LA PEDAGOGIA DI S. TOMMASO D’AQUINO Saggi di pedagogia generale MARIO CASOTTI Professore nell’Università del Sacro Cuore BRESCIA, Editrice “La Scuola”, 1931 * * * INDICE 5 Prefazione 9 La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino 65 L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia 125 Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie 163 Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementari * * * PREFAZIONE Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la pedagogia cattolica in Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande maestro: San Tommaso d'Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non trattavano se non fuggevolmente il problema dell'educazione, i pedagogisti cattolici più noti o non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo di noi. Ecco perché San Tommaso d'Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e, insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo - il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire, archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso, oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come cattoliche, tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e Scolaro, mi annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così volete: ma alla maniera di S. Tommaso d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine «autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione», che conviene solo a Dio. Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital bergsoniano. La pedagogia di San Tommaso d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione, dal Dottore Angelico. Da quelle teorie, anche così come le abbiamo prese e tentato di rivivere, emana già una luce che non può essere, come i nostri avversari vorrebbero, la luce scialba d'un crepuscolo che preceda la notte d'un passato morente, ma è la luce vivida dell'alba, che precede il giorno nuovo pieno di speranze e di promesse. A coloro che nel riprendere il pensiero di S. Tommaso e, in genere, della scolastica, vedono un pericolo per la libertà e l'originalità della ricerca scientifica s'è già risposto, e nel nostro volume Maestro e Scolaro e, qui, nel saggio Religione, filosofia e « filosofie » nelle scuole medie. Ora vogliamo ricordare, per finire, che non certo la pedagogia cattolica si può accusare di scarsa originalità. L'alba del giorno nuovo illumina delle figure che giganteggiano già nella storia della moderna educazione: basta menzionare Don Bosco, la cui grandezza e fecondità, anche come teorico e pedagogista, si comincia appena adesso a scoprire. Le numerose opere della pedagogia cristiana aspettano solo chi le studi, le illustri, le faccia conoscere al pubblico studioso, con quello stesso amore che altri mettono nell'illustrare le più piccole iniziative delle scuole nuove o rinnovate. Anche questa volta i figli del mondo sono stati più abili ed intelligenti dei figli di Dio. Ma non sarà sempre così. Cortemaggiore (Piacenza) Convento di S. Francesco, 4 Gennaio 1931, nella Festa del SS. Nome di Gesù. NOTA. - I saggi che si raccolgono in questo volume furono tutti pubblicati, a vario intervallo di tempo, dal 1925 in poi sulla Rivista Scuola Italiana Moderna. Eccezion fatta pei seguenti : L'Educazione naturale (Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani, Firenze 1927, e apparsa negli Atti); L'anima della pedagogia (Rivista di filosofia neoscolastica, 1925) e Pedagogia cattolica (Rivista Levana, Firenze 1923). La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino Esiste una pedagogia di S. Tommaso d'Aquino? E si può, senza temer di cadere nelle solite esagerazioni che ci fanno attribuire troppo spesso ai grandi uomini del nostro cuore una sapienza sterminata ed estesa un po' a tutto l’universo scibile umano, asserire che il dottore angelico abbia segnato, anche nel campo delle teorie sull' educazione, l'impronta di quell'altissimo ingegno che, stringendo insieme cielo e terra costruiva un edificio di dottrina al quale le età venture avrebbero guardato sempre con commossa riverenza, quasi a testimonianza imperitura di quel che possa la scienza quando si congiunge colla fede? Fortunatamente, la risposta a tale domanda non ammette dubbi di sorta. Ché nella vastissima opera dell'Aquinate non solo la pedagogia c'è, in quanto dappertutto vi si possono cogliere spunti di teorie sull'educazione, in ordine a tutta la concezione dell'uomo e della realtà e al fine della vita, ma c'è anche come problema esplicitamente discusso e risolto con tale rigore scientifico e con tali esigenze critiche che dovranno passare dei secoli, nella storia della pedagogia, prima che sia possibile riprenderlo, quello stesso problema, colle medesime esigenze. Il problema, infatti, che San Tommaso affronta nel suo De magistro è un problema di per sé così delicato e difficile che solo rare volte, e in periodi di cultura filosofica molto diffusa, i pedagogisti anche più valenti riescono a proporselo con tutta la chiarezza desiderabile. E questo perché i pedagogisti sono premuti di solito dalla necessità di risolvere altre questioni più particolari e delimitate che loro sembrano e forse, sotto un certo aspetto, anche sono più urgenti, come quelle che riguardano l'organizzazione pratica dell'educazione, i metodi e via dicendo. Tutte questioni che non si possono, certo, risolvere senza far capo a un concetto filosofico dell' educazione, ma che spesso permettono, questo concetto, di sottintenderlo e di presupporlo, o di discuterlo, se mai, solo a proposito di quei particolari problemi pedagogici e didattici che si stanno trattando, piuttosto che di stabilirlo e discuterlo direttamente, per se stesso. Ciò spiega come mai le più celebri opere che la storia della pedagogia ricorda, dalla Didattica magna del Comenius ai Pensieri sull'educazione del Locke, all'Emilio del Rousseau, alla Education Progressive della Necker de Saussure, efficacissime nel descrivere e nell'analizzare in concreto il processo educativo, riescano tutte quanto mai deboli ed inefficaci nello stabilire, con sicuro metodo, una definizione dell'educazione che giunga ad appagarci sotto l'aspetto filosofico. Siamo, quasi, costretti a riconoscere che, se la pedagogia e la didattica sono antichissime, la filosofia dell'educazione è ancora bambina: ed era, forse, necessaria la rude scossa data dall' idealismo italiano contemporaneo col suo paradosso, gravido di verità, della identificazione completa tra filosofia e pedagogia, perché le indagini di filosofia dell'educazione riacquistassero, nella cultura pedagogica odierna, quel posto di prim'ordine che debbono avere. Questo breve preambolo occorreva per fare intendere che il problema pedagogico, così come San Tommaso lo annette, potremmo dire, alla filosofia scolastica, sotto il classico titolo «De magistro», è appunto il maggior problema della pedagogia, trattato con tutto quel rigore scientifico e filosofico che potrebbe desiderare, oggi, uno studioso. Non si tratta neppure della domanda: «che cosa è l'educazione?» domanda alla quale, in fondo, è dato rispondere anche restando sul terreno sperimentale, ma dell'altra e ben più difficile domanda: «come è possibile l'educazione?». Che l'educazione avvenga è un fatto che si può analizzare e descrivere sotto i più diversi aspetti, ma poi la filosofia deve sapere che cosa valga questo atto e quali siano le ragioni che lo spiegano e che lo rendono intelligibile. Ora, per arrivare a porre il problema così, bisogna cominciare dal compiere una certa astrazione (non spaventi questa parola oggi tanto malfamata) sui dati del problema educativo quale, a prima vista, ci è offerto dall'esperienza, bisogna, cioè, prescindere per un momento da tutte quelle particolari circostanze che rendono così interessanti e suggestivi, nella pratica, i problemi didattici, e avere il coraggio di ridurre l'educazione stessa alla sua più semplice espressione, a ciò che di veramente essenziale e caratteristico v'ha nel processo educativo, a ciò da cui non è possibile, davvero, prescindere, senza annullare o sfigurare gravemente l'educazione medesima. Il che viene poi ad essere un puro e semplice rapporto fra un soggetto che insegna ed un soggetto che impara, fra un soggetto che possiede determinate cognizioni od attitudini, e un soggetto che da lui riceve queste stesse cognizioni o attitudini che prima non possedeva: fra il maestro, cioè, e lo scolaro. Ebbene, domandare come è possibile l'educazione non significa altro che domandare come è possibile questo rapporto fra due soggetti pensanti, in virtù del quale l'uno può all'altro trasmettere determinate cognizioni ed attitudini. Ed ecco la cerchia entro la quale si svolge la ricerca del De Magistro di San Tommaso: ricerca che, appunto per questa sua rigorosa impostazione critica, sembra come anticipare i risultati delle più moderne e scaltrite filosofie dell'educazione. * * * Posto così, il problema dell' educazione ha suscitato, si può dire, in ogni tempo, e ogni volta che qualche pensatore l'ha approfondito, alcune serie difficoltà, oggi note a tutti, ma il formulare precisamente le quali è costato alla filosofia dell' educazione uno sforzo non indifferente. Poiché il chiedere soltanto come è possibile che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate cognizioni ed attitudini sembra implicare, se non addirittura una contraddizione, certo una difficoltà quasi insormontabile, dato che il termine «trasmettere» o «comunicare» o qualsiasi altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione del maestro sullo scolaro, non sembra possa riflettere, se non in maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del processo educativo. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse comunicarsi, trasmettersi o cambiar sede, come una moneta che passa di mano in mano, ma nell'educazione ciò che si trasmette è essenzialmente un valore ideale e immateriale, come la scienza e la virtù. E questi valori tanto poco si lasciano «trasmettere», nel significato materiale della parola (poiché essi hanno la loro base in un atto interno del pensiero e del soggetto pensante), e un atto di tal genere è tanto impossibile trasportarlo da un soggetto ad un altro soggetto, quanto è impossibile che un soggetto trasmetta ad un altro ciò che costituisce la sua intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in Alcibiade. E allora, al pensatore che sperimenta questa difficoltà, si affaccia spontanea una ipotesi che sembra semplificare nel miglior modo l'intricato problema, troncando alla radice ogni obiezione ed incertezza. Dato che la difficoltà prima nasce dall'aver concepito educatore ed educando come due soggetti distinti, perché non togliere addirittura di mezzo la dualità stessa, e concepire l'educazione come lo svolgimento d'un unico soggetto che, invece di ricevere il sapere dall'esterno, lo sviluppa dall'interno? Teoria antica per lo meno quanto la correlativa difficoltà, poiché ad essa si può ridurre già la maieutica socratica, e perché, fra l'altro, con l'intento di stabilirla su salde basi, Platone costruiva la sua celebre teoria della reminiscenza (mentovata, appunto, nel De Magistro tomistico) e lo schiavo ch'egli immaginava interrogato da Socrate nel Menone aveva proprio il compito di servire a dimostrare, indirettamente, la tesi che l'opera del maestro consiste nello stimolare o nell'aiutare la mente del discepolo perché cerchi, e, cercando, cavi fuori la scienza che ha già in sé, non nel pretender di trasmettere al discepolo una scienza bell'e fatta. Che è poi e in Socrate e in Platone e più tardi in tutta la pedagogia moderna, la dottrina che va per la maggiore, la dottrina dell'autodidattica, o, come anche si dice, dell’autoeducazione: dottrina, cioè, che riduce l'educazione ad autoeducazione, qualunque sia poi la concezione filosofica colla quale pensa di confortare tale riduzione. La teoria dell'autodidattica infatti (e questo è appunto uno dei motivi che hanno più contribuito alla sua diffusione) permette una grande varietà e latitudine di giustificazioni filosofiche, dal misticismo, se così si può chiamarlo, che immagina il sapere infuso da Dio direttamente allo spirito umano e da questo via via scoperto e reso esplicito mediante l'opera dell'educazione, al soggettivismo estremo il quale crede che il pensiero nostro crei liberamente la sua scienza nell'atto stesso del pensarla e non possa perciò ricevere dall' insegnamento e dalla scuola, altro che uno stimolo a tale creazione, o per dir meglio, alla chiara consapevolezza di questa creatività, che costituisce la sua essenza, e della quale non può mai spogliarsi. II Ora, di dottrine che potevano concludere in qualche modo un sistema di autodidattica S. Tommaso ne aveva presenti due. Molto diverse, è vero, per valore e significato, tanto diverse, anzi, quanto può essere diversa una dottrina vera, e vera di una profonda verità, ma incompleta, un errore aperto e tutto contesto di acuti ma inconsistenti sofismi. Basta ricordare che l'uno era la dottrina esposta da Sant'Agostino nel suo De Magistro e l'altro era l'averroismo: quella interpretazione di Aristotele che, movendo dal pensiero del grande stagirita attraverso il commento di Averroè e degli altri commentatori arabi, finiva in un sistema panteistico, mezzo idealista e mezzo naturalista, che sembrava anticipare in pieno medioevo la crisi ideale della quale dovrà poi tanto soffrire il pensiero moderno. Basta, diciamo, ricordare questo per intendere subito il diverso atteggiamento che l'Aquinate doveva prendere verso l'una e verso l'altra delle due dottrine, pur essendo costretto necessariamente a ravvicinarle nel corso di quella discussione dalla quale dovevano limpidamente scaturire i concetti fondamentali della pedagogia tomistica. Il De Magistro di Agostino è a sua volta, non meno del De Magistro tomistico, tenuto conto, si capisce, d'ogni differenza e di tempo e d'ambiente e di mentalità, un modello nel suo genere. Modello d'una ricerca che non si arresta neppure essa, come non si arresterà poi l'indagine di S. Tommaso, ai particolari problemi della pedagogia e della didattica, ma ascende subito al problema massimo su cui s'appoggia la filosofia dell' educazione. “Come è l'educazione possibile?” S. Agostino, né più né meno di S. Tommaso, incomincia da questa domanda. “Come è possibile, cioè che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate cognizioni?” L'indagine del De Magistro agostiniano prende in esame il mezzo principale e più appariscente, che sembra appunto garantire tale comunicazione tra il maestro e lo scolaro, non meno che tra gli uomini in genere: il linguaggio. Sembra, infatti, che proprio la parola, parlata o scritta, con tutto il corteggio di altre espressioni grafiche, foniche, mimiche ond'è accompagnata, debba essere per eccellenza il veicolo attraverso il quale, se così può dirsi, la scienza passa dal docente al discente; talché chi mette la mano su questo problema ha, di necessità, la strada aperta ad una esauriente critica delle forme nelle quali si costituisce e si svolge normalmente l'espressione didattica. Sennonché la vigorosa e geniale ricerca sul linguaggio perseguita nel De Magistro agostiniano, e alla quale non si può rimproverare altro che, talvolta, di indulgere a qualche sottigliezza eccessiva (spiegabile del resto, col carattere stesso dell'opera che, piuttosto che una esposizione compiuta d'una dottrina vuol essere ed è una magnifica realizzazione di metodo socratico) finisce, chi ben guardi, non solo col dichiarare il linguaggio uno strumento inservibile per la trasmissione della scienza dal maestro allo scolaro, ma anche collo svalutare, volta a volta, tutti gli altri mezzi dei quali il magistero umano si serve per rendere più concreta ed efficace la parola stessa. Sembra, è vero, che il maestro possa, per insegnare allo scolaro, servirsi di cose oltre che di parole, come ha sempre creduto la pedagogia, nei suoi sforzi verso un metodo «intuitivo» od «oggettivo», ma in realtà Agostino adduce contro quella pretesa un argomento molto forte, del quale S. Tommaso farà poi gran conto. Il mostrare una cosa non ci dice, per sé, quale sia l'elemento essenziale e quali gli elementi accidentali della cosa stessa: così se io cammino per mostrare ad altri che sia il camminare, gli spettatori potranno forse prendere per essenza della mia deambulazione l'andatura più lenta o più frettolosa ch'io ho tenuto e credere che il camminare sia, per esempio, l'affrettarsi. E se voglio evitare l'equivoco devo ricorrere alle parole o ad altri segni affini, poiché, effettivamente, anche nel mostrare una cosa debbo servirmi di segni che non sono identici alla cosa stessa, e se, poniamo, per spiegare che cos'è la parete la indico col dito tacendo, il mio dito teso a indicare non è la parete, ma un segno della parete: né più né meno della parola trisillaba «parete» [Cfr. S. agostino: De Magistro Cap. III, 5 e 6]. Segni sensibili: ecco la natura del linguaggio, parlato, scritto, mimico o grafico che sia. Ora, i segni hanno appunto questo inconveniente: che, quando noi li percepiamo, o li conoscevamo già oppure non conoscevamo le cose ch'essi significano. Se le conoscevamo, allora i segni ci servono, ma non inducono in noi nessuna nuova cognizione, se non le conoscevamo, i segni non ci dicono nulla e diventano affatto inutili. La parola latina saraballae, ad esempio, è un segno che non mi significa niente, proprio perché io non so che saraballae erano chiamate certe fogge di copricapi. Bisogna, dunque, che già l'abbia saputo, e l'ho potuto sapere non col mezzo di altre parole, ma perché già sapevo che cosa è il capo e che sono i copricapi, per aver visto l'uno e gli altri. Anzi, nemmeno la parola «capo» la prima volta che la udii mi disse nulla, e fu necessario ch'io la mettessi in relazione con quella cosa già da me conosciuta ch'era la testa mia o d'altri, per intendere il suo significato [Op. cit. Cap. X, 33, 34]. E allora non sono i segni che fanno intender le cose, ma, al contrario, le cose che fanno intendere i segni; e il linguaggio del maestro che è, anch'esso, un sistema di segni, ben lungi dal procurare allo scolaro una scienza ch'egli non possedeva, può significargli qualche cosa solo in ordine alla scienza ch'egli aveva già. Il che vuol dire ottenere un risultato nullo quanto alla sola cosa che ci premeva: la possibilità d'una effettiva comunicazione e trasmissione di scienza dal maestro allo scolaro. Ed ecco la conclusione. Le parole non possono essere veicolo di scienza dal maestro allo scolaro, perché sono puri segni sensibili, invece la scienza non è un segno o una cosa sensibile, ma un atto interno della mente, alla quale appare la verità o la falsità delle nozioni che le vengono date «Che se per i colori consultiamo la luce, e per le altre cose che sentiamo attraverso il corpo consultiamo gli elementi di questo mondo... per le cose intelligibili noi consultiamo con la ragione la verità interiore». E che cos'è questa verità? «...colui che è consultato insegna: quel Cristo che fu detto abitare nell'uomo interiore, cioè l'immutabile Virtù ed eterna Sapienza di Dio; chi consulta, del resto, ogni anima ragionevole; ma tanto a ciascuno si apre, quanto ciascuno può prenderla secondo la propria o cattiva o buona volontà» [Op. cit. cap. XI, 38 e XII, 39]. Che significa, appunto, concludere a una vera e propria autoeducazione nella quale non il maestro, ma solo Dio infonde direttamente il sapere allo spirito umano, ch'è precisamente, come abbiamo notato altra volta, una delle possibili giustificazioni, in sede filosofica, dell'autodidattica, e si trova, un pò come tutta la filosofia agostiniana, sulla stessa linea del platonismo e, in questo caso, della sua celebre teoria della reminiscenza. Dio, dunque, è l'unico maestro dell'uomo: l'unico maestro al quale non faccia ostacolo quella tale difficoltà della comunicazione fra soggetto docente e soggetto discente. Affermazione giustissima certo, sotto l'aspetto positivo, in quanto non solo si deve riconoscere che Dio può insegnare imprimendo senz'altro nella mente il lume intellettuale e la verità, ma appare evidente che il magistero divino debba essere la causa prima e il fine ultimo di ogni magistero umano. Ma affermazione insufficiente sotto l'aspetto negativo, poiché, in fondo, arriva a negare addirittura la possibilità dell'educazione e a dichiarare insolubile il problema, dal quale ha preso le mosse, dei rapporti fra maestro e scolaro. Nonostante gli spunti geniali della sua ricerca, Agostino non riesce che a far sentire più acute e tormentose le difficoltà del problema stesso, cioè, in ultima analisi, a farci desiderare con maggiore intensità una soluzione veramente razionale, che è infatti il grandissimo merito del De Magistro agostiniano. S. Tommaso dovrà precisare, dovrà, talora, rettificare dovrà, soprattutto, procedere oltre; ma la sua pedagogia non potrebbe poggiare così in alto, se l'opera di Agostino non le offrisse già una base sicura: l'impostazione rigorosamente critica del problema, che il De Magistro tomistico riprenderà tale e quale. III L'altra corrente filosofica alla quale guardava San Tommaso nell'impostare il problema del suo De Magistro è, certo, ben lungi dall'avere la chiarezza o, meglio la molteplicità di documenti e di manifestazioni che oggi permettono a noi di accostarci con tanto profitto al pensiero agostiniano. Poiché, ancora, il Renan nella sua opera su Averroé e l'averroismo era costretto a considerare l'averroismo piuttosto come una tendenza dottrinale da ricostruirsi attraverso le confutazioni che ne avevano fatto gli avversari, che come un insieme di teorie positivamente sostenute negli scritti di determinati autori. Studi più recenti hanno cambiato questo stato di cose: dopo il notissimo saggio del Mandonnet su Sigieri di Brabante, oggi noi conosciamo non soltanto i nomi di alcuni averroisti, ma possediamo alcuni testi di notevole interesse, i quali ci permettono, in ogni caso, di asserire che l'averroismo latino fu, almeno dopo il 1230, qualcosa di ben più reale e concreto che una semplice tendenza. Il che, del resto, appare chiaramente, per non dir altro, dalla differenza che passa già, in questo ordine di idee, fra il trattato di Alberto Magno De unitate intellectus, e l'omonimo trattato di S. Tommaso d'Aquino, scritto quindici anni dopo: dove l'uno è costretto in certo modo a escogitare lui le tesi averroiste fondandosi sugli scritti dei peripatetici, l'altro mostra di polemizzare contro una dottrina avversaria ben costituita ed effettivamente insegnata. In ogni modo, però, la conoscenza che abbiamo oggi dell'averroismo è ancora ben lungi dall'essere soddisfacente, sia pur solo in ordine ai numerosi problemi che fa sorgere in noi l’interpretazione di San Tommaso, ed è certo da augurare e da sperare che nuovi testi averroistici possano essere dati alla luce in un prossimo avvenire. Cosa che permetterebbe di studiare con maggior esattezza la stessa filosofia dell'educazione, esposta da S. Tommaso, e nella questione disputata De Veritate (della quale fa parte il De Magistro) e nella questione 117 della Summa Theologica (Parte Ia). Poiché e nell' una e nell' altra San Tommaso attacca l'averroismo intorno al problema dei rapporti fra maestro e scolaro, e della possibilità che un uomo riceva scienza da un altro uomo. Ora, l'averroismo aveva effettivamente prodotto qualche opera nella quale quel problema fosse, di proposito, esaminato, oppure, come adesso sembra più probabile, si trattava di conseguenze implicite in tutta la dottrina averroistica? Evidentemente, solo i progressi futuri della storiografia filosofica intorno all'averroismo potranno permettere una risposta definitiva a questa domanda. Comunque, se circa questo problema della possibilità dell’educazione, i precedenti storici del pensiero tomistico in ordine all’averroismo paiono incerti quanto ai particolari, nessun dubbio vi può essere invece circa i due punti che ora c’interessano. È certo, cioè, non solo che nel trattare il problema della educazione S. Tommaso guarda all'averroismo come all'avversario da sconfiggere, ma che, di più, egli suole, benché con intenti nei due casi molto diversi, trattarlo insieme alla dottrina agostiniana, o platonico-agostiniana, che abbiamo or ora richiamata. L'abbiamo già detto: la tesi agostiniana appare, in massima, vera ma incompleta, dove la tesi averroistica appare manifestamente falsa. Ma appunto da quella incompletezza S. Tommaso doveva pensare essere facile passare a questa falsità, non solo per la ragione generica del pericolo che presentano sempre le teorie incomplete, ma anche per alcune ragioni specifiche e positive che possiamo benissimo rintracciare attraverso le poderose argomentazioni del De Magistro, e che ci vengono subito in mente appena ci troviamo a richiamare i principi fondamentali dell'averroismo. L'averroismo, infatti, qualunque possa essere lo sviluppo che gli abbia dato in particolare l'uno o l'altro suo fautore, ci si presenta, nelle sue linee generali, abbastanza ben definito, si potrebbe dire, attorno a due tesi fondamentali riguardanti, l'una, la natura dell'anima umana, l'altra i rapporti di Dio col mondo. La prima tesi, riguarda la notissima questione della unità dell'intelletto: e non s'andrebbe lontani dal vero asserendo ch'essa rispondeva, nella mente dei pensatori medioevali, a un ordine di preoccupazioni non molto dissimile da quello cui rispondono, nella mente dei pensatori moderni, le dottrine idealistiche del soggetto unico e dell'io trascendentale. «Quod intellectus omnium hominum est unus et idem numero» [V. MANDONNET Siger de Brabant, Louvain 1911. Vol. 1° pag. 111 n.. - Si cfr. nel vol. II° a pag. 187 fra le proposizioni condannate dallo stesso Arcivescovo nel 1277: «Quod scientia magistri et discipuli est una numero...» Che è proprio una delle affermazioni confutate nel De Magistro, all'Art. 1° (ad sextum)]: ecco come la condanna portata nel 1270 dall'Arcivescovo di Parigi contro l'averroismo definiva la prima proposizione riprovata. Noi non possiamo, ora, addentrarci nelle sottili questioni di interpretazione aristotelica che questa dottrina coinvolge: basti notare, adesso, la soluzione del problema della conoscenza ch'essa richiede. In sostanza, come pure è chiarito sia dalla polemica di San Tommaso sia da un'altra delle proposizioni condannate, qualunque fosse la maniera colla quale interpretava Aristotele, l'averroismo intendeva fondarsi su ragioni speculative, fra l'altro, su questa: che l'atto del pensiero sembra non potersi attribuire in proprio a questo o a quel soggetto pensante particolare, ma doversi attribuire invece a un intelletto unico che si rifrange, sì variamente attraverso le singole anime e i singoli corpi da esse informati, ma che, ciò nonostante, resta unico, come la luce che illumina in diverso modo i vari oggetti, e tuttavia è sempre la stessa luce. Le differenze fra i singoli soggetti, ossia fra l'una e l'altra anima individuale sembravano, cioè, agli averroisti differenze che cadessero, se così ci si può esprimere, su un piano diverso da quello nel quale si svolge la funzione del pensiero vera e propria: differenze riguardanti, insomma, la materia piuttosto che il pensiero [O, al massimo, la sensibilità e l'immaginazione: l'anima sensitiva. V. quanto diciamo a pag. 29], fino a far dell'anima individuale, in quanto forma dell'uomo, qualcosa che si corrompe colla morte, né più né meno del corpo. Fermiamoci un momento a questa celebre tesi, per la quale l'averroismo ben merita di essere chiamato, pur colle debite differenze d'ambienti e di problemi, l'idealismo del Medio Evo, cosi come, d'altra parte, ben si potrebbe chiamare oggi l'idealismo un averroismo moderno, molto più evoluto e raffinato del suo antico progenitore. Quali conseguenze si possono trarre da questa tesi dell'intelletto unico in ordine al problema dell'educazione? È chiaro: se l'intelletto è uno solo in tutti gli uomini, è uno solo anche nel maestro e nello scolaro, i quali, dunque, non sono più due soggetti, ma un soggetto solo, almeno quanto alla funzione del pensiero. Ma allora ecco risolta quella tal difficoltà della «comunicazione» fra maestro e scolaro che tanto aveva tormentato Agostino. Il maestro non ha più bisogno di comunicare dall'esterno collo scolaro, per la semplice ragione che l'uno e l'altro già comunicano nella maniera più intima possibile, attraverso lo stesso intelletto, che è unico in ambedue. E perciò l'opera esteriore del maestro si riduce, non già al trasmettere scienza, ma solo a stimolare lo scolaro perché disponga la fantasia e la sensibilità [Si veda S. Tomm. Summa theol. I, 117 art. I (nel corpo)] in modo da attuare convenientemente quella scienza che già possiede - allo stesso titolo del maestro - nell'intelletto unico. Così la teoria averroistica accresce la sua autorità con tutto il peso degli argomenti fra i quali si era dibattuto il pensiero agostiniano, anzi, ci si presenta come la sola teoria capace di spiegare in maniera rigorosamente scientifica il problema dell'educazione. Né l’avere ammesso, come Agostino, Dio come solo maestro, costituisce un ostacolo: poiché quell'intelletto unico di Averroé e degli averroisti si trova già, filosoficamente, in una posizione equivoca, nella quale non è difficile riconoscergli attributi divini, quali la capacità di creare o, almeno, di infondere immediatamente le forme nella materia. E non basta: la teoria averroistica sembra venire incontro anche a quelle esigenze circa l'autodidattica, che da Socrate e da Platone in poi si erano fatte energicamente sentire, nella storia della pedagogia, poiché lo scolaro non vi riceve scienza dal maestro o, comunque, dal di fuori, ma solo trae da se stesso, o da quell'unico intelletto che pensa in lui, tutta la scienza che gli abbisogna. Sì che, in sostanza, averroismo, autodidattica, Dio unico maestro, finiscono col formare una sola dottrina, che pare rispondere mirabilmente alle difficoltà già sollevate da Agostino circa il problema dell'educazione, e fornirci, anzi, quel completamento e quella rielaborazione critica che la pedagogia agostiniana attendeva. Ricordiamo quello che avevamo detto al principio di questo studio: il difficile problema di intendere come un soggetto pensante (il maestro) possa trasmettere il suo sapere a un altro soggetto pensante (lo scolaro) è risolto appunto col toglier di mezzo la dualità, riducendo l'educazione all'atto di un soggetto unico. Non resta che tracciare una linea ideale attraverso il tempo, la quale congiunga Aristotele e Averroé con Cartesio, Kant ed Hegel, fino all'idealismo contemporaneo, e avremo rintracciato, nel bel mezzo delle dispute medioevali, le origini almeno di una fra le più cospicue correnti della pedagogia moderna. Ma la teoria dell'intelletto unico prendeva un significato ancor più deciso, quando la si considerava insieme a quell'altro gruppo di tesi cosmologico-metafisiche che si riscontrano non solo in Averroè e negli averroisti, anche in altri commentatori arabi di Aristotele, come Avicenna od Algazele. Le tesi averroistiche condannate nel 1270 affermano, aristotelicamente, il mondo essere eterno, e Dio non conoscere nulla fuori di se stesso e tutto ciò che accade nel mondo, compresi gli atti della volontà umana, essere soggetto non alla Provvidenza divina, ma alla necessità e all'influsso dei corpi celesti. D'altra parte, in tutti i commentatori di Aristotele sopra citati ricorre pertinacemente questa affermazione: che Dio non ha creato direttamente - se pur si può ancora parlare di «creazione» da questo punto di vista - tutti gli esseri, ma solo l'intelligenza prima, o l'intelletto separato, il quale, a sua volta, ha dato la forma a tutti gli esseri, magari attraverso una gerarchia d'intelligenze, le superiori delle quali agiscono sulle inferiori. Così l'importanza e la dignità, se si può dire, metafisica di Dio come causa prima, mentre sembra aumentata riesce, invece, stranamente diminuita. Sembra che sia tolto a Dio ogni contatto diretto colla materia e cogli esseri, inferiori: in realtà questo accade sol perché si sono dati alle cause seconde degli attributi che dovrebbero spettare solo alla causa prima, ad esempio la facoltà di creare, la facoltà d'imprimere immediatamente le forme nella materia, il dominio sulle intelligenze. La stessa materia e il mondo materiale diventano qualche cosa che sta e si svolge per sé indipendentemente da Dio: onde quella strana cecità e indifferenza di Dio per quanto accade nel mondo. Il che significa ridurre, anziché aumentare, l'importanza della causa prima, tanto da ammettere addirittura, implicitamente o esplicitamente, l'esistenza di parecchie cause prime. C'è insomma, e nei commentatori arabi di Aristotele e nell'averroismo, questa interessante posizione filosofica: un ingenuo materialismo che sta insieme a un non meno ingenuo idealismo, un sistema dell'immanenza che finisce in un vero e proprio naturalismo. Ce ne dovremo ricordare dopo, esaminando il De Magistro di S. Tommaso. IV Il quale S. Tommaso due volte, nelle due diverse trattazioni che dedica al problema dell'insegnamento, torna a discutere la dottrina averroistica: una volta, prevalentemente, per ciò che riguarda la teoria dell’intelletto unico, un'altra volta per ciò che si riferisce alle teorie metafisico-cosmologiche. Nella Summa Theologica, I, q. 117, art. 1, l'averroismo è, infatti, esposto e confutato quanto alle sue conseguenze circa i rapporti fra maestro e discepolo che riguardano la teoria della conoscenza. Averroè, dice S. Tommaso, affermò esser unico l'intelletto in tutti gli uomini e perciò ammise che il maestro non può causare allo scolaro una scienza diversa da quella che quest’ultimo ha già, ma solo può spingerlo ad ordinare i fantasmi nella sua immaginazione in modo che siano ben disposti a riflettere la luce dell'unico intelletto e a provocare, perciò, l'apprensione della scienza. “ Et secundum hoc ponit, quod unus homo per doctrinam non causat scientiam in altero aliam ab ea quam ipse habet; sed communicat ei eamdem scientiam quam ipse habet, per hoc quod movet eum ad ordinandum phantasmata in anima sua, ad hoc quod sint disposita convenienter ad intelligibilem apprehensionem”. Dove bisogna tener presente che, secondo l'averroismo, l'anima sensitiva, alla quale appartengono la fantasia e i fantasmi, è forma del corpo, e, quindi, a differenza dell'anima intellettiva, è propria di ciascun singolo soggetto e molteplice secondo la molteplicità dei soggetti. Onde, l'atto del pensare si può attribuire all'uno o all'altro singolo soggetto, al maestro o allo scolaro, non in quanto puro atto del pensare (nel qual senso va attribuito solo all'intelletto unico) ma in quanto pensiero che si riflette e, per così dire, s'incorpora nei fantasmi, i quali appartengono in proprio all'uno o all'altro individuo o soggetto particolare. La differenza fra il maestro e lo scolaro non sta, dunque, nel fatto che l'uno sappia e l'altro non sappia, uno abbia la scienza e l'altro no, dal momento che maestro e scolaro hanno tutti e due, per natura, lo stesso intelletto e, perciò, la stessa scienza. Ma sta, invece, nel fatto che il maestro ha già disposto i fantasmi della sua immaginazione in modo che essi rispecchino e realizzino le forme intellettuali dell'intelletto unico; mentre lo scolaro non li ha ancor disposti così, ma deve tuttavia disporli. Il maestro, quindi, non «comunica» né trasmette scienza nel senso vero e proprio della parola, ma solo stimola con l'insegnamento lo scolaro a formare e ordinare quei fantasmi che permetteranno, se ci si consente l'espressione, alla luce dell'intelletto unico, che pur c'era nella sua anima, ma era come adombrata e annuvolata, di passare a risplendere in tutta la sua chiarezza. Teoria, bisogna pur dirlo, simile in modo addirittura impressionante a certe dottrine moderne le quali non hanno su di lei che il vantaggio di non formulare sempre chiaramente le ultime conseguenze cui giungono, ma le quali, viceversa, ammettono un «Io» unico per tutti i soggetti particolari, e debbono poi rinviare alla sensibilità quando vogliono spiegare la differenza, almeno apparente, fra un soggetto e l'altro, proprio come già faceva, a suo modo, la teoria averroistica. Più esperte e scaltrite, le teorie moderne sono pronte a coprire col divenire e la dialettica ogni loro deficienza; più ingenuo e grossolano, l'averroismo si lasciava subito sbarrare il passo da questa formidabile difficoltà. Se l'intelletto è unico, diverso e separato dalle singole anime individuali, come si può poi attribuire a queste singole anime, e ai singoli soggetti, Tizio, Caio e Sempronio, l'atto del pensare, l'atto, cioè, di un soggetto per definizione affatto diverso da loro? Abbiamo visto, è vero, che gli averroisti tentavano di vincere questa difficoltà amalgamando l'intelletto unico con l'anima individuale attraverso il termine medio dei fantasmi e delle forme o specie intelligibili. Ma si tratta di una soluzione che non risolve nulla, poiché tale «continuatio vel unio» come la chiama S. Tommaso non spiega in qual modo l'azione dell'intelletto si possa attribuire a questo o quel soggetto particolare. Il fatto che le specie o forme intelligibili siano nei fantasmi dell'anima individuale non significa punto che siano da essa pensate, così come l'essere il colore in una parete non vuol dire che la parete vegga il colore, o che si debba attribuir alla parete l'azione del vedere. Per avere in sé il colore, la parete non vede, ma è veduta; per avere riflesse nei suoi fantasmi le forme o specie intelligibili, l'individuo, Tizio o Caio, non penserebbe, ma piuttosto, sarebbe pensato, dall'unico intelletto [S. Theol. I, q. 76, art. 1 (in corp.)]. Difficoltà, si noti bene, che non si risolve col far entrare a forza l'intelletto unico dentro i soggetti particolari, o col renderlo, come oggi si preferisce dire, «immanente». Poiché la questione non è di lontananza o vicinanza, di continuità o di contiguità, ma di possibilità o impossibilità logica e metafisica. Si chiede appunto se sia possibile rendere «immanente» un intelletto unico nei singoli soggetti particolari, e proprio qui si trova la difficoltà insolubile. Non è ora il caso di addentrarsi oltre nell'acuta critica che San Tommaso fa alla teoria dell'intelletto unico tutte le volte che gli accade di trattare dell'averroismo sia direttamente che indirettamente; né di enumerare i poderosi argomenti in proposito della quest. 76 (I, art. 1 e 2) ch'egli stesso richiama alla quest. 117. Qui basti ricordare che l'aver criticato quella teoria averroistica porta l'Aquinate a denunciare un equivoco, nel quale altre teorie, ben più moderne e scaltrite dell'averroismo, sarebbero poi cadute. Questo: che, nell'insegnamento, perché si possa garantire la comunicazione fra maestro e scolaro e il loro reciproco intendersi, non occorre che la scienza del maestro sia una di numero [Cfr. supra, pag. 24, nota, la proposizione condannata nel 1277] con quella dello scolaro, quasiché il medesimo sapere dovesse passare da una mente all'altra come un pezzo di legno passa di mano in mano. Ma basta soltanto che la scienza dello scolaro sia eguale o simile a quella del maestro: identica per la identità delle cose conosciute pur attraverso due processi mentali distinti e diversi e non per una materiale coincidenza e sovrapposizione della mente del maestro a quello dello scolaro, «...non si dice che il docente trasfonda la scienza nel discepolo, come se la stessa scienza - numericamente la stessa scienza - che è nel maestro passasse nel discepolo; ma che, mediante l'insegnamento passa nel discepolo una scienza, simile a quella che è nel maestro...» [De Mag. Art. I ad 6.tum « ...docens non dicitur transfundere scientiam in discipulum, quasi illa eadem numero scientia quae est in magistro, in discipulo fiat, sed quia per doctrinam fit in discipulo scientia similis ei quae est in magistero”]. Che significa, in sostanza, dimostrare quanto poco sia fondata l'idea che la teoria dell'intelletto unico possa facilitare o addirittura risolvere il problema della educazione, colla sua materialistica contrazione di tutti i soggetti pensanti in un soggetto solo, quasiché i soggetti fossero oggetti materiali che se non si sbattono gli uni contro gli altri non c'è verso di metterli in rapporto fra loro. V Nel De Magistro, invece, la teoria averroistica non è considerata per ciò che si riferisce al problema della conoscenza, ma più in generale per ciò che riguarda il problema metafisico e i rapporti fra la causa prima e le cause seconde. Tanto è vero che l'autore esplicitamente citato non è Averroè, come nella quest. 117 della Summa, ma Avicenna: ossia proprio colui che più insiste sul carattere metafisico dell'intelletto separato, considerandolo come l'intelletto primo, il solo prodotto immediatamente da Dio, e, in pari tempo, il datore delle forme a tutti gli esseri. Una specie di idealismo monistico, dunque, secondo il quale, e il problema metafisico e il problema morale e il problema della conoscenza sono risolti con l'ammettere che le forme degli esseri, la virtù e la scienza derivino dall'intelletto unico e da esso fluiscano, per così dire, sia negli oggetti sia nei soggetti individuali. Accanto a questa dottrina S. Tommaso ne ricorda, per criticarla parimente, un'altra che sembrerebbe quasi una teoria materialistica, se non ci aiutasse il riscontro con la citata questione 117 della Summa. Altri credettero, è detto nel De Magistro, che tutti codesti elementi, forme, scienza, virtù, fossero, anziché in un primo agente, nelle cose stesse, e venissero poi soltanto in luce per opera dell'azione e degli agenti naturali: come se tutte le forme delle cose fossero già immanenti nella materia. «Quidam vero e contrario opinati sunt; scilicet quod omnia ista rebus essent indita, nec ab exteriori causam haberent, sed solummodo quod per exteriorem actionem manifestantur: posuerunt enim quidam, quod omnes formae naturales essent actu in materia latentes» [De Mag. art. I (in corp.)]. Ma nella quest. 117 della Summa è detta opinione dei Platonici "opinio Platonicorum" quella secondo la quale gli agenti naturali preparano soltanto a ricevere le forme che la materia acquista per partecipazione delle Idee. «Sic etiam ponebant, quod agentia naturalia solummodo disponunt ad susceptionem formarum, quas acquirit materia corporalis per participationem specierum separatarum» [S. Theol. I, q. 117, art, 1 (in corp.)]. E il richiamo alla concezione platonica è efficacemente riconfermato dal De Magistro stesso, ove, tra le conseguenze di questa teoria si menziona appunto il concetto che all'anima individuale sia concreata la scienza e che, perciò, l'insegnare e l'imparare in altro non consista se non nel ricordarsi che fa l'anima della scienza già posseduta fin dall'inizio e poi obliata col suo ingresso nel corpo [De Mag. loc. cit]; cioè precisamente la dottrina platonica della anamnesi, che è appunto, come sappiamo, una delle più antiche giustificazioni della autodidattica. La dottrina platonica, dunque (che è anche, in gran parte, non dimentichiamolo, la dottrina agostiniana) e la dottrina averroistica sono da S. Tommaso non tanto contrapposte, come potrebbe avvenire di una teoria materialistica e di una idealistica, ma anzi poste sulla stessa linea, come due forme diverse di un medesimo idealismo. E, infatti, quanto all'insegnamento, che differenza ci può essere fra la teoria averroistica che concede al maestro solo di stimolare lo scolaro a disporre i suoi fantasmi in modo che lascino passare la luce dell'unico intelletto la quale già ardeva, ma velata, nella sua anima, e la teoria platonica che vede nell'insegnamento una rimozione degli ostacoli che il corpo e i sensi frappongono, nell'anima stessa, al ricordo della scienza che già possiede, ma ottenebrata e obliata? E che differenza c'è, si potrebbe aggiungere, fra queste antiche dottrine e le teorie dell’idealismo più moderno che nel maestro e nello scolaro vogliono vedere due aspetti o momenti diversi di un Soggetto solo, per cui debbono ammettere che lo scolaro ha la stessa scienza e lo stesso pensiero del maestro, ma solo in un grado di consapevolezza oscuro e involuto e che l'insegnamento avrà per unico compito di render più chiaro ed evoluto? In realtà siamo sempre allo stesso punto: idealismo e autodidattica. Nel combattere la possibile deformazione dell'agostinismo in senso averroistico, S. Tommaso ha effettivamente innanzi a sé già i motivi fondamentali di quella che sarà poi pur con altre forme e altra mentalità, la pedagogia idealistica moderna. E all'autodidattica e all'idealismo che ne è il fondamento, S. Tommaso si sforza con successo, in questi suoi scritti sul magistero, di togliere proprio quella pericolosa arma che derivava loro dal presentarsi come l'unica soluzione capace di rimuovere sul serio tutte le difficoltà inerenti al problema educativo: prima fra le altre, si capisce, quella riguardante la possibile «comunicazione» fra maestro e scolaro. Se lo scolaro non ha già in sé e nel suo interno la scienza, come potrà riceverla dall'esterno? Abbiamo visto che per S. Agostino un argomento fondamentale contro l'efficacia didattica dei «segni» ond'è intessuto il linguaggio era proprio questo: o lo scolaro già conosce le cose da essi significate, o non le conosce: se le conosce, essi non servono a insegnargliele, se non le conosce, non capirà nemmeno i segni. A ciò S. Tommaso risponde negando senz'altro il dilemma, col richiamarci uno dei più importanti caratteri della conoscenza, che non è un oggetto o una cosa, la quale o c'è o non c'è, ma un processo che si svolge per gradi e si può considerare sotto diversi aspetti. Ha lo scolaro in sé la scienza, dall'interno, senza che il maestro gl'insegni? In un certo senso, sì, giacché, per poter conoscere, ogni singolo soggetto deve avere in sé non solo l'attività conoscitiva, il lume intellettuale, ma anche alcuni concetti primi, alcune «forme» o «categorie» come più modernamente si direbbero (l'essere, l'uno, la sostanza, la causa ecc.) applicando le quali al materiale offertoci dalla sensibilità e dall'esperienza noi formiamo poi tutti gli altri concetti. E se ne avessimo il tempo, sarebbe, ora, interessantissimo fermarsi su questa teoria tomistica della conoscenza, che non è affatto un «innatismo» simile a quello, poniamo, di Cartesio, ma piuttosto un vero e proprio «apriorismo» capace di richiamarci quello che con molti gravi inconvenienti e con una consapevolezza critica assai minore del tomismo doveva costruire più tardi la filosofia moderna [la quale distruggeva, con Hegel e dopo di lui, quello che aveva costruito, almeno in parte, con Kant; e dopo aver ammesso, con Kant, l'«a priori» nella conoscenza, distruggeva, dopo Hegel, ogni distinzione fra «a priori» ed «a posteriori»]. Questa teoria, secondo San Tommaso, che riconosce un «a priori» nella conoscenza, sta nel giusto mezzo fra le due teorie estreme sopra ricordate: che vorrebbe tutt'e due nell'anima il possesso completo della scienza (benché, eventualmente, oscurato) sia per concreazione che per partecipazione dell'Intelletto unico. Laddove la scienza c'è, se si vuole, nell'animo nostro, ma solo «in potenza» ed implicitamente. L'attività dell'intelletto nostro ha in sé alcuni germi di scienza «quaedam scientiarum semina», cioè alcune, virtualità, o disposizioni a formare immediatamente, appena stimolata dall'esperienza sensibile, i principi primi, o le «categorie». Che contengono già, in certo modo, tutta la scienza, ed ogni scienza possibile, passata, presente o futura, appunto perché sono i concetti primi e più universali dell'intelletto, concetti presupposti da ogni altro concetto e senza i quali nessun altro concetto si forma, né si potrebbe formare. Così come, per servirsi di un paragone grossolano, nelle sette note musicali sono contenute, in potenza, tutte le sinfonie che la mente umana abbia escogitato o sia mai per escogitare. Ma (proprio come, benché nelle sette note musicali sia contenuta tutta la musica in potenza ed implicitamente, esplicitamente non c'è nessuna sinfonia, e l'inesperto benché tocchi quanto vuole i tasti del pianoforte non ne cava nulla) nei primi principi è contenuta tutta la scienza, e tutto lo scibile umano in potenza ed implicitamente; ma in atto ed esplicitamente non v'è in essi nessuna scienza concreta e determinata o, meglio, vi è quella sola scienza che riguarda i primi principi stessi, poniamo il concetto dell'essere, il concetto dell'uno ecc. E dunque lo scolaro sa o non sa, ha o non ha nell'interno del suo animo quella scienza che il maestro gli insegna? Sa e non sa, ha e non ha, nello stesso tempo. Sa ed ha, in potenza ed implicitamente; non sa e non ha in atto ed esplicitamente. Sa, in quanto possiede, nel suo intelletto, i primi principi, nei quali ogni scienza è contenuta; non sa, in quanto dai primi principi non ha ancora ricavato quelle determinate e particolari cognizioni che il maestro gli insegna. L'opera del maestro è, quindi, inutile o superflua? Nemmeno per sogno. Senza di essa lo scolaro sarebbe come l'inesperto musicista che ha innanzi a sé, nella tastiera del pianoforte, tutti i capolavori possibili ma, sciaguratamente, non sa cavarne fuori che, al massimo, una scala. Giacché proprio questo è, secondo San Tommaso uno dei caratteri fondamentali dell'intelligenza umana: essere una vis collativa o, come più modernamente si direbbe, una «attività sintetica». A differenza del senso che si comporta egualmente rispetto a tutti i suoi oggetti sì che poco importa, ed è una circostanza accidentale che percepisca prima gli uni o gli altri, l'intelletto non si comporta egualmente nel considerare tutti gl'intelligibili; ma subito vede alcune cose, come quelle che sono per sé note, nelle quali sono contenute implicitamente alcune altre che la stessa potenza intellettiva non può intendere se non esplicando per mezzo della ragione le cose che nei principi sono implicitamente contenute [De Mag. Art. I (ad XII. mum) « ...non se habet aequaliter ad omnia intelligibilia consideranda; sed statini quaedam videt, ut quae sunt per se nota, in quibus implicite continentur quaedam alia quae intelligere non potest nisi per officium rationis ea quae in principiis implicite continentur explicando »]. L'intelletto, cioè, afferra immediatamente i primi principi, e poi, mediante quelli, conosce tutte le altre cose, compie un atto semplice e immediato pei primi principi, e un processo mediato per tutte le altre cose. Ed è attività unitiva e sintetica appunto perché tutto quello che conosce, nella scienza, come vero, lo conosce in quanto lo può connettere ai primi principi mediante il processo del ragionamento. Tanto che se «si propongono ad alcuno cose non incluse nei principi per sé noti, o che non vi si manifestano incluse, non si produrrà in lui scienza, ma opinione, ovvero fede». VI. Sia concesso prima di procedere oltre, fare un'osservazione: questa teoria di S. Tommaso riguardante i primi principi, benché più volte abbia dato origine a delle critiche, non è mai stata, né poteva esserlo, veramente contraddetta neppure dalle più audaci e radicali teorie moderne della conoscenza. Le quali, sebbene abbiano protestato contro l'immediatezza dei primi principi e ci abbiano voluto vedere quasi un segno di umiliante passività dell'intelletto, non hanno, viceversa, poi, mai potuto far a meno, per conto loro, né dei primi principi, né della immediatezza relativa. Sì che tutto si è risolto, in ultima analisi, nel cambiare il nome dei primi principi serbandone, più o meno, immutata la sostanza. Cosi al posto dei principi si sono messe le «categorie» di Kant, l' «io» di Fichte o i momenti e gradi dello spirito degli idealisti moderni. Ma anche nella più estrema ipotesi, anche ridotte, cioè, tutte le categorie ad una sola, quella dell'«io», resta sempre vero che esse così si sono credute di poter ridurre, appunto, in quanto è sembrato che l' «io» solo fosse un principio immediatamente per sé noto, e tale che tutte le altre cose potessero esser note solo in quanto da lui si deducono e a lui si riconducono. Che è precisamente, con molte parole diverse e qualche asserzione assai discutibile per di più, la stessa posizione nella quale si trovano i «principi primi» della teoria tomisticoaristotelica, la quale sotto questo aspetto è dunque tanto «moderna» e critica come qualsiasi altra. Nessun filosofo degno di tal nome potrà mai negare il duplice carattere, mediato quanto alle conclusioni e immediato quanto ai principi, della conoscenza intellettuale. Appunto per questo l'attività intellettuale ha bisogno di un «motore» (indiget... motore) che la faccia passare dalla potenza all'atto. E ne ha bisogno proprio perché il processo della scienza pel quale dai principi si ricavano le conclusioni, non è un processo che si svolga per una necessità meccanica e fatale, cosicché posti da Dio nella mente umana i primi principi debba conseguirne senz'altro la scienza, così come un grave lasciato a se stesso deve fatalmente cadere. L'intelletto umano d'altra parte non è come l'intelletto angelico che scorge immediatamente nei principi le conclusioni e che con un solo e semplice atto coglie la verità: esso, invece, scorge immediatamente la verità dei primi principi, e quella di tutte le altre cognizioni solo in quanto le può ridurre, mediante il ragionamento, ai primi principi stessi. Ora, proprio in questo processo di riduzione ai principi e deduzione da esso, il discepolo ha bisogno d'aiuto; sia perché può sbagliare, sia perché può non avere la forza e la maturità mentale sufficiente per effettuare certe deduzioni e conclusioni. Inconvenienti ai quali rimedia il maestro in quanto gli mostra l'ordine dei principi e delle conclusioni: « inquantum proponit discipulo ordinem principiorum ad conclusione? qui forte per seipsum non haberet tantam virtutem collativam » [S. Theol. loc. cit]. Ma il soggetto pensante non ha in sé come sola fonte di conoscenze, il lume intellettuale e i primi principi, ha anche un'altra maestra: l'esperienza, o, meglio, la conoscenza sensibile. Già i primi principi, i concetti primi e per sé evidenti, abbiamo visto che sono nel nostro animo, forme a priori, disposizioni o virtualità che passano all'atto solo al primo stimolo della esperienza. Passati all'atto e costituiti che siano essi non producono nuove conoscenze se non in quanto si applicano, daccapo, ai dati che l'esperienza sensibile ci offre. Coi concetti di «uno», di «essere», ecc. (primi principi) io non posso formare i concetti di «animale», di «vegetale», di «uomo» ecc. se l'esperienza sensibile non mi dà la percezione dei singoli uomini, vegetali, animali ecc. dai quali astraendo certe caratteristiche essenziali comuni io formo appunto il concetto di «animale», «vegetale», «uomo » ecc. Processo che S. Tommaso descrive così : «Cum autem aliquis hujusmodi universalia principia, applicat ad aliqua particularia, quorum memoriam et experimentum per sensum accipit, per inventionem propriam acquirit scientiam eorum quae nesciebat...» Non basta, cioè, che ci siano i primi principi, occorre che ci siano anche le cognizioni particolari da ridurre ad essi; se no il processo che abbiamo descritto prima, col quale la mente umana conosce la verità, non potrebbe aver luogo. Ora, la conoscenza di queste particolari nozioni manca, o meglio, è scarsa ed imperfetta nello scolaro, che ha esplorato la propria esperienza sensibile molto meno e molto peggio del maestro. Ed ecco un altro modo col quale il maestro aiuta il discepolo: presentandogli, appunto, delle nozioni o proposizioni particolari, la verità delle quali egli possa saggiare da sé al lume dei primi principi, ovvero proponendo alla sua osservazione oggetti ed esempi sensibili da cui possa ricavare direttamente le cognizioni stesse [«...cum proponit ei aliquas propositiones minus universales, quas tamen ex praecognitis discipulus dijudicare potest; vel cum proponit ei aliqua sensibilia exempla, vel similia vel opposita, vel aliqua hujusmodi, ex quibus intellectus addiscentis manuducitur in cognitionem veritatis ignotae». S. Theol. loc. cit. (in corp.)]. Far questo, S. Tommaso lo dice, da parte del maestro: procurare allo scolaro «aliqua auxilia vel instrumenta» aiuti e strumenti di lavoro, potremmo dir noi, giacché il loro uso è proprio simile, sotto quest'aspetto, agli strumenti materiali, che facilitano il lavoro pur senza diminuire, anzi accrescendo la attività e la solerzia di chi li adopera. Che cosa c'è di vero, dunque, nella teoria agostiniana, secondo la quale è Dio che, dall'interno, mostra la verità all'anima umana? Questo: che da Dio appunto viene all'anima nostra la facoltà di conoscere, il lume intellettuale, i primi principi, la sensibilità. Ma poi lo sviluppo di questa facoltà e il suo passaggio dalla potenza all'atto avvengono non già per intervento diretto della Causa Prima, sibbene per intervento di una causa seconda, qual è precisamente il maestro umano. Il che non diminuisce affatto la potenza o la dignità della Causa Prima, la quale ha creato appunto le cause seconde, fra le quali i maestri, non perché ottenessero nell'universo solo un effetto decorativo, ma perché davvero «causassero», cioè producessero qualche cosa «...prima causa ex eminentia bonitatis sua? rebus aliis confert non solum quod sint, sed etiam quod causae sint» [De Mag Art. I (in corp.)]. Dio ha conferito alle cause seconde, non solo l'essere, ma anche il causare, l'esser cause. Onde significherebbe non accrescere, ma diminuire la bontà e la potenza di Dio, supporre ch'Egli avesse fatto delle cause incapaci di causare, quasi sbagliandosi e contraddicendosi nell'opera sua stessa. Ch'è appunto l'inconveniente rimproverato da San Tommaso alle due teorie, averroistica e platonica, le quali volendo riferir tutto, o all'azione dell'Intelletto unico, o all'azione delle forme separate (idee) finiscono col non vedere più, negli agenti naturali e nelle cause seconde, se non qualcosa d'illusorio e irreale. Il che accade alle teorie dell'autodidattica, che ammettono la esistenza del maestro, salvo poi a togliergli ogni possibilità e capacità effettiva d'insegnare. La teoria dell'autodidattica così è colpita proprio al cuore: nelle dottrine filosofiche che ne costituiscono la giustificazione. * * * Ma, e quel tale, difficile problema della «comunicazione» fra maestro e scolaro? E quella tale impossibilità che la scienza si trasmettesse, mediante i puri segni sensibili del linguaggio, dall’uno all'altro soggetto ? Per rispondere a queste domande S. Tommaso tiene a chiarire alcuni equivoci che saranno, in ogni tempo, i più potenti motivi delle teorie pedagogiche tendenti all'autodidattica. E, in primo luogo, il passaggio della scienza dal maestro allo scolaro è proprio vero che si debba considerare come il passaggio di un oggetto materiale da una mano all'altra? Anzi, è vero che sì possa parlare, in genere, di «passaggio» della scienza dal maestro allo scolaro? Un oggetto materiale passa da una mano all'altra sempre restando lo stesso oggetto, uno e identico. La scienza passa anche lei di mente in mente restando sempre una? Abbiamo già visto che non è così. Lo scolaro non riceve la stessa scienza del maestro, ma se ne forma una simile, la quale benché coincida, e contenga, cioè, le stesse cognizioni, non è numericamente una con quella del maestro. Così, per prendere un esempio volgare, due ciliege sono eguali fra loro come ciliege, ma sono tuttavia due e non una, e due rimarrebbero sempre anche se fossero uguali persino nelle più insignificanti particolarità, come due macchine di una identica serie. E, dunque, chi non accetta l'intelletto unico di Averroé non ha punto l'obbligo di mostrare come una stessa scienza passi, quasi oggetto materiale, dal maestro allo scolaro: basta che dimostri come lo scolaro possa formarsi - con un'attività che resta sua e interna al suo animo - una propria scienza, pur simile, nel contenuto delle nozioni, alla scienza del maestro. In secondo luogo: pensano alcuni (e lo pensano anche oggi) che siccome nel maestro e nello scolaro si svolge un processo sostanzialmente identico, così cada ogni ragione di distinguerli l'uno dall'altro, almeno nell'atto dell'insegnare e imparare. Che cosa c'è, infatti, nel maestro? Il processo della conoscenza. E nello scolaro? Ancora il processo della conoscenza. Dunque le leggi dell'educazione sono quelle della conoscenza, anzi l'educazione è addirittura la conoscenza, e allora la pedagogia è una scienza senza oggetto proprio, la quale si risolve nella teoria del conoscere e basta. Altro equivoco simile al primo. E’ ben vero che il modo col quale apprendiamo scienza da noi stessi è simile e sottostà alle medesime leggi del modo col quale apprendiamo scienza dal maestro. Ma, al solito, simile non vuol dire uguale e sottostare alle medesime leggi non vuol dire essere identici né uno di numero. VII Per esempio, nella medicina, il medico guarisce l'ammalato non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo, il quale, rigorosamente parlando, poteva guarire da solo, tanto è vero che qualche volta guarisce di fatto senza bisogno di medici né di medicine. Allo stesso modo il maestro procura scienza allo scolaro non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo intellettuale: l'intelletto, l'esperienza, l'uso dei primi principi. Il medico per guarir l'ammalato si fonda sulla conoscenza delle leggi fisiche e fisiologiche, il maestro per insegnare si fonda sulla conoscenza delle leggi intellettuali. Anche lo scolaro poteva, rigorosamente parlando, imparare da sé, tanto è vero che vi sono sempre stati degli autodidatti. Che cosa significa questo? Soltanto che «...in his autem quae fiunt a natura et arte, eodem modo operatur ars, et per eadem media, quibus et natura» [De Mag. Art. I (in corp.)] il che, come è ovvio, non vuol dire affatto che, dunque, l'arte non esista, o sia identica alla natura. «Come la natura chi soffrisse per il freddo riscaldandolo lo sanerebbe, così fa anche il medico: onde anche si dice che l'arte imita la natura. Similmente avviene pure nell'acquisizione della scienza, che, ricercando e ritrovando, il docente conduce altri a sapere cose ignote nello stesso modo in cui alcuno conduce se medesimo a conoscer l'ignoto» [Ibid. Si cfr. la traduzione Guzzo, Vallecchi ed. Firenze]. Dunque, la somiglianza fra natura e l'arte o il fatto che l'arte imiti la natura, nell' insegnamento come nella medicina o in altre cose, non prova punto che l'arte non esista, o si possa considerare come una entità trascurabile. Ma, e quel tal problema della «comunicazione»? Com'è possibile che il maestro, imitando la natura, possa, sia pur non «trasmettere» nel senso materiale della parola, ma anche solo provocare o stimolare nel discepolo, una scienza eguale alla sua? Ecco, come S. Agostino, ancheS. Tommaso non mette in dubbio che lo strumento principale della comunicazione fra maestro e discepolo sia il linguaggio e siano i «segni» ond'esso è costituito: solo, non si arresta alla difficoltà che S. Agostino aveva creduto insuperabile, di conciliare la materialità e il carattere sensibile dei segni linguistici colla idealità e l'interiorità della scienza. Poiché il «segno» del linguaggio ha, per S. Tommaso, una fisionomia tutta speciale: è «sensibile», sì, ma d'una, se vogliamo così chiamarla, «sensibilità» affatto diversa da quella che possiamo attribuire alle qualità degli oggetti materiali ed alle vere e proprie sensazioni: sensibile della sensibilità che tocca piuttosto all'immaginazione e al suo prodotto, il «fantasma» o l'immagine, che è una sensibilità di un grado più elevato ed immateriale di quello che compete alle sensazioni pure e semplici. Poiché il fantasma linguistico (parola od altro segno che sia), a differenza delle sensazioni o percezioni che ci vengono dagli oggetti materiali suppone già l'esistenza dei concetti nella mente, e, nasce per esprimerli; e sta, perciò, con essi, in una relazione molto più immediata che non sia quella della sensazione coi medesimi concetti. Facciamo un esempio. Si prende la legge fisica: «il calore dilata i corpi». Che è quella legge? Niente altro che una «forma». Nella natura é la «forma» di quel processo che è, appunto, la dilatazione. Ora una forma, nella natura, può esistere solo come esistono in generale le forme in una materia, come conformazione, cioè, di determinati oggetti o di un determinato accadere. Nella natura la legge della dilatazione dei corpi è, appunto, il dilatarsi dei singoli corpi a, b, c ecc. e la conoscenza che ne abbiamo è appunto la sensazione o percezione dei corpi a, b, c, mentre si dilatano. Potrei, dunque, arrivare a formular la legge della dilatazione partendo dalle sensazioni e percezioni pure e semplici dei corpi? Certo che potrei e posso, in quanto, osservando prima il corpo a, poi il corpo b, poi il corpo c ecc. posso arrivare e arrivo ad estrarre, da queste percezioni particolari, un concetto e una legge universale riguardante la dilatazione. E come posso arrivarci io, posso condurvi lo scolaro, lasciando che osservi a sua volta i corpi a, b, c, e poi ne tragga, se gli riesce, la legge della dilatazione. Si noti, però, la difficoltà e la lentezza di questo processo. Quanti uomini hanno osservato sensibilmente il dilatarsi dei singoli corpi, eppure non sono riusciti a formulare la legge della dilatazione! Quanti videro i corpi cadere, e non ne seppero trarre la legge della gravitazione universale! E si capisce: quella «forma» che è la legge della dilatazione esiste nei corpi, ma non come forma pura e come concetto, bensì come forma d'una materia. Come forma pura e come concetto non la troviamo bell'e fatta, ma bisogna che la costruiamo noi, con tutte le difficoltà e incertezze che ne seguono. Ma si prenda, invece, la stessa legge della dilatazione qual è formulata in un trattato di fisica, o dalla voce del maestro, con queste precise parole: «il calore dilata i corpi». Anche qui essa viene espressa con segni sensibili, all'udito o alla vista, le parole. Segni tanto sensibili quanto lo è appunto la percezione dei corpi a, b, c. Ma con questa differenza. Che per poter dire o scrivere le parole «il calore dilata i corpi» si è già dovuto formare il concetto della dilatazione colla legge relativa. La legge della dilatazione ha dovuto esserci, cioè, non più come forma di quell'accadere materiale ch'è il dilatarsi dei singoli corpi, ma come forma pura nella mente del fisico. E perciò chi legge o ascolta quelle parole non ha bisogno di tutto un complicato e difficile lavoro per cavarne fuori la pura forma della legge scientifica, ma assume direttamente da esse la legge in quanto pura forma o concetto scientifico. Tanto è vero che è possibile vedere mille corpi a dilatarsi e non ricavarne la legge della dilatazione, ma non è possibile udire dal maestro o leggere nel libro di fisica le parole «il calore dilata i corpi» (udire e leggere davvero, s'intende, e non solo far finta) e non ricavarne la legge della dilatazione. Per lo meno: anche se il processo della visione e della sensazione si compie regolarmente senza essere turbato in alcun modo, e cioè anche ammesso ch'io osservi colla massima attenzione i singoli corpi, non è detto che per questo io arrivi ad astrarre la legge della gravitazione o della dilatazione. Mentre se lo leggo od ascolto regolarmente le parole colle quali il fisico si spiega, io dovrò necessariamente intendere la legge della gravitazione o della dilatazione, a meno che qualche ragione, diciamo così, patologica non impedisca alla mia lettura o audizione di svolgersi regolarmente. In quest'ultimo caso, insomma, svolto normalmente il processo, ne ho come necessaria conseguenza l'apprendimento; nell'altro caso, no. È questa, forse, una delle più originali caratteristiche della pedagogia delineata da S. Tommaso. Per la quale, a differenza di ciò che succede in moltissimi altri sistemi pedagogici, la parola del maestro non è né eguale né, tanto meno, inferiore in valore agli oggetti esterni e, in genere, all'esperienza sensibile dello scolaro, come accadrà poi, tanto spesso, nei vari metodi «intuitivi» od «oggettivi» escogitati dalla pedagogia moderna, da Comenius in poi. Questo non vuol dire certo che S. Tommaso svaluti l'esperienza - abbiamo visto invece che la valuta moltissimo - né che non le attribuisca tutta l'importanza che deve avere. Ma fra gli oggetti sensibili che possono variamente essere offerti allo scolaro e la parola del maestro c'è, per S. Tommaso, una differenza essenziale che c'impedisce di considerare quest'ultima puramente come uno fra gli altri oggetti di possibile esperienza per lo scolaro. Giacché è vero che in un certo senso "le stesse parole dell'insegnante, udite o viste in iscritto, quanto al causare scienza nell'intelletto si portano come le cose che sono fuori dell'anima: perché e dalle une e dalle altre l'intelletto riceve le intenzioni intelligibili". Ma poi la somiglianza cessa qui, poiché le parole dell'insegnante causano scienza "più da vicino" che non i sensibili che esistono fuori dell'anima, in quanto le parole sono segni delle intenzioni intelligibili [De Mag. Art. I (ad XI.nium) "ipsa verba doctoris audita, vel visa in scripta, hoc modo se habent ad causandum scientiam in intellectu sicut res quae sunt extra animam, quia ex utrisque intellectus intentiones intelligibiles accipit; quamvis verba doctoris propinquius se habeant ad causandum scientiam quam sensibilia extra animam existentia, inquantum sunt signa intelligibilium intentionum "]. E sappiamo già che cosa vuol dire quel "più da vicino", (propinquius) che non è punto indice di vicinanza o lontananza materiale, ma solo del fatto che abbiamo visto, dell'essere cioè presenti nel linguaggio le forme pure già astratte dalla materia ed esistenti nella mente: le "specie" o "intenzioni" intelligibili; le quali invece non sono presenti negli oggetti esterni e nelle sensazioni. Talché lo scolaro le può assumere senz'altro dalle parole del maestro; mentre non le potrebbe assumere dalle cose e dalle sensazioni: non le potrebbe se non mediatamente, attraverso un complesso e delicato procedimento astrattivo il cui risultato finale resta, in ultima analisi, incerto, almeno rispetto a quelle particolari forme e verità che l'insegnante vuol fargli, volta a volta, scoprire. In fondo, è ancora la giusta osservazione di S. Agostino che S. Tommaso accoglie e sviluppa da par suo: nelle cose che facciamo percepire solo sensibilmente allo scolaro, questi non sa, né può sapere, dalla sola percezione, quali siano gli elementi essenziali e quali gli elementi accidentali della cosa, quali gli elementi su cui abbiamo voluto fermare la sua attenzione e quali quelli che può anche trascurare. E da questa incertezza, causa feconda di errori, non si esce se non aggiungendo, alla percezione della cosa, l'insegnamento verbale del maestro, che solo può metterci innanzi le forme già astratte dalla materia e farci subito distinguere l'essenziale dall'accidentale, l'oggetto proposto al nostro pensiero, da altri oggetti reali o possibili. Così il linguaggio del maestro, lungi dal sopprimere l'esperienza dello scolaro, è proprio quello che la spiega, l'ordina, l'organizza e, insomma, le dà un vero significato e valore. È risolto, così, quel tal problema della «comunicazione» fra maestro e scolaro? Certo, ed è risolto proprio col rispettare ambedue quei dati del problema che a prima vista parevano inconciliabili: il carattere sensibile del linguaggio, o, in genere, dei «segni» fonici, mimici o grafici di cui si serve il maestro per operare ab estrinseco sulla coscienza dello scolaro e, insieme, il carattere affatto intimo e interno che sempre ha la scienza nell'animo dello scolaro medesimo, poiché vera «causa» di scienza allo scolaro - San Tommaso non si stanca di ripeterlo - sono non già i «segni» del maestro, ma il lume intellettuale e i «primi principi» dello scolaro stesso, il quale scopre la verità (o la falsità) di ciò che il maestro gli ha insegnato, non già ricevendo soltanto le forme intelligibili, ma riducendo i concetti così formati, sotto i primi principi, mercé quella attività collativa nella quale consiste il raziocinio, attività, senza nessun dubbio, originale e spontanea, che il maestro può stimolare e aiutare come abbiamo visto, ma in nessun modo sostituire. L'opera del maestro — altro errore che San Tommaso combatte continuamente negli argomenti acclusi al primo articolo del De Magistro — non è già un'opera creativa; come se il maestro dovesse dar lui al discepolo il lume intellettuale e i primi principi. Ma ciò non vuol dire che sia un'opera superflua e inesistente: crederlo, è l'illusione di coloro che scambiano l'attività colla creazione, l’operare col trarre dal nulla; e non potendo riconoscere in un uomo qual è il maestro un'attività creativa propria solo di Dio, finiscono col negargli ogni e qualsiasi attività od operazione. L'arte dell'insegnamento non crea la natura intellettuale; la presuppone. Ma la natura stessa dell'intelletto umano è così fatta che senza l'insegnamento rimarrebbe una vuota potenza non realizzata, o, almeno, realizzata attraverso un processo assai lento e malsicuro. La dimostrazione esauriente di questa tesi si trova nel secondo articolo del De Magistro, che è una delle critiche più brillanti e spregiudicate che siano mai state fatte all'autodidattica. * * * VIII Articolo paradossale in apparenza, e che suona stranamente agli orecchi di noi moderni abituati ormai da una lunga tradizione a ritenere l'autodidattica non solo un fatto evidentissimo e una realtà incontrastabile, ma addirittura il centro e il principio vitale di ogni educazione. Può dirsi qualcuno maestro di se stesso? A noi sembra di sì: sembra, anzi, che tutti e non soltanto qualcuno, siano, in certo modo almeno, maestri di se stessi. Ebbene, San Tommaso risponde senz'altro di no; e val la pena che, prima di scandalizzarci o di spaventarci, intendiamo bene il principio sul quale l'Angelico dottore fonda la sua dimostrazione; ch'è poi, in ultima analisi, lo stesso principio sul quale ha fondato la dimostrazione precedente. E, anzitutto, si faccia bene attenzione alla differenza che c'è fra queste due espressioni, apparentemente simili: «acquistar scienza da sé ed «esser maestro di se stesso». Che cosa vuol dire «acquistar scienza da sé» secondo la dottrina tomistica? Niente altro se non quello che abbiamo già visto. L'uomo possiede il lume intellettuale e i primi principi. Applicando tale sua attività al materiale offertogli dalla esperienza sensibile egli giunge da sé ad astrarre certi concetti, cioè ad accogliere nella sua mente come pure forme intelligibili quelle stesse forme che, nella natura, esistono solo come forme di una materia. Ne abbiamo visto, prima, un esempio a proposito della gravitazione e della dilatazione. È questa, così ottenuta, scienza vera e propria? Senza dubbio. Anzi, scienza alla cui estensione e complessità non ci è dato mettere un limite a priori. Supposta, da parte del soggetto umano, una continua e indefinita esplorazione della esperienza sensibile e una correlativa astrazione di forme, nulla si oppone a che ne risulti una scienza anch'essa in via d'indefinito accrescimento e a che chiunque si possa costruire, per questa via, un sapere teoricamente illimitato. Tale è l'acquisto della scienza che si ha per opera della natura, quando, cioè, la ragione naturale per se stessa giunge a cognizione delle cose ignorate [De Mag. Art. I (in corp.)]. E questo modo S. Tommaso lo definisce, per evitar confusioni, con un termine suo proprio: trovare, o scoprire: inventio. Ma se questo processo é, innegabilmente, «acquisto di scienza», è poi anche «insegnamento», o magistero? Qui la cosa cambia aspetto. L'insegnamento è un'operazione che si svolge mediante il linguaggio e che suppone, perciò, l’esistenza delle forme intelligibili come forme pure. Ora, un'esistenza tale noi sappiamo che quelle forme non possono averla nell'esperienza sensibile e nella natura, dove sono soltanto forme d'una materia: debbono averla nella mente. Ma nella mente di chi? Nella mente di colui che impara e ricerca, no di certo, altrimenti egli non imparerebbe e ricercherebbe, ma già saprebbe. Dunque nella mente di un altro, ossia del maestro. E allora l'insegnamento è un processo che lo stesso soggetto non può esercitare su sé medesimo per la contraddizione che ne consegue: perché dovrebbe al tempo stesso avere e non avere nella sua mente le forme intelligibili e i concetti, averle, dico, non in potenza e come possibilità di formarli, ma in atto, già formati e come principi positivamente esistenti e operanti. Per potere insegnare a me stesso, per esempio, la legge della gravitazione universale, io dovrei non soltanto avere la percezione dei corpi che cadono e astrarne poi la legge, il che sarebbe inventio, o scoperta e non insegnamento; ma dovrei già conoscere ed esprimere la legge come pura legge; il che è assurdo, poiché, evidentemente, se già conoscessi la legge non avrei bisogno di cercarla né di impararla. Sembra un'oziosa questione di parole, e non lo è. Poiché S. Tommaso non chiama con due nomi diversi l'acquistar scienza da sé (inventio) e l'insegnamento (doctrina, disciplina) per il solo gusto di complicare il vocabolario, ma appunto per definire bene due concetti che gli sembrano, e sono, distinti. Abbiamo noi il diritto di estendere a una vera e propria azione qual è l'insegnamento, ciò che è caratteristico, invece di un processo spontaneo e naturale come la scoperta e l'invenzione? Abbiamo cioè, il diritto di considerare anche il naturale acquisto della scienza che avviene spontaneamente e necessariamente in ciascuno per il solo fatto d'esistere, di pensare, di guardarsi attorno, come una vera e propria completa azione? A San Tommaso sembra di no, e questo è appunto l'argomento sul quale tutta la dimostrazione del secondo articolo si regge. Per potersi parlare di vera e propria «azione» (azione «perfetta») é necessario che l'agente il quale fa da causa, contenga in sé in maniera essenziale e non accidentale ciò che produce poi nell'effetto [De Mag. Art. II (in corp.)]. Così, ad esempio il fuoco è agente di sanità, per colui che soffre di una malattia guaribile col calore, ma agente accidentale (imperfetto) poiché non contiene se non fortuitamente e per accidens ciò che in quel dato caso produce la guarigione. Ma lo stesso fuoco è agente essenziale (perfetto) nell'incendio d'una casa, appunto perché, come fuoco, contiene già in sé tutto ciò ch'è necessario agli effetti della combustione. E dunque se l'insegnamento ha da essere una vera e propria «azione» (azione perfetta) occorre che nell’agente sia già contenuto tutto ciò che sarà poi prodotto dall'azione. Il che accade soltanto se il soggetto maestro è diverso dal soggetto scolaro, ossia ha già in sé in atto, esplicitamente e perfettamente, tutto ciò che per sua opera sarà poi nel discepolo: la scienza. La autodidattica, invece, o, meglio, l'inventio è azione solo imperfetta, cioè non vera e completa azione, poiché in essa la causa, sia l'intelletto e i primi principi, sia l'esperienza sensibile, contiene sì ciò che sarà poi nell'effetto (la scienza, le forme intelligibili come forme pure) ma lo contiene solo implicitamente e potenzialmente, quanto al suo essere di scienza e di forma pura. E questa non è - si badi bene - un'astratta escogitazione teorica senza nessuna rispondenza alla realtà. Al contrario, S. Tommaso c'invita ad osservare con lui che le cose stanno proprio in tal modo. Noi siamo, è vero, portati a lodare l'autodidatta e, perciò, attribuiamo all'autodidattica un valore superiore, in certo senso, a quello del semplice insegnamento. Ma nel far questo ci lasciamo sviare da un'osservazione che dovrebbe, se ben interpretata, suggerirci proprio la conclusione contraria a quella che abitualmente ne ricaviamo. Perché, infatti, esaltiamo, e giustamente, l'autodidatta? Ma appunto perché fa uno sforzo eccezionale; se no non avremmo ragione di lodarlo. Ora, l'eccezionalità di questo sforzo consiste precisamente nel fatto che l'autodidatta non segue nel costruire la sua cultura, il processo normale dell'insegnamento. Così l'equilibrista cammina sopra un filo, e merita elogio: ma diremo per questo che il migliore, più sicuro e spedito modo di camminare sia quello d'andar su un filo? No certo, anzi, diremo tutti che l'abilità dell'equilibrista consiste, invece, nell'aver scelto, per camminare, uno dei modi peggiori, meno sicuri e meno spediti. E, dunque, anche dell'autodidatta dobbiamo dire che l'autodidattica, lungi dall'essere il modo migliore e più sicuro di apprendere è, anzi, il peggiore e il più malsicuro, e che proprio per aver saputo acconciarsi a questa maggiore difficoltà l'autodidatta merita lode «...sebbene il modo di acquistare scienza mediante la ricerca sia più perfetto riguardo a chi riceve la scienza, in quanto egli si segnala più abile a sapere, pure, rispetto a chi causa la scienza, è più perfetto il modo d'acquistare scienza attraverso l'insegnamento» [De Mag. Art. II (ad 4.tum.) «quanivis modus in acquisitione scientiae per inventionem sit perfectior ex parte recipientis scientiam, inquantum designatur habilior ad sciendum; tamen ex parte scientiam causantis est modus perfectior per doctrinam»]. Né si creda che quel ridurre a scienza «più speditamente», sia solo una sfumatura: anzi, c'è sotto una questione di principio, così importante che solo chi l'ha afferrata può dirsi abbia inteso veramente la differenza fondamentale che intercede tra la filosofia scolastica e certe filosofie moderne, quali il materialismo positivistico o l'idealismo. C'è la scienza, prima di essere insegnata? Strana domanda, dirà qualcuno, eppure a questa domanda una corrente, certo rispettabile, e notevolissima della filosofia moderna, risponde addirittura di no. La scienza non c'è ma si fa, s'inventa, o si crea, nell'atto stesso dell'insegnamento. Come, poi, si fa o si crea? Dal pensiero nostro, il quale è, o dovrebbe essere un atto, secondo la filosofia moderna; ma viceversa è un atto che non è mai completamente realizzato, ma sempre deve realizzarsi, perciò diviene e si svolge all'infinito sempre facendosi altro da quello che era prima. Ora, un atto di questo genere: un atto che non è tutto realizzato, o tutto realizzantesi, un atto che non è, insomma, tutto quel che può e deve essere, ma aspetta di svolgersi e di completarsi sia pure in un processo infinito, un atto di questo genere, la filosofia scolastica non lo chiamerebbe punto atto, bensì potenza. Il pensiero nostro, come abbiamo visto, possiede sì, tutta la scienza passata presente e futura, ma «in potenza» o come pura possibilità di conoscere, non già come atto, o come conoscenza positiva e concreta. Ebbene, una pura potenza può esser causa reale di un atto? Una pura possibilità può dar origine a una realtà? Lo può, ma in quanto presuppone, a sua volta, un atto antecedente, così come il seme può dar origine alla pianta, ma è, a sua volta, derivato da un'altra pianta. Non è la pura «possibilità» di vivere che genera l’uomo, ma l’opera di un altro essere in cui la vita è già in atto: il padre, la madre. E dunque il supporre che la scienza, nello scolaro e nel maestro, derivi solo dal pensiero in quanto è una pura potenza o possibilità di conoscere, è così assurdo come supporre che il figlio nasca, non dal padre e dalla madre, ma dalla «possibilità» di vivere. Perché ci sia la scienza in potenza, ci deve essere già stata, la scienza in atto: perché ci sia il seme, già ci vuol la pianta completa. Ecco la differenza fra la scolastica e l'idealismo o il materialismo moderni. Secondo questi sistemi, tutta la realtà procede, in fondo, da una pura potenza, da un germe, un X spirituale o materiale che non è nulla al principio, ma tutto si fa o diviene: l'essere, insomma, deriva dal non essere. Secondo la scolastica, la realtà procede da un Atto assolutamente puro, senza mistura di potenza, nel quale sussistono eminentemente e perfettamente realizzati e realizzantisi ab aeterno, tutti quei valori che, nella realtà stessa, la nostra mente poi rintraccia: Dio, principio primo e fine ultimo d'ogni cosa. Ed ecco, quindi, la diversità fra la doctrina e l'inventio, fra l'insegnamento e l'autodidattica, fra lo «scoprire» e l'imparare. Si capisce che per coloro i quali seguono certe teorie filosofiche moderne, la doctrina presupponga l'inventio: se prima non abbiamo «scoperto» o tratto dal nulla la scienza, che cosa potremo mai insegnare? Ma in realtà, per San Tommaso e la scolastica, è vero il contrario: l’inventio presuppone la doctrina, noi possiamo, cioè, scoprire una scienza solo in quanto essa c'è già, ed è già in atto, se no, che cosa scopriremmo, il vuoto? Le forme stesse realizzate nella materia che ci dà la natura, non potrebbero ivi esistere, se prima non esistessero come pure forme nella mente di Dio, alla quale ogni scienza deve necessariamente risalire come a sua causa prima: sistema di idee, o rationes aeternae, come anche la scolastica le chiama, cioè archetipi e modelli di tutte le cose. Di qui il valore insostituibile della doctrina, cioè del vero e proprio insegnamento, poiché, nella mente del maestro, la scienza ha un'esistenza d'ordine superiore a quello che ha nella natura e nell'esperienza: una esistenza, se così ci si potesse esprimere, più lontana dalla materia e più vicina a quella delle rationes aeternae nella mente di Dio. Onde il genialissimo concetto tomistico dell'insegnamento, fondato proprio al polo opposto dell'autodidattismo moderno, non sull'imperfezione e sul divenire, ma sulla perfezione intrinseca della scienza che, quasi per sovrabbondanza, sembra irraggiare ed effondere, nel suo atto, dalla mente del maestro alla mente dello scolaro. * * * Andare più oltre vorrebbe dire superare i limiti della presente trattazione, addentrandosi in una esposizione analitica del De Magistro, che, nella abituale densità e concisione del pensiero tomistico, presenta quasi ad ogni passo dovizie di dottrina, il cui adeguato svolgimento produrrebbe tutta una organica teoria della educazione da esporsi in un vero e proprio trattato, e non in un breve saggio [Chi desidera approfondire l'argomento può confrontare il nostro volume Maestro e Scolaro. - Soc. Ed. «Vita e Pensiero», Milano, 1930]. Basti qui ricordare, per concludere, che a questo punto il pensiero di S. Tommaso si ricongiunge a quello di S. Agostino, dando origine a una concezione della scienza e dell'insegnamento che si può considerare caratteristica dell'età in cui il sapere umano s'impose la più rigida e, insieme, la più feconda disciplina intellettuale: vogliamo dire il Medio Evo. La scienza come doctrina piuttosto che come inventio: non perché l'invenzione non possa e non debba avere la sua funzione legittima, ma perché la doctrina è un organo superiore, il mezzo più elevato e sicuro, del quale Dio stesso si è servito per ammaestrare il genere umano, al quale ha dato non solo la sensibilità, il lume intellettuale e i primi principi, abbandonandolo poi a tutte le incertezze d'una ricerca puramente naturale, ma una vera e propria scienza, rivelata dapprima ai Patriarchi e ai Profeti, poi agli Apostoli, ai Padri, ai Dottori e a tutta la Ecclesia docens, il cui perenne magistero si estende attraverso i secoli. I geni di Agostino e di Tommaso si uniscono in questa visione della scienza come procedente da Dio; ma mentre il primo preferisce insistere sull'azione diretta e immediata di Dio nell'anima e sulla operazione dello Spirito che agisce, soprannaturalmente, in ciascuno di noi, l'altro mette in luce, piuttosto, l'azione delle cause seconde e il magistero umano che Iddio medesimo ha voluto stabilire nella Chiesa, come organo della Rivelazione, oltreché nella scuola come strumento della cultura puramente naturale. Ma anche per S. Tommaso, come per S. Agostino, il problema dell'educazione e dell’insegnamento non si vede tutto, se non si considera, oltre che sotto l'aspetto naturale, sotto l'aspetto soprannaturale. Per questa parte il De Magistro tomistico non s'intende, senza ricorrere a quella triplice analisi della scienza qual è nella mente divina, nell'intelligenza angelica e nell'intelligenza umana, che si trova nella Summa Theologica: analisi alla quale si debbono aggiungere gli articoli che trattano della necessità e possibilità d'una Rivelazione. Ch'è poi sempre il grande metodo della Scolastica: stabilire, con la sola ragione, la legittimità e l'esistenza della Rivelazione, ma poi adoperare la rivelazione per estendere, disciplinare, consolidare l'opera della ragione. Taluno, certo, obietterà che questo metodo e questa concezione della scienza riducono a nulla l'attività e la libertà umana, condannate soltanto ad assoggettarsi, e a ricevere passivamente un sapere già fatto, fuori di loro, onde, si maledirà il Medio Evo, come l'epoca per eccellenza mortificatrice dell'umana originalità. Obiezione tanto impressionante a prima vista, quanto intrinsecamente debole e fondata sull'equivoco. Poiché la libertà dell'intelletto sta appunto nel conoscere il vero, e non nel conoscere il falso; e, perciò colui che riceve dottrina da un maestro, se questa dottrina è vera, non riceve una violazione, anzi un incremento della propria attività e personalità, così come, viceversa, colui che inventa o scopre, se inventa degli errori, riceve una vera propria violazione e diminuzione della sua attività intellettuale. E, dunque, colui che riceve scienza da un maestro più sapiente di lui, riceve non schiavitù, ma libertà intellettuale, e più ne riceve quanto più il maestro è sapiente e, perciò, la dottrina vera; e il massimo ne riceve quando il maestro è il più sapiente di tutti: Dio, e la dottrina la più vera di tutte: la dottrina rivelata. Schiavo in apparenza, il pensiero medioevale, col suo centro nella sacra teologia, era il pensiero più libero e audace che mai ci sia stato; un pensiero che tutto osava discutere e su tutto argomentava, un insegnamento della cui vastità e organicità le Somme ci sono, anche oggi, testimoni; ben lungi dall'anemica povertà dei criticismi o dei positivismi che hanno voluto liberare le intelligenze coi dubbi e fare la luce con l'oscurità. La pedagogia moderna cadde in un grosso equivoco quando confuse due concetti fra loro tanto diversi come quello di attività o libertà e quello di «autodidattica», quasiché per essere libero o attivo lo scolaro dovesse inventar tutto da sé, e non fosse vero invece il contrario e cioè che tanto più attivo e libero sarebbe riuscito lo scolaro quanto più energicamente gli si fosse data dal maestro una dottrina completa e vitale; e, per converso, tanto meno libero quanto più si fosse lasciato agli errori e alle incertezze delle sue personali invenzioni. Figlia di età indisciplinate e sterilmente irrequiete, la pedagogia moderna ha, così, affaticato gli intelletti giovanili senza nutrirli, e ha dato origine a quei gravi inconvenienti che uomini, pur poco tradizionalisti e niente affatto «medioevalisti», come il Lambruschini e il Capponi, hanno, durante il secolo scorso, con tanta efficacia denunciato. Tra gli sforzi di questa pedagogia così affaccendata e disorganica, il pensiero di S. Tommaso ci fa, oggi, l'effetto che fa sempre il ritorno all'antico, quando è, come nel nostro caso un antico «più vero» e, perciò, più «moderno» del moderno: l'effetto di una novità addirittura rivoluzionaria. Studiare S. Tommaso vuol dire, in questa come in tante altre questioni, ritrovare noi stessi. Una pedagogia del passato? Diciamo, piuttosto: una pedagogia dell'avvenire. L'Educazione naturale (Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani, Firenze, 1927) In due sensi può parlarsi di educazione naturale o soprannaturale: quanto al contenuto e quanto alla forma. Si dice, cioè, nel primo significato, soprannaturale l'educazione che ha per oggetto nozioni od atti che non si riducono alla natura umana e che non sono una semplice esplicazione di potenze in essa contenute. Si dice, nel secondo significato, soprannaturale l'educazione che, pur nel realizzare nozioni od atti, normalmente impliciti nella natura stessa, li realizza ricorrendo a mezzi i quali sono, essi, affatto irriducibili, ai naturali procedimenti dell'educazione. Per spiegarmi meglio, prenderò due esempi. Ecco un uomo che s'accosta tutti i giorni ai Sacramenti e, così facendo, progredisce via via nelle virtù dell'umiltà, della pazienza, della temperanza, della castità e, viceversa, reprime i vizi dell'orgoglio, dell'ira, dell'intemperanza, della lussuria. Orbene, questa educazione potrà dirsi naturale nel contenuto, ma soprannaturale nella forma. Naturale nel contenuto, giacché l'umiltà, la pazienza, la temperanza, la castità, sono virtù non soltanto possibili in tesi generale alla natura umana, ma tali che, nella maggior parte dei casi, la loro possibilità sarebbe distrutta, se la natura umana fosse diversamente costituita. Soprannaturale nella forma, perché quelle stesse virtù, potenzialmente insite nella natura umana, vengono sviluppate, colla frequenza dei Sacramenti, mediante un'azione che non è l'ordinaria disciplina o l’ammaestramento che un uomo può esercitare, sugli altri o su se stesso, con l'opera o la parola bensì la misteriosa, indefinibile azione d'un Dio che a noi s'assimila attraverso le specie eucaristiche. Prendiamo, invece, un maestro mentre spiega il catechismo ai suoi alunni, e parla loro di un Dio solo in tre persone distinte: avremo, evidentemente, un caso di educazione naturale per la forma e soprannaturale per il contenuto. Naturale per la forma, poiché nulla v'ha di più consono alle possibilità della natura umana che il leggere un libro e commentarne alcuni passi. Soprannaturale pel contenuto, poiché la nozione del Dio uno e trino nel senso cattolico della parola, è inattingibile alle sole forze della ragione nostra, e può ottenersi solo mediante una rivelazione divina, che la Chiesa ci ha conservato in fedele deposito attraverso i secoli, e alla quale l'umile maestro attinge quando istruisce nella religione i suoi scolari. Evidentemente, oltre questi due casi in cui nell'educazione l'oggetto è naturale e soprannaturale il metodo e viceversa, v'hanno anche i due casi più semplici, in cui e l'oggetto e il metodo sono entrambi naturali, o entrambi soprannaturali. Appartengono al primo tutti i più consueti esempi di educazione e d'istruzione che siamo soliti considerare nella scuola, nella famiglia e nel collegio, ove nozioni e attitudini naturali all'uomo, come le arti, le scienze, la morale, la filosofia vengono insegnate con quei metodi che la ragione e l'esperienza suggeriscono agli educatori. Appartengono al secondo caso, invece, tutti quei fatti, così numerosi nella storia del cristianesimo, ove una particolare rivelazione o mozione divina è veicolo, per dir così, di nozioni, atteggiamenti od affetti che l'uomo, secondo la pura possibilità della natura propria non avrebbe, nonché raggiunto, neppure sospettato. Cito un solo, ma tipico esempio: la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. I quali, appunto perché uomini, e quindi abituati a misurare tutto alla stregua della natura umana, avevano fino allora trovato di colore oscuro, benché Cristo medesimo le avesse loro inculcate, tante verità soprannaturali come la preannunziata morte e risurrezione del Salvatore, la redenzione del genere umano attraverso le lacrime e il dolore d'un Dio, la concordanza fra l'antica legge e la nuova, i rapporti fra il Padre ed il Figlio e via discorrendo, verità che, invece, dopo che le lingue di fuoco furono discese sul loro capo, s'impressero così profondamente nel loro animo da permetter poi loro d'insegnarle, con quell'efficacia che sappiamo, a tutto il mondo allora conosciuto. Io non parlerò adesso - poiché non è mio compito - della educazione in quanto soprannaturale nel contenuto e nella forma, e neppure soltanto nel contenuto. Io non parlerò dell'educazione, cioè, in quanto puramente soprannaturale, e neppure in quanto veicolo di nozioni, o di attitudini soprannaturali. Mi limiterò, dunque, a parlare dell'educazione naturale. II Sarebbe abbastanza interessante poter esaminare alla luce di queste nozioni oggi molto trascurate, quando non addirittura respinte e derise come assurde dagli studiosi, le più importanti concezioni pedagogiche, nelle quali il pensiero umano si è, attraverso la storia, rispecchiato. Ma, non potendo arrischiarci in un lavoro di così vasta mole, ci limiteremo ad affermare semplicemente che tutte le più importanti teorie dell'educazione sono, in un certo senso, naturalistiche, perché tutte confidano, anche quando non vogliono riconoscerlo, in una immanente capacità della natura umana, che le permette di svolgersi colle sue proprie forze, verso la verità e la moralità. Capacità che, essa stessa, si può coltivare e aiutare con mezzi puramente umani come l'insegnamento, l'esempio, il governo, la disciplina, dei quali è formata, appunto, l'educazione naturalmente e umanamente intesa. Senza questa fiducia, e nelle forze stesse della natura umana e nella possibilità di aiutarle, l'educazione sarebbe un perditempo assurdo. Se l'uomo non fosse fatto per la verità e la moralità, egli non potrebbe conoscere l'una e praticare l'altra, come effettivamente non la conoscono né la praticano gli animali, i minerali o le piante. Se, d'altra parte, in questo suo sforzo verso il vero e il bene, la natura umana non potesse essere aiutata con mezzi e strumenti adatti tanto varrebbe chiudere tutte le scuole, bruciare tutti i libri, abolire tutti i maestri, e lasciare che ognuno se la sbrigasse, alla meglio, da sé. Anzi, non si sarebbe trovato mai nessuno così pazzo da spender tempo e fatiche nell'educare i propri simili; o, se si fosse trovato, la disperata inutilità del tentativo, lo avrebbe, subito, persuaso di smettere; e scuole, collegi, libri, maestri, non sarebbero mai stati. Fin qui, dunque, fino a questa legittima persuasione intorno alla possibilità di educare l'uomo con mezzi naturali, tutte le teorie pedagogiche si debbono trovar concordi: né la pedagogia cristiana stessa, potrebbe fare eccezione. E lo dimostra la storia del cattolicesimo, il quale, nonostante la grandissima importanza da lui attribuita, nell'educazione, all'elemento soprannaturale, ha sempre rifiutato come eretica, la teoria la quale afferma impossibile all'uomo il conseguimento del vero e del bene senza una positiva rivelazione divina e proclamando «errori» la filosofia e «peccato» le virtù dei pagani, volentieri condannerebbe al rogo come futili sciocchezze, ogni scienza, ogni progresso, ogni civiltà. Così, invece di gettar via la scienza del paganesimo, il cristianesimo poté mantenerne viva la fiaccola nei suoi chiostri, nelle sue scuole, nelle sue Università e, ricongiungendo sapientemente il nuovo all'antico, poté serbare intatta quella tradizione della civiltà occidentale che ci fa, oggi, giustamente orgogliosi. Ma, oltre questo «naturalismo» ch'è, in fondo, una ragionevole fiducia nelle forze della natura umana, la quale, se ha in sé delle tendenze al male e all'errore, ha pure in sé delle tendenze altrettanto spontanee al bene e alla verità; oltre questo saggio naturalismo senza cui non è possibile parlare neppure di educazione, molte dottrine pedagogiche, specie moderne, hanno in sé un altro «naturalismo» niente affatto utile o necessario all'educazione. Tale naturalismo, non si limita a dichiarare che l'uomo ha nella sua propria natura le energie necessarie al suo ordinato svolgimento: afferma che ogni educazione si riduce allo spontaneo svolgimento della natura umana secondo le proprie, immanenti leggi costitutive. E non si limita a riconoscere che l'uomo ha nella sua propria natura una tendenza al vero e al bene, cioè che è fatto, in ultima analisi, per la conoscenza dell'uno e l'attuazione dell'altro, ma afferma che l'uomo solo è a sé stesso il vero e il bene, perché appunto nello svolgimento delle sue umane energie, o per sé prese o nei loro rapporti colla circostante natura, consiste il solo vero e il solo bene possibile. E non si limita, quindi, ad affermare la legittimità d'una educazione naturale dell'uomo, ma respinge come assurda e satireggia come ridicola pur l'idea d'una educazione soprannaturale, o, comunque, di un elemento soprannaturale nell'educazione. III Distinguiamo, anzitutto, due cose che si sogliono, per lo più, confondere: la possibilità d'una educazione naturale, e la sua effettiva realtà. Che l'uomo possa essere educato, e, anzi, sia fatto per essere educato al vero e al bene, non c'è dubbio, ma che tutti gli uomini siano, effettivamente, educati al vero e al bene, che tutti gli uomini arrivino, in realtà, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene, almeno nella misura necessaria a ciascuno per condurre decorosamente la sua esistenza umana, nessuno vorrebbe certo, affermarlo, fino al giorno in cui tutti i viziosi e gl'ignoranti non saranno eliminati dalla faccia della terra. Si può, è vero, sempre sottilizzare e rispondere che nemmeno l'uomo più rozzo ed ignorante del mondo vive senza accogliere nella mente un barlume di verità, che nemmeno il peggiore delinquente può fare a meno di vagheggiare, in fondo all’animo, qualche sentimento buono, e che, perciò, l'educazione del genere umano, fino a un certo punto, avviene sempre, e non può non avvenire. Ma è facile obiettare che la bontà la quale pure possiamo scoprire nel delinquente, o la verità che regna anche nel cervello dell'ignorante, non sono quella verità e quella bontà di cui si preoccupa l'educazione. Prodotte da una necessità delle cose, e non da una libera adesione dello spirito, inconsapevoli di sé, esse si distruggono e ci danno come risultato l'ignoranza nell'ignorante, e la delinquenza nel delinquente. O vorremo presentare il delinquente e l'ignorante come il tipo dell'uomo «educato»? Una tale ipotesi è così assurda che si confuta da sé. Se ci dovessimo contentare di quel vero e di quel bene che, come lo Spirito di Dio, riempiono il mondo e che, anche negandoli, l'uomo è sforzato in ogni condizione a riconoscere col solo fatto di esistere e di pensare, da lungo tempo l'umanità avrebbe chiuso le scuole e bruciato i libri e ricacciato i fanciulli ad istruirsi nella selva primitiva. Se, invece così non ha fatto, e le scuole e i libri, e i metodi costituiscono ancora la sua preoccupazione dominante, si è perché tutti sanno che il vero e il bene nell' uomo inconsapevole sono come l'oro, che non ha alcun valore finché non sia estratto dal fango col quale si trova mescolato. Torniamo, dunque, alla nostra primitiva affermazione. Benché l'uomo sia, per natura, potenzialmente educabile, questa possibilità non è ancora una realtà; e tutti i laboriosi sforzi fatti dal genere umano per educarsi, sono l'implicito riconoscimento della notevole differenza che intercede fra quella possibilità e la sua realizzazione effettiva. Riescono, almeno, questi sforzi? L'educazione naturale riesce, almeno, a portare ciascun uomo che apre gli occhi alla luce, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene? Non pretendiamo ch'essa formi sempre dei santi, degli scienziati o degli eroi: forma almeno, sempre, onesti uomini, capaci lavoratori, buoni padri di famiglia? Ahimè, questa volta la risposta è troppo facile davvero! Se così fosse, oggi che, nelle nazioni civili l'istruzione è obbligatoria e la scuola tutti accoglie fra le sue mura, non dovrebbero esserci delinquenti, viziosi, vagabondi o inetti, le prigioni dovrebbero chiudersi, gli ospedali diminuire notevolmente; le famiglie, tutte ordine pace e armonia, non conoscerebbero i tristi germi che ne rodono la vita; la corruzione non insudicerebbe più carte ed anime colle sue oscene figure; dappertutto il lavoro innalzerebbe la sua lieta canzone, e la gioia e la serenità soltanto tesserebbero innanzi ai nostri occhi il loro ordito incantevole. Ahimè! Basta dare uno sguardo alla cronaca dei giornali per vedere questo sogno svanire come nebbia, al tocco della triste realtà. Anche nel più modesto mestiere, sono in maggior numero i capaci o gl'incapaci? i dotti o gl'ignoranti? i laboriosi o i fannulloni? gl'imbroglioni o gli onesti? No, non sarebbero tanto stimata l'onestà, tanto ricercate e pregiate la capacità, la competenza, l'attitudine al lavoro, se fosse possibile trovarle a tutte le cantonate! Ma poi, badiamo, non si tratta, qui, di più o di meno, di maggioranza o minoranza, che la scienza non si fa come i congressi o le elezioni. Quand'anche l'educazione universalmente diffusa avesse reso tutti onesti, tutti bravi, tutti capaci, tutti intelligenti, e di fronte a questi fortunati mortali un uomo - uno solo - fosse uscito dalle nostre scuole vizioso, fannullone, stupido e caparbio, io dico che quest'uno solo basterebbe colla sua esistenza per dare una solenne smentita a tutti i maestri e i pedagogisti e i metodi e i sistemi di cui si vanta la nostra civiltà. Quand'anche non si potesse citare che un solo uomo - uno solo - circondato da tutte le cure e cresciuto in una famiglia esemplare, e affidato ai migliori maestri, e tirato su fin dall'infanzia nelle più virtuose abitudini, dal quale poi fosse venuto fuori un giorno un bel fior di canaglia - quand'anche non si potesse citare che un solo esempio di questo genere - l'educazione umana, l'educazione naturale, dovrebbe considerarsi incapace di fatto (benché capace di diritto) a realizzare i propri fini: incapace a far diventare realtà concreta, quella potenzialità, quella tendenza al bene e al vero che esiste nella natura umana. E che importa conquistare il mondo, quando si è persa una - una sola - anima? In quell'anima era tutto un mondo: in lei non è stato sconfitto solo un individuo, ma il pensiero e il volere umano, irreparabile sconfitta, poiché quel pensiero e quel volere sono appunto la natura stessa che non solo si supponeva educabile, ma si presumeva di fatto educare coi nostri sottili accorgimenti. E invece tale natura ci si ribella e ci si mostra d'un tratto, in quell'unico individuo, chiusa, avversa, inaccessibile a tutti i mezzi coi quali l'abbiamo lavorata; come preda d'un fato misterioso contro cui ogni nostro potere sembra disarmato. IV Finora abbiamo parlato in generale. Ma le stesse considerazioni particolari e tecniche di cui è piena la storia della pedagogia, valgono a confermare la nostra tesi. Vediamolo, anzitutto, per il problema dell'istruzione. Che cosa c'è di più facile, in certo senso, dell'istruire? Il maestro parla, il discepolo ascolta. Le idee, mediante quel loro naturale veicolo che è il linguaggio, passano dalla mente dell'uno alla mente dell'altro. Se il discepolo è stato «attento», se i ghiribizzi della sua fantasia non l'hanno distratto, se un po' di pigrizia non lo ha intorpidito, se il maestro ha messo nelle sue spiegazioni l'ordine e la chiarezza necessari, la lezione ha raggiunto il suo scopo, e lo scolaro imparato ciò che doveva imparare. In sostanza si tratta soltanto di assicurarsi che nessuno dei piccoli malanni or ora enumerati abbia intralciato il regolare andamento delle cose, e per fare questa verifica lo stesso strumento che ci ha già servito ci può ancora servire. Il linguaggio, il naturale veicolo delle idee, già usato per la lezione, servirà per l'interrogazione e le ripetizioni, le quali dimostreranno se il discepolo è stato attento e ha compreso, se il maestro è riuscito, nelle sue spiegazioni, chiaro ed efficace. E quando, sventuratamente, così non fosse stato, chi ha prodotto il male, ci darà anche il rimedio. Il linguaggio è sempre là per correggere, chiarire, spiegare di nuovo, interrogare di nuovo, e dove non bastasse la parola parlata c'è la parola scritta: libri, quaderni, appunti, riassunti e così via. Ebbene, la storia della pedagogia, specialmente moderna, è, si potrebbe dire, tutta una critica a questo semplicissimo e vetusto fra i metodi, di cui l'umanità si è sempre servita per istruirsi e di cui, con le debite cautele, sempre si dovrà servire. La parola, infatti, e, con essa l’idea, non è un oggetto materiale che si possa trasmettere da una mano all'altra, una moneta che l'alunno riceve dal maestro e chiude nel borsellino. La parola è, prima che suono o segno esterno, atto interno del nostro spirito, e se questo atto non si produce, l'alunno può ripetere il suono o il segno senza aver capito niente della cosa significata, come effettivamente accade tante volte nella scuola. Eppure la ragione di tale spiacevole inconveniente che, spesso, riduce a una vuota accozzaglia di frasi nella mente giovanile l'istruzione impartita con maggior cura, è una ragione chiarissima. La parola è segno dell'idea, e l'idea è, se mi consente il paragone, lo strumento di una superiore e delicata civiltà che l'uomo adulto e già colto si è conquistata col sudor della fronte: è un termine ideale che si è ottenuto astraendolo dai particolari dell'esperienza sensibile. Ma innanzi a questa superiore civiltà l'alunno e, più, il fanciullo, è ancora un «barbaro» che vive in mezzo alle cose sensibili, particolari, e ancora non ha imparato ad astrarne l'idea, o, se lo ha imparato, ancora non sa mantenersi per lungo tempo in tale sfera superiore, né può lavorare sulle idee, e seguire tutta una catena di concetti, di definizioni, di ragionamenti, come la scuola pretende. Ne segue un errore gravissimo, da parte del maestro, il quale crede di aiutare tanto più lo scolaro, quanto più gli presenta la materia in ristretto, ridotta a poche, semplici e chiare idee, e non s'accorge, invece, che tanto più rende l'insegnamento difficile, quanto più presenta idee «semplici», che sono appunto le più universali e le più lontane dall'esperienza sensibile, nella quale il fanciullo vive. E allora questi, non potendo capire l'idea, s'appiglia al partito più facile, e ripete la parola e quanto più il maestro s'affanna a chiarire, spiegare e «semplificare», tanto più diventa impossibile al discepolo ripetere altro che parole. Per togliere questi inconvenienti, la pedagogia moderna ha proposto un celebre e decisivo rimedio: conformar l'istruzione al procedimento con cui naturalmente si formano in noi le idee astratte. Procedere, cioè, dal particolare all'universale, dal senso all'intelletto, dall'esperienza al concetto. Non presentare mai la parola senza la cosa, l'idea senza l'immagine, la definizione senza l'oggetto definito: procurare, anzi, che l'alunno stesso opportunamente guidato trovi da sé l'idea sotto lo stimolo della cosa e dell'immagine. È il cosiddetto metodo «intuitivo» che innegabilmente, se lo si adopera bene, dà buoni risultati, e al quale è da augurarsi che ci si ispiri sempre più e meglio in quella riforma di tutte le istituzioni scolastiche che le moderne nazioni civili vanno da qualche tempo effettuando. Ma badiamo bene: neppure il metodo intuitivo, pur inteso e applicato nel miglior modo possibile, è sicuro. Giacché, anche l'esperienza sensibile, partendo dalla quale si vuol condurre l'alunno alle idee, non è un oggetto o un processo meccanico, ma un atto dell'anima, che non ha nessun significato senza un esplicito concorso da parte dell'alunno. E' stato detto assai bene; anche per spiegare che due e due fanno quattro, avete un bel prendere il ragazzo, e fargli stendere due dita della destra e due della sinistra, e poi avvicinarle e far contare: se il ragazzo è «disattento», se si rifiuta di far scattare la scintilla ulteriore del pensiero, se «non vuole» ascoltare, nessuna costrizione, fosse anche la tortura, sarà capace di immettere nella sua testa ribelle quella semplicissima verità. Sicché in ultima analisi, quantunque i buoni metodi abbiano, certo, molta importanza, tutta l'istruzione dipende da circostanze imponderabili e imprevedibili che solo la genialità di un maestro artista può, volta per volta, determinare. Ora, siccome i maestri geniali ed artisti sono, necessariamente, una minoranza, ne viene di conseguenza che i tre quarti dell'umanità, affidati a maestri non geniali e non artisti, ricevono una istruzione difettosa. Ma non facciamo troppo facile la nostra dimostrazione. Concediamo pure che il metodo «intuitivo» possa, da solo, garantirci per tutti una buona istruzione [Il che evidentemente non è, poiché il metodo intuitivo, se contiene un principio gnoseologico verissimo, troppo spesso ignora o fraintende il valore del linguaggio, ch'è molto superiore a quello dei sensibili esterni. Si cfr. nel saggio precedente la teoria di San Tommaso in proposito]. Supponiamo anche ch'esso sia sempre facile ad applicare dappertutto; anche, mettiamo, alle scienze morali e filosofiche, nelle quali, pure, tutti vedono non esser tanto semplice trovare, quando occorre, una esperienza corrispondente alle singole idee. Io domando: chi vi garantisce che quel metodo possa essere applicato in tutte le scuole? Badate: sono secoli che la pedagogia conosce i difetti del verbalismo scolastico, e i pregi del metodo intuitivo; sono secoli che i migliori studiosi lamentano il deplorevole insuccesso dei sistemi abituali; sono secoli che «sapere scolastico» è sinonimo di sapore falso, freddo, morto, inutile: eppure ancor oggi, in mezzo a tutta la nostra civiltà, una migliore organizzazione dell'istruzione scolastica non s'è potuta ottenere se non incidentalmente, in alcuni istituti-modello, in alcuni ordini e gradi di scuole, in alcuni paesi privilegiati. Nella maggior parte dei casi, la scuola continua ad esser tutta spiegazioni verbali, definizioni astratte, ripetizioni, classificazioni, suoni e parole che gli studenti ingozzano spesso senza intenderne nulla, per ripeterle tal quali agli esami, e dimenticano subito dopo. E se un principio scientifico cosi evidente come quello del metodo intuitivo ha dovuto aspettare per secoli una parziale e incompleta realizzazione, che sarà di altre verità pedagogiche più astruse e complicate, eppure non meno necessarie a un buon andamento dell'istruzione? Quanti altri secoli dovremo attendere perché siano messe in pratica? Ma supponiamo, ancora, che i metodi secondo cui l'istruzione s'impartisce nelle scuole siano sempre e dappertutto i migliori possibili; supponiamo tutti i maestri buoni e tutti i discepoli volonterosi; supponiamo rimosse le condizioni economiche e sociali che oggi impediscono, o limitano a taluno la frequenza scolastica. Otterremo, per questo, un'umanità sufficientemente istruita in quelle fondamentali verità che importa all'uomo conoscere? Ahimè, non solo il genio, ma anche la comune intelligenza concluderà che non è in poter nostro ottenerla quando vogliamo. Perché un Dante o un Galileo può formarsi nonostante tutti i difetti delle scuole, e, viceversa, i più perfetti metodi del migliore istituto modello debbono confessarsi vinti dalla impenetrabile stupidità di un ragazzetto? Perché uno nasce aquila ed un altro gallina? Perché i procedimenti che riescono bene con un alunno, falliscono con un altro? Domande alle quali non si può dare che la solita risposta: dipendere il successo dell' educazione o dell' istruzione, da circostanze imponderabili le quali variano caso per caso. Il che significa, in fondo, riconoscere l'incertezza, la precarietà e il limitato valore di tutti i sistemi e i metodi dell'educazione umana e naturale, supposta anche nelle più ideali e favorevoli condizioni. V Questo, per l'istruzione. Che cosa bisognerà dire per l'educazione, intesa come formazione morale e, in genere, formazione della volontà? Se pare tanto difficile la lotta contro l'ignoranza, che sarà della lotta contro la pigrizia, contro la sensualità, contro l'orgoglio, contro l'egoismo, contro tutte le tendenze inferiori della natura umana? Anche qui, la storia della pedagogia è tutta un lamento sulla assoluta insufficienza e di questa educazione in se stessa, e dei metodi usati per conseguirla. Uomini dotti, pur coi difetti dei loro metodi, scuole e collegi e atenei ne producono abbastanza, ma uomini temperati, casti, umili, pronti al sacrificio, generosi verso il prossimo? E si capisce. Siccome la volontà non può muoversi alla cieca, senza il lume della conoscenza, le difficoltà dell'educazione morale sono in certo modo doppie: sono, per una parte, quelle stesse dell'istruzione, e per l'altra quelle specifiche dell' educazione. È già difficile per le ragioni or ora esaminate, che tutti gli uomini possano ricevere una sufficiente istruzione morale: che, cioè, il «non rubare», «non dire il falso testimonio», «non desiderare la donna d'altri» e simili precetti della morale naturale siano appresi da tutti, non come semplici suoni di parole che si ripetono pensando ad altro, ma come nozioni positive che suscitano una vera, interna convinzione. Ma, anche se questo si potesse garantire, quando ciascun uomo vi sapesse dimostrare con eccellenti ragioni filosofiche tutti i precetti della morale, si sarebbe raggiunto appena per metà lo scopo desiderato. Non basta saperli quei precetti: occorre metterli in pratica; non basta pensarli: bisogna volerli e applicarli; e non basta metterli in pratica una volta sola, bisogna farli diventare abitudine di tutta la vita. Saper che non si deve rubare e, ciò nonostante, appropriarsi, quando si può farlo senza pericolo, la roba altrui, predicar la temperanza ed essere intemperanti, esaltare la castità e darsi al vizio, non significa certo essere educati moralmente. Ora, il difetto che la pedagogia moderna ha più criticato nella educazione morale corrente, si è appunto il vecchio pregiudizio che basti predicare e insegnare e far leggere libri o novellette morali, per produrre la virtù: laddove l'insegnamento e la predica e la buona lettura, sono certo necessari ma concludono poco o nulla se la virtù non è praticata e fatta costantemente praticare attraverso le azioni. Il tirocinio effettivo dell'azione deve costituire per la volontà quella medesima base solida che l'esperienza sensibile è per l'intelletto: le idee morali debbono, per imprimersi, ricevere dalla pratica quel positivo significato che le idee scientifiche ricevono dalla sensazione degli oggetti particolari. Ma questo tirocinio effettivo, pratico, dell'azione, abbastanza facile ad organizzarsi finche si tratta di azioni materiali e, in certo modo, esterne, tendenti a rinvigorire la volontà come l'esercizio ginnastico rinvigorisce i muscoli, diventa poi difficilissimo quando si tratta d'azioni più specificamente morali, ove la volontà stessa deve ottemperare ad un giudizio della ragione che le indica questo come male e quello come bene. La teoria pedagogica in materia che va per la maggiore è la famosa teoria delle conseguenze naturali: teoria che vorrebbe allontanare dal vizio (e, per converso, avvicinare alla virtù) col lasciare che l'azione malvagia sia esperimentata dall'educando stesso nelle sue conseguenze dolorose. Ma tale teoria, sventuratamente, ha il difetto d'essere inapplicabile proprio in quei casi dove maggiore sarebbe il bisogno. Io posso, cioè, lasciare benissimo che il fanciullo, dopo aver rotto un vetro, sia punito della sua sbadataggine dalla rigida aria invernale che viene a pungerlo attraverso i telai della finestra; posso lasciargli fare una scorpacciata di dolci perché provi, poi, il mal di ventre e l'amara purga; posso lasciargli prendere un frutto dall'albero del vicino, perché il padrone gl'insegni, colle sue rudi maniere campagnole, il rispetto della proprietà. Ma non posso permettere che quello stesso fanciullo, cresciuto in età, perda ogni suo avere al giuoco per imparare quanto sia dannoso il giuoco, o si sciupi l'anima nelle peggiori compagnie per comprendere quanto sia dannosa la cattiva compagnia, o si dia ai facili amori per provare l'amaro sconforto delle abitudini viziose. Posso seguire Rousseau finché si tratta di rompere un vetro, non posso seguirlo, quando mi chiede di entrare, pel servizio del mio allievo, in un luogo di corruzione. Il rimedio sarebbe peggiore del male. È vero bensì, che l'esperienza acquistata nelle piccole azioni si riflette nelle grandi e che lo stesso alunno, il quale ha riconosciuto a spese proprie ben fondato il consiglio dell'educatore a proposito di un vetro o di un frutto, avrà una ragione positiva per ritenerlo ben fondato anche quando si tratterà di cose più importanti. Ma appunto in questo passaggio sta il pericolo. Chi ci garantisce che, invece, abituato dall'infanzia a provar tutto da sé, il giovane non trovi strana e irragionevole questa pretesa di frenarlo, proprio sulle soglie della maturità? Chi ci garantisce che egli, fatto ormai quasi uomo non respinga come sciocchi e puerili i consigli dell'educatore e non voglia, una volta di più, esperimentare per conto suo? Badiamo: non è detto che questo secondo caso debba sempre verificarsi, ma non è detto neppure che debba sempre verificarsi il primo. In teoria sono possibili ambedue: e, pur ammettendo che in pratica si dia eguale probabilità d'incontrar l'uno e l'altro, l'efficacia d'una educazione che raggiunge il suo scopo solo in una metà dei casi, diventa molto problematica. In ogni modo, siamo già entrati anche qui nelle circostanze imponderabili che variano volta per volta e che solo la sagacia d'un geniale educatore può, volta per volta, scoprire. Ora, noi sappiamo che gli educatori geniali non si fabbricano a piacere, quando se ne ha bisogno, e neanche dove ci sono riescono sempre, in ogni momento e per ogni educando, egualmente geniali. Ma l'educazione morale incontra, purtroppo, un altro ostacolo ben più grave di quel che non sia la deficienza dei metodi o l'imperizia degli educatori. Tale ostacolo all'educazione della volontà, se ci si permette il bisticcio, sta proprio nella volontà male educata: nella volontà umana che tende, sì, alla virtù, ma la trova dura, difficile e mortificante; e allora s'ingegna di addolcirla, di mitigarla, di conciliarla cogli interessi e le passioni: di falsificarla, insomma, per proprio uso e consumo. La storia della filosofia ce ne offre a bizzeffe, di queste morali falsificate che esaltano a gran voce l'ideale e il dovere, ma si trincerano in un prudente silenzio quando si tratta, questo ideale e questo dovere, di vederli concretarsi in un positivo sistema di azioni o, peggio, forniscono criteri coi quali l'uomo arriva a giustificare qualsiasi azione. Le dispute, le eterne dispute fra scienziati e fra filosofi non sono mai state così universali come nel campo dell'etica. E chi ci garantisce che quei pochi i quali vedono giusto, riusciranno ad imporre, nella scuola e nell'educazione in genere, la loro morale, contro gli altri, tanto più numerosi, che sbagliano per deliberato proposito, e che hanno a favore delle loro dottrine le fragorose voci dell' interesse, delle passioni, delle inferiori tendenze umane ricalcitranti contro ogni severa disciplina? VI Da queste considerazioni, e da altre ancora che si potrebbero fare, emerge una conclusione niente affatto confortante per l'educazione naturale. Se gl'inconvenienti che abbiamo notato sussistono, se, per essere bene educato, l'uomo ha bisogno e d'un geniale maestro, e di un buon metodo e di una buona scuola, e di una buona famiglia, e di una infinità di altre circostanze imponderabili che rendono fecondo nell'animo suo il concorso di tutti questi elementi, allora ogni uomo che nasce ha tanta probabilità di essere educato, quanta, poniamo, di essere ricco, o di vincere alla lotteria, o di diventare un grande poeta. Con la differenza però, che mentre ogni uomo può vivere benissimo senza ricchezze, senza vincite alla lotteria e senza essere grande poeta, non può vivere, intendo vivere da uomo e non da bruto, senza essere morale e ragionevole, senza adoperare l'intelletto e la volontà, caratteristiche essenziali della sua natura, per gli scopi pei quali gli furono dati. In questo senso, per poter riuscire nel suo intento, l'educazione avrebbe l'obbligo d'essere più universale, pronta e vigile della stessa carità. Eppure, nonostante tali scarsissime possibilità di riuscita noi dobbiamo, dopo tutto, meravigliarci non che l'educazione faccia poco, ma che faccia troppo. Invece di produrre, come dovrebbe a rigor di logica, accanto a un'aristocrazia di pochi superuomini, sterminate moltitudini avvolte nella peggiore barbarie, l'educazione mantiene, innegabilmente, nell'umanità un livello intellettuale e morale non disprezzabile. Scuole, istituti, maestri, compiono la loro missione: e tanto la compiono che nei paesi ove queste istituzioni sono sconosciute, la civiltà, e intellettualmente e moralmente, è molto più indietro; tanto la compiono che, a un limite estremo, se noi potessimo pensare un uomo il quale dalla nascita in poi non avesse mai ricevuto alcuna educazione, sia pur difettosa, né dalla madre, né dagli altri suoi simili, dovremmo immaginarlo più che come un selvaggio, come un animale; tanto la compiono che è in gran parte merito loro se un popolano dei nostri tempi ha, in molte materie, più cognizioni che un dotto dell'antichità, e se, dopo secoli e secoli, gli uomini hanno imparato a camminare per le strade senza sbudellarsi a vicenda e a mangiare, bere e dormire senza affogarsi nella sporcizia e nel sudiciume; che di questi progressi medesimi l'uomo possa talvolta abusare, facendosene mezzi di peggioramento anziché di miglioramento, chi lo nega? Ma di che cosa non può mai abusare l'uomo? In realtà il genere umano quando spende tante fatiche nella propria educazione ha fede in un successo le cui probabilità sono, secondo la logica della ragione naturale, addirittura irrisorie, e che pure si ottiene, non colla regolarità e l'ampiezza che ciascun cuore generoso desidererebbe, ma, tutto considerato, in una misura assai larga. Chi affida un figlio alla scuola sa benissimo di avere soltanto una scarsissima probabilità ch'esso venga educato coi metodi più perfetti e dai maestri più geniali, e con tutto quell'insieme di circostanze interne ed esterne necessario a rendere feconda l'educazione. Pure, ha fede nella buona riuscita, dei suoi e degli altrui sforzi; ha fede, diremmo, in una misteriosa equazione fra possibilità e realtà, fra l'educazione in quanto teoricamente possibile e l'educazione in quanto effettivamente avvenuta, una fede che nessun calcolo potrebbe giustificare, anzi della quale ogni calcolo ci mostrerebbe il tenuissimo fondamento. Ora, che cosa è mai questa fede apparentemente irragionevole? E chi è che realizza quell'equazione misteriosa? È la forza stessa delle cose, l'evoluzione stessa dell'universo, risponde il positivista. È la razionalità del reale, lo sviluppo dello spirito, dell'«io» immanente ed onnipresente, risponde l'idealista. Poiché l'uno e l'altro, in fondo, nelle loro pedagogie riconoscono lo scarso potere dell'educazione naturale, delle sue istituzioni, dei suoi procedimenti metodici, e l'uno e l'altro debbono ammettere, nella formazione intellettuale e morale del genere umano, una forza sconosciuta, superiore ad ogni nostro accorgimento; un disegno complessivo della realtà al quale sembra conforme che certe educazioni debbano riuscire nonostante tutti i loro difetti, e certe altre fallire nonostante tutti i loro pregi. Ma per il positivista come per l'idealista questa forza non è superiore alla natura: è la natura stessa, spirito o materia che sia; è l'evoluzione o la storia che forma l'individuo educato più o meno, come il mare forma onde nell'uno o nell'altro modo senza che di tale sua cangiante irrequietezza si possa addurre un motivo. Il fatto non ha altra ragione dal fatto stesso: è così perché è così. Pure, questa stessa, implicita confessione dei nostri avversari è preziosa, poiché, volendo allontanare il mistero lo conferma, e volendo tutto ridurre a principi naturali, riconosce che l'azione stessa di questi principi è, nei suoi effetti e nelle sue forme, imprevedibile secondo la natura e la ragione. «Materia», «spirito», «evoluzione o storia» sono tanti nomi del mistero: tanti nomi i quali esprimono una realtà che trascende ogni nostro singolo raziocinio ed ogni nostra esperienza concreta. Ma sono nomi oscuri e contorti, che non possono appagare nessuno. Spiegare il fatto col fatto stesso, dire: è così perché è così, significa non spiegare nulla. L'educatore sarebbe come il giocatore che arrischia il suo avere sulla probabilità che i dadi o le carte o la ruota producano una fra le tante possibili combinazioni. L'equazione fra possibilità e realtà si compirebbe a caso. Ora, la fede dell'educatore ha, invece, un significato ben diverso, non riposa su un calcolo di probabilità e nemmeno sull'idea di una vaga razionalità sparsa in giro per l'universo: riposa sull'idea di un potere consapevole ed intelligente che dirige l'umanità nei suoi deboli sforzi per il proprio miglioramento, secondo un preciso disegno di cui a mala pena possiamo, talvolta, intravedere qualche parte. Potere che compie, nonostante tutte le nostre deficienze, l'educazione del genere umano anche là dove parrebbe temerario tentarla. Potere che forma Dante e Galileo nonostante i difetti delle scuole, e al quale si deve se l'ignorante e il delinquente non si moltiplicano in orde barbariche per abbattere la civiltà. Questo potere è il potere di Dio. Dio è l'autore della misteriosa equazione che si compie tutti i giorni, nell'opera educativa, fra possibilità e realtà. La pedagogia e la filosofia debbono fermarsi qui. Più oltre, bisognerebbe entrare nell'ordine soprannaturale mostrando come il divino Educatore abbia compiuto e compia la Sua missione, sia con una Rivelazione che ha offerto a tutti gli uomini le verità e i precetti morali onde avevano bisogno, senza le incertezze della scienza umana, sia con una assistenza positiva, con la grazia di cui attraverso la vivente azione della Chiesa ciascuno partecipa; sia in quei modi speciali ed imprevisti che alla Sua saggezza sono parsi opportuni. Ma la pedagogia e la filosofia possono garantire, come abbiamo visto, almeno questa importante conclusione. Senza ricorrere a un elemento soprannaturale, l'educazione, anche nell'ordine puramente naturale, rimarrebbe indispensabile e, nello stesso tempo, irraggiungibile al genere umano. Pur non potendolo dire assolutamente necessario, nel senso logico della parola, poiché l'idea d'una educazione naturale e della sua conseguente riuscita non presenta alcuna contraddizione intrinseca, dobbiamo dirlo, l'intervento soprannaturale nell'educazione, necessario di una necessità relativa e morale: utile nello stesso senso in cui i teologi parlano della «utilità» della rivelazione. Ecco una sfera lanciata attraverso lo spazio. Nulla v'è d'assurdo all'idea ch'essa debba indefinitamente continuare nel suo moto, anzi, appunto, questo dovrebbe accadere secondo i principi della fisica. Pure la sfera, a un certo punto, arresta il suo cammino e cade; gli attriti e le resistenze hanno assorbito la forza da cui era animata. Lo stesso può dirsi della educazione naturale. La natura umana tende spontaneamente al vero e al bene, è indefinitamente educabile e perfettibile, dovrebbe continuare all'infinito il suo progresso. Pure, gli attriti opposti dalle sue tendenze inferiori, dall'interesse, dalle passioni, dalla sensualità, ben presto la fermano in cammino, e ci vogliono tesori d'accorgimento, di sapienza, di genialità per farla progredire, per dare ad un uomo solo, anche la più modesta educazione, così come ci vogliono macchine complicate e delicate per dare ad un solo oggetto una limitata quantità di moto. Che diremmo di un fisico il quale volesse far marciare tutti i corpi, compresi i pianeti e le stelle, a forza di macchine? Che, perciò, di un pedagogista il quale voglia educare tutto il genere umano colle scuole e i maestri, i collegi ed i libri? L'educazione naturale è, come il moto perpetuo, possibile solamente in teoria. Ma per realizzarla, per realizzarla in modo che tutta l'umanità abbia il suo vero e il suo bene, i suoi giorni laboriosi e i suoi riposi meritati, le sue messi e le sue industrie, il pane del corpo e il pane dello spirito, la sua dignità e la sua fede, è necessario il braccio di Colui che sospese negli spazi, fiammante tappeto ad un trono invisibile, la corona di soli che i nostri occhi intravedono in un lontano luccichio dorato, nella notte. L'Anima della pedagogia. (Discorso tenuto per l'inaugurazione dell'anno accademico nell'Istituto Superiore di Magistero “ Maria Immacolata » il 17 dicembre 1924. È importante che il lettore tenga presente tale data, poiché alcune critiche contenute in questo studio rispecchiano, necessariamente, le condizioni dell'Italia liberale e democratica, che sono — com'è ovvio — assai diverse da quelle dell'Italia d'oggi.) Domando scusa se sono costretto a incominciare con l'affermazione di una verità così poco peregrina com'è quella secondo cui la scuola non è fatta dall'edificio ove si tengono le lezioni, dalle aule, dai banchi, dagli orari, dai programmi, e nemmeno, rigorosamente parlando, dalle persone discenti e docenti; sebbene da quell'idea, da quello spirito, da quell'indirizzo animatore che, dimostrandosi capace d'informare di sé tali disjecta membra, le stringa davvero in un organismo vitale. Ma voi sapete pure che le verità, quanto più sono evidenti, tanto più spesso corrono pericolo di esser dimenticate o non avvertite: come l'aria, della quale viviamo senza accorgercene, o come — se mi perdonate il brusco trapasso — la felicità che si va a cercare, talora, in paesi lontani, mentre si avrebbe sotto mano, piena ed intera quanto alla condizione umana è dato raggiungerla, fra le mura di casa propria. In particolare, poi, le verità riguardanti la scuola hanno avuto da noi, in Italia, fino all'altro giorno, la curiosa caratteristica d'esser proclamate a gran voce, con mirabile accordo, da un notevole numero di persone, ma di esser poi, con un accordo ancor più mirabile, dimenticate e violate nella pratica da un numero ancor più notevole di persone fra le quali, sempre, in primissima linea, coloro che avevano qualche potere in materia di politica scolastica. Ad esempio, per restare nell'ambito di quel che dicevamo poco prima, qual è il cittadino italiano immischiato comunque, per dovere od elezione, nelle cose scolastiche, che non abbia, semprechè l'occasione e la cultura propria glielo permettessero, fatto dei discorsi sull'«anima della scuola», sulla sacrosanta necessità «di educare oltreché istruire», sull' imprescindibile dovere di dare alle nuove generazione un saldo indirizzo ideale, ecc.? Tanto che chi dovesse, sull'unica base di quei discorsi, formarsi un concetto intorno alle condizioni della scuola italiana nell'ultimo trentennio, sarebbe tratto certamente a immaginare che, povera quantitativamente di edifici, di denaro, di persone, di numero, per le ancor scarse disponibilità economiche del paese, essa poi fosse forte e rigogliosa all'interno, tutta pervasa da un unico, ben definito ideale, informante di sé l'umile opera dell'insegnante come la superiore attività legislativa dei ministri e del parlamento. Orbene, in realtà è avvenuto proprio il contrario. Le nostre università sono state numerose più di quelle della dotta Germania o della miliardaria America, eppure noi non siamo ancora riusciti a diffondere nel ceto dei professionisti, degli alti funzionari, degli impiegati cosiddetti — forse per ironia — «di concetto», nemmeno la parvenza di quella cultura decorosa che tali classi hanno persino fra le più modeste nazioni civili moderne. Le nostre scuole medie sono diventate, a lungo andare, talmente pletoriche, da rappresentare infine una specie di piaga nazionale; eppure, gli individui capaci di leggere, gustandolo, un classico, o di interessarsi, per propria soddisfazione, a un qualsiasi ordine di problemi scientifici, si contano sulla punta delle dita. Le nostre scuole elementari sono, non diciamo troppe e neanche tante da bastare, in sé alla funzione che dovrebbero adempire, ma certo non poche in relazione ai magri bilanci dei comuni e degli enti pubblici onde traggono il loro sostentamento; eppure, non solo l'analfabetismo imperversa, ma è accompagnato da quell'altro, ben più pericoloso fenomeno, che è la noncuranza, l'accidia, la pigrizia interiore, la sordità ai valori spirituali, l'«analfabetismo morale» insomma. Né in questo groviglio d'istituzioni scolastiche venute su alla peggio, sotto la pressione dei più svariati casi o interessi, burocraticamente amministrate senza alcun riguardo a finalità ideali e ad esigenze interne, flagellate da una pioggia di decreti, leggi, regolamenti cozzanti fra di loro nel più assoluto caos, si saprebbe comunque scoprire, non dico un'anima, ma solo una certa, anche tutta estrinseca, unità e coerenza d'indirizzo, se indirizzo non si vuol chiamare la proclamazione aperta di non averne alcuno, che tale è appunto la scuola laica neutra onde siamo stati deliziati fino a ieri. Tutto ciò, naturalmente, non vale per il nuovo stato di cose prodotto dalla recentissima legislazione della riforma Gentile: i benefici effetti della quale, giova credere, presto si faranno sentire nel loro lato positivo, giacché per ora, come era del resto naturale e giusto che accadesse, l'esame di stato ed altre misure simili hanno agito piuttosto spazzando via gli ultimi resti della vecchia mentalità liberale che ancora paralizzava il nostro organismo scolastico. Ma ecco che mi sperdo in un mare di considerazioni poco piacevoli e intanto dimentico l'oggetto primo del mio discorso. Ch'era, semplicemente, di dirvi, in omaggio alla non peregrina eppur troppo spesso dimenticata verità dalla quale avevamo preso le mosse, come la fondazione di questo Istituto Superiore di Magistero, che s'intitola al Nome tanto dolce ad ogni anima cristiana, non possa rimanere solo una di più fra le lodevoli iniziative onde si vanta l'azione cattolica in Italia, che pur trae dalla sola vigile carità dei fedeli mezzi ed opere, quali nessuna sapienza di amministratore saprebbe immaginare e ne fa fede questo stesso Istituto nel volger di pochi mesi creato e provvisto di tutto il necessario con una larghezza veramente signorile di cui bisogna render grazie alle Suore che l'hanno voluto ospitare. Se una scuola non è formata solo dalle aule e dagli edifici e dal materiale, se, prima di tutto, essa ha da rappresentare uno spirito e un pensiero, allora è nostro dovere domandarci qual è lo spirito e il pensiero che ci sostiene, ch'è poi quanto dire in nome di che cosa e con quali idee direttive i cattolici italiani hanno offerto alla loro patria, già, come notavamo un momento prima, anche troppo gravata dall'eccessivo numero degli istituti universitari esistenti fino a ieri, una nuova scuola universitaria? Problema difficile certo, e tale da render pensosi quanti si preoccupano delle sorti della cultura cattolica in Italia e del quale io non presumo davvero darvi qui la soluzione, non solo perché non è argomento da sbrigarsi in poche parole, ma anche perché io confido a tale uopo nel vostro futuro concorso, di quando voi stesse avrete superato in certo modo quel duro tirocinio che vi attende, di disimparare al più presto quello che la ingloriosamente defunta scuola normale vi ha insegnato o ha finto d'insegnarvi, per rimparare non dico, che non voglio essere esageratamente pessimista, tutto il contrario, ma almeno con spirito ben diverso, con altre finalità, con un differente senso dello «sforzo gioioso» base d'ogni cultura, i primi rudimenti, ossia gli strumenti del lavoro, d'un vero sapere, non peso morto e oppressione ingombrante dell'anima, ma compito quotidiano da adempiere se anche con sacrificio, colla coscienza di riempire d'un nuovo valore la propria vita. Problema, perciò, del quale io non posso darvi più di un senso e, direi quasi, un sospetto e un presentimento, fondandomi non solo su quel che avrete certo visto e sentito dire sul rivolgimento avvenuto, da un anno a questa parte, in materia scolastica, nel nostro paese ma, soprattutto, sullo spirito che v'ha infuso la vostra comune Madre, la Chiesa, quando accogliendovi nel suo seno come semplici fedeli, o inscrivendo talune nella milizia schierata sotto le bandiere dei diversi ordini religiosi che veggo fra voi rappresentati, ha trasfuso in voi quegl'immutabili principi direttivi del pensare e dell'operare che, per divina promessa, dureranno in eterno, anche quando il cielo e la terra cadranno da sé come vestimenti vuoti. Che cosa sia in sé un Istituto Superiore di Magistero secondo la nuova legislazione scolastica, voi certo sapete. Formare insegnanti per le scuole medie, migliorare e allargare la cultura dei maestri abilitandoli alle funzioni direttive ed ispettive, sono già compiti veramente nobili, da invogliarci a lavorare con tutta la nostra energia perché: chi sono gl'insegnanti delle scuole medie? Sono coloro che plasmano, in sostanza, le classi dirigenti di domani, le quali appunto in quelle scuole ricevono la prima umana educazione del loro spirito. E chi sono i direttori e gli ispettori? Sono coloro che hanno in mano tutto l'organismo delle scuole elementari e, per conseguenza, l'educazione del popolo. Ora, nessuno può negare che e l'una e l'altra cosa, l'educazione delle classi dirigenti e l'educazione del popolo, siano, da noi, bisognose di urgenti riforme delle quali i cattolici non possono in alcun modo disinteressarsi. E non basta che tali riforme siano ormai sancite da un corpo di leggi del quale l'Italia può oggi andar giustamente orgogliosa, giacché le leggi ci sono, ma occorre chi «ponga mano ad esse», ossia chi le realizzi nella propria intelligente operosità. D'altronde non si guarisce in pochi giorni dalla malattia di oltre un cinquantennio, anzi, a guardar bene, di secoli. Giacché la nostra patria, per ragioni storielle che ora sarebbe troppo lungo indagare, non ha da secoli avuto una «cultura» nel senso di attiva partecipazione delle classi socialmente più elevate ai lavori dello spirito. Ci sono stati, non meno numerosi che altrove, i geni dell'arte o della scienza, ma solitari, inaccessibili, chiusi nello sforzo della creazione, senza un pubblico che li seguisse, senza un'anima nazionale che si riconoscesse in loro e si assimilasse i risultati della loro opera, fermandola nella stabilità d'una tradizione. Perciò quando l'unità italiana compiuta permise la formazione d'uno Stato moderno, il problema tormentoso si riprodusse: da un lato le grandi personalità solitarie, dall'altro le plebi misere ed ignare, nel mezzo una classe dirigente improvvisata, sfornita di ogni vera consistenza interiore, costretta a vivere giorno per giorno d'una politica di ripieghi. Ed eccoci a quello che dicevamo prima sull'«analfabetismo morale», ben più pericoloso dell'analfabetismo grafico. In altre grandi nazioni civili europee il medico o l’avvocato, l'ingegnere o il funzionario, il banchiere o l'industriale d'una certa levatura non si limitano a compiere, per delicati e difficili che siano, i doveri della propria professione, ma spesso sentono il bisogno di riempire le proprie ore libere con qualche nobile disciplina spirituale. E il funzionario, uscito dall'ufficio, si dedica a studi letterari, e il medico, lasciati gli ammalati, coltiva la filosofia, e l'avvocato, dopo le sue pratiche legali, va acquistando una vera competenza nella storia politica, e l'industriale, chiusa la fabbrica, non vuol più sentir parlare di registri e di conti, ma riempie la casa di quadri e di mobili antichi e si esercita con passione nella critica d'arte. Né è raro il vedere persone già innanzi negli anni intraprendere, poniamo, per la prima volta lo studio della musica, o iniziarsi a qualche difficile ramo di ricerche scientifiche, quasi ad apprestare alla prossima vecchiezza un'occupazione dignitosa che le impedisca d'isterilirsi nell'ozio e di esaurirsi nella malinconica contemplazione dei propri acciacchi. Quel che accadesse, invece, da noi fino a ieri, purtroppo ognuno lo sa [Anche qui si tenga presente quanto s'è già osservato, in altra nota: che si parla, cioè, dell'Italia di... altri tempi! Oggi si potrebbe, forse, dire il contrario: la mentalità democratica, tessuta di atteggiamenti menzogneri e capricciosi, sta facendo perdere alle grandi nazioni europee ogni vera superiorità culturale. E invece, da noi sotto la nuova, severa disciplina «romana», le classi dirigenti si sono trasformate con una rapidità che, in altri tempi, sarebbe parsa incredibile.], dove non solo funzionari e impiegati, avvocati e medici, industriali e finanzieri non conoscevano — salvo pochissime lodevoli eccezioni — altro modo d'impiegare il proprio tempo libero che non fosse il biliardo o il caffè, il giornale e le chiacchiere, il cinematografo e l'operetta, per tacere il peggio, ma persino alcuni professori e maestri accoglievano l'obbligo di studiare e di dimostrare ad ogni occorrenza una cultura larga, soda, frequentemente rinnovata, sancito dalla nuova legislazione scolastica, con una meraviglia così ingenua da far sospettare che, nei loro pedagogici cervelli, fra il mestiere dell'insegnamento e l'obbligo di studiare non fosse mai esistito il sospetto d'una, sia pur lontanissima, relazione. E quando un simile esempio viene dato da quelle che dovrebbero essere, nel miglior senso della parola le classi dirigenti, che cosa può fare il popolo se non disertare la scuola per la bettola e il libro per il mazzo di carte? Il maggior tempo libero e i più alti salari ottenuti al proletariato dalle agitazioni socialiste del '20 e del '21 gli servirono non già ad elevarsi intellettualmente, sebbene a vagabondare, a gozzovigliare, a sfoggiare, con mentalità pescecanesca, stoffe costose e gioielli. Come vedete la questione intellettuale si trascina dietro, inevitabilmente, la questione morale, e direi anche, se voi non interpretaste la parola in cattivo senso, la questione politica. Sì, perché quel professionista, quel funzionario, quell'impiegato che, finito il proprio lavoro, invece di godere le vere libertà del raccoglimento e della meditazione, «va a divertirsi» in un modo più o meno discutibile, si forma poco a poco le physique o, meglio, le moral du róle, ossia la mentalità adeguata all'ambiente che frequenta: la mentalità del caffè, del cinematografo, dell'operetta, il dilettantismo frivolo, il semplicismo, l'orrore dei problemi seri che implicano fatica e disciplina, l'amore del lusso, l'insofferenza d'una vita tranquilla e modesta. Proprio come l'operaio «moralmente analfabeta» che nei suoi salari che gli hanno permesso il pescecanismo dei polli arrosto o dei vestiti costosi trova l’incentivo più sicuro all'odio e alla rivolta contro i ricchi, i quali, assoggettandolo al suo duro lavoro quotidiano, hanno voluto escluderlo da quella pantagruelica gazzarra in cui gli sembra debba celebrarsi la vera vita. Ora, mentalità simili, oltre all'anarchia che portano necessariamente alla coscienza morale dell'individuo, oltre alla corruzione e al vizio di cui necessariamente debbono pascersi, sono incompatibili colla esistenza politica d'una nazione, che vuol lavoro e disciplina, serietà e sobrietà, capacità di pensare e spirito di sacrificio. Ed ecco, allora, anche la politica uniformarsi ai superiori dettami del caffè e del cinematografo, della pochade e dell'operetta; ecco le chiacchiere con cui ognuno risolve i più complessi problemi, congiunte alla più massiccia ignoranza delle cose più elementari; ecco il fumo negli occhi al volgo gettato dai professionisti politicanti; ecco la corsa alle cariche, agl'impieghi, alle prebende; ecco la incapacità dell'opinione pubblica ad avere qualsiasi serietà e consistenza. Come meravigliarsi che per imporre il principio d'una disciplina in un ambiente simile non ci sia voluto meno del manganello e della rivoltella con tutti gli annessi inconvenienti? Il buon pubblico liberale e democratico, quello dello «stellone», non fu purtroppo accessibile al pacifico lavoro della stampa, alla discussione di problemi dibattuti nelle assemblee, sulle riviste, nei libri: se non aveva il «fattaccio» con morti e feriti, non si scuoteva. Pensate, per esempio, a un altro campo ove si è avuta gran copia di quei metaforici morti e feriti che sono i «bocciati» alla scuola media. Da quanto tempo noi, poveri pedagoghi, non avevamo scongiurato, implorato, supplicato coi pacifici e democratici mezzi dell'articolo, della conferenza, del libro, i padri di famiglia perché degnassero occuparsi delle scuole ove pure i loro figli trascorrevano in gran parte la propria vita? Quante volte non avevamo denunciato a gran voce il vuoto, la nullità, l'inettitudine di quelle pretese fucine del sapere? Quante volte non avevamo avvertito che così non poteva più andare innanzi e che la settimana rossa del '14, Caporetto, le agitazioni socialiste del dopoguerra, fenomeni fra le cui cause doveva certo annoverarsi in primissima linea l'analfabetismo morale alimentato dalle nostre scuole, erano già indizi sicuri di quel che poteva un giorno succedere se non si fosse presto messo un riparo alla degenerazione scolastica da cui eravamo afflitti? Credete voi che i padri di famiglia ne fossero impressionati? Che! era come parlare al muro. C'è voluto il «manganello» dell'esame di Stato colle conseguenti bocciature, perché i signori padri di famiglia, toccati nel punto sensibile della borsa, da una pedagogia ben altrimenti efficace di quella degli articoli e delle conferenze, degnassero finalmente accorgersi della esistenza d'un problema scolastico e finalmente sospettassero che la scuola è stata fatta per altro scopo che non sia quello di fornire diplomi ai loro figli. La gravità della situazione che vi ho prospettato dice dunque quanto sia importante il compito al quale siete chiamate voi, future direttrici e ispettrici di scuole elementari; voi, future insegnanti di scuole medie. Da anni ed anni noi andiamo sperperando le migliori riserve morali della nostra razza: quelle magnifiche energie del nostro popolo, fino a ieri provvidenzialmente salvaguardato dalla sua stessa incultura, dalle dure necessità del suo lavoro, dalla primitività rurale delle sue condizioni di vita, contro l'azione disgregatrice del laicismo imperante nelle città: quelle magnifiche energie che ci hanno fatto vincere la guerra e ci permettono ancora di ignorare il terribile problema dello spopolamento incombente su altre nazioni. Se voi poteste soltanto contribuire a cambiare lo stato di cose che vi ho or ora descritto: se voi poteste diffondere davvero una cultura nel più alto e nobile senso della parola e fra le nostre classi dirigenti e nel nostro popolo: se riusciste a sostituire, almeno in parte, il libro alla bettola, l'arte al cinematografo, la scienza alle chiacchiere del circolo, avreste già bene meritato della causa che servite. Avreste ottenuto quello che già ottenete in altri campi: e come nell'assistere ammalati, nel sollevare poveri, nel conquistare alla civiltà le più inospiti regioni del mondo conosciuto, gli ordini religiosi hanno fatto sì che il nome cristiano fosse sempre in prima linea anche in quelle opere socialmente utili di cui il mondo laico si vanta come di propria conquista perché non è dato scorgervi, a primo aspetto, alcun carattere religioso, così voi aprendo, anime, dirozzando intelligenze, opponendo ai «divertimenti» dissipatori il gusto d'un nobile lavoro dello spirito, dimostrereste che, anche nel diffondere la luce del sapere, il Cristianesimo sa essere in prima linea, e che tutte le verità, tutte le conquiste, tutte le vittorie del pensiero, non solo esso le accetta, ma sa farle fruttificare come nessuna scuola laica ha mai saputo. E io credo che ringraziereste anche la pedagogia: quella pedagogia da voi imparata a conoscere nella scuola normale — sia detto con tutto il rispetto dovuto alle zitelle — sotto la veste d'una zitellona dura ed arcigna, se vi aiutasse a raggiungere un fine simile, dandovi una più sicura consapevolezza dei problemi educativi, un più alto senso dell'opera scolastica, un palpito d'amore più puro per questa grande fucina d'anime ch'è la scuola. E io vado ancora innanzi, e vi dico che ambizione dei cattolici italiani dev'essere quella di veder sorgere intorno a questo istituto, vicine o lontane, ma sempre legate ad esso da un'intima comunione d'intenti e d’indirizzo, tutta una rete di scuole veramente nostre. Così noi auspichiamo un liceo-ginnasio nostro e un istituto magistrale nostro e delle scuole elementari nostre, non perché non vi siano in Italia scuole simili valorosamente rette da cattolici, ma perché desideriamo tenerci con esse nel contatto più diretto possibile, dando, non solo insegnamenti, ma anche, secondo la debolezza delle nostre forze, esempi, concretando però in tutto un sistema d'istituzioni scolastiche quelli che ci pare debbano essere i criteri pedagogici direttivi dei cattolici d'oggi: e ciò non per dare degli schemi che tutti debbano pedissequamente copiare, quanto piuttosto per approfittare delle favorevoli condizioni che solo una scuola modello, libera da ogni preoccupazione estranea ai suoi fini didattici, può offrire. Come vedete, è un programma di lavoro che per cinquant'anni e più può bastare alle giovani generazioni cattoliche. Tuttavia spero di non parervi proprio incontentabile se aggiungo subito che il fine, innegabilmente altissimo, la cui importanza ho cercato ora di farvi, alla meglio, comprendere non può, per vasto che paia, essere abbastanza per voi. E dico per voi, e un momento fa ho fatto appello alla coscienza cristiana e cattolica per cui la Chiesa in diversi gradi vi annovera fra le sue figlie obbedienti, perché se il diffondere la cultura, l'insegnare e l'aprire scuole sono tutte azioni nobilissime, degne delle nostre migliori energie, vano sarebbe credere che con ciò e soltanto con ciò si offrisse adeguato rimedio ai mali ond'è travagliata non solo la coscienza italiana, ma possiamo pur dire tutta la coscienza moderna. Qui comincia il nostro dissidio dai pedagogisti laici coi quali fino a questo punto abbiamo marciato di pari passo, e proprio qui dobbiamo dire, se ne siamo capaci, la parola nuova che si aspetta da noi, che è poi la ragione per cui non c'è parsa inutile, fra i troppi istituti universitari italiani, la fondazione d'un altro Magistero. Questa parola eccola: noi non crediamo che il problema pedagogico odierno sia risolvibile con un programma esclusivamente culturale, noi non crediamo, cioè, che basti dare alle nuove generazioni una scuola in cui si studia davvero invece d'una scuola in cui non si studiava per poter dire d'averle educate. Anzi noi non crediamo che l'insufficienza della vecchia scuola fosse solo, come tante volte s'è detto, una deficienza tecnica d'uomini e di programmi, a sanar la quale basti preparare un personale insegnante colto e conscio dei suoi doveri, rinvigorire le sanzioni giuridiche dei concorsi e degli esami, amministrare con maggior severità, o restituire ad alcune discipline formative a torto trascurate come il latino e la filosofia la loro funzione di prim'ordine; tutte cose, badiamo bene, bellissime e necessarie, alle quali noi cattolici plaudiamo toto corde, ma che non toccano ancora, secondo noi, il vero fondo della questione. Giacché il Cattolicesimo è vecchio, miei cari, e ha troppo buona memoria per dimenticare le lezioni del passato. Quando gli uomini del Rinascimento ruppero i ponti dell'antica fede e ai Padri e ai Dottori della Chiesa vollero sostituiti i classici, pensavano anch'essi tutti, dal precursore Petrarca all'organizzatore e propagandista Erasmo, che la cultura avrebbe risanato il genere umano e che, fugata l'ignoranza, sarebbe sparita anche la corruzione, e pareva loro che lo studio delle lettere latine e greche sarebbe stato 1'ubi consistam di quella piena, elevata, armonica formazione spirituale ch'essi auspicavano all'umanità redenta dalle tenebre medioevali. Orbene, l'Umanesimo trionfa, riplasma nel proprio spirito le vecchie scuole, ne crea delle nuove ove il classicismo regna incontrastato... Ahimè, non è passato ancora un secolo e già i pedagogisti lamentano nella scuola umanistica i difetti che gli umanisti avevano voluto satireggiare nella scuola medioevale: rozzezza, pedanteria, soffocamento delle migliori energie, disconoscimento brutale delle esigenze intime dello spirito educando. E man mano che il tempo passa, sempre più la nuova pedagogia s'avvede che di tali deformazioni dell'anima giovanile è proprio responsabile questa cultura che agli uomini del Rinascimento pareva principio indispensabile d'ogni umana elevazione: la cultura classica, la preponderanza dell'esercizio letterario come fine a se stesso, il cerebralismo della pura dilettazione estetica, l'immoralismo in quanto divorzio fra il dire e il fare, la vacua retorica. Allora, mentre le critiche all'umanesmo si moltiplicano, un nuovo astro sorge sull'orizzonte e il realismo scientifico s'accampa minaccioso contro l’umanesimo. I pedagogisti del Rinascimento hanno sbagliato: non le lettere classiche, ma gli studi scientifici, l'osservazione della natura, l'esperienza, daranno all’ umanità la formazione spirituale di cui ha bisogno. E da Bacone e Comenio, nei quali il nuovo ideale educativo s'afferma ancora circondato da riserve e cautele critiche, ai pedagogisti della rivoluzione francese, ai positivisti del secolo XIX che annegano la scuola addirittura in un'orgia di scienze positive, il realismo entra poco a poco, come già era entrato l'umanesimo, nella prassi e nella legislazione scolastica di tutte le nazioni civili. E se proprio non riesce a detronizzare il rivale, almeno gli impone, attraverso la filologia che va impregnando di sé gl'insegnamenti delle letterature classiche, il suo spirito ed i suoi metodi. Il problema è dunque risolto? L'umanità ha finalmente trovato quella liberazione attraverso la cultura che andava cercando dal medioevo in poi? Mai più: il realismo scientifico non ha ancora avuto tempo di celebrare i suoi trionfi, che già un nuovo avversario è sorto a denunciare le sue malefatte. La pedagogia idealistica moderna riprende, a sua volta, contro il realismo scientifico, il medesimo atto d'accusa ch'esso aveva portato contro l'umanesimo letterario. Eccoli, secondo l'idealismo, i frutti della scuola razionalistica e scientifica che aveva voluto poggiare il suo insegnamento sulla salda base dei «fatti» e delle «notizie» e bandire tutto il resto come chiacchiera inutile: pedanteria, superficialità, soffocamento delle migliori energie, frivolo scetticismo, oblìo dei valori spirituali, meccanismo burocratico e livellatore. E l'idealismo contemporaneo non è solo. Sia i grandi pedagogisti moderni, un Pestalozzi, un Fròbel, già lo stesso Rousseau, già Locke, tutti più o meno simpatizzanti coi metodi del realismo scientifico, derivano la miglior parte della loro opera piuttosto che da quest’ultimo, da una oscura ribellione contro l'insegnamento “ufficiale” delle scuole che fa loro presagire, se pur non diagnosticare chiaramente, un errore, una stortura, una violazione di non so quali principi, onde tutto il sistema educativo dei loro tempi riesce falsato; né essi sono mai tanto eloquenti come quando inalberano la bandiera della rivolta a rivendicare i diritti dell'anima umana oppressa dalla pedanteria scolastica. E quella rivolta è sì accettata dall'idealismo contemporaneo, ma allo stesso modo con cui il realismo aveva accettato dall'umanesimo le critiche dei migliori umanisti sul “ciceronianismo”: non come indice di un errore infirmante i criteri stessi con cui si è risolto il problema educativo in genere, ma come il segno d'una serie d'errori particolari agevolmente rettificabili. In fondo il realismo aveva consentito con l'umanesimo nell'ammettere che il problema pedagogico fosse sopratutto problema di cultura, d'una maggiore e miglior cultura da diffondere fra gli uomini: soltanto gli era parso che l'umanesimo avesse male risolto questo problema imperniando la cultura sulle lingue classiche. A sua volta il neoumanesimo idealistico riconosce volentieri al realismo il pregio d'aver rivendicato i diritti dell'esperienza, della ragione, della cultura, ma, viceversa, gli ascrive a torto d'essersi esaurito nel proporre quel particolar tipo di cultura che s'impernia sulle discipline e sui metodi naturalistico-positivi. Secondo l'idealismo sarà, sì, la cultura, ma una cultura largamente storico-filosofica che permetterà al maestro moderno di risolvere il problema educativo. C'è da meravigliarsi se il Cattolicesimo, che è così vecchio!, ricorda oggi agli immemori che da cinque secoli la pedagogia laica agita ormai lo stesso programma senza riuscir ad altro che a disfare oggi quello che ha fatto ieri, non portando “a mezzo novembre” ciò che “ha filato di ottobre”? Ed è avventata superficialità il profetare che i medesimi inconvenienti denunciati per il passato nella scuola umanistica e nella scuola realistica, renderanno domani oppressiva, pedantesca, astrattamente verbale, anche la scuola neoumanistica ? La ragione? Ma la ragione sta nello stesso carattere umanistico di tale scuola, intendendo questa volta per umanesimo non più l’humanitas delle antichità classiche, quanto piuttosto tutta una concezione della realtà, e precisamente la concezione della realtà come “uomo” o come “spirito umano”, che è poi il carattere distintivo di tutti gli ideali pedagogici laici i quali, in un modo o nell'altro, risolvono il problema educativo additando all'educando come meta ultima l'esercizio di un'attività umana non soltanto nell'esplicazione, ma anche nell'oggetto, procedente, cioè, dall'uomo e avente per suo oggetto il mondo umano, in quanto natura, storia, esperienza, ecc., e poco importa se poi questa attività sia la scienza o l'arte, la letteratura o la filosofia. Ora, ciascuna di queste attività umanisticamente intesa è sempre, per forza, finita e limitata: non già nel senso che ciascuno dei suoi singoli risultati non sia superabile all'infinito, ma nel senso che racchiude lo spirito in un determinato punto di vista, cristallizzandolo, per così dire, entro se stesso, vietandogli però di aprirsi ad una vita superiore. Diciamo la vera parola, la cultura umanistica è una cultura “egoista”. Nell'arte e nella scienza, nella filosofia e nella letteratura, lo spirito umano ammira soltanto le cangianti forme di se stesso: Narciso contempla la sua immagine scomporsi e ricomporsi in mille guise attraverso l'acqua leggermente mossa della fontana. E non si risponda che pure per far ciò egli deve sacrificarsi e negarsi, superare la morte e il dolore: che, dunque, la scuola umanistica sa dire anch'essa le salutari parole della sofferenza e della abnegazione? anche l'egoista, tutto dedito ai suoi piaceri, deve affrontare per essi sacrifici e sofferenze? è forse per questo meno egoista ? No, una cultura — è questo il punto in cui noi ci separiamo decisamente da ogni pedagogia “laica” — la quale ignori Dio, o, peggio, lo riduca ad un momento dialettico nel divenire dell'autocoscienza, è sempre una cultura gretta, limitata, mancante di ogni vero stimolo a rinnovarsi, tendente a comprimere con dogmatica rigidezza quanto non rientra nei suoi quadri preformati. E infatti che vuol dire rinnovarsi, se non uscire da sé per mirare a una realtà superiore? Ora, la cultura laica non conosce realtà superiori; anche quando guarda all'avvenire, nelle nuove scoperte che nasceranno all'infinito da lei, essa non può scorgere, ancora e sempre, che l'immagine di sé. Ben diverso è il caso della cultura cristiana la quale, avendo per fine non se stessa, ma Dio, tende necessariamente a elevarsi sopra di sé e reca, quindi, nel suo seno, il più possente stimolo a rinnovarsi che si possa desiderare. L'enciclopedia laica è un circolo chiuso; per vasto che sia il suo giro, esso parte da sé e ritorna in sé: cultura letteraria del vecchio umanesimo, cultura scientifica del realismo, cultura storico-filosofica del neoumanesimo. Ed anche tutt'e tre insieme, saranno, perciò, sempre, violatrici della più caratteristica prerogativa dello spirito umano per cui “navigare necesse est, vivere non est necesse”: quella di ripugnare ad ogni barriera, quella di spezzare ogni limite per tendere sempre più in alto e sempre più oltre. Viceversa l’enciclopedia cristiana è, se ci si consente l'espressione, un circolo che s'apre, colla filosofia e la teologia, al riconoscimento d'una realtà superiore: infinita via su cui le anime dovranno avanzare colle loro forze sostenute dalla grazia divina. Né la materialità di queste immagini v'inganni, quasiché la differenza fra i due tipi di cultura s'iniziasse solo in un ordine soprannaturale. Poiché il tipo e, direi, l'orientamento di una cultura non può non essere visibile anche in ogni sua minima parte. Ogni frammento della cultura laica deve riprodurre in sé il circolo chiuso e ogni frammento della cultura cristiana il circolo aperto. Così i singoli fatti del mondo naturale sono, in fondo, nonostante tutte le proteste in contrario, per la cultura laica, niente altro che la ripetizione di un medesimo spettacolo per cui l'umanista è assalito dal terrore e dalla noia innanzi alla monotona infinità dei cieli, e i fatti della storia gli sembrano esauriti quando li ha sussunti sotto una determinata categoria ideale. Viceversa la scienza cristiana avverte l'infinito che è in ogni fatto e in ogni oggetto, non come la “mala infinità” d'una ricerca da proseguirsi indefinitamente, o d'uno spettacolo multicolore illimitatamente prolungato, ma come la positiva inesauribilità d'una esistenza concreta le cui radici si perdono in Dio, ch’è quanto dire, come uno dei modi, sempre originali e imprevedibili, attraverso cui la potenza creativa di Dio si è manifestata. Ecco perché questa nostra civiltà occidentale nutrita dal Cristianesimo ha avuto la grande fioritura di scienze e d'arti di cui oggi va orgogliosa. Ecco perché la vera cultura, ch'è “spirito di libera ricerca”, alieno dall'oppressione e dalla pedanteria, e “socratica maieutica” alle anime che facciano nascere, nel dolore e nello sforzo, la verità, non può andar mai disgiunta dallo spirito cristiano. Ed ecco, infine, la ragione dell'insuccesso che, dall'umanesimo al realismo e al neoumanesimo, ha sempre reso e renderà sempre sterili i tentativi di fondare, fuori del Cristianesimo, una scuola veramente liberatrice. Non basta. Il problema della cultura non è soltanto un problema di qualità o di intensità; è anche, sopratutto, un problema di diffusione. Ora, qui è proprio lo scoglio di tutte le pedagogie laiche che, dato il loro punto di partenza, debbono per forza porre nella ragione naturale la forma più alta d'autocoscienza, e perciò nella “consapevolezza” critica e scientifica l'essenza di ogni cultura. Già il mondo pagano aveva detto che i liberi studi, la ragione, la filosofia erano l'unica via onde l'uomo, elevandosi sulle proprie passioni, celebra veramente in sé l'umanità. E si era trovato innanzi al terribile problema: «che faremo dunque, degli uomini che non hanno, anche volendo, né tempo né modo di studiare? Negheremo loro la qualifica di uomini?» Problema, si noti bene, assai più facile in una società che aveva gli schiavi e che non conosceva ancora le innumerevoli forme d'operosità manuale e materiale ormai indispensabili alla società moderna. Allora, forse, si sarebbe potuto pensare in linea teorica, che poche ore di lavoro manuale imposte a ciascuno bastassero per soddisfare i bisogni della società, garantendo poi a tutti la libertà di rivolgersi ad occupazioni intellettuali. Oggi non è più così. Il nostro operaio attende molte ore del giorno ad un lavoro faticosissimo e spesso tecnicamente difficile: e i mille servizi materiali, di trasporti, di comunicazioni, di cure igieniche, di polizia e via dicendo, di cui ha bisogno una città moderna, lasciano, a un intero esercito di persone, proprio il tempo che basta a rinnovare col riposo le proprie energie. Vorremo educare costoro col latino dell'umanesimo, colle scienze del realismo, o colla filosofia del neoumanesimo? O, non potendo, li lasceremo senza alcuna educazione? È il problema della cultura popolare, insolubile per il razionalismo laico moderno non meno che per il paganesimo antico. D'altronde, se i beni dello studio e della contemplazione sono i veri beni umani, con che diritto ne escluderemo la maggior parte dell'umanità ch'è condannata ai lavori manuali? Che se, viceversa, pare inevitabile quei beni dover toccare in sorte a pochi, con qual criterio gli uni saranno preferiti agli altri? Come evitare il sospetto che tutto il nostro sistema sociale sia fondato su una odiosa ingiustizia? Ed ecco lo spirito di ribellione che getta i lavoratori in braccio al socialismo e all'anarchismo, ecco il moto sotterraneo che mina le basi delle nazioni moderne. Anche qui la storia ci ammaestra. Il problema che la civiltà pagana non aveva saputo risolvere, fu risolto dal Cristianesimo. Se la santità è superiore alla scienza e la carità alla giustizia, allora i veri valori spirituali non si attuano nel lavoro intellettuale piuttosto che in ogni altra qualsiasi forma di lavoro o di attività umana, sebbene dovunque c'è occasione di accettar dei doveri che rompano la dura scorza del nostro egoismo. Anzi, più l'attività che esercitiamo è socialmente umile e materialmente faticosa, meno da essa possiamo aspettarci ricchezze, beni, onori, più essa è vicina a quella perfezione di sacrificio e di rinunzia che è l'ideale cristiano. “Qui vult post me venire abneget semetipsum”. Non basta rinunciare alle cose proprie, alle comodità, al lusso, alle mollezze, questo lo avevano detto anche i filosofi pagani: occorre rinunciare a se stesso, ossia rinunciare a quell'altro lusso interiore che è la gloria, la fama, l'alto sentire di sé in cui il ”saggio” antico trovava compenso a tutte le privazioni; occorre abnegare semetipsum. Il paganesimo aveva conosciuto comunità di filosofi che si proponevano come fine la più alta attività sociale, la scienza. Il Cristianesimo creerà, ammirevole assurdo per la sapienza mondana, comunità sterminate di religiosi che si proporranno per fine le attività, socialmente più basse, servili, dispregiate, che non solo accetteranno con entusiasmo il lavoro manuale, ma chiederanno al mendicante di dividere i suoi cenci con loro e cureranno le piaghe del lebbroso. Eccolo risolto, il problema della “cultura popolare”; non inutile tritume di nozioni da distribuire, ma organica concezione della vita da realizzare; concezione della vita, notate bene, non riservata a un piccolo numero di studiosi, ma aperta a tutti, aperta, anzi, con speciale sollecitudine, alle moltitudini doloranti nel più duro lavoro. All'annunzio della «buona novella» queste moltitudini non solo non cercheranno di strappare colla rivolta i beni che sono retaggio esclusivo del ricco e del sapiente (che è un ricco interiore), ma avranno compassione dell'uno e dell'altro, ben sapendo che quegli apparenti privilegiati trovano appunto nei loro beni, interni od esterni, il maggior fomite di attaccamento al mondo e il peggior ostacolo sulla via della perfezione cristiana, giacché è più facile a un cammello passar per la cruna di un ago che a un ricco entrar nel regno dei cieli. Né questo deve indurci a credere che, come favoleggiano taluni, il Cristianesimo, trascorrendo all'estremo opposto, sia, in odio al razionalismo pagano, divenuto fomite d'ignoranza e “dottrina da schiavi”. Il vigore col quale la Chiesa ha sempre rivendicato, contro le eresie irrazionalistiche e fideistiche, i diritti della ragione; la fermezza colla quale ha tenuto viva la tradizione dell'antica cultura in quegli stessi conventi ch'erano patrimonio dei «poveri» e degli «ignoranti», sono lì per dimostrarlo. Allo stesso modo, pur raccomandando in modo specialissimo la povertà come uno fra i principali consigli evangelici, Essa non ha mai accettato quelle rozze forme di ascetismo che avrebbero voluto distruggere i beni materiali della società riportando l'uomo alla caverna primitiva, così, pur proclamando la donnicciola ignorante pari, nella vita cristiana, quando non addirittura superiore al più dotto filosofo, Essa non ha mai misconosciuto i valori della cultura, rettamente intesa. Se cultura e ricchezza sono pericolose, lo sono soltanto allo stato, direi, naturale e pagano, in quanto forme di un'attività umana che presume di avere in sé il suo fine e che di esse orgogliosamente si compiace. Compenetrate dall'ideale cristiano, perdono il loro aculeo e divengono, anzi, fonte d'elevazione a chi le sa rettamente usare, al servizio del prossimo e di Dio. Ecco perché la Chiesa, nemica della ricchezza non ha mai tralasciato di porgere aiuti affinché le condizioni materiali della vita umana venissero sempre migliorate, e, nemica del razionalismo pagano, non ha mai cessato di combattere per l'elevazione intellettuale e morale di tutti. Possiamo dire, anzi, meglio: siccome nel più ci sta il meno, nel fine soprannaturale che il Cristianesimo propone all'uomo ci dev'essere implicito anche l'adempimento dei suoi fini naturali, e implicito eminenter, nel modo più perfetto possibile. Perciò non è da meravigliarsi che tutte le soluzioni del problema economico-sociale dibattute oggi dalla scienza (razionale limitazione del lavoro, equa distribuzione della ricchezza, severa disciplina della concorrenza) siano state già da secoli implicite nell'operosità sociale cristiana; e non c’è da meravigliarsi che tutti i più sottili accorgimenti didattici per la diffusione della cultura consigliati dai grandi pedagogisti moderni siano sempre stati il presupposto indispensabile d'ogni insegnamento cristiano. L'eccessivo lavoro manuale abbrutisce l'uomo, impedendogli di attendere la propria elevazione intellettuale e morale? Orbene, da quanto tempo la Chiesa non combatte perché cessi quel gravissimo scandalo ch'è la violazione del riposo festivo, stoltissima empietà non meno che — ecco la vera parola — barbara distruzione della libertà umana, la quale “non vive di solo pane”. Se le grandi feste di precetto del calendario liturgico cristiano fossero tutte scrupolosamente osservate, non avrebbe forse anche il più umile lavoratore un adeguato periodo di tempo da dedicare, al raccoglimento interiore e alla meditazione, in quei giorni che sono «di Dio» appunto perché Dio vuole che allora l'uomo, dimenticato ogni altro interesse, si fermi ad ascoltar la Sua Parola ed a riprender coscienza del proprio posto nella realtà e nella vita? E se il lavoro di tutti i giorni fosse, anziché esasperato fino alla vertiginosa tensione cui lo spingono la brama smodata di ricchezza e il materialismo pratico della moderna vita irreligiosa, contenuto nei limiti che la morale cristiana impone, lascerebbe esso l'uomo così esaurito da spingerlo a cercare un sollievo nei così detti “divertimenti”? Né solo il tempo libero, ma anche i mezzi più adeguati alla positiva diffusione d'una vera cultura, il Cattolicesimo ha sempre messo, con tutte le sue forze, in opera. Non abbiamo noi sentito vantare come scoperta della pedagogia moderna il “ metodo intuitivo”, cioè la potenza plastica e suggestiva dell'immagine che penetra là dove il nudo raziocinio non potrebbe arrivare? Orbene, di questo”metodo intuitivo” e, quel che più conta, senza i grossolani fraintendimenti del positivismo materialistico, la Chiesa è stata la prima maestra, quando, non contenta di predicare la propria dottrina, ha affidato alle belle arti il compito di realizzarla sotto aspetti architettonici, pittorici e musicali, in un simbolismo che solo gli stolti potrebbero irridere. Eccolo, quel simbolismo, nella costruzione del tempio, dalla sua forma generale di una croce, ai più minuti particolari delle porte e delle colonne su cui i costruttori antichi avevano una dettagliatissima dottrina; eccolo nelle pitture che adornano le pareti, ove si rappresentano i principali misteri della fede che il sacerdote commenta ad uso degli illetterati; eccolo in quell'altra mirabile creazione che è il canto liturgico, nel quale l'emozione lirica dell'arte è veicolo alla esposizione dei più profondi concetti cristiani, e il tutto con una facilità di esecuzione tecnica che rende possibile alle moltitudini più ignoranti di parteciparvi non da spettatrici, ma da attrici. E la liturgia stessa delle sacre funzioni, considerata nel suo aspetto umano e naturale, che altro è se non la partecipazione delle folle a un grandioso dramma ove la poesia, l'architettura, la pittura, la musica si fanno docili strumenti della verità? — Oggi si raccomanda il «metodo attivo», si biasima il verbalismo della nostra cultura, si riscopre il valore educativo del lavoro manuale. Orbene, non sono nate dal Cristianesimo quelle corporazioni medioevali ove il tirocinio e l'esercizio del lavoro manuale si compenetravano del medesimo senso d'arte e di libertà umana che a mala pena e non sempre oggi si ritrova nei grandi lavoratori del pensiero? Ed è stranissimo che i pedagogisti moderni prendano, di solito, come tipo dell'educazione cristiana e cattolica le congregazioni insegnanti della Controriforma e, anche queste, le considerino in una ristretta parte della loro opera e precisamente in quella parte ove esse hanno dovuto agire collateralmente a metodi e sistemi, non posti da loro, ma forzatamente dovuti accettare dalla società in cui si movevano. Non si capisce, ad esempio, perché i Gesuiti debbano esser presi da tutti i manualetti della pedagogia razionalistica, come unici rappresentanti della educazione cristiana e dei suoi pretesi difetti, quasiché la divina Provvidenza avesse loro assegnato il compito di far da capro espiatorio, attirando sulla propria testa tutte le contumelie del laicismo anticlericale. E si capisce ancor meno perché mai, dato anche - e non concesso!- che tutti gl'inconvenienti deplorati dai pedagogisti dei laicismo nella scuola dei Gesuiti ci fossero effettivamente stati, i Gesuiti debbano venir giudicati esclusivamente in base all'opera dei loro collegi per alunni laici, quasiché essi nulla avessero fatto per l'educazione clericale ed ecclesiastica. Allo stesso nostro Capponi, che pur cita lo spartano e l'ateniese e il romano antico come esempio di educazioni effettivamente riuscite alla costruzione di tipi spirituali indelebili, non è mai caduto in mente che il Gesuita fosse un “tipo” spiritualmente altrettanto originale, ottenuto però con una educazione efficace per lo meno quanto quella da lui vantata negli antichi? E che il benedettino, il francescano, il domenicano e via dicendo, per quanti ordini religiosi - e non sono pochi!- la Chiesa racchiude nel suo seno, fossero altrettanti “tipi” spirituali non meno ben delineati? Di un metodo educativo si può, certo, avere un'idea guardando a qualsiasi sua manifestazione, ma non si può giudicarlo completamente se non là dove esso si è fatto tutte le condizioni occorrenti alla sua piena realizzazione. Sarà benissimo che i risultati ottenuti dalle congregazioni insegnanti della Controriforma non debbano giudicarsi brillantissimi: ma si consideri che quelle congregazioni, in quanto si proponevano d'esplicare una larga azione sulla società laica circostante, dovevano forzatamente accettare sistemi e metodi consacrati dall'opinione pubblica, sia pur per volgerli, in quanto era possibile, ai propri fini. Così i gesuiti trassero tutto quel bene che si poteva trarre, da un punto di vista cristiano, dall'umanesimo letterario e dalla vita moralmente corrotta che nelle classi sociali dirigenti si accompagnava allora all'ideale umanistico. È colpa loro se la scuola umanistica era, per intima costituzione, una scuola oppressiva, e se, in fatto di morale pubblica e privata, il mondo e la famiglia s'incaricavano di erudire l'alunno uscito dai collegi con una serie di lezioni ben altrimenti significative? Ma si guardi il rovescio della medaglia, si prenda l'educazione gesuita nella formazione del gesuita, così come, risalendo nei tempi, si prende l'educazione francescana nella formazione del francescano e l'educazione benedettina nella formazione del benedettino, si prendano, cioè, tutti quei sistemi educativi in quanto hanno la libertà di foggiare interamente l'educando secondo i propri principi informatori. E poi si dica quale educazione laica, in qualsivoglia condizione, saprebbe, non solo plasmare, nella rigorosa unità d'una dottrina ferma come la cattolica, tanta e così varia ricchezza di spiriti quante sono le diverse famiglie religiose; ma, quel che più conta, indurre in una tal moltitudine di persone un dispregio dei propri comodi e dei propri interessi, un amore della sofferenza e del sacrificio, una devozione al dovere, una infaticabile attività non d'altre ricompense sollecita se non al di là della sfera umana, una umiltà che rifiuta persino quelle legittime soddisfazioni per cui l'uomo guarda con compiacenza l'opera propria spesa in servigio di superiori ideali quali sono quelli che oggi la stessa opinione mondana ammira quando la colpiscono nei tipi, più facilmente visibili, della suora di carità o del missionario. Né bisogna poi credere che, anche nelle difficili condizioni presentate dal dover trattare con gente già imbevuta d'idee e d'abitudini anticristiane, qual è appunto il caso della educazione che la Chiesa impartisce a laici, l'educazione cattolica non possa nulla, o possa meno della pedagogia razionalista. E basta, per convincersene, pensare alle anonime folle che, anche nei tempi più difficili per la religione, si stringono intorno alla Chiesa e ne ricevono giornalmente, per bocca d'un umile sacerdote, la parola, il consiglio, l'ammonimento che trasformano anche la disperazione della più sventurata esistenza, nella umana dignità d'un sacrificio offerto a Dio, nella nobiltà d'un dovere adempiuto con serena consapevolezza. Nelle ore torbide della storia, quando la scuola tace, fatta deserta, e la scienza è travolta dal turbine che sradica anche le civiltà più robuste, la Chiesa parla e gli stessi nemici l'ascoltano con deferenza, sia pure per tornare, quando la burrasca sarà passata, a combatterla: ma che, intanto, l'abbiano dovuta ascoltare, è altamente significativo. Ma è tempo ormai ch'io concluda questo lungo discorso, specialmente dacché mi è capitata fra le mani una conclusione così bella e confortante per voi, maestre cattoliche, una conclusione che, non ne dubito, anche nella forma troppo pedestre in cui le mie scarsissime forze hanno dovuto presentarvela, voi terrete presente, durante il nostro futuro lavoro comune, perché vi sia d'incitamento a fare sempre più e sempre meglio. E questa conclusione è che, nel prepararvi ad affrontare i maggiori problemi della pedagogia moderna, voi obbedite a una voce che vi richiama là dove da secoli la vostra gran madre, la Chiesa, ha combattuto e, possiamo dire senza tema di smentite, ha vinto, le sue più belle battaglie. Diffondete pure il sapere fra le moltitudini, ma diffondetelo nei modi e con gl'intenti ch'Essa vi ha insegnato, sicure di porgere soccorso, cosi, alle tormentose crisi dell'anima moderna; di soddisfare, così, pienamente alle esigenze della pedagogia più raffinata e scrupolosa. Allora questa scuola dalla quale sarete uscite, potrà veramente affermare d'avere, in mezzo a tutte le altre scuole universitarie, una sua precisa ragion d'essere, potrà veramente, in quanto ciò è dato ai nostri deboli sforzi umani, non demeritare di raccogliersi sotto l'altissimo nome che oggi invochiamo a guida e conforto: sotto l'altissimo nome di Colei che è Vergine Madre, figlia del Suo figlio, umile ed alta più che creatura, termine fisso d'eterno consiglio. Filosofia, religione e "filosofie" nelle scuole medie L'introduzione dell'insegnamento religioso nelle scuole medie e, più, l'esplicita dichiarazione del Concordato secondo la quale la dottrina cattolica deve essere il necessario fondamento e coronamento di ogni istruzione, hanno fatto nascere, strano a dirsi, nell'animo di molti e insegnanti e studiosi un turbamento la cui eco si è sentita nell'ultimo Congresso nazionale di filosofia (1929), e si sente tuttora negli scritti e nelle private conversazioni di quanti, o per elezione o per ufficio, amano discutere i vivi problemi della scuola. E forse non andrebbe molto lontano dal vero chi dicesse che tale discussione, interessante, senza dubbio, quando riguarda la scuola media in genere, offre poi un interesse specialissimo quando tocca l'Istituto magistrale, dal quale (si noti bene) debbono uscire maestri che hanno l'obbligo d'istruire i loro alunni non solo intorno a questa o quella singola materia, ma precisamente intorno alla religione cattolica; cosa che non potrebbero fare certamente, se già non avessero ricevuto dall'Istituto magistrale una salda istruzione e formazione religiosa. È bene dirlo subito: intendiamo di deliberato proposito trascurare tutti i problemi pratici e contingenti che possono nascere e nascono nelle odierne condizioni della scuola dalla introduzione dell'insegnamento religioso cattolico. E intendiamo trascurarli, non solo per un legittimo desiderio di circoscrivere il nostro discorso, ma perché siamo persuasi che il turbamento di cui si parlava ora deriva, nella maggior parte dei casi, non tanto dal considerare l'uno o l'altro aspetto pratico della questione, sibbene dal non aver impostato con sufficiente chiarezza o dall'aver male risolto il problema filosofico che della questione stessa sta al fondo. Per convincersene basta aver la pazienza di formulare solamente la difficoltà quale corre, si può dire, sulle bocche di tutti. — Che significa — si domandano molti — questa dottrina cristiana che deve essere d'ora innanzi il coronamento degli studi? Significa forse che si debbano escludere e bandire severamente dalla scuola tutte quelle dottrine e quegli autori non conciliabili colla ortodossia cattolica? Ammettiamolo pure. Ma allora dove andrà a finire la libertà di coscienza dell'insegnante, anzi, dove andrà a finire quella stessa libertà della ricerca scientifica che si svolge, è vero, e si esplica pienamente solo negli studi superiori e nelle Università, ma che non si può neppure escludere del tutto dalle scuole medie, senza ridurre l'istruzione a una semplice trasmissione meccanica di vuote formule, onde ogni vero senso di intima ricerca è esulato? Vedete qual differenza fra il Cattolicesimo e il pensiero moderno, e non certo a vantaggio del Cattolicesimo! Mentre l'uno esclude assolutamente quella diversità di pareri e di teorie dalla quale nasce la feconda ricerca e la discussione, senza cui non v’è scienza, anzi pretende di ridurre tutti, volenti o nolenti, ad un unico modo di pensare; l'altro ha sì gran braccia che accoglie generosamente, nel suo capace seno, ogni dottrina, poiché in ogni dottrina riconosce un momento e un aspetto necessario della verità. E dunque, mentre, secondo il filosofo moderno, anche il cattolico ha diritto di esprimere il suo parere e di portare nella scuola il suo pensiero, secondo il cattolico, il filosofo moderno, ben lungi dall'avere questo diritto, deve esser cacciato e tenuto fuori dalla scuola come un individuo pericoloso. Ora, ognuno vede da qual parte stia la libertà e la vera tolleranza: mentre il prevalere della filosofia moderna apre alla scuola tutte le conquiste del pensiero, il prevalere del cattolicesimo implicherebbe il ritorno al più gretto e ristretto oscurantismo, segno di remoti e barbari tempi. che la civiltà moderna ha, e vuole avere, per sempre superato. E, poste queste premesse, ecco che molta brava gente già si sente venire i brividi addosso. Che, già le par di vedere l'Inquisizione e il Sant'Uffizio armarsi del braccio secolare, ed entrar nelle scuole, e buttar sossopra libri e programmi, e, afferrato per il collo con mano ferrea ciascun insegnante, interrogarlo, e voler sapere per filo e per segno che cosa dice e che cosa opina, e che cosa pensa, e come e perché. E poi, al menomo odoraccio di eresia, giù ammonizioni e sospensioni, e rimozioni dall'impiego, e magari, tanto per essere in armonia col color locale, o meglio, storico, una buona dose di tratti di fune applicati sulla pubblica piazza, e un buon rogo, dove se non le persone, che non li usa più, almeno i libri proibiti formassero un bel falò, a consolazione della gente devota che assisterebbe, fra cantici di gioia e inni sacri, all'edificante spettacolo. Ora, i timori - più o meno irragionevoli - sono timori, e la filosofia è filosofia, e forse non c'è cosa tanto difficile a questo mondo quanto il persuadere certe brave persone che i timori vanno trattati da timori e la filosofia da filosofia; che le questioni filosofiche non si risolvono coi timori, ma cogli argomenti. Accuse di oscurantismo alla religione cattolica se ne sono fatte da che mondo è mondo, e sempre se ne faranno, fino alla fine dei secoli; sarebbe dunque puerile meravigliarsi che se ne facciano anche oggi. Ma giustizia vuole che di queste accuse si esamini spassionatamente il fondamento e il valore, prima di sentenziare. Giacché le affermazioni sono una bellissima cosa, ma finché non vengono dimostrate si riducono ad essere semplicemente parole: segni, o suoni, siano poi i suoni d'arpa eolia coi quali il poeta avvinca a sé i cuori, o gli stonati rulli del tamburo coi quali i saltimbanchi stordiscono, sulle piazze, la moltitudine. Sia dunque lecito porre, al presente studio, questo fine: domandarsi qual valore abbiano quelle accuse, e su quali argomenti poggino quelle affermazioni, ora riferite, colle quali si vorrebbe sequestrare il cattolicesimo dalla civiltà e dalla scuola moderna, per relegarlo nei musei d'un incerto e torbido passato che si dovrebbe inonoratamente seppellire. Mettiamo da parte i vaghi fantasmi passionali coi quali si cerca di carpire il consenso attraverso la mozione degli affetti e guardiamo, se ci riesce, di non arrenderci che alla forza dell'evidenza e della ragione. Cerchiamo, se è possibile, di ridurre la questione a un tale stato di chiarezza che chiunque ci segue, amico o avversario, possa senza disperati sforzi d'ingegno o di dottrina, comprendere le ragioni sulle quali poggia la nostra tesi, od, occorrendo, scoprire anche il più piccolo errore nel quale ci sia avvenuto d'incappare. I. Cominciamo con l'osservare subito che la questione che ora c'interessa non riguarda tanto i rapporti, o i conflitti che possono nascere, nella scuola media, fra l'insegnamento religioso in quanto puramente tale, e l'insegnamento della filosofia. Che se il problema fosse questo, molti amerebbero risolverlo, almeno in pratica, con una pacifica e cortese reciproca neutralità: l'insegnante di religione insegni la sua religione; l'insegnante di filosofia insegni la sua filosofia, e tutti pari. Ma il problema riguarda, invece che l'insegnamento della religione e quello della filosofia, due modi diversi di concepire l'insegnamento della filosofia, cioè due diverse concezioni della filosofia, o, meglio, due diverse concezioni della verità, diverse tanto, che non possono convivere pacificamente fra loro, né stare insieme senza distruggersi a vicenda. E se poi anche l'insegnamento della religione finisce con l'essere implicato in questo conflitto, ciò accade pei diversi effetti che quelle due concezioni producono, e non possono fare a meno di produrre, nel modo stesso di concepire la religione. Ma quali sono queste due diverse concezioni in conflitto? L'abbiamo detto; anzi, lo dicono e lo ripetono a sazietà coloro che formulano, contro la filosofia ispirata al cattolicesimo, quelle obiezioni che or ora abbiamo sentito. Possibile mai che la verità debba essere qualcosa di fisso, di statico, d'immobile, definibile una volta per tutte e racchiusa, per tutti i secoli, entro i ferrei cancelli di una determinata dottrina? Ma la verità è invece, progresso, sviluppo, divenire: e, anzi, lo stesso sviluppo e divenire del pensiero che incessantemente si accresce su sé medesimo, creando sempre nuovi sistemi e nuove dottrine, ognuna delle quali è un momento e un aspetto immortale del vero, ma nessuna delle quali può aspirare ad esaurire in sé la verità tutta quanta. Ecco dunque le cose singolarmente semplificate. Verità fissa ed immobile da una parte; verità in continuo sviluppo dall'altra; verità trascendente, da una parte, verità immanente, e identica col divenire stesso del pensiero dall'altra; verità oggettiva, che il pensiero filosofico può soltanto scoprire e riconoscere qual è, da una parte; verità soggettiva, eternamente creata dal pensiero, dall'altra. Per rendere, se non più semplice, più chiara questa antitesi, molti amano ricorrere alla storia della filosofia e impersonare in alcuni nomi di filosofi celebri quelle due diverse concezioni. Kant ed Hegel da una parte e San Tommaso dall'altra, quasi due mondi l'un contro l'altro armati, la filosofia moderna contro il medioevo e la filosofia scolastica. Contro, si capisce, per modo di dire poiché, chi crede tutti i sistemi filosofici veri, non può, senza contraddizione, dar l'ostracismo a San Tommaso e alla scolastica, ma deve considerarli essi stessi come un “momento” della immortale verità. E pure Kant ed Hegel per modo di dire, poiché chi pensa la verità come un continuo sviluppo non può poi, senza darsi la zappa sui piedi, offrirci a modello un sistema filosofico, sia pure il kantiano o l'hegeliano, a preferenza di un altro. Kant ed Hegel sì, ma come li pensiamo e li ricostruiamo noi. Kant ed Hegel con tutti i filosofi venuti dopo, compreso colui che adesso parla o scrive nel loro venerando nome. Comunque, questo appello alla storia della filosofia, se anche non riesce molto a chiarire - e, anzi, vedremo che intorbida - la questione riesce tuttavia ad ottenere un altro effetto di maggior vantaggio immediato. Quello di far apparire manifestamente vera la concezione della verità alla quale si vuol dare il nome di “moderna”, e, per necessaria conseguenza, manifestamente falsa la concezione opposta, quella tomistica, scolastica o “cattolica” che si voglia dire. Secondo tale concezione infatti, una sola filosofia sarebbe vera, quella di san Tommaso; tutte le altre filosofie, da San Tommaso in poi, costituirebbero un cumulo di errori, degni soltanto della più lacrimevole compassione. Per altra parte, al filosofo che si proclamasse oggi scolastico e cattolico, non rimarrebbe altra missione che quella di ripetere alla lettera San Tommaso, e di concentrare tutto l'universo nelle sacre pagine delle due Somme, alfa ed omega d'ogni sapere, o, piuttosto, colonne d'Ercole oltre le quali non è permesso spingere la ricerca, nell'oceano della verità. Di modo che il filosofo cattolico verrebbe a trovarsi in questa imbarazzante condizione: dover torcere inorridito lo sguardo dalla storia della filosofia, diventata per lui un enigma indecifrabile (un catalogo d'errori non è una storia) e di dover, insieme, rinunziare a qualsiasi iniziativa scientifica nel campo della filosofia pura. Viceversa il filosofo “moderno” non ha pregiudizi quanto a storia della filosofia, che può intendere e ricostruire appieno appunto perché può e sa simpatizzare con tutti i sistemi anche più opposti, persuaso di trovarvi sempre un'anima di verità, e in filosofia pura può dar sfogo a tutte le ardite idee e intuizioni geniali, significando liberamente quanto una prepotente ispirazione gli detta dentro e costruendo, se così gli paresse, anche un nuovo sistema al giorno, con immenso vantaggio per le magnifiche e progressive sorti del genere umano. Con questo, gli applausi delle platee sono assicurati al libero filosofo moderno, e i fischi e gl'improperi ricacciano fra le tenebre medioevali colui che avesse lo sconsigliato ardire di voler essere al tempo stesso cattolico e filosofo, o “scolastico”, “tomista” e filosofo. Ci sia permessa, prima di procedere oltre, una semplice osservazione. Anche a proposito di questo piccolo dramma, o di questa piccola commedia, dove si fanno muovere con tanta disinvoltura i personaggi del filosofo moderno e del filosofo cattolico, occorre ricordare che le parole sono parole e gli argomenti sono argomenti. I termini di “modernità”, di “libera ricerca”, di “ progresso del pensiero” e simili, fanno sempre un grande effetto, anche quando la realtà che essi designano sia per avventura - e ciò accade non poche volte - assai mediocre e meschina. Tutti vogliono essere, in questo mondo, spregiudicati, liberi, moderni e progrediti, e hanno a noia di sentirsi chiamare oscurantisti, arretrati e schiavi, così come tutti vogliono essere intelligenti e civili, e hanno grandemente a noia di sentirsi chiamare stupidi o barbari. È un troppo naturale effetto dell'amor proprio, sia negli uomini che nelle dottrine e nei sistemi da essi escogitati. Ma appunto perché è un naturale effetto dell'amor proprio, bisogna diffidarne; e come a chi ci venisse innanzi affermandoci di esser molto intelligente e civile noi non crederemmo già sulla parola, ma domanderemmo le prove della sua asserzione, e vorremmo sapere quali fatti e quali opere gli danno il diritto di ambire a quei titoli onorevoli, così ad una dottrina che ci afferma d'esser progredita e libera, moderna e spregiudicata, noi non possiamo credere ciecamente, ma dobbiamo domandare quali prove effettive di libertà, di progresso e di spregiudicatezza, essa sia in condizione d'offrirci. II. Il procedimento adoperato, di solito, dagli avversari per fare apparire la filosofia dei cattolici, e, sopratutto, la filosofia tomistica e scolastica, come retriva e non all'altezza dei tempi, è un procedimento così artificiale ed artificioso che chiunque si provasse ad usarlo per valutare qualunque altra filosofia non scolastica né cattolica, si attirerebbe certo un coro di vituperi. E se queste parole, di solito adoperate a indicare cosa molto diversa da quella che vogliamo dir noi, non corressero il rischio d'esser fraintese, diremmo che tale procedimento è assai simile a quella “illusione cinematografica” del pensiero per la quale si pensa d'aver afferrato e ricostruito un organismo vivente quando se ne sono raccostate alcune immagini parziali e frammentarie. E, infatti, tutto l'equivoco si fonda su questo: quando alcuno dice di ritener vera una filosofia, sia essa scolastica o antiscolastica, religiosa o irreligiosa, idealistica o positivistica, dogmatica o scettica e così via, è costretto a dirlo con frasi e parole le quali ci danno, per forza, di essa soltanto un'immagine approssimativa e inadeguata. E tanto più approssimativa ed inadeguata, quanto meno è possibile condensare in una breve formula verbale, qual è quella per cui uno si dichiara scolastico, materialista, idealista o naturalista ecc., ciò che è veramente essenziale nella filosofia: gli argomenti coi quali essa stabilisce e dimostra le proprie tesi. E questo stesso carattere di approssimazione e di inadeguatezza si estende, in un certo senso, a tutte le parole, e a tutte le frasi, e a tutti i libri che sono stati scritti per esporla e svolgerla, ognuno dei quali, per importante che sia, non si può mai dire che esaurisca in sé tutta quella dottrina che pure insegna, o possa considerarsene un equivalente materialmente completo. Tanto è vero che da che mondo è mondo si continua a scriver libri per esporre e difendere le varie dottrine filosofiche, e ancora non s'è finito, né si può finire. Poiché una dottrina filosofica è un insieme di concetti e di ragionamenti: e benché concetti e ragionamenti si esprimano, certo, con parole e con libri, e si possano, magari, riassumere e indicare con brevi formule, pure, non i libri e le parole o le formule, ma i concetti e i ragionamenti costituiscono l'essenza della dottrina. E chi, perciò, la dottrina vuol capire, non deve fermarsi alle parole e alle formule, ma deve, mediante esse, risalire ai concetti e ai ragionamenti, cioè compiere in sé quell'atto dell'intelletto pel quale si costituisce e si dimostra una determinata dottrina: che non è, evidentemente, lo stesso atto col quale si ripete materialmente una formula, o s'impara a memoria un libro. Segue da ciò che quando un filosofo vi dice “siate idealisti”, “siate scettici”, “siate cattolici” o “siate scolastici”, e vi scrive un libro per dimostrarvelo, o vi indica alcuni classici della filosofia quali Hegel o Sesto Empirico, Aristotele o San Tommaso, come quelli coi quali il suo pensiero meglio si trova d'accordo, non può essere davvero così sciocco ed insensato da volervi indurre solo a ripetere pappagallescamente “siamo scolastici” o “siamo scettici”, o a ripetere tal quali le sue parole, e ad imparare a memoria i libri di Hegel o di Sesto Empirico, di Aristotele e di San Tommaso. Ma pretende, invece, che i suoi uditori o lettori, da quelle formule e da quei libri risalgano ai ragionamenti in essi contenuti, e, mediante u n positivo lavoro del loro intelletto, li riscontrino veri e se li approprino, facendo così un'opera di ricerca che è certamente originale, benché riesca (nihil sub sole novi!) a conclusioni già scoperte da altri pensatori, siano essi Hegel o Sesto Empirico, Kant o San Tommaso. Né questo riuscire a conclusioni già scoperte da altri menoma in nulla l'originalità e la libertà della ricerca; giacché la libertà del pensiero non consiste punto nel non aver nulla innanzi a sé, ma solo nel non accettare nulla che non sia dimostrato vero. E quando una dottrina è dimostrata vera, la libertà dell'intelletto è garantita, in altro non consistendo tale libertà se non nell'esser fatto l'intelletto per conoscere il vero, e quindi nell'esser libero e attivo sol quando il vero effettivamente conosce. Ma che cosa fanno, rispetto alla scolastica, e quindi rispetto al cattolicesimo, i critici poco esperti, o male intenzionati? Credono, o mostrano di credere, che i filosofi scolastici siano, essi soli, così insensati da far consistere la loro filosofia, non nel pensiero ma nelle parole, sì che, presso i soli cattolici esser “scolastici” significhi non già compiere quell'effettivo e originale processo di pensiero pel quale ognuno può riscontrare col proprio intelletto la verità della filosofia scolastica, ma solo mandare a memoria e ripetere, senza mutare una virgola, l'una e l'altra Summa di San Tommaso. Onde, la facile accusa agli scolastici d'esser ripetitori pedissequi e di voler, perciò, diseducare il pensiero umano, riducendo ogni ricerca scientifica alla meccanica fatica di ripetere frasi, o libri altrui, con quelle pessime conseguenze per l'educazione e per la scuola che già abbiamo udito deplorare. Accusa alla quale, evidentemente, non si può rispondere altro che negando l'arbitraria e cervellotica supposizione dalla quale è partita. Nessun filosofo scolastico, infatti, s'è mai sognato di voler indicare col termine “scolastica” soltanto la parola e non la cosa, i libri, e siano pur di San Tommaso, e non la dottrina in essi contenuta, le conclusioni, e non il concreto processo di pensiero col quale ci si arriva. Nessun filosofo scolastico, quando dice agli altri “siate scolastici” vuol loro imporre la irragionevole schiavitù di una dottrina senza dimostrazione e senza ricerca. Nessun filosofo scolastico, infine, ha mai creduto che la sua filosofia fosse altro che un concreto processo di pensiero, nel quale certe tesi si dimostrano vere alla luce della ragione e dell'esperienza e mediante lo sforzo originale di colui che studia. Il quale, poiché si tratta appunto d'una dottrina e non d'un pezzo di legno, non potrà certo afferrarla e mettersela in tasca così com'è, ma dovrà bene arrivarci nell’unico modo possibile, cioè pensando e ripensando, e non smettendo mai di pensare, argomentando, inducendo, deducendo, sillogizzando, dialettizzando e così via; che sono precisamente, se non c'inganniamo, i modi e le forme attraverso le quali il pensiero umano afferma la propria attività e originalità, garantendosi di conoscere il vero, e respingendo da sé il falso. Né si vede in che cosa, sotto questo aspetto, la dottrina scolastica differisca dalle altre dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche o scettiche. Che se appare diversamente, è sempre per quel tale equivoco fra il pensiero e le parole, sul quale gli avversari della scolastica si compiacciono d'insistere. Infatti, una dottrina, come or ora s'è visto, la si formula in parole e in libri che, naturalmente, in un primo tempo, e a chi li guardi dall'esterno, debbono per forza apparire un puro dato, esterno anch'esso; esterno, ben inteso, finché colui che esamina la dottrina proposta non sia in condizione di passare all'interno, cioè di riscontrare vera, mediante la propria ricerca, la dottrina medesima, persuadendosi così anche della bontà ed esattezza di quelle espressioni, di quelle formule, di quei libri che prima gli erano apparsi qualcosa di arbitrario e di indimostrato. Ma questa, se così vogliamo dirla, imperfezione e limitazione del pensiero umano che non può afferrar la verità immediatamente e tutto in una volta, ma è costretto a raggiungerla per gradi, non ricade certo sulla sola filosofia scolastica, bensì appartiene a tutte le dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche o scettiche che siano. Le quali, debbono pure anch'esse formularsi in parole e in libri che, in un primo tempo appaiono, per forza, un puro e indimostrato dato esterno, finchè colui che le esamina non è in condizione di dimostrar vera la rispettiva teoria idealistica o positivistica, materialistica o scettica. Il che è ancor più manifesto quando si tratta della scuola e dello scolaro; che, appunto perché scolaro non è ancora in tali condizioni da poter riscontrare da sé e colle sue sole forze la verità della dottrina insegnata e deve, ancora per un pezzo seguitare a imparar libri e definizioni e formule delle quali non scorge, o scorge solo imperfettamente la ragione. Che se in questo fatto cosi semplice si vuol trovare a tutti i costi una oppressione e un vincolo alla libertà del pensiero umano, allora non soltanto la scolastica, ma anche ogni altra dottrina, idealistica o positivistica, materialistica o scettica e, magari, eclettica, si dovrà dire oppressiva e restrittiva per la libertà del pensiero, e perciò, in quanto tale, oscurantista e retriva, di fatto, anche se a parole si dichiara svisceratamente amica della libertà e del progresso. Non si vede infatti perché il proporsi come testo di studio San Tommaso debba esser più oppressivo, o restrittivo che proporsi Kant, Hegel o Ardigò, e perché l'imparare definizioni e formule scolastiche debba esser più avvilente che imparare definizioni o formule positivistiche o idealistiche, vero essendo che in ogni caso ci s'imbatte nel solito dilemma dal quale non è dato trovare una via d'uscita. O il presentare una dottrina restringendola in alcune formule e in alcuni libri ed autori, che in un primo tempo appaiono, necessariamente, allo studioso come puri dati esterni da accettarsi solo sull'autorità altrui (salvo a ottenerne, in un secondo tempo, una compiuta dimostrazione) è ammissibile, oppure non lo è. Se è ammissibile, nulla ci vieta d' insegnare la scolastica, così come altri insegna l'idealismo o il positivismo o di prendere per testo San Tommaso così come altri può prendere Hegel o Spencer. Se non è ammissibile, la scolastica diventa, certo, una dottrina oppressiva, incompatibile con l'attività e la libertà del pensiero umano, ma anche l'idealismo, il positivismo, lo scetticismo e persino l'eclettismo diventano dottrine altrettanto retrive e incompatibili con l’attività e la libertà del pensiero umano. Ciò è tanto vero, che, in ogni tempo, ci sono stati autori e scrittori più coerenti degli altri, i quali, per essere imparziali e non far danno a nessuno, hanno addirittura dichiarato oppressiva, antiquata e insopportabile la filosofia stessa, a qualsivoglia tendenza o dottrina appartenente, e si sono vantati di condurre liberamente la loro vita intellettuale, fuori dalle ristrette gabbie delle dottrine e dei sistemi. Pretesa assurda certo, poiché, come è noto a tutti, anche il dire di non credere nella filosofia è fare della filosofia, e anche il dire di non avere un sistema è un sistema, come lo scetticismo, l'eclettismo o qualche altro tipo simile. Ma pretesa coerente, anzi coerentissima con l'assurdo medesimo dal quale è partita, poiché se insegnare una qualsiasi dottrina rigorosamente definita e formulata vuol dire opprimere il pensiero, il miglior modo, anzi, l'unico modo di non opprimere il pensiero sarà addirittura quello di non formulare né insegnare mai nessuna dottrina, né idealistica, né scolastica, né materialistica né di altro indirizzo. Soluzione che sarebbe l'ideale dell'economia e della semplicità per filosofi, scienziati, legislatori, maestri e scolari, se solo non avesse, come or ora s'è chiarito, il difetto d'essere inattuabile. * * * Colla pura e semplice denunzia di un equivoco verbale cadono, dunque gran parte delle irragionevoli e ingiustificate antipatie contro la filosofia scolastica. La quale non è un insieme di frasi o di formule da ripetere meccanicamente, ma è un vivente organismo di pensieri da pensare; così come appunto sono, o vogliono essere, tutti gli altri sistemi filosofici. Una dottrina che, lungi dal pretendere d'imporsi irragionevolmente o arbitrariamente al pensiero umano, non vuole essere accettata altro che mediante argomenti e dimostrazioni. È bene ricordarlo, poiché oggi certe nozioni sono grandemente obliate anche da coloro che per professione ed ufficio avrebbero l'obbligo di meglio conoscerle. La filosofia scolastica pretende di essere accettata unicamente perché vera e dimostrabile tale con argomenti filosofici; e dimostrabile a chiunque, anche a chi non creda punto in una rivelazione religiosa, anzi a chi non sappia neppure se una rivelazione religiosa ci sia o no, sia possibile o meno, tutte questioni che si possono trattare dopo, e non prima che l'indagine filosofica abbia saldamente stabilito e dimostrato vera una certa concezione della realtà. Questo spiega perché sia molto meglio e più conforme alla precisione scientifica parlare di filosofia “scolastica” che di filosofia “cristiana” o “cattolica”, contenendo questi ultimi termini un riferimento alla rivelazione religiosa e alla teologia che non è ancora ammissibile, né dimostrabile, durante la pura ricerca filosofica, laddove il termine “scolastica” ha il vantaggio di definire direttamente la filosofia dal suo stesso contenuto dottrinale o speculativo, senza introdurre altri elementi. Che se, ciò nonostante, è gloria della scolastica aver adoperato e adoperare tuttavia anche l'altro metodo, ed essersi servita della Rivelazione cattolica e della teologia per controllare le sue tesi, l'uso di questo secondo metodo non ha mai infirmato l'uso del primo, che vale durante la ricerca filosofica e prima di aver saputo se c'è ed è possibile una rivelazione religiosa, così come l'altro vale dopo averlo saputo ed essersi persuasi, cogli argomenti e della filosofia e della teologia ”fondamentale” o apologetica, che una rivelazione è possibile, e c'è, ed è proprio la rivelazione cattolica. III. Risulta, dunque, evidente da quel che si è detto fin qui che per insegnare filosofia scolastica da parte del maestro, come per apprenderla da parte del discepolo occorre precisamente tanto spirito inventivo ed originalità quanta ne occorre per insegnare od apprendere qualunque altro sistema filosofico, e che, perciò il meccanicismo, il mnemonismo, il dogmatismo irragionevole e l'oscurantismo sono da temersi nell'insegnamento della filosofia scolastica appunto quanto sono da temersi nell'insegnamento di ogni altra filosofia, né più, né meno. Questo significa che non c'è un criterio estrinseco col quale si possa decidere su due piedi quali filosofie siano per riuscire, nell'insegnamento, oppressive, e quali liberatrici; ma che un tale criterio è soltanto interno, in altro non consistendo che nella maggiore o minore verità delle filosofie stesse. Fra le quali, secondo quanto già abbiamo avvertito prima, solo una dottrina vera sarà sul serio liberatrice, e le altre riusciranno sempre e per forza oppressive, dogmatiche e oscurantiste; poiché solo il vero può imporsi all'intelletto dello scolaro con l'intima forza della persuasione, senza ricorrere a minacce, lusinghe, o costrizioni esterne, alle quali, invece, debbono necessariamente ricorrere i sistemi erronei che riescono, dunque, sempre malamente dogmatici e oppressivi, e portano, perciò, nella scuola le cattive conseguenze che si volevano addossare alla scolastica, qualunque sia la loro etichetta di modernità o l'altisonante affermazione di libertà colle quali si presentano al pubblico. Ma con ciò eccoci ritornati - sembra - al punto donde eravamo partiti. Poiché - si dirà - anche col massimo buon volere, e anche deposto ogni ingiustificato pregiudizio contro la scolastica, è certo che proprio in questa diversa concezione del quando e a quali condizioni debba ritenersi vera una filosofia sta la differenza più notevole fra il sistema scolastico e il sistema moderno, e il conseguente pericolo che la scolastica introdotta nell'insegnamento porti quei frutti di oppressione e di scarso spirito scientifico che si temevano. Infatti, s'era già detto: per la scolastica la verità è qualcosa di già fatto, ed esistente fuori del pensiero che la pensa, dunque: una sola dottrina è vera, e tutte le altre debbono per forza esser false. Per il pensiero moderno, invece, la verità e la realtà medesima coincidono con l'atto stesso del pensare, perciò cambiano, si svolgono, si accrescono, collo svolgersi del pensiero e, dunque, non una sola dottrina ma tutte le dottrine sono vere, in quanto ognuna di esse è sempre un atto del pensiero che si crea ogni volta la sua verità. E rieccoci, allora, a quelle tali conseguenze tanto deprecate. Poiché, mentre il filosofo scolastico non potrà che insegnare ai suoi discepoli una sola dottrina, la sua, il filosofo moderno potrà non solo insegnare tutte le dottrine che la storia della filosofia abbia mai registrato, ma potrà, anzi, dovrà incitare il discepolo a “crearne” delle nuove. E va benissimo. Sennonché, a un esame più attento, questo modo di ragionare che sembra correr cosi piano e facile, si rivela almeno tanto superficiale quanto il precedente. Poiché, in primo luogo, esso cela in sé una proposizione non dimostrata né dimostrabile, e cioè che il gran numero dei sistemi filosofici insegnati nella scuola sia un bene; e che coincida colla libertà e col progresso del pensiero. Allo stesso modo, si direbbe scherzando, ragionava quel bravo villico che, convinto che se una pillola faceva bene due avrebbero fatto meglio e tre meglio ancora, pensò di guarir subito col pigliar tutte insieme le pillole che gli aveva ordinato il dottore, ma invece di guarire morì, contrariamente alle sue poco sagge previsioni. I sistemi filosofici - se si preferisce un paragone meno malinconico - non sono già come i polli, le pernici, i poderi o i biglietti da mille, che più se ne ha meglio è. E chi crede che l'insegnamento di molte dottrine filosofiche coincida per lo scolaro con l'originalità, col progresso e colla libertà dello spirito, mostra d'aver confuso due cose fra loro tanto diverse come il “progresso” e il “mutamento”. Pregiudizio, in verità, molto diffuso ai giorni nostri, e che nasce dall'aver inconsapevolmente confuso fra loro due ordini di realtà così diversi come il materiale e l'ideale. Se, infatti, una dottrina filosofica, poniamo la scolastica, fosse un campo o un orto, si avrebbe ragione di dire che chi si rinchiude in essa, rinunzia a tutto lo spazio ch'è al di là dei suoi confini, come il misantropo che se ne sta dietro i cancelli di casa sua e non vuol mettere il naso fuori. Ma una dottrina non è un campo o un orto, bensì un atto immateriale del pensiero, e in quanto tale non ha altri confini che il suo riuscire o meno a colpir la verità. E se riesce a coglierla, essa non si lascia fuori più niente, né ha bisogno di cercare altrove che in se stessa i motivi d'un infinito progresso e sviluppo: ché essendo la verità per sua natura infinita, non c'è mai un momento nel quale si possa dire d'averne esaurito la conoscenza; ed essendo la filosofia un atto immateriale, non viene mai il momento in cui si possa metter da parte in un cassetto per riprenderla meccanicamente; ma sempre fa d'uopo ripensarla, cioè pensarla davvero, con una attività la cui originalità e spontaneità è inesauribile. Approfondire la verità, questo è il progresso. Per contro, è proprio l'errore che ci presenta una indefinita molteplicità e un continuo cambiamento di sistemi; poiché, dove la mente non può acquietarsi nel tranquillo ritmo progressivo d'una dottrina vera, è costretta a cercare un simulacro di progresso nel mutamento, e a ripagarsi colla illusoria ricchezza dei molti sistemi, della effettiva miseria inerente alla loro falsità. Per cui dal momento che la verità è una e gli errori sono molti, le parti vanno invertite e quei filosofi che si vantano di permettere, anzi, di introdurre nella scuola molte dottrine, o non sanno quel che si dicono, o si vantano d'una cosa assurda com'è insegnare l'errore e mettere al bando la verità. E viceversa, quei filosofi che vogliono nella scuola una sola dottrina, non solo fanno onore alla loro intelligenza di filosofi, ma sono, essi, gli unici fautori d'uno spirito sanamente progressivo e inventivo qual è quello che può aversi dalla conoscenza della verità. Ma qualcuno può ancora obbiettarci: il vostro ragionamento ha il solito difetto: presuppone arbitrariamente la vostra concezione della verità ed esclude la nostra. Si capisce che se la verità è tale che possa esser colta da una sola dottrina ad esclusione di tutte le altre, voi avete ragione nel voler che quella sola dottrina venga insegnata. Ma, e se la verità non fosse tale che potesse coglierla una sola dottrina, ma si trovasse in tutte le dottrine, come appunto sosteniamo noi? Non avremmo, allora, ragione noi di sostenere che la presenza, nella scuola, di tutti i principali sistemi filosofici, sia utile e necessaria? La risposta a questa obiezione non può essere che una sola: non esistono due concetti differenti della verità, benché esistano le parole colle quali ci si illude di esprimere un concetto della verità diverso dal nostro. Ma sono vuote parole; e la dimostrazione ce la forniscono gli avversari stessi. Quando essi dicono, infatti, di non creder vera una teoria filosofica ad esclusione delle altre, ma di tener vere tutte le teorie che la storia della filosofia registra, che cosa fanno essi mai se non sostenere e difendere come vera una loro teoria filosofica particolare? Dire che la verità è in tutti i sistemi filosofici, non è forse sostenere una teoria filosofica? È il solito argomento contro lo scetticismo e l'eclettismo: filosofie che proclamano, sia di non creder vera alcuna teoria filosofica, sia di ammetterle tutte, e intanto cominciano, sotto mano, col creder vere se stesse e solo se stesse. Ora, la contraddizione è evidente. Ritener vere tutte le filosofie vorrebbe dire ritener vere anche quelle filosofie che affermano esserci una sola filosofia vera e tutte le altre esser false. Ma ammetter queste filosofie vorrebbe dire distruggere appunto quella nozione della verità alla quale tanto si tiene, e che esclude assolutamente potersi sostenere la verità di una sola filosofia, cioè distruggere lo stesso principio eclettico, o idealistico. Onde, una delle due: o l'idealismo, l'eclettismo e gli altri sistemi dello stesso tipo restano fedeli al loro programma di ammetter vere senza esclusione alcuna tutte le filosofie, e si uccidono colle proprie mani, perché debbono tener vero anche il concetto della verità opposto al loro. Oppure ammettono tutte le filosofie, ma eccettuate quelle che sostengono un concetto della verità opposto al loro, e allora la loro famosa tolleranza e larghezza di vedute è finita, ed essi sono liquidati come idealismo od eclettismo, avendo dimostrato col fatto che la verità non sta punto in tutti i sistemi filosofici, ma solo in alcuni, e precisamente in quelli che s'accordano con l'idealismo o con l'eclettismo, cioè, in ultima analisi, in un sistema solo. La libertà, dunque, che la filosofia moderna pensa di garantire in fatto di sistemi, è molto simile alla libertà di certe democrazie, ove ognuno è libero di pensarla a suo modo purché, però, non dissenta in nulla dal pensiero dei governanti. Libero ognuno di scegliersi il sistema filosofico che vuole, purché questo sistema sia l'idealistico, o almeno s'accordi in tutto col criterio fondamentale dell'idealismo: essere la verità in divenire continuo ed essere, perciò, vere tutte le filosofie che lo spirito umano ha escogitato. Ché fuori di questo concetto non v'è salvezza possibile, e le filosofie che non lo ammettono, non sono filosofie, ma aborti del pensiero, non vanno neppure presi in considerazione, anzi, vanno seppelliti sotto l'unanime disprezzo della gente ben pensante. Ora, quando si è stabilito ciò che in un sistema filosofico è più importante, cioè il concetto della verità, tutto il resto ne viene di necessaria conseguenza, e si può ben lasciar libero lo studioso di dedurlo in un modo piuttosto che nell'altro, di fregiarlo con un titolo piuttosto che con l'altro, e di compiacersi, così, della propria intelligenza ed originalità inventiva. Allo stesso modo, per ripigliar l'esempio di prima, poco importa che in quelle tali democrazie la gente voti in un modo o nell'altro ed abbia l'una o l'altra costituzione - tutte cose intorno alle quali, anzi, è bene che ciascuno si diverta a discutere a perdifiato, ricavandone un gran senso della propria dignità e importanza - purché, alla resa dei conti, siano sempre gli stessi uomini politici che detengono effettivamente il potere. Così la storia della filosofia che i pensatori moderni si vantano d'insegnare con tanta larghezza e liberalità, si risolve in una illusione. Poiché, sotto l’apparenza di tutti i sistemi filosofici che la mente umana ha escogitato, da Talete ai giorni nostri, la dottrina insegnata è sempre una sola: l'idealismo, il concetto della verità come coincidente collo sviluppo stesso del pensiero umano, e come escludente qualsiasi altra realtà che il pensiero umano non sia. Ed è ben vero che si parla di Talete e di Platone, di Aristotele e di S. Tommaso, di Kant e di Hegel, di Stuart Mill e di Spencer, e che ognuno vi può spaziare entro i confini del materialismo e del platonismo, della scolastica e del kantismo, del positivismo e dell'agnosticismo e via dicendo. Ma si tratta di un dramma dove i personaggi si riducono ad uno solo, benché volta a volta variamente travestito, e dove Talete e Platone, Aristotele e San Tommaso, Kant ed Hegel, Stuart Mill e Spencer, sono, volenti o nolenti, costretti a rappresentare un'unica parte, quella del filosofo idealista; ora dell'idealista in germe, più tardi dell'idealista consapevole fino a metà, poi dell'idealista evoluto e progredito, dopo ancora, dell'idealista che nega se stesso, ma prepara così la strada a un nuovo e più moderno idealismo, ma in ogni caso, sempre e soltanto, la parte del filosofo idealista. Poco importano le forme, circa le quali, anzi, si può concedere la massima libertà, purché la sostanza sia sempre quella. Ma che volete farci? - sembra di sentire rispondere un filosofo idealista - Dal momento che la dottrina idealistica è la vera e che l'intelletto umano non può, per quanti sforzi faccia, appagarsi se non del vero, necessariamente in tutti i sistemi escogitati dalla mente umana per risolvere i nostri problemi si ritroverà, per forza, qualche cosa dell'idealismo, cioè della verità. Noi, non facciamo altro che metterlo in luce. - Ah, dunque eccovi colti colle mani nel sacco! Anche voi credete una dottrina vera, cioè conforme all'intima costituzione della realtà (e sia pur questa realtà la sola storia) e mediante essa vi assumete il diritto di giudicare tutti gli altri sistemi. Orbene, che cosa farebbe di diverso la più intollerante, tagliente ed autoritaria filosofia scolastica? Che cosa, se non precisamente ritener vera una dottrina e giudicare con essa tutte le altre? Che cosa, se non mostrarci che anche tutte le altre dottrine, in quanto sono davvero pensabili, e, cioè vere, e non si riducono a parole e fantasmi dell'immaginazione in servizio di bisogni sentimentali e pratici, sono, parzialmente o totalmente, implicitamente o esplicitamente, consapevolmente o no, conformi alla scolastica stessa? Che cosa, se non configurare tutta la storia della filosofia, in quanto storia della scienza filosofica, e non delle aberrazioni o dei bisogni fantastici, passionali e pratici dello spirito umano, come preparazione, svolgimento, decadenza, rifioritura ecc. della filosofia scolastica? Ciò posto, non si vede in che cosa, anche per questa parte, la posizione della scolastica sia inferiore a quella dell'idealismo, o a quella di qualsiasi altro sistema filosofico che si affermi vero e voglia sostenere la propria verità coi mezzi consentiti dalla ragione. Né si vede in che cosa la scolastica meriti più di qualsiasi altro sistema l'accusa d'intolleranza, di dogmatismo o di oscurantismo, dato che una tale accusa, fallitole il concetto d'una verità omnibus, è costretta a poggiarsi su elementi puramente accidentali. Quali sarebbero, ad esempio, il fatto che i sistemi filosofici riconosciuti vicini alla verità sono in maggior numero per l'idealismo che per la scolastica, o che sono nati in epoche cronologicamente diverse, poniamo nel secolo XIII o XIV anziché nel XVIII o nel XIX. Circostanze che non fanno né caldo né freddo, poiché la verità non ha nulla da spartire colla quantità o colla cronologia, né si vede perché debba appartenere al secolo XIX anziché al XIII, o perché debba esser posseduta, in forma scientificamente adeguata, da molti sistemi anziché da pochi o perché un professore tedesco in parrucca e codino debba averla vista meglio d'un frate domenicano colla sua brava tonaca e cintola. E ciò anche a prescindere da apprezzamenti di fatto, i quali ci mostrerebbero che la scolastica ha i suoi rappresentanti nel secolo XIX non meno che nel secolo XIII; e grandi - usiamo espressioni volutamente moderatissime - non meno di qualsiasi altro rappresentante di qualsiasi altra modernissima “novità” filosofica idealistica, materialistica, pragmatistica e così via. Supponiamo che qualcheduno dicesse: Signori, io vi dimostro che l'arte di G. D'Annunzio, o di F. T. Marinetti è superiore a quella d'Omero e di Pindaro. Infatti quest'ultima è arte antica e quell'altra è arte moderna: ora, dai tempi antichi, dei Greci, ad oggi si sono effettuati innegabilmente dei progressi; dunque, anche l'arte d'oggi deve essere in progresso su quella d'una volta. Un tale ragionamento ci farebbe, certo, assai ridere né vi sarebbe scolaretto che non ne sapesse scoprire l'errore pel quale, dal fatto che un'opera d'arte è venuta dopo un'altra, si vorrebbe dedurre ch'essa è anche migliore dell'altra, e dai progressi dell'umanità, poniamo nelle scienze naturali, nella vita civile e nella produzione economica, si vorrebbero inferire i suoi progressi in un campo del tutto diverso qual è l'artistico. Ora, lo stesso errore che è derisibile applicato alla storia dell'arte, non è meno derisibile se applicato alla storia della filosofia ove il professore X od Y, autore di un novissimo sistema, dovrebbe saperne più di Aristotele o di San Tommaso, sol perché è nato tanti secoli dopo. Si crede di negare tale analogia fra la storia della filosofia e quella dell'arte con l'osservare che l'arte è l'espressione del temperamento individuale dell'artista, che è, appunto come temperamento individuale, non trasmissibile, e perciò esclude il progresso da uomo a uomo e da tempo a tempo, mentre la filosofia è la conoscenza d'una verità universale ed astratta, che può e deve, quindi, essere trasmessa e progredire. Ma si dimentica che progresso possibile non vuol dire progresso reale, e che anzi il progresso filosofico, il quale sarebbe necessario e ineluttabile se l'uomo fosse solo puro intelletto come gli angeli, ha da fare i conti, nelle attuali condizioni umane, proprio colle attitudini, coi bisogni, colle tendenze, colle passioni, cioè, in una parola, col “temperamento” del filosofo, che è tanto personale, intrasmissibile, e perciò non suscettibile di passare, progredendo, da individuo a individuo, quanto il temperamento dell'artista e che influisce sulla conoscenza della verità in filosofia, quanto il temperamento dell'artista sulla produzione dell'opera d'arte. E con conseguenze assai più gravi, poiché se all'arte basta riuscire sincera espressione d'un temperamento per essere arte, e se anche temperamenti mediocri possono riuscire artisti, senza bisogno d'arrivare all'altezza di Omero o di Dante; alla filosofia non basta essere espressione anche sincera d'un temperamento personale per riuscir vera, anzi, il più delle volte la mediocrità, la povertà, le scarse doti del temperamento individuale d'un filosofo avranno per conseguenza il non fargli trovare la verità e il fargli produrre un sistema sincero e personale sì, ma falso; onde segue che il filosofo, se vuol esser certo di non sbagliare deve sempre batter l'ala vicino alle altezze di Platone, d'Aristotele o di San Tommaso, poiché, nel suo caso la mediocrità è la morte. E la diversità notata sopra tra l'arte e la filosofia vale solo in questo: mentre l'artista deve esser grande lui e non ammette sostituzioni, il filosofo, se non è grande lui, può andare a scuola dai grandi e ricevere da loro quella verità che colle sole sue forze non avrebbe saputo scoprire. In ogni caso, non c'è da meravigliarsi che i grandi filosofi, come i grandi poeti, siano pochi, e nascano nelle più diverse epoche che la Provvidenza ha stabilito, senza darsi pensiero della successione cronologica né del progresso. E dunque è chiaro che la scolastica può aver le sue buone ragioni nel concedere relativamente a pochi l'ambìto titolo di filosofi, come la storia dell'arte concede a pochi l’ambìto titolo di poeti, e che l'opposto criterio, il quale vorrebbe che ogni momento nascesse un filosofo capace di “creare” una “nuova” filosofia è lungi dal parere soddisfacente. E può essere anche indizio d'un inadeguato e troppo largo concetto della filosofia, così come sarebbe segno d'un insufficiente concetto dell'arte lo scovare i poeti a decine e centinaia per ogni lustro, quando è risaputo che la vera arte e la vera filosofia sono cose difficili e che, perciò, in ogni tempo la grande maggioranza di coloro che si qualificano poeti o filosofi è composta, invece, di pseudo-poeti o di pseudo-filosofi. * * * IV. Possiamo dunque riconfermare, senza tema di smentite, la nostra conclusione. Ogni sistema filosofico, idealistico o scolastico, scettico o materialistico, non può, nonostante ogni sforzo contrario, insegnare mai più di una dottrina e di una verità, la quale necessariamente esclude la verità di altre dottrine diverse od opposte. E il sogno di una dottrina che abbracci e concili in sé tutte le altre dottrine si rivela presto per quello che è, un puro e semplice sogno, sfornito di qualsiasi consistenza scientifica, l'eterno sogno irrealizzabile, perché contraddittorio, dello scetticismo e dell'eclettismo. La verità di questa proposizione risulta manifesta dallo stesso ingenuo sofisma col quale gli avversari pensano di poter mettere la scolastica e il cattolicesimo al bando dalla scuola moderna. La nostra filosofia ammette e giustifica, tanto la scolastica e il cattolicesimo quanto il pensiero moderno, la vostra, invece, nega il pensiero moderno, e ammette soltanto la scolastica, dunque voi siete più ristretti ed intolleranti di noi. Sofisma la cui apparente consistenza è data dal duplice significato che s'attribuisce al termine “ammettere” o “giustificare”, che una volta si prende nel senso di “condividere” una dottrina e accettarne la verità, e un'altra volta si prende nel senso di “giustificarla” storicamente, cioè di indagare le condizioni storiche nelle quali nacque, i bisogni ai quali rispose e così via. Poiché, se si tratta di “giustificare” nel primo senso, allora è certo che la scolastica non può ammettere e insegnare come vero l’idealismo, il positivismo o qualsiasi altro sistema del genere, ma è altrettanto certo che neppure l'idealismo, il materialismo o un altro sistema simile possono ammettere e insegnar come vera la scolastica, tanta essendo l'opposizione della scolastica a quegli altri sistemi, quanta è per l'appunto l'opposizione degli altri sistemi alla scolastica. Ma se si tratta di “giustificare” nel secondo senso, allora anche la scolastica si può prendere il gusto di fare una elegante rassegna di tutti i sistemi filosofici che ci sono stati da che mondo è mondo, metterli in bell'ordine, studiarne i corsi e ricorsi, assegnarne le condizioni, enumerare le cause che li hanno fatti nascere e ne hanno garantito il successo, corredando il tutto con un grande apparato di erudizione critica e una sesquipedale bibliografia. Può prendersi il gusto, diciamo, poiché in realtà la scolastica, possedendo un concetto della verità molto più severo ed elevato di quello che mostrano d'avere tanti sistemi moderni, è sollecita più della formazione mentale, che della brillante informazione ed erudizione dei suoi scolari, e teme sempre non accada loro questa disgrazia: «necessaria non norunt, quia superflua didicerunt»: il che la conduce a limitare, nella scuola, più che sia possibile questa parte storico-erudita, nella quale tanto si compiacciono i sistemi moderni, perché tanto bene si accorda col loro intimo scetticismo ed eclettismo. E allora la discussione sarà, non più sulla necessità di tener per veri o meno questi o quei sistemi filosofici, quanto sulla opportunità di fare, nella scuola media, un posto più o meno ampio alla storia della filosofia, e, specialmente, alla sua parte informativa ed erudita. Questione di metodo, della quale adesso non intendiamo occuparci. Ma l'accusa del pensiero moderno, o del sedicente pensiero moderno, alla scolastica, di essere limitata ed oscurantista, può facilmente essere ritorta. Si scandalizzano, i nostri avversari perché la scolastica accusa di falsità la maggior parte dei sistemi che hanno avuto fortuna nel mondo della cultura filosofica, e domandano indignati: l'umanità ha dunque vissuto sempre nelle tenebre della barbarie? E come allora ha potuto svolgersi e progredire fino a raggiungere una civiltà per tanti rispetti superiore a quella dei tempi antichi? Dimenticano, costoro, nel far questa domanda tendenziosa, di richiamare i reali rapporti che intercedono fra i sistemi filosofici ora ricordati, e lo svolgersi dell'umanità e della civiltà, poiché la filosofia è una scienza difficile e, come tale, aristocratica sì che solo un piccolo gruppo di dotti, che in confronto dell'umanità è una trascurabile minoranza, può in ogni tempo coltivarla e dedicarvisi. Quanti, fra i contemporanei di Spinoza, di Rousseau, di Kant, o di Hegel, poterono effettivamente leggere quei filosofi, formarsi un'adeguata idea del loro sistema, e ad esso ispirare la propria vita? Quanti, oggi, nonostante l'accresciuta cultura e la maggior facilità di studiare, possono far lo stesso coi filosofi recentissimi? Il grosso pubblico dai sistemi filosofici prende, per opera di compiacenti divulgatori, solo qualche idea così vaga e generale che in tale vaghezza e generalità ogni carattere filosofico ha perduto, come sarebbe l'idea che Dio non c'è e che l'uomo è tutto, o che la società è organizzata male e bisogna rifarla, o che ciascuno è libero di seguire le proprie passioni, ecc. Idee che l'umanità avrebbe certo trovato anche senza i sistemi filosofici, tanto sono comode e larghe. Sì che si può dire, senza tema d'errare, che le varie dottrine filosofiche, in quello che hanno di specificatamente filosofico, passano senza toccare la vita dell'umanità nella sua grandissima maggioranza, onde, nulla v’ha di impossibile a che l'umanità progredisca e costruisca una civiltà anche se i sistemi filosofici dei suoi dotti sono errati, potendo la verità farsi strada da sé ugualmente, benché in forma imperfetta, per altre vie, nell’etica, nei costumi e nelle scienze stesse. Ben più difficile e ben più intollerante è, invece, la posizione degli avversari, quando, sforzati dalla logica, sono costretti a condannare non solo la scolastica, ma, addirittura il cattolicesimo il quale non soltanto è un sistema che vanta per sé il possesso esclusivo della verità, ma afferma questa verità di averla ricevuta, per rivelazione, da Dio. E il cattolicesimo non è una dottrina filosofica che vada solo per le mani di alcuni dotti, e la cui verità o falsità non interessi la maggior parte del genere umano, ma è una religione, attraverso l'insegnamento della Chiesa, chiaramente conosciuta, seguita e praticata da milioni di uomini, i quali costituiscono certamente la maggioranza del mondo civile; una religione che non ha mai cessato d'avere una azione importantissima su tutti i prodotti dello spirito umano, sull'arte e sulla filosofia non meno che sulla morale e sulla politica, sui costumi non meno che sulle industrie e i commerci, sulle scienze non meno che sull'economia. Il cristianesimo ha agito, perciò, anche sulla formazione del mondo moderno e della civiltà moderna, infinitamente di più che le dottrine di Kant, di Hegel, di Spencer, coi piccoli gruppetti di intellettuali che le hanno conosciute e seguite. Se, dunque, esso è una dottrina falsa, fondata sull'illusoria affermazione di un Dio trascendente, come si spiega la sua vitalità, estensione e fecondità? come si spiega la civiltà moderna stessa che in sì gran parte deriva da lui? È vero che gli avversari rispondono di non aver affatto questa malvagia intenzione, ma di voler anzi, ammettere e spiegare il cristianesimo e il cattolicesimo così come qualunque altra dottrina o sistema. Ma è proprio qui il punto: ammettere il cristianesimo così come qualunque altro sistema filosofico umano significa, in realtà, non ammettere affatto il cristianesimo, bensì sostituirgli una deforme immagine di esso, che prescinde precisamente da ciò che in esso è fondamentale: l'idea di una Rivelazione divina effettuatasi in esso e realizzantesi nella Chiesa. Il cristianesimo che si pensi solo come frutto della ragione umana e dei suoi sforzi filosofici, non è più cristianesimo, esso è, al più, spiritualismo, che già sfuma nell'idealismo. Non è dunque il cristianesimo ma l’idealismo che, pur con diverse parole, gli avversari ammettono e giustificano. Ora, non è questo il cristianesimo vivo ed operante come religione del mondo moderno, la quale tanto poco può allontanarsi dall'idea d'essere una Rivelazione divina, che ove solo attenua e addomestica un po', quell'idea, come ad esempio nel protestantesimo, sparisce come religione cristiana per ridiventare simile a tutte le altre filosofie di “cenacoli” intellettuali, quasi a darci una riprova della costituzionale incapacità del pensiero che pur si dice moderno ad afferrare ed assimilarsi il principio fondamentale del cristianesimo e del cattolicesimo. E dunque la difficoltà resta, per gli avversari, in tutta la sua estensione. Se il cattolicesimo è falso, come ha potuto crescere per opera sua quella civiltà che pur dite buona e vera, anzi come può continuare ad esistere, dato che anche oggi, nella società, il cattolicesimo ha un'estensione e un'importanza infinitamente maggiore di qualunque sistema filosofico? Condannare il cattolicesimo significa davvero ridurre tutta la storia a “storia d'errori”, ben più che non lo fosse, o potesse parerlo, per la filosofia scolastica; significa spezzare in due la grande tradizione cristiana della civiltà moderna; significa ammettere, irragionevolmente, che prima di Kant o di Hegel tutti i filosofi bamboleggiassero, e l'umanità giacesse nelle tenebre dell'errore; significa, infine, negare o misconoscere i maggiori bisogni dell'umanità stessa, che ha sempre cercato, prescindendo anche dal cristianesimo, di risolvere i suoi problemi, piuttosto che colla filosofia, soggetta alle discussioni e agli errori di pochi dotti, colle religioni, che tutte si presentano come rivelate da Dio, qualunque poi sia il modo col quale concepiscono tale rivelazione. Giacché la differenza fra il pensiero della scolastica e il pensiero di quella filosofia che s'arroga il titolo di “moderna” è, si potrebbe dire, tutta qui: nell'ammettere questa e nel non ammettere quella, la possibilità di una religione; nell'ammettere questa e nel non ammettere quella, l'esistenza di un Dio trascendente, e il fatto della sua rivelazione. Spregiudicata e larga come pare a prima vista, la filosofia moderna parte, in realtà, da una esclusione e da una limitazione aprioristica quanto mai settaria e piccina. Tutte le audacie e le libertà sono consentite al pensiero: purché, però, esso non si provi mai ad affermare l'esistenza di Dio e la possibilità della rivelazione: questo è severamente proibito. E non ci si accorge che, con tale gretta esclusione la filosofia ha rinunciato, in sostanza, alla propria, tanto vantata, libertà di critica, e si è rinchiusa entro un circolo ove non è più possibile alcun reale progresso e sviluppo del pensiero. Lo hanno osservato anche filosofi non sospetti davvero di eccessiva simpatia per la scolastica, che il pensiero umano ha in sé una brama irresistibile di infinito che domanda, come suo adeguato oggetto, un Oggetto parimente infinito ed assoluto: Dio. La filosofia moderna gli toglie questo oggetto, e poiché, tolto l'oggetto, la brama dell'Infinito resta egualmente, ad esso sostituisce una falsa immagine, il mutamento indefinito del pensiero medesimo, nella sua irrequietezza e insoddisfazione; e chiama Dio lo sviluppo storico e il divenire di questa insoddisfazione stessa. Senza por mente che l'Assoluto non può consistere in una negazione o in una privazione, e che il semplice mutamento non è progresso o sviluppo. In tal modo il pensiero umano, lungi dal progredire, resta perennemente immobile, nella sua scontentezza, volubilità e insoddisfazione che è sempre identica; un apparente progredire che è, in effetti, un ritornare sempre sulle stesse posizioni, come la storia di certa filosofia malinconicamente c'insegna. Mentre, al contrario, la scolastica, concludendo col riconoscere, sopra di sé, un Dio e una Rivelazione apre all'anima umana i vasti domini di una realtà inesaurita e inesauribile, ove il pensiero può innalzarsi infinitamente su se stesso, senza mai trovare, per quanto si sprofondi negli abissi della essenza e delle operazioni divine, niente altro che nuovi, sconfinati orizzonti, e nuovi stimoli ad elevarsi e progredire: «Estote ergo vos perfecti sicut et pater vester coelestis perfectus est »: ecco l'unico programma - il programma della santità cristiana - che consente anche al pensiero filosofico uno sviluppo e un progresso infinito. Nonostante ogni dichiarazione in contrario, la filosofia moderna non è affatto disposta ad aprire la scuola a tutte le più diverse e disparate dottrine. Che, anzi, essa persegue tenacemente la realizzazione di un suo ideale, e si propone - né potrebbe non proporsi - di conquistare la scuola alla sua propria fede. Fede intimamente scettica, come abbiamo visto, ma più intollerante ed esclusiva delle altre, perché non sa di essere una fede e una dottrina anch'essa, e con tanta maggiore ostilità, è disposta a perseguitare le altre dottrine quanto più si crede, ingenuamente, essa solo rappresentante autorizzata della verità e della filosofia. Fede, perciò, oppressiva e soffocante, affatto inconciliabile colla sana libertà della ricerca scientifica, e addirittura contraria ad ogni effettivo progresso e svolgimento dell'anima umana, nella sua educazione e nella scuola. Poiché l'anima del giovane e del fanciullo, ha, se così si potesse dire, più ancora che non l'anima dell'adulto, bisogno dell'Infinito, e la scuola che non può darle Dio, non può darle che vani trastulli e giocattoli intellettuali, destinati ad essere infranti subito dopo che una curiosità irrequieta ne ha scoperto il meccanismo. Pedagogia cattolica Credo che a parlare di un'opera come questa Rinnovamento dell'Educazione (“Vita e Pensiero”, Milano 1921) di Filippo Crispolti, possa valere quale sufficiente giustificazione non soltanto la ben intesa libertà che va tenuta nell'occuparsi dei libri recenti, bensì anche un fatto di più immediato interesse. E, cioè, che le lettere pedagogiche del Crispolti non hanno finora avuto, nonostante i loro innegabili pregi, il bene d'una discussione, d'una recensione o d'un cenno fra coloro che pur si occupano o dovrebbero occuparsi di problemi educativi. Strani effetti della modestia! Il Crispolti onestamente dichiara nella prefazione di non essere pedagogista e nemmeno professore; anzi, di non avere in vita sua addirittura frequentato mai alcuna scuola fuori dell' Università; rassomiglia il proprio stupore, nell'aver appreso da altri che certi suoi concetti erano pedagogia, a quello del bourgeois-gentilhomme quando lo persuasero che, senza saperlo, aveva fatto della prosa e non invoca per sé altro diritto che l'esperienza della vita. Probabilmente, i pedagogisti di professione hanno preso queste dichiarazioni alla lettera e hanno creduto, quindi di poter condannare il libro del Crispolti alla congiura del silenzio! Noi, per conto nostro, diciamo subito di non credere a quelle dichiarazioni: o, meglio, di credervi quanto basta per annettere all'opera del Crispolti un pregio anche maggiore. L'esperienza in materia educativa è certo - chi lo nega?- una bellissima e necessaria cosa; ma quando è vera esperienza, non filtrata attraverso gli schemi di un miope professionalismo, quale purtroppo affligge in educazione assai spesso la gente del mestiere, proclive molto spesso a dimenticare che, se l'opera educativa si celebra e acquista esplicita consapevolezza di sé nella scuola, essa presuppone poi tutte le manifestazioni della vita spirituale nel più largo senso intesa, talché l'esperienza scolastica val meno che nulla quando non sia sorretta da una intensa partecipazione alla vita dello spirito in tutte le sue molteplici forme, dalla quotidiana prassi familiare e sociale alla politica, alla scienza, all'arte, alla religione. Onde accade talvolta che uomini come il Crispolti, ammaestrati appunto da questa intensa partecipazione alla vita, riescano a ricostruire idealmente anche l’esperienza scolastica che loro manca e finiscano col portare nel campo educativo un occhio tanto più acuto e spregiudicato quanto meno è irretito dai pregiudizi professionali e quanto meno si preoccupa di abbracciare tutto un “sistema” pedagogico, per trascorrere, invece, con piena libertà, su quanto un sano senso critico spontaneamente gli scopre. Se così non fosse, l'agricoltore Pestalozzi o il mineralogista Froebel sarebbero riusciti inferiori, non pure al filosofo e pedagogista accademico Herbart, bensì anche ad un qualsiasi mediocre cattedratico autore di manuali pedagogici. Il segreto di quei grandi educatori sta precisamente nella loro “irregolarità”, nel loro irrequieto vagare più o meno attraverso tutti i campi della vita, prima di fermarsi nell'educazione, alla quale portarono così il possente lievito d'una personalità vivissima, aperta a tutte le voci dello spirito, sensibile a tutti i problemi, pronta a soddisfare tutte le esigenze che maturavano nei nuovi tempi. Tanto basta, e ne avanza, a giustificare il Crispolti di aver raccolto in una serie di lettere le sue dottrine sull'educazione. Il Crispolti è, del resto, figura così nota, e nel campo cattolico e nel campo degli studiosi, da non aver certo bisogno d'una presentazione. Ed era quasi, direi, in tono col suo cattolicesimo, il quale è manzoniano nel miglior senso della parola, ch'egli dovesse dar questo segno tangibile d'interesse per le questioni educative, ove si pensi che quel sano lievito di modernità ond'è reso così giovane il cattolicesimo manzoniano, risulta proprio dall'aver il Manzoni intensamente vissuto il cattolicesimo stesso, affiatandolo con tutti i problemi della vita e della storia, quali il secolo XIX li impose alla coscienza europea, in una forma in cui il problema morale e il problema - in lato senso - pedagogico tendevano sempre più a penetrare di sé la letteratura. Salutiamo dunque, anzitutto, la bandiera sotto la quale il Crispolti entra nel nuovo agone. Del Manzoni pensatore fu detto che egli, pur riuscendo spesso ragionatore vigoroso, non arriva ad esser compiuto filosofo per una certa sua incapacità a mettere in questione i “primi principi” e per una certa sua continua tendenza a presupporre dimostrata la dottrina religiosa, anche se al fine di far vedere come partendo da essa diventino volta a volta chiare le singole questioni prese in esame. Il che è inesatto certo, se con ciò s'intende negare ogni valore di filosofo a chi proceda con siffatto metodo largamente deduttivo (quale dimostrazione più soddisfacente d'una dottrina che lo spiegare in base ad essa i singoli concreti problemi della storia e della filosofia?) ma è esattissimo come caratteristica del procedimento prediletto in siffatte materie dal Manzoni e - cosa che qui c'importa soprattutto - anche dal Crispolti. Le sue lettere pedagogiche s'ispirano infatti, come egli stesso ci dice, al “programma di far toccare con mano in quale amplissima misura il Cristianesimo debba contribuire alla formazione dell'intero carattere morale e a certe necessità dello sviluppo intellettuale dell'uomo”(p. 205), ma non s'ingegnano prima di dimostrarci perché sia un bene morale e una necessità di ragione che il cristianesimo debba avere un siffatto influsso, o perché non si possa concepire, poniamo, una educazione che dal cristianesimo prescinda interamente o al massimo ne tenga conto solo come uno fra altri fattori, uno fra gli altri prodotti dello spirito umano, alla stessa stregua, p. es., dell'arte, della scienza, della filosofia, delle antichità classiche e via discorrendo. Non siamo, insomma, neanche qui nella sfera dei “primi principi”, delle grandi affermazioni e negazioni: il Crispolti, benché uomo di vasta cultura e non solamente letteraria, non ha affrontato in pieno la tormenta del pensiero filosofico moderno nel suo duplice aspetto immanentistico dell'idealismo e del positivismo. La religione non è quindi per lui qualcosa che abbia bisogno anzitutto d'essere instaurata contro e insieme nella scienza moderna: è, piuttosto, un possesso sicuro da far fruttificare. Onde, il tono fondamentale di tutta la sua indagine, che è rivolta a quelli di casa prima che quelli di fuori, ai cattolici prima che ai “laici”, filosofi o pedagogisti, anche se, nello stesso tempo, tiene l'occhio vigile su tutto il mondo circostante della cultura e della vita. Si direbbe anzi, più precisamente, che il Crispolti avesse voluto con queste sue lettere parlare a quelli che trascorrono nell'altro estremo, soffrendo d'una malattia opposta al filosofismo laico, a quei cattolici cioè che, per eccessiva sollecitudine di mantener la loro fede, in tutta la sua purezza, salva dalle concessioni snaturatrici alla mondanità, non annettono, nel campo educativo, grande importanza a tutto il complesso delle doti spirituali che, pur non interessando apparentemente la religione, fanno dell'uomo un uomo colto o rispettabile nel significato mondano della parola, poniamo al coraggio, al senso della responsabilità sociale, alla cultura dell'intelletto. Frutto di siffatta timidezza che, per timore di mal fare si appaga del non fare, è, secondo il Crispolti, un doloroso divorzio fra l'educazione dell'uomo e la religione, di cui non pur l'uomo ma la religione stessa finisce, in ultima analisi, con l'essere vittima nella comune estimazione dei buoni. Ecco degli esempi: quando noi vedremo il probo commerciante tener fede alla sua firma, il coraggioso nuotatore salvare uno che annegava, la brava popolazione d'un villaggio distrutto dall'incendio accingersi con virile rassegnazione a ricostruirlo da sé, noi applaudiremo tutti costoro in quanto coraggiosi, probi, o virilmente rassegnati in faccia alla sventura: non ci verrà mai fatto di applaudirli in quanto cristiani, di attribuire, cioè, lo splendore di queste loro qualità ad una educazione religiosa e, più specificamente, cristiana o cattolica. Altrettanto avviene nella coscienza del cattolico stesso, il quale, pur apprezzando certo in cuor suo quegli atti e quelle doti, non osa farne una conseguenza imprescindibilmente necessaria della propria fede religiosa, ma è disposto con facilità ad ammettere che si possa restar buoni cattolici anche senza lavorare a svilupparle eminentemente in sé, specie poi quando si tratta di doti che, come il coraggio, possono, se coltivate oltre un certo punto, condurre facilmente alla trasgressione di precetti eticoreligiosi cristiani, ad esempio di quelli contro la violenza. Effetto del timore che le virtù umane troppo curate dall'educazione possano ritorcersi contro la fede religiosa o quanto meno finir col reclamare per sé un'assoluta autonomia, non può non essere, a lungo andare, proprio lo stesso male che voleva evitarsi. Giacché così si crea in tutti la persuasione che l'educazione, intesa come sviluppo delle fondamentali attitudini dell'uomo al vivere e al pensare, trovi nel cristianesimo, anziché un aiuto, un ostacolo o, nella migliore ipotesi, né l'uno né l'altro; ch’è quanto dire, pedagogicamente, nulla. Onde si ritorna, dopo un non lungo giro, se non all'irreligione, almeno al neutralismo e al laicismo educativo. Contro i quali al Crispolti sembra aperta come unica via quella che «l'educazione cristiana sia resa così piena, da non esserci nessuna abitudine o inclinazione deplorevole che non debba venir combattuta a titolo religioso; nessuna abitudine o inclinazione lodevole a cui la religione non dia cagione e valore» (p. 14). Ora, in qual modo realizzare siffatto programma? Il Crispolti, sulle orme del Manzoni e delle Osservazioni sulla morale cattolica rammenta che il Vangelo contiene qualsiasi ideale di perfezione umana e che i sentimenti naturali retti non possono mai essere in contraddizione colla legge di Dio, e tanto gli basta per dimostrare come la religione cattolica abbia l'attitudine a informare di sé qualsiasi magari raffinatissimo ed esigentissimo sistema educativo. Che fu, in sostanza, la grande preoccupazione del romanticismo neocattolico successo all'illuminismo rivoluzionario, da Chateaubriand in poi il cui famosissimo libro vuol essere appunto una descrizione di tutti i vantaggi arrecati in ogni suo campo d'attività allo spirito umano dalla religione cattolica. Ma il Crispolti ha anche una preoccupazione nuova che certo, direttamente o indirettamente, consapevolmente o inconsapevolmente, dev'essergli derivata dall'influsso dell'etica moderna in uno dei suoi fondamentali problemi. “Politica della virtù” , definì or non è molto il Croce il concetto sostituito dalla più recente speculazione al vecchio rigorismo kantiano; “politica”, ossia non impossibile sterminio di tutte le umane passioni e tendenze sulle cui rovine si erga la legge morale, ma loro sapiente organizzazione a beneficio della moralità stessa. Sarebbe troppo domandare a un cattolico, per cui la legge morale deve sempre rimanere, in ultima analisi, trascendente, né può comunque risolversi nella sintesi delle passioni, il chiedergli di condividere senz'altro questo concetto. Dal punto di vista cattolico vi ha sempre una soluzione superiore del problema, la santità che non ha bisogno d'una politica della virtù poiché «non raggiunge le virtù e la conseguente eliminazione di ciò che loro contrasta, correndo loro dietro una per una e poi tenendole tra loro serrate con un'agitazione scrupolosa e a fatica, ma le coglie tutte insieme, per un ardore che tutte le supera e le fonde» (p. 16). La carità, l'amore di Dio possono, nelle anime educate alla santità ed elaborate dalla grazia divina stessa, essere motivo sufficiente dell'azione virtuosa senza che per ciò si richieda il sussidio di speciali abilità o l'esca di determinate passioni e sentimenti umani. Ma, giustamente ammonisce il Crispolti, la santità eminente non è da tutti. «Molti educatori sentono, sia pure talvolta in confuso, questa complicazione dell'economia della vita cristiana; sanno che l'ardente carità, dalla quale può venirle la maggiore semplificazione pratica, non è dato ad essi d'infonderla negli alunni, poiché è un raro e diretto dono di Dio alle creature chiamate a santità e allora, senza che formulino a sé e agli altri il proprio timore, temono che il voler trarre dal cristianesimo anche l'addestramento alle qualità naturali, belle per sé ma che non sono ancora virtù, come il coraggio, l'amabilità nel convivere, la coltura della mente, e via discorrendo, accresca la difficoltà dell'educazione cristiana, costringendo gli animi ad accogliere tante più cose, quindi a tenerle insieme in un equilibrio sempre minore, e a rischio di più frequenti discordanze» (p. 19). Timore, secondo il Nostro, ingiustificato e pericoloso, poiché in quanto quella carità vittoriosa venga a mancare - e impossibile è all'educatore garantire ch'egli saprà infonderla puntualmente nell'educando - verranno d'un subito a mancare anche tutti gli altri motivi (che non si sono coltivati in lui) d'ordine umano coi quali di solito gli uomini si garantiscono pur imperfettamente dal male. «Eppure ogni metodo di educazione è condannato a prefiggersi di far buoni i mediocri, poiché i sommi oltrepassano per lo più le sue speranze e i suoi poteri» (ibid.) e questi mediocri sono la gran maggioranza degli uomini non chiamati a santità, ma non per questo da abbandonarsi senza difesa ai disordinati impulsi animali. Prendiamo, secondo l'esempio caro al Crispolti, una figura manzoniana, quella di Don Abbondio, che per viltà d'animo si lascia trarre dalle minacce di Don Rodrigo a obliare uno dei più essenziali doveri del sacerdozio. Eccoci nel caso di un uomo al quale manca quella ardente carità che dovrebbe rendergli facile l'adempimento di qualsiasi dovere, ma al quale, di più, mancano gli stimoli umani con cui il “laico” si garantisce dalla paura; manca, cioè, un'adeguata educazione del coraggio materiale. Poniamo «che Don Abbondio fosse stato un ragazzo e che i maestri, prevedendo che potesse diventar parroco in tempi in cui il dovere parrocchiale era esposto a minacce di prepotenti, gli avessero voluto insegnare l'arte di non farsi vincere da quelle minacce»: che cosa avrebbero dovuto fare? Sanamente diffidando della possibilità d'infondergli il calore dell'amor divino, avrebbero dovuto coltivare in lui «una qualità terrena che poteva in certo grado servire all’uopo e che colla persuasione, cogli esercizi convenienti, e occorrendo con l'arma del ridicolo, si riesce ben più facilmente a metter negli animi adolescenti la qualità del non aver paura». E allora Don Abbondio, sia pur per motivi umani, e senza il merito di quei più alti motivi che il cardinale Federigo gli ricordava, non avrebbe piegato innanzi alle minacce di Don Rodrigo, e non avrebbe gravato la propria coscienza dell'oblio di un dovere così importante per un sacerdote, come quello di esercitare fino in fondo le sue funzioni parrocchiali, nonostante tutti gli ostacoli che potessero da altri venir frapposti. Ed ecco rinascere entro l'educazione cristiana stessa la necessità d'una «politica della virtù». Poiché il Crispolti rammenta certo che «sta scritto: non tentare il Signore Iddio tuo» e che, confidare in un dono direttamente divino per dirigersi nelle difficili vie della virtù, sarebbe pretendere troppo da Dio, onde la illuminata pietà e la saggezza pedagogica non possono su questo punto non andare d'accordo colla ben intesa umiltà cristiana nell'accumulare il maggior numero possibile di difese contro le suggestioni al male. Al chierico non meno che al laico, l'educatore dovrà dire : “Se l'occasione se ne presenti, voi dovete già esser preparati perché non vi trattengano né i disagi né i rischi. La strada regale di questa preparazione sarebbe quella di sentire il valore degli atti meritori, con tanto ardore da sormontare in grazia sua qualunque ostacolo anche improvviso. Ma v'è una strada più modesta, e che ad ogni modo deve esser battuta anche perché a mani educatrici riesce più sicuramente il condurvi in questa che in quella: e consiste nel rendervi familiare la lotta contro quei rischi e quei disagi, seppure lì per lì essa non mostri di servire a nulla” (p. 49-50). La «strada più modesta» è appunto la politica della virtù, sebbene concepita in un senso diverso da quello consentito nell'economia d'un'etica immanentistica come quella del Croce. Poiché qui è successa una inversione per cui ciò che là era fine morale, è diventato mezzo pedagogico nella nuova gradazione di valori richiesta dall'etica religiosa. Per la quale, le virtù nel significato umano della parola, comprendendo fra di esse non pur quelle che sorgono sul vero e proprio terreno praticomorale, come il coraggio o l'abnegazione od altro, ma altresì quelle che sono immanenti in qualsiasi altra funzione dello spirito, come poniamo la genialità estetica o il vigore speculativo, debbono necessariamente avere alcunché di imperfetto, frutto appunto del loro carattere umano: allegarsi, cioè, con una certa dose di orgoglio, compiacenza di sé, soddisfazione, che le rende tutte «più o meno passionali» perché presentano all'uomo, qualunque sia la somma d'ostacoli ch'esse offrono, il loro esercizio sempre come un allargamento e una esaltazione del proprio io. Di contro ad esse sta la vera, perfetta, suprema virtù: la santità, l'unica che non si fondi per sussistere sopra siffatto stimolo, ma sopra una diretta ispirazione di Dio. Talché, appellarsi alle une per rendere possibile o, comunque, preparare, facilitare, supplire l'altra, significa da un punto di vista religioso ricorrere già ad una «politica della virtù»: non perché si sia facilitata la virtù ricorrendo alla dialettica delle passioni come nell'etica immanentistica, ma perché, esorbitando la virtù «pura» dai mezzi di educazione umana, si è ricorso per garantire l'uomo dal male ad un sistema di virtù «umane» e perciò già in sé stesse «passionali». Conclusione di tutto ciò è dunque per il Crispolti che l'educazione cristiana, ben lungi dal disinteressarsi delle doti umane, deve e può servirsene come di mezzi atti a facilitare potentemente quell'economia delle virtù che solo anime eccezionalmente ispirate da Dio possono raggiungere d'uno slancio. Deve, cioè, in ultima analisi, prendere anch'essa in considerazione il curriculum della consueta pedagogia, evitando due errori egualmente pericolosi come la dissociazione delle attività umane dal fine religioso e, insieme, la incauta persuasione che l'uomo pio sol perché pio riesca eccellente in tutti i campi del pensiero e della vita. Incominciamo dall'educazione fisica, di cui il Nostro si occupa nella lettera su l'educazione cristiana del coraggio materiale per riprendere acutamente, dal proprio punto di vista, quel concetto della pedagogia moderna secondo cui il rinvigorimento del corpo non è già la formazione del «robusto ed agile animale», bensì quella del robusto ed agile uomo, che ha l'obbligo di preparare il proprio organismo fisico a tutti gli sforzi necessari all'adempimento dei propri doveri di essere spirituale. Al qual proposito bene osserva il Crispolti, parlando delle società cattoliche di educazione fisica, il loro carattere religioso dover consistere, non tanto nel titolo di cattoliche o nel compimento, in esse, di funzioni sacre, quanto nel tener sempre presente alle menti giovanili «lo scopo di far servire le membra fortificate all'adempimento degli obblighi virtuosi e di ciò che nella virtù sopravanza l'obbligo... cosicché imparassero con precisione a tenere dentro i giusti limiti la loro progressiva vigoria» (p. 48). E quindi ai troppo facili satireggiatori della «ginnastica cattolica», il Nostro può con ragione rispondere che, oltre a una ginnastica, ben vi può essere anche una «cucina» cattolica, da quando in alcuni giorni della settimana si preparano nelle case dei cristiani i cibi di magro. E se la Chiesa non sdegnò di porre il suggello religioso su un'operazione umile come il mangiare, perché la pedagogia cristiana sdegnerà di porre la stessa impronta su qualsiasi attività umana? «Non si andrà incontro così ad un pericolo nuovo, che, sviluppando per mezzo della stessa educazione religiosa il pieno valore della persona umana, questa diventi superba?» (p. 72). No certo, se teniamo presente che la pedagogia cristiana ha in mano il più potente dei mezzi, per combattere quella superbia ingiustificata, nella cultura dell'opposto sentimento dell'umiltà; cultura che e insieme, ancora, un dovere religioso ed un ottimo espediente pedagogico. L'opinione che ai giorni nostri si ha dell'umiltà cristiana, ben osserva il Crispolti, è spesso quella ch'essa consista soltanto nell'«ansia costante e smaniosa di stornar gli occhi dal proprio io, per il pericolo di potervi scoprire dei pregi e provarne compiacenza» (p. 74). È un concetto negativo dell'umiltà ben diverso da quel concetto positivo che si ritrova nella tradizione cristiana e medioevale (si ricordi il titolo di donna umile dato a Beatrice), secondo cui invece «l'umiltà è concepita in forma positiva, come un avanzare non come un fuggire, come una confidenza, non come un viluppo di precauzioni » (p. 74) e consiste nel dimenticarsi di sé stesso a tal punto da non aver tempo di starsi a considerare, ma insieme nel sapere che il proprio valore e la propria bellezza accrescono il pregio dell'offerta di sé fatta a Dio. Sentimento che, fatta la solita riserva dell'ardente amor divino il quale assorbe d'un subito in sé la creatura e le rende disgustoso ogni amor proprio, si può raggiungere pedagogicamente in grado meno splendido «col solo riverire la verità, quella verità che ci fa conoscere il nostro nulla verso Iddio e la difficoltà di misurare sia il valore vero dei fratelli, sia la fragilità di qualsiasi maggior pregio che ci elevi sopra di essi» (p. 77). Ogni cosa nel mondo dello spirito è frutto di umiltà, le grandi opere «sorsero sempre in un'ora di umiltà, ossia d'abbandono, di dimenticanza di noi, verso qualche cosa che era fuori di noi. Non sarà stata sempre umiltà verso Iddio; sarà stata umiltà verso la scienza, l'arte, la patria, l'umanità o che so io» (p. 81). La filosofia qui rincalza la religione, nessun filosofo potrebbe rifiutare di sottoscrivere queste parole. Il concetto pagano della immortalità come gloria è tramontato irrevocabilmente appunto dopo il sorgere del concetto cristiano della umiltà. Questa introduzione dell'umiltà come principio fondamentale nel sistema della pedagogia cristiana, porta alla benefica conseguenza cui già abbiamo accennato, che, cioè, l'educatore religioso non meno del laico acquista il dovere di preoccuparsi della formazione della attività umana in base alle sue immanenti leggi, senza presumere che la fede religiosa basti per se stessa a rendere automaticamente l'uomo eccellente in tutti i campi della scienza, dell'arte, della vita. Prendiamo ad esempio un altro punto del curriculum pedagogico: la cultura intellettuale. Ecco un caso in cui l'umiltà cristiana sanamente intesa consiglia l'uomo a irrobustire il proprio intelletto e a renderlo erudito e agguerrito in ogni sorta di discipline, perché che razza di fede, sarebbe quella che non comandasse alla creatura di offrire a Dio le primizie della sua intelligenza e, nello stesso tempo, di rendere questa offerta sempre maggiore con l'accrescere, mediante lo studio, il valore della propria intelligenza stessa? La fede del carbonaio è bellissima, ma nel carbonaio. Il dotto ha altri e più complessi doveri verso Dio: e l'uomo in genere, pur non mancando di rispetto verso il carbonaio, ha anche l'altro dovere, implicito della sua natura di essere pensante e razionale, di avvicinarsi quanto più può alla condizione del dotto e non a quella del carbonaio. Non fa nulla che ci fossero dei santi poco dotti e delle cose di Dio e delle discipline umane; al solito, noi non possiamo «tentare Iddio» pretendendo ch'egli estenda a tutti quel dono della sua diretta ispirazione che solo in casi eccezionali sopperì, unico, a tutte le umane deficienze. Talché, tratte le somme, il cattolico non solo ha, come il laico, il dovere di addottrinare l'intelletto nelle discipline umane, bensì, in più, il dovere di rivolgere la sua mente allo studio delle cose divine, e di fornirsi d'una cultura religiosa quanto più estesa può. D'altra parte, osserva col consueto acume il Crispolti, la cultura può anch'essa recare in più modi soccorsi umani alla fede, fra l'altro, associando ad essa le compiacenze della vita intellettuale. «Le quali sono grandissime; innalzano la natura umana, seppure non valgono a salvarla da tutto il male, come si credeva nei tempi recenti in cui fu di moda la formula stolta e subito smentita dai fatti "ogni scuola che si apre è un carcere che si chiude "; ci salvano... dai gusti bassamente viziosi; moltiplicano i nostri rapporti con le cose, ossia il nostro senso del vivere; procurano all'uomo una esplicazione dell'attività ed un interessamento che unico dura oltre la giovinezza e la maturità degli anni » (p. 137). Ch'è, in fondo, lo stesso principio della cultura come disciplina dello spirito su cui si fonda la pedagogia moderna, ma opportunamente ristretto con una osservazione che meriterebbe d'esser discussa da vicino in sede pedagogica. Il sapere è certo un potentissimo esercizio di superamento dei propri impulsi particolari a beneficio d'una legge superiore, ma può esso bastare da solo alla formazione del carattere morale? Il cattolicesimo e la Chiesa hanno da molto tempo risposto di no, e hanno disposto tutto un sistema di pratiche dirette precisamente alla disciplina della volontà, per esempio gli esercizi spirituali di Sant'Ignazio. In ogni modo, chiudendo questa breve parentesi, il Crispolti ha in materia di cultura religiosa le stesse idee dei grandi pedagogisti che, cattolici o no, si travagliarono su questo problema, ad esempio, di Froebel o della Necker de Saussure. Qualunque sia l'importanza d'una elaborazione dottrinale, filosofica della religione, che insegni all'uomo a credere «secondo spirito e verità» è certo ch'essa va preceduta dalla conoscenza immediata della religione stessa in tutto il suo complesso di riti, culti, precetti e loro applicazioni; così come lo studio della filologia non può nascere se non dalla diretta conoscenza e dall'uso delle lingue. La religione deve, per usare un'espressione cara a quei grandi pedagogisti, crescere con l'uomo stesso: essere sentimento, pratica, culto, prima che filosofia o teologia. Argomento sempre importante per quanti, come noi, vogliono nella scuola un insegnamento religioso vero e proprio che cominci col catechismo e credono un assurdo sogno illuministico quello di assicurare l'educazione religiosa a una vaga religiosità circolante un pò dappertutto nella vita spirituale. Qualcosa di simile al già detto per la cultura intellettuale, ripetasi per la cultura estetica ove il principio dell'umiltà riceve un'altra importante applicazione pedagogica nella lettera su i pericoli della letteratura apologetica nuova. Ove il Crispolti ha avuto sott'occhio i gravi pericoli cui può andare incontro oggi una letteratura o una poesia che dal cattolicesimo voglia trarre, insieme ai propri motivi d'ispirazione, anche una presunzione della propria superiorità su l'altra letteratura o poesia non cattolica. Qual è, insomma, la ragione per cui il cattolicesimo non ha, oggi, poeti suoi da contrapporre, poniamo, a un D'Annunzio o ad un Pascoli? La ragione è sempre la stessa: pretendono gli artisti cattolici «di poter ricevere o tradurre nelle opere le ispirazioni artistiche (della fede), senza nessuno sforzo da parte loro». Tutta la fatica, secondo loro, dovrebbe farla Iddio. Pretendono quindi che ogni opera di soggetto religioso, purché lastricata di buone intenzioni, ottenga il favore della critica a preferenza di opere anche elaboratissime di autori profani od avversi. Quando poi debbono essi stessi confessare che i Canti di Leopardi così lontani dal Cristianesimo, valgono più dei canti loro, non sanno come raccapezzarsi; quasi sembra loro che la fede abbia fatto torto a se stessa. Non si rassegnano a riconoscere di non aver fatto verso la fede tutti gli sforzi di dottrina e di meditazione, necessari a rendersi i degni interpreti di lei. Non si piegano a confessare che non è colpa della luce ma della deficienza o pigrizia loro, se anche questa volta «i figli delle tenebre» sono stati più prudenti dei figli della luce ( p. 163). Ciò è quanto dire che, dal punto di vista pedagogico, anche l'attività estetica ha bisogno d'un apposito tirocinio dal quale nessuna fede religiosa può dispensarci. Ma la seconda applicazione dello stesso principio che nel campo estetico fa il Crispolti, viene esplicitamente incontro a quanto il pensiero moderno in sede filosofica e pedagogica ha via via elaborato in materia: ove si pensi che la degenerazione dell'arte in vuota “letteratura” e il conseguente ridurre la cultura estetica a una artificiosa ricerca di parole e di frasi atte a far colpo sul lettore o di esempi di “bello scrivere” contro cui la critica moderna ha tanto combattuto, è sempre frutto, secondo il Crispolti d'un difetto opposto all'umiltà cristiana: della vanità che ai pensieri veri e alle convinzioni sincere, preferisce i pensieri nuovi o i sentimenti mirabolanti. Umili perché casti «parchi e lontani da tutti quegli artifici che, piacendo ad un gusto passeggero, fanno così facilmente il nido alla vanità» gli scrittori classici: umili tutti coloro che non pensarono a scriver bene, ma «presi da alti pensieri, da alti affari o da alti scopi morali, ossia tanto assorbiti dalla gravità del proprio tema che la parola si facesse umile innanzi a quello» (p. 158) riuscirono, perciò solo, necessariamente grandi scrittori. E inversamente, grandi scrittori sono non soltanto quelli che fecero professione di letterati, bensì «uomini in qualunque campo grandi, cioè tali, che a qualche cosa di superiore la loro parola abbia dovuto umilmente ubbidire» (ibid.): talché, per esempio, i Francesi bene hanno fatto a far rientrare fra i classici della loro letteratura anche San Francesco di Sales e Napoleone. Una siffatta riforma della storia letteraria sulle basi dell'estetica moderna quale si è affermata dal Croce in poi avrebbe in più per il Crispolti questo di interessante nel senso cattolico: che giustificherebbe l'introduzione dei grandi santi a maestri d'espressione letteraria oltrechè di vita. Ma sopratutto interessante in queste osservazioni che il Crispolti viene con tanta finezza facendo intorno a questioni educative, si è ch'egli molto spesso arriva a toccare sul viso i più importanti problemi dibattuti dal pensiero pedagogico e filosofico moderno, pur senza avere di questo pensiero una conoscenza diretta ed approfondita (come si vede ad esempio dalla lettera su Le precauzioni intellettuali contro gli errori religiosi, in cui nel parlare delle ragioni scientifiche di dubbi intorno alla religione, ricorda il positivismo e lo scientismo, ma non fa cenno dell'idealismo immanentistico postkantiano). Ciò riesce una ottima conferma della bontà di quel procedimento se anche qua e là porta l'autore a qualche inevitabile incertezza. Diamone degli esempi, scegliendo tra i numerosi argomenti trattati in queste lettere pedagogiche. Nella lettera quinta, toccando dei rapporti fra la pedagogia e la morale, il Crispolti afferma che la certezza di quest'ultima la quale determina il fine della vita non può estendersi alla prima, la quale invece determina i mezzi per attuare il fine stesso e va perciò soggetta a un'inevitabile incertezza data dalla infinita varietà dei temperamenti, delle attitudini, delle situazioni spirituali cui quei mezzi debbono applicarsi. Sta bene. In linguaggio più propriamente filosofico si direbbe che la pedagogia è sempre sospesa a una concezione totale della realtà, in base a cui viene determinato quello che il nostro chiama appunto «il fine». Ma ciò non implica soltanto superiorità gerarchica dell'etica o di qualsiasi altra scienza sulla pedagogia. Poiché il legame è reciproco, e se la pedagogia ha da fare i conti con l'etica e con tutto il sistema delle scienze dello spirito, viceversa anche l'etica e la filosofia tutta hanno da fare i conti colla pedagogia, hanno da preoccuparsi, cioè, che il loro concetto della realtà sia tale da rendere possibile la educazione. Ne fa fede il Crispolti stesso, il quale non potrebbe mai accettare, poniamo, un concetto giansenistico o falsamente predestinazionista del cristianesimo, fra altre ragioni perché lo sguardo da lui dato ai problemi pedagogici gliene chiarirebbe l'assurdità, e infatti da quel punto di vista non è concesso, se non per una felice incoerenza, parlare di educazione. È questo proprio il caso in cui una diretta conoscenza delle questioni recentemente dibattute nel campo filosofico sui rapporti della pedagogia colle scienze filosofiche, avrebbe giovato al Nostro. Parimente altrove, nella lettera tredicesima ove, a ragione, combattendo la falsificazione delle idee intorno al fanciullo che una grossolana psicologia ha introdotto nei metodi educativi moderni, egli pone la mano su una questione importantissima, e vi sorvola su senza approfondirla. Si deve sfruttare la capacità intuitiva e immaginativa del fanciullo per introdurlo al più presto nel mondo spirituale degli adulti, oppure val meglio cominciare con l'indugiarsi insieme a lui nel suo mondo fanciullesco? Sia il caso del linguaggio: «voi vedrete — dice il Nostro — che in tutti i luoghi e in tutti i tempi, i genitori, invece di valersi immediatamente di questa disposizione meravigliosa per abituarlo a pronunziare le parole esattamente conversano con lui ripetendogli le parole storpiate ch'egli incomincia a pronunziare» (p. 132). È il principio del “punto di partenza” da trovare nell'animo dell'alunno. Ma il Crispolti, con queste sue parole, viene a dubitare che esatta conseguenza di quel principio sia l'identificazione assoluta del mondo spirituale del fanciullo con quello dell'adulto, come vorrebbe la pedagogia idealistica moderna, per la quale il mezzo più sicuro di educare il fanciullo è quello di imporgli decisamente - sia pur con le debite precauzioni - il mondo spirituale dell'adulto. Il Crispolti giustifica qui, in certa guisa, l'idea di un mondo fanciullesco, d'una letteratura per ragazzi e di altre simili cose respinte da alcune correnti della pedagogia moderna. Valeva la pena che egli approfondisse questo suo dissenso e ne sviscerasse bene le ragioni. Ma queste piccolezze sono poi un niente, in confronto alla piacevole urbanità con cui il Crispolti profonde il suo ingegno intorno ad una quantità di problemi importanti, che il tirannico spazio ci vieta di discutere, come pur ci piacerebbe, con lui. Ci sia concesso, prima di finire, di esprimere ancora un consenso e un dissenso. Un consenso per quanto egli scrive nella sua lettera ventunesima sulla cultura femminile. La quale, perciò che il pensiero moderno ha proclamato, dopo il cristianesimo, al di là di tutti i preconcetti naturalistici, l'eguaglianza spirituale dell'uomo e della donna, non per questo ha cessato di essere un problema, per il complesso di funzioni e d'abitudini diverse da quelle maschili che fa della donna un essere, pur pari di natura e di valore all'uomo, ma che si presenta tuttavia fornito d'una sua specifica fisionomia di cui l'educatore non può non tener conto. L'aver dimenticato questo ha portato come effetto nella società moderna una duplice piaga che il Crispolti ben analizza: quella delle donne ignoranti da un lato, e quella delle donne pedantescamente saccenti dall'altro. Il che si deve appunto, secondo il Crispolti stesso, all'aver preteso di istruire, quando si è istruita, la donna, cogli stessi procedimenti scolastici che si erano mostrati efficaci per l'uomo, «come se tra i licei femminili e l'ignoranza non ci fosse nessuna via di mezzo». E invece non si è pensato alla differenza di abitudini mentali per cui l'uomo, presto distratto nella vita da un tumulto di nuovi interessi è più spregiudicato, reagisce con un salutare oblio all'eccessivo pedantismo del sapere scolastico, conservandone solo il nocciolo vitale, mentre la donna, più docile e più rinchiusa nei doveri domestici, si assimila dalla scuola il sapere con tutto l'apparato pedantesco con cui fu impartito. A questo inconveniente c'è, per il nostro un rimedio: dare alla donna nella scuola solo i primi indispensabili elementi, e lasciare all'educazione familiare e sociale la cura di fare il resto. «La più elevata e piacevole erudizione delle donne è quella acquistata involontariamente nella conversazione colla gente eletta. Per un padre colto che desideri le figlie colte non v'è miglior via; farle partecipare in modo insensibile e continuo alle sue alte occupazioni, svegliare in loro non soltanto l'intelligenza delle cose serie, ciò che è agevole; ma l'interesse verso di esse, ciò che è più difficile» (p. 200). Non importa se per questa via la donna non otterrà delle idee precise e collegate sistematicamente fra loro: per chi non debba proprio compiere un lavoro determinato in un certo campo dello scibile come l'uomo, il beneficio della cultura sta non nelle singole idee che dà, ma nella elevazione spirituale che procura all'animo; elevazione per cui la donna «non pretenda di scoprire né di classificare, ma giunga a compiacersi nella visione delle cose alte; non s'affanni a far camminare il mondo, ma possa accompagnarlo nel suo cammino, ad ocelli aperti e con amore» (p. 202). Giacché la difficoltà della cultura femminile è tutta qui, non nel far assimilare alla donna un certo contenuto, cosa di cui essa è tanto capace quanto l'uomo, bensì nel suscitare in essa il senso dell'importanza e del valore di ciò che studia; cosa assai più difficile. Istruire la donna «è una difficoltà non intellettuale ma morale; è una coltivazione non dell'ingegno ma dell'animo» (pp. 200 - 201). Osservazioni tutte giustissime e sulle quali con qualche ben intesa riserva, siamo d'accordo col Crispolti. La riserva, se mai, sarà questa: che vi sono donne nelle quali una eccezionale formazione interiore ha suscitato il bisogno di studi più alti, e alle quali perciò non è possibile rifiutare la stessa cultura dell'uomo, anche se esse siano per far valere in quella interessi tutti propri diversi da quelli dell'uomo e per occupare, nella repubblica delle lettere, un posto a sé. La stessa necessità di collaborare con l'uomo per fondare l'unità spirituale della famiglia, può render talora necessaria alla donna anche una completa cultura scolastica, giacché pur fra gli uomini ci sono in tal senso differenze, e ciò che basta magari alla moglie di un colto professionista avvocato, ingegnere ecc., può non bastare alla moglie d'un grande poeta, d'un celebre filosofo, d'un illustre scienziato, i quali di necessità richiedono alle loro donne una più robusta formazione mentale e una ben più vasta cultura per esserne anche soltanto accompagnati, seguiti, intesi nell'esercizio delle loro attività. Ed eccoci ora al dissenso. Parlando della cultura e dell' arte pratica della vita, il Crispolti torna a proporsi indirettamente, per conto suo, la vexata quaestio dei rapporti fra teoria e pratica, pensiero e vita. E, naturalmente, vede da par suo la diversa formazione mentale richiesta agli uomini d'azione e agli uomini di pensiero, nonché la diversità di funzioni a cui gli uni e gli altri sono chiamati. Ma appunto questo poi gli suscita un dubbio: non sarebbe, per caso, la troppo intensa cultura intellettuale un grave ostacolo allo sviluppo del senso pratico? «Mi sto domandando se il guardarsi attorno intelligentemente senza posa; l'elevare alle regioni del pensiero tutto ciò che ci ferisce la vista, ossia il menare una vita intellettuale intensa, che debitamente frenata dalla ponderazione può darci frutti copiosi, originali e buoni nelle lettere e nelle scienze, non ci renda più inetti all'alta vita pratica, di quel che facesse la vecchia abitudine degli studi accademici e degli sfoghi retorici, nei quali la mente non osservava e si può dire non pensava, ossia non acquistava nessuna verità intorno al mondo e agli uomini, ma si contentava di baloccarsi colle parole. Probabilmente questa vuotaggine, funestissima alle scienze e alle lettere, lasciando in riposo e come da parte la capacità quasi istintiva di sapersi regolare cogli uomini e di saperli regolare, la conservava intatta» (pp. 191 - 192). E che ciò possa essere e sia, nel fatto, stato, anzi, che tutto ciò rappresenti la soluzione più spiccia del problema della cultura pratica, che nella maggior parte dei casi viene appunto risolto lasciando inaridire nell'uomo le opposte tendenze alla speculazione, va bene. Ma che possa diventare, sia pur a titolo d'ipotesi, un ideale pedagogico, no: le soluzioni più spicce non sono sempre, in educazione, né le più efficaci né le migliori. Il Crispolti qui si è fatto prender la mano, mi sembra, dalla natura stessa degli esempi che arreca a conforto della sua tesi: d'un Cavour, d'un Bismark, d'un Napoleone che, pur forniti di mediocri attitudini alla scienza e d'un mediocre sapere in materia di dottrine politiche, riuscirono più vastamente pratici ed efficaci nel governo degli uomini, di altri magari più di loro valenti nel campo dottrinale, sia pur della cultura politica stessa. Dove giusta è l'osservazione, ma ingiusta la conseguenza pedagogica che il Crispolti sospetta se ne possa trarre. Trascuriamo, anzitutto, di far la vecchissima questione se davvero quegli uomini dovessero dirsi meno colti di altri, o se, invece, la vera cultura politica non fosse proprio da parte loro e da parte degli altri soltanto l'apparenza libresca di esso o la morta erudizione. Limitandoci, invece, solo agli aspetti del problema che possono offrire qualche maggior interesse di novità, il Crispolti aveva qui proprio nel cattolicesimo un criterio per scoprire il punto di vista sotto cui la innegabile grandezza di quegli uomini ci si rivela inadeguata a un ideale educativo. Il secolo XIX infatti (per restringere solo ad esso il discorso) produsse queste grandi personalità tutte assorbite dal fuoco dell' azione: ferocemente chiuse o addirittura diffidenti ed ostili verso ciò che non interessasse la loro opera pratica (si pensi allo spregio di Napoleone verso gli « ideologues »!). E che siffatte personalità dovessero nascere e adempissero una necessaria funzione storica, non è dubbio. Ma, appunto per quella loro unilateralità di cui essi stessi, prima o poi, rimasero vittime, la loro fu una grandezza direi quasi barbarica e pagana consumatasi tutta nell'atto stesso dello sforzo, del dominio, dell'imperio divenuto fine a sé medesimo. Lo sgomento del Manzoni che innanzi alla morte di Napoleone si domanda: «fu vera gloria?» e non sa rispondere se non col rappresentarsi l'interna tragedia di quell'anima arbitra fra due secoli, due volte sbalzata dal trono alla polvere, e pacificata solo in fine, là, «dove è silenzio e tenebre la gloria che passò»: lo sgomento del Manzoni temperamento insieme e cristiano e moderno, è molto significativo ove si pensi che cristianesimo e modernità bene intesa sono in ultima analisi concordi nel richiedere a chiunque, uomo teoretico o pratico che sia, di ricordarsi anzitutto d'essere uomo; cioè, azione, sì, ma anche pensiero; sforzo e volontà di conquista, sì, ma anche contemplazione delle cose divine e raccoglimento interiore. L'uomo pratico che non frena se stesso con l'esercizio del pensiero, che disavvezza la mente dal considerare sé e le cose sub specie aeternitatis, potrà acquistare sì una intensissima facoltà di dominio su sé e sugli altri, ma finirà fatalmente col perdere ciò che col Crispolti chiamerò il senso dell'umiltà: il senso della necessaria subordinazione del proprio agire ad una realtà superiore, la religiosità, senza cui anche le più grandi opere restano edificate sulla sabbia. Specificazione eccessiva significa sempre unilateralità e unilateralità significa limite: ora, come educare in base a un limite, sia pur ragionevole quanto si voglia? Quell'ideale napoleonico di grandezza è andato, del resto, consumandosi da sé per istrada; e oggi è consueto lamento, innanzi alle situazioni storiche intricate, che ahimè non nasca più un Napoleone per districarle; lamento in cui, pur fatta la dovuta parte all'esagerazione e tenuto presente che ogni secolo ha sempre, prima o poi, i suoi grandi uomini, c'è questo di vero, che la qualità di grandezza politica richiesta nel complicatissimo sistema della vita moderna, è una forma di grandezza più umile, meno appariscente, più cristiana, direi, ma non per questo meno reale. È grandezza più, nel buon senso della parola, democratica, che aspetta meno dalle personalità eroiche e più dal quotidiano eroismo di ciascuno, dalla illuminata dedizione di tutti al proprio dovere. È la necessità per ciascun uomo di scienza di lasciare quando occorra la sua torre d'avorio per sobbarcarsi a compiere quei doveri, maggiori o minori, che la vita pratica gl'impone; è la necessità, per ciascun uomo pratico, di avere delle idee e di fare gli sforzi richiesti a formarsi un chiaro concetto della realtà entro cui bisogna operare. Dopo il lungo, tormentoso esperimento di oscillazione fra la democrazia e l'imperialismo che, dalla rivoluzione francese in poi hanno attraversato le grandi nazioni europee, le virtù puramente “politiche”, la pura e semplice capacità di dominio sugli uomini, hanno perso credito; e, in tempi recentissimi, si è più volte assistito all'istruttivo spettacolo di individui espertissimi nel maneggio pratico degli uomini e delle cose che non hanno più saputo orientarsi in mezzo alla nuova situazione creatasi nello spirito contemporaneo, e hanno dovuto rassegnarsi a clamorosi insuccessi. Dirò al Crispolti, tornando a parlare in termini più strettamente pedagogici, che non è affatto dimostrato che il miglior mezzo per coltivare un'attitudine sia quello di inaridire tutte le altre. E, ad evitare un discorso troppo lungo, gli ricorderò che le attività spirituali si coltivano sì con l'esercizio, ma anche con un opportuno riposo e che, d'altra parte, ogni attività presuppone per il suo normale sviluppo lo sviluppo parimente normale di ogni altra attività, non essendo qui il caso di trasformare in regola le eccezioni per cui grandi personalità poterono colla sola forza del loro intenso volere colmare d'un subito in sé, le deficienze e lacune di tal genere. L'antica abitudine della retorica accademica sembra al Crispolti il modo con cui gl'italiani protessero e lasciarono crescere il loro senso pratico: ed è strano che a questo proposito altri pedagogisti - ad esempio il Gabelli - abbiano attribuito al genio italiano carattere proprio opposto ed abbiano inteso quella stessa retorica come eccessivo sfogo dato alla speculazione e all'immaginazione a scapito delle doti pratiche che si sarebbero cosi inaridite. Ciò dimostra certo come sia difficile raccogliere in una formula generale i caratteri d'un popolo che si sono venuti formando attraverso il multiforme sviluppo di parecchi secoli. Ma ciò dimostra anche, a parer mio, come sia rischioso l'interpretare il fiorir delle grandi personalità italiane, dalle Signorie in poi, a beneficio d'un singolare incremento dello spirito pratico in Italia. Quelle grandi personalità sono spesso (mi si conceda l'espressione) retoricamente individualiste: la loro attività politica si consuma in sé stessa come un sogno, o come - fu già notato a proposito del Rinascimento - un'opera d'arte che non ha risultati fuori della sua bellezza; raramente si inquadrano nell'armonico insieme d'un sistema che le perpetui e le fecondi. E in quanto esse ci offrono siffatte deficienze, dimostrano appunto che l'abitudine della retorica fu, in ogni campo, teoretico e pratico, un difetto dello spirito europeo e non solo italiano. Giacché v'è una retorica della pratica, consistente appunto nel fatto ch'essa, esaltata per sé sola, finisce col non esser più pura pratica, ma col farsi di sé medesima una religione e una filosofia: filosofia dello sforzo, del dominio dell'eroismo, della Realpolitik, dell'astratto machiavellismo, che noi moderni ben conosciamo sotto tutte le possibili forme e ch'è una concezione unilaterale della realtà in servigio dei puri fini pratici, la quale deforma coi suoi schemi ciò che lo stesso sano istinto pratico (che non è mai praticistico) ispirerebbe. Significa ciò, forse, che bisogna trascurare una cultura specifica delle attitudini pratiche? No certo: significa solamente che l'educazione ha da formar tutto l'uomo, e che attitudini pratiche e attitudini teoretiche possono essere e sono, distinte, ma non è possibile, né desiderabile, che diventino opposte. L'INSEGNAMENTO RELIGIOSO NELLE SCUOLE ELEMENTARI Non è ancora spenta l'eco delle discussioni suscitate dal discorso di Giovanni Gentile per la inaugurazione dell'Istituto fascista di cultura napoletano: discussione alla quale organi autorevolissimi (come l'Osservatore Romano e Il Popolo d'Italia) hanno recato il loro contributo. Noi non pretendiamo certo partecipare a un dibattito nel quale è meglio che le competenti autorità politiche e religiose siano lasciate libere di esporre come meglio credono il loro pensiero, al di fuori di ogni altra minore e, necessariamente, più limitata polemica. Ma, posto che «I Diritti della Scuola» hanno creduto opportuno fare qualche osservazione in materia, sia pur contenendola esclusivamente nel campo che può interessare la scuola, e la scuola elementare in special modo, non sarà male che anche noi aggiungiamo, sulla stessa materia, qualche altra osservazione in margine, se così può dirsi, a quelle fatte, - del resto, giova riconoscerlo, con molto garbo e molta cortesia - dalla Rivista romana. Notano, dunque, «I Diritti della Scuola» che l'insegnamento religioso nella scuola elementare attende ancora la sua definizione precisa. A norma del decreto 1 Ottobre 1923, doveva trattarsi, come pare ovvio, d'un insegnamento impartito secondo la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica. Ma i programmi didattici, e la circolare dell'on. Gentile del gennaio 1924 sembrano invece, al redattore de «I Diritti», ispirati a una ben diversa concezione. Non «arido dottrinarismo» o «meccanico formalismo» ma «poesia e quasi canto della fede», doveva essere l'insegnamento religioso; e non più la Chiesa, ma l'opera religiosa del Manzoni e le figure più edificanti del suo romanzo, erano additati come guida a questo nuovo lavoro del maestro. E il significato di quelle espressioni è, sempre secondo i «Diritti della Scuola», molto chiaro. Ci si permetta di riferirne le testuali parole: «La tendenza era dunque sempre più verso una educazione religiosa che parlasse al cuore del fanciullo, che facesse vibrare la sua anima ingenua dei sentimenti più puri, delle più sante aspirazioni a una vita di bene per sé e per gli altri. Alla Chiesa, se mai, l'insegnare la dottrina cristiana nella sua veste letterale, non sempre accessibile al fanciullo; alla scuola il proiettare la luce e il calore della fede sui fatti umani, sul cammino che il fanciullo dovrà percorrere nella vita. È avvenuto invece l'opposto. A poco a poco l'insegnamento religioso si è irrigidito nella teologia, nella liturgia, nei dogmi e nei misteri; si è schematizzato nell'aridità del dialogo catechistico, anzitutto nelle scuole dove l'ora di religione viene assunta dal sacerdote; e poi via via anche nelle altre, perché il sacerdote rimane sempre il giudice del maestro, accompagnandosi all'ispettore per verificare se e come la religione si impartisce; ed egli non sa, il più delle volte, deflettere (e forse non deve) dalla lettera dei sacri testi». Noi non vogliamo rivolgere a «I Diritti della Scuola» alcun rimprovero: le stesse cose sono state dette tante altre volte, e con intonazione assai meno cortese, che, quanto alla forma, noi, e con noi i cattolici tutti, non abbiamo nulla da eccepire. Ma è impossibile trattenersi dall'osservare che, pur sotto la loro forma deferente e garbata, quelle parole celano una sostanza ben amara per la religione Cattolica e per i suoi ministri. L'argomentazione de «I Diritti » si basa tutta su un presupposto, pacificamente e...tacitamente ammesso come incontrovertibile verità, della quale nessun uomo, sano di cervello, potrebbe minimamente dubitare. Ecco il presupposto: la «teologia», la «liturgia», i «dogmi» e i «misteri» costituiscono, non già la religione ma un suo «irrigidimento»: il catechismo è, non la formulazione dottrinale precisa della fede cattolica, ma un «arido dialogo», e l'uno e gli altri sono poi assolutamente incompatibili con l'«anima ingenua», le «aspirazioni sante», i «sentimenti puri» del fanciullo e dell'uomo. Il sacerdote e la Chiesa di cui egli è ministro non possono portare nella scuola che «arido dottrinarismo» o «meccanico formalismo»: se volete la «poesia» e il «canto» della fede, dovete rivolgervi altrove. Non c'è, dunque, che prendere o lasciare. Se tenete il decreto Gentile 1 Ottobre 1923, insegnerete la religione secondo la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica, cioè con tutto il bagaglio del Catechismo, della Liturgia, della Teologia, ecc. - ma avrete l'«arido dottrinarismo» che si voleva evitare. Se v'appigliate, invece, ai programmi didattici o alla circolare del Gennaio 1924, avrete il canto, la poesia, i sentimenti puri e l'anima ingenua, ma vi converrà gettare a mare la Chiesa, i sacerdoti, la teoria, la prassi e l'insegnamento cattolico. Evidentemente, fra due posizioni così diverse ed avverse, bisogna scegliere. E questo appunto domandano, con molto rispetto ma con molta fermezza, «I Diritti della scuola». Ripetiamolo ancora: sarebbe ingiusto addossare a «I Diritti» la responsabilità d'un cuore così largamente diffuso; tanto più diffuso quanto più corrisponde a un pregiudizio che, duole il dirlo, si trova talora anche fra gli stessi cattolici. La liturgia, arido formalismo! La liturgia opposta alla poesia ed al canto! La teologia opposta ai sentimenti buoni e alle aspirazioni generose! Ma brava gente - verrebbe voglia di dire - avete mai aperto un messale? Avete mai sfogliato un breviario? Avete mai assistito a una cerimonia religiosa? Intendo, assistito non come vi assistono le panche o i pilastri, ma comprendendone davvero, intimamente, tutte le parole e tutti gli atti? E sapete che il messale è fatto delle sacre scritture, e così pure il breviario? E che quelle sacre scritture sono i libri biblici, i profeti, i salmi, i vangeli, gli atti degli apostoli, le epistole di San Paolo e di altri, gli scritti dei Padri, i più begli inni cristiani e via discorrendo? E non vi pare che come «poesia» e come «canto» ce ne sia abbastanza da scegliere, anche per le persone di più difficile contentatura? Non sarò certo io a dir male del Manzoni e della sua opera; ciò nonostante, mi sembra che, poniamo, San Paolo, Isaia, o Davide siano a loro modo «poeti» non certo inferiori al grande nostro italiano: il quale, del resto, appunto da quegli o da altri simili autori, nonché dalla sua vasta cultura profondamente cattolica e ortodossa trasse, ad esempio, l'ispirazione dei suoi Inni sacri. Certo, si osserverà, non tutta la poesia delle sacre scritture è accessibile o comprensibile al fanciullo: ma, d'altra parte, è evidente che nemmeno siamo obbligati a spiegargliela tutta o tutta in una volta, o tutta collo stesso grado di profondità. E poi la liturgia non è solo nelle parole: è nella musica, nel canto, nell'azione del celebrante e degli assistenti, nel colore dei paramenti sacri, nella architettura stessa del tempio, elementi organizzati e concatenati da una sapientissima disciplina che riescono quanto mai plastici, sensibili ed «intuitivi» e parlano all'animo anche delle persone più illetterate. E la sapienza colla quale tutti quegli elementi sono proporzionati, volta per volta, alle circostanze e allo stato d'animo cui si riferiscono! Le Messe funebri, colla loro solenne mestizia, quelle della Natività, del periodo Pasquale e, in genere, delle grandi feste, colla loro trionfale esultanza; quelle dell'Avvento e della Quaresima col loro pensoso raccoglimento, quelle del periodo dopo Pentecoste colla loro luminosa serenità costituiscono un vasto poema - il ciclo liturgico - nel quale la natura medesima ha spesso la parola, e le luci e le ombre, i caldi o i geli, le stagioni e le opere, le più varie circostanze della vita e i fondamentali sentimenti dell'anima umana trovano necessariamente un'adeguata espressione. Poiché la Chiesa ha conosciuto molto prima dei pedagogisti il metodo «intuitivo» e colla musica, col canto, colle pitture, con l'architettura dei suoi templi e il suono delle sue campane, ha saputo parlare alle plebi illetterate quando ispettori, maestri, direttori, leggi scolastiche, letterali e poeti erano di là da venire! Certo, la conoscenza assidua e amorosa della liturgia non è, neppure fra i cattolici, oggi diffusa quanto si potrebbe desiderare. Ma il movimento liturgico, promosso e diretto dall’instancabile zelo e delle autorità ecclesiastiche e di molte organizzazioni cattoliche va facendo ogni giorno progressi. E basti qui ricordare l'opera della Società francese di San Giovanni Evangelista, e, fra noi, quella dell'Abate Emanuele Caronti per la volgarizzazione e la diffusione della liturgia: per tacere dei molti, ottimi testi per le scuole elementari, dove la liturgia ha, molto opportunamente, una parte notevole. Per gli amatori di «curiosità» pedagogiche ricorderemo gli esperimenti fatti in Ispagna, a tal proposito, col metodo Montessori; la partecipazione dei fanciulli all'Offertorio della Messa, mediante un'offerta che risuscitava le più antiche tradizioni della Chiesa: il grano e la vite coltivati, pure dai fanciulli, come materia delle specie sacramentali, e via dicendo. Tutti espedienti, senza dubbio, utili e giovevolissimi, ma che sono ben lungi dal costituire, come forse taluno potrebbe credere, una novità rispetto alla teoria e alla prassi della Chiesa, che ha sempre chiamato i fanciulli al servizio degli altari, come si può vedere persino nelle più remote parrocchie dei più remoti villaggi: anche senza le panchettine, le pilettine, gli inginocchiatoi minuscoli e tutto l'armamentario a scala ridotta del metodo montessoriano. E passo all'altro, apparentemente più scabroso argomento della «teologia» o del «catechismo», che sarebbe, in fondo, una teologia elementare per fanciulli, come la teologia è un catechismo degli adulti. Ora, la teologia è il pensiero di cui la liturgia è la esterna e multiforme espressione, è l'anima di cui la liturgia è il corpo. Evidentemente, chi ignora l'una non può afferrar bene l'altra, a meno di non essere un filosofo o uno scienziato così abituato a muoversi fra i concetti puri, da potervisi collocare stabilmente senza bisogno di altri sussidi; e anche allora l'ignoranza della liturgia (cioè la negligenza nell'usare quei mezzi che la Chiesa ha messo a nostra disposizione appunto per comprendere e praticare la sua dottrina) produrrà sempre i suoi effetti funesti, poiché in fine l'uomo, anche scienziato, non è una intelligenza pura, ma un composto di anima e corpo, di senso e intelletto, né può fare a meno in nessun caso di sorreggere il proprio pensiero con stimoli sensibili. Si capisce, dunque, facilmente, che presso coloro i quali non sono né filosofi né scienziati, o comunque hanno trascurato di completare la propria cultura religiosa con una buona cultura liturgica, il catechismo sia spesso una anima senza corpo, dia, cioè, quell'impressione di arido formalismo e di dottrinario schematismo che tanto dispiace, e nella scuola e fuori, e che tanto urta le delicate esigenze dell'anima infantile. Ma ricostituite quella unità che avete spezzato: ricongiungete la teologia alla liturgia, secondo, appunto, la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica, e le verità del catechismo, aride in apparenza, si vestiranno dei più smaglianti colori: diverranno verità, non solo, apprese o ripetute a parole, ma vissute, sentite, amate, alle quali neppure l'anima del più rozzo analfabeta saprà rimanere insensibile. È difficile il concetto della transustanziazione? Eppure anche il fanciullo e la donnicciola cantano e sentono il Pange lingua. È difficile l'idea della resurrezione della carne? Eppure nessuno, che non sia un idiota o un deficiente, può ascoltare senza fremere le parole del vangelo giovanneo, dette dal sacerdote: Ego sum resurrectio et vita. Questo non vuol dire, d'altra parte, che anche il catechismo puro e semplice non possa dì per se stesso costituire la base d'un insegnamento vivo, agile, plastico, "intuitivo" ed "attivo" condotto secondo i migliori criteri pedagogici. Tutto sta nel modo con cui viene insegnato. Accusarlo di aridità perché lo si vede, sulla carta, costituito da tante domande e risposte, sarebbe come accusare di aridità l'aritmetica perché, nel libro, altro non si trova che l'enunciato dei problemi o le definizioni nude e crude. Quelle domande e quelle risposte sono l'oggetto dell'insegnamento, il termine ultimo cui si deve arrivare; non sono il metodo, la via, o il punto di partenza. E sul metodo appunto la didattica catechistica odierna ha una quantità di studi notevolissimi, ove, ad esempio, le questioni inerenti al metodo "intuitivo" e ai suoi sussidi didattici sono state discusse e trattate esaurientemente. Citiamo, per restare fra i nomi italiani, le interessanti ricerche dei Monsignori Pavanelli e Vigna. Il movimento circa la didattica catechistica, da vari anni già, è non meno notevole e non meno confortante del movimento liturgico. Ora, ignorare tutto questo, e continuare a parlare del catechismo come se fosse insegnato a memoria, e magari, a suon di scappellotti, significa precludersi senz'altro la via di discutere con imparzialità e competenza. Che se, qualche volta, nemmeno l'istruzione catechistica impartita coi metodi migliori, dà i risultati che se ne potrebbero attendere, la colpa non è davvero della Chiesa o dei suoi sacri testi. Datemi una società come quella cristiana primitiva, e io vi dispenso dall'osservanza di qualsiasi didattica; sicuro che, per quanto schematiche, le parole del maestro troveranno sempre, nella vita religiosa quotidiana, di che riempirsi in abbondanza anche per il fanciullo più scafato e testardo del mondo; sicuro che le massime, gli esempi, le abitudini d'una società e d'una famiglia troppo spesso indifferenti o ribelli alla parola della Chiesa non mi ridurranno le definizioni catechistiche allo stato d'una pallida larva. Anche qui, dunque, il segreto per avere una cultura religiosa, ricca, calda, piena di pathos e di poesia, e perciò armonica ai fondamentali bisogni dell'animo infantile, sta non nell’allontanarsi, ma nell'avvicinarsi sempre più all'insegnamento genuino della Chiesa. Non sapremmo, perciò, vedere alcuna contraddizione fra il decreto Gentile del 1 Ottobre 1923 e la circolare del Gennaio 1924 dello stesso ministro, o i programmi didattici, poiché, seguire la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica nell'insegnamento religioso, significa per l'appunto dare al fanciullo la "poesia", il "canto" e tutte le altre belle cose annesse e connesse. Né può lasciar adito a equivoco il nome del Manzoni, il laico così geloso della propria ortodossia, da riuscir più ortodosso di molti sacerdoti suoi contemporanei, quali, poniamo, il Lambruschini o il Gioberti. Che se contraddizione c'è stata fra il decreto e la circolare, o il decreto e i programmi, essa è stata piuttosto nella mente del loro autore che nella realtà delle cose e appartiene, dunque, alla storia della cultura o della filosofia italiana e non a quella della legislazione scolastica. Il cattolicesimo, non è il protestantesimo, e perciò sarà sempre un osso troppo duro pei denti dei filosofi volenterosi che si proveranno a maciullarlo e a convertirlo in poltiglia per uso delle loro costruzioni metafisiche. Sotto questo aspetto, la nota de "I Diritti" è, per noi, molto significativa e confortante: è il sintomo d'un grandioso insuccesso, da parte di chi aveva creduto poter introdurre il cattolicesimo nella scuola, come veste mitologica inferiore d'una verità filosofica che, più tardi, lo avrebbe superato e divorato. Dal 1923 sono passati cinque anni e il cattolicesimo, ben lungi dall'essere “superato” è lì, colla sua teologia e la sua liturgia, i suoi dogmi e i suoi misteri, che minaccia gravemente di "superare" gli altri e di mangiarsi in due bocconi le stesse filosofie più evolute, alle quali sta contendendo energicamente il possesso delle scuole medie e superiori che pure s'erano riservate. Lo scandalo diventa grave: e "I Diritti " hanno tutte le ragioni d'esserne preoccupati, posto che stia loro a cuore davvero, la sorte delle filosofie "evolute": il che, sinceramente, non auguriamo. INDICE 5 Prefazione 9 La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino 65 L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia 125 Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie 163 Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementari
Monday, June 21, 2021
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