LA FILOSOFIA ROMANA. Nei primi secoli della repubblica i Romani non diedersi pensiero di filosofia; appena ne conobbero il nome. Intenti da principio a difendersi, poi a consolidare la loro dominazione sui popoli vicini, la loro saviezza fu figlia della sperienza e d'un ammirabile buon senso affinato dalle difficoltà esteriori in mezzo a cui si trovarono collocati, e dal godimento di un'interiore libertà, le cui procelle incessanti valevano ad elevare ed afforzare gli animi. Volle taluno che le instituzioni di Numa non andassero digiune di pitagorismo; gli è da credere piuttosto, avuto riguardo all'ordine cronologico, che Pitagora attignesse nelle dottrine sacerdotali del secondo re di Roma qualcuna delle sue teoriche intorno la religione. Allorchè i Romani strinsero i primi legami co' Greci delle colonie italiche e siciliane, non credettero di ravvisare che leggerezza mollezza e corruzione in que' popoli i quali a ricambio qualificarono i Romani di barbari. Sul finire della prima guerra punica fu resa nota ai vincitori la letteratura drammatica de Greci; e vedemmo Livio Andronico avere per primo tradotto tragedie, le quali cacciarono di scanno i versi fescennini, i giuochi scenici etruschi e le informi atellane. Ennio, oltre ai componimenti poetici di cui facemmo menzione, voltò in latino la storia sacra di Evemero, scritto ardito, inteso a dimostrare che gli Dei della Grecia altro non erano che antichi uomini dalla superstizione divinizzati. I Romani non videro nelle ipotesi del filosofo che un oggetto di mera curiosità; non erano ombrosi come gli Ateniesi, non avevano peranco spe. rimentato qualc azione cfficace la filosofia esercitar potesse sulla religione. Accolsero del pari con indifferenza la sposizione poetica che del sistema d'Epicuro loro presentò Lucrezio: germi erano questi gettati in terreno non preparato ancora à riceverli. La conquista non tardò a dischiudere colla Grecia più facili mezzi di comunicazione. I conquistatori trasportarono in patria schiavi tra' quali vi avevano retori e grammatici; e loro fidarono l'educazione de' proprii figli . L'introduzione degli studii filosofici in Roma [ocr errors] risale alla celebre ambasceria di Carneade accade. mico, Critolao peripatetico, Diogene stoico. Avidi di brillare e lusingati dall'ammirazione che destavano in un popolo non avvezzo a sottili investigazioni, quei tre fecero pompa di tutta la profondità e desterità della loro dialettica ad abbagliare la romana gioventù che loro s'affoltava intorno, incantata di scovrire usi dianzi ignorati della parola. I magistrati s'adombrarono di cotesto subitano commovimento. I vecchi Se. natori armaronsi di tutta l'autorità delle prische costumanze per respingere studi speculativi, che teme vano come pericolosi e disprezzavano come futili. Ca. tone il censore ottenne che si allontanassero tosto dalla romana gioventù i retori che davano opera a distruggere le più venerate tradizioni e a smovere le fondamenta della morale. I sofismi di Carneade, il quale faceva pompa della spregevole arte di sostenere a piacimento le opinioni più contraddittorie, fornì a Catone plausibili argomenti di vituperarlo; sicchè i primordi della filosofia furono contrasscgnati in Roma da sfavorevoli apparenze. Il rigido Censore non prevedeva che, un secolo dopo, quella filosofia che ave. va voluto proscrivere, meglio approfondita e meglio conosciuta, sarebbe il solo rifugio del suo pronipote contro le ingiurie della fortuna e la clemenza di Cesare. Non possiamo trattenerci dal simpatizzare con que’ vecchioni, i quali opponevano al torrente da che avvisavano minacciata la patria lor capegli canuti e la loro antica esperienza, evocando a respignere peri [ocr errors][ocr errors][ocr errors] colose novatrici dottrine la religione del passato e le tradizioni di seicent anni di vittorie di libertà di virtù. Ma se a codesto spontaneo sentimento tien dietro la riflessione, saremo costretti di riconoscere che a rintuzzare il progresso della filosofia ed anco de sofismi di Grecia, il Senato mal si appose con quel suo violento procedere. Tutto ciò che è perico- loso racchiude in sè un principio falso che è sempre facil cosa scovrire: affermare il contrario sarebbe muo- vere accusa alla Divinità, quasi ch' Ella con innestare il male nella conoscenza del vero avesse teso un lac- cio all’umana intelligenza. Convien dunque adoperarsi a dimostrare la falsità delle opinioni perniziose, non proscriverle alla cieca, quasi rifuggendo esaminarle conscii dell'impossibilità di confurtarle. sì ardua impresa rispondere agli ateniesi sofisti? o sì difficile dimostrare che quelle loro argomentazioni pro e contra lo stesso principio di morale erano assurde ? o sì temerario lo appellarsene, ne' cuori romani, a’sen. timenti innati del vero e del giusto, il risvegliare in quelle anime ancor nuove sdegno e disprezzo per teo- riche, le quali, consistendo tutte in equivoci, dovevano vituperosamente cadere dinanzi la più semplice analisi? Catone andò altero dell'ottenuta vittoria: gli ambasciadori ateniesi furono tosto rimandati: per un secolo ancora severi editti, frequentemente rinnovati, lottarono contro ogni nuova dottrina; ma l' impulso era dato, nè poteva fermarsi. I giovani romani conservarono impresse nella memoria le dottrine dei sofisti; Era poi e riguardarono la dialettica di Carneade non tanto come un sistema che conveniva esaminare, quanto come una proprietà che stava bene difendere: giunti ad età provetta nel bivio d'abbandonare ogni speculazione filosofica o di disobbedire alle leggi, furono tratti a disobbedire dalla loro inclinazione per le lettere, passione la quale, dacchè è nata, va crescendo ogni dì, siccome quella che ha riposte in sè medesima le proprie soddisfazioni. Gli uni tennero dietro alla filosofia nel suo esiglio ad Atene; altri mandarono colà i loro figli. I capitani degli eserciti furono i primi a lasciarsi vincere apertamente da questa tendenza generale degli spiriti. L'accademico Antioco fu compagno di Lucullo; Catone il censore cedè egli stesso, a malgrado delle sue declamazioni, alla seduzione dell'esempio, ed assistè alle lezioni del peripatetico Nearco. Silla fece trasportare in Roma la biblioteca d'Apellico di Teo: Catone d'Utica allorch'era tribuno militare in Macedonia peregrino in Asia a solo oggetto d'ottenere che lo stoico Atenodoro abbandonasse il suo ritiro di Pergamo e si conducesse a dimorare con lui. Pure gli spiriti che con siffatto entusiasmo s'abbandonarono alle filosofiche investigazioni non trovavansi da studii anteriori preparati ad astratle speculazioni: ne avvenne che la filosofia penetrò in coteste menti dirò come in massa e nel suo insieme; ma non s'indentificò col rimanente delle loro opinioni: la sua efficacia fu nel tempo stesso più gagliarda e mento continua che in Grecia; più gagliarda nelle circostanze impor [ocr errors] tanti nelle quali l'uomo trascinato fuori del circolo delle sue abitudini cerca appoggi, motivi d'agire, conforti straordinarii; meno continua perchè, se niun evento tnrbava l'ordine abituale, ella ridiventava pe’ Romani una scienza, piuttostochè una regola di condotta applicata a tutti i casi della vita sociale. Che se non iscorgiamo in Roma individui che a somiglianza dei sapienti della Grecia consacrassero alla filosofia esclusivamente il loro tempo; non ci appare nè anche (ad eccezione di Socrate) che i Greci abbiano saputo trarre dalla filosofia quegli efficaci soccorsi che invi. gorivano gli illustri cittadini di Roma in mezzo ai campi, nelle guerre civili, tra le proscrizioni, allora suprema. I Romani si divisero in sette; effetto della maniera d'insegnamento di cui i retori greci usavano con essi. Per la maggior parte schiavi od affrancati, dovevano costoro, qualunque fosse il loro convincimento o la loro preferenza per queste o quelle dottrine, studiarsi di piacere a' padroni; ond'è che chiaritisi come una tale ipotesi respignesse colla sua severità o stancasse colla sua sottigliezza, affrettavansi di sostituirne altra più accetta. Tali sono i risultamenti della dipenden. za; l'amore stesso del vero non basta ad affrancare l'uomo dal giogo; s'egli non abjura le sue opinioni, ne cangia le forme; se non rinnega i suoi principii, li sfigura. Allorchè a questi retori schiavi succedettero i retori stipendiati, le dottrine diventarono derrata di cui itanto per Greci trafficarono, e della quale per conseguenza lasciarono la scelta a' compratori. Le varie sette non trovarono in Roma uguale favore. L'Epicureismo benchè in bei versi esposto ed® insegnato da Lucrezio, vi fu dapprima respinto, non la sua morale di cui bene non si conoscevano ancora i corollarii, quanto per la raccomandazione che faceva d'attenersi ad una vita speculativa e ritirata, aliena non meno da fatiche che da pericoli: gli è questo difatti il principale rimprovero che fa Cicerone alla filosofia epicurea. I cittadini d'uno stato libero non sanno concepire la possibilità di porre in dimenticanza la patria, perciocchè ne posseggono una; e considerano come colpevole debolezza quell'allontanamento da ogni carriera attiva, che sotto il dispotismo diventa bisogno è virtù di tulli gli uomini integri e generosi. L'Epicureismo ebbesi per altro un illustre seguace; nè qui vo' accennare d'Atlico, che senza principii senza opinioni fu bensì amico caldo e fedele, ma cittadino indifferente e di funesto esempio, avvegnachè sotto forme eleganti insegnò alla moltitudine ancora indecisa e vacillante come chicchessia può accortamente isolarsi e tradire con decenza i proprii doveri verso la patria. Il Romano di cui intendo parlare è Cassio che fino dall'infanzia si consacrò alla causa della libertà , e rinunziando ai piaceri alle dolcezze della vita, non ebbe che un pensiero un interesse una passione, la patria : fu centro della cospirazione contro Cesare ; e dolendosi di non po tere sperare in un'altra vita, morì dopo avere corso un arringo continuamente in contraddizione colle sue dottrine. Le sette di Pitagora di Aristotile e di Pirrone incontrarono a Roma ostacoli d'altra maniera. La prima, per una naturale conseguenza del segreto in cui si avvolse fino dal suo nascere, contrasse affinità con estranie superstizioni ; perciocchè uno degli inconvenienti del mistero, anche quando n'è pura l'intenzione primitiva, è di fornire all' impostura facile mezzo d'impadronirsene. Nigido Figulo è il solo pitagorico di qualche grido che abbia fiorito in Roma. L'oscurità aristotelica ebbe poche attrattive per menti più curiose che meditative. — L'esagerazione pirronista per ultimo ripugnò alla retta ragione de' Romani. Il Platonismo che ancor non era ciò che di. venne due secoli dopo per opera de' novelli platonici; lo Scetticismo moderato della seconda Accademia , e lo Stoicismo furono i sistemi adottati in Roma. Lucullo, Bruto, Varrone furono platonici; Cicerone, a cui piacque porre a riscontro tutte le varie dottrine, inclinò per l'indecisione accademica; lo Stoicismo solo fu caro alla grand' anima di Catone Ulicense (°). [ocr errors][ocr errors][merged small] Non possum legere librum Ciceronis de Se. nectute, de Amicitia, de Officiis, de Tusculanis Quæstionibus, quin aliquoties exosculer codicem, ac venerer sanctum illud pectus aflatum celesti Qumine. ERASM. in Conviv. M. Tullio adottò egli per convinzione i sistemi filosofici della nuova Accademia, o diè loro la preferenza perchè più propizii all' oratore in fornirgli arme con cui combattere i proprii avversarii ! Corse grand' intervallo tra Cicerone giovine ed ambizioso, e Cicerone vecchio e disingannato. Ciò che pel primo era oggetto subordinato a speranze a divisamenti avvenire, diventò pel secondo un bisogno del cuore, un'intensa occupazione della mente. Nell'ultimo stadio della sua vita ei pose affetto alle dottrine del platonismo riformato; e a quelle parti della morale in esse contenuta di cui si tenne men soddisfatto, altre ne sostituì fornitegli dallo stoicismo: fu propriamente ecclettico, od amatore del vero e del buono ovunque lo riscontrava. Ad imitazione di Platone pose in dialoghi i suoi scritti filosofici: per eleganza di stile ed elevatezza di concetti non cede al modello : per chiarezza e per ordine lo vince. Ne cinque libri (De finibus) intorno la natura del bene e del male si propose una meta sublime; la ricerca cioè del bene supremo; in che cosa consista; come si consegna ; ove dimori. Tu cerchi però inutil mente in quelle pagine da cui traluce tanta sapienza plausibile soluzione del quesito. Gli antichi ingolfandosi in cotali disamine faceano ricerca di ciò che tro. vare non potevano; chè gli è impossibile che il bene supremo rinvengasi in ordine di cose che necessariamente è imperfetto ; verità che il Vangelo ci rese ovvia insegnandoci come la felicità sognata dai gentili pel loro Saggio non sia fatta per uomo mortale, essondechè stanza le è riserbata imperibile sublime. In che cosa consiste il sommo bene ? Ecco di che venivano continuamente richiesti i filosofi. Epicuro ed Aristippo rispondevano, nel piacere ; Jeronimo, nell'assenza del dolore ; Platone, nella comprensione del vero, e nella virtù che ne è conseguenza; Aristotile, nel vivere conformemente alla natura. Cicerone associò le sentenze di Platone e d'Aristotile, e si appose meglio di quanti nell'arduo arringo l'avevano preceduto. Dalle più elevate astrazioni sceso ad argomenti che si collegano co' bisogni e co' vantaggi dell'uomo, M. Tullio si propose nelle Tusculane di cercare i mezzi adducenti alla felicità. Cinque ne noverò; il dispregio della morte; la pazienza ne' dolori; la fermezza nelle varie prove; l'abitudine di combaltere le passioni, e finalmente la persuasione che la virtù dee unicamente cercare premio in sè stessa: e la dimostrazione di cotesti assiomi si fa vaga, sotto la penna del filosofo, di tutte le grazie dell'eloquenza. All' Anima, egli scrive, tu cercheresti inutilmente [ocr errors] un'origine terrestre, perocchè nulla in sè accoglie di misto e concreto; non un atomo d'aria d'acqua di fuoco. In cotesti elementi sapresti tu scorgere forza di memoria d'intelligenza di pensiero, valevole a ricordare il passato a provvedere al futuro ad abbracciare il presente? Prerogative divine sono queste , nè troveresti mai da chi sieno state agli uomini largite, se non 'da Dio. È l'anima pertanto informata di certa quale sua singolar forza e natura ben diverse da quelle che reggono i corpi tutti a noi noti. Checchè dunque in noi sia che sente intende vuole vive; divina cosa certo è cotesta; eterna quindi necessaria. mente esser deve. Nè la Divinità stessa, quale ce la figuriamo, comprenderla in altra guisa possiamo, che come libera intelligenza scevra d'ogni mortale contatto, che tutto sente e muove, d' eterno moto ella stessa fornita. L'anima umana per genere e per na. tura somiglia a Dio. « Dubiterai tu, a veder le meraviglie dell'universo, che tal opera stupenda non abbiasi (se dal nulla fu tratta, come afferma Platone) un creatore; o se creata non fu, come pensa Aristotile, che ad alcun possente moderatore non sia data in custodia ? Tu Dio non vedi; pur le opere sue tel rivelano: così ti si fa palese dell'anima, comechè non vista, la divina vigoria, nelle operazioni della memoria nel raziocinio nel santo amore della virtù. » I discepoli d'Epicuro, commentando, esagerando ciò che vi avea d'incerto d'oscuro nei principii del loro ömaestro. l'universo nato dal caso affermarono, nega rono la Provvidenza, piegarono all'ateismo: Tullio si fa a combatterli nel suo libro Della natura degli Dei. Le lettere antiche non inspiraronsi mai di più sublime eloquenza. Vedi primamente la terra, collocata nel centro del mondo, solida, rotonda, in sè stessa da ogni parte per interior forza ristrella; di fiori d'erbe d'arbori di messi ammantarsi. Mira la perenne freschezza delle fonti, le trasparenti acque de' fiumi, il verdeggiare vi. vacissimo delle rive, la profondità delle cave spelonche, delle rupi l'asperità, delle strapiombanti vette l'elevazione, delle pianure l'immensità, e quelle recon. dite vene d'oro e d'argento, e quell' infinita possa di marmi. Quante svariate maniere d'animali! quale aleg. giare e gorgheggiar d'uccelli e pascere d'armenti, ed inselvarsi di belve! E che cosa degli uomini dirò, che della terra costituiti cultori non consentono alla ferina immanità di toruarla selvaggia , all animalesca stupidità di devastarla, sicchè per opera loro campi isole lidi mostransi vaghi di case, popolati di città! Le quali cose se a quella guisa colla mente compren. dere potessimo, come le veggiamo cogli occhi ; niune in gettare uno sguardo sulla terra potrebbe dubitar più oltre che esista ia provvidenza divina. « Ed infatti, come vago è il mare ! come gioconda dell'universo la faccia ! Qual moltitudine e varietà d'isole é amenità di piani, e disparità d'animali, sommersi gli uni nei gorghi, gnizzanti gli altri alla su. perficie, nati questi a rapido moto, quelli all’imobi, lità delle loro conchiglie! E l'acre che col mare con: fina qua diffuso e lieve s'innalza, là si condensa e accoglie in nugoli, e la terra colle piove feconda ; e ad ora ad ora pegli spazii trascorrendo ingencra i vento ti, e fa che le stagioni subiscano dal freddo al caldo loro consuete mutazioni, e le penne de' volatori sostiene, e gli animali mantien vivi. » 5 Giace ultimo l'etere dalle nostre dimore disco. stissimo, che il cielo e tutte cose ricigne, remoto confine del mondo; per entro al quale ignei corpi con maravigliosa regolarità compiono il loro corso. Il sole, uno d'essi, che per mole vince di gran volte la terra, intorno a questa s'aggira, col sorgere e il tramontare segnando i confini del giorno e della notte; coll'avvicinarsi e il discostarsi quelli delle stagioni; sicchè la terra, allorehè il benefico astro s'allontana, da certa qual tristezza è conquisa; pare che invece insieme col ciclo ši allegri allorchè torna. La luna, che a dire de matemateci, è più che una mezza terra, trascorre pe' medesimi spazii del sole, ed ora facendoglisi incontro; ora dipartendosi, que' raggi che da lui riceve a noi trasmette; ed avvengonle mutazioni di luce; perciocchè talora postasi innanzi al sole lo splendore ne oscura ; talora nell'ombra della terra s'immerge e d'improvviso scompare. Per quegli spazii medesimi le stelle che denominiamo vaganti girano intorno a noi e sorgono e tramontano ad uno stessso modo; il moto delle quali ora è affrettato ora s'allenta ora cessa; spettacolo di cui altro avere non vi può più ammirando e più bello. Tiene dietro la moltitudine delle non vaganti stelle, delle quali sì precisa è la reciproca giacitura , che si poterono ad esse applicar nomi di determinate figure. « E tanta magnificenza d'astri, tanta pompa di cielo, qual sano intelletto mai potrà figurarsele surte dal raccozzarsi di corpi qua e là fortuitamente ? Chi potrà credere che forze d' intelligenza e di- ragione sprovvedute fossero state capaci di dar compimento a tali opere delle quali , senza somma intelligenza e robusta ragione, ci sforzeremmo inutilmente di comprendere, non dirò come si sieno fatte, ma solo quali veramente sieno ? » Dopo d'avere additato virtù e religione siccome scaturigini del bene, maestre di felicità, dopo d'avere spaziato pegli immensi campi d'un'alta e confortevole metafisica, dopo di avere falto tesoro negli insegnamenti della greca filosofia di ciò ch'essa mise in luce di più puro e sublime intorno l'anima e Dio; argomento degno della gran mente di Cicerone era la felicità, non più studiata e ricercata pegli individui, ma per le nazioni; ed a sì nobile soggetto consacrò i suoi trattati, in gran parte perduti, Della repubblica e Delle leggi. Nei frammenti che ce ne restano scorgiamo essersi il filosofo serbato fedele al suo assioma favorito: - nella giustizia divina contenersi l'unica sanzione dell'umana giustizia. u Fondamento primo d'ogni legislazione, egli scrive, [ocr errors] sia un generale convincimento che gli Dei sono di tutto arbitri, di tutto moderatori; che benefattori del. l'uman genere scrutano che cosa è in sè stesso ogni uomo, che cosa fa, che cosa pensa, con quale spirito pratica il culto ; sicchè i buoni sanno discernere dagli empii. Ecco di che gli animi voglionsi compene. trati, onde abbiano la coscienza dell' utile e del vero. » Ma se M. Tullio della virtù della felicità delle leggi ravvisava nella religione le scaturiggini, la religione voleva che santa e pura fosse, onninamente sgombra dalle supestizioni dalle credulità, da che vituperata miravala. A tal uopo dettò l'aureo trattato De divinatione, nel quale usò d'un argomentare nel tempo stesso seyero e faceto, con abbandonarsi in isferzare la credulità e la sciocchezza a'voli più opposti della sua proteiforme eloquenza. Capolavoro di Cicerone è il libro Degli Officii , ossia de' doveri morali degli uomini in qualunque condizione si trovino essi collocati. I Greci ebbero costume di spaziare troppo ne' campi delle filosofiche astrazioni; le loro dottrine trovarono meno facile applicazione a' casi pratici della vita , perchè sovraccaricate di vane disputazioni , oppurtune più spesso a trastullare l'imaginazione, che ad illuminare l'intelletto. Tullio grande e saggio anche in questo volle spoglia la sua filosofia di quell' ingombro, e ricondussela alla più semplice e precisa espressione degli inculcati doveri. 6 Cicerone ( scrive- a proposito del libro degli Officii un critico tedesco) fu dotato di luminosa intelligenza di rello giudizio di gran. de altività, doti opportunissime a coltivare la ragione, a fornirle argomento d' incessanti meditazioni. Ma Cicerone non possedeva lo spirito speculativo che si richiede a poter ben addentrarsi ne' primi principii delle scienze : il tempo venivagli meno a minute indagini, la sua indole stessa fare non gliele poteva famigliari. Uomo di stato più che filosofo, le scienze morali lo interessavano per quel tanto che gli servi. vano a rischiarare le proprie idee intorno ad argomenti politici. Vissulo in mezzo a rivoluzioni, quali traversie non ebbe egli a sopportare ! Niun politico si trovò mai in situazione più propizia per fare tesoro d'osservazioni intorno l'indole della civile società, la diversità de' caratteri, l'influenza delle passioni. Pure cotesta situazione sua stessa era poco alla a fornirgli opportunità d' approfondire idec astralte o meditare sulla natura delle forze invisibili, i cui visibili risultamenti s'appalesano nell' umano consorzio. La situazione politica in cui M. Tullio si trovò collocato improntò la sua morale d'un carattere speciale. Gli uomini dei quali ed a' quali ragiona sono quasi sempre della classe a cui spetla d'amministrare la repubblica: talora, ma più di rado, rivolgesi agli studiosi delle lettere e delle scienze. Per la moltitudine de cittadini hannovi bensì qua e là precetti generali comuni applicabili agli uomini tutti; ma cercheresti inutilmente l'applicazione di que' precelli alle circostanze d'una vita oscura e modestà. Caso invero singolare! Mentre le forme del reggimento repubblicano raumiliavano l'orgoglio politico con dargli a base il favore popolare, i pregiudizii dell'antica società alimentavano l'orgoglio filosofico, con accordare il privilegio dell'istruzione unicamente a coloro che per nascita o per fortune erano destinati a governare i loro simili. In conseguenza di questo modo di vedere i precetti morali di Cicerone degenerarono sovente in politici insegnamenti. Coi trattati Dell' amicizia e Della vecchiezza M. Tullio a confortevoli meditazioni ebbe ricorso onde ricreare la propria mente dalla tensione di più ardui studii e dagli insulti della fortuna. E veramente che cosa avere vi può sulla terra di più dolce e santo d'una fedele amicizia ? Che cosa vi ha di più dignitoso e simpatico d'una vecchiezza onorata e felice ? Cice, rone in descrivere quelle pure e nobili dilettazioni consulto il proprio cuore: beato chi trova in sè stesso l' inspirazione e la coscienza della virtù!
Tuesday, April 20, 2021
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