cocconato: Grice: “I like Coconato – I used to
say that the first task for the historian of Italian philosophy, unless you are
a member of La Crusca, is to decide on the surname – I like Cocconato! He spent
some time in London, as I did – and he shows that the average Italian
philosopher is a nobleman, or vice versa!” – Grice: “Venturi revived Cocconato,
as did the re-issuing of his “Moral Discourses”!” -- “Manhood and unbelief” -- Alberto
Radicati, conte di Passerano e Cocconato (Torino), filosofo. Libero pensatore, fu
il «primo illuminista della penisola», secondo una definizione di Piero
Gobetti. Cocconato matura il suo pensiero anti-clericale nel clima
dell'anticurialismo sabaudo ben presente in alcuni settori della corte di
Vittorio Amedeo II, re di Sardegna. S'ignora tutto della sua prima formazione,
verosimilmente affidata a qualche ecclesiastico. Un infelice matrimonio
precoce, combinato dalle famiglie, lo coinvolge ventenne, e già due volte
padre, in una serie di penosi contrasti il cui significato travalica i conflitti
coniugali. Mentre a prendere le parti della moglie si mobilita il partito
devoto-clericale, Radicati trova sostegno a corte in chi appoggia il re sabaudo
nei suoi conflitti giurisdizionali con la Curia romana. Il
grottesco-ironico racconto della sua «conversion pubblicato a Londra e
ripubblicato con il titolo “A Comical and True Account of the Modern Cannibal's
Religion” induce a datare intorno agli anni venti il precipitare della crisi
della fede cattolica in cui il conte era stato cresciuto. Nell'opuscolo
autobiografico presenta la sua personale vicenda come un caso emblematico di
«uscita dalla minorità. Narra infatti come, a partire dal contrasto tra santoni
bianchi e santoni neri monaci cistercensi e quelli agostinianisui presunti
miracoli operati da un'immagine della Vergine, rinvenuta nel convento
agostiniano, avesse cominciato a vacillare in lui la fede e come, verso i
vent'anni, avesse cominciato anche in campo religioso “a far uso della mia
ragione.”Importante per la sua ulteriore maturazione intellettuale è il viaggio
compiuto nella Francia della "Reggenza" tin cui poté ampliare il
raggio delle sue conoscenze e forse procurarsi testi libertine come La Sagesse
di Charron, l'Hexameron rustique di Vayer o il Traité contre la Médisance di Brosse,
in cui ricorrono motivi che troveranno eco e sviluppo nelle sue opere. Il
suo scritto principaleI discorsi morali, storici e politici redatti su diretto
incarico di Vittorio Amedeo II nel mutato clima conseguente alla ratifica del
Concordato stipulato tra regno sabaudo e Benedetto XIII diverrà anche la
ragione vera del suo esilio. Il conte, che da un riacquisito potere
dell'Inquisizione a Torino deve temere per la sua libertà e per la sua stessa
incolumità, lascia segretamente il Piemonte per dirigersi a Londra, dovendo poi
subire per questa fuga non autorizzata dal sovrano il sequestro e la confisca
dei beni. A Londra pubblica con un discreto successo l'instant book che
ricostruisce i retroscena della recente abdicazione di Vittorio Amedeo II
mentre, al contempo, lavora alla stesura del più audace e radicale dei suoi
scritti, “La Dissertazione filosofica sulla morte,” che, tradotta da JMorgan,
uscirà dai torchi londinesi destando un enorme scandalo. Nella Dissertazione,
che gli costa anche l'esperienza delle carceri della tollerante Inghilterra di
Walpole, propugna il diritto al suicidio e all'eutanasia sullo sfondo di una
esplicita filosofia materialistica che scorge nel Deus sive Natura
spinoziano-tolandiano il suo unico grandioso orizzonte di senso. Nella sua
meditazione sulla morte e sulla liceità del suicidio si inserisce in un
dibattito che già Montesquieu aveva rilanciato nelle Lettere Persiane,
riprendendo una discussione inaugurata nel Seicento da Donne con il suo
Biothanatos. Interessato a proporre un progetto politico che esige come sua
prima tappa essenziale una riforma radicale della cristianità
occidentale, capace di affrancarla dal giogo clericale- o se si vuole, in
termini più neutri dal potere pastorale- la scelta del tema del diritto
individuale alla morte non è scelta casuale per quanto la meditazione sul
suicidio non sia priva di elementi autobiografici. Le chiese cristiane di ogni
confessione ritengono infatti un loro preciso dovere intervenire direttamente
nella gestione del trapasso a quella che esse, in base alla loro fede,
considerano la vera vita, quella ultraterrena. Del resto non solo il mondo
cristiano, lo stesso ebraismo e l'islam, finendo con il recepire come un dogma
l'interpretazione agostiniana del suicidio come omicidio di se stessi, per
secoli hanno considerato la morte volontaria come il più grave e irreparabile
dei peccati, suprema manifestazione di oltranza e ribellione alla volontà
divina, mentre le autorità statali, dal canto loro, si distinguevano per la
crudeltà inumana con cui trattavano i cadaveri dei suicidi e i beni dei loro
eredi. Se i Discorsi partivano dalla morale ricavata essenzialmente da
una lettura pauperistico-comunistica dei Vangeli che faceva di Cristo, al pari
di Licurgo, il grande critico dell'istituto familiare, nonché il fondatore di
una democrazia perfetta in cui non esiste né il mio, né il tuo»per poi
occuparsi di politica e concludersi in concrete proposte riformatrici, nella Dissertazione
filosofica fornisce una risposta alla legittimità del suicidio muovendo da una
concezione complessiva del mondo e dell'esistenza umana. Nonostante il suo
titolo, la Dissertazione filosofica sulla morte non rinnega affatto l'istanza
spinoziana che intende la filosofia quale gioiosa meditatio vitae, apertura mentale
a una possibile transizione da una condizione di servitù a una condizione di
più ampia libertà che è, simultaneamente, incremento della capacità del corpo
di comporsi e ricomporsi con altri corpi per realizzare la sua potenza e
ampliare la sua capacità di comprendere le cose. Definisce
l'individualità umana a partire dalle relazioni che essa intrattiene con il
tutto. Per quanto grandezze infinitesimali noi siamo materia della materia che
costituisce l'Universo nella sua indefinita immensità. La certezza che ci
resta, quando ci liberiamo dall'ignoranza in cui nasciamo e dagli idola tribus,
i pregiudizi con cui siamo allevati, è che noi siamo vicissitudini della
materia. La materia a cui pensa tuttavia nel suo esilio londinese e poi
olandese non è lo squalificato sostrato inerte che dai greci giunge fino a
Cartesio che, limitandosi a identificare materia ed estensione, continua ad
aspettarsi dal Dio creatore l'impulso motore e la creazione continua. Come per
il Toland delle Lettere a Serena e del Pantheisticon, la materia pensata dal
Radicati è la materia actuosa che reingloba nel meccanicismo moderno motivi
provenienti dal naturalismo rinascimentale a cui ineriscono direttamente
movimento e autoregolazione. L'universo è un mondo infinito in perpetuo movimento:
in esso nulla continua ad essere anche solo per un istante la stessa cosa. Le
continue alterazioni, successioni, rivoluzioni e trasmutazioni della materia
non incrementano né diminuiscono tuttavia il grande tutto, come nessuna lettera
dell'alfabeto si aggiunge o si perde per le infinite combinazioni e
trasposizioni di essa in tante diverse parole e linguaggi. La natura, mirabile
architetta sa sempre come utilizzare anche il minimo dei suoi atomi. La fine
della nostra individualità costituita dalla morte non è quindi fine assoluta,
perché niente si annichila nella materia e il principio vitale che ci
anima come non è nato con noi troverà sicuramente altre forme di esplicazione:
come la nostra nascita non è avvenuta dal nulla, non sarà nel nulla che ci
dissolveremo.-- è estranea ogni forma di lirismo e, tuttavia, una concezione
non lontana dalla sua rifiorirà in una delle pagine finali di uno dei maggiori
romanzi lirici della modernità, nell'Hyperion di Hölderlin che fa dire alla sua
eroina, Diotima: “Noi moriamo per vivere: «Oh, certo, i miserabili che non
conoscono se non il ciarpame arrabattato dalle loro mani, che sono
esclusivamente servi del bisogno e disprezzano il genio e non ti venerano, o
fanciullesca vita della natura, a ragione possono temere la morte. Il loro
giogo è diventato il loro mondo, non conoscono niente di meglio della loro
schiavitù: c'è forse da stupirsi che temano la libertà divina che ci offre la
morte? Io no! Io l'ho sentita la vita della natura, più alta di tutti i
pensierie anche se diverrò una pianta, sarà poi così grande il danno? Io sarò.
Come potrei mai svanire dalla sfera della vita, in cui l'amore eterno che è
partecipato a tutti, riunifica le nature? come potrei mai sciogliere il vincolo
che riunisce tutti gli esseri?» Opere Antologia di scritti, in Dal
Muratori al Cesarotti. Politici ed economisti del primo Settecento, tomo V, F.
Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi, Dodici discorsi morali, storici e politici,
T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò editori, Dissertazione filosofica sulla morte,
T. Cavallo, Pisa, Ets Vite parallele. Maometto e Mosè. Nazareno e Licurgo, T.
Cavallo, Sestri Levante, Gammarò editori, Discorsi morali, istorici e politici.
Il Nazareno e Licurgo messi in parallelo, introduzione di G. Ricuperati (check);
edizione e commento di D. Canestri, Torino, Nino Aragno Editore, Dissertazione
filosofica sulla morte, F. Ieva, Indiana, Milano Piero Gobetti, Risorgimento senza eroi. Studi
sul pensiero nel Risorgimento, Torino, anche in Opere completeSpriano, Torino,
Einaudi Franco Venturi, Adalberto Radicati di Passerano, Torino, Einaudi, Franco Venturi, Settecento riformatore, I,
Torino, Einaudi, Silvia Berti, Radicati
in Olanda. Nuovi documenti sulla sua conversione e su alcuni suoi manoscritti
inediti, in «Rivista Storica Italiana», S. Berti, Radicali ai margini:
materialismo, libero pensiero e diritto al suicidio in Radicati di Passerano,
in «Rivista Storica Italiana», J. I. Israel, Radical Enlightenment. Philosophy
and the Making of Modernity Oxford, Oxford University Press, passim Tomaso
Cavallo, Introduzione a A. Radicati, Dissertazione filosofica sulla morte,
Pisa, Ets, Tomaso Cavallo, Le divergenze parallele. Mosè, Maometto, Nazareno e
Licurgo: impostori e legislatori nell'opera di Alberto Radicati, introduzione
ad A. Radicati, Vite parallele. Maometto e Sosem. Nazareno e Licurgo, Sestri
Levante, Gammarò, Vincenzo Sorella, Un partigiano della ragione umana, in «I
Quaderni di Muscandia», G. Tarantino, “Alternative Hierarchies: Manhood and
Unbelief in Early Modern Europe, in Governing Masculinities: Regulating Selves
and Others in the Early Modern Period, ed. by S. Broomhall and Jacqueline Van
Gent, Ashgate, ,TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario di storia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere, M. Cappitti, Le Vite Parallele di Alberto
Radicati su blog.carmillaonline. Se poca fortuna ebbe come uomo politico e
consigliere di monarchi, non diversa fu la sua sorte di filosofo; e la sua
filosofia che ha a tratti momenti di luce viva e che riuscirono a destare
interessi e preoccupazioni persino nelli liberi circoli, giacquero come cose
inanimate dopo la sua morte, come se questa le avesse private, come il loro
autore, di quello spirito vitale che le fa palpitare. E l'oblio scese su di
loro, crudele e inesorabile, facendo perdere la conoscenza di la sua filosofia.
Infatti il Saraceno pubblicando il « Manifesto» e le due « Lettere »
indirizzate, l'una a Vittorio Amedeo II, l'altra a Carlo Emanuele III e
premettendo alla sua edizione alcune notizie di carattere biografico e
bibliografico, limita, pur credendo di darne l'elenco completo la sua filosofia
a quelli saggi da lui pubblicate e a quell'altre contenute nel Recueil edito a
Rotterdam. Cat. del British Museum sotto il nome di Thomas Joseph Morgan, il
suo traduttore. Più la “History” edita a Londra. Da quel momento, per quei
pochissimi che del nostro s'interessarono, le parole del Saraceno furono
vangelo, e la filosofia dimenticata scomparvero definitivamente, come
non-esistente, dalla sua bibliografìa. La sensazione iniziale di una possibile
lacuna nell’elenco della sua filosofia, divenuta certezza in seguito ad alcune
notizie rinvenute nel carteggio diplomatico tra l’inviato piemontese a Londra e
la Corte di Torino, in cui era fatta la sua parola, mi determinò alla ricerca
di questa filosofia sperduta. Quasi del tutto infruttuose furono le ricerche in
Italia -- due sole lettere rinvenni all'Ai-, di Stato di Torino --. Fortunate
invece all'estero e precisamente alla Biblioteca Bodleiana di Oxford, al
British Museum di Londra, ed alla Staats Preusische Bibliothek di Berlino,
dimodoché tenendo conto dei nuovi materiali trovati, la sua filosofia risulta
in una elencazione definitive. Manifesto di A. I. R. di P. (Archivio R. di P.,
Castello di Passerano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. Memoria rilasciata
al Marchese d'Aix. Lettera scritta dal conte A. R. di P. a S. M. il Re Vittorio
Amedeo lì inserviente di prefazione ai discorsi da lui compilati e che
intendeva dedicare alla prelodata Maestà sua. (Ardi. Stat. di Tor., Storia
della Real Casa, Cat. terza, Storie pari). Lettera alla Contes. di S.
Sebastiano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. “Christianity set in a True
Light” in “XII Discourses Political and Historical. By a pagan philosopher newly
converted” (London. Printed for J. Peele at Lockes Head in Pater-noster-Row;
and sold by the Booksellers of London and Westminster). “The History of the Abdication
of Victor Amedeus II, Late King of Sardinia with his confinement in the Castle
of Rivole, Shewing the real Motives, which indue'd that Prince to resign the
Crown in Favour of his Son Charles Emanuel the present King, as also how be came
to repent of his Resignation with the secret Reasons that urg’d him to attempt
his Restauration. On a letter frorn the Marquis de T. . . a Piemonlais now at
the Court of Poland; to the Count de C. in London. Printed and sold by A. Dodd
without, Tempie-Bar; E. Mutt and E. Cooke, at the Royal. Dell'opera n. 9 ne fa
recentemente parola il NATALI, Milano. Royal Exchange ; and by the Booksellers
and Pamphletsellers of London and Westminster MDGCXXXII. “A phliosophical [sic]
dissertation upon death composed for the consolation of the unhappy, by a
friend to Truth” (London. Printed for and sold by W. Mears at the Lamb on Ludgate-Hill).
Lettera a S. M. il Re Carlo Emanuele III0 colla quale supplica la prelodata S.
M. di voler gradire la dedica della opera da lui composta e già presentata alla
fu S. M. il Re Vittorio Amedeo IIC . (Arch. Slato Torino - Storia Real Casa -
Cat. Ili - Storie particolari). Twelve discourses concerning Religion and
Governement, Inscribed to all lovers of Truth and Liberty by Albert Comte de
Passeran, Written by Royal Command, The second Edition” (London, printed for
the Booksellers, and at the Pamplet shops in London ad Westminster). Recueuil
de pieces curieuses sur les matieres les plus interessantes – Rotterdam, Chez
la Veuve Thomas Johnson et Fils - contenente: Dedica a Don Carlos; Factum d'A.
R. de P. parce quel on voit les motifs qui l'ont engagé a composer cet ouvrage.
Douze Discours Moraux, historiques et politiques, preceduti da una Declaration
de l'Auteur, Histoire abregée de la profession sacerdotal, ancienne et moderne
a la tres illustre et tres celèbre secte des esprit-forts par un Free-Thinker
Chrètien, Nazarenus et Licurgos mis en parallele par Lucius Sempronius neophyte,
Epitre à l'Empereur Trayan Auguste, Recit fìdelle et comique de la religion des
Cannibales modernes par Zelin Moslem, dans lequel l'auteur declare les motifs
qu'il eut de quitter celte abominable Idolatrie, traduit de l'Arabe a Rome par
M. Machiavel [sic] imprimeur de la Sacrée congregation de Propaganda fide, con
prefazione dell'editore. Projet facile, équitable et modeste, pour rendre utile
à la Nation un grand nombre de pauvres enfans, qui lui son maintenant fort à
charhe, traduit de l'Anglois. Sermon perché [sic] dans la grande assamblé des
Quakers par le fameux frere E. Elwall dit l'Inspirée, traduit de l'Anglois a
Londres, au depens de la Compagnie. La religion Muhammedane comparée à la
paienne de l'Indostan par Ali-Ebn-Ornar, Moslem epitre a C.inknin, Bramili de
Visa - pour traduit de l'Arabe. A Londres au depens de la Compagnie. Notiamo,
ora di queste opere le notizie e di caratteri più salienti. Fu edita dal
Saraceno, nell'opera più volte citata. Il testo rimane nella sua grafia del
tutto immutato, con le inconstanze di scrittura (et, ed; chino e hanno)
caratteristiche del filosofo; alquanto mutata è invece la punteggiatura, e gli
alinea, la prima più scorretta nel testo originale, i secondi inesistenti nel
MS., che corre tutto di seguito. Questa lettera con la quale comunica a
Vittorio Amedeo II il suo desiderio di fargli pervenire la cassetta e di cui
abbiamo notizia sia dalla lett. del March. d'Aix, sia dalla risposta del March,
del Borgo, che c'informa pure del suo contenuto, per quante ricerche abbia
fatte all'Arch. di Stato di Torino, non mi è stata possibile trovarla. Questa
Memoria inedita si trova all'Ardi, di Stato di Torino. Fu edita dal Saraceno ed
è una copia della lettera originale andata perduta. Delle lettere comprese
sotto questi due numeri abbiamo notizia da una lettera del Cav. Ossorio al March.
Del Borgo e dalla risposta del Del Borgo. Ma non mi è stato possibile poterle
rintracciare. Quest'operetta edita, in un elegante Vili0, dopo due anni di
soggiorno in Inghilterra, doveva nella mente dell'Autore essere composta di
dodici discorsi. Fu edita invece incompleta contenendo solamente un
“Preliminary discourse in wich the Author gives a particular account of his
conversion” e il Discourse I, “Of the Precepts and Life of Jesus Clirist”. Al
primo di essi corrisponde alquanto mutato nella forma e nell'estensione il
Recit, contenuto nel Recueil. Al secondo corrisponde invece esattamente il
Discorso I. Cfr. Twelve Discourses riprodotto poi integralmente dal Discours, Des
Preceptes et des Mrnurs de Jesus Christ, dei Douze Discours, moreaux ecc.editi
nel Becueil „. Ritornando al Preliminary discourse abbiamo detto che questo
discorso fu riprodotto nelle sue linee sostanziali dal Recit incluso nel
Recueil, ma molte varianti, e alcune di valore capitale sussistono fra i due
testi. Accenneremo, qui, da un punto di vista generale, le caratteristiche più
salienti dei due testi, e la maggior importanza che può avere, da un punto di
vista biografico, l'edizione inglese; e infatti, pur essendo quest'ultima
mancante dell'introduzione che troviamo nel testo di Rotterdam. L'imprimeur au
lecteur judicieux, e della apocrifa Bolla di Benedetto XtlI, le numerosissime
note esplicative, che svelano luoghi, nomi e date, la rendono di una importanza
capitale per la ricostruzione della vita del filosofo. Senza questa edizione,
corredata di note e di avvertimenti, veramente preziosi, sarebbe stato
impossibile, per qualsiasi biografo, fare risultare dal semplice testo le
notizie importantissime documentanti la conversione del filosofo al calvinismo.
L'assenza di note del Recit e l'espressione più attenuata, in taluni punti, del
testo inglese costituiscono i caratteri differenziali fra le due edizioni. I
titoli dei discorsi annunciati, ma non editi nellla Christianity sono i
seguenti: Discourse II: Of the Doctrine and Manners of the Apostles and
Primitive Christians. Discourse III: The Christian Religion to the Religion of
Nature itself. Discourse IV: What were the Causes of the Corruption of the Christians.
Discourse V. Of the Mischief done to Christianity by the great Number of
Churches and Ecclesiasticks. Discours VI. By what Means the Bishop of Rome are
become Souvereigns of that Capital of the world. Discourse VII: That neither
the spiritual nor temporal power of priests is authorized by the Gospel. Discourse
VIII. Of the claims, by which the Papal Monarchy has maintained, continues to
maintain and will maintain itself, as long as it can make use of them.
Discourse IX. Of the evils caused by priests to sovereigns and their states.
Discourse X: Of Natural right: Of the origin ond Nature of Government. Discourse
XI: Of Religion in General. That all authority Spiritual as well as Temporal
belongs, de jure, to the Sovereign; and how Ecclesiastical Affair should be
regulated. Discourse XII: Of the Advantage that will accrue to Sovereigns and
States, from the Observance of the Rules. Come si può presumere dai titoli i
discorsi mancanti non avrebbero dovuto essere altro che quelli contenuti nei
“Twelve Discourses” come di fatto prova il primo discorso contenuto nella
Christianity del tutto analogo al primo di quelli contenut i nei “Twelve
Discourses” cosa, del resto, ch e si può rilevar e facilmente confrontando
rispettivamente i titoli delle due edizioni, che, pur essendo vi qualche tenue
variante di espressione, sintettizzano reciprocamente un analogo contenuto.
Copia di questa edizione l'ho trovata soltanto al British Museu m di Londra. Di
quest’opera falsamente attribuita al Marchese Trivié o ad un certo Lamberti ma
che già il Saraceno ed il Carutti avevan o rivendicat a al filosofo, furono
fatte numerosissime edizioni. Citiamo quelle che abbiamo potuto rintracciare e
confrontar e con l'edizione inglese che possediamo. Anecdotes de l'abdication du
roy de Sardaigne Victor Amédée II, ou l'on trouve les vrais motifs qui ont engagé
ce prince a resigner la couronne en faveur de son fils Charles-Emmanuel a
présent roi de Sardaigne. Comment il s’en est repenti, avec les raisons et les
intrigues secretes qui l'ont porte à entreprendre son rétablissement par le
marquis de F*** piemontois, à present à la Gour de Pologne; en forme de lettres
écrite au comte de G*** a Londres. S. 1. in Vili. Histoire de l'abdication de
Victor Amédé e nel volumetto La politique des deux partis, ou Recueil de pièces
traduites de l'anglois de Bolingbroke et des Frère s Walpole (la Haye). Con la
stessa intitolazione: Génève contenente una seconda lettera da Ghambery, probabilmente
pur essa de filosofo. Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi de
Sardaigne, Paris, in 4°, erratament e attribuiti dall'Oettinger ad un Lamberti
non meglio identificato. L'Oettinger dà una traduzione tedesca dell’Histoire
edita a Francoforte. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de
Sardaigne, et de sa detention au Ghateau de Rivoli. Où l'on voit les veritables
motifs qui obligerent ce prince d'abdiquer la couronne en faveur de
Charles-Emmanuel, son fils, et ceux qu'il eut ensuite de s'en repentir et de
vouloir la reprendre. Lettre écrite au Conte de C*** a Londres, par le marquis
de Trivié, qui est à présent à la Gour du roi de Pologne, edita nel "
Recueil de pièces qui regardent le gouvernement du royaume d'Angleterre, et qui
ont rapport aux affaires présentes de l'Europe, traduit de l'Anglois, la Haye. Histoire
de l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Genève, pure attribuita
dall'Oettinger al Lamberti. Cfr. OETTINGER, Bibliographie biographique
universale, Paris. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne
etc. de sa detention au Ghateau de Rivoli et des moyens qu'il s'est servi pour
remonter sur le trone, à Turiu. De l'impremerie Royal. Anecdotes de
l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée II, Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne
Victor Amédée II. Edita sotto il nome di Marchese di Fleury che il Qnerard ritiene
pseudonimo di Marchese di Trivié. Histoire de l'abdication de Victor Amédée Roi
de Sardaigne ecc. De sa detention au Ghateau de Rivole, et des moyens dont il
s'est servi pour remonter sur le trone. Nouvelle édition sur celle de Turin de
1734-, a Londres, 1782. Non abbiamo creduto necessario per quanto il testo
inglese rappresenti il testo originale redatto dal P. di annotare le poche
varianti che esistono più di forma che di contenuto. N. 9 di questa operetta,
che ho trovato solamente al British Museum, catalogata sotto il nome di Thomas
Morgan (l'indicazione della bibliografia del B. M. è : " A philosophical
dissertation upon Death - Composed for the consolation of the Unhappy (By A.
Badicati Count di Passerano translated or edited by John, or rather Thomas
Morgan? era data notizia tanto dal Cav. Ossorio, che ne espone in brevissime
righe il contenuto e ci avverte che fu causa di prigionia per l'autore e il
traduttore, quanto dal Lilienthals, dal Kahl e dall'Henke (1). Completamente
dimenticata dai più recenti studiosi del R. compare citata dal Natali senza
indicazione nè di data nè di luogo di stampa. Secondo quanto afferma l'Ossorio,
l'operetta stesa in lingua italiana dal R. sarebbe stata tradotta da " un
de ses compagnons „ " en bon Anglois „ e sotto il nome di questo
traduttore, che si seppe più tardi essere, Thomas Morgan essa andò per alcun
tempo. N. 10 fu edita dal Saraceno (4) ed è una copia della lettera originale
andata smarrita. La scoperta di questa nuova edizione, ricordata in alcune
opere Cfr. HENKE , op. cit. loco cit. LILIENTHALS , op. cit. loco cit. FREYTAG
, op. cit. loco cit. VOGT , op. cit. loco cit. BAUER : op. cit. loco cit., WAHIUS
, op. cit. loco cit. Cfr. NATALI: II settecento. Ove però compare come semplice
elencazione bibliografica, senza indicazione nè di luogo di stampa, nè di data.
quasi contemporanee, fa cadere l'affermazione che i " Discours „ siano
stati stampati per la prima volta a Rotterdam nel " Recueil „, e che
quindi sino al 1736 i " Discours „ medesimi siano rimasti manoscritti
nelle mani del R. Risulta invece, (poiché posto che esista la primissima
introvabile edizione in tutti i casi non la possiamo ammettere edita prima del
1733 per le ragioni stesse che giustificano l'edizione de! 1734) che il nostro
si decise a dare alle stampe i " Discours „ dopo aver visto che non
sarebbe mai riuscito a dedicarli a C. E. (3), e che di conseguenza dallo
stampare o no quanto aveva inviato a V. A. non sarebbe più dipesa la possibilità
di ritornare o meno in Piemonte. Comparve in tal modo l'edizione inglese dei
" Discours „, la quale messa in confronto con quella di Rotterdam ha dato
i seguenti risultati: Mancano nell'edizione inglese la " Dedica „ a Don
Carlos (sedizione Rotterdam pag. Ili a pag. X) e il " Factum „ fonte di
preziose notizie biografiche (edizione Rotterdam da pag. 1 a pag. 10). mentre
che la Declaration de Vauteur „ contenente i motivi che hanno spinto alla
compilazione dell'opera, e i criteri seguiti nel suo svolgimento, che
nell'edizione londinese occupa dieci pagine (V-XV) e che sotto riproduciamo è
ridotta nell'ediz. di Rot. ad una pagina e un terzo. TH E AUTHOR' S DECLARATION
. Tho' prefaces are quite out of fashion, I yet hope the benevolent reader will
forgive me for making a short declaration concerning the publication of this
work , as follows. BAUMGARTEN : Narichten von einer Ilallischen Bibliothec, ENGEL
: Bibliotheca selectissima seu catalogus librorum omni scientiarum genere
rarissimorum - BERNAE, TRINIUS : Freydenken Lexicon. - Leipzig, und Bemberg, Erster
Zugabe zu Freydenken Lexicon, Voi. I, pag. 1098 . MASCH I Beilriige zur
Geschichte merkwiirdiger Biicher, Wismar, SCHROCK : Cristliche
Kirchengeschichte seil deiReformation - Leipzig SCHLEGELS : Kirchengeschichte des 18 Jahrunderts,
Heidelberg. Il RENOUR D nel suo " Catalogne d'un Amateur citato dal QUERARD. Les supercheries
litteraires dévoillés, Paris, sotto il nome Ali-Ebn-Omar-Moslen) afferma
parlando del P: Il n'existe de son Recueil que deux exemplaires sur grand
papier, celui de la Bibliotheque du Roi, et le mien „ Di questa edizione,
probabilmente in foglio o in 4° grande, (" sur grand papier „) non siamo
però riusciti ad averne traccia nè notizia alcuna. Infatti la lettera
indirizzata dal P. a CARLO EMMANUEI.E rimase senza risposta. Cfr. lettera, cit.
In primis & ante omnia. I do declare that this Work was written at the
Command of a great PRINCE, who would be plainly inform'd of all the matters
contain'd in it : and as that PRINCE was then reputed to be one of the greatest
Politicians of his Age, I was oblig'd to proportionate my Labour to his
profound Capacity. So that if I have reveal'd some Religious or Civil Mystery,
which had generally been conceal'd, I have methink given a suffìcient Reason
for it: However, I have alter'd some Passages and soften'd some Expressions, to
make them more intelligible and more agreeable to the Reader. I do solemnly declare,
that in all this Work I had nothing in view but Truth, Equity, or Justice: In a
word, the Good of Mankind in general; and I flatter my self that all who shall
peruse it with candour, shall be convinced of the Rectitude of my Intentions. I
do declare, that I have kept dos e throughout this Work to the Doctrine and
Morality of our Saviour, occording to the best of my knowledge; and I hope I
have not advanc'd anything without good authorities. I do protest before GOD
and Men, that whatever is said in this Work concerning the Church or Clergy is
to be understood of the Popish Church and Clergy only (who really have long
since abandon'd and despis'd the most sacred Precepst of our Blessed LAWGIVER)
and not of any other church whatsoever; whose Clergy and Prelates being very
humble, vastly charitable, pious, and such utter Enemies to Grandeur and
Riches; may justly be stiled the true and only Imitators of Crist's Disciples,
and of those primitive good Prelates (*) instituted by the Apostles. (*) See
the 54th page of this Book, and you will fìnd what their duty was, and with
what Qualities they were endued. Item. I do declare, that I have not her e
opposed the superstitious Tenets of the Popish Church ; for this has been so
often done ever since the Reformation, and by so many Learned Divines, that it
would be vain to attempt it. Besides, Popish Princes little regard at this time
wha t is said against Transubstantiation, Purgatory, Confession, Invocation of
Saints, and such like; as (pag. X ) things, which ways affect their temporal
Interest : so, whethe r these opinions are well or ill-grounded ; whethe r they
spring from Heaven, or from Huma n Malice, 'tis no matter. But wer e they to
know how prejudicial the Popish Religion is to their AUTHORITY, and to the
WELFARE of their several Countries; they then would undoubtedly think upon the
proper Expedients to preserve themselves and their Subjects from Ruin ; and
this is wha t I have endeavour'd (pag. XI ) to make evident in the ensuing Work
. I tlierefore hope it will prove very beneficiai to such Princes, and even be
of some service to this Country, particularly at this time, whe n " the
Emissaries of Popery (as a worthy Divine (*) has observed) have increased their
Diligence in gaining Proselytes, and are now more industriously employ'd in
every Corner of our Metropolis than ha s been any time known in the present Age
„. (*) Dr. Clarke' s Sermons, pag. 18, LASTLY, ] declare that I have made
use of ali the Reason and Understanding 1 ara master of, to discover (pag. XII
) the TRUTH S contained in the sacred Writings, so hidden and involv'd in
Mysteries ; in order that by them TRUTH S I might procure my own Happiness and
that of others. I presume I have found them, and for that reason 1 now publish
them. But if I have unluckily fallen into any involuntary Error, as I know
myself not to be infallible. I earnestly entreat ali the orthodox and eminent
Divines of this happy Kingdom, to poiat them out to me, and to convince my
Reason by Reason itself, that I may both retract and avoid them. (pag. XIII ) And
I farther beg of our SPIRITUAL DIRECTORS that in case they, f'avour me with
this salutary Advice, to do it not with Passion and Bitterness, but LAWGiVER ha
s expressly commend (*). For nothing is paser, worlliy, and more scandalous;
nay, mor e contrary to the very Principles of the Christian Religion, tlian to
rad, calumniate, to load with odious Appellations, and persecute those who
labour Day and Night to find out the TRUTH, buried as it is in the dark Abvss
of Errors and Superstitions. (*) Matth, XVtlI, 21, ete. AFTER having made this
plain Declaration, as I know myself to be wholly destituted of Freinds; I hope
that the ALIGHTY GOD, whose Powe r is above ali Huma n Artifice and Malice,
will protect me against those, that will certainly promote my Destruction, for
having openly espoused the Cause of TRUTH and EQUITY. Il Discorso I (Ediz .
lond . pag . 1-13 ; Ediz . Rot . pag . 15-26 ) è integralmente riprodotto nella
edizione olandese: uniche varianti sono le seguenti : Pag . 2 - in not a
Collins è qualificato : 0 great and goodman „ attribut i c h e mancan o
nell'Ediz . de l 1736 . Pag . 11 - manc a la not a sul ministr o Jurie u ch e
si trov a a pag . 2 4 dell'Edizion e di Rotterdam . Il Discors o II (Ediz .
lond . pag . 14-25 ; Ediz . Rot . pag . 27-37 ) è pur e ess o integralment e
riprodotto . Unich e varianti : pag . 21 - in not a su Bayl e (cfr. pag . 3 5
ediz . di Bot.) è aggiunt o " and 1 shall not be tought in the vrong for
vanking him withe Heliogabalus „. Pag . 24-25 , nota , dop o le parol e "
universally observed „ " généralement observées „ pag . 3 7 ediz . Rot.)
ch e no n si trov a nell'edizion e del 1736 : " I say universally
observed: for wer e there a Society or Republic, however great it might be,
that should be inclined to observe the Laws of Gbrist, it would be obliged for
their own preservation, to lay aside the laws of Christ, or suffer themselves
to be destroyed by following them. - In a word, a Society of true Christians,
wer e they as numerous as the whole Empire of China, could no more make head
against a single Infide], who had a mind to plunder them, than a hundred
thousand Rabbits could make head against a hungry Lion, that should fall
in among them. But if ali Men, without exception, were good Christians, it is
most sure they would be exceding happy. For, being without Ambition, Envy and
Revenge, nothing would be capable of di sturbing Iheir Quiet - Here on Gonsult
- Bayle's Pensées diverses chap. 141 - continuation des Pensées - Ghap. 123 -
124 „. Il Discorso III (Ediz. lond. pag. 26-52 ; Ediz. Rot. pag. 38-60) ò
invece del tutto diverso - Cfr. quindi il medesimo riportato in Appendice. Il
Discorso IV (Ediz. lond. pag. 53 72; Ediz. Rot. pag. 61-76) è quasi del tutto
riprodotto integralmente; però da pag. 63 (dopo le parole " le
gouvernement de leur Eepublique „, pag. 69 dell'ediz. di Rot.) il testo
prosegue con 2 pagine in più che qui appresso riproduciamo. But they wer e
never practised, for, if we carni fully examine the Epistles of the Apostles,
we shall find that in effect they ali agreed in acknowledging that the
Christian Religion wa s the best, but differed excedingly as to the Principles
of it For, Paul proposing to persuade Christians of the Trut h of that
Religion, and shew them wherein it consisted, says expressly, and in so many
words, that we ar e " not to boast of our good works, but of Faith alone
in Jesus Ghrist, for that good works ncither justify, nor save (*); but to him,
saith he, that worketh not, but believeth on him that justifieth the ungodly,
his Faith is counted for Righteousness (**) and shall save him „. James, on the
other hand, in a few words summing up the Essentials of Religion, and not
amusing himself with vain disputes, as Paul did, tells us; that " Faith
without good woorks will neither justify, nor save „ ; and gives us to'
understand that " good works will save us independent of Faith”This
Doctrine is highly just and reasonable, and more orthodox than Paul's. For wha
t avails it for a man to bellieve that Ghrist dieci to save him, so long as he
is cruel, covetous, revengful, and i*) Rom. IV. 5. (**) James II, etc. (***)
Rom III. 26, 27, 28. See also Gal lì. 16 {pag. 64) proud? were he not better
without that Belief, but good, charitable, and humble ? it is much better for a
man to be a Christian in practice without speculation, than to be a Christian
in speculation, without the practice; that is, it wer e better being a Savage,
who. tho' without any Religion, stili practised the duties of a true Christian,
who is resolved absolutely to obey none of the precepts of his Religion, tlio'
he firmly believes in its mysterles. This notion, so agreeable to the Justice
and Wisdom of God, and Intentions of Ghrist, would be of great advantage to
Society, wer e it put in practice. Now it is indisputable that the Apostles, by
building Religion upon various. and different foundations bave caused an
infinite numbe r of Quarrels and Schisms to spring up in the Christian
Gommon-wealth, by whieh it ha s been, and will ever be tome asunder most
assuredly, if it does not lay aside the mysterious, or incomprehensible
speeulations of Divinity, and frx wholly to those most holy and simple Tenets,
which Christ hath taught us, and are very easy to be observed, being the same
as those of Nature, as he himself has told us, saying: " Come unto me, ali
ye that labour, and are heavy laden, and I will give you Rest (*). Take my yoke
upon you, and learn of me, for I am meek, and lowly in heart, and ye shall find
rest unto (pag. 65) your Souls. For my yoke is easy, and my burden is light„,
and not grievous and insupportable, like that of cruel and ambitious men. (*)
Mat. Xt. 28, 29, 30. Il Discorso V (Ediz. lond. pag. 73-92; Ediz. Rot.) è
riprodotto integralmente. Notiamo soltanto che a pag. 80, in nota su S.
Cipriano dopo la parola " aucupari „, il testo segue: " Non in
Sacerdotibus Religio Devota, non Ministris fides integra, non in operibns
misericordia, non in moribus disciplina; sed ad decipienda corda simplicium
callide fraudes, circumveniendis fratribus subdolae voluntates - Cyprian de
Lapsis „, mentre è mutilo alla medesima parola “aucupari” nella Edizione di
Rotterdam. Il Discorso VI (Ediz. lond. pag. 93-124; Ediz. Rot. pag. 95-123) è
riprodotto nell'Edizione Olandese fedelmente. Il Discorso VII (Ediz. lond. ppg.
125-144; Ediz. Rot.) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche
varianti sono: Pag. 129 nota (dopo le parole " alors soni fausses „ pag.
128 Ediz. Rot.): " See what Bayle Says in his Pensées diverses, eh. 49, et
Contin. des Pensées diverses eh. 47. in arder to shew how ridiculous it is lo
enquire whant a thind is, before we have examined whether it really exist „.
Pag. 138 manca la nota della pag. 136 ediz. Rot. la parola “religion” è
tradotta nelle due ultime righe di pag. 139 dell'Edizione Rot. con "
Superstition „. Il Discorso Vili (Ediz. lond. pag. 145-164; Ediz. Rot.) è
riprodotto nell'Ediz. Olandese fedelmente. Il Discorso IX (Ediz. lond. pag. 165-188;
Ediz. Rot) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti sono:
Pag. 166 manca la nota Ediz. Rot. Pag. 186 manca la nota " cependant ces
Emissaires „ di pag. 180 81 dell'Ediz. Rot. Il Discorso X (Ediz. lond.; Ediz.
Rot.) ha subito una restrizione nelle pagine 189 a 200 ridotte nell'Ediz. Olandese
a sole cinque; riproduciamo qui di seguito il testo inglese. By natural
right (ius naturale), I mean the faculty given by nature to each individual,
whereby each of them is forced or determined to act, according as he finds it
necessary for the preservation of his own being. All animals are forced by nature
to eat, drink, sleep, etc. Therefore it follows, that they eat, drink, and
sleep of natural and absolute right, when they stand in need of them. In the
same manner, fish being by nature determined to swim, and the greater to devour
the smaller, consequently they enjoy water by natural right, and the greater by
the same right devour the smaller. Thus, birds are determined by nature to fly,
and by consequence possess the air by natural right, and birds of prey by the
same right feed upon the tame. For it is most certain that Nature considered in
the general, has an unlimited right over every part of herself: that is, this
right extends as far as her power extends, so that every thing that she can do
is lawful for her to do. For the power of nature is the very same as that of
God, whose right is eternal, and consequently unalterable. Now as the power of
nature is the same with that of every individual who make up that Nature,
without exception, it follows, that the right of no one is limited, but extends
as far as the strength and industry that nature has bestowed on them; and as it
is a general law for all beings, that each of them in particular shall
perpetuate his kind, as far as lies in his power, without regarding anything
save his own preservation. it follows, that the natural right of every indivual
is, to subsist and act to that end according to the power which nature has
given him. In this state man is not to be distinguished from the rest of
natural beings, no more than the words, reason, or wisdom, and folly; virtue,
and vice; honest, and dishonest, just and unjust are, etc. Wherefore there is
no difference between the wise and the foolish, the virtuous and vicious; for
every individual has a right to act according to the laws of his constitution
or organization. that is, according as he is determined by nature to such and
such a thing, without being able to act otherwise. So that considering man
under the empire of nature, as unacquainted with what philosophers call reason,
or virtue; and not having acquired a habit of either, they have, I say, as much
right to life in pursuing the dictates of their appetite, as they have that
live according to the laws of reason, virtue, and justice, with which they have
conneted their ideas. That is, that, as he who is called wise in society has a
right to do any thing that is dictaded to him by reason, and to live according
to the light of it; so the ignorant and foolish man in the state of nature has
a right to every thing his appetite suggests, and to live according to its
dictates. For, according to the apostle’s opinion before the law, or in the
natural state of man, no man could sin. Rom. 4. V. 15. It is not then the
business of that reason, or justice, to regulate the right of nature, but of
the desire or strength of every individual. For, so far is nature from determining
us to live according to the law and rules of this reason, that, on the
contrary, notwithstanding education, and the penalties appointed in order to
natural impulses. Such is the power of nature. New as we are obliged, as far as
in us lies, to preserve our natural being, so we cannot do it but by acting in
obedience to the laws of appetite, since nature denies us the actual use of
that reason, and none of us are more obliged to live according to the rules of
good sense, introduced among us by the civilised part of mankind, than an ant
is to live according to the nature of an elephant. From whence it follows that,
in the state of mere nature, we have a lawful right (ius iudicatum) to all things
whatever without exception, because nature has given all to every man, and may
use it without a crime, if we can get it, whether by force, or cunning, by
entreaties, or threats, so far as to look any one as enemy, who hinders, or
endeavours to hinder us from satisfying our appetite. Therefore, by natural
right, an animal may wish for whatever he pleases, and do whatever is in his
power to support his own individual, or satisfy his inclination. However we are
not to imagine that so unlimited a liberty can produce any great disorder
amongst animals of the same kind, as many have thought, because nature has
previded them necessaries in abundance; upon which foot, they can have none,
no, not thel esst dissension among them, as I have Lions, Wolves with Wolves.
Foxes with Foxes, Eagles with Eagles, and so all other species who are in the
state of nature. It is to be owned indeed that *discord*, not con-cord, envy,
and an implacable hatred reign between one species and another. And this would
in reality be a great defect and imperfection in nature, if her wisdom
consisted in making an animal happy for ever. For, upon such a supposition, the
pidgeon would have reason to complain of nature for not bestowing upon him a
sufficient strength to defend himself against the eagle. A hare mìght make the
same complaint as to a wolf; and he again as to the lion. But each complaint
would be unjust. For, Nature granted an animal his life but for a certain
limited time, which is an effect of her infinite goodness, to the end that
every being may succeed one another, and enjoy her benefits. Which could never
be, if an animal, once alive, were to be immortal. Therefore, since he must
necessarily die to make room for another, it imports little whether he dies in
this or that manner. Nay more, I insist that a pidgeon that is the eagle's
prey, and the wolf that is the lion’s, are happier than the eagle or lion that
have devoured them. For his death is sudden, and his pain short, whereas the
Eagle and Lion, languish and suffer long before they die, if they die a natural
death. Besides, a Lion or an Eagle may at his death complain of nature's
injustice, by making him the prey of innumerable and invisihle animals, that
lodge in their bones, and throughout their whole bodies, which feeding
upon the best and finest substance in their blood, and wasting alt llieir
animal spirit, kill him without mercy. For, those invisible animals that kill
not only a lion, but a man too, and every beast that dies of a natural death
has no more thought of the mischief they do in feeding upon their blood, than a
lion or a man when he kills another animals for food without mercy, they having
ali a power to do so by an absolute and natural right. An animal therefore, far
from complaining, tough constantly to thank Nature for her infinite justice and
goodnes to him, in giving them a limited life only. For, had she created him
immortal, she had shewed herself exceeding cruel; considering we are all
assured there is no condition of life, however happy, but what at last grows
rneasy and burthensom. As we see by those, who having passed most of their time
in the polite world, are desirous of retiring, and leading a private life in
the country; so he that lives in solitude, often longs for the pleasures of the
world; and lastly, he that has long enjoyed bolli, grows tired and out of
humour with them, and wishes for a new life thro' death. Now since an animal is
tired of life, he may be perpetually diversifying his pleasure, considering the
short date of his life; what would it be, were they to live for ever, without
ever varying the pleasures they (See the account of the Strulbrugs in Gulliver's
Travels. Part 3) had tasted in the first fifty years of life? Nay, how justly
might not they complain, who drag an uneasy languishiug life from the
infirmities to which they are subjects, or who perpetually groan under the yoke
of another animal, who makes himself no uneasiness in making him miserable, in
order to gratifiy his appetite? Every animal therefore ought to look upon death
as the most signal blessing he has received from the hands of Nature, and as
the effect of her incomparable wisdom; Death putting an end to their pain, aud
making them equal with his tyrant. What I have been now saying ought to
surprise no man, since Nature is not confined within the bounds of reason, or
the instinct of an animal; for the word Nature, of which an animal is but as so
much a small point, means an infìnity of other things that relate to an eternal
order, and that inviolable law, which gives being, life, and motion to all
things. So that what seems ridiculous, unjust, or wicked to an animal, and
above all to a man, appears such only because we know things but in part, and
because we cannot have an exact idea of the ties and relations of nature, we
not comprehending the immense extent of her wisdom and power. Whence it
preceeds, that what reason sets before us as an evil, is far from it in regard
to the order and laws of universal nature, but only in regard to those of our
own. This supreme natural right, which every animal enjoy, exclude not moral
good and evil, which is really to be found in the state of nature. I call
“morally good” any action of an animal tending to the preservation and
propagation of his own individual or his species, for he is then performing
their duty, by aiming at the end, proposed by Nature in their Greation. On the
contrary, I cali moral evil ali those actions of Animals, that are either in
the whole, or in part contrary to those notions, or sensations that Nature has
implanted in each of them, that they may perceive and know what is proper for
their subsistance, and for perpetuating their Species as far as in them lies.
Allwise Nature, the tender mother of ali Animals, not satisfied with impressing
on their mind those notions, has always affixed a proporlional recompense to
moral good, and a like punishment to moral evil, to the end that ali Animals
may chuse the one, and avoid the other with pleasure. Not that she had any
occasion to setlle such rewards and punishment in order lo be obeyed; for, as
she is Almighty, she well knew she should be obeyed, as she is in fact by ali
except one Species, which is Man. And it was for them se appointed them,
because knowing they had several cavities in their brains fdled with animai
spirits, which by a high fermentalion would so heat their imagination, as to
make them fall into a sort of madness, on Delirium. Nature, I say, to bring
them back from their wandring, has thought lil severely to punisti them,
whenever they swerve from their duty and act agreeably to the false notions
with whict that madnes inspires them, which notions tend to the destruction of
their own individuai, and to make their Species unhappy. I will explain my
self. It is well known, that ali Animals, except Man, act according to the
notions infused into them by Nature, commonly called Instinct, for instance,
knows its proper food, and the actions to be performed in order to live in
health, and perpetuate its Species. Consequently to these notions it acts, by chusing
at first such places as are agreable to it: some live in Marchs, some in the
Fields, some in the Plains, and others on Hills; some swim, other crawl, and in
short, some, called amphibious, live bo!h on Land, and in Water. Ali these
Animals perceive what they are to do in order to subsist Wherefore they eat,
drink, and make use of their females, when they have occasion ; mor did, or do,
any one of them ever force itself to eat, or drilli or enjoy its females, when
it was satisfied; nor did ever any of them ever voluntarily refuse to eat,
drink, or make use of their females, whenever Nature required it; thus by
denying themselves nothing necessary, and by never forcing themselves to do what
is beyond their strength, they lead a healthy and a happy life. But this is not
the case of Mankind. For, tho' they pretend to a greater share of wisdom and
reason than other Animals, their actions shew they have less than the rest of
them ; some thro' excessive folly eating and drinking when they are neither
hungry, nor dry, so far as lo bring distemper upon and kill Ihemselves;
and forcing themselves upon venereal pleasure when they are exhausted, is so
much as to destroy themselves : Others from a contrary madness, denying themselves
meat, and drink, and the enjoyment o' Women, and dragging a miserable life,
consume and pine away. Thus by not allowing Nature what she absolutely
requires, or forcing her beyond her strength, they are guilty of real moral
evil, from whence the Physical takes its rise, which cruelly torments them
their whole life time. Anolher madness, to which Mankind are subject, is
Avarice, which puts Men upon perpetually heaping up riches, without making any
use of them, for fear of wanting; so that the Miser not only makes himself
miserable, but greatly contributes to the misery of others. There is stili
another kind of madness, called ambition, that lords it over Man, which puts
most Men upon depriving themselves of what is really necessary to life, for
Ghimeras, that are entirely useless and superfluous to them. The ili effects of
this last folly have not stopped there, but produced the greatest disorders
amongst Men, and made theme more unhappy than alt other Animals. For, it has
happened, that some of them thinlcing themselves better than others, have
endeavoured to get above them, appropriate to themselves what belonged to the
rest by Naturai right, and make their companions their slaves. which by the
opposition they have found, has occasioned tumults, and civil Wars. These
different Phrensies that have taken possession of the minds of Men, and that
have in ali times scattered trouble and confusion amongst the race of Men, have
from time to time obliged wise Men (who made use of their reason in order to
preserve themselves from falling into that sad and terrible Delirium to which
they were liable) to admonish the rest with a view of reclaiming them from
their errore ; and those admonitions had sometimes so good an effect, that a
whole Nation perceiving anddetecting their Frenzy, voluntary submitted to the
decisions of those wise Men, and each Man, renouncing and disclaiming his
naturai right, promised obedience to them, upon condition that they on their
side should always endeavour to make that Nalion happy. This was the rise and
formation of Aristocratical Government. Da pag. 200 in poi (pag. 186 Ecliz.
1736) il test o corrispond e esattament e nelle du e edizioni; salvo le lievi
differenz a qui sott o notate . Pag . 207 - i puntin i di quest a edizione son
o son o sostituiti nell'edizione olandes e (pag. 102) " le coeur de Nobles
en àrbitraire ou absolu „. Pag . 22 3 : mancano le ultime due righe del testo
di pag. 20 6 ediz. Rol . 11 Discorso XI (Ediz. lond. pag . 224-248 ; Ediz .
Rot.) Titolo : "Wherein it is proveci that religion was introduced into
Society by legislatore, in order to give a sanction to their laivs; and that
consequenty ali sacred and civil authority belong de jure to the Prince
„. Le pagine 224 e 236 costituiscono, in confronto dell'edizione
olandese, una parte del tutto nuova, e corrispondente alla prima parte del
titolo, che difatli non si trova nell'Ediz. Rot. Diamo un breve riassunto di
queste pagine, che non parve necessario trascrivere integralmente. Il R. così
comincia: My design then in this Discourse is to make Princes sensible that
Religion was institued by legislators, in order to give strength and credit to
their Laws, and that Sovereign Princes, having the administration of civil
Laws, ought by consequence too have that of Religion; and thereby 1 propose
tvvo benefits. Tho first to Princes, by joining the sacred and civil authority
in one, and the second, to the People, by rescuing the from the Tiranny of
Priests. This then is what the most celebrated Historians teli us concerning
the Establishment of Religions „. A dimostrazione di questa tesi, l'intera
pagina è dedicata ad una di citazione Diodoro Siculo, libr. I pag. 49, Ediz.
Han.; l'inter pag. 227 ad una citazione di Strabone, Geograph. libr. 16 pag.
524, ecc.; indi dicendo di non voler citare anche Plutarco, Polibio, Erodoto e
Livio, il R. procede a citare " a Zaeloux and Leavned Jew „ cioè Flav.
Joseph, contra Appion. libr. 2, pag. 1071 - Edit. 1634, in fol., e " a
very candid popish Priest „ (pag. 230-235) è cioè Gharron, of Widson, book 2
eh. 5. In nota a pag. 235, così meglio identifica il Gharron : " Ile was
Canon and Master of the School of the Church of Bordeaux - He lived in
Montagne's time, and ivas his intimate freind - See Bayle's Did. Artide,
Charron „. E con tutte queste citazioni la dimostrazione è raggiunta: "
Wherefore 1 may be allowed to say without any impietg, that lleligion might be
subject to the Prince, to Religion „ (pag. 235). Dopo di che da pag. 236 a 248
continua con la seconda parte, che corrisposde all'intero Disc. XI dell'Ediz.
Rot. Unica differenza è che la nota a pag. " See in the life of Peter,
late Czar of Moscow how be wisely reduced the high Priest's exorbitant
authority io his own power „ è estesa nel testo a pag. 211 dell'Ediz. di
Rotterdam. " Enfin chacun fait toutes les autres nouveautéz „. Il Discorso
XII (pag. 249-271 Ediz. lond.; Ediz. Rot. pag. 211-238) è riprodotto
integralmente, ed unica differenza è data dalla mancanza a pag. 259 della
esistente nell'Ediz. di Rot. a pag. 228. N. 12: Abbiamo già parlato a proposito
del N. 11 degli scritti " a-b-c „ contenuti nel " Recueil „ ed a
proposito del N. 7 dello scritto " f „ ed abbiamo notato come la loro
prima comparsa, eccettuato per il " b „, sia avvenuta in lingua inglese, e
quali cambiamenti abbiano subito nella loro ultima redazione francese.
Notiamo invece per le operette " d „, " e „ che il testo dato dal
" Recueil „ deve presumibilmente essere l'unico lasciato dal P. ; nè
infatti abbiamo trovato di esse ediz. inglesi, anteriori o posteriori al 1736,
nè elementi o prove che suffraghino questa possibilità; potrebbe essere
presumibile che queste operette scritte dal R. ancora in Inghilterra e forse
già pronte per essere tradotte, siano rimaste a noi nel loro testo originale
per la fuga del P. in Olanda, oppure che compossle in Olanda, non avendo più
possibilità di trovare un traduttore, le abbia conservate e poi edite nella
loro lingua originale. Lo scritto " g „ è la traduzione dell'operetta
analoga dello Svvift: " A modest proposai for preventnig the children of
poor people in Ireland from beìng a burden to their parents or country, and for
making them beneficiai io the publick „ (1). Non esiste tra le due edizioni
alcuna differenza, che possano mutare lo spirito del testo originale le due
uniche varianti che abbiamo notato sono; l'introduzione a pag. 369 del "
Recueil „ della parole: " Gastigat ridendo mores „ immediatamente dopo il
titolo, e omesso dall'originale; e la sostitutuzione della parola " Spain
„ del testo inglese, con la parola " Rome „ della versione del R. pure a
pag. 369. Fu fatta nel 1749 a Londra una ristampa di tutto il N. 12 ("
Recueil de pieces curieuses sur le matieres les plus interessantes par A. R.
comte d. P. a Londre) ma dall'esame di questa nuova ediz. posseduta dalla Bib.
Querini-Stampalia di Venezia, è risultata l'identità, persino negli errori di
stampa coll'ediz. di Rotterdam. N. 13-14 formano nell'Ediz. originale un volume
solo, senza titolo generale, con pagine numerate progressivamente (da 1 a 47 il
testo n. 13, da 49 a 104 il testo n. 14). L'attribuzione di paternità al R. del
primo di questi opuscoli, e convalidata non solo da quanto afferma il "
Dictionary of National Uography „ edito dal Leslie Stephen, il Querard ed il
Barbier, ma dalla rispondenza che questo opuscolo ha con il Discorso III dei
" Twelve discours „. Notiamo le principali variati: Pag. 2: " peché
originai „ manca la nota del testo ing. Pag. 4-, nota 2: manca la cit. del
testo ingl. ; pag. 5, nota 1 e 3: manca il (1) Cfr. op. cit. in: The Works of
Jonathan Swift, London MDCCLX, V, IV, pag. 66-77 . (2) Cfr. Dictionary of national
biography, edited by LESLIE STEPHEN , sotto 'Elicali.’ Cfr . QUERAR D op . cit
. Col . 1231 , T III. Cfr. BARBIER : Dictionaire des onorages anonymes
etpseudonym.es - Paris, 1827 > T . III . N . 16186 . commento e la
cit. del testo ingl.; pag. 8, nota. 1, mancal a cit. del testo ingl.; pag. 10:
" vòtre pere celeste „ manca la nota del testo ingl.; pag. 11, nota 2:
manca la nota del testo ingl.; pag. 12 nota 1: manca il lungo commento del
testo ingl.; pag. 17 " ces Docteurs „ il testo ingl. ha “our Priest” e
nota 2: manca la cit. e il comrn. del testo ingl.; pag. 18 " vous dis-je
mes Frères „ manca nel testo ingl.; pag. 19 nota 1: manca la cit, del testo
ingl.; pag. 21 nota 2: manca la spiegaz. esistente nel testo ingl.; pag. 22:
"et comment auroit-il mieux „ manca la nota del testo ingl.; pag. 26:
" Amerique „ manca la nota del testo ingl.; pag. 27 e 28 sino ad: "
Enfiti temoin... „ mancano nel testo ingl.; pag. 32, nota 2: manca il lungo
coni, del testo ingl.; pag. 24 nota 2; manca la citaz. del testo ingl.; pag.
35: " les hommes hereux „ manca nel testo ingl. la nota corrispondente;
pag. 38 dopo le parole " ... leur dependence „ manca quasi l'intera pagina
47 del testo ingl.; pag. 40: " mes cheres Frères „ manca nel testo ingl.;
pag. 4 nota 2 : differisce dalla rispondente nel testo ingl.;: l'ultimo periodo
(“l'esprit... vrais Quakers”) manca nel testo ingl. In merito al N. 14
l'attribuzione di esso al R., è affermata dal Querard (1) e dal Barbier (2) che
svolgono lo pseudonimo Ali-EbnOmar con il nome del R., è confermata dal fatto
che a pag. 100 dell'operetta in una nota l'autore citando se stesso rinvia al
" Discorso Ili „ dei “Twelve Discourse” e tale attribuizione, per ambedue,
N. 13 e 14, sostengono pure lo Henke, il Lihienlhals, il Freytag (3). Anzi a
proposito di quest'ultimo che viene ad affermare che spesse volte l'opera n. 13
viene seguita dalla n. 14 con un seguirsi di pagine progressivamente numerate
(tale è l'ediz. da noi esaminata), come facenti parli del " Recueil „
edito a Londra e Rotterdam nel 1736, facciamo rilevare come ciò non risponda a
verità. A parte la confusione dell'ediz. londinese del “Recueil” con l'ediz.
Olandese, tanto nell'una che nell'altra non troviamo stampate le operette di
cui si tratta, nè infatti potevano essere incluse nell'ediz. del 1736 essendo
venute alla luce la prima volta nè nell'ediz. del 1749, che riproduce
esattamente la precedente, nè possiamo considerare questa ediz. dell'operette,
che abbiamo esaminata, come stralciata dal volume del 0 Recueil „ stante
la appariscente diversità dei caratteri di stampa. Come mai esse siano state
edite a Londra, mentre già da quattro anni almeno si trovava in Olanda, non
siamo in grado di dire: forse trovate fra le sue dopo la sua morte e fatte
stampare da qualche suo amico nella capitale inglese? e allora non perchè a
Rotterdam dove era già uscito per i tipi della Ved. Johnson il “Recueil” più
volte citato? Sono questi tutti interrogativi che ci poniamo senza avere la
possibilità di potere rispondere, per mancanza di documenti che giustifichino
una ragione piuttosto che un'altra; e questa è un'altra lacuna nella perfetta
conoscenza della vita del R. Cocconato. Keywords: implicature della morte.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cocconato” – The Swimming-Pool Library.
CILIBERTO (Napoli).
Filosofo. Grice: “I like Cilberto; he philosophised on Machiavelli – in an
interesting way: confronting his ‘reason’ with the ‘irrational’; myself, I have
not explored the irrational, too much – but I suppose Strawson might implicate
that everything I say ON reason is an implicature on the irrational – Ciliberto
uses the vernacular for the ‘irratinal,’ to wit: pazzia!” – Uno dei massimi
esperti del pensiero di Bruno. Si laurea a Firenze sotto Garin con
“Machiavelli”. “Lessico Intellettuale Europeo”. Insegna a Trieste, Pisa.
Istituto di Studi sul Rinascimento, Firenze. Dal 1998 è presidente di I. R. I. S.
A. Associazione di Biblioteche Storico-Artistiche e Umanistiche di Firenze. Lince.
Al centro della sua filosofia sono tre problemi: il rinascimento con speciale
attenzione a Bruno e Machiavelli, la ‘tradizione’ no-analitica, no-continntale,
ma la ‘tradizione italiana’ (Gramsci, Croce, Gentile, Cantimori, Garin); e la
filosofia politica e in maniera specifica la crisi della democrazia
rappresentativa. Altre opere: “Il rinascimento. Storia di un dibattito” (Firenze,
La Nuova Italia); “Intellettuali e fascismo” (Bari, De Donato); “Lessico di
Bruno” (Roma, Edizioni dell'Ateneo & Bizzarri); “Come lavora Gramsci. Varianti
vichiane, Livorno); “Filosofia e politica nel Novecento italiano. Da Labriola a
«Società», Bari, De Donato); “La ruota del tempo. Interpretazione di Bruno,
Roma, Editori Riuniti); Bruno, Roma-Bari, Laterza); Bruno, Roma-Bari, Laterza);
“Umbra profunda” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Implicatura in
chiaroscuro” Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il dialogo recitato” “Preliminari
a una nuova edizione del Bruno volgare, Firenze, Olschki); “La morte di
Atteone”(Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “I contrari”; “Disincanto e
utopia nel Rinascimento” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il teatro
della vita” (Milano, Mondadori); “Il laico” “Il libero” dell'Italia moderna,
Roma-Bari, Laterza); “Democrazia dispotica” – etimologia di dispotismo –
(Roma-Bari, Laterza); “Intellettuale nel Novecento, Roma-Bari, Laterza),
“Parola, immagine, concetto” (Edizioni della Normale, Pisa); “Croce e Gentile”
“La cultura italiana e l'Europa, (direzione) Istituto dell'Enciclopedia
italiana Treccani, . Rinascimento, Pisa, Edizioni della Normale; Il nuovo Umanesimo,
neo-classicismo, neo-umanesimo”, classicism, neo-classicismo come ironia”
(Roma-Bari, Laterza); “Pazzia e ragione” (Roma-Bari, Laterza); “Il sapiente furore”
(Collana gli Adelphi, Milano, Adelphi) Michele Ciliberto, Lessico di Giordano
Bruno. Michele Ciliberto. Keywords: intelletuale fascista, lessico, lessico di
Bruno, lessico di grice, lessico filosofico europeo, umbra profunda,
implicatura in chiaroscuro, i contrari, il laico, il libero, despotismo,
immagine e concetto, parola, immagine, e concetto, il pazzo, il ragionato, istituto
su studi sul rinascimento, la tradizione italiana, la tradizione filosofica
italiana, democrazia rappresentativa, concetto di rappresentazione, Grice e
Ciliberto sulla rappresentazione. Il primo ministro britannico ripresenta suoi
costituenti. Il barone della camera alta del parlamento, parlamento ed
implicamento, il team di cricket rippresenta Inghilterra: fa per Inghilterra
quello che Inghilterra non puo fare: gioccare cricket. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Ciliberto” – The Swimming-Pool Library.
CIMATTI (Roma). Filosofo. Grice:
“I like Cimatti – for one, he develops a biological semiotics, and he takes
seriously the issue that man IS an animal -- -- and has thus philosophised on
animality!” Si laureato sotto Mauro con “La communicazion animale” -- Insegna
ad Arcavacata di Rende. Altre opere: “Linguaggio ed esperienza visive” (Rende,
Centro Editoriale e Librario); “La scimmia che si parla. Linguaggio,
autocoscienza e libertà nell'animale umano” (Bollati Boringhieri); “Nel segno
del cerchio. L'ontologia semiotica di Giorgio Prodi, Manifestolibri La mente
silenziosa. Come pensano gli animali non umani” (Editori Riuniti); “Mente e
linguaggio negli animali. Introduzione alla zoosemiotica cognitiva” (Carocci); Il
senso della mente. Per una critica del cognitivismo” (Bollati Boringhieri); “Mente,
segno e vita. Elementi di filosofia per Scienze della comunicazione,Carocci); “Il
volto e la parola. Per una psicologia dell'apparenza, Quodlibet, Il possibile ed il reale. Il sacro dopo la
morte di Dio” (Codice Edizioni); Bollettino Filosofico. Linguaggio ed emozioni”
(Aracne); Lingue, corpo, pensiero: le ricerche contemporanee” (Carocci); Naturalmente
comunisti. Politica, linguaggio ed economia” (Bruno Mondadori); “La vita che
verrà. Biopolitica per Homo sapiens, , ombre corte, Filosofia della
psicoanalisi. Un'introduzione in ventuno passi” (Quodlibet); Filosofia
dell'animalità (Laterza); “Corpo, linguaggio e psicoanalisi” (Quodlibet); “A
come Animale: voci per un bestiario dei sentimenti” (Bompiani); “Il taglio” “Linguaggio
e pulsione di morte, Quodlibet);
Filosofia del linguaggio: storia, autore, concetto” (Carocci); “Psicoanimot,
La psicoanalisi e l'animalità” (Graphe); “Lo sguardi animale” (Mimesis); “Per
una filosofia del reale” (Bollati Boringhieri); “La vita estrinseca”; “Dopo il
linguaggio” (Orthotes, Salerno); “Abbecedario del reale” (Quodlibet, Macerata);
“La fabbrica del ricordo (Il Mulino). Grice: “I share a lot with Cimatti; we
both believe that there’s a semiotic continuity, and more important that it’s
psi-transmission that matters: a pirot perceives that the a is b, and
communicates that the a is b to another pirot, who perceives the communicatum,
‘the a is b’ and comes to think that the other pirot thinks that the a is b – I
use ‘think’ as dummy. ‘accept’ may do, to cover willing, since it’s willing
that’s basic, though! Felice Cimatti. Keywords: homo sapiens, storia
innaturale, animale, bestia, linguaggio, segno, vita, zoosemiotica, prodi,
corpo, codice, mente, cognitivismo, comunicazione, animale, soglia semiotica,
mentalismo, storia innaturale, comunicazione giovenile, fundamenti naturali
della comunicazione, percezione e comunicazione, comunicazione come percezione
trasferita, psi-transfer. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cimatti” – The
Swimming-Pool Library.
CIONE (Napoli). Filosofo.
Grice: “I love Cione; my favourite is “The age of Daedalus – which reminds me
of Gilbert’s statuette and the Italian model who posed for him – the story of a
failure!” Grice: “But Cione philosophised on various other subjects as well,
such as Leibniz, and of course, Croce – in his case, first-hand knowledge! –
and mysticism, and Mussolini, and the rest of them – He thinks there is a
Neapolitan dialectic, and really is in love with his environs – his study of
‘romantic Naples’ reminds me of my rules of conversational etiquette! –
especially the illustrations involving gentleman-lady interaction!” Di tendenze
socialiste, e in un primo momento anti-fasciste, studia sotto Croce.
Perseguitato della prima ora dal fascismo, viene rinchiuso nel campo di
Colfiorito di Foligno e poi mandato al confino a Montemurro. Attratto dal nuovo
indirizzo espresso dal Manifesto di Verona, aderisce alla Repubblica Sociale
Italiana. Chiede e ottiene il consenso di Mussolini (il quale si rende
esplicitamente concorde) per la costituzione di una formazione politica
indipendente dal Partito Fascista Repubblicano, denominata in un primo momento
Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista e, in seguito, Partito Repubblicano
Socialista Italiano. A tale formazione politica, su suggerimento dello stesso
Mussolini, sarà concessa anche la pubblicazione di un quotidiano L'Italia del
Popolo. Il Duce però non aveva nessuna fiducia né nell'uomo né nell'impresa,
tanto che durante una conversazione con l'ambasciatore Rudolf Rahn preoccupato
per una possibile apertura "a sinistra" del capo del fascismo ebbe a
dichiarare: «Per ingannare i nostri
avversari ho lasciato, non appena ho pensato che il nuovo fascismo in Italia
fosse abbastanza forte, che alcune contro-correnti dicessero la loro, tra l’altro
ho permesso che si formasse un gruppo di opposizione sotto la guida di Cione. Non
ha una gran testa, e non avrà successo. Ma la gente che ora sta cercando di
crearsi un alibi si raccoglierà intorno a lui e quindi sarà perduta per il comitato
di liberazione che è molto più pericoloso. Salvatosi dalle epurazioni
partigiane nel dopoguerra, si costruirà una carriera politica nell’Italia repubblicana.
Milita nel Fronte dell'Uomo Qualunque. Successivamente, quando il partito di
Giannini si sciolse, entra nel Movimento Sociale Italiano e venne eletto
consigliere e poi assessore della giunta di Achille Lauro. Si candida al Senato
con la lista della fiamma nel colleggio di Afragola ma non fu eletto. Deluso
dai missini, adiere alla democrazia cristiana, senza però svolgere una
militanza attiva nel partito. Negli ultimi anni di vita cercò di conciliare il
messaggio di papa Giovanni XXIII con le aperture di Nikita Kruscev oltre la
cortina di ferro. Altre opere: “Valdés: la sua vita e il suo pensiero religioso
con una completa della sua opere e degli
scritti intorno a lui” (Laterza editore); “Sanctis, Ed. Giuseppe Principato); “L'opera
filosofica, coautore Franco Laterza, Laterza editore); “Napoli romantica”
(Gruppo Editoriale Domus); “L'estetica di Sanctis” (Pennetti Casoni Editore);
“Da Sanctis al Novecento” (Garzanti); “Nazionalismo sociale” “l'idea
corporativa come interpretazione della storia” (Achille Celli Editore); “Napoli
e Malaparte” (Editore Pellerano-Del Gaudio); “Storia della repubblica sociale
italiana” (Ed. Latinità); “Croce, coll. "I Marmi", Longanesi);
“Crociana” (Fratelli Bocca); “Sanctis” (Montanino); “Questa Europa” (M. Mele);
“Fascino del mondo arabo: dal Marocco alla Persia, Cappelli Editore); “Croce”
(Loganesi); “Fede e ragione nella storia: filosofia della religione e storia
degli ideali religiosi dell'Occidente” (Cappelli Editore); “La Cina d'oggi,
Filippine, Formosa, Giappone” (Ceschina); “Leibniz” (Libreria scientifica
editrice); “Narrativa del Novecento, Istituto editoriale del Mezzogiorno); “L’eta
di Dedalo”; “Un viaggio elettorale, Bompiani). Dizionario Biografico degli
Italiani. Un ex allievo di Croce negli ultimi mesi di
Salò crea un "partito contro" su suggerimento del ministro
dell'Educazione Biggini di Silvio Bertoldi.Domenico Edmondo Cione. Keywords:
l’idea corporativa, corporativismo, storia del nazionalismo sociale, icaro, la
caduta d’icaro, icaro caduto, dedalo e la civilta greco-romana, corporativa,
principio corporativo, principio cooperative, corpotivismo, corporatismo,
corporativismo, ideale corporativo, conservative as corporativo, ugo spirito,
“pocca testa”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cione” – The Swimming-Pool
Library.
CIVITELLA (Montorio al Vomano). Filosofo. Delfico-de-Civitella
(under Ser Marco). (Montorio al Vomano). Filosofo. Grice: “I love Delfico –
while he wrote on Roman jurisprudence – Hart’s favourite summer read! – mine is
his (Delfico’s, not Hart’s) little thing on the beautiful – we must remember
that back in them days of Plato, ‘kallos, ‘pulchrum,’ or ‘bellum,’ is a
diminutive of ‘bonus,,’ as in ‘bonello’ – the point is important for for
Platonists, love (that makes the world go round) is desire for the ‘bello’
including the MORAL bello – so it is the key concept in philosophy – and not as
Sibley and Scruton narrowly conceive it!” Civitella è
giustamente ritenuto il Nestore della letteratura napoletano. Questo illustre
autore di molte opere di storia e di una varietà di soggetti interessanti,
unisce ad una vasta istruzione una accuratissima e profondissima conoscenza di
ogni aspetto che interessa la sua terra; e possiede, ad un'età così avanzata,
l'ancor più raro merito di saper comunicare le preziose esperienze acquisite
con una amenità di maniere, una facilità e semplicità di espressione che le
rendono più apprezzate a quelli che le ricevono. Figlio di Berardo e Margherita
Civica, nacque nel castello feudale di Leognano, in provincia di Teramo. Le
origini della sua famiglia risalivano almeno al secolo XVI quando Pir (o Pyr)
Giovanni di Ser Marco, generalmente riconosciuto come il capostipite della famiglia,
cambia il proprio cognome in “Delfico” e adotta il motto “eat in posteros
Delphica Laurus”. Secondo alcuni, e tra questi Luigi Savorini, il cognome
originario era “de Civitella”. All'interno della sua famiglia va individuato
come Melchiorre III. Rimasto ben presto orfano di madre, fu dapprima affidato
ad ecclesiastici ed in seguito inviato a Napoli, per il completamento degli studi. Nella
capitale del regno ebbe maestri insigni quali Genovesi per le materie filosofiche
per l'economia, Rossi per le materie letterarie, Ferrigno per il diritto e Mazzocchi
per l'archeologia. Nella città partenopea si laureò in utroque iure
sotto la direzione di Filangieri e redasse subito diverse memorie per il
governo. Ha già indossato l'abito ecclesiastico, ma se ne spogliò subito per
motivi di salute. Nella prima parte della vita si dedica in particolare
allo studio della giurisprudenza e dell'economia politica, scrivendo numerosi
trattati che esercitarono un grande influsso nel miglioramento e l'abolizione
di molti abusi. Con il ritorno in patria si inizia un periodo
fondamentale per la storia della città e dell'intero regno di Napoli. Intorno a
loro si riunisce un importante gruppo di filosofi che crea le premesse per un
profondo rinnovamento sociale, politico ed economico del territorio in cui
agiscono. Tra questi troviamo Cicconi, Comi, Lattanzi, Nardi, Quartapelle,
Tulli, Nolli, Orazio Delfico, il figlio di Giamberardino, che fu allievo di
Volta e Spallanzani, e l'altro nipote, Michitelli, che fu architetto noto in
tutto l'Abruzzo. Si appassiona al collezionismo, in particolare di libri
antichi e monete di epoca romana e pre-romana. Nominato presidente del
Consiglio Supremo di Pescara e poco dopo membro del governo provvisorio della
Repubblica Partenopea. Caduta la Repubblica Partenopea anda in esilio per
sette anni nella Repubblica di San Marino che gli riconobbe la cittadinanza.
Scrisse il saggio “Memorie storiche della Repubblica di San Marino”, prima
storia organica dell'antica repubblica. La Repubblica del Titano ha emesso una
serie di 12 francobolli e ha coniato una moneta d'argento dal valore nominale
di 5 euro per commemorare il filosofo e ricordarne la permanenza sul proprio
territorio. Sotto Giuseppe Bonaparte, nominato re di Napoli, entra a far
parte del Consiglio di Stato, ricoprendo varie cariche ministeriali.
Restaurato il governo borbonico, fu nominato presidente della commissione degli
archivi e successivamente Presidente della Reale Accademia delle
Scienze. Venne eletto deputato al Parlamento napoletano e fu chiamato alla
presidenza della Giunta provvisoria di governo. Si stabilì definitivamente a
Teramo. La famiglia di Melchiorre Delfico si estingue con Marina, sposata al
conte Gregorio De Filippis di Longano, ando origine all'attuale famiglia dei
conti De Filippis marchesi Delfico. La filosofia di Civitella si forge nel
fermento culturale del Secolo dei Lumi e del diritto naturale, le cui idee gius-naturalistiche
furono compiutamente esposte da un lato nell'opera di Locke, dall'altro in
quella di Rousseau, nelle quali i principi del diritto naturale erano
rappresentati dalle idee di libertà e di eguaglianza di tutti gli uomini. I
fermenti culturali del periodo assunsero una valenza rivoluzionaria e
contribuirono all'abbattimento di una struttura sociale logora ed invecchiata,
che si reggeva ancora ai capricci bizantini dell'autorità invadente.
Proprio tali tesi gius-naturalistiche furono gli strumenti a cui si richiamò
l'opera del Delfico, permeata dall'anti-curialismo, anti-Roma, dalla
compressione della feudalità, dall'anti-fiscalismo e soprattutto
dall'abbattimento del monopolio forense, ritenuto il baluardo principale del
regime. Ciò che caratterizza la sua visione politica è una nuova concezione
dello Stato, non più ispirato al predominio politico e svincolato dalle regole
della morale corrente. Come politico e come giurista, e eminentemente
pratico, così da poter essere ricordato come uno dei più illuminati riformatori
del suo tempo. Al suo nome sono intitolati a Teramo il Convitto
nazionale, il Liceo Classico e la Biblioteca provinciale che ha la propria sede
nel Palazzo Delfico. Numerosi i comuni che hanno intitolato strade a
filosofo. Altre a Teramo e alla frazione
di San Nicolò (nello stesso comune teramano), si segnalano Sant'Egidio alla
Vibrata, Penna Sant'Andrea e Roseto degli Abruzzi in provincia di Teramo;
Montesilvano, Pescara e Milano. È noto che esistono Logge massoniche
intestate a Civittella, ma ci si chiedeva se lui stesso fosse stato
massone. Questo interrogativo è stato posto da parecchi storici ma non
esisteva una risposta documentale. Esistono invece molte prove indiziarie
relative alla sua appartenenza alla Massoneria, per le quali rimandiamo
all'appendice del volume di Franco Eugeni, Carlo Forti, allievo di N. Fergola. I
principali indizi si possono così riassumere: I maestri ed amici di
Civitella, come Genovesi, Pagano, Filangeri, furono tutti noti massoni;
In un diario del curato Crocetti di Mosciano appaiono notizie di una Loggia
massonica esistente a Teramo. Assieme a Quartapelle, subisce due processi per miscredenza.
Promuove un movimento culturale detto '’La Rinascenza'’ di chiaro stampo
illuminista. Nella rinascenza militano tutti i filosofi del tempo: i Tulli, i
Quartapelle, Comi, Pradowski ed altri; La poesia di Pradowski sembra proprio la
descrizione di una Loggia. Manda il nipote Orazio Delfico, futuro Gran Maestro
della Carboneria teramana, a studiare a Pavia da Spallanzani, Volta e Mascheroni,
tre noti massoni del tempo. Perrone pubblica un saggio basato sulla
corrispondenza di Münter con noti massoni napoletani lo dà come sicuramente
massone, anche se "il suo nome non s'incontra nelle logge razionaliste".
Altre opere: “Saggio filosofico sul matrimonio” (s.n.tip. ma Teramo, Consorti e
Felcini); Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie
confinanti del regno” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Riflessioni su
la vendita de’ feudi” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Ricerche sul
vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori” (Napoli, presso
Giuseppe Maria Porcelli); Pensieri sulla Istoria e su l'incertezza ed inutilità
della medesima, Forlì, dai torchi dipartimentali Roveri); “Nuove ricerche sul
bello” (Napoli, presso Agnello Nobile); “Della antica numismatica della città
di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche” (Teramo,
Angeletti). Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il Palazzo Dèlfico, Edigrafita Nico Perrone, La Loggia della Philantropia.
Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza
massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio, Giacinto Cantalamessa Carboni,
Sulla vita e sugli scritti del commendatore Malchiorre de' Marchesi Delfico, in
Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti,
Raffaele Liberatore, Melchiorre Delfico. Necrologia, in Annali civili
del Regno delle Due Sicilie, Ristampato come Delfico (Melchiorre), in: De
Tipaldo Biografia degli Italiani illustri, Venezia, Ferdinando Mozzetti, Degli
studii, delle opere e delle virtù di Melchiorre Delfico, Teramo, Angeletti, Gregorio
De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere, Teramo, Angeletti, Raffaele
Aurini, Delfico Melchiorre, in: Dizionario bibliografico della gente d'Abruzzo, ITeramo, Ars et Labor, ora in Nuova edizione,
Colledara (Teramo), Andromeda editrice, Vincenzo Clemente, Rinascenza teramana
e riformismo napoletano, l'attività presso il Consiglio delle finanze, Roma,
Edizioni di storia e letteratura, Vincenzo Clemente, Dizionario biografico
degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, Donatella Striglioni
ne' Tori, L'inventario del Fondo Delfico. Archivio di Stato di Teramo, Teramo,
Centro abruzzese di ricerche storiche, Gabriele Carletti, Melchiorre Delfico.
Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, Pisa,
Edizioni ETS, Nico Perrone, La Loggia
della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione, Palermo,
Sellerio. Treccani. Il dritto romano e sempre incerto ed arbitrario. Tale il
suo carattere, poichè sebbene non gli mancassero ancora degli altri nei, pure
quelle sole qualità (incertezza e arbitrarieta) sono bastanti per renderlo
mostruoso e deforme. E di esse specialmente imprendo a trattare, come quelle
che portarono a luce la vantata giurisprudenza romana. Ed accio questo
ordinatamente si vegga, fiaci opportuno il seguir la storia che della nascita e
de felici progressi di essa ci somministra i lumi i più importanti. Fra gli
innumerevoli doccumenti tal oggetto riguardanti, prescelgo quello di cui tutti
gli i filosofi si servirono, quasi di testo alle loro ricerche e commenti. Già
si vede che io parlo delle opera del giureconsulto Sesto Pomponio, della quale
si avvalsero i compilatori del dritto giustinianeo, rapportando nel titolo
dell’origine del dritto, tuttocid che il nomato giureconsulto aveva raccolto su
tal oggetto nel suo Manuale. E poichè Pomponio incomincia la storia del dritto
dai re di Roma, dello stesso momento conviene seguirlo. In questa prima epoca
abbastanza oscura non vi sarà pero materia di dispute, poichè Sesto Pomponio parlando
conformemente alla ragione ed alla storia dice che Roma da principio visse con
incerte lege gi e con dritto incerto e tutto dal regio arbitrio e governato. Ciocchè
si deve intendere per quella parte che appartene al capo dell’aristocrazia nella
qual forma Roma ebbe il suo incominciamento. Quindi Pomponio si espresse nelle
precise parole. Populus sine lege certa, sine jure cento primúm agere
instituit. Ne altrimenti doveva avvenire, poichè quella prima associazione
essendosi formata di gente malatta al vivere socievole, e non avendo ancora
positiva forma di società, doveva essere piuttosto regolata dalla forza del comando
che da un stabilimento positivo. Ciascuno sa che Romolo per accrescere il
numero de primi suoi compagni, prese l’espediente di aprire un asilo da era
retto ve s9 ) da che si puo comprendere quali fossero i primi fondatori di Roma.
I di lui favoriti furono i più valorosi briganti, e questi divennero i padri
della patria, i forti, i primi quiriti, e formarono il senato come una Dopo
questi primi tratti caratteristici relativi al le leggi Pomponio siegue a
raccontare tradizione, che essendo cresciuta in qualche modo la città, Romulo
divise il popolo in tante parti chiamate curie e col voto di esse prende. 9 va
cura delle pubbliche cose, e fece in seguito la legge che si chiama legge
curiata, come no , fecero ancora i re successivi, e tutte furono, raccolte da
Sesto Papirio, il quale visse al tempo di Tarquinio il superbo, e dal nome
dell'autore quella raccolta fu chiamato “dritto papiriano”. Non m'impegnerà nelle
dispute istoriche e critiche delle quali si occuparono gl' interpreti di
Pomponio, ma osservero che sebbene da principio parli dello stato informe di
Roma e dell’autorità regia non modificata dalle legge, fa dindi vedere come fu
data una forma, non una costituzione alla città nascente, e come dai re fu
promulgata la legge curiata. Per due secoli e mezzo in circirca; quanto duro la
regia signori , Roma non ebbe dunque che questa o quella legge occasionale, e
la società fu mantenuta più col governo che colle legge. Prima intanto di
passar oltre, e per la migliore intelligenza de’ tempi seguenti, non sarà
inutile il presentare in poche parole lo stato politico del popolo romano sotto
l’epoca dei re, e quale fosse l’indole della legislazione per tutto quel tempo.
E poichè di cose che non ebbero autori contemporanei o vicini, non è possibile
il ragionare con precisione ed esattezza; percio scortato dalla natura delle
circostanze e dalle tradizioni pervenutaci, m’ingegnero di esporle nell’aspetto
il più ragionevole. Fra l’oscurità delle origini romane possiamo rilevare che
quella società incomincia da un adu namento di persone appartenenti a vari
popoli non solo italici, ma greci e celtici ancora. Codesta tumultuaria
associazione avendo Romulo per capo visse da principio di prede e di rapine, gusto
che fece il perpetuo carattere della nazione, trasformato poi in quello di
conquiste, come gli avol toi comparsi a Romolo nel prendere gli auguri furono
poscia nobilitati in aquile vincitrici. In tale stato di cose non vi fu da principio
bisogno di leggi, la legge, poichè non vi era proprietà, essendochè Roma fu
fondata come Livio si esprime in fondo alieno, e le piccole private dispute
erano decise dalla volontà del capo, come presso tutti i popoli barbari, e
nelle società de’ briganti è sempre ava venuto. Avviene similmente che nel
formarsi tali associazioni, si gittino i fondamenti dell'aristocrazia , e così
avvenne di Roma. Il palagio di Romolo fu una succida capanna: il di lui trono
quattro zolle che lo rialzavano dal suolo. Il Senato fu la scelta de’
commilitoni o complici delle sue rapine. I patrizi quelli che poterono vantare
certezza di natali e qualche superiorità di ricchezze; e tutto il resto fu vile
plebe o volgo profano. Questa è la divisione naturale dell’aristocrazie
nascente. ‘Padre,’ ‘patrizio,’ ‘patrone’ furono nomi di versi appartenenti alle
stesse persone secondo i va. rj rapporti ne' quali erano considerati, o di
Senato consultivo, o di corpo aristocratico, o di superiorità immediata su le
divisioni della plebe, la quale che che ne dicano i tardi autori della storia
non ebbe alcuna parte di potere nè costituzionale nè amministrativo. Gli stessi
autori dai fatti fanno scorgere questa verità alla quale contrariano colle
parole. Festo il quale aveva trascritto le notizie dagli antichi autori,
parlando dell’origine delle clientele si esprime in termini rappresentativi
della verità, cioè come d’una divisione di gregge piuttosto che d'un popolo.
Patrocinia appellari capra sunt cum plebs distribuia est inter paires. Ne si
devono contare per un ordine intermedio di citetadini quegli equiri o celeri o i
fossuli nominati fin dai principi di Roma, poichè non appartenevano allo stato
politico ma al stato militare. Non è possibile il seguire i naturali progressi
di quella società nascente, e vedere come a poco a poco si andasse a
consolidare in quella forma nella quale da principio era stata abbozzata. Sotto
il re Numa vediamo i primi passi di qualche civilizzamento, lo stabilimento
della proprietà territoriale: la prima legge relativa alla religione ed al
delitto, lo stabilimento dei ministri e degli interpreti della divinità; ed in
somma un principio di governo teocratico, pel quale pare che sieno passate
tutte le nazioni prima di portare su le cose civili le considerazioni proprie
della ragione. Ma quello che specialmente riflettere dobbiamo è che sotto quel
re teosofo ebbero i primi principi le scienze ancora della legge e del politico
governo. Non si dee durar gran fatica per trovare de’ rapporti religiosi in
tutti gli atti umani e farli nascere ancora in un popolo quanto ignorante tanto
superstizioso. Così par che facesse Numa o per idea propria o per imitare i
stabilimenti della sua nazione o pel natural corso del sociale andamento; cosi
gitid i veri fondamenti di quell’aristocrazia sommamente poderosa poichè combina
nello stesso corpo gl’interessi del sacerdozio e dell’impero, o le due
aristocrazie, politica e sacerdotale. Su questo piano Roma crebbe
successivament sotto i re. L’aristocrazia fu sempre salda contro le regie
intraprese, e la storia ci mostra con quali mezzi crudeli e sacri seppe sostenersi.
Massacrarono Romolo e ne fecero un dio. (Cristo). Tale idea pero del primo governo
di Roma è stata generalmente sconosciuta, ed il primo per quanto io sappia a
darne l’idea fu il nostro Gian Battista Vico, il quale riunendo alla
multiplicità delle filologiche cognizioni la filosofia indagatrice delle
origini sociali, fra le tenebre della rimota antichità, e fra le favole e le
ricordanze degli antichi costumi seppe scoprire come un principio naturale politico,
che nel comune corso delle nazioni la società primitiva comincia sempre
dall’aristocrazia, la quale deve nascere dalla qualità delle circostanze,
dall’ignoranza de’ dritti, e della compagna superstizione. Le luminose tracce
di Vico furono poi seguite dal Duni e fermatosi particolarmente a considerare
il governo romano, dimostra che Roma nacque aristocratica, che il re none che il
capo dell’aristocrazia, che i soli patrizi ebbero la quarta di cittadini che
furono in perfetto stato di combinazione l’aristocrazia politica e
l’aristocrazia sacerdotale, e che il nome di ‘popolo’ ne’ primi tempi ai soli
patrizi appartenne, come quelli che soli godevano del dritto della cittadinanza
(cives polis), i quali poi furono gradatamente dalla plebe acquistati. Egli concilia
luminosamente la contradizione in cui par che cadesse il giureconsulto Pomponio
e fa vedere che il re non ha che una parte del governo o dell’amministrazione,
ma che la somma dell’autorità , la vera sovranità, il potere legislativo, il
dritto della pace e della guerra risedevano nel corpo de’ patrizi, come anche il
dritto di eliggersi il loro re o principe. Furono essi i depositari delle leggi
e delle medesime i (Duni Orig. del Citted. Romano . 1) ministri ed interpreti:
e siccome per un’eterna verità l’aristocrazia non si sostiene che sull’appoggio
della superstizione. Cosi dal corpo aristocratico si sceglievano i vari
sacerdozi, e fra essi il corpo de’ pontefici fu specialmente destinato a dar i
giudici alle divine cose ed umane. Quindi la conoscenza della legge e
l’amministrazione delle medesima fu un dritto esclusivo e divenne una dottrina
arcana, conservata con tutta la gelosia del mistero, dispensata solo a modo
d’oracoli e strettamente custodita nell’ordine de’ patrizi. Codesta emanazione
della prima teocratica idea non solo si conserva per quanto ebbe di durata il
governo del re ma per quanto visse la Roma. Una repubblica, colla sola
differenza pero che come crebbero le cognizioni ed i necessari riflessi della
ragione, e da essi nacquero i sentimenti di libertà e di eguaglianza, così
quelle idee si andiedero a poco a poco estenuando, finchè non ne rimasero che i
soli simboli commemorativi, o il nome senza la cosa, o le cose senz’alcuna
effettiva in Auenza. E necessaria questa breve esposizione, per cogoscere quale
fosse lo stato della legge, dell' am ministrazione giudiziaria e della giurisprudenza
ne’ primi tempi di Roma; e senza impegnarci nella particolari legge sotto il re
emanata dal senato regnante, possiamo con sicurezza affermare che la legge fu
minima, eventuale ed incerta, e che l’interpretazione delle medesine essendo
stato un dritto di corpo o di ordine affidato ad alcuni individui, possiamo dire
ancora che la giurisprudenza fu incerta, irregolare, arbitraria, e quale ad una
nazione anco sa ignorante e superstiziosa poteva solo convenire: e per
conseguenza esser stato pur vero ciocchè Pomponio scrisse, che sotto i re sine
lege Gerta , sine jure certo vissero i romani. Lascio agli ambiziosi di glorie
filologiche legali l’andar raggruzzolando I pochi superstiti frammenti della
legge regia, poichè i stessi antichi giure consulti ne fecero poco conto e le
lasciarono finalmente perire. Chi volesse però riconoscerle, troverebbe in esse
la conferma di quelle idea superstiziosa caratteristiche della prima
aristocratiche associazione. Espulso il re si crede comunemente che il governo
di Roma cangiasse d’aspetto e da quel momento si cominciano a contare gli eroi
della libertà. Ma chi - giudica senza prevenzione non vi troverà che gli eroi
dell’aristocrazia . Anche quessti parlano di libertà; della propria libera però
non della liberta pubblica, e per servirmi delle parole di Dionisio, della
libertà propria e del dominio su gli altri. Quindi Roma non vide alero
cangiamento che di due re invece di uno e la legge e l’amministrazione politica
e civile rimasero nella stessa condizione. L'incertezza fu seguita
dell'incertezza; l’arbitrio dall’arbitrio, ciocchè ci dà manifestamente ad
intendere Pomponio dicendo: Exactis deinde regibus . .ae . iterumque cæpic
populus Romanus incerto magis jure & consuetudine ali quam per latam legem,
idque prope sexaginta annis passus est. L’aristocrazia era stata alquanto
abbassata dall;ultimo re, per cui ebbe fine il suo governo, ma dopo la sya espulsione
ritorno presto nel pria miero vigore. Quindi gli effetti dovevano essere conseguenti,
e tutta la storia è una pruova dimostrativa. Infatti si sa che dall’anno fatale
ai Tarquini, fino al tempo della leggi decemvirale, il potere legislativo ed il
potere giudiziario furono privativi del corpo aristocratico. Troppo lungo sarebbe
ora il seguire tutta la serie de dibattimenti intervenuti fra i patrizi ed i
plebei, quando questi già stanchi dell’incertezza della leggi civile, della
forma esclusiva di governo, e della schiavitù nella quale erano tenuti,
tentarono de’ mezzi per alleviarsi in qualche modo dalle gravezze ond’erano
oppressi. Ottenuto il tribunato si avvidero ben presto che esso era troppo
debole ostacolo contro la tirannia de patrizi, la quale efforcivamente era annidata
dentro la stessa legge e fortificata dallo spirito di corpo (sprit du corps) ,
che fieramente la difende. L’insurrezione, la secessione, soli mezzi che può
escogitare un popolo schiavo ancora dell'opinione, furono più volte ripetute;
ma le loro domande erano incerte, le loro querele generali, ed i loro desideri
si riducevano ad essere considerari come uomini e come cittadini: Ut hominum ut
civium numero simus . In questo stato compassionevole compresero finalmente che
niun mezzo vi poteva essere migliore per ottenere l’intento che quello di formarsi
una legislazione generale, poichè la sola legge puo stabilire la libertà e
l’uguaglianza civile, potevano esser riguardati come uomini cittadini. Strano
ed arrogante sembra al patrizio il desiderio della plebe, e strano parrà sempre
al possessore del potere arbitrario il desiderio del ristabilimento della legge
e della giustizia. Quindi il patrizio non lascia mezzo intentato per
frastornare il plebeo dalla lodevole intenzione e persuaderli che i patri
costumi erano sufficienti e che di nuova legge non vi era bisogno; mores
patrios observandos, le ges ferre non oportere. Furono intanto inutili le persuasioni
, e lo stato infelice nel quale il plebeo si trovava detta suo questo solo
espediente. Non altrimenti che l’oracolo consultato da Locresi sul modo di sedare
le civiche discordie rispose loro: fatevi la legge; i Romani plebei sentirono
l’oracolo della ragione e della infelicità nella qua Je gemevano. Vollero
quindi la legge, ma ciascuno sa, come tutte le arti aristocratiche furono messe
in uso per ingannare quel popolo che spesso riposava colla più buona fede sopra
i suoi naturali e costanti nimici. Si sa come i deputati i quali dovevano
mandarsi in Atene e nelle altre Città della Grecia e dell'Italia a raccorre la
legge per la nascente regina del mondo, si occulta rono in qualche luogo
d'Italia , e la legge poi fu tirata dalle arche pontificali e perchè nulla mancasse di condimento
aristocratico, si fecero poi impastare e disporre da quell’Ermodoro esiliato da
Efeso dal partito popolare. La storia relativa E 3 alla moeten alla legge delle
dodeci tavole se fosse trattata con quell’accuratezza che pur le converrebbe,
sarebbe un articolo sommamente istruttivo; ma questa ricerca veramente politica
è stata molto trascurata. Il popolo domanda una legge della quale il console si
dovesse servire e che non dovessero aver più in luogo di una legge il capriccio
o la privata autorità; non ipsos libidinem ac licentiam pro lege habituros. Il
patrizio risponde che di una nuova legge non fa mestieri, e che bastavano la usanza,
no la legge. Il popolo adduce ragioni, il patrizio face parlare la religione, e
questa spesso parla per bocca de buoi e di altri animali, del linguaggio de
quali si fa un merito d'essere interprete. I plebei volevano che la legge si
facessero dal popolo legitimamente e liberamente congregato. Il patrizi
sostiene che non vi sarebbero stata altra legge, che quelle ch'essi stesse
avrebbero fatte: darurum legem neminem, nisi ex parribus ajebant. Il popolo
vuole una legge di uguaglianza. Il patrizio le promette in parole; sicuro di
non essere nel fatto obbligati a mantener. Finalmente dopo tante vicende le
dieci tavole furono pubblicate e successivamente le altre due come ci fa sapere
la storia. La storia ci dice ancora che con esse ogni diritto e resi uguali:
omnibus summis infimisque jura æquasse: e ci dice ancora che il popolo la
esamino e la approvó solennemente. Ma la storia stessa ci dice che quel bravo
legislatore a anche più bravo tiranno; che sconvolsero tuttol'ordine pubblico e
secondo Livio nihil juris in civitate reliquerant, che per quella legge ogni
consuetudine aristocratica e conservata, che la vantata uguaglianza resiò in
parole; e che al primo momento di paragone il popolo riconobbe d' essere stato
ingannato. La favola dell’invio de’ deputati in Grecia è stata pienamente scoverta
da molti autori e specialmente dal Vico, da Bonamy e da Duni: la favola d;essere
state leggi di uguaglianza e di giustizia, la può scoprire facilmente ognuno che
voglia leggere con critica la storia •gli avanzi di quelle leggi . La scovri
ancora il E 4 po . (Vico : Scienza nuova; Bonamy, Memoir. de litterar. de l'
Accad. de Paris. Tom . XVIII; Duni : Dėl Cittad. Rom) popolo , quando ritornato
in cal ma dopo l’abolizione del decemvirato potè tranquillamente esaminar la
legge, ed invece di vederne tali che classificasse la gente come uomini e come
cittadini, non trova che una legge civile, una legge criminale, una legge
funeraria e una legge religiose, che punto o poco l'interessavano. Per essere
classificati per uomini o per cittadini vi bisognavano una legge costituzionale
che avessero ragguagliati i dritti, che li avesse egualmente interessati alla
cosa pubblica, che li avesse ammessi ai suffragi. Niente di tutto questo; e la
plebe resto delusa della sua troppo malfondata speranza. Vedremo in seguito
come seppe rinnovare le giu ste sue pretenzioni ; ed in tanto senza voler fare
l'analisi di que’miseri frammenti delle leggi decein virali , è pur giusto
portarvi uno sguardo generale per vedere almeno, se meritano tutti gli elogi
de' quali sono state ciecamente onorate dagli antichi é da moderni ; ed
osservare in seguito, se ne pro venissero quegli effetti felici, ai quali produrre
era no state destinate. Cicerone in più luoghi esaltan dole sopra tutte le
leggi conosciute , non è poi molto felice nel darne le pruove ; così condanna
Solone , per non aver imposto pera al parricidio , supponendolo impossibile , o
volendolo supporre talo tale per onore dell'umana natura; ed elèva la seviezza
della Romana legislazione per aver saputo inventare una pena orribile e crudele.
O singola , sem sapientiam ! esclama egli dopo aver lungamen: te ragionato con
Logica forense. Tale fu la sa viezza di que’ legislatori ne' varj rami di
quelle leggi ; poichè se si riguardano per la parte crimi nale esse furono
Aristocratiche , ingiuste , severe , é crudeli. Se per la parte del dritto
pubblico, del la quale poch’indizi ci sono restati, andavano al la
conservazione dell ' Aristocrazia : se per quella della Religione e de'
funerali, corrispondevano ai superstiziosi concepimenti del tempo: se per ciò
che riguarda l'ordine giudiziario, dovevano esser ana loghe alle leggi ed all'
usanze : se per la parte te stamentaria , è facile il vedere, ch' esse contene
yano la massima ingiustizia politica , per conser vare in forza gli
Aristocratici dritti : della stessa indole furono le indegne leggi relative
alla patria potestà ed alle altre relazioni domestiche nelle quali sempre campeggia
lo spirito di famiglia. In quanto al contratto, la legge furono pur sempli ci ,
come devono essere in un popolo barbaro con pochi rapporti civili; ma le usure
d'ogni spe cie furono terribili. Chiunque vorrà esaminar quel te leggi in buona
fede , e misurarle secondo i vem ri rapporti che le leggi devono avere colla
natura e collo stato civile , troverà senza fallo ingiusti ed irragionevoli gli
encomj alle medesime attribui. ti . Ma forse neppur in Roma si pensò tanto favo
revolmente di esse, poichè col tempo par che fos - sero del tutte néglette e
dimenticate. Cicerone stesso riferisce che al suo tempo neppure erano ben
intese , e sebbene egli nell'infanzia le avesse ap prese a memoria , era poi
passato di moda tal co stume : discebamus enim pueri XII. ut carmen ne
cessarium , quas jam nemo discit. Ed in seguito al riferir di Gellio erano
cadute . in tale disprezzo ed obbllo, ch' erano derise come fossero le leggi
dei Fauni e degli Aborigeni . Si può trovar intanto qualche motivo, pel quale
si possono difendere gli antichi panegiristi delle leggi decemvirali ; poichè
per quanto fossero selvatiche quelle leggi , godevam no pur dei dritti che
danno l'opinione e l' anti chità; e paragonata la giurisprudenz'antica a quel
la degli ultimi tempi della Repubblica, il paragone risultava in favore della
prima. Ma che i Giure consulti moderni , e quelli specialmente della setta
degli eruditi riguardino ancora lo studio dei mi peri frammenti superstiti come
il più interessante per MC 75 per la conoscenza del giusto, e rincariscano su
gli elogj degli antichi, cið non può essere che l'effetto d'un Letterario
fanatismo Se Livio chiamo le leggi delle XII tavole fonté ogni equità fu troppo
credulo alle espressioni ed alle promesse degl’iniqui decemviri. Qual nie fu
infatti l’utilità pel popolo Romano? La severa ed ingiusta costi tuzione non fu
cangiata , e da quella vantata ugua glianza la plebe neppure ottenne di
acquistar la condizione desiderata . Per quel principio Teocrático , di sopra
accen nato , ciò che distingueva in tutti gli effetti civili tanto pubblici che
privati , il patrizio dal plebeo , era il dritto degli Auspicj . Era questo
dritto che dava la vera qualità di cittadino negli affari sacri e ne'civili ;
ed incominciando dal primo vincolo sociale , cioè dalle nozze ' , con i soli
auspicj si produceva il connubio o nozze solenni, dalle qua li derivava il
carattere di padre di famiglia , la patria potestà , e la facoltà di testare ;
e questa specie di nozze era de' soli patriz; ; poichè gli al tri ridotti al
matrimonio civile o naturale senza prevj auspicj non potevano godere delle stesse
prerogative. Gli auspicj e propriamente gli auspi cj maggiori poi erano i soli
mezzi per aver drito 1 ( 76 ) alle Magistrature , e far parte dell'ordine
regnante dello stato. Or niun cangiamento fu fatto da quel le vantate leggi su
di un articolo tanto importante in quella costituzione nella quale tutto era
sacro ; e la Storia c'insegna, quanto poi costasse di tran quillità alla
Repubblica, il voler introdurre in qual che modo l'uguaglianza. Sebbene si
vänti l ' Oratoria e la giurisprudenza de' tempi più antichi di Roma , pure si
può asse rire , ch ' esse non avessero propriamente la loro origine che dopo la
pubblicazione delle XII tavole . Si crederà intanto che quel prezioso codice
avendo acquistata due qualità principali, cioè d'eso ser pubblico e generale,
avesse resa ceria e stabia le la legislazione. Autorizzato dal popolo , fisso
nel foro e delle curie , ciascuno doveva trovarvi la certezza de' giudizj , la
sicurezza de'suoi dritti la legittimità de' suoi dominj; ma su questa con
seguenza ci fanno nascer gran dubbj gli antichi Autori e molti fatti conosciuti.
Convien sempre ricordare che il principal carac tere delle prische Aristocrazie
fu la misteriosa cu stodia delle leggi o consuerudini, e della religione,
ciocchè formava il privilegio esclusivo, o la pri yatiya di quella sola
sapienza che gode del bujo & del ( 77. Det ZE = ; pro ice e della pubblica
ignoranza . Ma codasta sapienza Romana era fondata parte su l’ingiustizia ,
parte su l'errore : su questo , perchè la loro scienza saa cra ed arcana non
consisteva nel celare al volgo i misteri della natura , l'origine della cose, l'enera
gia della forza motrice, la fecondazione dell’universo, ed altri tali idee
nascoste ai profani presso le altre nazioni : la loro scienza arcana si raggira
va sul cantare o cibarsi dei polli , sul volo degl uccelli, sull'andamento del
fumo su i tremori delle viscere , e simili cose , alle quali non pud appartener
mai il nobile titolo di scienza o sapien . ma quello solo di vane osservanze .
L'errore poi lo facevano servire all' ingiustizia , poichè con tali mezzi si
mantenevano nell'assoluta disposizio ne delle leggi , facendole servire alla
conservazione del preteso dritto del più forte, cioè alla soy version ne di
tutte le idee del giusto. Or poichè quelle leggi qualunque fossero erano pur
pubblicate , una parte della scienza arcana e dell' aristocratico potere
sarebbe andato a svanire , se non si fosse trovato un modo col quale si ae
vesse potuto riparare una perdita si grave. Ques sto si effetrul col conservare
il potere giudiziario Dell'ordine de' patrizj , e col rendere inutili le lege
es za 7 bid SSO rvi ti chi Tale Cu ne, ori ujo el gi ( 78 )* gi; se non fossero
state avvalorate dalla doro re condita sapienza . Essi dovevano spiegarne il
sen so ; essi conoscere qual dritto nasceva da una tal legge ; qual era
l'azione che ne proveniva , quale il modo o la formola di proporla, quale
l'eccezione che poteva impedirla ; e finanche si arrogarono come un mistero
sapere i giorni ne' quali si poteva amministrar la giustizia senza offendere i
Numi . Ecco insomma la giurisprudenza , ossia il mezzo di rendere inutile anzi
dannoso alla società il beneficio d'una Legislazione. Essa vanta un ori gine
Aristocratica , un origine che si confonde coll' errore , colla malizia , e colla
prepotenza . Sebbene dunque la giurisprudenza fosse nata su bito che vi furono
leggi incerte ed arbitrarie ; pu re non si confermd , estese e stabilì nelle
forme , che dopo la pubblicazione delle XII . tavole ; dopo questo prezioso
compendio dei dritti degli uomini e degli Dei. Pomponio conferma le mie parole.
Dopo pubblicate (egli dice) le leggi delle XII tavole, come naturalmente
avvenir suole , s'incominciò a desiderare per l'interpretazione delle medesime
l'autorità de' giurisprudenti , e le ne by cessarie dispute del foro. Tali
dispute e tal drit » to non scritto composto dai giurisperiti non ha s pes, 79
) 9 ji però un nome proprio come le altri parti del dritto , ma con pocabolo comune
è chiamato dritto civile. Quasi nel tempo medesimo da „ quelle stesse leggi si
fecero nascere le azioni, colle quali si doveva discettare a litigare : ed
sacciò non fosse in libertà di ciascuno il farne uso, si pensò a farle essere
certe e solenni ' ; e que „ sta parte del dritto fu denominata azioni della legge
, o sia azioni legittime E cosi quasi ad - un tempo nacquero queste ' tre
specie di dritto cioè leggi delle XII. tavole ; dritta çivile deriva „ to da
esse; ed azioni della legge, composte su i s dritti antecedenti , La scienza
poi tanto delle » leggi quanta dell'interpretazione , e delle azioni %, stesse
era riservata al collegio de Pontefici, quali in ogni anno destinavano persona
che pre sedesse ai privati affari o litigi ; e con questa , consuetudine visse
il popolo per cento anni in » circa , „ Quale orribile contradizione ! Appena
pubblieata una legislazione tanto vantata per la sua perfezione, fu trovata
cosi insufficiente, ch'eb be immediato bisogno di sostegni e di interpreta
zioni . E codesto fu il codice superiore a tutte le biblioteche de’ filosofi?
Ogni parola di Pomponio contiene una contradizione alle idee di leggi e le gis
80 ) gislazione che somministra il buon senso il più comune. Il dritto civile
tanto encomiato non fu altro dunque che il risultato delle interpretazioni
de'Giu. risprudenti e delle dispute forensi ? E qual razza di prudenti erano
mai quelli! Ciascuno sa che quella fu l’epoca della più crassa ignoranza; la
spada, la zappa, i polli e le usure erano le sole idee che fiorivano in quelle
teste leggislatrici . Ma poichè col progresso del tempo , e colla frequenza de'
giudizi qualunque fosse stato quel dritto con suetudinario poteva pur ridursi
in massime o in principj di giustizia , e cosi divenire di comune. intelligenza
e di un uso generale; si pensò il mo. do onde questo non avvenisse , e si
mantenessero sempre le leggi nel bujo e nell'incertezza . Ne cið era
sicuramente per una vanità dottorale , ma per conservare un potere ed una leggislazione
arbitra sia , qual era il grande scopo dell' ordine Aristo, cratico . L'unico
mezzo che essi viddero il più opportu 80, fu quello d'inventare le azioni ,
cioè delle for mole colle quali non solo si doveva agire o ecce pire in
giudizio , ma secondo le quali si doveva no regolare i contratti e gli altri atti
civili , accið por ve far potessero avere un effetto legale. Non bastò loro di
aver la privativa de' giudizj ; poichè colle leg gi certe difficilmente
avrebbero potuto abusarne : bisogno dunque inventare un nuovo dritto di esso e
della nuova pratica una nuova legis lazione da surrogare all'antica scienza
mistica delle leggi, per tenerle sempre in quella severá cu stodia, colla quale
prima delle XII. tavole teneva no le antiche consuetudini . E perchè non si man
casse di venerazione a tale straordinario stabili . mento, i Pontefici ne
furono fatti depositarj egual mente e disponitori . Chi' può trovare in questa
specie di legistazione altro carattere che di una volontà arbitraria diret ta
non a dispensar giustizia , ma a conservare ľ Aristocratico dispotismo , darà
segno , di non aver avuto mai idea di ciocchè costituisce il carattere delle
leggi. Ma non si trattava già di fac leggi , si trattava solo di tener il
popolo in schia vitù : perchè se avendo già esso acquistato i drit ti di
privata cittadinanza avesse potuto godere anche quello d'Isonomia , cioè dell'
eguaglianza delle leggi , qual'era stato il suo intendimento nel promuovere una
pubblica leggislazione , avrebhe fatto un gran passo verso quella libertà che
tanto F ambiva , ma che più sentiva che conosceva . Escla . md esso sovente
contro quella specie di occulta o privala legislazione , dicendo, che la sua
condizio de ea in questo assai peggiore di quella dei po poli vinti ;
essendogli negato il poter sapere cioc che riguardava i più comuni affari
çivili , e fino i giorni legali e feriali, ciocchè agli altri non era Ignoto :
segno sicuro che l'aristocrazia romana era inolto più feroce o severa di quella
delle altre città o popoli vicini. Il dottissimo Vico con gran proprietà d'
intelli genza penso che quel notissimo motto di Solone: conasciti, fu piuttosto
un précetto politico che mo rale . Pieno l'animo di tutti i sentimenti della ve
ra giustizia Solone ricorda va con quel motto all' oppresso popolo di
riconoscer se stesso , cioè di riconoscersi per uomini ed uguali ip dritto a
colo ro che li opprimevano. Il popolo Romano non eb be un Solone , che gli
desse così utili ricordi ; ne forse ne aveva bisogno , poichè abbastanza si ri
conosceva , ed agli insulti de'Patrizi rispondeva , che non erano fioalmente
essi ne discendenti do’ Dei , nè venu i giù dall' Empireo . Avrebbe perd avuto
bisogno di un Solone , per aver lidea d'una costituzione , senza la quale arrivo
si a distruge gero gere la maggior parte degli abusi del potere Ari „
stocratico, ma non giunse mai a formare una pere ferta Repubblica, fondata su i
veri rapporti sociali e su i dritti primitivi della Giustizia naturale e
positiva : per cui se Roma corse rapidamente alla grandezza dell'impero e delle
ricchezze, cadde an che presto nella voragine del disporismo . Ma ritornando a
quella Giurisprudenza che suc cedè immediatamente alle XII tavole, e che diede
nascita a quel nuovo dritto così stranamente am ministrato, dirò , che sebbene
da quanto semplice mente espone Pomponio, se ne possa giustamente fare il
carattere; pure ad esuberanza aggiungerd, che l’illustre Gravina , tuttochè
pieno d' entusiasmo per la Romana Giurisprudenza, non seppe nascon dere ,
quanto fosse infelice quella de' tempi de'qua. li abbiamo ragionato. Antiqua
jurisprudentia nun. cupatur quæ statim post latas leges XII. tabularum prodiit
: aspera quidem illa tenebricosa & tristis non tam in æquitate quan in
verborum superstitione fundata. Se il Gravina rinunciando ai pregiu dizj
Filologici, avesse voluto mettersi in grado Gray. de Ortu Tur. Civ. cap. 46. F
2 di giudicare giustamente , come riconobbe per tenebrosa l'antica
giurisprudenza , avrebbe ricono sciute per arbitrarie e maligne le successive
giuris prudenze dette media e nuova , ed avrebbe discon * fessato gl '
inopportuni encomj , che in generale yolle ad esse tributare . Per quanto perd
si è finora ragionato , non ho toccato che leggermente la nequizia della giuris
prudenza e della giustizia sacerdotale ; ma chiun que per poco abbia di buon
senso converrà meco, che una delle tristizie maggiori in fatto d' Ammi
nistrazione è il sottrarre le leggi del pubblico uso e conoscenza , e ridurle
per vile ambizione e su dicio interesse ad arcani misteriosi . Nascondere le leggi,
è nascondere la luce civile ', è precipitar gli uomini ne' vizj e nella
corruzione. Le leggi con molta proprietà e verità d'espressione si chiamano la
ragion civile , onde il celarle, il corromperle , val lo stesso che privare
gl'individui del corpo po litico di quella ragione che loro deve servir di
guida in tuui gli affari sociali. I patrizj giurispru. denti non lasciarono
mezzo per tenere il popolo nell'oscurità , poichè non solo coll' inventare le
azioni e farsene' una privativa di ordine, occultaro no le leggi e le
guastarono ; ma de' nuovi stabili men ( 85 ) menti anche s'impossessavano per
poterne disporre a loro talento. Livio n'è amplissimo testimone di cendo :
institutum etiam ab iisdem coss. ( cioè Lo Valerio e M. Orazio ) ut
Senatusconsulta in ædem Cereris ad ædiles plebis deferrentur , quia ante ato.
bitrio Consulum supprimebantur vitiabanturque. Non fu però sufficiente questa
legge, come vedre mo in altro luogo , e i giurisperiti seguitarono ad essere
veri Monopolisti delle leggi . Dobbiamo credere però che i più virtuosi Ro mani
avessero a vile codesto mestiere d'ingan no e di soverchieria ; e perciò . la
storia ci pre senta sempre con elogj coloro i quali quasi senz’intervallo
tornando dai campi di Marte cambiava no coglistrumenti rurali gli arnesi
guerrieri , o coronavano l'aratro di allori trionfali . Si sa che Roma allora e
per alui secoli non presentava al cuna occupazione che potesse allettare alla
vita cittadinesca , la quale dalle belle arti , dalle scien ze, e dal prodotto
da, esse spirito sociale si rende solo piacevole ; perciò chi non amava
l'intrigo, nè la vita oziosa soffriva , in vece di darsi alla cabalistica
(Livio) e viziosa giurisprudenza , si riparava nella esercizio dell'agricoltura
sempre preferibile ad una mestiere cosi pernicioso. Infatti la storia ci pudo
istruire , mostrandoci , che la famiglia la più in festa allo Stato , la
perpetua persecutrice della li bertà popolare e della Giustizia pubblica fu una
famiglia di giurisprudenti. Tale fu la Claudia ; e sempre si è veduto che dove
dottori e forensi 80 no, la discordia prende il luogo della pace e della
naturale tranquillità . Ma ritorniamo a Pomponio . Egli ci dice che quella
mistica giurisprudenza si sostenne quasi per un secolo : la storia pero a gli
altri autori dicono , ch' ebbe una durata eguana le a quella della Repubblica ,
toltene alcune diffe renze dalle quali non fu alterato il fondo del la cosa ·
Seguita dindi Pomponio a racconta re , come quelle formole ed azioni , essendo
ri , dotte in forma da Appio Claudio , cotal mistico libro gli fu involato da
Gneo Flavio figlio d'un libertino e scriba dello stesso Claudio : ed aver . ,
dolo pubblicato e fattone un dono al popolo , » questo gli fu si grato , che lo
fece pervenire ad » esser Tribuno della plebe , Senatore , ed Edile „ Questo
libro contenente quelle azioni delle quali > si è già parlato , dal nome
dell'editore fu deno ( 87 ) Si po , mitato drino civile Flaviano , benchè egli
nulla » vi aggiungesse del suo. Nel crescere poi in Romi la popolazione e nel multiplicarsi
gli affari maticando alcune specie di formole , Sesto Elio non » guari dopo
compose nuove azioni e ne pubblico co un libro chiamato Dritto Eliano , .
trebbe" ragionevolmente pensare , che pubblicate le leggi e resa publica
la scienza arcana , il dritto cívile , le ' azioni, la pratica, e le leggi
stesse diven cassero di pubblica ragione; e che il popolo illua minato su i
principj legali , sulla condotta degli affari , sul modo di amministrar la
giustizia , . sulle ordine giudiziario , non avesse più bisogno della
maduduzione de' patriaj per distinguere il giusto , e sapere i mezzi d'ottenerlo
. Ma tuu ' al trimenti andiede la bisogna į poichè non volendo i patrizj
perdere per alcun modo la custodia e la dispensazione di quella scienz'arcana ,
che forma va la base principale del loro ingiusto potere, tro* varono il'modo ,
onde far rimaner il popolo de fuso . E come nelle sette se si vengono a scopris
se i segni mistici destinati al riconoscimento, pres stamente si cangiano , e
de ' nuovi si surrogano , onde sia salvo it mistero ; cost i bravi Giurispe
siti eseguirono , cost posero in salvo i pretesi F drica, dritti dell' ordine ,
e conservarono il grande arcano della Giurisprudenza . Le formole e le azioni
furono cangiate , e forse in maggiori cifre involute onde potessero rimanere
ancora lungo tempo nascoste ed inintelligibili allo sguardo plebeo . Ma
ascoltiamone, Cicerone, il qua le ce ne dà il più distinto divisamento ; Erant
in In igna potentia qui consulebantur : a quibus etiam dies, tamquam a Chaldæis
petebantur. Inventus est scriba quidam Gn. Flavius qui cornicum oculos con
Fixerit , & singulis diebus ediscendos fastos populo proposuerit & ab ipsis cauris jurisconsultis coruin
sapientiam compilarit . Itaque irati llli , quod sunt, veriti , ne , dierum
ratione, pervulgata & cognita șine sua opera lege posset agi . notas
quasdam com posuerunt, ut omnibus in rebus ipsi inieresseni Non fu di alcun
utile dunque l'aver trafitti gli oc chj a quelle cornacchie poichè in breve
tempo seppero rinnovarli e renderli migliori. Per quanto quindi prosiegue , la
Storia troviamo sempre costantemente e già pel corso di quattro secoli gli
stessi sentimenti , gli stessi principj , la 2 stes (Cic. pro Mur.) cha stessa
condotta". La Giurisprudenza fu latente , in çerta , arbitraria , ignota
al popolo ,, e privativa del solo ordine paurizio sacerdotale, il quale lungi
da quella virtù che sola consiste nella beneficenza » da quella sapienza che
cerca il vero , per render lo di comune demanio ; da quella Giustizia trova i
principj nella ragione, e gli espansivi sens țimenti nel cuore ; da quella
naturale benevolenza e da quel sentimento di pietà, che distinguono l'uo mo
civilizzato ; da'veri sentimenti di patriotismą che non può essere mai
scompagnato dalla Giusti, zia ; , lungi dico da tutte queste qualità e gli Eroi
del Campidoglio non sembra che provassero altri sentimenti che quelli dettati
dallo spirito di corpo, sempre contrario, anzi distruttivo de' sentimenti so
ciali , dal vile interesse personale e pecuniario Fros, duttore di tutti i vizj
, e dall'abuso di un illegiti mo potere. E pure questi furono i patriarchi
della giurisprudenza ! Seguitando quindi Pompopio ad esporre i fonti del dritto
Romano ci accenna l'origine de' plebi. - . sciti e de' senatusconsulti, specie
di leggi dettate dal popolo o dal Senato , e delle quali in appressa, vedremo
gli effetti ee'l'l valore , e soggiunge , che » nel tempo stesso anche dai
Magistrati nacque » un' 1 el gobierno un' altra specie di dritto s poichè ,
tecid saw pessero i cittadini , di qual dritto i Magistrati in si sarebbero
serviti intorno ai varj oggetti di giudicatura , & perchè vi andassero
premuniti, pubblicarono degli editri , da quali si costitui il » Dritto
onorario , cost detto perchè proveniya dall'onor del Pretore , • E dopo aver
parlato finalmente dell'altra parte del dritto che nacque delle costituzioni
de' Principi , cost riepiloga tutti i fonti che costituiscono il 'dritto Romano
. ,, Nel la nostra Città dunque dice egli ) la legisla os zione è costituita
del dritto" o sia legge ; da » quello che propriamente si chiama Dritto
civile , che non è scritto , è consiste nella sola interpre mtazione de'
prudenti : dalle azioni della legge » le quali contengono le formole di agire;
dai plebisciti che furono fatti senza l'autorità del » Senato , dagli edini
de'Magistrati,da' quali nasce il dritto onorario ; dai Senatusconsulti
costituiti dal Senato senza legge particolare ; e finalmente , dalle
costituzioni de' Principi , Ecco tutta la Storia seguita , che Pomponio ci ha
lasciata del dritto Romano, ed intorno alla quale presso a poco gli autori
tunti convengono . Abbiamo finora voduto quale fosse il dritto é la C 91 ) fa
giurisprudenza Romana prima è dopo dello leggi decemvirali , e quindi come per
quattro secoat li e più le leggi e la Giurisprudenza avessero 1 caratteri
d'irregolarità , d'incertezza e di arbitrio i é non ostanteche la ragion
popolare andasse ac quistando qualche dritto su l'Aristocrazia , puro questa
sostenuta dal Sacerdozio , qnantunque per Necessità cedesse in qualche cosa
de’dritti pubblici, fece perð ogni sforzo per tener recondite le leggi , e
sotto le chiavi del mistero tutto quello che ri guardava l'anministrazione
della giustizia. Conoba bero ben essi che nei stati di qualunque sorte, quel If
anno veramente il massimo di potere effettivo cho possono disporre a loro modo
delle leggi e della giu stizia , e che tanto più diventa tale autorità effica
cé , quanto più le leggi sono oscure incerte ed ar bitrarie . Ma per vedere
come questo continuassets e come la Giurisprudenza seguitasse ad esser sem pre
della stessa indole , prima di venir a ragionia re de' plebisciti e de'
senatusconsulti ch' ebbero di yerse fasi, ci fermeremo ad esaminare quel
dritto; cui si volle dare il titolo di onorario , ma che ves dremo' non essere
stato degno di alcun onore. Se si volesse parlare del la ridevolezza di quelle
vantate formole , che costituivano la Romana Giurisprudenza , ci porterebbe a
perdita di tempo , ma se i Romani di buon senso e Cicerone stesso le.
deridevano e tenevano in altissimo disprezzo , cre do che dopo due mille anni
potremo far noi al- , trettanto , e chiunque non sia un’ vero divoto , e cieco
adoratore della Romana antichità e giurispru-, denza. Rifletterà solamente ,
che quando di cose sem. , plicissime si vogliono far misteri , allora dovendo
vi aver luogo l'arte d'imporre , le idee semplici si devono involgere in un
numero di parole non necessarie , e surrogare impropriamente le imma gini e le
finzioni alla semplicità e realità delle co se e delle idee : specie di
geroglifici che deve ace: compagnar sempre il mistero, e l'impostura Siccome
non è mio intendimento però di fare la Storia del governo civile di Roma, mà
solo indicare il corso infelice delle leggi e della giurisprudenza, cosi non
m'impegnerò nelle lunghe dispute e di bauimenti fra la plebe e i patrizi,
quando quella per acquistare i dritti di cittadinanza , e questi per
allontanarli , facevano tuttogiorno rimbombare de loro schiamazzi il foro
Romano; ma accennerò so , lamente ciocchè importa , per passare all'origine del
dritto onorario . La forza dell' opinione non aveva più molio. scevano valore
contro la forza reale ed effettiva ; per cuti essendo riusciti i plebei a
partecipare ad alcuni di quegli officj che fin allora erano stati privativi de
patrizi , come fu quello della questura e de' tria buni militari , non parve
foro di aversi assicuraii i sospirati dritti , se non ottenevano la massima
delle Magistrature , vale a dire il Consolato . E poichè già per lunga e
dolorosa esperienza cono che sempre col manto della Religio ne i patrizj
cercavano coprire le loro pretese , o tependone lungi il volgo profano ,
ailontanara lo da tutte le magistrature che de' sacri auspicj abbisognayano ;
così i plebei videro che per farsi strada al Consolato, si rendeva necessario l
' ardi mento di entrar ne' sacri pene trali , ed andar an che essi a studiare e
consultare un poco i libri Sibillini. Quindi fra le rogazioni che fecero cor
rendo alla fine il quarto secolo di Roma , furo no queste cose combinate ; cioè
che invece de' Duumviri addetti alle cose sacre si facessero de De. cemviri , e
che di questi cinqué patrizj fossero ed altrettanti plebei : e che nella nuova
elezione de Consoli l'uno fosse del loro ordine , e l'altro pae trizio . Invano
Appio Claudio montà in tribuna per fare non arringa ma una predica Teologica
contro le 94 et le nuove idee filosofiche sorte negli animi della plebe Romana
: invano ricorse alle idee teocrati che già fatte obsolete ; invano minacciò d
anate ma quel popolo , che potea far a lui più reali mi nacce : Roma ( diceva
egli ) fu fondata cogli au spicj: futiociò che vi è di pubblico , di privato ,
di sacro , di profano , in guerra , in pace , in cae sa e fuori , tutto doversi
cogli auspicj trattare : che i soli patrirj in esclusione de' plebei per
inveterato costuma godevano del dritto degli auspicj: che niun magistrato
plebeo fu mai creato cogli auspicjse che in fine canto era il creare i Consoli
dalla ple. be , quanto il rovesciare interamente la religione , ed incorrere
nell'ultima indignazione degli dei. Non ostantino però tante e si gravi
rimostranze Lucio Sestio nel 387. ottenne finalmente il conso lato . Se questo
colpo fosse doloroso a sostenere per i patrizi, è facile l'immaginare ; ma al
male già accaduto non potendo portare alcun riparo ef ficace , si rivolsero ad
escogitare qualche rinfranco , per non perdere intieramente quel privativo
potere che dipendeva dal consolato . Pensarono dunque sta ( 12 ) Lir. lib. YI.
cap. 36 mabilire una nuova Magistratura, che potesse con servare nell'ordine
patrizio l'amministrazione del da Giustizia, il potere giudiziario , e tuttociò
che riguarda l'esecuzione delle leggi civili. Quindi col pretesto che i Consoli
erano quasi sempre fuori di città alla testa degli eserciti , onde non poteva
no adempire agli ufficj della giudicatura , proposent to di stabilire un nuovo
magistrato che adempisse & questa parte dell'Amministrazione , e fu
ordinato che si traesse dai patrizj e si chiamasse Pretore . La pretura dunque
fu stabilita per conservare nell'ordine de' padri eutto il sistema giudiziario
o forense del quale avevano facto fin allora uno scempio cosi crudele . Le
leggi e la Giurispruden za seguitarono ad essere malversate , ma per poia chi
anni durd privativamente nelle mani de' patri zj la Pretura . Eccoci intanto al
tempo nel quale si pud fissare veramente l' epoca di quella Giuris prudenza che
passo di mano in mano fino agli ul. timi tempi ne' quali ebbero qualche
celebrità il no . me Romano e l'Impero . Questa parte del dritto , come testè
ci ha insegnato Pomponio , nacque da gli editti , che emanavano į Pretori
nell'entrare in esercizio della loro Magistratura , ed essa façeva il maggior
latifondio della Scienza forense . L'im para the S6 ) portanza dunque della
medesima ci merte nel do vere di portarvi sopra uno sguardo particolare ,
seguendola brevemente nel corso della Storia' , ve derne in qualche modo l' uso
, il carattere ; e gli effetti , Dopo lo stabilimento della pretura e della
comu nicazione a tat officio delle plebe , e più dopo ese guito il censo di
Fabio Massimo il governo di Roo ma perde la forma Aristocratica , benchè non ne
perdesse lo spirito ; ed io non ardirei dire col cos mune de' dotti , che si
trasformasse mai in quella forma costituzionale che si chiama Democrazia: La
libertà popolare fu molta , e qualche volta ecces siva a segno che degenerd' in
licenza , poichè essa non era limitata dalla legge ; ed il dritto de' suf
fraggj ed il potere legislativo non ebbero mai quel la regolarità ed uniformità
, che può rendere nel tempo stesso un popolo regnante e tranquillo . E non fu
mai tale il popolo Romano, poichè la for ma del suo governo non fu costituita
su d'un pia no antecedentemente ragionato nel quale dalla considerazione de'
varj rapporti sociali si fosse ri montato alla necessaria divisione del
pubblico po tere , e questo ripartito in modo che le varie par ti non si
potessero nuocere fra loro , e non si po tes. → toa 97 ) tessero riunire ; ma
per un nesso naturale tutte coordinatamente contribuissero al grande scopo
della perpetua conservazione sociale . Non avremo perciò quind' innanzi
frequente oco casione di parlare dei disordini dell' Aristocrazia patrizia o
sacerdotale , poichè gittati i semi del disordine e della corruzione , essi si
moltiplicarono dovunque trovarono suolo adattato alla facile germi nazione.
Llibertà produsse i suoi necessarj vantag ki , non però tutti quelli che
sarebbeo nati da una vera e legittima costituzione. Ma passiamo final mente a
vedere quale fosse stato il fato della Giu risprudenza in questo nuovo ordine
di cose. Fra i Scrittori che di proposito e più accurata , mente trattarono
degli editti pretorj sono da distin guere il celebre Giureconsulto Eineccio ed
il Sig. Bouchaud dell'Accademia delle Iscrizioni, i quali per trattare il più
compitamente che fosse possibile questo importantissimo articolo relativo alla
Storia politica ed alla Giurisprudenza Romana, non tralasciarono ricerca alcuna
conducente al loa G TO ( 1 ) Heinec. Hist. Edict. ( 12 ) Memor. de l'Accadem .
des Inscr. com. 72. ma 98 ) ro scopo . Trovarono che in Roma e per l'Impe , so
ancora non solo quelli che propriamente Man gistrati erano detti , ma diverse
altre cariche ed officj ancora che non avevano tal carattere , ebbe To pure il
dritto o il costume di fare degli edinti Quante che fossero adunque le
divisioni e suddi visioni del potere esecutivo o giudiziario , ed in quanti
diversi rapporti fossero esse costituite, pren dendo un tal dritto , ebbero
l'uso e la facoltà di straordinariamente comandare. Cosi , incominciando dai
Pontefici e dai Tribuni della plebe , nè gli uni nè gli altri Magistrati , e
passando ai Consoli e Pretori fino ai menomi Magistrati Civici tutti vol. lero
avere il dritto di far editti , e godere di quel. Ja parte di potere che in
tale facoltà o prerogativa era compresa . Fra tanti Magistrati perd che eb bero
o si arrogarono cotale autorità , gli editti di maggiore celebrità , e che
contribuirono a creare una nuova Giurisprudenza furono quelli de'Pretori.
Abbiamo già detto di sopra che dai patrizj fu inventata e fatia stabilire
questa nuova Magistraa tura a consolazione ed indennizzamento della per dita
che avevano fatta d'un Consolato passato al la plebe ; e quindi ottennero , che
il Pretore dal loro ordine dovesse essere prescelto Non durd mol , ( 99 molto
intanto questo, privilegio poichè la plebe veggendo di quale importanza fosse
la Pretura , non molti anni dopo cioè nel 417. volle anche para tecipare a tal
carica , mentre ancora era unica e non divisa nei due Pretori Urbano e
Peregrino ; ciocchè' avvenne circa un secolo dopo , cioè nel anno 510. Coll’andar
del tempo si multiplicarono maggiormente , ed oltre dei due mentovati e dei
Pretori Provinciali altri ve ne furono nella Città , de' quali alcuni erano
addetti a rami di cause para ticolari, Ricordandoci ora di ciocchè abbiamo
detto del la origine della Pretura , ciocchè ci viene attesta 10 da Livio e da
altri , cioè che essa fu surro gata al potere giudiziario, che i Consoli
esercita vano , si dovrebbe naturalmente pensare , che se i Pretori cagionarono
alterazione nell'antica Giu risprudenza , e ne fecero nascere una puova , çið
essere accaduto per effetto delle loro decisioni o decreti o sentenze , le
quali avessero per la loro giustizia meritata la conferma della pubblica auto
rità , e passate quindi in dritto consuetudinario Ma non fu certamente per tal
motivo , nè si po trebbe facilmente immaginare , che essi a priori fossero
autori di un nuovo dritto e d'una nuova Giu. 3 . G 2 ( 100 ) Giurisprudenza .
Eppure non fu altrimente : essen do essi semplici giudici o ministri di
giustizia , colla facoltà di fare degli editti seppero per tal modo usurpare
l'autorità Legislativa , che il dritto fu cangiato , e gli editti più che le
leggi furono osservati , e maggior uso ed autorità ebbero nel Foro . Ma se i
Pretori non erano altro che Giudici cioè Magistrati di Giustizia , il loro
officio era solo di applicare .la legge al caso particolare , o sia ve der i
rapporti fra la legge e ' l fatto del quale si di. sputava. Un Giudice non può
creare un dritto col le sue sentenze , poiché esse altro non sono che la
dichiarazione del dritto medesimo ; cioè che la legge nel caso proposto si
verifica per la tale azio ne o d'eccezione dedotta in giudizio. E se decidendo
, cioè esercitando l'attualità della Magistra tnra non può crear un dritto ,
molto meno dee cid poter fare per la sola qualità di Magistrato o in forza
della Magistratura. Gli editti pretorii dunque per i quali si alteravano , si
cangiavano le leggi , e se ne stabilivano delle altre temporarie , ci pre
sentano degli atti di autorità arbitraria , tempora ria , ed incerta che non
possono formar mai una parte del dritto , il quale può solo emanare dalla - potestà
legislativa , e dev'essere certo generale o perpetuo , fino a che non sia
abrogato dalla stessa autorità. Quando dunque in una carica siriuniscos no
contro tutti i principi della ragion pubblica quelle facoltà , che devono
essere divise da limiti insurmontabili , si può dire che tal carica contenga
almeno in potenza (come dicevano i Scolastici) i principj del disporisano , e
dispotico si può chia mar il Magistrato che l'esercita . Nel crearsi la Pretura
io voglio supporre che non s'intese produrre un mostro di tal fatta , ma come
codesta carica fu surrogata al potere giudi zionario che avevano prima i
Consoli , il quale era riunito al potere esecutivo , cosi' e per questo per
quel grado d'autorità che prendevano dall ' or dine da cui erano tratti , non
fu difficile il farvi passare di tali abusi . A considerar dunque giusta mente
la cosa non nacque nella Pretura tale abuso dal semplice potere giudiziario ,
ma da quello di far gli editti . In fatti se si va all'origine di que sto dritto
, ne troveremo la ragione: Edicimus (dicevano gli antichi) quod jubemtis fieri
: espres sione tanto generale , che potrebbe comprendere l'esecuzione di tutte
le potestà non esclusa la le gislativa ; e perciò fiequentemente le parole di G
leggi e di editti furono di uso promiscuo : Ma Papiniano è quello che più nettamente
ci ha la sciata la vera idea del dritto pretorio dicendo che fu introdotto a
pubblica utilità , per adjuvare supplire, e corriggere il drilio civile . Jus
prætorium adjuvandi, vel supplendi , vel corrigendi juris gratia propter
publicam utilitatem introducium : Ecco dunque la vera origine del drixco
Pretorio, e propriamente di quello che proveniva dal fare gli editti . Ajutare
intanto indica debolezza , supplire , mancanza, cor reggere , errori . Si dice
ch'è nell' ordine naturale delle idee di amministrazione , che quando al caso
non si trovi alcun stabilimento di dritto , alcuna legge scritta , la volontà
del Magistrato o di colo ro che governano supplisca a questo difetto che il
loro piacere tenga luogo di legge questa volontà sia giusta o ingiusta , utile
o noci va alla Repubblica ( 13) . Ma che altro è mai il Dispotismo , l'odio de'
popoli czualmente e de' buoni regnanti : Se le leggi mancano, bisogna far le ,
e non solo il Ministro di giustizia , ma niun Magistrato è mai autorizzato non
dico a fare alcu > o che na (13) Bouchaud Memoir. cit. tom. 72. ( 103 11 0 7
I na legge , ma nè a soccorrerle cadenti , nè a sup plirle difettose , nè a
correggerle erronee , nè ad interpretarle oscure · Lascio le tre prime condizio
ni o circostanze delle leggi , sopra le quali non pud cadere alcun dubbio , che
il restituirle in qualun que modo non possa spettare ad altri che al So vrano ;
ma in quanto all' interpretarle , . sopra di cui il probabilismo forense pare
che abbia stabia lita la sua autorità , rifletterò che l'interpetra re o
interpatrare da principio fu in Roma del so to ordine del patrizi , quando
tutti i poteri e spe cialmente il legislativo erano ristretti nell' ordine
"Aristocratico . Essi dunque che facevano le lega gi erano i soli che potessero
interpretarle , uno e l'altro potere era illegitimamente stabilico ed
abusivamente amministrato . Quando una leg ge è oscura , non vuol dir altro ,
che il non sa persi precisamente , ciocchè essa comandi o pre scriva ; lo
spiegarlo deve venir dunque dalla stes sa autorità , che l'ha emanata , sola
interprete le girima di se stessa . Ne i giudici dunque nè i giurisperiti
possono arrogarsi un autorità illegittima della quale è tan 10 facile l'abusare
; e percid gli ottimi legislatori e Giustiniano stesso ogn'interpretazione
proibiro G 4 ma l i 10 . ( 104 ) no . Le leggi bisognose di sussidj ed
interpretazio. ni indicano abbastanza i loro difetti , de' quali di sopra
abbiamo accennato il rimedio , ed il maggior male da esse prodotto fu d' aver
fatta nascere la Giurisprudenza , ed in seguito la corruzione della giustizia :
nel qual fatto osserva l ' Eineccio , che i Romani furono cogli Ebrei sotto lo
stesso paral lelo (14 ) Or l'autorità data ai Pretori cogli editti prova
visibilmente due punti: il primo che le leggi era no così incomplete , come
sono quelle dei popoli bara bari ; e che i Romani lo furono a tal segno , che
non seppero conoscere, quanto il confondere le po testà , ed il lasciar il
poter arbitrario ai Magistrati fosse contrario alla Giustizia ed ai principi di
ogni buon governo . Scuserò i pretori se ne abusarono, ma come scusare quel
modello delle Repubbliche, quella Repubblica stabilità su la virtù , e che con
nobbe più delle altre la libercà e l'uguaglianza ? Non togliamo a Roma gli
onori che merita. Essa fu la prima inventrice degli editti, essa fu la sola Re.
Heinec. De prohib. a Justin. interpret. facult. Cros bertan Repubblica per
quanto si sappia , che li avesse in costume. A vedere quale era il dritto
Pretorie lungi dal dover credere i Pretori Magistrati giudiziarj , do vremmo
anzi prenderli per riformatori o corret . tori delle leggi . Tali furono in
fatti , ma non per uno stabilimento autorizzato dalla potestà le gislativa : lo
furono solo per abuso , vergogno so ai costituenti di sì strana Magistratura ,
e fer nicioso sommamente al popolo soggetto. Se Roma avesse conosciuti i
difetti delle sue leggi , e l'in congruenza nella quale dovevano essere per la
dif ferenza de' tempi , e per i politici cangiamenti ; ed avesse voluto imitar
veramente le leggi ed i sta bilimenti di Atene , avrebbe trovato più oppor tuno
mezzo ' a correggere e modificare la sua bar bara legislazione . Ciascuno sa
che in Atene vera un Magistrato detto de’ tesmoreti , il quale propo neva
annualmente i cangiamenti o correzioni da farsi nelle leggi , e queste erano
poi approvate o riggettate dal potere legislativo . Non deve farci intanto
molta meraviglia che la pretura s' introducesse con tali abusi e tant' auto
rità straordinaria , se rifletteremo che quella. Magi stratura fu da principio
stabilita privativamente per l’ordine patrizio, il quale la conservò in suo
potere per trent'anni . Per sapere poi come quell'abusivo potere si esercitasse
, devo ricordare , che vi erano quattro specie di editti , cioè Repentina :
perpetuæ jurisdi fionis caussa : translaticia : nova . E senz' andar esponendo
il valore di ciascuno , ciocche fino alla sazietà da molti autori è stato
eseguito , mi ri stringerò ad alquante osservazioni più importanti. E
primamente dirò , che quelli editti i quali do vevano contenere il sistema
giudiziario attuale del la pretura , furono quelli appunto , da'quali deri
varono maggiori abusi , cioè quelli perpetuæ jufts dictionis causa , pei quali
il Pretore esponeva nell' albo le formole delle azioni , delle cauzioni, delle
eccezioni, secondo le quali avrebbe fatto giustizia. Or avendo veduto che la
Giurisprudenza anzi il dritto civile de' Romani in tali formole era com preso,
chi era autore delle formole, lo era in con seguenza del dritto medesimo.
Chiunque nell'agire in giudizio mancava a quelle formole per qualun que causa ,
cadeva dall ' azione , o rimaneva con inutile eccezione cioè perdeva la lite
anche che intrinsecamente avesse avuta dal canto suo la giustizia e la
disposizione delle leggi. Ecco dunque il Magistrato div enuto legislatore , ed
arbitrario it sistema di giudicare. Dobbiamo però credere , che tuttociò fosse
fatto senza principj , e che non aven do idee certe e generali de' principj del
driito , fa cessero gli editti ciascuno secondo le proprie co gnizioni ed idee:
poichè come le ultime deriva zioni e ramificazioni delle leggi si possono
ritrar tutte della retta ragione e dalle idee di giustizia universale, cosi se
i loro editti fossero derivati da tali fonti , non sarebbero stati prescrizioni
annua li , ma avrebbero avuta una continuazione o vera perpetuità. Nè ci faccia
illusione il nome di perpetuæ jurisdictionis , poichè quella perpetuità era
ristretta ad un sol anno . Il Pretore o Pretori che succede vano alla carica ,
avevano il dritto assoluto di proporre nel nuovo albo un nuovo sistema giudi
ziario , e cangiare a lor grado la formola ed i principj ; e sebbene questo non
si fosse fatto sem. pre nè in tutto, poichè spesso i succes'sori conser vavano
integralmente o parzialmente gli edirii an tecedenti , ciocchè diede il nome di
translatixj agli editti di tal indole , era sempre però in liber tà de' nuovi
Magistrati di farne di nuovo co nio , che perciò portarono il titolo di nova. Se
maggiori irregolarità , incertezze ; ed arbitrj . si possono portare nell'
ordine giudiziario e ne ! dritto , lo lascio giudicare agli amici della Giu
stizia e della ragione. La Giustizia dipendeva solo dal capriccio pretorio , e
gli attori in giudizio do vevano essere ben intrigati in variar le loro fora
mole , e su di esse disputare ed argumentare , per trarre le disposizioni o le
opinioni legali al loro partito. Questo portò col tempo , che fossero mol te le
azioni per lo stesso giudizio , ciocchè faceva un nuovo intrigo , ed accresceva
l'arbitrio de’ magistrati . Più anche dovette crescere quando i Pre tori furono
varj , e vi era in Roma quasi una po polazione di Magistrati , poichè ciascuno
a suo modo proponendo gli editri , quel ch'era giusto pres. so di uno , si
trovava ingiusto presso un altro . La morale pubblica e quella delle leggi
particolara mente era dunque così incerta, che non aveva per regola che le
opinioni o il capriccio, e si dilatava o ristringeva , allungava o accorciava
secondo le sublimi Teorie del probabile , le quali sorgono sem . pre dall' arbitrio
e dalla corruzione . Se il Pretore fosse stato uno solo , se l' Ammi
nistrazione giudiziaria fosse stata ristretta ad una sola specie di
Magistratura , non avrebbe potuto 1 dirs ( 109 ) diffondersi tanto l'incertezza
della Giustizia e la forza dell' arbitrio : ma gli ammiratori o visionarj della
Sapienza Romana , trovano ragioni sufficien ti per ogni disordine . Il
progressivo accrescimento della Città o della Repubblica porto secondo essi
multiplicità e varietà di affari , per cui si doveano coerentemente
multiplicare e variare le Magistra ture e le Giurisdizioni . Esempio pur croppo
fune stamente imitato nei vari stati di Europa '! Nel progresso delle Società
si aumenta è vero la po polazione o il numero degl' individui; ma non per
questo crescono i rapporti naturali e necessarj che essi hanno collo stato ,
col governo, e fra se stessi . Non crescendo i rapporui non devono multi
plicarsi e variarsi le leggi , le quali ne sono I espressione ; ne devono
quindi" crescere e di versificarsi in varj generi e classi i Magistrati
che ne sono i Ministri o dispensatori . Possono crescere in numero bensi ed in
divisioni , ma de vono essere costantemente della stessa specie e con i stessi
nomi. Quindi il dividere i giudizj crimi nali e civili in tante varietà , giurisdizioni
, e le gislazioni differenti è il produrre volontariamente una confusione , e
multiplicare gli abusi dell'arbi crario potere : ciocchè però non accade quando
si vedono nettamente e con precisione i rapporti deb cittadino . In questo
caso, la legislazione sarà uni voca , generale, uniforme ; i limiti del potere
giu diziario resteranno distintamente marcati ; e le giurisdizioni , e le
Maggistrature non saranno sta bilite e divise sopra rapporti immaginarj e
fattizj . Più , non nascerà pelle Magistrature quello spirito di corpo per cui
sono in continua contesa o guer. ra fra loro, e , per conseguenza col governo o
collo stato. Lo spirito di corpo è in ragion inver sa della grandezza del corpo
medesimo , onde più saranno piccoli , più avranno i difetti della piccio lezza
, più saranno capricciosi , irragionevoli , ed abuseranno della forza e dei
momenti favorevoli : . Un gran corpo di Magistratura ben costituito e con
venevolmente diviso , senza gelosia e senza inte- , ressi contrarj avrà la
dignità che deve aver la Magistratura , ma non ne avrà le follie . Per quanto
però fosse ampio ed esteso il dritto o potere che i Pretori esercitavano , non
sembro loro ad ogni caso sufficiente ; e poichè delle cari che non limitate o
mal circoscritte dalla legge si . passa facilmente da abusi in abuşi , essi non
fu sono contenti dover osservare i loro stessi princi pį idee e sistemi per
quella perpetuità annua , ma , pensarono d'abbreviarne il termine a loro
piacere Fenomeni di tal natura sono forse del tutto nuo vi nella storia ! Una
magistratura costituzional mente arbitraria , si arroga anche il dritto di can
. giar quelle norme legali divenute leggi per mezzo della pubblicazione , e
farne delle nuove senza pre, vio esame , come, un corpo leggislativo farebbe ,
ma di propria volontà e piacere come un Despota potrebbe fare . Questo pur si
faceva nel foro Ro mano , e spesso durante l'anno della Pretura si vedeva quasi
magicamente scomparir l'albo espo sto , ed un altro a quello sostituito . Pensi
chi vuole , che fosse quella una sublimità di condos. ļa , o la surrogazione d'
idee più giuste ed al paba blico vantaggiose; io penserò cogli antichi , che i
pretori, nol fecero per altro che per favore , per interesse e per altre tali
cagioni , stimate ferite mortali per la Giustizia . Cosi penso anche l'Ei
neccio, il quale benchè impa stato di vecchia giu risprudenza , pure abominò il
dritto pretorio ed i più illegali abusi de' Pretori . Si erano essi accom
modati talmente a cotal giuoco, che portandolo, ormai all'eccesso , e facendo
vero scempio della giustizia , si svegliò finalmente un'anima virtuo sa
compassioneyole per la pubblica disgrazia, la qua la en le tentò d'apportarvi
riparo. Come infatti si pud vedere lo strazio che della giustizia fanno gli
stes si di lei sacerdoti , e non sentirsi l' animo com mosso da pietà egualmente
e da 'nobile disdegno. Paulo Emilio nudrito nelle semplici idee di quella véra
sapienza che accoppia i doveri alla beneficenza, e l'umanità alla virtù ,
vedeva con orrore l ' amministrazione della giustizia Romana tanto nel la Città
quanto nelle più infelici provincie . Vede va condannati gl'innocenti , i
deboli oppressi , ed i Magistrati impuniti ; e questo' nell'epoca la più
memorevole della Romana virtù . Sdegnò egli (co me rapporta Plutarco ) i studii
che la nobile gio venid coltivava ai suoi tempi per giungere alle cariche :
quindi non comparve mai nel foro , o a piatire innanzi ai Magistrati , o ad
umiliarsi al po polo per ambizione ; ma corse libero la strada del la gloria e
superò tutti i suoi contemporanei in virtù ed in valore . Nè vi vuol meno d’un
tal carattere per attaccare i pregiudizj potenti , gli abu. 81 interessati , ed
i sistemi di corruzione . Essendo infani pervenuto al Consolato non fu tardo a proporre
le sue idee ajutatrici, e quali che fossero le generali opposizioni trionfo su
la pub- . blica corruttela , stabilendo, che i Pretori non potesssero cambiare
più i loro Editri = V. K. Apria lis . Fasccs penes Æmilium S. C. factum est ,
uti prætores ex suis perpetuis edictis jus dice teni. Paulo Emilio fu in dovere
di partir subi . to per la Macedonia , dove ebbe più durevoli trion fi su i
lontani nimici , che quelli ottenuti su i ne mici che Roma aveva dentro delle
sue mura. Que. sii fecero infatii rimaner invalida la legge ; e non è raro che
i nimici del bene pubblico riescano con mezzi di vittoria più efficaci. Da
quest'anno cha fu il 585 di Roma i Pretori seguirono ad imbal danzire alle
spese della Giustizia , e di quell' equirà medesima , che tanto vantavano nei
loro editri a nella loro giudicatura . La Repubblica sempre in disordini
correva già al suo termine per i vizi della casuale costituzio ne ; ma tra i
disordini , la Giurisprudenza pretoria era giunta ad un punto insopportabile .
A nulla valevano le accuse contro de ' Magistrati , poiché i mezzi di salvarsi
erano molto conosciuti . Quello però a cui un Console non potè riuscire con ef
fetto susseguente , riuscì un virtuoso Tribuno della plebe, con tuttocchè fosse
stato contrariato dai suoi compagni . Questi fu C. Cornelio Silla il quale o
tocco dai stessi sentimenti di Paulo Emilio, o scan H 1drlezzato specialmente
dalle depredazioni di Verre e de' simili a lui , fra le altre utili leggi ,
propose la rinnovazione del Senatoconsulto per moderare la smodata cupidigia de'
Pretori. Livio e Dion Cassio ed altri autori ci attestano in que' tempi non
solo la sfrenatezza pretoria , « ma il grand' interesse de nobili specialmente
a conservarsene il possesso; per cui la proposta del Tribuno eccitd tumulto
tale ne' Comizj , che i fasci Consolari andiedero in pezzi , ed i sassi
facendosi sentire più delle vo ci , convenne dimettere, o posporre la lodevole
im, presa ad altro tempo più tranquillo . Infatti secon do Asconio Pediano la
legge passò = Multis 12 mon invitis quæ res tum gratiam ambitiosis Prætoribus,
qui varie jus dicere assueverunt , sustit lit. Gli oppositori della legge non
avendo potuto impedirla , rivolsero lo sdegno loro contro l'autore accusandolo
di Fellonia , e Cornelio fu debitore della sua salvezza alla facondia di Cice.
rone : Troppo tardi perd pel popolo Romano vena ne quel beneficio ; la
Repubblica era già spirante i disordini irreparabili , ed apparecchiati i ferri
per le Ascon . in Orat. pro Cond . le nuove catene . Roma non godè mai della
liber ' tà , non seppe conoscerla , nè conobbe mai i moa menti favorevoli , ne'
quali avrebbe potuta ren : derla eterna , Se colla Repubblica però fini la
grande autorità de' Pretori , e se nuova Legislazione , nuova Giu risprudenza e
nuovo metodo giu diziario furono introdotti dal Dispotismo; la legislazione, la
Give risprudenza , l' ordine giadiziario restarono perd perpetuamente infetti
dagli usi o d'abusi, che l'ar te Pretoria figlia della vecchia Giurisprudenza
in trodotti y aveva . Nuove parole ' , nuove azioni , nuovi atti legittimi
ingombrava no le leggi e la giurisprudenza ; ma quello che poi fu il colmo
dell' abuso , ridicolo per se stesso, e tristo assai per gli effetti, fu l'aver
inventato un nuovo metoda di considerar in giudizio gli oggetti , .i rapporti e
le azioni ; in sostanza le finzioni legali : Anche questo bel ritrovato lo
dobbiamo alla Romana intelligenza . Senz'averè molta perizia nella Giuris.
prudenza , basta la più semplice ragione per ve dere , che tali invenzioni
furono i sussidi dell'igno tanza ed i sostegni della ingiustizia. Si possono
perdonare ai Romani ; ma come perdonare a que' moderni Giureconsuli , i quali
ancora dalla Ro se 1 mulea feccia pretendono far sacri libamenti alla
Giustizia? Tale fu l’Alteserra, il quale offerendo al Sig. de Lamoignon l'opera
de Fictionibus Juris , così s'espresse = quid enim aliud istæ fictiones , quam
juris remedia et jurisprudenium supulua IC , qui bus difficiliores casus
expediuntur , et aurræ claves quibus Jurisprudentiæ secreta aperiuntur ? = e
peg gio altrove . Tale fu l'Eineccio ancora il quale nel la Dissertazione, De
Jurisprudentia Heuremarica versd gran copia d'erudizione per giustificare le
finzioni legali , e farne vedere la bellezza e l'im portanza. Chi sarà vago di
conoscere quelle auree chiavi della Giurisprudenza , potrà consultare i cita ti
autori e la maggior parte de' Giureconsulti erų - diti . lo aggiungero soltanto
, che esse ebbero ori gine da ignoranza o da malizia. Per la prima av. venne ,
che nei progressi della civilizzazione can giandosi gli antichị barbarựci modi
de' tesçamen tị , de contratti , de’ litigj , credettero quasi che fosse
cangiata la realità , e chiamarono finzioni i modi che a queli furono surrogati
. Per la secon da, le finzioni s'introdussero in fraude delle leggi, per
eludere le loro prescrizioni, e per estenderle a que'casi, de'quali non avevano
espressamente par Jato. Origini entrambe poco degne della Giustizia dottissimo
Vico portando le sue perspicaci osservazioni su quelle strane usanze e
richiamando, le ai loro principi, chiamò il vecchio dritto . Roma- , no un
Poema serio , poichè le immagini si erano Sosti uite alla realità , e non si
erano trovate poi espressioni più semplici e più adattate . „ In con „, fum tà
di tali nature ( dice il lodato autore ) l'antica Giurisprudenza tutia fu
Poetica , la qua . le fingeva i farti non facii , i non fatti, fatti, na y ti
gli non nati ancora , mori i viventi , i morti vivere nelle loro giacenti
eredilà : introdusse tan , te maschere vane senza subjenti , che si dissero , »
jura imaginaria ; ragioni favoleggiate da fanta e riponeva tutta la sua
riputazione in rim „ trovare sì fatte favole , che alle leggi serbassero y la
gravità , ed ai fatti somministrassero la ragio talche tutte le finzioni
dell’antica Giurism prudenza furono verità mascherate, e le formo , s le colle
quali parlavano le leggi , per le loro circoscrit te misure di tante e tali
parole , nè più, nè meno, nè altre si dissero carmina. Ed altrove ragionando
della Giurisprudenza Eroica ciod . H 3 bara sia : 99 he : (Vico Princ. della
Scien. Nuo.) barbara de' Romani , la paragona a quella della se . conda
barbarie , dicendo , Cost a tempi barbari ,, ritornati la riputazion de'
dottori era di trovar , cautele intorno a contratti , o ultime volontà red in
saper formare domande di ragioni ed ar ticoli, che era appunto il cavere e de
jure respon . dere de’ romani giureconsulti. Da tuttociò si rileva, che sebbene
la RomanaRepub . blica progredisse in quanto allo stato politico verso la
libertà , ed in quanto ai costumi verso la civiliz zazione, in quanto alle
leggi però ad alla Giurisprus , denza i Romani erano rimasti in quello stato
poetico, o barbaro , che caracterizza i primi passi sociali o lo stato (dirò
cost) di necessaria Aristocrazia. Se di ciò si voglia indagar la cagione , si
troverà facilmente ne' tardi progressi che fecero i Romani nel perfezionamento
dello spirito o della Ragione ; poichè da questo solo possono essere migliorate
le : costituzioni , le leggi politiche , e le civili . Mi dispenso volentieri,
è credo ragionevolmente, di andar ragionando di tutte le novità, che i Pre cori
introdussero nel dritto , se da quanto si è detto finora , la Giurisprudenza
pretoria resta ab bastanza caratterizzata ; e chi volesse meglio istruir sene ,
può ricorrere agli autori che ne favellano. Se qualcuno sarà preventivamente
infatuato del'no me di Roma , vi troverà cose maravigliose e pelle grine ,
compiangerà l'attuale barbarie , e gemerà su le ruine del Campidoglio : ma se
sarà una persona ragionevole e senza prevenzione , riderà di molte fole ,
compiangerà coloro che ne sono restati illu si , e farà voti sinceri, accið
tali memorie indegno di uomini ragionevoli passino ' nell ' obblio . Volendo
dunque giudicare con principi di ra gione non adombrata dall'ammirazione e dai
pre giudizi della infanzia , dovremo dire , che i Preto - ri poterono essere
buoni o cattivi , come in tuli gl ' impieghi sociali accader suole ; e che
perciò molti di essi si servirono in bene delle loro pre rogative ', riducendo
all' equità , o sia alla giusti zia accompagnata all'umanità , le leggi troppo
se vere. o barbare che allora esistevano . Ma dall' al tra banda dovremo pur
confessare , che la maggior parte de pretori si abbandonarono ciecamente ai
nobili istinti di tesaurizzare e signoreggiare , per cui , più che ministri o
sacerdoti furono conculca tori della Giustizia . Riconosceremo nel tempo stes
50 , che questo nacque , dal non essere stata limi ta e legittimamente
circonscritta la di loro autori tà o potere ; e per questo d'ogni arbitrio
abusan н 4 do 1 do resero l'ordine de' giudizj arbitrario , la Giurise prudenza
equivoca ed incerta' , e fecero nascere una nuova specie di dritto , che tali
qualità tutte in se comprendeva ; e sebbene non autenticato da alcun atto del
potere legislativo , divenne . pure . un dritto consuetudinario più esteso e
più usato delle leggi , e durò con perpetua continuità insiem . me colla
Repubblica e coll' Impero Romano . Non ci lasciamo dunque illudere dalla tanto
vantata eruiià pretoria : l'equià ve a fu solo de' buoni , e quella specie di
equità può solo valutarsi do ve la legislazione non è nè rispettabile nè
giusta. Considerando le antiche azioni della leg gé , gli atti legittimi , e le
finzioni legali , ci com parirà molto giusto che Giustiniano le chiami favo le cioè
azioni Drammariche, poichè in sostanza erano delle vere scene che si
rappresentavano innan zi ai Magistrati . Cosi tutte le azioni che si face Justin
. In proem instit. = ur liccat vom bis prima legum cunabula non ab antiquis
fabulis discere , sed ab imperiali splendore appetere, A cotal intrinseco
difetto della Romana Repub . blica non parmi che si pensasse gianımai a pora,
tar un vero rimedio . , per cui la vantata libertà che senza leggi non nasce
,nè si può sostenere, non sedè mai lieta su le sponde del Tevere , e fuggi .
finalmente di mezzo a un popolo , che non la co nobbe , e non fu mai degno
d'adorarla . Il latte della lupa si perpetuò nelle vene de' Romani , ne quina 7
vano per æs & libram , le rivindicazioni, le cré zioni , le manomissioni ,
le nunciazioni di nuove opere , le usutpazioni , le licitazioni , le antestazio
lé elezioni & c. non solo erano faite conceptis verbis , dalle quali non si
poteva trascendere , me con azioni e rappresentanze particolari , che rende.
vanò comiche le processure giudiziarie . Questo però non significa altro , se
non che, nei tempi d'ignorana ga si sostituisce il linguaggio d'azione all'
espres sione naturale delle idee e de sentimenti ; e percið i simboli , i
geroglifici, le gesticolazioni furono nei tempi barbari il supplemento della
lingua parlata é divennero poi il linguaggio rituale solenne e sacro ; in che
principalmente consisteya la Giurisprudonza Romana quindi conobbero mai i
sentimenti di sociabilità , i piaceri della società , le regole che
all'adempimen to di essi prescrive la Natura . Perciò e per effet to della loro
barbarie ed ignoranza , si disputò , si discusse , si combatte , si decise
sempre sopra idee particolari, nè mai seppero elevarsi a generalizza re i
principi , che la ragione ci mostra per la buo na' costituzione de corpi
sociali, Dai campi ai Co. mizj era quasi continuo l alternativo passaggio
maquanto furono felici colla forza o colla frode altrettanto infelici furono
nell'uso della ragione . Essi non ebbero mai sentimenti univoci , e se la plebe
fu qualche volta superiore di fatto, l’aristocrazia conservò sempre la sua
condotta , ne seppero far cessare il nome di plebe , che vergo gnosamen te li
caratterizzava , e distingueva pre giudizievolmente il cittadino dal cittadino
. Dell uguaglianza non ebbero mai la vera idea , e quindi non poterono averla
della libertà , che sola per quella sussiste , ed il vantato censo , non diro
quello di Seryio Tullio , ma quello stesso della Res pubblica non fu una
invenzione sublime. Se cotali riflessioni potranno sembrare ad alcuno superflue
in rapporto al soggetto della Giurispru denza Romana , rispondero , che tali
non sono poic ( 123. Det poichè quando si parla delle leggi , convien neces
sariamente avere le giuste idee del popolo che ne fu l'autore , dei suoi
sentimenti , e della forma e condizione del potere legislativo. Or potrà
sembrare strano il dire , che Roma era formata quasi di due stati l'uno
nell'altro , e che il potere legislativo fosse diviso in due corpi o anche in
tre , e che poi quelle leggi fossero di un uso generale . E pure tal fu di Roma
nel tempo in cui fu più celebre e risplendente . $' egli è vero, che nella
undecima delle dodici tavole fosse contenuto il Dritto pubblico de' Ro mani ,
dobbiamo pur riconoscere che fu la più negletta e la meno rammentata , poichè i
fram menti o le quisquilie che di essa ci rimangono sono le più meschine . E
quantunque io sia nell' idea , che quella tavola non contenesse che i prin
cipali dritti dell' Aristocrazia , qual' era appunto la legge de'cornubj, tanto
detestata dalla plebe , e ro versciata vittoriosamente da Canulejo ; pure in un
frammento rimastoci , troviamo quale avrebbe dovuto esser il vero stabilimento
del dritto Legisla tivo , cioè QUOD POSTREMUM POPULUS JUSSIT ID JUS RATUM E $
TO. Ma se vogliamo seguire, la ragioneyole interpretazione del Vico e del Duni,
la parola popolo non fu ivi presa nel senso proprio ; e nel significato
generale, per esprimere la collezio ne di tutti gl'individui componenti lo
stato , ma di quelli soli che godevano il dritto , e meritava no il vero nome
di Cittadini , quali erano i soli Patrizj. Quando poi la plebe gradatamente
venne a partecipare alle qualità civiche , la parola po . " polo divenne
generale , e non essendovi più di visione privilegiata d'ordini nello stato ,
ma solo di classi , ciocchè la cennata legge prescriveva , passò ad essere nel
suo vero uso e valore , cioè , a far , sì che legge si chiamasse , ctocchè
l'intiero popolo avea prescritto e comandato . Se tale è però il principio
costitutivo delle Rear pubbliche, e secondo il Gravina il più convenien te
ancora alla natura umana , vi devono esse re delle regole , accið lespressione
della volon tà generale sia certa legittima libera ed uguale , onde ciascun
cittadino senta essere una parte in tegrante del Sovrano , dello Stato , e
della Patria : Tali sono le leggi costitu zionali , che riguardano il dritto
del suffragio , o la maniera di communi care la propria volontà al corpo
sociale , e fare che la volontà pubblica sia realmente il risultato del. le
volontà particolari. Il Dritto di suffragio costi tui yang tuisce dunque
principalmente la qualità di cittadi. no , e il modo di darlo , forina quasi
una misura di graduazione del Cittadino mede simo . cioè che tanto più si è
Gittadino , quanto più il dritto del suffragio è libero ed uguale . Troppo
lungi mi porterebbe l'andare esaminan do particolarinence colla Storia , come
questo drit to si stabilisse in Roma: , cioè nella formazione casuale di quella
Repubblica , alla quale contribul molto più la natura o il corso naturale delle
sa cietà , che i priacipj d'intelligenza e di ragione . Dirò solo , che quel
popolo sempre rozzo ed ignorante fu tanto lontano dal conoscere l'importanza di
queste idee , che şi conteniò di essere con vocato al suon d'un corno di bue
alle grandi Assemblee de' Çomizj; e mandra od ovile fu chiamato quel luogo,
dove si radunava , per compir l'atto il più degno , il più glorioso p er
un popolo , cioè il dar leggi a se stesso . Ma cotai nomi ed usanze erano
avanzi dell'antico stato Aristocrațico ; e pa stori e mandre sono correlativi
necessarj. Delle tre maniere intanto nelle quali si diedero į suf ( 18) Dionys.
Antiqu. Romanarum lib. z. ( 126 e i suffragj, quella de' Comizj tributi si può
dire che fondasse veramente la libertà o la potestà del po polo , giacchè i
Comizj delle Curie furono obblia ti , nè ebbero in effetto il potere
legislativo ; ed i Comizj centuriati davano la preferenza o la pre ponderanza
alle ricchezze . Vi fu inoltre il Senato, il quale sebbene non avesse altro dritto
, che di esaminare o consultare , si arrogo pure in parte il potere legislativo
. O la Nazione dunque radu nata per Tribd , o essa stessa convocata per Cen
turie , o il Senato ebbero o in dritto o in fatto l'esercizio del potere
legislativo . Le risoluzioni per tribù dette plebisciti , non ottennero che
dopo molte contese la vera for za di leggi , cioè di obbligare tutti i cittadi
ni , giacchè da principio non obbligavano che la plebe soltanto . Tanto è vero
che i Patrizi si cre devano un altro popolo un altra Nazione ; che quelle leggi
nelle quali non avevano potuto far prevalere, le loro idee e le loro volontà ,
per mol to tempo non le fecero valere per leggi. L'auto rità de'
Senatusconsulti fu meramente abusiva , poichè nè per le leggi Decemvirali ne per
al cun stabilimento posteriore, il Senato da se solo aveva in alcun modo la
potestà legislasiva. ( 127 ) el 3 2 tiva . Quelle risoluzioni però che
portarono parti colarmente il nome proprio di leggi, furono le de cisioni dei
Comizi centuriati , delle quali non oc corre ripetere nè il metodo nelle
proposizioni , nè quello della convocazione , nè quello delle deci sioni .
Tuttocið fu vario nel corso della Repubbli. ca , e si può trovare presso mille
autori , che del governo Romano anno ragionato . Ho voluto solo ricordare
queste poche notizia per mostrare , come il potere legislativo fu stabie lito
in Roma sotto varie forme, le quali influivano di molto su la realità , e come
il dritto di suffra . gio, non fu lo stesso nè uguale nei diversi comizi. Nei
centuriati la qualità di Cittadino era misus rata su le ricchezze , e non si
può dire , che fosa se la volontà del maggior numero de' cittadini , che
rappresentasse la volontà generale , come don vrebb' essere per natura . Și sa
ancora quanti abu si vi s'introdussero per farle essere le decisioni del minor
numero , e spesso la quarta o quinta parte del popolo aveva già decretata la
legge, men tre la volontà di tutti gli altri rimaneva inutile e , delusa . Che
quello fosse un sistema meraviglioso lo potranno dir solamente gli Entusiasti ,
ma non chi nel giudicare suol prendere per guida la ragione : Dirò di più , e
ciò fu contro i principi di ogni regolare amministrazione , che quei comizj
oltre al potere legislativo si arrogarono ancora la facoltà governativa' , ed
in molte occasioni simil mente il potere giudiziario ; ciocchè indica , qua le
idea essi avessero di un vero ' e buon Politico sistema . Fu sicuramente un
effetto delle distinzioni sco lastiche dell' antica Roma il dire , che i
Tribuni del popolo non fossero Magistrati , perchè non avevano nè imperio nè
dritto di vocazione, nè giu risdizione , nè auspicj , ma in verità se non erano
magistrati nominali , lo erano in effetto , ed eser citavano un potere
amplissimo su la plebe , sul Senato , e sopra tutta la Repubblica : ad es si
apparteneva il convocare i comizj tributi i quali secondo me formavano il vero
corpo le gislativo , se in essi il dritto del suffragio ap parteneva egualmente
ed integralınente ad ogni . cittadino . Il Cittadino vi figurava come Citra
dino libero , e non era il rango o la ricchezza , che davano la preponderanza .
E pure questa par te della legislazione non meritò mai il nome di legge , come
l'ebbero le risoluzioni de'Comizj cen turiati . lo non decido pai se al paragone
le leggi Orno proposte dại Tribuni fossero più giuste ed utili allo stato , che
quelle proposte nei Comizj centu riati dai Magistrati maggiori . Possiamo però
ri Aettere , che tutte le leggi riguardanti la costitu zione politica , o
relative alla libertà ed al lo stato popolare , le quali si possono chiamare
leggi di Umanità e di Giustizia uni versale , furono tutte o quasi tutte
proposte dai Tribuni . Nè si pud dubitare che esse fossero leggi necessarie,
poi che erano le leggi naturali della libertà , e quindi necessarie e
costituzionali per un popolo che voleva essere libero , Nè è da imputar loro
che non fos sero migliori ; giacchè la mancanza d'idee e di buone cognizioni
era comune ai patrizi ed ai ple bei . Lo stesso Cicerone contuttoche fosse
Aristo cratichissimo , non potè far a meno , di con fessare , che se si
avessero voluti annoverare i misfatti de' Consoli, non sarebbero stati pochi ,
ma che toline i due Gracchi , non si potevano contare altri Tribuni perniciosi.
Infatti, e varj plebisci ti furono salutarissimi alla Repubbiica , e le leggi
an. (Do Leg.)anche civili dai Tribuni promosse furono effettiva. mente a
pubblico vantaggio . La maggior parte però delle leggi , dei plebisciti, e de'
Senatusconsulti furono una specie di leggi volanti o temporarie , essendo per
lo più pro mosse per occasioni particolari ; ¢ sebbene si procurasse di dare ad
esse tutta l'autenticità so. lenne , non si riducevano però in un corpo , che
avesse l'autorità d'un codice di legislazione ; ne io credo, che ad uso
pubblico sempre s' incidesse ro in ' tavole o lamine di bronzo , come pur ci vo
. gliono far credere alcuni autori antichi . Sono in dotto a pensar cosi da
varie testimonianze , e spes cialmente da una di Cicerone . Possiamo da esse
raccogliere , che quando le leggi furono una scienza arcana de' Patrizj e de'
Pontefici , si conservaro no e custodirono con gelosia e con mistero, trat
tandosi quasi della loro proprietà più preziosa , e proprietà come abbiamo
veduto molto dispo nibile . Il tempio prima di Cerere par che fosa se a ciò
destinato, e poi il pubblico Erario , accid i Consoli'o i Senatori non le
corrompessero o in volassero; ma quando le leggi divennero di ragion pubblica ,
gli antichi curatori non le curarono più , e funne generalmente negletta la
custodia Al ( 131 ) si . Almeno cosi ci attesta Cicerone , assicurandoci , che
per saperle , o per conoscerle , bisognava far capo dai Portieri e dai Copisti
= Legum custodiam nullam habemus : itaque hæ leges sunt , quæ apparia tores
nostri volunt ; a librariis petimus ; pubblicis literis consignaram memoriam
publicam nullam ha bemus . Græci hoc diligentius , apud quos xquaquaames
creantur : nec hi solum literas ( nam id quidem een iam apud majores nostros
erat , sed etiam facta hominùm obsesvabant , ad legesque revocabant. E la credė
egli così necessaria , che nel suo Co dice , legislazione stabilisce appunto
nell'Erario la conservazione o custodia pubblica delle leggi Forse però i
Romani si avvidero, che le loro leggi non meritavano tale attenzione ed onore.
Ho avver che Tacito caratterizzò con molto favore le leggi Decemvirali , non
perchè meritas sero elogj di equità e di giustizia , ma perchè, al meno in
apparenza , avevano avuta una certa re golarità di formazione e di
pubblicazione ; ed a causa delle leggi posteriori , prive di tali qualità .
Qualunque fossero in facti le regole per convocare I 2 i co tito di sopra , 1
(Cic. de leg.)i comizi, per dare i suffra gj, per creare le leggi oltre la
viziosa costituzione , è da credere ancora , che il disordine e la confusione
sempre vi avesse ro luogo , e spesso vi avesse parte la violenza, la cerruzione
, e tutti quegl' inconvenienti soliti a nascere da personalità , da privato
interesse , e da spirito di vendetta . Cosi di fatti c'indica Tacito dicendo
compositæ duodecim tabulæ , finis omnis æqui juris : nam sequuræ leges , etsi
aliquando in maleficos ex delicto , sæpius tamen dissentione ordi hun , et
adipiscendi inlicitos honores, aut pe'len di claros viros, aliaque ob prava ,
per vim taie sunt . ( 20) Questo fatto finalmente mette il colmo, a quan to
abbiamo detto della irregolarità ed incertezza di quelle Leggi, che meritarono
tanti encomiatori . Le espressioni della volontà generale d ' un popolo libero
e giusto , avrebbero veramente meritate P adorazione , e l'accettazione della
posterità , se stabilite secondo i principj della Natura e della ra. gione ci
avessero presentato un archetipo degno d'imitazione . Ma colla scorta della
Storia , e sce vri (Tac. Annal.) ba ia di 10 18 tie 1 vri della infantile
prevenzione tutt'altro abbia - mo trovato . Se Dionigi d' Alicarnasso ci presen
" ta Romolo come un legislatore Filosofo , ed in struito della storia
degli alui stati ; la storia vera ce lo presenta come capo di un' Aristocrazia
pri mitiva , cioè barbara e feroce , la quale risorin - geva nel suo ordine,
tutte le qualità di uomo e di cittadino : ma la storia del primo Regno e de gli
alııi successivi è quasi tutta incerta simbolica e favolosa , come si potrebbe
provare su le poche tracce , che non sfuggono ai critici indagatori del le
origini civili . In tutto quel tratto di an ni altro non veggiamo in risultato
, che dopo una prima aggregazione di forti e di deboli, senza altre leggi che
le consuetudini Aristocratiche , si co minciò a dare una forma alla nascenie
società. Il re videro , che il loro potere era un nulla , se invece di esser
capi de'patrizj , nol divenivano del la plebe o del popolo ; ma Romulo scompar
ve per diventar Quirino ne' cieli , Servio fu tru cidato , ed il secondo
Tarquinio espulso . In tanta incertezza di cose , come i storici assai
posteriori parlarono dei tempi passati colle idee dei tempi loro , così si aprì
la strada a credere , che le stes. se parole corrispondessero alle stesse idee
in epo che di is ble che assai differenti e lontane; quindi i scrittori suse
seguenti si tormentarono prima lo spirito in tante ricerche , e poi si
distillarono il cervello per con cordare le contradizioni, che ad ogni passo
incon travano fra le idee prima formatesi , ed i fatti che poi trovavano nella
Storia. Quindi tante ricerche e tante dispute inopportune e difficili per la
man canza di monumenti , ed inutili affatto ai progres si della ragione. La legge
regia però non meri tando alcuna particolare attenzione, importava so lo al
nostro assunto il vedere , che l' incertezza delle leggi cominciò col nome
Romano , e porta rono questa marca vergognosa in tutte le epoche, e in tutta la
durata della Repubblica . Tali poi furono anche il dritto civile , le azioni
legitime , gli Editri de' pretori o sia il dritto onorario, e finalmente le
leggi propriamente dette , le quali sempre più confusero e resero incerto il drit
, to e le leggi antecedenti. Parmi dunque poter drittamente dai fatti con
chiudere , che le leggi e la Giurisprudenza Roma na furono immeritevoli di
quelle lodi colle quali sono state esaltate , ed indegne di reggere un po polo
qualunque , mancando di quelle qualità che poteyano renderle pregey oli e sacre
, cioè collo stabilire la regola eterna della giustizia, render P urmo suddito
di esse , e non dipendente dall' arbitrio; ciocchè positivamente distingue la
libertà del dispotismo , qualunque sia del resto la forma o la costituzione
sociale . Se le specolazioni de' politici si fossero fermate principalmente su
quest'articolo , avrebbero facil mente ravvisato , che Roma non cadde oppressa
della sua grandezza , poichè per gli edifici mate riali o politici è essa anzi
una cagione di resi stenza e di durata. Cadde quella mole immensa per mancanza
di base , e per difetto di Architettum ia . La base della Società è sempre la
Giustizia tanto nella legge e nel principio, quanto dell'amministrazione ed
esecuzicne di esse. Che poi l'ossa tura politica fosse mal congegnata ed un
prodotto progressivo del caso , credo averlo di sopra abba stanza dichiarato.
La giustizia di Roma fir in principio quale può essere nella barbarie; d'indi
qua le suol' essere nell'amministrazione arbitraria; e fi nalmente quale
dev'essere nell’anarchia , nella confusione della legge e nella generale
corruzione. Dell' origine dell'idea che abbiamo della Bellezza. Il Bello della
Natura. Il Bello dell'arte , ossia della imitazione e del Bello ideale. La
grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del bello.
L’espressione. Lo stile e la regola del bello. Opere complete (Teramo, Fabbri).
Indizi di morale. Il metodo della morale. Il sentimento morale. L’origine
del sentimento morale. Lo sviluppo del sentiment morale. Divisione della
morale. La libertà civile. L’eguaglianza. La proprietà. Lo vviluppo della
morale nella diada sociale. Il senso morale. Il dovere morale. L’obbligazione
morale. L’amor proprio (l’amore proprio – Butler – self-love). La virtù. La
benevolenza – la benevolenza conversazionale. La giustizia. L’educazione. La
felicità. La passione. Note agli "Indizj di Morale" di G. Pannella Ricerche
sul vero carattere della giurisprudenza romana. La giurisprudenza romana
dal tempo de' re fino all'estinzione della repubblica. Sequela dei carattere
della giurisprudenza romana sotto gl'imperatori. I cultori della giurisprudenza.
L’amministrazione della giustizia. Memorie storiche della Repubblica di S.
Marino. La Situazione corografica della Repubblica di SAMMARINO e dei
varii nomi dati successivamente al capoluogo dello Stato. L’origine della
Repubblica di S. Marino, e prime sue memorie fino al secolo decimosecondo. Le
memorie di S. Marino nel secolo decimosecondo, e nel seguente. Proseguimento
delle memorie istoriche per tutto il secolo decimoquarto. Proseguimento delle
memorie per rutto il secolo decimoquinto. Proseguimento delle memorie per tutto
il secolo decimosesto. Proseguimento delle memorie pel secolo decimosettimo. Sequela
del secolo decimottavo. Il governo politico della Repubblica di San Marino. Diplomi
ed altri monumenti citati nell'opera. L’istoria, la sua incertezza ed
inutilità. Ai dotti e agli studiosi delle scienze della natura. L’origine
naturale della storia e dei progressi ed abusi della medesima. La storica
incertezza. L’autorità degli storici contemporanei del cavalier Tiraboschi. L’inutilità
della storia e dei pregiudizi derivati dalla medesima. Verificazione degli
antecedenti principj con esempi tratti dalla storia della romana repubblica. I
bello. Ai giovani educati. L'origine dell'idea che abbiamo del bello. Il
bello della natura. Il bello dell'arte, ossia della imitazione e del bello
ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del
bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. L’antica Numismatica
della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini
italiche. Alla reale accademia ercolanese di archeologia e a S. E.
reverendissima monsignor Rosini presidente della medesima e della R. Società
Borbonica di Napoli. Le origini italiche. Le antiche monete della città di Atri
nel Piceno. I pelasgi e I tirreni. Rischiaramenti ed alcune osservazioni fatte
sull' opera della Numismatica atriana. Lettera a S. E. il sig. conte D.
Giuseppe Zurlo. Antologia di Firenze. Articolo di G. Micali. Biblioteca
Italiana. La Numismatica atriana ed agli altri opuscoli. AL. Sorricchio. Saggio
istorico delle ragioni dei sovrani di Napoli sopra la città di Ascoli d'Abruzzo
oggi nella Marca. Saggio filosofico sul matrimonio. Lo stabilimento della
milizia Provinciale. La coltivazione del riso nella Provincia di Teramo. Elogio
del marchese D. Francescantonio Grimaldi . Il tribunal della Grascia e sulle
leggi economiche nelle, provincie confinanti del regno. La necessità di rendere
uniformi i pesi e le misure del regno. Il tavoliere di Puglia e su la necessità
di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea
riforma. La vendita dei feudi umiliate a S. R. M. La tassa fondiaria.
L’istruzione pubblica. La sensibilità imitativa considerata come il principio
fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle
nazioni lette nella Reale Accademia delle scienze. La perfettibilità organica
considerata come il principio fisico dell’educazione con alcune vedute sulla
medesima letta nella R. Borbonica Accademia delle scienze. La perfettibilità
organica considerata come il Principio fisico dell'educazione letta nella Reale
Accademia delle scienze. Alcuni mezzi economici per supplire agli attuali
bisogni dello stato. L’importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche
allo studio della filosofia intellettuale. Lo stabilimenti di umanità e di
pubblica beneficenza. L’organizzazione dei tribunal. Un porto da costruirsi
alla foce del fiume Pescara. A Berardo Quartapelle. A S. E. il sig. Duca di
Cantalupo. Al Cav. sig. Pasquale Liberatore. Ai Capitani Reggenti la Repubblica
di S. Marino. Al marchese Luigi Dragonetti (Aquila). Al signor Roberto Betti
(Napoli). A Giacinto Cantalamessa Carboni in Ascoli. A Giuseppe M. Giovene
(Molfetta). Ad Alberto Fortis. A Bernardino Delfico. Al Sig. Abate D. Cataldo
Jannelli. Saggio di lettere indirizzate a Melchiorre Delfico Gaetano Filangieri
a M. Delfico Pietro Borghesi a M. Delfico F. Neumann a monsieur l'Abbé Fortis.
Spallanzani all'abate Fortis. Al medesimo Fortis in Napoli ..... pag. 138
Spallanzani a M. Delfico ..... pag. 140 Luigi Grimaldi a M. Delfico .....
pag. 141 Toaldo a M. Delfico ..... pag. 142 Spannocchi a M. Delfico
..... pag. 143 V. Comi a B. Q. [Berardo Quartapelle] ..... pag. 148
Michele Torcia a G. Berardino Delfico ..... pag. 148 Gaspare Mollo a M.
Delfico ..... pag. 151 Alessandro Carli ..... pag. 152 F. Mùnter a
M. Delfico ..... pag. 154 Mùnter a Delfico in Napoli ..... pag. 159
Mùnter a M. Delfico ..... pag. 160 Filippo Mazzocchi a M. Delfico .....
pag. 163 Gazola a M. Delfico ..... pag. 163 Giuseppe Micali a M.
Delfico ..... pag. 170 L'abate Bertola a G. Bernardino Delfico ..... pag.
178 Il medesimo a M. Delfico ..... pag. 179 L. Brugnatelli a M.
Delfico ..... pag. 179 Antonino Anutos a M. Delfico ..... pag. 180
Gio. Andrea Fontana a M. Delfico . Il Duca di Cantalupo a M. Delfico ..... pag.
183 Giuseppe Palmieri a M. Delfico ..... pag. 180 Tommaso Gargallo
a M. Delfico in Teramo ..... pag. 190 Giuseppe M. Galante a M. Delfico
..... pag. 194 Giovanni C. Amaduzzi a M. Delfico ..... pag. 194
Mattia Ab. Zarillo a M. Delfico ..... pag. 195 Giuseppe M. Giovene a M.
Delfico ..... pag. 197 C. Amoretti a M. Delfico . Francesco Soave a M.
Delfico ..... pag. 203 Giovanni Acton a M. Delfico (Teramo) ..... pag.
205 Fortis a M. Delfico ..... pag. 205 Pietro Zannoni a M. Delfico
..... pag. 206 Bossi a M. Delfico ..... pag. 206 Tommaso Frantoni a
M. Delfico ..... pag. 209 Daniele Felici a M. Delfico ..... pag.
209 G. Napoleone a. M. Delfico ..... pag. 212 G. Giacomo Trivulzio
a M. Delfico ..... pag. 212 G. Melzi a M. Delfico ..... pag. 223
San Severino a M. Delfico ..... pag. 23 Il duca di Sant'Arpino a M
Delfico ..... pag. 231 Tracy a M. Delfico . Antonio Canova a M. Delfico
..... pag. 240 Angelo Maria Ricci a M. Delfico ..... pag. 241
Donati Gioli a M. Delfico ..... pag. 243 Luigi Dragonetti a M. Delfico
..... pag. 243 Giuseppe Zurlo a M. Delfico ..... pag. 246 Michele
Arditi a M. Delfico ..... pag. 249 Antonio Orsini a M. Delfico ..... pag.
250 G. M. Burini a M. Delfico ..... pag. 251 Taranto a M. Delfico
..... pag. 252 Francesco Sorricchio a Delfico ..... pag. 252 L.
Cicognara a M. Delfico ..... pag. 258 F. Santangelo a M. Delfico .....
pag. 259 Sebastiano Ciampi a M. Delfico ..... pag. 260 Donato
Tommasi a M. Delfico ..... pag. 261 Il Duca di Laurenzana a M. Delfico
..... pag. 262 Giuseppe Grimaldi a M. Delfico ..... pag. 264 N.
Santangelo a M. Delfico ..... pag. 271 Lodovico Bianchini a M. D. .....
pag. 272 Carlo Filangieri a Melchiorre Delfico ..... pag. 272 G. B.
Niccolini a M. Delfico ..... pag. 274 Giuseppe Rangone a M. Delfico .....
pag. 276 Leopoldo Pilla a M. Delfico ..... pag. 278 Il Duca di
Gualtieri a M. Delfico ..... pag. 281 II Barone Poerio a M. Delfico .....
pag. 283 Leopoldo Armaroli a M. Delfico ..... pag. 283 G. Neroni a
Leopoldo Armaroli ..... pag. 286 Francesco Fuoco a M. Delfico ..... pag.
287 Giuseppe Micali a Gregorio de Filippis ..... pag. 288 Aggiunta
agli opuscoli. Fiera franca in Pescara ..... pag. 293 Al sig. Pasquale Borelli
..... pag. 307 Al sig. Antonio Orsini ..... pag. 313 Al sig. Conte
Armaroli ..... pag. 315 Alessandro Volta a Orazio Delfico ..... pag.
317 Rapporto sull' Italia inviato a Napoleone, e attribuito a M. Delfico
. Piemonte . Liguria . Regno D' Italia . Toscana ..... pag. 326 Stati
Romani ..... pag. 327 Napoli . Memoria per la conservazione e
riproduzione dei boschi nella provincia di Teramo ..... pag. 335 Discorso
del Cav. Comm. Gian Berardino Delfico letto in occasione del solenne giuramento
prestato a S. M. Giuseppe Napoleone Re di Napoli e Sicilia dalla Città e
Provincia di Teramo ..... pag. 363 La famiglia e le opere di Melchiorre
Delfico . I titoli nobiliari . Episodi della vita del Delfico . Opere ignorate
del Delfico . Il contenuto delle opere . Catalogo per materia delle opere di M.
Delfico . Lettere del Delfico e al Delfico . La Repubblica di S. Marino in
onore di M. Delfico . M. Delfico a Gaspero Selvaggio . A Paolo D' Ambrosio M.
Delfico. Il teramano Melchiorre Delfico (1744-1835) è uno dei più cosmopoliti e
al tempo stesso dei più autenticamente provinciali tra i riformatori
meridionali della seconda metà del Settecento (1). Durante il suo primo
soggiorno a Napoli, interrotto dopo tredici anni nel 1768 perché malato di
emottisi, il giovane intellettuale abruzzese segue le lezioni di Antonio
Genovesi e frequenta il gruppo che si riunisce attorno alla cattedra dell'abate
(2), che dal 1754 al 1769 costituisce il fulcro del movimento riformatore
meridionale. Sarà questa scuola composta da Longano, Galanti, Palmieri, Grimaldi,
Filangieri, Pagano ed altri, ad imprimere una «benefica scossa» (3) alla
cultura napoletana e avviare negli anni successivi un serrato e articolato
dibattito sui problemi più urgenti del Regno, suggerendo le linee di un
possibile rinnovamento della società civile che non di rado contrasteranno con
l'angusta politica del governo borbonico (4). È soprattutto dalla
rilettura del genovesiano Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle
scienze (5), considerato il manifesto dell'illuminismo napoletano, in cui viene
rivendicato un uso pratico del sapere, che Delfico matura una nuova concezione
della cultura e dell'intellettuale, la cui attività sia, come diceva Genovesi,
«più pratica che teoria» (6), e la convinzione della necessità di un impegno politico
più diretto. Un atteggiamento anticuriale e giurisdizionalistico, di ascendenza
giannoniana (7) e di eredità genovesiana (8), egli manifesta nei due lavori,
con i quali inaugura nel 1768 la sua attività di scrittore, in difesa dei
diritti del Regno di Napoli sui territori di Benevento, dal 1077 sotto il
dominio pontificio, e di Ascoli Piceno, anch'esso dal 1266 annesso allo Stato
ecclesiastico (9). Nelle due Memorie denuncia le tendenze temporali
dell'autorità ecclesiastica, dimostrando «false o insussistenti» le pretese
giurisdizionali del pontefice su quei possedimenti, ottenuti non già per
legittimi diritti di sovranità, ma con l'usurpazione, titolo «vergognoso»
perché «prodotto per dolo o per frode» (10). Sebbene notevole sia stata
l'influenza di Genovesi sul movimento illuminista meridionale, non tutte le
molteplici espressioni della cultura riformistica degli anni Settanta e Ottanta
possono essere ricondotte alla sola riflessione del pensatore salernitano.
Anche per i rappresentanti della corrente «più provinciale», «più tecnica e
descrittiva»(11) della scuola genovesiana, l'insegnamento del Maestro non
sempre costituirà l'unica matrice culturale. Lo stesso Delfico, sebbene
riconosca il suo debito nei confronti dell'abate, non trova in lui il pensatore
che la «propria ragione gli faceva desiderare» (12), bensì il pubblicista che
ricerca e analizza i mali economici e sociali della sua terra. «La fortuna però
- scriverà più tardi - avendomi fatto pervenir nelle mani le immortali opere di
Loke [sic] e di Condillac, parve che il mio spirito prendesse una nuova
modificazione, e quindi una inclinazione pel vero, ed un gusto particolare per
i morali sentimenti» (13). Già nel Saggio filosofico sul matrimonio,
apparso a Teramo nel 1774, alcuni anni dopo il suo ritorno in provincia,
s'intravede l'orientamento filosofico dello scrittore abruzzese basato su una
visione tutta empiristica e sensistica dei rapporti umani, che indurrà la
Congregazione del Sant'Uffizio a porre l'opuscolo nell'Index librorum prohibitorum
il 19 gennaio 1776. L'opera è una vera e propria esaltazione sia dello stato
coniugale che dell'amore, inteso come desiderio, come piacere fisico ma
soprattutto morale. In polemica con Rousseau, Delfico considera il vincolo
matrimoniale una fonte continua «di sensazioni e di sentimenti aggradevoli»
(14) e sostiene, richiamandosi a Hume, che esso debba essere il più possibile
completo e duraturo. La critica del celibato e più ancora del libertinaggio è
l'occasione per un'attenta disamina della condizione della donna, di cui
sostiene l'emancipazione e la rivalutazione nella famiglia e nella società,
fino a rivendicare una legislazione sulla parità dei diritti e dei doveri fra i
sessi. Del 1775 sono gli Indizi di morale, interrotti per ordine dell'assessore
Pietro Paolillo che ne dispone il sequestro mentre sono ancora in corso di
stampa, i quali «svelano assai più a fondo e gl'ideali politici del Delfico e
la sua cultura» (15). Sul piano filosofico infatti essi segnano una piena
adesione all'empirismo e al sensismo di Locke e Condillac. Dalle idee
filosofiche dei due pensatori il Teramano non si discosterà più, restando sino
alla fine legato alla dottrina sensistica. Confesserà molti anni dopo ad un
amico: «Dopoché il mio spirito soffrì la modificazione dal Trattato delle
sensazioni, non l'ho turbato più perché mi vi sono trovato comodo, non
trascurando però le successive osservazioni le quali hanno potuto migliorarlo»
(16). Egli riconosce alla morale il fondamento empirico proprio delle scienze
fisiche e riconduce l'origine dei sentimenti morali alle sensazioni. Poiché è
nella società che gli uomini acquisiscono le prime nozioni di moralità e le
loro azioni diventano utili o dannose, ne consegue che la sfera delle loro idee
e con essa quella delle loro attività si dilatano soprattutto in quelle forme
politiche in cui maggiormente cresce la possibilità di comprensione della
qualità degli oggetti e gli individui sono messi nelle condizioni che meglio
permettono la individuazione dell'amor proprio. «È nel passaggio
dall'Aristocrazia allo stato popolare», scrive, che «le nazioni godono del
colmo della virtù» e «nasce quella gara di Eroismo che è difficile a trovarsi
nelle Monarchie» e che si verifica ogni qualvolta «l'interesse di tutti i
particolari va a riunirsi col pubblico»(17) e i cittadini partecipano
maggiormente alla sovranità e al potere. L'affermazione non si concreta
in una scelta della democrazia come forma di governo, né in una rivendicazione
di ordinamenti politici alternativi a quelli in cui si incarna la monarchia
borbonica. L'allusione alla repubblica resta in lui vaga, sottintesa e comunque
priva di un reale contenuto politico-istituzionale, mentre egli non nasconde la
propria simpatia per il despotisme éclairé (18). Vi è, da parte sua, una svalutazione
della politica in quanto problema teorico, a favore di un impegno politico più
immediatamente finalizzato alla soluzione di questioni politiche contingenti.
Suo obiettivo principale è il perseguimento del bene pubblico, realizzato
attraverso un'avveduta e coraggiosa politica di riforme. Un processo di
trasformazione che miri innanzitutto all'uguaglianza politica e che non ha
niente a che vedere con la «fatale» comunione dei beni, fomite di disordini e
di eterne contese. Il problema dell'uguaglianza, di cui le garanzie politiche
costituiscono una imprescindibile componente, consente a Delfico di condurre a
fondo l'attacco contro la struttura feudale della società napoletana, in cui
ancora assai diffusa e radicata è l'ineguaglianza sia essa generata dall'abuso
del potere che da quello delle ricchezze. «Conosciuti i mali che provengono
dall'ineguaglianza - afferma a conclusione del capitolo sulla proprietà - deve
essere un canone politico quello di ravvicinare gli estremi, e non dar luogo ad
altre ricompense che a quelle del merito personale e dell'industria» (19). Al
contrario, il persistere dell'ineguaglianza non fa che produrre «lusso e
corruzione» ed aggravare la già precaria condizione dei più miserevoli, privati
della loro stessa dignità perché costretti a mercanteggiare persino «la vita,
l'onore, la stima, la virtù, ed i più sacrosanti doveri» (20). Dopo il
sequestro degli Indizi di morale e la messa all'«Indice» del Saggio filosofico,
Delfico incorre in un nuovo spiacevole episodio con le autorità provinciali.
Soprattutto a causa del vescovo Pirelli e dell'assessore Giacinto Dragonetti,
con cui pure aveva avuto rapporti di amicizia, è ingiustamente inquisito e
condannato per la fuga di certe monache dal monastero di S. Matteo di Teramo
(21). L'exequatur del Tribunale del capoluogo abruzzese (5 febbraio 1778) con
il conseguente ordine di carcerazione, emesso nei confronti suoi e di altri
«lajci seduttori» (22) presunti responsabili dell'insubordinazione, lo
costringono ad allontanarsi dalla città e a recarsi a Napoli, dove rimarrà
circa tre anni, fino alla conclusione della vicenda giudiziaria, giunta con
l'indulto regio del 17 giugno 1780. Questo secondo soggiorno partenopeo,
avvenuto a dieci anni di distanza dalla fine del primo, si rivela assai fecondo
per lo scrittore teramano che ha l'occasione di rinsaldare i legami con
gli ambienti riformatori della capitale e stringere rapporti con vari esponenti
della cultura, quali tra gli altri i fratelli Di Gennaro e Grimaldi,
Filangieri, Pagano, Torcia e Fortis. È anche il periodo in cui egli matura
l'idea che la provincia possa imprimere, attraverso la denuncia dei mali
prodotti dal sistema feudale, un nuovo e maggiore impulso alla politica
governativa ed avverte la necessità di una ridefinizione del rapporto tra
capitale e province, tra i centri periferici più sani e dinamici e quella
Napoli corrotta ed inerte dalla quale tutti attendono una politica di
riforme. Ritornato a Teramo, Delfico pubblica nel 1782 il Discorso sullo
stabilimento della milizia provinciale, che gli varrà, l'anno successivo (20
giugno 1783), la nomina ad Assessore militare della sua provincia. Lo scritto,
dedicato all'amico Filangieri, inaugura un'intensa stagione che vede
l'illuminista abruzzese farsi promotore di numerose riforme. Nel Discorso la
questione militare acquista rilevanza politica, avendo intuito l'Autore
l'importanza che una buona costituzione militare poteva assumere per la vita di
uno Stato. Criticando lo «spirito di corpo» dei militari, quel «sentimento
dissociale» che li porta a disprezzare la vita civile e che fa di loro una
classe di privilegiati distinta dal corpo sociale, egli mira a riqualificare il
ruolo del soldato all'interno della società, non soltanto in tema di sicurezza,
ma anche, soprattutto, di progresso civile, riunendo, sull'esempio di Rousseau,
la qualità di soldato a quella di cittadino (23), così che i due termini
diventino sinonimi fra loro. Ad alimentare la fiducia nei primi anni
Ottanta che si potesse realizzare sul piano legislativo e amministrativo quanto
si veniva sostenendo su quello dottrinario, contribuirono sia la istituzione
della Reale Accademia di Scienze e Belle Lettere (che però tradì presto le
attese suscitate) che quella del Supremo Consiglio delle Finanze. Sorto nel
1782, il Consiglio si prefiggeva di riformare gli antichi e perniciosi abusi
del sistema e di restituire l'abbattuto vigore alla Nazione promuovendo i
canali della ricchezza dei sudditi e dello Stato. Ad esso Delfico vorrebbe
sottoporre la sua Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia di
Teramo, pubblicata a Napoli nel 1783. Considerato «forse il più limpido e
ragionato» (24) dei numerosi suoi scritti economici di quegli anni, il testo è
una dura requisitoria contro il persistere di pesanti imposizioni feudali e di
certi abusi economici e politici, responsabili di mantenere tale coltivazione
in uno stato di sottosviluppo (25). La risposta delficina è in favore di un
ammodernamento della tecnica di produzione e della rimozione di tutti gli
ostacoli, compresi i controlli e le restrizioni governative, che impediscono la
realizzazione di un'economia di mercato. Nell'estate dell'83 Delfico è di
nuovo a Napoli, dove si fermerà fino alla fine dell'anno. Ma non sarà questa
una permanenza piacevole. All'entusiasmo iniziale, infatti, subentrerà presto
un sentimento di profonda amarezza per l'andamento della vita politica della
capitale. Egli prende coscienza della incapacità dello Stato di dar vita ad un
programma organico di risanamento dell'economia del Paese, messa di nuovo a
dura prova dal terribile terremoto calabrese della primavera del 1783. La
condotta della corte borbonica gli appare quanto mai improvvisata e piena di
incertezze e di contraddizioni. Ritornato a Teramo è raggiunto, nel
febbraio del 1784, dalla notizia della scomparsa dell'amico Francescantonio
Grimaldi, cui dedica, come ultimo tributo, un Elogio (26) che ne rievoca il
pensiero e il valore. Dopo un rapido excursus delle opere giovanili (27), lo
scrittore abruzzese si sofferma sulle Riflessioni sopra l'ineguaglianza tra gli
uomini, pubblicate a Napoli in tre volumi tra il 1779 e il 1780. In esse
l'Autore confuta le tesi roussoiane sull'uguaglianza tra gli
uomini, correggendo quei «paradossi», scrive Delfico, che «fra molte vere
e nobili osservazioni» (28) sono racchiusi nel Discours sur l'origine de
l'inégalité. Contrariamente al Ginevrino, che ritiene l'ineguaglianza essere
«presque nulle dans l'Etat de Nature» (29), Grimaldi ne afferma il principio
dell'origine naturale, smentendo quanti sostenevano che gli uomini nascono
eguali. Una particolare attenzione rivolge infine all'ultimo incompiuto lavoro
di Grimaldi, gli Annali del Regno di Napoli. Sin da ora emerge chiara in lui
l'idea di una storia non più concepita come piacevole passatempo per «gli
oziosi e gli annojati», ma in funzione «d'un utile presente» (30) per l'umanità
e, in particolare, per la nazione per la quale si scrive. Ciò che interessa non
è più il nudo racconto di fatti isolati o di particolarità legate a circostanze
del momento, bensì la conoscenza delle cause che stanno dietro i fenomeni e la
vita morale delle nazioni. Alla fine di giugno del 1785 Delfico si
trasferisce di nuovo a Napoli, dove si trattiene, salvo una breve parentesi
nella città natale nell'estate dell'86, fino alla metà del 1788. Risale a
questo periodo l'incontro con il danese, di origine tedesca, Friedrich Münter,
venuto in Italia nell'autunno del 1784 con l'incarico di propagandare l'Ordine
degli Illuminati di Baviera (31). A Münter, con il quale visiterà assieme a
Filangieri e allo storico tedesco Heeren le rovine di Pestum, egli si legherà
da profonda amicizia, di cui è testimonianza una corrispondenza più che
trentennale (32), accomunati dalla passione per l'archeologia e, soprattutto,
per la numismatica. A Napoli Delfico pubblica nel 1785 la Memoria sul
Tribunal della Grascia (33), considerata, assieme a pochi altri testi, «il
vangelo del liberismo napoletano» (34) dell'epoca. Lo scritto sferra un attacco
contro il «terribile mostro» del Tribunale della Grascia, istituito lungo il
confine tra l'Abruzzo e lo Stato pontificio e simile per alcuni versi a quello
«più odioso dell'inquisizione», che impedisce ai due Stati pacifici di
scambiarsi liberamente i prodotti, fomentando dovunque corruzione e violenza e lasciando
quelle popolazioni in «un languore di dissoluzione» (35). Vi è nella Memoria
l'affermazione del principio della libertà di commercio e dell'abolizione del
sistema protezionistico, a proposito del quale vengono fatti i nomi di Verri,
Genovesi, Filangieri e del celebre Smith, di cui il Teramano è uno dei primi in
Italia a citare La ricchezza delle nazioni. Nel 1788 vede la luce il
Discorso sul Tavoliere di Puglia (36) in cui Delfico rivendica, dopo un'aspra
requisitoria contro le concentrazioni latifondiste e il mantenimento delle
rendite, la divisione di quelle terre in favore dei contadini e un diverso
ruolo dell'agricoltura, non più limitata e subordinata alla pastorizia. In un
Paese così «infelicemente» amministrato, dove regna una troppo marcata diseguaglianza
e una «ripugnante ed infelice» contrapposizione tra ricchi e poveri, l'aumento
dei proprietari è un obiettivo che risponde non soltanto a criteri di giustizia
sociale, ma anche ad una necessità dello Stato. Tutti «i più savj governi -
scrive - distinsero sempre la classe dei proprietarj, come quella che dava il
vero carattere di cittadino» (37). La proprietà infatti è il primo e più saldo
principio della società, poiché crea nei proprietari «sempre affezione» nei
confronti dello Stato, a cui essi chiedono di riconoscere e tutelare i loro
diritti, interessati come sono, più di ogni altra classe, al buon funzionamento
delle sue istituzioni e alla corretta applicazione delle sue leggi. Della parte
settentrionale della Puglia l'illuminista abruzzese si era occupato una prima
volta nel 1784 nella pur breve ma incisiva ricognizione geografico-economica
del tratto costiero «desolato» che va dal Fortore al Tronto (38), in cui
denunciava le gravi «avarie» commesse dai governanti con la creazione di continue
dogane che, ostacolando il libero scambio dei prodotti tra quelle popolazioni,
finiva per immiserirle sempre più. Si coglie in questi scritti non
soltanto la totale adesione di Delfico al liberismo, ma anche la sua piena
consapevolezza del ruolo che lo Stato è chiamato a svolgere in favore di un
sistema economico imperniato sulla libertà di scambio. Un rapporto, quello tra
Stato ed economia di mercato, che egli affronta anche nella Memoria sulla
libertà di commercio della fine degli anni Ottanta (39), in cui esalta il
principio del laissez-faire contro le regolamentazioni e i vincoli del sistema
mercantile. Il rifiuto di «ogni coazione economica» si fonda sulla convinzione
che la libertà (di produzione, di consumo, di commercio, di concorrenza) favorisca
un progresso e uno sviluppo economico tali da recare benefici sia ai privati
cittadini che allo Stato stesso. È solo attraverso la rimozione di tutti i
controlli governativi che ostacolano l'allargamento del mercato e impediscono
che le attività economiche si svolgano nei modi loro naturali che la scienza
economica riesce a far fronte al suo duplice compito di mantenimento dello
Stato e di accrescimento della ricchezza e del benessere individuali. In
quest'ultimo soggiorno napoletano prima dello scoppio della rivoluzione
francese, Delfico si attiva non poco, presso le Segreterie della capitale, per
sollecitare iniziative e soluzioni di problemi riguardanti le provincie del
Regno. Ma le sue istanze non sempre trovano il riscontro desiderato (40). Ciò
non fa che accrescere in lui un sentimento di sfiducia nell'azione riformatrice
del governo. Un'insofferenza, quella nei confronti del potere politico
partenopeo, che lo porterà nell'estate del 1788 ad allontanarsi da un ambiente
dove gli era diventato penoso vivere, non prima però di aver presentato a
Ferdinando IV il suo ultimo lavoro, Memoria per la vendita de' beni dello Stato
d'Atri (41). Nello scritto condanna la giurisdizione feudale in nome dei
principi roussoiani di indivisibilità e inalienabilità della sovranità fino a
ritenere qualsiasi forma di alienazione o di usurpazione della sovranità stessa
«non solo un atto nullo, ma anche ingiusto» (42). La notizia della
rivoluzione francese raggiunge Delfico lontano dal Regno napoletano, mentre si
trova nel Nord Italia, dove si era recato nel novembre del 1788 per
accompagnare a Pavia il nipote Orazio che studiava Scienze naturali sotto la
guida di Volta e Spallanzani. Durante il suo soggiorno ha modo di frequentare
gli ambienti riformatori milanesi ed entrare in contatto con Beccaria, il
filosofo e pedagogista Francesco Soave, i fratelli Verri, Parini, il giurista
senese Giovanni Bonaventura Spannocchi, lo studioso di scienze agrarie ed
economiche Carlo Amoretti ed altri ancora, con alcuni dei quali manterrà un
rapporto di amicizia. Sugli avvenimenti francesi non gli è difficile tenersi
informato. È lecito credere anzi che, oltre a seguire, egli guardi con simpatia
a quanto sta accadendo oltralpe. La rapidità e la determinazione con cui si
conduce l'attacco contro l'Ancien Régime lo spingono a ritenere che la
rivoluzione di Francia favorisca il progetto riformatore e rappresenti «un
esempio favorevole per i Principi savj» (43) affinché non indugino più sulla
strada delle riforme. Rianimato da queste speranze, nel dicembre del
1789, dopo aver fatto da poco ritorno nella sua città natale (44), Delfico si
trasferisce a Napoli, dove dà alle stampe, nell'estate del 1790, le Riflessioni
su la vendita dei feudi (45) in cui, ispirandosi al dibattito costituzionale d'oltralpe,
conduce un attacco più diretto ed esplicito contro il sistema feudale e la
giurisdizione baronale in particolare. Nel 1791 pubblica le Ricerche sul vero
carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori (46), che
rappresentano «la più forte manifestazione del pensiero illuministico italiano
nei confronti del diritto romano» (47), cui viene negato ogni valore. Ad
emergere è l'idea di un sistema legislativo nuovo, «uguale ed uniforme per
tutti gl'individui» che, a differenza di quello vigente, troppo legato alla
tradizione romana, risulti più inerente «all'indole delle nazioni e dei governi
presenti» (48). Sull'esempio di quanto accade in Francia, lo scrittore
abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile e regolare, una
legittima costituzione che ne sia il presupposto e ne costituisca il necessario
fondamento. Il sistema politico che egli predilige si fonda sull'uguaglianza
delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul conferimento dell'autorità
legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica senza restrizioni di rango
o di censo e sul decentramento dell'amministrazione della giustizia attraverso
lo stabilimento di magistrature locali e provinciali. Da una soluzione di
tipo monarchico-costituzionale Delfico non si allontanerà mai. Alla politica
illuminata del sovrano restano per lui legate le condizioni di cambiamento
della società meridionale. Nonostante tuttavia la sua predilezione per la
monarchia, a partire dalla seconda metà del 1791 si ravvisa nel Teramano un
conflitto tra l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che lo spinge a
credere ancora nell'intesa tra dinastia borbonica e intellettuali, e il
crescente scetticismo nei confronti della volontà governativa di attuare un
programma di rinnovamento. Deluso, decide di abbandonare la capitale dove si
sorprende sempre più spesso «scontentissimo». Il rientro a Teramo, nel
dicembre del 1791, segna la fine di un periodo di grande impegno politico e
letterario, al termine del quale egli vede svanire la possibilità che la rivoluzione
francese imprima un nuovo impulso alla politica del governo napoletano. È,
questo, un periodo di grande sconcerto e delusione per quanti, come Delfico,
avvertono i limiti della politica ferdinandea. Alla fine del 1793 la
consapevolezza che la grande stagione riformistica sia definitivamente conclusa
è radicata nel suo animo. Essa segna l'inizio di una lunga interruzione della
sua attività di scrittore, a conferma di come egli ritenesse allora non solo
vano ma addirittura pericoloso farsi sostenitore di una politica di
rinnovamento del Regno borbonico. La sfiducia diverrà pressoché totale durante
il soggiorno nella capitale partenopea tra la primavera e l'autunno 1794. A
Napoli s'imbatte in una città in preda alla più forte «agitazione». È l'epoca
della scoperta della congiura giacobina che porta all'arresto e alla condanna
di numerosi patrioti ed esponenti giacobini. Coinvolto è pure l'amico e
concittadino Troiano Odazi (49) che egli considera innocente e spera invano
venga presto scagionato. L'accentuarsi del carattere reazionario della
politica napoletana non determina tuttavia in Delfico, come in altri
illuministi, il passaggio «da regalista in giacobino» (50) o repubblicano,
anche perché egli, a differenza di molti di loro, non vede più nella Francia
del '93-'94 concretarsi i suoi ideali riformistici. L'avversione per gli
eccessi rivoluzionari lo porta ad anticipare un modulo storiografico che avrà
fortuna negli anni successivi: la contrapposizione tra una prima fase della
rivoluzione, l'89, con le sue idee di libertà e di uguaglianza, ed una fase
successiva, il '93, caratterizzata da «tanti orrori». Alla fine di
ottobre del 1795 Delfico lascia di nuovo l'Abruzzo per compiere un secondo
viaggio fuori del Regno, dapprima a Roma, restandovi per circa un mese, quindi
in Toscana dove rimane fino alla primavera successiva ed ha modo di rivedere
gli amici Giovanni Fantoni e Giuseppe Micali e legarsi al nobile fiorentino
Neri Corsini e all'uomo di Stato francese André-François Miot (51). A spingerlo
verso il Granducato è una certa simpatia politica per quello Stato, suscitata
dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che ancora vi regnava. Ritornato
a Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo raggiungono le notizie dell'avanzata
francese in Piemonte e in Lombardia. Nessun dubbio nutre sulle mire
espansionistiche di Napoleone, di cui disapprova non solo le condizioni gravose
imposte alle città occupate, ma anche le innumerevoli requisizioni, ruberie e
saccheggi dei suoi soldati. Nella seconda metà del 1796 si riaccende
nello scrittore teramano l'interesse per la Grande Nation, in quanto vede
delinearsi nella vita politica del Direttorio la possibilità per la Francia di
riprendere e consolidare quel processo di trasformazione avviato negli anni
precedenti la parentesi giacobina; interesse che si manifesta anche attraverso
il desiderio, mai realizzato, di compiere un viaggio transalpino (52). Ciò
nonostante, appare poco probabile una sua partecipazione al concorso indetto
dall'Amministrazione generale della Lombardia il 6 vendemmiaio anno V della
Repubblica francese (27 settembre 1796) sul quesito Quale dei Governi liberi
meglio convenga alla felicità d'Italia, di cui risulterà vincitore il
piacentino Melchiorre Gioia (53). Immutato è invece il giudizio sulla corte
napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97 egli accenni ad una ripresa di
dialogo con il governo borbonico (54), non scorge alcun cambiamento nella sua
politica. Sempre più, inoltre, dovrà guardarsi dalla gelosia dei suoi nemici,
soprattutto nel 1798, quando verrà nominato portolano della città di Teramo,
con responsabilità amministrative di rilievo. La situazione si aggraverà
nell'estate di quell'anno, allorché alle trepidazioni per una probabile
invasione straniera si uniranno quelle per il susseguirsi di infondate accuse
di giacobinismo costruite ai suoi danni da parte di anonimi concittadini. Già
nel 1793 era stato costretto a dare formale prova del suo lealismo monarchico
in seguito a delazioni da parte di alcuni «malevoli di Napoli fra quali il
Vescovo in unione colla magistratura» (55). Sempre più si alimenta il sospetto
di una sua cospirazione antimonarchica, tanto che il 27 settembre 1798 è tratto
in arresto, nel proprio palazzo, assieme a tutta la famiglia (56). Liberato
l'11 dicembre successivo dall'arrivo a Teramo delle truppe francesi (57), è
dapprima posto a capo della Municipalità della città e successivamente nominato
presidente dell'Amministrazione Centrale dell'Alto Abruzzo. Il 12 gennaio 1799
è chiamato a presiedere a Pescara il Supremo Consiglio (58), l'organo politico
più importante esistente in Abruzzo, che avrebbe dovuto fungere da raccordo tra
il comando francese e i due nuovi organismi repubblicani - i Dipartimenti
dell'Alto e del Basso Abruzzo - in cui il generale Duhesme, con il proclama del
28 dicembre 1798, aveva diviso il territorio regionale. Non vi è dubbio
che la collaborazione di Delfico con i Francesi, per quanto piena e convinta,
vada vista come il tentativo di reinserirsi nel giro di quella politica attiva,
nella quale egli da sempre confida. Tale partecipazione, tuttavia, non segna il
passaggio dello scrittore teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a
quella repubblicano-giacobina (59), dal momento che l'esperienza non provoca
quella vera e propria «lacerazione» e «rottura» nella sua biografia
intellettuale che è stata riscontrata invece nei riformisti meridionali passati
alla rivoluzione (60). Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad
essere, anche durante la parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato
in tante battaglie del passato. Persino il Piano di una amministrazione
provvisoria di giustizia pei Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni
(61) del 24 piovoso anno VII (12 febbraio 1799), l'atto legislativo più
importante del Consiglio Supremo pescarese col quale viene introdotto un nuovo
ordinamento giudiziario e in cui maggiore è l'istanza egualitaria, non sembra
discostarsi da certi suoi principi e aspirazioni precedentemente espressi. Il
Piano, che si inserisce fra i provvedimenti di riforma del sistema giudiziario
adottati dalla Repubblica napoletana, sanciva, in nome delle idee di libertà e
di eguaglianza, il decentramento dell'autorità giudiziaria, prevedendo un
giudice per ogni capoluogo di cantone e un tribunale per ogni capoluogo di
dipartimento; l'amministrazione gratuita della giustizia e la corresponsione di
uno stipendio ai giudici e a tutti coloro che collaboravano all'attività
giudiziaria; l'assistenza gratuita ai poveri; la «prontezza» e «l'imparzialità»
dei giudici nell'applicazione delle norme; l'abolizione della carcerazione per
debiti, a meno che non venisse provata la «frode» del debitore; il controllo
dell'attività giudiziaria nonché la possibilità di ricorrere in appello.
Volentieri egli si sarebbe portato nella capitale partenopea dove, il 23
gennaio 1799, era stato nominato membro del Governo Provvisorio dal comandante
in capo Championnet. Ma a Napoli Delfico non potrà recarsi mai a causa delle
insorgenze antifrancesi. Di qui il rammarico per non poter partecipare
all'attività legislativa del Governo Provvisorio a cui muove l'accusa di aver
non solo «abbandonato» ma addirittura «obliato» le province abruzzesi,
lasciando che ovunque si verificassero «le più ferali tragedie» ad opera di
briganti e di scorribande antifrancesi (62). Non è da escludere a questo punto
che proprio durante il periodo pescarese Delfico abbia elaborato, secondo una
prassi piuttosto diffusa in Italia nel triennio rivoluzionario, una Tavola dei
Dritti e dei Doveri dell'uomo e del Cittadino (63). Il testo, che si ispira
alle Dichiarazioni francesi dei diritti del 1789, del 1793 e del 1795, proclama
l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i diritti inalienabili di libertà,
sicurezza, proprietà, resistenza all'oppressione e i doveri inviolabili di
subordinazione, benevolenza, giustizia e obbedienza alle leggi. Fa risiedere la
sovranità nella Nazione, cui spetta, attraverso i suoi rappresentanti, emanare
le leggi, stabilire le imposizioni, cambiare la costituzione e il governo.
Ammette la possibilità di armarsi contro ogni forma di manifesta violenza e di
tirannia e non esclude il ricorso all'insurrezione, ma solo in casi estremi,
mentre condanna le rivolte e i perturbatori dell'ordine pubblico, per odio
forse delle sommosse che si stavano verificando agli inizi del '99 e di
quanti sobillavano le masse contro le nuove istituzioni. Il 28 aprile
1799, di fronte al crescente stato di abbandono delle province abruzzesi e alla
partenza dei Francesi da Teramo, Delfico preferisce, prima ancora della caduta
della Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il falso nome di Carlo
Cauti riparare via mare nelle Marche, per poi raggiungere nel settembre
successivo San Marino (64). Nella piccola Repubblica rimarrà fino al 1806,
quando Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo
fianco con la carica di consigliere di Stato. Durante il soggiorno
sammarinese Delfico si interrogherà a lungo sulla «tempestosa crisi» di fine
secolo di cui, come Cuoco (65), critica l'«immatura ed intempestiva»
manifestazione, come pure il metodo rivoluzionario, ritenuto «distruttivo»
(66). La confusione dei princìpi, l'eccesso di passioni assieme a mal fondati
calcoli avevano fatto nascere delle idee politiche così «mostruose» che per i
loro intrinseci difetti non avevano potuto a lungo sopravvivere. Fu la Francia,
afferma, a far sorgere dei canoni politici «falsi e irregolari». L'Italia,
«abbagliata ed attonita - scrive - non ebbe tempo a riflettere, che le confuse
proclamazioni di libertà, benché le provenissero da quella nazione che aveva
prodotti i più grandi filosofi politici del secolo, Montesquieu, Rousseau,
Sieyès, pure non aveva mai essa veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva
avuta la pratica né la finezza del senso e il gusto per conoscerla, così non
poteva avere le forze intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale
palingenesia» (67). Dal ripensamento della vicenda rivoluzionaria Delfico
trae l'indicazione della necessità di un recupero della tradizione storica nazionale:
«Se si fosse consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si sarebbe
trovato, che lo spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il
soggiorno o la sede della libertà nei secoli più remoti» (68). A questo senso
di moderazione l'Italia deve continuamente richiamarsi e gli eventi recenti ed
i fatti antichi devono persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua
tranquillità e alla sua felicità. La critica delficina dell'esperienza
rivoluzionaria si risolve, in definitiva, nella ricerca di una linea politica
saggia e realistica che non miri alle magiche trasformazioni ma proceda per
«proporzionate graduazioni» alla realizzazione di un programma costituzionale a
cui è lecito aspirare. Tutta l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi
civili più adatti e convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle
forme politiche stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una
definizione vichiana, nei governi umani, di cui proprio il piccolo Stato di San
Marino, nonostante il suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed
involuzioni, rappresentava un modello politico reale che, in modo non
utopistico, «mostrava non essere impossibile alla specie umana una tal forma di
società» (69). Dalla piccola Repubblica Delfico uscirà diverse volte per
riordinare la biblioteca pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà alcuni
mesi nella casa del marchese Giovanni Maria Belmonte, la cui amicizia risaliva
al 1784, o per andare a Bologna dal suo amico Alberto Fortis, in quel tempo prefetto
della biblioteca nazionale della città. Da gennaio ad aprile del 1803
soggiornerà ad Ascoli Piceno dal fratello Giamberardino. Nel 1804 si porterà a
Milano per seguire la stampa del suo libro sulla storia di San Marino. Nel
capoluogo lombardo, dove sarà l'ispiratore della ristampa dei Principj della
legislazione universale di Georg Ludwig Schmidt d'Avenstein, rivedrà Vincenzo
Cuoco e stringerà nuove amicizie, tra cui quelle con Giuseppe Bossi, Pietro
Custodi e Francesco Saverio Salfi. Ma, soprattutto, si legherà a Gian Giacomo
Trivulzio, a Leopoldo Cicognara, grazie al quale entrerà in contatto con il
celebre scultore Antonio Canova, e a sua moglie Massimiliana Cislago, donna
assai colta e amica di Melchiorre Cesarotti, con il quale resterà, come con gli
altri, in corrispondenza. Infine, dall'autunno all'inverno di quello stesso
anno si fermerà di nuovo ad Ascoli, da suo fratello. È, quello
sammarinese, un periodo in cui Delfico, fuori dalla vita politica attiva,
riprende gli studi e pubblica le Memorie storiche della Repubblica di S. Marino
e l'opera sua più famosa, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità
della medesima che, usciti a Forlì nel 1808, vedono in poco tempo altre due
edizioni (70). Lo studio della storia in stretta relazione con la realtà
presente, già ricorrente negli scritti giovanili, trova nelle Memorie storiche
diretta applicazione. Nonostante, infatti, l'Autore dichiari, nelle battute
iniziali della prefazione, di non essere nell'opinione di coloro i quali
riguardano la storia come «maestra della vita e dispensatrice della civile
sapienza» (71), in realtà poi egli, attraverso una ricerca diligente e vasta,
scrive una vera storia. In essa indaga le ragioni del «mito» di San Marino, di
come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria libertas e
serbato l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere a modello
politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini, Lodovico Zuccolo e
Matteo Valli. Sotto tale aspetto dunque scrivere la storia della piccola
Repubblica era tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe mostrato le vicende
di un popolo che poteva costituire «un esempio degno d'imitazione» (72). Questa
«rivalutazione» dell'esperienza storica (73) appare quanto meno strana in un
pensatore considerato da alcuni l'espressione più radicale dell'antistoricismo
italiano (74). Nei Pensieri Delfico affronta il problema della conoscenza
storica in tutta la sua interezza ed estensione, per stabilire «se la scienza
di ciò che fu, debba preferirsi a quella dell'esistenza» (75). Con quest'opera
esprime l'esigenza, già manifestata nell'Elogio al Grimaldi, di una storia
utile, che indaghi e interroghi il passato in funzione del presente. Ma perché
questo avvenga è necessario ideare un nuovo modo di fare storia. Alla
tradizione storiografica, infatti, egli rimprovera l'uso di sistemi
metodologici inadeguati e parziali che sarebbe la causa della mancata
conoscenza del passato. Come e più di Fontenelle, Voltaire, d'Alembert,
Rousseau, Condorcet, Volney, delle cui Leçons d'histoire (76) risente la
stesura dei Pensieri (77), nega che le ricostruzioni dei fatti fino ad allora
condotte siano state in grado di riprodurre fedelmente la verità storica. E se
priva di certezza, la storia non presenta alcuna vera utilità per il genere
umano. Egli si pone principalmente il problema della manière d'écrire
l'histoire, proprio della storiografia illuministica. A tal fine, denuncia
deficienze e manchevolezze che ancora permangono negli studi storici e lamenta
che la proliferazione incontrollata degli stessi abbia dato luogo ad una loro
stagnazione piuttosto che a un ripensamento critico dei principi e dei criteri
della pratica storiografica. Occorre distogliere l'analisi storica dal proporre
il «secco e nudo racconto» di pochi avvenimenti, per indurla a valutare le
circostanze nel loro complesso, ad indicare i rapporti che intercorrono tra gli
effetti e le loro cause. Essa dovrebbe consistere in un'esposizione analitica
di fatti gli uni dipendenti dagli altri, per scorgere come dai primi e più
semplici siamo gradatamente giunti alle attuali positive cognizioni, di modo
che «mostrandoci i due estremi c'indicherebbe più facilmente la strada da
percorrere, per andare in cerca delle altre verità desiderose di venire alla
luce» (78). Così concepita, l'indagine storica permetterebbe di recuperare
positivamente l'eredità del passato, che cesserebbe di appartenere alla memoria
per divenire una componente integrante del processo storico contemporaneo. Una
convinzione, questa, che trova conferma in un successivo scritto delficino del
1824, Discorso preliminare su le origini italiche (79), in cui viene ribadita
l'opportunità di interrogare il passato e «registrare i fatti del tempo» in
funzione dei bisogni presenti. Quest'azione di cerniera tra il tempo andato e
quello avvenire rappresenta l'aspetto più interessante della storia. Essa la
pone su un piano di parità con le altre scienze a cui l'accomuna il merito di
protendere al miglioramento fisico e morale dell'uomo. Ma perché la ricerca
storica possa adempiere a queste funzioni conoscitive si richiede che essa sia
«qual non esiste», cioè una disciplina nuova, ancora intentata, che Delfico
chiama anche «storia delle scienze». Le cognizioni storiche perdono allora il
carattere di sterile nozionismo, che hanno sempre avuto, e acquistano un valore
intrinseco: «Sobriamente conoscendo quel che fu», afferma a conclusione della
sua opera, «potremo facilitarci la strada a saper ampiamente quel che è»
(80). Un atteggiamento polemico egli assume anche nei confronti delle
mitologie la cui origine sarebbe dovuta a superstizione, ad ignoranza o ad
incapacità di fornire una spiegazione razionale a fenomeni naturali. È il caso
degli incantatori di serpenti e del loro presunto potere antiofidico, contro
cui egli insorge in una Lettera di poche pagine, senza titolo, inserita a guisa
di nota nel VI tomo degli Annali del Regno di Napoli di Francescantonio
Grimaldi (81) e rimasta a lungo sconosciuta agli studiosi (82). La
dissertazione, che si colloca nel filone della letteratura illuministica di
confutazione delle superstizioni, è una dura requisitoria contro gli
«impostori» serpari, i quali spacciano per miracoli e portenti ciò che in
realtà non avrebbe nulla di prestigioso ma sarebbe solo il risultato o di una
conoscenza particolare delle caratteristiche dei serpenti o di effetti
naturali. Una diversa considerazione, invece, egli ha dei cosiddetti
«favoleggiatori». Come il «virtuoso» Socrate e il «divino» Platone, Delfico
tiene in grande considerazione il racconto allegorico. Quando ancora lo spirito
umano, afferma nel Discorso sulle favole esopiane del 1792 (83), non aveva
maturato le sensazioni e le esperienze necessarie per poter generalizzare le
idee ed esprimerle con precisione e proprietà di linguaggio, fu naturale che i
primi pensieri morali, il sentimento di giustizia, le nozioni di bene e di male
e molti altri concetti fossero acquisiti attraverso gli apologhi, che divennero
così «la morale dell'infanzia dell'umanità». La loro utilità non verrebbe meno
neppure nei tempi moderni dal momento che gli apologhi, se convenientemente
scelti, possono giovare non soltanto ai giovani ma anche a quella parte del
popolo che, ancora vittima dell'«errore» e del «pregiudizio», si trova in uno
stato «più infelice» (84) di quello dei secoli remoti. Il ritorno a
Napoli dei Francesi, nel febbraio del 1806, viene salutato come l'inizio di una
nuova stagione politica. Esso rappresenta per lo scrittore teramano
quell'inversione di rotta che «era ormai tempo che si facesse» (85) e che lo
induce a riportarsi, nel giugno di quell'anno, dopo sette anni di esilio
sammarinese, nella capitale partenopea dove farà parte, per quasi un decennio,
della nuova amministrazione francese. Nell'età napoleonica egli intravede la
possibilità di un recupero di quello «spirito di ragione e di moderazione», a
cui riteneva necessario ricondurre la politica dopo la crisi di fine secolo e
che costituiva l'unica via possibile di sviluppo, sia contro gli eccessi dei
rivoluzionari, sia contro le intemperanze dei reazionari. Nominato da
Giuseppe Bonaparte consigliere di Stato (3 giugno 1806), Delfico viene
assegnato alla sezione delle Finanze, per poi passare nel 1809 alla presidenza
della sezione dell'Interno, divenendo uno dei quattro presidenti del Consiglio di
Stato. Regge più volte ad interim il ministero dell'Interno, facendo parte
delle Commissioni per le lauree, per le pensioni, per le riforme del Codice
civile, per la procedura delle cause feudali in Cassazione, per la riforma
della pubblica istruzione, per la ripartizione dei demani, per la vendita dei
beni dello Stato. Presidente della Commissione degli Archivi generali del
Regno, nominato commendatore dell'ordine delle Due Sicilie, nel 1815 viene
insignito da Gioacchino Murat del titolo di Barone (86). I numerosi
incarichi di responsabilità non lo distolgono dalla tensione intellettuale,
tutta incentrata sullo studio della fisiologia e di altre fisiche cognizioni.
Evidente appare il suo debito nei confronti di Pierre-Jean-Georges Cabanis
(1757-1808), sostenitore della sensibilità fisica quale fondamento
dell'attività umana. Delle teorie dei Rapports du physique et du moral de
l'homme (1802), l'opera più importante del filosofo francese, risentono
soprattutto le Ricerche su la sensibilità imitativa considerata come il
principio fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli
e delle Nazioni del 1813 (87) e la Memoria su la perfettibilità organica
considerata come il principio fisico dell'educazione con alcune vedute sulla
medesima del 1814, cui segue, l'anno successivo, la Seconda memoria (88). Del
1818 sono, infine, le Nuove ricerche sul Bello (89), pubblicate a Napoli da
Agnello Nobile. Con la restaurazione dei Borboni, nel 1815, Delfico
dirada il suo impegno nella vita politica. Ciò nonostante, all'indomani dello
scoppio insurrezionale del 1820, Ferdinando I gli affida l'incarico di tradurre
la Costituzione spagnola del 1812 e subito dopo, il 9 luglio 1820, lo nomina
(assieme ad altri 14) membro della Giunta provvisoria di governo, chiamata a
sostituire il Parlamento fino al suo insediamento. Successivamente sarà uno
degli 89 deputati di quel Parlamento che, costituitosi il 1° ottobre 1820,
vivrà solo fino al marzo 1821, quando Ferdinando I chiederà l'intervento
austriaco per porre fine all'esperienza costituzionale e dar vita ad un nuovo
governo reazionario. Deluso, decide di allontanarsi definitivamente dagli
ambienti governativi. Dopo il crollo del dominio francese in Italia, egli
teme non soltanto la rivalsa delle forze reazionarie ma anche (soprattutto) che
si interrompa quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale,
avviato dai Napoleonidi (90), che lentamente stava facendo risorgere il Paese.
Nell'azione di ripristino dell'antico, che si svolge all'insegna della
ricomposizione della vecchia alleanza tra trono e altare, il Teramano vede
profilarsi la minaccia di rendere il mondo «stazionario» se non addirittura di
farlo a grandi passi o salti «retrogradare». Un'ipotesi resa, a suo avviso,
ancora più probabile da letture ideologicamente distorte di grandi autori, non
ultimo Niccolò Machiavelli, che alimentano l'esistenza di pregiudizi dei quali
ci si serve per sostenere fini politici particolari. Questo clima è per Delfico
l'occasione (o forse soltanto il pretesto) per una rilettura del «gran politico
pensatore», di cui in gioventù aveva subìto qualche influenza. Scrive così,
agli inizi degli anni venti dell'Ottocento, le Osservazioni sopra alcune
dottrine politiche del Segretario fiorentino (91), nate dall'esigenza di
confrontarsi con Machiavelli intorno ad alcuni temi, come la religione, la
libertà, il problema costituzionale, l'uguaglianza, per smascherare alcuni
pregiudizi che si sarebbero formati sotto la sua «potente autorità» (92), senza
tuttavia tralasciare alcune sue verità che potrebbero risultare ancora utili
per le civili società. Da questo confronto fuoriescono talora divergenze più o
meno accentuate o giudizi critici, ma anche affinità e valutazioni
positive. Dell'«illustre autore» Delfico sottolinea il realismo politico
e l'aderenza alla realtà effettuale. Egli guarda il Principe non come
un'astratta speculazione politica, bensì come uno scritto d'occasione
contenente una particolare proposta operativa, in relazione ad un obiettivo
politico contingente, qual è la rigenerazione dell'Italia. Senza farne a tutti
i costi un precorritore del Risorgimento o un assertore dell'unità nazionale,
secondo un'interpretazione del Fiorentino allora assai diffusa, egli ammira in
lui la «viva passione», la disperata ricerca di soluzioni politiche capaci di
porre fine alla grave crisi della società italiana del Cinquecento. Ma la
condizione di immobilismo e di decadenza politica e civile dell'Italia, per la
quale Machiavelli suggerisce la soluzione del Valentino quale liberatore degli
Stati italiani, non porta lo scrittore teramano a condividere interamente tutte
le tesi del Segretario fiorentino: «Se si possono giustificare le sue
intenzioni, e la persona» afferma «questo non vale per le sue dottrine» (93).
Infatti, se da un lato egli comprende le preoccupazioni di Machiavelli e fa
proprie le sue speranze di una prossima rigenerazione, attuabile quest'ultima
solo attraverso mezzi eccezionali, dall'altro manifesta più di una perplessità
di fronte al suo realismo politico, non riuscendo di fatto ad accettare la
dissociazione machiavelliana tra etica e politica e il principio che «per
regnar tutto lice» (94). Divergenze emergono anche dal tentativo che
Delfico in seguito compie di ricondurre il pensiero machiavelliano ai tempi
presenti per poi valutarlo sulla base delle proprie convinzioni ed esperienze
storiche, politiche e culturali maturate tra il XVIII e il XIX secolo. Molte
sono tuttavia le idee del Fiorentino che considera ancora valide e attuali,
come l'identificazione dell'origine dei conflitti sociali con l'ineguaglianza
giuridica ed economica, l'assoluta inconciliabilità tra gli «umori» del popolo
e quelli dei grandi (95) o la condanna del ruolo antisociale dei
«gentiluomini», di quegli uomini cioè che, «oziosi», vivono dei proventi dei
loro ingenti possedimenti (96). Ma, soprattutto, riconosce a Machiavelli il
merito di aver legato la «questione militare» alla «questione politica», di
aver ritenuto la soluzione dell'una imprescindibile da quella dell'altra. Tale
correlazione presuppone ed implica un nuovo rapporto tra governanti e governati
basato sul reciproco impegno, da parte del popolo, di assicurare la propria
«affezione» allo Stato, così da garantirgli una maggiore stabilità; da parte
dei governi, di soddisfare le aspirazioni dei sudditi, migliorandone le
condizioni. Lo sviluppo di questo vincolo, che con assoluta originalità Delfico
fa derivare dal nesso tra dimensione militare e dialettica politica, è
concepito all'interno di una monarchia costituzionale, considerata la forma più
«conveniente all'Umanità ed ai veri bisogni sociali», la giusta soluzione tra
rivoluzione e reazione. L'emanazione di una carta costituzionale, di cui aveva
manifestato l'esigenza sin dai primi anni della rivoluzione francese, risponde soprattutto
all'esigenza di assicurare l'uguaglianza politica e la tutela dei diritti
individuali dei cittadini, garantendo loro la sicurezza reale e
personale. Nel maggio del 1822 Delfico torna a Teramo, ma nell'autunno
successivo si reca di nuovo a Napoli dove rimane per alcuni mesi, fino alla
primavera del 1823, quando lascia la Capitale per non farvi più ritorno. Nel
capoluogo abruzzese, dove trascorre il resto della sua vita, senza mai più
allontanarsi, l'anziano scrittore continua a studiare e a scrivere. Fra i
lavori di questi anni (alcuni dei quali ancora inediti e, di questi, molti non
terminati o soltanto abbozzati e frammentari) ricordiamo la memoria Della
importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della
filosofia intellettuale del 1823 (97), in cui ribadisce la sua concezione
materialistica della conoscenza e concepisce la ragione come strumento critico
e operativo, che non deve tuttavia ostinarsi ad indagare l'essenza delle cose e
tutto ciò che non può realmente conoscere ma rivolgersi alle cose utili e
necessarie al benessere e alla felicità del genere umano, e gli scritti sulla
numismatica pubblicati a Teramo dai tipi Ubaldo Angeletti nel 1824 con il
titolo Della antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso
preliminare su le origini italiche (98). Non verrà meno neppure il suo
impegno riformatore che lo porterà ad interessarsi di Pescara in due scritti,
dal titolo Fiera franca in Pescara del 1823 e Breve cenno sul progetto di un
porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara del 27 aprile 1825 (99), con i
quali si prefigge di rivitalizzare le attività produttive in questa zona ancora
poco sviluppata del Regno. Decisivo gli appare a tal proposito un rilancio del
commercio, considerato «la sola sorgente inesausta della ricchezza e floridezza
delle Provincie» (100), non senza però aver prima creato le condizioni e le
strutture necessarie per facilitarlo. Una di queste potrebbe essere la
realizzazione di un grande emporio o fiera franca, che non solo ridurrebbe
sensibilmente le frodi e il contrabbando, ma assicurerebbe un notevole afflusso
di merci, di provenienza anche straniera, senza l'imposizione di alcun dazio di
importazione, che eviterebbe ai negozianti, ai mercanti e a molti proprietari
abruzzesi di rivolgersi, non senza grave danno, ai mercati dello Stato
pontificio di Fermo, di Ascoli o a quello più grande e lontano di Senigallia.
Tutto ciò non farebbe che ripercuotersi favorevolmente sul commercio che
potrebbe così finalmente «divenir attivo» (101) e moltiplicare i capitali e far
nascere nuove attività economiche o migliorare e accrescere quelle
esistenti. La creazione di uno moderno scalo marittimo alla foce del
fiume Pescara costituisce l'oggetto della riflessione che Delfico conduce nel
Breve cenno. L'idea che il «mare anziché separare riavvicini le Nazioni fra
loro» (102), permettendo infinite comunicazioni tra i popoli, costituisce la
determinazione dalla quale lo scrittore teramano muove per sostenere l'utilità
che la creazione di un porto sicuro per i naviganti rivestirebbe per
l'incremento del commercio e per lo sviluppo economico in generale. La scelta
di Pescara quale centro di scalo portuale trova giustificazione nel fatto di
avere la cittadina adriatica il fiume con la foce più ampia e di essere «punto
centrale nel litorale degli Abruzzi», crocevia delle tre principali strade,
l'una diretta verso Napoli, le altre, entrambe costiere, in direzione la prima
verso lo stato pontificio, la seconda verso le province meridionali. Non solo,
ma sarebbe anche l'unico porto ad avvalersi di una «piazza forte» che
renderebbe sicuro il trasporto e la conservazione delle merci. Così il porto di
Pescara potrebbe riacquistare quell'importanza che aveva avuto un tempo quando
era conosciuto con il nome di Ostia Aterni e gli imperatori romani vi avevano
fatto confluire le tre strade, la Claudia, la Flaminia e la Frentana per
agevolarne gli scambi commerciali (103). A metà degli anni Venti un libro
anonimo, dal titolo La vérité sur les cent jours, principalement par rapport à
la renaissance projetée de l'Empire Romain, par un Citoyen de la Corse (H.
Tarlier, Bruxelles 1825), di cui uscirà nel 1829 una traduzione italiana
incompleta dal titolo Delle cause italiane nell'evasione dell'imperatore
Napoleone dall'Elba, con la falsa indicazione del luogo e dell'editore del
testo originale, riferisce di una congiura che sarebbe stata ordita nel 1814 da
alcuni italiani per affidare la corona d'Italia a Napoleone Bonaparte. Dei
presunti cospiratori, rimasti anonimi nel libro, l'Autore fa il nome soltanto
del conte Luigi Corvetto (1756-1821), «justement regardé comme un des meilleurs
jurisconsultes de Gênes» e di Melchiorre Delfico, «un des hommes les plus
vertueux de l'Italie», ritenendoli, erroneamente, entrambi deceduti. Al
Teramano viene anche attribuita la stesura di un Rapport adressé à S. M.
l'empereur Napoléon à l'île d'Elbe, par le principal émissaire en Italie,
datato Napoli 14 ottobre 1814 (104), sulle condizioni politiche e morali dei
vari Stati italiani, che sarebbe dovuto servire all'imperatore francese per
meglio valutare le possibilità di successo dell'impresa. Ma nessuna conferma in
proposito è mai venuta dalle carte delficine, né da successive ricerche, per
cui ancora oggi l'ipotesi di una partecipazione del Nostro al progetto resta
legata a quest'unica notizia. Nel 1829 Delfico pubblica la lettera
Della preferenza de' sessi (105) alla contessa Chiara Mucciarelli Simonetti in
cui riprende i temi della condizione ed emancipazione della donna affrontati in
gioventù nel Saggio filosofico sul matrimonio. Trascorre gli ultimi anni della
vita continuando a coltivare i suoi interessi intellettuali. A questo periodo
risalgono i suoi studi sulla scienza medica testimoniati da numerose pagine,
ancora inedite, conservate presso il «Fondo Delfico» della Biblioteca
Provinciale di Teramo, e la stesura di alcuni manoscritti di cui uno dal titolo
Sugli antichi confini del Regno e un altro dal titolo Sull'origine e i
progressi delle Società civili che invia al marchese aquilano Luigi Dragonetti,
il quale ne caldeggia la pubblicazione, ma invano perché il suo autore intende
«rivederlo» (106). Nel 1832 riceve la visita di Ferdinando II, in giro per le
regioni del Regno, e viene insignito, l'anno successivo, dell'onorificenza di Commendatore
dell'Ordine di Francesco I. Nel capoluogo abruzzese Delfico muore il 21 giugno
1835. Dopo la notorietà di cui aveva goduto in vita, alla sua morte
Delfico cade in un lungo e ingiustificato oblio. Uscito grazie a Giovanni
Gentile (107) dal ristretto ambito locale, che lo aveva reso per tutto
l'Ottocento un autore sostanzialmente sconosciuto, e proiettato in una
dimensione più ampia, nazionale, Delfico è oggetto di una diversa
considerazione a partire dal secondo dopoguerra. Una rivalutazione che si
determina in coincidenza con il rinnovato interesse storiografico per la
cultura e la storia del Settecento e, in particolare, per alcune esperienze
intellettuali e politiche significative dell'illuminismo italiano (108). Merito
di questa storiografia è quello di aver ricondotto e legato il riformismo
delficino all'esperienza e al fervore culturale del movimento riformatore
napoletano della seconda metà del XVIII secolo. Una lettura che ha privilegiato
il Delfico «riformatore», la sua fase riformistica, contrapponendosi alle
rivisitazioni critiche precedenti, sia della storiografia neoidealistica che
del ventennio fascista (109). Di recente, nuove linee interpretative stanno
approfondendo altre fasi fondamentali della biografia intellettuale di Melchiorre
Delfico (alcune delle quali scarsamente scandagliate), come quella relativa al
decennio rivoluzionario 1789-1799 o quelle che contrassegnano la sua
evoluzione, agli inizi dell'Ottocento e durante gli anni della Restaurazione,
da riformatore nutrito dell'illuminismo napoletano a filosofo della storia e
della politica. _______________ (1) Era nato il 1° agosto 1744 in
un paesino vicino Teramo, Leognano, dove i genitori, Berardo e Margherita
Civico, si erano rifugiati durante l'invasione austriaca del Regno di Napoli.
Morirà a Teramo il 21 giugno 1835, all'età di novantun anni. Per le notizie
biografiche, la migliore fonte resta quella del nipote G. De Filippis-Delfico,
Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico. Libri due, Angeletti, Teramo
1836, arricchita di un'elencazione degli scritti editi ed inediti del Nostro
(alcuni dei quali successivamente pubblicati), nonché di quelli non terminati e
dei frammenti. Rimasta incompiuta, l'opera continuò sul «Giornale abruzzese di
scienze lettere e arti», a. VI (1841), vol. XVIII, n. LIV, pp. 147-173
e a. VII (1843), vol. XXI, n. LXIII, pp. 129-153, col titolo Notizie
intorno alle opinioni filosofiche ed alle opere di Melchiorre Delfico e, sempre
sulla stessa rivista, a. VII (1843), vol. XXII, n. LXVI, pp. 163-171, col
titolo Notizie sulla vita e sulle opere di Melchiorre Delfico. (2) Molti
degli amici e dei discepoli del Genovesi furono abruzzesi. Fra loro ricordiamo,
oltre ai fratelli Giamberardino, Gianfilippo e Melchiorre Delfico, il teatino
Romualdo de Sterlich, Tommaso Maria Verri di Archi, Giuseppe De Sanctis di
Penne, l'aquilano Giacinto Dragonetti, Giovanni Alò di Roccaraso, il teramano
Giammichele Thaulero e Troiano Odazi di Atri, che nel 1781 successe al Maestro
nella cattedra di economia. Sulla presenza anche in Abruzzo di quello che è
stato definito il «partito genovesiano», cfr. G. De Lucia, Abruzzo
borbonico. Cultura, società, economia tra Sette e Ottocento, Cannarsa, Vasto
1984, pp. 23-31 e 46-49; U. Russo, Studi sul Settecento in Abruzzo, Solfanelli,
Chieti 1990, pp. 25-31 e 53-63. (3) F. Diaz, Dal movimento dei lumi al
movimento dei popoli, Il Mulino, Bologna 1986, p. 317. (4) Sul riformismo
borbonico, cfr. F. Valsecchi, Il riformismo borbonico in Italia, Bonacci, Roma
1990, pp. 103-155; I Borbone di Napoli e i Borbone di Spagna, a cura di
M. Di Pinto, Guida, Napoli 1985, vol. I; E. Chiosi, Il Regno dal 1734 al 1799,
in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni,
Edizioni del Sole, Roma 1986, pp. 373-467, e la sintesi di a. M. Rao, Il
riformismo borbonico a Napoli, in Storia della società italiana, vol. 12, Il
secolo dei lumi e delle riforme, Teti, Milano 1989, pp. 215-290, e la
ricca bibliografia in essa contenuta. (5) Lo scritto, dedicato a Bartolomeo
Intieri e pubblicato assieme al Ragionamento sopra i mezzi più necessari per
far rifiorire l'agricoltura dell'abate Ubaldo Montelatici colla Relazione
dell'erba orobanche detta volgarmente succiamele e del modo di estirparla di
Pier-Antonio Micheli, uscì a Napoli nel 1753. (6) A. Genovesi, Lettere
accademiche su la questione se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati
(Napoli 1764), Lettera XI, in Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di
G. Savarese, Feltrinelli, Milano 1962, p. 497. (7) Per una valutazione
dell'influenza di Pietro Giannone sulla cultura napoletana del XVIII secolo
oltre al lavoro sempre valido di L. Marini, Pietro Giannone e il giannonismo a
Napoli nel Settecento. Lo svolgimento della coscienza politica del ceto
intellettuale del regno, Laterza, Bari 1950, cfr. G. Ricuperati, L'esperienza
civile e religiosa di Pietro Giannone, Ricciardi, Milano-Napoli 1970; Pietro
Giannone e il suo tempo, a cura di R. Ajello, Jovene, Napoli 1980, 2 voll., sp.
il contributo di E. Chiosi, La tradizione giannoniana nella seconda metà del
Settecento, vol. II, pp. 744-780. (8) Sulla posizione di Genovesi nei
confronti dell'autorità temporale e dottrinale della Chiesa, cfr. E. Pii,
Antonio Genovesi. Dalla politica economica alla «politica civile», Olschki,
Firenze 1984, p. 158 sgg.; G. Galasso, La filosofia in soccorso de' governi. La
cultura napoletana del Settecento, Guida, Napoli 1989, p. 383 sgg. (9) Le
due Memorie, dal titolo Intorno a' dritti sovrani di Napoli sulla città di
Benevento e Saggio istorico delle ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città
d'Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca, furono commissionate a Delfico
dall'avvocato della Corona Ferdinando De Leon. Della prima, tuttora inedita,
esiste una copia autografa presso l'Archivio di Stato di Teramo, «Fondo
Delfico», b. 16, fasc. 178, dal titolo Del territorio beneventano. La seconda,
invece, fu pubblicata la prima volta su «La Rivista abruzzese di scienze e
lettere» nel 1890 (a. V, fasc. I, pp. 22-30; fasc. III-IV, pp. 142-168; fasc. V-VI,
pp. 248-261; fasc. VII, pp. 305-322 e fasc. VIII, pp. 358-365), preceduta dalle
Notizie di L. Volpicella sulle vicende del manoscritto. Il Saggio istorico è
stato riedito nelle Opere complete, vol. III, Fabbri, Teramo 1903, pp. 9-80. La
raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti delficini (alcuni dei quali
pubblicati successivamente, altri ancora inediti), esce a Teramo dal 1901 al
1904, in quattro volumi, a cura di G. Pannella e L. Savorini. (10) M.
Delfico, Del territorio beneventano, cit., p. 17. (11) F. Venturi,
Introduzione ai Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi italiani,
Ricciardi, Milano-Napoli 1962, p. XVI. (12) G. De Filippis-Delfico, Della
vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 11. (13) M. Delfico,
Memoria autobiografica, inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di
Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Misc. 3, n. 846. (14) M. Delfico,
Saggio filosofico sul matrimonio, in Opere complete, cit., vol.
III, p. 126. (15) A. Garosci, San Marino. Mito e storiografia tra i
libertini e il Carducci, Edizioni di Comunità, Milano 1967, p. 167. (16)
Lettera di Delfico a Luigi Dragonetti del 10 luglio 1826, in Spigolature nel
carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, a cura del
marchese G. Dragonetti suo figlio, Uffizio della Rassegna Nazionale, Firenze
1886, p. 122. La lettera è stata riedita nelle Opere complete, cit., vol. IV,
p. 54. (17) M. Delfico, Indizi di morale, in Opere complete, cit., vol.
I, p. 36. (18) Sull'ambiguità concettuale di tale espressione cfr. M.
Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato, La Nuova Italia,
Firenze 1986, pp. 1-24; L. Guerci, L'Europa del Settecento. Permanenze e
mutamenti, Utet, Torino 1988, pp. 501-508. (19) M. Delfico, Indizi di
morale, cit., pp. 48-49. (20) Ivi, p. 47. (21) Per una
ricostruzione dell'intera vicenda rinvio a V. Clemente, Rinascenza teramana e
riformismo napoletano (1777-1798). L'attività di Melchiorre Delfico presso il
Consiglio delle Finanze, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1981, pp.
71-85. (22) L'espressione è ricorrente nella Relazione di Mons. Luigi
Pirelli alla Sacra Congregazione del Concilio del 14 febbraio 1778, in V.
Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 86-99.
(23) Cfr. M. Delfico, Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, in
Opere complete, cit., vol. III, pp. 164-165. (24) F. Venturi, Nota
introduttiva (a M. Delfico), in Riformatori napoletani, cit., p. 1168.
(25) Favorevole nel 1783 ad un più moderno sviluppo dell'attività risiera per
una ripresa economica della sua provincia, Delfico assumerà alcuni anni più
tardi un atteggiamento decisamente contrario alla risicoltura. Su tale
mutamento, cfr. V. Clemente, Cronache della defeudalizzazione in provincia di
Teramo: le risaie atriane (1734-1831), in «Itinerari», a. XXIV (1985), n.
1-2-3, pp. 21-154. (26) M. Delfico, Elogio del marchese D.
Francescantonio Grimaldi, presso Vincenzo Orsino, Napoli 1784, in Opere
complete, cit., vol. III, pp. 222-260. (27) Delfico ammira soprattutto la
Vita di Ansaldo Grimaldi (Napoli 1769), poiché in essa l'Autore era riuscito a
saldare la vicenda dell'uomo di Stato genovese con la storia politica dello
Stato stesso e a far vedere come la mancanza di costituzioni e di leggi
fondamentali tenesse lo Stato «in continua rivoluzione» (Elogio del marchese D.
Francescantonio Grimaldi, cit., p. 235). (28) M. Delfico, Elogio del
marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 245. (29) J.-J. Rousseau,
Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes
(1754), in Oeuvres complètes, vol. III, Gallimard, Paris 1964, p.
193. (30) M. Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi,
cit., p. 253. (31) Su tale associazione, fondata il 1° maggio 1776 ad
Ingolstadt da Adam Weishaupt, cfr. C. Francovich, Gli Illuminati di Baviera, in
Storia della massoneria in Italia dalle origini alla rivoluzione francese, La
Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 309-334. (32) Alcune lettere sono state
pubblicate nel quarto volume delle Opere complete di Delfico, cit., pp.
154-162; altre sono apparse nel primo volume di Aus dem Briefwechsel Friedrich
Münters. Europäische Beziehungen eines dänischen Gelehrten 1780-1830,
herausgegeben von Ø. Andreasen, Erster Teil, P. Haasse, Kopenhagen-Leipzig 1944,
pp. 215-220. Due di queste ultime sono state riprodotte in appendice al libro
di A. Di Nardo, Storia e scienza in Melchiorre Delfico. (Studi e ricerche),
Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di Lettere e
Filosofia, Chieti 1978, pp. 154-155 e 157-160, il quale ha pubblicato altre
lettere di Delfico a Münter, assieme ad alcune lettere di Delfico alla sorella
del Danese Federica Brun (ivi, pp. 140-166). Altre, ancora inedite, sono
conservate presso la Biblioteca Provinciale di Teramo. (33) M. Delfico,
Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie
confinanti del Regno, Porcelli, Napoli 1785, ora in Opere complete, cit., vol.
III, pp. 265-323. (34) G. Solari, Studi su Francesco Mario Pagano, a cura
di L. Firpo, Giappichelli, Torino 1963, p. 201. Sullo stesso piano l'Autore
pone l'altro scritto di Delfico, Memoria sulla libertà del commercio, e l'opera
sull'Annona di Domenico Di Gennaro, duca di Cantalupo, pubblicata anonima a
Palermo nel 1783. (35) M. Delfico, Memoria sul Tribunal della Grascia,
cit., p. 279. (36) M. Delfico, Discorso sul Tavoliere di Puglia e su la
necessità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna
temporanea riforma, Napoli 1788, ora in Opere complete, cit., vol. III, pp.
359-396. (37) M. Delfico, Discorso sul Tavoliere di Puglia, cit., p.
370. (38) Il testo è stato pubblicato da L. Tossini, Una lettera inedita
di Melchiorre Delfico a Michele Torcia, in «Nord e Sud», a. XXIV (1977), terza
serie, n. 31-32, pp. 191-199. La lettera è datata Teramo, 7 ottobre 1784.
(39) Scritta tra il 1789 e il 1790, su invito dell'Accademia di Padova agli
scrittori italiani di occuparsi del problema della libertà di commercio, la
Memoria fu stampata la prima volta nel 1805 a Milano, presso Destefanis, nel t.
XXXIX della raccolta Scrittori classici italiani di economia politica, a cura
di P. Custodi. L'opuscolo è stato recentemente riedito (De Petris, Teramo 1985)
con un'introduzione di M. Finoia. Sul problema Delfico tornerà alcuni anni dopo
con il Ragionamento su le carestie, in cui apporta alcune «modificazioni e
moderazioni» al principio della libertà assoluta e illimitata di commercio,
auspicando nel mercato l'intervento diretto dello Stato, cui riconosce il
compito di prevenire il «terribile flagello» delle carestie e di altri simili
avvenimenti. Il testo, letto il 1° dicembre 1818 nella Reale Accademia delle
Scienze di Napoli e pubblicato nel 1825 negli Atti dell'Accademia stessa (vol.
II, parte I, pp. 3-43), è stato riedito a Teramo nel 1985 assieme alla Memoria
sulla libertà del commercio. (40) Se, dopo varie insistenze, all'inizio
del 1788 ottiene, come aveva richiesto due anni prima nella Memoria per il
ristabilimento del Tribunale Collegiato nella Provincia di Teramo (in V.
Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 255-257), il
ripristino a Teramo di detto Tribunale, in luogo dei magistrati unici, più
agevolmente portati all'abuso del potere, non altrettanta fortuna incontreranno
invece le sue richieste sia di abolizione della servitù degli Stucchi, del
1786, sia di istituzione di una Università degli Studi a Teramo ad indirizzo
«fisico» ed orientamento laico, avanzata agli inizi di maggio del 1788. Sugli
sviluppi delle iniziative delficine si vedano R. Di Antonio, Stucchi e
Doganelle nel teramano, Libera Università Abruzzese degli Studi «G.
D'Annunzio», Facoltà di Scienze Politiche, Teramo 1978, pp. 7-24, la quale
pubblica in appendice la Memoria sugli Stucchi e le Memorie su di un nuovo sistema
per le Doganelle, e G. Carletti, Introduzione a M. Delfico, Una «piccola»
Università a Teramo, Quaderni dell'Università di Teramo, Teramo 1999, n. 6, pp.
3-7. (41) La Memoria è pubblicata in appendice al volume di a. M. Rao,
L'«amaro della feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a
Napoli alla fine del '700, Guida, Napoli 1984, pp. 349-367. (42) M.
Delfico, Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri, cit., p.
354. (43) Memoria delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita, conservata
presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Ined.,
n. 402. (44) In Lombardia Delfico si trattenne fino al mese di giugno del
1789 per poi trasferirsi prima a Verona, dove rimase due mesi, e in seguito a
Vicenza, Padova, Venezia e Ferrara, finché nel novembre del 1789 rientrò in
patria. Su questo viaggio e sui legami di amicizia che ebbe modo di stringere e
di rinsaldare, cfr. G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di
Melchiorre Delfico, cit., p. 25 sgg. (45) Ora in Opere complete, cit.,
vol. III, pp. 403-431. (46) L'opera, che provocò subito «molto chiasso»,
sia per le reazioni della classe togata, sia per gli elogi che ricevette da più
parti, fu pubblicata a Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli, nel 1791 e fu
ristampata a Firenze nel 1796 e una terza volta di nuovo a Napoli nel
1815. (47) C. Ghisalberti, La giurisprudenza romana nel pensiero di
Melchiorre Delfico, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», a. VIII
(1954), vol. VII, parte II, p. 432. (48) M. Delfico, Ricerche sul
vero carattere della giurisprudenza romana, in Opere complete, cit., vol. I,
pp. 225 e 105. (49) Troiano Odazi (1741-94), nativo di Atri, in provincia
di Teramo, fu tra i maggiori economisti napoletani della seconda metà del
Settecento. Allievo del Genovesi, nel 1768 ne curò l'edizione milanese Delle
lezioni di commercio o sia d'economia civile. Nominato nel 1779 professore di
Etica nel Reale convitto della Nunziatella, nell'ottobre del 1781 fu chiamato a
ricoprire la cattedra di Economia e Commercio che era stata del Genovesi e
rimasta vacante per diversi anni. Esponente della massoneria napoletana, fu
coinvolto nel fatti del '94. Arrestato, morì suicida nelle carceri della
Vicaria il 20 aprile di quell'anno. Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. Beltrani,
Don Trojano Odazi. La prima vittima del processo politico del 1794 in Napoli,
in «Archivio storico per le province napoletane», a. XXI (1896), fasc. I, pp.
853-867. (50) B. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, Laterza, Bari
19264, p. 24. (51) Sulle tappe di questo viaggio, cfr. G. De
Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., pp.
38-46. (52) Si veda la lettera di Delfico a Fortis del 9 gennaio 1797 da
Teramo, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico,
in «Rassegna della letteratura italiana», a. 87 (1983), serie VIII, n. 3, p.
419. (53) L'ipotesi di una partecipazione al concorso origina da De
Filippis-Delfico, il quale riporta tra le opere delficine «non-terminate» (cfr.
Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 122), un opuscolo di
26 pagine privo di intestazione e da lui intitolato Sul quesito: Quale sia il
miglior de' governi per l'Italia?, anche se poi nessuna notizia, sia in merito
a questo testo sia relativa al concorso, fornisce nella ricostruzione
biografica dell'Autore. Su questo aspetto si veda G. Carletti, A proposito di
un'anonima dissertazione. Note sulla presunta partecipazione di Melchiorre
Delfico al concorso del 1796, in «Trimestre», a. XXXII (1999), n. 3-4, in corso
di pubblicazione. (54) Sono del 1797 le delficine Memoria per la Decima
imposta al Regno; Memoria intorno a' danni sofferti nella provincia di Teramo
dalla cattiva monetazione dello Stato pontificio, e de' mezzi opportuni da
ripararli ed infine Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale per
rapporto al commercio delle provincie confinanti del Regno, ancora tutte
inedite. (55) Lettera di Delfico a Fortis del 7 novembre 1793, in M.G.
Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit., pp.
415-416. Il vescovo a cui allude è Luigi Maria Pirelli (1740-1820), nobile di
Ariano, religioso dell'Ordine dei Regolari teatini, vescovo di Teramo dal 1777
al 1804 e sin dal suo arrivo avverso alla famiglia Delfico. Nella Relazione
risponsiva alle accuse, del 18 dicembre 1793 (pubblicata da L. Tossini,
Autodifesa di un illuminista, in «Archivio storico per le province napoletane»,
terza serie, a. XVI (1977), pp. 86-97), egli era costretto a difendere la propria
reputazione dinanzi al Supremo Consiglio a causa di «vaghe» e «calunniose
imputazioni» di qualche delatore. La denuncia del '93, pur non avendo gravi
conseguenze, riuscì tuttavia ad impedire che Delfico succedesse al fratello
nella presidenza della Società Patriottica di Teramo. Nel 1794 una nuova
denuncia anonima era stata all'origine del rifiuto del Supremo Consiglio di
accogliere la richiesta del Teramano del titolo di conte. Non avrebbe ottenuto
il titolo neppure in seguito, ma con decreto del 25 marzo 1815 Gioacchino Murat
gli avrebbe conferito quello di barone. (56) Il pretesto è fornito da
alcune lettere «rivoluzionarie» sequestrate ad una loro domestica, da poco
licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli Piceno. Interrogata, la donna avrebbe
affermato di averle ricevute da Alessio Tullj e da Eugenio Michitelli, entrambi
frequentatori di casa Delfico. Si veda in proposito la Memoria della
persecuzione subita dalla famiglia Delfico nel 1799, scritta presumibilmente da
Giamberardino Delfico «allo scopo - è precisato in un'annotazione - di ottenere
il dissequestro dei propri beni», dopo che, condannato dai Regi inquisitori nel
processo contro «i rei di Stato» e trasferito nell'agosto del 1800 nei castelli
di Puglia, era stato liberato in seguito all'indulto generale del 1° maggio
1801. Il testo è stato pubblicato da V. Clemente su «Storia e civiltà», a. IV
(1988), n. 4, pp. 368-385 e a. V (1989), n. 1-2, pp. 39-56. L'episodio che
portò all'arresto dei Delfico è a p. 375 sgg. (57) I Francesi, al comando
del generale Rusca, erano entrati in Abruzzo il 6 dicembre 1798. L'11 dicembre
in 1500 arrivarono a Teramo. Messe in fuga dai rivoltosi, le truppe francesi
riconquisteranno la città il 23 dicembre, per poi occupare Pescara, Sulmona e
Penne il 24 e Chieti il 25. Per una ricostruzione di queste vicende,
fondamentale resta l'opera di L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli
Abruzzi, voll. I e II, Vecchioni, L'Aquila 1928, voll. III e IV, Tip. Consorzio
Nazionale, Roma 1939. Sull'arrivo e sulla permanenza dei Francesi a Teramo cfr.
anche le tre cronache del periodo rivoluzionario, A. De Jacobis, Cronaca degli
avvenimenti in Teramo ed altri luoghi d'Abruzzo 1777-1822 (in L. Coppa-Zuccari,
L'invasione francese negli Abruzzi, cit., vol. III, pp. 38-440); G. Tullj,
Minuta relazione dei fatti sanguinosi seguiti in Teramo dall'anno 1798 al 1814,
con postille e con la continuazione del canonico Niccola Palma (pubblicata da
V. Clemente col titolo Una cronaca inedita teramana (1798-1814), in «Storia e
Civiltà», a. IX (1993), n. 3-4, pp. 269-285; a. X (1994), n. 1-2, pp. 93-116 e
n. 3-4, pp. 148-172; a. XI (1995), n. 1-2, pp. 94-118 e n. 3-4, pp. 175-196; a.
XII (1996), n. 1-2, pp. 58-86 e n. 3-4, pp. 171- 195); C. Januarii, Avvenimenti
seguiti nel Teramano dal 1798 al 1809, Teramo 1999. (58) Il Consiglio, di
cui fecero parte, oltre a Delfico, i lancianesi Carlo Filippo De Berardinis e
Antonio Madonna, entrò in funzione subito dopo e svolse la sua attività non
oltre la fuga del suo presidente da Pescara avvenuta il 28 aprile successivo.
Cfr., in proposito, M. Battaglini, Abruzzo 1798-1799. Una repubblica giacobina,
in «Rassegna storica del Risorgimento», a. LXXV (1988), fasc. I, pp. 11-12, ora
in La Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma 1992,
pp. 188-189. Sull'esperienza pescarese di Delfico, cfr. anche F.
Masciangioli, Melchiorre Delfico e Pescara. Per una storia del rapporto tra
intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo, in «Trimestre», a. XX (1987),
n. 1-2, pp. 41-69. (59) Sullo spirito di moderazione di Delfico,
interessato a trovare una mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze
reazionarie, cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e
riflessione teorica di un moderato meridionale, ETS, Pisa 1996, p. 135 sgg.
(60) Cfr. G. Galasso, I giacobini meridionali, in «Rivista storica italiana», a
XCVI (1984), fasc. I, p. 78 sgg., ora in La filosofia in soccorso de' governi,
cit., p. 519 sgg. (61) Il testo è stato pubblicato da R. Persiani,
Alcuni ricordi politici nella massima parte abruzzesi al cadere del XVIII e
principio del XIX secolo con documenti e note, in «Rivista abruzzese di
scienze, lettere ed arti», a. XVII (1902), fasc. VII-VIII, pp. 435-439.
Senz'altro meno importante è l'altro atto a firma di Melchiorre Delfico,
Proclama sulla sicurezza pubblica del 15 ventoso anno VII (5 marzo 1799), con
il quale venivano fissate alcune disposizioni per combattere il vagabondaggio.
(Ivi, pp. 441-442). I due testi sono stati recentemente riediti assieme ad
altri scritti delficini da G. Carletti, La «Pescara» di Melchiorre Delfico,
Edizioni Tracce, Pescara 1999, pp. 51-55 e 57-58. (62) Cfr. la lettera di
Delfico al Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7 Rep. (27
marzo 1799), in Il Monitore Napoletano 1799, a cura di M. Battaglini, Guida,
Napoli 1974, pp. 695-696. Sulle insorgenze nella regione, cfr. R. Colapietra,
Le insorgenze di massa nell'Abruzzo in età moderna, in «Storia e politica», a.
XX (1981), fasc. 1, pp. 1-46, e il più recente volume Per una rilettura
socio-antropologica dell'Abruzzo giacobino e sanfedista, Edizioni Città del
Sole, Napoli 1995. (63) Per il testo cfr. G. Carletti, Melchiorre
Delfico, cit., pp. 138-139. (64) Sulla permanenza del Teramano nella
Repubblica sammarinese, cfr. F. Balsimelli, Melchiorre Delfico e la Repubblica
di San Marino, Arti Grafiche Della Balda, San Marino 1935. (65) Cfr. V.
Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, II ed. con
aggiunte dell'Autore, Dalla Tipografia di Francesco Sonzogno, Milano 1806, p.
96 sgg. (66) Si veda l'ormai nota Prefazione alle Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino (Milano 1804), in Opere complete, cit., vol. I, pp.
249-250. (67) Ivi, p. 472. (68) Ibidem. (69) Ivi, p.
250. (70) Il libro, il cui titolo originale era Esame della Storia, e dei
suoi vantati pregi, vide la luce due anni dopo che Delfico l'aveva consegnato
alla stamperia Roveri e Casali. La seconda e la terza edizione uscirono a
Napoli nel 1809 e nel 1814. (71) M. Delfico, Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino, cit., p. 249. (72) Ivi, p. 246. (73) Cfr.
M. Agrimi, La vicenda rivoluzionaria e le riflessioni sulla storia: Melchiorre
Delfico, in «Itinerari», a. XXIII (1984), n. 3, p. 94. (74) Cfr. G.
Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, Edizioni della «Critica», Napoli 1903, p. 46
sgg., il quale afferma che nessuno prima di allora aveva negato la storia nel
modo assoluto del Teramano. Un estremo radicalismo nell'«antistoricismo»
delficino è stato rilevato anche da B. Croce, La storiografia in Italia dai
cominciamenti del secolo decimonono ai giorni nostri: 1. Il «secolo della
storia» e 2. Il nuovo pensiero storiografico, in «La Critica», a.
XIII (1915), rispettivamente fasc. I, pp. 16-18 e fasc. II, p. 95, poi
rielaborati nel volume Storia della storiografia italiana nel secolo
decimonono, Laterza, Bari 1921, e da G. De Ruggiero, Il pensiero politico
meridionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza, Bari 1921, pp. 158-165.
(75) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità
della medesima, in Opere complete, cit., vol. II, p. 11. (76) Il
titolo per esteso dell'opera è Leçons d'histoire, prononcées à l'École Normale
en l'an III de la République française, par C.-F. Volney, chez J.A. Brosson,
Paris an VIII. (77) Sull'affinità di vedute dei due autori, cfr. C.
Rosso, De Volney à Melchiorre Delfico: l'histoire, une discipline aussi inutile
que dangereuse, in L'héritage des lumières: Volney et les idéologues, Presses
de l'Université, Angers 1988, pp. 345-356. (78) M. Delfico,
Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p.
43. (79) Ora in Opere complete, cit., vol. II, pp. 307-325. (80) M.
Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima,
cit., p. 174. (81) Porcelli, Napoli 1781, Epoca I, pp. 329-338. Grimaldi
si era rivolto all'amico teramano per avere notizie sull'esistenza nella
Marsica moderna di antiche costumanze di carattere ofidico e su eventuali
relazioni tra queste e i rituali moderni. La Lettera delficina venne ricordata
alle pp. 18-21 della recensione al volume di Grimaldi apparsa nel fascicolo del
febbraio 1784 del «Nuovo Giornale enciclopedico» per mano, molto probabilmente,
del suo principale estensore Alberto Fortis. (82) Per un esame critico del
testo, riprodotto in appendice, cfr. G. Profeta, Una ignorata dissertazione di
Melchiorre Delfico sugli incantatori di serpenti, in «Lares», a. XLV (1979), n.
1, pp. 5-53, ora anche nel volume Lupari incantatori di serpenti e santi
guaritori nella tradizione popolare abruzzese, Japadre, L'Aquila-Roma 1995, pp.
79-138. (83) Lo scritto, ideato e posto come prefazione alle ancora
inedite Favole morali di Alessio Tullj, è stato pubblicato da A. Marino, in
«Aprutium», a. IV (1986), n. 3, pp. 32-48. (84) M. Delfico, Discorso
sulle favole esopiane, cit., pp. 39-40. (85) Lettera di Delfico a Teresa
Onofri del 21 marzo 1806, in F. Balsimelli, Epistolario di Melchiorre Delfico.
Lettere sammarinesi, Arti grafiche Della Balda, San Marino 1934, p.
53. (86) Sull'attività del Teramano nell'amministrazione francese, cfr.
G. Palmieri, Melchiorre Delfico e il decennio francese (1806-1815), Edizioni
del Gallo Cedrone, L'Aquila 1986, il quale riproduce in appendice alcuni
scritti delficini del periodo; R. Feola, La monarchia amministrativa. Il
sistema del contenzioso nelle Sicilie, Jovene, Napoli 1985, pp. 125-135.
(87) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 471-497. (88) Ora
in Opere complete, cit., vol. III, rispettivamente pp. 501-528 e pp. 531-550.
(89) Ripubblicate nelle Opere complete, cit., vol. II, pp. 187-294, le Nuove
ricerche sul Bello sono state recentemente riedite a cura di A. Marroni,
Ediars, Pescara 1999. (90) Per un quadro d'insieme dell'attività
amministrativa e dell'opera legislativa dei Napoleonidi nel Regno napoletano,
oltre al volume, notevolmente arricchito e ampliato rispetto alla prima
edizione del 1941, di A. Valente, Gioacchino Murat e l'Italia meridionale,
Einaudi, Torino 1976, pp. 231-332, cfr. P. Villani, Il decennio francese, in
Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni,
cit., pp. 575-639. Spunti critici anche in Studi sul Regno di Napoli nel
decennio francese (1806-1815), a cura di A. Lepre, Liguori, Napoli 1985.
(91) Rimasto inedito, il testo finale è tuttora irreperito ma di esso si
conservano due stesure pubblicate da A. Marino, Scritti inediti di Melchiorre
Delfico, Solfanelli, Chieti 1986, rispettivamente pp. 19-42 e 59-79. (92)
M. Delfico, Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino,
cit., p. 20. (93) Ivi, p. 67. (94) Cfr. ivi, pp. 29 e 70.
(95) Cfr. N. Machiavelli, Istorie fiorentine, in Opere di Niccolò Machiavelli
Cittadino e Segretario fiorentino, Italia 1813, vol. I, lib. II, cap.
XII, p. 79. (96) Cfr. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca
di Tito Livio, in Opere, cit., vol. III, lib. I, cap. LV, p. 159. (97)
Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 567-588. (98) L'opera,
notevolmente ampliata, fu ristampata a Napoli nel 1826, per i tipi di Angelo
Trani, col titolo Dell'antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con
alcuni opuscoli su le origini italiche, ora in Opere complete, cit., vol. II,
pp. 299-505. (99) Pubblicati nelle Opere complete, vol. IV, pp. 293-305 e
vol. III, pp. 631-644, i due testi sono stati riediti da G. Carletti, La
«Pescara» di Melchiorre Delfico, cit., rispettivamente pp. 23-36 e pp.
37-50. (100) M. Delfico, Breve cenno, cit., p. 37. (101) M.
Delfico, Fiera franca in Pescara, cit., p. 32. (102) M. Delfico, Breve
cenno, cit., p. 38. (103) Cfr. ivi, pp. 47-49. (104) Ora, tradotto,
in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 325-333, col titolo Rapporto sull'Italia
inviato a Napoleone e attribuito a M. Delfico. (105) M. Delfico, Della
preferenza de' sessi. Lettera all'ornatissima signora contessa Chiara
Mucciarelli Simonetti del 12 marzo 1827, pubblicata a Siena nel 1829 ed ora in
Opere complete, cit., vol. IV, pp. 31-45. (106) Cfr. la lettera di
Delfico a Dragonetti dell'8 marzo 1834, in Spigolature nel carteggio letterario
e politico del march. Luigi Dragonetti, cit., p. 156. (107) Cfr. G.
Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, cit., pp. 18-87. (108) Per un quadro
d'insieme di queste esperienze, cfr. il volume di D. Carpanetto - G.
Ricuperati, L'Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, lumi, Laterza,
Roma-Bari 1993, e la ricca bibliografia in esso contenuta. (109) Per una
ricognizione degli studi delficini, cfr. G. Carletti, Recuperi, oblii e
prospettive. Per una storia critica della storiografia delficina, in
«Trimestre», a. XX (1987), n. 1-2, pp. 5-40. Il cavaliere Commendatore
Melchiorre dei Marchesi Deflico. Melchiorre III Delfico de Civitella.
Melchiorre Delfico. Civitella. Keywords: giurisprudenza romana, sul bello,
estetico, sensus, il vero carattere della giurisprudenza romana, suoi cultore, benevolanza conversazionale, giustizia
conversazionale, il principio di sensibilita imitativa, l’estetico,
l’imitazione della natura, l’espressione. La storia romana, incertezza e
unitilita – la giurisprudenza romana fino alla caduta della repubblica,
aristocrazia versus benevolenza, benevolenza conversazionale tra iguali. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Civitella” – The Swimming-Pool Library.
COCO (Umbriaco).
Filosofo. Grice: “Typically, while in the Italian North, Conte can play with
words, in the Italian South, Coco must work for the workers! Is conversation a
work? I think so – lavoro – In the ‘codice civile’ or rather the ‘codice’ of
the civil laws – there is a section on ‘lavoro’, and a title on ‘co-operativa’,
short for ‘cooperative society’ – This is all due to Coco – It sounds slightly
fascist, and he did write a little tract with ‘fascist’ in the subtitle! – Coco
is a performativist, so he understands that ius must ‘constitute’ and define:
so he goes on to analyse what I’ve been analysing too – what is to cooperate –
in a common task or ‘lavoro’ – what is ‘mutuality’ – what are the requirements
for mutuality, and so on – It’s not as legalese and boring as it sounds! And it
provides a framework for my pragmatics – since a lawyer, and especially a
Griceian one, can be VERY SMART! Coco is!” --
Dal punto di vista sistematico molto vicino alla visione del grundnorm,
teoria da Kelsen. Si laurea a Napoli. Sostituto
procuratore del Re a Cassino. La Regia Procura di Roma. Procuratore Generale
presso la Corte d'appello di Roma. Fondatore dell'Ufficio del Massimario.
Insegna a Roma. Noto soprattutto per aver partecipato ai lavori di stesura del
nuovo codice civile italiano nonché del codice di procedura civile, entrambi
entrati in vigore nel 1942. Si occupa prevalentemente della stesura di leggi in
materia del contratto, obbligazione, e diritto del lavoro. Altre opere: “Gli
eclettismi contemporanei e le lezioni di filosofia del diritto” (Lagonegro, M.
Tancredi & Figli); “La filosofia del diritto”; “Una quistione di diritto transitorio
in tema di farmacie” (Milano, Società Editrice Libraria); “Sull'ultimo
capoverso dell'art. 375 del codice penale” (Milano, Società Editrice Libraria);
“Luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra” (Cassino, Soc. Tip. Ed.
Meridionale); “Per la tradizione giuridica italiana” (Milano, Società Editrice
Libraria); “Saggio filosofico sulla corporazione fascista” (Roma, Edizioni del
diritto del lavoro); “Sulla costituzione di parte civile delle associazioni
sindacali” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Corso di diritto inter-nazionale
(recensita da Santi Romano, seconda edizione riveduta ed ampliata, Padova,
CEDAM); “Intorno alla pre-giudiziale penale nel giudizio del lavoro” (Roma,
U.S.I.L.A.); “Raffaele Garofalo” (Napoli, SIEM); “Il contratto collettivo di lavoro
e la impresa cooperativa” (Roma); “Una inchiesta sulla criminalità” (Napoli,
SIEM). Annuario Camera dei fasci e delle corporazioni. Rivista penale. Rassegna
di dottrina, legislazione, giurisprudenza, Roma, Libreria del Littorio, Rivista
di diritto pubblico. La giustizia amministrativa, Roma, Società per la Rivista di diritto
pubblico e la Giustizia amministrativa, Una vita per il Diritto Giusto, La
giustizia penale. Rivista critica settimanale di giurisprudenza, dottrina e
legislazione, Società editoriale del periodico La giustizia penale, Tale
trasferimento avvenne per via di un suggerimento pervenutogli al Re dagli
allora procuratori presso la Corte d'appello di Napoli Salvatore Pagliano e
Giacomo Calabria. La giustizia
tributaria. Dottrina, giurisprudenza, legislazione, Città di Castello, Società
tipografica Leonardo da Vinci. Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, Cfr.
Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, La scuola positiva. Rivista di diritto e
procedura penale, Milano, Vallardi. Iniziò la sua
carriera a 24 anni e nel 1906 fu nominato pretore di Lagonegro. Quattro anni
dopo divenne pretore di Moliterno, per assumere in seguito le funzioni di
sostituto procuratore a Cassino. Venne trasferito a Roma presso la Procura.
Oltre vent’anni dopo, fu Presidente di sezione della Corte Suprema di
Cassazione, oltre che Professore di Filosofia del diritto. Dotato di una
solidissima dottrina e di un rigorosissimo lavoro applicativo, partecipa ai lavori per la stesura del nuovo
Codice Civile e del Codice di Procedura Civile. Cura vari aspetti dell’allora
nuova normativa: contratto, obbligazione, diritto del lavoro. Una delle sue
grandi doti fu quella di riuscire a non farsi condizionare dal regime
dell’epoca. Non accetta la candidatura in Parlamento offertagli dai suoi
conterranei della Calabria. “Una Vita per il diritto giusto” si lascia
leggere con piacere, in diversi passaggi si incontreranno i tratti che lo hanno
contraddistinto come uomo, come magistrato e giurista, troveremo,
inoltre, la sua attività di ricerca e di elaborazione teoretica, il tutto in un
arco temporale di oltre quarant’anni. Sotto il profilo sistematico si accosta
alla visione di Kelsen per quanto riguarda l’ordinamento e le codificazioni,
nonché, proprio per la ricerca e per l’identificazione di una grande norma
fondamentale (grundnorm). Dal punto di vista epistemologico, rappresenta la
condanna dell’ideologia e della prassi delle scomposizioni in una galassia di
frammenti superficialistici. Lo sguardo al pensiero Coco ci consente anche di
sottolineare la sua analisi critica, egli non si ferma alla semplice
stigmatizzazione della responsabilità oggettiva nei confronti del singolo.
Prende spunto da queste aberrazioni per sottolineare come all’accanimento
contro la condotta individuale della persona fisica non corrispondesse eguale
severità verso gli atti illeciti e dannosi della pubblica amministrazione.
Proprio negli anni ‘30 scrisse “la responsabilità della pubblica
amministrazione”. -- è stato anche filosofo e storico al tempo stesso.
Un’uomo molto impegnato nel suo lavoro che ci sembra doveroso ricordare. Dal
padre, persona di cultura, ricevette i primi rudimenti di
storia, letteratura, e filosofia, che si ritroveranno, successivamente, in
taluni suoi saggi filosofici su Aquino. Iniziò la carriera giudiziaria a soli ventiquattro
anni e ottenne la nomina a Pretore di Lagonegro. Divenne Pretore di
Moliterno, per assumere successivamente le funzioni di Sostituto Procuratore del
Re a Cassino. Trasferito a Roma , presso quella Regia Procura , col viatico di
rapporti oltremodo favorevoli e lusinghieri dei Procuratori Generali
Pagliano e Calabria della Corte d’Appello di Napoli, dove
vi permarrà per passare alla Procura Generale presso la Corte d’Appello.
Ottenne la nomina a Procuratore Generale del Re presso la Corte d’Appello
di Cagliari, ma non ne assumerà di fatto la titolarità. Chiamato, invece, a
presiedere il Tribunale Supremo delle Acque, era Presidente di Sezione della
Corte Suprema di Cassazione. Il giornale “Il Tribunale”,
pubblicazione mensile edita a Roma, lo saluta a tale nomina. È della
nostra famiglia, di quell’aristocratica famiglia giornalistica, alla quale non
disdegna di appartenere, nonostante l’altissimo grado che ricopre
nell’ordine giudiziario, oggi lieti di salutarlo, insieme con quello forense,
Presidente di Sezione della Suprema Corte. Noi lo abbiamo visto nella Corte di
Cassazione sin dagli anni ormai lontani della sua felice unificazione. E stato,
infatti, tra i fondatori e promotori di quell’Ufficio del Massimario che
raccoglie il vasto e prezioso materiale giurisprudenziale della Suprema
Corte. Non appena conseguita la promozione al grado IV°; ha ricoperto la carica
di Consigliere, partecipando attivamente alla funzione giudiziaria di così
eminente consesso. Ci asterremo, di proposito, da ogni aggettivazione che non
sarebbe di buon gusto né riuscirebbe gradita al nostro Amico e collaboratore;
non possiamo, peraltro, esimerci dal ricordare fra le benemerenze e il titolo di
Professore di Filosofia del Diritto nella Scuola di Perfezionamento di
Diritto Penale né l’altro, per noi particolarmente caro, di Redattore
Capo della Rivista di Diritto Pubblico. La recente nomina,
se indubbiamente costituisce un nuovo riconoscimento dei meriti di così
eletto Magistrato, rappresenta però un onere, che si aggiunge all’onore di così
ambita carica. Ma l’accoglierà di buon grado, assolvendo
anche dal nuovo seggio presidenziale le delicate funzioni giudiziarie,
alle quali porta il valido contributo della sua competenza, ma soprattutto
una grande serenità ed equanimità. Riguardo ai meriti illustrati
dall’articolo dell’epoca, c’è da dire che il suo cursus honorum non è stato
caratterizzato soltanto da solidissima dottrina e da rigorosissimo lavoro
applicativo, ma anche dalla partecipazione costante all’evoluzione dell’ordine
giudiziario, e tappa importante in tale attività, fu la Sua nomina a membro del
Consiglio Superiore della Magistratura, ossia dell’organo politico e
politico-amministrativo, anche se in base alla legislazione dell’epoca il
Consiglio Superiore della Magistratura non aveva ancora il potere e l’importanza
che la Costituzione e la successiva normativa di attuazione gli diedero.
Ancora, circa la indicata fondazione del Massimario civile della Corte di
Cassazione Unificata va detto che Lui effettivamente fu tra i principali
ideatori; era, quello, un periodo di grandi innovazioni, perchè all’atto
dell’Unità d’Italia, oltre alla Corte di Cassazione di Torino esistevano quella
di Firenze nonchè le due Corti Supreme di Giustizia di Napoli e di Palermo (che
assunsero anch’esse la denominazione di Corte di Cassazione). Con la legge, vennero
soppresse le Corti sopra indicate, mentre quella di Roma fu trasformata in
Corte di Cassazione del Regno. Fu titolare dell’insegnamento di Filosofia del
Diritto presso la Scuola di Perfezionamento in Diritto Penale dell’Università
di Roma “La Sapienza”. In questo ambito, svolse attività accademica per quel
periodo che vide la Scuola annoverare i più bei nomi della dottrina
penalistica italiana, le cui teorie risultano, ancora oggi, alla base della
trattatistica più importante. Altro aspetto rilevante della sua eccezionale
figura di giurista, come si rileva da un saggio del nipote dell’alto
Magistrato, che porta con orgoglio lo stesso nome, il Professore Nicola Coco,
dell’Università di Roma “La Sapienza”, è costituito dal coerente riferimento
alla legalità, cioè allo stato e all’ordinamento giuridico quali unica garanzia
di contratto sociale. Per questo, il periodo che va dal primo
dopoguerra all’ avvento del fascismo, costituisce una parentesi temporale di
efficace e prorompente elaborazione delle basi di quel diritto del lavoro
e sindacale, o “giuslavorismo”, costituendo davvero una novità assoluta
nelle scienze giuridiche del tempo. Così, quando si verificheranno gravissime
crisi socio0economiche che metteranno a rischio l’assetto della produzione, la
politica e i sindacati troveranno i loro punti d’incontro nel noto
Statuto del Lavoratori, una ri-edizione aggiornata delle linee guida
tracciate, agli inizi del “secolo breve”, dai primi “giuslavoristi”, tra i
quali appunto Coco. Altro aspetto qualificante del giurista è l’aver concorso
alla stesura del Codice Civile, ai cui lavori preparatori, dai Ministri Solmi e
Grandi (che è il sottoscrittore anche del Codice di Procedura Civile,
emanato anch’esso, furono chiamate le più belle e fertili menti di magistrati e
giuristi. Cura vari aspetti della normativa (il contratto, l’obbligazione,
diritto del lavoro), tant’è, che nell’imminenza della promulgazione, il
Ministro Dino Grandi gli inviò una lettera personale di ringraziamento per il
prezioso contributo offerto per il Codice. L’ultima parte della sua vita
coincide con l’immane conflitto mondiale, con la guerra
civile e con la scia di vendette e iniquità che ne conseguirono. Dopo la fuga
del Re e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, viene invitato ad
assumere la Presidenza della Corte di Cassazione trasferitasi a Brescia e
fors’anche la carica di Ministro Guardasigilli, ma egli fermamente rifiuta.
Ebbene, nonostante tale ferma presa di posizione nei confronti del regime
fascista, sulla base di taluni articoli che aveva scritto su “Il Messaggero”
di Pio Perrone, di commento a leggi e questioni giuridiche di alto livello,
ovviamente di epoca fascista, l’occhiuta Commissione di epurazione, su decine
di articoli scritti in una pluridecennale collaborazione, ne scova qualcuno
che suona come apologetico del Fascismo. Nulla di più falso, quando era nota a
tutti la dirittura morale del magistrato integerrimo, del quale va appena ricordato,
ammesso ve ne fosse bisogno, che la sorella del Duce, Edvige Mussolini, gli
fece pervenire sollecitazioni per una causa che la interessava. Ebbene, Coco
procedette secondo coscienza, quindi non nel modo auspicato dalla sorella del
Duce! L’epurazione ingiusta, nella quale probabilmente influirono anche
motivazioni non occulte di gelosia e invidia da parte di taluni, soprattutto
per il fatto che per meriti poteva benissimo aspirare alle funzioni di Primo
Presidente della Suprema Corte, ne mina rapidamente le condizioni di salute.
Negli ultimi mesi non volle proporre ricorso contro i provvedimenti che lo
avevano colpito e rifiuta cortesemente anche una candidatura in Parlamento,
per le elezioni, che i conterranei di Calabria gli avevano offerto con affetto
e riconoscenza. Spira serenamente, non mancando nel suo testamento di
perdonare cristianamente quanti gli avevano provocato tanto immeritato dolore.
Codice Civile. Del Lavoro. Delle societa cooperative e della mutue
assicuratrici, delle societa cooperative – disposizione generali – cooperative
a mutualita prevalente. Articoli: societa cooperative; societa cooperative a
mutualita prevalente, criterio per la definizione della prevalenza, requisiti
delle cooperative a mutualita prevalente.
Del Lavoro. Nicola Coco. Keywords: cooperativa, impresa
cooperativa, luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra,
giurisprudenza romana, giurisprudenza italiana, eccletismi, filosofia dell’atto,
corporazione, contratto e cooperazione, codice civile italiano, codice di
procedura civile italiano, la tradizione giuridica italiana, associazione,
sindaco, Kelsen, grundnorm, legalita, nipote: Nicola Coco, ordine giuridico,
unica garanzia del contratto sociale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Coco” –
The Swimming-Pool Library.
CODRONCHI – (Imola).
Filosofo. Grice: “One would underestimate Codronchi if it were not for the fact
that he wrote a smartest little tracts on the two ways I see conversation as:
‘game’ and ‘contract.’ In “Logic and conversation’ I do confess to having been
attracted for a while to a ‘quasi-contractualist’ approach to conversation alla
Grice (i. e., G. R. Grice) – and I’m not sure the reason I give there for
rejecting the view is valid, or strong enough! As for ‘games’ – of course
conversation is a game – but I never took that too seriously – perhaps because
Austin was obsessed with games and rules of games – and the subject was worn
out for me – when Hintikka came along all he did was talk about ‘dialogue
games’! – I do use ‘game’ terminology – and cf. ‘contract bridge!” – such as
‘conversational move,’ ‘converaational rule’ of the ‘conversational game’ – and
conversational ‘players’ – “Only this or that ‘move’ will be appropriate’, and
so on.” Appartenente alla nobiltà, dopo la laurea prosegue gli studi
approfondendo la filosofia spinto dal padre. In seguito entra alla corte del
regno di Napoli, prima con Ferdinando I e poi con Giuseppe Bonaparte, da cui
ottiene la nomina a consigliere di stato. Le sue saggi più celebri sono “Etica”
e “Il contratto”, in cui affronta con semplicità l'argomento del calcolo delle
probabilità. Distingue in tre classi di contratto. Contratto epistemico: C’e un
contratto nel quale è noto il rapporto tra eventi favorevoli e contrari.
Contratto empirico. C’e un secondo contrato nel quale il rapporto tra un evento
favoravole e un evento contrario è fondato sull'esperienza. Contratto misto
Finalmente, c’e un terzo tipo di contratto nel quale il rapporto tra un evento
favoravole e un evento contrario si basa su una legge sicura e in parte
sull'esperienza. For a time, I was attracted by the
idea that observance of the CP and the maxims, in a talk exchange, could be
thought of as a quasi-contractual matter, with parallels outside the realm of
discourse. If you pass by when I am struggling with my stranded car, I no doubt
have some degree of expectation that you will offer help, but once you join me
in tinkering under the hood, my expectations become stronger and take more specific
forms (in the absence of indications that you are merely an incompetent
meddler); and talk exchanges seemed to me to exhibit, characteristically,
certain features that jointly distinguish cooperative transactions: 1. The
participants have some common immediate aim, like getting a car mended; their
ultimate aims may, of course, be independent and even in conflict-each may want
to get the car mended in order to drive off, leaving the other stranded. In
characteristic talk exchanges, there is a common aim even if, as in an
over-the-wall chat, it is a second-order one, namely, that each party should,
for the time being, identify himself with the transitory conversational
interests of the other. 2. The contributions of the participants .should be
dovetailed, mutually dependent. 3. There is some sort of understanding (which
may be explicit but which is often tacit) that, otl1er things being equal, the
transaction should continue in appropriate style unless both parties are
agreeable that it should terminate. You do not just shove off or start doing
something else. SAGGIO FILOSOFICO SUI CONTRATTI E GIOCHI D'AZZARDO DEL
CAVALIERE NICCOLA CODRONCHI. Sor's incerta vagatur , Fertque refertque vices .
Lucan. FIRENZE PER GAETANO CAMBIAGI STAMPATOR GRAND. CON APPROVAZIONE. ALL’ALTEZZA
REALE DI PIETRO LEOPOLDO PRINCIPE REALE D'UNGHERIA E DI BOEMIA ARCIDUCA
D'AUSTRIA GRANDUCA DI TOSCANA &c. &c. & c. 1 NICCOLA CODRONCHI. Questa
operetta che sottopone il contratti d’azzardo o aleatorio all'esame della
filosofia per fissare, quant'è possibile i I dati onde non discordino dalla
giustizia, dovea bene essere umiliata, a VOI, che pieno del le verità della
prima, avete consacrati tanti pensieri ad assi curare, e stabilir la seconda;
onde può dirsi che il vostro trono è il punto più luminoso della loro unione,
che sola può formare la felicità degli stati. Posta questa mia fatica, se non è
degna dipresentarsi all'illuminatissima vostra mente, non dispiacere al vostro
cuore, che non sdegnerà di riconoscere in esta una significazione dei
sentimenti del mio, penetrato del la più viva gratitudine al vostro real
patrocinio, e alle copiose beneficenze, auspici sotto de’ quali è nata, e
condotta alla luce, e ai quali desidero con tutto lo spirito che sempre più
raccomandi l'autore. Non avvi forſe negli uomini un sentimento più costante e
universale del desiderio di arricchire. L'uomo tende incessantemente a
procacciarsi, ed assicurarsi i mezzi necessari a sostenere e a rendere
tranquilla e comoda la vita. La natura, che ha voluto che ciò concorra alla sua
felicità alla quale con tanta forza lo stimola, gli ha inserito di sua mano nel
petto questo vivissimo ardore; acciocchè se dalla propria industria riconosce
egli il sostentamento e gli agi della vita, riconosca però dalle provvide mani
di lei l'eccitamento e l'efficacia di questa industria medesima. Questa fiamma
sempre operosa accende talvolta un cuore angusto che non ha altro oggetto che
se medesimo, o un piccolo e ristretto sistema di persone. Talvolta pero trionfa
sovranamente in un animo generoso, a che stima di se minori tutte le mire che
non sian vaste e sublimi. Patria, nazione, pubblica felicità, interessi
dell’uman genere ecco i grandi oggetti, che egli ha sempre davanti; ed ecco
intorno a che si aggirano i lumi del politico pensatore; ecco ciò che forma le
vigilie dell’uom’di stato. Quindi è che sempre nuove vie si spianano al
commercio, nuovi mezzi si studiano per facilitarlo, nuovi metodi si ritrovano
per dilatarlo. Questo ardore medesimo ha fatto sì, che gli uomini vadano sempre
inventando un nuovo contratto, o ai ritrovati già prima diano nuove sempre e
più estese forme. Chi avrebbe mai detto nei primi tempi delle nascenti civili
società, quando altro contratto non conoscevasi che quello di dare i grassi capi
dell’armento in cambio degli scelti frutti del campo, che vi sarebbero stati un
giorno uomini, che avrebbero ridotte a contratto non solo una cosa esistente,
sicura, e da esli ben conosciuta, ma la cosa non esistenti ancora, le incerta,
la soggetta al caso, la sconosciute? O chi persuaderebbe alle numerose carovane
dei mori che vanno nel fondo dell’Affrica a far coi negri il cambio del sale
colla polvere d’or , che sonvi e lecici, e un vantaggioso contratto, che si
appoggia solamente all’aleatorio pericoloso e al bizzarro capriccio della
fortuna? Il moro che mette il suo sale in un mucchio e lo va sminuendo, se gli
pare che il negro con cui commercia, non abbia ammassata in sufficiente
quantità l'a preziosa polvere; riderà di coloro che si espongono a gravi perdite
delle loro sostanze affidandole all'incertezza della sorte. Eppure, e vi e
questo contratti aleatorio, e puo esser ridotti a quella uguaglianza che dopo
determinati, o dalle leggi, o dalla consuetudine i prezzo della cosa è necessaria
a render giusto qualunque contratto. A fissare il limite e il grado di
uguaglianza in tale contratto aleatorio giova maravigliosamente
quell’utilissima scienza che arditamente calcola le probabilità e si rende
soggetti, per così dire, i sempre vari accidenti della fortuna. Questa scienza
è stata chiamata finora aritmetica politica perchè è stata ordinata soltanto a
ricercare l’utilità e la miglior sorte a 2 del commercio e di chi lo esercita,
e ad apprestare dei nuovi dati a chi veglia alla pubblica felicità . Ma io
crederò di potere con parità di ragione chiamarla “aritmetica del giusto” ed
asserire che se il gran principio che fra il certo presente e l'incerto
avvenire trovasi una vera proporzione è stato quel seme fecondo che ha
germogliato al pubblico bene, è quello ancora che dee produr nulla meno la
sicurezza e la tranquillità nell’animo di chi sulle tracce dell’onesto e del
giusto voglia istituire tale contratto. Non farà però inutil cosa se io
cercherò di spogliare della austerità e difficoltà del calcolo una sì
vantaggiosa teoria e di ridurla a principi generali e semplici, facendo su di
essi opportunamente alcune riflessioni ed applicandone le regole al contratto
aleatorio, che verrò con la chiarezza e brevità maggiore che a me sia possibile
investigando. Mi lusingherò quindi di aver sempre pronta una misura, più o meno
esatta, a norma che eſli più o meno ne siano suscettibili, che ne determini
l’uguaglianza, é una bilancia che ne pesi l'equità e la giustizia. Contratto
aleatorio io chiamo quel contratto nel quale si fa acquisto di un diritto, o
vogliam dire di una speranza (res sperata – emptio spei, emptio rei separatae),
il buon esito della quale è affidato all’incertezza della sorte (cfr. Grice,
“Intenzione e incertezza”). E quì si osservi che si può nel medesimo contratto
considerare l’aleatorio relativamente ad ambedue i contraenti. (parola chiave:
“ambedue i contraenti”). Quello, il quale talvolta per far guadagno di una
tenue somma di denaro (a) ma certa, vende la speranza incerta di un gran
guadagno, sottopone all'aleatorio tutto quel di più che avendo buon esito la
ceduta speranza, supera la tenue somma in cui la cambio. L'uguaglianza che dopo
fissato dalla legge o dalla consuetudine il prezzo della cosa ricercasa nel
contratti perchè sia giusto, vi è ſempre, quando esaminata la cosa che ne forma
l'oggetto, ritrovisi in (a). Vedasi più sotto ove si parla del contratto di
alii curazione un vero senso egualmente pregevole ciò che danno nel contratto e
reciprocamente ricevono ambedue i contraenti. Or chi non vede che l'avere un
diritto o una speranza è molto più valutabile che il non averla? E se ciò è
vero, è manifeſso che questa speranza puo dirsi avere un vero e real prezzo nel
commercio degli uomini. Ma siccome tuttociò che ha prezzo pui avere un prezzo
diverso, questa speranza ha anch'essa la sua diversita e puo per conseguen
prezzo calcolarsi in guisa da poterne trovare il *rapporto* a quello per cui
alcuno desideri di farne acquistom che è quanto dire potrà ridursi ad una vera
uguaglianza. Stabiliscasi adunque l’incontrastabile fondamenza il suo tale
TEOREMA. Nel contratto aleatorio vi puo essere essere quella uguaglianza, che
gli caratterizzi per giusti . ng Too vorrei potere esporre con la maggior
precisione e chiarezza la serie delle idee che conducono a fissare il canone
per cui si puo in un contratto aleatorio rinvenire l'uguaglianza di cui si
parla. Il soggetto è molto arduo e per esporlo nel dovuto lume e farne poi
l'opportuna applicazione è neceſſario fare di tratto in tratto molte importanti
osservazioni che o sviluppino il principio fondamentale o vagliano a
dilucidarlo. E prima di tutto io intendo sempre per nome di prezzo tutto quello
o sia certo e determinato, o sia incerto anch'esso o per l'evento la quantità
che si espone per far l’acquisto di una speranza. Premio io chiamo quello per
cui ottenere si espone il prezzo così definite. Conviene pero osservare che per
nome di premio si può intendere , e l'oggetto solo a cui si aspira e il medeſimo
più il prezzo che si è o esposto o sborsato per acquistarne la speranza. Ciò
ben'inteso parmi che per rintracciare questa uguaglianza sia d'uopo conoscere i
o per 8 la diversa speranza. Di due elementi viene egli composto. Tanto è più
stimabile una speranza quanto ha un'oggetto più pregevole; e questo è ciò che
io intendo per valore intrinseco; ma tanto anche è più stimabile per altra
parte quanto è più probabile che ha un esito favorevole, e questo col nome di
estrinseco valore vuolsi significare. La probabilità è maggiore o minore
secondo che è maggiore o minore il numero di casi favorevoli all'evento
rispetto al numero de' sinistri; di modo che se si facesse una tavola che
gradatamente, e per serie e sprimeſle questi rapporti si avrebbe una vera
tavola delle probabilità. Conſiderando però ciascun evento separatamente e
senza rapporto ad altri; la probabilità che esso liegua, vien espressa dal *rapporto*
del numero de’ casi a lui favorevoli alla somma dei favorevoli insieme e de’
contrari. Poichè se sianvi in un urna 10 palle bianche e 10 nere; per definire
la probabilità dell'estrazione di una palla Bianca fa d' uopo conſiderare le 10
bianche in massa colle nere; giacchè in massa sono quando si fa l'estrazione
dall'urna. L'istesso avviene di ciascun evento che sia l’oggetto di una
speranza; giacchè deve distaccarsi dalla massa che è il cumulo degli eventi
favorevoli e dei sinistri che stan raccolti nell’urna sovrana regolatrice della
umana vicenda. Se dato un prezzo con cui si voglia fare acquisto di una
speranza, il numero dei casi favorevoli al buon esito sia uguale a quello dei
sinistri, è troppo chiaro che a volere la ricercata uguaglianza e necessario
che il valore intrinseco della speranza o sia dell'oggetto della medesima, sia *doppio*
del prezzo che si espone per acquistarlo; poichè in tal guisa la metà del
valore intrinseco resta compensata dal prezzo che si è pagato; l'altra metà,
che sola è un vero guadagno è uguale al prezzo medesimo che si è espoſto
all'aleatorio; e così deve essere essendo nel caso nostro uguale la probabilità
del buon esito e dell’infausto. E non altro appunto significa quella regola
infallibile secondo la quale è sempre 10 il valore (a) dell’aspettativa, quando
in ugual numero siano i casi favorevoli all’esito bramato e i sinistri. Che se
si accresca il numero de’ casi sinistri; siccome scema percið il valore
estrinſeco della speranza, converrà che si accresca *proporzionatamente*
l’intrinseco accrescendo il valore dell’oggetto medesimo. Per maggior chiarezza
di cio suppongasi il prezzo con cui si compra la speranza uguale ad un dato
numero e suppongasi il numero dei casi favorevoli uguale a quello dei sinistri.
In questo caso la probabilità del buon esito e uguale a quella dell'infausto e
la speranza si elide col timore, e per conseguenza il suo valore estrinſeco puo
considerarsi = 0; verrà dunque in confronto il solo prezzo col premio; che però
queste due quantità dovranno eſſere uguali, benchè il valore intrinſeco della
speranza, o sia il premio medesimo preso in una più estesa significazione 111
(a) L’aspettativa non è altro che il grado di probabilità che uno ha di
ottenere un’intento fortuito. II sia doppio del prezzo, poichè una metà del
premio medesimo non si può chiamare lucro, restando compensata col prezzo già
sbor fato ed esposto all’aleatorio. Stabilito adunque questo caso, come per
punto fisso dal quale si parte la serie dei valori, è chiaro ugualmente che se
il numero dei sinistri casi sia maggiore o minore di quello dei favorevoli, di
tanto la probabilità del buon esito a fronte della probabilità dell'infausto
farà a proporzione maggiore o minore di zero nel formare il valore totale della
speranza; lo che non altro significa, se non che ad avere l'uguaglianza
necessaria converrà che a proporzione l'oggetto della speranza superi nel primo
caso il prezzo con cui si acquista e nel secondo sia ad esso inferiore, e
quindi li puo universalmente stabilire. Nel secondo teorema, i valori delle
speranze sono in ragion composta del valore intrinseco dell’oggetto o cosa o
reale sperato (res sperata), o dell’spettativa. Ne terzo teorema, nel contratto
aleatorio allora visarà l'us 1. Il contratto aleatorio allora vi sarà
l'uguaglianza quando il prezzo che espone uno de contraenti stia al premio,
come il numero dei casi favorevoli a lui, alla ſomma dei favorevoli e dei
contrari. Notisi che quì per premio s’intende non solo la porzione che si
lucra, ma di più il prezzo istesso che si è aleatorio, aleatato. E siccome, per
quanti siano i prezzi dei contraenti, deve verificarsi in ciascun prezzo questo
rapporto al premio, ne verrà che i prezzi staranno fra di loro come il numero
dei casi favorevoli ad uno dei contraenti di viso per la somma de favorevoli e
de’ contrari al numero de favorevoli a quello con cui si istituisce il
paragone, diviso anch’esso per la somma dei favorevoli e dei contrari: e così
dicasi di quanti siano i contraenti. Da questo teorema si deduce il seguente
corollario. Nel contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando i
prezzi dei contraenti ſtiano fra di loro , come i numeri dei caſi ri
ſpettivamente favorevoli . Dagli enunciati Teoremi chiaramente ap pariſce, che
per bene applicarli agl' indivi dui caſi, è neceſſario eſaminare maturamente ,
qual ſia il vero valore del prezzo con cui ſi compra la ſperanza ; quali ſiano
i veri caſi favorevoli, e ſiniſtri; e fiflarne il numero con quella eſattezza
che convenga alla naturą del contratto in queſtione. Conſiderando at ;
tentamente la natura e le leggi dei diverſi contratti di azzardo , mi è parſo
che preſen tino una facile e natural diviſione , per la quale in tre ſeparate,
e diſtinte claſſi li pof ſono comodamente diſtribuire. Imperciocchè dalla loro
diverſa natura , e dalle diverſe leg gi che gli coſtituiſcono , ne naſce una
diverſa maniera di fiſſare i rapporti del numero dei caſi favorevoli, a quello
dei ſiniſtri . A tre fi poſſono in fatti ridurre i metodi per fillare 1 14 gli
accennati rapporti, e quindi collocare in una di tre diſtinte claſli ciaſcun
contratto di azzardo . Primo metodo è quello per mezzo del quale conſiderata la
natura , e le leggi del contrat to rilevaſi il ricercato rapporto dal numero
delle cauſe e delle ragioni, che poſſono in fluire ſul buon eſito della
ſperanza , numero determinabile , e ragioni certe , e ſicure . Il ſecondo è
quello nel quale per la natura del contratto , non ſi può fondare il rapporto ,
ſe non che ſulla ſperienza , e ſulle oſſerva zioni eſatte perd , e molte volte
replicate ; e ſopra cagioni incerte , e variabiliffime per le quali il numero
dei caſi favorevoli e dei fi niſtri, non può mai eſſer certo , determinato , e
ſicuro . Terzo metodo è quello per cui ſi appoggia la indicata proporzione ,
parte alla conſiderazione di leggi certe e ſicure , e par te alla ſperienza del
paſſato , e a circoſtanze incerte ', e di numero indefinito . Nei contratti
adunque della prima fpecie , conoſciutene le leggi, fiffato il numero delle
cauſe che poſſono influire ſull'oggetto del 1 4 13 contratto , ed eſaminate le
diverſe maniere nelle quali poſſono combinarſi, ſi avrà un eſatta ed infallibile
notizia del rapporto dei caſi favorevoli ai finiftri . La ſcienza delle
combinazioni , e permu tazioni è ſtata nel noſtro ſecolo così illuſtra ta , e
dall ’ Ugenio , e dal Bernullio , e dal Moivre, ed è così vaſta ed eſteſa , che
vo lendo io trattarne a lungo, non potrei per l'una parte non oſcurare ciò che
è ſtato detto con tanta preciſione, e ſicurezza, e non fa prei per l'altra
accennar poche coſe , che non laſciaffero un neceffario deſiderio di molte più
, intorno alle quali l'intertenermi , oltre paſſerebbe di gran lunga il fine, e
l'idea di queſto faggio ; e tanto più , che ſenza la fe verità del calcolo più
aſtruſo non ſi potreb bero per avventura trattare tutti i caſi par ticolari .
Nel venire però eſaminando la na tura dei diverſi contratti, ed applicando ad
effi li ſtabiliti Teoremi , ſi vedranno di trat to in tratto i principj di
queſta ſcienza ſvi luppati , ed indicata la maniera di applicarli ad alcuni
caſi particolari, ſiccome con l'uſo ! 16 rétto , e ſicuro del calcolo ſi
poſſono adattare a tutti i caſi i più compoſti, ed aſtruſi . Il gioco di pura
ſorte è certamente uno dei contratti che alla prima claſſe debbonſi riferire .
Mi è noto quanto ha ſcritto il cele bre Giacomo Bernulli , per dare le regole
ficure onde fiſſare nei giochi di fortuna il numero dei caſi favorevoli e dei
contrari , i vantaggi reſpettivi dei giocatori , e il pre mio che può uno
eligere, dopo incominciato il gioco per ritirarſi ſenza rinunziare alla miglior
condizione , in cui l'hanno già poſto alcuni colpi favorevoli . So che eſſendo
la probabilità , o ſemplice, o compoſta , ne ha queſto gran Matematico ridotta
la miſura all'interſezione di una linea retta con una curva logaritmica , o di
queſta con una pa rabolica , e così ſucceſſivamente aſcendendo alle curve dei
gradi più alti . Ma laſciando da parte i profondi calcoli , e i miſteri della
fublime Geometria , i quali però ben pene trati ſcuoprono il profondo e
inventore in gegno di queſto grand' uomo , piacemi in quella vece di eſaminare
ſemplicemente ſen 17 za di effi la natura e le leggi del gioco , per
riconoſcere ſecondo l'accennato metodo , come ſi poſſa in eſſo e dare e
ſcoprire l'u guaglianza fra i giocatori , e in tal guiſa applicare a queſto
contratto gli enunciati univerſali Teoremi . Il gioco di pura ſorte è una
ſpecie di con tratto , nel quale due o più perſone, dopo di aver convenuto di
certe leggi, e condizio ni , ſi diſputano un premio , che ſi rilaſcia a chi
ſarà più felice , per rapporto a certi acci denti l'effetto dei quali non
dipende per ve run modo dalla loro induſtria . E quì cade in acconcio fare una
rifleſſione comune a tutti i contratti di azzardo . Il dire che una coſa accada
caſualmente , non altro ſignifica, ſe non che la cagione ne è a noi
ſconoſciuta ; e che non vi abbiamo alcuna volontaria influenza . Per altro quan
do fiegue in natura un determinato effetto , qualunque ſiaſi, è certo che
neceſſariamente dovea ſeguire . Che due dadi gettati ſu di una tavola ,
ſcoprano piuttoſto un numero , che un altro ; noi ne ignoriamo la cagione b 18
nell'atto ſteſſo che ne ſegue per le noſtre mani medeſime il tratto . E perd
ugualmente vero , che dato quel tal moto alla mano che gli getta , dato quel
tal grado d'impeto , e non più nè meno , data la mole dei medefi mi , e il
piano ſu cui ſi aggirano , devono neceſſariamente preſentar quel tal dato nu
mero e non altro . Così dicaſi dei giochi di carte le combinazioni delle quali
dipendono dalla diverſa maniera di meſcolarle , e di dividerle alzandone una
parte di eſſe fovra il reſtante ; anzi pure non ſolo del gioco , ma dicaſi,
come ſi avvertì di tutti i contratti di azzardo , e generalmente di qualunque
evento fortuito ( a ), (a) Non ſolo ne' contratti ove ciò che ſi perde o che ſi
guadagna è riducibile ad una miſura diſtinta in gradi coſtanti ed eſattamente
marcati , ma anche in tutto il tenore di una vita diretta a un fine fpe rato ma
incerto ha luogo il prezzo ed il premio . Le fatiche , gl'incomodi , le
priyazioni dei piaceri formano il primo . Nella gloria , nell'autorità , negli
onori , nelle ricchezze è ripoſto il ſecondo , che molte volte defrauda le
meglio fondate ſperanze , o almeno ad effe perfettamente non corriſponde; onde
può dirlig . 19 Varie ſono le ſpecie principali dei giochi di pura ſorte ,
ſiccome varie ſono le maniere di diſputarſi il premio.O due giocatori eſpon
gono all'eſito della forte le loro reſpective porzioni di depoſito con la legge
che deb baſi tutto a quello rilaſciare, il quale felice mente s'incontra prima
dell'altro in un fa vorevole accidente , che ambi ſi ſono propoſti d'incontrare
; o a quello , che in ugual nu mero di faggi, ſotto le medeſime leggi , di
pendentemente dalle medeſime condizioni , 6 2 che così in queſte ſecrete e non
ftipulate aſpettative come in quelle per cui s'inſtituiſcono e ſi celebrano i
contratti,domina ugualmente quella inſtabile divinità creata dall'ignoranza
della conneſſione delle cagioni delle coſe , e del compleſſo delle circoſtanze
necef ſarie ai fortuiti eventi , ma che in tutti i caſi ſuol chiamarſi
ugualmente Saevo laeta negotio Et ludum inſolentem ludere pertinax . Biſogna
però rammentarſi ſempre che le parole che eſprimono gli attributi della fortuna
, o del caſo , quando ſono uſate dal Filoſofo , hanno un fenſo di verſo da
quello in cui le uſa il Poeta che simboleg gia , e il volgo che non ragiona .
<< tro , così dire nega incontra quelle combinazioni che preſen tano una
maggior ſomma di quegli elementi ond'è compoſto il gioco , e alla quale è at
taccata la vincita del medeſimo. Oppure il contratto del gioco è tale che un
ſolo dei giocatori s'impegna in un dato numero di ſaggi, e ſotto certe
condizioni , d'incontrare un dato favorevole accidente o ſemplice ſia di altri
' compoſto , e quale non incontran do , la ſorte s'intende aver deciſo per l'al
la ſperanza di cui per tiva , non ha altro oggetto che l'eſito infe lice delle
mire dell'avverſario , non obbli gandoſi intanto a tentare poſitivamente ve run
colpo di gioco . Nei priini due caſi egli è chiaro che devo no i giocatori
azzardare una egual fomma, o prezzo , altrimenti reſterebbe manifeſtamente
tolta di mezzo la neceſſaria uguaglianza . E' chiaro che allora il prezzo con
cui ſi acquiſta la ſperanza è eguale alla metà del valore dell' oggetto ;
poichè il primo altro non è che la porzione di depoſito di uno dei giocatori e
il ſecondo è la ſomma delle due porzioni 2 1 uguali componenti il
totaledepoſito .Ma co me trovare in queſto caſo il numero dei caſi favorevoli
uguale a quello dei ſiniſtri come pure eſige la ſtabilita Teoria ? E certamente
ſe fi conſiderino i caſi favorevoli , ei con trarj diſtintamente in ciaſcuno
dei giocatori ; non ſi potrà fiſſare nè ragione di uguaglianza nè altra
qualunque . E' queſta una evidente verità , ſe ben ſi conſiderino le leggi di
queſto gioco , per le quali dipendendo la ſorte di un giocatore , non dai ſuoi
colpi ſolamente ma da quelli ancora dell'avverſario , i ter mini della
proporzione ſaranno ſempre rela tivi , e per conſeguenza variabili . Eſaminata
però più maturamente la natura del gioco di cui ſi tratta , fi dee riflettere ,
che il nu mero dei caſi favorevoli a un giocatore , è compoſto non ſolo dei
caſi propizi a lui di rettamente , ma dei caſi altresì all'avverſario contrarj
; e al contrario il numero dei finiſtri , altro non è che la ſomma
degl'infauſti a lui , e dei favorevoli all'avverſario . Ma quando fi giochi con
condizioni eguali , queſte due fomme fono eguali : dunque anche in queſto 22
caſo può reſtare verificato il canone della ſtabilita proporzione , e i prezzi
ſtare fra loro come i caſi favorevoli ai finiſtri . Da ciò ne ſegue , che ſe due
giocatori proponganſi di incontrare la medeſima favo revole combinazione o la
medeſima ſomma di accidenti ; ma che uno voglia far più ſaggi del gioco , o
cercar con più mezzi quelle combinazioni che preſentino maggior ſomma degli
elementi del gioco , nella guiſa di ſopra accennata ; l'altro in tal caſo dovrà
eſami nare di quanto il numero delle combinazioni a ſe favorevoli reſti
fuperato dalle ſiniſtre , ed eligere che la porzione di depoſito dell'
avverſario ſuperi in tal proporzione quella che egli conferiſce nel gioco . Sia
concertato per eſempio , che abbia il premio del gioco quello che fa più numeri
con i dadi , ed uno voglia gettarli più volte , o in ugual numero di volte
gittarne un mag gior numero , è manifeſto , che dalla natura , e dalle leggi di
queſto gioco , ſi potrà con le note regole delle combinazioni ricavare in che
proporzione debba egli eſporre all'az 23 zardo ſomma maggiore . Che ſe poi
trattiſi della ſeconda ſpecie di ſopra accennata , che è allor.quando uno ſolo
dei giocatori ſi eſpone ad incontrare una o più favorevoli combinazioni , in un
dato numero di faggi, e ſotto certe leggi , e l'altro guadagna full infauſto
eſito dell'avverſario , ſenza tentare egli di per ſe alcuna forte di gioco , è
più difficile allora , ed è più operoſo il fiſſare gli opportuni termini della
noſtra proporzione . L'intenzione e l'oggetto dei giocatori in tal caſo può
eſſere di eſporre all'azzardo una ugual porzione , o di eſporla diverſa . Nel
primo caſo il giocatore che intraprende , e faminata la natura del gioco , e le
leggi chę a lui propone l'avverſario , potrà ricavarne il numero dei caſi
favorevoli e quello dei ſiniſtri, e dimandare quelle condizioni nelle quali
queſti due numeri ſi uguaglino: nel ſe condo conviene che dimandi quelle condi
zioni nelle quali , il numero dei favorevoli caſi, ſuperi tanto quello dei
contrari , di quan to la ſua porzione di depoſito ſupera quella dell'altro , o
al contrario . Intraprende uno 14 di gettare un dado in maniera che ſi ſcuopra
la faccia la quale moſtra il numero 6. Se lo deve fare in una ſol volta ,
ſiccome ha cin que combinazioni contrarie , e una ſola fa vorevole , converrà ,
che l'altro azzardi una ſomma cinque volte maggiore , altrimente la proporzione
reſta alterata . Che ſe trattiſi di azzardare una fomma eguale da entrambi i
giocatori , e ſi voglia più volte ricominciare , erinovare il gioco , converrà
oflervare quanti tratti di dado ſiano neceſſarj per fare che il numero dei caſi
favorevoli , ſia uguale a quel lo dei contrarj , del che , e relativamente al noſtro
addotto caſo , e ai fimili , ne da una eſtefa tavola il gran Bernulli alla
propoſizio ne X. del libro primo del ſuo trattato inti tolato ars conje
&tandi; ove dimoſtra un ingan no che in fiſſare queſta proporzione è facile
a pigliarſi da chi eſamini queſta ſpecie di gioco ſulla prima apparenza , ſenza
internarſi profondamente nelle fue leggi . Diffi, quan do fi voglia più volte
ricominciare , e rino vare il gioco , per le ragioni addotte dal Ber nulli nel
loco citato ; giacchè fe non ſi ri 25 novi ſucceſſivamente , egli è evidente
che chi deve con un ſol dado ſcoprire la faccia del numero 6. per eſempio , ed
azzardare una ſomma eguale a quella dell'avverſario , do vrà chiedere di
gettare il dado tre volte ; e cid col patto che non s'intendano in queſto
numero compreſe quelle volte in cui ſi vol taſſe di nuovo una medeſima faccia
del dado già ſtata ſcoperta . Ciò che ſi è detto di due giocatori, dicaſi di
più , e ſi conſiderino diſtintamente tutti i contratti che fa ciaſcuno dei
giocatori , e l'azzardo a cui eſpone ciaſcuno la depoſitata porzione , e ſi
vedrà che non reſta punto terata la noſtra teoria , benchè coll’eſporre una
determinata ſomma ſi poſſa guadagnare la medeſima moltiplicata per il numero
dei giocatori ( a ) . Anzi è regola univerſale in tutti i caſi compleſſi di
gioco , ridurli ai ſem plici dei quali è compoſto , ed eſaminare in ciaſcuno di
effi le ſovra ſtabilite maſſime. Dalle medeſime troppo chiaro appariſce (a)
Vedi il Corollario del Teorema III . 26 che i vantaggi , che ha in alcuni giochi
il banchiere , per eſempio nel faraone quello dei doppietti, quello dell'ultima
carta , ed altri che ha ſecondo i vari uſi dei paeſi ove giocaſi tolgono
l'uguaglianza , perchè tur bano la fiſſata da noi proporzione; poichè nei caſi
medeſimi nei quali il premio che dà il banchiere è uguale alla ſomma azzardata
dal puntatore, il numero dei caſi favorevoli al primo è maggiore del numero dei
favo revoli al ſecondo ; o in ugual numero di caſi favorevoli il ſecondo
azzarda più del primo . Si pretende nonoſtante , che ſe ſi conſideri, non la
relazione che ha ciaſcun giocatore in particolare al banchiere ma bensì tutto
il ſiſtema del gioco , vi ſiano molti rifleſſi che giuſtifichino queſto
vantaggio di condizione . Una ſplendida ſomma ſottopone egli alla cie ca ſorte
, e ſi obbliga di laſciarla ſempre in pericolo . Il puntatore per lo contrario
può voltar le ſpalle ſdegnoſo a quella avverſa for tuna , che tenta in vano di
placare ; o aven dola provata propizia può aſſicurare i ſuoi doni dalla
capriccioſa ſua volubilità . Oltre 1 1 27 di ciò la ineguaglianza delle ſomme
eſpoſte dai vari giocatori , delle quali alcune per dendo può il banchiere
rimanere ftremo , ed eſauſto , ſenza ſperanza di tirar profitto dalla
incoſtanza della fortuna ; le altre ſe vin ce appena gli recano un tenuiſſimo
guada gno ; la non leggiere fatica per ultimo del banchiere medeſimo poſſono
baſtevolmente render leciti i vantaggi che egli ha nel liſte ma del gioco . Io
preſcindo dall' eſaminare quale , e quanta conſiderazione eſigano le accennate
circoſtanze . Due coſe ſolo aſſeri ſco . E che alcune di queſte ſono quantità
non già coſtanti ma variabiliſſime, eſſendo relative a circoſtanze facilmente
alterabili; e che conſiderato il gioco in ciaſcuno a par te dei puntatori
relativamente al banchiere , come par certamente debbaſi conſiderare, la
alterazione della proporzione ſtabilita è mol to notabile in iſvantaggio dei
primi , e in manifeſta utilità del ſecondo . Non voglio perd omettere , che
eſſendo ſta ta eſaminata con eſatto calcolo la ſerie dei vantaggi del banchiere
per ogni pofta fem 1 28 plice , cominciando dalla ſuppoſizione che vi ſiano 52.
carte fino a quella che ve ne ſia no quattro due delle quali ſiano dell'iſteſſa
figura, ſi è rilevato che la media , è il 5 . per 100. Ma in tutto un giro
quando l'avi dità dei giocatori fa che per mezzo dei pa roli o delle paci la
forza del gioco ſi traſporti almeno verſo l'ultime 24. carte , allora la media
diventa il 9. incirca per 100. Ep pure le circoſtanze che eſigono compenſa
zione non variano in modo da efigere que Ita differenza ( a ) . Non ſi ha
dunque nell'attuale ſiſtema del faraone la vera maniera di trovare la com
penſazione delli ſvantaggi del banchiere . Bi ſognerà dunque per ottenerla , o
fiſſare il nu mero delle pofte: 0 por dei termini ſopra , e fotto de' quali non
poſſa ſalire o ribaſſarſi la poſta : 0 tentar di fiſſare più che fia poſſibile
una ſomma relativa alle diverſe poſte la quale (a) Si noti che il vantaggio di
ſopra indicato del ban chiere ſi ripete tante volte quante poite fi fanno ,
onde ſi vede in un ſol giro quanto ſia enorme ed ecceffivo . 29 effendo un di
più della poſta medeſima, ma conoſciuto , non altererà le giuſte proporzioni
fra il prezzo ed il premio : o diſperare per ultimo di poter mai annoverare fra
i con tratti giuſti il gioco del faraone. Sogliono comunemente dalle fagge
leggi vietarſi i giochi di pura ſorte, come quelli che per una certa fatalità
luſinghiera , ſi uſur pano il tempo dovuto alle pubbliche cure , alle dotte
occupazioni , ed al domeſtico reg gimento delle famiglie , alle quali recano sì
di frequente irreparabile ruina ; che non è già sì di rado, che una carta di
gioco , o un ſol colpo di dado decida della defolazione, e dell' inopia di
molti infelici . Si aggiunge a queſto , che la dura legge del biſogno , e la
ſevera faccia dell'avverſa fortuna dettano all'inaſprito giocatore le arti meno
oneſte , e i mezzi più indiretti nel gio co medeſimo ; talchè ſi verificano di
troppo i celebri verſi di Madama Deshouliers . Le deſir de gagner qui nuit &jour
occupe Eft un dangereux aiguillon ; 1 1 1 1 30 Souvent quoique l'eſprit,
quoique le coeur foit bon , On commence paretre dupe , On finit par etre fripon
. E quanto il gioco di pura ſorte ſia ſtato ſempre deteſtato lo conoſcerà chi
oſſervi le Leggi Romane al tit. De aleatoribus , e nei digeſti, e nel codice ,
e legga i dotti commenti degl' interpreti sù i medeſimi, e vedrà che ſi è
ſempre riguardata come oggetto di compal ſione e di orrore la miſera condizione
di que gl’incauti quos praeceps alea nudat . Io però e nel gioco , e in tutti i
contratti di azzardo eſamino la giuſtizia per rapporto ſoltanto alla ſovra
eſpoſta neceſſaria ugua glianza , preſcindendo affatto da qualunque carattere
che poſſa rendere i medeſimi, o conformi, o oppoſti alle provide leggi , e ai
retti coſtumi. Similiſſima al gioco è un'altra ſpecie di contratti d'azzardo ,
che chiamaſi comune mente il lotto de go. numeri ; cinque dei quali ſi
eſtraggono da un vaſo , e decidono della ſorte di chi ſulla ſperanza , che
eſcano 31 dall'urna miniſtra della fortuna , azzarda una data ſomma di denaro .
Troppo ſon note le leggi di queſto contratto , e troppo è facile il conoſcerne
e combinarne gli accidenti , per poter francamente aſſerire che non vi è forſe
contratto di azzardo nel quale , e più nota bilmente e più ſolennemente la
ſtabilita pro porzione reſti alterata . Sempliciſſimi elemen ti formano il
ſiſtema di queſto contratto , e una ſuperficialiſfima cognizione di calcolo è
baſtevole per far conoſcere , che ſebbene una tenue ſomma di denaro può
cambiarſi in una ſplendida maſſa di oro , pure a fronte di un caſo favorevole
ve ne ſono tanti dei ſiniſtri, che rieſce aſſai più ſuperata la probabilità di
gua dagnare da quella di perdere , che non la ſomma azzardata dal promeſſo
premio per ricco e grande che poſſa parere . Per ſalvare la giuſtizia di queſto
gioco , non giova il dire , che conſentendo i gioca tori con piena e perfetta
libertà a queſta diſuguaglianza, queſto baſta per rendere le gitima quella
convenzione , che ſarebbe al trimenti tanto leſiva . Queſto argomento pro * 32
verebbe troppo in genere di contratti , e per ciò deve conſiderarſi di neſſun
vigore. Sareb be queſta maſſima l'appoggio di moltilli mi contratti ingiuſti, e
la difeſa di infiniti illeciti guadagni . Oltre di ciò la maggior parte di
quelli che giocano al lotto neppure ardiſce di ſoſpet tare , che ſiavi a loro
ſvantaggio una sì di chiarata ſproporzione; anzi moltiſſimi rin graziano come
generoſa e prodiga quella mano che premia i vincitori , come ſe foſſe un
gratuito dono ciò che non è ſe non una piccola parte di un debito . Più ſolida
difeſa potrebbe recarſi riflettendo doverſi in queſto contratto dal padrone del
lotto impiegare molti miniſtri, e fare molte e gravi ſpeſe, per lo che può
eſigere ragionevolmente un riſarcimento ; ma tutto ciò ancora non baſta a
rendere giuſto queſto contratto fe ad altri termini e ad altre maſſime non ſia
ridotto . Troppo anche più enorme era la diſugua glianza , prima che con lo
ſtabilito aumento foſſe migliorata la condizione dei giocatori ; condizione
però , che tuttora è aſſai inferio re a quella del padrone del lotto . / 33 Quì
però fa d'uopo dileguare un inganno comune a moltiſſimi che hanno le vedute
corte , e limitate dalla prima ſuperficie delle coſe . Altro è l'aſferire , che
il lotto conſide rato ſemplicemente come un contratto è in giuſto ; altro è il
dire che un Principe giuſto non poſſa ammetterlo nel ſuo ſtato , e debba
toglierlo affatto , e ſradicarlo come un mal nato germe della rovina di tanti
ſconſigliati . Il lotto può conſiderarſi come un tributo , che viene impoſto a
chi ſpontaneamente con fente di pagarlo ; cangiandoſi così in vantag gioſo al
pubblico , ciò che potrebbe eſſer tan to pernicioſo al privato . Non ſi può
deſcri vere l'ardore che muove ciaſcuno a cercare in queſta guiſa un propizio
ſguardo della for te ; nè ſi può immaginare quanto ſia pungen . te lo ſtimolo
che ſpinge, e inquieta chi ri fiette che con una tenue ſomma di denaro , che
azzardi , può guadagnare di che ſoſten tare una languente e numeroſa famiglia ,
o pur talora dilatare i confini del proprio luf ſo , o accreſcer anco tal volta
un nuovo peſo agl’inoperoſi forzieri . Quindi è che tanti , e 34 tanti ſi
affollano a tentare nel lotto la ſorte (a ). Penetrati dall'idea, e ſedotti
dalla luſinga di ( a) Non può negarſi per altro , che riccome tutte le cofe
hanno un grado di valore e di eſtimazione ri Spettiva che naſce dall' uſo che
può o vuol farne chi ne è padrone : può conſiderarſi ſotto l'iſteſſo aſpetto
anche il denaro . Oltre il ſuo valor generale che na. ſce dal rapporto che egli
ha alla maſſa delle coſe che ſono in commercio , può dirſi che un altro egli ne
abbia privato e ſpeſſo mutabile , che naſce dalla qualità e quantità
deibiſogni, o reali , o di opinione che à nelle date particolari circoſtanze, chi
lo poſſiede; Può darli adunque che ciò che ſi azzarda al lotto , levato da una
gran quantità , fia una piccola por zione di eſſa , relativamente ſuperflua;
onde il ſuo valore ſia ſtimato sì tenue a fronte di una ſomma ragguardevole che
rappreſenta un gran numero di comodi e di piaceri benchè fperabile ſolo per un
piccoliſſimo grado di probabilità , che detto valore nella eſtimazione di chi
lo gioca ſia conſiderato come zero , o come una quantità più o meno ad eſſo
approf. fimante , formandoſi perciò , per così dire , una nuova e riſpettiva
proporzione, ſecondo la quale il vantaggio molte volte ſarebbe dalla ſua parte
. Queſto ſe non baſta , come ognun yede manifeſtamente , a render giuſto il
contratto ſerve a render qualche ragione del traſporto , che hanno a tentar la
forte in queſto gioco tanti che pur ne fanno ben conoſcere le condizioni , e
calcolar le ſperanze . 35 quel bene che ſperano , non penſano a mi. ſurare i
gradi della ſperanza medeſima; e il molto oro che già poſſeggono col penſiero ,
getta ſugli occhi loro un lampo che abbaglia talvolta anche il più ſaggio
filoſofo , e il più freddo calcolatore. Quindi un tale impeto non conoſce freno
che poſſa reggerlo , e non legge che poſſa vincerlo . Se un Principe tol ga dal
proprio ſtato queſto oggetto dei co muni voti , la ſconſigliata avidità ad onta
delle più fagge leggi, e deludendo le più ve glianti ſollecitudini ſi
precipiterà in altri ſtati, che ſi arricchiranno a ſpeſe di quello onde il
lotto ſia proibito ed eſcluſo . Unſaggio Principe adunque che può far ar gine a
queſto torrente , accid non sbocchi al di fuori; deve procurare che ſi ſcarichi
tutto a pubblico vantaggio , e che quella porzione di ſoſtanze che fagrificano
follemente alla loro avidità i membri del corpo di cui egli è il capo circoli
per il medeſimo, e poichè i pri vati ſi eſpongono a riſentire dello ſvantaggio
, neſſun nocumento però ne venga alla Repub blica . Così facendo il faggio
Principe , e non 1 36 fi attira la taccia di ingiuſto , e merita tutta la lode
di prudente , di politico , di difenſore e cuſtode della pubblica felicità . Di
queſta verità ne conoſcono per una fe lice eſperienza il frutto in più ſpecial
maniera quei popoli , che hanno la ſorte di eſſere go vernati da Principi umani
e benefici, che per l'uſo che fanno del loro erario , anzichè pof ſeſſori , ſe
ne moſtrano piuttoſto amminiſtra tori a pubblico e generale vantaggio . Havvi
un'altra ſpecie di lotti nei quali non è un ſolo il premio , nè un ſolo il
colpo fa vorevole della forte , ma molti ſono i premi , come molti e vari i
caſi propizi ; e ſecondo l'ordine dell'eſtrazione dei numeri dall'ur na , o
ſecondo altre leggi convenute in pri ma ſi decide del maggiore , o minor premio
. Tale è il lotto che ſi è fatto in Spagna per la coſtruzione del canale di
Murcia , nella quale occaſione ſiccome ha fatta luminoſa comparſa la vaſtità ,
e penetrazione di ſpirito di chi ha ideato il progetto della grand'ope ſi è
diſtinta non meno la finezza , e il di ſcernimento di chi ha regolato il metodo
di ra ; . 2 37 accumulare le gravi ſomme di denaro neceſ fario ad un sì
grandioſo diſpendio . In queſto contratto come nei ſimili ad eſſo biſogna
conſiderare , che varie ſono le ſperanze e molte , perchè vari e molti ſono i
premi , e che la ſomma di tutti reſta come venduta a quelli che hanno comprati
i viglietti . Sicco me queſti hanno sborſato un ugual prezzo , così devono
avere fra loro ugual numero di caſi favorevoli e finiftri relativamente ai di
verſi, o maggiori o minori premi ; quali eſſendo per lo più vitalizj,
l'uguaglianza fra gli azionarj e il padron dell'impreſa dipen de dalle regole ,
ſecondo le quali ſi ſtabiliſce la giuſtiza dei vitalizj . Ma non ſi troverà mai
eſatta queſta uguaglianza , poichè una parte notabile del denaro che
contribuiſcono gli azionarj , non già nel numero o nel valore dei premi ſi
impiega , ma ſi deſtina alle ſpeſe delle ideate opere ſontuoſe . In queſto di
Murcia però così ſono ſtati bilanciati i di ritti degli azzionarj , e ſono
ſtati così grada tamente formati i premi , e in tal numero , e così bene è
ſtata regolata l'economia di 38 1 1 queſta sì grandioſa impreſa, che forſe non
vi è ſtato mai un'altro lotto , in cui ſiaſi nel tempo iſteffo meglio
aſſicurata la ſomma ne ceſſaria alla deſtinata opera , e ſia ſtata me no
alterata la proporzione a ſvantaggio de gli azzionarj. Troppo ſon note le
lotterie , che con al tro nome chiamanſi dai Franceſi Blanques perchè io
impieghi molto tempo in eſami nare le qualità , e i caratteri di tale contrat
to . Dall'economo del gioco ſi mette in un vaſo un certo numero di viglietti ,
dei quali alcuni ſon bianchi ed altri neri , e ſi vende il diritto di eſtrarne
uno il quale ſe è nero apporta a chi lo eſtraſſe il guadagno di un premio del
valore che è notato ful viglietto medefimo . Ognun vede , che accið ſiavi ugua
glianza convien ricorrere alla regola mede ſima, che ſi è data pei lotti che ſi
fanno per grandioſe opere pubbliche, avuta anche quì in conſiderazione la
fatica , e il diſpendio dell'economo del gioco , e riflettendo che in queſto
caſo i premi non ſono vitalizj. Queſto è un contratto della natura di quello
che dai 39 Latini chiamavaſi olla fortunae . In fimil guiſa Auguſto dilettavaſi
al riferir di Svetonio di compartir doni ai ſuoi cortigiani, chiaman do così la
forte ad eſſer miniſtra della ſua beneficenza . Talora un ſolo è il premio che
ſi diſputa fra quelli che giocano alla lotteria , e allora ſe il premio non è
denaro ma un altra coſa qualunque che abbia prezzo , ſi giuſtifica più
facilmente, giuſta l'opinione del Barbeirac , la notata diſuguaglianza : e l'economo
del gioco può vendere non ſolo tanti viglietti quanti corriſpondono al valore
del premio , ma ancora in maggior numero anche di quello che altronde eſiger
pud e l'opera ſua , e il diſpendio , quando ve n'abbia . Queſti lotti fi
riducono , dice il citato au tore ad una ſpecie di compra , che ſi fa in comune
, a condizione che la ſorte decida a chi debba appartenere la coſa comprata .
Se ſiavi adunque dell'alterazione nella propor zione , ſi potrà conſiderare
come ſe fi foſſe comprata la coſa ad un prezzo un poco più alto del corrente ;
penſando che ciaſcuno tra 40 1 ! fcuri queſto di più che in altra fpecie di con
tratto gli parrebbe forſe notabile, ſulla ſpe ranza di guadagnare il premio più
o meno fondata a proporzione che uno ha comprata maggiore , o minor quantità di
viglietti . Queſta mallima, che non è certamente di ri goroſa giuſtizia , non
ſi potrebbe eſtendere perfettamente a quei lotti nei quali , e molti e di vario
prezzo ſono i viglierti, e molti e di vario valore i premi ; a tutti quelli in
ſomma, nei quali non ſia aſſolutamente u guale la condizione dei ſingoli
poſſeſſori di ciaſcun viglietto , benchè lo ſia riſpettiva mente . Prima di
paſſare ad altri contratti giovami riflettere , che anche quando il padron del
gioco , o qualunque altro che ne abbia di ritto pretende , che ſiano valutate
le ſue fa tiche e il ſuo difpendio , non tanto ſi può dire che v'intervenga una
compenſazione ; quanto che ſi verifica di fatto a tutto rigore la noſtra
proporzione , giacchè quel di più che fi paga , non è a titolo di compra della
ſperanza , ma bensì a titolo dell'altrui di 41 ſpendio , e fatica ; e per
conſeguenza eſſendo una quantità eſtranea alla detta proporzione non la può in
verun modo alterare . Si poſſono ridurre ad un contratto d'az zardo appartenente
a queſta claſſe le ſorti ancora propriamente dette . La ſorte, dice
l'elegantiſſimo ſcrittore della ſtoria degl'ora coli , è l'effetto dell'azzardo
, e come la deci fione , o l'oracolo della fortuna ; ma le ſorti fono gli
ſtrumenti di cui uno pud valerſi per ſapere qual ſia queſta deciſione . Le
ſorti ſono ſtate in uſo preſſo i più antichi popoli ; e la forte s'interrogava
, o col gettare i dadi colle proprie mani, o col gettarli da un urna : e ai
caratteri , ed alle parole che ſu i dadi erano ſegnate, corriſpondevano alcune
tavole che ne contenevano la ſpiegazione. Altre molte erano le maniere di
tentare la ſorte , e di a ſcoltarne gli oracoli . E' incredibile poi quan iti ,
e quanto gravi affari ſi regolaſſero a ta lento di queſta cieca divinità . Baſta
leggere gli autori che trattano dei voti che ſi offe rivano a Preneſte , e ad
Anzio , e che parlano diffuſamente delle forti Omeriche , e Virgi 41 liane . I
verſi dell'immortale Epico Greco , nei quali dipinge con sì vivi tratti
l'impeto , e il furore dell'indomito Achille , ritrovati a caſo nell'aprire
l'lliade, erano talvolta la fola innocente cagione della rovina delle più
floride città , e della deſolazione d'intiere Provincie. E ſe per lo contrario
, aprendo i libri della divina Eneide s'incontravano gli amabili colori coi
quali ſi dipinge la man fuetudine e la pietà del figlio d' Anchiſe , gli animi
tutti non reſpiravan che pace , e quei pochi verſi baſtavano per dar fine alle
guerre più ſanguinoſe . Aleſſandro Severo , ſalito al foglio dei Ce fari ,
credette di averne avuto un preſagio , quando privato ancora , anzi odioſo
all'Im peratore Eliogabalo , aprendo nel Tempio di Preneſte l'Eneide di
Virgilio , s'incontrò in quel tratto , ove queſto gran Poeta eſalta le virtù e
piange i'immatura morte di Marcel lo , e preciſamente gli ſi preſentarono
quelle parole fi qua fata aſpera rumpas Tu Marcellus eris . Ma io non parlo
propriamente di queſte forti, e confeſſo anzi eſſere le medeſime uno dei
monumenti più ſolenni dell'umana fol lìa . Io quì parlo delle ſorti, che
chiamanlı elettive , diviſorie , attributorie , e ſimili delle quali brevemente
eſporrò la natura e le qua lità , ed applicherò alle medeſime i più volte
enunciati Teoremi . Due , o più perſone han diritto ad una coſa medeſima;
eſaminato il valore del lor diritto lo trovano uguale; non vogliono gettare ,
nè tempo , nè denaro in ſuſcitare queſtioni ; aſcoltano anzi ſentimenti più
miti , e commettono alla ſorte la deci fione dell'affare, anzichè affidarlo
alle lun ghe , e diſaſtroſe vie dei Tribunali . Conſe gnano i loro nomi
all'urna diſpenſatrice della forte , e quello è giudicato favorito dalla me
deſima, del quale vien eſtratto il nome; e vien dichiarato pacifico , e ſolo
padrone di quella coſa alla quale avea con gli altri ugual diritto . Che ſia
lecito commettere in talguiſa alla ſorte un affare dubbioſo o controverſo non
v'ha dubbio alcuno , giacchè non vi è ra gione per cui non polfa uno obbligarſi
ſotto una condizione tale , che il purificarſi la mede fima dipenda
dall'incerto , e vario evento della forte . Ora ſe i diritti ſono uguali , ſe
quanti fono i concorrenti tanti ſono i nomi che ſi conſegnano all'urna , ecco
che i prezzi che vengono rappreſentati dai diritti che ſi az zardano , ſtaran
fra loro come i numeri dei caſi favorevoli ad uno , al numero dei caſi
favorevoli a ciaſcuno degli altri riſpettiva mente ; ed ecco ſalvata
l'uguaglianza di pro porzione fra i favorevoli, e ſiniſtri caſi, e fra i
riſpettivi prezzi della ſperanza , la ſomma dei quali è l'oggetto della
medeſima nel caſo di cui ſi tratta . L'iſteſſo può dirſi a proporzione , quando
uno abbia un diritto , per eſempio doppio di quello degli altri ; e baſterà che
in tal caſo due volte ſi affidi il ſuo nome all' urna fata le ; e così dicaſi
di altri ſimili caſi . E di fatto queſto contratto a farne una giuſta analiſi
ſi riduce ad un gioco di pura forte, in cui molti depoſitando ugual por zione
un ſolo guadagna tutte le porzioni de poſitate, del quale ſi è di ſopra parlato
; e ſi 45 è detto , che uno depoſitando maggior por zione , pud eſigere a
proporzione condizioni più vantaggioſe . L'iſteſſe maſſime regolar denno le
ſorti elettive che ſi uſano , quando molti avendo un privato diritto ad eſſere
eletti a qualche onorifica o autorevole dignità, troncano ogni ſorgente di diſcordanza
col tentare la forte , L'iſteſſo dicaſi delle ſorti diviſorie, e di quan te
altre poſſono immaginarſi, che tutte ſi ap poggiano ai medeſimi fondamenti, e
in tutte nel modo iſteſſo ſi trova la proporzione che coſtituiſce l'uguaglianza
fra i contraenti , Fin quì fi è parlato di quei contratti che alla prima delle
ſopra indicate claſſi appar tengono . In effi fra la ſperanza che ſi acqui ſta
, e il prezzo con cui ſi acquiſta ſi può fif fare un eſatta , inalterabile , e
matematica proporzione. Note fono tutte le cagioni che poſſono aver rapporto al
favorevole o triſto evento della ſorte , ſi conoſcono tutti gli ele menti dei
quali ſi formano le varie combi nazioni, e ſi fanno perfettamente tutti i modi
46 diverſi per mezzo dei quali queſte fi forma no . E' queſto forſe l'unico
caſo al quale ſi poſſa applicare lo ſpiritoſo Emblema del ce lebre Moivre,
rappreſentante la ruota della fortuna, e ſopra di eſla una ſemicirconferen za
di cerchio , che con le ſue diviſioni ſerve a regolare quei capriccioſi giri , che
ſono l'og getto di tanti voti, e la cagione di tante vi cende dei mortali . Chi
intraprende queſti contratti pud , direi quafi, venire alle preſe con la ſorte
, e conoſcendone la forza e l'ar mi bilanciare il deſtino della lotta fatale .
Non è così certamente nei contratti che alla ſeconda claſſe ſi riferiſcono ,
ne' quali il rapporto neceſſario a formare l'uguaglianza fra i contraenti , ſi
appoggia alla ſola ſperien za del paſſato, e a cagioni incerte , e varia :
biliffime. lo ſo bene che ſi ſono pur trovati dei Filoſofi che hanno
francamente aſſerite due coſe . La prima, che nelle umane vicen de che colpi
chiamanſi della ſorte, e a noi pajono fortunoſi e irregolari, ſiavi un ordine
coſtante , eun'originale diſegno per cui dirette da una provida mano che lor dà
moto ſecon 47 1 do certe invariate leggi, eſcano a ſuo tempo ad agire in queſto
sì ben congegnato ſiſtema del Mondo . La ſeconda , che l'irregolarità , che non
agli eventi medeſimi e alle vicende , ma alle noſtre cortę vedute deveſi
attribuire , ſcom parirà finalmente , e replicate l'eſperienze fi vedrà quella
conneſſione che ora ci è inco gnita , e ſi conoſceranno i fottiliſſimi punti
nei quali ſi uniſcono i tanti fili, che regolano con sì bella armonia l'intero
univerſo . Da queſte due propoſizioni argomentano , che dunque dopo un dato
tempo , ſiccome cre ſcendo il numero delle ſperienze, queſte ci danno regola
per conoſcere ſempre più la probabilità di un evento , che anch'eſſa va ſempre
aumentando a miſura che ſe ne co noſce la regolarità, arriverà un giorno queſta
probabilità a cangiarſi in certezza . Ecco ciò che aſſeriſcono con molta ſicu
rezza alcuni Filoſofi, alla teſta dei quali è l'incomparabile Moivre più altero
di aver rintracciato ne' ſuoi intimi penetrali l'ordine della natura , e di averle
ſtrappato queſto ſe 43 creto , che non fu già il ſuo celebre concit tadino di
aver conoſciuti, e indicati i rego lari moti e le orbite dei pianeti per gl'im
menſi ſpazi del cielo . Egli è veriſſimo che la gran macchina dell univerſo
ricevè dalle mani creatrici quel grande impulſo , che poi la mantiene in moto
coſtantemente , e dal quale come da prima cagione derivano tutti i più piccoli
moti della medeſima , benchè immediatamente prodotti dalle ſottiliſſime e varie
molle che la com pongono , e le dan forza . Ad eſſo ſi riferiſce ugualmente
un'auretta leggiera che diſſipa per la ſelva poche aride foglie, e un procel
loſo vento che ſull'immenſo Oceano di ſperde e rompe una flotta ſuperba di
mille vele . Le grandi vedute di un politico illumi nato , che formano il
ſoſtegno e la forza del Trono , non ſono agli occhi dell' Onni potente niente
più luminoſe delle ignobili e ſconoſciute cure di un ſelvaggio , dirette
ſoltanto a ſoſtentare la propria vita , e a difenderſi dall'ingiuria delle
ſtagioni . Che poi l'Eterna mente che tutto sà e 49 za , o del tutto regola ,
abbia voluto che fra i varj eventi che inteflono la ſerie delle umane vicende ,
e che ſon chiamati in più ſtretto ſenſo fortunoſi ſiavi un rapporto più che un
altro , un tal'ordine e non un altro , queſto è quello che io credo non poterſi
ſcopriregiam mai . Che dopo un certo periodo ricompa riſca di nuovo l'iſteſſo
evento , chedopo certe rivoluzioni torni l'iſteſla ſerie di coſe, ridon da egli
forſe in maggior lode o della fapien potere eterno , e ſovrano ? Nell'immenſo
vortice della divinità fi pers dono le idee , che noi abbiamo di ordine , e
conneſſione . O non vi è relativamente agli occhi divini ordine e regola ; o
non potiam noi conoſcere in che conſiſta ; o tutto deve dirſi averla ugualmente
. Chi vede inſieme col preſente ſiſtema di coſe infiniti altri pof fibili ,
vede un punto che non è ſuſcettibile di quei rapporti, che ſono idee relative a
vedute limitate e finite ; o ne vede infiniti altri , per cagion dei quali pud
agli occhi ſuoi parer regolato tutto ciò che noi chiameremmo forſe diſordine, e
confuſione, d 50 Ma non è forſe neppur vero eſſere più van taggioſo all'uomo
che ſiavi di fatto nelle umane vicende queſta regolarità . Fra le infinite
vedute , che l'occhio im menſo ha preſenti per il vantaggio delle ſue creature
, chi ſaprà dire quale abbia fillata a preferenza dell'altre ? Se un Sovrano
cela ai ſuoi popoli i diſegni che forma, e le impreſe che và maturando, queſta
condotta è diretta a tenergli nella dovuta ſommiſſione , e ad allontanarne
l'orgoglio : e ſe un padre , ben chè benefico fa l'iſteſſo co'propri figli, non
lo fa ad altro oggetto , che ad animarne la cieca confidenza che è uno dei più
vivaci alimenti di un reciproco amore . Non vi è dunque argomento che comprovi
queſta preteſa regolarità degli eventi che ſi fogliono chiamare fortuiti , e
caſuali. Ma ſe ancor foſſevi, io ben non veggo ſu che fondamento ſi aſſeriſca ,
che agli occhi mortali eziandío dovrà una volta comparir chiara , e ſvanire per
conſeguenza quella ap parente irregolarità che alla ſcarſezza delle noſtre
notizie , e alla mancanza di eſperien ze , in tale ipoteſi deveſi attribuire .
SI Quando ſi vuol fiſſare la contingibilità di un evento , oſſervar dennoſi
ogni volta ch ' ei compariſce , le circoſtanze che lo accom pagnano , e
l'intervallo di tempo che paſſa fra le diverſe ſue apparizioni . Quanto più
creſceranno di numero le oſſervazioni, tanto più potrà conoſcerſi in quali
circoſtanze ed in qual tempo debba arrivare . Da queſto ap punto argomentano gl
' indicati filoſofi, che ciaſcuna ofſervazione è diretta a ſcemare un grado
della diſtanza che corre fralla irrego larità dipendente a ſenſo loro dalle
noſtre corte vedute , e la regolarità che eſiſte di fatti nell'originale
diſegno, e lega inſieme ed u niſce ſotto certe leggi tutte le varie vicende .
Replicando adunque le eſperienze , rinovan do le offervazioni, ſi potrà
arrivare a render nulla affatto queſta diſtanza ; e a ſquarciare del tutto quel
velo che cela ai noſtri occhi queſta bella regolarità . Di fatto ſoggiungono ,
che altro è la cer tezza ſe non un tutto di cui la probabilità è una parte ?
Creſcendo adunque queſta per mezzo delle oſſervazioni, potrà arrivare al 1 گرí
grado di confonderſi col ſuo tutto : ed ecco fiſſata la certezza di quegli
eventi , che ſi fo no ſempre creduti giochi , e capricci di una irregolare
fortuna . E' egli per altro evidente queſto diſcorſo ? Potrebb'egli un animo ,
che non voglia ar renderſi ad altra forza , che a quella della ve rità ,
dubitare ancora di ciò medeſimo che uomini di grande ingegno hanno tenuto per
certo ? E prima di tutto nel formare la tavola dei tempi nei quali ricompariſce
l'evento medeſimo , convien riflettere di non notare ſe non quelle volte ,
nelle quali ſi moſtra ri veſtito delle medeſime circoſtanze . Se così è , e ſe
queſte ſono preſſo che infinite , e in finitamente variabili , ne verrà per
conſeguen za che quella rivoluzione che dee ricondur l'iſteſſo evento farà sì
vaſta , e il circolo che la rappreſenta sì ampio , che o non ſi potran no da
chi oſſerva congiungere oſſervazioni sì diſparate e rimote , o sì poche ſe ne
po tranno fare , e la probabilità creſcerà sì len tamente da non potere giammai
arrivare al 53 grado di confonderſi con la certezza . Tra= laſcio di oſſervare
che un evento può com parire a noi accompagnato dalle medeſime circoſtanze, ed
eſſervi nulladimeno tanta va rietà , che ſe foſle da noi ben conoſciuta fa
rebbe sì che a tutt'altra ſerie da quella di cui ſi fanno le oſſervazioni,
dovrebbeſi ri chiamare . Si conſideri ora ſeriamente qua lunque di queſti
eventi che fortuiti chiamat ſogliamo, da quante cauſe poſſa provenire , e
queſte in quante maniere poſſano combi narſi ; e vedremo , ſe per quante ſi
vogliano replicate ſperienze ſi potrà giammai arrivare ad argomentare dalle
circoſtanze che altre volte fi videro accompagnare un evento , la eſiſtenza del
medeſimo . Quelle ragioni medeſime che immediata mente influiſcono ſugli eventi
fortuiti hanno conneſſione con vari ordini di cauſe più o meno rimote , che
innumerabili ſono ancor eſſe , e capaci di innumerabili gradi di alte razione .
E quì potrei ricorrere a tante fiſiche teorie , le quali dimoſtrano , che un
gran fe nomeno può avere la ſua prima ſorgente , tam 54 lora sì rimota che per
infiniti giri , e tortuoſi fentieri appena ſi può rintracciare ; talvolta sì
piccola , che dopo averla conoſciuta , ap pena ſi può credere che da eſſa
derivi . E la ragione , e la immaginazione vanno in queſto caſo d'accordo a
preſentare al pen fiero l'enormiſſima ſproporzione che correrà ſempre fra un
gran numero di offervazioni quali peraltro non potranno eſſere moltiſſi me , (
ſe vogliano porſi in calcolo quelle ſolo che fimiliſſime ſono , è relative ad
oggetti ſimili ) e l'immenſo vortice fra cui fi aggi ra ľ apparente
irregolarità . Di quì deriva , che a rigore parlando dubitar deveſi di quella
maſſima , che la probabilità di queſti eventi arriverà una volta a cangiarſi in
cer tezza . E quì fa d'uopo riflettere , che la proba bilità , e la certezza
ſono due atti eſſenzial mente fra loro diverſi , come dicono i meta fiſici, e
che fralla maſſima probabilità che arrivi un evento , e la certezza , vi è di
mez zo una ſerie infinita di poflibili. Il timore di errare che ſi coinpone con
la maſſiına pro . 55 babilità e viene eſcluſo dalla minima cer tezza , è una barriera
inſuperabile, per cui non ſi poſſono giammai fra loro confon dere , ed è quello
appunto che le rende ( ſia mi lecito uſare un termine di matematica trattando
di una materia nella quale ſe n'è fatto uſo con tanto profitto ) quantità in
commenſurabili . Le prime oſſervazioni che fi fanno intorno a un determinato
evento , non poſſono dargli che un grado di pro babilità così piccolo riſpetto
al vortice im menſo della irregolarità , e all' infinita ſe rie dei poſſibili
dall'evento medeſimo di verſi , che queſto grado pud conſiderarſi co me un
infiniteſimo . Siccome adunque per trasformare un infiniteſimo in una quantità
finita deveſi queſto moltiplicare per l'in finito , così queſto grado di
probabilità do vrebbe ricevere infiniti aumenti per mezzo di infinite
oflervazioni, prima che ſi poſſa chiamare ridotto al carattere della cer tezza
. Parlo di caſi nei quali la ſerie dei poſſibili, che è di mezzo fralla
probabilità e la cer 56 2 ! tezza , è compoſta di cauſe , che ogn'uno fa eſſere
non immaginate ma vere , e poterſi in infinite maniere combinare . Poche
oſſervazioni baſtano al filoſofo per render certe , o almeno eſcludenti un pru
dente dubbio , alcune ſempliciſſime leggi della natura , dove tanto è lontano
che ſi co noſca effervi infinite altre cagioni poſſibili , che anzi per
argomenti preſi dai principi delle ſcienze ſi deduce non eſſervi luogo a
ſoſpettare che altre ve ne ſiano . E' ben diverſo il caſo noftro ove trattaſi
degli eventi che danno occaſione ai contratti di azzardo ; e riguardo a quali ſi
pretende ſolo di mettere in diffidenza la maſſima che promette che ſi abbia a
cangiare in una aſſo luta e rigoroſa certezza , quella che è mera probabilità ,
e forſe capace di creſcer ſolo pochi gradi . Che non pud fare l'amor di ſiſtema
? Lo ſpirito calcolatore avvezzo a portar lume ai più aſtruſi miſteri della
geometria , e ad ana lizzare le coſtanti leggi della natura col più felice
ſucceſſo , ſi lancia ardito dal gabinetto $ 7 di un filoſofo , e prefume di
porre in mano ai mortali un filo che ſegni la traccia co ſtante degli eventi
più incerti , e di aſſoggets tare alla ſua eſattezza ed uniformità , quan to
v'ha di più vario , e mutabile . Non ſolo hanno cercato alcuni di ſcoprire
un'ordine conoſciuto dai naufragi, un'ordi ne riſpettato dai morbi , e dalla
ineſorabil morte ; ma hanno fperato di poterlo tro vare anche in quegli eventi
che più dipen dono da cauſe morali e libere , le quali agi ſcono certamente ,
non perchè così voglia un ordine e non un'altro , ma perchè così vo glion eſſe
, e non altrimenti . Si è perfino tro vato chi ha propoſto le tavole
degl'incendii , delle cadute fatali da un precipizio , e di molti altri ſimili
fortunofi accidenti come ſe ſi poteſſe ſcuoprire anche in eſſi a ſuo tempo
regola , ed ordine . Per quanto poſſa nei caſi dipendenti da fi fiche cauſe
trovarſi una conneſſione fralle me deſime per lunga ſerie concatenate , in
guiſa che debbano in un dato tempo produrre un effetto più che un'altro ; non
ſi potrà mai dire 1 1 . $$ altrettanto quando vi abbia luogo una libera volontà
che non ſiegue ordine , o conneſ fione , e che può produrre un'atto ſenza rap
porto a verun' altro che abbia altre volte prodotto , o che ſia per produrre in
appreſſo . E ſe è vero , che negli eventi , e nei caſi preſi in compleſſo di
tutte le loro circoſtanze , e in quelli ſpecialmente che ſono il ſoggetto dei
contratti di cui parliamo , qualche o più proſſima, o più rimota influenza vi
hanno le cauſe morali ; che ſi può egli penſare di più ſtravagante che il
volergli ridurre eſattamen te a regola e pretendere di cangiare la pro babilità
in certezza ? E chi fu mai che tentaffe di ordinare le diſperſe, e confuſe
foglie , che contenevano le riſpoſte ſull'avvenire, della fatidica Sacer
dotella di Cuma ? Ma quand'anche gli argomenti da me ad dotti non provaſſero
l'impoſſibilità di arriva re dopo un lunghiſſimo corſo di anni a can giare in
qualche certezza la probabilità, pro vano almeno , che per noi , e per ben mol
te generazioni queſta farà una ſterile ricer 59 ca ; giacchè per molti , e
molti ſecoli, ( ac cordando anche più di quello certamente , che ſi può ) non
ſi potrà vincere quel diſordi ne , e irregolarità almeno apparente , che of
ſervaſi nelle umane vicende , e che in ſomma il limite delle medeſime è tanto
diſcoſto , che pud conſiderarſi come infinitamente diſtante . Dal fin quì detto
per altro non ſi può ra gionevolmente inferire , che dunque dal com mercio
degli uomini ſi debbano eſcludere i contratti di azzardo che appartengono alla
ſeconda delle ſopra indicate clafli . Per provare la verità di queſta
aſſerzione convien fiſſare due maſſime conformi alla ragione , e che ſe non
erro ſono il fonda mento al quale ſi appoggia la giuſtizia di queſti contratti.
Queſta uguaglianza fra i contraenti che è sì neceſſaria a render giuſti i
contratti è un termine vago , e che non ha affiffa alcuna idea , ſe allo ſtato
di natura vogliam rimon tare . Il prezzo delle coſe introdotto o dalla legge ,
o dalla conſuetudine che imitatrice della legge la vince di autorità , ecco ciò
che 60 ha chiamata l' uguaglianza a preſiedere ai contratti . Alla ſocietà
dunque , e alle fire maſſime deveſi attribuire . Si eſamini pero lo ſpirito
della ſocietà, e ſi vedrà che nelle ſue maſſime generali non ſi devono
comprendere quei caſi che è dello ſpirito della medeſima l'eſcludergli, e l'
eccettuarli . Si riduce al lora la queſtione, ad eſaminare ſe ſiano utili alla
ſocietà i contratti in queſtione; e ſe nelle bilance del pubblico bene ſia di
maggior mo mento il vantaggio che recano , o la preciſa offervanza di quella
perfetta uguaglianza ne contratti, che è tanto neceſſaria generalmen te alla
quiete , e felicità degli individui , e al buon ſiſtema, e conſervazione di
queſto cor po morale , e politico . Pochi elementi , e poche idee ſciolgono il
problema . Induſtria eccitata , commercio invigorito , circolazione ampliata .
Vantaggi fono queſti generalmente procurati da tali contratti ben regolati ,
come ſi può ben co noſcere da chi ne eſamini lo ſpirito , e le conſeguenze .
Daqueſto argomento riceve gran forza un 61 ſecondo rifleflo . In queſti
contratti non ſi può avere fra i contraenti una perfetta ugua glianza di
condizione , perchè non ſi può eſattamente miſurare la loro forte . Ma ciò che
manca a queſta giuſta miſura è con une ad entrambi . Ad entrambi è egualme ite
i gnoto per chi debba eſſere il vantaggio , e per chi il diſcapito , potendo
ugualmente nel caſo noſtro , e l'uno , e l'altro a ciaſcun di loro arrivare ; e
queſto medeſimo forma una ſpecie di ſorte uguale , la quale pud ſupplire a
quanto manca alla perfetta uguaglianza . Diſli alla perfetta uguaglianza ,
perchè le maſſime ſopra eſpoſte ed impugnate , vacil lano ſoltanto , perchè
oltrepaſſano certi li miti , dentro dei quali rinchiuſe provano moltiſſimo,
rapporto alla uguaglianza che deve eſſere nei contratti della ſeconda claſſe .
Inteſe le maſſime con la dovuta moderazio ne , è veriſſimo che eſtraendo da
un'urna ove ſiano alla rinfufa molti viglietti bianchi e molti neri , quante
più eſtrazioni fi anderan no facendo , tanto più creſcerà la conoſcen za del
rapporto che hanno fra loro : è verif fimo che le oſſervazioni ſegnate in
tavole danno ai giovani la prudenza dei vecchi : ed è incontraſtabile che
quanto più ſpeſſo ac caderà in natura un evento , tanto più ſi po tranno
attrappare le circoſtanze che lo ac compagnano , e farà meno irragionevole l'in
duzione che dalla eſiſtenza di queſte, ſi farà della futura eſiſtenza di quello
. Si potrà dun que avere un qualche dato per eſaminare la probabilità di
un'evento , e proporzionargli il prezzo con cui ſe ne acquiſti la ſperanza .
Per formare una ſerie dei diverſi gradi di tale probabilità gioverà eſaminare
un qualche contratto in ſpecie, e fiffare i punti dai quali la ſerie ſi parte ;
poichè non ſi potrebbe con tanta facilità fare una giuſta analiſi, o alme no
egualmente chiara , ſe fi conſideraſſero le idee in aſtratto , e ſenza
applicarle ad un de terminato ſoggetto . Fra tutti i contratti che ridur ſi
poſſono a queſta ſeconda claſſe parmi che meriti di eſ ſere diſtintamente
eſaminata l'aſſicurazione , Efla è un contratto per cui uno dei contraenti ſi
obbliga a riparare tutti i danni che può un 63 . altro ſoffrire nelle ſue merci
per naufragio , o altre convenute cagioni ; e queſti ſi obbli ga a pagarli una
determinata mercede in com penſo del pericolo al quale volontariamente ſi
eſpone. 1 Fiorentini che avendo già eſteſo il loro commercio per tutto il
Levante aveano fatto conoſcere a tutto il mondo quello ſpirito di lo devole
induſtria, e fagacità, che forma il nerbo e la floridezza di uno ſtato , e che
fu ſempre del loro carattere , furon quelli che riduſſero a certe leggi queſto
contratto, e gli diedero for ma e credito . Inſegnarono così alle altre na
zioni commercianti a tirarne quel profitto , che il profondo , ed illuminato
Melon aſſe riſce dover eſſere sì ampio per uno ſtato che abbondi di eſperti, ed
avveduti aſſicuratori. Di fatto alla Repubblica Fiorentina deb bonſi i primi
capitoli di aſſicurazione che furono diſteſi negli anni 1523. , e 1525. A
queſti ſucceſſero negli anni 1563. , e 1570. le ordinazioni di Olanda . Non è
ſtata queſta l'unica occafionein cui abbiano, gareggiato in fatto di commercio
64 queſte due nazioni , la prima delle quali ha faputo ſempre profittar
pienamente delle fe lici fue circoſtanze , e la ſeconda compenſare ognora in
mille modi i danni della infelice ſua ſituazione; e inſultar quaſi alla natura
di ayerla in eſſa collocata . Gli ſcrittori che hanno trattato di queſto
contratto lo diſtinguono in due ſpecie. La prima chiamano eſſi aſſicurazione
propria mente detta , ed è quando le merci che ne ſono l'oggetto appartengono
di fatto a quello che ne chiede l'aſſicurazione ; e queſto è ciò che intendono
ſotto il nome di riſico dell' aſſicurato ; ed inoltre ſono eſſe realmente ſog
gette a pericolo , o com'eſſi dicono a ſiniſtro . Per la validità di queſto
contratto ricercaſi la coeſiſtenza del riſico , e del ſiniſtro ; ed è quanto
dire , che l'aſſicuratore non deve pa gare la ſicurtà , nè l'aſſicurato la
mercede , ſe le merci avean corſo già il loro deſtino quan do fi ftipulò il
contratto , o ſe non apparten gono all'aſſicurato . Per maggior comodo poi , e
dilatazione di commercio fu introdotto il contratto di affi 65 curazione ſulle
merci o proprie , ma non nella ſomma che ſi afferiſce , e che cade ſotto l'aſſi
curazione : o appartenenti affatto ad altra perſona . In queſto contratto il
fondamento conſiſte nella fola eventualità dell'azione; e ſi può in eſſo
ravviſare un'apparenza di Scommeſſa della quale però gli mancano ſe condo molti
, alcuni caratteri . Anche in queſta ſeconda ſpecie comunemente ricer caſi, che
le merci ſiano in pericolo ancora quando ſi fa il contratto ; benchè in alcune
piazze ſi ſoſtenga anche nel caſo che le merci aveſſero già corſa la loro forte
quando ſi ſti puld il contratto , purchè però queſto non foſſe a notizia dei
contraenti . Per ridurre pertanto in qualche vero ſenſo il contratto di
aſſicurazione alla Teoria ſopra eſpoſta regolatrice della uguaglianza neceſ
faria nei contratti di azzardo , fa d'uopo con ſiderare due fatta di caufe che
influir poſſono full'evento incerto , che ne forma l'oggetto . Altre ſono le
cauſe fiſiche che per un puro meccanico impulſo della materia agiſcono in
dipendentemente da qualunque libera deter 66 minazione di una cauſa ſeconda ;
il mare cioè più o meno ſparſo di pericoli , agitato da vortici , terribile per
gli ſcogli ; il vento che tormenta più un ſeno di mare che un altro , e domina
più in una ſtagione, che in un altra ; la qualità del naviglio , più o me no
capace di reſiſtere agli urti , e di inſul tare gli Aquiloni ; e finili altre
che a que ſte ridur ſi ponno , anzi con queſte confon derſi . Più incerte
affai, e più indocili all'eſat tezza del calcolo ſono quelle cagioni che mo
rali ſi chiamano , perchè o conſiſtenti nella libera determinazione di un ente
creato , o da quella dipendenti almeno mediatamente . La deſtrezza, e la buona
fede del capitano : l'abilità dei marinari e dei piloti : il nume ro , e la
gagliardìa dell'equipaggio : la mag giore o minor frequenza dei pirati che infi
diano fraudolenti, e poi attaccano rapaci ; o dei nemici armatori che
appoggiano le fan guinoſe loro infeſtazioni ai tremendi diritti della guerra ,
ſono o le uniche , o le più con ſiderabili di queſte cauſe morali . 67 i Se il
fondare un calcolo eſatto ſulle fiſiche cagioni ſuaccennate è impoſſibile: il
fondarlo che ſi accoſti all'eſattezza difficiliſſimo : lo ſarà molto più
l'appoggiarlo alle cauſe morali che non agiſcono per una conneſſione di mo
vimenti , e d'impulſi che l'un l'altro fiſie guano neceſſariamente; ma che
operano per una mera libera determinazione , che per qualunque congettura la
più apparentemente probabile non ſi può preſagire; poichè anche preſa può ſul
momento abbandonarſi , per cangiarla in una affatto diverſa , e talora dia
metralmente oppoſta, e contraria . Un canone perd univerſaliſſimo, e da non
preterirſi giammai in queſto contratto , parmi quello di non conſiderare
neſſuna cauſa , o fiſica , o morale , ſeparatamente o iſolata dalle altre ; ma
di oſſervare l'influenza reci proca che hanno tutte le cauſe l'una ſopra
dell'altra , e quella non meno che hanno ſulle morali ; e l'iſteſſo dicaſi di
queſte rapporto alle fiſiche . Il momento di ciaſcuna cauſa ſi altera a miſura
che diverſamente è combi nata , o temperata colle altre . e 2 68 Per conoſcere
però quanto poſſano queſte cagioni , e ſingolarmente preſe , e in complef ſo ,
è neceſſaria una lunga ſperienza . In queſto contratto , per caſi ſiniſtri non
ſi intendono già tutte quelle combinazioni , che realmente poſſono funeſtare
l'aſſicuratore , e perder la nave , nè per favorevoli quelle che ſalva dai
naufragi, e dalle oſtili violenze , la confe gnano al ſoſpirato porto . Fatta
una tavola di accurate , e frequenti oſſervazioni , e conoſciuto quante volte
in parità di circoſtanze ſiaſi perduta la nave , e quante ſia giunta
felicemente al deſiato fuo termine ; la ſomma delle prime rappreſenta la ſomma
dei caſi ſiniſtri ; e quella delle ſe conde ſi tiene per il numero dei
favorevoli ; e ſu queſti dati ſi forma la proporzione da noi ſtabilita nel III.
Teorema . Queſta è la ſpecifica differenza che paſſa fra i contratti del primo
genere , e queſti che al ſecondo appartengono . Nei primi entrano in calcolo
tutti quanti i poſſibili caſi e fini ſtri, e favorevoli, perchè ſi fanno tutti
, e ſe ne conoſce perfettamente il numero ; noi 1 69 ſecondi fi calcolano
quelli ſoltanto , che dopo una lunga ſperienza ſi ſono oſſervati ; reſtan done
non compreſi nel calcolo tanti altri pof ſibili , i quali perd dopo molte e
molte oſler vazioni fi fuppongono in proporzione di no tati . La proporzione ſi
accoſta tanto più al vero , quanti più ſono i caſi oſſervati, come appunto
accade nell'urna che contiene un ignoto numero di palle bianche e nere : delle
quali con tanto minor pericolo di errore ſi può fiffare la proporzione , quanto
più copioſa ſe ne è fatta l'eſtrazione. In una parola , nei primi è incerto
l'eſito della ſorte ; nei ſecondi è incerto anche ciò che può determinarlo .
Rariſſimi però ſono i caſi che ſieno riveſtiti perfettamente delle medefine
circoſtanze . Fa d'uopo adunque per formare la propor zione ricorrere alle
diverſe tavole , ove ſono notate le circoſtanze preſe ſeparatamente; e
conſiderarle come tanti elementi dei quali ſono compoſti i dati della
proporzione . Scioglie una nave dal Porto , e veleggia per un mare tranquillo ,
e placido ; queſta circoſtanza è un fondamento della propor 70 zione da
ſtabilirſi fra il valor delle merci , e il prezzo dell'aſſicurazione; e la
tavola delle navigazioni fatte in queſto mare lo additerà preciſamente. Ma fe
queſta nave corra un pericolo di pirati , o di nemici che le altre navi facendo
il medeſimo viaggio non avevan corſo giammai , nel formare la proporzione vi
entra anche queſto elemento , la di cui forza ſi miſura dalla tavola di altre
naviga zioni benchè fatte in altri mari , e ſi compone il minor pericolo che ha
queſta veleggiando per un mare tranquillo ; col pericolo che cor ſer altre per
la ſola oſtile infeſtazione. Vaglia queſto per eſempio delle proporzioni com
poſte di varj elementi , il valor dei quali ſia regiſtrato in diverſe tavole ,
non obliando giammai nel combinarli la forza che acqui ſtano dalla reciproca
loro influenza . Ma può talvolta non eſſervi l'eſperienza baſtante a far
conoſcere i gradi di probabi lità dell'eſito lieto , o infauſto . Monta per la
prima volta un vaſcello un Capitano, che non ha mai per l'avanti governato
naviglio alcuno: infeſta i mari una turma di corſari 1 1 71 sbucati da qualche
ſcoglio che alzava prima una barriera alla fanguinaria loro rapacità e dei
quali ignoraſi per anco il numero , ed il valore , o a meglio dire la violenza
della eſecrabile loro ſete dell'oro e del ſangue ; chi potrà miſurare i gradi
dell'influenza che ha ſull'eſito felice la prụdenza e la deſtrezza del primo ,
e ſull’infauſto l'ardire , e la forza dei ſecondi ? In tal caſo per quanto
vogliaſi dare un va lore anche a queſte circoſtanze nuove ; fon dandolo ſu
qualche piuttoſto appreſa , che conoſciuta ſomiglianza ad altri caſi; egli è
certo però che ſenza una più volte ripetu ta eſperienza, non può fiffarſi una
propor zione di cui ſi calcolino i gradi , e ſi nume rino i valori ; e ſenza di
eſſa non ſi può for mare una ſerie che ſerva di norma all'u guaglianza
ricercata in tali contratti. Tutto alla fine ci conduce a riflettere , che una
e fatta proporzione nei contratti del ſecondo genere non può ſperarſi giammai ;
che in molti caſi ſi potrà avere meño lontana dall' eſattezza ; in altri ſi
troverà dalla medeſima 72 più rimota , come dal fin qui detto chiara mente
appariſce . Ma forſe gli aſſicuratori interrogano que ſte tavole , formano
calcoli , e ſciolgon pro blemi ? Il filoſofo che ſcortato dalla ragione fino ai
loro principi eſamina le azioni degli uomini e le bilancia , conoſce che queſti
cal coli ſono neceſſarj a ridurre i contratti all' uguaglianza e comprende che
queſta tanto più ſi otterrà facilmente , quanto più ſiano frequenti queſte
tavole , e numeroſi i caſi che ad eſſe , come a indicatrici della ſorte ſono af
fidati; l'aſſicuratore poi accorto ed illumi nato le conſulta , o le deſidera ;
l'indotto , e meno avveduto ha preſente, almeno in con fuſo la maggiore , o
minor frequenza de' fini ſtri nelle date circoſtanze ſeguiti , e ſu queſto
implicito calcolo forma il ſuo giudicio più o meno eſatto , e non ſi affida
totalmente alla cieca all'arbitrio dell'incerta forte . In queſto contratto il prezzo
che eſpone l'aſſicuratore , è il valore delle merci , che egli ſi mette in
azzardo di dover pagare all' aſſicurato ; quello dell'aſſicurato è la merce: 1
73 de che egli paga all'aſſicuratore in compenſo di queſto azzardo medeſimo .
Ma ſiccome fatto il contratto di aſſicura zione , l'aſſicurato deve in
qualunque evento pagare all'aſſicuratore la convenuta merce de , pare a prima
viſta che per l'aſſicurato non ſiavi azzardo alcuno ; poichè dal punto dello
ſtabilito contratto è deciſa la ſua forte ; o a dir meglio riguardo a lui nel
ſuo con tratto non ha luogo alcuno la forte . Baſta però una giuſta rifleſſione
ſulla natura di tal contratto , per vedere che anche per l'aſſicu rato vi è
l'eſito favorevole della ſorte ſicco meancora l'infauſto . Caſo favorevole può
chiamarſi quello che rende il contraente pago , e contento di aver fatto il
contratto ; talmente che ſe aveſſe pre veduto l'eſito , conſultando ſolo il ſuo
van taggio , l'avrebbe nonoſtante fatto , anzi con tanto maggiore alacrità .
Per lo contrario infauſto può dirſi quello che in qualche modo gli dà occaſione
di pentimento , in guiſa che ſe aveſſe previſto l'eſito avrebbe omeſſo di fare
il contratto. Ora quantunque 74 l'aſſicurato , fatto il contratto ſia già
ſicuro di dover pagare la mercede , qualunque ſia l'evento ; quando però la
nave giunga a ſal vamento , è in caſo di pentirſi del ſuo con tratto ; poichè
ſe non lo aveſſe fatto , e avreb be avuta ſalva la nave , e non avrebbe fof
ferto il diſpendio della ſtabilita mercede . In queſto ſolo ſenſo , e non in
altro , che ſareb be troppo contrario all'umanità , poichè ſi riſolverebbe in
compiacerſi dell'altrui dan no , che neppur ridonda in proprio vantaggio , ſi
pud intendere ſiniſtro per l'aſſicurato il caſo del ſalvamento della nave ; e
in queſto ſolo può ridurſi il contratto al carattere di una vera ſcommeſſa , di
cui è eſſenziale ſe condo alcuni , che l'avvenimento favorevole ad uno dei
contraenti , ſia per l'altro infau ſto , e ſiniſtro . Conchiuſo il contratto ,
l'al ficurato che ha ſentimenti di umanità , deſi dera che ſi falvi la nave ,
ma falvata la nave vorrebbe non aver fatto il contratto . Quello che non ſi può
in modo alcuno ri durre a calcolo , ſi è nella perdita di una na ve , la
minore, o maggior quantità di merci , ! 75 che ritoglier ſi potranno
all'ingordigia dell onde , e ritrarre al lido ; lo che ſuccede mol te volte , e
fa che non debbanſi tutti i cafi ſiniſtri giudicare di un carattere egualmente
dannoſo ; ma diverſi , a miſura , che più o meno delle aſſicurate merci , ſi
perde , e ro vinafi . Il poter prevedere , e calcolare in a vanti tal quantità
influirebbe molto a deter minare la mercede che l'aſſicurato promet te . Ma chi
potrà mai calcolare le tante cauſe che poſſono influire ſopra un sì variabile
ac cidente ? Forſe l'aſſicurato avrà all'ingroſſo preſente queſta varietà di
combinazioni ; ma potrà egli dare ai loro effetti un giuſto valore ? I principj
fin'ora eſpoſti regolatori di que Ito contratto , quando ha per oggetto merci
affidate al pericoloſo traſporto di mare , pof ſono facilmente adattarſi alle
merci traſpor tate per terra ; anzi alle merci , o ſituate nei magazzini , o in
altra maniera cuſtodite . Tutto ciò che può eſſer ſoggetto ad un fatal
accidente , e per quello perire , o deteriorarſi , fi fa eſſere oggetto di
queſto contratto . Anzi il guaſto di un incendio divoratore , le ruine 70 di un
turbine procellofo che abbatte caſe , porta la deſolazione per le campagne , la
vio lenta incurſione di rapaci aſſaſſini, o le ru berie affidate al ſegreto e
alle tenebre della notte dalle timide mani infidiatrici , ed altri pericoli di
tal fatta , che a prevederli biſogne rebbe nulla meno che lo ſpirito di
divinazio ne , ſomminiſtrano in alcuni paeſi occaſione di venire alle mani con
la ſorte , ſenza che nè l'una parte nè l'altra poſſa mai, neppure all'in groſſo
e colla maggiore ineſattezza , miſurarla . Un'altro contratto non meno
intereſſante , e che appartiene a queſta ſeconda claſſe ſi è quello che
chiamaſi vitalizio . Gli uomini non contenti di affidare la loro forte a tante
, e sì varie combinazioni che alterano , e modificano sì ſtranamente gli ef
Teri inanimati ; hanno voluto che ella dipen da anche dalla vita dei loro
ſimili , ed hanno fatto sì che un uomo debba ftimarſi infelice ſe un altro gode
per lungo tempo sì prezioſo dono del cielo . La vita iſteſſa è venuta tal volta
in bilancia con un tenuiſſimo guadagno . Il vitalizio altro non è che l'annuo
inte 77 ! reſſe di un capitale collocato a fondo per duto . Chi colloca in tal
guiſa il ſuo capitale lo fa ad oggetto di ritrarne un profitto mag giore di
quello che riſerbandoſene il dominio potea ſperare. Suol eſſere comune queſto
con tratto e a coloro che non avendo perſone congiunte con ſtretto vincolo di
ſangue o di amicizia , o che non curando le veci dell' uno , o dell' altra ,
non hanno nulla che gli ritragga dal provvederſi i mezzi di ſodisfare anche a
quei biſogni che ſono figli del più molle, e faſtoſo luſſo ; e a quegl'
infelici, che ſenza queſto compenſo condur dovrebbero i triſti loro giorni in
ſeno all'inopia, e allo ſqual lore . Il vantaggio di liberarſi da tante fre
quenti , e penoſe cure della domeſtica eco nomia luſinga molto , ed è talor
neceſſario , a chi trovandoſi in un'età cadente , accom pagnata per lo più da
una infaufta dote di mali, vedrebbe da mercenarie mani rapaci diſperſi, e
lacerati i ſuoi fondi , rendergli un frutto di gran lunga inferiore a quello
che potrebbe ritrarne perchè diviſo con tanci domeſtici fti pendiati
uſurpatori. 78 Quello poi che ſi carica di pagare un frutto maggiore dell'ordinario
ha per oggetto non folo di fare in un colpo l'acquiſto di una ragguardevole
ſomma , ma di vedere la vita di quello a cui lo paga non oltrepaſſare un tal
corſo di anni che la rendita ecceſſiva af forbiſca il capitale , e la ſomma
degli inte reſſi ordinarj , che egli ne ha ritratti . Aipri mo arride la ſorte
fe ſopravviva un tal nu mero di anni che fatta la ſomına delle an nuali rendite
vitalizie , queſta ſuperi il fondo perduto e di più le rendite ordinarie del
medeſimo . Favoriſce il ſecondo ſe la morte fi affretti a troncare prima di tal
termine i giorni dell'altro . Ecco lo ſpirito di queſto contratto . Per
rintracciare nel medeſimo la neceſſaria uguaglianza , e per verificare i noſtri
teore mi è neceſſario riflettere , che sborſato il ca pitale che ſi perde , e
fiſſata la rendita mag giore dell'ordinaria , vi ſarà un certo nume ro di anni
, per il corſo dei quali ſopravi vendo , la ſomma degli ecceſſi della rendita
vitalizia full' ordinaria uguaglierà il capita 6 79 le . Se quello adunque che
perde il fondo foſſe ſicuro di ſopravivere un tal corſo d'an ni , non potrebbe
eſiger di più di queſta de terminata rendita vitalizia . Ma ſiccome quel lo che
dà a vitalizio non è ſicuro di vivere un determinato numero d'anni ; per poter
rendere eguali le condizioni dei contraenti , è neceſſario fiſſare un tal
numero d'anni , che la probabilità di ſopravivere ſia uguale a quella di
premorire , e che al caſo che uno ſopraviva o due o tre anni , o qualunque
altro numero , ſi poſſa con ugual probabilità contrapporre il caſo che muoja un
egual nu, mero d'anni prima . Quando dunque ſi tratta di formare un vitalizio ,
conviene eſaminare quanto abbia ſopraviſſuto un gran numero di perſone , per
eſempio mille , all'età di quello che vuol farlo . La ſomma di tutti gli anni
che tali perſone hanno ſopraviſſuto di viſa per il numero delle medeſime , dà
un numero , che ſi chiama l'età media . Trovato queſto , ſi ſuppone che chi fa
il vitalizio deb ba ſopravivere fino a tal termine , e ſi fa il diſcorſo che ſi
è detto di ſopra , quando ſi è 80 fatta l'ipoteſi che uno foſſe ſicuro di
vivere nè più nè meno un determinato numero d'anni . Nel fiſſare la media ſi
ſono conſide rati gli eventi che poſſono favorire il caſo della ſopravivenza
eguali in numero a quelli che vi ſi oppongono ; uguaglianza che ſi ac coſterà
tanto più al vero quanto ſarà mag giore il numero delle vite dalle quali ſi ri
cava la media . Ecco dunque, come in queſto caſo la ſpe ranza può dirſi uguale
al timore , e per con ſeguenza può aver luogo l'azzardo ſenza op porſi alla
giuſtizia , ed ecco finalmente ridot to il contratto ai termini dei noſtri
teore mi . La ſomma del capitale più le rendite ordinarie , che è il prezzo
eſpoſto da chi perde il fondo , deve ſtare alla ſomma delle rendite vitalizie
che formano il prezzo eſpoſto dall' altro contraente , come il numero dei cafi
favorevoli al primo , al numero dei caſi fa vorevoli al ſecondo ; i quali
ſupponendoſi moralmente uguali per l'accennata ragione , ne ſegue che la ſomma
del capitale , e delle rendite vitalizie dovrà eſſere eguale alla fom 81 ma del
capitale , e delle rendite ordinarie computando tal ſomma fino al termine del
la vita media , che per ipoteſi ſi dà ſtabilito per l'indicato calcolo . Si
ridurrà dunque l'uguaglianza di queſto contratto a diſtribui re per detto
numero d'anni queſta ſomma ; o ſia a rendere anche più ſemplice l'eſpreſ fione
, ſi tratterà di aggiungere alle annue rendite ordinarie il capitale
diſtribuito per detto numero d'anni . E'evidente che per rendere in queſto
contratto le condizioni più eguali convien pigliare un grandiſſimo nu mero di
vite per formar la media . E quì ſi oſſervi che ſe poteſſe la probabilità della
du rata di una vita fino a un dato numero d'an ni cangiarſi in certezza ,
ſarebbe tolto affatto l'uſo di queſto contratto : lo che dee dirſi di tutti i
contratti di azzardo . Si penſa a can giare la probabilità degli eventi in
certezza . Se queſto ſi otteneſſe ſarebbe affatto bandita quella cieca divinità
alla quale ſi abbando nano gli uomini per formarne un ramo di commercio .
Vogliamo adunque miſurar la forte , non eſpellerla . f 82 Tanto più farà facile
in queſto contratto fiſſare la media , quanto più ſaranno ridotte a claſſi
diſtinte le perſone delle quali ſi ſom mano le età . Qualità di profeſſione,
carattere di temperamento , indole di clima , eligono ſeparate oſſervazioni .
In fatti, ſiccome per cali favorevoli s'intendono quelli per i quali ſi
prolungano le vite , per contrari quelli che le abbreviano ; e i ſecondi , nel
fillarſi l'età media vengono conſiderati moralmente ugua li di numero ai primi
; queſta uguaglianza ſarà più vicina alla vera , quanto maggiore ſarà la parità
di circoſtanze . Se abbiaſi però riguardo non ſolo alle an nue rendite
vitalizie , ma al frutto delle me deſime, potendoſi eſſe, e il frutto loro
cangia re ſucceſſivamente in forte fruttifera ; fic come quello che paga
l'annua rendita vita lizia paga un frutto maggiore di quello che ritrae ; dovrà
a proporzione ſcemarſi l'ecceſſo della rendita vitalizia ſull'ordinaria .
Queſto però non ſi oppone alla verità del teorema terzo ; poichè in tal caſo il
prezzo che eſpo ne quello che paga la rendita vitalizia non ܪ 83
farà più quell'ecceſſo della rendita vitalizia ſull' ordinaria , che naſcerebbe
dalla fillata proporzione ; ma ſarà un ecceſſo tanto mino re , quanto è la
differenza del frutto della rendita vitalizia conſiderato ſucceſſivamente , e
per ferie cangiato in forte fruttifera , dal frutto della rendita ordinaria
conſiderata nell'iſteſſa maniera , e così cangiandoſi pro porzionalmente le
eſpreſſioni dei due prezzi , non ſi cangerà l'analogia . Non farà difficile il
perſuaderſi dell'indi cata differenza fe fi conſideri, che chiamata la ſorte
totale per eſempio A , e una di lei porzione C , alla quale corriſponda l'annuo
frutto B , ſarà la ſerie delle annue rate d'in tereſſe o ſia di ciò che ſi deve
ogni anno nella ipoteſi che il frutto ſi cangi in forte , eſpreſſa dalla
ſeguente formola . (C + B ) A ,( B ) A ( C ( C + B С N o ſia eſprimendo per Nil
numero degli anni ſcorſi dal primo (C + B) À laddove quando il N frutto non ſi
cangia in ſorte fi avrà una ſe C_A f 2 84 rie aritmetica il di cui primo numero
cor riſpondente al primo anno farà il capitale col frutto ; il ſecondo il
capitale col doppio del primo frutto ; il terzo il capitale col tri plo del
primo frutto . Il valore adunque del frutto del primo anno ſarà la differenza
dei termini di queſta ſerie . Siccome poi nel caſo dell'ultima ipoteſi , tanto
la rendita ordiną ria , quanto la vitalizia ſi cangiano in forte; fatte le due
ſerie di potenze ſecondo la eſpo fta formula , e ridotte ai termini individui
del caſo di cui ſi cerca , ſi conoſcerà il valore della ricercata differenza .
Richiaminſi però a queſto contratto i prin cipj ſtabiliti in quello
dell'aſſicurazione, e ſi abbia in viſta che per caſi favorevoli , altro non
s'intende , che il numero di quelle per ſone che in parità di circoſtanze hanno
ſo pravviſſuto un dato numero d'anni , per ſi niſtri poi il numero di quelle
che ſono man cate prima ; che queſta parità di circoſtanze vien compoſta talora
da molti elementi il valore de'quali dev'eſſere prima a parte no tato ; e che
la vita dell'uomo dipendendo da 85 cagioni fiſiche e morali , fa di meſtieri
riflet tere al diverſo loro carattere , e alla recipro ca influenza delle
medeſime. Lodevolilimo però è l'uſo di far le tavole , o regiſtri, nei quali ſi
notino la naſcita , la morte , e gli altri accidenti della vita umana ; poichè
queſte ſole appreſtano il fondamento ſu cui ſi appoggiano tanti vantaggioſi con
tratti ; ed elle ſole danno la miſura delle forti, e delle aſpettative dei
contraenti . Sarebbe in conſeguenza deſiderabile che ciaſcun medico regiſtraſſe
privatamente le qualità , e gli accidenti dellemalattie che egli tratta ;
ſiccome quelle del temperamento di ciaſcun malato , che egli libera , o che non
può ritrarre dalle prepotenti fauci di morte . Queſte ridotte in ſiſtema, e
reſe pubbliche riſparmierebbero molte volte la pena di com binarne molte
formate da indotti oſſervatori , anzi fovente farebbero neceſſarie ; poichè
l'imperito regiſtratore omettendo tutte le circoſtanze , o alcuna almeno delle
eſſenziali , rende inutili le ſue oſſervazioni, e appreſta piuttoſto occaſione
all'altrui errore , o irri fleſſione . 86 Benchè e da quali tavole ſi potrà mai
rica vare la giuſta miſura della vita d'un uomo ? Quot non ſunt caufae , dice
S'graveſand intro duft. ad Phil. a quibus vita hominis pendet ? Una di queſte
tavole forſe la più eccel lente , perchè ricavata da regiſtri d'interi regni e
provincie , è quella di Pietro Süſmlich da lui intitolata : La divina
providenza nelle vicende dell'umana ſpecie , dimoſtrata dall'or dine delle
naſcite , morti e moltiplicazioni . Celebre è anche quella di Hocdſon fatta
appunto per fillare le annue penſioni vitali žie , e dedotta dai cataloghi di
mortalità di Londra . Gl’Italiani forſe ſono quelli che hanno traſcurato
fin'ora più dell'altre nazioni queſti importanti regiſtri. Oh ſe lo ſpirito
d'indu ſtria , e di curioſità , che non è l'ultimo pre gio di queſta nazione ſe
l'intendeſſe ſempre con la vera , ed utile filoſofia ! Sono ſtate fatte
oſſervazioni meteorologiche , ed ulti mamente l'aſtronomo di Padova il chiariſ
fimo S: Toaldo ha dato alla luce un libro nel quale ſono regiſtrate le
oſſervazioni fatte 87 í per un lungo corſo d'anni . Più palpabile però , per
ſervirmi di una eſpreſſione di un fommo Filoſofo , e più immediata ſarebbe
l'utilità delle tavole di cui ſi parla . Vi è tutta la ragione di aſpettarla
grandiſſima, dalla aſſiduità , ed efficacia dei noſtri Italiani oſſervatori. Il
preſagio comincia ad avve raríi felicemente . Già dai regiſtri delle na ſcite ,
che la noſtra fanta religione rende neceffari, ſonoſi ricavate delle
conſeguenze ſull'articolo della popolazione : ficcome dalle oſſervazioni delle
frequenti morti dei bambi ni , ſi è preſa occaſione di rintracciarne la cauſa ,
e d'indagare la maniera di ſalvare queſti teneri germi , che sì facilmente foc
combono anche ad un leggiero urto , e ad una tenue ſcoſſa . Al genere dei
vitalizj appartiene quella convenzione , che dal ſuo oggetto chiamaſi: la dote
della figlia . Un provido padre sborfa una determinata ſomma di denaro con la
condizione che fe una tal figlia di freſco natagli manchi prima dell'età nubile
, la sborſata ſomma cada in 88 proprietà di quello che l'ha ricevuta ; ma ſe la
figlia arrivi all'età nubile riceva eſſa da queſto una ſomma proporzionata
agl'intereſſi decorſi del denaro , e al pericolo in cui ella è ſtata di morire
in tal intervallo , e di per der così la ſomma dal padre sborſata . Dovrà in
tal contratto rifletterſi che il prez zo , che sborſa il padre per la figlia è
uguale alla fomma più le rendite ordinarie fino all anno prefiffo ; quello che
azzarda l'altro è l'ecceſſo della dote ſopra la sborfata ſomma , e i frutti
ordinari: ecceſſo che fi deve per l'incertezza della vita . Deve dunque come il
numero dei caſi favorevoli alla vita della figlia fino alprefillo termine , ſta
ai ſiniſtri (a) , o fia ai favorevoli all'altro ; così ſtare la ſom ma sborſata
dal padre , più le rendite ordi narie , all'ecceſſo della dote che ſi dovrà
alla figlia in caſo di ſopravvivenza ſulla ſomma sborſata più le rendite
ordinarie . Havvi un'altro contratto per cui un par ticolare, che vuol comprare
una conſidera ( a) Anche in queſto contratto i caſi favorevoli , e i finiftri
s'intendono come fi dille parlando de' vitalizji 89 bile carica ; per non
privare della ſomma ne ceſſaria a tal acquiſto una famiglia a lui ca ra che la
ſua morte potrebbe mettere in braccio alla deſolazione, e all'inopia ; fi fa
aſſicurare la propria vita per un dato corſo di anni , pagando , o una ſomma, o
un'an nua penſione all'aſſicuratore , che ſi obbliga all'incontro di pagare
agli eredi di lui la ſom ma ſpeſa nell'acquiſto della carica , ſe egli muoja
prima del termine ſtabilito . La eva luazione della vita , si in queſto , come
in tutti gli altri caſi ſi ricava dalle non mai ab baſtanza commendate tavole .
Si oſſervi, che in queſto contratto quello che riceve la ſoin ma o l'annua
penſione, trova vantaggio nella prolungazione della vita di chi la sborſa , al
contrario di ciò che accade nei vitalizj , e negli altri contratti ad eſſi
analoghi . Nel for mare adunque la proporzione cangian nome fra loro i caſi che
nei vitalizj ſi chiamano favorevoli, o ſiniſtri; del reſto non vi è dif ferenza
veruna . E' queſto un contratto di cui tanto meno importa trattenerſi ad eſami
nare i dettagli quanto importa più alla feli 1 $ 1 1 1 1 1 go cità di uno ſtato
che non poſſa mai trovarſi occaſione d'iſtituirlo . Diaſi però in quella vece
una rapida oc chiata a quello che dal nome del ſuo inven tore chiamaſi Tontina
. Non differiſce que fto dal vitalizio , ſe non in ciò che ove in quello la
rendita annua ceſſa alla morte di colui , che collocò il ſuo capitale a fondo
per duto ; in queſto ſi diſtribuiſce nei ſuperſtiti che appartengono alla medeſiına
claſſe , e che hanno fatto un ſimile contratto col padro ne della tontina .
L'ultimo però di ciaſcu na claſſe conſolida ſul ſuo capo tutte le ren dite che
ſi pagavano a quegli che gli ſono premorti nella ſua claffe . A formare le
diverſe claſli dà norma la diverſa età . E' celebre la Vedova di un Chirurgo di
Parigi la quale morì in età di 90. anni , e godeva 35000, lire di annua
penlione frutto di uno sborſo di 600, lire . Dalle tavole di mortalità ſi è
ricavata la formula che eſprime in un dato numero di vite coetanee quanti anni
ſia per durare la più lunga . Da ciò il padrone della tontina pud co 91 lui il
pagare a o il noſcere per quanti anni dovrà pagare le ren dite ; poichè per il
ſovra eſpoſto carattere di tal contratto , val lo ſteſſo per ciaſcuno la ſua
penſione col diritto di ac creſcere , che hanno quelliche ſopravvivono , pagare
la fomma di tutte a quella vita che durerà più dell'altre . Potrà per conſe
guenza fiſſare il valore di queſte annue pen ſioni . Si è in oltre trovata la
formola che eſpri me , dato qualunque numero di vite coetanee , il tempo in cui
uno , o due , o più manche ranno , la formola per il caſo che più perſo ne
comprino un annualità da dividerſi fra loro mentre vivono , da dividerſi poi
dopo la mor te di qualcuno di loro ugualmente fra i ſo praviventi, e da
ricadere finalmente tutta all'ultimo ſuperſtite da goderſi durante la ſua vita
; e queſta ancora dà lume agli azionari ſulla contribuzione che devono
preſtare. E faminate queſte formole , ed avuto in conſi derazione il metodo
tenuto nel fiſſare la pro porzione per i vitalizj , ſi ritrova facilmente la
medeſima anche per le contine . 92 1 1 E' oltre ogni credere benemerito dell'u“
manità il gran inatematico Abramo Moivre , che ha trovate , e applicate le
anzidette , e molte altre formole , che ſi trovano nella incomparabile ſua
opera intitolata la dot trina degli azzardi . Io non le ho riportate perchè il
far ciò e troppo lungo ſarebbe , e devierebbe dallo ſcopo fin da principio pro
poſtomi. Benchè peraltro l'unico mio oggetto nell’ eſaminare i contratti
d'azzardo ſia quello di fiſſare i principj sù cui ſi fonda l'uguaglianza perchè
ſian giuſti ; voglio rammentare , che i più illuminati politici hanno deteſtato
l'a buſo di queſte pubbliche rendite , come ap punto ſono le tontine , ed altre
di fomi gliante natura . E' troppo chiaro che queſte tendono a ſoffocare i
germi dell'induſtria , e ad appreſtare alla parte ozioſa , e indolente della
ſocietà armi ſempre nuove per oppri inere la porzione che co'ſuoi ſudori dà
moto , ed anima al ben eſſere dello ſtato ; oltre di che ſi oppongono alla
propagazione , allet tando eſſe a ſituarſi in uno ſtato nel quale il 1 I 93
generar figli ſarebbe un'accreſcere il numero degl’infelici . En fin je ne me
plaindrai plus De l'etoile qui me domine ; Il me reſte encore cent ecus Que je
vais mettre a la Tontine : O la charmante invention ! Sans avoir du Dieu Mars
eſſuyé le orages , Sans avoir fatiguè la cour de mes hom mages , Je ferai ſur
l'etat , & j'aurai penſion . Così cantò un elegante Poeta Franceſe in
tendendo così di far la ſatira delle tontine ; e pare di fatto che il Poeta
potrebbe ora viver quieto ſu queſto articolo eſſendo eſſe molto ſcemate , e
andate in diſuſo , benchè non così gli altri contratti del genere di cui
parliamo . Ma d'altra parte eſſendo utiliſſimo, e tal volta neceſſario al ben
dello ſtato il poter ſollecitamente raccogliere una grandioſa ſomma di denaro ,
ſenza imporre perciò nuo ve contribuzioni; ed effendovi talora molti cittadini
, le circoſtanze dei quali rendono ad eſſi neceſſario il ſoccorſo di queſte pen
94 . fioni vitalizie ſi potrebbero forſe ritrovare provvedimenti opportuni ,
per fare un eſame regolato dell'età , e delle circoſtanze di quelli che
doveſſero eſſere ammeſſi alla compra delle azioni , e con i neceſſari
regolamentipreveni re gl ' inganni , che in queſto articolo intereſ fante
poteſſero deludere le pubbliche vedute . 1 1 1 1 . 1 Per eſaminare i contratti
della terza claſſe ne quali il rapporto su cui ſi fonda l ' ugua glianza fra i
contraenti ſi appoggia in parte alla conſiderazione di leggi certe , e ſicure ,
e in parte alla ſperienza del paſſato , e a cir coſtanze incerte e di numero
indeterminato , ſi ripigli l'eſempio dell'urna , nella quale ab biavi un
determinato numero , per eſempio di go. palle . Se la ſperanza dell'eſito
felice è affidata all'eſtrazione di una palla ; per la natura di tal contratto
, o gioco che voglia chiamarſi, e per le ſue leggi, il numero dei caſi
favorevoli ai ſiniſtri farà come 1. 89,0 ſia chiamando il numero totale m farà
il mu mero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri come 1 : m - 1 e per conſeguenza
l'aſpettativa del buon'eſito farà = mo ſia -112 95 Ma ſe ſia vero che la palla
alla quale è affidata la ſperanza eſca più frequentemente dall'urna che
qualunque altra , e l'ecceſſo di tal frequenza ſu quella delle altre ſia Þ ; il
numero dei caſi favorevoli non ſarà più i ma bensì 1 Xp ; e quello dei ſiniſtri
eſſendo m = 1 , la probabilità della ſperata eſtrazione farà Xp L'addotto
eſempio è la norma coſtante di tutti i contratti che poſſano mai cadere for to
queſta terza claſſe , come comprendenti le condizioni che ne formano il
carattere . Di fatti la probabilità dell'eſtrazione della palla fatale dipende
dalle leggi del contratto certe , e ficure che danno il rapporto di e dalla
ſperienza , ed oſſervazione delle fre quenti eſtrazioni della medeſima, che
danno l'ecceſſo di p ſulla frequenza dell'eſtrazione dell'altre palle nell'
urna rinchiuſe , la quale i XP fa che l'aſpettativa diventi I : m ; 112 Non è
neceſſario che io offervi che per quanto ſiaſi oſſervato queſto ecceſſo p , non
96 dimeno non è ſicuro e certo che piuttoſto eſca tal palla , di quello che ne
eſca un'al tra . E queſta è una di quelle circoſtanze che io chiamo incerte e
variabili . Che ſe ſi trattaſſe di paragonare la pro babilità dell'eſtrazione
fra due palle , ſicco rapporto che naſce dalle leggi certe e ſicure è lo ſteſſo
per tutte due , eſſendo in me il I tutte due ſi dovrebbe attendere ſolamen in
te la diverſa frequenza dell' eſtrazione di queſte due palle . A queſto eſempio
ſi poſſono ridurre fpe cialmente le offervazioni dei giocatori di lotto , e di
quelli che ſi travagliano in oſſer vare quali carte ſi moſtrino più ſovente, o
quali facce del volubil dado , ad avvicendare nell'agitato cuore dei giocatori la
gioja e la triſtezza. Ben' è vero però che per quanto fiano replicate le
eſperienze , in moltiſſimi caſi non apparendo neppure in confuſo una minima
conneſſione di tal frequenza con una vera cauſa da cui derivi , non potranno
giam mai meritare che le abbia in viſta , chi ra 97 giona ſu dati veri , e non
fa caſo di mere e vaganti accidentalità . Se ſi aveſſe a queſte riguardo ,
molti di quei contratti, che nella prima claſſe ho eſa minati , a queſta terza
dovrebbonſi riferire . Ma io per le indicate ragioni , a quella ſola nei ſuoi
veri termini inteſa giudico i mede ſimi appartenere . Anche in tali caſi perd
vi ſono inolti che credono doverſi fare ſcrupo lofo conto dell'oſſervazioni, e
per queſta ra gione ancora approverebbero la mia diviſio ne ; eſſendo queſta
terza claſſe da me confi derata in modo che può , ſe vogliaſi, compren dere le
medeſime, anche quando non appa riſca la ſopra indicata conneſſione . Che ſe il
numero delle offervazioni ſia grande , e i riſultati coſtanti , ed abbiavi qual
che conneſſione fra l'eſito della ſperanza , ed una cauſa dalla quale poſla
derivare tal frequenza di oſſervazioni, allora non v'ha dubbio che ſiamo nel
caſo che caratterizza queſta terza claſſe , e la diſtingue dalle altre . Vi
ſono in fatti molti giochi , nei quali l'eſito fortunato dipende in parte dalla
pro g . 98 pizia ſorte , e in parte deveſi alla propria in duſtria o deſtrezza
nel combinare gli elemen ti del gioco , e rendergli coſpiranti al termi ne a
cui ſta anneſſo il guadagno del premio deſiderato . L'induſtria però di un
giocatore pud conſiſtere o nella ſola avvedutezza e pre ciſione nell'oſſervare
l'eſito delle varie coin binazioni del gioco , che ſi vanno ſuccefliva mente
preſentando , e la replicata ſperienza delle quali porge la norma ai caſi
avvenire ; o nella deſtrezza maggiore di combinare gli accidenti medeſimi del
gioco , di dedurre , di ſcuoprire gli artificj dell'avverſario ; e in
qualſivoglia di queſti due aſpetti ſi ravviſi l'induſtria , è ſempre vero che i
giochi che di effa , e della forte ſi chiamano miſli, hanno un filo non
traſcurabile per cui ſi attengono alla terza clafle dei contratti di azzardo ,
In un gioco miſto è molto difficile che tornino per appunto le medeſime
circoſtan ze ; e quindi è che le oſſervazioni ad e {To re lative ſono della
natura di quelle dei con tratti alla ſeconda claſſe appartenenti ; in certe
cioè , e incapaci di rendere indubitato 99 e ſicuro l'evento , ma fiſabili
quanto baſta per formarne un calcolo che miſuri l ' ugua glianza , acciò il
contratto ſia giuſto . Ma ſiccome in queſti giochi medeſimi vi ſono dati ſicuri
dipendenti dalle loro leggi inva riabili ; quindi è che eſſi appartengono alla
terza claſſe , perchè regolati in parte da tali leggi, e in parte da cagioni
incerte e inde terminate , e dalla ſola ſperienza . Siccome però poſſono eſſere
o molte o poche le com binazioni che conducono all'eſito medeſimo, a miſura che
queſte ſono in maggiore o mi nor numero , prevale nei giochi miſti l'in duſtria
o la ſorte . Inoltre la deſtrezza di combinare , di de durre , di rammentarſi
gli elementi delle com binazioni che ſono uſcite ſucceſſivamente dalla malla
totale delle medeſime nel decorſo del gioco , è variabile , come può ognuno of
ſervare, quanto è variabile la tranquillità d'a nimo neceſſaria , la perfetta
diſpoſizione di ſa lute , e per conſeguenza l'agilità degli ſpiriti,
l'elaſticità delle fibre ; in una parola l'atti vità neceſſaria per ben
riuſcire in qualunque 100 impreſa richiegga applicazione di mente , e
attuazione di fantasia . Conſiderate queſte come cauſe incerte ed indeterminate
, e che ſi poſſono ſoltanto dopo un lungo corſo di oſſervazioni fatte giocando
col medeſimo avverſario ridurre a calcolo , e quanto alla loro frequenza , e
quanto al grado d'influenza ſull'eſito del gioco ; ecco anche in ciò un motivo
per cui il fiſſare l’u guaglianza fra i giocatori nei giochi miſti, dipende, e
dalle invariate e ſicure leggi del gioco , e da circoſtanze incerte , e indeter
minate , Certo è che nei giochi miſti l'induſtria sà tirar profitto dai colpi
della ſorte , e il gioca tore avveduto , dice la Bruyere , imita in queſto un
gran generale , e un abile politico . Al valore del primo , e alle vedute del
ſe condo è miniſtra la forte . Arrivano entrambi francamente al loro intento
per quelle ſtrade medeſime che aperſe il caſo ; e che là metton capo , ove
forſe non gli avrebber condotti i mezzi più maturati , e i piùmeditatiprogetti
. Nei giochi miſti deve farſi la rifleſſione IOI medeſima di cui ſi parlò
trattando dei giochi di puro azzardo . O i giocatori tentano con eguali
condizioni l'evento medeſimo ; o un folo tenta la ſorte del gioco , e l'altro
ſta ozioſo ſpettatore , e riduce la ſua ſperanza unicamente all'infauſto eſito
dell'avverſario . Nel primo caſo ſiccome il numero dei caſi favorevoli e dei
ſiniſtri dipendente dalle leggi del gioco , è l'iſteſſo per ambidue , ſi riduce
a calcolo l'eſperienza ed induſtria , la quale ſi oſſerva nelle medeſime
circoſtanze quante volte abbia ſaputo ridurre a buon termine il gioco ; calcolo
che ſi fonda ſopra oſſervazioni molto difficili, e incerte . Giacchè farebbe d'
uopo che ſi foſſe ſempre giocato col mede fimo avverſario ; eſſendo la
deſtrezza , e abi lità di un giocatore affatto relativa a quella
dell'avverſario ; e potendoſi queſto rapporto variare ogni giorno , o reſtar
coſtante ſecondo i progrelli , o uguali, o proporzionali , o di verſi, che
l'uno , o l'altro facciano nel gio co . E' vero però non meno , che trattandoſi
di rapporti , poſſono in qualche modo gio vare le offervazioni fatte
dell'abilità di un 102 giocatore riſpetto ad un terzo all'induſtria del quale è
noto qual proporzione abbia quella dell'avverſario . Nel ſecondo caſo poi
l'induſtria non è più riſpettiva , ma aſſoluta ; e fi riduce a calcolo con
l'offervare , nelle medeſime combina zioni , o in non molto diffimili per la
natura del gioco , quante volte l'avverſario abbia ottenuto quell'intento che
ſi era propoſto , fotto le date condizioni; e quante volte non abbia toccato il
termine al quale per otte nere il premio dovea pervenire . Generalmente adunque
ficcome il numero dei caſi favorevoli e de'ſiniſtri è dipendente in parte dalle
leggi del gioco , in parte dalle oſſervazioni, che miſurano la riſpettiva , e
afloluta induſtria , converrà diſtinguere , e calcolare queſti due elementi
componenti la ſomma dei caſi favorevoli , e ſiniſtri; e formare poi la
proporzione eſpoſta nel Teo rema III.', e nel Corollario . Se non due , ina più
ſiano i giocatori , ſi rammenti la regola di ridurre i caſi compleſſi ai
ſemplici componenti , e di eſaminare in 103 ciaſcuno a parte le ſtabilite
maſſime. Sarebbe un ripetere il già detto ; ſe io voleſſi ram mentare i
principj ſtabiliti nei contratti della prima claſſe , e in quelli della feconda
. Bafli l'avvertire che in queſti della terza claſſe ove trattaſi dei caſi favorevoli
o ſiniſtri, in quanto dipendono dalle leggi certe e ſicure del contratto ,
convien ricorrere ai priini ; ove poi fia queſtione di offervazioni , e di
cauſe indeterminate , conviene eſaminare i ſecondi ; non omettendo mai di
riflettere quanta alterazione poſſa produrre l'influenza degli uni , ſu gli
altri , e la varia loro com binazione . Stabilite così le leggi ſulla ſcorta
delle quali ſi giunge a fiſſare la ricercata ugua glianza in qualunque claſſe
di contratti di azzardo ; non devo diffimulare , che uno dei più grandi
Filoſofi il Signor d'Alembert ha preteſo di abbattere il calcolo delle pro
babilità quanto alla ſua applicazione agli ac cidenti umani . Accid , dic '
egli , queſto cal colo foſſe applicabile , ſarebbe neceſſario , che tutti i
caſi che ſono ugualmente poſlibili ma 104 tematicamente parlando, lo foſſero
anche di fiſica poſſibilità. Sarebbe dunque neceſſario , che gettata infinite
volte in alto una moneta , ſopra una faccia della quale vi ſia impreſſa una
marca , per eſempio palle , e ſull' altra una diverſa , per eſempio croce ,
foſſe ugual mente poſſibile che ſi ſcopriſſe ſempre palle , o croce ; e che ſi
ſcopriſſero alternativamente queſte due diverſe marche . Ma benchè ciò ſia
ugualmente poſſibile matematicamente parlando , non lo è fiſicamente . E queſta
di verſità appunto è quella che fa sì, che il cal colo matematico delle
probabilità , non è applicabile ai caſi fiſici . Anzi non ſi potrà mai fiſſare
il numero delle volte per il quale duri la poſſibilità fiſica di ſcoprirſi
ſempre l'iſtella faccia della moneta , e il limite ol tre il quale non paſſi
queſta fiſica poſlibilità , durante però ſempre oltre ogni limnite com'è
certiſſimo , ed oltre qualunque aſſegnabile numero di getti , la matematica
poſſibilità del continuo ſcoprirſi della medeſima faccia . : Lo prova con una
inafſima che egli ſtabi liſce per certa : che non è in natura , che un 1 1 1
IOS 1 effetto ſia ſempre, e coſtantemente il mede fino ; ſiccome non è in
natura che tutti gli alberi , ſi raſſomiglino fra loro . Queſta maf ſima lo
induce ad argomentare che la pro babilità di una combinazione, nella quale il
medeſimo effetto ſi ſuppone accader più vol te , in parità di circoſtanze è
tanto più pic cola , quanto queſto numero di volte è più grande , di modo tale
che quando queſto è maſſimo, la probabilità è aſſolutamente nulla , o quaſi
nulla ; e all'incontro quando queſto numero è aſſai piccolo la probabilità non
ne reſta che poco , o punto diminuita per queſto riguardo . Adduce egli
moltiſſimi eſempi compro vanti la ſua aſſerzione, e conclude che i re ſultati
della teoria dei probabili , quand'anche ſiano fuori di ogni queſtione
nell'aftrazion geometrica , ſono ſuſcettibili di molta reſtri zione quando i
medeſimi ſi applicano alla natura . Alle ragioni però ingegnoſiſſime di un si
grand' uomo converrà adunque arrenderſi , e diſperare della cauſa del noſtro
calcolo dei probabili ? 1 106 1 Parmi che ben'inteſi i noſtri principj co me
ſono ſtati da noi ſtabiliti, o non ſiano at taccati da tali oppoſte difficoltà
, o le mede fime reftino ſciolte . Prima di tutto ſi oflervi che noi trattiamo
ſolo di calcolare i gradi di probabilità nei caſi nei quali ſi ſuppone po terſi
efla rinvenire . Se diaſi dunque un caſo , che non cada in modo alcuno forto la
cate goria dei fiſicamente poflibili , e che per con ſeguenza nè il minimo
grado abbia di proba bilità ; io dirò che queſto non è oggetto delle mie teorie
; ma non concederò mai che per queſto non ſi poſſano eſſe applicare perfet
tainente ai caſi , che ſiano di fatto filica mente poſſibili. Per conoſcere poi
quali ſiano i caſi o le combinazioni fiſicamente poſſibili nel ſenſo del Sig.
d'Alembert, è neceſſaria una fre quente e replicata oflervazione . Che ſia
fiſicamente impoſibiie ( ſe pure ſi può uſar queſto termine ) che una moneta
moſtri un inaſſimo o un infinito numero di volte la ſtella faccia , donde ſi
ricava , fe non dall'avere offervato che una tale con 107 tinuazione dello
ſcoprimento medeſimo non accade , ma che al contrario ſi vanno alter nando , e
cangiando di tanto in tanto le facce della moneta ? Benchè non può dirſi a
rigore fiſicamente impoſſibile il caſo in cui per un infinito numero di getti
ſi paleſi ſempre l'iſteſſa fac cia , a meno che non vi ſia nella moneta qualche
fiſica e meccanica cagione che ciò non permetta . Se ſi concedeſſe ancora (
benchè non ſo quanto ſia dimoſtrato ) che ſia fiſicamente impoſſibile, che ſi
dia un albero perfetta mente ſimile ad un altro , non che , come fi contenta di
dire il Sig. d'Alembert , che ſi raſſomiglino tutti gli alberi fra di loro ; non
correrebbe la parità , per dedurne che nel caſo di un infinito numero di getti
di una moneta , l'uniforme ſcoprimento di una fac cia della medeſima ſia
fiſicamente impoſſi bile . Poichè vi corre una notabiliflima di ſparità . Tutte
le combinazioni le quali fanno , che una coſa non ſia fimile all'altra , danno
tanti ios riſultati fra loro diverſi. Dalle diverſe com binazioni infinite che
faran caufa che l'ala bero A non ſia perfettamente ſimile all'albe+ ro B ,
naſceranno tanti alberi fra loro diverſi ; o altri corpi dei quali ſi conoſcerà
la diffe renza . Ma dalle diverſe combinazioni che poſſono fare che non venga
infinite volte di ſeguito la faccia palle della moneta ; non ne poſſono venire
che riſultati affatto ſimili , cioè croce ; poichè ogni volta che non ſi ſcopra
palle , ſi ſcoprirà croce . Queſto prova che le combinazioni che ſono contrarie
alla per fetta ſomiglianza di due coſe , formano infi niti rapporti , infiniti
riſultati dei medeſimi, infinite diverſe compoſizioni di parti dipen denti da infinite
meccaniche direzioni delle particelle della materia di infinite poſſibili
diverſe velocità , figure ec.: coſe tutte che nel caſo noftro non ſi verificano
. Di fatto gli elementi che formano la com binazione , che per infinito numero
di volte preſenta palle , ſono tutti ſimili fra di loro , ed hanno fra di loro
un folo invariato rap porto . Di modo che ſe ſi ſupponeſſe mutato 109 l'ordine
col quale eſce prima la infinita ſerie di palle, e ſi ricominciaſſe il getto ,
e ritor naſſe di nuovo a ſcuoprirſi infinite volte la faccia che preſenta palle
, ne verrebbe un or dine fimiliſfimo al primo , potendoſi dire , che l'iſteſla
relazione ha il primo ſcoprimento di palle al milleſimo, che ha il ſecondo al
cen teſimo , e così dicaſi di tutti . Talmentechè a rigor parlando , non ſi può
dire , che fra queſti getti vi ſia ordine che formi fra effi un rapporto
piuttoſto che un altro . Non così degli elementi che formano un dato fiore , o
albero ; eſſendo combinabili fra di loro con infinite varietà di ſopra ac cennate
. Gli elementi fiſici adunque delle combinazioni nel caſo della moneta ſono
ſempliciſſimi, laddove nell'eſempio addotto dal Sig. d'Alembert fono infiniti,
dal che ne viene , che la parità non corre ; e dalla fiſica impoſſibilità ( ſe
fi ammetta ) di trovare mol te , o anche due coſe fra loro ſimili ; non ne
viene la fiſica impoſſibilità che una monetan gettata in aria infinite volte
moſtri ſempre l' iſtefla faccia . 110 1 La diſparità compariſce più chiara , fe
li rifletta che qualunque vedendo in un dato ſpazio tutte le particelle più
minute compo nenti i corpi ; e riflettendo alle variazioni poſſibili della
velocità , e della figura delle medeſime; e vedendone in un ſimile ſpazio un
altro ſimile numero , avrebbe ſubito infe rita l'impoſſibilità di una
combinazione ta le , che ne riſultaſſero due alberi ſimili . Laddove vedendo
una moneta , e ſapendo che ſi deve gettare in aria infinite volte , non avrebbe
avuta una fiſica ragione di preſagire che non ſi ſarebbe un infinito numero di
volte ſcoperta l'iſteſſa faccia , e di credere tal combinazione fiſicamente
impoſſibile , come la pretende , fondato ſulle addotte ri fleſſioni , il Sig.
d'Alembert . In una parola della impoſſibilità ( ſe tal vo glia chiamarſi )
della ſomiglianza di due al beri ſe ne può addurre a colpo d'occhio una fiſica
meccanica ragione ; lo che non può dirſi dello ſcoprimento della faccia di una
moneta . Lo ſteſſo a proporzione dicaſi delle diverſe , III combinazioni delle
lettere che formano la parola Conſtantinopolitanenfibus. Chi attribuirà al caſo
, dice d'Alembert , che ſi combinino in modo tante lettere che formino queſta
pa rola ? chi vorrà crederlo poſſibile ? Dunque conchiude egli ſarà ugualmente
impoſſibile il continuo per infinite volte ſcoprimento della faccia medeſima di
una moneta . Queſto eſempio è molto ſimile a quello dei due al beri fimili ; e
ſi riſponde anche a queſto , che ciaſcuna lettera può variare rapporto a tutte
le altre , e che ciaſcun riſultato ſarà diverſo . La Luna , aggiunge il Ch.
Filoſofo , gira attorno al ſuo alle in un tempo preciſamente uguale a quello
che ella impiega nel deſcri vere la ſua orbita intorno alla terra ; e queſta
eguaglianza di tempo produce ammirazione , e ſi vuol cercare qual n'è la
cagione . Se il rapporto dei due tempi foſſe quello di due numeri preſi
all'azzardo , per eſempio di 21 : 33 , niſſuno non ne ſarebbe ſorpreſo , e non
ſe ne ricercherebbe la cagione ; e pure il rap porto di uguaglianza è
matematicamente و II2 parlando ugualmente poſſibile , che quello di 21:33 ;
perchè dunque ſi cerca una cagione del primo , che non ſi cercherebbe del ſe
condo ? Lo ſteſſo dicaſi della ſituazione dei pianeti e del rapporto che ha la
zona nella quale fono rinchiuſe le orbite loro , alla sfera . Per chè ſi
conchiude egli che queſto non è effet to del caſo ? perchè queſta combinazione
, benchè matematicamente poſſibile al par dell'altre , ſi riguarda .come
effetto di un diſegno , e di una regolarità ? E non ſi crederà poi , che il
ſolo caſo non può pro durre quella combinazione per la quale la moneta ſcopra
infinite volte di ſeguito fem pre palle; e non ſi crederà queſta fiſicamente
impoſſibile , benchè abbia una matematica poſſibilità eguale a quella delle
altre combi nazioni ? Ma io riſpondo , che di fatto le com binazioni dei citati
eſempi hanno avuta una fiſica poſſibilità uguale a quella di tutte l'al tre
combinazioni ; che non vi è forſe argo mento che provi che il caſo non le
aveſle po tute produrre ; ma che anche ſe ſi vogliono LI3 fiſicamente
impoſſibili al ſolo caſo ; ciò è per chè ſon compoſte di elementi infinitamente
variabili ; lo che appariſce a chi ſi faccia di propofito a conſiderare le
diverſe cagioni , e le diverſe poſſibili combinazioni, che poſſon far sì che i
tempi dei due giri lunari non ſia no uguali ; e che la zona delle orbite plane
tarie abbia alla sfera un rapporto diverſo da quello che ora ha infatti;
cagioni tutte fi fiche , e meccaniche . Di più dico , che l'uguaglianza dei
corſi della luna intanto a noi fa impreſſione, in quanto che il rapporto di
uguaglianza è quello al quale ſi fogliono riferire tutti gli altri; e tutta la
differenza che fra eſſo , e gli altri paffa , non è che metafiſica ; e nulla po
ne di fiſico per cui tal combinazione debba eſſere più difficile dell'altre .
Lo ſteſſo dicaſi della parola Coſtantinopoli tanenſibus . Queſta combinazione
di lettere fa ſpecie a noi che intendiamo il ſenſo della parola , e che al
ſuono della medeſima abbia mo legataunidea ; non così a un Turco idio ta il
quale non col nome di Coſtantinopli b 114 ma con quello di Stamboul è avvezzo a
no minare la ſuperba metropoli dell'Impero Ot tomano . Non contento Monſieur
d'Alembert degli eſempi addotti in conferma della ſua aſſer zione , l'appoggia
ad altre due rifleſſioni. Si fa che la durata media della vita di un uomo ,
contando dal giorno della ſua naſcita è all'incirca di 27 anni ; ſi è pure
conoſciuto per mezzo delle oſſervazioni, che la durata media delle ſucceſſive
generazioni più ome no è di 32 anni ; finalmente ſi è provato per tutte le
liſte della durata dei regni di ciaſcu na parte d'Europa , che la durata media
di ciaſcun regno è di circa a 20 in 22 anni . Si può dunque dic' egli ,
ſcoinmettere non ſolo con vantaggio ma a gioco ſicuro che 100. fanciulli nati
nel medeſimo tempo non vive- , ranno che 27 anni l ' un' per l'altro; che 20
generazioni non dureranno più di 640 anni in circa ; che 20 Re ſucceſſivi non
viveran no che intorno a 420 anni . Una combina zione adunque che non daſſe
intorno a 27 . anni la durata media della vita dell'uomo, IIS pigliandone cento
a eſaminare , o non dalle di 32 anni la durata media di 100 fuccef five
generazioni ; oppure portaſſe che 20 Re ſucceſſivi regnaſſero , o molto più , o
molto meno di 420 anni , non ſarebbe fiſicamente poſſibile ; eppure lo ſarebbe
matematicamen te parlando . Dal che riſulta che vi ſono al cune combinazioni
matematicamente pofli bili , che ſi denno eſcludere, quando eſſe fo no
contrarie all'ordine coſtante della natu ra . Dunque la combinazione in cui , o
infi nite volte , o un gran numero veniſſe ſcoperta ſempre la medeſima faccia
della moneta , benchè di matematica poſſibilità uguale a quella di qualunque
altra combinazione , dev’ eſſere rigettata . E' nell'ordine naturale , ché un
banchiere di faraone , che ha dei caſi favorevoli più che dei ſiniſtri ſi
arricchiſca coll'andar del tempo . Di fatti ſi oſſerva coſtantemente , che non
vi è banchiere , che non accumuli groſſe fomme di denaro . Queſto prova , che
quelle combinazioni , che hanno più caſi contrari che favorevoli , ſono alla
fine di un certo b 2 116 tempo, meno fiſicamente poſſibili che le al tre ;
quantunque matematicamente parlando tutte le combinazioni ſiano ugualmente pof
ſibili . Dunque conclude egli , la combina zione , la quale preſenti
ſucceſſivamente per un gran numero di volte ſempre la ſteſſa fac cia della
moneta dev'eſſere eſcluſa . Per riſpondere a queſti due eſempi parmi che prima
di tutto ſi poſſa negare la fiſica impoſſibilità , che con tanta franchezza ſi
af feriſce della durata media della vita di un' uomo diverſa dallo ſpazio di
circa 27 anni. Ed io ſono ben perſuaſo che eſaminando il caſo della vita di
molte centinaja d' uomini ſe ne troveranno di quelle , o aſſai maggiori , o
aiſai minori dello ſpazio di 27 anni ; dun que tale combinazione non fi deve
ſcartare come fiſicamente impoſſibile. L'iſteſſo dicafi di quella , per cui un
banchiere in vece di arricchire ſi vedeſſe dal gioco medeſimo ri dotto all'
inopia ; caſo che non è poi sì in frequente ad accadere . Dicafi piuttoſto che
l'una , e l'altra di queſte combinazioni con tenute nei due eſempi addotti dal
chiarilli 117 mo d'Alemberţ ſono molto difficili, e tanto più , quanto
l'ecceſſo dei caſi contrarj alle combinazioni medeſime ſupera il numero dei
favorevoli ; lo che conviene appunto con li da me ſtabiliti principj . Venendo
poi al caſo noſtro dico , che fo no varie , e moltiſſime in numero le cauſe
vere , e fiſiche che influiſcono ſulla vita degli uomini . Ma trattandoſi del
getto della mo neta , non vi ſono principj fiſici diverſi, e tali , che ſi
debba in vigor deị medeſimi pre dire piuttoſto una , che l'altra delle combi
nazioni , che a rigor parlando non ſono che due , come più ſopra ſi è offeryato
. L'ordine delle umane coſe , e le fifiche qualità , e coſtituzioni dell'uomo,
e delle ca gioni che lo poſſono privar di vita , ſon con ſultati nel primo caſo
; nel ſecondo nulla hav: vi di fiſico che ſi poſſa conſultare a formare il
preſagio . Dunque fi pud predire , che ioo o maggior numero di uomini avranno
preſi inſieme un corſo di vita uguale a quello di altri 100 uomini ; benchè
prima di aver faţte le offervazioni non ſi poſſa cal corſo file 1 b 3 118 ſare;
così prima di aver’anche fatte le oſſer vazioni, conoſciuto il ſiſtema del
gioco del faraone ſi può predire che un numero molto maggiore farà quello dei
banchieri che arric chiſcono , che non ſarà quello degli altri che ſi rovinano
. E ciò perchè veramente vi ſono delle intrinſeche cagioni che portano a for
mare queſto preſagio , e cagioni che naſcono dal ſiſtema del gioco . Ma chi sà
dire qual fi fica ragione addur voglia uno , che vedendo gettarall'aria una
moneta , aſſeriſca che è fiſicamente impoſſibile, che o per un maſſi mo , o
anche infinito numero di volte , pre ſenti ſempre la ſteſſa faccia ? Varie
poſſono eſſere le maniere di gettare in alto la moneta . Si può gettare a una
gran de altezza , e a una piccola ; con poca forza , e con molta ; con tale
direzione che la baſe faccia angolo retto con l'orizzonte ; o che lo faccia
obliquo ; oppure in modo che ſia ad eſlo parallela . Si può anche gettare in ma
niera che ſomigli quaſi il laſciarla cadere leggermente da un punto fiſſo .
Fermiamoci ad eſaminare queſt' ultima ipoteſi; e ſi ve 1 1 119 1 drà , che
laſciandola in tal modo cadere , ſpecialmente a piccola altezza , anche in
finite volte , non vi è ragione di preſagire , che non poſſa eſſere coſtante lo
ſcoprimen to della faccia medeſima . La impoffiſibilità di queſto uniforme
ſcoprimento , la inten de egli il Signor d'Alembert in queſto ca ſo , o negli
altri caſi ? Se la intende in queſto caſo , come dunque ſi verifica , che il
ſolo or dine della natura renda impoſſibile queſto u niforme ſcoprimento ? Se
poi non la intende in queſto caſo , come dunque ſi verifica uni verſalinente la
ſua maſſima ? Ma io aſſeriſco eſſere più conforme allo ſpirito delle ragioni
del Sig. d'Alembert , che anzi egli intenda di queſto ſolo caſo in cui non
altro appunto , che un non sò quale fatal ordine della natu ra ,potrebbe
cagionare la preteſa variazione . Che ſe pure ſi trattaſſe degli altri caſi ,
dico che nonoſtante la variabilità delle combina zionidell'impeto ,dell'altezza
, della direzio ne ; queſte non poſſono valutarſi in modo da rendere
fiſicamente impoſſibile l ' uniforme ſcoprimento; poichè gli effetti di queſte
va 120 riabili combinazioni, non ſono che due ; o lo ſcoprimento di palle, o lo
ſcoprimento di croce ; e non ogni variazione , e combinazione di tali cauſe
influiſce a diverſificare gli ef fetti: come peraltro ſuccede negli eſempi ad
dotti dal Sig. d'Alembert , nei quali trattan doſi di rapporto , o di diverſa
conſociazione di parti , ognun vede , che ogni variazione influiſce a produrre
un effetto diverſo . O ſi riſguardi adunque la diverſità negli effetti ; e
negli addotti eſempi, queſti ſono in finiti, nel caſo noftro non ſon che due
non potendoſi voltare , che palle , o croce ; o ſi ri guardi la diverſità nelle
cagioni che tali ef fetti producono; e negli addotti eſempi, ſo no anch'eſſe
infinite , giacchè ogni minima variazione influiſce come nuova cauſa ; nel caſo
della moneta non è così , potendoſi dare moltiſſime combinazioni di forza ,
altezza , direzione, che producano ſempre l'iſteſſo effetto ; potendoſi anche
dare che in infiniti getti , o in un numero aſſai grande , ſi man tenga
l'iſteſſa direzione , benchè obliqua; l'iſteſſa altezza benchè grande;
l'iſteſſo im 1 1 pero , benchè forte; oppure che fi muti ad ogni getto . Parmi
adunque che e queſti ultimi e gli altri addotti eſempi, o non combinano con
quello della moneta ; o al più provano una no tabile difficoltà nella
combinazione che pre ſenti ſempre l ' ifteffa faccia della moneta ; verità che
ſi accorda perfettamente con gli eſpoſti principj; poichè le oſſervazioni me
deſime ce lo fanno conoſcere ,ed io ſuppon go nell' applicargli, il caſo
probabile , e con la ſcorta dei medeſimi ne cerco il grado di probabilità ; dal
che ne viene che la teo rìa non è applicabile ai caſi ove o neſſuna o quaſi
neſſuna probabilità del buon eſito appariſca , per poterne formare la propor
zione . . Quando poi cominci il numero in cui non ſia ſperabile un
continuodiſcoprimento di una fola faccia della moneta , le oſſervazioni, e non
altro , poſſono moſtrarlo ; quelle oſſer vazioni io dico , che io medeſimo ho
prefe per ſcorta in moltiſſimi caſi appartenenti alla materia dei contratti di
azzardo. 122 } E' poi tanto evidente che la propoſizione del Sig. d'Alembert
non atterra l'uſo del calcolo delle probabilità , che anzi in qual che caſo ſe
ne poſſono tirare delle conſeguen ze , che lo conferinano . Chi gettando un
dado intraprende di ſcuo prire per eſempio il 6 non vorrà gettarlo una ſol
volta , quando debba azzardare una fom ma eguale a quella che azzarda
l'avverſario ; ma vorrà gettarlo più volte . La ſua ſperan za è ,che non
voltandoſi ſempre l'iſtello nu mero che al primo tratto ſi ſcuopre, e che può
non eſſere il 6 , arrivi in più volte a vol tarſi anche il 6 ; altrimenti ſe
non fcopren doſi alla prima il 6 ſi doveſſe ſempre ſcopri re in tutti i tratti
ſucceſſivi quel numero che ſi ſcopre il primo , la ſua perdita ſarebbe ſicura .
La ſperanza dunque di queſto gio catore acquiſta tanto maggior fondamento
quanto più è vero che ſia impoſſibile che ſi volti ſempre quel numero che alla
prima fi ſcoprì; impoſſibilità , che reſta compreſa nel la impugnata opinione
del Sig. d'Alembert . Stabiliti i principj regolatori dell' ugua 123 glianza
nei contratti d'azzardo , e difeſane l'applicazione non reſta che a deſiderare
, che uomini di ſublime ingegno , e di pro fondo ſapere ſi applichino in gran
numero ad eſtendere ſempre più l'uſo di una dottri na sì utile . Quanto a me ,
mi pare di aver ottenuto il mio intento , ſe poſſo luſingarmi di aver formate
ed eſpoſte idee giuſte, e chia in un articolo per una parte sì arduo , e per
l'altra sì intereſſante.
CODRONCHI
(NrcoLA), na cque in Imola il 2o aprile 1751 ed alla patria e al casato
accrebbe lu stro e decoro: perchè già rapida-, mente corsi gli studii delle
amene lettere e della eloquenza sotto la disciplina de' Gesuiti, e con pub
blico saggio nelle materie di filo sofia sperimentatosi non ancora compiuti gli
anni 16, potè dallo stesso genitore nelle matematiche, delle quali era egli
peritissimo, essere ammaestrato. E col magi stero di quella scienza sublime,
illuminando la mente già ordinata a diritti giudizii e scorto da pre cetti
delibati dalla scuola non fal libile degli antichi esemplari, com formò la
scrittura alla altezza del pensiero, alla cultura dello spirito ed al candore
dell'animo : nè i gravi studii della giurisprudenza cui tennesi in Roma
applicato (insegnatore monsignor Giovan nardi concittadino di lui, e fiore de
giureconsulti) gli tolse di col tivare la poetica, alla quale senti vasi per
tal guisa inclinato, che poco oltre il terzo lustro di età bastò a dettare
alcuni componi menti i quali resi pubblici con le stampe trovarono grazia e
lode somma ne cultissimi di quel tem pi, e sì pure in Arcadia alla cui
accademia appartenne col nome pastorale di Cratino. E sono ne gli scritti di
lui altri saggi in tal genere di lettere che a migliori poeti, onde la città di
Santerno si onora, il pareggiano: che se come ne sono degni verranno presen
tati al pubblico giudizio, ben si farà manifesto aver egli con arte maestra
saputi attingere da cia scuno de più valenti Imolesi quei modi sceltissimi onde
le loro ope re di bella luce risplendono mel l'italiano parnaso. Il carme in
fat to robusto e nervoso tal come u sciva dalla penna di Antonio Zam pieri, e
castigato ad un tempo ed elegante, quale il vedi in Camil lo, muove nel
Codronchi con quella spontanea e nobile sempli cità che t'invaghisce nel Canti;
282 e si abbella di quelle grazie ed e leganze di che lo Zappi infioriva le
soavi e dolci sue rime. Tornato in Imola venne decorato della cro ce di Santo
Stefano, e nella Imole se accademia degli Industriosi di cui fu socio si mostrò
erudito ed elegante oratore e poeta: d'indi a non molto passato per le caro
vame a Pisa ebbe colà lezioni di pubblico diritto da quell'alto spi rito del
Lampredi, che il tenne in istima d'ingegnoso e di colto, e che lo ebbe sempre
carissimo. Quindi il magnanimo gran duca Leopoldo gli conferì la carica di
ispettore delle carovane, e ad un tempo la cattedra di etica; intor no a che
compose un trattato qua si corso di lezioni, degno per fer mo di essere fatto
di pubblica ra gione: ed a quel principe intitolò il Codronchi una eloquente e
dot ta Orazione composta eletta, per incarico da lui avutone, al capito lo
de'cavalieri Circa l'origine, le leggi ed i fasti dell'ordine, che fu
pubblicata il 1779, pel Cam biagi in Firenze, dai torchi del quale uscì nel
seguente anno 1785 altro grave e prezioso libro col titolo di Saggio sui
contratti e giochi d'azzardo, ove risplende la dottrina di pubblico economista
e di filosofo; ed ove la materia gravissima, e che diresti poter so lo
dimostrarsi col soccorso del cal colo, per la chiara sposizione pia ma e facile
si mostra alla intelli genza comune, Corse intanto tal fama del sa pere di lui
alla corte di Ferdinan. do di Napoli, che con reale decre to del 25 novembre
1787, il no minò membro del supremo consi glio di Finanze; nel qual tempo venne
ad egual carica eletto quel sommo ingegno di Gaetano Filan gieri, cui il
Codronchi fu poi sempre stretto con vincoli di re ciproca stima e di amicizia
tene rissima. E ben di questo è prova il pa rere dal Filangieri proposto al re
intorno all'enfiteusi del così no mato Tavoliere di Puglia che leg gesi negli
opuscoli di lui pubbli cati pel Silvestri in Milano il 1818. ove egli da
maestro discorre ciò che con grave senno e sapere a veva il suo collega
consigliere Codronchi proposto , quando a questo fine per sovrano volere eb be
a recarsi in queHa provincia. Del quale importantissimo servi gio ebbe onore da
maestrati quivi preposti alla agraria economia che con parole di lode il
provvedimen to del principe ed il nome del be nemerito consigliere in latina e
pigrafe eternarono; e n'ebbe dal monarca eziandio meritato pre mio: imperciocchè
gli di grado di consigliere effettivo con voto, e di sopraintendente alle
dogane ed alle zecche del regno; nel che adoperò a maniera, che sommo vantaggio
m'ebbe lo stato per la retta amministrazione di quegli ufficii, ed a lui
vennero per mol te lettere di mano della stessa regnante Carolina
onorevolissime lodi. Seguì il Codronchi la real corte a Palermo quando dovè
colà ri fuggirsi nel 1798 : e con essa lei tornò al suo impiego in Napoli nel
seguente anno 1799. Salito al trono il re Giuseppe, volse tosto gli sguardi ad
esso lui come a spec chio di sapiente reggimento e di non comune interesse, e
gli confe rì la carica di consiglier di stato, di cavaliere del nuovo ordine
del le due Sicilie da esso lui istitui to: ma la mal ferma salute che gli vietò
continuare a quel monarca i suoi servigi, e che il tolse a quel regno ove
lasciò fama durabile del suo merito, procacciò alla patria il conforto di
vederlo tornare fra' suoi concittadini de quali era de siderio e delizia : e
ben l'ebbero eglino zelantissimo della pubblica 283 morale, e civile istruzione
dei giovani a quali col più potente dei precetti, l'esempio, era di bel la
guida e di stimolo; e per l'im portante buon regime delle acque operoso; e di
quant'altro poteva interessare il pubblico vantaggio studiosissimo: nè
mancavano ai mendici dalla mano benefica di lui generosi soccorsi i quali seppe
providamente elargire, anzichè ad alimento dell'ozio, a meritato sollievo della
vera indigenza. Illi bato del costume e per la esqui sita erudizione della quale
era for nito nella sociale consuetudine piacentissimo, con la serena calma del
giusto vide giungere l'ora e strema del vivere, che a suoi cari ed alla patria
il rapì nel giorno 15 novembre 1818, in età di an mi 67: e della acerba morte
di lui amaramente si dolse l'universale della città desolato per la perdita
irreparabile di quest'uomo chia rissimo nel quale si ammirarono congiunte a
sapere profondo in o gni maniera di scienze e di lette re, integrità di vita e
dovizioso corredo di ogni bella virtù. Nicola Codronchi. Keywords: contratto,
tre tipi di contratto, contratto epistemico, contratto empirico, contratto
misto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Codronchi” – The Swimming-Pool Library.
COLAZZA: (Roma). Filosofo. Grice:
“Having gone to Clifton, I love Colazza – he is into ‘iniziazione’ – specially
in the equites of ancient Rome, but not much different from mine!” Di una
famiglia dell'alta borghesia romana, e istruito agli studi umanistici e si laurea
a Roma. Cultore dell'esoterismo e delle dottrine massoniche e teosofiche. Fonda
il club antroposofico in Italia. Dall'incontro con l'antroposofia Colazza
apprese l'esigenza di seguire pratiche spirituali di concentrazione adatte al
contesto occidentale, coltivando in particolare la «via del pensiero cosciente». Altre opere: Dell’iniziazione (Tilopa); La
magia del noi di Ur (Edizioni Mediterranee). Evola e l'esperienza del Gruppo di
Ur. A strong
anthroposophical influence came from Giovanni Colazza and Duke Giovanni Colonna
di Cesard . Close to the group , which adopted the name UR , were Guiliano
Kremmerz ( 1861-1939 ) , founder of the Fraternity of Myriam. Sedute spiritiche
che si svolgevano in casa dell'amico Giovanni Colazza, e che talvolta si
protraevano sino all'alba. SPUNTI DALLA CONFERENZA TENUTA IN ROMA CIRCA IL TEMA
DELL’INIZIAZIONE. VENERAZIONE E CALMA INTERIORE”. Il saggio l’Iniziazione mi fu
consigliato da Steiner in francese a Piazza Spagna, come un saggio importante, da
tenere sempre presente come guida.
L’uomo così come nella vita quotidiana serve a poco o niente per il mondo
dello spirito. Siguo Steiner più o meno il saggio, aggiungendo poi altri insegnamenti
estremamente utili per ottenere reali risultati. La nostra persona, di cui
siamo coscienti, è solo un riflesso del nostro ‘noi’. È molto utile per giungere
alla conoscenza del nascosto ‘noi’, distinguere e separare in noi il pensare
che p, il sentire che p e il volere che p. Cita l’aneddoto di Eurialo e Niso,
che viveno nell’illusione di essere il suo ‘noi’ contingente. L’esoterismo e facile,
se si conforta sempre donandoci personali indicazioni, circa gli esercizi e la
pratica esoterica. Ma ora, invece dobbiamo cercare fedelmente e scrupolosamente
quello che possiamo accogliere e applicare a noi stessi. Si dice che è importantissimo cominciare
sviluppando il sentimento di ‘venerare’. Non bisogna fraintendere il concetto
di “venerazione” con uno stato di esaltazione interiore dovuto all’insegnamento
che il tutor ci può dare e che noi accettiamo per co-ercizione intellettuale o
sentimentale o per atto di fede: ma non è assolutamente questo. Il fatto da
riconoscere è questo. Il calore dell’anima è vita stessa per l’anima.
L’accogliere freddamente contenuti spirituali, ci riempie soltanto il ‘noi’ di
nozioni, senza far penetrare la forza dello spirito. La venerazione e il calore
di nostre anime sono l’attività di nostre anime stesse. Bisogna aprirsi a tali
rivelazioni della psicologia filosofica come dottrina dell’anima, con
atteggiamento di venerazione. I meravigliosi quadri circa l’evoluzione del
cosmo devono risvegliare in noi ammirazione, meraviglia e riconoscenza per la
gerarchia. Tale stato di nostre anime
destano in noi questo calore, la venerazione per co-esseri e fatti spirituali,
ai quali siamo debitori. Astenersi dalla
critica e dal giudizio, cercare di cogliere nell’altro non il difetto, ma la
qualità migliore, incoraggiare ciò che vi è di meglio. Il biasimo è energia
perduta. Il sentimento positivo e buono e per le nostre anime come la qualità
dell’aria che inspirando mettiamo in circolo nel corpo. Più è pura, più saremo
sani. Il godimento rappresenta una lezione per l’uomo quanto il dolore,
soltanto che è più difficile leggervi dentro. Non bisogna fermarsi alla
sensazione del piacere, ma ricercare nel godimento il contenuto più elevato da
cui promana, che ne è l’artefice e il senso, ma la sua essenza più intima.
Occorre coltivare momenti di raccoglimento, lavorando sui ricordi: rievocare
immagini mnemoniche di fatti passati, o della giornata trascorsa ricercando
nelle nostre anime l’eco di ciò che aleggia in quelle passate percezioni.
Bisogna passare in rassegna gli eventi con meticolosa analisi, oggettivarli,
senza applicare alcuna speculazione né alcun giudizio; osservare tutte le
concatenazioni, semplicemente contemplarle in modo neutro, lasciando che siano
esse a svelarci qualcosa. Noi dobbiamo fare il silenzio. Tale lavoro equivale
ad anticipare ciò che avviene nel sonno, quando la gerarchia penetrando nel
nostro corpo astrale e nel ‘noi’, inseriscono i loro giudizi. L’impazienza è un
perdere energie. Il tono generale della preparazione è quello di una ri-educazione
su nuove basi, della vita di pensiero e di sentimento, tramite speciali
esercizi. Bisogna entrare nel ritmo della ripetizione, senza lasciare che la
nostra natura inferiore si ribelli, rifuggendo gli esercizi. La noia è un
grande nemico. ESERCIZIO DELLA PIANTA CHE APPASSISCE. Bisogna osservare una
pianta in pieno sviluppo afferrando tutti i dettagli; osservarla e riceverne
una percezione così chiara che, chiudendo gli occhi, possa rimanere come chiara
immagine interiore di fronte a noi. Esercitarsi con la forma esterna cercando
ad occhi chiusi di ricordarla, visualizzandola. Quando si riceve un’esperienza
non bisogna assolutamente tradurla in concetti con le parole: bensì mantenerla
in sé e coltivarla. PREPARAZIONE E ILLUMINAZIONE. Altra cosa importante da fare
è dirigere l’attenzione sul mondo dei suoni. Analizzare e realizzare la
differenza fra i suoni di origine minerale immota, e quelli di natura vegetale
o animale. Fra lo scroscio dell’acqua, il fruscio delle foglie nel vento, il
rotolare di una pietra e il rumore di una macchina vi è una diversa
manifestazione delle Forze cosmiche. Cessato il suono, dobbiamo prolungare in
noi il suo effetto, ma non attraverso l’udito, ma tramite l’orecchio
dell’anima, senza immaginare nulla: aspettare in Silenzio il sorgere di
qualcosa. Le potenze spirituali non si trovano e si lasciano trovare come
avviene nel mondo sensibile quando si va a monte di un effetto per ritrovarne
la causa: sono Esse a decidere per loro deliberazione, se è lecito o no farsi
percepire dal ricercatore. Sono Esse che devono e vogliono trovare l’uomo, solo
se posto in un determinato stato di accoglimento interiore. Le percezioni
immaginative si manifestano come impressioni interiori paragonabili ad
impressioni suscitate in noi da un dato colore fisico; la percezione
soprasensibile appare rivestita da un colore perché il suo contenuto animico è
affine a ciò che quel dato colore equivale corrispondentemente come
manifestazione animica. La percezione di un rosso osservato nel mondo fisico,
genera in noi un particolare sentimento, contenente qualità animiche: l’Entità
che ci appare immaginativamente se ha in sé del rosso, significa che contiene
in lei delle qualità e dei contenuti animici affini a ciò che nel mondo fisico
ci appare come rosso. E’ un grave errore ritenere che ci si deva attendere nel
mondo spirituale come una “ripetizione” più sottile delle forme del mondo
fisico. Lo spirituale ha qualità totalmente dissimili dal fisico. Bisogna
sviluppare sempre più simpatia e compassione verso gli uomini e gli animali e
sensibilità per la bellezza della natura. IL NON VEDERE RISULTATI DURANTE IL
TIROCINIO. Spesso il discepolo non si avvede degli effetti e dei risultati derivanti
dagli esercizi occulti. Ciò è dovuto al perché si tende a guardare fisso in una
direzione, attendendosi di ricevere qualcosa solo da quella direzione, senza
accorgersi che ciò che invece è arrivato, promanava a noi da un’altra
direzione. Vi sono due gravi ostacoli nella percezione immaginativa: presupporre
e attendersi in modo personale ciò deve avvenire; confondere le percezioni di
colore con le sensazioni di colore fisico, quasi cercando con gli occhi
all’esterno, ciò che invece può apparire solo interiormente. Le percezioni di
colore o di forma, non promanano dall’ente osservato, ma sorgono in noi,
nascendo dalla nostra interiorità. La conferma circa l’autenticità di aver
avuto una vera esperienza spirituale è confermata dall’avvertire in sé il
sentimento di aver come sperimentato uno stato già provato; non che l’immagine
percepita ci è a noi nota, ma che il sentimento provato durante l’esperienza è
un qualcosa di già vissuto, in un passato remotissimo (atlantideo o
lemurico). È un primo passo verso il
riconoscere in coscienza il proprio primordiale passato, quando si era in
completa unione con il mondo spirituale. ESERCIZIO DEL SEME. Osservare con gli
occhi fisici un seme: forma, colore, peso, dimensioni, rapporti. Fatto ciò,
occorre interiorizzare l’immagine, astraendosi dalla percezione fisica del
seme, sforzandosi di visualizzarlo nel campo della propria coscienza, ad occhi
chiusi. Si pensi che in esso è virtualmente presente in potenza l’intera
pianta: vi è in lui un’Idea, una Legge naturale invisibile che lo governa, la
quale manifesterà in un futuro sulla Terra la pianta in lui ora nascostamente
contenuta. In lui dimora una potentissima forza vivente, che si cela alla
nostra vista, invisibilmente. Rappresentarsi poi il processo temporale, di
crescita in successione, nel triplice ritmo della sua costituzione:
radice, fusto, fogliame, fiori, frutto.
Non è importante curare i dettagli, ma sentire la forza di questa
manifestazione, la potenza creativa che si esprime nell’espansione dirompente
delle forze insite nel seme. Quel che noi sentiremo come potenzialità espansiva
è l’elemento invisibile del seme: la forza eterica. Il ritmo perenne del mondo
vegetale trascende il seme stesso come dato immediatamente sensibile e
percepibile. Ci si volga di nuovo al seme (aprendo gli occhi?) collegando ad
esso l’intero processo immaginativo delle potenziali forme di crescita,
dell’invisibile che è diventato visibile. La forza che ne risulterà si tradurrà
in noi come facoltà di visione: una specie di nube luminosa, una specie di
piccola fiamma di colore lilla-azzurro, aleggiante intorno al seme. Ciò è la
vivente forza vitale che edificherà la pianta. ESERCIZIO DELLA PIANTA. Osservare
una pianta in completo sviluppo, sforzandosi di vedere in essa
immaginativamente l’attuarsi del ciclo seme-pianta-fiore-frutto seme,
realizzando così un senso di perennità della vita vegetale, espressa nella
sintesi della forma della pianta stessa. In un certo senso, è come se dalla
pianta-spazio momentanea, si estraesse la pianta-tempo, ossia l’Idea totale o
Essere di specie vegetale a cui appartiene quella pianta. Pensare poi che vi
sarà un tempo in cui questa pianta non esisterà più, sarà scomparsa. Questa
pianta verrà annientata, ma non la sua specie: essa ha generato dei semi
tramite i quali, l’Idea della specie continua l’esistenza in altre piante.
Senza distogliersi dalla percezione spaziale fisica della pianta, bisogna
sovrapporvi l’immagine di ciò che ella sarà nel futuro, che avvizzisce e che
appassisce, disseccandosi, di quella realtà celata ai nostri occhi. La pianta
morirà, ma non morirà l’idea o la legge che l’ha generata e fatta agglomerare.
Questo trasportarsi nella dimensione delle potenzialità ora latenti, della
pianta in oggetto, produrrà in noi la visione di una fiamma. Un’indicazione
personale che voglio offrire, è di cercare di contemplare le forme, partendo da
una diversa prospettiva rispetto quella usuale. Se si osserva una pianta,
solitamente il fusto è perpendicolare all’asse degli occhi. Si provi a piegare
la testa, in modo che esso diventi parallelo all’asse degli occhi. Il
modificare il modo abituale di vedere, favorirà l’esperienza spirituale.
L’obiettivo di questi esercizi è di trascendere l’oggetto percepito per arrivare
al suo contenuto immaginativo. ESERCIZIO DELL’UOMO. Prendere in esame il
ricordo di un evento in cui abbiamo assistito alla trasfigurazione nei
movimenti e nei gesti di un individuo preda di un fortissimo desiderio.
Sforzarsi di sentire in noi quel sentimento di brama o desiderio. Pur sorgendo,
trasferendo in noi tale sentimento, esso deve rimanerci estraneo, tanto da
poterlo osservare obiettivamente, senza parteciparvi con sentimenti e pensieri.
Appariranno diverse gamme di sfumature di colori. Altro errore è di compiacersi
inavvertitamente o di stupirsi nell’attimo in cui si ha un’esperienza
spirituale: si genera difatti un’onda nel sentire che annega l’esperienza
stessa. Altra qualità indispensabile da sviluppare è il coraggio o
intrepidezza. Certe esperienze spirituali, dalle quali siamo ordinariamente
protetti alla loro percezione, sono impossibili da sostenere senza tale
qualità. Aver fiducia nelle potenze spirituali, è come aprire un varco ad esse
verso di noi: se veramente desideriamo da loro un aiuto, attraverso la fiducia
in esse verremo soccorsi e sostenuti. LA DIETA ESOTERICA. L’alcool è da
evitare, anche durante i pasti e anche se assunto in piccole quantità: esso
immette nel sangue un elemento anti-Io che si oppone all’autonomia dell’Io; una
specie di neutralizzatore fisico dell’esperienza spirituale. L’alcool limita,
distorce o impedisce la possibilità di giungere ad una percezione cosciente del
mondo spirituale. Bisogna giungere a sentire spontaneamente ripugnanza, un
naturale disgusto verso la carne; essa contiene sostanze che favoriscono
l’irregolare autonomia di certe condizioni del corpo astrale. Inoltre essa
paralizza le forze contenute nel ricambio, le quali sono di natura prettamente
spirituale. I vegetali che si sviluppano sotto terra, senza la luce solare,
come funghi, legumi, sono meno indicati di altri che si impregnano di luce
solare, come i pomodori o le arance. GLI EFFETTI SUL CORPO FISICO SUSCITATI
DAGLI ESERCIZI. Tutti gli esercizi antroposofici, tendono a realizzare una
maggiore mobilità del corpo eterico: nell’antichità, per ottenere questo ci si
aiutava attraverso particolari tecniche di respirazione. Oggigiorno, tali
pratiche sono dannose: si realizzano difatti degli strappi fra l’eterico e il
fisico; se tuttavia se si verificasse qualche esperienza spirituale, sarebbe
priva di controllo, casuale. Le pratiche respiratorie sono sconsigliabili. A
seguito degli esercizi antroposofici, la respirazione assume spontaneamente un
nuovo ritmo. La mobilità del corpo eterico offre la possibilità di percepire il
proprio corpo fisico come un elemento estraneo. Si possono, durante il
tirocinio esoterico, avvertire delle trasformazioni che possono, ma non devono
venir interpretate come anomalie patologiche. Si può avvertire, come non prima,
il proprio sistema osseo interno come un peso. Un’altra sensazione è
sperimentare i propri muscoli come percorsi da correnti; si sente scorrere
qualcosa nel sistema muscolare, quale moto del corpo eterico. Si può poi avere
la sensazione che la nostra coscienza sia distesa e diffusa non più solo nella
testa, ma lungo tutto il sistema circolatorio, nel sangue ove vi è il nostro
noi. Si avverte poi il il centro del proprio essere nel centro del cervello,
mentre nella periferia di esso si percepisce la zona ove opera e agisce la
memoria rappresentativa. Il sistema nervoso comincia a rendersi indipendente
dalla corrente sanguigna. Si ha poi la percezione di avvertire l’indipendenza e
l’individualità dei singoli organi interni. Ciò vale anche per gli organi di
senso, che sembrano come “attaccati” al nostro essere. I SENSI. Il tatto non è
un senso, ma un urto contro il mondo esterno; tramite gli altri sensi, evocando
le relative percezioni di gusto, odore, suono e vista per poi cancellarle
ispirativamente, è possibile ritrovare la loro origine spirituale. Il gusto è
un organo di percezione dell’etere cosmico. L’olfatto fa percepire l’etere
vitale. L’udito è l’involuzione di un organo dell’epoca lunare, allora predisposto
per la percezione dell’armonia delle sfere. Il senso del calore ci rimanda
all’antico Saturno. La vista ci permette di percepire la manifestazione
dell’etere di luce. Un sintomo evidente dell’effetto degli esercizi è sulla
memoria: essa viene man mano a perdersi, per venir sostituita da un’altra facoltà
mnemonica non fondata come questa su ricordi visivi e uditivi, ma su ricordi o
immaginazioni eteriche. Il vero serbatoio della memoria non è il cervello, ma
il corpo eterico: qui ogni cosa viene registrata, racchiusa e conservata.
Procedendo dal presente a ritroso, rievocando stati d’animo sperimentati, sarà
possibile ritrovarvi eventi dimenticati. Nel sentire, si risveglia la memoria.
Occorre sviluppare presenza di Spirito: abituarsi ad una grande
autodeterminazione, imparando a decidere con immediatezza, senza esitazioni.
Occorre poi di decidere responsabilmente di non tradire il mondo spirituale,
una volta conseguite le facoltà iniziatiche. Il comunicare insegnamenti a
qualcuno che non ne sia preparato, significa assumersi anche la responsabilità
karmica delle eventuali conseguenze, circa il buono o cattivo uso che questi ne
farà. Lo stare in segreto non deve significare darsi arie misteriose, ma solo
non voler nuocere ad altri. Tutto ciò che ci porta alla nostalgia del nostro
passato, è una tentazione luciferica. Bisogna cessare di contare i giorni, i
mesi e gli anni trascorsi senza risultati nella disciplina. La parola chiave è
“Pazienza”. L’impazienza rappresenta un ostacolo: il mondo spirituale per
potersi rivelare, per aprirsi un varco, ha bisogno di trovare nel discepolo
calma attesa, per potervisi riversare. MITEZZA E SILENZIO. Le potenze spirituali
sono in continuo fermento, in perenne attesa per poter essere accolte
dall’uomo, purché trovino le giuste condizioni che glielo consentano: esse,
datrici di Amore eterno e altruista, trepidano nella fremente attesa di poter
riabbracciare i loro fratelli minori. Più che anelare di muoversi incontro a
loro, è più giusto intendere che la via giusta è sapersi aprire ad esse. Esse
possono riversarsi in noi solo se trovano purezza interiore; esse sono sempre
pronte, dai limiti della nostra coscienza, a connettersi con noi. Sono soltanto
i veli della personalità soggettiva, l’irrequietezza, i timori, gli impulsi
inferiori, a impedire loro di avvicinarsi. Ogni sforzo nel guardare o udire
fisico, ogni reazione istintiva, paralizza i sensi spirituali. Bisogna
rinunciare alla suscettibilità e alla collericità: tacitare le passioni e i
desideri. Bisogna svincolarsi dalla forza del desiderio, che impedisce la
percezione dello Spirito. Padronanza di sé: dominio dei sentimenti che sorgono
spontaneamente in noi. È consigliabile nei rapporti con gli altri, non la
durezza, ma la mitezza. La durezza erige una barriera invalicabile, spezzando
un’ulteriore comunicazione. Mitezza e silenzio: positività e astensione dalla
critica. Si consiglia di ritirarsi ogni tanto dall’ambiente della vita di tutti
i giorni, per raccogliersi e meditare in mezzo alla Natura. Il rumore della
vita quotidiana, può impedire il manifestarsi degli effetti degli esercizi. Il
discepolo mano a mano si libera così della vita istintiva e dei caratteri
ereditari della sua razza e famiglia: si svincola dall’azione delle entità spirituali
corrispondenti. Occorre sempre chiedersi se si è degni di questa libertà interiore
che si vuole conseguire e se si ritiene di avere le forze necessarie per
sostenerla, affinché tale libertà agisca positivamente e correttamente. LE
sette CONDIZIONI PER LA PREPARAZIONE ALLA VIA OCCULTA. La salute fisica è
connessa al karma: molte volte occorre chiedersi se non vi sia qualche cosa nel
campo morale che gravi sul fisico, da purificare o da espiare, che ne impedisca
l’atteso miglioramento. Per la salute del corpo occorre sopratutto coltivare la
chiarezza del pensare e del discernimento nelle impressioni ricevute dal mondo
esterno. Prima di parlare o di esporre una propria considerazione o
un’opinione, occorre stabilire con chiarezza il pensiero da formulare in
immagini: non è bene difatti cercare a tutta prima le parole idonee, ma soprattutto
la figura d’insieme da cui partire. È l’immagine che deve far scaturire
l’espressione dialettica. Sentirsi un arto della vita universale, una parte di
questa, superando ogni senso di separazione. La sostanza divina è solo
apparentemente e necessariamente ripartita nel cosmo: lo scopo finale
dell’evoluzione è comunque ricostituire un’unica entità spirituale. Bisogna
aspirare ad essere ciò che si vorrebbe gli altri fossero. 3- Si deve divenire
consapevoli che i pensieri e i sentimenti hanno la stessa valenza e importanza
che le proprie azioni: il movimento del pensiero e dei sentimenti è altrettanto
concreto quanto le azioni fisiche operate sul mondo esteriore. Ciò originerà
responsabilità per il circostante ambiente animico e fisico. I pensieri permangono
e si diffondono, comprendendo nei suoi effetti una moltitudine di esseri. Operare
secondo i puri impulsi dell’Io superiore, non dell’Io inferiore. Si deve
prendere coscienza che il corpo fisico, nel quale solitamente ci s’identifica,
è solo uno specchio, un arto dell’interiorità. Educarsi al mantenimento di una
decisione presa; il rinunciare è un cadere nel vuoto dell’incoerenza e
dell’indeterminatezza: è mancanza di forza dell’Io. Non bisogna assolutamente
mai, prendere decisioni o fissare regole, mentre ci si trova travolti dall’onda
di un moto passionale o di un impulso emotivo. Occorre essere riconoscenti,
grati al mondo esterno e allo Spirituale. Si deve ricordare che nell’era di
Saturno, “Tutto era Uomo”, e che solo grazie al frutto del sacrificio di altri
esseri spirituali e esseri fisici rimasti indietro nei regni inferiori, è stato
possibile configurare l’umanità attuale. Ringraziare per il sostentamento
giornaliero. Considerare la vita e agire in essa, secondo la direzione
enunciata nelle precedenti condizioni: dare un’impronta unitaria ed equilibrata
alla vita facendo in modo che le finalità delle proprie azioni siano
determinate dalle attitudini sopra descritte. Molte cose devono essere
abbandonate, e molte altre acquisite per porsi al servizio del divino. LA
POSTURA NELLA MEDITAZIONE. La terra è percorsa perpendicolarmente e
orizzontalmente da correnti, che possono favorire o ostacolare la meditazione.
Le correnti perpendicolari favoriscono: occorre pertanto avere la colonna
vertebrale verticale rispetto alla superficie terrestre. La posizione distesa,
supina, invece accoglie le correnti orizzontali dirette alle specie animali,
inducendo automaticamente ad un tipico stato semisognante. I FIORI DI LOTO. Il
corpo eterico è percorso da innumerevoli correnti che muovono in senso
longitudinale o circolare radiale. Durante la veglia, il corpo astrale rimane
connesso spazialmente al corpo fisico; quando si apre nel discepolo la
coscienza spirituale, il corpo astrale si espande in proporzione dello spazio
che può essere percepito, ossia diviene grande quanto il suo campo di
percezione. Non si parla diffusamente del loto a due petali, fra gli occhi,
perché esso è connesso con il risveglio di forze che appartengono alla
chiaroveggenza primitiva. Non vi è alcun cenno, per ragioni di sicurezza, del
loto della zona basale “kundalini” e del loto”1000 petali”, sul capo. In un lontano passato, i fiori di loto erano
attivi; poi lentamente hanno cessato di funzionare. Attualmente solo la loro
metà è attiva; con il lavoro interiore essi si ridestano, cominciando a
muoversi e ad illuminarsi. I centri a sedici, (laringe) dodici (cuore)e dieci
petali (stomaco), attivati, conferiscono la padronanza assoluta sull’Io inferiore.
IL LOTO A SEDICI PETALI (laringe). Gli esercizi della preparazione e dell’illuminazione
tendono ad attivare tale centro. Si tratta principalmente di lavorare nel campo
delle idee, curando la moralità nell’uso delle parole e la qualità di buon fine
delle proprie risoluzioni prese. Tale centro, attivato, conferisce la capacità
di entrare in comunicazione con altri Esseri tramite il pensiero (telepatia). Le
condizioni da realizzare sono otto, ciascuna equivalente ad ogni petalo
dormiente: Formarsi rappresentazioni il più fedeli possibili del mondo esterno,
prive di fantasia personale, eliminare l’impulsività, le reazioni dettate dall’emotività;
le parole usate in un discorso devono essere sempre rigorosamente connesse
all’argomento; ogni gesto e atto deve
essere sempre in piena coerenza alle idee e alle risoluzioni prese; organizzare,
pianificare concretamente la propria vita; verificare la saldezza, la moralità
e la giustezza delle proprie aspirazioni;
imparare ad osservare retrospettivamente gli eventi della vita; la giornaliera meditazione per interrogarsi
sulla propria fedeltà alla linea tracciata dalle sette condizioni precedenti. È
di vitale importanza sviluppare la veridicità; dire sempre la verità
promuovendo la perfetta corrispondenza fra mondo esteriore e mondo
interiore. A volte non è molto
altruistico dire la verità, ma lo scopo morale non evita il senso di giustezza.
Non mentire mai ai bambini e non fare loro mai promesse senza mantenerle. MORALITA’
E CONOSCENZA. Il loto a due petali, nel centro frontale, ha una particolarità:
anziché ruotare come gli altri, una volta attivato, esplica la sua azione
sporgendosi all’esterno, prolungandosi in direzione orizzontale in una forma a
due rami, con il compito di “portare fuori” il corpo eterico. Per mezzo di tale
centro, si formano sia le correnti eteriche che scendono verso la laringe e il
cuore, sia quelle che muovendosi verso le mani, costituiranno il vero e proprio
reticolo che renderà il corpo eterico, un intero organo di percezione. Bisogna suscitare un rispettoso silenzio
riguardo le proprie esperienze, sia con gli altri, sia con sé stessi: occorre
accoglierle così come si presentano, senza tradurle in rappresentazioni. Lo sviluppo dei Fiori di Loto tende a
trasformare tutto quello che, nascendo come natura istintiva, si presenta
incoerente e non ordinato in un volitivo campo d’azione per l’armonia delle
forze spirituali. IL LOTO. A duodice PETALI (cuore). Tale loto conferisce la
percezione delle “forme”. Come gli
altri, anche questo centro si sviluppa coltivando alcune qualità: le condizioni
da realizzare sono sei (i sei esercizi fondamentali), ciascuna equivalente ad
ogni petalo dormiente. Controllo del pensiero; connettere, partendo da un tema
o da un oggetto comune, vari pensieri in modo logico e conseguente,
distaccandosi così dall’usuale pensare automatico istintivo; in presenza di
persone che parlano in modo automatico, superficiale o poco logico, bisogna non
intervenire correggendole, ma comporre mentalmente la corrente dei pensieri
deformi e correggerli dentro di sé, interiormente senza esporli fuori di sé.
Controllo delle azioni; uniformare l’azione al pensiero, perdere l’automatismo
dato dagli istinti, prestando attenzione ai propri gesti, alle posture, ai
movimenti, in modo che non avvenga che le nostre azioni possano venire determinate
da impulsi inconsci non passati al vaglio cosciente del nostro pensiero. Pratica
della Perseveranza; perdere la volubilità, la lunaticità, compiendo e portando
sempre a termine le decisioni, gli obiettivi, i metodi, gli esercizi o le
determinazioni prese. Controllo della tolleranza; sviluppare la conoscenza dei
motivi e dei limiti di chi sbaglia, per giungere alla comprensione degli errori
altrui, onde sostituire l’istintivo impulso di criticare o giudicare; occorre
far nascere in sé il desiderio di voler essere utili all’altro tramite consigli
o considerazioni costruttive, non con giudizi che bloccano la sua evoluzione. Pratica
dell’obiettività o spregiudicatezza; non respingere immediatamente qualcosa che
ci venga detta, e parimenti non rifiutarsi di rivalutare o riconsiderare cose
da noi già appianate e conosciute; Sviluppo dell’Imperturbabilità; equanimità,
equilibrio degli esercizi sopracitati; esercitarsi a controllare o sospendere
le normali reazioni emotive. Lo sviluppo dei fiori di Loto è una disciplina
certamente difficile, ma non impossibile. ESERCIZIO CONTRO L’APPRENSIONE. Un
buon esercizio è, durante la giornata, quando un pensiero particolarmente
importante ci assilla, ci dà apprensione, divenire capaci di sostituirlo con
un’altro pensiero completamente diverso, da noi prescelto. IL LOTO A diedici
PETALI (Stomaco). Il risveglio di tale centro consente di percepire negli altri
le potenzialità future e le capacità latenti di Esseri o Entità. Per il suo
sviluppo non sono state predisposte qualità particolari da sviluppare, ma
piuttosto si tratta di generare un equilibrio armonico, traendolo dall’intera
condotta di Vita. Occorre considerare la
totalità del proprio mondo interiore: l’origine delle cosiddette idee
spontanee, dei gusti personali, dei sentimenti di simpatia e antipatia. Per la
coscienza ordinaria, l’Origine di tali suddette inclinazioni è ignota: esse
risiedono nel corpo eterico, il quale registra molte impressioni che sfuggono
alla nostra coscienza. Per divenire consapevoli delle cause che hanno originato
tali inclinazioni occorre, riandando indietro nel tempo, risvegliare
interiormente il ricordo di ciò che può averle determinate e sottilmente
impresse in noi come tendenza del gusto, dell’istintività, dell’avversione o
simpatia. In tal modo si produce anche un grande risveglio della memoria: ci si
immette nella corrente della memoria eterica. IL LOTO A sei PETALI (all’interno
dell’addome). Tramite esso, si può entrare in intimo contatto con esseri
spirituali. Si sviluppa tramite l’armonica cooperazione di corpo, anima e
spirito. Deve sorgere la spontaneità del pensare, del sentire e dell’agire
immersi nello spirito: incedere senza combattere. Non è bene limitarsi e
insistere nel lottare duramente contro una propria inclinazione o tendenza
molto pronunciata; se tale difetto è così preponderante, a volte lo si può solo
dominare o controllare, ma non annullarlo. Si consiglia piuttosto di nobilitare
e sublimare le proprie passioni e istinti, anziché procedere con fustigazioni
tendenti al voler tenerli a bada con lotte e rinunce. Occorre divenir capaci di
sperimentare la gioia di servire nello spirito e per lo spirito. ALCUNE
PARTICOLARITA’ SUL CORPO ETERICO E SUI CHAKRAS. L’intero corpo eterico è sempre
in perenne movimento: è percorso da correnti che si muovono continuamente,
seguendo la circolazione sanguigna. Il centro, o perno del corpo eterico è da
localizzarsi nel Loto del Cuore: tramite esso tutti i processi si trasmettono
agli altri centri, recando con sé ripercussioni della sua eventuale
imperfezione. Esso è un organo di natura Solare. Nella zona centrale della
testa vi è un punto specialissimo in cui corpo eterico e corpo fisico sono
congiunti; qui inizialmente si formano le correnti del corpo eterico. Prima di
rendere operativo il fiore a 12 petali, nel cuore, occorre predisporre un
centro provvisorio nella testa, per rendere possibile uno sviluppo interiore
condotto in piena coscienza. Successivamente, dopo aver raggiunto un giusto
stadio di controllo cosciente delle attività di pensiero, tale centro dovrà
venir trasferito nella sua vera sede, presso il Cuore. Gli esercizi di
concentrazione e meditazione hanno lo scopo di attivare tale centro nella
testa, per poi far discendere nella Laringe e poi nel Cuore l’attivazione.
RIEPILOGO DELLE ESSENZIALI FACOLTA’ DA SVILUPPARE. Facoltà di discernere il
vero dal falso. Capacità di valutare il giusto dallo sbagliato. I sei esercizi
fondamentali. L’amore per la libertà interiore. CONSIDERAZIONI SULLA VIA
INIZIATICA. Durante il cammino Iniziatico può capitare di avvertire una specie
di senso di maturazione interiore, di compimento; sentire di essere pronti per
qualche cosa. E’ relativamente facile
contemplare l’intero cammino iniziatico attraverso un libro, difficile però
realizzarlo con la stessa continuità, puntualità, perseveranza e coerenza nella
vita: nella vita non è come nel libro, dove un passo viene descritto uno dopo
l’altro; a seconda delle occasioni e delle situazioni individuali ogni passo
può svilupparsi prima o dopo, in modo assolutamente non conseguente.
L’ESPERIENZA DELL’ NOI’ E LA “CONTINUITA’ DELLA COSCIENZA”. Il corpo eterico è
di per sé, un principio spirituale: è connaturato con il tempo, è fatto di
sostanza temporale. L’uomo non ha assolutamente alcun potere di interferire o
di influenzare le forme pensiero, di sentimento, di desideri o passioni da lui
generate. Una volta emanate, queste forme non possono più venire controllate.
Durante lo sviluppo occulto, in un primo momento, il sé superiore si pone di
fronte al proprio mondo inferiore, il suo Ego. Si ha la percezione che tutto che era la
nostra natura interiore, prende forme che tendono a venirci addosso, incontro
dal di fuori. Si verifica un rovesciamento delle immagini, tipico del mondo
astrale. Il praticare esercizi in modo
non corretto, disordinato o incosciente, senza essere sorretti da una solida
base, potrebbe causare la percezione di queste forme pensiero in forme
ossessionanti ed aggressive, quali animali o esseri orridi, traendone terrore e
anche possessione. Ciò è la percezione della propria anima: tale evento è però
indispensabile e necessario per la realizzazione del Sé superiore. E’ qui che
comincia l’esperienza dell’Io. La vera realizzazione del Sé superiore comincia
quando, si possa vedere la sua immagine. IL LOTO A due PETALI (Centro frontale).
L’ esperienza immaginativa del Sé superiore viene attuata tramite il loto a 2
petali (fronte), il quale illumine gli enti e gli esseri spirituali. Lo sviluppo del Loto a due petali si consegue
tramite lo studio e la meditazione degli insegnamenti della scienza dello
spirito, in particolar modo ciò che concerne la gerarchia. Tale facoltà
rappresentativa, deve essere coltivata tramite l’immagine interiore dei quadri
immaginativi forniti dall’Antroposofia, inerenti all’azione interattiva,
passata, presente e futura della gerarchia nel cosmo, in tutto ciò che è
rintracciabile come loro impronta. L’intero quadro cosmico dovrebbe venir
sentito il più possibile come un panorama simultaneo. A poco a poco la realtà spirituale
si sostituirà all’immagine, venendo da questa evocata, facendo apparire veri
fatti e veri esseri spirituali. Tutti gli esercizi preparano nella coscienza la
sede atta ad accogliere la realtà spirituale da raggiungere: costruiscono quasi
la sua immagine, affinché questa possa poi diventare reale esperienza. Si
arriva poi alla conoscenza delle proprie ripetute vite terrene: il karma. A
questo punto l’anima si è congiunta con il Sè superiore, con la sorgente del
proprio essere. Da questo momento il discepolo non torna più indietro perché,
compenetrato dal Sé superiore, non sente più l’attrazione di quanto gli è
inferiore. LE COMUNICAZIONI AL RISVEGLIO. Durante la vita di veglia, l’uomo si
trova davanti ad un mondo incompleto, mentre durante il sonno ha la possibilità
di vivere nel mondo delle cause, in una completezza. La coscienza di sonno
senza sogni è una forma di conoscenza superiore; una facoltà percettiva
corrispondente a quella uditiva. I primi messaggi di quel mondo si percepiscono
come pronunciati da sé stessi a sé stessi. Si ha come la sensazione di parlare
a sé stessi, di rispondersi, quando in realtà parlano in noi esseri spirituali.
Tali sensazioni avvengono al mattino, nel risveglio: sono cenni del progresso
spirituale. Prima si sperimenta solo l’impressione di aver ricevuto qualcosa,
qualcosa che non si riesce a definire.
Poi, i rapporti con gli esseri spirituali assumono la caratteristica di
domanda e risposta; si sente al risveglio una voce interna donante luce e
chiarezza alla propria vita interiore e alla vita esteriore. Non è bene
sforzarsi di ricordare le esperienze notturne di sogno, ma lasciarle sorgere
spontaneamente. A poco a poco queste sensazioni al risveglio, questi messaggi
diventeranno sempre più chiari, così da portare nella vita di veglia tutte le
esperienze della vita spirituale vissuta durante la notte: si instaurerà la
continuità fra lo stato di veglia e lo stato di sonno senza sogni. Una volta
stabilita, tale continuità di coscienza verrà portata dal discepolo anche attraverso
le porte della morte, e con essa la stessa pienezza del ricordo nella vita fra
morte e nuova nascita. Condizione indispensabile per tale realizzazione è la
pratica della concentrazione, meditazione e contemplazione. Il discepolo potrà
porre delle domande in meditazione, durante lo stato di veglia: riceverà le
risposte durante il sonno senza sogni: ciò è l’inizio di un colloquio fra
esseri spirituali. Il vero scopo dell’Iniziazione consiste nell’instaurare la
continuità della coscienza. Ciò è una mèta assai lontana, ma dirigendosi verso
di essa si possono cogliere degli sprazzi di luce che indicano le tappe del
cammino e ne danno la certezza. LA SEPARAZIONE DEL PENSARE, SENTIRE E VOLERE. Tale
realizzazione pone il discepolo ad esperienze inevitabili, che sono dure e
difficili; la liberazione delle tre facoltà umane è assolutamente necessaria
per lo sviluppo degli organi spirituali. Sono tre i pericoli in cui si può
incombere. Pericolo del Pensare: divenire astratti teorici pensanti, distaccati
dalla vita, freddi e indifferenti nei confronti dell’esistenza, che trovano
soddisfazione solo nel proprio pensare in solitudine; Pericolo del Sentire: una
natura sensuale può sentirsi trasportata in un sentimento di devozione
eccezionale, fanatica, in un estremo godimento del contenuto della propria coscienza
mistica; Pericolo del Volere: divenire super-attivi, trovando appagamento solo
nel modificare il mondo esteriore, lasciandosi dominare e trasportare da altri.
LA LIBERTA’E L’INDIVIDUALISMO ETICO. Solitamente le tre forze dell’anima si
esplicano in modo immediato, istintivo con un loro habitus personale; il
discepolo deve distaccarsi da tale automatismo innato, predisposto in lui. Il fatto di poter dominare le reazioni e i
sentimenti conferisce a tutto l’essere un senso di forza e di stabilità, poiché
le emozioni non hanno autorità sul suo equilibrio. L’equilibrio interiore si
deve fondare su di una nuova personalità morale, il quale deve conferire al
discepolo la coscienza di ciò che deve agli altri, di ciò che deve al mondo
spirituale e a ciò a cui deve la ragione della propria esistenza. La Libertà
prevede che si sia superato l’egoismo, che si sia raggiunto un tale grado di
moralità e di equilibrio da poter cominciare a vivere non più per sé stessi, ma
per l’umanità.Il discepolo diviene consapevole di dipendere dai mondi
superiori, con la libera decisione di servire la Causa degli esseri spirituali.
Solo in tal modo si può parlare di una Libertà pura e vera, che non porti danno
a lui stesso e agli altri. IL GUARDIANO DELLA SOGLIA. Solo dopo aver liberato
pensare, sentire e volere è possibile accedere all’esperienza del guardiano
della soglia. LA SOGLIA. Il liberare le facoltà dell’anima significa assumersi
direttamente la responsabilità delle proprie azioni. Avendo liberato il corpo
eterico e il corpo astrale dagli automatismi del pensare, sentire e volere, si
avvicina l’esperienza del guardiano della soglia: si rende obiettivamente
visibile il grado a cui si è pervenuti attraverso gli esercizi. Il guardiano
diviene un essere indipendente, al di fuori di noi. Mentre precedentemente si
era intessuti con lui, ovvero con ciò che rappresenta cosmicamente il nostro
essere, ora si presenta esteriormente la nostra interiorità. I propri moti
interiori si traducono nella figura esteriore di questo essere. Il guardiano si
presenta all’improvviso, appena i chakras cominciano ad attivarsi: è la prima
esperienza soprasensibile. Tale esperienza, può suscitare terrore. Molti, al
cospetto del guardiano, che palesa il grado di imperfezione e purezza da noi
raggiunto sinora, riconoscono la propria inadeguatezza, la propria immaturità
nel sopportarne la visione, quindi retrocedono. Si ravvisano le proprie
limitazioni: i difetti assumono un carattere obiettivo. Solitamente questo essere
si presenta per la prima volta al risveglio, la mattina, in un momento
inaspettato, tanto da suscitare terrore. SIMILITUDINE FRA SPECCHIO E GUARDIANO.
Supponiamo che un uomo con il viso deforme, pur sapendo di averlo non abbia mai
potuto specchiarsi; quale sarà la sua reazione di fronte allo specchio, quando
per la prima volta vedrà la sua deformità ? Prendere coscienza della propria
figura interiore è l’incontro con il guardiano: egli è noi, che ci appariamo
all’esterno. IL GUARDIANO E IL KARMA INDIVIDUALE. Nel guardiano appare il
nostro karma; la sua figura riassume il nostro passato vivente con tutte le
cause di dolore e gioia. Qualora si trovi la forza d’intrepidezza di guardare
in volto il guardiano, da quel momento ci si assume coscientemente la responsabilità
di pagare i propri debiti karmici, quasi andando incontro a questi. Ci si
accorge che ogni tentativo di evadere o di rimandare il pagamento del proprio
karma, provoca un disastro nell’ordinamento spirituale. Ogni mancanza si
riflette assumendo forma demoniaca. Occorre assolutamente a cagion di ciò,
quali discepoli, superare il sentimento della paura. Il coraggio di affrontare il guardiano è
contemporaneamente il coraggio di prendere il proprio destino nelle proprie
mani: dare coscientemente a sé stessi anche ciò che può causare dolore,
rinuncia, peso. Smettere di evitare la direzione di vita che offre minore
resistenza, per muoversi coscientemente incontro a quanto vi è di più difficile
e arduo. Rimandare significa sempre, ritrovare. Il guardiano muterà di forma in
modo direttamente proporzionale al nostro adempimento karmico, sino ad assumere
figure luminosissime nella misura in cui ci saremo purificati. Fino al momento
dell’incontro con il guardiano si ignorano quali e quanti pesi portiamo nel
nostro fardello karmico; dopo non si è più gli stessi di prima, dopo aver visto
la vera realtà spirituale di sé stessi. Non è più possibile ingannare sé
stessi. Finché non si vede e si conosce il proprio karma, non si può dire di
essere liberi; solo dopo aver allontanato la guida delle Potenze del karma per
prendere noi stessi la responsabile guida di tale compito, solo allora si
comprendono le parole. Il Cristo ci ha reso liberi. Ora le forze del Cristo si
sostituiscono a quelle del karma. LO SCOPO DELL’UOMO NEI CONFRONTI DELLE
GERARCHIE. Bisogna prender coscienza della missione dello spirito di popolo nel
quale si è intessuti, il quale conferisce stimoli e impulsi animici che
condizionano la nostra vita. Rinnegare il proprio ambiente spirituale, nel quale
si è scelto di vivere, è rinnegare la missione di un arcangelo. Il
riconoscimento delle intenzioni del proprio Spirito di popolo, e del motivo che
ci ha spinti ad incarnaci in tale atmosfera animica, deve portarci a scorgere
nel giusto modo cosa vuole dirci la sua forza spirituale, per cogliere appieno
la direzione verso la quale dobbiamo spingerci. L’amato deve associarsi a
quelle potenze spirituali che guidano sulla terra, nelle nazioni, gli uomini
inconsapevoli, verso la stessa mèta che egli cerca oggi lui stesso di
conseguire. Il mondo soprasensibile potrà continuare la sua strada soltanto se
vi saranno sulla terra esseri capaci di comprendere la direzione. La gerarchia attende
qualcosa dall’uomo. E’ la gerarchia umana che deve portare il senso spirituale
nella materia. Dopo la morte fisica tutto ciò che l’uomo ha sperimentato
durante la sua vita, in seguito alla dissoluzione del corpo eterico e
dell’astrale, viene consegnato al mondo spirituale: ciò diviene coscienza del
mondo spirituale. (leggenda dell’uomo che dà i nomi alle cose e il nome di “Adonai”
a Dio) L’uomo deve portare la coscienza al mondo spirituale, la forza
risorgente. Il superamento del mondo sensibile dovrà avvenire, ma i frutti
dell’esperienza e i risultati tramite essa conseguiti durante l’evoluzione
dell’umano, saranno incorporati dalle Gerarchie nei mondi spirituali. L’uomo
nascendo e morendo sulla Terra, genera i germi della vita dell’avvenire:
offrendo un nutrimento spirituale al cosmo intero, in modo direttamente
proporzionale alle sue azioni pure e feconde. IL GRANDE GUARDIANO DELLA SOGLIA.
Tale incontro avviene solo quando il discepolo, dopo aver già sperimentato le
regioni spirituali inferiori e stabilito una continuità della coscienza fra
veglia e sonno, ha attuato in sé la generazione di nuovi organi del pensare,
sentire e volere. L’oltrepassare la soglia del secondo guardiano significa
stabilire la continuità della coscienza fra la vita, la morte e la rinascita. La
vera libertà è conoscere il proprio karma senza alcun veloe adempiervi in
coscienza. All’incontro con il secondo guardiano si palesa una grande
tentazione: quella di abbandonarsi alla beatitudine e al godimento procurato
dalla possibilità di accedere ai mondi spirituali.Tale tentazione, anche se non
detto esplicitamente, sembra essere indotta dagli Asura. L’unica cosa che può salvare l’uomo da tale
seduzione è sentire il dolore del mondo, il silenzio degli esseri umani nel
mondo spirituale. Questo tremendo dolore impedisce di accogliere il sentimento
egoistico della beatitudine; perché la gioia che egli ora ha, non è condivisa
da altri. Se si supera tale ostacolo la liberazione è completa: l’Iniziato
partecipa ora attivamente all’opera delle Gerarchie, nella liberazione di tutti
gli esseri sulla Terra. La decisione di collaborare con i mondi spirituali
porta finalmente l’uomo ad un piano in cui si può dire che la sua volontà ha
compiuto tutto ciò che le era stato prescritto dal Principio. Leo.
Breno. Kur. Giovanni Colazza. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colazza”
– The Swimming-Pool Library.
COLECCHI (Pescocostanzo).
Filosofo. Grice: “What I love about Colecchi is that while he was a bad
Kantian, he was an excellent Vicoian!” Studia ad Ortona, dove sube diverse
perquisizioni da parte dell'Inquisizione per la sua tacita simpatia verso gli
ideali rivoluzionari. Insegna alla Reale Accademia Militare della Nunziatella.
Venne mandato in missione in Russia, dove si dedica alla filosofia speculative.Al
ritorno, soggiorna a Königsberg, dove ebbe modo di conoscere l'opera di Kant.
Fu uno dei primi filosofi italiani a studiare Kant.Rientrato in Italia, fonda a
Napoli una scuola privata di filosofia ed ha tra i suoi allievi i fratelli
Spaventa, Sanctis, Settembrini e Caracciolo. Il suo merito principale fu quello
di essere, insieme a Galluppi, un assertore del criticismo kantiano in Italia. Altre opere: “Se la sola analisi sia un mezzo
d'invenzione, o s'inventi colla sintesi ancora?” La legge del pensiere;
L’analisi e la sintesi; La legge morale, La legge della ragione; “Se il
raziocinio sia essenzialmente diverso dalla intuizione”; “Se nell'invenzione
eserciti maggior influenza la sintesi o l'analisi; “Se li giudizi necessari
sieno solamente gli analitici”; “Se l’identità formale del raziocinio sia
valevole a convertire il raziocinio empirico in raziocinio misto?”; “Il
principio sul quale poggia il raziocinio quando classifica e quando istruisce”;
“Quistioni ideologiche”; “Se diasi una logica pura, ed una logica mista”; “Se
una idea soggettiva non altro sia che una idea di un rapporto, L’idea dello
spazio e l’idea del tempo; Il primo problema di filosofia: se la sensazione sia
esterna di sua natura, o tale diventa in forza del giudizio abituale? Alcune
quistioni le più importanti della filosofia; Psicologia, Logica applicata, Ideologia,
Frammento apologetico; in G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi. Ricerche
storiche, Edizioni della Critica, Napoli, e in Storia della filosofia italiana
dal Genovesi al Galluppi, Firenze; Tip. «All'insegna di Aldo Manuzio», Napoli); a
cura dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, con introd. di F.
Tessitore, Procaccini, Napoli); E. Pessina, Quadro storico dei sistemi
filosofici, Milano); Necrologia in “Poliorama pittoresco” “Elogio funebre”; Spaventa,
Studi sopra la filosofia di Hegel, Torino; L. Settembrini, Lezioni di
letteratura italiana, Napoli; F. Fiorentino, Scritti vari di letteratura,
filosofia e critica, Napoli; A. De Nino, Briciole letterarie, I, Lanciano; Sanctis,
La lettereratura italiana nel secolo XIX, Napoli); Marchi, Il sistema
filosofico di Ottavio Colecchi (Tip. Sociale di A. Eliseo, L'Aquila); F.
Amodeo, Ottavio Colecchi, in «Atti della Accademia Pontaniana», Discussioni
biografiche e documenti inediti, Ravenna); L'istruzione pubblica e privata nel
Napoletano; Città di Castello, Colecchi filosofo e matematico: nuove notizie e
nuovi documenti, in «Rassegna abruzzese di storia e d'arte», Gentile, Storia
della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, II, Milano); Pedagogisti ed educatori,
Milano); Capograssi, Nuovi documenti sull'accusa di ateismo ad Ottavio
Colecchi, in «Samnium», Romano, Un antagonista del Galluppi: Ottavio Colecchi,
in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», A. Cristallini, Ottavio
Colecchi, un filosofo da riscoprire, Padova, G. Oldrini, La cultura filosofica
napoletana dell'Ottocento, Bari; E. Garin, Storia della filosofia
italiana, III, Torino; F. Tessitore,
Colecchi e gli scettici, in Introduzione a Quistioni filosofiche, Napoli; G.
Cacciatore, Vico e Kant nella filosofia di Ottavio Colecchi, Centro di studi
vichiani; Io e Ottavio Colecchi. Narrazione biografica in forma di anamnesi,
Japadre Editore, L'Aquila-Roma; Dizionario Biografico degli Italiani. Dalla tomba della setta italica, tenendo dietro alle ori
gioi dell’antica lingua del Lazio – la lingua romana -- trasse fuori il Vico
que ste divine idee; aveva lello forse Bruno ancora, perchè un’ombra d’idealismo
copre spesso la sua filosofia, spezialmente nella “Scienza Nuova”, dove l’uomo
passa suo malgrado dalle selve allo stato civile per la sola opera di una
lupa (la lupa capitolina). Se non che l’uomo di Vico rimane nello stesso stato
in cui avealo lasciato Enea. Devono le divine idee rideslarsi all'occasione
delle sensazioni; njun tentativo per ravvicinare la sensazione all’idea;
dovrebbe ciò fare l’induzione, ma la ragione è sempre scontenta di quanto
scopre l’induzione. Non ancora siera mostrato Kant per conciliar insieme la
sensazione (sensus) e l'idea o concetto. Con questa filosofia, appoggiata all’induzione,
si dispose Vico a crear il “diritto universale” della nazione del Lazio – la
nazione romana. Ma preoccupalo sempre delle civili cose di Roma, brillando sempre
nel suo spirito l'immagine di Roma, si risolse in fine di stabilire Roma come
modello di civiltà. Il perchè nella storia, della mitologia, nelle lingue, nel
Blasone, e pe’ feudi pur anche del medio evo deesi Roma ripelere,e la romana giurisprudenza
diventar quel la di tutte le nazioni del mondo. E come i fatti hanno a servir
di occasione per ridestare la idea, così il diritto di Roma, le XII Tavole,
tutta la storia, tutta la mitologia concorrer devono a risvegliar le idee del
vero, del giusto, a dir breve l’ideale dell’umanità per selta. Ond'è che
metafisica, logica, morale, educazione, politica, geografia, astronomia si abbozzano
prima della religione de’ padri in mezzo alle famiglie, e poscia in mezzo alla
città di Roma; dove il senato si compone degli stessi primi padri, riuniti in
Ordini, per reprimere le ribellioni degli ammutipali clienti. Di qui le lante
critiche sulla storia positiva per distruggerla. Sesostri e Tanai sono due
simboli. La sapienza del poeta vera immagine della sapienza o scienza del
filosofo, L’Eneide confuse con la sapienza dei romani. E tutto questo per via
di etimologie stirale, di mili forzati, di stranissime analogie. Egli è evidente
che tal metodo d’interpretazione deesi ridurre in fine ad una tortura , per isforzare
tutt’imonumenti della storia e delle favole a deporre in favore di un sistema.
Siegue da questa osservazione che quanlunque tutta la storia, tutta l’erudizione,
per la potente sintesi di Vico, pieghi sempre al modello di Roma, no di
Koesingberga, e la sua civiltà a poco a poco siasi spenta, fino a che passato
il medio evo, col risorgimento delle lettere e delle scienze, ricomioci il suo
corso; può non pertanto rimaner il dubbio che il popolo romano altro forse non
sia che un fatto isolato. Essendo si in effetto limitato il Vico al uomo del
Lazio.Vico, dobbiamo pur dirlo a Gloria d'Italia,Vico è di gran lunga superiore
ad Herder, il quale nella sua Storia dell'umanità ha parlato pur anche
dell'origine e del progresso della civiltà de'popolo romano. Imperocchè se
Herder, amico del sensismo, vede l’uomo del Lazio nella natura, e dalla
formazione del cristallo, per una ben lunga scala, va sino all'uomo che è la
corona dell'organizzazione. Vico, seguace di Platone e non d’Aristotele, con
maggior discernimento del ministro protestante, l’uomo nell’uomo stesso contempla.
E se l'analisi di Herder vivamente rallegra l'immaginazione, la sintesi di Vico
sembra lalmente falla l'intelligenza per, che il lettore, in onla del suo
linguaggio enigmalico e della strapezza delle analogie, viene attirato
potentemente dalla magica forza della sua filosofia. Niuno più originale di
Vico, e pare che l’originalità dell’italico ingegno siesi sventuratamente nel
Vico spenta. De’ suoi principii intanlo, per quel che riguarda il nostro
assunto, egli è facile di raccorre, che avendo le legge per iscopo di metter
freno alla passione umana, e di render l'uomo migliore; ben possono per esse la
*forza*, l’*avarizia* e l’*ambizione* che sono i tre vizi pe’ quali corre a trovarsi
il genere umano, convertirsi in *valor militare*, *prudente mercatanzia* e *savio
governo*. La legislazione dunque, considerando l’uomo qual é, se dirige ad usi
migliori la passione, lo riforma e trasmuta in quello che esser deve. La
massima di Vico pertanto, ben lunga dall’opporse alla legge morale, la conferm
viemaggiormente e ne presuppone l'esistenza. E qui credo far cosa grata a miei
lettori, se da Vico stesso tolgo le prove di questa mia assertiva. L’unico
principio e fine del diritto è per Vico la virtù del vero. E'chiama virtù del vero
l’umana ragione (la vernunft di Kant), la quale è virtù in quanto combatte con
la cupidità -- è giustizia in quanto regola e pondera la utilità. La utilità
non e per sè stesse ne onesta nè turpe; ma turpitudine è la sua ineguaglianza,
onestà la sua eguaglianza. L’utilità privata di un singolare individuo, o anche
nazione o popolo di due uomini, è labile, perchè finisce con l'individuo la
diada dei due uomo o con la nazione; ma l’eguaglianza delle utilità, che è
figlia dell’onestà, non è cosa caduca, è cosa immutabile ed eterna. Una cosa
caduca non puo produrre l’immutabile, nè un corpo dar nascimeoto a ciò che li
trascende. Il sistema dunque dei futilitari utilitari, con questi pochi molli
del Vico, è distrutto. Ciò si conferma con quel celebre detto di Pedio presso
Ulpiano: quante volte una od altra cosa venne con la legge introdotta è buona
occasione supplire con la legge stessa le altre cose che tendono alla stessa
utilità. Una buona occasione adunque e alla divina provvidenza l’umana
debolezza e miseria, per le quali, secondo la loro stessa spontaneità, ritrasse
gli uomini dallo stato ferino e bestiale ad essere socievoli, uguagliando tra
loro le utilità, come chè ciò non avvenisse da principio per intera onestà, ma
per una parte di onestà. Or, la società è una *comunione* di mutua utilità che
interviene tra eguali. Si la socielà ineguale è tra un padre (superiore) e un
figlio (inferiore); tra la potesta civile e di soggetti – l’eguale è tra fratelli
Romolo e Remo o i dioscure – Castores (dual), o Eurialo e Niso, i due amici,
tra due cittadini. Di qui due spezie di giustizia rellrice ed equatrice.
L'eguaglianza delle utilità, con *geometrica* -- progressione geometrica --
misura determinata, è il subietto della giustizia rettrice, della giustizia
*distributive*, la quale mira alla dignità delle due persone. L'eguaglianza poi
delle utilità, fatta con *aritmetica* -- progression aritmetica -- misura, è materia
della giustizia equatrice, volgarmente detta giustizia *commutativa*, la quale
si rapporta al mio ed al tuo – al nostro -- --
ed ba luogo in ogni società eguale. Nè o s t a p u n t o ( come crede
Grozio , il quale dital L'occasione poi, per la quale una cosa accade, non
è cagione della cosa stessa, il che Grozio non vide, trattando dell'origine del
diritto; e pur doveva ia questa disamina por mente ad una osservazione tanto
importante che ne è il cardine. L' utilità dunque non fu produttrice del
diritto, come piacque al greco Epicuro, al etrusco Machiavelli, ad Obbes, i
quali intesero per utilità la cessazione o del bisogno, o della violenza, o del
timore; ma fu l'occasione, per la le gli uomini divisi, deboli, bisognosi
tralti furono alla vita sociale. qua. Siegue da ciò , che l'upa e
l'altra giustizia la rellrice c l'equatrice hanno per fondamento l'onestà, e
che non può avervi giustizia senza morale: conseguenza importautissima, dedotta
dal Vico da vero suo priocipio, e sfuggita al positivista Carmignani, il quale
fa della morale e del diritto due cose talmente distinte, quasi non avessero
nulla di comune tra loro. Elementi del giusto diritto, per Vico, sono la prudenza,
la temperanza, la fortezza. La prudenle deslioazione io falti delle utilità,
fatta con ragione, von come della la cupidità, produce il dominio; il moderato
uso delle cose utili genera la libertà. La potenza regolala dalla fortezza
partorisce la incolpala tutela. La tutela de'seosi e la libertà degli affetti
costituisce il diritto naturale, che gli antichi interpreti dicono primitive, e
gli stoici appellano il principio della natura. Il dominio, la libertà, la
tutela sono cose nalurali all’uomo, e oale per le occasioni. Così la libertà
del diritto era prima della guerra; ma venne riconosciuta, ed ebb e il suo nome,
introdoltasi, per la guerra, la schiavitu. Similmente con la divisione de'campi
siammisero I dominii delle cose del suolo; ma il giure coosultodice: non
essersii dominii introdotli:essersisolamente distinti con la divisione.
Finalmente dalla potenza, tosto col nascere, proviene la difesa di sè stesso.
distinzione siburlarche avendo più socii posto in comune parli disuguali di
daparo, prendano parti di lucro con geometrica misura; perciocchè prendono
parli di lucro con semplice misura, essendo il daparo,e non la dignita della
persona che li agguaglia. Jo falli tanto ciascun socio ne toglie, quanto ne
avrebbe preso, se solo a quel negozio posto avesse il daparo. Il dominio della
ragione su iseosi e sugli affetti è il diritto naturale dagli stessi interpreti
chiamalo secondario, e dagli Stoici conseguenti della natura. Rimontiamo col
Vico all’origine di questa distinzione. Iddio di è all'uomo conlapolenza l'essere,
con la sapienza il conoscere, con la bontà il volere. Questo divino benefizio
deriva del diritto naturale: l’una con cui l'uomo vuole il suo essere, l’altra
con cui vuole il suo conoscere: ood'è che l’uomo lalvolla più il sapere chel’essere
agogna. Or, nella parte con cui l’uomo desidera il suo essere contengonsi
quelli che gli stoici dicono principio della natura; imperocchè egli appreode
col pascere, mercè le sensazioni presenti e vive del piacere e del dolore, a seguire
le cose utili alla vita, a schivare le nocevoli, e se venga impedito nelle utili,
e sospinto nelle nocevoli, nè possa altrimenti quelle con
seguire,questeevitare;con la forza allontani la forza, pel diritto che ha di
cooservar il suo essere. Questa parte del diritto naturale vien definita:
diritto che la natura a ogni animale apprese, e da essa nasce il diritto di
respingere da noi la violenza, quello della unione de’due sessi, della procreazione
de'bgli e della educazione loro. Ma nella parle con che l'uomo vuole il suo
conoscere, contengonsi quelle cose che gli stoici dicono conseguenti della
natura, e vien essa definita: per tutto quello che la ragione naturale fra gli
uomini stabili ed egualmente fra le genti tutte si osserva.Questa parte del diritto
domina la prima: di guise che quando Pompeo, impedito dalla tempesta a partire,
disse: è necessario il navigare, e non necessario il vivere, era siquesto suo
dello uoa legge che la ragione a talli gli uomini impone è necessario cioè dioperar
rellamente,e non necessario il vivere. Nella prima parte del diritto naturale la
ragione non riprova, ma permette: nell'altra essa vieta o comanda, e quello che
comanda o vieta è immutabile; che anzi per questa seconda parte è immutabile
ancor la prima , non potendosi le cose lecite di lor natura vielar con le leggi
, non essendo in potere di queste di far sì che non sieno permesse. Vedano ora
imoderoi scriltori di diritto: se la distinzione del naturale diritto nel
principio della natura, e ne' suoi conseguenti debbasi o no rigettare! Rimembro
di averne lello più di uno che la crede inutile. Grozio aperlamente afferma
:non esser ella di alcun uso , sen za avvedersi, dice il nostro filosofo e
giureconsulto, che nell'egregio suo trattato della guerra e della pace egli
stesso l'ammelte tacitamente ; perchè in questo appunto il suo uso consiste,
che nella collisione dell'uno e dell'altro diritto, il secondo è da più del
primo. Ma bisogna un Vico per rilevar il merito dell’antica giurisprudenza, e
mostrare a Grozio spezialmente su quali salde basi ella si reggeva! Il diritto
naturale primitivo è, secondo Vico, la materia di ogni diritto volontario; il
diritto naturale secondario de costituisce la forma, la quale ove manchi, il diritto
volontario è nullo. Perciò Ulpiano define il diritto civile: per quello che nè
al tutto dal diritto naturale si diparte, nè inlullo adesso si uniforma; ma in
parle viaggiugne, inparte vitoglie. Il perchè la mente della legge e la ragione
della legge sono due cose distinte. Mente della legge è il legislatore; ragione
dalla legge è l'uniformità della legge al fatto. Possono si mutarsi i fatti, e
la mente della legge si muta; tutti può essa utilità riuscire tal fiata
per altri iniqua. equa, La ragione della legge fa che ella sia vera; il certo della
legge la fa vera in parte, e questa parte di vero sapno propria i legislatori,
per ottenere con l’autorità ciò che dal semplice pudore degli uomini conseguir
non possono; il che rende ragione della definizione del diritto civile, lestè
data da Ulpiano. Ond’è che in ogni fiozione della legge, la quale si rapporta
al diritto volontario, evvi due sono quindi i fonti della giurisprudenza: laragio
ne e l’autorità. Il vero e della ragione, il certo dell’autorità; ma non può
l'autorità opporsi in tutto alla ragione, altrimenti le leggi non sarebbero
leggi, ma si mostri di leggi. È dunque inopportuna cosa cercar ragione dall'autorità,
la qual , dettando una utilità per com ponesi l’autorità del dominio, della
libertà e della tutela, che sono i tre fonti di lutti gli stati. Dalla conoscenza
per la quale è l'uomo da più di ogni altra cosa mortale nasce il suodominio
sopra tutta la natura; dal suo volere trae origine la libertà, dall’eccellenza
del suo essere s’ingepera il diritto di tutela col quale contro tutta la natura
mortale si difende. Se dunque il dominio, la libertà, latutela costituiscono l’autorità,
seconda sorgente del diritto: se il dominio, la mal’uniformità della legge al fatto
non si muta mai. Mutato il fatto cessa la ragione della legge; non però si muta
o rivolge in contrario. La mente della legge riguarda l’utilità, la quale
variando, fa variar la mente; ma la ragione della legge o l'uniformità della legge
al fatto, riguarda l’onestà, e questa è immutabile sempre un certo aspello di
vero , che rende certa la legge , m a non del tutto vera ; perchè qualche
ragione non concede che ella interamente sia tale. Tetessa walela Sviela ile;
laditt Jembro Grozio deon, siela o,sed che ezli cololalores mate il diritto naturale
na ni Callo. muu Da una parte dell’autorità, e propriamente dalla tulela,
nacque il diritto delle prime genti , che può dirsi ; Diritto della violenza.
Divide Vico questo diritto in diritto delle genti maggiori e in diritto delle
genti minori. Le genti maggiori furono prima che le città si fondasse, e si
stabilissero le leggi : motivo per cui Saturno, Giove, Mercurio, Marte, egli altri
numi della mitologia perchè antichissimi tra gli dei ripulali sichiamarono dei
delle genti maggiori .Geoli minori si dissero quelle che furono dopo fondale la
città e stabiliti i reami; ond’è che Dei minori si appellarono quelli che
vennero dalle città consecrati, come Quirino, ed altri Eroi.ParealVicoche tale
divisione imitassero in certa guisa i Romani, allor chè denominarono patriziï
delle genti maggiori quelli che da' padri scelti da Romolo discesero, e patrizii
delle gentiminori quelliche trassero origine da'padri coscritti. Il diritto delle
genti maggioriè, come sidisse, il diritto della privata violenza, con che gli
uomini, senz’alcun freno di legge , toglievano con la propria mano, ed
usucapivano; con la forza si difendevano; il proprio uso o possesso rapivano, e
con la privata forza ricupera vano. Perciò i mancipii erano cose in realtà per
mano tolte; i debitori neri veramente legati; vere erano le mancipazioni,
usucapioni, vindicazioni, usurpazioni, o gli usi ne’rapimenti del possesso,
come le mogli usurarie che erano nel possesso, e non già nella potestà de’ mariti,
usurpavano lo spazio di tre nolli, cioè libertà, la tutela ha origine
dalla naturale disposizione dell'uomo, ed in ogni stato, come Vico sostiene, si
manifestano sempre; vedano Hume e Romagnosi con quanta buona ragione asseriscano
che genitrice del diritto è l'aggregazione sociale! per tre nolti
continue illoro uso a’mariti rapivano, accið con la usucapione di unannonon passassero
in mano, o sia nella poteslà di essi. Si disse ianaozi costar il vero della
ragione della legge, il certo dell'aulorità di essa, ed essere stale queste due
cose cagione del diritto; imperocchè il dominio, la libertà, la tulela in qualunque
stato dell’uomo si manifestano sempre. De esi però notare che il diritto, come
che risulti sempre da questi tre elementi,fu non pertanto ne' Governi divini ed
eroici più certo che vero; negli umani più vero che certo.Or siccome col
Diritto delle genti m a g giori,senza alcun freno di legge, lecose, come testè
dicemmo, si usu capivano, con l’uso e con la per pelua adesione del corpo si
ollenevano, con la forza si riacquistavano, ed accadevano per questa violenza
frequenta risse ed uccisione; si riunirono in ordini i padri di famiglia, e
poco fidandosi, per la licenza che tra gli uomini regnava, del loro nalural
pudore, conservarono per sè soli la forza, e posero termine ad ogni ulteriore
disordine in avvenire. Da ciò nacque la potestà civile; la quale poche cose pubblicamente
trallava con la forza: le punizioni cioè e le pene. Affinchè poi gli altri ad
essa potestà soggetti, fossero nelle lor pretensioni tranquilli, introdusse
certa corporea forma alla materia da lraltarsi in privato, e coosacrò certa
formola di parola, alle quali uniformar dovessero la loro ipfioila e svariata
volontà i cittadini. la forza di questa formola, di proposito e seriamente, non
per frode o inganno, polevano essi acquistare diritti, conservare le proprietà
o in altri trasferirle, con le quali tre cose ce lebrayasi ogni negozio di
privato diritto. In tal guisa la civile potestà, rimossa ogni violenza, e tolla
via ogni in certezza per la solennità de’ giudizi, riforma il costume, e
distribui fra i cittadini la cosa certa e civile, che in buona ed in gran parte
ricuperarono il vero ed il pudore, che sono i due perpetui aggiunti del diritto
naturale. Da questa metamorfosi, per dir così, del dominio, della libertà e
della tutela, per la quale il diritto da violento che era si trasmuta in
moderato, ebbe origine il diritto civile; e la patura medesima delle cose
insegna essere ciò avvenuto a ogni popolo, che dal diritto delle genti maggiori
vennero sollo la potestà civile. Dopo dunque l’originaria acquisizione del
diritto naturala all’uomo, dopo l’altra introdotta dal diritto delle genti maggiori,
coo che il padre, posti i confini, distinsero il dominio delle terre, surse la
terza acquisizione introdotta dal diritto civile. E qui sinotiche come il dominio,
la libertà, la tutela costituiscono nella cosa pubblica l’autorità civile, il
privato diritto del pari a questi tre sommi capi si riducono. Al dominio, col
quale le cose che ci appartengono si vendicano, e contro qualunque possessore
si ripetono; alla libertà, la quale ogni potere ed obbligazione comprende;
all’azione, che allro non e suor chè tutela dalla legge prevedulc. Stabilita
questa dottrine, volgiamo da ultimo un rapido sguardo sul diritto de’ romani
Quiriti, e le vedremo mirabilmente confirmata. Chiama Vico il romano diritto un
serioso poema dell’universale diritto delle genti, altese le tante Ginzioni,
delle quali è ripieno. Il primo fondatore in fatto della romana repubblica muta
il diritto delle genti maggiori io certe imitazioni di violenza, come sono le
mancipazioni, con le quali quasi ogni atto legittimo si transige con la
liberale tradizione del nodo, la úsucapione non era più la perpetua adesione
del corpo al fondo occupato, ma il possesso con la volontà conservalo; la
usurpazione non più consiste in una certa rapina d'uso, ma esprime col modesto
significato di cilazione; l'obbligazione non più col nodo de’ corpi ,ma con certo
legame della parole si denota; la vindicazione col Gin lo attacco delle mani
con una paglia, dellaper. Ciòda Gellio festucaria.Pernon diral la fine di tanteal
tre, l’azione personale chiamata condictio non più e l’andar unito il creditore
al debitore, o alla cosa dovuta, ma face asi con la semplice denunzia. Le quali
cose menano naturalmente a congetturare, che per talicagioni si crede il poeta
il primo fondatore della città, come si è scritto di Orfeo e di Anfione vero.
Ella è questa, secondo Vico, l'origine ed il progresso dell’universale diritto
delle genti, il quale, tenendo fermo al principio di Vico stesso, in istretta
amistà con la legge morale mostrasi perpetuamente. Parlando in fatti questo
gran filosofo della giustizia universale afferma che siccome la virtù
universale eccita la prudenza, la temperanza, la fortezza, perchè si oppongano
alla cupidità; la giustizia universale del pari comanda alla prudenza, alla
temperanza, alla fortezza, perchè dirigano le utilità. Impone alla prudenza,
che ciascuno tratti avvisa la mente utili cose; alla temperanza di non
appropriarsi l’altrui; alla forza di cautelar e difendere il proprio
diritto. Per favole di tal natura è agevole di osservare, che quanto più
il diritto civile da quello delle genti maggiori si allontana, o dalla verità
della violenza; tanto maggiormeate al diritto naturale si avvicina, o al pudor
della stessa giustizia rettrice ed equatrice, che come e per conoscer
anche meglio l’accordo della filosofia di Vico con la legge morale, basta
osservare che egli contempla l'uomo: primo nello slalo di solitudine; secondo
in quello della famiglia; terzo nello stato aristocratico; quarto e finalmente
nello speciali virtù si repulano, uopo è che sieno, secondo Vico,una sola virtù,
e perciò universale virtù; la giustizia – il giure -- architettonica difatli,
che Aristotele afferma cosi comandare alle inferiori virtù come l'architetto
alle arti sue ministre, se risiede nell’animo della civile potestà, e comanda a
latte la virtù che mena alla civile prosperità; risiede altre sì, come
particolare virtù, nell'animo del sapienle , c regola gli uffizi di tutte le
virtù per la privala tranquillilà della vita. E perchè ciò? perchè, risponde
Vico, v'ha unica ragione che così della , unico vero bene, unica giustizia, e
unico diritto. Ma una pruova luminosa, e senza replica, che melle d'accordo il
principio di Vico con la legge morale si è la distinzione da esso lui adottata
del diritto naturale primitivo e secondario. Se fa egli consistere il primo
nella lu icla de’ sensi degli affetti, el'altro nel dominio della ragione: se
quello solamente permette, e questo o vieta o comanda, e ciò che comanda o
vieta è immutabile; chi osa negare che il diritto naturale secondario altra cosa
non sia che la legge morale? Ne osta punto l’aver egli fatto sorgere il diritto
civile dal diritto di violenza, che in tempi a noi remotissimi usa le genti
maggiori; imperocchè tal diritto di violenza, non allra regola seguendo che
quella del senso e dell’affetto, vero diritto non era, ma diritto certo, tullo proprio
dicoloroche più tenevano all’istinto che alla riflessione. Il diritto però di
violenza fu poscia l’occasione di far sorgere il vero diritto stato della repubblica
e della monarchia. Or, nel primo stato non altra guida ha l’uomo che quella
dell’istinto a cui ubbidisce come la pianta e l'animale; ma non è questo
certamente il suo destino; la sua facoltà lo chiama ad un bene essenzialmente
diverso da quello che dipender potrebbe dal solo istinto. Dev’egli per sè
stesso crear questo bene, e passare perciò dalla servitù dell’istinto allo stato
di libertà: a quella condizione cioè, per quale ubbidirebbe invariabilmenle
alla legge morale, come sino a quel punto ubbidito aveva all’istinto. Deve
l’uomo, a dir breve, diventar creatura libera, di automa trasformarsi in essere
morale, ed un tal passaggio deve menar lo all’autocrazia la Sent il'uomo il bisogno
di congiungersi condonna, e la nascita di un figlio, i suoi alimenti, la sua educazione,
qualunque sia si ella stala, moltiplicarono I suoi doveri. Fin qui non conobbe
egli con la compagna che un sol germe di amore, ma un nuovo oggetto fe’ nascere
in entrambi una nuova relazione morale, un nuovo amore di spezie più pura del
primo. La soddisfazione, il tenero interesse, la sollecitudine nella quale s’incontra
per l’oggetto di questo AMORE apre in esso bellissimo tratto di morale, che resero
il suo rapporto più dolce ed elevato: Ad un vincolo che da prima era
semplicemente materiale si uni la stima e dall’amore interessato nacque l’amor
coniugale che è sovranamente disinteressato. Ad un primo figlio un secondo ne
seguì, un terzo ec, e fatti grandi questi figli, teneri legami di amicizia gli
strinsero insensibilmente tra loro,e videsi nascere l'amor fraterno tra Romolo
e Remo che non è punto interessato. Stretti altri uomini dal bisogno, palleggiarono
con questa prima famiglia di prestar l'opera loro, a vantaggio lo tantocon
l'avanzar de’lumitutt’il membro della citta si crede idoneo alle funzione che
prima da’ soli padri si esercilavano, e sursero allora la repubblica e la
monarchia, dove si ni in gran parte il certo dell’autorita,e comincia il vero
della legge. S o l l o queste forme di governo l u l l a si spiega la moralità
dell’azione, perchè si dissero azione della stessa, per una convenuta
mercede. Surse allora la società tra padroni, dove il padre comanda al proprio
figlio, a questi famoli ancora; e tale società dal nome de’ famoli si appellò
famiglia. Dalla famiglia surse ben toslo un certo naturale governo. Stabilita
l’autorità paterna sul figliuolo bisognoso di aiuto e sui famoli ha già il
fanciullo contratto l’abito di rispettare la volontà del genitore. Quando fatto
grande, il figlio divenne padre ancor esso, doveltero i di lui figli onorar
colui verso il quale vedevano che gran rispetto porta il padre loro; supposero
quindi nell’avo un’autorità superiore a quella del proprio padre. E perchè l’avo
in ogni litigio pronunzia sempre in tuon definitivo, un taluso, per più a poi
osservato, stabili finalmenle in sua persona un potere sovrano su tutt’i membri
della famiglia. Ebbe di qui origine il governo patriarcale, che lungi dal
puocere all’altrui libertà ed eguaglianza, dovelte anzi valere a garenlirla e
consolidarla. Più famiglie particolari, per comune utilità riunite, costitusce
la tribù; più tribù di Romolo la citta di Romo, dove i cittadini dovellero
amarsi come I fratelli di una stessa famiglia, e prestare a Romolo, il capo delle
tribù riunita la stessa ubbidienza che ogni membro della famiglia presta
all'avo. E perchè questa ubbidienza proviene da sentimento di vera stima verso
gli aozi del capo, dovelte essere perciò in supremo grado disinteressata.
Ma qui potrebbe dirsi che l'uomo, secondo Vico, nei quattro stati su indicati
noo altro cerca che l’utile proprio. Nello stato di solitudine in fatti cerca
egli semplicemente la sua salvezza. Presa moglie e fatti figliuoli ama la sua
salvezza con quella della famiglia.Venuto a vita civile ama la sua salvezza con
la salvezza della città. Distesi gl’imperi sopra altri popoli ama la sua
salvezza con la salvezza dal paese. Uniti i paese per pace, alleanza, commercio,
ama la sua salvezza con la salvezza del genere umano. L'uomo, conchiude Vico,
in ogni circostanza cerca principalmente l'utile proprio.Il perchè non da
altriche dalla provvidenza divina può esser guidato a celebrar con giustizia la
familiare, l’eroica e finalmente l’umana fori morali quelle soltanto che si
facevano nell’interesse della morale, senza domandare anticipatamente, seerano
gradevoli. Ogni aspetto sotto il quale la moralità si manifesta si ridusse ne’
goverai umani ai due seguenti. O sono il senso che propongono farsi la tal cosa
o non farsi, e la volontà ne decide dietro la legge della ragione, o è la
ragione che prende l’iniziativa, e la volontà ubbidisce, senza consultare il
senso. governo. Così è , diciamo pur noi, ma perchè l’utile che cerca l’uomo,
tosto che si è reso superiore all’istinto, è subordinato ro a quello della famiglia;
secondo a quello della città; terzo all’utile del paese; quarto all'utile di
tutto il genere umano; l’utile che cerca l’uomo in ogni stato su m e o tovati
non èl'utile variabile, ma quelloche è figlio dell’onestà, la quale, come Vico
si esprime, talmente dirige e pondera le cose utili che a tutti giovano
egualmente. ma di Ma perVico, si torna a dire, lulto questo è opera della
provvidenza. Dalla provvidenza è vero. Fabbro però il diritto naturale del
giurecosulto, di lunga mano di verso dal diritto naturale del filosofo che alla
norma della ragione eterna lo agguagliano sempre. Ma essendo la repubblica
degli ottimati quasi tutte ridotte in democrazia o principali, le qualidue
forme di governo vengono regolate più secondo l’ordine naturale che secondo il
civile; per queste cagioni venne a rallentarsi la custodia del diritto delle
genti maggiori più antiche, sul quale diritto poggiavano sopratutto la
re-pubblica degli ottimi, essendo propricla di quello stato la custodia delle
palric consucludini. Vico della provvidenza è l'umano arbitrio, che ha per
regola la sapienza volgare, la quale è il senso comune di ciascun popolo o nazione
che dirige in società la nostra azione, sicchè facciano acconcezza con ciò che
ne sentono tuttidi quell popolo o nazione. Quando poi le nazioni per commerci, per
paci, per alleanze sono si conosciute, la convenienza del senso comune
de’popoli o nazioni tra loro, è per Vico la sapienza del genere umano. Or, il senso
comune di ogni popolo e di ogni nazione, il quale deve dirigere in società la
nostre azione, acciò si accordion con tutto ciò che ne peosa il genere omano:
che altro può esser mai se non è la legge morale? per perciò Vico seguendo Gaio
chiama diritto civile comu. d e il diritto comune di ogni popolo; perchè Gaio,
ove define il diritto civile, dice: Ogni popolo che e governato da una legge e
da una consuetudine, in parte si serve del proprio diritto, in parte del comune
diritto di lultigli uomini, e ció per la divina provvidenza, che secondo la stessa
opportunità delle cose lo spiegò Ira la pazione separatamente, con la loro
costumanza, per la tranquillilà di ciascun popolo o nazione. Tale diritto spiegato
con la comune costumanza del popolo è dalla tutela, dal dominio, dalla libertà
nacquero, secondo Vico, tre pure forme dello stato. Quella degli ottimati, la regia,
e la libera. Fondamento dello stato degli ottimati è la tutela dell’ordine, con
che venne da prima stabilito che i soli patrizî siabbiano gli auspicii, il campo,
la gente, I connubî, i maestrati, gl’imperî , e presso legenti i sacerdoti. La
regia risplende pel dominio di un solo, Romolo, e pel sommo e formisura libero arbitrio
di esso solo in tutte le cose. La libera vien celebrata dall’eguaglianza
de’suffragi, per la libertà delle opinioni, e per l’eguale adito a ogni onore,
il quale adito è il censo. Imperocchè inciascuno di essi comanda un solo,o come
vuole Tacito: uno essere il corpo della repubblica, e doversi governare con
l'animo di un solo, o di piùa guisa di un solo. E però inciascun politico reggimento
colui che è sommo è anche unico; perchè il sommo del pari che l’unico non si
può moltiplicare. Ma queste tre forme pure di stati, benchè sieno da
quelle particolari differenze teslè osservate, tra loro diverse; tultavolta
allesa la loro origine, per virtù della quale la ragione, la volontà, il potere
risiedono nell'uomo, sono strettamente tra lor collegale, e costituiscono irë
parti di virtù fra loro commiste. L'ordine naturale per tanto è l’anima di ogni
stato, perchè regna in quest’ordine il vero che all’ordine delle cose
corrisponde, non a quello de’ nomi senza le cose, il quale non è ordine, ma
sembianza di ordine. Quello dunque è l'ordine naturale dello stato, dove il
prudente, il forte comanda e l’imprudente, l’imbecille ubbidisce: quali furono
i primi principii dello stato, la famiglia, la clientela, gli antichissimi
stati degli ottimati pur ordine civile quello che per volere della legge
all’ordine naturale è frammesso, che può anche dirsi ordine politico, misto di
civile e di nalurale, come nello stato degli ottimati il senato si compone de’
sapientissimi fra i patrizi; nello stato popolare il popolo viengo ver pato
dall’autorità di un senato sapiente; nello stato regio il principe Romolo si
vale del consiglio de’ sapienti. Quest’ordine misto può definirsi successione
dell’onore, nella quale chi per una e chi per altra dole come per fede,
diligenza, solerzia, valore, giustizia, vien riputato degno di ascendere ad
onorale cariche, e dalle minori alle maggiori gradatamenle viene promosso: di
guisa che i migliori sempre preseggano, e vigilino su I costumi degl’inferiori e
li dirigano. Ma quando gli ottimati divennero nomi vani che li distinsero
dalla plebe, all’ordine naturale successe il civile, ed al vero seguì il certo,
il quale altro non è che la conformità all’ordine, non delle cose, ma della
parola, da cui nasce la coscienza dal dubilar sicura . Imperoc chè I primi
imperi degli ottimi o si manteonero ne’ loro discendenti, o in ogni popolo
passarono, o a monarchici si ridussero. Perciò l'ordine civile o è nel
lignaggio come nell’aristocrazia, o nel censo come nella democrazia, o nella
casa regnante come nella monarchia. Ma de la nobiltà, né il patrimonio rende
sapienti. Il nascer orincipe è cosa fortuita, dice Tacito, nè altra. Siccome
però il certo è parte del vero, e la ragion civile nasce della stessa ragion
naturale per le cause di certo Diritto, così l'ordine civile per natura sua fa
parte dell’ordine naturale in quanto è esso cagione della pubblica sicurezza,
ond'è che anche la citta la più corrolla da questo stesso civile ordine viene
conservata. Ed è per quanto però la mente è più verace del discorso,
altrellanto l’ordine e più stabili della legge; im pe rocchè la mente sempre
una cosa detta al parlare, ma pel giudizio, o sia per la volontà, noi più volte
falliamo, servendo spesso a ciò che dice il senso, senza ascoltar la mente. La
parola in oltre non viene sempre con prontezza alla mente, spesso non esprime i
suoi comcetto, mentre viene quella incessantemente spronala a raggiugnere
Ma questi ordini per la via della legge col timor delle pene, con la speranza
de un premio, impongono al cittadino di rettamente comportarsi. Per la qual
cosa l’ordine e più stabile dalla leggr: onde avviene che la legge ri posino
sull’ordine, e che questi conserva la legge; im. perocchè l’ordine politico, il
quale è misto di ordine naturale e di ordine civile, con maggior ragione di ciò
che Aristotele della legge disse, è verameole una mente scevera di affetti. E
come che la mente del popolo io generale sia scevera di affetti, pure questa
mente stessa suole addivenir talvolta turbatissima, sopra tutto ove sia commossa
da intestine turboleoze. Qual fu la mente del popolo di Atene, e quella del
popolo romano sconvolta dal demagogo, che indussero l'uno e l'altro popolo, con
particolare legge fuori l’ordine promulgate, a bandir dalla patria uomini di
chiara virtù, per elevare ad amplissimi onori immerite volissimi cittadini.
Vero, il la qual forza di vero altra cosa non è che la ragione. Or, la parola
sovenli volte elude questa forza di vero, per la perversa volontà di chi
ragiona. L'ordine perciò naturale e l'ordine misto è il solo che può con
giustizia amministrar il diritto, e questo avviene quando uomini per sapienza e
per virtù prestantissimi, giusta l’ordine naturale, e non secondo l'ordine
concepu. Siegue da tullo ciò che il diritto chiamato da Grozio e Kelsen puro, e
da Gaio diritto comune a tull ipopoli, altro non è ch e il diritto naturale ,
il quale h aperto della parola, o che torna lo stess , non secondo il certo
della legge, ma giusta il vero della legge stessa, reggano gli stati. E perchè
la leggr in moltissimi casi mancano ed è necessaria l’interpretazione che a la
deficienza supplisca; può accader ancora che sollo la stessa autorità del diritto
non solo qualche volta per ignoranza si erri, ma la stessa legge con frode si
eludano. Più felice dunque e quello stato, nel quale il civile ordine e misto più
secondo il naturale ordine o secondo l'ordine del vero che secondo l’ordine del
certo. Quindi ove si conservino la legge imposta dall’ordine, e mollo più gli
Ordini che le leggi si cuslodiscano, verranno gli Stati conservati. Ma se le
leggi mancano, gli stati rovinano. Perciòsiamo servi della legge, diceva
Tullio, per poter esser liberi. Convertendo dunque la massima si dirà pure con
verità: se ci libereremo dalla legge, saremo naturalmenle servi. la legge
morale; perchè, secondo Vico, non può darsi diritto senza morale. Iolanlo è da
nolarsi diligentemente che Vico distingue il diritto io diritto vero, e diritto
certo. Quello è per la ragione, questo per l'autorità. Il primo dirige l'uomo
libero, il secondo l'uomo che più della liberlà segue l’istinto. Or cgli è evidente
che negli stessi umani governi la più gran parte degli uomini, tenendo più all’istinto
che alla libera elezione, si lascia più facilmente guidare dall’altrui autorità
che dalla ragione. Di qui la necessità di un diritto misto, secondo le esigenze
de’ popoli e le diverse forme di governo. Ma da ciò non segue che coloro i quali
con la loro autorità oe fondamento impongodo a’ popoli, essendo essii più sapienti,
i più prudenti, come vuole il Vico, non si propongano per i scopo il diritto
vero e che non sieno al caso disco prirlo, senza darsi gran pena. La
destinazione infalli del l'uomo non può dipendere dall’istinto, e tosto che
l'uomo si conosce libero e la sua ragion consulta, questa gli ordina di
conservarsi e di perfezionarsi: di essere cioè savio, moderato, prudente; di
collivar l’intellelto, e nel tumulto de’ sensi e degli affetti di cautelare la
volontà: nel che propriamente consiste la libertà dell'uomo interiore. E perchè
egli scopre in altri esseri, a lui simiglianti, la stessa attività libera, gli
considera tutti eguali, e tale scoperta fa nascere in lui l’obbligazione di
lasciar i suoi simili nella loro indipendenza, ed è questa la tutela. A ppresso
giudica di non aver diritto su di ciò che è stato da altri prima di lui
occupalo, e ciò che ha egli occupato il primo, giudica che a lui spella
solamente , nel che sla il dominio. Di qui reciprocità del diritto e del dovere;
di qui l’origine della giustizia che gareolisce la proprietà. Tulli gli
anzidelli del diritto e del dovere, perchè fondati sulla libertà, sul dominio,
e sulla tutela, o che lorna lo stesso, sulla natura dell’uomo, stanno per sè,
prima che l’uomo entri con altri in società. La legge non li creano, perchè già
erano prima della legge. Questa non altro fanno che conservarlo. Lo stesso
diritto e lo stesso dovere servono di fondamento alla società, che il legislatore
non crea ma dirige, perchè la società già era, quando il governo non era
ancora. La libertà del diritto,
dice Vico, fuprim a ch e si conoscesse la servitù. Non s’introduce già il
dominio con la divisione de’campi, furono solamenle distinti. Dalla polegza di
operare infine nacque tosto la tutela o difesa di sè stesso. Se non che,
ammellendo Vico nell’umana mente al cuni semi del vero che con l'andar del
tempo si sviluppano in cognizioni distinte ed alcuni germi del giusto che
tratto tratto si spiega la massima incontrastabile di giustizia; mostrasi egli
in gran parte seguace di Platone intorno all’origine di quella verità che si
dice necessaria. Or tale verita, essendo per noi di due spezie, una teoretiche
ed una pratica, diciamo, che rispetto alla prima, la verita teorica, l’io il
quale per un alto di spontaneità si conosce e si rivela dell'appercezione,
appoggiato alle quattro idee necessarie di spazio,di tempo,di sostanza e di
cagione, riduce all’unità tutto il vario della rappresentazione che a lui offer
il senso. Riguardo poi alle verita pratica, essendo elleno legge pratica o
comando di fare, si contiene in una massima universalisabile. Quando ti
determini all’azione, esamina te stesso e vedi se la tua volontà sia di accordo
con la volontà generale di ogni persona. Una tal massima universalisabile è la
suprema legge della morale. Che che sia però della filosofia di Vico, a noi
basta di aver provato che le due sue digoilà Vl*e VII“, ben lungi dall’opporsial
la legge morale, la confermano mirabilmente. Dominio, libertà, tutela tre
elementi del diritto; tre elementi che costituiscono l'uomo morale. Perchè non
può avervi diritto senza morale. La filosofia perciò di Vico si accorda perfettamente
con la morale. Grice: “Most of Colecchi’s essays are easily available, and it’s
easy enough to check his references to other Italian philosophers – not just
Vico, as I have done – but Rogmanosi, and even ancient Roman ones like Cicero –
and perhaps more importantly his influence on the so-called Neapolitan
Hegelians!” -- Ottavio Colecchi. Keywords: Vico, il Vico di Collecchi,
Cacciatore, Macchiaveli, Lazio, Romolo e Remo, Kant, categoric imperative,
massima, first-hand knowledge of Kant, Colecchi Kantiano, ma non aristotelico –
il kantismo di Colecchi – l’italiano kantiano di Colecchi – il vocabolario
kantiano in Colecchi – analitico – sintetico – sintetico a priori – giudizio
necessario – Romolo e Remo, diritto naturale, lingua e nazione, Marte, Saturno,
Giove, etimologia di Vico, il Lazio, il senato romano, ottimati, storia di
Roma, diritto romano, psicologia razionale, psicologia filosofica, l'istinto,
la passione, la ragione, la sensazione, l’intelletto, spazio-tempo, l’azione,
l’agire como reame della morale, massima d’azione, la regola di oro – la rifutazione
di Vico all’eudaimonismo di Aristotele e al utilitarismo di Bentham, lo caduco
e lo no caduco, ius naturale, ius como la virtu unica, giustizia equittrice e
rettrice, giustizia commutative e giustizia distritutiva, l’ordine aritmetico e
l’ordine geometrio – la base matematica della filosofia di Colecchi, l’amore,
amore interessato, amore disinteresatto, salvezza, uomo, padre e figlio, uomo
come cittadino, il genere umano, la massima universalisabile, l’onesto,
fortezza, prudenza, toleranza, virtu, vizio, il vero versus il certo, la
nascita della morale dal ordine agglomerazione sociale, la potesta naturale, il
dominio, la tutela, la liberta, libero arbitrio e passione, autorita e ragione,
forza, autorita e raggione, l’ubbidenza che il figio mostra al padre, il ruolo
dell’avo, la societa di equali, il modello della societa romana antica, la
societa dell’amicizia, Eurialo e Niso, L’Enneada, la lingua del contratto come
requisite del patto sociale, la parola e il concetto, la formola della parola,
verbum/res, res pubblica, communita, diritto comune, bene comune, l’ordine:
primo stato dell’uomo in solitudine, l’ordine della famiglia: societa di
inequali, padre/figlio, terzo stadio: la tribu di Romolo, la citta di Romolo,
il paese di Romolo, il genero umano, diritto universale di Vico e Kant,
Hampshire on Vico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colecchi” – The
Swimming-Pool Library.
COLLETTI (Roma).
Filosofo. Grice: “I like Colletti – he takes political philosophy seriously
unlike we of the Lit. Hum, not PPE school, at Oxford! But then he is a Roman
and has all the Orazi and Curiazi traditions!” Si laurea sotto Volpe. Insegna a
Roma. “Partito Socialista Italiano”. Altre opere: “Il marxismo e Hegel, in
Lenin, Quaderni filosofici, Milano, Feltrinelli, 1958. Ideologia e società,
Bari, Laterza, Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza, Il futuro del capitalismo.
Crollo o sviluppo?, e con Claudio Napoleoni, Bari, Laterza, Intervista
politico-filosofica, con un saggio su Marxismo e dialettica, Roma-Bari,
Laterza, Il marxismo e il "crollo" del capitalismo, a cura di,
Roma-Bari, Laterza, Tra marxismo e no, Roma-Bari, Laterza, Tramonto
dell'ideologia. [Le ideologie dal '68 a oggi; Dialettica e non-contraddizione;
Kelsen e il marxismo], Roma-Bari, Laterza, 1980. Crisi delle ideologie.
Intervista politico-filosofica, Il marxismo del XX secolo, Le ideologie dal '68
a oggi, Milano, Club degli editori, Pagine di filosofia e politica, Milano,
Rizzoli, La logica di Benedetto Croce, Lungro di Cosenza, Marco, Fine della
filosofia e altri saggi, Roma, Ideazione, Lezioni tedesche. Con Kant, alla
ricerca di un'etica laica, Roma, Liberal, È morto Lucio Colletti voce
"contro" di Forza Italia, su repubblica, Camera dei Deputati, Gruppo
Parlamentare di Forza Italia, Ricordo di Lucio Colletti, Roma, Stampa e
servizi, Orlando Tambosi, Perché il marxismo ha fallito Lucio Colletti e la
storia di una grande illusione, Milano, Mondadori, 2001. 88-04-48844-1 Ministero per i beni e le
attività culturali, Lucio Colletti: il cammino di un filosofo contemporaneo, Roma,
Essetre, 2003 Pino Bongiorno, Aldo G. Ricci, Lucio Colletti scienza e libertà,
Roma, Ideazione, Cristina Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma, Manifestolibri.
Collétti, Lucio la voce nella Treccani L'Enciclopedia Italiana. il 20/07/ Lucio
Colletti, su CameraXIII legislatura, Parlamento italiano. Lucio Colletti, su
CameraXIV legislatura, Parlamento italiano. La storia di Lucio Colletti di Costanzo
Preve, nel sito Kelebek Roma. Partito Comunista Italiano” Forza Italia”. Il
saggio di Colletti Marxismo e dialettica fu scritto «a chiarimento di alcuni
temi toccati» nell’intervista apparsa sulla “New Left Review” nel numero di
luglio-agosto 1974, e pubblicato con la traduzione italiana dell’intervista.
Più esattamente Colletti si propone di chiarire la «differenza tra “opposizione
reale” (la Realopposition o Realrepugnanz di Kant) e “contraddizione
dialettica”». Si tratta di opposizioni radicalmente diverse: la prima è «senza
contraddizione (ohne Widerspruch)», la seconda è «per contraddizione (durch den
Widerspruch)» (1974: 65). La opposizione dialettica (66-69) è espressa dalla
formula «A non-A», nella quale ciascun opposto è solo la negazione dell’altro,
ma non è niente in sé e per sé. I poli dell’opposizione sono cioè ambedue
negativi, più esattamente ciascuno è la negazione dell’altro, ma solo
all’interno dell’unità con l’altro. Quindi «entrambi gli opposti sono negativi,
nel senso che sono ir-reali, non-cose (Undinge), ma idee». Ciascun opposto «ha
la sua essenza fuori di sé» (67), nell’altro di cui è la negazione. L’origine
dell’opposizione dialettica, e della stessa dialettica, è platonica: l’unità
degli opposti è la koinona ton genon. L’opposizione reale (70-76) è espressa
dalla formula «A e B», nella quale ciascun opposto sussiste di per sé, è
positivo, e perciò è esclusivo dell’altro. La cosa più importante è che
Massimiliano Biscuso – Opposizione reale, contraddizione logica e
contraddizione dialettica 4 «nell’opposizione reale o rapporto di contrarietà
(Gegenverhältnis), gli estremi sono entrambi positivi, anche quando l’uno venga
indicato come il contrario negativo dell’altro» (72). Questo accade ad esempio
quando ci rappresentiamo due forze eguali che muovono due corpi in direzione
contraria: il risultato è la quiete, cioè comunque qualcosa (ed essendo
qualcosa possiamo rappresentarcelo). «In altre parole, nella relazione di
contrarietà che è l’opposizione reale, vi è, sì, negazione, ma non nel senso
che uno dei due termini possa essere considerato come negativo di per sé, cioè
come non-essere» (74). Le opposizioni reali non minano, anzi confermano il
pdnc, proprio perché sono «senza contraddizione» (dove è già implicito, come
sarà confermato in seguito, che l’opposizione dialettica nega il pdnc). Il
marxismo non ha mai avuto le idee chiare intorno a questi due diversissimi
generi di opposizione, e non le ha avute anche perché non ha mai chiarito con
sufficiente rigorosità il suo rapporto con la dialettica hegeliana. In Hegel la
dialettica delle idee è al tempo stesso la dialettica della materia, nel senso
preciso che è impossibile in Hegel separare le idee dalla materia: «Se si
presta attenzione, si vede subito che il rapporto finito-infinito,
essere-pensiero, segue il modello della contraddizione “A non-A”. Fuori l’uno
dell’altro, cioè al di fuori dell’Unità, finito e infinito sono entrambi
astratti, irreali» (80), e l’unità che include il finito e il falso infinito
(falso perché altrettanto finito, in quanto limitato dalla sua opposizione al
finito) è l’Idea, il vero infinito. Dunque, commenta Colletti, «dov’era la cosa
è ora subentrata la contraddizione logica» (81 – si badi bene: contraddizione
logica e non, come ci si attenderebbe, contraddizione dialettica). Ora, il
«dramma del marxismo» è aver «ripreso alla lettera» la dialettica hegeliana
della materia, scambiandola per una forma superiore di materialismo. Dramma,
perché quella dialettica era volta: a) alla distruzione del finito, b) alla
negazione del pdnc; cioè proprio a ciò a cui la scienza non può rinunciare, anzi
da cui si deve necessariamente muovere (d’altronde la scienza, che si basa sul
pdnc, «è il solo modo di apprendere la realtà, il solo modo di conoscere il
mondo», 112). Avvertiti di questa difficoltà, negli anni Cinquanta alcuni
marxisti polacchi e tedesco-orientali cercarono di mostrare che «ciò che i
“materialisti dialettici” presentano come contraddizioni nella natura sono, in
realtà, contrarietà, cioè opposizioni ohne Widerspruch; e che, dunque, il
marxismo può benissimo continuare a parlare di conflitti e di opposizioni
oggettive, senza, per questo, essere costretto a dichiarare guerra al principio
di (non-)contraddizione e mettersi così in rotta con la scienza» (86). Tali
risultati convergevano con quelli della ricerca di della Volpe: a costo di liquidare
«gran parte dell’opera filosofica di Engels» (94) in quanto fonte del Diamat,
sembrava però legittimarsi «l’aspirazione del marxismo a costituirsi come la
fondazione delle scienze sociali, cioè come la scienza della società» (95). In
realtà non era possibile ritenere che il Capitale non avesse nulla a che fare
con Hegel: infatti «i processi di ipostatizzazione, la sostantificazione
dell’astratto, www.filosofia-italiana.net 5 l’inversione di soggetto e
predicato, ecc., lungi dall’essere per Marx soltanto modi difettosi della
logica di Hegel di riflettere la realtà, erano processi che egli ritrovava […]
nella struttura e nel modo di funzionare della società capitalistica stessa»
(97). Vi sono dunque «due Marx» (99): lo scienziato dell’economia politica e il
critico dell’economia politica. Questo significa riconoscere i limiti della
stessa lettura dellavolpiana, che condivide con molte altre letture marxiste il
difetto di non cogliere le due facce del pensiero di Marx. «Quando il marxismo
è una teoria scientifica del divenire sociale, è tutt’al più una “teoria del
crollo”1, ma non una teoria della rivoluzione; quando, viceversa, è una teoria
della rivoluzione, essendo solo una “critica dell’economia politica”, rischia
di risultare il progetto di una soggettività utopica» (102). Dunque per lo
stesso Marx le contraddizioni del capitalismo sono non opposizioni reali, bensì
contraddizioni dialettiche nel senso pieno della parola. Da un passo delle
Teorie sul plusvalore (la possibilità della crisi è la possibilità che momenti
che sono inseparabili si separino e quindi vengano riuniti violentemente)
Colletti conclude che i poli dell’opposizione, separandosi, si sono fatti
reali, pur non essendolo veramente: «sono, in breve, un prodotto
dell’alienazione, sono entità per sé irreali seppur reificate» (107). «Teoria
dell’alienazione e teoria della contraddizione, dunque, come una sola e
identica teoria» (109): la contraddizione nasce dal fatto che l’aspetto
individuale e quello sociale del lavoro, pur essendo intimamente connessi, si
danno un’esistenza separata. È la contraddizione di individuo e genere, di
natura e cultura, già rilevata dai maggiori analisti della società civile
borghese del Settecento. «La società moderna è la società della divisione
(alienazione, contraddizione). Ciò che un tempo era unito, si è ora spezzato e
separato. È rotta l’“unità originaria” dell’uomo con la natura e dell’uomo con
l’uomo» (111), dove l’unità, essendo data, non deve essere spiegata, mentre è
da spiegare la divisione. «Seppure modificato, riaffiora lo schema della
filosofia della storia di Hegel. E questo, ci si scopre essere il secondo volto
di Marx, accanto a quello dello scienziato, naturalista e empirico» (112). Georg
Wilhelm Friedrich Hegel versuchte, um die von ihm vertretene Dialektik (im
Sinne einer Lehre von den Gegensätzen in den Dingen) durchzusetzen, die Logik
in einer Weise zu erweitern (sog. dialektische Logik), die den Satz vom
Widerspruch außer Geltung setzt.[3] Damit versuchte Hegel, die Kantische
Widerlegung des sogenannten 'Dogmatismus in der Metaphysik' zu umgehen. Der
Wissenschaftstheoretiker Karl Popper kommentiert: „Diese Widerlegung [Kants]
betrachtet Hegel als gültig nur für Systeme, die metaphysisch in seinem engeren
Sinne sind, jedoch nicht für den dialektischen Rationalismus, der die
Entwicklung der Vernunft berücksichtigt und deshalb Widersprüche nicht zu
fürchten braucht. Indem Hegel die Kantische Kritik in dieser Weise umgeht,
stürzt er sich in ein äußerst gefährliches Abenteuer, das zur Katastrophe führen
muss; denn er argumentiert etwa folgendermaßen: ‚Kant widerlegte den
Rationalismus durch die Feststellung, er müsse zu Widersprüchen führen. Dies
gebe ich zu. Aber es ist klar, dass dieses Argument seine Stärke aus dem Gesetz
vom Widerspruch ableitet: es widerlegt nur solche Systeme, die dieses Gesetz
akzeptieren, also solche, die beabsichtigen, frei von Widersprüchen zu sein.
Das Argument ist nicht gefährlich für ein System wie das meinige, das bereit
ist, Widersprüche zu akzeptieren – d.h. für ein dialektisches System.‘ Es
besteht kein Zweifel, dass Hegels Argument einen Dogmatismus von äußerst
gefährlicher Art aufrichtet - einen Dogmatismus, der keinerlei Angriff mehr zu
fürchten braucht [siehe Immunisierungsstrategie]. Denn jeder Angriff, jede Kritik
irgendwelcher Theorie muß sich auf die Methode stützen, irgendwelche
Widersprüche aufzuzeigen, entweder in einer Theorie selbst oder zwischen einer
Theorie und irgendwelchen Fakten […].“[4] Logisches Quadrat Das
logische Quadrat Unter der Voraussetzung, dass ihre Subjekte keine leeren
Begriffe sind, bestehen zwischen den unterschiedlichen Aussagentypen
verschiedene Beziehungen: Zwei Aussagen bilden einen kontradiktorischen
Gegensatz genau dann, wenn beide weder gleichzeitig wahr noch gleichzeitig falsch
sein können, mit anderen Worten: Wenn beide unterschiedliche Wahrheitswerte
haben müssen. Das wiederum ist genau dann der Fall, wenn die eine Aussage die
Negation der anderen ist (und umgekehrt). Für die syllogistischen Aussagentypen
trifft das kontradiktorische Verhältnis auf die Paare A–O und I–E zu. Zwei
Aussagen bilden einen konträren Gegensatz genau dann, wenn sie zwar nicht beide
zugleich wahr, wohl aber beide falsch sein können. In der Syllogistik steht nur
das Aussagenpaar A–E in konträrem Gegensatz. Zwei Aussagen bilden einen
subkonträren Gegensatz genau dann, wenn nicht beide zugleich falsch (wohl aber
beide zugleich wahr) sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar
I–O in subkonträrem Gegensatz. Zwischen den Aussagetypen A und I einerseits und
E und O andererseits besteht ein Folgerungszusammenhang (traditionell wird
dieser Folgerungszusammenhang im logischen Quadrat Subalternation genannt): Aus
A folgt I, d. h., wenn alle S P sind, dann gibt es auch tatsächlich S, die P
sind; und aus E folgt O, d. h., wenn keine S P sind, dann gibt es tatsächlich
S, die nicht P sind. Diese Zusammenhänge werden oft in einem Schema, das unter
dem Namen „Logisches Quadrat“ bekannt wurde, zusammengefasst (siehe Abbildung).
Die älteste bekannte Niederschrift des logischen Quadrats stammt aus dem
zweiten nachchristlichen Jahrhundert und wird Apuleius von Madauros
zugeschrieben. Grice: “Colletti takes negation more seriously than Popper does.
Colletti examines Hegel’s target, which is Kant’s distinction between ‘real
opposition’ or ‘real repugnance’ and ‘dialectical contradiction.’ Both can
combine. Hegel indeed wishes to go beyond the principle of non-contradiction
instituted in Velia by Parmenides. The Italian language allows for some
distinction that the English language doesn’t. There’s the opposto, which is
combined of posto, posto is cognate with ponere, as in modus ponens, and it’s
also the root for ‘positive’ (as opposed to negative, or strictly, togliere,
tollere modus tollens – to deny). So the the posto, we have the opposto. On the
other hand, there’s the ‘contra’, which translates Greek ‘anti’ – so that
‘apophasis’ becomes ‘contra-dictio’ where ‘dictio’ is cognate with ‘deixis,’
and so more to do with dictiveness and indicativeness than with ‘vocalisation’.
The Germans deal with the widerspruch but that’s THEIR problem. So to the posto
we have the opposto. But after Cicero, the use of ‘contrario’ becomes
important. Il contrario and l’opposto then pretty much covered all I failed to
see back with my ‘Negation and privation,’ and my later lectures on ‘Negation’
simpliciter. Both Kant, Hegel Colletti, and I, allow for ~ being all we need!” Lucio
Colletti. Keywords: opposition, negazione, la contraddizione dialettica e la
non-contraddizione – hegel – Oxford Hegelian, “Negation and Privation”
“Negation” “Privation” “The Square of Opposition” Das Quadrat – contradictum –
the deicticness of the dictum – contra – counter – anti – antithesis –
apo-phasis – ob-positum – contrarium, il contrario, l’opposto, contra-dictio
and contrario, il contrario, il contradditorio, dialettica ateniese, dialettica
oxoniana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colletti” – The Swimming-Pool
Library.
COLLI (Torino).
Filosofo. Grice: “I love Colli – his ‘filosofia dell’espressione’ is much more
serious than my ramblings, well meant, though, on Peirce! I was only trying to
be fashionable! At Oxford, they loved my lecture on ‘meaning,’ which got me
into ‘implying,’ and eventually, ‘expressing.’ – My unity developed – Colli was
born with it!” Insegna a Pisa. Di una facoltosa famiglia, il padre
amministra “La Stampa”, incarico dal quale fu poi estromesso all'indomani della
marcia su Roma, su ordine di Mussolini. Studia a Torino, laureandosi sotto
Solari con “Politicità ellenica e Platone”. Scorse nella tradizione filosofica
classica greco-romana l'autentico "logos" a cui ritornare. Lo
stile di scrittura, profondo e costellato di aforismi taglienti, si caratterizza
da un'attenzione maniacale alla musicalità del discorso. Questa dote musicale
emerge con chiarezza dalle letture di alcuni passi di Colli recitati da Bene.
Il suo saggio principale è “Filosofia dell'espressione” che fornisce, mediante
una complessa teoria delle categorie e della deduzione, un'interpretazione
della totalità della manifestazione come “espressione” di qualcosa
(l'immediatezza) che sfugge alla presa della conoscenza. Comunque, ritiene che
sia possibile riguadagnare il fondamento metafisico del mondo portando il
discorso filosofico ai suoi estremi limiti e "(di)mostrando" la
natura derivata del logos. Importante il suo contributo su i filosofi italici
Gorgia, Zenone, e Girgentu, e le figure di Bacco ed Apollo, dismisura e misura.
Al tentativo di interpretare gli enigmi di questi culti a-logici, fra i quali
quelli oracolari, viene fatta risalire l'origine remota della dialettica. Altre
opere: “Filosofia dell'espressione” (Adelphi, Milano); “Dopo Nietzsche” (Adelphi,
Milano); “La nascita della filosofia. Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Dioniso,
Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo, Iperborei, Enigma” (Adelphi, Milano); “La
sapienza greca” “Epimenide, Ferecide, Talete, Anassimandro, Anassimene,
Onomacrito” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca”; “Eraclito” (Adelphi,
Milano); “Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La ragione errabonda” (Adelphi, Milano);
“Per una enciclopedia di autori classici” (Adelphi, Milano); “La Natura ama
nascondersi” (Adelphi, Milano); “Zenone di Velia” (Adelphi, Milano); “Gorgia e Parmenide”
(Adelphi, Milano); “Introduzione a Osservazioni su Diofanto di Pierre de
Fermat. Bollati Boringhieri, Torino); “Platone politico” (Adelphi, Milano); “Il
sovro-umano” (Adelphi, Milano); “Apollineo e dionisiaco” (Adelphi, Milano);
“Girgentu” (Adelphi, Milano); “Platone: la lotta dello spirito per la potenza,
Einaudi, Torino); Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino); Organon, Einaudi,
Torino); Critica della ragion pura, a cura e tr. di Giorgio Colli, Einaudi,
Torino); “Simposio” (Adelphi, Milano); Parerga e paralipomena” (Adelphi,
Milano); Nietzsche (Classici Adelphi)
Scritti giovanili; La nascita della tragedia; Considerazioni inattuali; La
filosofia nell'epoca tragica dei Greci; Frammenti postumi; Wagner a Bayreuth;
Considerazioni inattuali, Umano, troppo umano, Aurora; Idilli di Messina; Così
parlò Zarathustra; Al di là del bene e del male; Genealogia della morale;
Wagner; Crepuscolo degli idoli; L'anticristo; Ecce homo; Nietzsche contra
Wagner, Ditirambi di Dioniso e Poesie postume; Epistolario (Adelphi, Milano); Sull'utilità
e il danno della storia per la vita (Adelphi, Milano); Sull'avvenire delle
nostre scuole” (Adelphi, Milano); La mia
vita (Adelphi, Milano); La nascita della tragedia” Adelphi, Milano); L'uomo di
fede e lo scrittore, Adelphi, Milano); Schopenhauer come educatore, tr. di
Mazzino Montinari, Adelphi, Milano); “Lettere da Torino” (Adelphi, Milano); “Il
servizio divino dei greci” (Adelphi, Milano); Lo Specchio di Dioniso” (Dedalo,
Bari); Dizionario biografico degli italiani,
Implicazioni estetiche in Colli; Misura e dismisura. Per una
rappresentazione di Colli, ERGA, Genova); L’enigma greco; Apollineo e
dionisiaco in Colli, in Clemente Tafuri e David Beronio, Teatro Akropolis.
Testimonianze ricerca azioni, vol II, AkropolisLibri, Genova); I Greci:
annotazioni su alcune traduzioni, in "Episteme", Mimesis Edizioni,
Milano); Il Girgentu di Colli, Luca Sossella Editore, Roma. Giorgio Colli.
Keywords: L’Apollo romano, L’appollo d’etruria, La mesura d’Apollo, la
dismisura di Bacco; l’enigma filosofico, Bacco, Nietzsche, Girgentu, Velia, Crotone,
Gorgia, Zenone di Velia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colli: l’implicatura
di Bacco.”
COLLINI (Firenze).
Filosofo. Grice: “If you love birds, you love Collini – he loved
‘pterodattili,’ though and made nice drawings of them, as they fought with
‘uomini’!” Discendente di una nobile famiglia, studia a Pisa. Si trasferì a
Coira. Collini venne descritto come scontroso, spesso in litigio. A lui si deve
la descrizione dello pterodactylus, un rettile volante, o pterosauro o
pterodattilo. Denuncia il fanatismo durante le guerre rivoluzionarie francesi
in Europa. Grice: “I often wondered why the conte would flee his family seat in
lovely Tuscany for the darker landscapes of the North – till I found out the
reason: he had helped one of his noble friends (Ottavio) to do some evil-act on
a nobile gentildonna (Malspina): so he had no choice!”. Altro Italiano non ricordato dal Lucchesini, forse perchè assai più
tardi aggregato all'Accademia, è Cosimo Alessandro Collini, nato a Firenze.
Narra il Denina (1) che, mentre ea Pisa, aiuta a Domenico Eusebio Chelli, da
famglia civile di Livorno, nel ratto della marchesa Gabbriella Malaspina,
sicchè dovette fuggirsene (2). Dopo essersi fermato a Coira, va a Berlino raccomandato
da una signora M. (egli stesso non ne dà che l’iniziale) abitante in Firenze,
amica di famiglia e sorella della Barberina. Accolto da questa, ormai signora
Coccei, con molta benevolenza, attesea studiare, e con baldanza, quando Voltaire
venne a Berlino, si presenta a lui, che lo riceve amorevolmente dicendogli, la
Toscana è stata una nuova Atene e i toscani sono stati i nostri maestri. Gli si
raccomandò per trovare un'occupazione e n’ebbe lusinghiere promesse. Ma il
tempo scorreva e il conte ha fretta, sicchè pensa di valersi, oltre che della
ballerina, anche di una celebre cantante, l’Astrua, che gli ottenne il posto di
segretario dello stesso Voltaire. Stette con lui copiando i suoi lavori e leggendogli
la sera il Boccaccio e l'Ariosto – l’uno pienamente con tento dell'altro. “Mon
secrétaire», scrive il Voltaire al Thiriot, “est un florentin, très-aimable, tres-bien
né, et qui merite, mieux que moi, d'être de l'Académie della Crusca. Fu
compagno al filosofo poeta anche nella sua fuga dalla Prussia e nelle sue pe
regrinazioni e vicissitudini per la Germania, la Francia e la Svizzera. Ma nper
una lettera nella quale scherzava su mad. Denis, si separa da Voltaire, che
tuttavia continua a volergli bene e a corrisponder con lui; e sulle raccomandazioni
del Voltaire passa al servizio dell'elettor palatino, che lo fece suo bibliotecario
e segretario dell'Accademia di Mannheim. Scrive saggi sulla storia della
Germania e su quella del Palatinato, ma più ch'altro di mineralogia. È lodato
anche un suo volume di Lettres sur les Allemands, pubblicato anonimo a Mannheim
nel 1784, cui un altro doveva seguirne sulla letteratura tedesca.E là dove
aveva trovato una seconda patria e una onorevole residenza, mori nel 1806.
All'Accademia,alla quale forse furono ascritti anche altri Ita liani oltre
quelli ricordati qui e più addietro,e cui è da aggiun gere G. B. Morgagni (3),
si riferisce questo brano di lettera del (2) Il COLLINI stesso nel suo libro
Mon séjour auprès de Voltaire et Lettres inédites que m'écrivit cet homme
célèbre,ecc.,Paris,Collin,1807, confessa (pag. 5) la fuga dalla patria e dalla
famiglia, m a ne dà per m o tivo una giovanile vaghezza di conoscere il mondo e
gli uomini. L'esemplare tipo dell'animale ora
conosciuto come Pterodactylus antiquus è stato uno dei primi fossili di
pterosauro scoperti e il primo ad essere identificato. Il primo esemplare di
Pterodactylus fu descritto dallo scienziato italiano Cosimo Alessandro Collini,
nel 1784, sulla base di un scheletro fossile, portato alla luce dai calcari di
Solnhofen, di Baviera. Collini fu il curatore della
"Naturalienkabinett", o "camera delle meraviglie"
(l'antenato del moderno concetto di Museo di Storia Naturale), nel palazzo di
Carlo Teodoro, elettore di Baviera, a Mannheim.[17] Il campione era stato
affidato alla raccolta, dal conte Friedrich Ferdinand zu Pappenheim,
probabilmente intorno al 1780, dopo essere stato recuperato da un calcare
litografico nella cava di Eichstätt.[18] La data effettiva della scoperta e
l'ingresso del campione nella collezione è sconosciuto. Non è stato menzionato
in nessun catalogo della collezione, preso nel 1767 quindi deve essere stato
acquistato tra il 1767 e il 1784, anno della descrizione di Collini. Ciò
potrebbe rendere il fossile il primissimo pterosauro descritto; Nel 1779 fu
descritto una seconda specie chiamata Pterodactylus micronyx (oggi conosciuto
come Aurorazhdarcho micronyx) che però era stata inizialmente scambiata per un
fossile di crostaceo.[19] Ricostruzione di Wagler, del 1830, su uno
stile di vita acquatico per Pterodactylus Collini, nella sua prima descrizione
del campione di Mannheim, concluse che si trattava di un animale volante. In
realtà, Collini non riusciva a capire di che tipo di animale si trattasse, ma
lo accostò ad uccelli e pipistrelli, per via di alcun affinità anatomiche. Più
avanti lo stesso Collini ipotizzò addirittura che potesse trattarsi di un
animale acquatico. Tale ipotesi non venne avanzata su rigori scientifici ma su
una supposizione di Collini che pensava che le profondità dell'oceano potevano
ospitare animali stravaganti.[20][9] Nel 1830, l'idea che gli pterosauri
fossero animali marini persisteva ancora in una minoranza di scienziati tra cui
lo zoologo tedesco Johann Georg Wagler, che pubblicò nel suo testo intitolato "Anfibi",
un articolo che vedeva gli pterosauri come animali marini con ali disegnate
come pinne, ispirandosi ai moderni pinguini. Wagler si spinse fino a
classificare lo Pterodactylus, insieme ad altri vertebrati acquatici (come
plesiosauri, ittiosauri e monotremi), nella classe Gryphi, tra uccelli e
mammiferi.[21] Prima ricostruzione di uno pterosauro al mondo ad
opera di Hermann, nel 1800 Fu lo scienziato francese/tedesco Johann Hermann che
per primo dichiarò che il lungo quarto dito della mano dello Pterodactylus
venisse usato per sostenere una membrana alare. Nel mese di marzo del 1800,
Hermann fu allertato dallo scienziato francese George Cuvier dell'esistenza del
fossile di Collini, che era stato catturato dagli eserciti di occupazione di
Napoleone e inviato alle collezioni francesi a Parigi, come bottino di guerra;
in seguito alcuni commissari politici francesi sequestrarono i tesori d'arte e
gli oggetti di valore scientifico. Hermann in seguito inviò una lettera a
Cuvier, dove vi era scritta la sua interpretazione del fossile (anche se lui
non aveva esaminato personalmente), dichiarando che l'animale doveva trattarsi
di un mammifero, e inviò anche una bozza di come doveva apparire in vita
l'animale. Fu la prima ricostruzione artistica per uno pterosauro al mondo.
Hermann disegnò l'animale con una membrana alare che si estendeva dalla fine
del quarto dita fino alle caviglie e ricoperto da pelliccia,(all'epoca il
fossile non presentava ne segni di membrana alare ne di pelliccia). Hermann nel
suo schizzo aggiunse anche una membrana tra il collo ed il polso, come quella
presente oggi nei pipistrelli. Cuvier d'accordo con questa interpretazione, e
su suggerimento di Hermann, pubblicò questa nuova descrizione nel dicembre del
1800.[9] In uno scritto Cuvier dichiarò che, "Non è possibile mettere in
dubbio che il lungo dito servisse a sostenere un membrana che, allungandosi
all'estremità anteriore di questo animale, formava una buona ala."[22]
Tuttavia, contrariamente a Hermann, Cuvier era convinto che l'animale fosse un
rettile. In realtà l'esemplare non era stato sequestrato dai francesi.
Infatti, nel 1802, dopo la morte di Carlo Teodoro, il fossile fu portato a
Monaco di Baviera, dove il barone Johann Paul von Carl Moll, aveva ottenuto
un'esenzione generale della confisca per le collezioni bavaresi. Cuvier chiese
a von Moll il permesso di studiare il fossile, ma fu informato che il pezzo non
fu trovato. Nel 1809, Cuvier pubblicò una descrizione un po' più a lunga, in
cui l'animale veniva chiamato "Ptero-dactyle" e confutava l'ipotesi
di Johann Friedrich Blumenbach, che sosteneva che l'animale fosse un uccello
marino. Ricostruzione inesatta di P. brevirostris, da parte di Von
Soemmerring, del 1817 Contrariamente a rapporto di von Moll, il fossile non è
mancata; fu oggetto di studio da parte di Samuel Thomas von Sömmerring, che
tenne una conferenza pubblica sul fossile il 27 dicembre 1810. Nel mese di
gennaio del 1811, von Sömmerring scrisse una lettera al Cuvier deplorando il
fatto che era da poco stato informato della richiesta di Cuvier per
informazioni. La sua conferenza fu pubblicata nel 1812, e in essa von
Sömmerring diede alla creatura il nome di Ornithocephalus antiquus.[23] Qui
l'animale fu descritto come un mammifero simile ad un pipistrello ma con caratteristiche
da uccello. Cuvier in disaccordo con tale descrizione, lo stesso anno fornì una
lunga descrizione nella quale ricordò che l'animale era in realtà un
rettile.[24] Nel 1817 fu rinvenuto un secondo esemplare di Pterodactylus,
ancora una volta a Solnhofen. Questo esemplare rappresentato da un giovane fu
descritto nuovamente da von Soemmerring, come Ornithocephalus brevirostris, per
via del muso corto, avendo tuttavia capito che si trattava di un esemplare più
giovane (oggi si sa che questo fossile appartiene ad un altro genere di
pterosauro, probabilmente un Ctenochasma[3]). Von Sommerring fornì anche uno
schizzo dello scheletro[9] che in seguito si rivelò essere sbagliato e
impreciso, in quanto von Soemmerring aveva scambiando il metacarpo per le ossa
del braccio inferiore, il braccio inferiore per l'omero, il braccio superiore
per lo sterno e lo sterno per una scapola.[25] Tuttavia Soemmerring rimase per
sempre fedele alla sua idea dello Pterodactylus. Lo avrebbe sempre immaginato
come un animale simile ad un pipistrello, anche se a seguito di alcune ricerche
nel 1860 ammise che l'animale era un rettile. Tuttavia l'immaginario collettivo
dell'animale rimaneva quello di una creatura quadrupede, goffa a terra,
ricoperta di pelo, a sangue caldo e con una membrana alare che si attaccava
alle caviglie.[26] In epoca moderno (2015) alcuni di questi elementi sono stati
confermati, alcuni smentiti, mentre altri rimangono ancora oggi in
discussione. Paleobiologia Classi d'età Esemplare giovane di P. antiquus
Come molti altri pterosauri (in particolare il Rhamphorhynchus), l'aspetto
degli esemplari di Pterodactylus varia a seconda dell'età e in base al livello
di maturità. Le proporzioni di entrambe le ossa degli arti, le dimensioni e la
forma del cranio e le dimensioni e il numero dei denti possono stabilire a
quale classe di età appartiene l'animale. In passato queste differenze
morfologiche hanno portato a credere che si trattassero di specie distinte con
caratteristiche anatomiche differenti. Recenti studi più dettagliati e che
utilizzano nuovi metodi per misurare le curve di crescita degli esemplari noti,
hanno stabilito che in realtà vi è un'unica specie di Pterodactylus ritenuta
valida ossia, P. antiquus.[6] Il più giovane e immaturo campione di P.
antiquus (da alcuni interpretato come facente parte di una seconda specie
chiamata Pterodactylus kochi) possiede pochi denti e i pochi che possiede hanno
una base relativamente ampia.[4] I denti di altri esemplari di P. antiquus
hanno denti più stretti e numerosi (fino a 90).[6] Tutti i campioni di
Pterodactylus possono essere suddivisi in due diverse classi di età. Nella
prima classe, rientrano gli esemplari i cui crani hanno una lunghezza
complessiva che va dai 15 ai 45 millimetri di lunghezza. Nella seconda classe,
invece, rientrano gli esemplari i cui crani hanno una lunghezza complessiva che
va dai 55 ai 95 millimetri di lunghezza, ma sono ancora immaturi. Questi due
primi gruppi di dimensione erano a loro volta classificati come giovani e
adulti della specie P. kochi, fino a che un nuovo studio ha dimostrato che
anche quelli che si credevano "adulti" erano comunque esemplari
immaturi, e probabilmente appartengono ad un genere distinto. Una terza classe
è rappresentata da esemplari specie tipo P. antiquus, così come un paio di
grandi esemLplari isolati, una volta assegnati a P. kochi che si sovrappongono
P. antiquus per dimensioni. Tuttavia, tutti i campioni di questa terza classe
mostrano anche segni di immaturità. L'aspetto degli esemplari completamente
maturi di Pterodactylus esemplari rimane tuttora sconosciuto, oppure potrebbero
essere stati erroneamente classificati come un genere diverso.[4]
Crescita e riproduzione Bacino fossile di un grande esemplare, riferito
alla dubbia specie P. grandipelvis Le classi di crescita degli esemplari di P.
antiquus mostrano che questa specie, come il contemporaneo Rhamphorhynchus
muensteri, probabilmente allevava i piccoli in determinate stagioni e questi
crescevano costantemente durante tutta la vita. Quindi la riproduzione e il
conseguente allevamento dei cuccioli avveniva ad intervalli regolari e
probabilmente in ogni stagione.[4][27] Molto probabilmente poco dopo la nascita
i cuccioli erano già in grado di volare ma dipendevano ancora dai genitori per
la nutrizione. Questo modello di crescita è molto simile a quello dei moderni
coccodrilli, piuttosto che alla rapida crescita dei moderni uccelli.[4]
Stile di vita Dal confronto tra gli anelli sclerali di P. antiquus con quelli
di moderni uccelli e rettili si è scoperto che lo Pterodactylus aveva uno stile
di vita diurno. Questo coinciderebbe con la sua nicchia ecologica, che lo
vedrebbe come un predatore simile all'odierno gabbiano, evitando inoltre la
competizione con altri pterosauri suoi contemporanei che in base agli anelli
sclerali sono stati giudicati notturni, come il Ctenochasma e il
Rhamphorhynchus.[28] Paleoecologia Durante la fine del Giurassico,
l'Europa era un arcipelago asciutto e tropicale ai margini del mare Tetide. Il
calcare fine, in cui gli scheletri di Pterodactylus sono stati ritrovati, è
stato formato dalla calcite delle conchiglie e degli organismi marini. Le varie
aeree tedesche dove sono stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus erano
lagune situate tra le spiagge e le barriere coralline delle isole europee
Giurassiche nel Mare Tetide. I contemporanei di Pterodactylus, includono
l'avialae Archaeopteryx lithographica, il compsognatide Compsognathus, svariati
pterosauri come Rhamphorhynchus muensteri, Aerodactylus, Ardeadactylus,
Aurorazhdarcho, Ctenochasma e Gnathosaurus, il teleosauride Steneosaurus sp.,
l'ittiosauro Aegirosaurus, e i metriorhynchidi Dakosaurus e Geosaurus. Gli
stessi sedimenti in cui sono stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus
hanno riportato alla luce anche diversi fossili di animali marini quali pesci,
crostacei, echinodermi e molluschi marini, confermando l'habitat costiero di
questo pterosauro. L'enorme biodiversità di pterosauri presenti nei Calcari di
Solnhofen, indica che quest'ultimi si erano differenziati tra di loro occupando
ogni possibili nicchia ecologica disponibile.[29] Note ^ Fischer von
Waldheim, J. G. 1813. Zoognosia tabulis synopticus illustrata, in usum
praelectionum Academiae Imperialis Medico-Chirurgicae Mosquenis edita. 3rd
edition, volume 1. 466 pages. ^ Schweigert, G., Ammonite biostratigraphy as a
tool for dating Upper Jurassic lithographic limestones from South Germany –
first results and open questions, in Neues Jahrbuch für Geologie und
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DOI:10.1127/0077-7749/2007/0245-0117. Bennett, S. Christopher, New
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antiquus, with a revision of the genus, in Paläontologische Zeitschrift, in
press, 2013, DOI:10.1007/s12542-012-0159-8. Bennett, S.C., Year-classes
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pterosaur Germanodactylus from Solnhofen], in Journal of Vertebrate
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(Pterosauria) from the latest Jurassic of eastern France, with a taxonomic
revision of European Tithonian Pterodactyloidea], in Journal of Vertebrate
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DOI:10.1671/0272-4634(2004)024[0542:DOTSOA]2.0.CO;2. ^ Frey, E., and Martill,
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from the Upper Jurassic of Germany, in Neues Jahrbuch für Geologie und Paläontologie,
Abhandlungen, vol. 210, 1998, pp. 421–441. ^ Cuvier, G., Mémoire sur le
squelette fossile d'un reptile volant des environs d'Aichstedt, que quelques
naturalistes ont pris pour un oiseau, et dont nous formons un genre de
Sauriens, sous le nom de Petro-Dactyle, in Annales du Muséum national
d'Histoire Naturelle, Paris, vol. 13, 1809, pp. 424–437. Taquet, P., and
Padian, K., The earliest known restoration of a pterosaur and the philosophical
origins of Cuvier's Ossemens Fossiles, in Comptes Rendus Palevol, vol. 3, n. 2,
2004, pp. 157–175, DOI:10.1016/j.crpv.2004.02.002. ^ Cuvier, G., 1819,
(Pterodactylus longirostris) in Isis von Oken, 1126 und 1788, Jena ^ Kellner,
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Christopher Bennett, [872:JSOTPG2.0.CO;2 Juvenile specimens of the pterosaur
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Vertebrate Paleontology, vol. 26, n. 4, 2006, pp. 872–878,
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Martill, Pterodactylus scolopaciceps Meyer, 1860 (Pterosauria,
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Cryptic Pterosaur Taxa in Early Ontogeny, in PLoS ONE, vol. 9, n. 10, 2014, pp.
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Martill, The taxonomy and phylogeny of Diopecephalus kochi (Wagner, 1837) and
‘Germanodactylus rhamphastinus’ (Wagner, 1851), in Geological Society, London,
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view of the researches on fossil osteology. Volume 19 of Knight's weekly vol. ^
Ősi, A., Prondvai, E., & Géczy, B. (2010). The history of Late Jurassic
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Pterodactylus micronyx Meyer 1856 (a ‘Pester Exemplar’). Geological Society,
London, Special Publications, 343(1), 277-286. ^ Collini, C A. (1784).
"Sur quelques Zoolithes du Cabinet d'Histoire naturelle de S. A. S. E.
Palatine & de Bavière, à Mannheim." Acta Theodoro-Palatinae Mannheim 5
Pars Physica, pp. 58–103 (1 plate). ^ Wagler, J. (1830). Natürliches System der
Amphibien Munich, 1830: 1–354. ^ Cuvier, G., [Reptile volant]. In: Extrait d'un
ouvrage sur les espèces de quadrupèdes dont on a trouvé les ossemens dans
l'intérieur de la terre, in Journal de Physique, de Chimie et d'Histoire
Naturelle, vol. 52, 1801, pp. 253–267. ^ von Sömmerring, S. T. (1812).
"Über einen Ornithocephalus oder über das unbekannten Thier der Vorwelt,
dessen Fossiles Gerippe Collini im 5. Bande der Actorum Academiae
Theodoro-Palatinae nebst einer Abbildung in natürlicher Grösse im Jahre 1784 beschrieb,
und welches Gerippe sich gegenwärtig in der Naturalien-Sammlung der königlichen
Akademie der Wissenschaften zu München befindet", Denkschriften der
königlichen bayerischen Akademie der Wissenschaften, München:
mathematisch-physikalische Classe 3: 89–158 ^ Cuvier, G. (1812). Recherches sur
les ossemens fossiles. I ed. p. 24, tab. 31 ^ Sömmering, T. v., Über einen
Ornithocephalus brevirostris der Vorwelt, in Denkschr. Kgl. Bayer Akad. Wiss.,
math.phys. Cl., vol. 6, 1817, pp. 89–104. ^ Padian, K. (1987). "The case
of the bat-winged pterosaur. Typological taxonomy and the influence of
pictorial representation on scientific perception", pp. 65–81 in: Czerkas,
S. J. and Olson, E. C., eds. Dinosaurs past and present. An exhibition and
symposium organized by the Natural History Museum of Los Angeles County. Volume
2. Natural History Museum of Los Angeles County and University of Washington
Press, Seattle and London ^ Wellnhofer, P. (1970). Die Pterodactyloidea
(Pterosauria) der Oberjura-Plattenkalke Siiddeutschlands. Bayerische Akademie
der Wissenschaften, Mathematisch-Wissenschaftlichen Klasse, Abhandlungen, 141:
133 pp. ^ Schmitz, L.; Motani, R., Nocturnality in Dinosaurs Inferred from
Scleral Ring and Orbit Morphology, in Science, vol. 332, n. 6030, 2011, pp. 705–8,
DOI:10.1126/science.1200043, PMID 21493820. ^ Weishampel, D.B., Dodson, P.,
Oslmolska, H. (2004). The Dinosauria (Second ed.). University of California
Press. Biografia Steve Parcker John Malam, Dinosauri e altre creature
preistoriche. Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons
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Paleontologia Portale Paleontologia Rettili Portale Rettili Categoria:
Pterosauri. Il conte Cosimo Alessandro Collini. Keywords: pterodattilo,
filosofia, pisa, Firenze, nobilita, coira. Pterodattilo. Polemica filosofica, Domenico
Eusebio Chelli, marchesa Gabbriella Malaspina, Voltaire e la Toscana, “Firenze
come una nuove Atene”, Collini su Ariosto e Boccaccio, Collini makes fun of
Voltaire’s daughter. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Collini” – The
Swimming-Pool Library.
COLOMBE (Firenze).
Filosofo. Grice: “If you love stars, as any philosopher must – vide Thales! –
you LOVE Ludovico who refuted Kepler’s idea that the thing next to the
serpentary’s foot was a ‘star,’ never mind ‘nova’!” Noto per essere stato uno
strenuo avversario di Galilei. Non si sa
quasi nulla della sua vita, ma restano diverse sue saggi, nelle quali difende
la dottrina aristotelica con un particolare disinteresse sia verso le nuove
osservazioni sia verso la coerenza logica.
Scrisse un discorso sulla nuova stella apparsa sostenendo che si tratta
di una stella non nuova, ma esistente da sempre. Scrisse un discorso Contro il
moto della Terra. Per conciliare le
osservazioni di Galilei sulle irregolarità della superficie lunare con la
concezione aristotelica della perfetta sfericità dei corpi celesti sostenne che
le valli e gli spazi tra i monti della luna sono colmati da un materiale
perfetto e invisibile. Contrario all’idrostatica archimedea recuperata da
Galileo, nel suo Discorso apologetico, sostenne che il galleggiare o l’affondare
dei corpi dipendesse dalla loro forma. Nella conclusione del discorso usa anche
una metafora di questa teoria, affermando che le ragioni dell'avversario per
essere troppo argute e sottili vanno a fondo senza speranza di ritornare a
galla, mentre quelle di Aristotele, per essere di forma larga e quadrata, non
possono affondare in nessun modo. Sono rimaste anche lettere tra il Delle
Colombe e Galileoi che stimava pochissimo il suo avversario, che aveva
soprannominato Pippione. Vari accenni a questo personaggio sono nella
corrispondenza tra Galilei e i suoi amici. Dizionario Biografico degli Italiani,
Amici e nemici di Galileo, Milano, Bompiani. Aristotelismo. Grice: “If I had to
choose between Colombe-Aristotle to Galielei-Plato, I chose the former!” --
Colombo. Colombe. Ludovico delle Colombe. Ludovico Colombo. Keywords: the
irregular surface of the moon is filled by an invisible substance, the earth
does not move, the ‘nuova’ stella is a misnomer: it has always existed; bodies
float or sink according to their shape. Aristotle’s reasons never sink because
they are square. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colombe” – The Swimming-Pool
Library.
COLOMBO (Milano). Filosofo.
Grice: “I love Colombo as I love Wilde – I mean, the sponsor of the Wilde
Lectures on Natural Religion! Colombo wonders, ‘can ‘theologian’ be written
under ‘profession’? Surely, like me, Colombo distinguishes between theologian
and philosophical theologian – if there is no such distinction, and I’m not
sure there is – perhaps there shouldn’t be, Colombo would say, the
‘philosophical’ in my ‘philosophical eschatology’ is totally otiose and
anti-Griceian!” Insegna a Milano. Si è occupato di antropologia, metafisica e
la filosofia italiana -- Rosmini, Martinetti, Volpe, ad Aosta. Altre opere:
“Senzo e atto” (Studium, Roma). La morale communitaria (CUSL, Milano); “Pietra
angolare: l’chiesa d’Inghilterra” (CUSL-Centro Toniolo, Milano-Verona);
“Antropologia” (Massimo, Milano), “L’immanente e il trascendente”; “La
correttezza del nome nel Cratilo – il nome corretto -- in L’origine del linguaggio (Celestian Milani),
Demetra, Verona; Il ri-ordino dei cicli scolastici, in "Quaderno di Iter",
“Filosofia come soteriologia: L'avventura di Piero Martinetti (Vita e Pensiero,
Milano); “Il giusto prezzo della felicità, -- reasonable or rational? -- Edizioni
ISU-Università Cattolica, Milano); “Antropologia ed etica (EDUCatt, Milano). Forme e modelli del
pensiero filosofico. Introdurre alla comprensione e uso
dei linguaggi e degli strumenti specifici
della metafisica, dell’antropologia, dell’etica;- all’acquisizione
di abilità critiche e analitiche per comprendere le dinamiche del vissuto,
della società e della storia contemporanea dell’uomo occidentale. Salute
e salvezza dell’uomo. Il senso
della cura e dell’educazione. Una
sfida per la ragione e per la fede.Valutazione critica
del rapporto metafisica-antropologia-soteriologia in
tre momenti della storia dell’Occidente. Il mondo antico-classico greco-romano.
Il mondo nuovo Cristiano. Il mondo moderno e post-moderno.BIBLIOGRAFIA G. coLomBo,
I Greci e l’amore incerto: grandezza e aporia dell’eros platonico: il Simposio,
ISU-Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, S. kierkeGaard,
La malattia mortale (qualsiasi edizione, purché completa):
ai fini della prova d’esameè
richiesta la conoscenza della sola Prima parte: La malattia mortale è la
disperazione;J. p. SarTre, L’esistenzialismo è un umanismo,
Armando, Roma, 2006 (o altra edizione, purché completa).DIDATTICA DEL
CORSOLezioni in aula, ricerche e percorsi personalizzati.METODO DI VALUTAZIONEEsame
orale finale, valutazione di eventuali elaborati scritti o relazioni orali.
75AVVERTENZEIl docente è a disposizione degli studenti per ogni chiarimento
didattico e contenutistico, per l’assegnazione delle tesi di laurea e
l’assistenza necessaria alla loro elaborazione.Il docente riceve durante il
periodo di lezione presso lo studio universitario, martedì e giovedì h.
10.00-11.30. Pausania, do not multiply loves beyond necessity –
l’ambiguita di ‘amore’ – L’Afrodita celeste no participa della natura femmina,
solo della natura ‘maschile’. Pausania
parla solo a maschi, ai maschi virili, al maschio virile. L’amante o amatore e
maschio virile, l’amato o l’innamorato e maschio virile. L’amore celeste
(ouranios) participa solo della natura maschile. Criterio d’amabilita,
l’amabile. Giuseppe Colombo. Keywords: atto, attualismo, actualism, actum,
senzo, sensus, sense, morale communitaria, pietra angolare, Chiesa
d’Inghilterra, Cratilo, origine del linguaggio, glossogenia, glossotesi,
gossogenetic, semio-genesi, il soteriologico, immanente/trascendente, aporia
dell’amore platonico, eikesia, ‘Daddy wouldn’t buy be a wow wow’ true iff Daddy
wouldn’t buy me a bow wow – correctness of iconicity of ‘daddy’ and ‘bow wow’ --.
Heteroerotismo – Il discorso di
Alcibiade – analisi del simposio, l’elogio dell’eros. Il discorso di Pausania.
Ero demone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colombo” – The Swimming-Pool
Library.
COLONNA
(Roma).
Filosofo. There is already an entry for this; in Italian it is ‘Egidio Colonna’
-- giles di roma, Rome, original name, a
member of the order of the Hermits of St. Augustine, he studied arts at
Augustinian house and theology at the varsity in Paris but was censured by the
theology faculty and denied a license to teach as tutor. Owing to the
intervention of Pope Honorius IV, he later returned from Italy to Paris to
teach theology, was appointed general of his order, and became archbishop of
Bourges. Colonna both defends and criticizes views of Aquinas. He held that
essence and existence are really distinct in creatures, but described them as
“things”; that prime matter cannot exist without some substantial form; and,
early in his career, that an eternally created world is possible. He defended
only one substantial form in composites, including man. Grice adds: “Colonna
supported Pope Boniface VIII in his quarrel with Philip IV of Franc eand that
was a bad choice.” The Latin is EGIDIVS COLUMNA. The “Corriere” has an article
as his book being a bestseller of the Low Middle Ages!” Cosnisder the claims
here: ‘essence and existence are really distinct in creatures – and each is a
thing – prime matter cannot exist without substantial forml – eternal and
created world is not a contradiction – there is only ONE substantial form in
compostes, including man. Grice: “Must say I LOVE Colonna, or COLVMNA as the printing
goes – of course the “Corriere della Sera” hastens to add that he wassn’t one!
In any case, my favourite of his tracts is of course the one on Aristotle!”. Egidio
Romano, O.E.S.A. arcivescovo della Chiesa cattolica Filip4 Gilles de RomeEgidio
Romano e Filippo il Bello (miniatura di un codice medievale). Incarichi
ricopertiArcivescovo di Bourges Nato Roma Nominato arcivescovo Roma
Manuale Egidio Romano, latinizzato come Ægidius Romanus. Dopo la sua
morte, gli furono tributati i titoli onorifici di Doctor fundatissimus e Theologorum
princeps. Discepolo d'Aquino. Insegna filosofia. Fu inoltre il tutore di
Filippo il Bello al quale dedica il saggio “De regimine principum”, sostenendo
l'efficacia della monarchia come forma di governo. Considerato tra i più
autorevoli filosofi di ispirazione agostiniana, attivo anche nella vita
intellettuale e politica in un contesto culturale ed istituzionale travagliato
da frequenti ed aspre polemiche sul problema del rapporto tra potere temporale
e potere spirituale. Generalmente ricordato, insieme al prediletto allievo
Giacomo da Viterbo, per il contributo nella redazione della celebre bolla Unam Sanctam
di Papa Bonifacio VIII e per il ruolo significativo che assunse il Maestro
degli Eremitani di Sant'Agostino quale autore del De Ecclesiastica potestate e,
dunque, quale teorico famoso e autorevole della plenitudo potestatis
pontificia. In Colonna rileviamo subito una compresenza del duplice atteggiamento
dottrinale e politico. Infatti è possibile rintracciare, fra le opere
giovanili, il “De regimine principum”, saggio dedicato a Filippo il Bello e di
ispirazione aristotelico-tomista inerente alla naturalità dello stato,
erigendola a difensore della potestas regale. Nel “De Ecclesiastica potestate”,
invece, afferma la superiorità del “sacerdotium” rispetto al “rex” o “regnum”, distinguendosi
quale rappresentante della teocrazia papale. In seguito alle condanne di
Tempier, difende la tesi d’Aquino, per la sua qualifica di Baccalaureus
formatus, ma, proprio a causa delle condanne stesse, viene sospeso dall'insegnamento.
Gli avversari del papato trovano in Aristotele gli strumenti per svolgere
un'analisi politica che metta in discussione la sacralità del potere.
Dall'altra parte troviamo l'influenza della corrente speculativa
dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno, tipicamente medioevale, di
compenetrazione fra stato e chiesa, all'interno del quale Agostino viene a
giocare un ruolo fondamentale dal momento che l'apporto teorico del suo “De
Civitate Dei” conduce a confusioni inevitabili fra il piano spirituale della “Civitas
Dei Caelestis” e il piano temporale della vita terrena che è “Civitas Peregrina”),
che ripropone la teoria delle “due città” e riafferma la superiorità del
sacerdotium rispetto al rex e regnum, costituendo un vero e proprio “partito
del Papa”. Rivendica la plenitudo potestatis come proprietà costitutiva
dell'auctoritas del Papa in quanto “homo spiritualis”. Sostituisce al concetto
agostiniano di “ecclesia” quello di “regnum” al fine di estendere gli ambiti
del potere del sovrano ecclesiastico. Il sovrano ecclesiastico, il Papa, dove
esercitare la sua sovranità anche sul potere temporale al fine di garantire
l'ordine mediante una forma di “dominium” che coincide con la sua stessa
missione spirituale. Atre opere: L'edizione critica dell'opera omnia è
stata intrapresa, per Olschki (Aegidii Romani opera omnia, collana Corpus
Philosophorum Medii AeviTesti e Studi), da Punta. “Quaestio de gradibus
formarum” Ottaviano Scoto, Boneto Locatello. “In secundum librum sententiarum
quaestiones” Francesco Ziletti); Opere, Antonio Blado; “In libros De physico
auditu Aristotelis commentaria”; Ottaviano Scoto; Boneto Locatello, “De materia
coeli” Girolamo Duranti, “Quodlibeta”. Silvia
Donati, Studi per una cronologia delle opere di Egidio Romano, “Le opere
prima”; “I commenti aristotelici”, "Documenti e studi sulla tradizione
filosofica medievale", Dizionario biografico degli italiani. DEL GOVERNO
DI SÈ. Del sommo bene. Quale è la maniera di parlare nella scienza de're e de'
principi. Quale è l'ordinanza delle cose che si debbono dire in questo libro. Come
grande utilitate ei re e' principi ånno in udire e in intendere e in sapere
questo libro. Quante maniere sono di vivare e come l'uomo die méttare il
sovrano bene di questa mortal vita in queste maniere di vivere. Com'è grande
utilità e a' re ed ai principi che ellino conoscano il loro fine e'l loro sovrano
bene di questa vita mortale. I re ne i principi, non debbano mettere il loro
sovrano bene in diletto corporale. I re
ne i principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere ricchezze. I re ne i principi non debbono mettere il loro
sovrano bene in avere onori. I re ne i principi non debbono mettere il loro
sovrano bene in avere gloria o gran rinomo di bontà. Nè i re né i principi non
debbono méttare il loro sovrano bene in avere forza di gente. I re ne i
principi debbono méttare el loro sovrano bene nelle uopere della prudenzia cioé
del senno. Come ei re e' principi debbono méttare el loro sovrano bene nelle opere
della prudenza e del. Il prezzo e'l guidardone dei re e dei principi bene
governanti il loro popolo, secondo legge e ragione, è molto grande. senno.
Della virtù. Quante potenze à l’anima e in quali potenze e la virtù di una
buona opera. Come la virtù di una buona opera e divisa nella volontà e
nell’intendimento dell'uomo. Quante virtù di buone opere sono, come l'uomo die
préndare il numero di esse. Delle buone disposizioni che l'uomo à, alcune sono
virtů , alcune sono più degne che virtù, alcune altre sono apparigliate a
virtù. Alcune virtú sono più degne d'alcune altre e più principali. Che cosa è
la virtù dell’uomo ch'è chiamato senno, over prudenza, over sapere. Ai re ed ai
prenzi conviene es sere savi. Quanto e quali cose conviene ai re e ai prenzi
avere acciò che ellino siano savi. Come și re e i prenzi possano fare loro
medesimi savi. Quante maniere sono di drittura ed in che cosa è drittura e come
drittura è divisata dalie altre virtú. Senza drittura e senza iustizia ei reami
non possono durare, nè nulla signoria di città. I re e i prenzi debbono
intendere diligentemente acciò che essi siano dirilturieri e che drittura sia
guardata nelle loro terre. La forza di coraggio e . e quali cose ella die
essere , e come ei re e i prenzi le. possono avere. Quante maniere sono di
forza e secondo la quale ei re e i prenzi debbono essere forti. Che cosa è la
virtù che l'uomo chiama temperanza e in quali cose quella virtù die essere,
quante parti a la temperanza, come noi la potemo acquistare. Ched elli é più
disconvenevole cosa che l’uomo sia distemperato in seguire LI DILETTI DEL CORPO
che in essere paurioso. Il principe debbe essere temperato nel diletto di suo
corpo. La virtù che l'uomo chiama larghezza e'n quale cose cotale virtù de'
essere, e come noi la potemo acquistare. Che a pena può essere el re o'l prenze
folle largo e come è troppo sconvenevole' cosa che essi sieno avari e ch'ellino
debbono essere larghi e liberali. Che cosa è una virtù che l’uomo cjiama
magnificenzia e'n quali cose quella virtù die essere, e come noi potemo avere
quella virtù. Come è cosa isconvenevole che i re e i prenzi sieno di piccola
dispesa e di poco affare, e che maggiormente s'avviene a loro essere di grande
spese e di grande affare. Che condizioni à l'uomo che è di grande spesa e di
grande affare, e che conviene maggior mente averle ai re ed ai prenzi. Che cosa
è una virtù che l'uomo chiama magnanimità, cioè a dire virtù di grand'animo e
in quali cose quella virtù di essere e come noi potemo essere di gran cuore. Quante
condizioni à l'uomo che è di gran cuore, e che maggiormente si conviene ai
prenzi d'averle. Come ei re e i prenzi debbono amare onore , o quale è la virtù
che l'uomo chiama virtù d'amare opore . 68 Cap. XXV. Ca insegna che amare onore
ed èssare umile possono essere insieme e che quelli che è di gran cuore e di
grande animo non può essere senza umiltà. Che cosa é umiltà de la quale il
filosafo parla e in quali cose ella die essere e che maggiormente conviene ai re
ed ai prenzi essere umili. Che cosa è la virtù che l'uomo chiama dibuonairetà ,
ed in che cose la buonairetà die essere e che conviene ai re ed a i prenzi
essere dibonarie. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama piacevolezza, cioè di
sapere CONVERSARE PIACEVOLMENTE e in che cose la detta virtù die essere e che
si conviene che i re e i preozi sieno piacevoli. Che cosa è verità e in che
cosa ella die essere usata e come si conviene al principe ch'esse sia veritiero
o sincero. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama sollazzevole, quasi dica di
sapere sollazzare, e di essere allegro e gioioso, là ' ve si conviene , e per
la quale ' l'uomo si sa avvenevolmente rallegrare nei sollazzi, come ei re e i
prenzi debbono essere allegri e sollazze voli. Conviene al principe avere tutte
le virtù, perciò che perfettamente l’uomo non ne può avere una senza le altre.
Quante maniere sono di buoni e adi malvagi uomini e quale maniera di bontà ei
re e i prenzi debbono avere. Delle passione. Quanti movimenti d'animo sono e
donde essi vengono. Quali movimenti d'animo sono principali che gli altri e
come essi sono ordinate. Come il principe debbe amare e quali cose debbe amare.
Come il principle debbe desiderare e che cosa debbe desiderare. Come ei re e i
prenzi si debbono portare ayvenevolmente in isperare e in disperare. Come
avvenevolmente ei re si debbono portare in avere ardimento. Che differenza elli
à intra corruccio e odio, e come ei te e i prenzi si debbono avvene volmente
contenere nei corrucci e ne le di bonarietà. Come ei re e i prenzi si deb bono
ayvenevolmente avere nei diletti. Come alcuni movimenti d'animo sono mantenuti
e ritornano ad alcuni altri movimenti. Ched ei movimenti dell'animo alcuni sono
da biasmare ed alcuni sono da lodare e come ei re e i prenzi si debbono
conferire nei movimenti detti dinanzi. Della costume. Quale costume e quale
maniere de giovani uomini fanno da lodare, e come il principe debbe avere essa
costume ed essa maniera. Quali costumi e quali maniere dei giovani uomini fanno
da biasmare , e come ei.re e i prenzi debbono ischiſare cotali maniere e cotali
co stumi. Quali costumi e quali maniere dei uomini fanno da biasmare , come ei
re e i prenzi ei debbono ischifare. Quali costumi e quali maniere dei uomini
fanno da lodare. Che costume e che maniera ha il gentile uomo, e come il
principe debbe avere. Che costumi e che maniere anno l’uomo ricco e come ei re
e i prenzi ei debbono. Che modi e che maniere ánno coloro che sono possenti ed
anno signorie , e come li re e li principi si debbono avere in verso la gente
convenevolmente. Avere. DEL GOVERNO DELLA FAMIGLIA. Della moglie. L'uomo die
naturalmente vivare in compagnia, e che i re i prenzi il debbono sapere. Che,
acciò che la casa sia perfetta, si vi conviene avere quattro maniere di
persone, e come e' conviene questo secondo libro divisare in tre parti. Quella
casa è perfetta ove v'à assembramento di un uomo e di una femmina, un
figliuolo, e servi. L'uomo naturalmente si die ammogliare e che quelli che non
vogliono vivare in matrimonio, o elli posono bestia, o ellino sono migliori che
l’uomo. Ciascuno uomo e ciascuna femmina , e medesimamente ei re e i prenzi che
sono ammogliati, si debbono tenere in matrimonio senza partirsi o senza
divídarsi. A ciascun uomo die bastare una femmina, e che i re e i prenzi e
ciascun altro uomo si die tenere appagato a una femmina. Un uomo die bastare a
una femmina , e che una femmina si die chiamare contenta d'un uomo. L’uomo non
die prendare moglie la quale sia troppo presso a lui di parentato o di
lignaggio. Come le moglie dei re e dei prenzi e di ciascuno altro uomo debbono
avere abbondanza di beni temporali. Come nè i re né i prenzi, nė cia scuno
altro uomo non debbe chiėdare solamente ei beni temporali delle loro mogli ma
anco ei beni del CORPO e quelli dell'anima, e ciò e il bello e il casto. L’uomo
non die governare nė tenere la moglie nella maniera ch'elli die tenere e
governare il suo figliuolo. L’uomo non die tenere nė governare la moglie nella
manera che l'uomo die tenere e governare e fanti. Che elli non si conviene nė
ai re nè ai prenzi ned a nessuno altro uomo, ch'ellino usino il matrimonio in
troppo giovano tempo. L’uomo die piuttosto fare l'opera del matrimonio nel
verno che nella state. Come alcune cose sono nelle femmine che sono da
biasmare. Come ei re e i prenzi e ciascuno altro uomo die avvenevolmente
governare e addrizzare la moglie. Come gli uomini si debbono portare con le
loro mogli. Come la femmina maritata deb bono convenevolmente adornare il loro
corpo. Né I re ne i prenzi , nė li altri uomini , non debbano essere troppo
gelosi delle loro mogli. Che cosa è ' l consiglio della femmina , e che 'l suo
consiglio l'uomo non die credere se non in alcun tempo. Com’l’uomo non debbe
dire il suo secreto alla sua moglie. Dei figli. Il padre die essere curioso di
guardare il suo figliuolo. Che ciò s'avviene maggiormente ai re ed ai prenzi,
cioè ch'ellino sieno guardatori e curiosi dei loro figliuoli. Il padre governa
il suo figliuolo per L’AMORE ch'elli à in lui. L’AMORE NATURALE il quale die
essere da padre a figliuolo prova sufficientemente che il padre debbe governare
i suo figliuolo e il figliuolo debbe ubbidire il padre. Nel quale dice che i re
e i prenzi e ciascuno altro uomo debbono da gioventudine insegnare la fede ai
loro figliuoli. I re e i prenzi e ciascuno altro uomo debbono da gioventudine
insegnare ed appréndare ei buoni costumi e le buone maniere ai loro figliuoli.
Il figliuolo del gentile uomo debbe apprendere le scienze della chericia, ciò
sono, morali, naturali e matematice. Quale arte il figliuolo di un gentile
uomini debbe apprendere. Quale die ėssare il tutore del figliuolo di un gentile
uomo. Il padre die insegnare al suo fanciullo a parlare e a vedere ed a udire. In
quante maniere l'uomo puó peccare in mangiare e come il garzone si debbe
contenere. Come il padre die insegnare al suo fanciullo acciò che si sappiano
portar avvenevolmente nel bere e ne' diletto della femmina. Come il garzone si
debbe contenere nel diletto del corpo. Come in giovanezza l'uomo die schifare
le malvagie compagnie. Che guardia l’uomo die avere de' figliuoli da che sono
nati, insino a’ sette anni. Che guardia l'uomo die avere de' fanciulli da sette
anni fino a quattordici. Che guardia l'uomo die avere del figliuolo da
quattordici anni innanzi. Che il padre non die insegnare al figliuolo uno
medesimo travaglio di corpo. Della casa e dei servi. L'uomo die diterminare e
parlare delle cose donde la vita umana può esser sostenuta, volendo governare
la sua famiglia e la sua casa. Il casino della villa del’uomo , die esser fatto
sottilmente ed in buon áire. Il casamento dei re e dei prenzi , e di ciascuno
altro uomo, die esser fatto in luogo dove abbia abbondanza di buona acqua e di
chiara. Naturalmente l’uomo die avere possessione in alcun modo e che quellino
che rifiutano le possessioni, non vivono come uomini, anzi sono migliori che
uomo. Elli è grande utilità alla vita umana, che l'uomo possa vivare della sua propria
ricchezza. Come l'uomo die usare dei beni temporali, e quale maniera di vivare
è buona e onesta. Nel quale dice che ciascuno uomo, e medesimamente ei re ei prenzi,
non debbono desiderare troppo grande abbondanza di ricchezze ne di possessioni.
Quante maniere elli sono di vendere e di comperare e perchè ei denari fuoro
prima mente fatti e trovati. L'usura è generalmente malvagia , e ch'ei re ed i
prenzi la debbono difendare ch’ella non sia fatta nella loro terra. Nel quale
dice ch’ei sono diverse maniere di guadagnare denari e che alcuna di queste
maniere è avve nevole ai re ed ai prenzi. Alcuna gente è serva per natura e
ch'elli è loro utilità ch'ellino sieno suggetti ad altrui. Nel quale dice che
alcune genti che sono servi per natura e per legge. Nel quale dice ch’ellino
sono alcune genti le quali sono serve per prezzo ed alcuna gente che servono
per l’amore ch’elli ánno ai suo signore. L'uomo die dare gli ufici ai suoi
fanti nelle case dei re e dei prenzi. Come ei re e i prenzi debbono provvedere
ai loro sergenti robe e vestimento. Che cosa é cortesia e ched e' conviene ai
fanti dei re e dei prenzi ched ellino sia cortese Nel quale dice come ei re e i
prenzi si debbono contenere inverso ei loro sergenti. Che quelli che servono e
quelli che mangiano alla tavola dei re e dei prenzi , e generalmente che il
gentile uomo non debbe molto favellare. DEL GOVERNO CIVILE. Detti dei filosofi
nel governamento delle città. Nel quale dice che la villa e ordinata e stabilita
per alcuno bene. Fu grande utilità alla vita umana che colla comunità della
villa e delle città , li uomini ordinassero la comunità del reame. Nel quale
dice ceme Platone e Socrate dissero che l’uomo dovea ordinare e governare le città.
Nel quale insegna che i re e i prenzi debbono sapere che tutte le cose non
debbono essere COMUNE siccome Platone e Socrate dissero. Nel quale dice quanti
mali avverrebbero se il figliouolo fusse comune. Nel quale dice come la possessione
debbe essere proprie, e come debbono essere comuni, secondo l'utilità delle ville
e delle città. I re ei prenzi non debbono sofferire che una medesima gente duri
sempre in una medesima signoria. Nel quale dice che l'uomo non die cosi ordinare
la città come Socrate disse, che dovieno essere ordinate. Come l'uomo può
trarre a buono intendimento le parole che Socrate disse , al governa mento
delle città. Come un filósafo , ch'ebbe nome Fal lea , disse, che l'uomo dovea
ordinare le città. Le possessioni non debbono essere eguali, siccome disse
Fallea. Come quelli che signoreggia alcuna città, elli die più principalmente
intendare a cessare le malvagie volontà e i malvagi desideri e convoitigine,
ched elli non die intendere a cessare la disuguaglianza delle possessiono. Nel
quale dice, come un filósafo ch'ebbe nome Ippodamo , disse che l’uomo dovea
ordinare le città. Nel quale dice quali cose sono da riprendare in quello che
Ippodamo disse del governamento della comunità. Della migliore maniera di
governare le città. Il quale insegna come l’uomo die governare le città in
tempo di pace, e quante cose l’uomo die guardare in cotale governamento. Quante
maniere sono di signorie e quali sono buone e quali sono rie. Ched o' val
meglio che le città e ' rea mi sieno governati e retti per un solo uomo che per
molti e che quest' è la migliore signoria che sia quando un solo uomo
signoreggia ed elli intende il bene comune. Nel quale dice per quali ragioni
alcuna gente volsero provare ched e’ valeva meglio che le terre e le città
fossero governale per molti uomini che per un solo e dice in questo capitolo
ciò che si die rispóndare a cotali ragioni. Ched e' val meglio che le terre e
le signorie e' reami vadano per redità per successione DEL FIGLIOUOLO che per elezione.
Nel quale dice quali sono le cose ne le quali il re die sormontare gli altri, e
che diversità elli à intra'l re 'e'l tiranno. Nel quale dice che la signoria
del tiranno è la peggiore signoria che sia e che i re ei prenzi si debbono
molto guardare ch'ellino non sieno tiranni. Quale dia esser l'ufficio dei re e
dei prenzi, e com’essi si debbono contenere in governare le loro città e i loro
reami. Quali sono le cose che’ l buono re die fare , le quali il tiranno mostra
di fare ma non le fa nèmica. Nel quale dice per quante cautele il tiranno si
sforza di guardare sė ne la sua signoria. Ched elli è molto isconvenevole cosa
ai re ed ai prenzi ched ellino sieno tiranni, perciò che tutte le malizie che
sono nell’altre malvagie signorie, sono ne là signoria del tiranno. Nel quale
dice che i re e i prenzi debbono molto ischifare la compagnia del tiranno,
perciò che per molte cose ei soggetti aguaitano ed assaliscono il loro signore
quand’elli é tiranno. Nel quale dice quali cose guardano e salvano la signoria
del re e ched e'conviene fare al re sed e' si vuole guardare ne la sua signoria
e nel suo reame. Quali cose fanno a consigliare e di quali l'uomo die avere
consiglio. Nel quale dice che cosa è consiglio, e come l'uomo die fare ei
consigli. Nel quale dice che consiglieri ei re e i preozi debbono avere ai loro
consigli. Nel quale dice quante cose conviene sapere a quellino che consigliano
ei re e i prenzi e in quali cose l’uomo die préndare consiglio. Nel quale dice
che tutte le cose donde l’uomo giudica, l'uomo die giudicare secondo le leggi e
che l’uomo die fare pochi giudicamenti e dare poche sentenze per arbitrio o per
credenza. Nel quale dice come l’uomo dic fare ei giudicamenti: e ch’e giudici
debbono vetare che li uomini che piateggiano non dicano parole dinanzi al
giudice che’l possa muovere ad amore nè ad odio contra ad alcuna de le parti. Nel
quale dice quante cose conviene avere a’giudicatori a ciò ch’ellino giudichino
bene e drittamente. Nel quale dice quante e quali cose conviene riguardare al
giudice, acciò ch’elli perdoni e sia più di buonarie che crudele. Nel quale dice
ched e’ sono diverse maniere di leggi e diverse maniere di giustizia e che al
dritto natu rale ed al diritto iscritto tutti gli altri dritti sono ridotti e
ramenali. Quali debbono esser le leggi umane e ched elli fu grande utilità ai
reami ed a le città a fare cotali leggi. Nel quale dice che ciascuno non die némica
istabilire nė ordinare le leggi; e ched e' conviene che le leggi sieno
publicate é fạtte sapere acciò ch’ell’abbiano forza d’obbligare le genti. Quante
opere e quali le leggi ch'ei re e i prenzi istabiliscono ed ordinano, debbono contenere.
Nel quale dice quale vale meglio o che le città o i reami sieno governati per
un buono re o per una buona legge. Nel quale dice che co la legge naturale e co
la legge iscritta e' conviene che l’uomo abbia la legge di Dio e la legge del
Vangelo. Come l’uomo può, si die guardare le leggi del paese e ch'elli non è
utile ch'elle si rimutino ispesso. Nel quale dice che cosa è città e che cosa è
reame e chénte die essere il popolo ch’è ne le città e ne' reami. Nel quale
dice che allora è la città e’l reame trasbuono e 'l popolo trasbuono, quand’elli
v’à molte di mezzane persone. Nel quale dice ched elli é grande utilità al
popolo di portare grande riverenza al prenze ed al signore e ched ellino
guardino diligentemente le leggi che i re e i prenzi ánno ordinate. Come il
popolo e generalmente tutti quelli che dimorano nel reame, si debbono mante
nere saviamente , acciò che’l re o’l prenze non abbia corruccio nė odio contra
loro. Come ei re ei prenzi si deb bono mantenere , acciò ch'ellino sieno amati
e temuti dal lor popolo. Ed insegna questo capitolo che tutto debbiano ei re ei
prenzi esser amati e temuti dal lor popolo, ellino debbono maggiormente volere
essere amati che temuti. Del governo in tempo di guerra. Che cosa è cavalleria e
da ch'ella é ordinate. Nel quale insegna in quale terra sono e’migliori
combattieri e quali l’uomo die iscegliere per combattere dell’uomini che
debbono andare a la battaglia. In quale tempo l'uomo die acco stumare il
fanciullo all' opere dela battaglia e per quali segni l'uomo può conosciare ei
migliori battaglieri. Nel quale insegna quante cose e quali e' conviene avere
a' buoni battaglieri, acciò ch'ellino si combattano bene e giustamente. Nel
quale insegna quali sono migliori battaglieri o i gentili uomini , oi villani ,
o quellino che nel campo dimorano, ciò sono ei lavoratori. Nel quale insegna
ch’elli è grande utilità ai baltaglieri chedellino sieno bene esercitati
all'arme; e che l’uomo die ei battallieri apprendare a correre ed a saltare ed
andare ordinatamente. Nel quate insegna ched e’si conviene appréndare ai
battaglieri molte altre cose che quelle che sono dette, cioè a córrare ed
assaltare ed andare ordinatamente. Nel quale insegna che l’uomo die fare nell’oste
fossati e castelli. Ed insegna questo capitolo come l’uomo die fare ei castelli
e quante cose l’uomo die guardare in farli. Nel quale dice quante cose l’uomo
die guardare quand’elli vuole o die imprèndare battaglia comune. Nel quale dice
ch’elli è grande utilità ne le battaglie di portare bandiere e gonfaloni: e che
l’uomo die ordinare capitano e maggiore a ciascuna ischiera. E so - nemici migliantemente
questo capitolo insegna quali debbono essere e banderari e i capitani di quelli
a piè e di quelli a cavallo. Nel quale dice che avvedimenti die avere e che die
fare il signore dell’oste acciò che la sua gente non possa essere gravata dai
nemici per la via. Nelquale dice come l’uomo die ordinare le schiere e le
battaglie, quando l’uomo si die combattere contra I Nel quale insegna che
l'uomo die ferire il suo nemico nello battaglia di puntone e non di ramata. Nel
quale dice quante cose fanno gli avversari più forte che quelli dell’oste é
come l’uomo die assalire ei suoi nemici. Nel quale insegna come ei battallieri
si debbono tenere quando vogliono ferire ei loro nemici, e com’ellino ei
debbono inchinare e come l'uomo si die trarre in drieto quando la battaglia non
porta utilità. Nel quale insegna quante maniere ei sono di battaglie; e in
quanti modi l’uomo può prendare le città e le castella ed in che tempo l’uomo
le die assediare. Come quelli dell'oste si debbono fornire e come l'uomo può
vénciare le castella per cava. Come per l’ingegni del legno che l'uomo può
menare al muro del castello, l’uomo lo può prendare. Come l’uomo può e die
edificare le castella acciò ch'elle non sieno leggermente prese ně come l'uomo
può e die guérnire le castella acciò ch'elle non possano esser prese. Nel quale
dice come quelli che sono nel castello assiso possono e debbonsi difendersi da
la cava e dai tra bocchi e dalli altri ingegni che quellino dell'oste vi fanno.
Come l'uomo die fare le navi, e come l'uomo si die combattere nell'acqua o nel
mare, da che cosa tutte le battaglie debbono essere ordinate assediate. Che
cosa è una virtù che l’uomo chia ma piacevolezza, cioè di sapere CONVERSARE
piacevolmente con le genti, e in che cose la detta virtù die essere, e che si
conviene che i re e i prenzi sieno piacevoli. Appresso ciò che noi avemo detto
che cosa è debonarietà, noi diremo d’un'altra virtù, che l’uomo chiama
piacevolezza. E dovemo sapere che le opere e le parole dell'uomo sono ordinate
a tre cose, si come ad avere piacevolezza e verità, ed avere diletti e giuochi
nei solazzi e nelle allegrezze. LA PRIMA RAGIONE: E la piacevolezza si è, in SAPERE
BENE CONVERSARE, unde quelli che sa onorare e riverire gli uomini convene
volmente e secondo ragione, si à la virtù della piacevolezza. La SECONDA
ragione si è , che le opere e le parole dell’uomo sono ordinate sie a verità che,
per le opere e per le parole dell'uomo può l'altro uomo conosciare chi egli è
(“Conversation maketh the man”). Donde, verità non è altro se non che l'uomo
non sia vantatore e che nè per parole nè per fatti elli non dimostri maggior
cosa in lui che vi sia, nè che l'uomo non si faccia ispiacevole nè per parole
nè per fatti oltre quello che ragione insegna, perchè elli sia gabbato ne
dispregiato. La TERZA RAGIONE a che l'opere e le parole dell'uomo sono
ordinate, si è, acciò che l'uomo sia sollazzevole convenevolmente, e si sappia
bene portare nei giochi, e nelle allegrezze e nei sollazzi . Donde, se l'uomo
vuole CONVENEVOMENTE CONVERSARE e' die essere giochevole e piace vole e
veritiere. E di queste tre virtù noi diremo partitamente, ma prima diremo della
piacevolezza. E dovemo sapere che, NEL CONVERSARE, alcuni si mostrano troppo
piacevoli, si come sono e lusinghieri, e quelli che’n ogne cosa vogliono
piacere altrui, che acciò che piacciano altrui, si lo dano tutti ei fatti è
tutti ei detti di ciascuno uomo. E alcuni sono, che anno troppo gran difalta
NEL CONVERSARE co le genti, si come sono ei malvagi e quellino che sono
battaglieri, e tenzonieri; e questi fanno contra a ragione. Chè neuno die
volere essere si piacevole nè si compagnevole, ch’elli ne do venti o ne sia
lusinghieri, e piacere a tutti gli uomini, nė neuno die essere si pieno di
contenzione e di noia, che li con venga cessare della compagnia delli uomini, ma
quelli è da lodare che si sa mezzanamente portare e secondo ragione, nel
CONVERSARE. Donde la virtù che l’uomo chiama piacevolezza cessa la contenzione
dell'uomo e tempera il lusingare, e quello per lo quale l'uomo vuole a tutti
gli uomini piacere. E perciò che l'uomo è per natura compagnevole, si come dice
il filosafo, si conviene dare una virtù per la quale ne le parole e nei fatti
sappia CONVERSARE COOPERATIVAMENTE E convenevolmente e secondo ragione. E
questa virtù che l'uomo chiama piacevolezza, tutto sie cosa che, tutti quelli
che vogliono essere piacevoli e vivare in cooperazione, compagnia ed in
comunità con l’altro, conviene ch'elli abbiano, acciò che siamo cortesi e
piacevoli, non perciò debbiamo essere si cortesi ne si piacevoli ad uno come un
altro: chè la dritta ragione insegna, che, secondo la diversità dei due
conversatori, l'uomo si die portare in maniera appropriata con l’altro. E
perciò che troppa amistà e troppa gran compagnia mostrare ad ogni uomo fa
l’uomo ispiacevole e vile; il gentile uomo si debbe più alteramente contenere
che l’altro, acció che l'uomo lor porti più onore e più reverenza, e che la dignità
de la loro grandezza non sia abbassata nè avvilata. Donde il filosafo dice che
i re e i prenzi debbono mostrare ch’ellino sieno persone degne d’onore e di
reverenza. Chè si come noi vedemo che alcuna vianda fuôra soperchio a uno
infermo che non basterebbe ad uno sano, cosi è nell'essere piacevole e cortese,
che alcuna piacevolezza s’aviene a’re secondo ragione, che non s’aviene cosi ad
un’altra persona comune. L’Enciclopedia italiana cura l’edizione critica del “Il
regime del principe”, testimoniato da
nove manoscritti, tra cui il codice della Biblioteca di Firenze (sig, che si
distingue sia per motivi cronologici (nell’explicit reca la data) sia per la
veste linguistica, in prevalenza senese, verosimilmente molto vicina a quella
dell’originale, ciò che lo rende un documento di lingua privilegiato rispetto
alle coeve attestazioni di varietà toscane non fiorentine tra fine Due- e
inizio Trecento. L’opera discende dal “Il regime del principe”, composto da
Colonna filosofo tra i più autorevoli della sua epoca, nato a Roma. Dedicato a
un principe, di cui Colonna fu tutore e ispirato alla Retorica, la Etica, e la
Politica di Aristotele, esuddiviso in tre libri concernenti la “morale», ossia
l’etica (disciplina dell’individuo), l’oeconomia (della casa), e la politica
(della città o reame o villa) - è il più corposo trattato basso-medievale sul
regime del ‘gentile uomo’ ed ebbe non solo una straordinaria fortuna in Italia
fino a tutto il XV secolo come elogio della cavalleria. Esercita una notevole
influenza sul Convivio, sul “De vulgari eloquentia” e sulla “Monarchia” di
Alighieri. “E lasciando lo figurato che di questo diverso processo dell’etadi
tiene Virgilio nello Eneida, e lasciando stare quello che Egidio eremita [il
filosofo appartenne all’Ordine degli Eremitani di Sant’Agostino ne dice nella
prima parte dello Regime del Gentile Uomo. L’ampia Introduzione, oltre a
tracciare il profilo biografico di Egidio illustrando contenuto, fonti e storia
della ricezione del suo capolavoro, esamina nei dettagli il debito di Alighieri,
la fortuna figurative o iconografica del trattato (l’affresco giottesco della
Cappella degli Scrovegni di Padova, precisamente nella Virtù; l’Allegoria ed Effetti
del Buono Governo realizzata da Lorenzetti a Siena, specie nella particolare
raffigurazione della giustizia commutativa e la giustizia distributiva alla
sinistra dell’affresco -- i rapporti tra il De regime e il Livre dou
gouvernement (una drastica riduzione non sempre perspicua, di cui sono noti
trentasei manoscritti) e tra questo e il Livro del governamento, la prima
traduzione, pur parziale, di opere che solo successivamente furono volgarizzate
nella loro interezza, ad opera di un anonimo senese, come avevano già
ipotizzato, tra gli altri, Segre e Castellani. Inoltre si auspica - e intanto
s’imposta in modo acuto e pregnante - un commento dedicato alle fonti del
“Regime”, ormai indispensabile alla luce della ri-valutazione della filosofia
nel vernacolare tra Medioevo e Rinascimento portata avanti dalla bibliografia
più recente. Grazie infatti agli studi degli ultimi due decenni, siamo oggi più
informati sui modi in cui la cultura vernacolare interagì con quella antica,
bolognese, tradizionalmente ritenuta ‘più alta’, e sul diverso pubblico,
dichiarato o reale, cui si indirizzava la trattatistica filosofica dei secoli
dal XIII-XIV in avanti. Infine, si passano in rassegna le altre versioni del De
regimine (quella senese è bensì la più antica, ma non l’unica: se ne conoscono
almeno altre cinque). Nella parte prima della Nota al testo si dà conto
della tradizione manoscritta dei testimoni completi e dei testimoni parziali
(descrizione esterna, descrizione interna, bibliografia), offrendo dati
preziosi sulla tradizione a stampa del De regimine e sulle edizioni del
Governamento. Nella parte seconda si indicano i criterî di edizione e gli usi
del copista. L’appendice prima alla Nota al testo raccoglie le aggiunte
inter-lineari e marginali al Governamento del manoscrito fiorentino, mentre in
una seconda appendice si riportano alcune annotazioni sulle relazioni fra i
testimoni del Governamento. La prima e fondamentale caratteristica della tradizione
è che tutti i mss. paiono al tempo stesso testimoni molto vicini tra loro tanto
che è dimostrabile la presenza di un archetipo a monte della tradizione, ma non
per questo facilmente classificabili nei loro rapporti reciproci,
principalmente perché spesso contaminati dal ricorso alla versione nella lingua
antica. Il secondo volume è interamente dedicato allo spoglio linguistico
sistematico sull’intero testo, tendente per quanto possibile «all’esaustività
delle allegazioni per ciascuna forma»: grafia, fonetica, morfologia,
sintassi. Chiudono il volume un ricco repertorio bibliografico e gl’indici
onomastico, toponomastico, dei nomi e dei manoscritti. Grice: “Poor Ockham is known as Ockham – god knows,
but he is not telling, what his surname was, if any! On the other hand, the
rather pompous Romans have Egidio as a ‘Colonna,’ even if, as the Treccani notes, ‘the links with the
Roman family are unclear’!” -- Romano: Egidio
Romano, arcivescovo della Chiesa
cattolica Filip4 Gilles de RomeEgidio Romano e Filippo il Bello (miniatura di
un codice medievale). Template-Archbishop.svg Incarichi ricopertiArcivescovo
di Bourges Nato tra il 1243 e il 1247, Roma Nominato arcivescovo25
aprile 1295 Deceduto22 dicembre 1316, Roma. Egidio Romano, latinizzato come
Ægidius Romanus, indicato anche come Egidio Colonna (Roma), filosofo. Generale
dell'Ordine di Sant'Agostino. Dopo la sua morte, gli furono tributati i titoli
onorifici di Doctor fundatissimus e Theologorum princeps. Fu
discepolo di San Tommaso d'Aquino all'Parigi, dove più tardi insegnò, prima di
diventare generale degli agostiniani e arcivescovo di Bourges (1295). Fu
inoltre il precettore di Filippo il Bello per il quale scrisse il trattato De
regimine principum, sostenendo l'efficacia della monarchia come forma di
governo. -- è considerato tra i
più autorevoli teologi di ispirazione agostiniana, attivo anche nella vita
intellettuale e politica in un contesto culturale ed istituzionale travagliato
da frequenti ed aspre polemiche sul problema del rapporto tra potere temporale
e potere spirituale. Questo filosofo è generalmente ricordato, insieme al prediletto
allievo Giacomo da Viterbo, per il contributo nella redazione della celebre
bolla Unam Sanctam del 1302 di Papa Bonifacio VIII e per il ruolo significativo
che assunse il Maestro degli Eremitani di Sant'Agostino quale autore del De
Ecclesiastica potestate e, dunque, quale teorico famoso e autorevole della
plenitudo potestatis pontificia. In Egidio Romano rileviamo subito una
compresenza del duplice atteggiamento dottrinale e politico; infatti è
possibile rintracciare, fra le opere giovanili, il De regimine principum, opera
scritta per Filippo il Bello e di ispirazione aristotelico-tomista inerente
alla naturalità dello Stato, erigendola a difensore della potestas regale. Nel
De Ecclesiastica potestate, invece, Egidio Romano afferma la superiorità del
sacerdotium rispetto al regnum, distinguendosi quale rappresentante della
teocrazia papale. La riscoperta di Aristotele e l'agostinismo politico In
seguito alle condanne di Étienne Tempier. Colonna difende la tesi di Tommaso,
per la sua qualifica di Baccalaureus formatus, ma, proprio a causa delle
condanne stesse, viene sospeso dall'insegnamento. In quegli anni, gli avversari
del papato trovano nel pensiero di Aristotele gli strumenti per svolgere
un'analisi politica che metta in discussione la sacralità del potere.
Dall'altra parte troviamo l'influenza della corrente speculativa
dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno, tipicamente medioevale, di
compenetrazione fra Stato e Chiesa, all'interno del quale Agostino viene a
giocare un ruolo fondamentale dal momento che l'apporto teorico del suo De
Civitate Dei conduce a confusioni inevitabili fra il piano spirituale della
Civitas Dei Caelestis e il piano temporale della vita terrena che è Civitas
Peregrina), che ripropone la teoria delle “due città” e riafferma la
superiorità del sacerdotium rispetto al regnum, costituendo un vero e proprio
“partito del Papa”. Egidio rivendica la Plenitudo potestatis come
proprietà costitutiva dell'auctoritas del Papa in quanto homo spiritualis.
Egidio sostituisce al concetto agostiniano di ecclesia, quello di regnum al
fine di estendere gli ambiti del potere del sovrano ecclesiastico. Il sovrano
ecclesiastico (il Papa) dovrebbe esercitare la sua sovranità anche sul potere
temporale al fine di garantire l'ordine mediante una forma di dominium che
coincida con la sua stessa missione spirituale. Opere:Frontespizio delle
In secundum librum sententiarum quaestiones L'edizione critica dell'opera omnia
è stata intrapresa, per Leo S. Olschki, (Aegidii Romani opera omnia, collana
Corpus Philosophorum Medii AeviTesti e Studi), dal gruppo di ricerca di
Francesco Del Punta. Quaestio de
gradibus formarum, Ottaviano Scoto (eredi), Boneto Locatello, 1502. In secundum librum sententiarum
quaestiones, 1, Francesco Ziletti,
1581. In secundum librum sententiarum
quaestiones, 2, Francesco Ziletti,
Opere, Antonio Blado, In libros De physico auditu Aristotelis commentaria,
Ottaviano Scoto (eredi), Boneto Locatello, 1502. De materia coeli, Girolamo Duranti,
Quodlibeta, Domenico de Lapi. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. 3 dicembre . Roberto Lambertini, Giles of Rome, in
Edward N. Zalta , Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of
Language and Information (CSLI), Stanford, .
Charles F. Briggs e Peter S. Eardley , A Companion to Giles of Rome,
Leiden, Brill, . Silvia Donati, Studi per una cronologia delle opere di Egidio
Romano: I. Le opere prima: I commenti aristotelici. "Documenti e studi
sulla tradizione filosofica medievale", Gian Carlo Garfagnini, Egidio
Romano, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, . Francesco Del Punta-S. Donati-C. Luna, Egidio
Romano, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Filippo Cancelli, Egidio Romano, in Enciclopedia dantesca, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Papa Bonifacio VIII Teocrazia Altri progetti
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Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Egidio Romano Egidio Romano, su TreccaniEnciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Ugo Mariani, Egidio Romano, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Egidio Romano, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. su ALCUIN, Ratisbona. Opere di Egidio Romano, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. su Egidio Romano, su Les Archives de littérature du Moyen Âge.
Egidio Romano, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. David M.
Cheney, Egidio Romano, in Catholic Hierarchy. Roberto Lambertini, Giles of
Rome, in Edward N. Zalta , Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the
Study of Language and Information (CSLI), Stanford. Biografia a cura
dell'associazione storico-culturale S. Agostino, su cassiciaco. Predecessore
Arcivescovo metropolita di BourgesSuccessoreArchbishopPallium PioM.svg Simone
di Beaulie u25 aprile 1295 22 dicembre 1316 Raynaud de La Porte. Egidio Romano.
Egidio Colonna. Keywords: conversazione cortese, conversazione gentile, padre/figlio,
amore naturale, principe, cavalleria, cavaliere, cavalier attitude, cavalier
implicature. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Colonna” – The Swimming-Pool Library.
COLONNELLO (Benevento).
Filosofo. Grice: “I like Colonnello; as a typical Italian philosopher, he has
philosophised about ‘all,’ from, first, of course, Croce, to the ‘tedesci’! –
But also about ‘guilt,’ and my favourite, the ‘transcendentale,’ which in
Italian, for lack of ‘n’ becomes ‘trascendentale’ – how many? Colonnello thinks
more than one, if the plural is of any guide!”
Insegna a Callabria. Privilegia l'arco tra criticismo trascendentale e fenomenologia,
esistenza, ermeneutica di Pareyson, storicismo di Croce, Nicol, Dussel. La sua
proposta è verificare l'interazione, in chiave storico-critica, del kantismo,
della fenomenologia e la filosofia dell'esistenza. Altre opere: “Esistenzialismo kantiano” (Studio
Editoriale di Cultura, Genova); “Croce e i vociani” (Studio Editoriale di
Cultura, Genova); “Tempo e necessità” (Japadre, L'Aquila-Roma); “Tra
fenomenologia e filosofia dell'esistenza” (Morano, Napoli); “Ermeneutica
esistenzialista del concetto di ‘colpa” (Loffredo, Napoli); “Percorsi di
confine: esistenza e libertà” (Luciano, Napoli); Croce (Bibliopolis, Napoli);
“Ragione e rivelazione” (Borla, Roma); “Melanconia ed esistenza” (Luciano,
Napoli); “Storia esistenza liberta. Rileggendo Croce, Armando, Roma); Martin Heidegger e Hannah Arendt, Guida,
Napoli); “Orizzonte del trascendente e dell’immanente, Mimesis, Milano);
“Inter-soggettivita riflessiva” L’itinerario dei corpi” (Mimesis, Milano). Corpo, mondo, Fenomenologia (Mimesis, Milano);
Fenomenologia e patografia del ricordo, Mimesis, Milano-Udine). Grice: “I used
‘body’ informally in my ‘Personal identity’, where I suggested, that “I fell
down the stairs” could be replaced by “MY body fell down the stairs” – there is
yet an essential indexical. Different if two wrestlers unison say, ‘Both our
bodies are oiled” – where again the dual “both our” is used. We have not the
second person but the FIRST PERSON dual. “Our bodies” “Both our bodies”. Pio
Colonnello. Keywords: rivista La Voce, Croce e i vociani, patografia, German
for ‘body’ Lieb, cognate with ‘life’ so that ‘Das Leib ohne Leben’ would be
odd. The Anglo-Normans solved the problem with ‘corpse’, corpus, vita, corpore,
vita, vivere, German ‘leben’, ‘live’ meaning with ‘remain’, creature construction,
thing, living thing, living body, personal human living being. Bodily movement.
Method in philosophical psychology, manifestation in behaviour, bodily
behaviour, brain state, different from bodily movement --. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Colonnello” – The Swimming-Pool Library.
COLORNI:(Milano).
Filosofo. Grice: “To understand the passion in Italian philosophy, as the
passion I experienced with Austin in the postwar and with Hardie on the
golfcourse in the good old days, one has to understand Colorni – he was a
socialist, and thus an empiriociritic! He found opposition in the Gentileians.
Oddly, Colroni’s main interest is the ‘monad,’ but he also explored what we
would at Oxford call ‘science’ – rather than philosophy. Lay the blame on his tutor
at Milano!”. Promotore del federalismo europeo. Mentre era confinato a
Ventotene, su saggio, “Manifesto per un’Europa libera e unita”. Figlio di Alberto
Colorni, di Mantova, e Clara Pontecorvo, milanese di famiglia pisana (zia di Pontecorvo,
del regista Gillo, del genetista Guido e del giurista Tullio Ascarelli). Studia al ginnasio di Milano. Si appassiona
al Breviario di estetica di Croce. La sua formazione adolescenziale, come
raccontò egli stesso nella “Malattia filosofica”, fu influenzata dal rapporto
intrattenuto con i cugini Enrico, Enzo ed Emilio Sereni, tutti più grandi di
lui. Fu Enzo, che era un convinto socialista
ad esercitare su di lui una forte influenza ideale. Studia sotto Borgese
e Martinetti. Si laurea sotto Martinetti con “Il concetto di individuo”. Strinse
amicizia con Guido Piovene, che però verrà interrotta per via di certi articoli
anti-semitici scritti da Piovene su L'Ambrosiano. Partecipa nel gruppo
goliardico per la libertà di Basso e
Morandi. Saggio sull'estetica di Roberto Ardigò. Si accosta alla divisione
milanese del “Giustizia e Libertà”. Collabora in seguito col nucleo giellista
torinese, che fece capo prima a Ginzburg e poi a Foa. Incontra Croce, con
il quale conversa a lungo. Saggi per Il Convegno, La Cultura, Civiltà
Moderna, Solaria e la Rivista di filosofia di Martinetti, e presso la società
editrice "La Cultura" di Milano, uno studio critico su L'estetica di
Croce. Saggio sulla monada e la diada, vinse il concorso per
l'insegnamento di storia e filosofia nei licei. Dopo una prima assegnazione al
liceo Grattoni di Voghera, ottenne la cattedra di filosofia a Trieste. Qui
conobbe e frequentò, fra gli altri, Saba (ritratto poi in Un poeta) ed anche Gambini,
Pincherle ed Curiel. Nella collana scolastica che Giovanni Gentile
diresse per Sansoni, pubblica “Diadologia”. La diadologia lo costrinse ad
affrontare studi di logica e semantica. Riparte da Kant e dalla problematica
kantiana, e medita sulle conseguenze che la fisica quantica e la psicanalisi
potevano avere per la dissoluzione di impostazioni filosofiche tradizionali. Quando,
come si legge in Un poeta,Saba gli domanderà, ‘Perché fa filosofia?’, Colorni
concluse che da quel giorno, ‘io non faccio più filosofia’. Non e la filosofia
che rifiuta, ma un orientamento legato a quell'idealismo di cui erano seguaci Croce
come Gentile e Martinetti. In occasione di un congresso di filosofia a Parigi,
incontra Rosselli eTasca. In quanto ebreo e rinchiuso a Varese. I giornali
pubblicarono la notizia con gran risalto, sottolineando che egli “di razza
ebraica, manteneva rapporti di natura politica con altri ebrei residenti in
Italia e all'estero”. La sottolineatura
sul “complotto ebraico” serviva a giustificare la legislazione anti-semita
appena varata in Italia dal regime, per potersi così allineare alla linea
politica seguita dagli alleati nazisti. Confinato a Ventotene, dove prosegue i
suoi studi filosofici, e conversa intensamente con gli altri compagni
confinati, Rossi, Doria e Spinelli. Un'eco fedele di quelle discussioni si
ritrova in “Conversazioni di Commodo”. Risale a questo periodo la sua adesione
alle idee federaliste europee, stesurando il Manifesto per un’Europa libera e
unita. Saggio: Problemi della Federazione Europea, che raccoglieva il Manifesto
ed altri scritti sul tema. Nella sua "Prefazione" al Manifesto,
auspicò la nascita di una politica federalista europea di respiro “universalista”,
come scenario democraticamente praticabile dopo la catastrofe della guerra. In
tale ottica, la creazione di una federazione di stati europei era da lui
considerata come condizione indispensabile per un profondo rinnovamento
sociale, anche per iniziativa popolare, che partendo dagli enti territoriali
avrebbe coinvolto tutta l’Italia e, quindi, l’intera Europa. Circa le dinamiche
che portarono alla stesura del Manifesto, è generalmente ricondotto ai soli
Spinelli e Rossi il contributo maggioritario del testo, sebbene, alcuni recenti
studi storiografici, abbiano seriamente rivalutato il suo ruolo. Di trinità si
tratta, e lo spirito santo della situazione è lui, che partecipa alle
discussioni preparatorie alla stesura del Manifesto assieme a poche altre
persone, ed ebbe una parte di rilievo, soprattutto nella funzione di stimolo e
di critica, dal suo punto di vista di socialista autonomista, verso i due
autori del documento, fino al suo trasferimento a Melfi, benché comunque i
contatti non cessassero del tutto. Grazie anche all'intervento di Gentile,
riusce ad essere trasferito a Melfi, in provincia di Potenza, dove, nonostante
lo stretto controllo della polizia, riusce ad avere contatti con alcuni degli
anti-fascisti locali. Assieme con Geymonat, elabora il progetto di una
rivista di metodologia scientifica. Riuscì a fuggire da Melfi,
rifugiandosi a Roma, dove visse da latitante. Dopo la capitolazione di Mussolini
si dedica all'organizzazione del Partito Socialista Italiano di Unità
Proletaria, nato dalla fusione del PSI col gruppo del Movimento di Unità
Proletaria. Partecipò, assieme a Spinelli, Rossi, Doria, Braccialarghe e
Foa, in casa di Rollier a Milano, alla riunione che diede vita al Movimento
Federalista Europeo. Il movimento adottò come proprio programma il
"Manifesto di Ventotene". Svolse nella capitale un'intensissima
attività nelle file della Resistenza. Prese parte alla direzione del PSIUP e
s'impegna a fondo nella ricostruzione della Federazione Socialista Italiana e
nella formazione partigiana della prima brigata Matteotti. “Io ero da
poco stato nominato segretario della Federazione Socialista per suggerimento e
per decisione di Pertini, che era membro della segreteria del partito in
quell'epoca. Avevamo organizzato una chiamiamola brigata, anche se era un
gruppo armato che era comandato da Colorni che poi è assassinata alla vigilia della liberazione di
Roma. Fu redattore capo dell'Avanti! Clandestine. Così Pertini ricorda il suo
impegno per la stampa del giornale socialista: «Ricordare l'Avanti!
clandestino di Roma vuol dire ricordare prima di tutto due nostri compagni che
a forte ingegno unevano una fede purissima, entrambi caduti sotto il piombo
fascista: Colorni e Fioretti. Ricordo come Colorni, mio indimenticabile fratello
d'elezione, si prodiga per far sì che l'Avanti! uscisse regolarmente. Egli in
persona, correndo rischi di ogni sorta, non solo scrive gli articoli
principali, ma ne cura la stampa e la distribuzione, aiutato in questo da Fioretti,
anima ardente e generoso apostolo del socialismo. A questo compito cui si sente
particolarmente portato per la preparazione e la capacità della sua mente, Colorni
dedica tutto se stesso, senza tuttavia tralasciare anche i più modesti
incarichi nell'organizzazione politica e militare del nostro partito. Amava
profondamente il giornale e sogna di dirigerne la redazione nostra a
Liberazione avvenuta e se non fosse stato strappato dalla ferocia fascista, sarebbe
stato il primo redattore capo dell'Avanti! in Roma liberata e oggi ne sarebbe
il suo direttore, sorretto in questo suo compito non solo dal suo forte ingegno
e dalla sua vasta cultura filosofica, ma anche dalla sua profonda onestà e da
quel senso del giusto che ha sempre guidato le sue azioni. Per opera sua e di Fioretti,
l'Avanti! era tra i giornali clandestini quello che aveva più mordente e che
sapeva porre con più chiarezza i problemi riguardanti le masse lavoratrici. La
sua pubblicazione veniva attesa con ansia e non solo da noi, ma da molti
appartenenti ad altri partiti, i quali nell'Avanti! vedevano meglio interpretati
i loro interessi. Nella Roma occupata dalle forze naziste, in una tipografia
nascosta di Monte Mario, fece stampare 500 copie di un libriccino di 125 pagine
intitolato Problemi della Federazione Europea, contenente il "Manifesto di
Ventotene". Il 28 maggio del 1944, pochi giorni prima della
liberazione della capitale, venne fermato in via Livorno da una pattuglia di
militi fascisti della famigerata banda Koch. Tenta di fuggire, ma fu raggiunto
e ferito gravemente da tre colpi di pistola. Trasportato all'Ospedale San Giovanni,
muore sotto l’identità di ‘Franco Tanzi’. Indomito assertore della libertà,
confinato durante la dominazione fascista, evadeva audacemente dedicandosi
quindi a rischiose attività cospirative. Durante la lotta antinazista,
organizzato il centro militare del Partito Socialista Italiano, dirigeva
animosamente partecipandovi, primo fra i primi, una intensa, continua e
micidiale azione di guerriglia e di sabotaggio. Scoperto e circondato da
nazisti li affrontò da solo, combattendo con estremo ardimento, finché travolto
dal numero, cadde nell'impari gloriosa lotta. Tre lapidi esistenti, una, posta
nel 1982 dalla III Circoscrizione del Comune di Roma è semilleggibile perché
scurita dal tempo, un'altra, posta nel 1978 dal Partito Socialista Italiano, è
spaccata in due e un'ultima, posta nel 2004 sempre dalla III Circoscrizione del
Comune di Roma, contiene un errore. Foto delle tre lapidi. Altre opere: “Scritti, Norberto Bobbio, la
Nuova Italia, Firenze); “Il coraggio dell'innocenza, Luca Meldolesi, La Città
del Sole (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Napoli); “Un poeta” (Il
Melangolo, Genova); “La malattia della metafisica” (Einaudi, Torino).
Dizionario Biografico degli Italiani. L'itinerario politico di Eugenio Colorni,
in Id., Il socialismo riformista tra politica e cultura, Il socialismo
federalista di Eugenio Colorni, tesi di laurea, Università degli studi di Firenze,
Anno Accademico, Gaetano Arfé, Eugenio Colorni, l'antifascista, l'europeista,
in , Matteotti, Buozzi, Colorni. Perché vissero, perché vivono, Franco Angeli,
Milano, Sandro Gerbi, Tempi di malafede. Una storia italiana tra fascismo e
dopoguerra. Guido Piovene ed Eugenio Colorni, Einaudi, Torino e Hoepli, Milano,
. Geri Cerchiai, L'itinerario filosofico di Eugenio Colorni, in «Rivista di
Storia della Filosofia», Stefano Miccolis, Colorni e Croce”. Talvolta non si
distingue debitamente fra l’emergere originario di un testo nell’opera di un
filosofo e il suo riemergere, o diffondersi, in altri tempi o contesti. In tal
modo, proprio la tragedia del Novecento ha spostato spesso, rispetto alla
composizione, la diffusione di scritti intrisi di attualità. Poche volte, come
nel Novecento, è stato così vistoso il fenomeno delle letture differite. Ora, e
al di là della nota di polemica che affiora da un montaggio tendenzioso fino al
limite delle falsificazione – questo è quanto è all’incirca avvenuto per Colorni:
scoperti (o riscoperti), dopo la morte dell’autore, in quel particolare
contesto del quale si sono nutrite le due stesse riviste, “Analisi” e “Sigma” –
che, insieme con «Aretusa», li hanno per prime pubblicati, a tale contesto sono
rimasti giocoforza legati, venendo così ad essere proiettati all’interno di una
tradizione e di un dialogo almeno parzialmente diverso dal loro, condotto in un
altro linguaggio. Si è parlato, a proposito di tale linguaggio, dello spirito
del ’45, e sovente si è visto in esso, da parte degli stessi animatori, una
vera e propria prosecuzione, in campo culturale, delle istanze portate avanti
dalla Liberazione. Alla “dittatura dell’idealismo”– il cui [Razionalismo e
prassi a Milano: La cultura milanese vive profondamente quello “spirito del
’45” fatto anche di semplificazione e di attivismo, di fiducia ingenua
nell’anno zero, nella svolta politico-sociale in corso, ma soprattutto di un
nesso inscindibile con la liberazione e la Resistenza. La dittatura dell’idealismo
è il titolo dato da Cantoni ad un articolo apparso sul Politecnico di Vittorini.
Espressione di un comune sfondo sociale e di una comune struttura economica, le
filosofie di Croce e Gentile si sarebbero unite, nella prospettiva di Cantoni,
in una sorta di convergenza sociologica con il regime, riuscendo così a
rimediare una posizione di singolare monopolio per la cultura idealista.
Certamente, e una grossolanità speculativa e un errore storico identificare il
destini del fascismo col destino dell’idealismo, anche se questa identificazione
di fatto si verifica nella persona del maggior rappresentante filosofico dell’idealismo
italiano, Gentile. In realtà, molti idealisti, dal Croce al De Ruggiero,
staccarono, prima o dopo, le loro sorti da quelle del regime. Eppure, al di
sotto della dichiarata e sincera avversione, un filo, inconscio spesso ma
tenace, lega tra loro gli avversari e ne permetteva una, sia pure scomoda,
convivenza. Questo filo era costituito dal loro comune, e inconfessato carattere
*conservatore*. Lo spiritualismo idealista agì come una dittatura logica. Avendo
in mano cattedre e riviste, gli idealisti facevano il bello e il cattivo tempo
nella filosofia, facendo decadere al piano della non-filosofia gli avversari
positivisti ed logico-empiristi. Alcune opinioni sul crocianesimo che, oltre ad
essere meno drastiche, risultano per certi aspetti accostabili ad analoghi
spunti della critica colorniana. Vale la pena di rimettersi a una revisione
intelligente dell'idealismo italiano, rimanendo idealisti] filosofia viene
assimilata alla sorte del regime – si è così tentato di opporre una filosofia
più aperta al dibattito contemporaneo ed internazionale, fosse esso
identificabile con le correnti fenomenologico-esistenziali o con quelle più
strettamente epistemologiche ispirate al positivismo o empirismo logico del
Circolo di Vienna. Quest’ultimo, d’altro canto, viene in Italia presentato da
Geymonat con parole quanto mai indicative del clima che ne accoglieva i principi.
L’indirizzo filosofico, che qui viene esposto difeso e sviluppato è e vuole
essere un vero e proprio razionalismo, sebbene non attribuisca alla ragione un
valore assoluto e dogmatico come gli antichi indirizzi che vantano il medesimo
nome. Gli è che il razionalismo deve essere ben più agguerrito e penetrante di
quelli che caratterizzarono i secoli passati. Deve essere: critico, ossia
capace di tenere nel dovuto conto le obiezioni mosse contro la pura ragione dalla
filosofia mistica e decadente; costruttivo, cioè in grado di soddisfare le
esigenze di ri-costruzione e di logicità caratteristiche della nuova epoca;
aperto, cioè capace di affrontare i problemi sempre nuovi che la scienza e la
prassi pongono innanzi allo spirito umano. Gli Studi per un nuovo razionalismo,
che raccoglievano le ricerche di un intero ventennio (il testo più datato, Le
idee direttive del neo-empirismo, era stato pubblica Ciò che si può apprezzare
in Croce, da questo punto di vista, è il suo tentativo di sciogliere il pensiero
dai legami colla filosofia metafisica per avvicinarsi a una filosofia intesa
come chiarificazione dell’esperienza, intesa cioè come trapasso dalla
metafisica alla metodologia. Croce si sarebbe in tal modo inserito nella corrente
più viva della filosofia, non riuscendo tuttavia (e in questo consisterebbe il
suo maggior limite) a rompere completamente i ponti con la metafisica
specuativa. Croce non ha quindi tanto combattuto la metafisica speculativa
quanto sostituito alla metafisica trascendente la metafisica immanente. Per una
ricostruzione più esaustiva delle diverse posizioni di Cantoni su Croce, si
rimanda a R. Franchini, Remo Cantoni critico di Croce, in C. Montaleone e C.
Sini (a cura di), Remo Cantoni, filosofia a misura della vita, Milano, Guerini,
Cfr. N. Bobbio, Introduzione, in E. Colorni, Scritti, Firenze, La Nuova Italia.
Tra il 1930 e il 1940 avviene la crisi dell’idealismo, cui segue la ricerca di
nuove vie, proprio ad opera della generazione di Colorni. […] le vie battute
per uscire dalla crisi sono soprattutto due: quella che passa attraverso una
riflessione sulle trasformazioni avvenute in seno al sapere scientifico e che
dà origine a una filosofia scientifica, risolutamente anti-metafisica, qual è
il positivismo logico, cui aprono la strada gli studi di Ludovico Geymonat; e
quella che passa attraverso l’esistenzialismo (Abbagnano, il primo Luporini)».
7 L. Geymonat, Studi per un nuovo razionalismo, Torino, Chiantore. Come ha
fatto notare Mario Dal Pra, e a conferma di quanto si scriveva di sopra,
l’accostamento in questo passaggio dei termini “ricostruzione” e “logicità”
sembra diretto a far pensare che «l’avversione alla metafisica del neoempirismo
e l’avversione alla dittatura fascista da parte del movimento di liberazione
abbiano per Geymonat una comune radice» (M. Dal Pra, Il razionalismo critico,
in A. Bausola, G. Bedeschi et al., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi,
Roma-Bari, Laterza. Geri Cerchiai 4 to per la prima volta nel 1935 con il
titolo Nuovi indirizzi della filosofia austriaca), fu significativamente fatto
uscire, nel 1945, con la medesima data di stampa del giorno della Liberazione
di Milano; e in quello stesso mese di aprile apparve il primo numero della
rivista «Analisi» che, come si è accennato, contribuì fra le prime, con la
pubblicazione del frammento intitolato Filosofia e scienza, alla diffusione
dell’epistemologia colorniana9 . Ed è proprio da una lettura di «Analisi» e
«Sigma» che è possibile sommariamente inquadrare il contorno di quel periodo
storico al quale si deve la prima scoperta dell’epistemologia colorniana.
Voluta da Giuseppe Fachini, «Analisi» fu stampata per cinque numeri fino al
1947, mutando il nome, nel corso delle pubblicazioni, in quello di «Analysis».
L’«esperienza personale che io avevo fatto», racconta Fachini circa la nascita
della rivista, mi aveva convinto della necessità di una piattaforma di incontro
interdisciplinare. Allora in Italia mancava qualcosa di simile. La guerra
spezzò agli inizi i miei tentativi. Gli eventi bellico-politici stessi, per
conto loro, mi portarono […] a profonda solidarietà mentale con Livio Gratton. Nacque
così l’idea di «Analysis»: con ambizioni editoriali infantilmente dissonanti
col momento. Trovammo poi nel Buzzati-Traverso un biologo “fisicalista” […] ma
aperto ad ogni esperienza. Tra i “filosofi” professionali (a formazione cioè
tradizionalmente filosofico-letteraria) il Banfi, cui mi ero rivolto, mi indicò
l’allievo suo Giulio Preti, come fornito di interessi e preparazione
fisico-matematica, allora rara nel “filosofo”. Per inciso, ricordo i miei
contatti con un altro giovane “filosofo” con preparazione e interessi analoghi:
Eugenio Colorni10 . I temi portati avanti dalla rivista furono sostanzialmente
due: l’interesse per la metodologia delle scienze – attraverso la quale
indagare la possibilità di un fondamento comune alle diverse discipline – e la
volontà di mantenersi all’interno di un’impostazione strettamente
antimetafisica11. La collaborazione fra 8 In «Rivista di filosofia». Cfr. E.
Colorni, Filosofia e scienza, in «Analisi». D’ora innanzi si indicheranno gli
scritti raccolti in questa edizione col solo titolo seguito dal numero di
pagina. Di «Analisi» e «Sigma», con specifico riferimento alla figura di
Eugenio Colorni, si è occupato M. Quaranta, La “scoperta” di Eugenio Colorni
nelle riviste del secondo dopoguerra. Gli scritti sulla relatività, in G.
Cerchiai e G. Rota (a cura di), Eugenio Colorni e la cultura italiana fra le
due guerre, Manduria-Bari-Roma, Lacaita. “Analysis”: trent’anni dopo,
testimonianza di Giuseppe Fachini, in Analisi. Milano, riletta da M. Quaranta,
con testimonianze di G. Fachini, S. Ceccato, L. Geymonat, L. Gratton, E. Poli,
Bologna, Arnaldo Forni Editore. Aggiunge Fachini, a proposito della sua
formazione, che l’«impulso a uno sforzo collettivo interdisciplinare era sorto
in me dai primi contatti con l’ambiente mentale del neopositivismo logico», ma
che la «soluzione neopositivista, verso cui ero in un primo tempo quasi
costretto, mi si rivelò presto insoddisfacente per l’irrigidimento formale,
verso cui stava avviandosi. Il «periodico», si affermava nel Programma
pubblicato sul primo numero, era «inteso ad offrire un luogo di libera
discussione a quanti abbiano interesse ai problemi di metodologia e di critica
della scienza, nello sforzo di purificare ed universalizzare il
linguaggio Cinque scritti metodologici di Eugenio Colorni 5 scienziati e
filosofi fu uno degli aspetti qualificanti della pubblicazione, ma fu anche
d’impedimento ad un’armonica composizione delle sue diverse anime, concorrendo
in definitiva alla conclusione dell’esperienza: «L’incontro con i fondatori e
la rivista», racconta a questo proposito Silvio Ceccato, avvenne per chiamata
gentile. Io mi trovavo in parabola neo-positivistica o logico-empiristica
discendente. Il filone che cominciava ad interessarmi era ormai piuttosto
quello di P.W. Bridgman e di H. Dingler, comunque un filone operativo. Questo
difficilmente avrebbe permesso una intesa con i due filosofi del gruppo, L.
Geymonat e G. Preti. Una collisione non poteva tardare anche con il più aperto
filosofo ufficiale, Antonio Banfi, più storico, più umanista. Un certo divario
di lavoro si venne a creare anche con gli scienziati in quanto per lo
scienziato di discipline assestate e floride, come la fisica, la biologia,
l’anatomo-fisiologia, etc., la metodologia si può aggiungere come ornamento,
come divertimento. Ma non per me. Così terminate le pubblicazioni di «Analisi»,
la sua eredità venne raccolta, in quello stesso 1947, dalla rivista romana
«Sigma», fondata da Vittorio Somenzi e Giuseppe Vaccarino13. Il periodico – che
riportava il sottotitolo di «Conoscenza unitaria» – si proponeva di riunire,
come si legge nella seconda di copertina, «una limitata quantità di elementi
atti a determinare una concezione unica della conoscenza». La nota di
presentazione della rivista precisava poi i confini all’interno dei quali si
intendevano muovere i curatori: «si va facendo evidente che esaurire la scienza
nel tecnicismo dello specialista è dannoso – non solo ai fini della costituzione
di un sistema unitario della conoscenza scientifica, ma anche nei riguardi
degli stessi progressi tecnici nei singoli settori»14. Da qui specialistico
verso una comune impostazione dei modi fondamentali, pur essi comuni, con cui
si edifica e modifica il sapere scientifico». Unico limite, in tal senso, era
quello di non «travalicare di là dalla metodologia in una sistematica della
scienza [per] fare della metafisica insaputa e inutile» (Il programma, in «Analisi»).
12 “Analysis”: trent’anni dopo, testimonianza di S. Ceccato, in Analisi. Milano
1945. In una lettera a Giuseppe Vaccarino del 3 maggio 1947, Vittorio Somenzi
rilegge la storia di «Sigma» con le parole seguenti: «La rivista è nata con la
modesta intenzione di pubblicare il vecchio materiale tuo, di Colorni e Cotone,
mio. E di esaurirlo coi primi numeri. Poi si è visto che, se non altro dato il
costo della carta e stampa, conveniva pubblicare un tentativo di sintesi
organica, sia pure provvisoria, del tuo – e limitare quello dei due C. e mio a
ciò che poteva avere ancora interesse dal punto di vista filosofico. Infine è
sorta l’idea, con la crisi di Analisi, di prenderne il posto con il programma
serio di Metodo. Già l’impostazione dei primi due numeri ci alienerà le
simpatie dei Castelli, Blanc, Fantappié ecc., ma anche dei Filiasi e Geymonat
(l’interessamento di quest’ultimo è condizionato alla possibilità di una nostra
conversione al materialismo dialettico/razionalista tipo “La Pensée”).
Attualmente spero solo nei Servadio e magari Spirito, Savinio e stop»
(“Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo
Vittorio Somenzi, sez. 3, Attività professionale, 1929-2003, serie 2, Carte di
lavoro non organizzate, 4, Collaborazione con Giuseppe Vaccarino, b. 1,
Vaccarino, 1943-1948. Da ora in avanti, il Fondo sarà abbreviato con la sigla
FS, seguita dall’indicazione dei riferimenti completi d’inventario). 14 La
conoscenza unitaria, in «Sigma». Scriveva Giuseppe Vaccarino a Vittorio Somenzi
il 14 ottobre 1946 riguardo a questa nota: «Rileggendo la tua edizione riveduta
della Conoscenza unitaria penso che possa andare come presentazione anonima,
specie se sarà da Geri Cerchiai 6 avrebbe anche dovuto discendere il
ruolo della ricerca metodologica, che – comprendendo un discorso più largamente
critico-filosofico – avrebbe dovuto fissare le norme dirette ad unificare in
sistema le scienze particolari o la conoscenza in genere. Come «Analisi», anche
«Sigma» ebbe però vita breve, e dopo sei numeri una nota editoriale ne annunciava
la confluenza nella rivista «Methodos». Questo fu dunque lo sfondo culturale
che vide nascere l’interesse per la filosofia colorniana, un interesse che, attraverso
la pubblicazione di alcuni testi del filosofo milanese, richiamava alla
ricostruzione della filosofia empiristica italiana (come la proposta del
ebraico-britannico Ayer a Oxford) come tradizione anti-metafisica e
anti-idealistica e capace di attuare un profondo rinnovamento negli orientamenti
teoretici nazionali. D’altra parte, che il pensiero di Colorni fosse in certa
misura vicino alle posizioni espresse da «Analisi» e «Sigma» è testimoniato,
oltre che dalle singole scelte di politica editoriale delle due riviste, da
quanto raccontato dagli stessi protagonisti: «Ricordo con precisione», ha
scritto ad esempio Fachini sul secondo numero di «Analisi», le conversazioni di
quell’epoca: credo di poter affermare, per esperienza personale, che il
Colorni, giovanissimo sia stato tra i primi italiani di preparazione filosofica
a tentare di accogliere e di comprendere, in modo serio, le nuove affermazioni
epistemologiche. La più gran parte del suo lavoro è inedita: molte pregevoli
cose egli ha lasciato: e forse potrebbe indicarci vie nuove. Gli amici di
«Analisi» auspicano di poter far conoscere in cerchio vasto il suo lavoro, a
vantaggio della ricerca metodologica e in omaggio alla sua memoria Somenzi, a
sua volta, scrivendo a Giuseppe Vaccarino della pubblicazione degli scritti
colorniani su «Sigma», afferma: Per Sigma convinciti che i nostri scritti,
incomprensibili per virtù proprie dalla maggioranza dei competenti, l’hanno irrimediabilmente
“condannata” e che quelli di Colorni sono ancora i migliori che potessimo o
possiamo esibire, oltre che i più vicini al nostro ordine di idee. “Fisica teorica
e filosofia” di Colornimerita senz’altro la pubblicazione sul numero che spero
di riuscire a dedicare a questo argomento19 . Rievocando poi il Progetto di una
rivista di metodologia scientifica – da Colorni discusso fra gli altri con
Ludovico Geymonat durante gli anni della guerra – ante ulteriormente ampliata.
Effettivamente rileggendo il mo testo subito dopo averlo scritto non avevo
avuto una buona impressione. Ma ora mi è piaciuto» (FS, sez. 5, Corrispondenza,
gen. 28, serie 1, Corrispondenza scientifica, gen. 28, 135, Vaccarino Giuseppe,
1946-1948. 15 La conoscenza unitaria, cit., p. 4. 16 F. Cambi, Razionalismo e prassi
a Milano, G. Fachini, Eugenio Colorni, in «Analisi», I, 1945, 2, pp. 105-106.
18 Si tratta di E. Colorni, Critica filosofia e fisica teorica. 19 Lettera di
Vittorio Somenzi a Giuseppe Vaccarino. Alcuni inediti riconducibili a tale
progetto sono presentati in M. Quaranta, La “scoperta” di Eugenio Colorni,
cit., cfr. in part. le pp. 126-130. Per i testi di FS destinati alla rivista
metodologica. Cinque scritti metodologici di Eugenio Colorni 7 cora Somenzi ha
sottolineato nel 1986 come esso corrispondesse «nella sostanza a molte
realizzazioni degli ultimi quarant’anni, da riviste come “Analysis” a collane
di volumi di filosofia della scienza e di storia della scienza quali quelle
impostate a Milano e Torino [dallo stesso] Geymonat e da Paolo Rossi»21 . A
partire da queste premesse, appare evidente come la storia della riscoperta
colorniana nel dopoguerra possa concorrere a gettare luce su alcuni
fondamentali aspetti dello stesso pensiero dell’autore; essa ne evidenzia
difatti la novità di prospettiva e la conseguente, connaturata disposizione a
dialogare coi più avanzati ambienti filosofico-culturali del nostro Paese. Ciò
che tuttavia rende affatto esemplare la filosofia colorniana, concorrendo a fare
di essa un importante «contributo alla comprensione del travaglio della
filosofia italiana al momento del declino della preponderanza idealistica, non
è soltanto la particolare modalità della sua ricezione nella seconda metà degli
anni Quaranta, ma anche la complessiva parabola intellettuale seguita dal
giovane studioso per giungere alle posizioni metodologiche degli ultimi anni.
2. Fonti e maestri Colorni fu allievo di Giuseppe Antonio Borgese e di Piero
Martinetti alla Regia Università di Milano. Nel raccontare della formazione
universitaria del giovane Eugenio, Enzo Tagliacozzo ha scritto a questo
proposito: va ricordata l’influenza che sui suoi studenti ebbe allora una
personalità come quella di Borgese, che Eugenio e compagni chiamavano
scherzosamente G.A. Era uno di quei pochi professori che non disdegnavano
allora di soffermarsi a discutere dopo la lezione con i propri studenti. Altra
influenza determinante per i suoi studenti quella dell’austero Piero Martinetti
che spiegava Kant alle otto del mattino. Martinetti avviava gli studenti al
rigorismo dell’etica kantiana, mentre il brillante G.A., più alla mano,
discuteva di estetica e letteratura comparata23 . I debiti con l’insegnamento
di Borgese, d’altro canto, sono resi espliciti dallo stesso Colorni, che in un
suo curriculum universitario afferma: Durante i miei studi mi sono occupato
specialmente di problemi filosofici ed estetici e, sotto la direzione del Borgese,
ho redatto lavori su L’estetica di Roberto Ardi21 V. Somenzi, Eugenio Colorni
filosofo della scienza, in «Filosofia e società», N. Bobbio, Introduzione, cit., p. VI. 23 E.
Tagliacozzo, L’uomo Colorni, in «Tempo presente». Prosegue poi Tagliacozzo
nella pagina seguente: «Martinetti […] indusse [Eugenio] ad approfondire Kant,
amò Spinoza dopo la prima infatuazione per l’idealismo italiano. E chi in
quegli anni non lesse Croce e Gentile, ma specie Croce? […] Eugenio conobbe
Hegel, ma non fu mai hegeliano. Studiò dal punto di vista filosofico Marx, ma
non fu mai marxista. Dopo un’esercitazione sul positivismo – e si noti
l’influenza borgesiana nell’approfondimento dei problemi estetici – si
indirizzò verso Leibniz» (ivi, p. 54). Geri Cerchiai 8 gò e del positivismo
italiano, L’estetica bergsoniana e L’estetica di Benedetto Croce. Quest’ultimo
studio è stato pubblicato più tardi a Milano dalla casa editrice “La Cultura”24
. Più complesso, e forse maggiormente studiato, è il rapporto di Colorni con
Piero Martinetti, col quale l’autore si laureò nel 1930 su Sviluppo e
significato dell’individualismo leibniziano. Il primo, fondamentale impulso
all’approfondimento di Leibniz25; l’introduzione alla filosofia di Kant26; il
rifiuto del metodo dialettico27; l’urgenza di rinvenire una nuova, diversa
organizzazione del nesso fra individuale ed universale, sono elementi che
stringono Colorni al magistero martinettiano e che risultano fondamentali per
la più generale formazione del filosofo milanese. Al di sotto di tutti è poi
presente l’esigenza di individuare il corretto rapporto fra l’analisi della
realtà e la sua organizzazione sistematica, esigenza il cui movimento e la cui
parabola all’interno della propria maturazione intellettuale sono così
descritte, ne La malattia filosofica, dallo stesso protagonista: 24 Curriculum
vitae di Colorni, s.d., in Archivio Hirschmann, Roma, citato in S. Gerbi, Tempi
di Malafede. Guido Piovene ed Eugenio Colorni. Una storia italiana tra fascismo
e dopoguerra, nuova edizione Milano, Hoepli, pp. 41-42. Cfr.: E. Colorni,
L’estetica di benedetto Croce. Studio critico, Milano, La Cultura; Id., Roberto
Ardigò, in «Pietre», firmato con lo pseudonimo di Carlo Rosemberg; per una
storia di questa pubblicazione rinvio ad A. Vigorelli, Antifascismo tra i
giovani: il caso di “Pietre”, in Eugenio Colorni e la cultura italiana, a cura
di G. Cerchiai e G. Rota, cit., pp. 251-266); lo scritto sul bergsonismo è
tuttora inedito. È lo stesso Colorni, ne La malattia filosofica, a raccontare
come si svolgevano, durante le lezioni di Borgese, le esercitazioni dalle quali
è nato ad esempio lo studio su Croce: «All’università si dà continuamente
battaglia contro Croce. Ogni settimana, uno studente sale sulla cattedra per
discutere coi compagni e col professore […]. Salire anche lui su quella pedana,
gli piacerebbe tanto: ma per che dire? Tenterà, ad ogni modo» (E. Colorni, La
malattia filosofica, p. 26). Sul rapporto fra Colorni e Borgese rimando ad A.
Riosa, Giuseppe Antonio Borgese ed Eugenio Colorni tra letteratura e politica,
in G. Cerchiai e G. Rota (a cura di), Eugenio Colorni e la cultura italiana. Nello
stesso periodo nel quale si laureava Colorni, altri due allievi di Martinetti,
Giovanni Emanuele Barié e Carlo Emilio Gadda, venivano indirizzati dal maestro
allo studio del filosofo di Lipsia. Si veda, a mero titolo di esempio, quanto
lo stesso Martinetti scriveva nel 1926 a Gadda: «Se fra tre o quattro anni Ella
potesse uscire con una bella esposizione di Leibniz (non tema d’avere
concorrenti in questo argomento!) la via dell’università (per storia della
filosofia) Le sarebbe aperta» (Lettera di Piero Martinetti a Carlo Emilio
Gadda, 24 febbraio 1926; in P. Martinetti, Lettere a Carlo Emilio Gadda, a cura
di G. Lucchini, in «I quaderni dell’ingegnere. Testi e studi gaddiani», Cfr.
anche: G. Cerchiai, Due inediti di Giovanni Emanuele su Leibniz, in «Rivista di
storia della filosofia», LIII, 1998, pp. 125-136; Id., Eugenio Colorni lettore
di Leibniz, in Eugenio Colorni e la filosofia italiana, cit., pp. 159-176. 26
Si veda la testimonianza di Tagliacozzo riportata poco sopra. Per il clima nel
quale poteva essere riletto Kant durante le lezioni martinettiane (con
particolare riferimento alle vicende relative a Colorni), si rimanda a S.
Gerbi, Tempi di malafede, cit., p. 39. 27 Una delle poche citazione dirette di
Colorni presenti nel libro sull’estetica crociana rinvia proprio allo scritto
di Martinetti intitolato Il metodo dialettico (in «Rivista di filosofia), là
dove Colorni scrive: «perché, per quale forza o per quale principio questa implicazione
dei contrari debba presentarsi quasi come una generazione dell’uno da parte
dell’altro, è difficile a intendersi. Perché si deve dire che il Non-io, il
quale è, per la sua stessa definizione, inseparabile dall’Io, sgorga, si
svolge, si origina da esso? Che il particolare nasce dall’universale?» (E.
Colorni, L’estetica di Benedetto Croce, cit. p. 11). Cinque scritti metodologici
di Eugenio Colorni. Il problema che lo occupa è sempre il posto, la
collocazione delle facoltà nel mondo dello spirito. A un certo punto, gli
balena la possibilità che questi elementi di cui cercava con tanto accanimento
l’ordine e la collocazione, non patiscano alcun ordine: possano vivere così, separati,
paralleli, autonomi. L’idea lo entusiasma. Gli sembra di avere ora fatto
veramente un passo innanzi. E non pensa più tanto a definire e a ordinare,
quanto a descrivere. Ma questo procedere dovrà pure avere una sua
giustificazione teorica, dovrà pure inquadrarsi in una visione del mondo, avere
un suo nome che termina in -ismo. Pierino [alter ego di Colorni] si butta sui
pluralisti, sugli empiriocriticisti: studia Mach e Avenarius, si addentra nel
labirinto di Leibniz. Su queste basi, si può dire che quello che altrove ho
definito il “problema dell’ordine” divenga, talvolta anche solo per contrasto,
uno dei fili conduttori dell’intera riflessione colorniana: impostato fin da
L’estetica di Benedetto Croce, esso cercherà una prima, instabile sistemazione
nella filosofia di Leibniz, per trovare poi nella rilettura metodologica ed
epistemologica del criticismo kantiano una soluzione – o, come potrebbe dirsi:
dissoluzione – affatto originale. Al fine di seguire il movimento del pensiero
di Colorni da questo punto di vista, può essere utile rileggere le parole
dell’autore stesso. E. Colorni, La malattia filosofica, p. 29; cfr. anche
ibidem, n. 19 del curatore. Di Leibniz dirò in seguito, in questo stesso
paragrafo. Per quanto riguarda l’accenno agli empiriocriticisti, si rimanda a
quanto scritto da Luca Guzzardi nel 2011, il quale, esaminando precisamente la
radice dei riferimenti colorniani a Mach, Avenarius e Schuppe, ne ha
riconosciuto l’origine proprio nell’insegnamento di Martinetti: «Colorni»,
spiega Guzzardi, «aveva potuto trovare una valutazione positiva di questo
pluralismo, nonché delle “filosofie dell’esperienza” di Schuppe, Avenarius e
Mach, nell’Introduzione alla metafisica di Piero Martinetti. D’altra parte, ai
primi del Novecento Martinetti aveva indirizzato allo studio di Mach, Avenarius
e Schuppe, un giovane e promettente allievo, Aurelio Pelazza. Tali
circostanze», secondo Guzzardi, «fanno ritenere», insieme con altre che
dovrebbero essere approfondite, «che l’interesse originario di Colorni per
l’empiriocriticismo sia da collegare a Martinetti e Pelazza» (L. Guzzardi, Lo
specchio della natura. Colorni e la cultura scientifica del suo tempo, in
Eugenio Colorni e la cultura italiana, a cura di G. Cerchiai e G. Rota, cit.,
pp. 177-195, pp. 188-189). Prosegue Guzzardi in queste stesse pagine: «Non solo
Schuppe e Avenarius vengono citati da Colorni nella recensione all’Introduzione
alla metafisica; qui si trova pure accennato fra i meriti di Martinetti “quel
concetto di esperienza pura e obiettiva che egli sembra indicare come via di
uscita dalle difficoltà in cui il pensiero moderno si trova impigliato” – e
l’esperienza pura [reine Erfahrung], attorno a cui Pelazza aveva costruito la
propria presentazione dell’empiriocriticismo, aveva costituito il punto
d’approdo della filosofia di Avenarius» (ivi, p. 189). La recensione Sull’“Introduzione
alla metafisica” di Piero Martinetti si trova ora alle pp. 52-57 dell’edizione
Einaudi degli scritti colorniani. A tutto ciò si può aggiungere che Colorni
accostò all’empiriocriticismo anche la filosofia di Benedetto Croce:
«L’individualismo del Croce […] non è necessariamente in contrasto col suo
idealismo: risolve piuttosto il principio dell’autocoscienza – che è essenziale
all’idealismo – in una coscienza del pensiero nella effettualità del suo
pensare; identifica il punto di partenza soggettivo col suo necessario
correlato oggettivo, l’universale col particolare. In questo senso si avvicina
piuttosto a forme di contingentismo e di empiriocriticismo; e in questo senso
appunto è giustificabile il suo tenersi al dato e partire da esso: in quanto
questo dato non può essere inteso che come uno stato d’animo, un’esperienza che
debba essere vissuta intensamente, e da cui si debba trarre a volta a volta
l’assoluto» (E. Colorni, L’estetica di Benedetto Croce, cit., p. 6). 29 Cfr. G.
Cerchiai, L’itinerario filosofico di Eugenio Colorni, in «Rivista di storia
della filosofia», Geri Cerchiai 10 Nel libretto su Croce, il problema
dell’ordine è inquadrato a partire dalla questione del rapporto fra la
«soprastruttura» 30 dialettica del sistema e l’effettivo valore delle singole
osservazioni: «Ciò che sta sotto l’organizzazione esteriore», scrive Colorni, è
nel crocianesimo il vero sistema, non ancora chiaro e formulato, ma agile e
ricco di molteplici possibilità. Ricercare tale ricchezza sotto un’impalcatura
in gran parte insoddisfacente è il compito che s’impone a chiunque viva quel
pensiero come un’esperienza della propria vita. E seguirne la possibilità di
sviluppo anche di là dalla forma che ha dato a se stessa, ci pare il miglior
omaggio che si possa rendere a una filosofia31 . Se il “metodo
individualistico” così identificato nella filosofia di Croce conduce Colorni a
liberare le singole osservazioni «dall’interpretazione che il Croce stesso ne
ha data allo scopo di adattarle ad un suo schema presupposto di organizzazione»,
per cercare di «renderle di nuovo pure» e «ravvisare» di conseguenza «in esse»
un sistema «non imposto in precedenza, ma derivante e identico coi dati stessi
forniti»32, non può stupire l’interesse teorico nutrito dal filosofo milanese
per il secondo dei suoi “auttori”, ossia per il pensiero di Leibniz.
Quest’ultimo, infatti, pare offrire precisamente la possibilità di chiudere in
un circolo coerente l’analisi empirica del particolare e l’organizzazione
sistematica del tutto. Scrive Colorni: Leibniz […] non parte mai con l’intento
esplicito di costruire un sistema. La sua attività filosofica si presenta a
tutta prima come una grande raccolta di prese di posizione particolari. Eppure
il sistema non manca in esse: è anzi continuamente presente. I singoli problemi
si mostrano a poco a poco connessi l’uno all’altro; le soluzioni convergono, si
giustificano e confermano a vicenda […]. Il sistema non è una pura esteriorità,
un concordanza sopravvenuta; è anzi l’anima di ciascuno osservazione,
attraverso cui tutto si spiega e si giustifica33 . Per tali motivi, Leibniz
rappresenta quasi il contraltare dello storicismo crociano o, meglio ancora, il
rimedio alle sue lacune; «Leibniz», infatti, «differisce [proprio] in questo da
altri pensatori, apparentemente più coerenti e organizzati, ma la cui ricchezza
va cercata al di là del sistema, nelle varie formulazioni particolari»34: vi
differisce cioè per il fatto che, come si è visto, il suo sistema si E.
Colorni, L’estetica di Benedetto Croce, cit. Scrive ancora Colorni: «chi parta
dal mondo stesso e, rendendo eterno e universale ciascun dato di questo, voglia
costruire una scienza delle forme possibili di questa universalizzazione e di
qui giungere ad una visione complessiva dei modi eterni della realtà e delle
loro reazioni reciproche, non pone il sistema all’inizio, come premessa della
sua ricerca; ma ad esso giungerà al termine ideale del suo cammino. Colorni,
Nota bio-bibliografica, in G. W. von Leibniz, La monadologia, preceduta da una
esposizione antologica del sistema leibniziano, a cura di E. Colorni, Firenze,
Sansoni. Il riferimento sembra rinviare precisamente alla critica della
filosofia crociana. Cinque scritti metodologici di Eugenio Colorni 11 sviluppa
spontaneamente dalle singole osservazioni e l’insieme si mostra nella sua completezza
attraverso il complesso dei suoi aspetti. E tuttavia, lo scacco della
prospettiva leibniziana giungerà a sua volta quando, muovendo da simili
presupposti, Colorni dovrà constatare il carattere prettamente soggettivo del
tentativo di sistematizzazione da quella realizzato: Leibniz, spiega così
Colorni nel suo ultimo scritto sull’argomento, applica all’ordine spirituale
quella continuità, quel passaggio ininterrotto, quel procedere da ogni legge ad
una legge più vasta, che egli crede di scorgere come l’essenza più profonda del
mondo naturale. Che questa stessa continuità e questo allargarsi sia, più che
una legge della natura, un’esigenza dello spirito nella considerazione della
natura stessa, egli non sospetta36 . L’insuccesso del punto di vista
leibniziano consentirà però anche a Colorni di schiudere un più libero sguardo,
sciolto ormai dai condizionamenti delle diverse scuole filosofiche, sul
criticismo kantiano e sugli strumenti da questo forniti per lo studio dei
meccanismi di funzionamento del pensiero. Già nel 1932, Colorni aveva
anticipato le due linee – leibniziana e kantiana – della propria filosofia, là
dove aveva scritto, in Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà, che la monade
di Leibniz avrebbe dovuto completarsi con la dottrina kantiana, di modo che
l’«universalità della monade, intesa come realtà cosciente, puo coincidere con
la trascendentalità del conoscere, inteso come conoscenza reale»37. L’effettivo
passaggio ad un più maturo kantismo segna tuttavia per Colorni un punto di
svolta fondamentale o, come afferma l’autore stesso, una vera e propria
«operazione di cataratta»38, capace di conquistare una diversa prospettiva sul
mondo: esso, infatti, consente al giovane studioso di voltare le spalle alla
“conoscenza filosofica” e di approdare infine a quella particolare metodica
ch’egli presenta come conoscenza prettamente scientifica, intesa cioè come padronanza
di un processo. La domanda impossibile (senza senso) della filosofia, spiega
così Colorni, pur nella loro rigida formulazione teoretica, sono sempre
espressione di qualche tendenza, di qualche profonda esigenza dell’animo. La
risposta si dà dunque divenendo padroni del meccanismo psicologico mediante cui
la domanda viene posta; essendo capaci di riprodurlo, di seguirlo nelle sue
fasi, di variarlo all’infinto. Al problema della realtà, si risponde fabbricando
animi per cui l’expressione “realtà” non ha senso. Alla domanda se esiste un
mondo in sé in cui la somma degli angoli di un triangolo non sia uguale a due
angoli retti, si risponde costruendo una geometria in cui tale somma sia
effettivamente maggiore o minore di due retti, e mostrando che tale geometria
non è né più né meno vera di quell’altra; ma è, rispetto all’altra, essenzialmente
nuova E. Colorni, Libero arbitrio e grazia nel pensiero di Leibniz, E. Colorni,
Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà. E. Colorni, Critica filosofia e
fisica teorica, E. Colorni, Filosofia e scienza, p. 237. 40 E. Colorni, Critica
filosofia e fisica teorica, pp. 229-230. Geri Cerchiai 12 È in questo contesto,
all’interno del quale Colorni ritiene di essere definitivamente guarito dalla
sua «malattia filosofica»41, che vanno collocati i titoli di seguito trascritti
e conservati presso la “Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del
dipartimento di Fisica, Fondo Vittorio Somenzi. Di tali scritti, e degli altri
pubblicati dalle riviste «Aretusa», «Analisi» e «Sigma», è lo stesso Somenzi a
raccontare la storia nel già citato testo su Eugenio Colorni filosofo della
scienza. 3. La metodologia colorniana negli scritti del Fondo Somenzi «Nel
1945», scrive difatti Somenzi, comparve sulla rivista «Aretusa» un Ricordo di
Colorni scritto dall’amico Guido Morpurgo-Tagliabue, accompagnato da due
inediti stimolanti: Il bisogno dell’unità e Sul complesso di Edipo. Altri
inediti mi pervennero attraverso la rivista «Analisi» […], e di questi una
parte venne pubblicata su «Analisi» e sulla rivista romana «Sigma» che ad essa
si affiancò per iniziativa di Giuseppe Vaccarino e mia. Dal carteggio fra
Vaccarino e Somenzi emergono altre importanti informazioni sui dattiloscritti
conservati in FS, che con ogni evidenza i due fondatori di «Sigma» si inviavano
in reciproca lettura. Di quanto scriveva Somenzi a Vaccarino nel maggio del ’47
si è già reso conto nel § 1. Il 27 gennaio di quel medesimo anno, è Vaccarino a
dire a Somenzi di sperare «tra qualche giorno di inviar[gli] i Colorni»; il
giorno appresso, e quello successivo ancora, Vaccarino aggiunge poi quanto
segue: Spero domani di inviarti i Colorni. Molto interessanti e brillanti.
Comincerei con i dialoghi di “Commodo”, combinandoli in modo che abbiano tra di
loro un certo legame. Ieri sera ho riletto i Colorni, che ti rimando tranne
l’ultimo, che ti invierò tra qualche giorno. “I dialoghi” si potrebbero
pubblicare in 3 puntate – (La seconda notevolmente più lunga delle altre 2) –
Vi è una quarta puntata sull’economia, che mi piace meno. Nel testo ho cambiato
qualche parola a matita (in modo che tu possa eventualmente ricorreggere). Ho
creduto anche opportuno evitare il “dialogo nel dialogo” nel primo n°,
introducendo invece del “fisico ribelle” il “Curiosus” del secondo n°.
L’Apologo ed il Ritorno alla natura vanno anche benissimo. Forse si potrebbero
pubblicare unitamente al terzo dialogo, che è molto breve. Le idee di Colorni
mi sembrano meglio espresse nei dialoghi che nel capitolo sulla fisica, data la
forma brillante 41 La malattia filosofica è per l’appunto il titolo che Colorni
diede alla sua più completa biografia intellettuale, già qui ricordata nelle
pagine precedenti. 42 V. Somenzi, Eugenio Colorni, cit., p. 79. Prosegue poi
Somenzi citando di fatto alcuni dei titoli dei quali si sta qui discutendo: «La
rivista doveva contenere articoli di fondo dedicati a problemi come: il
concetto di esperienza, costanti universali e unità di misura, l’illusione
finalistica nella fisica e nella biologia, l’illusione realistica nella fisica,
geometria ed esperienza, l’assiomatica dei principi della meccanica,
l’assiomatica della teoria della relatività e quella della meccanica
quantistica, fisica puntuale e fisica di campo, il concetto di istinto, la
polemica tra meccanicismo e vitalismo, la costruzione di una economia
indipendente da premesse psicologiche» (ivi, p. 80). dell’espressione. In
quanto alle opinioni espresse (l’io, la storia, l’amore, ecc.) non c’è
coincidenza con la metaconoscenza, anzi piena opposizione43 . Su «Analisi», nel
1947, uscì Filosofia e scienza44, mentre – fra il 1947 e il 1948 – un più
consistente numero di titoli apparve su «Sigma»; si trattava, in particolare,
dei testi seguenti: Apologo su quattro modi di filosofare; Della lettura dei
filosofi; Del finalismo nelle scienze; Dell’antropomorfismo nelle scienze;
Sugli idoli della scienza fisica; Critica filosofica e fisica teorica; Il
ritorno alla natura; Filosofi a congresso45 . Oltre a questi – e
presumibilmente appartenenti al medesimo gruppo di testi del quale Somenzi
afferma di aver pubblicato solo una parte – in FS sono conservati altri
dattiloscritti, di cui sono qui trascritti quelli maggiormente compiuti46 . I
primi tre scritti appartengono con ogni evidenza al gruppo di testi destinati
dall’autore alla rivista di metodologia scientifica progettata con Ludovico
Geymonat nel 194247. Questa, oltre a note di varietà, rassegne e recensioni,
avrebbe infatti dovuto ospitare una sezione dedicata ad «Articoli e saggi», fra
i cui titoli Colorni indica per l’appunto Geometria ed esperienza e Assiomatica
delle leggi della meccanica. Il testo intitolato II: Relatività generale è,
come mostrato dalla numerazione romana, il secondo paragrafo di
Sull’assiomatica della teoria della relatività (anch’esso menzionato nel
Progetto di una rivista di metodologia scientifica), il quale comincia proprio
con l’indicazione di un paragrafo (I) La relatività ristretta. Tutti e tre i
testi fanno riferimento al discorso intorno all’idea di esperienza che per
Colorni discende dalla scoperta del carattere relativo delle categorie: «la
coscienza che abbiamo acquistato della nostra possibilità di modificare [i]
dati elementari»48 della conoscenza, infatti, costringe secondo Colorni sia a
riformare i concetti di a priori e di a posteriori, sia a rivedere
coerentemente la nozione di esperienza. «A priori», spiega così Colorni, «non
significa più della ragione. A posteriori non significa più dei sensi. Sia i
dati della ragione, sia i dati dei sensi, ap43 Lettere rispettivamente del 28 e
del 29 gennaio 1947; quest’ultima è scritta di seguito all’epistola del giorno
precedente, sul medesimo foglio. Il 17 gennaio 1947, Vaccarino aveva informato
Somenzi del suo scritto sulla metaconoscenza, col quale confronta qui gli
scritti colorniani: «Avevo preparato uno scritto sui rapporti tra la conoscenza
e la religione, il quale in definitiva risultò troppo lungo ed infarcito di
considerazioni metagnosologiche. Ho pensato perciò che è meglio direttamente
attaccare la questione della metaconoscenza». Tutte le lettere sono in FS, sez.
5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza scientifica, 1942-2003 gen.
28, 135, Vaccarino Giuseppe, 1946-1948. Il “fisico ribelle” è probabilmente il
Fisico che Colorni inserisce quale interlocutore (appunto: quasi come dialogo
nel dialogo) in Del finalismo nelle scienze, e che nella stampa definitiva su
«Sigma» non viene poi effettivamente sostituito dal Curiosus interlocutore di
Dell’antropomorfismo nelle scienze. 44 Cfr. supra, § 1, n. 9. Il testo
comprende parzialmente anche: Sul concetto di esperienza e Intorno al principio
di identità. Cfr. infra, la Nota del
curatore. 47 Cfr. supra, § 1 e la n. 20. 48 E. Colorni, Filosofia e scienza, p.
241. Geri Cerchiai 14 paiono come elementi in cui il fattore soggettivo e
quello oggettivo si presentano mescolati, ma di cui è in nostro potere,
mediante un procedimento logico e psicologico insieme, modificare la
struttura»49 . L’esperienza, a sua volta, «anziché rivelare leggi naturali»,
dovrà suggerire, secondo le contingenti necessità degli studiosi, «determinate
forme di definizione e di misura»50, utili a proseguire nel lavoro di ricerca
scientifica51 . Siamo qui di fronte a quel progetto di “liberazione” della
fisica «dalle premesse realistiche-finalistiche» che deve per Colorni
rappresentare non solo «uno degli scopi essenziali della rivista»52, ma anche
il fine ultimo della sua stessa critica epistemologica. Di tale progetto il più
lungo e strutturato Programma contribuisce a tracciare ulteriormente i contorni
teorici. Il nucleo dello scritto ruota intorno alla considerazione secondo la quale
la «filosofia odierna dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in
mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine. Criteri che, ormai ciò è
chiaro a tutti, trasformano radicalmente la realtà, operando una scelta che ci
fa scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato». La constatazione del
carattere condizionato della realtà diviene in tal modo, e nuovamente, il punto
di partenza – tutto kantiano – della metodologia di Colorni. Il criticismo
trascendentale, aggiunge però l’autore, «ha messo tutti sul chi vive», sì che «la
curiosità di vedere al di là del “velo di Maja” delle categorie si è fatta
sempre più intensa»; sarà tuttavia soltanto la capacità della conoscenza
scientifica di disubbidire all’«ammonimento di Kant» per trascurare «i limiti»
da questo imposti che consentirà, ancora una volta, di compiere il secondo,
decisivo passo lungo la strada già intrapresa dalla Critica della ragione pura:
«La domanda da porsi», chiarisce Colorni in un passo cruciale di Critica
filosofica e fisica teorica, Non [è]: “È il mondo del nostro pensiero, o non è,
quello reale?”; bensì: “Come potrebbe essere conformato un mondo di pensiero
diverso dal nostro?”. La prima domanda parte da quella esigenza di sicurezza e
stabilità che è sempre collegata col pensiero del reale [e che appartiene all’atteggiamento
filosofico]. La risposta che essa cerca è una risposta che assicuri tale
sicurezza e stabilità in un modo qualsiasi; nel reale, o in qualche cosa che lo
sostituisca. La seconda domanda [propria dell’atteggiamento scientifico] muove
invece da una esigenza di novità […]. Si tratta qui del secondo passo della
rivoluzione copernicana. Il primo era consistito nell’accorgersi che le leggi
della realtà non sono che forme del nostro intelletto. Il secondo consiste nel
domandarsi se queste forme siano proprio necessarie ed immutabili e
irresolubili. Anzi, non 49 Ibid. A priori diviene perciò il «nostro potere di
modificazione che si riferisce sia agli oggetti della nostra ragione, sia a
quelli dei nostri sensi. Mentre poi «la geometria definisce gli oggetti su cui
opera mediante i suoi assiomi, la fisica definisce quei medesimi oggetti
mediante definizioni reali, cioè facendoli corrispondere a determinati fenomeni
naturali. Mentre dunque la prima gode di una completa libertà nella scelta
degli assiomi, la seconda è legata alle conseguenze implicite nella scelta di
quelle particolari definizioni; libera però di mutare le definizioni, qualora
le conseguenze non la soddisfacessero. E. Colorni, Sul concetto di esperienza,
p. 251. Cinque scritti metodologici di Eugenio Colorni 15 nel domandarsi se
siano irresolubili (domanda che presuppone l’uso di quelle forme stesse) ma nel
tentare senz’altro di scioglierle53 . In tal modo, spiega Colorni al termine di
Programma, è la conoscenza scientifica a raggiungere quell’“al di là” che alla
prospettiva kantiana era negato, ma l’“al di là” al quale essa perviene «non è
una negazione del “di qua”, non è un assoluto privo di categoria. È un mondo di
nuove categorie», un mondo al quale si viene portati, in primo luogo, dalla
consapevolezza che la «legge essenziale della natura è la ragione, e la ragione
è pure la legge essenziale del mondo esterno, in quanto l’uomo non fa che
proiettare fuori di sé l’essenza della propria natura»54 . L’ultimo testo qui
trascritto, Commodo a Ritroso, appartiene ad un gruppo di dialoghi, noto come
Dialoghi di Commodo, stesi a più mani durante il periodo del confino a
Ventotene55. Commodo, come ha spiegato la moglie Ursula Hirschmann in occasione
dei primi tentativi di pubblicazione integrale dei frammenti colorniani, è lo
stesso Colorni; Ritroso è Ernesto Rossi56 . Lo scritto prende spunto da
argomenti economici per chiarire alcune questioni che, venendo a teorizzare una
sorta di “dilettantismo metodologico”, rendono conto della stessa natura dell’indagine
colorniana. L’«appartenenza professionale», dice Colorni all’amico
Ritroso/Rossi in uno dei dialoghi già 53 E. Colorni, Critica filosofica e
fisica teorica, pp. 227-228. 54 Ivi, p. 234. 55 Racconta Altiero Spinelli nella
sua autobiografia, ben descrivendo non solo la genesi dei Dialoghi di Commodo,
ma anche l’atteggiamento di Colorni nelle discussioni: «Parlavamo ogni giorno
delle cose più varie, di politica, di geometria non euclidea, di nostri
compagni di confino, delle nostre letture, delle nostre storie personali, dei
grandi della storia, ma sentivo che [Eugenio] stava sempre attento a scoprire
un qualche mio coperto punto malato, che egli avrebbe messo in luce, curato e
guarito – poiché la vocazione del guaritore d’anime l’aveva proprio nel sangue
[…]. Mi affascinava la precisione quasi infallibile con la quale scopriva il
punto errato di un ragionamento, il punto equivoco di un atteggiamento, il
momento retorico di un’espressione […]. Talvolta uno di noi, ripensando la sera
alle parole scambiate durante il giorno, le proseguiva scrivendo un dialogo nel
quale diceva la sua e immaginava quel che l’altro avrebbe risposto. Talvolta il
dialogo aveva un seguito, scritto dall’altro, prima di terminare a voce» (A.
Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, Il Bologna, Mulino, 1988, pp.
299-300). 56 Gli pseudonimi principali utilizzati negli altri dialoghi sono i
seguenti: Severo è Altiero Spinelli, Manlio Rossi-Doria è Modesto, Ursula
Hirschmann è Ulpia. Così scriveva Ferruccio Rossi-Landi alla Hirschmann. Penso
che i tempi stiano maturando per
un’edizione in volume degli scritti lasciati da Colorni: come sono maturati,
dopo tanti decenni, per la ripresentazione ai lettori italiani di quelli di
Giovanni Vailati, che fu studioso per tanti versi affine ad Eugenio e che,
rimasto quasi sepolto fin da prima della Prima Guerra Mondiale, ricomparirà ora
presso Laterza e presso Einaudi su mia iniziativa». RossiLandi faceva poi
riferimento alle pubblicazioni di «Analisi» e «Sigma». Ho potuto prendere visione
della corrispondenza relativa ai diversi tentativi di pubblicazione degli
scritti filosofici di Colorni (prima presso l’editore Laterza e poi per la
Feltrinelli) grazie alla cortesia di Renata Colorni, che ancora conserva una
parte del carteggio e che qui debbo ringraziare per la sua disponibilità. 57
Esso va dunque letto insieme a Dello psicologismo in economia, pubblicato nella
ed. Einaudi alle pp. 322-342. Per una più precisa contestualizzazione dei
frammenti economici colorniani cfr infra, la Nota del curatore. Geri
Cerchiai 16 pubblicati da «Sigma» nell’immediato dopoguerra, «comporta un
legame così stretto con la scienza e un interesse così diretto ai vari problemi
particolari in cui la ricerca si articola momento per momento, che è difficile
avere la possibilità di riprendere in esame i problemi iniziali e i principi
fondamentali da cui si è partiti»58; proprio per questo, secondo Colorni, i
«dilettanti e gli outsider», sono forse maggiormente in grado, attraverso
l’esercizio di un «tranquillo, pacato, spregiudicato esame dei punti di
partenza e delle definizioni iniziali»59, di «sconvolgere dalle fondamenta
tutto l’edificio del proprio sapere»60. Certo, dovendo rispondere all’accusa di
«presumere di rivedere i principî di tutte le scienze, senza averle mai
praticate»61, lo stesso Colorni – che alla scienza è giunto passando per la
filosofia62 – parla in qualche modo pro domo sua. E tuttavia, egli va anche a
puntualizzare, in tal modo, il «carattere pragmatistico»63 del proprio
pensiero, il quale deve giocoforza confrontarsi con le più differenti
discipline scientifiche. In Commodo a Ritroso, Colorni riprende questi medesimi
argomenti, insistendo però con maggior vigore su quello spirito d’indipendenza
– indispensabile ad un proficuo sviluppo dell’opera scientifica e filosofica –
il cui significato teorico è già stato indagato in Programma. Scrive Colorni:
«Anziché accostarmi a grossi trattati con fare accogliente e passivo […], io
parto con la lancia in resta, pieno di idee sbagliate e confuse, sfondando
porte aperte ad ogni passo […], desideroso di scontri e di battaglie». Emerge
qui, accanto alla consapevolezza di un metodo teorico ormai chiaramente
precisato, una componente particolare del carattere del giovane filosofo:
quella irrequietezza, ironicamente descritta ne La malattia filosofica, che
contribuisce a rendere conto della stessa, febbrile attività politica
colorniana. Essa rivela una vivacità intellettuale che si mostrò sempre
incapace di fermarsi ai risultati volta per volta raggiunti e che, trascorrendo
dai primi studi storico-filosofici a quelli metodologici degli ultimi anni,
viene a costituire l’anima, per così dire, anche dei dattiloscritti colorniani
conservati nel Fondo Somenzi. 58 E. Colorni, Dell’antropomorfismo nelle
scienze. Com’è noto, e a dispetto della sua formazione umanistica (lit. hum.),
Colorni si cimenta direttamente nella ricerca fisica, con particolare attenzione
alla teoria della relatività. Cfr. nello specifico i titoli seguenti: Unités de
misure et relativité; Le trasformazioni di Lorentz come caso particolare e
Deduzione del campo elettromagnetico di una carica in movimento rettilineo e
uniforme. 63 E. Colorni, Dell’antropomorfismo nelle scienze. Nota del curatore
I testi di Colorni in FS – tutti dattiloscritti – sono per lo più approntati
per la composizione a stampa, spesso con indicazione del corpo e della
impaginazione da utilizzarsi. Alcune correzioni e integrazioni, la segnalazione
«a penna» talvolta riferita ai titoli o alla firma, i commenti a margine sulla
opportunità o meno della pubblicazione, fanno supporre che ci si trovi per lo
più di fronte a trascrizioni battute a macchina dagli originali. Salvo che dove
diversamente segnalato (come ad esempio – per i motivi lì esposti a pié di
pagina – in Programma), ci si è generalmente attenuti al criterio di integrare
le eventuali sviste od errori ortografici direttamente nel testo, senza
ulteriore indicazione. Ugualmente ci si è comportati per le correzioni e gli
interventi a penna o a macchina. Il dattiloscritto di Programma presente in FS
conserva la conclusione, che risulta invece assente nelle precedenti edizioni
in volume. Oltre ai titoli qui riportati, e a quanto si dirà qui appresso, in
FS sono conservati anche i testi seguenti: Il bisogno dell’unità; Sul complesso
di Edipo; I primitivi e le categorie dello spirito; Filosofi a congresso; Sul
concetto di esperienza; Costanti universali e unità di misura; Sull’assiomatica
della teoria della relatività. I. Relatività ristretta, tutti già raccolti
nelle diverse edizioni dei frammenti colorniani. A partire da Sul concetto di
esperienza, le pagine sono numerate, a mano o a macchina, in sequenza, sì da
creare un complesso unico comprendente anche: II. Relatività generale (da
inserirsi dopo Relatività ristretta), e di seguito: Sull’assiomatica delle
leggi della meccanica e Geometria ed esperienza. In FS sono inoltre presenti
due ulteriori scritti di argomento economico: Batti, ma ascolta! e Ritroso a
Commodo: meno compiuti degli altri, essi saranno da me trascritti in un volume
di prossima uscita. Già nella nota introduttiva a Dello psicologismo in
economia, pubblicato nella edizione Einaudi alle pp. 322-342, si ricostruiva,
anche grazie agli elenchi dei titoli stesi da Ursula Hirschmann per Ferruccio
Rossi-Landi, la genesi degli scritti economici colorniani, che qui ci si
limiterà dunque ad integrare con quanto emerge dai titoli presenti in FS. Dello
psicologismo in economia risulta composto da tre blocchi. Il primo, intitolato
È possibile costruire una scienza economica indipendente da premesse
psicologiche e sociologiche?, è citato anche nel Progetto di una rivista di
metodologia scientifica fra i possibili «Articoli e saggi», e prosegue
dall’inizio del dialogo fino al terzo capoverso: «[…] sarebbe una differenza di
grado e non di natura. Del secondo (Robbins considera), che comincia subito
dopo il primo e termina in ivi, E m’invita a prendere tutto l’argomento non
troppo sul serio»), è conservato in FS il solo ultimo foglio, del quale così
scriveva Silvio Ceccato a Somenzi il 5 febbraio del 1943: «Ho guardato fra le
carte di Colorni. Spaiato trovo un foglio, numero 5, che mi sembra appartenere
al dialogo fra Commodo e Severo [che in effetti è l’interlocutore di quella
parte del dialogo]. Se vuoi te lo mando, o lo do a Vaccarino. Altro non c’è, mi
sembra, che possa interessarti. Stampa pure. Quando hai ben deciso, fammelo
però sapere, che, per cortesia, ne avvisi la sorella» (FS, sez. 3, Attività
professionale, 1929-2003, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5, Riviste,
enciclopedie e progetti editoriali, 1, Sigma Analysis, b. 5, Analysis Methodos
(Ceccato). Il terzo blocco, Vedo che riprendi (cfr. E. Colorni, Dello psicologismo
in economia), rappresenta il nucleo centrale e la con- Geri Cerchiai 18
clusione del dialogo. Per quanto riguarda i titoli di FS: Ritroso a Commodo –
come si evince dai numerosi riferimenti a Vedo che riprendi – prosegue il
dialogo già iniziato in quest’ultima parte di Dello psicologismo in economia;
Commodo a ritroso è la risposta a Vedo che riprendi; Batti ma ascolta è
l’«accluso foglietto» menzionato in Commodo a Ritroso. Le note in calce ai
testi sono tutte del curatore. Desidero Ringraziare Giovanni Battimelli,
Responsabile del Fondo Vittorio Somenzi, e Maria Luisa Libutti, Direttrice
della Biblioteca del Dipartimento di Fisica (“Sapienza” Università di Roma),
per la disponibilità e cortesia che mi hanno dimostrato durante la
consultazione dell’Archivio. G. C. Cinque scritti metodologici 19 II. Relatività
generale1 Se vogliamo estendere quanto si è detto per la relatività ristretta3
al caso di sistemi in movimento qualsiasi4 , il problema della relatività
generale diverrà quello di determinare le misure spazio-temporali per un
osservatore in movimento qualsiasi rispetto ad un sistema inerziale nel quale
valga la geometria euclidea. La determinazione di tali misure sarà fatta di
nuovo assumendo come fissa la distanza fra due punti5 , e come costante la
velocità della luce. In linea generale risulterà che la geometria
tridimensionale del sistema in questione non sarà euclidea. Viceversa dovrebbe
essere dimostrabile che se le misure assunte da un osservatore col metodo di
cui sopra, danno luogo ad una geometria non euclidea, si potrà sempre trovare
un sistema i cui punti siano mossi rispetto all’osservatore in questione in
modo tale che la sua geometria sia euclidea. In tale sistema non vi sarà alcun
campo gravitazionale. Una tale impostazione del problema differisce un poco da
quella classica della relatività generale. Non si tratta qui di trovare una
formulazione delle leggi di natura che sia invariante rispetto a trasformazioni
qualsiasi, e quindi di attribuire ad ogni sistema la geometria richiesta dal
campo gravitazionale in esso vigente, ma piuttosto di trovare le trasformazioni
che permettono di passare da un sistema ad un altro qualsiasi6 , avendo assunte
per tutti i sistemi determinate convenzioni7 riguardo alle misure
spazio-temporali; e questo senza fare alcuna ipotesi riguardo alla forma delle
leggi naturali. 1 FS, sez. 3, Attività professionale, 1929-2003, serie 2, Carte
di lavoro non organizzate, 5, Riviste, enciclopedie e progetti editoriali, Sigma
Analysis, b. 6, Articoli, Il titolo è cancellato nel dattiloscritto, così come
è barrata la numerazione “5” (a penna) della pagina, numerazione che, insieme
con quella romana, segnava il foglio come seguito di E. Colorni,
Sull’assiomatica della teoria della relatività. I. Relatività ristretta (cfr.
la Nota del curatore), del quale lo scritto è il secondo paragrafo. 2
All’inizio del dattiloscritto sono inserite a penna delle virgolette basse
(chiuse al termine del terzo capoverso), che spiegano l’intervento del quale si
rende conto infra, n. 4. 3 Il riferimento è a Sull’assiomatica della teoria
della relatività, che infatti è numerato: La relatività ristretta. A penna è
stato qui aggiunto: «prosegue Colorni». 5 Cfr. E. Colorni, Sull’assiomatica
della teoria della relatività. Anziché assumere come unità di misura
fondamentali una lunghezza […] o un intervallo di tempo […] per poi dedurne le
altre grandezze cinematiche […], si potrebbe assumere come unità primitive la
distanza fra due punti dati e la velocità di propagazione di un dato fenomeno».
6 Si tratta qui precisamente dell’idea di revisione del concetto di esperienza
in relazione a quello di definizione che costituisce uno dei nuclei del
programma metodologico colorniano. 7 Sono molti i riferimenti di Colorni al
carattere convenzionale della scienza e delle sue definizioni. Riporto, per il
suo carattere “generale”, quanto affermato nella Postilla al programma della
rivista di metodologia scientifica (in M. Quaranta, La “scoperta” di Eugenio
Colorni, cit., p. 130): «Si tratta, in breve, di partire da una concezione
“convenzionalistica” o “idoenistica” della scienza; non limitandola però, come
fa in sostanza la scuola di Vienna o anche il Gonseth, alla interpretazione
filosofica dei fatti scientifici; applicandola invece ai concetti basilari su
cui poggia l’edificio della scienza, e mostrando come un chiarimento rigoroso
delle ipotesi che sono implicite nell’assunzione di tali concetti possa
trasformare effettivamente e rendere più chiare molte formulazioni
scientifiche, e forse risolvere alcuni dei problemi più scottanti della scienza
moderna». Eugenio Colorni 20 Formulando in questo modo il problema, si
giungerebbe probabilmente alle medesime conclusioni della relatività generale
riguardo alla gravitazione; ma la nuova impostazione permetterebbe forse di
aggredire in maniera diversa da quella consueta altri problemi (in particolare
quello dell’elettromagnetismo). Non si tratterebbe più in questo caso di
formulare le leggi del campo elettromagnetico in forma invariante rispetto a
trasformazioni qualsiasi, ma di rendersi ragione della loro struttura,
studiando sistematicamente il comportamento di cariche in movimento, mediante
“Transformation auf Ruhe”. Questo saggio si riferisce a studi ancora in corso e
ben lungi dalla conclusione8 ). 8 L’ultimo capoverso è barrato a penna nel
dattiloscritto. L’inciso fra parentesi riprende quello analogo – non riportato
nelle edizioni dei testi colorniani, ma presente nei dattiloscritti di FS –
posto al termine di Sull’assiomatica della teoria della relatività. I.-
Relatività ristretta, il quale recita nel modo seguente: «Questo saggio si
riferisce ad un lavoro già terminato, in cui lo sviluppo qui descritto viene
eseguito» (FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da
Vittorio Somenzi, 1929-2000, 2, Scatole grigie 1942-2000, 1, Eugenio Colorni e
Italo Cotone, b. 3, Colorni, 1945-1993). Sull’assiomatica delle leggi della
meccanica. Il principio d’inerzia è notoriamente una definizione camuffata.
Esso definisce come non soggetto ad alcuna forza il corpo dotato di movimento
uniforme; quindi come soggetto ad una forza il corpo dotato di movimento non
uniforme. È possibile considerare i principi della conservazione della quantità
di movimento e dell’energia come delle estensioni del principio d’inerzia, cioè
anch’essi come delle implicite definizioni della forza? Crediamo di sì.
Consideriamo infatti un sistema di due corpi. Diremo che il sistema non è stato
sottoposto all’azione di alcuna forza, non solo quando i due corpi proseguono
nel loro moto rettilineo ed uniforme, ma anche quando hanno modificato tale
loro moto dopo essersi urtati. Ciò che dovrà essere rimasto immutato nel
sistema non sarà dunque più il moto dei due corpi, ma una funzione di tale
moto; funzione che si tratta di determinare, ponendole delle condizioni
derivanti da esigenze plausibili. Anzitutto si può richiedere che il mutamento
provocato dall’urto nello stato di moto di uno dei due corpi sia misurato dal
mutamento provocato dal medesimo urto nell’altro corpo: cioè che ciò che rimane
costante nel sistema sia la somma delle funzioni in questione riferite a
ciascun corpo. Individuato poi ciascun corpo mediante una costante
caratteristica di esso (la sua “massa”), si può richiedere che il cambiamento
provocato in un corpo successivamente da due altri corpi di uguale massa e
uguale velocità, sia identico al cambiamento provocato da un corpo di massa
doppia e di uguale velocità: il che equivale a dire che la nostra funzione
dovrà essere della forma mf(v). Si potrà poi osservare che la funzione in
questione deve poter esprimere sia un mutamento nel valore assoluto della
velocità di ciascun corpo, sia un mutamento nella sola direzione: le funzioni
in questione devono cioè essere due, l’una vettoriale, l’altra scalare. Infine
si osserverà che, poiché due corpi in movimento uniforme rispetto ad un sistema
inerziale lo sono pure rispetto a qualsiasi altro sistema inerziale, la
costanza delle nostre funzioni deve essere invariante rispetto a trasformazioni
di Lorentz. Tutte queste condizioni limitano la scelta delle nostre funzioni in
modo da determinarle univocamente; e ne risultano le espressioni relativistiche
della quantità di movimento e dell’energia. Ciò è stato mostrato da Langevin2 ,
il quale parte però da premesse un po’ diverse. Gli sviluppi precedenti possono
avere un’importanza per il seguente motivo: la teoria della relatività giunge
alle sue espressioni dell’energia e della quantità di movimento, partendo dalle
equazioni di Maxwell, che suppone assicurate dall’esperienza. Ma il controllo
sperimentale di tali equazioni suppone che si 1 FS, sez. 3, Attività
professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 1929- 2000, 2,
Scatole grigie, 1, Eugenio Colorni e Italo Cotone, Nel dattiloscritto, le
pagine riportano la numerazione, a penna in rosso, da 6 a 7 (cfr. supra, II.
Relatività generale, n. 1, e la Nota del curatore). Langevin e un fisico francese
che, non diversamente da Eddington – altro autore colorniano e griceiano – fu
abile divulgatore scientifico. disponga di una definizione dell’energia e della
quantità di moto. Inoltre, quando si siano definiti i principi fondamentali della
meccanica indipendentemente dall’elettromagnetismo, rimane aperta la
possibilità di dedurre le leggi stesse dell’elettromagnetismo servendosi di
alcuni risultati della relatività, e raggiungendo così una più profonda
comprensione di quelle leggi. (Anche questo articolo si riferisce a studi in
corso, di cui la prima parte, riguardante la relatività ristretta e
l’elettromagnetismo, è terminata; ma avrebbe carattere troppo tecnico per la
rivista4 .) 3 Assente nel testo. 4 Per un’analisi degli scritti colorniani
sulla teoria della relatività, si rinvia a M. Quaranta, La “scoperta” di
Eugenio Colorni. Colorni sulla teoria della relatività, pp. 122-130. Per
l’inciso fra parentesi, cfr. supra, II. Relatività generale. La rivista è la
progettata rivista di metodologia scientifica, sulla quale si rimanda ancora a
quanto scritto supra, § 3. Cinque scritti metodologici 23 Geometria ed
esperienza1 Gli assiomi della geometria sono delle definizioni implicite, o
meglio rappresentano delle limitazioni imposte alla nostra libertà di definire
gli oggetti ai quali essi si riferiscono. Tali oggetti però possono essere di
due tipi: o sono tali che per ottenerne una rappresentazione concreta è
necessario immaginarli realizzati da un fenomeno fisico (p. es. la linea retta realizzata
dalla traiettoria di un raggio luminoso nel vuoto); in tal caso la definizione
implicita negli assiomi è una definizione “reale” (Zuordnungsdefinition2 ), e
gli assiomi limitano il numero degli oggetti o dei fenomeni che possono essere
assunti per realizzare fisicamente quel determinato ente geometrico. Oppure
l’ente geometrico in questione è tale da poter essere definito mediante
un’opportuna combinazione di altri enti precedentemente definiti (p. es.
l’angolo uguale ad un angolo dato può essere definito senza ricorrere ad alcuna
sovrapposizione, quando sia stata definita precedentemente la distanza fra due
punti); e allora gli assiomi limitano il numero degli accorgimenti che noi
possiamo usare per definire quel determinato ente geometrico. Agli scopi della
costruzione fisica di un sistema galileiano, è opportuno distinguere questi due
tipi di definizione; e può essere utile studiare da questo punto di vista le
“Grundlagen” di Hilbert3 . Non è detto che si possa sempre trovare un insieme
di fenomeni fisici capaci di realizzare contemporaneamente tutti gli assiomi di
una geometria. Per esempio, se si vuol realizzare la geometria mediante raggi
luminosi assunti co1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte
organizzate da Vittorio Somenzi, 2, Scatole grigie,1, Eugenio Colorni e Italo
Cotone, b. 3, Colorni, 1945-1993. Numerato a penna 8 (cfr. supra, II.
Relatività generale, n. 1, e Nota del curatore). Il titolo è anch’esso
sottolineato a penna con l’indicazione: a mano. A margine, scritto a matita in
rosso e cancellato, alcune segnalazioni per il tipografo: «Corpo 10/10 tondo //
Giustezza 27». Scrive Colorni in Filosofia e scienza. Ora, mentre la geometria
definisce implicitamente gli oggetti di cui tratta, mediante gli assiomi, la
fisica li definisce direttamente, mediante definizioni reali
(Zuordnungsdefinitionen). Con queste parole, Colorni richiama il concetto
reichenbachiano di Zuordnungsdefinition, per cui cfr. H. Reichenbach, Axiomatik
der Raum-Zeit-Lehre, Braunschweig, Vieweg & Sohn Akt.-Ges., 1924; Id.,
Philosophie der Raum-Zeit-Lehre, Berlin- Leipzig, W. de Gruyter & Co. In
una lettera firmata da Hirschmann (ma in realtà scritta da Colorni) e
indirizzata a Geymonat per il tramite della moglie Virginia, l’autore afferma
di possedere il primo dei due titoli, e a questo rinvia per la comprensione del
proprio pensiero. Noi abbiamo qui l’importante saggio di Reichenbach, “Axiomatik
der relativistischen Raum-Zeit-Lehre”, che mette le cose da un punto di vista
molto affine a quello che Eugenio vorrebbe sviluppare. La lettera, conservata
nel Fondo Geymonat presso la Biblioteca del Museo civico di storia naturale di
Milano, è citata da M. Quaranta (La scoperta di Eugenio Colorni), il quale
commenta: «Ora, se è rintracciabile in Kant una nozione rigida dell’a priori,
letture kantiane sviluppate in quegli anni da Ernst Cassirer e Hans
Reichenbach, in Italia da Giulio Preti, vanno nella direzione di accogliere la
fecondità del “metodo trascendentale”; le indagini epistemologiche di Colorni
si inseriscono in questa linea di ricerca. Questo capoverso, da Agli scopi fino
a Hilbert, è cancellato a penna nel testo dattiloscritto. Il riferimento è ai
Grundlagen der Geometrie (Fondamenti della geometria) di Hilbert. me rettilinei
e di velocità di propagazione uniforme, non è detto che risulti verificato
l’assioma di Euclide; e questo assioma, se è verificato per il sistema
costruito da un determinato osservatore, necessariamente non è verificato per
il sistema costruito da un altro osservatore, dotato rispetto al primo di
movimento non uniforme. Cinque scritti metodologici Programma1 Supponiamo che
l’uomo viva in un palazzo le cui porte sono tutte chiuse. Egli non ha le
chiavi. Cioè egli ne possiede un mazzetto, ma non sa se esse si adattino alla
serratura, né quale chiave a quale serratura. Prova, riprova, si costruisce
nuove chiavi nella continua speranza di potere un giorno abitare tutto il
palazzo. Lo scienziato è un uomo al quale è riuscito di aprire una porta. Una
chiave, per sua fortuna, o per sua abilità, ha girato nella toppa. Egli apre, e
trova nella camera immensi tesori, li utilizza3 , li mette a disposizione degli
altri uomini che lo ringraziano ammirati. Da quel momento4 la camera è
accessibile a tutti. Entusiasmato, lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte
comincia ad acquistare manie di grandezza. Vorrebbe aprire tutte le porte5 . La
chiave comincia a diventare uno strumento pericoloso nelle sue mani. Egli la
vuole usare dappertutto. Il risultato è che sfonda le serrature. Ci vorrà6 poi
una gran fatica per accomodarle e per trovare o costruire una nuova chiave che
permetta di aprirle (Fuor di metafora: p. es. la medicina è stata rovinata per
secoli dall’ossessione del metodo meccanicistico, che aveva fatto meraviglie
nel campo della fisica. E si è voluto risolvere tutto a base di anatomia, di
rapporti e di modificazioni di tessuti. Nella maggioranza dei casi non si è
cavato un ragno dal buco). Il filosofo, invece, cosa fa? Egli non ha avuto la
fortuna o l’abilità di aprire una porta, ma anche lui è preso dall’ossessione
di aprirle tutte. Con la chiave9 dello scienziato o con un’altra di sua
fattura. La sua ossessione è forte, meno pericolosa10 che quella dello scien1
FS, sez. 3, Attività professionale, 1929-2003, serie 1, Carte organizzate da Vittorio
Somenzi, 1929- 2000, 2, Scatole grigie, 1, Eugenio Colorni e Italo Cotone, b.
3, Colorni. Nel dattiloscritto un primo titolo, barrato, recita come segue:
«SCIENZA E MATERIALISMO // È un caso che tutti gli scienziati tendano ad essere
materialisti? // PROGRAMMA». A margine, scritto a penna, il titolo è fissato
così: «SCIENZA E REALISMO». Un asterisco rimanda alla seguente nota
manoscritta: «(V[edi]. l’“Apologo su quattro modi di filosofare”, altro inedito
di Colorni, in Sigma. Sempre a margine, si ha l’indicazione di stampa, a penna:
«Corpo 10 tondo 11 // giustezza – 10 su 12. Poiché lo scritto si discosta
spesso – nella forma, mai nella sostanza – dalle precedenti edizioni (nelle
quali esso risulta per altro incompiuto), è parso utile indicare in nota le
differenze fra le diverse versioni. Per questo stesso motivo ho talvolta
esplicitato le correzioni e gli interventi sul dattiloscritto. La sigla FS
rimanda al testo presente fra le carte di Somenzi; la sigla E a quello
dell’edizione Einaudi. Benché sia barrato, e per consentire una più chiara
identificazione, si è preferito mantenere il titolo Programma. 2 per sua
fortuna, o per sua abilità FS : per sua fortuna o per sua abilità E. 3 immensi
tesori, li utilizza FS : immensi tesori. Li utilizza Di seguito nel testo di E.
5 lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di
grandezza. Vorrebbe aprire tutte le porte FS : lo scienziato vorrebbe aprire
tutte le porte E. 6 le serrature. Ci vorrà FS : le serrature, ma ci vorrà E. 7
di aprirle (Fuor di metafora FS : di aprirle. (Fuor di metafora E 8 Il
filosofo, invece, FS : Il filosofo invece, E aprirle tutte. Con la chiave FS :
aprirla con la chiave E. 10 è forte, meno pericolosa FS : è forse meno pericolosa
E. Eugenio Colorni ziato, ma più intensa. Per lo scienziato essa è necessaria
accessoria11. Il massimo sforzo è già stato compiuto12 nel trovare la chiave.
Il tentativo di allargamento è spesso solo abbozzato. Il filosofo, invece, è
tutto fatto di questo bisogno. Egli è abbastanza accorto per avvedersi che il
correre da una parte13 all’altra con la medesima chiave si risolve in un danno
e in un disordine. Egli vuole soddisfare alla sua esigenza in un modo
sistematico, che non lasci residui. La sua ossessione è che il palazzo sia completamente
abitabile, aperto in tutte le camere, dai saloni ai ripostigli. Che cosa fa per
soddisfarsi? Si costruisce un palazzo a suo uso e consumo, simile il più
possibile a quello vero, in cui tutte le serrature siano apribili con una sola
chiave, o con le varie chiavi che ha a sua disposizione. Lì si rinchiude; lì15
gli sembra di vivere tranquillo. Ma il palazzo è di cartapesta. In poco tempo
crolla. Le camere sono identiche a quelle dell’altro palazzo, ma sono vuote. Il
poterle aprire non dà all’uomo maggior ricchezza e maggior17 potenza. A volte
avviene che nel lavoro di costruire, al filosofo venga fatto di scoprire o
inventare una chiave nuova, che gli altri uomini possono usare, e provare nelle
varie serrature. In questo caso egli sarà ammirato e studiato solo per questa
invenzione fortuita o strumentale, che nelle sue intenzioni non doveva essere
che un dettaglio del grande edificio. E il grande edificio scompare. Dopo un
secolo nessuno ci crede più, nessuno può più abitarvi dentro. Lo si considera
come un bel rudero, come l’interessante documento di un’epoca; lo si apprezza
per un certo impulso che indirettamente, nei coi suoi contorni, ha dato alle
lotte e alle ricerche dell’umanità. Gli storici, gli esegeti, cominciano a
scuoterlo per vedere se, non potendosene più servire in blocco, non si trovi
del buono fra il materiale della costruzione. E cominciano a distinguere “ciò
che è vivo e ciò che è morto” e a manipolare il sistema ai propri fini. Ne
risulta che ogni pensatore viene, di regola, apprezzato dai posteri per motivi
che egli non avrebbe immaginato e che sono estranei alle sue intenzioni
fondamentali. Quello che egli aveva creduto il suo vero apporto alla cultura e
alla civiltà viene considerato inutile. Il dispendio di energie è enorme.
Vediamo gli uomini più intelligenti dell’umanità dirigere tutti i loro sforzi
per raggiungere mete che andranno poi completamente perdute; e 11 necessaria
accessoria. FS : accessoria, sopraggiunta. E. già stato compiuto FS : già compiuto E. parte FS : porta E. 14 sola chiave, o con FS :
sola chiave o con E. 15 Lì si rinchiude; lì FS : Là si rinchiude, là E. 16 di
cartapesta. In poco tempo crolla. Le FS : di cartapesta, non di mattoni veri.
In poco tempo crolla, si disfa. Le E. 17 ricchezza e maggior FS : ricchezza o
maggior E. scoprire o inventare FS : trovare E. 19 possono usare, e provare
nelle varie FS : possono usare nelle varie E. 20 rudero FS : rudere E. 21 nei
coi suoi FS : nei suoi E. scuoterlo FS :
smontarlo E. ogni pensatore viene, di regola, apprezzato FS : ogni pensatore
(come spesso anche ogni poeta) viene di regola apprezzato E. 24 immaginato e
che FS : immaginato, e che E. Cinque scritti metodologici: 27 siamo costretti a
racimolare con fatica alcuni residui del loro lavoro. Nella25 scienza le cose
sembrano andar meglio. Siamo per lo meno nel palazzo vero, dove le camere sono
piene di ricchezze; e là dove la chiave ha aperto la porta, la potenza
dell’umanità ne è stata infinitamente aumentata. Ma se la porta non si apre?
Dai Greci al Rinascimento, per duemila anni, gli uomini si sono affaccendati a
costruir26 chiavi di tutti i generi e magnifici palazzi di cartapesta. Ma
nessuna porta dell’edificio vero si è aperta ai loro sforzi. Da Galilei e
Bacone27 in poi, alcune sembrano cedere. Una, quella28 del meccanicismo fisico
si è addirittura spalancata. Ma quante restano ancora chiuse[!]?29 Quale sarà
per esse la chiave giusta? L’abbiamo già in mano o dobbiamo ancora
costruircela? E come sfuggire alla continua tentazione di usare per ogni porta
quella che ha fatto una volta buona prova, col rischio di rovinare tutto? La
filosofia odierna, anziché costruire bei palazzi di cartapesta, dovrebbe
proporsi il compito di affacciarsi a questi problemi, e tentare di mettere un
certo ordine, allo scopo di evitare sforzi inutili e raggiungere risultati il
più possibile concreti. Dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in
mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine coi quali noi affrontiamo
il reale e cerchiamo di renderlo utile ai nostri usi. Criteri che, ormai ciò è
chiaro a tutti, trasformano31 radicalmente la realtà, operando una scelta che
ci fa scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato. Ciò che noi chiamiamo
realtà è evidentemente condizionato non solo dai nostri sensi, ma da tutto l’insieme
delle forme, delle categorie, dei criteri associativi e interpretativi senza
dei quali non ci è possibile di pensare e di percepire alcunché. Criteri che
noi potremo studiare, scomporre, modificare; senza però poter mai uscire dal
campo di un’attività del soggetto costitutiva della realtà stessa. Noi34 non
possediamo, allo stato attuale delle nostre conoscenze, alcun nesso mezzo per
eliminare il sole lato35 soggettivo della nostra nozione della realtà; anzi
abbiamo seri elementi per propendere a ritenere che la nozione di una realtà
oggettiva, da noi indipendente,36 sia un’ipostasi della nostra mente,37 do25 A
capo in E. costruir FS : costruire E. Da Galilei e Bacone FS : Da Galileo a
Bacone E. Una, quella FS : Quella E. 29 Chiuse[!]? FS : chiuse! E. 30
d’indagine a penna nel testo FS : ermeneutici E. che, ormai ciò è chiaro a
tutti, trasformano FS : che – ormai ciò è chiaro a tutti – trasformano E. Queste righe, e quelle immediatamente
successive, rappresentano una sorta di compendio della filosofia colorniana,
ossia del ruolo essenzialmente critico-metodologioco che, muovendo «dalla
grande scoperta kantiana» (E. Colorni, Filosofia e scienza, p. 240), essa
dovrebbe svolgere. A capo in E.Di seguito in E. alcun nesso mezzo per eliminare
il sole lato a mano nel testo FS : alcun mezzo per eliminare il polo E. 36
oggettiva, da noi indipendente, FS : oggettiva da noi indipendente E. 37 mente,
FS : mente E. Eugenio Colorni vuta ad un
nostro fondamentale bisogno di contrapporre alcunché a noi stessi, di urtarci
contro qualche cosa, di polarizzare il contenuto della nostra coscienza in un
passivo ed un attivo. Vedi Fichte (Trascendenza interna)38. Ciò che chiamiamo
realtà non è dunque né l’oggetto né il soggetto39, ma alcunché nella costituzione
del quale il soggetto, con i suoi criteri e le sue categorie, ha una gran parte
e41 che noi, per comodità di studio, consideriamo per un istante come dato di
fronte a noi, coscienti che con ciò noi poniamo di fronte a noi qualche cosa
cui partecipiamo noi stessi. Ora questo “qualche cosa” gli uomini si sforzano
di manipolarlo ai loro usi, di penetrare nella sua costituzione, di prevedere
il suo divenire, di costruire in base alle previsioni. A seconda che si
accentui il carattere oggettivo o soggettivo di questo lavoro, lo consideriamo
un “penetrare nelle leggi della natura” oppure un estrarre dalla natura un
certo numero di elementi regolari per usarli a loro vantaggio, un cedere alla
natura” o un “farle violenza”, e si chiamano positivisti o pragmatisti. Ma
questa distinzione riguarda il significato metafisico dell’attività umana, non
la sua conformazione, i suoi procedimenti, il suo fine: che è ciò che
c’interessa qui di indagare per contribuire al progresso dell’umanità46. Lo
scienziato non conosce concretamente un problema del carattere pratico e
teorico47 della sua attività. Egli non si domanda mai, seriamente, se ciò che
lo spinge alla ricerca sia il “bisogno di sapere” inteso come fine a sé stesso,
o la speranza che gli uomini possano ricavare un utile dalla sua scoperta. Egli
si dedicherà secondo la sua attitudine ad un campo più vicino alla ricerca pura
o più vicino alle applicazioni. Ma nella sua mente ricerca e applicazione
costituiscono un tutto unico di cui solo per comodità di studio e per la
necessità della divisione del lavoro egli scinde a volte le parti. La scoperta
si considera come la naturale, evidente premessa dell’invenzione:51
l’invenzione come la conseguenza della scoperta. L’antitesi
positivismo-pragmatismo non ha senso per lo scienziato, e non moVedi Fichte
(Trascendenza interna) FS : (Vedi Fichte, Trascendenza interna) E. Su questo
aspetto della metodologia colorniana, si legga quanto affermato da Ferruccio
RossiLandi, che rileva fra l’altro, negli scritti colorniani, la presenza di
«quel disimpegno dalla visione realistica del mondo […] che è merito della
migliore critica idealistica, soprattutto negli sviluppi dell’attualismo»
(Sugli scritti di Eugenio Colorni, in «Rivista critica di storia della filosofa
né l’oggetto né il soggetto FS : né il soggetto né l’oggetto il soggetto, a mano nel testo FS : l’uomo parte
e FS : parte; e E. A capo in E. un estrarre dalla natura un certo numero di
elementi regolari per usarli a loro vantaggio, FS : un “estrarre dalla natura
un certo numero di elementi, regolarli per usarli a loro vantaggio”; E. 44 “un
cedere FS : un “cedere E. 45 violenza”, e FS : violenza”. E E. 46 per
contribuire al progresso dell’umanità FS : per raggiungere risultati utili e
teorico FS : o teoretico sé FS : se E. 49 dedicherà secondo la sua attitudine
ad FS : dedicherà, secondo le sue attitudini, ad E. Ma nella sua mente ricerca
FS : Ma, nella sua mente, ricerca
dell’invenzione: dell’invenzione; E. Cinque scritti metodologici: difica
in nulla il suo agire. Lo scienziato lavora insomma su qualche cosa che egli ha
di fronte a sé e della quale sono elementi costituenti alcune “forme” e
“categorie” che provengono dalla sua mente, incorniciano la realtà e gliela
rendono comprensibile e afferrabile. Di queste forme o categorie egli ne
considera alcune come appartenenti alla realtà, esistenti assolutamente al di
fuori di sé. Quali sono? Sono quelle cui egli si sente necessariamente legato,
di cui non può in alcun modo fare a meno, senza le quali gli sarebbe
impossibile vedere e pensare. Kant ne ha elencato5 alcune: spazio, tempo,
causalità, numero ecc. Egli ha riconosciuto sì che esse vengono imposte alle
cose dallo spirito dell’uomo; ma col dare ad esse un carattere necessario ed a
priori, ha ammonito gli uomini sulla impossibilità di uscire da esse. Infatti
gli uomini comuni, senza preoccuparsi della loro provenienza e accontentandosi
del fatto che di quelle categorie non si può fare a meno, le attribuiscono
senz’altro alla realtà. Ma l’osservazione di Kant ha messo tutti sul chi vive;
e la curiosità di vedere al di là del “velo di Maja” delle categorie si è fatta
sempre più intensa. Si può dire che la filosofia si sia scissa a questo
proposito in due opposte direzioni, a seconda che l’ammonimento di Kant sia
stato seguito o no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati60 hanno
continuato a considerare le categorie come reali, e a lavorare in un mondo
costruito sulla base di queste categorie, contentandosi a volte di mantenere
nello sfondo l’ombra di un inconoscibile (Spencer, positivisti), oppure62 di
acquisire coscienza della relatività dei loro sforzi, limitando63 il compito
della scienza alla costruzione di ipotesi semplici e maneggevoli (Poincaré,
pragmatisti). Su questa via essi hanno continuato ad ottenere un buon numero di
successi, proseguendo quell’indagine e quello sfruttamento della natura che era
cominciato con Galilei e Newton, e che consisteva nell’uso sistematico di
quelle categorie che poi Kant elencò. Ma si ha già da qualche tempo
l’impressione che il campo stia per esaurirsi e che non restino da fare in
questa direzione se non scoperte particolari di importanza ristretta. I
filosofi invece, insofferenti di qualsiasi dualismo o relativismo, e
preoccupati di saldare l’unità del reale, preferiscono eliminare la tentazione
del52 A capo in A capo in E. 54 impossibile FS : assolutamente impossibile E. elencato FS : elencate E. spazio FS : Spazio
E. numero ecc. FS : numero, ecc. E. A capo in E. filosofico FS : filosofico
scientifico E. 60 no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati FS : no.
(I) Fra quelli che l’hanno seguito (a) gli scienziati E. categorie,
contentandosi FS : categorie; contentandosi positivisti), oppure FS : positivisti); oppure
E. sforzi, limitando FS : sforzi; limitando E. 64 Newton, e FS : Newton e di FS : , di I filosofi invece, FS : (b) I filosofi,
invece, E. Eugenio Colorni 30 la “cosa in sé” col negarne addirittura
l’esistenza; e attribuire realtà assoluta al pensiero nella sua forma
universale68. In tal modo essi soddisfecero contemporaneamente all’esigenza
Kantiana69 di non uscire dalle leggi del pensiero e al bisogno tipicamente
filosofico di risolvere senza residui il problema della realtà; incuranti
d’altronde se questo loro sistema li conducesse o no a un qualsiasi risultato
apprezzabile che non si limitasse alla soddisfazione del loro bisogno di
completezza. Coloro invece71 che “hanno disubbidito” sembrano a tutta prima
disprezzare l’ammonimento di Kant e trascurare i limiti da lui posti: ma in
realtà sono essi suoi figli molto più che gli ubbidienti. Quel limite, quella
barriera appunto li ha eccitati ad andare al di là: ha indicato loro la
direzione verso cui rivolgersi Cominciamo74 questa volta dai filosofi. a) - Il
filosofo vuol gustare il frutto proibito. Ma egli sa oramai che non potrà mai
raggiungerlo con le categorie, con75 le quali Kant gli ha indicato così
chiaramente i limiti. Egli abbandona per sempre le illusioni della metafisica e
della teologia, cioè i tentativi di afferrare la realtà assoluta con gli
strumenti della ragione; ed76 è alla continua ricerca di un altro strumento che
gli permetta di raggiungere il suo scopo. Volontà, fede, intuizione, ispirazione:
in una parola l’irrazionale è ciò cui egli si affida. Ad esso egli attribuisce
tutte le possibilità che mancano alle categorie della ragione. Con esso egli
afferma di poter aprire tutte le porte del palazzo. Ma che garanzie gli dà la
nuova chiave? Semplicemente di non essere79 la vecchia. Ogni interpretazione
irrazionalistica del mondo, là dove non consista in esplosioni di entusiasmo, è
una polemica contro l’impotenza della ragione. Polemica spesso acuta e giusta,
ma che non costituisce un motivo bastante per accettare come criterio
definitivo tutto ciò che ragione non è. Le80 esplosioni d’entusiasmo81 ,
invece, sono a volte più interessanti e fruttifere. Esse ci permettono di
penetrare, sia pure in modo confuso, nella costituzione interna di queste
attività irrazionali; di conoscere un po’ meglio quali siano i loro
procedimenti. Ciò che ha paralizzato però tale indagine e non le ha permesso di
dare finora se non scar e FS : ed E. Evidente riferimento all’idealismo nei
suoi diversi modelli. 69 Kantiana FS : kantiana E. 70 se FS : che E. 71 Coloro
invece FS : (2) Coloro, invece, E. disubbidito” FS : disubbidito”, E. appunto
FS : appunto, E. 74 Di seguito in E. 75 categorie, con FS : categorie delle E.
76 teologia, cioè i tentativi di afferrare la realtà assoluta con gli strumenti
della ragione; ed FS : teologia – cioè i tentativi di afferrare la realtà
assoluta con gli strumenti della ragione – ed E. 77 parola FS : parola, E. 78 A
capo in E. essere FS : esser E. A capo
in E. d’entusiasmo FS : di entusiasmo E. Cinque scritti metodologici: 31
sissimi risultati,82 è che tali attività sono sempre state descritte appunto
col presupposto e con l’esigenza di attribuire ad esse un valore assoluto,
molto superiore a quello della ragione. Preconcetto il quale ha naturalmente
deformato la descrizione ed ha impedito qualsiasi seria indagine sull’uso che
di questi atteggiamenti si potrebbe eventualmente fare. Anche qui la fretta di
chiudere il circolo e il bisogno filosofico di rinchiudersi in un edificio
abitabile in tutte le sue parti ha impedito di compiere qualsiasi vero
progresso. E le interpretazioni irrazionalistiche della realtà si sono succedute
l’una all’altra senza condurre l’umanità ad alcuna conquista stabile. È questo
un fenomeno che si ripete da secoli; ché la constatazione delle insufficienze
della ragione e il tentativo di affidarsi ad attività irrazionali non data da
Kant, ma è vecchio, si può dire, quanto la nostra civiltà. E la massa di
esperienze che si è venuta raccogliendo è83, se non ordinata, pure imponente; e
dà l’impressione di una grande miniera inesplorata85 in cui il materiale
prezioso è unito con le scorie. Siamo qui ad uno stadio di evoluzione e di
sfruttamento molto meno sviluppato che nel campo della ragione. Il materiale
della ragione è stato esplorato a fondo, inventariato, ordinato dal pensiero
greco e dalla scolastica. Con Galilei e Newton ha trovato il campo cui applicarsi,
conducendo ai vastissimi risultati che conosciamo. Kant infine88 ne ha
tracciato i limiti segnando insieme (forse un po’ in anticipo) l’esaurirsi
della miniera dal89 quale esso traeva ricchezze. Il campo dell’irrazionale
probabilmente comprende regioni infinitamente più vaste che quelle della
ragione, contenenti materiale dal carattere più eterogeneo, atto agli usi più
disparati. Il fatto solo che siamo abituati a classificarlo secondo la rubrica
negativa del “non rientrare nella ragione” ci mostra lo stato disordinato delle
nostre conoscenze al proposito. Ordinare questo mondo in modo che ci possa
servire, analizzarlo con mente tranquilla e senza preconcetti entusiasmi od
avversioni, liberarlo dal continuo incubo del confronto con la ragione ed infine
tentare se alcuni dei dati così ottenuti ci possono90 servire come criterio per
risolvere qualche problema, come chiave per aprire qualche porta: ecco il
compito che s’impone oggi alla nostra indagine91 . Va92 da sé che i metodi da
usarsi non saranno i medesimi che si sono usati per il mondo razionale: e che
l’ordine ottenuto non assomiglierà neppure da lontano a quello che noi
conosciamo nel campo logico-matematico. La parola 82 risultati, FS : risultati
E. raccogliendo è, FS : raccogliendo, è, E. 84 imponente; FS : imponente: E. 85
inesplorata FS : inesplorata, E. 86 unito FS : misto E. 87 A capo in E. 88 Kant
infine FS : Kant, infine, E. dal FS : dalla possono FS : possano Nietzsche»,
afferma Colorni in Critica filosofica e fisica teorica aveva indicato, con
acredine iconoclasta, il cammino. Ci fu chi lo seguì col pacato distacco
dell’indagatore, ove il riferimento è chiaramente al metodo psicoanalitico. Di
seguito in E. Eugenio Colorni stessa “ordine” non vuole avere qui che un
significato analogico. Si tratterà di attingere nel mondo stesso dell’irrazionale
per trovare in esso dei punti intorno a cui quella materia possa coagularsi e
offrirci dei punti di appiglio per essere da noi usata. Sarebbe assurdo e
avventato dare qui direttive e indicazioni. La riuscita di questo lavoro
dipenderà dalla fantasia e dal fiuto di chi lo compie, dalla sua capacità di
servirsi liberamente di esperienze fatte in altri campi senza lasciarsene
suggestionare, dalla mobilità e ricchezza della sua facoltà di combinazione. Il
risultato massimo sarà di mettere l’umanità in possesso di una o più nuove
chiavi capaci di scoprire nuove leggi del reale o, se preferite, di costruire
nuovi sistemi di concordanze che si offrano al nostro uso e ci permettano di
soddisfare alcuni nostri bisogni. b) - Lo scienziato che dalla messa a punto
kantiana ha ricevuto l’impulso ad andare al di là delle categorie, non
s’indugia però nella ricerca dell’irrazionale, che non offre, finora, alcuna
presa ai suoi metodi. La sua mentalità è ancora imperniata completamente sul
razionalismo logico-matematico, che ha permesso ai secoli scorsi di compiere le
grandi scoperte di cui vive la nostra civiltà. Ed il superamento che egli vuol
compiere non98 è un superamento di principio, trasportandosi di un salto in un
mondo completamente diverso, ma graduale, volta a volta seguendo le esperienze
che non sono giustificabili mediante le leggi finora conosciute. Egli non si
domanda quale sia la realtà assoluta che si cela agli occhi degli uomini dietro
il velo delle categorie; ma piuttosto come sia possibile apprendere e organizzare
il materiale secondo categorie che siano diverse da quelle finora usate. In
questo senso egli è molto meno realista che il del filosofo idealista o mistico
o che lo dello scienziato positivista. E in questo senso si può quasi dire che
egli porti una conferma sperimentale, se non alla necessità a priori delle
categorie kantiane, almeno alla dottrina kantiana delle categorie. Lo
scienziato di regola non ha letto Kant. dei FS : quei E. campi senza FS : campi, senza E. concordanze
FS : concordanza E. E. logico-matematico, che FS : logico-matematico che compiere
non FS : compiere, non E. di un FS: d’un
E. e FS : ed E. che il del FS : che il E. 102 che lo dello FS : che lo E. Proprio
in questo comune punto di arrivo», scrive Colorni in Critica filosofica e
fisica teorica trattando delle diverse forme della filosofia e della
epistemologia postkantiane, «in questa medesima esigenza, in questa eguale
preoccupazione di raggiungere una base stabile cui si possa attribuire un
valore obbiettivo, tali diversi modi di procedere riconoscono forse tra di sé
quella parentela di premesse e di fini che permette loro di attribuirsi il nome
comune di filosofia. La scienza, al contrario, e precisamente perché figlia
della rivoluzione kantiana, rifiuterà al contrario di operare secondo il
criterio delle affermazioni di verità per muoversi attraverso un procedimento
di composizione e scomposizione della propria materia. sperimentale, se FS :
sperimentale se E. 105 Kantiane FS : kantiane E. Kantiana FS : kantiana E. Cinque
scritti metodologici. Ma l’atmosfera diffusa del Kantismo e la nozione stessa
della categoricità del reale gli suggeriscono di porsi, di fronte ad una nuova
esperienza inspiegabile, nell’atteggiamento di colui che attribuisce tale
inesplicabilità alla violenza che le categorie tradizionali operano sulla
ricerca organizzando ogni dato secondo le loro forme. Dal quale atteggiamento
deriva direttamente il tentativo di modificare le categorie e provarle di
nuovo, così modificate, sul metro della interpretazione scientifica.
Modificare, ho detto, non abolire. Qui si mostra la modestia dello scienziato,
il suo voler provare una dopo l’altra le chiavi, il suo volontario limitare il
proprio orizzonte. Da quando egli si è accorto di usare delle categorie nella
formulazione delle sue leggi, è continuamente tentato di provare che cosa
avverrebbe se queste categorie fossero fatte altrimenti. Come si
comporterebbero i fenomeni in uno spazio che non sia quello euclideo? Materia,
energia, sostanza, causalità. Che aspetto avrebbe un mondo in cui queste
categorie si presentassero con caratteri diversi da quelli che hanno finora
avuto? L’elemento a priori del reale, divenuto cosciente nell’uomo, comincia ad
eseguire un gioco di spostamenti, di retrocessioni, di modificazioni tale da
trasformare completamente l’immagine della realtà sulla quale gli uomini
lavorano: come un obbiettivo che abbia imparato ad aprirsi e a chiudersi, a
mettersi a fuoco a seconda delle esigenze dell’oggetto da ritrarsi. E se da un
lato si può dire che questo accomodamento delle categorie viene imposta dalle
modalità della ricerca scientifica, cioè dalle esperienze e dalle osservazioni
che non è possibile far rientrare nelle categorie finora usate (cioè quelle
dell’universo newtoniano), d’altro lato è avvenuto forse che gli scienziati,
tratti dalla vaga sensazione di essere sul punto di crearsi nuovi strumenti per
l’apprensione del reale, fossero attratti appunto da quelle esperienze che dei
nuovi strumenti potessero aver bisogno. L’esperienza non è mai evidentemente
qualche cosa di puramente passivo, e vi è sempre un motivo perché lo
sperimentatore raccolga la sua attenzione su di un fatto piuttosto che su di un
altro108. Comunque se la conformazione delle singole categorie è stata
fortemente modificata dalla scienza moderna, non è stata modificata, anzi è
stata rafforzata la coscienza della categoricità del reale. Il filosofo può
giungere con ragione alla conclusione che le nuove teorie fisiche non hanno
intaccato la concezione Kantiana del mondo. Noi diremmo che esse hanno tratto
da quella concezione le uniche conseguenze che aprono alla mente umana nuove indefinite
prospettive di ricerca. Le quali non consistono in una vaga e problematica
evasione dalle categorie, ma in una tranquilla accettazione del fatto che non è
possibile prescindere da una “categoricità”. Accettazione che permetta però la
continua revisione delle esistenti. Kantismo e la nozione stessa FS : kantismo
e la nozione stessa E. Da questo punto comincia la conclusione assente nelle
precedenti edizioni del testo. 108 Sulla revisione colorniana del concetto di
esperienza, cfr. supra § 3. 109 Colorni non si astiene mai dal sottolineare,
nei suoi scritti metodologici, «quanto vantaggio derivi alla scienza stessa
dall’eliminazione del suo substrato metafisico-finalistico» (E. Colorni, Del
finalismo nelle scienze, pp. Cfr. p.e. Id., Critica filosofica e fisica teorica.
Non c’è miglior propaganda per un nuovo atteggiamento intellettuale e morale
che il fatto che esso si dimostri una chiave capace di aprire molte porte nel
campo della scienza e della conoscenza». Eugenio Colorni 34 categorie; cioè di
quelle categorie dalle quali la mente umana al suo stato attuale non può
prescindere. Non è forse inutile precisare che tale revisione non ha nulla a
che fare con quelle discussioni sulle classificazioni delle categorie di cui i
filosofi così spesso si dilettano. Non si tratta affatto di discutere se le
categorie siano dodici o dieci, o quattro o una. Se il “finalismo” costituisca
una categoria a sé o rientri in un’altra. Se l’“economico” e l’“estetico” siano
modi autonomi o meno di considerare le cose. Non si tratta di organizzare le
forme conosciute del pensiero, e accordarsi su quali si debbano considerare
originarie, quali derivate. Il lavoro da compiersi è molto più profondo e
creativo. Si tratta di dare allo spirito umano la possibilità di vedere le cose
in modo completamente diverso da quello usato finora; di fornirlo di un nuovo
senso, mediante il quale egli possa scoprire cose finora sconosciute, risolvere
problemi finora insolubili. L’atteggiamento “critico” in senso Kantiano si
mostra così come l’ultima fase di tutta un’epoca e di un modo di prendere
contatto col reale. La scienza messa nella possibilità di prendere piena
coscienza non solo dei propri metodi, ma delle premesse necessarie di ogni sua
costruzione, riceve da ciò l’impulso a superare tale necessità ed a crearsi
premesse nuove. Il lavoro che qui compie lo spirito non ha solo i caratteri di
una ricerca intellettuale. Ne fanno parte alcuni atteggiamenti che possiamo
raccogliere sotto il nome generico di morale. Si tratta di uno sforzo violento
contro un modo di considerare le cose cui tutto ci tiene legati, di tendenze
alla liberazione, di salti fuori dal mondo cui si apparteneva. Si cerca di
rifarsi una “nuova mentalità”, di vedere le cose con occhi diversi, di
ritornare semplici, di rifiutare le costruzioni già fatte. Ci si affida alla
fantasia, all’invenzione, all’intuizione, per immaginarsi mondi diversi da
quello che siamo abituati a vedere. Tutti questi movimenti di conversione dello
spirito, che siamo abituati [ad] attribuire al mistico o all’uomo desideroso di
purificazioni o di visio. È questo il tema affrontato fra l’altro nel dialogo
di Commodo dedicato a Dell’antropomorfismo nelle scienze, là dove Colorni,
stabilendo la necessità di rovesciare l’umana tendenza a ricreare una natura
fatta a propria immagine e somiglianza, distingue due differenti forme di
antropomorfismo, a seconda che si sia o meno consapevoli – e si sappia quindi
controllarne i risultati – della nostra impossibilità di prescindere dalla
“categoricità del reale”: il primo antropomorfismo è «una constatazione, o
meglio una necessità, dalla quale non siamo riusciti a uscire, l’altro è invece
una esigenza. Ora io odio le esigenze. Non ho nemmeno alcun motivo di amare le
necessità, ma da queste non vedo alcun modo per liberarci, se non
illusoriamente. Evidente riferimento allo storicismo crociano, su cui Si mostra
qui, in tutta la sua originalità, il senso più profondo che Colorni attribuisce
al kantismo all’interno della storia del pensiero filosofico e scientifico
della modernità. E. Colorni, Critica filosofica e fisica teorica (p. 206), ove
si sottolinea il carattere essenzialmente morale che caratterizza il primo
impulso alla scoperta scientifica: «alla base di ogni grande scoperta, di ogni
rivoluzione nel campo della scienza, c’è una conquista morale; l’abbattimento
di un idolo saldamente insediato e abbarbicato fra le pieghe della nostra
anima, di cui è estremamente difficile accorgersi, estremamente doloroso
liberarsi; idolo fatto per lo più di un cieco ed infantile amore per noi
stessi, di un bisogno di sentirsi circondati da forze a noi congeniali, di veder
ripetuto nell’universo, nella realtà oggettiva, ciò che sperimentiamo nel
nostro intimo». Cinque scritti metodologici: 35 ni, non devono essere stati
estranei a chi si è sforzato per il primo di immaginare la terra rotonda
anziché piana, o il sole immobile e non la terra in mezzo ai pianeti, o lo
spazio a quattro e non a tre dimensioni. Solamente che mentre il mistico suole
descrivere molto accuratamente il processo della conversione, ma si ferma solo
ad esso e non ci dà alcuna garanzia quando comincia a parlare di ciò che egli
trova “al di là”, lo scienziato invece compie la conversione silenziosamente,
spesso quasi inconsciamente; ma giunto al di à, cioè al nuovo punto di vista, è
sollecito ad occuparsi solo di ciò che sia non dico vero in senso assoluto, ma
usabile, cioè organizzabile in un ordine, in una legge. E per giungere a ciò
escogita esperimenti e controlli che gli diano la garanzia di camminare su un
terreno sicuro, sul quale sia possibile ai suoi strumenti di far presa. L’“al
di là” non è affatto una negazione del di qua, non è un assoluto privo di
categoria. È un mondo di nuove categorie che pretendono di essere più vaste, di
comprendere in sé anche le vecchie. Rotondo anziché piano, meccanismo anziché
finalismo, probabilità statistica anziché determinazione causale. La validità
delle nuove chiavi è determinata dal loro uso, cioè dalla maggiore o minore
possibilità che esse offrano di spiegare fenomeni, di risolvere problemi, di
formulare leggi. La maggiore difficoltà consiste nell’abituarsi al nuovo modo
di vedere. Non esiste neppure un vocabolario che permetta di esprimere le cose
nei termini delle nuove categorie, e si è comunemente costretti a ricorrere a
metafore tratte dal mondo vecchio. Gran parte del lavoro, nei primi tempi,
consiste nell’escogitare una formula di trasformazione che permetta di passare
agevolmente dai termini delle vecchie categorie a quelli delle nuove. Come le
leggi della prospettiva mi permettono di rappresentare su un piano ciò che ha
un volume nello spazio, così le “trasformazioni di Lorentz” mi permettono di
usare gli strumenti a mia disposizione (calcolo, misura, ecc.) nello spazio
normale, per il nuovo spazio einsteniano; analogamente la psicanalisi tenta di
tra Il dominio della natura è divenuto così il prezzo dell’incredulità. È come
se la grazia venisse a toccare proprio colui che ha cessato di sperarla. Il
coraggio di riconoscersi abbandonato da Dio, di rinunciare ad essere il centro
e lo scopo dell’universo, apre immediatamente l’occhio agli uomini, li arricchisce
d’un immenso patrimonio. A bella posta abbiamo espresso queste cose in un
linguaggio mistico. Quando Kant parla di rivoluzioni dovute all’ardimento di un
sol uomo, di illuminazioni subitanee, di vie improvvisamente aperte a chi
brancolava alla cieca, c’è in lui sicuramente la coscienza che una vera grande
conquista conoscitiva è sempre frutto – più che di uno sforzo logico o di uno
sviluppo dialettico – di un capovolgimento affettivo e morale; di una
inversione di valori, di una vittoria conquistata contro se stessi e contro ciò
cui con più profondi e tenaci ed inconsci vincoli siamo legati. Chi compie per
primo un capovolgimento deve anzitutto combattere nel suo intimo una lotta non
molto diversa da quella che combatte l’uomo che voglia raggiungere lo stato di
perfetta passività ed umiltà di fronte al suo dio. Molinos diceva che non
bisogna chiedere nulla a Dio, neppure la propria salvazione. Lo scienziato deve
pure rinunziare all’idolo di una natura che parli il suo medesimo linguaggio,
di un mondo organizzato in vista dei suoi bisogni e dei suoi organi. Solo
questa assoluta vuotezza e purità, questa mancanza di anticipazione gli
permetterà di aprire gli occhi su se stesso e sul mondo». L’osservazione
rientra pienamente nell’antirealismo della metodologia colorniana. D’altra
parte, risulta di particolare interesse il tentativo di delineare le
caratteristiche che dovrebbero assumere le nuove categorie rispetto a quelle
che volta per volta si vanno ad abbandonare. Eugenio Colorni sformare in
termini della coscienza ciò che è inconscio. Mediante tali trasformazioni si
aiutano anche gli altri uomini a trasportarsi sul nuovo piano; si forniscono
loro, per così dire, gli occhiali che permettono di vedere con la nuova
illuminazione, finché non si sarà tanto avvezzi da poter fare a meno di
occhiali, ed usare un linguaggio diretto. Ma il linguaggio appunto serba sempre
le tracce di ciò, e le etimologie documentano spesso tali mutamenti di registro.
Tale è, presso a poco, lo stato delle cose attualmente. Si veda, fra i
riferimenti colorniani alla psicoanalisi e a mero titolo di esempio, quanto è
dall’autore affermato nel dialogo intitolato Della lettura dei filosofi. La
psicanalisi è una scienza ad uno stadio che corrisponde circa a quello
dell’astronomia prima di Copernico, e dell’alchimia prima della chimica. Ha
individuato in modo vago, mitico, pieno di pregiudizi e di troppo rapide
generalizzazioni, delle relazioni e dei rapporti finora inosservati. Ha
abbozzato una parvenza di metodo di ricerca: metodo talmente incerto e
malsicuro che il più delle volte conduce a risultati opposti a quelli che si
volevano ottenere. Ma insomma, si muove in un campo completamente sconosciuto,
e il materiale che sta portando alla luce è di un tale interesse, che il
rifiutarlo solo perché non è stato ancora capace di organizzarsi secondo gli
aurei schemi del metodo scientifico mi sembra il colmo del filisteismo
professorale». L’accenno alla possibilità di una condurre una vera e propria
analisi categoriale attraverso lo studio del linguaggio è forse uno degli
aspetti più interessanti ed originali di queste pagine Cinque scritti
metodologici Commodo a Ritroso Vedo che non sei sazio di facili vittorie. Se il
tuo scopo era di dimostrare che tu sai l’economia e io no, l’hai raggiunto pienamente,
a tua perenne gloria e soddisfazione. Ma se io volessi ritorcere le tue
intimazioni sulla mia abilità nelle scienze di cui mi occupo, ti direi che, con
tutta la tua bravura, non sei stato neppure capace di chiarire il mio dubbio.
Non te lo dico, perché sono sicuro che ci saresti riuscito facilmente, solo che
ti fossi occupato di capire attraverso gli sbagli e le imprecisioni, quello che
ho cercato di dire, anziché limitarti a sfogare a tua rabbia. Se un dilettante
o un principiante di teoria della scienza mi viene a parlare di corpo rigido in
un senso errato e diverso da quello usato dai fisici, io cerco di capire quale
concetto egli cerchi di adombrare dietro al termine improprio; e mi guardo dal
cedere alla meschina soddisfazione di prenderlo in castagna ad ogni parola. Il
fare così, con tua buona pace, si chiama in italiano pignoleria. Io non voglio
prendere sul serio questo tuo modo di discutere che è probabilmente solo una
reazione alla mia aggressività, e il riflesso di arrabbiature prese non in
questa ma in altre discussioni. E non ho ancora perso la speranza di trovare in
te un esperto ed aperto iniziatore ai problemi dell’economia, anziché un geloso
e gretto sacerdote del tempio della scienza. Questo metodo, hai ragione, è
supremamente irritante e presuntuoso; ma a me è molto utile, perché mi
permette, fra l’altro, di appropriarmi i concetti fondamentali con maggiore
consapevolezza, senza subirli, e mantenendo rispetto alle scienze quel certo
distacco che è pur necessario al critico e al metodologo. Una nozione si forma
molto più salda nella mia mente, quando ha resistito vittoriosamente ai miei
ripetuti attacchi, che quando l’ho dovuta imparare dalle pagine di un manuale.
1 FS, sez. 1, Carte personali, serie 2, Documenti diversi, b. 3, Inediti di
Eugenio Colorni. Per la storia di questo scritto in relazione agli altri
dialoghi economici colorniani, si rinvia alla Nota del curatore. Così si
rivolge Commodo a Ritroso in E. Colorni, Dell’antropomorfismo nelle scienze. Mi
pare che tu sia un po’ troppo attaccato, o Ritroso, alle prerogative
professionali. Sei proprio sicuro che l’aver frequentato una scuola ufficiale e
aver letto molti trattati, e avere una lunga consuetudine coi ferri del
mestiere, sia una condizione assolutamente necessaria per capire qualche cosa
dei principî fondamentali di una scienza? Non vi è mai capitato di dover dire a
una persona una di quelle cose scottanti, dopo le quali non si ha più il
coraggio di guardarsi negli occhi? Ebbene, se voi scegliete il partito di
prenderlo in disparte con tono mansueto e fraterno, mostrandogli comprensione
ed affetto, e lo consolerete, e cercherete di addolcirgli in tutti i modi la
pillola; se farete questo, siete dei volgari istrioni, innamorati di voi
stessi, infatuati della vostra funzione, incapaci di comprendere e di amare
l’amico. Voi vorreste assestargli il colpo che darà inizio per lui a una
dolorosa lotta contro se medesimo, e in più avere la sua gratitudine, la sua
ammirazione. Vorreste, nel momento in cui egli si sente basso e spregevole,
apparirgli voi come l’arcangelo liberatore, il puro, il disinteressato,
l’immacolato. Se vi prende a calci, è il meno che possa fare. Ditegli invece le
medesime cose in un accesso di rabbia, in una lite violenta, in cui voi avrete
almeno altrettanto torto quanto lui. Buttategli in faccia queste verità come
veleno che schizzi dalla vostra lingua; dategli un appiglio per difendersi,
un’occasione di odiarvi, di considerare tutto ciò che gli dite come falso e
malvagio. Il vostro Eugenio Colorni Non so se questo possa servire agli
occhi tuoi da giustificazione. Non credere che questo metodo sia in me qualche
cosa di cosciente e di voluto. Me ne accorgo oggi per la prima volta, cercando
di analizzare perché le tue accuse mi colpiscono e insieme non mi colpiscono.
Delle tue osservazioni incasso senz’altro la lezione sulla matematica; io non
avevo avuto altra intenzione che di riinventare per conto mio quell’ombrello; e
naturalmente l’ho inventato più brutto, più goffo e confuso di quello che c’è
già. Il solo punto che non mi è ancora chiaro è quello indicato nell’accluso
foglietto. Mi basta che tu risponda a monosillabi e credo che non ci perderai
più di un quarto d’ora. PALINODIA COMMODO A RITROSO Da principio mi sono preso
una solenne arrabbiatura, e ti avevo già risposto una lettera piena
d’insolenze. Poi, nel rileggere tutto insieme a mente più calma, ho visto che
in fin dei conti hai tutte le ragioni. Ma, poiché le tue accuse mi toccano solo
in un certo speciale modo, vorrei spiegarti quanto segue a puro titolo di
chiarimento personale: Da uno che si avvicina ad una scienza che non conosce è
giusto di pretendere che lo faccia “con le ginocchia della mente inchine”
pronto ad apprendere anziché a criticare. Gli s’impone, e ben a ragione, un
lungo e silenzioso noviziato, solo finito il quale gli si potrà accordare voce
in capitolo. Tutto questo è giusto (e lo dico senza la minima ironia). Ma il
risultato è che un uomo, di solito, di questi noviziati ne fa uno solo, e vi
resta legato per tutta la vita. Si specializza in una materia, e da essa non
esce, salvo che per excursus curiosi e dilettanteschi. Ora a me questo non è
concesso, giacché i miei interessi più specifici si rivolgono alla metodologia
delle scienze. E dato che mi farebbe schifo risolvere il mio problema
dall’alto, escogitando un paio di criteri filosofici e applicandoli poi come
chiavi capaci di aprire tutte le porte6 ; sono costretto ad avvicinarmi a
insegnamento allora penetrerà nel suo cuore in modo umano, lieve, benefico.
Egli sarà libero di accoglierlo come cosa sua, e avrà modo di stimare se stesso
per non avervi serbato rancore. Nella sua accettazione ci sarà il senso di fare
una conquista, di costruire qualche cosa. Non vi temerà. Che sia questo il
senso del mito di Nereo, l’indovino col quale bisognava azzuffarsi perché si
decidesse a profetare?». Su questa immagine del mito di Nereo, rinvio ad A. Cavaglion,
«Il mio poeta». Colorni, Saba e la psicoanalisi, in G. Cerchiai e G. Rota, Eugenio
Colorni e la cultura italiana fra le due guerre, Cfr. quanto spiegato nella
Nota del curatore. Citazione a senso da Vergine bella, che di sol vestita, dal
Canzoniere di Petrarca (CCCLXVI, v. 63). E. Colorni, Giustificazione, Colorni disprezza
coloro che chiamano filosofia l’aver trovato una formula per interpretare il
mondo. La metafora della chiave è spesso utilizzata da Colorni per indicare
precisamente l’errore di scambiare la ricerca filosofico-scientifica con la
scoperta di un criterio esplicativo unico ed onnicomprensivo. Su tale metafora
cfr. anche Programma. ciascuna scienza, non per esserne genericamente
informato, ma con l’impegno di osservarne con occhio critico gli interni
meccanismi e cavarne conclusioni non genericamente filosofiche, ma che possono
aiutare il procedere della scienza stessa. Se voglio far questo è chiaro che
non posso pretendere di sfuggire al noviziato più severo, in ciascuna delle
scienze cui mi avvicino. E non mi sogno di sfuggirvi. Posso però cercare di
rendermelo più piacevole. Il metodo che, inconsciamente, ho trovato, è questo:
Anziché accostarmi a grossi trattati con fare accogliente e passivo, pronto ad
imparare e ad adagiarmi nell’ordine della loro esposizione, io parto con la
lancia in resta, pieno di idee sballate e confuse, sfondando porte aperte ad
ogni passo, ed inventando ombrelli, desideroso di scontri e di battaglie. Da
ogni scontro esco ammaccato e contuso (come da questo con te) ma con un’idea
più chiara. Ogni knoch out subito mi fa fare un passo avanti nella comprensione
della scienza. Così non evito naturalmente, lo studio; e della lettura dei
trattati non posso certo fare a meno: ma mi riesce più piacevole leggerli come
appassionati combattenti, piuttosto che come amorosi pedagoghi. A patto,
s’intende, di non impuntarsi mai, e di essere pronto a riconoscere la sconfitta.
Laboratorio dell’ISPF. Geri Cerchiai ISPF-CNR, Milano. Laboratorio dell’ISPF. Saggi
di Colorni conservati presso la “Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del
dipartimento di Fisica, Fondo Vittorio Somenzi. In essi Colorni espone alcuni
dei punti chiave della propria metodologia, delineando una proposta
epistemologica destinata ad essere riscoperta e apprezzata dopo la caduta del
regime fascista, nel secondo dopoguerra.
Carlo Rosenberg. ‘G. Rosenberg’. ‘Agostini’. ‘Franco Tanzi’. Eugenio Colorni.
Parole chiave: diadologia, il concetto dell’individuo, l’idealismo filosofico
como malatia, indice alla malatia metafisica, scritti filosofici curati da
Bobbio, scienza unificata, ebreo-italiano, ebreo-britannico Ayer, circolo di
Vienna, Reichenbach, Hilbert, Eddington. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Colorni” – The Swimming-Pool Library.
CONTE (Pavia). Filosofo.
Grice: “Must say I love Conte –
he has almost the same talent for
linguistic coinage that I do! In Italy ‘filosofia del diritto’ is much more
respectable a discipline that it is at Oxford! But Conte managed to keep it
philosophically interesting for the philosopher’s philosopher that I am!”
“Conte proves that moral philosophy is at the heart of philosopohy
qua-uni-virtue – for the critique of reason must include the buletic – and
that’s all that Conte dedicates his philosophy too! Into the bargain, he
expands into concepts like sacrifice, punishment, ‘fiducia’ (my principle of
conversational trust), and so much more!” “He plays with language the way only
Heidegger did in German and I in English!” --
-- Grice: “Conte is what I – and Italians – would call a ‘Griceian
conversationali pragmaticist.’” Studia
a Pavia e Padova. Si laurea a Torino sotto Bobbio con “Ius naturale.” Insegna a
Pavia. Si occupa della semiotica del performativo deontico o buletico, la
regola eidetico-costitutive, validità buletica – desirabilita -- deontica, modo
imperativo, prammatica conversazionale – alla Grice. In che cosa consiste
quell’’impero’, dal quale il modo imperativo prende il nome. Altre opere: “Interpretazione
analogica. Pavia, Tipografia del Libro, “Ius ed ordine” (Torino, Giappichelli).
Primi argomenti per una critica del normativismo. Pavia, Tipografia del Libro,
Ricerca d'un paradosso deontico” (Pavia, Tipografia del Libro); Nove studi sul
linguaggio normativo. Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio
normativo. I. Studi; Torino, Giappichelli, Filosofia del linguaggio normativo.
II. Studi; Con una nota di Bobbio. Torino, Giappichelli); Imperativo ed ordine.
Studi Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio normativo. III. Studi,
Torino, Giappichelli); Filosofia del diritto” (Milano, Cortina); Ricerche di
Filosofia del diritto” Torino, Giappichelli); “Res ex nomine” (Napoli,
Editoriale Scientifica); “Sociologia filosofica del diritto. Torino,
Giappichelli); “Adelaster. Il nome del vero” (Milano, LED). È inventore del
genere da lui chiamato "eido-gramma" ed autore di numerosi
eidogrammi, solo parzialmente éditi:
Nella parola. Osnago, Pulcino elefante, Kenningar. Bari, Adriatica. "Per
una critica della ragione deontica" (introduzione alla Filosofia del
linguaggio normativo). Pragmatica. Filosofia
del diritto Logica deontica Ontologia Performativo (atto verbale) Pragmatica
Semiotica Semantica. Grice: “Conte quotes from Aristotle’s Soph. El. On the
‘homonimia’ of deon’ – “sometimes for the good, but sometimes for the bad.”
Conte distinguishes between semantic ambiguity – surely ‘must’ or the
imperative mode does not have TWO senses – and ambivalenza prammatica. Since
Aristotle is refusing to use Frege’s idea of ‘Sinn’, and keep referring to
‘semeion’ (Latin segnare) rather, we may well conclude that Aristotle is just
Greek Grice. Conte does not dwell much on the imperative mode. Modo imperativo
is qualified. Modo is qualified as being modo verbale – the mode of the verb
impero. But then the future in French has a ‘valore imperativo.’ Conte is more
interested in the ‘must.’ But surely his quoting from Philippa Foot and his
joint work with von Wright into Kant’s hypo versus cate is very Griceian! On
top, Conte has a taste for local historical analysis and has discovered some
gems in some jurisprudential philosophers of his ‘paese’!” Amedeo Giovanni Conte. Keywords: the sorry
story of deontic logic, fondatore della logica deontica al Ghislieri di Pavia,
il giuridico, giudicare, giuridicare, impiego, employ (as noun), employ-ment,
empiegamento, Conte e Wright – Wright cited by Grice, alethic --. Wright on
change cited by Grice in “Actions and Events”, Mario Casotti, Volere, Grice,
Volere --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conte” – The Swimming-Pool Library.
CONTESTABILE (Teano). Filosofo.
Grice: “I love Contestabile; I love a philosopher with a sense of humour! At
Oxford, it has become increasingly difficult to laugh at people’s surnames! But
‘grice’ means ‘pig,’ in Norwegian! – Anyway, Contestabile contests a
revisionist account of Bruno’s life – “surely he wasn’t a coward – I know
because of his links with the Campanella whom my family supported in his fight
against the furriners!” Cacciato con una telefonata» Intervista di Dino
Martirano, Corriere della sera. Con il Psi non ho ricoperto grandi incarichi ma
ho avuto l'onore di essere stato amico di Craxi. Mi mancherà la politica ma non
è una tragedia. Torno ai miei studi, alla filosofia medioevale. Mi mancheranno
certi momenti. Io, che ero stato nel Psi fin quando nel '92 la procura della
Repubblica lo ha sciolto, ricordo bene i mesi trascorsi al ministero della
Giustizia: col ministro Biondi fummo i protagonisti del tentativo fallito, però
generoso, di riportare la giustizia sui binari della normalità. Sciolto il
partito [Psi], chi si è fatto maomettano, chi ebreo, chi cattolico. Però sempre
socialisti siamo rimasti. Domenico Contestabile
avvocato e politico italiano Lingua Segui Modifica Domenico Contestabile
Sottosegretario di Stato del Ministero della Giustizia Durata mandato10 maggio
1994 – 17 gennaio 1995 PresidenteSilvio Berlusconi PredecessoreVincenzo Sorice
SuccessoreAntonino Mirone Vicepresidente del Senato della Repubblica Durata
mandato 16
maggio 1996 – 29 maggio 2001 PresidenteNicola Mancino Senatore della Repubblica
Italiana LegislatureXII, XIII, XIV Gruppo parlamentareForza Italia
CircoscrizioneLombardia CollegioCinisello Balsamo, Vigevano Incarichi
parlamentari Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia Sito
istituzionale Dati generali Partito politicoFI Titolo di studioLaurea in
giurisprudenza Professioneavvocato Domenico Contestabile (Teano, 11 agosto
1937) è un avvocato e politico italiano. BiografiaModifica Laureato in
giurisprudenza, esercita la professione di avvocato. Entra in politica
iscrivendosi al Partito Socialista Italiano (partito a cui è appartenuto fino
agli eventi che hanno travolto tale formazione politica)[1]. In seguito
aderisce a Forza Italia, affermando che in tale movimento politico l'area
socialista era ben accolta e rappresentata[2]. Viene eletto senatore per la
prima volta nel 1994 ed è rieletto anche nelle due successive legislature. Dal
16 maggio 1996 al 29 maggio 2001 è stato vicepresidente del Senato[3]
Incarichi parlamentariModifica Ha fatto parte delle seguenti commissioni
parlamentari: Affari costituzionali e giustizia; Difesa. Membro, inoltre, della
giunta per le elezioni e immunità parlamentari. Sottosegretario di
StatoModifica È stato sottosegretario di Stato per la Grazia e giustizia nel primo
governo di Silvio Berlusconi (dal 13 maggio 1994 al 16 gennaio 1995).
NoteModifica ^ Tutti i figli e i figliastri del garofano[collegamento
interrotto], su qn.quotidiano.net. ^ Adnkronos - Psi: Contestabile a De
Michelis, noi stiamo bene in FI ^ Senato - XIII legislatura Voci correlate Modifica Governo Berlusconi I Partito
Socialista Italiano Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote
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Fabrizio Cicchitto politico italiano Giulio Maceratini politico e
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specificato. Altre opere: Bruno: una revisione contestata” – La storia della filosofia è continua revisione, e non mi scandalizzo
per il revisionismo bruniano. Mi sembra però che questi non colga nel segno. La
vita diBruno, dalla fuga da S. Domenico Maggiore a Napoli fino al rogo di Campo
dei Fiori a Roma, è di singolare coerenza. Fu una vita “contro”. L’accusa
implicita di opportunism mi sembra perciò singolare. E’ vero che, durante il
processo, ritratta molte sue tesi, e avrebbe avuto salva la vita se avesse
continuato in questo atteggiamento. Alla fine però si stanca, e scelse
lucidamente di morire. E’ opportunista chi cerca solo di salvare la
pelle, e poi decide di morire perché ritiene che il suoi giudice ha esagerato?
In quanto alla tesi sul Bruno spia elisabettiana, essa non è, a mio giudizio,
provata, anzi è smentita dalla comparazione tra la grafia di Bruno e quella dei
biglietti di spionaggio. Infine, la tesi a proposito della relazione tra
Campanella e Bruno non mi ha mai convinto. Campanella (la sua rivolta e finanziata
dalla nobile famiglia Contestabile, come ricorda Firpo nel suo ottimo saggio sul
processo a Campanella) vuole poi un regime “comunista”? A leggere “La città del
sole” non si direbbe. Domenico Contestabile. Keywords: nobilita
italiana, la famiglia Contestabile financia la rivolta di Campanella -- filosofia
medioevale, Bruno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Contestabile” – The
Swimming-Pool Library.
CONTI (Roma). Filosofo. Grice:
“Conti is a good one – he reminds me of Bosanquet and Pater – the decadents in
Italy came AFTER them at Oxford! Conti philosophised on many aesthetic
subjects, such as man, masculinity, and maleness --!” Di una famiglia originaria
di Arpino, dove frequenta il locale liceo. Si ccupa di filosofia estetica. D'Annunzio
lo cita nel “Giovanni episcopo” e si ispira a lui per ‘Daniele Glauro’ in “Il
fuoco”. Insegna a Firenze presso la Galleria degli Uffizi ed a Venezia presso
l'Accademia di Belle Arti. Saggio: “Zorzi; o Giorgione – l’estetica di Zorzi”
-- Tornato a Firenze, “La beata riva”, raccolta di saggi che delineavano la sua
concezione critica ed estetica, ispirata dichiaratamente a Platone, Kant e
Schopenhauer. La prefazione fu curata d’Annunzio, il quale scrive di stimare
molto Conti e di ammirare il suo “ascetismo” estetico. Direttore delle Antichità di Roma. Direttore
della Reggia di Capodimonte a Napoli. Si ispirò alla poetica del filosofo
oxoniese Pater e Ruskin. Altre opere: “Giorgione,
Firenze, F.lli Alinari, “Catalogo raggionato delle regie gallerie di Venezia,
Venezia, Tip. L. Merlo); La beata riva, Milano, F.lli Treves); Sul fiume del
tempo, Napoli, R. Ricciardi); “Dopo il canto delle Sirene, Napoli, R.
Ricciardi); Domenico Morelli, Napoli, Edizioni d'arte Renzo Ruggiero); “San
Francesco, con un saggio di Giovanni Papini, Firenze, Vallecchi); “Virgilio
dolcissimo padre, Napoli, R. Ricciardi). Praz nota che Parodi era solito
leggere La beata riva di Conti prima di addormentarsi; quando morì, la lettura
non era stata ancora terminata. Dizionario
Biografico degli Italiani, Forme del tragico nel teatro italiano. Modelli della
tradizione e riscritture originali,Romantici, vittoriani, decadenti – filosofo
decadente – decadentismo -- e museo dannunziano, in Bellezza e bizzarria – il
bello e il bizzarro., Croce, La letteratura della nuova Italia, Marcello
Carlino. A. Conti, Due conviti di Mattia Preti, Bollettino d'Arte. Io vengo dal mare di Napoli e sono tornato qui a
rivedere la primavera. Non c'è nessuna altra città in cui, come in questa, il
rifiorire degli alberi e delle siepi si accordi con la giovinezza delle opere
del genio umano, nessuna ove, come qui, la Primavera sembri rimanere per un
istante velata, per poi riapparire pili fulgida e piìi lieta, al ritorno dei
venti che spirano dalle colline e recano i nuovi fiori. Sono anche giunto fra
voi, per parlarvi della pittura di Leonardo. Ma il mio compito, dopo la lettura
deirillustre scrittore francese che m' ha preceduto, sarebbe oggi, non dico diffìcile,
ma quasi vano, se le mie idee fossero affini alle sue ed egli fosse vicino al
mio pensiero come io sono vicino al suo aff'etto per questa nobile terra
toscana, ove l'arte ha continuato la grazia gentile e la pura bellezza della
natura. Diversità di pensare e anche d'immaginare mi rendono oggi possibile
esprimere qualche cosa a voi forse non detta, e combattere qualche affermazione
troppo lontana dalla mia sicura fede. Leonardo è il discepolo del Vermocchio.
Ora, che cosa poteva egli apprendere dal suo grande maestro? Non cer- 84 Angelo
Conti, Leonardo pittore tamente l'arte, la quale non si apprende e non si
insegna. Quale uomo, che sappia che cosa è l'arte, potrà mai pensare alla
possibilità di creare con l'insegnamento un pittore, un musicista, un poeta? La
natura sola genera gli artisti, e l'uomo al pili può aiutarli a trovare i mezzi
d'esprimere la parola ch'essi son destinati a pronunziare nel mondo. Il
maestro, al discepolo suo, nato artista, può dire : " Il tuo cuore è
impaziente d'indugi, tu sei nato per il canto o per la espressione plastica o
per la espressione mediante il colore della tua gioia o della tua amarezza;
guarda, ecco il dizionario che contiene le parole di ogni umano discorso, ecco
la tavolozza sulla quale io appresi a mescolare i colori che imitano la
bellezza del cielo, della terra e del mare ; ecco in qual modo si modella la
creta, affinchè dall'informe materia apparisca viva dinanzi a noi l' immagine
dell'uomo. Questi sono i mezzi, che io ti posso indicare; ma il discorso, il
canto, il soffio debbono essere tuoi, né io te li posso insegnare „. Ogni opera
d'arte è, rispetto alle opere precedenti, una cosa diversa e nuova, nella
quale, se pure sono entrati, alcuni elementi precedenti e preesistenti, hanno
mutato natura, si sono trasformati in parti di quel tutto inatteso e prodigioso
che si chiama la creazione artistica. Chi non sa che in Leonardo appare un'
immagine del sorriso che si mostra appena accennato sulle labbra del giovinetto
Davide del Verrocchio? Si, appare, ma è un riHesso che illumina un altro mondo
; poiché questo riso, ricomparendo dalle labbra dell'eroe adolescente sul viso
e negli occhi della Gioconda, diviene il mistero della seduzione femminile, una
grazia insidiosa e un periglio, un'armonia che nasce dal- Angelo Conti,
Leonardo pittore 85 l'espressione d'iin volto, si diffonde verso il paese
lontano e attira il contemplatore. Il sorriso verrocchiesco è in Leonardo come
nn brano di Plutarco in Shakespeare. Or chi oserebbe dire che l'immortale
tragico inglese derivi da Plutarco? Leonardo e il Yerrocchio sono due artisti
assolutamente distinti, che parlano un linguaggio interamente diverso e che, se
somigliano esteriormente in qualche cosa, hanno due anime quasi opposte, chiusa
l'una nella sua idea di bellezza e di stile, l'altra aperta a tutte le
manifestazioni della natura e della vita, in una continua ansietà di fissarne
l'immagine mutevole con la semplicità del segno rivelatore. Noi viviamo pur
troppo in un triste momento della vita, poiché la maggior parte degli uomini ai
quali parliamo non sanno che cosa sia l'arte, e lo Stato crede a chi meno vede.
Non è forse ancora possibile vincere una così detta scuola di critica
scientifica, fondata sull' errore già accennato e chiusa nella rete del
pregiudizio cronologico. A coloro che ancora credono alle influenze sugli
spiriti geniali e alla necessità in arte di una classificazione come in
botanica, noi possiamo trionfalmente rispondere con Leonardo che l'artista
genera le sue opere qual fanno le cose. Egli deve creare come fa la natura, e
le sue opere superare e cancelUxre i segni del tempo che passa. Un quadro, una
statua, un edifizio debbono nascere come le selve e apparire come le albe. Or
chi penserà all'epoca d'una primavera o d'un ciclo stellato? Non c'è opera d'arte
geniale che venga per noi dal passato lontano, come non e' è indizio di vetustà
nelle montagne e nella aerea architettura delle nubi. Dinanzi all'umanità che
passa, il genio si ferma e rende eterna la 86 AxGELO Conti, Leonardo pittore
sua traccia come è nel cielo il cammino delle stelle. Avete udito il canto
dcirusignolo? Lo riudirete in tutte le primavere. Il genio vi farà sempre udire
la sua voce fresca e giovanile come nella stagion nuova della terra il canto
dell'usignolo. Aprite Virgilio: ecco, è l'alba e cantano le allodole, è una
notte serena, e l'uomo si perde nella luce lunare. Aprite Dante, e siete
nell'eternità della vita. Ivi nulla dilegua, nessuna cosa invecchia o perisce,
e noi stessi, -accanto a quelle grandi anime, siamo per un istante fuori del
tempo. Questo momento di liberazione provai per la prima volta alcuni anni or
sono a Milano, trovandomi dinanzi alla Cena, nel convento di Santa Maria delle
Grazie. Vidi il capolavoro nella medesima ora indicata dalla luce clie lo
illumina dal fondo, tanto che mi fu d'un tratto facile superare i mille e piìi
anni passati e trovarmi presente alla scena Gesù era seduto nel centro del
convito e da poco avea prò nunziato le parole : qualcuno di voi mi tradira. I
convitati a destra e a manca s'erano ritratti e aggruppati in tumulto lasciando
nel mezzo Gesù solo, con la sua tristezza infinita La sala era piena di gesti
concitati e di ansiose interrogazioni. Il Maestro solo era calmo e la sua
figura, sul paese che gli s'apriva lontano alle spalle, era immobile. Ma qual
dramma in quella immobilità ! Mentre la sua mano destra, lievemente contratta,
esprimeva un istante di ribellione e come un istintivo moto d'ira, la sinistra
nel momento successivo s'abbandonava col dorso poggiato sulla tavola e le
Angelo Conti, Leonardo pittore 87 dita allungate, esprimendo la rassegnaziona e
il perdono. Gli occhi abbassati non guardavano e non vedevano nulla di ciò che
era presente, ma contemplavano internamente il grande spettacolo del dolore e
della miseria umana, mentre la sua anima sembrava essersi già rifugiata in quel
fondo di paese luminoso e lontano, dove abitavano una grande speranza e una
eterna pace. Nessun uomo avevo veduto mai così solo come Gesù in mezzo a quel
tumulto. Era un'isola in mezzo a un mare procelloso. Le onde fragorose del
tempo, che travolgono^ uomini e cose, mi avevano forse spinto ad approdare ad
una riva ove splendono i fiori eterni della vita? Mai infatti, come quel
giorno, ebbi, per virtìi dell'arte, la visione della vita, in un oblio piti completo.
Quando il custode del Cenacolo venne ad annunziarmi Fora della chiusura, io
riudii nuovamente, dalla strada vicina, il rumore delle carrozze e il rombo
dell'esistenza; e ritornai fra gli uomini. Pochi anni or sono Gabriele
D'Annunzio scrisse una bella pagina di poesia per rimpiangere la rovina del
Cenacolo. Voi infatti sapete, che, come della antica e celebrata pittura dei
greci, fra pochi anni della Cena vinciana non resterà se non il ricordo ^ Il
doloroso avvenimento non ^ Questo studio su Leonardo lìiitore era già stato
scritto, quando fu compiuta in Milano dal pittore prof. Luigi Cavenaghi l'opera
di ristauro del Cenacolo, salutata da tutti i cultori ed amatori d'arte con
gioia e gratitudine. Il Cenacolo, compiuto da Leonardo nel 1497, cominciò ben
presto a guastarsi; ì primi provvedimenti per salvare il capolavoro risalgono
al cardinale Borromeo, poi nei secoli si susseguirono alternative di lunghi
abbandoni, di fallaci rimedi empirici, di studii incompleti e riparazioni
deturpatrici, fin che il prof. Cavenaghi fu nel 1904 incaricato delle ricerche
scientifiche e tecniclie che, precisando le cause e l'entità dei guasti,
portassero ai rimedii più efficaci. Egli trovò — sono sue parole riprodotte
naìVIllustrazione Italiana, n. 41, dell'I 1 ottobre 1908 — che il dipinto,
coperto da polvere di secoli, si screpolava e la crosta di colore si solle- ^rt
Angelo Conti, Leonardo inttore poteva non commuovere e non far riapparire la
visione tragica del fato clic incombe sui capolavori. Ma è forse una illusione.
In realtà la natura non distrugge ne i fiori o le selve della terra ne le opere
del genio : la Minerva criselefantina di Fidia è passata dall'avorio e dall'oro
nelle pagine immortali dei poeti e nella eterna memoria degli uomini. Quando un
capolavoro scompare, noi non dobbiamo pensare che il tempo lo abbia distrutto,
ma semplicemente che si sia oscurato lo specchio che ci proiettava la sua
imagine nel tempo e nello spazio. Nella profonda unità dell'anima umana, clie
rende i poeti e i filosofi simili ai figli d'una madre sola, l'ispirazione da
cui esso nacque riman pura e vivente come una forza della terra non ancor
vestita della sua forma. Se avessi la virtù del canto, vorrei lodare e far
comTava dall'intonaco, a squame di varia misura, di modo clie parecchie di
quelle i grandi, accartocciandosi, formavano altrettante sacche che si
riempivano con al- tre piccole squamette che vi cadevano dall'alto. Vuotare ad
una ad una le sac- che senza scuoterle, senza quasi toccarle, mediante una
pagliuzza resa attaccaticcia da una sostanza adatta, poi fare aderire le sacche
e le croste all'intorno, togliendone, con un certo liquido dal Cavenaghi
ideato, la polvere alla superficie, questo sostanzialmente fu il lavoro
paziente, mirabile, nel quale, per più di due mesi durò il Cavenaghi, rendendo
più tonica la fibra in isfacelo, facendole riac- quistare un po' di colorito,
così che il dipinto non debba peggiorare e possa vi- vere ancora a lungo, con
infiniti riguardi ed amorose cure. Ma — disse il Cavenaghi — sarà sempre un organismo
precario, e per le condizioni sue, pieno come è di cicatrici, e per l'ambiente.
Ad ogni modo questo del Cavenaghi è •stato pel Cenacolo Vinciano il ristauro
essenziale, decisivo, nei secoli; e grandi manifestazioni di gratitudine ed
ammirazione sono state tributate all'assoluto disinterewse, pari all'amore
grande per l'arte, spiegati dal benemerito ristauratore, al quale Caravaggio,
sua terra natia, ha consacrato una targa artistica a memoria del fatto; ed i
cultori ed amatori d'arte, auspice Luca Beltrami, gli hanno conferita il 4
luglio 1909, davanti al capolavoro vinciano, una bellissima medaglia d'oro. Il
prof. Cavenaghi inoltre è stato chiamato dal Papa, in sostituzione 4el defunto
prof. Seitz, all'onorifico ufficio di direttore delle pinacoteche vaticane.
Angelo Conti, Leonardo inttore 89 prendere la vita maravigliosa che il Cenacolo
leonardesco chiude nella sua rovina. Come la rovina d'ogni cosa grande, essa
equivale ad una purificazione e ad una apoteosi. Finche resterà un sol
frammento della parete prodigiosa, finche un sol disegno, una sola stampa, una
sola fotografia, custodiranno un riflesso lontano della sua bellezza, quella
creazione del genio sarà per noi piìi potente che se il tempo e gli uomini
l'avessero rispettata in tutte le sue parti caduche. E un errore credere che il
tempo non rispetti i capolavori; e noi molto spesso parliamo, spinti
dall'abitudine, contro l'eterna verità delle cose. Il tempo, artista
maraviglioso, è il solo degno collaboratore del genio umano. Dove sembrava che
l'opera geniale sì fermasse, egli la continua, mutilandola: dove appariva ciò
che è chiuso e preciso, egli apre una via infinita all' imaginazione ; dov' era
un aspetto freddo e muto della realtà, egli fa nascere i segni del mistero. Ciò
che sembra una distruzione e invece una rivelazione e una consacrazione. E la
natura che riprende l'umana opera interrotta, che fa apparire la sua forza dove
la mano dell'uomo cadde stanca, e che, dove l'ispirazione di questo si oscurò e
si confuse, fa cantare le sue eterne aspirazioni. Ma non bisogna lodare il
tempo soltanto per le sue rovine ; è necessario esaltarlo anche per tutte le
opere d'arte che, in compagnia del fato e della umana malvagità, ha impedito di
compiere al genio umano. Alludo principalmente alle cosi dette sculture non
finite di Michelangelo e ad un quadro, che è ancora considerato un abbozzo, di
Leonardo. Come i capolavori in rovina appariscono vicini a rientrare Leonardo
da Vinci. 12 90 Angelo Conti, Leonardo pittore nella iiuiversalitìi della vita,
i capolavori incompiuti seml)rano usciti da poco dal seno stesso della natura.
L'artista ne segnò l'imaginc non fra i tormenti del lavoro consapevole, ma come
in sogno, obbedendo ad una volonth oscura che per qualche istante abolì la sua
volontà individuale. Poche tracce di pentimenti in quei primi segni, ma
l'espressione d'una beata obbedienza, come di chi si affidi al mare, e una
ricchezza e una esuberanza di vita uguale a quella di cento uomini felici. * Mi
limito a parlarvi del quadro di Leonardo, oggi nella Galleria degli Uffizi, e
che rappresenta l'Adorazione dei Magi. La prima cosa che ci colpisce è il
movimento. Noi sentiamo subito che il pittore ha voluto rappresentare un
avvenimento straordinario, un grande fatto della natura e della vita. Quasi tutte
le figure vanno, strisciano, accorrono verso la parte centrale della
rappresentazione, ove si fermano prostrate e come atterrate dallo stupore e
dalla maraviglia. Fra i gruppi in movimento, alcune figure stanno diritte e
immobili a guardare la scena. Nel centro una calma assoluta. La Madonna vi
appare seduta in una attitudine piena di grazia materna, e sulle sue ginocchia
il bambino si china e protende una mano per toccare il 'dono che un vecchio
genuflesso gli porge. Intorno si raccoglie e si concentra tutto ciò che nel
quadro raggiunge la maggiore intensità d'espressione e la maggior forza di
vita. Questi vecchi che vengono da lontano, guidati dal mistero, sono una
A\GELO Conti, LeonarJo j)ittore 91 fra le più potenti creazioni del genio
umano. Tutta la scena, piena della loro commozione e del loro sbigottimento,
sembra irradiare come un vento di tempesta che, dall'anima dei vecchi, giunga
sino ai punti piti lontani del quadro. Ed ecco che noi vediamo gli effetti
dell'onda invisibile. Dietro il gruppo centrale è un accorrere disordinato di
gente : uno ha le mani levate e grida come per un ignoto pericolo, un cavaliere
non riesce a contenere lo spavento del suo cavallo, altri gruppi di cavalli nel
fondo appariscono spinti dalla furia d'una battaglia; qua e là, sotto archi
crollati, uomini che corrono e s'interrogano ansiosi, altri che salgono
discendono a frotte e smarriti per una gradinata. Si sente che un grande
avvenimento si compie, e per tutta l'ampia scena notturna è diffusa l'atmosfera
del miracolo, come in un giorno sereno la luce del sole sulle campagne. E
questa è appunto l'idea che Leonardo ha espressa nel suo quadro con una potenza
e una eloquenza suprema. Mai infatti, sino a questi ultimi anni del
quattrocento, 1481, la pittura aveva rappresentato il miracolo, mai lo stupore
e il terrore di ciò che sembra turbare le leggi della natura e far presentire
agli uomini un rinnovellamento del mondo, erano stati resi visibili nell'opera
d'arte. Leonardo, con questa composizione sintetica, con questo semplice suo
disegno a chiaroscuro, nel quale non un sol particolare h compiuto, è riuscito
a rappresentare il miracolo come non sarebbe stato possibile con l'opera piìi
meditata e più coscienziosamente finita. E la ragione mi sembra questa. Vi sono
idee e sentimenti che le arti plastiche non possono rappresentare se non con
mezzi somraarii, se non giovandosi di ciò che co- 92 Angelo Conti, Leonardo
pittore miincmcnte si chiama V incomplitto. L' incompiuto è spesso un mezzo
meraviglioso dì espressione per il genio umano; è, a rovescio, il mezzo stesso
che la natura adopera per purificare e per consacrare nei secoli i capolavori
degli uomini. In questi la natura procede per eliminazione, nell'opera rimasta
incompiuta il genio lavora in uno stato di concentrazione suprema. Li^
Adorazione dei Magi non solo rappresenta un miracolo ; ma è essa stessa
un'opera miracolosa. La notte che vi si addensa è piena di luce per l'anima
umana. Fra tutti i quadri della Galleria degli Uffizi è il più vivo, il piìi
drammatico e il più profondo per significazione. Continuando per voi la
enumerazione delle opere pittoriche vinciane e per mostrarvi che, come allora
mi fu possibile liberarmi dal tempo, posso anche oggi, e mi piace, spezzare le
catene della cronologia, passerò a parlare della Gioconda. La vidi alcuni anni
or sono, e feci, quasi per lei sola, il mio pellegrinaggio da Firenze a Parigi.
Quando entrai nella pinacoteca del Louvre, la giornata era grigia e le sale
quasi in una penombra. Nella sala dei capolavori gli occhi delle figure dipinte
da Tiziano, da Raffaello, da Yelasquez mi guardavano fiso. Cercai la Gioconda,
corsi verso di lei. Entro la fioca luce indovinai il sorriso e sentii il
fascino dello sguardo ; vidi anche il candore del seno. Ogni altra cosa era
indistinta. In una pinacoteca non è possibile abbandonarsi all'oblio, Angelo
Coxti, Leonardo piUore 93 come in una chiesa o in nn cenacolo. Coloro che
entrano a visitare le collezioni dei dipinti vanno per lo più a fare confronti,
ad osservare particolari, a cercare note caratteristiche, e portano con sé
libri e fotografie. Io, qnando mi dispongo ad andare o a tornare al cospetto
d'nn capolavoro, m'affatico a togliermi di dosso ogni peso, affinchè mi sia
dato procedere con passo leggero e mi trovi dinanzi all'opera geniale, con
l'anima semplice e serena. Sono abituato a contemplare un quadro, come se fosse
una costellazione. Nella notte ir cielo è pieno di silenzio e le stelle
splendono armonizzando ciascuna il suo ritmo alla musica del cielo. Guardando
gli occhi di Monna Lisa del Giocondo, li vidi palpitare in ritmo, in armonia
con la musica del suo sorriso. Il quadro m'era ancora ignoto, e pensavo a
Leonardo. Mi pareva vederlo, mentre nel suo studio fiorentino aspettava
l'arrivo della sfinge ridente. Poco dopo ella entrava e si sedeva accanto alla
finestra. In fondo apparivano le colline di Fiesole, Monte Morello, l'Appennino
lontano, e l'Arno serpeggiava scintillando nel mattino, mentre le torri della
città uscivano dalla nebbia al primo sole. Anch'egli si sedeva, e, presa la
lira d'argento che s'era fabbricata con le sue mani, cominciava a cantare. La
bella donna, udendo la laude melodiosa, sorrideva, mentre l'Arno da lungi
diveniva più ricco di scintille. Poi cominciava a dipingere, e, dopo i primi
tocchi una orchestra invisibile di liuti riprendeva la canzone interrotta. La
donna sorrideva in una calma regale : i suoi istinti di conquista, di ferocia,
tutta l'eredità delia specie, la volontà della seduzione e dell'agguato, la
grazia dell'inganno, la bontà che cela un prò- 9i An'gelo Conti, Leomrdo
pittore posito crudele, tutto ciò appariva alternativamente e scompariva dietro
il velo ridente e si fondeva nel poema del suo sorriso. Per un momento usci un
raggio di sole; ed io die m'ero allontanato dal prodigio, corsi e lo vidi
intero. La donna era viva dinanzi a me, in tutta la sua vita reale e ideale.
Buona e malvagia, crudele e compassionevole, graziosa e felina, ella rideva, e
il suo riso si prolungava nel paese lontano e nell'anima mia; sino a darle
l'oblio die viene dalla presenza delle cose immortali. Pochi istanti dopo, il
sole scomparve e la penombra regnò nuovamente nella sala. Lì presso un sol
quadro ardeva come una lampada e in esso cantava, non affievolita, la musica
del colore. Era la Festa campestre : fra due donne nude, un suonatore di liuto
svegliava alcuni accordi e pareva che la Gioconda ne sorridesse come quando
Leonardo cantava, per rendere piìi intensa la sua vita e per tradurre col
disegno la sua misteriosa bellezza. Questo ritratto non esprime soltanto
ciò che l'occhio vede, ma è il riflesso d'una creatura amata da uno spirito che
per oltre quattro anni si affaticò a penetrarne a rivelarne la vita. Come
dinanzi alla Gioconda, Leonardo si pone dinanzi ad ogni cosa vivente col
medesimo ardore di conoscenza, con la stessa ansiosa curiosità e lo stesso
desiderio invincibile di fissarla con segni semplici e definitivi. Tutto questo
poema della sua anima, questo dramma intimo che si chiude in una alternativa di
tentativi d' espressione e di istanti di tregua contemplativa, di rapimenti e
di lotte con la sorda materia, d' ansietà e scoramenti e di calma trionfale, è
raccontato nei suoi disegni, che sono 1' imma- Angelo Coxti, Leonardo pittore
95 gine più completa della sua potenza non solo intuitiva ma creativa. Per lo
scultore il disegno è appena un segno, uno scliema, un presentimento dell'opera
futura. Lo chiamiamo disegno, perchè ijon abbiamo altre parole per significare
le notazioni figurative degli scultori ; ma esso non è se non un appunta
ideale, un mezzo per ricordare un sentimento. Ricordate i disegni di
Michelangelo per le sue statue, ricordate gli odierni disegni di Rodin per i
suoi gruppi e per i suoi monumenti. Qm^tì disegni, benché esprimano una visione
di movimento, non sono pittura e non sono scultura perchè non illuminano una
idea che potrà essere espressa, come chiaroscuro e come colore sopra una
superficie e che sia per apparire come forma nello spazio. La scultura comincia
soltanto col bozzetto in cera, in creta o in gesso, cioè a dire quando V idea,
destinata a manifestarsi come forma nasce a somiglianza d'una cosa viva fra le
altre cose viventi e sorge nello spazio, nell' aria e nella luce, sottoposta
alle leggi del peso e chiusa nelle sue dimensioni. Per parlare con esattezza,
la scultura non ha disegno. Nella pittura il disegno è tutto, è il primo segno
che nota la visione ancora vaga sopra una superficie, ed è il chiaroscuro e il
colore che pili tardi la renderanno eloquente, che le daranno una voce che
parla e che canta, come in una musica e come in un poema. Per Leonardo, genio
universale, il disegno non è soltanto linguaggio pittorico, ma è il mezzo
adeguato d'espressione di tutto ciò che appare e che passa nel suo pensiero,
nella sua memoria, nella sua imaginazione e nella sua fantasia. Tutti gli
aspetti e tutti i momenti della multiforme ed ine- 96 Angelo Conti, Leonardo
pittore saiiribilc attività del suo spirito trovano la loro espressione negli
innumerevoli disegni che egli traccia in margine e fra le linee dei suoi
manoscritti, la precedono e spesso la superano con la loro potenza di linea
intuitiva e divinatoria. Mai come in Leonardo il disegno ha avuto la virtìi
d'esprimere tante cose, dalle più athni alla pittura alle pili lontane, dalle
pili concrete alle più astratte; mai come in Leonardo e giunto ad una cosi
vasta e così intensa forza di analisi e di concentrazione. I disegni di
Leonardo non sono solamente una testimonianza del suo amore per la natura, non
sono soltanto un dialogo fra la sua anima e V anima delle cose, ma principalmente
sono un mezzo di cui egli si è servito per conoscere l'universo. Invece di
consultare i trattati scientifici ed i sistemi di filosofìa, Leonardo disegna.
I disegni sono i suoi pensieri, le sue meditazioni, le sue osservazioni, le sue
intuizioni, le sue scoperte. Ogni suo disegno contiene un segreto svelato, è
una verità conquistata, è il segno d' un nuovo trionfo della indagine umana, è
un lembo del mistero dell'universo sollevato dal genio umano. Dinanzi a ciò che
noi chiamiamo il vero e può essere ugualmente chiamato il mistero, Leonardo ha
lo sguardo limpido, sereno, nuovo, lo sguardo meravigliato del fanciullo, ha
quella innocenza del genio, senza la quale, come afferma Bacone, non si può
entrare ne nel regno della verità ne nel regno dei cieli. La differenza fra
l'uomo di genio e l'uomo comune sta p principalmente in questo: dinanzi ai
fatti e agli aspetti della natura e della vita V uomo comune si abitua e
finisce con l'abolire in se il senso della maraviglia ; le sue impressioni,
invece d'avere sempre un carattere loro proprio, invece d'es- Leonardo da Yisci
Pai'ig;], Museo del Lonvie. J-'ot. X. LA GIOCONDA. Angelo Conti, Leonardo
j^^itore 97 sere sempre eccitatrici di sentimenti nuovi, gradatamente si
attenuano, si affievoliscono ; finche si adattano e si sottopongono al modo di
sentire individuale, finche si scolorano e muoiono davanti alla monotonia dei
bisogni quotidiani. L'uomo guidato dalle abitudini è un addormentatore di se
stesso, è uno schiavo di ciò che nel suo spirito è meno degno di comandare. Il
genio invece è sempre libero, è sempre desto, e il sonno dell'abitudine non può
far discendere un velo sui suoi grandi occhi puri. Leonardo è appunto della
famiglia di coloro che non conoscono lo stato di sonno e d'indifferenza, ma che
vivendo sempre in una ansiosa curiosità vedono il continuo apparire delle cose
e l'infinito rinnovellarsi dei fenomeni, e che sembrano veramente nascere ogni
mattina. In questo stato di attesa dell'ignoto e del nuovo, ogni osservazione è
per Leonardo una visione, ogni analisi è una scoperta. Guarda un ramo con le
sue foglie, ne cerca la vita col suo disegno, e gli appare la legge di
filotassi ; canta accompagnandosi con la sua lira d' argento, e scopre la legge
di risonanza delle corde negli accordi. In ogni fenomeno egli sente e vede una
confessione fatta dalla natura al suo genio divinatore. I suoi disegni sono la
traduzione grafica di queste confessioni fatte alla sua anima dall' anima delle
cose. Ciascuno d'essi pili che studio dal vero è opera d' immaginazione, è
figurazione intuitiva, destniata ad illuminare la realtà e a fare apparire,
dietro ciò che passa, l'aspetto immutabile delle idee eterne e delle eterne
verità. Ogni loro contorno e una ricerca, ogni linea una interrogazione, ogni
luce un riflesso del vivente chiarore del mondo, ogni ombra Leoxakdo da Vixci.
lii 98 AxGELO Conti, Leonardo pittore un'eco d'un vivente mistero; e tutta
quella sua opera della penna, del carbone, della matita non è se non un mezzo
potente da lui adoperato per stringere d' assedio la natura e per costringerla
a rivelare il suo segreto. Sempre mediante le imagini, i paragoni e le analogie
egli trova il cammino che deve condurlo verso la verità. Ricordate in un suo
manoscritto e in un suo disegno il movimento dell'acqua veduto simile al
movimento d' una capigliatura, ricordate in qual maniera i movimenti del nuoto
lo aiutino a comprendere quelli del volo, in quel maraviglioso trattato che ha
la virtìi di metterci in segreta comunicazione con 1' anima e con la forza
delle creature volanti. In questo modo, sempre per mezzo di imagini e di
indagini grafiche, di analogie, di forma e di movimento, osservando e studiando
l'aria e l'acqua, il suono e la luce, e paragonando le loro proprietà
essenziali, egli giunge ad intuire l'unità delle forze fisiche precorrendo
Cartesio. E la sua conoscenza, alla quale appariscono come intuizioni le
principali conquiste della scienza moderna, è figlia della sua imaginazione.
Più ancora che nei suoi manoscritti è espresso nei suoi disegni il cammino fatto
dalla sua conoscenza, guidata dall'amore e resa più profonda dalla sua
infantile maraviglia. Chi non ricorda, fra gli altri innumerevoli, i suoi
disegni di foglie e di fiori? Sono questi fra tutti gli altri, esclusi quelli
solo che ritraggono la figura umana, i più precisi. Pure in questa precisione è
l'infinito della vita. A prima giunta potete pensare o credere che quei segni
corrispondano a qualche cosa di limitato e di esteriore ; poi sentiamo che
ciascuno di essi ha la potenza di continuarsi in noi. La sua precisione non è
il segno rigido e freddo fatto da Angelo Conti, Leonardo pittore S9 una mano
abile, ma è la linea sicura del genio che ha trovato la vita. Però egli non
trascura mai un solo particolare, non lascia mai nulla incompiuto e sembra dir
tutto sino all'ultima parola. Infatti egli dice tutto ; ma il suo linguaggio è
come il mare e come l'infinito, e, nelF udirlo, la nostra piccola anima sembra
farsi vasta come 1' anima del mondo. In qua! modo ha potuto egli raggiungere
questa potenza d'espressione? In un modo semplice e grande : imitando la
natura. L'imitazione della natura è il principio che Leonardo proclama in tutti
i suoi scritti e mette in pratica in tutte le sue opere. Ma che cosa significa
imitar la natura? Ciò non vuol dire copiare le sue apparenze esteriori, come
fanno oggi la maggior parte dei nostri artisti, ma imitarla nelle sue leggi di
vita. Imitar la natura, per Leonardo come per tutti i geni dell'umanità,
significa divenire come la natura, acquistando la potenza di creare 1' opera d'
arte nel modo stesso nel quale la natura crea le sue vite innumerevoli: qual
fanno le cose. Voi sapete benissimo che i disegni vinciani fanno parte dei
manoscritti di Milano, di Parigi, di Londra, che sono aiizi un complemento, uno
sviluppo e un'irradiazione del testo. Poiché dunque l' uno e 1' altro sono
connessi intimamente, non m' è possibile, dopo parlato dei disegni, non dirvi
due parole dei manoscritti e significarvi in tal modo tutto il mio pensiero.
Voi sapete che nei manoscritti sono pagine di ogni scienza. Perchè ? Volle
forse Leonardo coltivare r una dopo 1' altra le varie discipline scientifiche e
contribuire al loro sviluppo? A questa domanda risponde Leonardo medesimo.
L'uomo 100 Angelo Conti, Leonardo inttore non dev'essere " solo un sacco
dove si riceva il cibo e donde esso esca „ , non deve essere soltanto un "
transito di cibo „ e avere della specie umana la sola voce e la figura, e tutto
il resto " essere assai manco che bestia „ . Il vero scopo della vita
umana è per Leonardo il pensiero. Il pensiero, per conoscere il passato e la
nostra dimora terrena; ecco il mezzo per vivere nobilmente liberandoci dalla
illusione del piacere. Il tempo che fece piangere Elena allorché ^ guardandosi
nello specchio, vide i primi segni della vecchiezza, il tempo non può colpire
il pensiero. Il conoscere la sapienza degli antichi e la vivente realtà delle
cose presenti, ecco il decoro e l' alimento degli spiriti umani. Ma perchè un
tal desiderio di conoscere? Questo e per me il punto capitale, il vero nodo
della questione. Il sapere perchè Leonardo ha voluto studiare tante forme ed ha
cercato il segreto di tanti fatti della vita universale, ci farà conoscere la
qualità essenziale del suo genio. Nella sua indagine instancabile d'ogni
fenomeno del cielo e della terra, nel suo ininterrotto colloquio con la natura,
Leonardo non è animato da curiosità puramente scientifica, non da vanità di
dottrina, né dalla naturale tendenza d'un intelletto analitico cui l'esercizio
delia osservazione doni la gioia più intensa. Spirito sostanzialmente intuitivo
e sintetico, egli si sottopone in tutta la sua vita al rigore e spesso al
martirio dell' analisi, per acquistare una conoscenza pili ricca, più vasta e
piti profonda. Le sue innumerevoli osservazioni, i suoi continui esperimenti
sono i gradini che debbono condurlo colà dove, entro una luce inestinguibile,
appare l'eternità della vita. Soffrire la disciplina del ragionamento e
dell'esperimento Angelo Conti, Leonardo piitore 101 per aver in fine, come
premio, la visione della vita, non h forse una divina aspirazione? Più la sua
conoscenza, nel quotidiano osservare e meditare, gli svelava nuove leggi e
nuovi segreti, più cresceva in lui l'amore per tutta la natura ; ne vi fu mai
al mondo, dopo l' umile frate d'Assisi, chi l'abbia amata d'amore più puro e
più ardente. Chi più conosce 'pia ama^ sono le sue parole. In questo amore
generato dalla conoscenza è tutto il segreto dell'opera di Leonardo, dai
manoscritti e disegni alle pitture. Il suo realismo è un mezzo per giungere
all'idea, è il modo ch'egli adopera per ricomporre ciò che prima ha scomposto,
in maniera che la natura stessa sembri formarsi dinanzi a noi e farci assistere
alla sua stessa creazione. Chi conosca i manoscritti di AYindsor, nei quali i
disegni hanno un'importanza assai maggiore del testo, può convincersi
agevolmente di questa verità e può anche comprendere (cosa che in questo
momento deve particolarmente interessarci) che quando Leonardo parla di
anatomia o di fisiologia, come nei così detti trattati che si vanno ora
pubblicando, egli non è mai un anatomico vero e proprio, ne un vero fisiologo,
ma è sempre prima d' ogni altra cosa e sopra ogni altra cosa pittore. Tutta la
sua opera di scienza, tutti i suoi disegni d'anatomia, d'embriologia, di
botanica, non ser- vono se non a rendere più vasta, più profonda e più ricca la
sua visione pittorica dell'uomo e della natura. La scienza non è se non un
mezzo d'espressione della sua visione del mondo, ed egli se ne giova per dare
un carattere di precisa realtà agli ardimenti del suo sogno. Scopo del suo
immenso lavoro e di giungere a creare ima- 102 Angelo Conti, Leonardo pittore
g'ini clic sembrino nate con le stesse leggi con le quali la natura produce le
sue forme : qual fanno le cose. E doloroso che nella sua vasta opera
essenzialmente pittorica, nella quale " non fu impedito „ , come egli
dice, " da avarizia o da negligenza, ma solo dal tempo „ , manchi
irreparabilmente una fra le pagine piti vive e più grandi: La Battaglia
d'Anghiarl. Scrivo queste parole vicino a Santa Maria Novella, a pochi passi
dal luogo nel quale egli disegnò r opera maravigliosa. Le campane che suonano
nel campanile roseo al primo sole del mattino, sembrano diffondere sul mio
ricordo una voce dì pianto. Li pochi mesi il lavoro fu compiuto, e
immediatamente cominciata la pittura a fresco per la sala del Consiglio in
Palazzo Vecchio. Leonardo vi dipinse dal 1504 al 1506. Poi l'opera fu da lui
abbandonata. Nel 1559 il cartone di Leonardo era ancora nella sala del Papa,
mentre il cartone della Guerra di Pisa disegnato da Michelangelo era nel
Palazzo dei Medici, l'uno e l'altro esposti all'ammirazione del mondo. Da queir
anno manca ogni notizia. Della pittura incominciata in Palazzo Vecchio si sa
soltanto che nel 1513 esisteva ancora, ma cadente a causa della cattiva
preparazione dell'intonaco e dei colori. Cito, contro il mio solito, dati di
fatto e date, perchè l' opera pur troppo manca. Se l'opera esistesse, il suo
linguaggio renderebbe insostenibile la voce della cronologia ; ma poiché è perduta,
ci è necessario contentarci delle parole di chiunque ce ne parli. I due tre
ricordi pittorici rapidi e sommari dell' episodio centrale della battaglia, non
bastano a dare un'idea di ciò che fece Leonardo. Angelo Conti, Leonardo
irittore 103- Chi sa in qual modo maraviglioso e straordinario egli avrà
rappresentato la mischia, la furia guerresca intorno allo stendardo, che
sappiamo fosse nel centro, qnal prodigio di scorci, quale evidenza di
movimenti, nobiltà ed impeto di gesti e quale perfezione di cavalli, dei quali
egli conosceva la vita come nessuno dei suoi tempi ! Di tutto ciò nulla e
rimasto. Io imagino che nell'anno in cui ogni traccia dell'opera scomparve, la
natura, per compensare il mondo, dovè creare una primavera favolosa, non veduta
mai. Poiché nel mondo nulla si perde, e quando una bellezza è distrutta, sia
essa una selva che arda, un' isola che si sommerga, un capolavoro che cada in
rovina, la natura provvida fa nascere nuovi germogli, suscita nuove bellezze e
nuove energie, e la sua forza di creazione rimane intatta in virtii della sua
maggiore attività : il mutamento.
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