L’interesse del Caluso1 per l’omicidio e il “lato oscuro” non è mai stato indagato, perché la critica, nella rappresentazione dell’abate, ha sempre privilegiato l’immagine severa e inflessibile di maestro onnisciente e di saggio imperturbabile, scolpita dai biografi ottocenteschi. Questo ritratto idealizzato e deformato dell’abate ha generato non pochi equivoci interpretativi: se si studia la vita del Caluso attraverso i suoi diari e il suo ricco epistolario e si analizzano con attenzione le sue opere tanto edite quanto inedite, ci si accorge, infatti, che la sua personalità è tutt’altro che granitica. Prima di accingersi a esaminare la figura del Caluso è necessario quindi liberarsi di questi stereotipi: il fatto che «l’ottimista abate», come lo definì il Foscolo2, avesse dedicato molti scritti allo studio della ragione non esclude affatto che egli fosse incuriosito anche dalla parte irrazionale della nostra mente, anzi le sue considerazioni sui “limiti della ragione” si collocano perfettamente all’interno delle sue riflessioni sulle facoltà intellettive. 3 L’inedito Della felicità de’ governati, ritrovato presso l’Archivio Peyron della Biblioteca Naziona (...) 2Gli studi calusiani sulla ragione, e in particolar modo sul rapporto tra ragione e virtù, sono inseriti nelle opere dedicate alla felicità, tema particolarmente caro all’abate, che si impegnò nell’indagine di questo complesso concetto dalla gioventù fino all’estrema vecchiaia: è possibile, infatti, seguire l’evoluzione della riflessione del Caluso sulla felicità dalle lettere al nipote degli anni Sessanta del Settecento fino al Della felicità de’ governati, scritto nell’ottobre del 18133. Il tema della felicità pervade tutta la produzione dell’autore; esso non è affrontato solo negli scritti filosofici, nelle lettere intime ad amici e parenti e nelle poesie, ma si ritrova anche nei trattati didattici e in alcune opere erudite, perché il Caluso era convinto che il fine di ogni studio fosse la felicità, la quale poteva essere conquistata solo attraverso una profonda passione per le lettere e per le scienze. 4 A proposito del concetto calusiano di rassegnazione, si legga il seguente passo, tratto della lette (...) 5 Euforbo Melesigenio, Versi italiani cit., p. 38. 6 Diderot aveva constatato che nella pratica quotidiana si incontravano uomini felici, pur essendo tu (...) 3L’indagine sulla felicità porta inevitabilmente il Caluso a “scontrarsi” con lo studio della ragione. Secondo l’abate, la ragione ha un duplice ruolo: da un lato ci fornisce gli strumenti adatti a conquistare la felicità, dall’altro ci fa acquisire la coscienza di non avere sempre il dominio su ciò che accade. La consapevolezza porta alla rassegnazione, questa rassegnazione però aiuta sì a sopportare i casi della vita, ma non dona la felicità, come teorizzavano gli stoici4. Il Caluso pensa, quindi, che i poteri della ragione siano limitati; questa presa di coscienza però non lo porta a meditare sul fatto che la felicità possa essere disgiunta dalla ragione, egli infatti, se da un lato ammette che anche il più saggio tra gli uomini è vittima della sofferenza («né sognai che ad uom concesso / Viver fosse ognor lieto, o ne’ tormenti / Sdegnerò dir misero il Saggio stesso»)5, dall’altro non arriva a constatare, come avevano fatto, per esempio, Diderot e Voltaire, che spesso nella vita reale gli uomini privi di ragione e di virtù sono felici6. 7 Euforbo Melesigenio, Versi italiani cit., p. 22. Il fatto che le passioni fossero necessarie all’uo (...) 8 Id., Versi italiani cit., p. 33. 9 Il manoscritto è conservato presso la Biblioteca Reale di Torino (ms Varia 176, 4). 10 I manoscritti di L’Amour vaincu (ms Varia 176 1/2, s.1, b. 14) e di Les aventures du Marquis de Bel (...) 4La ragione ha anche il fondamentale compito di dominare le passioni: il Caluso ripropone la celebre esortazione platonica alla misura, ripresa da molti autori, tra i quali Rousseau, che in più luoghi sottolineò come la ragione avesse la funzione di equilibrare i moti violenti dell’animo. L’abate era convinto che i sentimenti estremi causassero soltanto sofferenza; egli non invitava certo ad anestetizzare gli affetti, anzi pensava che non vi fosse nulla di peggio che una vita senza passioni ed emozioni («Che un dolce pianto è più felice molto / Non delle noie sol, ma dell’inerte / Ghiaccio d’un cor, cui ogni affetto è tolto»)7, ma credeva che la morbosità fosse una pericolosa malattia. Nella Ragione felice egli porta l’esempio della follia amorosa di Polifemo per Galatea: il poeta descrive la corruzione mentale e fisica del ciclope, consumato dal desiderio ed incapace di dominarsi («Odil che fischia, livido qual angue / Le spumeggianti labbra, e l’occhio in foco / Vedil cerchiato di vermiglio sangue»)8. L’autore crede che solo «i casti amori», congiunti a «l’arti e gli studi», possano regalare la felicità; questo riferimento all’amore platonico è un omaggio alla principessa di Carignano, dedicataria del poemetto, che aveva teorizzato come la felicità si fondasse sulla rinuncia alla passione sia nel saggio filosofico inedito Sur l’amour platonique9 sia nei due romanzi, anch’essi inediti, L’Amour vaincu e Les nouveaux malheurs de l’amour10. 11 Euforbo Melesigenio, Versi italiani cit., pp. 213-247. 5La follia amorosa non è l’unica passione condannata dall’abate, egli infatti deplora ogni sentimento capace di far perdere il controllo delle proprie azioni. Nel poemetto La Tigrina o sia la Gatta di S. E. la madre donna Emilia11, composto a Napoli nel settembre del 1768, egli descrive le funeste conseguenze della gelosia, mentre nei Varia Philosophica, scritti tra il 1776 e il 1794, presenta l’esempio della vendetta: 12 L’inedito Varia Philosophica, ritrovato presso l’Archivio Peyron della Biblioteca Nazionale Univers (...) Onde sono le passioni uno scaldamento di fantasia, una specie di pazzia, che perverte il giudicio, e ne fa credere che in quella tal cosa passionatamente voluta vi sia per noi un bene, un piacere, una soddisfazione che veramente non vi è né la ragione per tanto ve la può trovare. Tale è per esempio la vendetta12. 13 T. Valperga di Caluso, Di Livia Colonna del cittadino Tommaso Valperga, in Mémoires de l’Académie d (...) 14 La raccolta fu pubblicata a Roma da Antonio Barre nel 1555. 15 Id, Di Livia Colonna cit., p. 251. Il Caluso si dedicò allo studio dei limiti della ragione in una serie di scritti e appunti su fatti di sangue; nell’articolo Di Livia Colonna13, per esempio, ricostruisce la tragica fine della nobildonna romana basandosi sulla raccolta di poesie Rimedi diversi autori, in vita, e in morte dell’ill. s. Livia Colonna14 («Da parecchi versi per la di lei morte si ritrae che in aprile del 1554 al più tardi, e certamente non prima del 1550, fu Livia trucidata barbaramente»15). Quest’opera comprende numerosi componimenti dedicati a Livia Colonna, scritti da trentuno poeti, tra i quali anche il Caro e il Della Casa. 16 Il Caluso in un brano del Della certezza morale ed istorica sottolinea come sia importante esaminar (...) 17 L’abate cita le seguenti fonti: G.B. Adriani, Istoria de’ suoi tempi di Giouambatista Adriani genti (...) 18 Il Caluso ricorda che vari poeti avevano scritto «molte dolenti rime» su questo tema e cita un pass (...) 6Nell’articolo il Caluso sottolinea che la raccolta, non essendo dotata né di prefazione né di note, non permette di contestualizzare i fatti ai quali si allude nelle rime16, ma aggiunge che, vista la notorietà del casato di Livia, non gli è stato difficile identificare la donna e reperire informazioni in merito alla sua vita17: Livia nacque prima del 1522 da Marcantonio Colonna e Lucrezia della Rovere; nel 1539 fu rapita da Marzio Colonna duca di Zagarolo, che in questo modo riuscì a sposare la bellissima e ricchissima giovinetta; qualche anno dopo perse, e di lì a poco riacquistò, la vista18, nel 1551 rimase vedova. Dopo aver elargito queste informazioni, il Caluso passa a parlare del tema che lo ha maggiormente interessato: 19 T. Valperga di Caluso, Di Livia Colonna cit., p. 251. Ma qui veniamo al punto, che ha stimolata la mia curiosità, e richiede più diligenti ricerche. Da parecchj versi per la di lei morte si ritrae che in aprile del 1554 al più tardi, e certamente non prima del 1550, fu Livia trucidata barbaramente19. 20 L’abate fa una precisazione sul nome della figlia di Livia: “la figliuola della nostra Livia da Dom (...) Egli deduce da alcune evidenti allusioni presenti nelle rime della raccolta che Livia fu uccisa dal proprio genero Pompeo Colonna, che aveva sposato la figlia Orinzia20 poco tempo prima: 21 Ivi, p. 252. Rivolta la carta 87 delle mentovate rime si legge, che l’uccisore l’empio ferro tinse nel proprio sangue, e alla carta 113 si fa dire a Livia già ferita, che fai figliuol crudele? Pompeo suo genero aveva tratto il sangue dallo stesso casato, non che da Camillo suo padre, da Vittoria sua madre, anch’essa Colonna. E qual altro assassino, che un genero, poteva chiamarsi figliuolo da una donna giovine, che non avea prole maschile?21 Identificato l’assassino, il Caluso passa a esaminare i possibili moventi dell’omicidio: Pompeo fu spinto a uccidere la suocera dall’avidità, dall’ira o dal senso dell’onore. 22 Ibid. 23 Ivi, p. 253. 7L’autore sembra propendere per il primo movente: nelle rime, infatti, si legge che la nobildonna fu uccisa «sol per far ricco un uomo»22; l’abate riflette inoltre sul fatto che, con la morte di Livia, Orinzia avrebbe ereditato numerosi poderi, sui quali avrebbe poi messo le mani Pompeo, dato che «ognun sa quanto facilmente dell’aver della moglie sia più ch’essa padrone un marito fiero e imperioso»23. 24 Ivi, p. 252. 8Per quanto concerne invece il movente dell’ira, suggerito dal fatto che «la mano del parricida vien detta forse di sangue ingorda più che di vero onor»24, il Caluso non si profonde in ipotesi specifiche, ma si limita a osservare che i motivi di astio tra persone «che hanno a fare insieme» sono innumerevoli. Questo movente può essere collegato con quello dell’onore: la collera di Pompeo, infatti, potrebbe essere stata causata dalla scoperta o dal sospetto che la suocera si fosse sposata segretamente con un servo. L’autore trae questa idea da un verso del Dardano, nel quale si fa riferimento alla mano mozzata di Livia («E la recisa man, l’aperto lato»), l’abate immagina che Pompeo avesse mutilato la suocera per punirla d’aver concesso la propria mano a un servitore. Il Caluso riflette inoltre sul fatto che questo terzo movente può essere collegato anche col primo, dato che il matrimonio di Livia avrebbe ridotto l’eredità di Pompeo: 25 Ivi, p. 254. ogni matrimonio della suocera dovea spiacergli per lo pensiero che in conseguenza n’andrebbe ad altri gran parte di quello che aspettava dover dalla suocera, quando che fosse, venir a lui25. 26 G. L. Masetti Zannini, Livia Colonna tra storia e lettere (1522-1554), in Studi offerti a Giovanni (...) 27 Ivi, p. 293. L’interpretazione calusiana del verso del Dardano è criticata da Gian Ludovico Masetti Zannini nel saggio Livia Colonna tra storia e lettere26, nel quale egli fa numerosi riferimenti al “cittadino” Tommaso Valperga di Caluso, che centosettant’anni prima, «imbastì su fragilissime basi la trama di un romanzetto che avrebbe potuto incontrare fortuna, come altri fatti di sangue del secolo xvi, presso fantasiosi lettori»27. 28 Archivio di Stato di Roma, Tribunale del Governatore, Processi, sec. xvi, 19 (1554, gennaio 25). 29 I responsabili furono condannati grazie alle deposizioni di testimoni oculari. 30 La testimone oculare Beatrice di Petrella, per esempio, dichiarò che Livia fu ferita due volte alla (...) 31 Ivi, p. 309. 32 Ivi, p. 310. 33 D. Chiodo, Di alcune curiose chiose a un esemplare delle “Rime” di Gandolfo Porrino custodito nel F (...) 9Il Masetti Zannini ricava dai documenti processuali28, trascritti in appendice al saggio, che Livia fu uccisa da due sicari assoldati da Pompeo, che non partecipò attivamente all’omicidio della suocera, ma si limitò ad assistere. I giudici stabilirono che il movente del crimine fu il denaro; nelle carte del processo e nel documento di condanna contro il mandante Pompeo Colonna e gli esecutori Paciacca di Terni e Filippo di Metelica, emesso il 16 marzo 155429, non vi è alcun accenno né alla mutilazione della mano30 né al matrimonio di Livia con un domestico. Lo studioso riflette inoltre sul fatto che nel xvi secolo difficilmente sarebbero stati scritti e pubblicati «tutti quegli elogi» su Livia, se quest’ultima avesse «abbandonato la castità vedovile per unirsi a un servitore»31. Egli quindi ritiene che il Caluso abbia mal inteso il verso del Dardano, che doveva invece essere interpretato in un altro modo: «dando a “mano” il senso di “fianco”, avremmo una plausibile spiegazione del sogno. Infatti Livia scopertosi il “lacero petto” non poteva in tal guisa mostrare una “mano”, ma un fianco con una profonda lacerazione»32. Contro questa interpretazione polemizza, giustamente, Domenico Chiodo, che difende le ragioni del Caluso: «le sue [dell’abate] capacità di lettura erano infinitamente superiori alle ‘ragionevoli’ supposizioni del nostro contemporaneo»33. 34 L’opera (mm 198x285) è scritta con inchiostro nero e grafia minuta su 5 carte scritte sia sul recto(...) 35 È bene precisare che il Verani si rivolge a un anonimo amico che gli aveva chiesto di commentare il (...) 36 Di Livia Colonna del cittadino Tommaso Valperga-Caluso: Osservazioni del Cit. Tommaso Verani Ex-ago (...) 10Anche ai tempi del Caluso era stata sollevata una critica alla ricostruzione dell’abate; nel manoscritto inedito Di Livia Colonna del cittadino Tommaso Valperga-Caluso: Osservazioni del Cit. Tommaso Verani Ex-agostiniano34, conservato presso il Castello di Masino (ms 399), il Verani35 dichiarava di non fidarsi delle parole dei poeti della raccolta, perché: «la maggior parte di essi soggiornavano lontano dalla Capitale del Mondo Cattolico e perciò soggetti a ricevere da’ loro corrispondenti varie o false o almen dubbiose relazioni»36. 37 Scrive il Verani: «Quanto a Pompeo Colonna, che egli fosse il barbaro uccisore di Livia, non vi è a (...) 11Egli spiegava diversamente il significato dei versi citati dal Caluso e in questo modo metteva in discussione sia la colpevolezza di Pompeo37 sia l’interpretazione del verso del Dardano: 38 Ibid. Altrettanta fede merita il sogno del Dardano, a cui non comparve Livia con la recisa man, l’aperto lato, sembrandomi assai più probabile che al primo colpo ella cercasse di ripararsi colla mano, ed anche al secondo, onde la mano venisse gravemente ferita, ma non recisa38. 39 L’articolo di lettera è conservato presso gli Annali calusiani della Biblioteca Reale di Torino (ms (...) La spiegazione del Caluso aveva invece persuaso il Vice Bibliotecario di Mantova Ferdinando Negri, che in una lettera inedita dell’aprile del 1815 scrisse al Napione di aver trovato un epigramma latino che confermava le ipotesi del Caluso39; nel componimento però non vi è un riferimento esplicito alla mutilazione della mano. 40 Il caso dell’assassinio della Contessa Aureli aveva interessato anche A. Ferrero Ponziglione, che n (...) 41 Il manoscritto (ms 279, III, 3) è vergato su 6 carte (mm 211x305), compilate sia sul recto sia sul (...) 12Il Caluso si occupò anche di un altro fatto di cronaca nera dai risvolti torbidi e brutali: l’assassinio di una contessa da parte di un ufficiale francese40. Presso il Fondo Peyron sono conservati due documenti, scritti da mani diverse41, concernenti la vicenda del delitto della Contessa Aureli della Torricella; le prime due carte contengono una raccolta di cinque testimonianze intorno a Monsù, ovvero Monsieur, Bresse («Memorie intorno Monsù Bresse che li 3 Maggio 1747 uccise la Contessa Aureli della Torricella, nata Colli, famiglia patrizia della Presente Città di Cherasco»), mentre le successive quattro carte contengono un racconto particolareggiato dei fatti. 42 Il narratore formula varie ipotesi sulle origini del Bresse che, a seconda dei diversi indizi, può (...) 43 Sotto il racconto si legge la seguente nota: «La presente Relazione fu trovata trai Scritti dell’al (...) 13La vicenda esposta nel secondo documento è la seguente: l’ufficiale francese Monsieur Bresse42 è follemente innamorato della Contessa Aureli della Torricella che però, pur apprezzando la sua compagnia, non vuole concedersi all’amico. Dopo un anno di incessanti nonché vani corteggiamenti, domenica 3 maggio 1747, Monsieur Bresse sale a casa della donna e, approfittando di un momento di intimità, tenta per l’ennesima volta di sedurla; la Contessa Aureli però si nega in modo risoluto e la fermezza del suo rifiuto umilia a tal punto il Bresse da farlo cadere in preda a un raptus omicida: egli brandisce la spada e sferra sei colpi nel petto della donna. La vittima, nel tentativo di difendersi, si taglia di netto un dito della mano e il suo disperato schermirsi eccita ancor più il furore sadico del Bresse, che la colpisce sul volto con pugni e con l’elsa della spada. Finito il massacro, l’assassino chiude la porta a chiave e torna a casa, dove, colto dal rimorso e dall’orrore delle proprie azioni, si toglie la vita con un colpo di baionetta in mezzo agli occhi. La Contessa intanto, non ancora sopraffatta dalla morte, striscia in un lago di sangue e tenta di alzarsi aggrappandosi alla tappezzeria, che cede per il peso del corpo e fa ricadere a terra la donna ormai agonizzante. L’Aureli viene ritrovata qualche ora dopo col volto tumefatto, il petto squarciato dalle ferite e un orecchio aperto in due. Più tardi viene rinvenuto anche il cadavere del Bresse, che dopo essere stato conservato tre giorni nella sabbia, viene seppellito, secondo un ordine giunto da Torino, come si farebbe con «dei cani o degli asini morti». Il racconto si conclude con una tirata moraleggiante contro la pratica del cicisbeismo, ormai diffusasi anche presso le «petecchie di Cherasco» che fanno carte false per procurarsi un «damerino»43. 44 Il commento del Caluso si trova nella parte inferiore del recto dell’ultima carta. È da segnalare i (...) 14Il Caluso scrisse alcune considerazioni in merito al secondo documento del manoscritto44: 45 Ibid. Questa non è relazione, ma novella, a imitazione di quelle del Boccaccio, benché non molto felicemente lavorata. Le ultime parole sono d’un impostore, che le ha aggiunte a disegno di far credere che fosse questo un ragguaglio fatto a un Cardinale. Ma oltre che vi stanno appiccicate collo sputo, e non sono dello stile del rimanente, non si confanno in modo alcuno col titolo e cominciamento. Senza dubbio l’autore finì ove ha posta la stelletta. È qui del rimanente questa novella molto mal concia del suo copista45. 46 Ibid. L’abate quindi commenta il manoscritto da due diversi punti di vista: da un lato dimostra la falsità delle dichiarazioni che chiudono il racconto e dall’altro critica i contenuti e lo stile della narrazione. Per quanto concerne il primo aspetto, il Caluso fa riferimento all’ultima frase del testo, scritta dopo un asterisco: «E con questa scrizione sonomi ingegnato di contentare l’eminenza vostra, alla quale contarlo profondissime riverenze divotamente mi raccomando»46. 47 Lo scritto ricalca la struttura tipica della novella; il racconto infatti è preceduto da un breve r (...) 15Le argomentazioni addotte dall’abate per smascherare la contraffazione sono convincenti: lo stile dell’ultima frase non si sposa con quello del racconto e anche il contenuto di questa presunta aggiunta è svincolato dalle altre parti del testo. La nostra analisi grafologica ha stabilito che l’ultima frase fu scritta dalla stessa mano del resto del testo; questo dimostra che il documento posseduto dal Caluso non è l’originale, ma è una trascrizione realizzata da un copista inesperto, che non si era accorto della falsificazione. Per quanto riguarda invece il secondo aspetto, l’abate sottolinea che il testo del secondo documento non possiede né lo stile né la struttura di un resoconto rigoroso e oggettivo, ma somiglia a una novella di poco valore47. Questo giudizio è dovuto allo stile lambiccato e ridondante del narratore, che in diversi punti cade nel comico involontario. 16Questo caso di omicidio-suicidio avvenuto nella provincia cuneese del Settecento stimolò la curiosità del Caluso, che, come abbiamo visto, si era già interessato al delitto di Livia Colonna. Molti sono i punti di contatto tra i due fatti di cronaca: in entrambi i casi si ha una bellissima nobildonna massacrata e mutilata (a Livia, secondo la ricostruzione dell’abate, viene tagliata la mano, mentre alla Contessa vengono recisi un dito e parte di un orecchio) da una persona apparentemente fidata e intima (Livia è trucidata dal genero, mentre la Contessa è uccisa dal proprio cavalier servente). 48 T. Valperga di Caluso, Versi italiani cit., p. 83. 49 Si veda a questo proposito D. Goldin Folena, Inês de Castro e il melodramma ita-liano: un incontro (...) 50 Si ricordi, per esempio, l’Inês de Castro di Antoine Houdar de La Motte (1723), che ebbe uno straor (...) 17Il Caluso si era interessato anche a un terzo caso riguardante una bella e sfortunata vittima di un efferato omicidio dalle conseguenze raccapriccianti: il sonetto Agnese io son, che in freddo marmo, e spenta dei Versi italiani, infatti, è dedicato a Inês de Castro, che, come ricorda l’abate nell’intestazione, fu «fatta uccidere nel 1355 da Alfonso VI re di Portogallo, perché sposa di Pietro suo figlio, poi successore, che nel 1361 la fece dissotterrare e coronare»48. Le notizie indicate dall’autore sono corrette: Inês de Castro fu l’amante del principe Pietro di Portogallo dal 1340 al 7 gennaio del 1355, giorno nel quale fu pugnalata barbaramente di fronte ai propri figlioletti da due sicari mandati dal re Alfonso VI, che era stato indotto ad autorizzare questo gesto sanguinoso da tre consiglieri, preoccupati dalla crescente prepotenza dei fratelli della donna, che si erano conquistati la fiducia e l’appoggio del principe. Pedro perdette il senno per lo shock e, raggruppate alcune milizie, mosse guerra contro il proprio padre, con il quale stipulò una tregua solo grazie all’intercessione della madre. Una volta divenuto re, Pedro diede sfogo alle proprie vendette e ai propri deliri: condannò a morte due dei consiglieri del padre, ai quali venne strappato il cuore di fronte ai cortigiani e ai militari d’alto rango, costretti ad assistere a questa atroce punizione, e fece disseppellire e ricomporre il cadavere di Inês, affinché la salma della propria amata fosse incoronata dal vescovo “regina di Portogallo”. Questo fatto sanguinoso ispirò molti autori, primo tra tutti Camões, che cantò le lacrime di Inês nei Lusiadi; nel Settecento e nell’Ottocento la dolorosa vicenda di Inês ebbe ampia fortuna sia nel mondo del teatro musicale49 sia in ambito tragico50. 18Nel sonetto calusiano, Inês ricorda la propria triste vicenda terrena e la propria incoronazione post mortem e sottolinea la crudeltà del re e l’efferatezza dell’omicidio: Agnese io son, che in freddo marmo, e spenta Ebbi scettro e corona, in vita affanni; Benché pur di pensar foss’io contenta Fra gli opposti furor di due tiranni. Amando me, cagion de’ nostri danni L’un, di me privo Re crudel diventa; Sdegnando, credé l’altro i miei verd’anni Ragion di Re troncar con man cruenta. Ahi suocero spietato! e in che t’offese Beltà modesta, umil, se de’ suoi rai Perdutamente il tuo figliuol s’accese? 51 T. Valperga di Caluso, Versi italiani cit., p. 83. Io vinta, mal mio grado il riamai. E se incolpi Imeneo, che a noi discese, Mio bel fallo sarà che non peccai.51 Il Caluso si dilungò nella descrizione di un macabro fatto di cronaca anche nella lettera al nipote Giovanni Alessandro Valperga marchese di Albery del 24 maggio 1775, nella quale viene narrato l’agghiacciante suicidio del giovane professore torinese Don Casasopra, che, caduto in un profondissima depressione, si era tolto la vita nella notte tra il 20 e il 21 maggio del 1775: 52 M. Cipriani, Le lettere inedite dell’abate Tommaso Valperga di Caluso al nipote Giovanni Alessandro (...) si trovò il letto imbrattato copiosamente di sangue ed egli con un laccio al collo, soffocato presso a una scanzia, ed era lacerato di colpi di temperino, che alcuni dicono giungere al numero di vent’otto. Se ne poté conchiudere che egli cominciò per tentar d’uccidersi sul letto con volersi tagliare i polsi alle mani e alle tempia e poi si dié tre colpi di punta verso il cuore, e tardando forse la morte, o che immediatamente egli siasi anche a ciò trasportato, egli passò a impicarsi. La cagione si può credere una frenesia nata di malinconia e d’accension di sangue52. 19Se indaghiamo in modo approfondito i quattro casi che attirarono la curiosità dell’abate, ci accorgiamo subito che l’elemento che li accomuna è la brutalizzazione del corpo. Livia e la Contessa Aureli non sono semplicemente uccise con violenza; i loro corpi sono massacrati in modo gratuito, perché la maggior parte delle ferite inferte non sono funzionali alla morte delle donne, ma sono frutto della rabbia e del sadismo degli assassini (la criminologia contemporanea cataloga questi atti come overkilling, considerandoli una importante aggravante in sede processuale). In questo modo gli omicidi privano le donne non solo della vita, ma anche della bellezza e, quel che è peggio, della dignità: lo spettacolo che si apre a coloro che trovano i cadaveri infatti è indecente. L’insistere sull’avvenenza delle due donne quindi è funzionale per creare il contrasto tra ante e post flagitium; il potere deturpante della follia colpisce la sensibilità del lettore, che inevitabilmente resta più impressionato di fronte al corpo straziato di due belle e giovani donne rispetto a quello, per esempio, di uomini adulti. L’assassino di Livia – anzi, stando alle carte processuali, i due killer assoldati da Pompeo – mutila la donna per lanciare un messaggio, mentre il Bresse stacca un dito e parte di un orecchio alla Contessa perché non sa dominare la propria furia. Tanto i primi quanto il secondo non portano con loro le parti mozzate per farne un trofeo o una macabra reliquia, perché non sono mitomani o psicopatici, i primi, infatti, lavorano “su commissione”, mentre il secondo agisce in preda a un raptus. 53 A. Favole, Resti di umanità: vita sociale del corpo dopo la morte, Bari, Laterza, 2008, p. 37. 20Nel terzo caso, quello di Inês, si assiste a un ribaltamento di prospettiva: all’amputazione si sostituisce la ricomposizione del cadavere; opposto è anche il tipo di follia che provoca il “gesto”, si passa dal furore omicida al furore amoroso, che sembra essere ancora più sconcertante. Anche in questo caso il contrasto tra la «beltà onesta, umil» di Inês e la sua salma ricomposta – o meglio quello che resta della sua salma dopo oltre due anni di decomposizione – è molto forte; l’incapacità di dominare il desiderio di vedere riconosciuto il ruolo di regina all’amatissima defunta porta Pedro a spalancarne la bara (la cui chiusura, ci insegnano gli antropologi, segna «la fine di ogni possibilità di intervento sociale, culturale e affettivo sul corpo»)53 e a plasmare una creatura mostruosa. 21Nel quarto caso è l’accumulo verticale di violenze autoinflitte a creare ribrezzo: la mente allo stesso tempo si serve del corpo e lotta contro esso, che da un lato si fa strumento di tortura e dall’altro si ribella, resistendo alla morte il più possibile. Ciò che sconvolge è la frenetica impazienza del Casasopra, che desidera a tal punto annullare la propria esistenza da suicidarsi, potremmo dire, tre volte contemporaneamente. L’abate quindi osserva una terza tipologia di follia, quella suicida. 22Il Caluso si concentra tanto sul corpo mutilato delle vittime quanto sul corpo mutilante dei carnefici, che possono trasformarsi a loro volta in vittime di se stessi; in Don Casasopra carnefice e vittima coesistono, mentre il Bresse, spinto dal rimorso, decide di togliersi la vita in modo razionale, per quanto è possibile, contrariamente al professore torinese che cede invece alla «frenesia». 23Negli occhi del Caluso è assente la pietà cristiana, non perché egli fosse insensibile alle sciagure, ma perché l’interesse che lo spinge a osservare questi fatti di sangue è di tipo scientifico; egli, in generale nei suoi scritti filosofici, evita di introdurre considerazioni di carattere teologico o semplicemente religioso, perché non sente l’esigenza, provata da molti suoi contemporanei, di conciliare il cristianesimo con la filosofia dei lumi o con le correnti filosofiche antiche, i concetti di virtù o di colpa vanno intesi sempre in senso laico. Lo sguardo scientifico è evidente, per esempio, nella descrizione del terrificante suicidio del professore torinese. L’abate non spende parole di pietà per il Casasopra, ma presenta subito le proprie ipotesi in merito alle cause di un gesto così estremo: egli suppone che la follia suicida sia stata scatenata dalla combinazione di una causa psicologica («malinconia») e una organica («accension di sangue»). Senza la sentenza scientifica finale, la descrizione del suicidio del Casasopra potrebbe avere anche un che di farsesco (un farsesco funereo, ma pur sempre farsesco): l’immagine di un uomo che con ventotto coltellate e i polsi tagliati tenta di impiccarsi però non fa sorridere cinicamente, perché il Caluso descrive il tutto come un caso clinico e non come una scena, mi si passi il termine, splatter, anzi comic splatter. 54 Il Caluso visse a Lisbona dal febbraio 1770 al settembre 1773, ospite del fratello Carlo Francesco, (...) 24L’abate non sovrappone la fiction agli oggetti della propria riflessione filosofica. La componente orrorifica, per esempio, è molto presente nel Masino, poemetto popolato da mostri, diavoli, folletti malvagi e morti resuscitati; questo testimonia che egli non fu immune all’influenza dell’Arcadia lugubre, ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con i quattro casi dei quali ci stiamo occupando, che non sono trattati come storie, come racconti, ma come fatti di cronaca, recente o lontana, da esaminare. La terrificante incoronazione di Inês è sviluppata sì in un sonetto, ma la prefazione in prosa che illustra la vicenda storica testimonia che l’autore aveva compiuto studi approfonditi sull’episodio, forse durante il suo soggiorno lusitano54. 25Il corpo smembrato viene “osservato” non con compiacimento morboso, ma con l’occhio attento del filosofo, che, studiando il potere della ragione, è costretto a indagarne anche i limiti e le ombre. Il Caluso in verità non censura in alcun modo i particolari più macabri delle vicende, come l’arto mozzato di Livia, la pozza di sangue nella quale striscia la Contessa, il foro in mezzo alle ciglia del Bresse (poi sotterrato come la carogna di un animale), lo scettro ricevuto da Inês «in freddo marmo», le ventotto ferite del Casasopra; questo sguardo fisso sui dettagli più agghiaccianti però non è fine a se stesso, ma serve a “toccare con mano” quanto orrore generi la follia. Così nella vicenda di Inês, ciò che disgusta maggiormente il lettore non è il ripugnante cadavere ricomposto, ma la pazzia di Pedro: insomma il mostro non è lo scheletro di Inês, ma Pedro stesso. 26L’interesse per i fatti di sangue dimostra come sia fuorviante e falsa la rappresentazione del Caluso come saggio rintanato nel proprio rassicurante romitorio, dal quale contempla con indifferenza il mondo e le sue passioni; egli, al contrario, era attaccato alla “vita reale” (ne è una riprova il fatto che nelle sue opere preferisce sempre offrire esempi tangibili, senza abbandonarsi a teorie fumose o ad astratte elucubrazioni) ed era desideroso di studiare l’uomo “vero” – quello che, a volte, cede alla brutalità e alla follia più nera – e non l’uomo ideale. Il Caluso crede che ogni progresso sia possibile solo partendo dall’analisi di «ciò che esiste», egli non vuole proporre un modello utopistico di uomo perfetto, ma desidera ragionare concretamente sulla natura umana, sulle sue luci e sui suoi spettri. NOTES 1 Sulla figura dell’abate di Caluso (1737-1815) si vedano gli studi del Calcaterra e, soprattutto, del Cerruti (M. Cerruti, La ragione felice e altri miti del Settecento, Firenze, Olschki, 1973; Id., Le buie tracce: intelligenza subalpina al tramonto dei lumi; con tre lettere inedite di Tommaso Valperga di Caluso a Giambattista Bodoni, Torino, Centro studi piemontesi, 1988; Id., Un inedito di Masino all’origine dell’opuscolo dibremiano ‘Degli studi e delle virtù dell’Abate Valperga di Caluso’, «Studi piemontesi», XXIX, 2000, pp. 7-21. Inoltre mi permetto di rinviare anche alla mia monografia: M. Contini, La felicità del savio. Ricerche su Tommaso Valperga di Caluso, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2011. 2 Si legga il seguente passo, tratto da una lettera del Foscolo alla Contessa d’Albany del 1813: «e io lasciai l’ordine ch’ella, e il pittore egregio, e l’ottimista abate di Caluso avessero l’edizione in carta velina» (U. Foscolo, Epistolario, a cura di P. Carli, Firenze, Le Monnier, 1956, IV, p. 317). Questo appellativo si riferisce, ovviamente, alla più famosa composizione dell’abate, il poemetto in terza rima La Ragione felice, composto a Firenze nel 1779, come precisa l’abate stesso nell’introduzione alla raccolta Versi italiani (Euforbo Melesigenio, Versi italiani di Tommaso Valperga Caluso fra gli Arcadi Euforbo Melesigenio, Torino, Barberis, 1807). 3 L’inedito Della felicità de’ governati, ritrovato presso l’Archivio Peyron della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino (ms segnato 287, II), è ora pubblicato in M. Contini, La felicità cit., pp. 157-194. 4 A proposito del concetto calusiano di rassegnazione, si legga il seguente passo, tratto della lettera alla Contessa d’Albany del 14 aprile 1808: «De’ cardinali Doria lodo la rassegnazione, virtù troppo necessaria alla felicità, o per parlare più esattamente a scemare l’infelicità nostra, onde io ne fo uno de’ punti precipui della mia filosofia, d’acquetarsi alla necessità» (L.G. Pélissier, Le portefeuille de la comtesse d’Albany, Paris, Fontemoing, 1902, pp. 14-15). 5 Euforbo Melesigenio, Versi italiani cit., p. 38. 6 Diderot aveva constatato che nella pratica quotidiana si incontravano uomini felici, pur essendo tutt’altro che virtuosi, e lo stesso ragionamento era stato presentato da Voltaire a proposito della razionalità. 7 Euforbo Melesigenio, Versi italiani cit., p. 22. Il fatto che le passioni fossero necessarie all’uomo per sfuggire la noia era stato sottolineato con forza dall’abate Du Bos nel primo capitolo delle Réflexions critiques sur la poésie et la peinture (1718), opera che eserciterà una grande influenza sull’estetica settecentesca. In questi versi il Caluso non fa riferimento alla noia, ma descrive uno stato d’animo ancora peggiore: l’apatia. 8 Id., Versi italiani cit., p. 33. 9 Il manoscritto è conservato presso la Biblioteca Reale di Torino (ms Varia 176, 4). 10 I manoscritti di L’Amour vaincu (ms Varia 176 1/2, s.1, b. 14) e di Les aventures du Marquis de Belmont écrites par lui même ou les nouveaux malheurs de l’amour (ms Varia 176 1/2, s.2, b. 16) sono conservati presso la Biblioteca Reale di Torino. 11 Euforbo Melesigenio, Versi italiani cit., pp. 213-247. 12 L’inedito Varia Philosophica, ritrovato presso l’Archivio Peyron della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino (ms segnato 286, 4), è riprodotto in M. Contini, Nuove ricerche sull’attività letteraria di Tommaso Valperga di Caluso, tesi di dottorato, tutor Enrico Mattioda, Torino, Università degli Studi, a. a. 2010-11, II, pp. 218-229. 13 T. Valperga di Caluso, Di Livia Colonna del cittadino Tommaso Valperga, in Mémoires de l’Académie des sciences littérature et beaux-arts de Turin, X-XI, Torino, Imprimerie des sciences et des arts, 1803-1804, pp. 247-257. 14 La raccolta fu pubblicata a Roma da Antonio Barre nel 1555. 15 Id, Di Livia Colonna cit., p. 251. 16 Il Caluso in un brano del Della certezza morale ed istorica sottolinea come sia importante esaminare le notizie riferite dai poeti: «Diciamone adunque partitamente, vediamo prima qual sia l’esame del fatto per trarne i precetti per questa prima parte anche per la critica degli avvenimenti che ci siano tramandati dagli scrittori di qualche genere, e partitamente da’ Poeti» (Della certezza morale ed istorica; Fondo Peyron; ms 286, 2). 17 L’abate cita le seguenti fonti: G.B. Adriani, Istoria de’ suoi tempi di Giouambatista Adriani gentilhuomo fiorentino. Diuisa in libri ventidue, Firenze, Giunti, 1583 e D. De Santis, Columnensium procerum imagines, et memorias nonnullas hactenus in vnum redactas, Roma, Bernabo, 1675. 18 Il Caluso ricorda che vari poeti avevano scritto «molte dolenti rime» su questo tema e cita un passo di un madrigale del Caro. Presso la Biblioteca Apostolica Vaticana è conservato il manoscritto Composizioni latine et volgari di diversi eccellenti authori sovra gli occhi della Ill. Signora Livia Colonna (ms Capponi 152). 19 T. Valperga di Caluso, Di Livia Colonna cit., p. 251. 20 L’abate fa una precisazione sul nome della figlia di Livia: “la figliuola della nostra Livia da Domenico Santi chiamata Orintia, Oritia, trovisi altrove chiamata Ortenzia” (ivi, p. 257). 21 Ivi, p. 252. 22 Ibid. 23 Ivi, p. 253. 24 Ivi, p. 252. 25 Ivi, p. 254. 26 G. L. Masetti Zannini, Livia Colonna tra storia e lettere (1522-1554), in Studi offerti a Giovanni Incisa della Rocchetta, Roma, Società romana di storia patria, 1973, pp. 293-321. 27 Ivi, p. 293. 28 Archivio di Stato di Roma, Tribunale del Governatore, Processi, sec. xvi, 19 (1554, gennaio 25). 29 I responsabili furono condannati grazie alle deposizioni di testimoni oculari. 30 La testimone oculare Beatrice di Petrella, per esempio, dichiarò che Livia fu ferita due volte alla gola e molteplici volte ai fianchi, ma non fece alcun riferimento alla mutilazione di arti. 31 Ivi, p. 309. 32 Ivi, p. 310. 33 D. Chiodo, Di alcune curiose chiose a un esemplare delle “Rime” di Gandolfo Porrino custodito nel Fondo Cian, «Giornale storico della letteratura italiana», CLXXX, 2003, pp. 92-95. 34 L’opera (mm 198x285) è scritta con inchiostro nero e grafia minuta su 5 carte scritte sia sul recto sia sul verso, a parte l’ultima, scritta solo sul recto. 35 È bene precisare che il Verani si rivolge a un anonimo amico che gli aveva chiesto di commentare il saggio del Caluso. Probabilmente questo anonimo amico aveva poi consegnato all’abate lo scritto del Verani. 36 Di Livia Colonna del cittadino Tommaso Valperga-Caluso: Osservazioni del Cit. Tommaso Verani Ex-agostiniano (Fondo Masino; ms 399). 37 Scrive il Verani: «Quanto a Pompeo Colonna, che egli fosse il barbaro uccisore di Livia, non vi è altro documento, ch’io sappia, se non la semplice osservazione del Sansovino, di cui non possiamo fidarci, poiché non Livia, ma Lucia donna di Marzio Colonna, la quale fu morta da Pompeo suo genero. Quindi è che non so indurmi a credere Pompeo capace di sì orrido fatto, e molto meno per un vile interesse o di eredità o di dote o di qualunque altro motivo o di odio e vendetta a noi ignoto». Egli in un passo successivo sottolinea anche che Livia chiamò “figliuolo” il proprio uccisore non perché era suo genero, ma per intenerirlo e indurlo a desistere dal gesto delittuoso (ibid.). 38 Ibid. 39 L’articolo di lettera è conservato presso gli Annali calusiani della Biblioteca Reale di Torino (ms St. Patria 689). Non si tratta della lettera originale del Negri al Napione, ma di una copia dello stesso Napione, che, su richiesta del Balbo, trascrisse la parte della lettera che riguardava il Caluso. 40 Il caso dell’assassinio della Contessa Aureli aveva interessato anche A. Ferrero Ponziglione, che nell’adunanza della Patria Società letteraria del 20 maggio 1790 propose la composizione di una novella su questo argomento (C. Calcaterra, Le adunanze della ‘Patria Società Letteraria’, Torino, SEI, 1943, p. 250). Il Caluso non era presente a questa adunanza, in quanto entrerà nella Filopatria solo il 20 dicembre 1792; sappiamo però che egli intervenne a qualche assemblea anche prima di questa data e che intrattenne stretti rapporti coi Filopatridi. Probabilmente quindi l’abate si interessò alla vicenda di Monsù Bresse grazie a qualche conversazione con gli amici e colleghi torinesi. 41 Il manoscritto (ms 279, III, 3) è vergato su 6 carte (mm 211x305), compilate sia sul recto sia sul verso: le prime due sono scritte da una mano, mentre le altre 4 da un’altra. Entrambe le grafie non sono riconducibili a quella del Caluso. 42 Il narratore formula varie ipotesi sulle origini del Bresse che, a seconda dei diversi indizi, può essere identificato con un ugonotto, un massone o un ex chierico. 43 Sotto il racconto si legge la seguente nota: «La presente Relazione fu trovata trai Scritti dell’allora profess. di Retorica D. Castellani, ed è questa in data dei 12 Maggio 1747, 9 giorni dopo l’avvenimento». Annotazione scritta dalla stessa mano che aveva compilato il primo dei due documenti (Memoria intorno a Monsù Bresse; Fondo Peyron 279, III, 3). 44 Il commento del Caluso si trova nella parte inferiore del recto dell’ultima carta. È da segnalare inoltre che nel verso dell’ultima carta si leggono alcune prove di firma del Caluso. 45 Ibid. 46 Ibid. 47 Lo scritto ricalca la struttura tipica della novella; il racconto infatti è preceduto da un breve riassunto: «Un’ufficiale di Francia ama una Donna Piemontese per lo spazio di più di un anno, e perché da lei gli è vietato il venir ad ottenere qualche suo fine poco onesto, la uccide, e ultimamente pentito di tanta atrocità usata, da se medesimo si dà la morte» (ibid.). 48 T. Valperga di Caluso, Versi italiani cit., p. 83. 49 Si veda a questo proposito D. Goldin Folena, Inês de Castro e il melodramma ita-liano: un incontro obbligato, in Inês de Castro: studi, a cura di P. Botta, Ravenna, Longo, 1999, p. 230. 50 Si ricordi, per esempio, l’Inês de Castro di Antoine Houdar de La Motte (1723), che ebbe uno straordinario successo di pubblico e venne tradotta dall’Albergati nel 1768 (F. Albergati Capacelli - A. Paradisi, Scelta di alcune eccellenti tragedie francesi tradotte in verso sciolto italiano, vol. III, Liegi ma Modena, 1768). 51 T. Valperga di Caluso, Versi italiani cit., p. 83. 52 M. Cipriani, Le lettere inedite dell’abate Tommaso Valperga di Caluso al nipote Giovanni Alessandro Valperga marchese di Albery conservate nei fondi del castello di Masino, tesi di laurea, relatore Marco Cerruti, Torino, Università degli Studi, a.a. 2001-2002, pp. 101-102. 53 A. Favole, Resti di umanità: vita sociale del corpo dopo la morte, Bari, Laterza, 2008, p. 37. 54 Il Caluso visse a Lisbona dal febbraio 1770 al settembre 1773, ospite del fratello Carlo Francesco, ambasciatore in Portogallo e futuro viceré di Sardegna. In questo periodo venne a contatto con la cultura portoghese, spagnola e inglese e, come tutti sanno, conobbe e “iniziò alla poesia” l’amico Alfieri.
Wednesday, July 14, 2021
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