dir breve, diventar creatura libera, di automa trasformarsi in essere morale, ed un tal passaggio deve menar lo all’autocrazia la Sent il'uomo il bisogno di congiungersi condonna, e la nascita di un figlio, i suoi alimenti, la sua educazione, qualunque sia si ella stala, moltiplicarono I suoi doveri. Fin qui non conobbe egli con la compagna che un sol germe di amore, ma un nuovo oggetto fe’ nascere in entrambi una nuova relazione morale, un nuovo amore di spezie più pura del primo. La soddisfazione, il tenero interesse, la sollecitudine nella quale s’incontra per l’oggetto di questo AMORE apre in esso bellissimo tratto di morale, che resero il suo rapporto più dolce ed elevato: Ad un vincolo che da prima era semplicemente materiale si uni la stima e dall’amore interessato nacque l’amor coniugale che è sovranamente disinteressato. Ad un primo figlio un secondo ne seguì, un terzo ec, e fatti grandi questi figli, teneri legami di amicizia gli strinsero insensibilmente tra loro,e videsi nascere l'amor fraterno tra Romolo e Remo che non è punto interessato. Stretti altri uomini dal bisogno, palleggiarono con questa prima famiglia di prestar l'opera loro, a vantaggio lo tantocon l'avanzar de’lumitutt’il membro della citta si crede idoneo alle funzione che prima da’ soli padri si esercilavano, e sursero allora la repubblica e la monarchia, dove si ni in gran parte il certo dell’autorita,e comincia il vero della legge. S o l l o queste forme di governo l u l l a si spiega la moralità dell’azione, perchè si dissero azione della stessa, per una convenuta mercede. Surse allora la società tra padroni, dove il padre comanda al proprio figlio, a questi famoli ancora; e tale società dal nome de’ famoli si appellò famiglia. Dalla famiglia surse ben toslo un certo naturale governo. Stabilita l’autorità paterna sul figliuolo bisognoso di aiuto e sui famoli ha già il fanciullo contratto l’abito di rispettare la volontà del genitore. Quando fatto grande, il figlio divenne padre ancor esso, doveltero i di lui figli onorar colui verso il quale vedevano che gran rispetto porta il padre loro; supposero quindi nell’avo un’autorità superiore a quella del proprio padre. E perchè l’avo in ogni litigio pronunzia sempre in tuon definitivo, un taluso, per più a poi osservato, stabili finalmenle in sua persona un potere sovrano su tutt’i membri della famiglia. Ebbe di qui origine il governo patriarcale, che lungi dal puocere all’altrui libertà ed eguaglianza, dovelte anzi valere a garenlirla e consolidarla. Più famiglie particolari, per comune utilità riunite, costitusce la tribù; più tribù di Romolo la citta di Romo, dove i cittadini dovellero amarsi come I fratelli di una stessa famiglia, e prestare a Romolo, il capo delle tribù riunita la stessa ubbidienza che ogni membro della famiglia presta all'avo. E perchè questa ubbidienza proviene da sentimento di vera stima verso gli aozi del capo, dovelte essere perciò in supremo grado disinteressata.  Ma qui potrebbe dirsi che l'uomo, secondo Vico, nei quattro stati su indicati noo altro cerca che l’utile proprio. Nello stato di solitudine in fatti cerca egli semplicemente la sua salvezza. Presa moglie e fatti figliuoli ama la sua salvezza con quella della famiglia.Venuto a vita civile ama la sua salvezza con la salvezza della città. Distesi gl’imperi sopra altri popoli ama la sua salvezza con la salvezza dal paese. Uniti i paese per pace, alleanza, commercio, ama la sua salvezza con la salvezza del genere umano. L'uomo, conchiude Vico, in ogni circostanza cerca principalmente l'utile proprio.Il perchè non da altriche dalla provvidenza divina può esser guidato a celebrar con giustizia la familiare, l’eroica e finalmente l’umana fori morali quelle soltanto che si facevano nell’interesse della morale, senza domandare anticipatamente, seerano gradevoli. Ogni aspetto sotto il quale la moralità si manifesta si ridusse ne’ goverai umani ai due seguenti. O sono il senso che propongono farsi la tal cosa o non farsi, e la volontà ne decide dietro la legge della ragione, o è la ragione che prende l’iniziativa, e la volontà ubbidisce, senza consultare il senso. governo. Così è , diciamo pur noi, ma perchè l’utile che cerca l’uomo, tosto che si è reso superiore all’istinto, è subordinato ro a quello della famiglia; secondo a quello della città; terzo all’utile del paese; quarto all'utile di tutto il genere umano; l’utile che cerca l’uomo in ogni stato su m e o tovati non èl'utile variabile, ma quelloche è figlio dell’onestà, la quale, come Vico si esprime, talmente dirige e pondera le cose utili che a tutti giovano egualmente. ma di Ma perVico, si torna a dire, lulto questo è opera della provvidenza. Dalla provvidenza è vero. Fabbro però il diritto naturale del giurecosulto, di lunga mano di verso dal diritto naturale del filosofo che alla norma della ragione eterna lo agguagliano sempre. Ma essendo la repubblica degli ottimati quasi tutte ridotte in democrazia o principali, le qualidue forme di governo vengono regolate più secondo l’ordine naturale che secondo il civile; per queste cagioni venne a rallentarsi la custodia del diritto delle genti maggiori più antiche, sul quale diritto poggiavano sopratutto la re-pubblica degli ottimi, essendo propricla di quello stato la custodia delle palric consucludini. Vico della provvidenza è l'umano arbitrio, che ha per regola la sapienza volgare, la quale è il senso comune di ciascun popolo o nazione che dirige in società la nostra azione, sicchè facciano acconcezza con ciò che ne sentono tuttidi quell popolo o nazione. Quando poi le nazioni per commerci, per paci, per alleanze sono si conosciute, la convenienza del senso comune de’popoli o nazioni tra loro, è per Vico la sapienza del genere umano. Or, il senso comune di ogni popolo e di ogni nazione, il quale deve dirigere in società la nostre azione, acciò si accordion con tutto ciò che ne peosa il genere omano: che altro può esser mai se non è la legge morale? per perciò Vico seguendo Gaio chiama diritto civile comu. d e il diritto comune di ogni popolo; perchè Gaio, ove define il diritto civile, dice: Ogni popolo che e governato da una legge e da una consuetudine, in parte si serve del proprio diritto, in parte del comune diritto di lultigli uomini, e ció per la divina provvidenza, che secondo la stessa opportunità delle cose lo spiegò Ira la pazione separatamente, con la loro costumanza, per la tranquillilà di ciascun popolo o nazione. Tale diritto spiegato con la comune costumanza del popolo è dalla tutela, dal dominio, dalla libertà nacquero, secondo Vico, tre pure forme dello stato. Quella degli ottimati, la regia, e la libera. Fondamento dello stato degli ottimati è la tutela dell’ordine, con che venne da prima stabilito che i soli patrizî siabbiano gli auspicii, il campo, la gente, I connubî, i maestrati, gl’imperî , e presso legenti i sacerdoti. La regia risplende pel dominio di un solo, Romolo, e pel sommo e formisura libero arbitrio di esso solo in tutte le cose. La libera vien celebrata dall’eguaglianza de’suffragi, per la libertà delle opinioni, e per l’eguale adito a ogni onore, il quale adito è il censo. Imperocchè inciascuno di essi comanda un solo,o come vuole Tacito: uno essere il corpo della repubblica, e doversi governare con l'animo di un solo, o di piùa guisa di un solo. E però inciascun politico reggimento colui che è sommo è anche unico; perchè il sommo del pari che l’unico non si può moltiplicare. Ma queste tre forme pure di stati, benchè sieno da quelle particolari differenze teslè osservate, tra loro diverse; tultavolta allesa la loro origine, per virtù della quale la ragione, la volontà, il potere risiedono nell'uomo, sono strettamente tra lor collegale, e costituiscono irë parti di virtù fra loro commiste. L'ordine naturale per tanto è l’anima di ogni stato, perchè regna in quest’ordine il vero che all’ordine delle cose corrisponde, non a quello de’ nomi senza le cose, il quale non è ordine, ma sembianza di ordine. Quello dunque è l'ordine naturale dello stato, dove il prudente, il forte comanda e l’imprudente, l’imbecille ubbidisce: quali furono i primi principii dello stato, la famiglia, la clientela, gli antichissimi stati degli ottimati pur ordine civile quello che per volere della legge all’ordine naturale è frammesso, che può anche dirsi ordine politico, misto di civile e di nalurale, come nello stato degli ottimati il senato si compone de’ sapientissimi fra i patrizi; nello stato popolare il popolo viengo ver pato dall’autorità di un senato sapiente; nello stato regio il principe Romolo si vale del consiglio de’ sapienti. Quest’ordine misto può definirsi successione dell’onore, nella quale chi per una e chi per altra dole come per fede, diligenza, solerzia, valore, giustizia, vien riputato degno di ascendere ad onorale cariche, e dalle minori alle maggiori gradatamenle viene promosso: di guisa che i migliori sempre preseggano, e vigilino su I costumi degl’inferiori e li dirigano. Ma quando gli ottimati divennero nomi vani che li distinsero dalla plebe, all’ordine naturale successe il civile, ed al vero seguì il certo, il quale altro non è che la conformità all’ordine, non delle cose, ma della parola, da cui nasce la coscienza dal dubilar sicura . Imperoc chè I primi imperi degli ottimi o si manteonero ne’ loro discendenti, o in ogni popolo passarono, o a monarchici si ridussero. Perciò l'ordine civile o è nel lignaggio come nell’aristocrazia, o nel censo come nella democrazia, o nella casa regnante come nella monarchia. Ma de la nobiltà, né il patrimonio rende sapienti. Il nascer orincipe è cosa fortuita, dice Tacito, nè altra. Siccome però il certo è parte del vero, e la ragion civile nasce della stessa ragion naturale per le cause di certo Diritto, così l'ordine civile per natura sua fa parte dell’ordine naturale in quanto è esso cagione della pubblica sicurezza, ond'è che anche la citta la più corrolla da questo stesso civile ordine viene conservata. Ed è per quanto però la mente è più verace del discorso, altrellanto l’ordine e più stabili della legge; im pe rocchè la mente sempre una cosa detta al parlare, ma pel giudizio, o sia per la volontà, noi più volte falliamo, servendo spesso a ciò che dice il senso, senza ascoltar la mente. La parola in oltre non viene sempre con prontezza alla mente, spesso non esprime i suoi comcetto, mentre viene quella incessantemente spronala a raggiugnere  Ma questi ordini per la via della legge col timor delle pene, con la speranza de un premio, impongono al cittadino di rettamente comportarsi. Per la qual cosa l’ordine e più stabile dalla leggr: onde avviene che la legge ri posino sull’ordine, e che questi conserva la legge; im. perocchè l’ordine politico, il quale è misto di ordine naturale e di ordine civile, con maggior ragione di ciò che Aristotele della legge disse, è verameole una mente scevera di affetti. E come che la mente del popolo io generale sia scevera di affetti, pure questa mente stessa suole addivenir talvolta turbatissima, sopra tutto ove sia commossa da intestine turboleoze. Qual fu la mente del popolo di Atene, e quella del popolo romano sconvolta dal demagogo, che indussero l'uno e l'altro popolo, con particolare legge fuori l’ordine promulgate, a bandir dalla patria uomini di chiara virtù, per elevare ad amplissimi onori immerite volissimi cittadini. Vero, il la qual forza di vero altra cosa non è che la ragione. Or, la parola sovenli volte elude questa forza di vero, per la perversa volontà di chi ragiona. L'ordine perciò naturale e l'ordine misto è il solo che può con giustizia amministrar il diritto, e questo avviene quando uomini per sapienza e per virtù prestantissimi, giusta l’ordine naturale, e non secondo l'ordine concepu. Siegue da tullo ciò che il diritto chiamato da Grozio e Kelsen puro, e da Gaio diritto comune a tull ipopoli, altro non è ch e il diritto naturale , il quale h aperto della parola, o che torna lo stess , non secondo il certo della legge, ma giusta il vero della legge stessa, reggano gli stati. E perchè la leggr in moltissimi casi mancano ed è necessaria l’interpretazione che a la deficienza supplisca; può accader ancora che sollo la stessa autorità del diritto non solo qualche volta per ignoranza si erri, ma la stessa legge con frode si eludano. Più felice dunque e quello stato, nel quale il civile ordine e misto più secondo il naturale ordine o secondo l'ordine del vero che secondo l’ordine del certo. Quindi ove si conservino la legge imposta dall’ordine, e mollo più gli Ordini che le leggi si cuslodiscano, verranno gli Stati conservati. Ma se le leggi mancano, gli stati rovinano. Perciòsiamo servi della legge, diceva Tullio, per poter esser liberi. Convertendo dunque la massima si dirà pure con verità: se ci libereremo dalla legge, saremo naturalmenle servi. la legge morale; perchè, secondo Vico, non può darsi diritto senza morale. Iolanlo è da nolarsi diligentemente che Vico distingue il diritto io diritto vero, e diritto certo. Quello è per la ragione, questo per l'autorità. Il primo dirige l'uomo libero, il secondo l'uomo che più della liberlà segue l’istinto. Or cgli è evidente che negli stessi umani governi la più gran parte degli uomini, tenendo più all’istinto che alla libera elezione, si lascia più facilmente guidare dall’altrui autorità che dalla ragione. Di qui la necessità di un diritto misto, secondo le esigenze de’ popoli e le diverse forme di governo. Ma da ciò non segue che coloro i quali con la loro autorità oe fondamento impongodo a’ popoli, essendo essii più sapienti, i più prudenti, come vuole il Vico, non si propongano per i scopo il diritto vero e che non sieno al caso disco prirlo, senza darsi gran pena. La destinazione infalli del l'uomo non può dipendere dall’istinto, e tosto che l'uomo si conosce libero e la sua ragion consulta, questa gli ordina di conservarsi e di perfezionarsi: di essere cioè savio, moderato, prudente; di collivar l’intellelto, e nel tumulto de’ sensi e degli affetti di cautelare la volontà: nel che propriamente consiste la libertà dell'uomo interiore. E perchè egli scopre in altri esseri, a lui simiglianti, la stessa attività libera, gli considera tutti eguali, e tale scoperta fa nascere in lui l’obbligazione di lasciar i suoi simili nella loro indipendenza, ed è questa la tutela. A ppresso giudica di non aver diritto su di ciò che è stato da altri prima di lui occupalo, e ciò che ha egli occupato il primo, giudica che a lui spella solamente , nel che sla il dominio. Di qui reciprocità del diritto e del dovere; di qui l’origine della giustizia che gareolisce la proprietà. Tulli gli anzidelli del diritto e del dovere, perchè fondati sulla libertà, sul dominio, e sulla tutela, o che lorna lo stesso, sulla natura dell’uomo, stanno per sè, prima che l’uomo entri con altri in società. La legge non li creano, perchè già erano prima della legge. Questa non altro fanno che conservarlo. Lo stesso diritto e lo stesso dovere servono di fondamento alla società, che il legislatore non crea ma dirige, perchè la società già era, quando il governo non era ancora.  La  libertà del diritto, dice Vico, fuprim a ch e si conoscesse la servitù. Non s’introduce già il dominio con la divisione de’campi, furono solamenle distinti. Dalla polegza di operare infine nacque tosto la tutela o difesa di sè stesso. Se non che, ammellendo Vico nell’umana mente al cuni semi del vero che con l'andar del tempo si sviluppano in cognizioni distinte ed alcuni germi del giusto che tratto tratto si spiega la massima incontrastabile di giustizia; mostrasi egli in gran parte seguace di Platone intorno all’origine di quella verità che si dice necessaria. Or tale verita, essendo per noi di due spezie, una teoretiche ed una pratica, diciamo, che rispetto alla prima, la verita teorica, l’io il quale per un alto di spontaneità si conosce e si rivela dell'appercezione, appoggiato alle quattro idee necessarie di spazio,di tempo,di sostanza e di cagione, riduce all’unità tutto il vario della rappresentazione che a lui offer il senso. Riguardo poi alle verita pratica, essendo elleno legge pratica o comando di fare, si contiene in una massima universalisabile. Quando ti determini all’azione, esamina te stesso e vedi se la tua volontà sia di accordo con la volontà generale di ogni persona. Una tal massima universalisabile è la suprema legge della morale. Che che sia però della filosofia di Vico, a noi basta di aver provato che le due sue digoilà Vl*e VII“, ben lungi dall’opporsial la legge morale, la confermano mirabilmente. Dominio, libertà, tutela tre elementi del diritto; tre elementi che costituiscono l'uomo morale. Perchè non può avervi diritto senza morale. La filosofia perciò di Vico si accorda perfettamente con la morale. Grice: “Most of Colecchi’s essays are easily available, and it’s easy enough to check his references to other Italian philosophers – not just Vico, as I have done – but Rogmanosi, and even ancient Roman ones like Cicero – and perhaps more importantly his influence on the so-called Neapolitan Hegelians!” -- Ottavio Colecchi. Keywords: Vico, il Vico di Collecchi, Cacciatore, Macchiaveli, Lazio, Romolo e Remo, Kant, categoric imperative, massima, first-hand knowledge of Kant, Colecchi Kantiano, ma non aristotelico – il kantismo di Colecchi – l’italiano kantiano di Colecchi – il vocabolario kantiano in Colecchi – analitico – sintetico – sintetico a priori – giudizio necessario – Romolo e Remo, diritto naturale, lingua e nazione, Marte, Saturno, Giove, etimologia di Vico, il Lazio, il senato romano, ottimati, storia di Roma, diritto romano, psicologia razionale, psicologia filosofica, l'istinto, la passione, la ragione, la sensazione, l’intelletto, spazio-tempo, l’azione, l’agire como reame della morale, massima d’azione, la regola di oro – la rifutazione di Vico all’eudaimonismo di Aristotele e al utilitarismo di Bentham, lo caduco e lo no caduco, ius naturale, ius como la virtu unica, giustizia equittrice e rettrice, giustizia commutative e giustizia distritutiva, l’ordine aritmetico e l’ordine geometrio – la base matematica della filosofia di Colecchi, l’amore, amore interessato, amore disinteresatto, salvezza, uomo, padre e figlio, uomo come cittadino, il genere umano, la massima universalisabile, l’onesto, fortezza, prudenza, toleranza, virtu, vizio, il vero versus il certo, la nascita della morale dal ordine agglomerazione sociale, la potesta naturale, il dominio, la tutela, la liberta, libero arbitrio e passione, autorita e ragione, forza, autorita e raggione, l’ubbidenza che il figio mostra al padre, il ruolo dell’avo, la societa di equali, il modello della societa romana antica, la societa dell’amicizia, Eurialo e Niso, L’Enneada, la lingua del contratto come requisite del patto sociale, la parola e il concetto, la formola della parola, verbum/res, res pubblica, communita, diritto comune, bene comune, l’ordine: primo stato dell’uomo in solitudine, l’ordine della famiglia: societa di inequali, padre/figlio, terzo stadio: la tribu di Romolo, la citta di Romolo, il paese di Romolo, il genero umano, diritto universale di Vico e Kant, Hampshire on Vico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colecchi” – The Swimming-Pool Library.

 

COLLETTI (Roma). Filosofo. Grice: “I like Colletti – he takes political philosophy seriously unlike we of the Lit. Hum, not PPE school, at Oxford! But then he is a Roman and has all the Orazi and Curiazi traditions!” Si laurea sotto Volpe. Insegna a Roma. “Partito Socialista Italiano”. Altre opere: “Il marxismo e Hegel, in Lenin, Quaderni filosofici, Milano, Feltrinelli, 1958. Ideologia e società, Bari, Laterza, Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza, Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, e con Claudio Napoleoni, Bari, Laterza, Intervista politico-filosofica, con un saggio su Marxismo e dialettica, Roma-Bari, Laterza, Il marxismo e il "crollo" del capitalismo, a cura di, Roma-Bari, Laterza, Tra marxismo e no, Roma-Bari, Laterza, Tramonto dell'ideologia. [Le ideologie dal '68 a oggi; Dialettica e non-contraddizione; Kelsen e il marxismo], Roma-Bari, Laterza, 1980. Crisi delle ideologie. Intervista politico-filosofica, Il marxismo del XX secolo, Le ideologie dal '68 a oggi, Milano, Club degli editori, Pagine di filosofia e politica, Milano, Rizzoli, La logica di Benedetto Croce, Lungro di Cosenza, Marco, Fine della filosofia e altri saggi, Roma, Ideazione, Lezioni tedesche. Con Kant, alla ricerca di un'etica laica, Roma, Liberal, È morto Lucio Colletti voce "contro" di Forza Italia, su repubblica, Camera dei Deputati, Gruppo Parlamentare di Forza Italia, Ricordo di Lucio Colletti, Roma, Stampa e servizi, Orlando Tambosi, Perché il marxismo ha fallito Lucio Colletti e la storia di una grande illusione, Milano, Mondadori, 2001.  88-04-48844-1 Ministero per i beni e le attività culturali, Lucio Colletti: il cammino di un filosofo contemporaneo, Roma, Essetre, 2003 Pino Bongiorno, Aldo G. Ricci, Lucio Colletti scienza e libertà, Roma, Ideazione, Cristina Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma, Manifestolibri. Collétti, Lucio la voce nella Treccani L'Enciclopedia Italiana. il 20/07/ Lucio Colletti, su CameraXIII legislatura, Parlamento italiano. Lucio Colletti, su CameraXIV legislatura, Parlamento italiano. La storia di Lucio Colletti di Costanzo Preve, nel sito Kelebek Roma. Partito Comunista Italiano” Forza Italia”. Il saggio di Colletti Marxismo e dialettica fu scritto «a chiarimento di alcuni temi toccati» nell’intervista apparsa sulla “New Left Review” nel numero di luglio-agosto 1974, e pubblicato con la traduzione italiana dell’intervista. Più esattamente Colletti si propone di chiarire la «differenza tra “opposizione reale” (la Realopposition o Realrepugnanz di Kant) e “contraddizione dialettica”». Si tratta di opposizioni radicalmente diverse: la prima è «senza contraddizione (ohne Widerspruch)», la seconda è «per contraddizione (durch den Widerspruch)» (1974: 65). La opposizione dialettica (66-69) è espressa dalla formula «A non-A», nella quale ciascun opposto è solo la negazione dell’altro, ma non è niente in sé e per sé. I poli dell’opposizione sono cioè ambedue negativi, più esattamente ciascuno è la negazione dell’altro, ma solo all’interno dell’unità con l’altro. Quindi «entrambi gli opposti sono negativi, nel senso che sono ir-reali, non-cose (Undinge), ma idee». Ciascun opposto «ha la sua essenza fuori di sé» (67), nell’altro di cui è la negazione. L’origine dell’opposizione dialettica, e della stessa dialettica, è platonica: l’unità degli opposti è la koinona ton genon. L’opposizione reale (70-76) è espressa dalla formula «A e B», nella quale ciascun opposto sussiste di per sé, è positivo, e perciò è esclusivo dell’altro. La cosa più importante è che  Massimiliano Biscuso – Opposizione reale, contraddizione logica e contraddizione dialettica 4 «nell’opposizione reale o rapporto di contrarietà (Gegenverhältnis), gli estremi sono entrambi positivi, anche quando l’uno venga indicato come il contrario negativo dell’altro» (72). Questo accade ad esempio quando ci rappresentiamo due forze eguali che muovono due corpi in direzione contraria: il risultato è la quiete, cioè comunque qualcosa (ed essendo qualcosa possiamo rappresentarcelo). «In altre parole, nella relazione di contrarietà che è l’opposizione reale, vi è, sì, negazione, ma non nel senso che uno dei due termini possa essere considerato come negativo di per sé, cioè come non-essere» (74). Le opposizioni reali non minano, anzi confermano il pdnc, proprio perché sono «senza contraddizione» (dove è già implicito, come sarà confermato in seguito, che l’opposizione dialettica nega il pdnc). Il marxismo non ha mai avuto le idee chiare intorno a questi due diversissimi generi di opposizione, e non le ha avute anche perché non ha mai chiarito con sufficiente rigorosità il suo rapporto con la dialettica hegeliana. In Hegel la dialettica delle idee è al tempo stesso la dialettica della materia, nel senso preciso che è impossibile in Hegel separare le idee dalla materia: «Se si presta attenzione, si vede subito che il rapporto finito-infinito, essere-pensiero, segue il modello della contraddizione “A non-A”. Fuori l’uno dell’altro, cioè al di fuori dell’Unità, finito e infinito sono entrambi astratti, irreali» (80), e l’unità che include il finito e il falso infinito (falso perché altrettanto finito, in quanto limitato dalla sua opposizione al finito) è l’Idea, il vero infinito. Dunque, commenta Colletti, «dov’era la cosa è ora subentrata la contraddizione logica» (81 – si badi bene: contraddizione logica e non, come ci si attenderebbe, contraddizione dialettica). Ora, il «dramma del marxismo» è aver «ripreso alla lettera» la dialettica hegeliana della materia, scambiandola per una forma superiore di materialismo. Dramma, perché quella dialettica era volta: a) alla distruzione del finito, b) alla negazione del pdnc; cioè proprio a ciò a cui la scienza non può rinunciare, anzi da cui si deve necessariamente muovere (d’altronde la scienza, che si basa sul pdnc, «è il solo modo di apprendere la realtà, il solo modo di conoscere il mondo», 112). Avvertiti di questa difficoltà, negli anni Cinquanta alcuni marxisti polacchi e tedesco-orientali cercarono di mostrare che «ciò che i “materialisti dialettici” presentano come contraddizioni nella natura sono, in realtà, contrarietà, cioè opposizioni ohne Widerspruch; e che, dunque, il marxismo può benissimo continuare a parlare di conflitti e di opposizioni oggettive, senza, per questo, essere costretto a dichiarare guerra al principio di (non-)contraddizione e mettersi così in rotta con la scienza» (86). Tali risultati convergevano con quelli della ricerca di della Volpe: a costo di liquidare «gran parte dell’opera filosofica di Engels» (94) in quanto fonte del Diamat, sembrava però legittimarsi «l’aspirazione del marxismo a costituirsi come la fondazione delle scienze sociali, cioè come la scienza della società» (95). In realtà non era possibile ritenere che il Capitale non avesse nulla a che fare con Hegel: infatti «i processi di ipostatizzazione, la sostantificazione dell’astratto,  www.filosofia-italiana.net 5 l’inversione di soggetto e predicato, ecc., lungi dall’essere per Marx soltanto modi difettosi della logica di Hegel di riflettere la realtà, erano processi che egli ritrovava […] nella struttura e nel modo di funzionare della società capitalistica stessa» (97). Vi sono dunque «due Marx» (99): lo scienziato dell’economia politica e il critico dell’economia politica. Questo significa riconoscere i limiti della stessa lettura dellavolpiana, che condivide con molte altre letture marxiste il difetto di non cogliere le due facce del pensiero di Marx. «Quando il marxismo è una teoria scientifica del divenire sociale, è tutt’al più una “teoria del crollo”1, ma non una teoria della rivoluzione; quando, viceversa, è una teoria della rivoluzione, essendo solo una “critica dell’economia politica”, rischia di risultare il progetto di una soggettività utopica» (102). Dunque per lo stesso Marx le contraddizioni del capitalismo sono non opposizioni reali, bensì contraddizioni dialettiche nel senso pieno della parola. Da un passo delle Teorie sul plusvalore (la possibilità della crisi è la possibilità che momenti che sono inseparabili si separino e quindi vengano riuniti violentemente) Colletti conclude che i poli dell’opposizione, separandosi, si sono fatti reali, pur non essendolo veramente: «sono, in breve, un prodotto dell’alienazione, sono entità per sé irreali seppur reificate» (107). «Teoria dell’alienazione e teoria della contraddizione, dunque, come una sola e identica teoria» (109): la contraddizione nasce dal fatto che l’aspetto individuale e quello sociale del lavoro, pur essendo intimamente connessi, si danno un’esistenza separata. È la contraddizione di individuo e genere, di natura e cultura, già rilevata dai maggiori analisti della società civile borghese del Settecento. «La società moderna è la società della divisione (alienazione, contraddizione). Ciò che un tempo era unito, si è ora spezzato e separato. È rotta l’“unità originaria” dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo» (111), dove l’unità, essendo data, non deve essere spiegata, mentre è da spiegare la divisione. «Seppure modificato, riaffiora lo schema della filosofia della storia di Hegel. E questo, ci si scopre essere il secondo volto di Marx, accanto a quello dello scienziato, naturalista e empirico» (112). Georg Wilhelm Friedrich Hegel versuchte, um die von ihm vertretene Dialektik (im Sinne einer Lehre von den Gegensätzen in den Dingen) durchzusetzen, die Logik in einer Weise zu erweitern (sog. dialektische Logik), die den Satz vom Widerspruch außer Geltung setzt.[3] Damit versuchte Hegel, die Kantische Widerlegung des sogenannten 'Dogmatismus in der Metaphysik' zu umgehen. Der Wissenschaftstheoretiker Karl Popper kommentiert: „Diese Widerlegung [Kants] betrachtet Hegel als gültig nur für Systeme, die metaphysisch in seinem engeren Sinne sind, jedoch nicht für den dialektischen Rationalismus, der die Entwicklung der Vernunft berücksichtigt und deshalb Widersprüche nicht zu fürchten braucht. Indem Hegel die Kantische Kritik in dieser Weise umgeht, stürzt er sich in ein äußerst gefährliches Abenteuer, das zur Katastrophe führen muss; denn er argumentiert etwa folgendermaßen: ‚Kant widerlegte den Rationalismus durch die Feststellung, er müsse zu Widersprüchen führen. Dies gebe ich zu. Aber es ist klar, dass dieses Argument seine Stärke aus dem Gesetz vom Widerspruch ableitet: es widerlegt nur solche Systeme, die dieses Gesetz akzeptieren, also solche, die beabsichtigen, frei von Widersprüchen zu sein. Das Argument ist nicht gefährlich für ein System wie das meinige, das bereit ist, Widersprüche zu akzeptieren – d.h. für ein dialektisches System.‘ Es besteht kein Zweifel, dass Hegels Argument einen Dogmatismus von äußerst gefährlicher Art aufrichtet - einen Dogmatismus, der keinerlei Angriff mehr zu fürchten braucht [siehe Immunisierungsstrategie]. Denn jeder Angriff, jede Kritik irgendwelcher Theorie muß sich auf die Methode stützen, irgendwelche Widersprüche aufzuzeigen, entweder in einer Theorie selbst oder zwischen einer Theorie und irgendwelchen Fakten […].“[4]  Logisches Quadrat  Das logische Quadrat Unter der Voraussetzung, dass ihre Subjekte keine leeren Begriffe sind, bestehen zwischen den unterschiedlichen Aussagentypen verschiedene Beziehungen:  Zwei Aussagen bilden einen kontradiktorischen Gegensatz genau dann, wenn beide weder gleichzeitig wahr noch gleichzeitig falsch sein können, mit anderen Worten: Wenn beide unterschiedliche Wahrheitswerte haben müssen. Das wiederum ist genau dann der Fall, wenn die eine Aussage die Negation der anderen ist (und umgekehrt). Für die syllogistischen Aussagentypen trifft das kontradiktorische Verhältnis auf die Paare A–O und I–E zu. Zwei Aussagen bilden einen konträren Gegensatz genau dann, wenn sie zwar nicht beide zugleich wahr, wohl aber beide falsch sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar A–E in konträrem Gegensatz. Zwei Aussagen bilden einen subkonträren Gegensatz genau dann, wenn nicht beide zugleich falsch (wohl aber beide zugleich wahr) sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar I–O in subkonträrem Gegensatz. Zwischen den Aussagetypen A und I einerseits und E und O andererseits besteht ein Folgerungszusammenhang (traditionell wird dieser Folgerungszusammenhang im logischen Quadrat Subalternation genannt): Aus A folgt I, d. h., wenn alle S P sind, dann gibt es auch tatsächlich S, die P sind; und aus E folgt O, d. h., wenn keine S P sind, dann gibt es tatsächlich S, die nicht P sind. Diese Zusammenhänge werden oft in einem Schema, das unter dem Namen „Logisches Quadrat“ bekannt wurde, zusammengefasst (siehe Abbildung). Die älteste bekannte Niederschrift des logischen Quadrats stammt aus dem zweiten nachchristlichen Jahrhundert und wird Apuleius von Madauros zugeschrieben. Grice: “Colletti takes negation more seriously than Popper does. Colletti examines Hegel’s target, which is Kant’s distinction between ‘real opposition’ or ‘real repugnance’ and ‘dialectical contradiction.’ Both can combine. Hegel indeed wishes to go beyond the principle of non-contradiction instituted in Velia by Parmenides. The Italian language allows for some distinction that the English language doesn’t. There’s the opposto, which is combined of posto, posto is cognate with ponere, as in modus ponens, and it’s also the root for ‘positive’ (as opposed to negative, or strictly, togliere, tollere modus tollens – to deny). So the the posto, we have the opposto. On the other hand, there’s the ‘contra’, which translates Greek ‘anti’ – so that ‘apophasis’ becomes ‘contra-dictio’ where ‘dictio’ is cognate with ‘deixis,’ and so more to do with dictiveness and indicativeness than with ‘vocalisation’. The Germans deal with the widerspruch but that’s THEIR problem. So to the posto we have the opposto. But after Cicero, the use of ‘contrario’ becomes important. Il contrario and l’opposto then pretty much covered all I failed to see back with my ‘Negation and privation,’ and my later lectures on ‘Negation’ simpliciter. Both Kant, Hegel Colletti, and I, allow for ~ being all we need!” Lucio Colletti. Keywords: opposition, negazione, la contraddizione dialettica e la non-contraddizione – hegel – Oxford Hegelian, “Negation and Privation” “Negation” “Privation” “The Square of Opposition” Das Quadrat – contradictum – the deicticness of the dictum – contra – counter – anti – antithesis – apo-phasis – ob-positum – contrarium, il contrario, l’opposto, contra-dictio and contrario, il contrario, il contradditorio, dialettica ateniese, dialettica oxoniana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colletti” – The Swimming-Pool Library.

 

COLLI (Torino). Filosofo. Grice: “I love Colli – his ‘filosofia dell’espressione’ is much more serious than my ramblings, well meant, though, on Peirce! I was only trying to be fashionable! At Oxford, they loved my lecture on ‘meaning,’ which got me into ‘implying,’ and eventually, ‘expressing.’ – My unity developed – Colli was born with it!” Insegna a Pisa. Di una facoltosa famiglia, il padre amministra “La Stampa”, incarico dal quale fu poi estromesso all'indomani della marcia su Roma, su ordine di Mussolini. Studia a Torino, laureandosi sotto Solari con “Politicità ellenica e Platone”. Scorse nella tradizione filosofica classica greco-romana l'autentico "logos" a cui ritornare.  Lo stile di scrittura, profondo e costellato di aforismi taglienti, si caratterizza da un'attenzione maniacale alla musicalità del discorso. Questa dote musicale emerge con chiarezza dalle letture di alcuni passi di Colli recitati da Bene. Il suo saggio principale è “Filosofia dell'espressione” che fornisce, mediante una complessa teoria delle categorie e della deduzione, un'interpretazione della totalità della manifestazione come “espressione” di qualcosa (l'immediatezza) che sfugge alla presa della conoscenza. Comunque, ritiene che sia possibile riguadagnare il fondamento metafisico del mondo portando il discorso filosofico ai suoi estremi limiti e "(di)mostrando" la natura derivata del logos. Importante il suo contributo su i filosofi italici Gorgia, Zenone, e Girgentu, e le figure di Bacco ed Apollo, dismisura e misura. Al tentativo di interpretare gli enigmi di questi culti a-logici, fra i quali quelli oracolari, viene fatta risalire l'origine remota della dialettica. Altre opere: “Filosofia dell'espressione” (Adelphi, Milano); “Dopo Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La nascita della filosofia. Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Dioniso, Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo, Iperborei, Enigma” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Epimenide, Ferecide, Talete, Anassimandro, Anassimene, Onomacrito” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca”; “Eraclito” (Adelphi, Milano); “Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La ragione errabonda” (Adelphi, Milano); “Per una enciclopedia di autori classici” (Adelphi, Milano); “La Natura ama nascondersi” (Adelphi, Milano); “Zenone di Velia” (Adelphi, Milano); “Gorgia e Parmenide” (Adelphi, Milano); “Introduzione a Osservazioni su Diofanto di Pierre de Fermat. Bollati Boringhieri, Torino); “Platone politico” (Adelphi, Milano); “Il sovro-umano” (Adelphi, Milano); “Apollineo e dionisiaco” (Adelphi, Milano); “Girgentu” (Adelphi, Milano); “Platone: la lotta dello spirito per la potenza, Einaudi, Torino); Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino); Organon, Einaudi, Torino); Critica della ragion pura, a cura e tr. di Giorgio Colli, Einaudi, Torino); “Simposio” (Adelphi, Milano); Parerga e paralipomena” (Adelphi, Milano); Nietzsche (Classici Adelphi)  Scritti giovanili; La nascita della tragedia; Considerazioni inattuali; La filosofia nell'epoca tragica dei Greci; Frammenti postumi; Wagner a Bayreuth; Considerazioni inattuali, Umano, troppo umano, Aurora; Idilli di Messina; Così parlò Zarathustra; Al di là del bene e del male; Genealogia della morale; Wagner; Crepuscolo degli idoli; L'anticristo; Ecce homo; Nietzsche contra Wagner, Ditirambi di Dioniso e Poesie postume; Epistolario (Adelphi, Milano); Sull'utilità e il danno della storia per la vita (Adelphi, Milano); Sull'avvenire delle nostre scuole” (Adelphi, Milano);  La mia vita (Adelphi, Milano); La nascita della tragedia” Adelphi, Milano); L'uomo di fede e lo scrittore, Adelphi, Milano); Schopenhauer come educatore, tr. di Mazzino Montinari, Adelphi, Milano); “Lettere da Torino” (Adelphi, Milano); “Il servizio divino dei greci” (Adelphi, Milano); Lo Specchio di Dioniso” (Dedalo, Bari); Dizionario biografico degli italiani,  Implicazioni estetiche in Colli; Misura e dismisura. Per una rappresentazione di Colli, ERGA, Genova); L’enigma greco; Apollineo e dionisiaco in Colli, in Clemente Tafuri e David Beronio, Teatro Akropolis. Testimonianze ricerca azioni, vol II, AkropolisLibri, Genova); I Greci: annotazioni su alcune traduzioni, in "Episteme", Mimesis Edizioni, Milano); Il Girgentu di Colli, Luca Sossella Editore, Roma. Giorgio Colli. Keywords: L’Apollo romano, L’appollo d’etruria, La mesura d’Apollo, la dismisura di Bacco; l’enigma filosofico, Bacco, Nietzsche, Girgentu, Velia, Crotone, Gorgia, Zenone di Velia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colli: l’implicatura di Bacco.”

 

COLLINI (Firenze). Filosofo. Grice: “If you love birds, you love Collini – he loved ‘pterodattili,’ though and made nice drawings of them, as they fought with ‘uomini’!” Discendente di una nobile famiglia, studia a Pisa. Si trasferì a Coira. Collini venne descritto come scontroso, spesso in litigio. A lui si deve la descrizione dello pterodactylus, un rettile volante, o pterosauro o pterodattilo. Denuncia il fanatismo durante le guerre rivoluzionarie francesi in Europa. Grice: “I often wondered why the conte would flee his family seat in lovely Tuscany for the darker landscapes of the North – till I found out the reason: he had helped one of his noble friends (Ottavio) to do some evil-act on a nobile gentildonna (Malspina): so he had no choice!”. Altro Italiano non ricordato dal Lucchesini, forse perchè assai più tardi aggregato all'Accademia, è Cosimo Alessandro Collini, nato a Firenze. Narra il Denina (1) che, mentre ea Pisa, aiuta a Domenico Eusebio Chelli, da famglia civile di Livorno, nel ratto della marchesa Gabbriella Malaspina, sicchè dovette fuggirsene (2). Dopo essersi fermato a Coira, va a Berlino raccomandato da una signora M. (egli stesso non ne dà che l’iniziale) abitante in Firenze, amica di famiglia e sorella della Barberina. Accolto da questa, ormai signora Coccei, con molta benevolenza, attesea studiare, e con baldanza, quando Voltaire venne a Berlino, si presenta a lui, che lo riceve amorevolmente dicendogli, la Toscana è stata una nuova Atene e i toscani sono stati i nostri maestri. Gli si raccomandò per trovare un'occupazione e n’ebbe lusinghiere promesse. Ma il tempo scorreva e il conte ha fretta, sicchè pensa di valersi, oltre che della ballerina, anche di una celebre cantante, l’Astrua, che gli ottenne il posto di segretario dello stesso Voltaire. Stette con lui copiando i suoi lavori e leggendogli la sera il Boccaccio e l'Ariosto – l’uno pienamente con tento dell'altro. “Mon secrétaire», scrive il Voltaire al Thiriot, “est un florentin, très-aimable, tres-bien né, et qui merite, mieux que moi, d'être de l'Académie della Crusca. Fu compagno al filosofo poeta anche nella sua fuga dalla Prussia e nelle sue pe regrinazioni e vicissitudini per la Germania, la Francia e la Svizzera. Ma nper una lettera nella quale scherzava su mad. Denis, si separa da Voltaire, che tuttavia continua a volergli bene e a corrisponder con lui; e sulle raccomandazioni del Voltaire passa al servizio dell'elettor palatino, che lo fece suo bibliotecario e segretario dell'Accademia di Mannheim. Scrive saggi sulla storia della Germania e su quella del Palatinato, ma più ch'altro di mineralogia. È lodato anche un suo volume di Lettres sur les Allemands, pubblicato anonimo a Mannheim nel 1784, cui un altro doveva seguirne sulla letteratura tedesca.E là dove aveva trovato una seconda patria e una onorevole residenza, mori nel 1806. All'Accademia,alla quale forse furono ascritti anche altri Ita liani oltre quelli ricordati qui e più addietro,e cui è da aggiun gere G. B. Morgagni (3), si riferisce questo brano di lettera del (2) Il COLLINI stesso nel suo libro Mon séjour auprès de Voltaire et Lettres inédites que m'écrivit cet homme célèbre,ecc.,Paris,Collin,1807, confessa (pag. 5) la fuga dalla patria e dalla famiglia, m a ne dà per m o tivo una giovanile vaghezza di conoscere il mondo e gli uomini. L'esemplare tipo dell'animale ora conosciuto come Pterodactylus antiquus è stato uno dei primi fossili di pterosauro scoperti e il primo ad essere identificato. Il primo esemplare di Pterodactylus fu descritto dallo scienziato italiano Cosimo Alessandro Collini, nel 1784, sulla base di un scheletro fossile, portato alla luce dai calcari di Solnhofen, di Baviera. Collini fu il curatore della "Naturalienkabinett", o "camera delle meraviglie" (l'antenato del moderno concetto di Museo di Storia Naturale), nel palazzo di Carlo Teodoro, elettore di Baviera, a Mannheim.[17] Il campione era stato affidato alla raccolta, dal conte Friedrich Ferdinand zu Pappenheim, probabilmente intorno al 1780, dopo essere stato recuperato da un calcare litografico nella cava di Eichstätt.[18] La data effettiva della scoperta e l'ingresso del campione nella collezione è sconosciuto. Non è stato menzionato in nessun catalogo della collezione, preso nel 1767 quindi deve essere stato acquistato tra il 1767 e il 1784, anno della descrizione di Collini. Ciò potrebbe rendere il fossile il primissimo pterosauro descritto; Nel 1779 fu descritto una seconda specie chiamata Pterodactylus micronyx (oggi conosciuto come Aurorazhdarcho micronyx) che però era stata inizialmente scambiata per un fossile di crostaceo.[19]   Ricostruzione di Wagler, del 1830, su uno stile di vita acquatico per Pterodactylus Collini, nella sua prima descrizione del campione di Mannheim, concluse che si trattava di un animale volante. In realtà, Collini non riusciva a capire di che tipo di animale si trattasse, ma lo accostò ad uccelli e pipistrelli, per via di alcun affinità anatomiche. Più avanti lo stesso Collini ipotizzò addirittura che potesse trattarsi di un animale acquatico. Tale ipotesi non venne avanzata su rigori scientifici ma su una supposizione di Collini che pensava che le profondità dell'oceano potevano ospitare animali stravaganti.[20][9] Nel 1830, l'idea che gli pterosauri fossero animali marini persisteva ancora in una minoranza di scienziati tra cui lo zoologo tedesco Johann Georg Wagler, che pubblicò nel suo testo intitolato "Anfibi", un articolo che vedeva gli pterosauri come animali marini con ali disegnate come pinne, ispirandosi ai moderni pinguini. Wagler si spinse fino a classificare lo Pterodactylus, insieme ad altri vertebrati acquatici (come plesiosauri, ittiosauri e monotremi), nella classe Gryphi, tra uccelli e mammiferi.[21]   Prima ricostruzione di uno pterosauro al mondo ad opera di Hermann, nel 1800 Fu lo scienziato francese/tedesco Johann Hermann che per primo dichiarò che il lungo quarto dito della mano dello Pterodactylus venisse usato per sostenere una membrana alare. Nel mese di marzo del 1800, Hermann fu allertato dallo scienziato francese George Cuvier dell'esistenza del fossile di Collini, che era stato catturato dagli eserciti di occupazione di Napoleone e inviato alle collezioni francesi a Parigi, come bottino di guerra; in seguito alcuni commissari politici francesi sequestrarono i tesori d'arte e gli oggetti di valore scientifico. Hermann in seguito inviò una lettera a Cuvier, dove vi era scritta la sua interpretazione del fossile (anche se lui non aveva esaminato personalmente), dichiarando che l'animale doveva trattarsi di un mammifero, e inviò anche una bozza di come doveva apparire in vita l'animale. Fu la prima ricostruzione artistica per uno pterosauro al mondo. Hermann disegnò l'animale con una membrana alare che si estendeva dalla fine del quarto dita fino alle caviglie e ricoperto da pelliccia,(all'epoca il fossile non presentava ne segni di membrana alare ne di pelliccia). Hermann nel suo schizzo aggiunse anche una membrana tra il collo ed il polso, come quella presente oggi nei pipistrelli. Cuvier d'accordo con questa interpretazione, e su suggerimento di Hermann, pubblicò questa nuova descrizione nel dicembre del 1800.[9] In uno scritto Cuvier dichiarò che, "Non è possibile mettere in dubbio che il lungo dito servisse a sostenere un membrana che, allungandosi all'estremità anteriore di questo animale, formava una buona ala."[22] Tuttavia, contrariamente a Hermann, Cuvier era convinto che l'animale fosse un rettile.  In realtà l'esemplare non era stato sequestrato dai francesi. Infatti, nel 1802, dopo la morte di Carlo Teodoro, il fossile fu portato a Monaco di Baviera, dove il barone Johann Paul von Carl Moll, aveva ottenuto un'esenzione generale della confisca per le collezioni bavaresi. Cuvier chiese a von Moll il permesso di studiare il fossile, ma fu informato che il pezzo non fu trovato. Nel 1809, Cuvier pubblicò una descrizione un po' più a lunga, in cui l'animale veniva chiamato "Ptero-dactyle" e confutava l'ipotesi di Johann Friedrich Blumenbach, che sosteneva che l'animale fosse un uccello marino.   Ricostruzione inesatta di P. brevirostris, da parte di Von Soemmerring, del 1817 Contrariamente a rapporto di von Moll, il fossile non è mancata; fu oggetto di studio da parte di Samuel Thomas von Sömmerring, che tenne una conferenza pubblica sul fossile il 27 dicembre 1810. Nel mese di gennaio del 1811, von Sömmerring scrisse una lettera al Cuvier deplorando il fatto che era da poco stato informato della richiesta di Cuvier per informazioni. La sua conferenza fu pubblicata nel 1812, e in essa von Sömmerring diede alla creatura il nome di Ornithocephalus antiquus.[23] Qui l'animale fu descritto come un mammifero simile ad un pipistrello ma con caratteristiche da uccello. Cuvier in disaccordo con tale descrizione, lo stesso anno fornì una lunga descrizione nella quale ricordò che l'animale era in realtà un rettile.[24] Nel 1817 fu rinvenuto un secondo esemplare di Pterodactylus, ancora una volta a Solnhofen. Questo esemplare rappresentato da un giovane fu descritto nuovamente da von Soemmerring, come Ornithocephalus brevirostris, per via del muso corto, avendo tuttavia capito che si trattava di un esemplare più giovane (oggi si sa che questo fossile appartiene ad un altro genere di pterosauro, probabilmente un Ctenochasma[3]). Von Sommerring fornì anche uno schizzo dello scheletro[9] che in seguito si rivelò essere sbagliato e impreciso, in quanto von Soemmerring aveva scambiando il metacarpo per le ossa del braccio inferiore, il braccio inferiore per l'omero, il braccio superiore per lo sterno e lo sterno per una scapola.[25] Tuttavia Soemmerring rimase per sempre fedele alla sua idea dello Pterodactylus. Lo avrebbe sempre immaginato come un animale simile ad un pipistrello, anche se a seguito di alcune ricerche nel 1860 ammise che l'animale era un rettile. Tuttavia l'immaginario collettivo dell'animale rimaneva quello di una creatura quadrupede, goffa a terra, ricoperta di pelo, a sangue caldo e con una membrana alare che si attaccava alle caviglie.[26] In epoca moderno (2015) alcuni di questi elementi sono stati confermati, alcuni smentiti, mentre altri rimangono ancora oggi in discussione.  Paleobiologia Classi d'età  Esemplare giovane di P. antiquus Come molti altri pterosauri (in particolare il Rhamphorhynchus), l'aspetto degli esemplari di Pterodactylus varia a seconda dell'età e in base al livello di maturità. Le proporzioni di entrambe le ossa degli arti, le dimensioni e la forma del cranio e le dimensioni e il numero dei denti possono stabilire a quale classe di età appartiene l'animale. In passato queste differenze morfologiche hanno portato a credere che si trattassero di specie distinte con caratteristiche anatomiche differenti. Recenti studi più dettagliati e che utilizzano nuovi metodi per misurare le curve di crescita degli esemplari noti, hanno stabilito che in realtà vi è un'unica specie di Pterodactylus ritenuta valida ossia, P. antiquus.[6]  Il più giovane e immaturo campione di P. antiquus (da alcuni interpretato come facente parte di una seconda specie chiamata Pterodactylus kochi) possiede pochi denti e i pochi che possiede hanno una base relativamente ampia.[4] I denti di altri esemplari di P. antiquus hanno denti più stretti e numerosi (fino a 90).[6]  Tutti i campioni di Pterodactylus possono essere suddivisi in due diverse classi di età. Nella prima classe, rientrano gli esemplari i cui crani hanno una lunghezza complessiva che va dai 15 ai 45 millimetri di lunghezza. Nella seconda classe, invece, rientrano gli esemplari i cui crani hanno una lunghezza complessiva che va dai 55 ai 95 millimetri di lunghezza, ma sono ancora immaturi. Questi due primi gruppi di dimensione erano a loro volta classificati come giovani e adulti della specie P. kochi, fino a che un nuovo studio ha dimostrato che anche quelli che si credevano "adulti" erano comunque esemplari immaturi, e probabilmente appartengono ad un genere distinto. Una terza classe è rappresentata da esemplari specie tipo P. antiquus, così come un paio di grandi esemLplari isolati, una volta assegnati a P. kochi che si sovrappongono P. antiquus per dimensioni. Tuttavia, tutti i campioni di questa terza classe mostrano anche segni di immaturità. L'aspetto degli esemplari completamente maturi di Pterodactylus esemplari rimane tuttora sconosciuto, oppure potrebbero essere stati erroneamente classificati come un genere diverso.[4]  Crescita e riproduzione  Bacino fossile di un grande esemplare, riferito alla dubbia specie P. grandipelvis Le classi di crescita degli esemplari di P. antiquus mostrano che questa specie, come il contemporaneo Rhamphorhynchus muensteri, probabilmente allevava i piccoli in determinate stagioni e questi crescevano costantemente durante tutta la vita. Quindi la riproduzione e il conseguente allevamento dei cuccioli avveniva ad intervalli regolari e probabilmente in ogni stagione.[4][27] Molto probabilmente poco dopo la nascita i cuccioli erano già in grado di volare ma dipendevano ancora dai genitori per la nutrizione. Questo modello di crescita è molto simile a quello dei moderni coccodrilli, piuttosto che alla rapida crescita dei moderni uccelli.[4]  Stile di vita Dal confronto tra gli anelli sclerali di P. antiquus con quelli di moderni uccelli e rettili si è scoperto che lo Pterodactylus aveva uno stile di vita diurno. Questo coinciderebbe con la sua nicchia ecologica, che lo vedrebbe come un predatore simile all'odierno gabbiano, evitando inoltre la competizione con altri pterosauri suoi contemporanei che in base agli anelli sclerali sono stati giudicati notturni, come il Ctenochasma e il Rhamphorhynchus.[28]  Paleoecologia Durante la fine del Giurassico, l'Europa era un arcipelago asciutto e tropicale ai margini del mare Tetide. Il calcare fine, in cui gli scheletri di Pterodactylus sono stati ritrovati, è stato formato dalla calcite delle conchiglie e degli organismi marini. Le varie aeree tedesche dove sono stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus erano lagune situate tra le spiagge e le barriere coralline delle isole europee Giurassiche nel Mare Tetide. I contemporanei di Pterodactylus, includono l'avialae Archaeopteryx lithographica, il compsognatide Compsognathus, svariati pterosauri come Rhamphorhynchus muensteri, Aerodactylus, Ardeadactylus, Aurorazhdarcho, Ctenochasma e Gnathosaurus, il teleosauride Steneosaurus sp., l'ittiosauro Aegirosaurus, e i metriorhynchidi Dakosaurus e Geosaurus. Gli stessi sedimenti in cui sono stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus hanno riportato alla luce anche diversi fossili di animali marini quali pesci, crostacei, echinodermi e molluschi marini, confermando l'habitat costiero di questo pterosauro. L'enorme biodiversità di pterosauri presenti nei Calcari di Solnhofen, indica che quest'ultimi si erano differenziati tra di loro occupando ogni possibili nicchia ecologica disponibile.[29]  Note ^ Fischer von Waldheim, J. G. 1813. Zoognosia tabulis synopticus illustrata, in usum praelectionum Academiae Imperialis Medico-Chirurgicae Mosquenis edita. 3rd edition, volume 1. 466 pages. ^ Schweigert, G., Ammonite biostratigraphy as a tool for dating Upper Jurassic lithographic limestones from South Germany – first results and open questions, in Neues Jahrbuch für Geologie und Paläontologie – Abhandlungen, vol. 245, n. 1, 2007, pp. 117–125, DOI:10.1127/0077-7749/2007/0245-0117.  Bennett, S. Christopher, New information on body size and cranial display structures of Pterodactylus antiquus, with a revision of the genus, in Paläontologische Zeitschrift, in press, 2013, DOI:10.1007/s12542-012-0159-8.  Bennett, S.C., Year-classes of pterosaurs from the Solnhofen Limestone of Germany: Taxonomic and Systematic Implications, in Journal of Vertebrate Paleontology, vol. 16, n. 3, 1996, pp. 432–444, DOI:10.1080/02724634.1996.10011332.  Bennett, S.C., [0043:STPOTC2.0.CO;2 Soft tissue preservation of the cranial crest of the pterosaur Germanodactylus from Solnhofen], in Journal of Vertebrate Paleontology, vol. 22, n. 1, 2002, pp. 43–48, DOI:10.1671/0272-4634(2002)022[0043:STPOTC]2.0.CO;2, JSTOR 4524192.  Jouve, S., [0542:DOTSOA2.0.CO;2 Description of the skull of a Ctenochasma (Pterosauria) from the latest Jurassic of eastern France, with a taxonomic revision of European Tithonian Pterodactyloidea], in Journal of Vertebrate Paleontology, vol. 24, n. 3, 2004, pp. 542–554, DOI:10.1671/0272-4634(2004)024[0542:DOTSOA]2.0.CO;2. ^ Frey, E., and Martill, D.M., Soft tissue preservation in a specimen of Pterodactylus kochi (Wagner) from the Upper Jurassic of Germany, in Neues Jahrbuch für Geologie und Paläontologie, Abhandlungen, vol. 210, 1998, pp. 421–441. ^ Cuvier, G., Mémoire sur le squelette fossile d'un reptile volant des environs d'Aichstedt, que quelques naturalistes ont pris pour un oiseau, et dont nous formons un genre de Sauriens, sous le nom de Petro-Dactyle, in Annales du Muséum national d'Histoire Naturelle, Paris, vol. 13, 1809, pp. 424–437.  Taquet, P., and Padian, K., The earliest known restoration of a pterosaur and the philosophical origins of Cuvier's Ossemens Fossiles, in Comptes Rendus Palevol, vol. 3, n. 2, 2004, pp. 157–175, DOI:10.1016/j.crpv.2004.02.002. ^ Cuvier, G., 1819, (Pterodactylus longirostris) in Isis von Oken, 1126 und 1788, Jena ^ Kellner, A.W.A. 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Martill, Pterodactylus scolopaciceps Meyer, 1860 (Pterosauria, Pterodactyloidea) from the Upper Jurassic of Bavaria, Germany: The Problem of Cryptic Pterosaur Taxa in Early Ontogeny, in PLoS ONE, vol. 9, n. 10, 2014, pp. e110646, DOI:10.1371/journal.pone.0110646. ^ Steven U. Vidovic e David M. Martill, The taxonomy and phylogeny of Diopecephalus kochi (Wagner, 1837) and ‘Germanodactylus rhamphastinus’ (Wagner, 1851), in Geological Society, London, Special Publications, 2017, pp. SP455.12, DOI:10.1144/SP455.12. ^ David M. Unwin, The Pterosaurs: From Deep Time, New York, Pi Press, 2006, pp. 246, ISBN 0-13-146308-X. ^ Brougham, H.P. (1844). Dialogues on instinct; with analytical view of the researches on fossil osteology. Volume 19 of Knight's weekly vol. ^ Ősi, A., Prondvai, E., & Géczy, B. (2010). The history of Late Jurassic pterosaurs housed in Hungarian collections and the revision of the holotype of Pterodactylus micronyx Meyer 1856 (a ‘Pester Exemplar’). 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Bande der Actorum Academiae Theodoro-Palatinae nebst einer Abbildung in natürlicher Grösse im Jahre 1784 beschrieb, und welches Gerippe sich gegenwärtig in der Naturalien-Sammlung der königlichen Akademie der Wissenschaften zu München befindet", Denkschriften der königlichen bayerischen Akademie der Wissenschaften, München: mathematisch-physikalische Classe 3: 89–158 ^ Cuvier, G. (1812). Recherches sur les ossemens fossiles. I ed. p. 24, tab. 31 ^ Sömmering, T. v., Über einen Ornithocephalus brevirostris der Vorwelt, in Denkschr. Kgl. Bayer Akad. Wiss., math.phys. Cl., vol. 6, 1817, pp. 89–104. ^ Padian, K. (1987). "The case of the bat-winged pterosaur. Typological taxonomy and the influence of pictorial representation on scientific perception", pp. 65–81 in: Czerkas, S. J. and Olson, E. C., eds. Dinosaurs past and present. An exhibition and symposium organized by the Natural History Museum of Los Angeles County. Volume 2. Natural History Museum of Los Angeles County and University of Washington Press, Seattle and London ^ Wellnhofer, P. (1970). Die Pterodactyloidea (Pterosauria) der Oberjura-Plattenkalke Siiddeutschlands. Bayerische Akademie der Wissenschaften, Mathematisch-Wissenschaftlichen Klasse, Abhandlungen, 141: 133 pp. ^ Schmitz, L.; Motani, R., Nocturnality in Dinosaurs Inferred from Scleral Ring and Orbit Morphology, in Science, vol. 332, n. 6030, 2011, pp. 705–8, DOI:10.1126/science.1200043, PMID 21493820. ^ Weishampel, D.B., Dodson, P., Oslmolska, H. (2004). The Dinosauria (Second ed.). University of California Press. Biografia Steve Parcker John Malam, Dinosauri e altre creature preistoriche. Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Pterodactylus Collabora a Wikispecies Wikispecies contiene informazioni su Pterodactylus Collegamenti esterni (EN) Pterodactylus, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (EN) Pterodactylus, su Fossilworks.org. Modifica su Wikidata Controllo di autorità. LCCN (EN) sh94002837 Biologia Portale Biologia Paleontologia Portale Paleontologia Rettili Portale Rettili Categoria: Pterosauri. Il conte Cosimo Alessandro Collini. Keywords: pterodattilo, filosofia, pisa, Firenze, nobilita, coira. Pterodattilo. Polemica filosofica, Domenico Eusebio Chelli, marchesa Gabbriella Malaspina, Voltaire e la Toscana, “Firenze come una nuove Atene”, Collini su Ariosto e Boccaccio, Collini makes fun of Voltaire’s daughter. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Collini” – The Swimming-Pool Library.

 

COLOMBE (Firenze). Filosofo. Grice: “If you love stars, as any philosopher must – vide Thales! – you LOVE Ludovico who refuted Kepler’s idea that the thing next to the serpentary’s foot was a ‘star,’ never mind ‘nova’!” Noto per essere stato uno strenuo avversario di Galilei.  Non si sa quasi nulla della sua vita, ma restano diverse sue saggi, nelle quali difende la dottrina aristotelica con un particolare disinteresse sia verso le nuove osservazioni sia verso la coerenza logica.  Scrisse un discorso sulla nuova stella apparsa sostenendo che si tratta di una stella non nuova, ma esistente da sempre. Scrisse un discorso Contro il moto della Terra.  Per conciliare le osservazioni di Galilei sulle irregolarità della superficie lunare con la concezione aristotelica della perfetta sfericità dei corpi celesti sostenne che le valli e gli spazi tra i monti della luna sono colmati da un materiale perfetto e invisibile. Contrario all’idrostatica archimedea recuperata da Galileo, nel suo Discorso apologetico, sostenne che il galleggiare o l’affondare dei corpi dipendesse dalla loro forma. Nella conclusione del discorso usa anche una metafora di questa teoria, affermando che le ragioni dell'avversario per essere troppo argute e sottili vanno a fondo senza speranza di ritornare a galla, mentre quelle di Aristotele, per essere di forma larga e quadrata, non possono affondare in nessun modo. Sono rimaste anche lettere tra il Delle Colombe e Galileoi che stimava pochissimo il suo avversario, che aveva soprannominato Pippione. Vari accenni a questo personaggio sono nella corrispondenza tra Galilei e i suoi amici. Dizionario Biografico degli Italiani, Amici e nemici di Galileo, Milano, Bompiani. Aristotelismo. Grice: “If I had to choose between Colombe-Aristotle to Galielei-Plato, I chose the former!” -- Colombo. Colombe. Ludovico delle Colombe. Ludovico Colombo. Keywords: the irregular surface of the moon is filled by an invisible substance, the earth does not move, the ‘nuova’ stella is a misnomer: it has always existed; bodies float or sink according to their shape. Aristotle’s reasons never sink because they are square. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colombe” – The Swimming-Pool Library.

 

COLOMBO (Milano). Filosofo. Grice: “I love Colombo as I love Wilde – I mean, the sponsor of the Wilde Lectures on Natural Religion! Colombo wonders, ‘can ‘theologian’ be written under ‘profession’? Surely, like me, Colombo distinguishes between theologian and philosophical theologian – if there is no such distinction, and I’m not sure there is – perhaps there shouldn’t be, Colombo would say, the ‘philosophical’ in my ‘philosophical eschatology’ is totally otiose and anti-Griceian!” Insegna a Milano. Si è occupato di antropologia, metafisica e la filosofia italiana -- Rosmini, Martinetti, Volpe, ad Aosta. Altre opere: “Senzo e atto” (Studium, Roma). La morale communitaria (CUSL, Milano); “Pietra angolare: l’chiesa d’Inghilterra” (CUSL-Centro Toniolo, Milano-Verona); “Antropologia” (Massimo, Milano), “L’immanente e il trascendente”; “La correttezza del nome nel Cratilo – il nome corretto -- in  L’origine del linguaggio (Celestian Milani), Demetra, Verona; Il ri-ordino dei cicli scolastici, in "Quaderno di Iter", “Filosofia come soteriologia: L'avventura di Piero Martinetti (Vita e Pensiero, Milano); “Il giusto prezzo della felicità, -- reasonable or rational? -- Edizioni ISU-Università Cattolica, Milano); “Antropologia ed etica (EDUCatt, Milano).  Forme e modelli del pensiero filosofico. Introdurre alla   comprensione e  uso   dei   linguaggi e  degli    strumenti specifici della    metafisica, dell’antropologia, dell’etica;- all’acquisizione di abilità critiche e analitiche per comprendere le dinamiche del vissuto, della società e della storia contemporanea dell’uomo occidentale. Salute     e  salvezza dell’uomo. Il  senso    della    cura   e  dell’educazione. Una   sfida    per   la ragione e per la fede.Valutazione critica    del   rapporto metafisica-antropologia-soteriologia in  tre  momenti della storia dell’Occidente. Il mondo antico-classico greco-romano. Il mondo nuovo Cristiano. Il mondo moderno e post-moderno.BIBLIOGRAFIA G. coLomBo, I Greci e l’amore incerto: grandezza e aporia dell’eros platonico: il Simposio, ISU-Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, S.    kierkeGaard, La malattia mortale (qualsiasi edizione, purché    completa): ai  fini   della   prova    d’esameè richiesta la conoscenza della sola Prima parte: La malattia mortale è la disperazione;J.   p. SarTre, L’esistenzialismo è un umanismo, Armando, Roma, 2006 (o altra edizione, purché completa).DIDATTICA DEL CORSOLezioni in aula, ricerche e percorsi personalizzati.METODO DI VALUTAZIONEEsame orale finale, valutazione di eventuali elaborati scritti o relazioni orali. 75AVVERTENZEIl docente è a disposizione degli studenti per ogni chiarimento didattico e contenutistico, per l’assegnazione delle tesi di laurea e l’assistenza necessaria alla loro elaborazione.Il docente riceve durante il periodo di lezione presso lo studio universitario, martedì e giovedì h. 10.00-11.30. Pausania, do not multiply loves beyond necessity – l’ambiguita di ‘amore’ – L’Afrodita celeste no participa della natura femmina, solo della natura ‘maschile’.  Pausania parla solo a maschi, ai maschi virili, al maschio virile. L’amante o amatore e maschio virile, l’amato o l’innamorato e maschio virile. L’amore celeste (ouranios) participa solo della natura maschile. Criterio d’amabilita, l’amabile. Giuseppe Colombo. Keywords: atto, attualismo, actualism, actum, senzo, sensus, sense, morale communitaria, pietra angolare, Chiesa d’Inghilterra, Cratilo, origine del linguaggio, glossogenia, glossotesi, gossogenetic, semio-genesi, il soteriologico, immanente/trascendente, aporia dell’amore platonico, eikesia, ‘Daddy wouldn’t buy be a wow wow’ true iff Daddy wouldn’t buy me a bow wow – correctness of iconicity of ‘daddy’ and ‘bow wow’ --.  Heteroerotismo – Il discorso di Alcibiade – analisi del simposio, l’elogio dell’eros. Il discorso di Pausania. Ero demone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colombo” – The Swimming-Pool Library.

 

 

COLONNA (Roma). Filosofo. There is already an entry for this; in Italian it is ‘Egidio Colonna’ --  giles di roma, Rome, original name, a member of the order of the Hermits of St. Augustine, he studied arts at Augustinian house and theology at the varsity in Paris but was censured by the theology faculty and denied a license to teach as tutor. Owing to the intervention of Pope Honorius IV, he later returned from Italy to Paris to teach theology, was appointed general of his order, and became archbishop of Bourges. Colonna both defends and criticizes views of Aquinas. He held that essence and existence are really distinct in creatures, but described them as “things”; that prime matter cannot exist without some substantial form; and, early in his career, that an eternally created world is possible. He defended only one substantial form in composites, including man. Grice adds: “Colonna supported Pope Boniface VIII in his quarrel with Philip IV of Franc eand that was a bad choice.” The Latin is EGIDIVS COLUMNA. The “Corriere” has an article as his book being a bestseller of the Low Middle Ages!” Cosnisder the claims here: ‘essence and existence are really distinct in creatures – and each is a thing – prime matter cannot exist without substantial forml – eternal and created world is not a contradiction – there is only ONE substantial form in compostes, including man.   Grice: “Must say I LOVE Colonna, or COLVMNA as the printing goes – of course the “Corriere della Sera” hastens to add that he wassn’t one! In any case, my favourite of his tracts is of course the one on Aristotle!”. Egidio Romano, O.E.S.A. arcivescovo della Chiesa cattolica Filip4 Gilles de RomeEgidio Romano e Filippo il Bello (miniatura di un codice medievale). Incarichi ricopertiArcivescovo di Bourges   Nato Roma Nominato arcivescovo Roma   Manuale Egidio Romano, latinizzato come Ægidius Romanus. Dopo la sua morte, gli furono tributati i titoli onorifici di Doctor fundatissimus e Theologorum princeps. Discepolo d'Aquino. Insegna filosofia. Fu inoltre il tutore di Filippo il Bello al quale dedica il saggio “De regimine principum”, sostenendo l'efficacia della monarchia come forma di governo. Considerato tra i più autorevoli filosofi di ispirazione agostiniana, attivo anche nella vita intellettuale e politica in un contesto culturale ed istituzionale travagliato da frequenti ed aspre polemiche sul problema del rapporto tra potere temporale e potere spirituale. Generalmente ricordato, insieme al prediletto allievo Giacomo da Viterbo, per il contributo nella redazione della celebre bolla Unam Sanctam di Papa Bonifacio VIII e per il ruolo significativo che assunse il Maestro degli Eremitani di Sant'Agostino quale autore del De Ecclesiastica potestate e, dunque, quale teorico famoso e autorevole della plenitudo potestatis pontificia. In Colonna rileviamo subito una compresenza del duplice atteggiamento dottrinale e politico. Infatti è possibile rintracciare, fra le opere giovanili, il “De regimine principum”, saggio dedicato a Filippo il Bello e di ispirazione aristotelico-tomista inerente alla naturalità dello stato, erigendola a difensore della potestas regale. Nel “De Ecclesiastica potestate”, invece, afferma la superiorità del “sacerdotium” rispetto al “rex” o “regnum”, distinguendosi quale rappresentante della teocrazia papale. In seguito alle condanne di Tempier, difende la tesi d’Aquino, per la sua qualifica di Baccalaureus formatus, ma, proprio a causa delle condanne stesse, viene sospeso dall'insegnamento. Gli avversari del papato trovano in Aristotele gli strumenti per svolgere un'analisi politica che metta in discussione la sacralità del potere. Dall'altra parte troviamo l'influenza della corrente speculativa dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno, tipicamente medioevale, di compenetrazione fra stato e chiesa, all'interno del quale Agostino viene a giocare un ruolo fondamentale dal momento che l'apporto teorico del suo “De Civitate Dei” conduce a confusioni inevitabili fra il piano spirituale della “Civitas Dei Caelestis” e il piano temporale della vita terrena che è “Civitas Peregrina”), che ripropone la teoria delle “due città” e riafferma la superiorità del sacerdotium rispetto al rex e regnum, costituendo un vero e proprio “partito del Papa”. Rivendica la plenitudo potestatis come proprietà costitutiva dell'auctoritas del Papa in quanto “homo spiritualis”. Sostituisce al concetto agostiniano di “ecclesia” quello di “regnum” al fine di estendere gli ambiti del potere del sovrano ecclesiastico. Il sovrano ecclesiastico, il Papa, dove esercitare la sua sovranità anche sul potere temporale al fine di garantire l'ordine mediante una forma di “dominium” che coincide con la sua stessa missione spirituale. Atre opere: L'edizione critica dell'opera omnia è stata intrapresa, per Olschki (Aegidii Romani opera omnia, collana Corpus Philosophorum Medii AeviTesti e Studi), da Punta.  “Quaestio de gradibus formarum” Ottaviano Scoto, Boneto Locatello. “In secundum librum sententiarum quaestiones” Francesco Ziletti); Opere, Antonio Blado; “In libros De physico auditu Aristotelis commentaria”; Ottaviano Scoto; Boneto Locatello, “De materia coeli” Girolamo Duranti,  “Quodlibeta”. Silvia Donati, Studi per una cronologia delle opere di Egidio Romano, “Le opere prima”; “I commenti aristotelici”, "Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale", Dizionario biografico degli italiani. DEL GOVERNO DI SÈ. Del sommo bene. Quale è la maniera di parlare nella scienza de're e de' principi. Quale è l'ordinanza delle cose che si debbono dire in questo libro. Come grande utilitate ei re e' principi ånno in udire e in intendere e in sapere questo libro. Quante maniere sono di vivare e come l'uomo die méttare il sovrano bene di questa mortal vita in queste maniere di vivere. Com'è grande utilità e a' re ed ai principi che ellino conoscano il loro fine e'l loro sovrano bene di questa vita mortale. I re ne i principi, non debbano mettere il loro sovrano bene in diletto corporale. I  re ne i principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere ricchezze. I  re ne i principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere onori. I re ne i principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere gloria o gran rinomo di bontà. Nè i re né i principi non debbono méttare il loro sovrano bene in avere forza di gente. I re ne i principi debbono méttare el loro sovrano bene nelle uopere della prudenzia cioé del senno. Come ei re e' principi debbono méttare el loro sovrano bene nelle opere della prudenza e del. Il prezzo e'l guidardone dei re e dei principi bene governanti il loro popolo, secondo legge e ragione, è molto grande. senno. Della virtù. Quante potenze à l’anima e in quali potenze e la virtù di una buona opera. Come la virtù di una buona opera e divisa nella volontà e nell’intendimento dell'uomo. Quante virtù di buone opere sono, come l'uomo die préndare il numero di esse. Delle buone disposizioni che l'uomo à, alcune sono virtů , alcune sono più degne che virtù, alcune altre sono apparigliate a virtù. Alcune virtú sono più degne d'alcune altre e più principali. Che cosa è la virtù dell’uomo ch'è chiamato senno, over prudenza, over sapere. Ai re ed ai prenzi conviene es sere savi. Quanto e quali cose conviene ai re e ai prenzi avere acciò che ellino siano savi. Come și re e i prenzi possano fare loro medesimi savi. Quante maniere sono di drittura ed in che cosa è drittura e come drittura è divisata dalie altre virtú. Senza drittura e senza iustizia ei reami non possono durare, nè nulla signoria di città. I re e i prenzi debbono intendere diligentemente acciò che essi siano dirilturieri e che drittura sia guardata nelle loro terre. La forza di coraggio e . e quali cose ella die essere , e come ei re e i prenzi le. possono avere. Quante maniere sono di forza e secondo la quale ei re e i prenzi debbono essere forti. Che cosa è la virtù che l'uomo chiama temperanza e in quali cose quella virtù die essere, quante parti a la temperanza, come noi la potemo acquistare. Ched elli é più disconvenevole cosa che l’uomo sia distemperato in seguire LI DILETTI DEL CORPO che in essere paurioso. Il principe debbe essere temperato nel diletto di suo corpo. La virtù che l'uomo chiama larghezza e'n quale cose cotale virtù de' essere, e come noi la potemo acquistare. Che a pena può essere el re o'l prenze folle largo e come è troppo sconvenevole' cosa che essi sieno avari e ch'ellino debbono essere larghi e liberali. Che cosa è una virtù che l’uomo cjiama magnificenzia e'n quali cose quella virtù die essere, e come noi potemo avere quella virtù. Come è cosa isconvenevole che i re e i prenzi sieno di piccola dispesa e di poco affare, e che maggiormente s'avviene a loro essere di grande spese e di grande affare. Che condizioni à l'uomo che è di grande spesa e di grande affare, e che conviene maggior mente averle ai re ed ai prenzi. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama magnanimità, cioè a dire virtù di grand'animo e in quali cose quella virtù di essere e come noi potemo essere di gran cuore. Quante condizioni à l'uomo che è di gran cuore, e che maggiormente si conviene ai prenzi d'averle. Come ei re e i prenzi debbono amare onore , o quale è la virtù che l'uomo chiama virtù d'amare opore . 68 Cap. XXV. Ca insegna che amare onore ed èssare umile possono essere insieme e che quelli che è di gran cuore e di grande animo non può essere senza umiltà. Che cosa é umiltà de la quale il filosafo parla e in quali cose ella die essere e che maggiormente conviene ai re ed ai prenzi essere umili. Che cosa è la virtù che l'uomo chiama dibuonairetà , ed in che cose la buonairetà die essere e che conviene ai re ed a i prenzi essere dibonarie. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama piacevolezza, cioè di sapere CONVERSARE PIACEVOLMENTE e in che cose la detta virtù die essere e che si conviene che i re e i preozi sieno piacevoli. Che cosa è verità e in che cosa ella die essere usata e come si conviene al principe ch'esse sia veritiero o sincero. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama sollazzevole, quasi dica di sapere sollazzare, e di essere allegro e gioioso, là ' ve si conviene , e per la quale ' l'uomo si sa avvenevolmente rallegrare nei sollazzi, come ei re e i prenzi debbono essere allegri e sollazze voli. Conviene al principe avere tutte le virtù, perciò che perfettamente l’uomo non ne può avere una senza le altre. Quante maniere sono di buoni e adi malvagi uomini e quale maniera di bontà ei re e i prenzi debbono avere. Delle passione. Quanti movimenti d'animo sono e donde essi vengono. Quali movimenti d'animo sono principali che gli altri e come essi sono ordinate. Come il principe debbe amare e quali cose debbe amare. Come il principle debbe desiderare e che cosa debbe desiderare. Come ei re e i prenzi si debbono portare ayvenevolmente in isperare e in disperare. Come avvenevolmente ei re si debbono portare in avere ardimento. Che differenza elli à intra corruccio e odio, e come ei te e i prenzi si debbono avvene volmente contenere nei corrucci e ne le di bonarietà. Come ei re e i prenzi si deb bono ayvenevolmente avere nei diletti. Come alcuni movimenti d'animo sono mantenuti e ritornano ad alcuni altri movimenti. Ched ei movimenti dell'animo alcuni sono da biasmare ed alcuni sono da lodare e come ei re e i prenzi si debbono conferire nei movimenti detti dinanzi. Della costume. Quale costume e quale maniere de giovani uomini fanno da lodare, e come il principe debbe avere essa costume ed essa maniera. Quali costumi e quali maniere dei giovani uomini fanno da biasmare , e come ei.re e i prenzi debbono ischiſare cotali maniere e cotali co stumi. Quali costumi e quali maniere dei uomini fanno da biasmare , come ei re e i prenzi ei debbono ischifare. Quali costumi e quali maniere dei uomini fanno da lodare. Che costume e che maniera ha il gentile uomo, e come il principe debbe avere. Che costumi e che maniere anno l’uomo ricco e come ei re e i prenzi ei debbono. Che modi e che maniere ánno coloro che sono possenti ed anno signorie , e come li re e li principi si debbono avere in verso la gente convenevolmente. Avere. DEL GOVERNO DELLA FAMIGLIA. Della moglie. L'uomo die naturalmente vivare in compagnia, e che i re i prenzi il debbono sapere. Che, acciò che la casa sia perfetta, si vi conviene avere quattro maniere di persone, e come e' conviene questo secondo libro divisare in tre parti. Quella casa è perfetta ove v'à assembramento di un uomo e di una femmina, un figliuolo, e servi. L'uomo naturalmente si die ammogliare e che quelli che non vogliono vivare in matrimonio, o elli posono bestia, o ellino sono migliori che l’uomo. Ciascuno uomo e ciascuna femmina , e medesimamente ei re e i prenzi che sono ammogliati, si debbono tenere in matrimonio senza partirsi o senza divídarsi. A ciascun uomo die bastare una femmina, e che i re e i prenzi e ciascun altro uomo si die tenere appagato a una femmina. Un uomo die bastare a una femmina , e che una femmina si die chiamare contenta d'un uomo. L’uomo non die prendare moglie la quale sia troppo presso a lui di parentato o di lignaggio. Come le moglie dei re e dei prenzi e di ciascuno altro uomo debbono avere abbondanza di beni temporali. Come nè i re né i prenzi, nė cia scuno altro uomo non debbe chiėdare solamente ei beni temporali delle loro mogli ma anco ei beni del CORPO e quelli dell'anima, e ciò e il bello e il casto. L’uomo non die governare nė tenere la moglie nella maniera ch'elli die tenere e governare il suo figliuolo. L’uomo non die tenere nė governare la moglie nella manera che l'uomo die tenere e governare e fanti. Che elli non si conviene nė ai re nè ai prenzi ned a nessuno altro uomo, ch'ellino usino il matrimonio in troppo giovano tempo. L’uomo die piuttosto fare l'opera del matrimonio nel verno che nella state. Come alcune cose sono nelle femmine che sono da biasmare. Come ei re e i prenzi e ciascuno altro uomo die avvenevolmente governare e addrizzare la moglie. Come gli uomini si debbono portare con le loro mogli. Come la femmina maritata deb bono convenevolmente adornare il loro corpo. Né I re ne i prenzi , nė li altri uomini , non debbano essere troppo gelosi delle loro mogli. Che cosa è ' l consiglio della femmina , e che 'l suo consiglio l'uomo non die credere se non in alcun tempo. Com’l’uomo non debbe dire il suo secreto alla sua moglie. Dei figli. Il padre die essere curioso di guardare il suo figliuolo. Che ciò s'avviene maggiormente ai re ed ai prenzi, cioè ch'ellino sieno guardatori e curiosi dei loro figliuoli. Il padre governa il suo figliuolo per L’AMORE ch'elli à in lui. L’AMORE NATURALE il quale die essere da padre a figliuolo prova sufficientemente che il padre debbe governare i suo figliuolo e il figliuolo debbe ubbidire il padre. Nel quale dice che i re e i prenzi e ciascuno altro uomo debbono da gioventudine insegnare la fede ai loro figliuoli. I re e i prenzi e ciascuno altro uomo debbono da gioventudine insegnare ed appréndare ei buoni costumi e le buone maniere ai loro figliuoli. Il figliuolo del gentile uomo debbe apprendere le scienze della chericia, ciò sono, morali, naturali e matematice. Quale arte il figliuolo di un gentile uomini debbe apprendere. Quale die ėssare il tutore del figliuolo di un gentile uomo. Il padre die insegnare al suo fanciullo a parlare e a vedere ed a udire. In quante maniere l'uomo puó peccare in mangiare e come il garzone si debbe contenere. Come il padre die insegnare al suo fanciullo acciò che si sappiano portar avvenevolmente nel bere e ne' diletto della femmina. Come il garzone si debbe contenere nel diletto del corpo. Come in giovanezza l'uomo die schifare le malvagie compagnie. Che guardia l’uomo die avere de' figliuoli da che sono nati, insino a’ sette anni. Che guardia l'uomo die avere de' fanciulli da sette anni fino a quattordici. Che guardia l'uomo die avere del figliuolo da quattordici anni innanzi. Che il padre non die insegnare al figliuolo uno medesimo travaglio di corpo. Della casa e dei servi. L'uomo die diterminare e parlare delle cose donde la vita umana può esser sostenuta, volendo governare la sua famiglia e la sua casa. Il casino della villa del’uomo , die esser fatto sottilmente ed in buon áire. Il casamento dei re e dei prenzi , e di ciascuno altro uomo, die esser fatto in luogo dove abbia abbondanza di buona acqua e di chiara. Naturalmente l’uomo die avere possessione in alcun modo e che quellino che rifiutano le possessioni, non vivono come uomini, anzi sono migliori che uomo. Elli è grande utilità alla vita umana, che l'uomo possa vivare della sua propria ricchezza. Come l'uomo die usare dei beni temporali, e quale maniera di vivare è buona e onesta. Nel quale dice che ciascuno uomo, e medesimamente ei re ei prenzi, non debbono desiderare troppo grande abbondanza di ricchezze ne di possessioni. Quante maniere elli sono di vendere e di comperare e perchè ei denari fuoro prima mente fatti e trovati. L'usura è generalmente malvagia , e ch'ei re ed i prenzi la debbono difendare ch’ella non sia fatta nella loro terra. Nel quale dice ch’ei sono diverse maniere di guadagnare denari e che alcuna di queste maniere è avve nevole ai re ed ai prenzi. Alcuna gente è serva per natura e ch'elli è loro utilità ch'ellino sieno suggetti ad altrui. Nel quale dice che alcune genti che sono servi per natura e per legge. Nel quale dice ch’ellino sono alcune genti le quali sono serve per prezzo ed alcuna gente che servono per l’amore ch’elli ánno ai suo signore. L'uomo die dare gli ufici ai suoi fanti nelle case dei re e dei prenzi. Come ei re e i prenzi debbono provvedere ai loro sergenti robe e vestimento. Che cosa é cortesia e ched e' conviene ai fanti dei re e dei prenzi ched ellino sia cortese Nel quale dice come ei re e i prenzi si debbono contenere inverso ei loro sergenti. Che quelli che servono e quelli che mangiano alla tavola dei re e dei prenzi , e generalmente che il gentile uomo non debbe molto favellare. DEL GOVERNO CIVILE. Detti dei filosofi nel governamento delle città. Nel quale dice che la villa e ordinata e stabilita per alcuno bene. Fu grande utilità alla vita umana che colla comunità della villa e delle città , li uomini ordinassero la comunità del reame. Nel quale dice ceme Platone e Socrate dissero che l’uomo dovea ordinare e governare le città. Nel quale insegna che i re e i prenzi debbono sapere che tutte le cose non debbono essere COMUNE siccome Platone e Socrate dissero. Nel quale dice quanti mali avverrebbero se il figliouolo fusse comune. Nel quale dice come la possessione debbe essere proprie, e come debbono essere comuni, secondo l'utilità delle ville e delle città. I re ei prenzi non debbono sofferire che una medesima gente duri sempre in una medesima signoria. Nel quale dice che l'uomo non die cosi ordinare la città come Socrate disse, che dovieno essere ordinate. Come l'uomo può trarre a buono intendimento le parole che Socrate disse , al governa mento delle città. Come un filósafo , ch'ebbe nome Fal lea , disse, che l'uomo dovea ordinare le città. Le possessioni non debbono essere eguali, siccome disse Fallea. Come quelli che signoreggia alcuna città, elli die più principalmente intendare a cessare le malvagie volontà e i malvagi desideri e convoitigine, ched elli non die intendere a cessare la disuguaglianza delle possessiono. Nel quale dice, come un filósafo ch'ebbe nome Ippodamo , disse che l’uomo dovea ordinare le città. Nel quale dice quali cose sono da riprendare in quello che Ippodamo disse del governamento della comunità. Della migliore maniera di governare le città. Il quale insegna come l’uomo die governare le città in tempo di pace, e quante cose l’uomo die guardare in cotale governamento. Quante maniere sono di signorie e quali sono buone e quali sono rie. Ched o' val meglio che le città e ' rea mi sieno governati e retti per un solo uomo che per molti e che quest' è la migliore signoria che sia quando un solo uomo signoreggia ed elli intende il bene comune. Nel quale dice per quali ragioni alcuna gente volsero provare ched e’ valeva meglio che le terre e le città fossero governale per molti uomini che per un solo e dice in questo capitolo ciò che si die rispóndare a cotali ragioni. Ched e' val meglio che le terre e le signorie e' reami vadano per redità per successione DEL FIGLIOUOLO che per elezione. Nel quale dice quali sono le cose ne le quali il re die sormontare gli altri, e che diversità elli à intra'l re 'e'l tiranno. Nel quale dice che la signoria del tiranno è la peggiore signoria che sia e che i re ei prenzi si debbono molto guardare ch'ellino non sieno tiranni. Quale dia esser l'ufficio dei re e dei prenzi, e com’essi si debbono contenere in governare le loro città e i loro reami. Quali sono le cose che’ l buono re die fare , le quali il tiranno mostra di fare ma non le fa nèmica. Nel quale dice per quante cautele il tiranno si sforza di guardare sė ne la sua signoria. Ched elli è molto isconvenevole cosa ai re ed ai prenzi ched ellino sieno tiranni, perciò che tutte le malizie che sono nell’altre malvagie signorie, sono ne là signoria del tiranno. Nel quale dice che i re e i prenzi debbono molto ischifare la compagnia del tiranno, perciò che per molte cose ei soggetti aguaitano ed assaliscono il loro signore quand’elli é tiranno. Nel quale dice quali cose guardano e salvano la signoria del re e ched e'conviene fare al re sed e' si vuole guardare ne la sua signoria e nel suo reame. Quali cose fanno a consigliare e di quali l'uomo die avere consiglio. Nel quale dice che cosa è consiglio, e come l'uomo die fare ei consigli. Nel quale dice che consiglieri ei re e i preozi debbono avere ai loro consigli. Nel quale dice quante cose conviene sapere a quellino che consigliano ei re e i prenzi e in quali cose l’uomo die préndare consiglio. Nel quale dice che tutte le cose donde l’uomo giudica, l'uomo die giudicare secondo le leggi e che l’uomo die fare pochi giudicamenti e dare poche sentenze per arbitrio o per credenza. Nel quale dice come l’uomo dic fare ei giudicamenti: e ch’e giudici debbono vetare che li uomini che piateggiano non dicano parole dinanzi al giudice che’l possa muovere ad amore nè ad odio contra ad alcuna de le parti. Nel quale dice quante cose conviene avere a’giudicatori a ciò ch’ellino giudichino bene e drittamente. Nel quale dice quante e quali cose conviene riguardare al giudice, acciò ch’elli perdoni e sia più di buonarie che crudele. Nel quale dice ched e’ sono diverse maniere di leggi e diverse maniere di giustizia e che al dritto natu rale ed al diritto iscritto tutti gli altri dritti sono ridotti e ramenali. Quali debbono esser le leggi umane e ched elli fu grande utilità ai reami ed a le città a fare cotali leggi. Nel quale dice che ciascuno non die némica istabilire nė ordinare le leggi; e ched e' conviene che le leggi sieno publicate é fạtte sapere acciò ch’ell’abbiano forza d’obbligare le genti. Quante opere e quali le leggi ch'ei re e i prenzi istabiliscono ed ordinano, debbono contenere. Nel quale dice quale vale meglio o che le città o i reami sieno governati per un buono re o per una buona legge. Nel quale dice che co la legge naturale e co la legge iscritta e' conviene che l’uomo abbia la legge di Dio e la legge del Vangelo. Come l’uomo può, si die guardare le leggi del paese e ch'elli non è utile ch'elle si rimutino ispesso. Nel quale dice che cosa è città e che cosa è reame e chénte die essere il popolo ch’è ne le città e ne' reami. Nel quale dice che allora è la città e’l reame trasbuono e 'l popolo trasbuono, quand’elli v’à molte di mezzane persone. Nel quale dice ched elli é grande utilità al popolo di portare grande riverenza al prenze ed al signore e ched ellino guardino diligentemente le leggi che i re e i prenzi ánno ordinate. Come il popolo e generalmente tutti quelli che dimorano nel reame, si debbono mante nere saviamente , acciò che’l re o’l prenze non abbia corruccio nė odio contra loro. Come ei re ei prenzi si deb bono mantenere , acciò ch'ellino sieno amati e temuti dal lor popolo. Ed insegna questo capitolo che tutto debbiano ei re ei prenzi esser amati e temuti dal lor popolo, ellino debbono maggiormente volere essere amati che temuti. Del governo in tempo di guerra. Che cosa è cavalleria e da ch'ella é ordinate. Nel quale insegna in quale terra sono e’migliori combattieri e quali l’uomo die iscegliere per combattere dell’uomini che debbono andare a la battaglia. In quale tempo l'uomo die acco stumare il fanciullo all' opere dela battaglia e per quali segni l'uomo può conosciare ei migliori battaglieri. Nel quale insegna quante cose e quali e' conviene avere a' buoni battaglieri, acciò ch'ellino si combattano bene e giustamente. Nel quale insegna quali sono migliori battaglieri o i gentili uomini , oi villani , o quellino che nel campo dimorano, ciò sono ei lavoratori. Nel quale insegna ch’elli è grande utilità ai baltaglieri chedellino sieno bene esercitati all'arme; e che l’uomo die ei battallieri apprendare a correre ed a saltare ed andare ordinatamente. Nel quate insegna ched e’si conviene appréndare ai battaglieri molte altre cose che quelle che sono dette, cioè a córrare ed assaltare ed andare ordinatamente. Nel quale insegna che l’uomo die fare nell’oste fossati e castelli. Ed insegna questo capitolo come l’uomo die fare ei castelli e quante cose l’uomo die guardare in farli. Nel quale dice quante cose l’uomo die guardare quand’elli vuole o die imprèndare battaglia comune. Nel quale dice ch’elli è grande utilità ne le battaglie di portare bandiere e gonfaloni: e che l’uomo die ordinare capitano e maggiore a ciascuna ischiera. E so - nemici migliantemente questo capitolo insegna quali debbono essere e banderari e i capitani di quelli a piè e di quelli a cavallo. Nel quale dice che avvedimenti die avere e che die fare il signore dell’oste acciò che la sua gente non possa essere gravata dai nemici per la via. Nelquale dice come l’uomo die ordinare le schiere e le battaglie, quando l’uomo si die combattere contra I Nel quale insegna che l'uomo die ferire il suo nemico nello battaglia di puntone e non di ramata. Nel quale dice quante cose fanno gli avversari più forte che quelli dell’oste é come l’uomo die assalire ei suoi nemici. Nel quale insegna come ei battallieri si debbono tenere quando vogliono ferire ei loro nemici, e com’ellino ei debbono inchinare e come l'uomo si die trarre in drieto quando la battaglia non porta utilità. Nel quale insegna quante maniere ei sono di battaglie; e in quanti modi l’uomo può prendare le città e le castella ed in che tempo l’uomo le die assediare. Come quelli dell'oste si debbono fornire e come l'uomo può vénciare le castella per cava. Come per l’ingegni del legno che l'uomo può menare al muro del castello, l’uomo lo può prendare. Come l’uomo può e die edificare le castella acciò ch'elle non sieno leggermente prese ně come l'uomo può e die guérnire le castella acciò ch'elle non possano esser prese. Nel quale dice come quelli che sono nel castello assiso possono e debbonsi difendersi da la cava e dai tra bocchi e dalli altri ingegni che quellino dell'oste vi fanno. Come l'uomo die fare le navi, e come l'uomo si die combattere nell'acqua o nel mare, da che cosa tutte le battaglie debbono essere ordinate assediate. Che cosa è una virtù che l’uomo chia ma piacevolezza, cioè di sapere CONVERSARE piacevolmente con le genti, e in che cose la detta virtù die essere, e che si conviene che i re e i prenzi sieno piacevoli. Appresso ciò che noi avemo detto che cosa è debonarietà, noi diremo d’un'altra virtù, che l’uomo chiama piacevolezza. E dovemo sapere che le opere e le parole dell'uomo sono ordinate a tre cose, si come ad avere piacevolezza e verità, ed avere diletti e giuochi nei solazzi e nelle allegrezze. LA PRIMA RAGIONE: E la piacevolezza si è, in SAPERE BENE CONVERSARE, unde quelli che sa onorare e riverire gli uomini convene volmente e secondo ragione, si à la virtù della piacevolezza. La SECONDA ragione si è , che le opere e le parole dell’uomo sono ordinate sie a verità che, per le opere e per le parole dell'uomo può l'altro uomo conosciare chi egli è (“Conversation maketh the man”). Donde, verità non è altro se non che l'uomo non sia vantatore e che nè per parole nè per fatti elli non dimostri maggior cosa in lui che vi sia, nè che l'uomo non si faccia ispiacevole nè per parole nè per fatti oltre quello che ragione insegna, perchè elli sia gabbato ne dispregiato. La TERZA RAGIONE a che l'opere e le parole dell'uomo sono ordinate, si è, acciò che l'uomo sia sollazzevole convenevolmente, e si sappia bene portare nei giochi, e nelle allegrezze e nei sollazzi . Donde, se l'uomo vuole CONVENEVOMENTE CONVERSARE e' die essere giochevole e piace vole e veritiere. E di queste tre virtù noi diremo partitamente, ma prima diremo della piacevolezza. E dovemo sapere che, NEL CONVERSARE, alcuni si mostrano troppo piacevoli, si come sono e lusinghieri, e quelli che’n ogne cosa vogliono piacere altrui, che acciò che piacciano altrui, si lo dano tutti ei fatti è tutti ei detti di ciascuno uomo. E alcuni sono, che anno troppo gran difalta NEL CONVERSARE co le genti, si come sono ei malvagi e quellino che sono battaglieri, e tenzonieri; e questi fanno contra a ragione. Chè neuno die volere essere si piacevole nè si compagnevole, ch’elli ne do venti o ne sia lusinghieri, e piacere a tutti gli uomini, nė neuno die essere si pieno di contenzione e di noia, che li con venga cessare della compagnia delli uomini, ma quelli è da lodare che si sa mezzanamente portare e secondo ragione, nel CONVERSARE. Donde la virtù che l’uomo chiama piacevolezza cessa la contenzione dell'uomo e tempera il lusingare, e quello per lo quale l'uomo vuole a tutti gli uomini piacere. E perciò che l'uomo è per natura compagnevole, si come dice il filosafo, si conviene dare una virtù per la quale ne le parole e nei fatti sappia CONVERSARE COOPERATIVAMENTE E convenevolmente e secondo ragione. E questa virtù che l'uomo chiama piacevolezza, tutto sie cosa che, tutti quelli che vogliono essere piacevoli e vivare in cooperazione, compagnia ed in comunità con l’altro, conviene ch'elli abbiano, acciò che siamo cortesi e piacevoli, non perciò debbiamo essere si cortesi ne si piacevoli ad uno come un altro: chè la dritta ragione insegna, che, secondo la diversità dei due conversatori, l'uomo si die portare in maniera appropriata con l’altro. E perciò che troppa amistà e troppa gran compagnia mostrare ad ogni uomo fa l’uomo ispiacevole e vile; il gentile uomo si debbe più alteramente contenere che l’altro, acció che l'uomo lor porti più onore e più reverenza, e che la dignità de la loro grandezza non sia abbassata nè avvilata. Donde il filosafo dice che i re e i prenzi debbono mostrare ch’ellino sieno persone degne d’onore e di reverenza. Chè si come noi vedemo che alcuna vianda fuôra soperchio a uno infermo che non basterebbe ad uno sano, cosi è nell'essere piacevole e cortese, che alcuna piacevolezza s’aviene a’re secondo ragione, che non s’aviene cosi ad un’altra persona comune. L’Enciclopedia italiana cura l’edizione critica del “Il regime del principe”,  testimoniato da nove manoscritti, tra cui il codice della Biblioteca di Firenze (sig, che si distingue sia per motivi cronologici (nell’explicit reca la data) sia per la veste linguistica, in prevalenza senese, verosimilmente molto vicina a quella dell’originale, ciò che lo rende un documento di lingua privilegiato rispetto alle coeve attestazioni di varietà toscane non fiorentine tra fine Due- e inizio Trecento. L’opera discende dal “Il regime del principe”, composto da Colonna filosofo tra i più autorevoli della sua epoca, nato a Roma. Dedicato a un principe, di cui Colonna fu tutore e ispirato alla Retorica, la Etica, e la Politica di Aristotele, esuddiviso in tre libri concernenti la “morale», ossia l’etica (disciplina dell’individuo), l’oeconomia (della casa), e la politica (della città o reame o villa) - è il più corposo trattato basso-medievale sul regime del ‘gentile uomo’ ed ebbe non solo una straordinaria fortuna in Italia fino a tutto il XV secolo come elogio della cavalleria. Esercita una notevole influenza sul Convivio, sul “De vulgari eloquentia” e sulla “Monarchia” di Alighieri. “E lasciando lo figurato che di questo diverso processo dell’etadi tiene Virgilio nello Eneida, e lasciando stare quello che Egidio eremita [il filosofo appartenne all’Ordine degli Eremitani di Sant’Agostino ne dice nella prima parte dello Regime del Gentile Uomo. L’ampia Introduzione, oltre a tracciare il profilo biografico di Egidio illustrando contenuto, fonti e storia della ricezione del suo capolavoro, esamina nei dettagli il debito di Alighieri, la fortuna figurative o iconografica del trattato (l’affresco giottesco della Cappella degli Scrovegni di Padova, precisamente nella Virtù; l’Allegoria ed Effetti del Buono Governo realizzata da Lorenzetti a Siena, specie nella particolare raffigurazione della giustizia commutativa e la giustizia distributiva alla sinistra dell’affresco -- i rapporti tra il De regime e il Livre dou gouvernement (una drastica riduzione non sempre perspicua, di cui sono noti trentasei manoscritti) e tra questo e il Livro del governamento, la prima traduzione, pur parziale, di opere che solo successivamente furono volgarizzate nella loro interezza, ad opera di un anonimo senese, come avevano già ipotizzato, tra gli altri, Segre e Castellani. Inoltre si auspica - e intanto s’imposta in modo acuto e pregnante - un commento dedicato alle fonti del “Regime”, ormai indispensabile alla luce della ri-valutazione della filosofia nel vernacolare tra Medioevo e Rinascimento portata avanti dalla bibliografia più recente. Grazie infatti agli studi degli ultimi due decenni, siamo oggi più informati sui modi in cui la cultura vernacolare interagì con quella antica, bolognese, tradizionalmente ritenuta ‘più alta’, e sul diverso pubblico, dichiarato o reale, cui si indirizzava la trattatistica filosofica dei secoli dal XIII-XIV in avanti. Infine, si passano in rassegna le altre versioni del De regimine (quella senese è bensì la più antica, ma non l’unica: se ne conoscono almeno altre cinque).  Nella parte prima della Nota al testo si dà conto della tradizione manoscritta dei testimoni completi e dei testimoni parziali (descrizione esterna, descrizione interna, bibliografia), offrendo dati preziosi sulla tradizione a stampa del De regimine e sulle edizioni del Governamento. Nella parte seconda si indicano i criterî di edizione e gli usi del copista.  L’appendice prima alla Nota al testo raccoglie le aggiunte inter-lineari e marginali al Governamento del manoscrito fiorentino, mentre in una seconda appendice si riportano alcune annotazioni sulle relazioni fra i testimoni del Governamento. La prima e fondamentale caratteristica della tradizione è che tutti i mss. paiono al tempo stesso testimoni molto vicini tra loro tanto che è dimostrabile la presenza di un archetipo a monte della tradizione, ma non per questo facilmente classificabili nei loro rapporti reciproci, principalmente perché spesso contaminati dal ricorso alla versione nella lingua antica. Il secondo volume è interamente dedicato allo spoglio linguistico sistematico sull’intero testo, tendente per quanto possibile «all’esaustività delle allegazioni per ciascuna forma»: grafia, fonetica, morfologia, sintassi.  Chiudono il volume un ricco repertorio bibliografico e gl’indici onomastico, toponomastico, dei nomi e dei manoscritti. Grice: “Poor Ockham is known as Ockham – god knows, but he is not telling, what his surname was, if any! On the other hand, the rather pompous Romans have Egidio as a ‘Colonna,’ even if,  as the Treccani notes, ‘the links with the Roman family are unclear’!” -- Romano: Egidio Romano,  arcivescovo della Chiesa cattolica Filip4 Gilles de RomeEgidio Romano e Filippo il Bello (miniatura di un codice medievale). Template-Archbishop.svg   Incarichi ricopertiArcivescovo di Bourges   Nato tra il 1243 e il 1247, Roma Nominato arcivescovo25 aprile 1295 Deceduto22 dicembre 1316, Roma. Egidio Romano, latinizzato come Ægidius Romanus, indicato anche come Egidio Colonna (Roma), filosofo. Generale dell'Ordine di Sant'Agostino. Dopo la sua morte, gli furono tributati i titoli onorifici di Doctor fundatissimus e Theologorum princeps.   Fu discepolo di San Tommaso d'Aquino all'Parigi, dove più tardi insegnò, prima di diventare generale degli agostiniani e arcivescovo di Bourges (1295). Fu inoltre il precettore di Filippo il Bello per il quale scrisse il trattato De regimine principum, sostenendo l'efficacia della monarchia come forma di governo.  --  è considerato tra i più autorevoli teologi di ispirazione agostiniana, attivo anche nella vita intellettuale e politica in un contesto culturale ed istituzionale travagliato da frequenti ed aspre polemiche sul problema del rapporto tra potere temporale e potere spirituale. Questo filosofo è generalmente ricordato, insieme al prediletto allievo Giacomo da Viterbo, per il contributo nella redazione della celebre bolla Unam Sanctam del 1302 di Papa Bonifacio VIII e per il ruolo significativo che assunse il Maestro degli Eremitani di Sant'Agostino quale autore del De Ecclesiastica potestate e, dunque, quale teorico famoso e autorevole della plenitudo potestatis pontificia. In Egidio Romano rileviamo subito una compresenza del duplice atteggiamento dottrinale e politico; infatti è possibile rintracciare, fra le opere giovanili, il De regimine principum, opera scritta per Filippo il Bello e di ispirazione aristotelico-tomista inerente alla naturalità dello Stato, erigendola a difensore della potestas regale. Nel De Ecclesiastica potestate, invece, Egidio Romano afferma la superiorità del sacerdotium rispetto al regnum, distinguendosi quale rappresentante della teocrazia papale.  La riscoperta di Aristotele e l'agostinismo politico In seguito alle condanne di Étienne Tempier. Colonna difende la tesi di Tommaso, per la sua qualifica di Baccalaureus formatus, ma, proprio a causa delle condanne stesse, viene sospeso dall'insegnamento. In quegli anni, gli avversari del papato trovano nel pensiero di Aristotele gli strumenti per svolgere un'analisi politica che metta in discussione la sacralità del potere. Dall'altra parte troviamo l'influenza della corrente speculativa dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno, tipicamente medioevale, di compenetrazione fra Stato e Chiesa, all'interno del quale Agostino viene a giocare un ruolo fondamentale dal momento che l'apporto teorico del suo De Civitate Dei conduce a confusioni inevitabili fra il piano spirituale della Civitas Dei Caelestis e il piano temporale della vita terrena che è Civitas Peregrina), che ripropone la teoria delle “due città” e riafferma la superiorità del sacerdotium rispetto al regnum, costituendo un vero e proprio “partito del Papa”.  Egidio rivendica la Plenitudo potestatis come proprietà costitutiva dell'auctoritas del Papa in quanto homo spiritualis. Egidio sostituisce al concetto agostiniano di ecclesia, quello di regnum al fine di estendere gli ambiti del potere del sovrano ecclesiastico. Il sovrano ecclesiastico (il Papa) dovrebbe esercitare la sua sovranità anche sul potere temporale al fine di garantire l'ordine mediante una forma di dominium che coincida con la sua stessa missione spirituale.  Opere:Frontespizio delle In secundum librum sententiarum quaestiones L'edizione critica dell'opera omnia è stata intrapresa, per Leo S. Olschki, (Aegidii Romani opera omnia, collana Corpus Philosophorum Medii AeviTesti e Studi), dal gruppo di ricerca di Francesco Del Punta.   Quaestio de gradibus formarum, Ottaviano Scoto (eredi), Boneto Locatello, 1502.  In secundum librum sententiarum quaestiones,  1, Francesco Ziletti, 1581.  In secundum librum sententiarum quaestiones,  2, Francesco Ziletti, Opere, Antonio Blado, In libros De physico auditu Aristotelis commentaria, Ottaviano Scoto (eredi), Boneto Locatello, 1502.  De materia coeli, Girolamo Duranti, Quodlibeta, Domenico de Lapi. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 3 dicembre . Roberto Lambertini, Giles of Rome, in Edward N. Zalta , Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Stanford, .  Charles F. Briggs e Peter S. Eardley , A Companion to Giles of Rome, Leiden, Brill, . Silvia Donati, Studi per una cronologia delle opere di Egidio Romano: I. Le opere prima: I commenti aristotelici. "Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale", Gian Carlo Garfagnini, Egidio Romano, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, . Francesco Del Punta-S. Donati-C. Luna, Egidio Romano, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Filippo Cancelli, Egidio Romano, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Papa Bonifacio VIII Teocrazia Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Egidio Romano Collabora a Wikiquote Citazionio su Egidio Romano Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Egidio Romano  Egidio Romano, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Ugo Mariani, Egidio Romano, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Egidio Romano, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. su ALCUIN, Ratisbona.  Opere di Egidio Romano, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. su Egidio Romano, su Les Archives de littérature du Moyen Âge. Egidio Romano, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. David M. Cheney, Egidio Romano, in Catholic Hierarchy. Roberto Lambertini, Giles of Rome, in Edward N. Zalta , Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Stanford. Biografia a cura dell'associazione storico-culturale S. Agostino, su cassiciaco. Predecessore Arcivescovo metropolita di BourgesSuccessoreArchbishopPallium PioM.svg Simone di Beaulie u25 aprile 1295 22 dicembre 1316 Raynaud de La Porte. Egidio Romano. Egidio Colonna. Keywords: conversazione cortese, conversazione gentile, padre/figlio, amore naturale, principe, cavalleria, cavaliere, cavalier attitude, cavalier implicature.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colonna” – The Swimming-Pool Library.

 

COLONNELLO (Benevento). Filosofo. Grice: “I like Colonnello; as a typical Italian philosopher, he has philosophised about ‘all,’ from, first, of course, Croce, to the ‘tedesci’! – But also about ‘guilt,’ and my favourite, the ‘transcendentale,’ which in Italian, for lack of ‘n’ becomes ‘trascendentale’ – how many? Colonnello thinks more than one, if the plural is of any guide!”  Insegna a Callabria. Privilegia l'arco tra criticismo trascendentale e fenomenologia, esistenza, ermeneutica di Pareyson, storicismo di Croce, Nicol, Dussel. La sua proposta è verificare l'interazione, in chiave storico-critica, del kantismo, della fenomenologia e la filosofia dell'esistenza.  Altre opere: “Esistenzialismo kantiano” (Studio Editoriale di Cultura, Genova); “Croce e i vociani” (Studio Editoriale di Cultura, Genova); “Tempo e necessità” (Japadre, L'Aquila-Roma); “Tra fenomenologia e filosofia dell'esistenza” (Morano, Napoli); “Ermeneutica esistenzialista del concetto di ‘colpa” (Loffredo, Napoli); “Percorsi di confine: esistenza e libertà” (Luciano, Napoli); Croce (Bibliopolis, Napoli); “Ragione e rivelazione” (Borla, Roma); “Melanconia ed esistenza” (Luciano, Napoli); “Storia esistenza liberta. Rileggendo Croce, Armando, Roma);  Martin Heidegger e Hannah Arendt, Guida, Napoli); “Orizzonte del trascendente e dell’immanente, Mimesis, Milano); “Inter-soggettivita riflessiva” L’itinerario dei corpi” (Mimesis, Milano).  Corpo, mondo, Fenomenologia (Mimesis, Milano); Fenomenologia e patografia del ricordo, Mimesis, Milano-Udine). Grice: “I used ‘body’ informally in my ‘Personal identity’, where I suggested, that “I fell down the stairs” could be replaced by “MY body fell down the stairs” – there is yet an essential indexical. Different if two wrestlers unison say, ‘Both our bodies are oiled” – where again the dual “both our” is used. We have not the second person but the FIRST PERSON dual. “Our bodies” “Both our bodies”. Pio Colonnello. Keywords: rivista La Voce, Croce e i vociani, patografia, German for ‘body’ Lieb, cognate with ‘life’ so that ‘Das Leib ohne Leben’ would be odd. The Anglo-Normans solved the problem with ‘corpse’, corpus, vita, corpore, vita, vivere, German ‘leben’, ‘live’ meaning with ‘remain’, creature construction, thing, living thing, living body, personal human living being. Bodily movement. Method in philosophical psychology, manifestation in behaviour, bodily behaviour, brain state, different from bodily movement --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colonnello” – The Swimming-Pool Library.

 

COLORNI:(Milano). Filosofo. Grice: “To understand the passion in Italian philosophy, as the passion I experienced with Austin in the postwar and with Hardie on the golfcourse in the good old days, one has to understand Colorni – he was a socialist, and thus an empiriociritic! He found opposition in the Gentileians. Oddly, Colroni’s main interest is the ‘monad,’ but he also explored what we would at Oxford call ‘science’ – rather than philosophy. Lay the blame on his tutor at Milano!”. Promotore del federalismo europeo. Mentre era confinato a Ventotene, su saggio, “Manifesto per un’Europa libera e unita”. Figlio di Alberto Colorni, di Mantova, e Clara Pontecorvo, milanese di famiglia pisana (zia di Pontecorvo, del regista Gillo, del genetista Guido e del giurista Tullio Ascarelli).  Studia al ginnasio di Milano. Si appassiona al Breviario di estetica di Croce. La sua formazione adolescenziale, come raccontò egli stesso nella “Malattia filosofica”, fu influenzata dal rapporto intrattenuto con i cugini Enrico, Enzo ed Emilio Sereni, tutti più grandi di lui. Fu Enzo, che era un convinto socialista  ad esercitare su di lui una forte influenza ideale. Studia sotto Borgese e Martinetti. Si laurea sotto Martinetti con “Il concetto di individuo”. Strinse amicizia con Guido Piovene, che però verrà interrotta per via di certi articoli anti-semitici scritti da Piovene su L'Ambrosiano. Partecipa nel gruppo goliardico  per la libertà di Basso e Morandi. Saggio sull'estetica di Roberto Ardigò. Si accosta alla divisione milanese del “Giustizia e Libertà”. Collabora in seguito col nucleo giellista torinese, che fece capo prima a Ginzburg e poi a Foa.  Incontra Croce, con il quale conversa a lungo.  Saggi per Il Convegno, La Cultura, Civiltà Moderna, Solaria e la Rivista di filosofia di Martinetti, e presso la società editrice "La Cultura" di Milano, uno studio critico su L'estetica di Croce.  Saggio sulla monada e la diada, vinse il concorso per l'insegnamento di storia e filosofia nei licei. Dopo una prima assegnazione al liceo Grattoni di Voghera, ottenne la cattedra di filosofia a Trieste. Qui conobbe e frequentò, fra gli altri, Saba (ritratto poi in Un poeta) ed anche Gambini, Pincherle ed Curiel.  Nella collana scolastica che Giovanni Gentile diresse per Sansoni, pubblica “Diadologia”. La diadologia lo costrinse ad affrontare studi di logica e semantica. Riparte da Kant e dalla problematica kantiana, e medita sulle conseguenze che la fisica quantica e la psicanalisi potevano avere per la dissoluzione di impostazioni filosofiche tradizionali. Quando, come si legge in Un poeta,Saba gli domanderà, ‘Perché fa filosofia?’, Colorni concluse che da quel giorno, ‘io non faccio più filosofia’. Non e la filosofia che rifiuta, ma un orientamento legato a quell'idealismo di cui erano seguaci Croce come Gentile e Martinetti. In occasione di un congresso di filosofia a Parigi, incontra Rosselli eTasca. In quanto ebreo e rinchiuso a Varese. I giornali pubblicarono la notizia con gran risalto, sottolineando che egli “di razza ebraica, manteneva rapporti di natura politica con altri ebrei residenti in Italia e all'estero”.  La sottolineatura sul “complotto ebraico” serviva a giustificare la legislazione anti-semita appena varata in Italia dal regime, per potersi così allineare alla linea politica seguita dagli alleati nazisti. Confinato a Ventotene, dove prosegue i suoi studi filosofici, e conversa intensamente con gli altri compagni confinati, Rossi, Doria e Spinelli. Un'eco fedele di quelle discussioni si ritrova in “Conversazioni di Commodo”. Risale a questo periodo la sua adesione alle idee federaliste europee, stesurando il Manifesto per un’Europa libera e unita. Saggio: Problemi della Federazione Europea, che raccoglieva il Manifesto ed altri scritti sul tema. Nella sua "Prefazione" al Manifesto, auspicò la nascita di una politica federalista europea di respiro “universalista”, come scenario democraticamente praticabile dopo la catastrofe della guerra. In tale ottica, la creazione di una federazione di stati europei era da lui considerata come condizione indispensabile per un profondo rinnovamento sociale, anche per iniziativa popolare, che partendo dagli enti territoriali avrebbe coinvolto tutta l’Italia e, quindi, l’intera Europa.  Circa le dinamiche che portarono alla stesura del Manifesto, è generalmente ricondotto ai soli Spinelli e Rossi il contributo maggioritario del testo, sebbene, alcuni recenti studi storiografici, abbiano seriamente rivalutato il suo ruolo. Di trinità si tratta, e lo spirito santo della situazione è lui, che partecipa alle discussioni preparatorie alla stesura del Manifesto assieme a poche altre persone, ed ebbe una parte di rilievo, soprattutto nella funzione di stimolo e di critica, dal suo punto di vista di socialista autonomista, verso i due autori del documento, fino al suo trasferimento a Melfi, benché comunque i contatti non cessassero del tutto. Grazie anche all'intervento di Gentile, riusce ad essere trasferito a Melfi, in provincia di Potenza, dove, nonostante lo stretto controllo della polizia, riusce ad avere contatti con alcuni degli anti-fascisti locali.  Assieme con Geymonat, elabora il progetto di una rivista di metodologia scientifica.  Riuscì a fuggire da Melfi, rifugiandosi a Roma, dove visse da latitante.  Dopo la capitolazione di Mussolini si dedica all'organizzazione del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, nato dalla fusione del PSI col gruppo del Movimento di Unità Proletaria.  Partecipò, assieme a Spinelli, Rossi, Doria, Braccialarghe e Foa, in casa di Rollier a Milano, alla riunione che diede vita al Movimento Federalista Europeo. Il movimento adottò come proprio programma il "Manifesto di Ventotene". Svolse nella capitale un'intensissima attività nelle file della Resistenza. Prese parte alla direzione del PSIUP e s'impegna a fondo nella ricostruzione della Federazione Socialista Italiana e nella formazione partigiana della prima brigata Matteotti.  “Io ero da poco stato nominato segretario della Federazione Socialista per suggerimento e per decisione di Pertini, che era membro della segreteria del partito in quell'epoca. Avevamo organizzato una chiamiamola brigata, anche se era un gruppo armato che era comandato da Colorni che poi è  assassinata alla vigilia della liberazione di Roma. Fu redattore capo dell'Avanti! Clandestine. Così Pertini ricorda il suo impegno per la stampa del giornale socialista:  «Ricordare l'Avanti! clandestino di Roma vuol dire ricordare prima di tutto due nostri compagni che a forte ingegno unevano una fede purissima, entrambi caduti sotto il piombo fascista: Colorni e Fioretti. Ricordo come Colorni, mio indimenticabile fratello d'elezione, si prodiga per far sì che l'Avanti! uscisse regolarmente. Egli in persona, correndo rischi di ogni sorta, non solo scrive gli articoli principali, ma ne cura la stampa e la distribuzione, aiutato in questo da Fioretti, anima ardente e generoso apostolo del socialismo. A questo compito cui si sente particolarmente portato per la preparazione e la capacità della sua mente, Colorni dedica tutto se stesso, senza tuttavia tralasciare anche i più modesti incarichi nell'organizzazione politica e militare del nostro partito. Amava profondamente il giornale e sogna di dirigerne la redazione nostra a Liberazione avvenuta e se non fosse stato strappato dalla ferocia fascista, sarebbe stato il primo redattore capo dell'Avanti! in Roma liberata e oggi ne sarebbe il suo direttore, sorretto in questo suo compito non solo dal suo forte ingegno e dalla sua vasta cultura filosofica, ma anche dalla sua profonda onestà e da quel senso del giusto che ha sempre guidato le sue azioni. Per opera sua e di Fioretti, l'Avanti! era tra i giornali clandestini quello che aveva più mordente e che sapeva porre con più chiarezza i problemi riguardanti le masse lavoratrici. La sua pubblicazione veniva attesa con ansia e non solo da noi, ma da molti appartenenti ad altri partiti, i quali nell'Avanti! vedevano meglio interpretati i loro interessi. Nella Roma occupata dalle forze naziste, in una tipografia nascosta di Monte Mario, fece stampare 500 copie di un libriccino di 125 pagine intitolato Problemi della Federazione Europea, contenente il "Manifesto di Ventotene".  Il 28 maggio del 1944, pochi giorni prima della liberazione della capitale, venne fermato in via Livorno da una pattuglia di militi fascisti della famigerata banda Koch. Tenta di fuggire, ma fu raggiunto e ferito gravemente da tre colpi di pistola. Trasportato all'Ospedale San Giovanni, muore sotto l’identità di ‘Franco Tanzi’. Indomito assertore della libertà, confinato durante la dominazione fascista, evadeva audacemente dedicandosi quindi a rischiose attività cospirative. Durante la lotta antinazista, organizzato il centro militare del Partito Socialista Italiano, dirigeva animosamente partecipandovi, primo fra i primi, una intensa, continua e micidiale azione di guerriglia e di sabotaggio. Scoperto e circondato da nazisti li affrontò da solo, combattendo con estremo ardimento, finché travolto dal numero, cadde nell'impari gloriosa lotta. Tre lapidi esistenti, una, posta nel 1982 dalla III Circoscrizione del Comune di Roma è semilleggibile perché scurita dal tempo, un'altra, posta nel 1978 dal Partito Socialista Italiano, è spaccata in due e un'ultima, posta nel 2004 sempre dalla III Circoscrizione del Comune di Roma, contiene un errore.  Foto delle tre lapidi.  Altre opere: “Scritti, Norberto Bobbio, la Nuova Italia, Firenze); “Il coraggio dell'innocenza, Luca Meldolesi, La Città del Sole (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Napoli); “Un poeta” (Il Melangolo, Genova); “La malattia della metafisica” (Einaudi, Torino). Dizionario Biografico degli Italiani. L'itinerario politico di Eugenio Colorni, in Id., Il socialismo riformista tra politica e cultura, Il socialismo federalista di Eugenio Colorni, tesi di laurea, Università degli studi di Firenze, Anno Accademico, Gaetano Arfé, Eugenio Colorni, l'antifascista, l'europeista, in , Matteotti, Buozzi, Colorni. Perché vissero, perché vivono, Franco Angeli, Milano, Sandro Gerbi, Tempi di malafede. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra. Guido Piovene ed Eugenio Colorni, Einaudi, Torino e Hoepli, Milano, . Geri Cerchiai, L'itinerario filosofico di Eugenio Colorni, in «Rivista di Storia della Filosofia», Stefano Miccolis, Colorni e Croce”. Talvolta non si distingue debitamente fra l’emergere originario di un testo nell’opera di un filosofo e il suo riemergere, o diffondersi, in altri tempi o contesti. In tal modo, proprio la tragedia del Novecento ha spostato spesso, rispetto alla composizione, la diffusione di scritti intrisi di attualità. Poche volte, come nel Novecento, è stato così vistoso il fenomeno delle letture differite. Ora, e al di là della nota di polemica che affiora da un montaggio tendenzioso fino al limite delle falsificazione – questo è quanto è all’incirca avvenuto per Colorni: scoperti (o riscoperti), dopo la morte dell’autore, in quel particolare contesto del quale si sono nutrite le due stesse riviste, “Analisi” e “Sigma” – che, insieme con «Aretusa», li hanno per prime pubblicati, a tale contesto sono rimasti giocoforza legati, venendo così ad essere proiettati all’interno di una tradizione e di un dialogo almeno parzialmente diverso dal loro, condotto in un altro linguaggio. Si è parlato, a proposito di tale linguaggio, dello spirito del ’45, e sovente si è visto in esso, da parte degli stessi animatori, una vera e propria prosecuzione, in campo culturale, delle istanze portate avanti dalla Liberazione. Alla “dittatura dell’idealismo”– il cui [Razionalismo e prassi a Milano: La cultura milanese vive profondamente quello “spirito del ’45” fatto anche di semplificazione e di attivismo, di fiducia ingenua nell’anno zero, nella svolta politico-sociale in corso, ma soprattutto di un nesso inscindibile con la liberazione e la Resistenza. La dittatura dell’idealismo è il titolo dato da Cantoni ad un articolo apparso sul Politecnico di Vittorini. Espressione di un comune sfondo sociale e di una comune struttura economica, le filosofie di Croce e Gentile si sarebbero unite, nella prospettiva di Cantoni, in una sorta di convergenza sociologica con il regime, riuscendo così a rimediare una posizione di singolare monopolio per la cultura idealista. Certamente, e una grossolanità speculativa e un errore storico identificare il destini del fascismo col destino dell’idealismo, anche se questa identificazione di fatto si verifica nella persona del maggior rappresentante filosofico dell’idealismo italiano, Gentile. In realtà, molti idealisti, dal Croce al De Ruggiero, staccarono, prima o dopo, le loro sorti da quelle del regime. Eppure, al di sotto della dichiarata e sincera avversione, un filo, inconscio spesso ma tenace, lega tra loro gli avversari e ne permetteva una, sia pure scomoda, convivenza. Questo filo era costituito dal loro comune, e inconfessato carattere *conservatore*. Lo spiritualismo idealista agì come una dittatura logica. Avendo in mano cattedre e riviste, gli idealisti facevano il bello e il cattivo tempo nella filosofia, facendo decadere al piano della non-filosofia gli avversari positivisti ed logico-empiristi. Alcune opinioni sul crocianesimo che, oltre ad essere meno drastiche, risultano per certi aspetti accostabili ad analoghi spunti della critica colorniana. Vale la pena di rimettersi a una revisione intelligente dell'idealismo italiano, rimanendo idealisti] filosofia viene assimilata alla sorte del regime – si è così tentato di opporre una filosofia più aperta al dibattito contemporaneo ed internazionale, fosse esso identificabile con le correnti fenomenologico-esistenziali o con quelle più strettamente epistemologiche ispirate al positivismo o empirismo logico del Circolo di Vienna. Quest’ultimo, d’altro canto, viene in Italia presentato da Geymonat con parole quanto mai indicative del clima che ne accoglieva i principi. L’indirizzo filosofico, che qui viene esposto difeso e sviluppato è e vuole essere un vero e proprio razionalismo, sebbene non attribuisca alla ragione un valore assoluto e dogmatico come gli antichi indirizzi che vantano il medesimo nome. Gli è che il razionalismo deve essere ben più agguerrito e penetrante di quelli che caratterizzarono i secoli passati. Deve essere: critico, ossia capace di tenere nel dovuto conto le obiezioni mosse contro la pura ragione dalla filosofia mistica e decadente; costruttivo, cioè in grado di soddisfare le esigenze di ri-costruzione e di logicità caratteristiche della nuova epoca; aperto, cioè capace di affrontare i problemi sempre nuovi che la scienza e la prassi pongono innanzi allo spirito umano. Gli Studi per un nuovo razionalismo, che raccoglievano le ricerche di un intero ventennio (il testo più datato, Le idee direttive del neo-empirismo, era stato pubblica Ciò che si può apprezzare in Croce, da questo punto di vista, è il suo tentativo di sciogliere il pensiero dai legami colla filosofia metafisica per avvicinarsi a una filosofia intesa come chiarificazione dell’esperienza, intesa cioè come trapasso dalla metafisica alla metodologia. Croce si sarebbe in tal modo inserito nella corrente più viva della filosofia, non riuscendo tuttavia (e in questo consisterebbe il suo maggior limite) a rompere completamente i ponti con la metafisica specuativa. Croce non ha quindi tanto combattuto la metafisica speculativa quanto sostituito alla metafisica trascendente la metafisica immanente. Per una ricostruzione più esaustiva delle diverse posizioni di Cantoni su Croce, si rimanda a R. Franchini, Remo Cantoni critico di Croce, in C. Montaleone e C. Sini (a cura di), Remo Cantoni, filosofia a misura della vita, Milano, Guerini, Cfr. N. Bobbio, Introduzione, in E. Colorni, Scritti, Firenze, La Nuova Italia. Tra il 1930 e il 1940 avviene la crisi dell’idealismo, cui segue la ricerca di nuove vie, proprio ad opera della generazione di Colorni. […] le vie battute per uscire dalla crisi sono soprattutto due: quella che passa attraverso una riflessione sulle trasformazioni avvenute in seno al sapere scientifico e che dà origine a una filosofia scientifica, risolutamente anti-metafisica, qual è il positivismo logico, cui aprono la strada gli studi di Ludovico Geymonat; e quella che passa attraverso l’esistenzialismo (Abbagnano, il primo Luporini)». 7 L. Geymonat, Studi per un nuovo razionalismo, Torino, Chiantore. Come ha fatto notare Mario Dal Pra, e a conferma di quanto si scriveva di sopra, l’accostamento in questo passaggio dei termini “ricostruzione” e “logicità” sembra diretto a far pensare che «l’avversione alla metafisica del neoempirismo e l’avversione alla dittatura fascista da parte del movimento di liberazione abbiano per Geymonat una comune radice» (M. Dal Pra, Il razionalismo critico, in A. Bausola, G. Bedeschi et al., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari, Laterza. Geri Cerchiai 4 to per la prima volta nel 1935 con il titolo Nuovi indirizzi della filosofia austriaca), fu significativamente fatto uscire, nel 1945, con la medesima data di stampa del giorno della Liberazione di Milano; e in quello stesso mese di aprile apparve il primo numero della rivista «Analisi» che, come si è accennato, contribuì fra le prime, con la pubblicazione del frammento intitolato Filosofia e scienza, alla diffusione dell’epistemologia colorniana9 . Ed è proprio da una lettura di «Analisi» e «Sigma» che è possibile sommariamente inquadrare il contorno di quel periodo storico al quale si deve la prima scoperta dell’epistemologia colorniana. Voluta da Giuseppe Fachini, «Analisi» fu stampata per cinque numeri fino al 1947, mutando il nome, nel corso delle pubblicazioni, in quello di «Analysis». L’«esperienza personale che io avevo fatto», racconta Fachini circa la nascita della rivista, mi aveva convinto della necessità di una piattaforma di incontro interdisciplinare. Allora in Italia mancava qualcosa di simile. La guerra spezzò agli inizi i miei tentativi. Gli eventi bellico-politici stessi, per conto loro, mi portarono […] a profonda solidarietà mentale con Livio Gratton. Nacque così l’idea di «Analysis»: con ambizioni editoriali infantilmente dissonanti col momento. Trovammo poi nel Buzzati-Traverso un biologo “fisicalista” […] ma aperto ad ogni esperienza. Tra i “filosofi” professionali (a formazione cioè tradizionalmente filosofico-letteraria) il Banfi, cui mi ero rivolto, mi indicò l’allievo suo Giulio Preti, come fornito di interessi e preparazione fisico-matematica, allora rara nel “filosofo”. Per inciso, ricordo i miei contatti con un altro giovane “filosofo” con preparazione e interessi analoghi: Eugenio Colorni10 . I temi portati avanti dalla rivista furono sostanzialmente due: l’interesse per la metodologia delle scienze – attraverso la quale indagare la possibilità di un fondamento comune alle diverse discipline – e la volontà di mantenersi all’interno di un’impostazione strettamente antimetafisica11. La collaborazione fra 8 In «Rivista di filosofia». Cfr. E. Colorni, Filosofia e scienza, in «Analisi». D’ora innanzi si indicheranno gli scritti raccolti in questa edizione col solo titolo seguito dal numero di pagina. Di «Analisi» e «Sigma», con specifico riferimento alla figura di Eugenio Colorni, si è occupato M. Quaranta, La “scoperta” di Eugenio Colorni nelle riviste del secondo dopoguerra. Gli scritti sulla relatività, in G. Cerchiai e G. Rota (a cura di), Eugenio Colorni e la cultura italiana fra le due guerre, Manduria-Bari-Roma, Lacaita. “Analysis”: trent’anni dopo, testimonianza di Giuseppe Fachini, in Analisi. Milano, riletta da M. Quaranta, con testimonianze di G. Fachini, S. Ceccato, L. Geymonat, L. Gratton, E. Poli, Bologna, Arnaldo Forni Editore. Aggiunge Fachini, a proposito della sua formazione, che l’«impulso a uno sforzo collettivo interdisciplinare era sorto in me dai primi contatti con l’ambiente mentale del neopositivismo logico», ma che la «soluzione neopositivista, verso cui ero in un primo tempo quasi costretto, mi si rivelò presto insoddisfacente per l’irrigidimento formale, verso cui stava avviandosi. Il «periodico», si affermava nel Programma pubblicato sul primo numero, era «inteso ad offrire un luogo di libera discussione a quanti abbiano interesse ai problemi di metodologia e di critica della scienza, nello sforzo di purificare ed universalizzare il linguaggio  Cinque scritti metodologici di Eugenio Colorni 5 scienziati e filosofi fu uno degli aspetti qualificanti della pubblicazione, ma fu anche d’impedimento ad un’armonica composizione delle sue diverse anime, concorrendo in definitiva alla conclusione dell’esperienza: «L’incontro con i fondatori e la rivista», racconta a questo proposito Silvio Ceccato, avvenne per chiamata gentile. Io mi trovavo in parabola neo-positivistica o logico-empiristica discendente. Il filone che cominciava ad interessarmi era ormai piuttosto quello di P.W. Bridgman e di H. Dingler, comunque un filone operativo. Questo difficilmente avrebbe permesso una intesa con i due filosofi del gruppo, L. Geymonat e G. Preti. Una collisione non poteva tardare anche con il più aperto filosofo ufficiale, Antonio Banfi, più storico, più umanista. Un certo divario di lavoro si venne a creare anche con gli scienziati in quanto per lo scienziato di discipline assestate e floride, come la fisica, la biologia, l’anatomo-fisiologia, etc., la metodologia si può aggiungere come ornamento, come divertimento. Ma non per me. Così terminate le pubblicazioni di «Analisi», la sua eredità venne raccolta, in quello stesso 1947, dalla rivista romana «Sigma», fondata da Vittorio Somenzi e Giuseppe Vaccarino13. Il periodico – che riportava il sottotitolo di «Conoscenza unitaria» – si proponeva di riunire, come si legge nella seconda di copertina, «una limitata quantità di elementi atti a determinare una concezione unica della conoscenza». La nota di presentazione della rivista precisava poi i confini all’interno dei quali si intendevano muovere i curatori: «si va facendo evidente che esaurire la scienza nel tecnicismo dello specialista è dannoso – non solo ai fini della costituzione di un sistema unitario della conoscenza scientifica, ma anche nei riguardi degli stessi progressi tecnici nei singoli settori»14. Da qui specialistico verso una comune impostazione dei modi fondamentali, pur essi comuni, con cui si edifica e modifica il sapere scientifico». Unico limite, in tal senso, era quello di non «travalicare di là dalla metodologia in una sistematica della scienza [per] fare della metafisica insaputa e inutile» (Il programma, in «Analisi»). 12 “Analysis”: trent’anni dopo, testimonianza di S. Ceccato, in Analisi. Milano 1945. In una lettera a Giuseppe Vaccarino del 3 maggio 1947, Vittorio Somenzi rilegge la storia di «Sigma» con le parole seguenti: «La rivista è nata con la modesta intenzione di pubblicare il vecchio materiale tuo, di Colorni e Cotone, mio. E di esaurirlo coi primi numeri. Poi si è visto che, se non altro dato il costo della carta e stampa, conveniva pubblicare un tentativo di sintesi organica, sia pure provvisoria, del tuo – e limitare quello dei due C. e mio a ciò che poteva avere ancora interesse dal punto di vista filosofico. Infine è sorta l’idea, con la crisi di Analisi, di prenderne il posto con il programma serio di Metodo. Già l’impostazione dei primi due numeri ci alienerà le simpatie dei Castelli, Blanc, Fantappié ecc., ma anche dei Filiasi e Geymonat (l’interessamento di quest’ultimo è condizionato alla possibilità di una nostra conversione al materialismo dialettico/razionalista tipo “La Pensée”). Attualmente spero solo nei Servadio e magari Spirito, Savinio e stop» (“Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo Vittorio Somenzi, sez. 3, Attività professionale, 1929-2003, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 4, Collaborazione con Giuseppe Vaccarino, b. 1, Vaccarino, 1943-1948. Da ora in avanti, il Fondo sarà abbreviato con la sigla FS, seguita dall’indicazione dei riferimenti completi d’inventario). 14 La conoscenza unitaria, in «Sigma». Scriveva Giuseppe Vaccarino a Vittorio Somenzi il 14 ottobre 1946 riguardo a questa nota: «Rileggendo la tua edizione riveduta della Conoscenza unitaria penso che possa andare come presentazione anonima, specie se sarà da  Geri Cerchiai 6 avrebbe anche dovuto discendere il ruolo della ricerca metodologica, che – comprendendo un discorso più largamente critico-filosofico – avrebbe dovuto fissare le norme dirette ad unificare in sistema le scienze particolari o la conoscenza in genere. Come «Analisi», anche «Sigma» ebbe però vita breve, e dopo sei numeri una nota editoriale ne annunciava la confluenza nella rivista «Methodos». Questo fu dunque lo sfondo culturale che vide nascere l’interesse per la filosofia colorniana, un interesse che, attraverso la pubblicazione di alcuni testi del filosofo milanese, richiamava alla ricostruzione della filosofia empiristica italiana (come la proposta del ebraico-britannico Ayer a Oxford) come tradizione anti-metafisica e anti-idealistica e capace di attuare un profondo rinnovamento negli orientamenti teoretici nazionali. D’altra parte, che il pensiero di Colorni fosse in certa misura vicino alle posizioni espresse da «Analisi» e «Sigma» è testimoniato, oltre che dalle singole scelte di politica editoriale delle due riviste, da quanto raccontato dagli stessi protagonisti: «Ricordo con precisione», ha scritto ad esempio Fachini sul secondo numero di «Analisi», le conversazioni di quell’epoca: credo di poter affermare, per esperienza personale, che il Colorni, giovanissimo sia stato tra i primi italiani di preparazione filosofica a tentare di accogliere e di comprendere, in modo serio, le nuove affermazioni epistemologiche. La più gran parte del suo lavoro è inedita: molte pregevoli cose egli ha lasciato: e forse potrebbe indicarci vie nuove. Gli amici di «Analisi» auspicano di poter far conoscere in cerchio vasto il suo lavoro, a vantaggio della ricerca metodologica e in omaggio alla sua memoria Somenzi, a sua volta, scrivendo a Giuseppe Vaccarino della pubblicazione degli scritti colorniani su «Sigma», afferma: Per Sigma convinciti che i nostri scritti, incomprensibili per virtù proprie dalla maggioranza dei competenti, l’hanno irrimediabilmente “condannata” e che quelli di Colorni sono ancora i migliori che potessimo o possiamo esibire, oltre che i più vicini al nostro ordine di idee. “Fisica teorica e filosofia” di Colornimerita senz’altro la pubblicazione sul numero che spero di riuscire a dedicare a questo argomento19 . Rievocando poi il Progetto di una rivista di metodologia scientifica – da Colorni discusso fra gli altri con Ludovico Geymonat durante gli anni della guerra – ante ulteriormente ampliata. Effettivamente rileggendo il mo testo subito dopo averlo scritto non avevo avuto una buona impressione. Ma ora mi è piaciuto» (FS, sez. 5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza scientifica, gen. 28, 135, Vaccarino Giuseppe, 1946-1948. 15 La conoscenza unitaria, cit., p. 4. 16 F. Cambi, Razionalismo e prassi a Milano, G. Fachini, Eugenio Colorni, in «Analisi», I, 1945, 2, pp. 105-106. 18 Si tratta di E. Colorni, Critica filosofia e fisica teorica. 19 Lettera di Vittorio Somenzi a Giuseppe Vaccarino. Alcuni inediti riconducibili a tale progetto sono presentati in M. Quaranta, La “scoperta” di Eugenio Colorni, cit., cfr. in part. le pp. 126-130. Per i testi di FS destinati alla rivista metodologica. Cinque scritti metodologici di Eugenio Colorni 7 cora Somenzi ha sottolineato nel 1986 come esso corrispondesse «nella sostanza a molte realizzazioni degli ultimi quarant’anni, da riviste come “Analysis” a collane di volumi di filosofia della scienza e di storia della scienza quali quelle impostate a Milano e Torino [dallo stesso] Geymonat e da Paolo Rossi»21 . A partire da queste premesse, appare evidente come la storia della riscoperta colorniana nel dopoguerra possa concorrere a gettare luce su alcuni fondamentali aspetti dello stesso pensiero dell’autore; essa ne evidenzia difatti la novità di prospettiva e la conseguente, connaturata disposizione a dialogare coi più avanzati ambienti filosofico-culturali del nostro Paese. Ciò che tuttavia rende affatto esemplare la filosofia colorniana, concorrendo a fare di essa un importante «contributo alla comprensione del travaglio della filosofia italiana al momento del declino della preponderanza idealistica, non è soltanto la particolare modalità della sua ricezione nella seconda metà degli anni Quaranta, ma anche la complessiva parabola intellettuale seguita dal giovane studioso per giungere alle posizioni metodologiche degli ultimi anni. 2. Fonti e maestri Colorni fu allievo di Giuseppe Antonio Borgese e di Piero Martinetti alla Regia Università di Milano. Nel raccontare della formazione universitaria del giovane Eugenio, Enzo Tagliacozzo ha scritto a questo proposito: va ricordata l’influenza che sui suoi studenti ebbe allora una personalità come quella di Borgese, che Eugenio e compagni chiamavano scherzosamente G.A. Era uno di quei pochi professori che non disdegnavano allora di soffermarsi a discutere dopo la lezione con i propri studenti. Altra influenza determinante per i suoi studenti quella dell’austero Piero Martinetti che spiegava Kant alle otto del mattino. Martinetti avviava gli studenti al rigorismo dell’etica kantiana, mentre il brillante G.A., più alla mano, discuteva di estetica e letteratura comparata23 . I debiti con l’insegnamento di Borgese, d’altro canto, sono resi espliciti dallo stesso Colorni, che in un suo curriculum universitario afferma: Durante i miei studi mi sono occupato specialmente di problemi filosofici ed estetici e, sotto la direzione del Borgese, ho redatto lavori su L’estetica di Roberto Ardi21 V. Somenzi, Eugenio Colorni filosofo della scienza, in «Filosofia e società»,  N. Bobbio, Introduzione, cit., p. VI. 23 E. Tagliacozzo, L’uomo Colorni, in «Tempo presente». Prosegue poi Tagliacozzo nella pagina seguente: «Martinetti […] indusse [Eugenio] ad approfondire Kant, amò Spinoza dopo la prima infatuazione per l’idealismo italiano. E chi in quegli anni non lesse Croce e Gentile, ma specie Croce? […] Eugenio conobbe Hegel, ma non fu mai hegeliano. Studiò dal punto di vista filosofico Marx, ma non fu mai marxista. Dopo un’esercitazione sul positivismo – e si noti l’influenza borgesiana nell’approfondimento dei problemi estetici – si indirizzò verso Leibniz» (ivi, p. 54). Geri Cerchiai 8 gò e del positivismo italiano, L’estetica bergsoniana e L’estetica di Benedetto Croce. Quest’ultimo studio è stato pubblicato più tardi a Milano dalla casa editrice “La Cultura”24 . Più complesso, e forse maggiormente studiato, è il rapporto di Colorni con Piero Martinetti, col quale l’autore si laureò nel 1930 su Sviluppo e significato dell’individualismo leibniziano. Il primo, fondamentale impulso all’approfondimento di Leibniz25; l’introduzione alla filosofia di Kant26; il rifiuto del metodo dialettico27; l’urgenza di rinvenire una nuova, diversa organizzazione del nesso fra individuale ed universale, sono elementi che stringono Colorni al magistero martinettiano e che risultano fondamentali per la più generale formazione del filosofo milanese. Al di sotto di tutti è poi presente l’esigenza di individuare il corretto rapporto fra l’analisi della realtà e la sua organizzazione sistematica, esigenza il cui movimento e la cui parabola all’interno della propria maturazione intellettuale sono così descritte, ne La malattia filosofica, dallo stesso protagonista: 24 Curriculum vitae di Colorni, s.d., in Archivio Hirschmann, Roma, citato in S. Gerbi, Tempi di Malafede. Guido Piovene ed Eugenio Colorni. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra, nuova edizione Milano, Hoepli, pp. 41-42. Cfr.: E. Colorni, L’estetica di benedetto Croce. Studio critico, Milano, La Cultura; Id., Roberto Ardigò, in «Pietre», firmato con lo pseudonimo di Carlo Rosemberg; per una storia di questa pubblicazione rinvio ad A. Vigorelli, Antifascismo tra i giovani: il caso di “Pietre”, in Eugenio Colorni e la cultura italiana, a cura di G. Cerchiai e G. Rota, cit., pp. 251-266); lo scritto sul bergsonismo è tuttora inedito. È lo stesso Colorni, ne La malattia filosofica, a raccontare come si svolgevano, durante le lezioni di Borgese, le esercitazioni dalle quali è nato ad esempio lo studio su Croce: «All’università si dà continuamente battaglia contro Croce. Ogni settimana, uno studente sale sulla cattedra per discutere coi compagni e col professore […]. Salire anche lui su quella pedana, gli piacerebbe tanto: ma per che dire? Tenterà, ad ogni modo» (E. Colorni, La malattia filosofica, p. 26). Sul rapporto fra Colorni e Borgese rimando ad A. Riosa, Giuseppe Antonio Borgese ed Eugenio Colorni tra letteratura e politica, in G. Cerchiai e G. Rota (a cura di), Eugenio Colorni e la cultura italiana. Nello stesso periodo nel quale si laureava Colorni, altri due allievi di Martinetti, Giovanni Emanuele Barié e Carlo Emilio Gadda, venivano indirizzati dal maestro allo studio del filosofo di Lipsia. Si veda, a mero titolo di esempio, quanto lo stesso Martinetti scriveva nel 1926 a Gadda: «Se fra tre o quattro anni Ella potesse uscire con una bella esposizione di Leibniz (non tema d’avere concorrenti in questo argomento!) la via dell’università (per storia della filosofia) Le sarebbe aperta» (Lettera di Piero Martinetti a Carlo Emilio Gadda, 24 febbraio 1926; in P. Martinetti, Lettere a Carlo Emilio Gadda, a cura di G. Lucchini, in «I quaderni dell’ingegnere. Testi e studi gaddiani», Cfr. anche: G. Cerchiai, Due inediti di Giovanni Emanuele su Leibniz, in «Rivista di storia della filosofia», LIII, 1998, pp. 125-136; Id., Eugenio Colorni lettore di Leibniz, in Eugenio Colorni e la filosofia italiana, cit., pp. 159-176. 26 Si veda la testimonianza di Tagliacozzo riportata poco sopra. Per il clima nel quale poteva essere riletto Kant durante le lezioni martinettiane (con particolare riferimento alle vicende relative a Colorni), si rimanda a S. Gerbi, Tempi di malafede, cit., p. 39. 27 Una delle poche citazione dirette di Colorni presenti nel libro sull’estetica crociana rinvia proprio allo scritto di Martinetti intitolato Il metodo dialettico (in «Rivista di filosofia), là dove Colorni scrive: «perché, per quale forza o per quale principio questa implicazione dei contrari debba presentarsi quasi come una generazione dell’uno da parte dell’altro, è difficile a intendersi. Perché si deve dire che il Non-io, il quale è, per la sua stessa definizione, inseparabile dall’Io, sgorga, si svolge, si origina da esso? Che il particolare nasce dall’universale?» (E. Colorni, L’estetica di Benedetto Croce, cit. p. 11). Cinque scritti metodologici di Eugenio Colorni. Il problema che lo occupa è sempre il posto, la collocazione delle facoltà nel mondo dello spirito. A un certo punto, gli balena la possibilità che questi elementi di cui cercava con tanto accanimento l’ordine e la collocazione, non patiscano alcun ordine: possano vivere così, separati, paralleli, autonomi. L’idea lo entusiasma. Gli sembra di avere ora fatto veramente un passo innanzi. E non pensa più tanto a definire e a ordinare, quanto a descrivere. Ma questo procedere dovrà pure avere una sua giustificazione teorica, dovrà pure inquadrarsi in una visione del mondo, avere un suo nome che termina in -ismo. Pierino [alter ego di Colorni] si butta sui pluralisti, sugli empiriocriticisti: studia Mach e Avenarius, si addentra nel labirinto di Leibniz. Su queste basi, si può dire che quello che altrove ho definito il “problema dell’ordine” divenga, talvolta anche solo per contrasto, uno dei fili conduttori dell’intera riflessione colorniana: impostato fin da L’estetica di Benedetto Croce, esso cercherà una prima, instabile sistemazione nella filosofia di Leibniz, per trovare poi nella rilettura metodologica ed epistemologica del criticismo kantiano una soluzione – o, come potrebbe dirsi: dissoluzione – affatto originale. Al fine di seguire il movimento del pensiero di Colorni da questo punto di vista, può essere utile rileggere le parole dell’autore stesso. E. Colorni, La malattia filosofica, p. 29; cfr. anche ibidem, n. 19 del curatore. Di Leibniz dirò in seguito, in questo stesso paragrafo. Per quanto riguarda l’accenno agli empiriocriticisti, si rimanda a quanto scritto da Luca Guzzardi nel 2011, il quale, esaminando precisamente la radice dei riferimenti colorniani a Mach, Avenarius e Schuppe, ne ha riconosciuto l’origine proprio nell’insegnamento di Martinetti: «Colorni», spiega Guzzardi, «aveva potuto trovare una valutazione positiva di questo pluralismo, nonché delle “filosofie dell’esperienza” di Schuppe, Avenarius e Mach, nell’Introduzione alla metafisica di Piero Martinetti. D’altra parte, ai primi del Novecento Martinetti aveva indirizzato allo studio di Mach, Avenarius e Schuppe, un giovane e promettente allievo, Aurelio Pelazza. Tali circostanze», secondo Guzzardi, «fanno ritenere», insieme con altre che dovrebbero essere approfondite, «che l’interesse originario di Colorni per l’empiriocriticismo sia da collegare a Martinetti e Pelazza» (L. Guzzardi, Lo specchio della natura. Colorni e la cultura scientifica del suo tempo, in Eugenio Colorni e la cultura italiana, a cura di G. Cerchiai e G. Rota, cit., pp. 177-195, pp. 188-189). Prosegue Guzzardi in queste stesse pagine: «Non solo Schuppe e Avenarius vengono citati da Colorni nella recensione all’Introduzione alla metafisica; qui si trova pure accennato fra i meriti di Martinetti “quel concetto di esperienza pura e obiettiva che egli sembra indicare come via di uscita dalle difficoltà in cui il pensiero moderno si trova impigliato” – e l’esperienza pura [reine Erfahrung], attorno a cui Pelazza aveva costruito la propria presentazione dell’empiriocriticismo, aveva costituito il punto d’approdo della filosofia di Avenarius» (ivi, p. 189). La recensione Sull’“Introduzione alla metafisica” di Piero Martinetti si trova ora alle pp. 52-57 dell’edizione Einaudi degli scritti colorniani. A tutto ciò si può aggiungere che Colorni accostò all’empiriocriticismo anche la filosofia di Benedetto Croce: «L’individualismo del Croce […] non è necessariamente in contrasto col suo idealismo: risolve piuttosto il principio dell’autocoscienza – che è essenziale all’idealismo – in una coscienza del pensiero nella effettualità del suo pensare; identifica il punto di partenza soggettivo col suo necessario correlato oggettivo, l’universale col particolare. In questo senso si avvicina piuttosto a forme di contingentismo e di empiriocriticismo; e in questo senso appunto è giustificabile il suo tenersi al dato e partire da esso: in quanto questo dato non può essere inteso che come uno stato d’animo, un’esperienza che debba essere vissuta intensamente, e da cui si debba trarre a volta a volta l’assoluto» (E. Colorni, L’estetica di Benedetto Croce, cit., p. 6). 29 Cfr. G. Cerchiai, L’itinerario filosofico di Eugenio Colorni, in «Rivista di storia della filosofia», Geri Cerchiai 10 Nel libretto su Croce, il problema dell’ordine è inquadrato a partire dalla questione del rapporto fra la «soprastruttura» 30 dialettica del sistema e l’effettivo valore delle singole osservazioni: «Ciò che sta sotto l’organizzazione esteriore», scrive Colorni, è nel crocianesimo il vero sistema, non ancora chiaro e formulato, ma agile e ricco di molteplici possibilità. Ricercare tale ricchezza sotto un’impalcatura in gran parte insoddisfacente è il compito che s’impone a chiunque viva quel pensiero come un’esperienza della propria vita. E seguirne la possibilità di sviluppo anche di là dalla forma che ha dato a se stessa, ci pare il miglior omaggio che si possa rendere a una filosofia31 . Se il “metodo individualistico” così identificato nella filosofia di Croce conduce Colorni a liberare le singole osservazioni «dall’interpretazione che il Croce stesso ne ha data allo scopo di adattarle ad un suo schema presupposto di organizzazione», per cercare di «renderle di nuovo pure» e «ravvisare» di conseguenza «in esse» un sistema «non imposto in precedenza, ma derivante e identico coi dati stessi forniti»32, non può stupire l’interesse teorico nutrito dal filosofo milanese per il secondo dei suoi “auttori”, ossia per il pensiero di Leibniz. Quest’ultimo, infatti, pare offrire precisamente la possibilità di chiudere in un circolo coerente l’analisi empirica del particolare e l’organizzazione sistematica del tutto. Scrive Colorni: Leibniz […] non parte mai con l’intento esplicito di costruire un sistema. La sua attività filosofica si presenta a tutta prima come una grande raccolta di prese di posizione particolari. Eppure il sistema non manca in esse: è anzi continuamente presente. I singoli problemi si mostrano a poco a poco connessi l’uno all’altro; le soluzioni convergono, si giustificano e confermano a vicenda […]. Il sistema non è una pura esteriorità, un concordanza sopravvenuta; è anzi l’anima di ciascuno osservazione, attraverso cui tutto si spiega e si giustifica33 . Per tali motivi, Leibniz rappresenta quasi il contraltare dello storicismo crociano o, meglio ancora, il rimedio alle sue lacune; «Leibniz», infatti, «differisce [proprio] in questo da altri pensatori, apparentemente più coerenti e organizzati, ma la cui ricchezza va cercata al di là del sistema, nelle varie formulazioni particolari»34: vi differisce cioè per il fatto che, come si è visto, il suo sistema si E. Colorni, L’estetica di Benedetto Croce, cit. Scrive ancora Colorni: «chi parta dal mondo stesso e, rendendo eterno e universale ciascun dato di questo, voglia costruire una scienza delle forme possibili di questa universalizzazione e di qui giungere ad una visione complessiva dei modi eterni della realtà e delle loro reazioni reciproche, non pone il sistema all’inizio, come premessa della sua ricerca; ma ad esso giungerà al termine ideale del suo cammino. Colorni, Nota bio-bibliografica, in G. W. von Leibniz, La monadologia, preceduta da una esposizione antologica del sistema leibniziano, a cura di E. Colorni, Firenze, Sansoni. Il riferimento sembra rinviare precisamente alla critica della filosofia crociana. Cinque scritti metodologici di Eugenio Colorni 11 sviluppa spontaneamente dalle singole osservazioni e l’insieme si mostra nella sua completezza attraverso il complesso dei suoi aspetti. E tuttavia, lo scacco della prospettiva leibniziana giungerà a sua volta quando, muovendo da simili presupposti, Colorni dovrà constatare il carattere prettamente soggettivo del tentativo di sistematizzazione da quella realizzato: Leibniz, spiega così Colorni nel suo ultimo scritto sull’argomento, applica all’ordine spirituale quella continuità, quel passaggio ininterrotto, quel procedere da ogni legge ad una legge più vasta, che egli crede di scorgere come l’essenza più profonda del mondo naturale. Che questa stessa continuità e questo allargarsi sia, più che una legge della natura, un’esigenza dello spirito nella considerazione della natura stessa, egli non sospetta36 . L’insuccesso del punto di vista leibniziano consentirà però anche a Colorni di schiudere un più libero sguardo, sciolto ormai dai condizionamenti delle diverse scuole filosofiche, sul criticismo kantiano e sugli strumenti da questo forniti per lo studio dei meccanismi di funzionamento del pensiero. Già nel 1932, Colorni aveva anticipato le due linee – leibniziana e kantiana – della propria filosofia, là dove aveva scritto, in Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà, che la monade di Leibniz avrebbe dovuto completarsi con la dottrina kantiana, di modo che l’«universalità della monade, intesa come realtà cosciente, puo coincidere con la trascendentalità del conoscere, inteso come conoscenza reale»37. L’effettivo passaggio ad un più maturo kantismo segna tuttavia per Colorni un punto di svolta fondamentale o, come afferma l’autore stesso, una vera e propria «operazione di cataratta»38, capace di conquistare una diversa prospettiva sul mondo: esso, infatti, consente al giovane studioso di voltare le spalle alla “conoscenza filosofica” e di approdare infine a quella particolare metodica ch’egli presenta come conoscenza prettamente scientifica, intesa cioè come padronanza di un processo. La domanda impossibile (senza senso) della filosofia, spiega così Colorni, pur nella loro rigida formulazione teoretica, sono sempre espressione di qualche tendenza, di qualche profonda esigenza dell’animo. La risposta si dà dunque divenendo padroni del meccanismo psicologico mediante cui la domanda viene posta; essendo capaci di riprodurlo, di seguirlo nelle sue fasi, di variarlo all’infinto. Al problema della realtà, si risponde fabbricando animi per cui l’expressione “realtà” non ha senso. Alla domanda se esiste un mondo in sé in cui la somma degli angoli di un triangolo non sia uguale a due angoli retti, si risponde costruendo una geometria in cui tale somma sia effettivamente maggiore o minore di due retti, e mostrando che tale geometria non è né più né meno vera di quell’altra; ma è, rispetto all’altra, essenzialmente nuova E. Colorni, Libero arbitrio e grazia nel pensiero di Leibniz, E. Colorni, Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà. E. Colorni, Critica filosofia e fisica teorica, E. Colorni, Filosofia e scienza, p. 237. 40 E. Colorni, Critica filosofia e fisica teorica, pp. 229-230. Geri Cerchiai 12 È in questo contesto, all’interno del quale Colorni ritiene di essere definitivamente guarito dalla sua «malattia filosofica»41, che vanno collocati i titoli di seguito trascritti e conservati presso la “Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo Vittorio Somenzi. Di tali scritti, e degli altri pubblicati dalle riviste «Aretusa», «Analisi» e «Sigma», è lo stesso Somenzi a raccontare la storia nel già citato testo su Eugenio Colorni filosofo della scienza. 3. La metodologia colorniana negli scritti del Fondo Somenzi «Nel 1945», scrive difatti Somenzi, comparve sulla rivista «Aretusa» un Ricordo di Colorni scritto dall’amico Guido Morpurgo-Tagliabue, accompagnato da due inediti stimolanti: Il bisogno dell’unità e Sul complesso di Edipo. Altri inediti mi pervennero attraverso la rivista «Analisi» […], e di questi una parte venne pubblicata su «Analisi» e sulla rivista romana «Sigma» che ad essa si affiancò per iniziativa di Giuseppe Vaccarino e mia. Dal carteggio fra Vaccarino e Somenzi emergono altre importanti informazioni sui dattiloscritti conservati in FS, che con ogni evidenza i due fondatori di «Sigma» si inviavano in reciproca lettura. Di quanto scriveva Somenzi a Vaccarino nel maggio del ’47 si è già reso conto nel § 1. Il 27 gennaio di quel medesimo anno, è Vaccarino a dire a Somenzi di sperare «tra qualche giorno di inviar[gli] i Colorni»; il giorno appresso, e quello successivo ancora, Vaccarino aggiunge poi quanto segue: Spero domani di inviarti i Colorni. Molto interessanti e brillanti. Comincerei con i dialoghi di “Commodo”, combinandoli in modo che abbiano tra di loro un certo legame. Ieri sera ho riletto i Colorni, che ti rimando tranne l’ultimo, che ti invierò tra qualche giorno. “I dialoghi” si potrebbero pubblicare in 3 puntate – (La seconda notevolmente più lunga delle altre 2) – Vi è una quarta puntata sull’economia, che mi piace meno. Nel testo ho cambiato qualche parola a matita (in modo che tu possa eventualmente ricorreggere). Ho creduto anche opportuno evitare il “dialogo nel dialogo” nel primo n°, introducendo invece del “fisico ribelle” il “Curiosus” del secondo n°. L’Apologo ed il Ritorno alla natura vanno anche benissimo. Forse si potrebbero pubblicare unitamente al terzo dialogo, che è molto breve. Le idee di Colorni mi sembrano meglio espresse nei dialoghi che nel capitolo sulla fisica, data la forma brillante 41 La malattia filosofica è per l’appunto il titolo che Colorni diede alla sua più completa biografia intellettuale, già qui ricordata nelle pagine precedenti. 42 V. Somenzi, Eugenio Colorni, cit., p. 79. Prosegue poi Somenzi citando di fatto alcuni dei titoli dei quali si sta qui discutendo: «La rivista doveva contenere articoli di fondo dedicati a problemi come: il concetto di esperienza, costanti universali e unità di misura, l’illusione finalistica nella fisica e nella biologia, l’illusione realistica nella fisica, geometria ed esperienza, l’assiomatica dei principi della meccanica, l’assiomatica della teoria della relatività e quella della meccanica quantistica, fisica puntuale e fisica di campo, il concetto di istinto, la polemica tra meccanicismo e vitalismo, la costruzione di una economia indipendente da premesse psicologiche» (ivi, p. 80). dell’espressione. In quanto alle opinioni espresse (l’io, la storia, l’amore, ecc.) non c’è coincidenza con la metaconoscenza, anzi piena opposizione43 . Su «Analisi», nel 1947, uscì Filosofia e scienza44, mentre – fra il 1947 e il 1948 – un più consistente numero di titoli apparve su «Sigma»; si trattava, in particolare, dei testi seguenti: Apologo su quattro modi di filosofare; Della lettura dei filosofi; Del finalismo nelle scienze; Dell’antropomorfismo nelle scienze; Sugli idoli della scienza fisica; Critica filosofica e fisica teorica; Il ritorno alla natura; Filosofi a congresso45 . Oltre a questi – e presumibilmente appartenenti al medesimo gruppo di testi del quale Somenzi afferma di aver pubblicato solo una parte – in FS sono conservati altri dattiloscritti, di cui sono qui trascritti quelli maggiormente compiuti46 . I primi tre scritti appartengono con ogni evidenza al gruppo di testi destinati dall’autore alla rivista di metodologia scientifica progettata con Ludovico Geymonat nel 194247. Questa, oltre a note di varietà, rassegne e recensioni, avrebbe infatti dovuto ospitare una sezione dedicata ad «Articoli e saggi», fra i cui titoli Colorni indica per l’appunto Geometria ed esperienza e Assiomatica delle leggi della meccanica. Il testo intitolato II: Relatività generale è, come mostrato dalla numerazione romana, il secondo paragrafo di Sull’assiomatica della teoria della relatività (anch’esso menzionato nel Progetto di una rivista di metodologia scientifica), il quale comincia proprio con l’indicazione di un paragrafo (I) La relatività ristretta. Tutti e tre i testi fanno riferimento al discorso intorno all’idea di esperienza che per Colorni discende dalla scoperta del carattere relativo delle categorie: «la coscienza che abbiamo acquistato della nostra possibilità di modificare [i] dati elementari»48 della conoscenza, infatti, costringe secondo Colorni sia a riformare i concetti di a priori e di a posteriori, sia a rivedere coerentemente la nozione di esperienza. «A priori», spiega così Colorni, «non significa più della ragione. A posteriori non significa più dei sensi. Sia i dati della ragione, sia i dati dei sensi, ap43 Lettere rispettivamente del 28 e del 29 gennaio 1947; quest’ultima è scritta di seguito all’epistola del giorno precedente, sul medesimo foglio. Il 17 gennaio 1947, Vaccarino aveva informato Somenzi del suo scritto sulla metaconoscenza, col quale confronta qui gli scritti colorniani: «Avevo preparato uno scritto sui rapporti tra la conoscenza e la religione, il quale in definitiva risultò troppo lungo ed infarcito di considerazioni metagnosologiche. Ho pensato perciò che è meglio direttamente attaccare la questione della metaconoscenza». Tutte le lettere sono in FS, sez. 5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza scientifica, 1942-2003 gen. 28, 135, Vaccarino Giuseppe, 1946-1948. Il “fisico ribelle” è probabilmente il Fisico che Colorni inserisce quale interlocutore (appunto: quasi come dialogo nel dialogo) in Del finalismo nelle scienze, e che nella stampa definitiva su «Sigma» non viene poi effettivamente sostituito dal Curiosus interlocutore di Dell’antropomorfismo nelle scienze. 44 Cfr. supra, § 1, n. 9. Il testo comprende parzialmente anche: Sul concetto di esperienza e Intorno al principio di identità.  Cfr. infra, la Nota del curatore. 47 Cfr. supra, § 1 e la n. 20. 48 E. Colorni, Filosofia e scienza, p. 241. Geri Cerchiai 14 paiono come elementi in cui il fattore soggettivo e quello oggettivo si presentano mescolati, ma di cui è in nostro potere, mediante un procedimento logico e psicologico insieme, modificare la struttura»49 . L’esperienza, a sua volta, «anziché rivelare leggi naturali», dovrà suggerire, secondo le contingenti necessità degli studiosi, «determinate forme di definizione e di misura»50, utili a proseguire nel lavoro di ricerca scientifica51 . Siamo qui di fronte a quel progetto di “liberazione” della fisica «dalle premesse realistiche-finalistiche» che deve per Colorni rappresentare non solo «uno degli scopi essenziali della rivista»52, ma anche il fine ultimo della sua stessa critica epistemologica. Di tale progetto il più lungo e strutturato Programma contribuisce a tracciare ulteriormente i contorni teorici. Il nucleo dello scritto ruota intorno alla considerazione secondo la quale la «filosofia odierna dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine. Criteri che, ormai ciò è chiaro a tutti, trasformano radicalmente la realtà, operando una scelta che ci fa scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato». La constatazione del carattere condizionato della realtà diviene in tal modo, e nuovamente, il punto di partenza – tutto kantiano – della metodologia di Colorni. Il criticismo trascendentale, aggiunge però l’autore, «ha messo tutti sul chi vive», sì che «la curiosità di vedere al di là del “velo di Maja” delle categorie si è fatta sempre più intensa»; sarà tuttavia soltanto la capacità della conoscenza scientifica di disubbidire all’«ammonimento di Kant» per trascurare «i limiti» da questo imposti che consentirà, ancora una volta, di compiere il secondo, decisivo passo lungo la strada già intrapresa dalla Critica della ragione pura: «La domanda da porsi», chiarisce Colorni in un passo cruciale di Critica filosofica e fisica teorica, Non [è]: “È il mondo del nostro pensiero, o non è, quello reale?”; bensì: “Come potrebbe essere conformato un mondo di pensiero diverso dal nostro?”. La prima domanda parte da quella esigenza di sicurezza e stabilità che è sempre collegata col pensiero del reale [e che appartiene all’atteggiamento filosofico]. La risposta che essa cerca è una risposta che assicuri tale sicurezza e stabilità in un modo qualsiasi; nel reale, o in qualche cosa che lo sostituisca. La seconda domanda [propria dell’atteggiamento scientifico] muove invece da una esigenza di novità […]. Si tratta qui del secondo passo della rivoluzione copernicana. Il primo era consistito nell’accorgersi che le leggi della realtà non sono che forme del nostro intelletto. Il secondo consiste nel domandarsi se queste forme siano proprio necessarie ed immutabili e irresolubili. Anzi, non 49 Ibid. A priori diviene perciò il «nostro potere di modificazione che si riferisce sia agli oggetti della nostra ragione, sia a quelli dei nostri sensi. Mentre poi «la geometria definisce gli oggetti su cui opera mediante i suoi assiomi, la fisica definisce quei medesimi oggetti mediante definizioni reali, cioè facendoli corrispondere a determinati fenomeni naturali. Mentre dunque la prima gode di una completa libertà nella scelta degli assiomi, la seconda è legata alle conseguenze implicite nella scelta di quelle particolari definizioni; libera però di mutare le definizioni, qualora le conseguenze non la soddisfacessero. E. Colorni, Sul concetto di esperienza, p. 251. Cinque scritti metodologici di Eugenio Colorni 15 nel domandarsi se siano irresolubili (domanda che presuppone l’uso di quelle forme stesse) ma nel tentare senz’altro di scioglierle53 . In tal modo, spiega Colorni al termine di Programma, è la conoscenza scientifica a raggiungere quell’“al di là” che alla prospettiva kantiana era negato, ma l’“al di là” al quale essa perviene «non è una negazione del “di qua”, non è un assoluto privo di categoria. È un mondo di nuove categorie», un mondo al quale si viene portati, in primo luogo, dalla consapevolezza che la «legge essenziale della natura è la ragione, e la ragione è pure la legge essenziale del mondo esterno, in quanto l’uomo non fa che proiettare fuori di sé l’essenza della propria natura»54 . L’ultimo testo qui trascritto, Commodo a Ritroso, appartiene ad un gruppo di dialoghi, noto come Dialoghi di Commodo, stesi a più mani durante il periodo del confino a Ventotene55. Commodo, come ha spiegato la moglie Ursula Hirschmann in occasione dei primi tentativi di pubblicazione integrale dei frammenti colorniani, è lo stesso Colorni; Ritroso è Ernesto Rossi56 . Lo scritto prende spunto da argomenti economici per chiarire alcune questioni che, venendo a teorizzare una sorta di “dilettantismo metodologico”, rendono conto della stessa natura dell’indagine colorniana. L’«appartenenza professionale», dice Colorni all’amico Ritroso/Rossi in uno dei dialoghi già 53 E. Colorni, Critica filosofica e fisica teorica, pp. 227-228. 54 Ivi, p. 234. 55 Racconta Altiero Spinelli nella sua autobiografia, ben descrivendo non solo la genesi dei Dialoghi di Commodo, ma anche l’atteggiamento di Colorni nelle discussioni: «Parlavamo ogni giorno delle cose più varie, di politica, di geometria non euclidea, di nostri compagni di confino, delle nostre letture, delle nostre storie personali, dei grandi della storia, ma sentivo che [Eugenio] stava sempre attento a scoprire un qualche mio coperto punto malato, che egli avrebbe messo in luce, curato e guarito – poiché la vocazione del guaritore d’anime l’aveva proprio nel sangue […]. Mi affascinava la precisione quasi infallibile con la quale scopriva il punto errato di un ragionamento, il punto equivoco di un atteggiamento, il momento retorico di un’espressione […]. Talvolta uno di noi, ripensando la sera alle parole scambiate durante il giorno, le proseguiva scrivendo un dialogo nel quale diceva la sua e immaginava quel che l’altro avrebbe risposto. Talvolta il dialogo aveva un seguito, scritto dall’altro, prima di terminare a voce» (A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, Il Bologna, Mulino, 1988, pp. 299-300). 56 Gli pseudonimi principali utilizzati negli altri dialoghi sono i seguenti: Severo è Altiero Spinelli, Manlio Rossi-Doria è Modesto, Ursula Hirschmann è Ulpia. Così scriveva Ferruccio Rossi-Landi alla Hirschmann. Penso che  i tempi stiano maturando per un’edizione in volume degli scritti lasciati da Colorni: come sono maturati, dopo tanti decenni, per la ripresentazione ai lettori italiani di quelli di Giovanni Vailati, che fu studioso per tanti versi affine ad Eugenio e che, rimasto quasi sepolto fin da prima della Prima Guerra Mondiale, ricomparirà ora presso Laterza e presso Einaudi su mia iniziativa». RossiLandi faceva poi riferimento alle pubblicazioni di «Analisi» e «Sigma». Ho potuto prendere visione della corrispondenza relativa ai diversi tentativi di pubblicazione degli scritti filosofici di Colorni (prima presso l’editore Laterza e poi per la Feltrinelli) grazie alla cortesia di Renata Colorni, che ancora conserva una parte del carteggio e che qui debbo ringraziare per la sua disponibilità. 57 Esso va dunque letto insieme a Dello psicologismo in economia, pubblicato nella ed. Einaudi alle pp. 322-342. Per una più precisa contestualizzazione dei frammenti economici colorniani cfr infra, la Nota del curatore.  Geri Cerchiai 16 pubblicati da «Sigma» nell’immediato dopoguerra, «comporta un legame così stretto con la scienza e un interesse così diretto ai vari problemi particolari in cui la ricerca si articola momento per momento, che è difficile avere la possibilità di riprendere in esame i problemi iniziali e i principi fondamentali da cui si è partiti»58; proprio per questo, secondo Colorni, i «dilettanti e gli outsider», sono forse maggiormente in grado, attraverso l’esercizio di un «tranquillo, pacato, spregiudicato esame dei punti di partenza e delle definizioni iniziali»59, di «sconvolgere dalle fondamenta tutto l’edificio del proprio sapere»60. Certo, dovendo rispondere all’accusa di «presumere di rivedere i principî di tutte le scienze, senza averle mai praticate»61, lo stesso Colorni – che alla scienza è giunto passando per la filosofia62 – parla in qualche modo pro domo sua. E tuttavia, egli va anche a puntualizzare, in tal modo, il «carattere pragmatistico»63 del proprio pensiero, il quale deve giocoforza confrontarsi con le più differenti discipline scientifiche. In Commodo a Ritroso, Colorni riprende questi medesimi argomenti, insistendo però con maggior vigore su quello spirito d’indipendenza – indispensabile ad un proficuo sviluppo dell’opera scientifica e filosofica – il cui significato teorico è già stato indagato in Programma. Scrive Colorni: «Anziché accostarmi a grossi trattati con fare accogliente e passivo […], io parto con la lancia in resta, pieno di idee sbagliate e confuse, sfondando porte aperte ad ogni passo […], desideroso di scontri e di battaglie». Emerge qui, accanto alla consapevolezza di un metodo teorico ormai chiaramente precisato, una componente particolare del carattere del giovane filosofo: quella irrequietezza, ironicamente descritta ne La malattia filosofica, che contribuisce a rendere conto della stessa, febbrile attività politica colorniana. Essa rivela una vivacità intellettuale che si mostrò sempre incapace di fermarsi ai risultati volta per volta raggiunti e che, trascorrendo dai primi studi storico-filosofici a quelli metodologici degli ultimi anni, viene a costituire l’anima, per così dire, anche dei dattiloscritti colorniani conservati nel Fondo Somenzi. 58 E. Colorni, Dell’antropomorfismo nelle scienze. Com’è noto, e a dispetto della sua formazione umanistica (lit. hum.), Colorni si cimenta direttamente nella ricerca fisica, con particolare attenzione alla teoria della relatività. Cfr. nello specifico i titoli seguenti: Unités de misure et relativité; Le trasformazioni di Lorentz come caso particolare e Deduzione del campo elettromagnetico di una carica in movimento rettilineo e uniforme. 63 E. Colorni, Dell’antropomorfismo nelle scienze. Nota del curatore I testi di Colorni in FS – tutti dattiloscritti – sono per lo più approntati per la composizione a stampa, spesso con indicazione del corpo e della impaginazione da utilizzarsi. Alcune correzioni e integrazioni, la segnalazione «a penna» talvolta riferita ai titoli o alla firma, i commenti a margine sulla opportunità o meno della pubblicazione, fanno supporre che ci si trovi per lo più di fronte a trascrizioni battute a macchina dagli originali. Salvo che dove diversamente segnalato (come ad esempio – per i motivi lì esposti a pié di pagina – in Programma), ci si è generalmente attenuti al criterio di integrare le eventuali sviste od errori ortografici direttamente nel testo, senza ulteriore indicazione. Ugualmente ci si è comportati per le correzioni e gli interventi a penna o a macchina. Il dattiloscritto di Programma presente in FS conserva la conclusione, che risulta invece assente nelle precedenti edizioni in volume. Oltre ai titoli qui riportati, e a quanto si dirà qui appresso, in FS sono conservati anche i testi seguenti: Il bisogno dell’unità; Sul complesso di Edipo; I primitivi e le categorie dello spirito; Filosofi a congresso; Sul concetto di esperienza; Costanti universali e unità di misura; Sull’assiomatica della teoria della relatività. I. Relatività ristretta, tutti già raccolti nelle diverse edizioni dei frammenti colorniani. A partire da Sul concetto di esperienza, le pagine sono numerate, a mano o a macchina, in sequenza, sì da creare un complesso unico comprendente anche: II. Relatività generale (da inserirsi dopo Relatività ristretta), e di seguito: Sull’assiomatica delle leggi della meccanica e Geometria ed esperienza. In FS sono inoltre presenti due ulteriori scritti di argomento economico: Batti, ma ascolta! e Ritroso a Commodo: meno compiuti degli altri, essi saranno da me trascritti in un volume di prossima uscita. Già nella nota introduttiva a Dello psicologismo in economia, pubblicato nella edizione Einaudi alle pp. 322-342, si ricostruiva, anche grazie agli elenchi dei titoli stesi da Ursula Hirschmann per Ferruccio Rossi-Landi, la genesi degli scritti economici colorniani, che qui ci si limiterà dunque ad integrare con quanto emerge dai titoli presenti in FS. Dello psicologismo in economia risulta composto da tre blocchi. Il primo, intitolato È possibile costruire una scienza economica indipendente da premesse psicologiche e sociologiche?, è citato anche nel Progetto di una rivista di metodologia scientifica fra i possibili «Articoli e saggi», e prosegue dall’inizio del dialogo fino al terzo capoverso: «[…] sarebbe una differenza di grado e non di natura. Del secondo (Robbins considera), che comincia subito dopo il primo e termina in ivi, E m’invita a prendere tutto l’argomento non troppo sul serio»), è conservato in FS il solo ultimo foglio, del quale così scriveva Silvio Ceccato a Somenzi il 5 febbraio del 1943: «Ho guardato fra le carte di Colorni. Spaiato trovo un foglio, numero 5, che mi sembra appartenere al dialogo fra Commodo e Severo [che in effetti è l’interlocutore di quella parte del dialogo]. Se vuoi te lo mando, o lo do a Vaccarino. Altro non c’è, mi sembra, che possa interessarti. Stampa pure. Quando hai ben deciso, fammelo però sapere, che, per cortesia, ne avvisi la sorella» (FS, sez. 3, Attività professionale, 1929-2003, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5, Riviste, enciclopedie e progetti editoriali, 1, Sigma Analysis, b. 5, Analysis Methodos (Ceccato). Il terzo blocco, Vedo che riprendi (cfr. E. Colorni, Dello psicologismo in economia), rappresenta il nucleo centrale e la con- Geri Cerchiai 18 clusione del dialogo. Per quanto riguarda i titoli di FS: Ritroso a Commodo – come si evince dai numerosi riferimenti a Vedo che riprendi – prosegue il dialogo già iniziato in quest’ultima parte di Dello psicologismo in economia; Commodo a ritroso è la risposta a Vedo che riprendi; Batti ma ascolta è l’«accluso foglietto» menzionato in Commodo a Ritroso. Le note in calce ai testi sono tutte del curatore. Desidero Ringraziare Giovanni Battimelli, Responsabile del Fondo Vittorio Somenzi, e Maria Luisa Libutti, Direttrice della Biblioteca del Dipartimento di Fisica (“Sapienza” Università di Roma), per la disponibilità e cortesia che mi hanno dimostrato durante la consultazione dell’Archivio. G. C. Cinque scritti metodologici 19 II. Relatività generale1 Se vogliamo estendere quanto si è detto per la relatività ristretta3 al caso di sistemi in movimento qualsiasi4 , il problema della relatività generale diverrà quello di determinare le misure spazio-temporali per un osservatore in movimento qualsiasi rispetto ad un sistema inerziale nel quale valga la geometria euclidea. La determinazione di tali misure sarà fatta di nuovo assumendo come fissa la distanza fra due punti5 , e come costante la velocità della luce. In linea generale risulterà che la geometria tridimensionale del sistema in questione non sarà euclidea. Viceversa dovrebbe essere dimostrabile che se le misure assunte da un osservatore col metodo di cui sopra, danno luogo ad una geometria non euclidea, si potrà sempre trovare un sistema i cui punti siano mossi rispetto all’osservatore in questione in modo tale che la sua geometria sia euclidea. In tale sistema non vi sarà alcun campo gravitazionale. Una tale impostazione del problema differisce un poco da quella classica della relatività generale. Non si tratta qui di trovare una formulazione delle leggi di natura che sia invariante rispetto a trasformazioni qualsiasi, e quindi di attribuire ad ogni sistema la geometria richiesta dal campo gravitazionale in esso vigente, ma piuttosto di trovare le trasformazioni che permettono di passare da un sistema ad un altro qualsiasi6 , avendo assunte per tutti i sistemi determinate convenzioni7 riguardo alle misure spazio-temporali; e questo senza fare alcuna ipotesi riguardo alla forma delle leggi naturali. 1 FS, sez. 3, Attività professionale, 1929-2003, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5, Riviste, enciclopedie e progetti editoriali, Sigma Analysis, b. 6, Articoli, Il titolo è cancellato nel dattiloscritto, così come è barrata la numerazione “5” (a penna) della pagina, numerazione che, insieme con quella romana, segnava il foglio come seguito di E. Colorni, Sull’assiomatica della teoria della relatività. I. Relatività ristretta (cfr. la Nota del curatore), del quale lo scritto è il secondo paragrafo. 2 All’inizio del dattiloscritto sono inserite a penna delle virgolette basse (chiuse al termine del terzo capoverso), che spiegano l’intervento del quale si rende conto infra, n. 4. 3 Il riferimento è a Sull’assiomatica della teoria della relatività, che infatti è numerato: La relatività ristretta. A penna è stato qui aggiunto: «prosegue Colorni». 5 Cfr. E. Colorni, Sull’assiomatica della teoria della relatività. Anziché assumere come unità di misura fondamentali una lunghezza […] o un intervallo di tempo […] per poi dedurne le altre grandezze cinematiche […], si potrebbe assumere come unità primitive la distanza fra due punti dati e la velocità di propagazione di un dato fenomeno». 6 Si tratta qui precisamente dell’idea di revisione del concetto di esperienza in relazione a quello di definizione che costituisce uno dei nuclei del programma metodologico colorniano. 7 Sono molti i riferimenti di Colorni al carattere convenzionale della scienza e delle sue definizioni. Riporto, per il suo carattere “generale”, quanto affermato nella Postilla al programma della rivista di metodologia scientifica (in M. Quaranta, La “scoperta” di Eugenio Colorni, cit., p. 130): «Si tratta, in breve, di partire da una concezione “convenzionalistica” o “idoenistica” della scienza; non limitandola però, come fa in sostanza la scuola di Vienna o anche il Gonseth, alla interpretazione filosofica dei fatti scientifici; applicandola invece ai concetti basilari su cui poggia l’edificio della scienza, e mostrando come un chiarimento rigoroso delle ipotesi che sono implicite nell’assunzione di tali concetti possa trasformare effettivamente e rendere più chiare molte formulazioni scientifiche, e forse risolvere alcuni dei problemi più scottanti della scienza moderna». Eugenio Colorni 20 Formulando in questo modo il problema, si giungerebbe probabilmente alle medesime conclusioni della relatività generale riguardo alla gravitazione; ma la nuova impostazione permetterebbe forse di aggredire in maniera diversa da quella consueta altri problemi (in particolare quello dell’elettromagnetismo). Non si tratterebbe più in questo caso di formulare le leggi del campo elettromagnetico in forma invariante rispetto a trasformazioni qualsiasi, ma di rendersi ragione della loro struttura, studiando sistematicamente il comportamento di cariche in movimento, mediante “Transformation auf Ruhe”. Questo saggio si riferisce a studi ancora in corso e ben lungi dalla conclusione8 ). 8 L’ultimo capoverso è barrato a penna nel dattiloscritto. L’inciso fra parentesi riprende quello analogo – non riportato nelle edizioni dei testi colorniani, ma presente nei dattiloscritti di FS – posto al termine di Sull’assiomatica della teoria della relatività. I.- Relatività ristretta, il quale recita nel modo seguente: «Questo saggio si riferisce ad un lavoro già terminato, in cui lo sviluppo qui descritto viene eseguito» (FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 1929-2000, 2, Scatole grigie 1942-2000, 1, Eugenio Colorni e Italo Cotone, b. 3, Colorni, 1945-1993). Sull’assiomatica delle leggi della meccanica. Il principio d’inerzia è notoriamente una definizione camuffata. Esso definisce come non soggetto ad alcuna forza il corpo dotato di movimento uniforme; quindi come soggetto ad una forza il corpo dotato di movimento non uniforme. È possibile considerare i principi della conservazione della quantità di movimento e dell’energia come delle estensioni del principio d’inerzia, cioè anch’essi come delle implicite definizioni della forza? Crediamo di sì. Consideriamo infatti un sistema di due corpi. Diremo che il sistema non è stato sottoposto all’azione di alcuna forza, non solo quando i due corpi proseguono nel loro moto rettilineo ed uniforme, ma anche quando hanno modificato tale loro moto dopo essersi urtati. Ciò che dovrà essere rimasto immutato nel sistema non sarà dunque più il moto dei due corpi, ma una funzione di tale moto; funzione che si tratta di determinare, ponendole delle condizioni derivanti da esigenze plausibili. Anzitutto si può richiedere che il mutamento provocato dall’urto nello stato di moto di uno dei due corpi sia misurato dal mutamento provocato dal medesimo urto nell’altro corpo: cioè che ciò che rimane costante nel sistema sia la somma delle funzioni in questione riferite a ciascun corpo. Individuato poi ciascun corpo mediante una costante caratteristica di esso (la sua “massa”), si può richiedere che il cambiamento provocato in un corpo successivamente da due altri corpi di uguale massa e uguale velocità, sia identico al cambiamento provocato da un corpo di massa doppia e di uguale velocità: il che equivale a dire che la nostra funzione dovrà essere della forma mf(v). Si potrà poi osservare che la funzione in questione deve poter esprimere sia un mutamento nel valore assoluto della velocità di ciascun corpo, sia un mutamento nella sola direzione: le funzioni in questione devono cioè essere due, l’una vettoriale, l’altra scalare. Infine si osserverà che, poiché due corpi in movimento uniforme rispetto ad un sistema inerziale lo sono pure rispetto a qualsiasi altro sistema inerziale, la costanza delle nostre funzioni deve essere invariante rispetto a trasformazioni di Lorentz. Tutte queste condizioni limitano la scelta delle nostre funzioni in modo da determinarle univocamente; e ne risultano le espressioni relativistiche della quantità di movimento e dell’energia. Ciò è stato mostrato da Langevin2 , il quale parte però da premesse un po’ diverse. Gli sviluppi precedenti possono avere un’importanza per il seguente motivo: la teoria della relatività giunge alle sue espressioni dell’energia e della quantità di movimento, partendo dalle equazioni di Maxwell, che suppone assicurate dall’esperienza. Ma il controllo sperimentale di tali equazioni suppone che si 1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 1929- 2000, 2, Scatole grigie, 1, Eugenio Colorni e Italo Cotone, Nel dattiloscritto, le pagine riportano la numerazione, a penna in rosso, da 6 a 7 (cfr. supra, II. Relatività generale, n. 1, e la Nota del curatore). Langevin e un fisico francese che, non diversamente da Eddington – altro autore colorniano e griceiano – fu abile divulgatore scientifico. disponga di una definizione dell’energia e della quantità di moto. Inoltre, quando si siano definiti i principi fondamentali della meccanica indipendentemente dall’elettromagnetismo, rimane aperta la possibilità di dedurre le leggi stesse dell’elettromagnetismo servendosi di alcuni risultati della relatività, e raggiungendo così una più profonda comprensione di quelle leggi. (Anche questo articolo si riferisce a studi in corso, di cui la prima parte, riguardante la relatività ristretta e l’elettromagnetismo, è terminata; ma avrebbe carattere troppo tecnico per la rivista4 .) 3 Assente nel testo. 4 Per un’analisi degli scritti colorniani sulla teoria della relatività, si rinvia a M. Quaranta, La “scoperta” di Eugenio Colorni. Colorni sulla teoria della relatività, pp. 122-130. Per l’inciso fra parentesi, cfr. supra, II. Relatività generale. La rivista è la progettata rivista di metodologia scientifica, sulla quale si rimanda ancora a quanto scritto supra, § 3. Cinque scritti metodologici 23 Geometria ed esperienza1 Gli assiomi della geometria sono delle definizioni implicite, o meglio rappresentano delle limitazioni imposte alla nostra libertà di definire gli oggetti ai quali essi si riferiscono. Tali oggetti però possono essere di due tipi: o sono tali che per ottenerne una rappresentazione concreta è necessario immaginarli realizzati da un fenomeno fisico (p. es. la linea retta realizzata dalla traiettoria di un raggio luminoso nel vuoto); in tal caso la definizione implicita negli assiomi è una definizione “reale” (Zuordnungsdefinition2 ), e gli assiomi limitano il numero degli oggetti o dei fenomeni che possono essere assunti per realizzare fisicamente quel determinato ente geometrico. Oppure l’ente geometrico in questione è tale da poter essere definito mediante un’opportuna combinazione di altri enti precedentemente definiti (p. es. l’angolo uguale ad un angolo dato può essere definito senza ricorrere ad alcuna sovrapposizione, quando sia stata definita precedentemente la distanza fra due punti); e allora gli assiomi limitano il numero degli accorgimenti che noi possiamo usare per definire quel determinato ente geometrico. Agli scopi della costruzione fisica di un sistema galileiano, è opportuno distinguere questi due tipi di definizione; e può essere utile studiare da questo punto di vista le “Grundlagen” di Hilbert3 . Non è detto che si possa sempre trovare un insieme di fenomeni fisici capaci di realizzare contemporaneamente tutti gli assiomi di una geometria. Per esempio, se si vuol realizzare la geometria mediante raggi luminosi assunti co1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 2, Scatole grigie,1, Eugenio Colorni e Italo Cotone, b. 3, Colorni, 1945-1993. Numerato a penna 8 (cfr. supra, II. Relatività generale, n. 1, e Nota del curatore). Il titolo è anch’esso sottolineato a penna con l’indicazione: a mano. A margine, scritto a matita in rosso e cancellato, alcune segnalazioni per il tipografo: «Corpo 10/10 tondo // Giustezza 27». Scrive Colorni in Filosofia e scienza. Ora, mentre la geometria definisce implicitamente gli oggetti di cui tratta, mediante gli assiomi, la fisica li definisce direttamente, mediante definizioni reali (Zuordnungsdefinitionen). Con queste parole, Colorni richiama il concetto reichenbachiano di Zuordnungsdefinition, per cui cfr. H. Reichenbach, Axiomatik der Raum-Zeit-Lehre, Braunschweig, Vieweg & Sohn Akt.-Ges., 1924; Id., Philosophie der Raum-Zeit-Lehre, Berlin- Leipzig, W. de Gruyter & Co. In una lettera firmata da Hirschmann (ma in realtà scritta da Colorni) e indirizzata a Geymonat per il tramite della moglie Virginia, l’autore afferma di possedere il primo dei due titoli, e a questo rinvia per la comprensione del proprio pensiero. Noi abbiamo qui l’importante saggio di Reichenbach, “Axiomatik der relativistischen Raum-Zeit-Lehre”, che mette le cose da un punto di vista molto affine a quello che Eugenio vorrebbe sviluppare. La lettera, conservata nel Fondo Geymonat presso la Biblioteca del Museo civico di storia naturale di Milano, è citata da M. Quaranta (La scoperta di Eugenio Colorni), il quale commenta: «Ora, se è rintracciabile in Kant una nozione rigida dell’a priori, letture kantiane sviluppate in quegli anni da Ernst Cassirer e Hans Reichenbach, in Italia da Giulio Preti, vanno nella direzione di accogliere la fecondità del “metodo trascendentale”; le indagini epistemologiche di Colorni si inseriscono in questa linea di ricerca. Questo capoverso, da Agli scopi fino a Hilbert, è cancellato a penna nel testo dattiloscritto. Il riferimento è ai Grundlagen der Geometrie (Fondamenti della geometria) di Hilbert. me rettilinei e di velocità di propagazione uniforme, non è detto che risulti verificato l’assioma di Euclide; e questo assioma, se è verificato per il sistema costruito da un determinato osservatore, necessariamente non è verificato per il sistema costruito da un altro osservatore, dotato rispetto al primo di movimento non uniforme. Cinque scritti metodologici Programma1 Supponiamo che l’uomo viva in un palazzo le cui porte sono tutte chiuse. Egli non ha le chiavi. Cioè egli ne possiede un mazzetto, ma non sa se esse si adattino alla serratura, né quale chiave a quale serratura. Prova, riprova, si costruisce nuove chiavi nella continua speranza di potere un giorno abitare tutto il palazzo. Lo scienziato è un uomo al quale è riuscito di aprire una porta. Una chiave, per sua fortuna, o per sua abilità, ha girato nella toppa. Egli apre, e trova nella camera immensi tesori, li utilizza3 , li mette a disposizione degli altri uomini che lo ringraziano ammirati. Da quel momento4 la camera è accessibile a tutti. Entusiasmato, lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di grandezza. Vorrebbe aprire tutte le porte5 . La chiave comincia a diventare uno strumento pericoloso nelle sue mani. Egli la vuole usare dappertutto. Il risultato è che sfonda le serrature. Ci vorrà6 poi una gran fatica per accomodarle e per trovare o costruire una nuova chiave che permetta di aprirle (Fuor di metafora: p. es. la medicina è stata rovinata per secoli dall’ossessione del metodo meccanicistico, che aveva fatto meraviglie nel campo della fisica. E si è voluto risolvere tutto a base di anatomia, di rapporti e di modificazioni di tessuti. Nella maggioranza dei casi non si è cavato un ragno dal buco). Il filosofo, invece, cosa fa? Egli non ha avuto la fortuna o l’abilità di aprire una porta, ma anche lui è preso dall’ossessione di aprirle tutte. Con la chiave9 dello scienziato o con un’altra di sua fattura. La sua ossessione è forte, meno pericolosa10 che quella dello scien1 FS, sez. 3, Attività professionale, 1929-2003, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 1929- 2000, 2, Scatole grigie, 1, Eugenio Colorni e Italo Cotone, b. 3, Colorni. Nel dattiloscritto un primo titolo, barrato, recita come segue: «SCIENZA E MATERIALISMO // È un caso che tutti gli scienziati tendano ad essere materialisti? // PROGRAMMA». A margine, scritto a penna, il titolo è fissato così: «SCIENZA E REALISMO». Un asterisco rimanda alla seguente nota manoscritta: «(V[edi]. l’“Apologo su quattro modi di filosofare”, altro inedito di Colorni, in Sigma. Sempre a margine, si ha l’indicazione di stampa, a penna: «Corpo 10 tondo 11 // giustezza – 10 su 12. Poiché lo scritto si discosta spesso – nella forma, mai nella sostanza – dalle precedenti edizioni (nelle quali esso risulta per altro incompiuto), è parso utile indicare in nota le differenze fra le diverse versioni. Per questo stesso motivo ho talvolta esplicitato le correzioni e gli interventi sul dattiloscritto. La sigla FS rimanda al testo presente fra le carte di Somenzi; la sigla E a quello dell’edizione Einaudi. Benché sia barrato, e per consentire una più chiara identificazione, si è preferito mantenere il titolo Programma. 2 per sua fortuna, o per sua abilità FS : per sua fortuna o per sua abilità E. 3 immensi tesori, li utilizza FS : immensi tesori. Li utilizza Di seguito nel testo di E. 5 lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di grandezza. Vorrebbe aprire tutte le porte FS : lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte E. 6 le serrature. Ci vorrà FS : le serrature, ma ci vorrà E. 7 di aprirle (Fuor di metafora FS : di aprirle. (Fuor di metafora E 8 Il filosofo, invece, FS : Il filosofo invece, E aprirle tutte. Con la chiave FS : aprirla con la chiave E. 10 è forte, meno pericolosa FS : è forse meno pericolosa E. Eugenio Colorni ziato, ma più intensa. Per lo scienziato essa è necessaria accessoria11. Il massimo sforzo è già stato compiuto12 nel trovare la chiave. Il tentativo di allargamento è spesso solo abbozzato. Il filosofo, invece, è tutto fatto di questo bisogno. Egli è abbastanza accorto per avvedersi che il correre da una parte13 all’altra con la medesima chiave si risolve in un danno e in un disordine. Egli vuole soddisfare alla sua esigenza in un modo sistematico, che non lasci residui. La sua ossessione è che il palazzo sia completamente abitabile, aperto in tutte le camere, dai saloni ai ripostigli. Che cosa fa per soddisfarsi? Si costruisce un palazzo a suo uso e consumo, simile il più possibile a quello vero, in cui tutte le serrature siano apribili con una sola chiave, o con le varie chiavi che ha a sua disposizione. Lì si rinchiude; lì15 gli sembra di vivere tranquillo. Ma il palazzo è di cartapesta. In poco tempo crolla. Le camere sono identiche a quelle dell’altro palazzo, ma sono vuote. Il poterle aprire non dà all’uomo maggior ricchezza e maggior17 potenza. A volte avviene che nel lavoro di costruire, al filosofo venga fatto di scoprire o inventare una chiave nuova, che gli altri uomini possono usare, e provare nelle varie serrature. In questo caso egli sarà ammirato e studiato solo per questa invenzione fortuita o strumentale, che nelle sue intenzioni non doveva essere che un dettaglio del grande edificio. E il grande edificio scompare. Dopo un secolo nessuno ci crede più, nessuno può più abitarvi dentro. Lo si considera come un bel rudero, come l’interessante documento di un’epoca; lo si apprezza per un certo impulso che indirettamente, nei coi suoi contorni, ha dato alle lotte e alle ricerche dell’umanità. Gli storici, gli esegeti, cominciano a scuoterlo per vedere se, non potendosene più servire in blocco, non si trovi del buono fra il materiale della costruzione. E cominciano a distinguere “ciò che è vivo e ciò che è morto” e a manipolare il sistema ai propri fini. Ne risulta che ogni pensatore viene, di regola, apprezzato dai posteri per motivi che egli non avrebbe immaginato e che sono estranei alle sue intenzioni fondamentali. Quello che egli aveva creduto il suo vero apporto alla cultura e alla civiltà viene considerato inutile. Il dispendio di energie è enorme. Vediamo gli uomini più intelligenti dell’umanità dirigere tutti i loro sforzi per raggiungere mete che andranno poi completamente perdute; e 11 necessaria accessoria. FS : accessoria, sopraggiunta. E.  già stato compiuto FS : già compiuto E.  parte FS : porta E. 14 sola chiave, o con FS : sola chiave o con E. 15 Lì si rinchiude; lì FS : Là si rinchiude, là E. 16 di cartapesta. In poco tempo crolla. Le FS : di cartapesta, non di mattoni veri. In poco tempo crolla, si disfa. Le E. 17 ricchezza e maggior FS : ricchezza o maggior E. scoprire o inventare FS : trovare E. 19 possono usare, e provare nelle varie FS : possono usare nelle varie E. 20 rudero FS : rudere E. 21 nei coi suoi FS : nei suoi E.  scuoterlo FS : smontarlo E. ogni pensatore viene, di regola, apprezzato FS : ogni pensatore (come spesso anche ogni poeta) viene di regola apprezzato E. 24 immaginato e che FS : immaginato, e che E. Cinque scritti metodologici: 27 siamo costretti a racimolare con fatica alcuni residui del loro lavoro. Nella25 scienza le cose sembrano andar meglio. Siamo per lo meno nel palazzo vero, dove le camere sono piene di ricchezze; e là dove la chiave ha aperto la porta, la potenza dell’umanità ne è stata infinitamente aumentata. Ma se la porta non si apre? Dai Greci al Rinascimento, per duemila anni, gli uomini si sono affaccendati a costruir26 chiavi di tutti i generi e magnifici palazzi di cartapesta. Ma nessuna porta dell’edificio vero si è aperta ai loro sforzi. Da Galilei e Bacone27 in poi, alcune sembrano cedere. Una, quella28 del meccanicismo fisico si è addirittura spalancata. Ma quante restano ancora chiuse[!]?29 Quale sarà per esse la chiave giusta? L’abbiamo già in mano o dobbiamo ancora costruircela? E come sfuggire alla continua tentazione di usare per ogni porta quella che ha fatto una volta buona prova, col rischio di rovinare tutto? La filosofia odierna, anziché costruire bei palazzi di cartapesta, dovrebbe proporsi il compito di affacciarsi a questi problemi, e tentare di mettere un certo ordine, allo scopo di evitare sforzi inutili e raggiungere risultati il più possibile concreti. Dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine coi quali noi affrontiamo il reale e cerchiamo di renderlo utile ai nostri usi. Criteri che, ormai ciò è chiaro a tutti, trasformano31 radicalmente la realtà, operando una scelta che ci fa scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato. Ciò che noi chiamiamo realtà è evidentemente condizionato non solo dai nostri sensi, ma da tutto l’insieme delle forme, delle categorie, dei criteri associativi e interpretativi senza dei quali non ci è possibile di pensare e di percepire alcunché. Criteri che noi potremo studiare, scomporre, modificare; senza però poter mai uscire dal campo di un’attività del soggetto costitutiva della realtà stessa. Noi34 non possediamo, allo stato attuale delle nostre conoscenze, alcun nesso mezzo per eliminare il sole lato35 soggettivo della nostra nozione della realtà; anzi abbiamo seri elementi per propendere a ritenere che la nozione di una realtà oggettiva, da noi indipendente,36 sia un’ipostasi della nostra mente,37 do25 A capo in E. costruir FS : costruire E. Da Galilei e Bacone FS : Da Galileo a Bacone E. Una, quella FS : Quella E. 29 Chiuse[!]? FS : chiuse! E. 30 d’indagine a penna nel testo FS : ermeneutici E. che, ormai ciò è chiaro a tutti, trasformano FS : che – ormai ciò è chiaro a tutti – trasformano E.  Queste righe, e quelle immediatamente successive, rappresentano una sorta di compendio della filosofia colorniana, ossia del ruolo essenzialmente critico-metodologioco che, muovendo «dalla grande scoperta kantiana» (E. Colorni, Filosofia e scienza, p. 240), essa dovrebbe svolgere. A capo in E.Di seguito in E. alcun nesso mezzo per eliminare il sole lato a mano nel testo FS : alcun mezzo per eliminare il polo E. 36 oggettiva, da noi indipendente, FS : oggettiva da noi indipendente E. 37 mente, FS : mente E. Eugenio Colorni  vuta ad un nostro fondamentale bisogno di contrapporre alcunché a noi stessi, di urtarci contro qualche cosa, di polarizzare il contenuto della nostra coscienza in un passivo ed un attivo. Vedi Fichte (Trascendenza interna)38. Ciò che chiamiamo realtà non è dunque né l’oggetto né il soggetto39, ma alcunché nella costituzione del quale il soggetto, con i suoi criteri e le sue categorie, ha una gran parte e41 che noi, per comodità di studio, consideriamo per un istante come dato di fronte a noi, coscienti che con ciò noi poniamo di fronte a noi qualche cosa cui partecipiamo noi stessi. Ora questo “qualche cosa” gli uomini si sforzano di manipolarlo ai loro usi, di penetrare nella sua costituzione, di prevedere il suo divenire, di costruire in base alle previsioni. A seconda che si accentui il carattere oggettivo o soggettivo di questo lavoro, lo consideriamo un “penetrare nelle leggi della natura” oppure un estrarre dalla natura un certo numero di elementi regolari per usarli a loro vantaggio, un cedere alla natura” o un “farle violenza”, e si chiamano positivisti o pragmatisti. Ma questa distinzione riguarda il significato metafisico dell’attività umana, non la sua conformazione, i suoi procedimenti, il suo fine: che è ciò che c’interessa qui di indagare per contribuire al progresso dell’umanità46. Lo scienziato non conosce concretamente un problema del carattere pratico e teorico47 della sua attività. Egli non si domanda mai, seriamente, se ciò che lo spinge alla ricerca sia il “bisogno di sapere” inteso come fine a sé stesso, o la speranza che gli uomini possano ricavare un utile dalla sua scoperta. Egli si dedicherà secondo la sua attitudine ad un campo più vicino alla ricerca pura o più vicino alle applicazioni. Ma nella sua mente ricerca e applicazione costituiscono un tutto unico di cui solo per comodità di studio e per la necessità della divisione del lavoro egli scinde a volte le parti. La scoperta si considera come la naturale, evidente premessa dell’invenzione:51 l’invenzione come la conseguenza della scoperta. L’antitesi positivismo-pragmatismo non ha senso per lo scienziato, e non moVedi Fichte (Trascendenza interna) FS : (Vedi Fichte, Trascendenza interna) E. Su questo aspetto della metodologia colorniana, si legga quanto affermato da Ferruccio RossiLandi, che rileva fra l’altro, negli scritti colorniani, la presenza di «quel disimpegno dalla visione realistica del mondo […] che è merito della migliore critica idealistica, soprattutto negli sviluppi dell’attualismo» (Sugli scritti di Eugenio Colorni, in «Rivista critica di storia della filosofa né l’oggetto né il soggetto FS : né il soggetto né l’oggetto  il soggetto, a mano nel testo FS : l’uomo parte e FS : parte; e E. A capo in E. un estrarre dalla natura un certo numero di elementi regolari per usarli a loro vantaggio, FS : un “estrarre dalla natura un certo numero di elementi, regolarli per usarli a loro vantaggio”; E. 44 “un cedere FS : un “cedere E. 45 violenza”, e FS : violenza”. E E. 46 per contribuire al progresso dell’umanità FS : per raggiungere risultati utili e teorico FS : o teoretico sé FS : se E. 49 dedicherà secondo la sua attitudine ad FS : dedicherà, secondo le sue attitudini, ad E. Ma nella sua mente ricerca FS : Ma, nella sua mente, ricerca  dell’invenzione: dell’invenzione; E. Cinque scritti metodologici: difica in nulla il suo agire. Lo scienziato lavora insomma su qualche cosa che egli ha di fronte a sé e della quale sono elementi costituenti alcune “forme” e “categorie” che provengono dalla sua mente, incorniciano la realtà e gliela rendono comprensibile e afferrabile. Di queste forme o categorie egli ne considera alcune come appartenenti alla realtà, esistenti assolutamente al di fuori di sé. Quali sono? Sono quelle cui egli si sente necessariamente legato, di cui non può in alcun modo fare a meno, senza le quali gli sarebbe impossibile vedere e pensare. Kant ne ha elencato5 alcune: spazio, tempo, causalità, numero ecc. Egli ha riconosciuto sì che esse vengono imposte alle cose dallo spirito dell’uomo; ma col dare ad esse un carattere necessario ed a priori, ha ammonito gli uomini sulla impossibilità di uscire da esse. Infatti gli uomini comuni, senza preoccuparsi della loro provenienza e accontentandosi del fatto che di quelle categorie non si può fare a meno, le attribuiscono senz’altro alla realtà. Ma l’osservazione di Kant ha messo tutti sul chi vive; e la curiosità di vedere al di là del “velo di Maja” delle categorie si è fatta sempre più intensa. Si può dire che la filosofia si sia scissa a questo proposito in due opposte direzioni, a seconda che l’ammonimento di Kant sia stato seguito o no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati60 hanno continuato a considerare le categorie come reali, e a lavorare in un mondo costruito sulla base di queste categorie, contentandosi a volte di mantenere nello sfondo l’ombra di un inconoscibile (Spencer, positivisti), oppure62 di acquisire coscienza della relatività dei loro sforzi, limitando63 il compito della scienza alla costruzione di ipotesi semplici e maneggevoli (Poincaré, pragmatisti). Su questa via essi hanno continuato ad ottenere un buon numero di successi, proseguendo quell’indagine e quello sfruttamento della natura che era cominciato con Galilei e Newton, e che consisteva nell’uso sistematico di quelle categorie che poi Kant elencò. Ma si ha già da qualche tempo l’impressione che il campo stia per esaurirsi e che non restino da fare in questa direzione se non scoperte particolari di importanza ristretta. I filosofi invece, insofferenti di qualsiasi dualismo o relativismo, e preoccupati di saldare l’unità del reale, preferiscono eliminare la tentazione del52 A capo in A capo in E. 54 impossibile FS : assolutamente impossibile E.  elencato FS : elencate E. spazio FS : Spazio E. numero ecc. FS : numero, ecc. E. A capo in E. filosofico FS : filosofico scientifico E. 60 no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati FS : no. (I) Fra quelli che l’hanno seguito (a) gli scienziati E. categorie, contentandosi FS : categorie; contentandosi  positivisti), oppure FS : positivisti); oppure E. sforzi, limitando FS : sforzi; limitando E. 64 Newton, e FS : Newton e  di FS : , di  I filosofi invece, FS : (b) I filosofi, invece, E. Eugenio Colorni 30 la “cosa in sé” col negarne addirittura l’esistenza; e attribuire realtà assoluta al pensiero nella sua forma universale68. In tal modo essi soddisfecero contemporaneamente all’esigenza Kantiana69 di non uscire dalle leggi del pensiero e al bisogno tipicamente filosofico di risolvere senza residui il problema della realtà; incuranti d’altronde se questo loro sistema li conducesse o no a un qualsiasi risultato apprezzabile che non si limitasse alla soddisfazione del loro bisogno di completezza. Coloro invece71 che “hanno disubbidito” sembrano a tutta prima disprezzare l’ammonimento di Kant e trascurare i limiti da lui posti: ma in realtà sono essi suoi figli molto più che gli ubbidienti. Quel limite, quella barriera appunto li ha eccitati ad andare al di là: ha indicato loro la direzione verso cui rivolgersi Cominciamo74 questa volta dai filosofi. a) - Il filosofo vuol gustare il frutto proibito. Ma egli sa oramai che non potrà mai raggiungerlo con le categorie, con75 le quali Kant gli ha indicato così chiaramente i limiti. Egli abbandona per sempre le illusioni della metafisica e della teologia, cioè i tentativi di afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione; ed76 è alla continua ricerca di un altro strumento che gli permetta di raggiungere il suo scopo. Volontà, fede, intuizione, ispirazione: in una parola l’irrazionale è ciò cui egli si affida. Ad esso egli attribuisce tutte le possibilità che mancano alle categorie della ragione. Con esso egli afferma di poter aprire tutte le porte del palazzo. Ma che garanzie gli dà la nuova chiave? Semplicemente di non essere79 la vecchia. Ogni interpretazione irrazionalistica del mondo, là dove non consista in esplosioni di entusiasmo, è una polemica contro l’impotenza della ragione. Polemica spesso acuta e giusta, ma che non costituisce un motivo bastante per accettare come criterio definitivo tutto ciò che ragione non è. Le80 esplosioni d’entusiasmo81 , invece, sono a volte più interessanti e fruttifere. Esse ci permettono di penetrare, sia pure in modo confuso, nella costituzione interna di queste attività irrazionali; di conoscere un po’ meglio quali siano i loro procedimenti. Ciò che ha paralizzato però tale indagine e non le ha permesso di dare finora se non scar e FS : ed E. Evidente riferimento all’idealismo nei suoi diversi modelli. 69 Kantiana FS : kantiana E. 70 se FS : che E. 71 Coloro invece FS : (2) Coloro, invece, E. disubbidito” FS : disubbidito”, E. appunto FS : appunto, E. 74 Di seguito in E. 75 categorie, con FS : categorie delle E. 76 teologia, cioè i tentativi di afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione; ed FS : teologia – cioè i tentativi di afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione – ed E. 77 parola FS : parola, E. 78 A capo in E.  essere FS : esser E. A capo in E. d’entusiasmo FS : di entusiasmo E. Cinque scritti metodologici: 31 sissimi risultati,82 è che tali attività sono sempre state descritte appunto col presupposto e con l’esigenza di attribuire ad esse un valore assoluto, molto superiore a quello della ragione. Preconcetto il quale ha naturalmente deformato la descrizione ed ha impedito qualsiasi seria indagine sull’uso che di questi atteggiamenti si potrebbe eventualmente fare. Anche qui la fretta di chiudere il circolo e il bisogno filosofico di rinchiudersi in un edificio abitabile in tutte le sue parti ha impedito di compiere qualsiasi vero progresso. E le interpretazioni irrazionalistiche della realtà si sono succedute l’una all’altra senza condurre l’umanità ad alcuna conquista stabile. È questo un fenomeno che si ripete da secoli; ché la constatazione delle insufficienze della ragione e il tentativo di affidarsi ad attività irrazionali non data da Kant, ma è vecchio, si può dire, quanto la nostra civiltà. E la massa di esperienze che si è venuta raccogliendo è83, se non ordinata, pure imponente; e dà l’impressione di una grande miniera inesplorata85 in cui il materiale prezioso è unito con le scorie. Siamo qui ad uno stadio di evoluzione e di sfruttamento molto meno sviluppato che nel campo della ragione. Il materiale della ragione è stato esplorato a fondo, inventariato, ordinato dal pensiero greco e dalla scolastica. Con Galilei e Newton ha trovato il campo cui applicarsi, conducendo ai vastissimi risultati che conosciamo. Kant infine88 ne ha tracciato i limiti segnando insieme (forse un po’ in anticipo) l’esaurirsi della miniera dal89 quale esso traeva ricchezze. Il campo dell’irrazionale probabilmente comprende regioni infinitamente più vaste che quelle della ragione, contenenti materiale dal carattere più eterogeneo, atto agli usi più disparati. Il fatto solo che siamo abituati a classificarlo secondo la rubrica negativa del “non rientrare nella ragione” ci mostra lo stato disordinato delle nostre conoscenze al proposito. Ordinare questo mondo in modo che ci possa servire, analizzarlo con mente tranquilla e senza preconcetti entusiasmi od avversioni, liberarlo dal continuo incubo del confronto con la ragione ed infine tentare se alcuni dei dati così ottenuti ci possono90 servire come criterio per risolvere qualche problema, come chiave per aprire qualche porta: ecco il compito che s’impone oggi alla nostra indagine91 . Va92 da sé che i metodi da usarsi non saranno i medesimi che si sono usati per il mondo razionale: e che l’ordine ottenuto non assomiglierà neppure da lontano a quello che noi conosciamo nel campo logico-matematico. La parola 82 risultati, FS : risultati E. raccogliendo è, FS : raccogliendo, è, E. 84 imponente; FS : imponente: E. 85 inesplorata FS : inesplorata, E. 86 unito FS : misto E. 87 A capo in E. 88 Kant infine FS : Kant, infine, E. dal FS : dalla possono FS : possano Nietzsche», afferma Colorni in Critica filosofica e fisica teorica aveva indicato, con acredine iconoclasta, il cammino. Ci fu chi lo seguì col pacato distacco dell’indagatore, ove il riferimento è chiaramente al metodo psicoanalitico. Di seguito in E. Eugenio Colorni stessa “ordine” non vuole avere qui che un significato analogico. Si tratterà di attingere nel mondo stesso dell’irrazionale per trovare in esso dei punti intorno a cui quella materia possa coagularsi e offrirci dei punti di appiglio per essere da noi usata. Sarebbe assurdo e avventato dare qui direttive e indicazioni. La riuscita di questo lavoro dipenderà dalla fantasia e dal fiuto di chi lo compie, dalla sua capacità di servirsi liberamente di esperienze fatte in altri campi senza lasciarsene suggestionare, dalla mobilità e ricchezza della sua facoltà di combinazione. Il risultato massimo sarà di mettere l’umanità in possesso di una o più nuove chiavi capaci di scoprire nuove leggi del reale o, se preferite, di costruire nuovi sistemi di concordanze che si offrano al nostro uso e ci permettano di soddisfare alcuni nostri bisogni. b) - Lo scienziato che dalla messa a punto kantiana ha ricevuto l’impulso ad andare al di là delle categorie, non s’indugia però nella ricerca dell’irrazionale, che non offre, finora, alcuna presa ai suoi metodi. La sua mentalità è ancora imperniata completamente sul razionalismo logico-matematico, che ha permesso ai secoli scorsi di compiere le grandi scoperte di cui vive la nostra civiltà. Ed il superamento che egli vuol compiere non98 è un superamento di principio, trasportandosi di un salto in un mondo completamente diverso, ma graduale, volta a volta seguendo le esperienze che non sono giustificabili mediante le leggi finora conosciute. Egli non si domanda quale sia la realtà assoluta che si cela agli occhi degli uomini dietro il velo delle categorie; ma piuttosto come sia possibile apprendere e organizzare il materiale secondo categorie che siano diverse da quelle finora usate. In questo senso egli è molto meno realista che il del filosofo idealista o mistico o che lo dello scienziato positivista. E in questo senso si può quasi dire che egli porti una conferma sperimentale, se non alla necessità a priori delle categorie kantiane, almeno alla dottrina kantiana delle categorie. Lo scienziato di regola non ha letto Kant. dei FS : quei E.  campi senza FS : campi, senza E. concordanze FS : concordanza E. E. logico-matematico, che FS : logico-matematico che compiere non FS : compiere, non E.  di un FS: d’un E. e FS : ed E. che il del FS : che il E. 102 che lo dello FS : che lo E. Proprio in questo comune punto di arrivo», scrive Colorni in Critica filosofica e fisica teorica trattando delle diverse forme della filosofia e della epistemologia postkantiane, «in questa medesima esigenza, in questa eguale preoccupazione di raggiungere una base stabile cui si possa attribuire un valore obbiettivo, tali diversi modi di procedere riconoscono forse tra di sé quella parentela di premesse e di fini che permette loro di attribuirsi il nome comune di filosofia. La scienza, al contrario, e precisamente perché figlia della rivoluzione kantiana, rifiuterà al contrario di operare secondo il criterio delle affermazioni di verità per muoversi attraverso un procedimento di composizione e scomposizione della propria materia. sperimentale, se FS : sperimentale se E. 105 Kantiane FS : kantiane E. Kantiana FS : kantiana E. Cinque scritti metodologici. Ma l’atmosfera diffusa del Kantismo e la nozione stessa della categoricità del reale gli suggeriscono di porsi, di fronte ad una nuova esperienza inspiegabile, nell’atteggiamento di colui che attribuisce tale inesplicabilità alla violenza che le categorie tradizionali operano sulla ricerca organizzando ogni dato secondo le loro forme. Dal quale atteggiamento deriva direttamente il tentativo di modificare le categorie e provarle di nuovo, così modificate, sul metro della interpretazione scientifica. Modificare, ho detto, non abolire. Qui si mostra la modestia dello scienziato, il suo voler provare una dopo l’altra le chiavi, il suo volontario limitare il proprio orizzonte. Da quando egli si è accorto di usare delle categorie nella formulazione delle sue leggi, è continuamente tentato di provare che cosa avverrebbe se queste categorie fossero fatte altrimenti. Come si comporterebbero i fenomeni in uno spazio che non sia quello euclideo? Materia, energia, sostanza, causalità. Che aspetto avrebbe un mondo in cui queste categorie si presentassero con caratteri diversi da quelli che hanno finora avuto? L’elemento a priori del reale, divenuto cosciente nell’uomo, comincia ad eseguire un gioco di spostamenti, di retrocessioni, di modificazioni tale da trasformare completamente l’immagine della realtà sulla quale gli uomini lavorano: come un obbiettivo che abbia imparato ad aprirsi e a chiudersi, a mettersi a fuoco a seconda delle esigenze dell’oggetto da ritrarsi. E se da un lato si può dire che questo accomodamento delle categorie viene imposta dalle modalità della ricerca scientifica, cioè dalle esperienze e dalle osservazioni che non è possibile far rientrare nelle categorie finora usate (cioè quelle dell’universo newtoniano), d’altro lato è avvenuto forse che gli scienziati, tratti dalla vaga sensazione di essere sul punto di crearsi nuovi strumenti per l’apprensione del reale, fossero attratti appunto da quelle esperienze che dei nuovi strumenti potessero aver bisogno. L’esperienza non è mai evidentemente qualche cosa di puramente passivo, e vi è sempre un motivo perché lo sperimentatore raccolga la sua attenzione su di un fatto piuttosto che su di un altro108. Comunque se la conformazione delle singole categorie è stata fortemente modificata dalla scienza moderna, non è stata modificata, anzi è stata rafforzata la coscienza della categoricità del reale. Il filosofo può giungere con ragione alla conclusione che le nuove teorie fisiche non hanno intaccato la concezione Kantiana del mondo. Noi diremmo che esse hanno tratto da quella concezione le uniche conseguenze che aprono alla mente umana nuove indefinite prospettive di ricerca. Le quali non consistono in una vaga e problematica evasione dalle categorie, ma in una tranquilla accettazione del fatto che non è possibile prescindere da una “categoricità”. Accettazione che permetta però la continua revisione delle esistenti. Kantismo e la nozione stessa FS : kantismo e la nozione stessa E. Da questo punto comincia la conclusione assente nelle precedenti edizioni del testo. 108 Sulla revisione colorniana del concetto di esperienza, cfr. supra § 3. 109 Colorni non si astiene mai dal sottolineare, nei suoi scritti metodologici, «quanto vantaggio derivi alla scienza stessa dall’eliminazione del suo substrato metafisico-finalistico» (E. Colorni, Del finalismo nelle scienze, pp. Cfr. p.e. Id., Critica filosofica e fisica teorica. Non c’è miglior propaganda per un nuovo atteggiamento intellettuale e morale che il fatto che esso si dimostri una chiave capace di aprire molte porte nel campo della scienza e della conoscenza». Eugenio Colorni 34 categorie; cioè di quelle categorie dalle quali la mente umana al suo stato attuale non può prescindere. Non è forse inutile precisare che tale revisione non ha nulla a che fare con quelle discussioni sulle classificazioni delle categorie di cui i filosofi così spesso si dilettano. Non si tratta affatto di discutere se le categorie siano dodici o dieci, o quattro o una. Se il “finalismo” costituisca una categoria a sé o rientri in un’altra. Se l’“economico” e l’“estetico” siano modi autonomi o meno di considerare le cose. Non si tratta di organizzare le forme conosciute del pensiero, e accordarsi su quali si debbano considerare originarie, quali derivate. Il lavoro da compiersi è molto più profondo e creativo. Si tratta di dare allo spirito umano la possibilità di vedere le cose in modo completamente diverso da quello usato finora; di fornirlo di un nuovo senso, mediante il quale egli possa scoprire cose finora sconosciute, risolvere problemi finora insolubili. L’atteggiamento “critico” in senso Kantiano si mostra così come l’ultima fase di tutta un’epoca e di un modo di prendere contatto col reale. La scienza messa nella possibilità di prendere piena coscienza non solo dei propri metodi, ma delle premesse necessarie di ogni sua costruzione, riceve da ciò l’impulso a superare tale necessità ed a crearsi premesse nuove. Il lavoro che qui compie lo spirito non ha solo i caratteri di una ricerca intellettuale. Ne fanno parte alcuni atteggiamenti che possiamo raccogliere sotto il nome generico di morale. Si tratta di uno sforzo violento contro un modo di considerare le cose cui tutto ci tiene legati, di tendenze alla liberazione, di salti fuori dal mondo cui si apparteneva. Si cerca di rifarsi una “nuova mentalità”, di vedere le cose con occhi diversi, di ritornare semplici, di rifiutare le costruzioni già fatte. Ci si affida alla fantasia, all’invenzione, all’intuizione, per immaginarsi mondi diversi da quello che siamo abituati a vedere. Tutti questi movimenti di conversione dello spirito, che siamo abituati [ad] attribuire al mistico o all’uomo desideroso di purificazioni o di visio. È questo il tema affrontato fra l’altro nel dialogo di Commodo dedicato a Dell’antropomorfismo nelle scienze, là dove Colorni, stabilendo la necessità di rovesciare l’umana tendenza a ricreare una natura fatta a propria immagine e somiglianza, distingue due differenti forme di antropomorfismo, a seconda che si sia o meno consapevoli – e si sappia quindi controllarne i risultati – della nostra impossibilità di prescindere dalla “categoricità del reale”: il primo antropomorfismo è «una constatazione, o meglio una necessità, dalla quale non siamo riusciti a uscire, l’altro è invece una esigenza. Ora io odio le esigenze. Non ho nemmeno alcun motivo di amare le necessità, ma da queste non vedo alcun modo per liberarci, se non illusoriamente. Evidente riferimento allo storicismo crociano, su cui Si mostra qui, in tutta la sua originalità, il senso più profondo che Colorni attribuisce al kantismo all’interno della storia del pensiero filosofico e scientifico della modernità. E. Colorni, Critica filosofica e fisica teorica (p. 206), ove si sottolinea il carattere essenzialmente morale che caratterizza il primo impulso alla scoperta scientifica: «alla base di ogni grande scoperta, di ogni rivoluzione nel campo della scienza, c’è una conquista morale; l’abbattimento di un idolo saldamente insediato e abbarbicato fra le pieghe della nostra anima, di cui è estremamente difficile accorgersi, estremamente doloroso liberarsi; idolo fatto per lo più di un cieco ed infantile amore per noi stessi, di un bisogno di sentirsi circondati da forze a noi congeniali, di veder ripetuto nell’universo, nella realtà oggettiva, ciò che sperimentiamo nel nostro intimo». Cinque scritti metodologici: 35 ni, non devono essere stati estranei a chi si è sforzato per il primo di immaginare la terra rotonda anziché piana, o il sole immobile e non la terra in mezzo ai pianeti, o lo spazio a quattro e non a tre dimensioni. Solamente che mentre il mistico suole descrivere molto accuratamente il processo della conversione, ma si ferma solo ad esso e non ci dà alcuna garanzia quando comincia a parlare di ciò che egli trova “al di là”, lo scienziato invece compie la conversione silenziosamente, spesso quasi inconsciamente; ma giunto al di à, cioè al nuovo punto di vista, è sollecito ad occuparsi solo di ciò che sia non dico vero in senso assoluto, ma usabile, cioè organizzabile in un ordine, in una legge. E per giungere a ciò escogita esperimenti e controlli che gli diano la garanzia di camminare su un terreno sicuro, sul quale sia possibile ai suoi strumenti di far presa. L’“al di là” non è affatto una negazione del di qua, non è un assoluto privo di categoria. È un mondo di nuove categorie che pretendono di essere più vaste, di comprendere in sé anche le vecchie. Rotondo anziché piano, meccanismo anziché finalismo, probabilità statistica anziché determinazione causale. La validità delle nuove chiavi è determinata dal loro uso, cioè dalla maggiore o minore possibilità che esse offrano di spiegare fenomeni, di risolvere problemi, di formulare leggi. La maggiore difficoltà consiste nell’abituarsi al nuovo modo di vedere. Non esiste neppure un vocabolario che permetta di esprimere le cose nei termini delle nuove categorie, e si è comunemente costretti a ricorrere a metafore tratte dal mondo vecchio. Gran parte del lavoro, nei primi tempi, consiste nell’escogitare una formula di trasformazione che permetta di passare agevolmente dai termini delle vecchie categorie a quelli delle nuove. Come le leggi della prospettiva mi permettono di rappresentare su un piano ciò che ha un volume nello spazio, così le “trasformazioni di Lorentz” mi permettono di usare gli strumenti a mia disposizione (calcolo, misura, ecc.) nello spazio normale, per il nuovo spazio einsteniano; analogamente la psicanalisi tenta di tra Il dominio della natura è divenuto così il prezzo dell’incredulità. È come se la grazia venisse a toccare proprio colui che ha cessato di sperarla. Il coraggio di riconoscersi abbandonato da Dio, di rinunciare ad essere il centro e lo scopo dell’universo, apre immediatamente l’occhio agli uomini, li arricchisce d’un immenso patrimonio. A bella posta abbiamo espresso queste cose in un linguaggio mistico. Quando Kant parla di rivoluzioni dovute all’ardimento di un sol uomo, di illuminazioni subitanee, di vie improvvisamente aperte a chi brancolava alla cieca, c’è in lui sicuramente la coscienza che una vera grande conquista conoscitiva è sempre frutto – più che di uno sforzo logico o di uno sviluppo dialettico – di un capovolgimento affettivo e morale; di una inversione di valori, di una vittoria conquistata contro se stessi e contro ciò cui con più profondi e tenaci ed inconsci vincoli siamo legati. Chi compie per primo un capovolgimento deve anzitutto combattere nel suo intimo una lotta non molto diversa da quella che combatte l’uomo che voglia raggiungere lo stato di perfetta passività ed umiltà di fronte al suo dio. Molinos diceva che non bisogna chiedere nulla a Dio, neppure la propria salvazione. Lo scienziato deve pure rinunziare all’idolo di una natura che parli il suo medesimo linguaggio, di un mondo organizzato in vista dei suoi bisogni e dei suoi organi. Solo questa assoluta vuotezza e purità, questa mancanza di anticipazione gli permetterà di aprire gli occhi su se stesso e sul mondo». L’osservazione rientra pienamente nell’antirealismo della metodologia colorniana. D’altra parte, risulta di particolare interesse il tentativo di delineare le caratteristiche che dovrebbero assumere le nuove categorie rispetto a quelle che volta per volta si vanno ad abbandonare. Eugenio Colorni sformare in termini della coscienza ciò che è inconscio. Mediante tali trasformazioni si aiutano anche gli altri uomini a trasportarsi sul nuovo piano; si forniscono loro, per così dire, gli occhiali che permettono di vedere con la nuova illuminazione, finché non si sarà tanto avvezzi da poter fare a meno di occhiali, ed usare un linguaggio diretto. Ma il linguaggio appunto serba sempre le tracce di ciò, e le etimologie documentano spesso tali mutamenti di registro. Tale è, presso a poco, lo stato delle cose attualmente. Si veda, fra i riferimenti colorniani alla psicoanalisi e a mero titolo di esempio, quanto è dall’autore affermato nel dialogo intitolato Della lettura dei filosofi. La psicanalisi è una scienza ad uno stadio che corrisponde circa a quello dell’astronomia prima di Copernico, e dell’alchimia prima della chimica. Ha individuato in modo vago, mitico, pieno di pregiudizi e di troppo rapide generalizzazioni, delle relazioni e dei rapporti finora inosservati. Ha abbozzato una parvenza di metodo di ricerca: metodo talmente incerto e malsicuro che il più delle volte conduce a risultati opposti a quelli che si volevano ottenere. Ma insomma, si muove in un campo completamente sconosciuto, e il materiale che sta portando alla luce è di un tale interesse, che il rifiutarlo solo perché non è stato ancora capace di organizzarsi secondo gli aurei schemi del metodo scientifico mi sembra il colmo del filisteismo professorale». L’accenno alla possibilità di una condurre una vera e propria analisi categoriale attraverso lo studio del linguaggio è forse uno degli aspetti più interessanti ed originali di queste pagine Cinque scritti metodologici Commodo a Ritroso Vedo che non sei sazio di facili vittorie. Se il tuo scopo era di dimostrare che tu sai l’economia e io no, l’hai raggiunto pienamente, a tua perenne gloria e soddisfazione. Ma se io volessi ritorcere le tue intimazioni sulla mia abilità nelle scienze di cui mi occupo, ti direi che, con tutta la tua bravura, non sei stato neppure capace di chiarire il mio dubbio. Non te lo dico, perché sono sicuro che ci saresti riuscito facilmente, solo che ti fossi occupato di capire attraverso gli sbagli e le imprecisioni, quello che ho cercato di dire, anziché limitarti a sfogare a tua rabbia. Se un dilettante o un principiante di teoria della scienza mi viene a parlare di corpo rigido in un senso errato e diverso da quello usato dai fisici, io cerco di capire quale concetto egli cerchi di adombrare dietro al termine improprio; e mi guardo dal cedere alla meschina soddisfazione di prenderlo in castagna ad ogni parola. Il fare così, con tua buona pace, si chiama in italiano pignoleria. Io non voglio prendere sul serio questo tuo modo di discutere che è probabilmente solo una reazione alla mia aggressività, e il riflesso di arrabbiature prese non in questa ma in altre discussioni. E non ho ancora perso la speranza di trovare in te un esperto ed aperto iniziatore ai problemi dell’economia, anziché un geloso e gretto sacerdote del tempio della scienza. Questo metodo, hai ragione, è supremamente irritante e presuntuoso; ma a me è molto utile, perché mi permette, fra l’altro, di appropriarmi i concetti fondamentali con maggiore consapevolezza, senza subirli, e mantenendo rispetto alle scienze quel certo distacco che è pur necessario al critico e al metodologo. Una nozione si forma molto più salda nella mia mente, quando ha resistito vittoriosamente ai miei ripetuti attacchi, che quando l’ho dovuta imparare dalle pagine di un manuale. 1 FS, sez. 1, Carte personali, serie 2, Documenti diversi, b. 3, Inediti di Eugenio Colorni. Per la storia di questo scritto in relazione agli altri dialoghi economici colorniani, si rinvia alla Nota del curatore. Così si rivolge Commodo a Ritroso in E. Colorni, Dell’antropomorfismo nelle scienze. Mi pare che tu sia un po’ troppo attaccato, o Ritroso, alle prerogative professionali. Sei proprio sicuro che l’aver frequentato una scuola ufficiale e aver letto molti trattati, e avere una lunga consuetudine coi ferri del mestiere, sia una condizione assolutamente necessaria per capire qualche cosa dei principî fondamentali di una scienza? Non vi è mai capitato di dover dire a una persona una di quelle cose scottanti, dopo le quali non si ha più il coraggio di guardarsi negli occhi? Ebbene, se voi scegliete il partito di prenderlo in disparte con tono mansueto e fraterno, mostrandogli comprensione ed affetto, e lo consolerete, e cercherete di addolcirgli in tutti i modi la pillola; se farete questo, siete dei volgari istrioni, innamorati di voi stessi, infatuati della vostra funzione, incapaci di comprendere e di amare l’amico. Voi vorreste assestargli il colpo che darà inizio per lui a una dolorosa lotta contro se medesimo, e in più avere la sua gratitudine, la sua ammirazione. Vorreste, nel momento in cui egli si sente basso e spregevole, apparirgli voi come l’arcangelo liberatore, il puro, il disinteressato, l’immacolato. Se vi prende a calci, è il meno che possa fare. Ditegli invece le medesime cose in un accesso di rabbia, in una lite violenta, in cui voi avrete almeno altrettanto torto quanto lui. Buttategli in faccia queste verità come veleno che schizzi dalla vostra lingua; dategli un appiglio per difendersi, un’occasione di odiarvi, di considerare tutto ciò che gli dite come falso e malvagio. Il vostro  Eugenio Colorni Non so se questo possa servire agli occhi tuoi da giustificazione. Non credere che questo metodo sia in me qualche cosa di cosciente e di voluto. Me ne accorgo oggi per la prima volta, cercando di analizzare perché le tue accuse mi colpiscono e insieme non mi colpiscono. Delle tue osservazioni incasso senz’altro la lezione sulla matematica; io non avevo avuto altra intenzione che di riinventare per conto mio quell’ombrello; e naturalmente l’ho inventato più brutto, più goffo e confuso di quello che c’è già. Il solo punto che non mi è ancora chiaro è quello indicato nell’accluso foglietto. Mi basta che tu risponda a monosillabi e credo che non ci perderai più di un quarto d’ora. PALINODIA COMMODO A RITROSO Da principio mi sono preso una solenne arrabbiatura, e ti avevo già risposto una lettera piena d’insolenze. Poi, nel rileggere tutto insieme a mente più calma, ho visto che in fin dei conti hai tutte le ragioni. Ma, poiché le tue accuse mi toccano solo in un certo speciale modo, vorrei spiegarti quanto segue a puro titolo di chiarimento personale: Da uno che si avvicina ad una scienza che non conosce è giusto di pretendere che lo faccia “con le ginocchia della mente inchine” pronto ad apprendere anziché a criticare. Gli s’impone, e ben a ragione, un lungo e silenzioso noviziato, solo finito il quale gli si potrà accordare voce in capitolo. Tutto questo è giusto (e lo dico senza la minima ironia). Ma il risultato è che un uomo, di solito, di questi noviziati ne fa uno solo, e vi resta legato per tutta la vita. Si specializza in una materia, e da essa non esce, salvo che per excursus curiosi e dilettanteschi. Ora a me questo non è concesso, giacché i miei interessi più specifici si rivolgono alla metodologia delle scienze. E dato che mi farebbe schifo risolvere il mio problema dall’alto, escogitando un paio di criteri filosofici e applicandoli poi come chiavi capaci di aprire tutte le porte6 ; sono costretto ad avvicinarmi a insegnamento allora penetrerà nel suo cuore in modo umano, lieve, benefico. Egli sarà libero di accoglierlo come cosa sua, e avrà modo di stimare se stesso per non avervi serbato rancore. Nella sua accettazione ci sarà il senso di fare una conquista, di costruire qualche cosa. Non vi temerà. Che sia questo il senso del mito di Nereo, l’indovino col quale bisognava azzuffarsi perché si decidesse a profetare?». Su questa immagine del mito di Nereo, rinvio ad A. Cavaglion, «Il mio poeta». Colorni, Saba e la psicoanalisi, in G. Cerchiai e G. Rota, Eugenio Colorni e la cultura italiana fra le due guerre, Cfr. quanto spiegato nella Nota del curatore. Citazione a senso da Vergine bella, che di sol vestita, dal Canzoniere di Petrarca (CCCLXVI, v. 63). E. Colorni, Giustificazione, Colorni disprezza coloro che chiamano filosofia l’aver trovato una formula per interpretare il mondo. La metafora della chiave è spesso utilizzata da Colorni per indicare precisamente l’errore di scambiare la ricerca filosofico-scientifica con la scoperta di un criterio esplicativo unico ed onnicomprensivo. Su tale metafora cfr. anche Programma. ciascuna scienza, non per esserne genericamente informato, ma con l’impegno di osservarne con occhio critico gli interni meccanismi e cavarne conclusioni non genericamente filosofiche, ma che possono aiutare il procedere della scienza stessa. Se voglio far questo è chiaro che non posso pretendere di sfuggire al noviziato più severo, in ciascuna delle scienze cui mi avvicino. E non mi sogno di sfuggirvi. Posso però cercare di rendermelo più piacevole. Il metodo che, inconsciamente, ho trovato, è questo: Anziché accostarmi a grossi trattati con fare accogliente e passivo, pronto ad imparare e ad adagiarmi nell’ordine della loro esposizione, io parto con la lancia in resta, pieno di idee sballate e confuse, sfondando porte aperte ad ogni passo, ed inventando ombrelli, desideroso di scontri e di battaglie. Da ogni scontro esco ammaccato e contuso (come da questo con te) ma con un’idea più chiara. Ogni knoch out subito mi fa fare un passo avanti nella comprensione della scienza. Così non evito naturalmente, lo studio; e della lettura dei trattati non posso certo fare a meno: ma mi riesce più piacevole leggerli come appassionati combattenti, piuttosto che come amorosi pedagoghi. A patto, s’intende, di non impuntarsi mai, e di essere pronto a riconoscere la sconfitta. Laboratorio dell’ISPF. Geri Cerchiai ISPF-CNR, Milano. Laboratorio dell’ISPF. Saggi di Colorni conservati presso la “Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo Vittorio Somenzi. In essi Colorni espone alcuni dei punti chiave della propria metodologia, delineando una proposta epistemologica destinata ad essere riscoperta e apprezzata dopo la caduta del regime fascista, nel secondo dopoguerra.  Carlo Rosenberg. ‘G. Rosenberg’. ‘Agostini’. ‘Franco Tanzi’. Eugenio Colorni. Parole chiave: diadologia, il concetto dell’individuo, l’idealismo filosofico como malatia, indice alla malatia metafisica, scritti filosofici curati da Bobbio, scienza unificata, ebreo-italiano, ebreo-britannico Ayer, circolo di Vienna, Reichenbach, Hilbert, Eddington. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colorni” – The Swimming-Pool Library.

 

CONTE (Pavia). Filosofo. Grice: “Must say I love Conte – he  has almost the same talent for linguistic coinage that I do! In Italy ‘filosofia del diritto’ is much more respectable a discipline that it is at Oxford! But Conte managed to keep it philosophically interesting for the philosopher’s philosopher that I am!” “Conte proves that moral philosophy is at the heart of philosopohy qua-uni-virtue – for the critique of reason must include the buletic – and that’s all that Conte dedicates his philosophy too! Into the bargain, he expands into concepts like sacrifice, punishment, ‘fiducia’ (my principle of conversational trust), and so much more!” “He plays with language the way only Heidegger did in German and I in English!” --  -- Grice: “Conte is what I – and Italians – would call a ‘Griceian conversationali pragmaticist.’” Studia a Pavia e Padova. Si laurea a Torino sotto Bobbio con “Ius naturale.” Insegna a Pavia. Si occupa della semiotica del performativo deontico o buletico, la regola eidetico-costitutive, validità buletica – desirabilita -- deontica, modo imperativo, prammatica conversazionale – alla Grice. In che cosa consiste quell’’impero’, dal quale il modo imperativo prende il nome. Altre opere: “Interpretazione analogica. Pavia, Tipografia del Libro, “Ius ed ordine” (Torino, Giappichelli). Primi argomenti per una critica del normativismo. Pavia, Tipografia del Libro, Ricerca d'un paradosso deontico” (Pavia, Tipografia del Libro); Nove studi sul linguaggio normativo. Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio normativo. I. Studi; Torino, Giappichelli, Filosofia del linguaggio normativo. II. Studi; Con una nota di Bobbio. Torino, Giappichelli); Imperativo ed ordine. Studi Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio normativo. III. Studi, Torino, Giappichelli); Filosofia del diritto” (Milano, Cortina); Ricerche di Filosofia del diritto” Torino, Giappichelli); “Res ex nomine” (Napoli, Editoriale Scientifica); “Sociologia filosofica del diritto. Torino, Giappichelli); “Adelaster. Il nome del vero” (Milano, LED). È inventore del genere da lui chiamato "eido-gramma" ed autore di numerosi eidogrammi, solo parzialmente éditi:  Nella parola. Osnago, Pulcino elefante, Kenningar. Bari, Adriatica. "Per una critica della ragione deontica" (introduzione alla Filosofia del linguaggio normativo).  Pragmatica. Filosofia del diritto Logica deontica Ontologia Performativo (atto verbale) Pragmatica Semiotica Semantica. Grice: “Conte quotes from Aristotle’s Soph. El. On the ‘homonimia’ of deon’ – “sometimes for the good, but sometimes for the bad.” Conte distinguishes between semantic ambiguity – surely ‘must’ or the imperative mode does not have TWO senses – and ambivalenza prammatica. Since Aristotle is refusing to use Frege’s idea of ‘Sinn’, and keep referring to ‘semeion’ (Latin segnare) rather, we may well conclude that Aristotle is just Greek Grice. Conte does not dwell much on the imperative mode. Modo imperativo is qualified. Modo is qualified as being modo verbale – the mode of the verb impero. But then the future in French has a ‘valore imperativo.’ Conte is more interested in the ‘must.’ But surely his quoting from Philippa Foot and his joint work with von Wright into Kant’s hypo versus cate is very Griceian! On top, Conte has a taste for local historical analysis and has discovered some gems in some jurisprudential philosophers of his ‘paese’!”  Amedeo Giovanni Conte. Keywords: the sorry story of deontic logic, fondatore della logica deontica al Ghislieri di Pavia, il giuridico, giudicare, giuridicare, impiego, employ (as noun), employ-ment, empiegamento, Conte e Wright – Wright cited by Grice, alethic --. Wright on change cited by Grice in “Actions and Events”, Mario Casotti, Volere, Grice, Volere --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conte” – The Swimming-Pool Library.

 

CONTESTABILE (Teano). Filosofo. Grice: “I love Contestabile; I love a philosopher with a sense of humour! At Oxford, it has become increasingly difficult to laugh at people’s surnames! But ‘grice’ means ‘pig,’ in Norwegian! – Anyway, Contestabile contests a revisionist account of Bruno’s life – “surely he wasn’t a coward – I know because of his links with the Campanella whom my family supported in his fight against the furriners!” Cacciato con una telefonata» Intervista di Dino Martirano, Corriere della sera. Con il Psi non ho ricoperto grandi incarichi ma ho avuto l'onore di essere stato amico di Craxi. Mi mancherà la politica ma non è una tragedia. Torno ai miei studi, alla filosofia medioevale. Mi mancheranno certi momenti. Io, che ero stato nel Psi fin quando nel '92 la procura della Repubblica lo ha sciolto, ricordo bene i mesi trascorsi al ministero della Giustizia: col ministro Biondi fummo i protagonisti del tentativo fallito, però generoso, di riportare la giustizia sui binari della normalità. Sciolto il partito [Psi], chi si è fatto maomettano, chi ebreo, chi cattolico. Però sempre socialisti siamo rimasti. Domenico Contestabile avvocato e politico italiano Lingua Segui Modifica Domenico Contestabile Sottosegretario di Stato del Ministero della Giustizia Durata mandato10 maggio 1994 – 17 gennaio 1995 PresidenteSilvio Berlusconi PredecessoreVincenzo Sorice SuccessoreAntonino Mirone Vicepresidente del Senato della Repubblica Durata mandato                                              16 maggio 1996 – 29 maggio 2001 PresidenteNicola Mancino Senatore della Repubblica Italiana LegislatureXII, XIII, XIV Gruppo parlamentareForza Italia CircoscrizioneLombardia CollegioCinisello Balsamo, Vigevano Incarichi parlamentari Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia Sito istituzionale Dati generali Partito politicoFI Titolo di studioLaurea in giurisprudenza Professioneavvocato Domenico Contestabile (Teano, 11 agosto 1937) è un avvocato e politico italiano.  BiografiaModifica Laureato in giurisprudenza, esercita la professione di avvocato. Entra in politica iscrivendosi al Partito Socialista Italiano (partito a cui è appartenuto fino agli eventi che hanno travolto tale formazione politica)[1]. In seguito aderisce a Forza Italia, affermando che in tale movimento politico l'area socialista era ben accolta e rappresentata[2]. Viene eletto senatore per la prima volta nel 1994 ed è rieletto anche nelle due successive legislature. Dal 16 maggio 1996 al 29 maggio 2001 è stato vicepresidente del Senato[3]  Incarichi parlamentariModifica Ha fatto parte delle seguenti commissioni parlamentari: Affari costituzionali e giustizia; Difesa. Membro, inoltre, della giunta per le elezioni e immunità parlamentari.  Sottosegretario di StatoModifica È stato sottosegretario di Stato per la Grazia e giustizia nel primo governo di Silvio Berlusconi (dal 13 maggio 1994 al 16 gennaio 1995).  NoteModifica ^ Tutti i figli e i figliastri del garofano[collegamento interrotto], su qn.quotidiano.net. ^ Adnkronos - Psi: Contestabile a De Michelis, noi stiamo bene in FI ^ Senato - XIII legislatura Voci correlate           Modifica Governo Berlusconi I Partito Socialista Italiano Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Domenico Contestabile Collegamenti esterniModifica Domenico Contestabile, su Senato.it - XII legislatura, Parlamento italiano. Domenico Contestabile, su Senato.it - XIII legislatura, Parlamento italiano. Domenico Contestabile, su Senato.it - XIV legislatura, Parlamento italiano. Biografie Portale Biografie Politica Portale Politica Socialismo Portale Socialismo Ultima modifica 3 anni fa di InternetArchiveBot PAGINE CORRELATE Fabrizio Cicchitto politico italiano  Giulio Maceratini politico e avvocato italiano  Gaetano Scamarcio politico italiano   Il contenuto è disponibile in base alla licenza CC BY-SA 3.0, se non diversamente specificato. Altre opere: Bruno: una revisione contestata” – La storia della filosofia è continua revisione, e non mi scandalizzo per il revisionismo bruniano. Mi sembra però che questi non colga nel segno. La vita diBruno, dalla fuga da S. Domenico Maggiore a Napoli fino al rogo di Campo dei Fiori a Roma, è di singolare coerenza. Fu una vita “contro”. L’accusa implicita di opportunism mi sembra perciò singolare. E’ vero che, durante il processo, ritratta molte sue tesi, e avrebbe avuto salva la vita se avesse continuato in questo atteggiamento. Alla fine però si stanca, e scelse lucidamente di morire.  E’ opportunista chi cerca solo di salvare la pelle, e poi decide di morire perché ritiene che il suoi giudice ha esagerato? In quanto alla tesi sul Bruno spia elisabettiana, essa non è, a mio giudizio, provata, anzi è smentita dalla comparazione tra la grafia di Bruno e quella dei biglietti di spionaggio. Infine, la tesi a proposito della relazione tra Campanella e Bruno non mi ha mai convinto. Campanella (la sua rivolta e finanziata dalla nobile famiglia Contestabile, come ricorda Firpo nel suo ottimo saggio sul processo a Campanella) vuole poi un regime “comunista”? A leggere “La città del sole” non si direbbe. Domenico Contestabile. Keywords: nobilita italiana, la famiglia Contestabile financia la rivolta di Campanella -- filosofia medioevale, Bruno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Contestabile” – The Swimming-Pool Library.

 

CONTI (Roma). Filosofo. Grice: “Conti is a good one – he reminds me of Bosanquet and Pater – the decadents in Italy came AFTER them at Oxford! Conti philosophised on many aesthetic subjects, such as man, masculinity, and maleness --!” Di una famiglia originaria di Arpino, dove frequenta il locale liceo. Si ccupa di filosofia estetica. D'Annunzio lo cita nel “Giovanni episcopo” e si ispira a lui per ‘Daniele Glauro’ in “Il fuoco”. Insegna a Firenze presso la Galleria degli Uffizi ed a Venezia presso l'Accademia di Belle Arti. Saggio: “Zorzi; o Giorgione – l’estetica di Zorzi” -- Tornato a Firenze, “La beata riva”, raccolta di saggi che delineavano la sua concezione critica ed estetica, ispirata dichiaratamente a Platone, Kant e Schopenhauer. La prefazione fu curata d’Annunzio, il quale scrive di stimare molto Conti e di ammirare il suo “ascetismo” estetico.  Direttore delle Antichità di Roma. Direttore della Reggia di Capodimonte a Napoli. Si ispirò alla poetica del filosofo oxoniese Pater e Ruskin.  Altre opere: “Giorgione, Firenze, F.lli Alinari, “Catalogo raggionato delle regie gallerie di Venezia, Venezia, Tip. L. Merlo); La beata riva, Milano, F.lli Treves); Sul fiume del tempo, Napoli, R. Ricciardi); “Dopo il canto delle Sirene, Napoli, R. Ricciardi); Domenico Morelli, Napoli, Edizioni d'arte Renzo Ruggiero); “San Francesco, con un saggio di Giovanni Papini, Firenze, Vallecchi); “Virgilio dolcissimo padre, Napoli, R. Ricciardi). Praz nota che Parodi era solito leggere La beata riva di Conti prima di addormentarsi; quando morì, la lettura non era stata ancora terminata.  Dizionario Biografico degli Italiani, Forme del tragico nel teatro italiano. Modelli della tradizione e riscritture originali,Romantici, vittoriani, decadenti – filosofo decadente – decadentismo -- e museo dannunziano, in Bellezza e bizzarria – il bello e il bizzarro., Croce, La letteratura della nuova Italia, Marcello Carlino. A. Conti, Due conviti di Mattia Preti, Bollettino d'Arte.  Io vengo dal mare di Napoli e sono tornato qui a rivedere la primavera. Non c'è nessuna altra città in cui, come in questa, il rifiorire degli alberi e delle siepi si accordi con la giovinezza delle opere del genio umano, nessuna ove, come qui, la Primavera sembri rimanere per un istante velata, per poi riapparire pili fulgida e piìi lieta, al ritorno dei venti che spirano dalle colline e recano i nuovi fiori. Sono anche giunto fra voi, per parlarvi della pittura di Leonardo. Ma il mio compito, dopo la lettura deirillustre scrittore francese che m' ha preceduto, sarebbe oggi, non dico diffìcile, ma quasi vano, se le mie idee fossero affini alle sue ed egli fosse vicino al mio pensiero come io sono vicino al suo aff'etto per questa nobile terra toscana, ove l'arte ha continuato la grazia gentile e la pura bellezza della natura. Diversità di pensare e anche d'immaginare mi rendono oggi possibile esprimere qualche cosa a voi forse non detta, e combattere qualche affermazione troppo lontana dalla mia sicura fede. Leonardo è il discepolo del Vermocchio. Ora, che cosa poteva egli apprendere dal suo grande maestro? Non cer- 84 Angelo Conti, Leonardo pittore tamente l'arte, la quale non si apprende e non si insegna. Quale uomo, che sappia che cosa è l'arte, potrà mai pensare alla possibilità di creare con l'insegnamento un pittore, un musicista, un poeta? La natura sola genera gli artisti, e l'uomo al pili può aiutarli a trovare i mezzi d'esprimere la parola ch'essi son destinati a pronunziare nel mondo. Il maestro, al discepolo suo, nato artista, può dire : " Il tuo cuore è impaziente d'indugi, tu sei nato per il canto o per la espressione plastica o per la espressione mediante il colore della tua gioia o della tua amarezza; guarda, ecco il dizionario che contiene le parole di ogni umano discorso, ecco la tavolozza sulla quale io appresi a mescolare i colori che imitano la bellezza del cielo, della terra e del mare ; ecco in qual modo si modella la creta, affinchè dall'informe materia apparisca viva dinanzi a noi l' immagine dell'uomo. Questi sono i mezzi, che io ti posso indicare; ma il discorso, il canto, il soffio debbono essere tuoi, né io te li posso insegnare „. Ogni opera d'arte è, rispetto alle opere precedenti, una cosa diversa e nuova, nella quale, se pure sono entrati, alcuni elementi precedenti e preesistenti, hanno mutato natura, si sono trasformati in parti di quel tutto inatteso e prodigioso che si chiama la creazione artistica. Chi non sa che in Leonardo appare un' immagine del sorriso che si mostra appena accennato sulle labbra del giovinetto Davide del Verrocchio? Si, appare, ma è un riHesso che illumina un altro mondo ; poiché questo riso, ricomparendo dalle labbra dell'eroe adolescente sul viso e negli occhi della Gioconda, diviene il mistero della seduzione femminile, una grazia insidiosa e un periglio, un'armonia che nasce dal- Angelo Conti, Leonardo pittore 85 l'espressione d'iin volto, si diffonde verso il paese lontano e attira il contemplatore. Il sorriso verrocchiesco è in Leonardo come nn brano di Plutarco in Shakespeare. Or chi oserebbe dire che l'immortale tragico inglese derivi da Plutarco? Leonardo e il Yerrocchio sono due artisti assolutamente distinti, che parlano un linguaggio interamente diverso e che, se somigliano esteriormente in qualche cosa, hanno due anime quasi opposte, chiusa l'una nella sua idea di bellezza e di stile, l'altra aperta a tutte le manifestazioni della natura e della vita, in una continua ansietà di fissarne l'immagine mutevole con la semplicità del segno rivelatore. Noi viviamo pur troppo in un triste momento della vita, poiché la maggior parte degli uomini ai quali parliamo non sanno che cosa sia l'arte, e lo Stato crede a chi meno vede. Non è forse ancora possibile vincere una così detta scuola di critica scientifica, fondata sull' errore già accennato e chiusa nella rete del pregiudizio cronologico. A coloro che ancora credono alle influenze sugli spiriti geniali e alla necessità in arte di una classificazione come in botanica, noi possiamo trionfalmente rispondere con Leonardo che l'artista genera le sue opere qual fanno le cose. Egli deve creare come fa la natura, e le sue opere superare e cancelUxre i segni del tempo che passa. Un quadro, una statua, un edifizio debbono nascere come le selve e apparire come le albe. Or chi penserà all'epoca d'una primavera o d'un ciclo stellato? Non c'è opera d'arte geniale che venga per noi dal passato lontano, come non e' è indizio di vetustà nelle montagne e nella aerea architettura delle nubi. Dinanzi all'umanità che passa, il genio si ferma e rende eterna la 86 AxGELO Conti, Leonardo pittore sua traccia come è nel cielo il cammino delle stelle. Avete udito il canto dcirusignolo? Lo riudirete in tutte le primavere. Il genio vi farà sempre udire la sua voce fresca e giovanile come nella stagion nuova della terra il canto dell'usignolo. Aprite Virgilio: ecco, è l'alba e cantano le allodole, è una notte serena, e l'uomo si perde nella luce lunare. Aprite Dante, e siete nell'eternità della vita. Ivi nulla dilegua, nessuna cosa invecchia o perisce, e noi stessi, -accanto a quelle grandi anime, siamo per un istante fuori del tempo. Questo momento di liberazione provai per la prima volta alcuni anni or sono a Milano, trovandomi dinanzi alla Cena, nel convento di Santa Maria delle Grazie. Vidi il capolavoro nella medesima ora indicata dalla luce clie lo illumina dal fondo, tanto che mi fu d'un tratto facile superare i mille e piìi anni passati e trovarmi presente alla scena Gesù era seduto nel centro del convito e da poco avea prò nunziato le parole : qualcuno di voi mi tradira. I convitati a destra e a manca s'erano ritratti e aggruppati in tumulto lasciando nel mezzo Gesù solo, con la sua tristezza infinita La sala era piena di gesti concitati e di ansiose interrogazioni. Il Maestro solo era calmo e la sua figura, sul paese che gli s'apriva lontano alle spalle, era immobile. Ma qual dramma in quella immobilità ! Mentre la sua mano destra, lievemente contratta, esprimeva un istante di ribellione e come un istintivo moto d'ira, la sinistra nel momento successivo s'abbandonava col dorso poggiato sulla tavola e le Angelo Conti, Leonardo pittore 87 dita allungate, esprimendo la rassegnaziona e il perdono. Gli occhi abbassati non guardavano e non vedevano nulla di ciò che era presente, ma contemplavano internamente il grande spettacolo del dolore e della miseria umana, mentre la sua anima sembrava essersi già rifugiata in quel fondo di paese luminoso e lontano, dove abitavano una grande speranza e una eterna pace. Nessun uomo avevo veduto mai così solo come Gesù in mezzo a quel tumulto. Era un'isola in mezzo a un mare procelloso. Le onde fragorose del tempo, che travolgono^ uomini e cose, mi avevano forse spinto ad approdare ad una riva ove splendono i fiori eterni della vita? Mai infatti, come quel giorno, ebbi, per virtìi dell'arte, la visione della vita, in un oblio piti completo. Quando il custode del Cenacolo venne ad annunziarmi Fora della chiusura, io riudii nuovamente, dalla strada vicina, il rumore delle carrozze e il rombo dell'esistenza; e ritornai fra gli uomini. Pochi anni or sono Gabriele D'Annunzio scrisse una bella pagina di poesia per rimpiangere la rovina del Cenacolo. Voi infatti sapete, che, come della antica e celebrata pittura dei greci, fra pochi anni della Cena vinciana non resterà se non il ricordo ^ Il doloroso avvenimento non ^ Questo studio su Leonardo lìiitore era già stato scritto, quando fu compiuta in Milano dal pittore prof. Luigi Cavenaghi l'opera di ristauro del Cenacolo, salutata da tutti i cultori ed amatori d'arte con gioia e gratitudine. Il Cenacolo, compiuto da Leonardo nel 1497, cominciò ben presto a guastarsi; ì primi provvedimenti per salvare il capolavoro risalgono al cardinale Borromeo, poi nei secoli si susseguirono alternative di lunghi abbandoni, di fallaci rimedi empirici, di studii incompleti e riparazioni deturpatrici, fin che il prof. Cavenaghi fu nel 1904 incaricato delle ricerche scientifiche e tecniclie che, precisando le cause e l'entità dei guasti, portassero ai rimedii più efficaci. Egli trovò — sono sue parole riprodotte naìVIllustrazione Italiana, n. 41, dell'I 1 ottobre 1908 — che il dipinto, coperto da polvere di secoli, si screpolava e la crosta di colore si solle- ^rt Angelo Conti, Leonardo inttore poteva non commuovere e non far riapparire la visione tragica del fato clic incombe sui capolavori. Ma è forse una illusione. In realtà la natura non distrugge ne i fiori o le selve della terra ne le opere del genio : la Minerva criselefantina di Fidia è passata dall'avorio e dall'oro nelle pagine immortali dei poeti e nella eterna memoria degli uomini. Quando un capolavoro scompare, noi non dobbiamo pensare che il tempo lo abbia distrutto, ma semplicemente che si sia oscurato lo specchio che ci proiettava la sua imagine nel tempo e nello spazio. Nella profonda unità dell'anima umana, clie rende i poeti e i filosofi simili ai figli d'una madre sola, l'ispirazione da cui esso nacque riman pura e vivente come una forza della terra non ancor vestita della sua forma. Se avessi la virtù del canto, vorrei lodare e far comTava dall'intonaco, a squame di varia misura, di modo clie parecchie di quelle i grandi, accartocciandosi, formavano altrettante sacche che si riempivano con al- tre piccole squamette che vi cadevano dall'alto. Vuotare ad una ad una le sac- che senza scuoterle, senza quasi toccarle, mediante una pagliuzza resa attaccaticcia da una sostanza adatta, poi fare aderire le sacche e le croste all'intorno, togliendone, con un certo liquido dal Cavenaghi ideato, la polvere alla superficie, questo sostanzialmente fu il lavoro paziente, mirabile, nel quale, per più di due mesi durò il Cavenaghi, rendendo più tonica la fibra in isfacelo, facendole riac- quistare un po' di colorito, così che il dipinto non debba peggiorare e possa vi- vere ancora a lungo, con infiniti riguardi ed amorose cure. Ma — disse il Cavenaghi — sarà sempre un organismo precario, e per le condizioni sue, pieno come è di cicatrici, e per l'ambiente. Ad ogni modo questo del Cavenaghi è •stato pel Cenacolo Vinciano il ristauro essenziale, decisivo, nei secoli; e grandi manifestazioni di gratitudine ed ammirazione sono state tributate all'assoluto disinterewse, pari all'amore grande per l'arte, spiegati dal benemerito ristauratore, al quale Caravaggio, sua terra natia, ha consacrato una targa artistica a memoria del fatto; ed i cultori ed amatori d'arte, auspice Luca Beltrami, gli hanno conferita il 4 luglio 1909, davanti al capolavoro vinciano, una bellissima medaglia d'oro. Il prof. Cavenaghi inoltre è stato chiamato dal Papa, in sostituzione 4el defunto prof. Seitz, all'onorifico ufficio di direttore delle pinacoteche vaticane. Angelo Conti, Leonardo inttore 89 prendere la vita maravigliosa che il Cenacolo leonardesco chiude nella sua rovina. Come la rovina d'ogni cosa grande, essa equivale ad una purificazione e ad una apoteosi. Finche resterà un sol frammento della parete prodigiosa, finche un sol disegno, una sola stampa, una sola fotografia, custodiranno un riflesso lontano della sua bellezza, quella creazione del genio sarà per noi piìi potente che se il tempo e gli uomini l'avessero rispettata in tutte le sue parti caduche. E un errore credere che il tempo non rispetti i capolavori; e noi molto spesso parliamo, spinti dall'abitudine, contro l'eterna verità delle cose. Il tempo, artista maraviglioso, è il solo degno collaboratore del genio umano. Dove sembrava che l'opera geniale sì fermasse, egli la continua, mutilandola: dove appariva ciò che è chiuso e preciso, egli apre una via infinita all' imaginazione ; dov' era un aspetto freddo e muto della realtà, egli fa nascere i segni del mistero. Ciò che sembra una distruzione e invece una rivelazione e una consacrazione. E la natura che riprende l'umana opera interrotta, che fa apparire la sua forza dove la mano dell'uomo cadde stanca, e che, dove l'ispirazione di questo si oscurò e si confuse, fa cantare le sue eterne aspirazioni. Ma non bisogna lodare il tempo soltanto per le sue rovine ; è necessario esaltarlo anche per tutte le opere d'arte che, in compagnia del fato e della umana malvagità, ha impedito di compiere al genio umano. Alludo principalmente alle cosi dette sculture non finite di Michelangelo e ad un quadro, che è ancora considerato un abbozzo, di Leonardo. Come i capolavori in rovina appariscono vicini a rientrare Leonardo da Vinci. 12 90 Angelo Conti, Leonardo pittore nella iiuiversalitìi della vita, i capolavori incompiuti seml)rano usciti da poco dal seno stesso della natura. L'artista ne segnò l'imaginc non fra i tormenti del lavoro consapevole, ma come in sogno, obbedendo ad una volonth oscura che per qualche istante abolì la sua volontà individuale. Poche tracce di pentimenti in quei primi segni, ma l'espressione d'una beata obbedienza, come di chi si affidi al mare, e una ricchezza e una esuberanza di vita uguale a quella di cento uomini felici. * Mi limito a parlarvi del quadro di Leonardo, oggi nella Galleria degli Uffizi, e che rappresenta l'Adorazione dei Magi. La prima cosa che ci colpisce è il movimento. Noi sentiamo subito che il pittore ha voluto rappresentare un avvenimento straordinario, un grande fatto della natura e della vita. Quasi tutte le figure vanno, strisciano, accorrono verso la parte centrale della rappresentazione, ove si fermano prostrate e come atterrate dallo stupore e dalla maraviglia. Fra i gruppi in movimento, alcune figure stanno diritte e immobili a guardare la scena. Nel centro una calma assoluta. La Madonna vi appare seduta in una attitudine piena di grazia materna, e sulle sue ginocchia il bambino si china e protende una mano per toccare il 'dono che un vecchio genuflesso gli porge. Intorno si raccoglie e si concentra tutto ciò che nel quadro raggiunge la maggiore intensità d'espressione e la maggior forza di vita. Questi vecchi che vengono da lontano, guidati dal mistero, sono una A\GELO Conti, LeonarJo j)ittore 91 fra le più potenti creazioni del genio umano. Tutta la scena, piena della loro commozione e del loro sbigottimento, sembra irradiare come un vento di tempesta che, dall'anima dei vecchi, giunga sino ai punti piti lontani del quadro. Ed ecco che noi vediamo gli effetti dell'onda invisibile. Dietro il gruppo centrale è un accorrere disordinato di gente : uno ha le mani levate e grida come per un ignoto pericolo, un cavaliere non riesce a contenere lo spavento del suo cavallo, altri gruppi di cavalli nel fondo appariscono spinti dalla furia d'una battaglia; qua e là, sotto archi crollati, uomini che corrono e s'interrogano ansiosi, altri che salgono discendono a frotte e smarriti per una gradinata. Si sente che un grande avvenimento si compie, e per tutta l'ampia scena notturna è diffusa l'atmosfera del miracolo, come in un giorno sereno la luce del sole sulle campagne. E questa è appunto l'idea che Leonardo ha espressa nel suo quadro con una potenza e una eloquenza suprema. Mai infatti, sino a questi ultimi anni del quattrocento, 1481, la pittura aveva rappresentato il miracolo, mai lo stupore e il terrore di ciò che sembra turbare le leggi della natura e far presentire agli uomini un rinnovellamento del mondo, erano stati resi visibili nell'opera d'arte. Leonardo, con questa composizione sintetica, con questo semplice suo disegno a chiaroscuro, nel quale non un sol particolare h compiuto, è riuscito a rappresentare il miracolo come non sarebbe stato possibile con l'opera piìi meditata e più coscienziosamente finita. E la ragione mi sembra questa. Vi sono idee e sentimenti che le arti plastiche non possono rappresentare se non con mezzi somraarii, se non giovandosi di ciò che co- 92 Angelo Conti, Leonardo pittore miincmcnte si chiama V incomplitto. L' incompiuto è spesso un mezzo meraviglioso dì espressione per il genio umano; è, a rovescio, il mezzo stesso che la natura adopera per purificare e per consacrare nei secoli i capolavori degli uomini. In questi la natura procede per eliminazione, nell'opera rimasta incompiuta il genio lavora in uno stato di concentrazione suprema. Li^ Adorazione dei Magi non solo rappresenta un miracolo ; ma è essa stessa un'opera miracolosa. La notte che vi si addensa è piena di luce per l'anima umana. Fra tutti i quadri della Galleria degli Uffizi è il più vivo, il piìi drammatico e il più profondo per significazione. Continuando per voi la enumerazione delle opere pittoriche vinciane e per mostrarvi che, come allora mi fu possibile liberarmi dal tempo, posso anche oggi, e mi piace, spezzare le catene della cronologia, passerò a parlare della Gioconda. La vidi alcuni anni or sono, e feci, quasi per lei sola, il mio pellegrinaggio da Firenze a Parigi. Quando entrai nella pinacoteca del Louvre, la giornata era grigia e le sale quasi in una penombra. Nella sala dei capolavori gli occhi delle figure dipinte da Tiziano, da Raffaello, da Yelasquez mi guardavano fiso. Cercai la Gioconda, corsi verso di lei. Entro la fioca luce indovinai il sorriso e sentii il fascino dello sguardo ; vidi anche il candore del seno. Ogni altra cosa era indistinta. In una pinacoteca non è possibile abbandonarsi all'oblio, Angelo Coxti, Leonardo piUore 93 come in una chiesa o in nn cenacolo. Coloro che entrano a visitare le collezioni dei dipinti vanno per lo più a fare confronti, ad osservare particolari, a cercare note caratteristiche, e portano con sé libri e fotografie. Io, qnando mi dispongo ad andare o a tornare al cospetto d'nn capolavoro, m'affatico a togliermi di dosso ogni peso, affinchè mi sia dato procedere con passo leggero e mi trovi dinanzi all'opera geniale, con l'anima semplice e serena. Sono abituato a contemplare un quadro, come se fosse una costellazione. Nella notte ir cielo è pieno di silenzio e le stelle splendono armonizzando ciascuna il suo ritmo alla musica del cielo. Guardando gli occhi di Monna Lisa del Giocondo, li vidi palpitare in ritmo, in armonia con la musica del suo sorriso. Il quadro m'era ancora ignoto, e pensavo a Leonardo. Mi pareva vederlo, mentre nel suo studio fiorentino aspettava l'arrivo della sfinge ridente. Poco dopo ella entrava e si sedeva accanto alla finestra. In fondo apparivano le colline di Fiesole, Monte Morello, l'Appennino lontano, e l'Arno serpeggiava scintillando nel mattino, mentre le torri della città uscivano dalla nebbia al primo sole. Anch'egli si sedeva, e, presa la lira d'argento che s'era fabbricata con le sue mani, cominciava a cantare. La bella donna, udendo la laude melodiosa, sorrideva, mentre l'Arno da lungi diveniva più ricco di scintille. Poi cominciava a dipingere, e, dopo i primi tocchi una orchestra invisibile di liuti riprendeva la canzone interrotta. La donna sorrideva in una calma regale : i suoi istinti di conquista, di ferocia, tutta l'eredità delia specie, la volontà della seduzione e dell'agguato, la grazia dell'inganno, la bontà che cela un prò- 9i An'gelo Conti, Leomrdo pittore posito crudele, tutto ciò appariva alternativamente e scompariva dietro il velo ridente e si fondeva nel poema del suo sorriso. Per un momento usci un raggio di sole; ed io die m'ero allontanato dal prodigio, corsi e lo vidi intero. La donna era viva dinanzi a me, in tutta la sua vita reale e ideale. Buona e malvagia, crudele e compassionevole, graziosa e felina, ella rideva, e il suo riso si prolungava nel paese lontano e nell'anima mia; sino a darle l'oblio die viene dalla presenza delle cose immortali. Pochi istanti dopo, il sole scomparve e la penombra regnò nuovamente nella sala. Lì presso un sol quadro ardeva come una lampada e in esso cantava, non affievolita, la musica del colore. Era la Festa campestre : fra due donne nude, un suonatore di liuto svegliava alcuni accordi e pareva che la Gioconda ne sorridesse come quando Leonardo cantava, per rendere piìi intensa la sua vita e per tradurre col disegno la sua misteriosa bellezza. Questo ritratto non esprime soltanto ciò che l'occhio vede, ma è il riflesso d'una creatura amata da uno spirito che per oltre quattro anni si affaticò a penetrarne a rivelarne la vita. Come dinanzi alla Gioconda, Leonardo si pone dinanzi ad ogni cosa vivente col medesimo ardore di conoscenza, con la stessa ansiosa curiosità e lo stesso desiderio invincibile di fissarla con segni semplici e definitivi. Tutto questo poema della sua anima, questo dramma intimo che si chiude in una alternativa di tentativi d' espressione e di istanti di tregua contemplativa, di rapimenti e di lotte con la sorda materia, d' ansietà e scoramenti e di calma trionfale, è raccontato nei suoi disegni, che sono 1' imma- Angelo Coxti, Leonardo pittore 95 gine più completa della sua potenza non solo intuitiva ma creativa. Per lo scultore il disegno è appena un segno, uno scliema, un presentimento dell'opera futura. Lo chiamiamo disegno, perchè ijon abbiamo altre parole per significare le notazioni figurative degli scultori ; ma esso non è se non un appunta ideale, un mezzo per ricordare un sentimento. Ricordate i disegni di Michelangelo per le sue statue, ricordate gli odierni disegni di Rodin per i suoi gruppi e per i suoi monumenti. Qm^tì disegni, benché esprimano una visione di movimento, non sono pittura e non sono scultura perchè non illuminano una idea che potrà essere espressa, come chiaroscuro e come colore sopra una superficie e che sia per apparire come forma nello spazio. La scultura comincia soltanto col bozzetto in cera, in creta o in gesso, cioè a dire quando V idea, destinata a manifestarsi come forma nasce a somiglianza d'una cosa viva fra le altre cose viventi e sorge nello spazio, nell' aria e nella luce, sottoposta alle leggi del peso e chiusa nelle sue dimensioni. Per parlare con esattezza, la scultura non ha disegno. Nella pittura il disegno è tutto, è il primo segno che nota la visione ancora vaga sopra una superficie, ed è il chiaroscuro e il colore che pili tardi la renderanno eloquente, che le daranno una voce che parla e che canta, come in una musica e come in un poema. Per Leonardo, genio universale, il disegno non è soltanto linguaggio pittorico, ma è il mezzo adeguato d'espressione di tutto ciò che appare e che passa nel suo pensiero, nella sua memoria, nella sua imaginazione e nella sua fantasia. Tutti gli aspetti e tutti i momenti della multiforme ed ine- 96 Angelo Conti, Leonardo pittore saiiribilc attività del suo spirito trovano la loro espressione negli innumerevoli disegni che egli traccia in margine e fra le linee dei suoi manoscritti, la precedono e spesso la superano con la loro potenza di linea intuitiva e divinatoria. Mai come in Leonardo il disegno ha avuto la virtìi d'esprimere tante cose, dalle più athni alla pittura alle pili lontane, dalle pili concrete alle più astratte; mai come in Leonardo e giunto ad una cosi vasta e così intensa forza di analisi e di concentrazione. I disegni di Leonardo non sono solamente una testimonianza del suo amore per la natura, non sono soltanto un dialogo fra la sua anima e V anima delle cose, ma principalmente sono un mezzo di cui egli si è servito per conoscere l'universo. Invece di consultare i trattati scientifici ed i sistemi di filosofìa, Leonardo disegna. I disegni sono i suoi pensieri, le sue meditazioni, le sue osservazioni, le sue intuizioni, le sue scoperte. Ogni suo disegno contiene un segreto svelato, è una verità conquistata, è il segno d' un nuovo trionfo della indagine umana, è un lembo del mistero dell'universo sollevato dal genio umano. Dinanzi a ciò che noi chiamiamo il vero e può essere ugualmente chiamato il mistero, Leonardo ha lo sguardo limpido, sereno, nuovo, lo sguardo meravigliato del fanciullo, ha quella innocenza del genio, senza la quale, come afferma Bacone, non si può entrare ne nel regno della verità ne nel regno dei cieli. La differenza fra l'uomo di genio e l'uomo comune sta p principalmente in questo: dinanzi ai fatti e agli aspetti della natura e della vita V uomo comune si abitua e finisce con l'abolire in se il senso della maraviglia ; le sue impressioni, invece d'avere sempre un carattere loro proprio, invece d'es- Leonardo da Yisci Pai'ig;], Museo del Lonvie. J-'ot. X. LA GIOCONDA.  Angelo Conti, Leonardo j^^itore 97 sere sempre eccitatrici di sentimenti nuovi, gradatamente si attenuano, si affievoliscono ; finche si adattano e si sottopongono al modo di sentire individuale, finche si scolorano e muoiono davanti alla monotonia dei bisogni quotidiani. L'uomo guidato dalle abitudini è un addormentatore di se stesso, è uno schiavo di ciò che nel suo spirito è meno degno di comandare. Il genio invece è sempre libero, è sempre desto, e il sonno dell'abitudine non può far discendere un velo sui suoi grandi occhi puri. Leonardo è appunto della famiglia di coloro che non conoscono lo stato di sonno e d'indifferenza, ma che vivendo sempre in una ansiosa curiosità vedono il continuo apparire delle cose e l'infinito rinnovellarsi dei fenomeni, e che sembrano veramente nascere ogni mattina. In questo stato di attesa dell'ignoto e del nuovo, ogni osservazione è per Leonardo una visione, ogni analisi è una scoperta. Guarda un ramo con le sue foglie, ne cerca la vita col suo disegno, e gli appare la legge di filotassi ; canta accompagnandosi con la sua lira d' argento, e scopre la legge di risonanza delle corde negli accordi. In ogni fenomeno egli sente e vede una confessione fatta dalla natura al suo genio divinatore. I suoi disegni sono la traduzione grafica di queste confessioni fatte alla sua anima dall' anima delle cose. Ciascuno d'essi pili che studio dal vero è opera d' immaginazione, è figurazione intuitiva, destniata ad illuminare la realtà e a fare apparire, dietro ciò che passa, l'aspetto immutabile delle idee eterne e delle eterne verità. Ogni loro contorno e una ricerca, ogni linea una interrogazione, ogni luce un riflesso del vivente chiarore del mondo, ogni ombra Leoxakdo da Vixci. lii 98 AxGELO Conti, Leonardo pittore un'eco d'un vivente mistero; e tutta quella sua opera della penna, del carbone, della matita non è se non un mezzo potente da lui adoperato per stringere d' assedio la natura e per costringerla a rivelare il suo segreto. Sempre mediante le imagini, i paragoni e le analogie egli trova il cammino che deve condurlo verso la verità. Ricordate in un suo manoscritto e in un suo disegno il movimento dell'acqua veduto simile al movimento d' una capigliatura, ricordate in qual maniera i movimenti del nuoto lo aiutino a comprendere quelli del volo, in quel maraviglioso trattato che ha la virtìi di metterci in segreta comunicazione con 1' anima e con la forza delle creature volanti. In questo modo, sempre per mezzo di imagini e di indagini grafiche, di analogie, di forma e di movimento, osservando e studiando l'aria e l'acqua, il suono e la luce, e paragonando le loro proprietà essenziali, egli giunge ad intuire l'unità delle forze fisiche precorrendo Cartesio. E la sua conoscenza, alla quale appariscono come intuizioni le principali conquiste della scienza moderna, è figlia della sua imaginazione. Più ancora che nei suoi manoscritti è espresso nei suoi disegni il cammino fatto dalla sua conoscenza, guidata dall'amore e resa più profonda dalla sua infantile maraviglia. Chi non ricorda, fra gli altri innumerevoli, i suoi disegni di foglie e di fiori? Sono questi fra tutti gli altri, esclusi quelli solo che ritraggono la figura umana, i più precisi. Pure in questa precisione è l'infinito della vita. A prima giunta potete pensare o credere che quei segni corrispondano a qualche cosa di limitato e di esteriore ; poi sentiamo che ciascuno di essi ha la potenza di continuarsi in noi. La sua precisione non è il segno rigido e freddo fatto da Angelo Conti, Leonardo pittore S9 una mano abile, ma è la linea sicura del genio che ha trovato la vita. Però egli non trascura mai un solo particolare, non lascia mai nulla incompiuto e sembra dir tutto sino all'ultima parola. Infatti egli dice tutto ; ma il suo linguaggio è come il mare e come l'infinito, e, nelF udirlo, la nostra piccola anima sembra farsi vasta come 1' anima del mondo. In qua! modo ha potuto egli raggiungere questa potenza d'espressione? In un modo semplice e grande : imitando la natura. L'imitazione della natura è il principio che Leonardo proclama in tutti i suoi scritti e mette in pratica in tutte le sue opere. Ma che cosa significa imitar la natura? Ciò non vuol dire copiare le sue apparenze esteriori, come fanno oggi la maggior parte dei nostri artisti, ma imitarla nelle sue leggi di vita. Imitar la natura, per Leonardo come per tutti i geni dell'umanità, significa divenire come la natura, acquistando la potenza di creare 1' opera d' arte nel modo stesso nel quale la natura crea le sue vite innumerevoli: qual fanno le cose. Voi sapete benissimo che i disegni vinciani fanno parte dei manoscritti di Milano, di Parigi, di Londra, che sono aiizi un complemento, uno sviluppo e un'irradiazione del testo. Poiché dunque l' uno e 1' altro sono connessi intimamente, non m' è possibile, dopo parlato dei disegni, non dirvi due parole dei manoscritti e significarvi in tal modo tutto il mio pensiero. Voi sapete che nei manoscritti sono pagine di ogni scienza. Perchè ? Volle forse Leonardo coltivare r una dopo 1' altra le varie discipline scientifiche e contribuire al loro sviluppo? A questa domanda risponde Leonardo medesimo. L'uomo 100 Angelo Conti, Leonardo inttore non dev'essere " solo un sacco dove si riceva il cibo e donde esso esca „ , non deve essere soltanto un " transito di cibo „ e avere della specie umana la sola voce e la figura, e tutto il resto " essere assai manco che bestia „ . Il vero scopo della vita umana è per Leonardo il pensiero. Il pensiero, per conoscere il passato e la nostra dimora terrena; ecco il mezzo per vivere nobilmente liberandoci dalla illusione del piacere. Il tempo che fece piangere Elena allorché ^ guardandosi nello specchio, vide i primi segni della vecchiezza, il tempo non può colpire il pensiero. Il conoscere la sapienza degli antichi e la vivente realtà delle cose presenti, ecco il decoro e l' alimento degli spiriti umani. Ma perchè un tal desiderio di conoscere? Questo e per me il punto capitale, il vero nodo della questione. Il sapere perchè Leonardo ha voluto studiare tante forme ed ha cercato il segreto di tanti fatti della vita universale, ci farà conoscere la qualità essenziale del suo genio. Nella sua indagine instancabile d'ogni fenomeno del cielo e della terra, nel suo ininterrotto colloquio con la natura, Leonardo non è animato da curiosità puramente scientifica, non da vanità di dottrina, né dalla naturale tendenza d'un intelletto analitico cui l'esercizio delia osservazione doni la gioia più intensa. Spirito sostanzialmente intuitivo e sintetico, egli si sottopone in tutta la sua vita al rigore e spesso al martirio dell' analisi, per acquistare una conoscenza pili ricca, più vasta e piti profonda. Le sue innumerevoli osservazioni, i suoi continui esperimenti sono i gradini che debbono condurlo colà dove, entro una luce inestinguibile, appare l'eternità della vita. Soffrire la disciplina del ragionamento e dell'esperimento Angelo Conti, Leonardo piitore 101 per aver in fine, come premio, la visione della vita, non h forse una divina aspirazione? Più la sua conoscenza, nel quotidiano osservare e meditare, gli svelava nuove leggi e nuovi segreti, più cresceva in lui l'amore per tutta la natura ; ne vi fu mai al mondo, dopo l' umile frate d'Assisi, chi l'abbia amata d'amore più puro e più ardente. Chi più conosce 'pia ama^ sono le sue parole. In questo amore generato dalla conoscenza è tutto il segreto dell'opera di Leonardo, dai manoscritti e disegni alle pitture. Il suo realismo è un mezzo per giungere all'idea, è il modo ch'egli adopera per ricomporre ciò che prima ha scomposto, in maniera che la natura stessa sembri formarsi dinanzi a noi e farci assistere alla sua stessa creazione. Chi conosca i manoscritti di AYindsor, nei quali i disegni hanno un'importanza assai maggiore del testo, può convincersi agevolmente di questa verità e può anche comprendere (cosa che in questo momento deve particolarmente interessarci) che quando Leonardo parla di anatomia o di fisiologia, come nei così detti trattati che si vanno ora pubblicando, egli non è mai un anatomico vero e proprio, ne un vero fisiologo, ma è sempre prima d' ogni altra cosa e sopra ogni altra cosa pittore. Tutta la sua opera di scienza, tutti i suoi disegni d'anatomia, d'embriologia, di botanica, non ser- vono se non a rendere più vasta, più profonda e più ricca la sua visione pittorica dell'uomo e della natura. La scienza non è se non un mezzo d'espressione della sua visione del mondo, ed egli se ne giova per dare un carattere di precisa realtà agli ardimenti del suo sogno. Scopo del suo immenso lavoro e di giungere a creare ima- 102 Angelo Conti, Leonardo pittore g'ini clic sembrino nate con le stesse leggi con le quali la natura produce le sue forme : qual fanno le cose. E doloroso che nella sua vasta opera essenzialmente pittorica, nella quale " non fu impedito „ , come egli dice, " da avarizia o da negligenza, ma solo dal tempo „ , manchi irreparabilmente una fra le pagine piti vive e più grandi: La Battaglia d'Anghiarl. Scrivo queste parole vicino a Santa Maria Novella, a pochi passi dal luogo nel quale egli disegnò r opera maravigliosa. Le campane che suonano nel campanile roseo al primo sole del mattino, sembrano diffondere sul mio ricordo una voce dì pianto. Li pochi mesi il lavoro fu compiuto, e immediatamente cominciata la pittura a fresco per la sala del Consiglio in Palazzo Vecchio. Leonardo vi dipinse dal 1504 al 1506. Poi l'opera fu da lui abbandonata. Nel 1559 il cartone di Leonardo era ancora nella sala del Papa, mentre il cartone della Guerra di Pisa disegnato da Michelangelo era nel Palazzo dei Medici, l'uno e l'altro esposti all'ammirazione del mondo. Da queir anno manca ogni notizia. Della pittura incominciata in Palazzo Vecchio si sa soltanto che nel 1513 esisteva ancora, ma cadente a causa della cattiva preparazione dell'intonaco e dei colori. Cito, contro il mio solito, dati di fatto e date, perchè l' opera pur troppo manca. Se l'opera esistesse, il suo linguaggio renderebbe insostenibile la voce della cronologia ; ma poiché è perduta, ci è necessario contentarci delle parole di chiunque ce ne parli. I due tre ricordi pittorici rapidi e sommari dell' episodio centrale della battaglia, non bastano a dare un'idea di ciò che fece Leonardo. Angelo Conti, Leonardo irittore 103- Chi sa in qual modo maraviglioso e straordinario egli avrà rappresentato la mischia, la furia guerresca intorno allo stendardo, che sappiamo fosse nel centro, qnal prodigio di scorci, quale evidenza di movimenti, nobiltà ed impeto di gesti e quale perfezione di cavalli, dei quali egli conosceva la vita come nessuno dei suoi tempi ! Di tutto ciò nulla e rimasto. Io imagino che nell'anno in cui ogni traccia dell'opera scomparve, la natura, per compensare il mondo, dovè creare una primavera favolosa, non veduta mai. Poiché nel mondo nulla si perde, e quando una bellezza è distrutta, sia essa una selva che arda, un' isola che si sommerga, un capolavoro che cada in rovina, la natura provvida fa nascere nuovi germogli, suscita nuove bellezze e nuove energie, e la sua forza di creazione rimane intatta in virtii della sua maggiore attività : il mutamento. 

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