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Thursday, August 13, 2020

IMPLICATVRVM -- in IV -- III

gono alle leggi secondarie. V. Promessa. OBBLIGo e OBLIGo (prat, ), debito di fare una cosa, che sia suggerita o dalla legge positiva, o dalla morale, o dalla usanza, o anche dalla semplice conve: nienza. Ha per conseguente un senso più lato dell'obligazione, che si riferisce a doveri positivi, imposti da legge, o contratti per – 255 - promessa. E però eorrere ad alcuno l'obli go vuol dir convenire, e l'avere obligo verso d'un altro abbraccia ancora la rico noscenza, o la reciprocazione negli ufizi della vita. V. Uficio. OBBLIo e OBBLIvioNE, profonda dimen ticanza, che avvenir suole per difetto di volontà o di sentimento. V. Dimenticanza. OneRoeRio (prat.), il vitupero o l'in famia, che procede da cosa bruttamente fatta. Si adopera ancora per la stessa infa mia, o vitupero, nel quale senso dicia mo, che una cosa torna ad obbrobrio di chicchessia. V. Infamia, Vitupero. Vale ancora detto oltraggioso, o villa mia, che a qualcheduno s'indirizza, per offenderlo e schernirlo. OBITo. V. Morte. OccasioNALE (spee. ontol. e prat.), quel che porge occasione. V. Occasione, Occasionale, aggiunto di causa. V. que sta Voce. Occasione (prat. e disc.), opportunità di fare, o di dire qualche cosa. È l'idea stessa dell'opportunità appli cata alla scelta del tempo proprio al fare, o al dire una data cosa. L'opportunità ha un significato più generico, perchè ab braccia la convenienza, non solamente del tempo, ma anche del luogo e delle persone. - Il senso che noi le diamo è uniforme a quello che le diedero i Greci, i quali la chiamarono euwaipta, e i Latini che la dissero occasio. Cicerone la definì: occa sio est pars temporis, habens in se ali cuius rei idoneam faciendi, aut non fa. eiendi opportunitatem. Quare cum tem pore hoe differt. Nam genere quidem utrumque idem esse intelligitur: verum in tempore spatium quodammodo decla ratur, quod in annis, aut in anno, aut in aliqua anni parte spectatur: in oc casione ad spatium temporis, faciendi quaedam opportunitas intelligitur adjun eta (Cic. de invent. rhet. lib. I. cap. 27). Occhio (erit. spec. e disc.), organo della visione, posto sotto della fronte, e a canto alla radice del naso ; composto di membrane e di umori, i quali sono stati dalla natura predisposti a ricevere e a modificare le impressioni della luce ; abbondante di nervi, e mosso da mu scoli, de quali l'azione corrisponde ad ogni parte del meccanismo della visione; unito all'encefalo per mezzo d'un nervo detto ottico, il quale dalla parte posteriore forma quasi un pedicciuolo o gambo ; collocato il globo dell'occhio in una ca vità ossea, detta orbita, umettato cotesto globo da un fluido che tramandan le glandule, dette lacrimali; coverto esternamente e custodito da due membrane cartilaginose e muscolari, dette palpebre, le quali son dotate d'una mo bilità istantanea, acciocchè possano non solamente difendere le parti delicate de gli occhi dalle percosse, e dal contatto aspro o violento delle minime particelle della materia, degl'insetti, dell'acqua, e dell'aria stessa, ma ancora chiudere e aprire a volontà l'accesso alla luce; terminate le palpebre ad un arco carti laginoso, acciocchè possan quelle abbrac ciare tutta la convessità del globo; sormontate dalle ciglia, le quali impe 50 - 254 – discono, che il sudore, e qualunque al tro fluido, che scorra per la fronte, non penetri nell'occhio; senza dir altro di quel che la natura ha fatto per la bellezza e simmetria della figura, sopra tutto dell'uomo. Non è parte di questo bell'organo che non porti in se impressa la ragione dell'uso, cui la natura lo ha destinato. La sua so stanza membranosa, la forma, l'artifizio col quale son preparati gli effetti della luce, e le stesse infime parti, che sembrar po trebbero accessorie più che principali, son tutte coordinate a produrre la visione, la più importante di tutte le sensazioni, anzi quella per la quale formar possiamo un più chiaro concetto degli obbietti esterni. Noi abbiam veduto negli articoli lente e luce le leggi, secondo le quali la luce si propaga, riflette, e si refrange. I suoi raggi si spandono in linea retta, ma par tendo da uno stesso punto divergono l'uno dall'altro. Se in questo modo entrassero nell'occhio, e non fossero raccolti e indi rizzati ad un punto stesso, non si conse guirebbe lo scopo della visione. Tale scopo è la formazione di una esatta immagine dell'obbietto visibile nel fondo dell' oc chio, o sia sulla retina, che è la tela de stinata a riceverne l'impressione. V. Lente, Luce. Ma i raggi di luce, che provengono da un obbietto vicino, entrano nell'occhio con una divergenza maggiore de lontani, e non potrebbero andare a cadere nel me desimo punto, e formarvi l'immagine del l'obbietto senza più e diverse refrazioni, o sia senza l'aiuto di vari mezzi, più o meno refrangenti. Le lenti degli occhi son le membrane e gli umori di differente den sità, di cui la natura gli ha provveduti. Che anzi, le lenti sono una imitazione di coteste membrane delicate e trasparenti, le quali fan passare i raggi diretti, fran gono gli obliqui, e raccolgono gl'inci denti per indirizzargli tutti al punto, in cui debbano gli obbietti essere dipinti. Il globo dell'occhio è vestito esterna mente da una tenuissima membrana, det ta adnata o congiuntiva, membrana mu cosa, continuazione detegumenti esterni, che dopo avere rivestito i margini, e l'in terno delle palpebre, ripiegasi sul globo, e lo ricopre nella massima estensione, senza eccettuarne lo spazio occupato dal la cornea trasparente. Le altre membrane proprie dell'occhio sono: 1.º la sclerotica, o cornea opaca, mem brana fibrosa, congenere alla dura madre, la quale costituisce il guscio duro dell'oc chio: ha un foro cribroso nella parte po steriore, per lo quale s'introducono i rag gi del nervo ottico: la sua figura è sfe rica, mancante d'un segmento, accioc chè nella parte che manca incassarsi po tesse un'altra membrana anteriore, la cor nea trasparente, come il cristallo s'incassa nell'oriuolo: 2.º la cornea trasparente, segmento di sfera d'un diametro minore della scle rotica, di tessuto squamoso, elastico, e diafano: 3.º la coroidea, membrana essenzial mente vascolare, affine alla pia madre, di color fosco nell'uomo, e di color va rio negli animali, detta da molti tappeto, perchè riveste tutta l'interna superficie del la sclerotica dalla parte posteriore all'an teriore, giugnendo sino all'orbicolo cilia re, presso a poco nel sito, ove la cornea trasparente s'impianta nella sclerotica. La coroidea non pertanto, in taluni animali mammiferi è in parte foderata da un al tro strato, che pur dicesi tappeto: – 255 - 4.º la retina, membrana tenuissima, fragile, di colore perlino, nella quale spam desi, a guisa d'una tela, il nervo ottico: contigua nella parte interna alla coroidea, procede da dietro in avanti, rivestendo tutto l'ambito della medesima: gli anato mici discordano nel determinare il limite anteriore di questa nervea membrana: pen san taluni, che finisca alla distanza di due linee dal corpo ciliare, al quale si con giunga per un tessuto intermedio: credono altri, e sono i più accurati, che giunga, sempre più attenuandosi, insieme colla co roidea, insino al corpo ciliare, e si con fonda poi co' nervicciuoli ciliari. Un processo della coroidea, aderente al corpo ciliare, scende verticalmente dietro la cornea trasparente, e innanzi alla lente cristallina: la sua figura è circolare, ed ha un foro medio, detto pupilla: la sua superficie anteriore è versicolore e dicesi iride: la posteriore è uniformemente fo. sca, ed è denominata uvea: lo spazio in terposto tra la cornea trasparente e l'iride, forma quel che dicesi camera anteriore dell'occhio: quello tra l'uvea e la lente cristallina, camera posteriore a vario è il diametro della pupilla, dapoichè es sendo oltremodo mobile e facile a contrarsi l'armilla denominata iride, avviene che la pupilla si stringa e si dilati, secondo che la luce è più o meno viva, o copiosa. Gli umori che son contenuti nell'occhio son due, di varia densità e natura: primo per anteriorità di sito è l'umore aqueo, il quale occupa le due camere dell'occhio, comunicando dall'una all'altra per mezzo della pupilla: secondo, perchè più inter no, è l'umor vitreo, che rinchiuso in una membrana cellulare, detta jaloidea, occupa quasi due terze parti dell'occhio po steriormente alla lente cristallina: a rispetto non pertanto della densità, l'umor vitreo dirsi potrebbe primo, e l'aqueo, secondo. Nella superficie anteriore dell'umor vi treo, dietro la pupilla, e propriamente nel fondo della camera posteriore dell'occhio, è impiantata la lente cristallina, diafa na, involta in una capsula anche diafana, aderente al corpo ciliare, dal qual è cir condata: le due superficie sue, volte una in avanti e l'altra indietro, entrambe con vesse, sono segmenti di sfere, di diverso diametro. Giusta il sentimento di Petit, al quale la generalità del fisiologi aderi sce, il diametro della sfera di cui è seg mento la superficie anteriore è di cinque linee, e quello della posteriore di due e mezzo. E quì vuolsi notare, che cotesta misura è presa nell'uomo adulto, dacchè la convessità è maggiore nella infanzia, e minore nella vecchiaia. Il nervo ottico, per mezzo del quale l'occhio è in prossimo rapporto col cer vello, non è il solo, cui la natura abbia dato il ministero della visione; imperocchè dal ganglio oftalmico si diparte un fascetto di nervi, detto dalla sua figura flagello ciliare, il quale penetra nell'occhio a canto al nervo ottico, e oltrepassata la sclerotica, dividesi in molti raggi, che procedendo da dietro in avanti, tra la sclerotica e la coroidea, vanno a termi nare nel corpo ciliare. Da questo verisi milmente gli stessi nervicciuoli spandonsi nell'iride, quasi conduttori di quello squi sito senso, di cui l'anzidetta membrana è provveduta. Al corredo denervi succede l'altro del muscoli, de quali il globo del l' occhio è fornito : i muscoli son sei , quattro retti, e due obliqui : per mezzo loro quest'organo esegue i molti e svariati movimenti, de quali ha ricevuto l'attitu dine dalla natura. ar Ora applicando le leggi della refrazione a passaggi che fa la luce per le varie parti dell'occhio insino alla retina, si perviene facilmente ad intendere come ciascuna del le membrane e gli umori cooperino al fe nomeno della visione. 1.° I raggi della luce dall'aria, mezzo raro, passando per la cornea trasparente di quella molto più densa, debbono es sere avvicinati all'asse, e renduti conver genti; 2.” Nella camera anteriore e posteriore dell'occhio, incontrando l'umore aqueo, men denso della cornea, debbon perdere alquanto dell'acquistata convergenza; 3.° La superficie colorata dall'iride as sorbisce una quantità di raggi soverchi, e ove questi fossero troppi, o troppo for ti, la pupilla restringendosi, impedisce a molti il passaggio; 4.º Così giugnendo nella lente cristal lina, non più come erano prima di pene trar nella cornea, ma perduto avendo al quanto della convergenza acquistata a tra verso di questa, la lente dell'umore aqueo più densa e di forma convesso-convessa, opera su di essi una potente refrazione, il cui foco avviene al di là della superfi cie posteriore di questa. I raggi prolun gati al di là del foco, vanno a dipingere sul fondo della retina l'immagine dell'ob bietto, da cui partono. Ma chi può ritrarre tutte le sopraffine cautele, adoperate dalla natura, accioc chè il fenomeno della visione non patisse la benchè minima alterazione. Importava, p. e. , che la grandezza dell'immagine avesse una determinata estensione, accioc chè cadesse nella parte più sensibile della retina; ovvero che i punti stimolati della stessa non oltrepassassero un determinato spazio, onde ne risultasse la visione di stinta. Oltre innumerevoli mezzi coordinati a questo fine, ha la natura fatto per modo che i raggi, passando dalla lente nel cor po vitreo, s'imbattessero in un mezzo di quello men denso, onde la convergenza fosse alquanto diminuita, e non confluis sero sì presto nel foco. La convergenza delle lenti dell' occhio e il diametro del foro della pupilla sono appunto tali da produrre quell'effetto. La facoltà data alla pupilla di restringersi e di dilatarsi, onde regolare gli effetli delle impressioni della luce, troppo viva o troppo debole, deter mina le funzioni dell'organo e provvede alla sua conservazione. L'occhio infine è un instrumento acromatico per eccellenza, dapoichè gli obbietti non ci appariscono circondati di frange colorate, come ve devansi le immagini prodotte da cannoc chiali prima della scoperta delle lenti acro matiche. Quan'unque sia difficile descri vere tutte le minute particolarità della strut tura di quest'organo ammirabile ; pure vuolsi dire, che in esso veggonsi osser vate tutte le regole che i fisici danno per la costruzione delle lenti acromatiche. Tali regole consistono nella diversa curvatura delle lenti parziali, onde rimediare all'aber razione di sfericità, e nella diversa den sità e refrangibilità delle stesse lenti, o sia de mezzi che i raggi della luce deb bono attraversare, onde riparare all'aber razione di refrangibilità. L'esempio del l'acromatismo dell'occhio fu, che persuase Eulero (contra l'opinione di Newton) del la possibilità delle lenti acromatiche, le quali anche dopo i progressi fatti dall'ot tica, non sono se non una debole ed im perfetta imitazione dello stupendo artifizio della natura nella costruzione dell'occhio. Da tutto l'esposto meccanismo di re frazioni risulta, che i raggi della luce, – 257 – i quali partono da diversi punti dell'ob bietto luminoso, s'incrociano prima di giugnere alla retina, e vanno in questa a dipingere l'immagine capovolta, per modo, che divengono inferiori quelli che primitivamente eran superiori, e che pie ghino a diritta quelli che venivan da si nistra, e così e converso. Un tal feno meno, che naturalmente avviene nell'oc chio, artifizialmente si ottiene per mezzo d'una macchina, appositamente congegnata (la camera oscura), cui l'occhio umano ha servito di modello. Le estremità dei raggi della luce, proiettati da diversi punti dell'obbietto visibile, e rimbalzati dal fuoco della lente, vanno a dipingere nel fondo opaco d'una tela l'immagine capovolta dell'obbietto medesimo. Ma come avviene, che noi vediamo di ritte le immagini, che vanno a dipin gersi arrovesciate sulla retina ? E come può spiegarsi, che vedendo ciascun occhio la stessa immagine, e due essendo le im magini dipinte in ciascuna delle due re tine, il senso poi ci faccia vedere unica e non doppia la figura dell'obbietto? I fisici han cercato di dare varie spiega zioni di ambedue i cennati fenomeni, ma essi adducono più congetture, che fatti dimostrabili, spezialmente per lo primo. Tali incompiute spiegazioni indicano ab bastanza, che i soli fatti della sensazione non bastano a rendere una ragione suffi ciente dell'effetto della visione, sì che con viene ammettere, che la facoltà percet tiva dell'anima vi abbia ancora la sua parte. Riguardiamo dunque come più me tafisiche che fisiche le anzidette due qui stioni, e riserviamone la disamina all'ar. ticolo visione. V. questa voce. La natura ha messo molte differenze nella struttura degli occhi dell'uomo e de gli altri animali, per adattare quest'or gano alla condizione di ciascuna delle loro spezie, avendo dato a talune la vi sta più acuta e lontana, a talune altre più mobile ; avendo ancora moltiplicato in parecchi animali, e spezialmente ne gl'insetti il numero degli occhi, per sup plire al difetto di altri sensi, che ha loro negato. Negli uccelli e ne pesci la strut tura degli occhi è adattata alla diversa qualità del mezzo, nel quale son desti nati a vivere. Quanto agli uccelli, essendo provveduti di becco, e dovendo distinta mente vedere gli obbietti che sono alla portata della loro bocca, conveniva da una parte accrescere la convergenza dei raggi, e per essa la convessità della parte anteriore del loro occhio. D'altra parte do vendo percorrere l'aria a grandi altezze, e vedere gli obbietti a lunghe distanze, così per difendersi come per aggredire, faceva uopo allungare l'organo della visione se condo la diversità del bisogno. Per con seguire due fini cotanto opposti tra loro, la natura ha cinto l'occhio degli uccelli d'un cerchio osseo, ma flessibile, il quale contiene l'azione del muscoli laterali, per accrescere l'effetto della convergenza dei raggi della luce nella parte anteriore, ed ha aggiunto un muscolo particolare, det to marsupium, cui ha dato l'ufizio di ti rare più in dietro l'umor cristallino, onde potere scoprire gli obbietti più lontani. E circa i pesci, i quali vivono nell'acqua, siccome le leggi della refrazione della luce esigono, che i raggi che dall'acqua pas sano nell'occhio, sieno refratti da una su perficie più convessa di quella, che biso gnerebbe, se passassero da un mezzo men denso come l'aria; così la natura ha mes so nell'occhio loro una lente più sferica (l'umor cristallino) , di quella che ha – 258 - data agli animali terrestri. L'anguilla de stinata a vivere nel fango, e a muoversi in un fondo non istabile, ha gli occhi coverti da un velo trasparente e solido, il quale serve di custodia alle parti molli del suo organo, senza impedire la vista. Gli occhi degl'insetti non sono cinti d'ossa, giusta una osservazione di Aristotele, nè son provveduti di ciglia, ma la tunica esteriore, che diremmo la cornea, è sì dura, che basta a garantirgli da pericoli esterni. In essi varia ancora la forma del l'organo secondo le diverse funzioni, alle quali son destinati : in alcuni gli occhi hanno il lustro e la rotondità delle per le: in altri la loro forma è semisferica: in altri ha della sferoide : in molti gli occhi son situati nella fronte sotto delle antenne : in alcuni dietro di queste : in altri son rilevati nella fronte : in taluni finalmente sembran da quella distaccati, e alla stessa aderenti in forza di una par ticolare articolazione. Il numero in fine degli occhi varia ancora negl'insetti, da poichè la maggior parte ne ha due: al cuni cinque, come le mosche: altri otto, come i ragnateli: molti un numero mag giore, del quali la conformazione ci sa rebbe stata sempre ignota senza l'aiuto del microscopio. La notomia comparata rileva tali differenze, e somministra per questa, più che per ogni altra parte del l'organismo animale, la dimostrazione del l'antivedimento, e della infinita sapienza del Creatore. V. Organismo. Ma nell'uomo l'organo della vista for ma un senso speciale dello spirito, il quale se ne vale per conoscere la natura este riore, per formare le prime idee gene rali, per analizzare le sue proprie facol tà, e sopra ogni altra la percezione, e Per esprimere la parte più riposta de suoi pensieri. Per la visione noi contempliamo la luce e le sue proprietà; formiamo le prime idee collettive, e acquistiamo la conoscenza della universalità della natura; esaminiamo la struttura di tutt'i nostri or gani, e ci spingiamo a penetrare persino nelle segrete relazioni di questi organi, colla facoltà di percepire gli obbietti ester ni. Nell'analisi di questa facoltà niun'altra sensazione ci dà tanti elementi per distin guere i diversi atti del pensiero, quanti ce ne somministra la vista. Per mezzo suo ravvisiamo negli obbietti esterni le cause delle nostre sensazioni, conosciamo le qua lità loro, e formiamo il concetto delle es senze, degli accidenti, e del diversi modi di essere di tutte le cose. L'occhio in som ma, non solamente è in noi l'organo del la visione materiale, come negli altri ani mali, ma è uno de principali instrumenti dell'animo, sì che di tutte le similitudini delle cose sensibili, delle quali il linguag gio suole servirsi per esprimere gli atti del pensiero, la più naturale e più univer salmente ricevuta è quella che chiamiamo vista dell'anima, l'intuizione e l'acume dell'intelletto. V. Intuizione, Percezione. Gli antichi non conobbero anatomica mente la struttura dell'occhio, ma ammi raron questa sopra ogni altra parte del l'organismo animale, non solamente per l'importanza del senso della vista, ma ancora perchè lo considerarono come un instrumento dell'anima. Cicerone, dopo avere contemplato nella struttura dell'occhio la sapienza del su premo Autor della natura, passa a para gomare cotesto senso ne bruti, con quel che è nell'uomo: Omnis sensus hominum multo antecelit sensibus bestiarum. Pri mum enim oeuli in is artibus, quarum ſudicium est oculorum, in pictis, fie - 259 – tis , coelatisque formis, in corporum et.am motione, alque gestu multa cer nunt subtilius. Colorum etiam et figura rum venustatem, atque ordinem , et , utita dicam, decentiam oculi judicani, atque etiam alia majora. Mam et virtu tes et vitia cognoscunt: laetantem, do lentem º fortem , ignavum : audacem, timidumque cognoscunt (de nat, deor. lib. II, cap. 57. 58). Non men bella è la descrizione che ne fa Plinio, il quale considera l'occhio come la sede dell'anima: Profecto in oculis animus habitat. ardent, intenduntur, humeetante connivent: hine illa miseri cordiae lacrima. hos cum osculamur, animum ipsum videmur attingere: hine fletus, et rigantes ora rivi: quis ille humor est, in dolore tam secundus, et paratus? aut ubi reliquo tempore? Ani mo autem videmus : animo cernimus : oculi ceu vasa quaedam, visibilem eſus parlem accipiunt, atque transmittunt sie magna cogitatio obcoecat, abducto intus visu. sic in morbo comitiali aperti nihil cernunt, animo caligante ( hist. mat. lib. XI. cap. 54). La differenza più notabile, che passa tra l'occhio e gli altri sensi è, che questi prendono nelle sensazioni una parte pura mente passiva, e trasmettono le impres sioni che ricevono; laddove quello è mosso altresì dall'animo per esprimere il piace re, il dolore, il rimorso, e per leggere nel volto altrui i più riposti pensieri. Di qua nasce che l'occhio è quello, che rav viva il gesto, e rende parlante il lin guaggio d'azione; di qua ancora la virtù che hanno gli occhi di annunziare le qua lità caratteristiche dell'animo di ciascuno, la modestia, la vanità, la timidezza, il coraggio, la pietà, l'ipocrisia; e quella anche maggiore di scoprire nello sguardo altrui la verità, o la menzogna, la leal tà, o la finzione; nel che la penetrazione loro vince persino la forza delle parole, colle quali gli uomini malvagi ed astuti cercano di nascondere il proprio sentimen to. Chi può comunicare loro tanta forza d'azione, tanta intensità di sentimento, e tanta vivacità di espressione, se non lo spirito e l'intelligenza ? V. Linguaggio. OCCIDENTE (spee. e erit.), parte del l'orizzonte, dove il sole tramonta, o sia per dove sembra passare dal nostro emi sfero all'altro inferiore. V. Orizzonte. Distinguesi l'occidente estivo dal ver nale: quello è il punto, nel quale il sole tramonta per entrare nel segno del gran chio, cioè quando ricorre la maggiore lunghezza del giorno: questo, quando en tra nel segno di capricorno, o sia nella stagione della maggior brevità del giorno. Occidente equinoziale chiamasi il punto dell'orizzonte, nel quale il sole tramonta per entrare in Ariete, o nella Libra, o sia quando è equidistante dal settentrione e dal mezzo giorno, il quale punto dicesi ancora punto di vero occidente. Occidente chiamano i geografi, in un senso relativo, la parte della terra oppo sta all'oriente. V. questa voce. OccuLro (spec. ontol. e crit.), quello di cui non si conosce la ragione, o la causa. V. queste voci. - In questo senso, occulto è tutto quel che l'uomo ignora. Le essenze, le cause, il meccanismo della natura nella produzione e riproduzione degli Esseri, la virtù motrice delle forze, son tutte cose per noi occulte. I peripatetici e gli scolastici chiamarono occulte talune supposte cause o qualità , – 240 - per le quali spiegavano que fenomeni na turali, di cui non sapevano assegnare altra sufficiente ragione. Sovente queste cause ocoulte erano incompatibili colla natura delle cose; e il più delle volte erano di ostacolo alla ricerca delle vere cause na turali. Infatti il prestigio delle cause oc culte è stata la principale ragione, che per secoli ha tenuto le scienze fisiche nel la infanzia, e le ha ripiene d'ipotesi, di favole, e di misteri. Newton le sbandi, sostituendo l'osservazione de fatti alle ipo tesi, e i moderni ne hanno proscritto per sino il nome. V. Causa, Ipotesi, Qualità. Occulta finalmente fu chiamata quella sorta di filosofia arcana, la quale preten deva di penetrare nesegreti della natura, e di operar cose maravigliose, mediante l'intervenzione d'invisibili poteri o di al ire misteriose cagioni, come la magia, la cabala, l'alchimia, e tutte le arti di vinatorie. Dottrine cosiffatte non trovano più luogo nell'umano sapere. OcEANo (spec. e crit.), nome di mare, che talora significa tutto il mare, e ta lora, parte di esso. Nel significato comune intendiamo sotto tal denominazione la parte del mari, la quale empie i vasti spazi, che separano i continenti, considerandola come distinta da mari che bagnano gli stessi continenti, quantunque tutti comunichino tra loro per passaggi o stretti più, o meno ampi. Quanto a rapporti della parte fluida del globo colla solida, e alle leggi naturali, dal le quali l'una e l'altra son regolate, gli ocea mi non sono altro che mare. V. questa voce. ODIo (prat.), maligno affetto, per lo quale taluno desidera il male altrui, e se'n compiace, Cicerone lo definì ira inveterata, e da lui presero la stessa definizione i nostri moralisti italiani. Ma l'ira può nascere talvolta da onesta cagione, e può l'uomo virtuoso adirarsi contra il vizio e il de litto, mentre non sa virtù portar odio ad alcuno. D'altra parte, sebbene l'ira in vecchiata soglia per malignità d'animo degenerare in odio, pur tuttavolta non è necessario che per concepire l'odio, sia l'animo preoccupato da un antecedente abito d'ira, o d'iracondia. Laonde sem bra che cotesta passione prenda il suo ca rattere non dalla permanenza dello sde gno, ma sì bene dall'avversione e dalla malevolenza, di cui è una spezie. V. Av versione, Ira, Malevolenza. ODIoso (prat.), chi produce o porta odio. ODoRATo (spec.), senso destinato dal la natura a ricevere e a distinguere gli odori. Va considerato come organo, e come facoltà, o virtù di sentire. Come organo. La membrana, di cui il naso è vestito, è un prolungamento di quel la che fodera la gola, la bocca, l'esofago, e lo stomaco. La sensibilità delle sue parti varia d'intensità a misura che ognuna di esse si allontana dal cervello: è più squi sita nel naso, alquanto meno nella bocca, e più attenuata ancora nell'esofago: l'odo rato è quasi il precursore del gusto o sia del sapore, perchè serve di esploratore alla bocca e al palato per iscegliere o rifiutare quel che ci si appresta onde essere introdotto nello stomaco. Le narici destinate al pas saggio dell'aria e con essa degli odori, formano nell'interno del naso due cavità, separate da un tramezzo, le quali oltre le aperture anteriori ne hanno due altre po – 241 – steriori verso la gola, per mezzo delle quali questa comunica colla bocca. Coteste ca vità son coperte da una membrana spu gnosa, detta pituitosa, a cagione della pituita che tramanda: la sua superficie ha l'aspetto d'un velluto molto raso: la qua lità di spugnosa le viene dal suo tessuto, ch'è composto da una minutissima rete di vasellini di nervi, e di glandule; sic come il vellutato nasce da picciole gem me o papille nervose, le quali formano propriamente l'organo dell'odorato: la pi tuita, la quale esce dalle estremità deva sellini, mantiene le papille nervose nello stato di flessibilità necessaria alle loro fun zioni, al che serve anche di ausiliario l'umor lacrimale che scende nel naso. I nervi dell'odorato entrano nelle narici sfioc cati in numerosissimi filamenti, i quali passano a traverso di altrettanti piccoli fo. rami di cui è fornita una lamina dell'osso etmoide , forami che le dan l'aspetto di un crivello, il perchè prende il nome di lamina cribrosa. Per tal mezzo i rami e i moltiplici filamenti del nervo dell'olfatto (che forma il primo paio di nervi i quali escono dal cranio), estendonsi insino alla membrana e vi diffondono la sensazione dell'odore. Oltre al nervo dell'olfatto comu nica ancora col naso un ramo del nervo oftalmico, la qual comunicazione spiega il perchè i forti odori producano talvolta le lagrime; e la luce viva operante sugli occhi, lo starnuto. Da ultimo si distribui scono alla membrana pituitaria, comuni cando cogli olfattori, altri nervi prove nienti da gangli. La struttura stessa dell'organo dell'odo rato dimostra due cose: l'una, che la sensazione dell'odore si formi nella parte superiore, e non nella inferiore delle na rici: l'altra che la membrana pituitosa è stata dalla natura espressamente formata per ricevere e ritenere le impressioni del le sostanze odorifere. Di ciò fanno an che pruova le altre parti del meccanismo di cotesto organo, e spezialmente le due trombe o imbuti, che trovansi nell'in terno di ciascun lato delle narici. Cofeste trombe fanno l'ufizio non solamente di spandere e d'irradiare la membrana delle particelle odorifere, che il naso ha fiu tato, ma ancora di tenerle per più lungo tempo in contatto colla membrana suddet ta. La notomia comparata conferma una tale osservazione, dapoichè ha scoverto che ne cani da caccia, ed in altre spezie di animali dotati di più squisito odorato, le cennale trombe sono in proporzione mag giori, che nell'uomo. Chi non vede con quanta sopraffina industria l'Autore del l'organismo abbia predisposto e adattato il naso alle funzioni alle quali è destinato? Le particelle volatili dell'odore dovendo passare insieme coll'aria, aver dovevano con essa un meato comune ; e dovendo in pari tempo invitare il palato a cibi e alle bevande salutari, o distorlo dalle no cevoli, uopo era che fosse messo in con fine coll'organo del sapore, e vincesse le impressioni del palato in celerità e in du rata. V. Organismo. Come virtù di sentire. I corpi tutti della natura, spezialmente quando sono nello stato di fermentazione, esalano continua mente particelle sottili solide e fluide, le quali spandonsi nell'aria, e sono dalla stessa trasportate come da una corrente più o meno veloce, secondo lo stato del l'atmosfera. I corpi organici sopratutto, tanto nello stato di vita e di accrescimento, quanto in quello di corruzione e di disso luzione, tramandano particelle volatili, le quali comunicano all'aria un sentore estra 51 neo o diverso da quello, cui siamo abi tuati. I vegetabili si fan distinguere per un odore, che noi diciamo loro proprio, e che il più delle volte è grato e buono: la natura ha raccolto nel fiori i profumi i più delicati: i succhi acidi o fermentati tramandano ancora un odore proprio, o caratteristico della cagione che lo produce: la fermentazione e la putrefazione delle materie vegetabili o animali tramandano in lontano fetidi sentori. L'aria in som ma è il mestruo, nel quale si sciolgono, o si confondono coteste particelle volatili, molte delle quali vi restano sospese, per unirsi poi ad altri corpi coquali abbiano una maggiore affinità. Certamente son esse, che per mezzo dell'odorato fan sentire la loro presenza nell'atmosfera che ci circon da, e che è in contatto co nostri sensi. Congiungendo questo fatto colla interna struttura dell'organo, per mezzo del qua le si esercita la virtù del sentire, appa risce manifesto, che il nervo dell'olfatto per mezzo delle sue diramazioni sparse in tutti i sensi per la membrana pituitosa, è l'instrumento meccanico della sensazione, come che ignoriamo in qual modo una tal comunicazione si operi. Infatti, se si mettono i corpi odoriferi fuori del contatto dell'aria, o s'impedisca per altro mezzo l'esalazione delle parti odorifere; o se la membrana pituitosa sia divenuta inerte ed insensibile, o il nervo dell'olfatto inabile alle sue funzioni, cessa interamente la virtù sensitiva dell'odorato. Ora dall'uno e dall'altro fatto, uniti insieme, risultano due conseguenze, cioè, che l'attitudine al sentire sta nell'organo, e la causa pro duttiva dell'odore fuori di esso. Per quanto queste due verità sieno evidenti, e sem brar possano di quelle, che appartengono più alle intuitive che alle dimostrabili; ciò non ostante giova averne fatto l'analisi, per aprirci la via a formare un chiaro con cetto della senzazione dell'odore. OdoRE (spee.), sensazione prodotta dal le emanazioni del corpi odoriferi. La qualità odorifera de'corpi è comune mente annoverata tra quelle, che son dette qualità secondarie della materia. Come debbano intendersi cotesti nomi, l'abbiamo accennato nell'articolo materia, e il dire mo ancora sotto la voce qualità. V. que ste voci. . - Nell'articolo odorato abbiamo stabilito due fatti innegabili, il primo che l'orga no, di cui fa parte il nervo dell'olfatto, ha dalla natura l'attitudine a ricevere e a trasmettere le impressioni de'corpi odo riferi; il secondo che la causa produttrice dell'odore, è fuori dell'organo stesso. Ora a compiere la sensazione, è necessario l'Essere sentente, il quale è tanto fuori dell'organo, quanto l'è fuori del corpo odorifero, e per conseguente, se la causa produttrice dell'odore non è nell'organo, molto meno potrebbe stare nell'Essere sen tente. Ciò non ostante, non è mancato chi dicesse essere la sensazione dell'odore una modificazione del nostro sentire, o sia provenire da noi stessi, e non nascere da corpi odoriferi. Tale fu l'opinione di Cartesio, il quale, dalla estensione in fuori, (in cui ripose l'essenza della ma teria), affermò essere in noi stessi le sensazioni tutte, della vista, del tatto, dell'udito, del caldo, del freddo, del l'odorato, e non negli obbietti esterni, che a noi le tramandano. Di quali con seguenze fosse ſeconda una tale opinione, il dimostrò Malebranche, il quale non so lamente generalizzò il principio cartesiano, e scstenne, che noi comunichiamo agli obbietti esterni le impressioni ricevute dal le sensazioni, e facciamo qualità de corpi le diverse maniere del nostro sentire; ma se ne valse per negare l'esistenza degli obbietti sentiti. Nè di meno faceva uopo agli scettici per rinegare la realità di tutte le cose, e per convalidare una tal dottrina coll'autorità degli stessi filosofi spiritualisti. Coteste quistioni sembrano frivole agli uo mini dotati di sano giudizio, come che stra nieri alla filosofia, e tali sono per verità tutte quelle, nelle quali le speculazioni me. tafisiche fan violenza al senso comune. Il caldo, il freddo, il sapore, l'odore non sono ne corpi nel senso, che questi non pro vano la medesima sensazione che provia mo noi; ma per l'opposito sono ne'corpi, quando per tal modo di dire intendiamo, che in essi è una naturale disposizione o attitudine a suscitare in noi quelle tali sen sazioni, e quando si convenga del prin cipio, che da noi si percepiscono gli ob bietti quali sono, e non trasformati dalla mente in una immagine o idea, che non corrisponde alle qualità della cosa perce pita. In somma per accogliere l'opinione di Cartesio e di Malebranche, e di tutti quelli che negano a sensi la realità degli obbietti percepiti; convien prima rinun ziare alla certezza fisica, che ci dà la na tura, e poi formarci un sistema d'ipotesi che volontariamente c'illuda. Ogni per cezione porta seco una credenza istintiva della esistenza e realità delle cose perce pite, che è il fondamento di tutta l'umana cognizione, o sia è una legge data dalla natura all'intelletto. ll supporla diversa da quella che è, e il credere che quando la mente percepisce gli obbietti esterni, crei fantasime e chimere opposte alle qua lità o all'essenza degli obbietti medesimi; è lo stesso che uscire dalla condizione e dai limiti dell'umano ragionamento. V. Cer tezza, Pereezione. Adunque per formare un giusto con cetto di questa sensazione lasciamo le spe culazioni del filosofi, e prendiamone gli elementi dal significato che si suole co munemente dare al vocabolo odore. Al lorchè noi fiutiamo una rosa, ben lontani dal credere, che la grata impressione che ne riceve l'odorato, sia in noi, ci per suadiamo esser questa una qualità del fio re. Egli è vero che noi chiamiamo odo re, tanto la qualità odorifera del fiore, quanto la sensazione che ne proviamo, ma dalla promiscuità del vocabolo non nasce veruna ambiguità, dapoichè distin guiamo nel pensiero quel che confondia mo nel nome, e diamo un diverso signi ficato all'odor della rosa, e alla sensa zione dell'odore. Tanto non sospettiamo che l'odore possa essere in noi e non nel fiore, quanto la sperienza ci dice, che appressando il naso alla rosa proviamo quella data sensazione, la quale svanisce appena se ne allontani. La conseguenza che tutti traggono da questo fatto è, che v' ha una naturale relazione tra 'l fiore, da cui emana l'odore, e il senso che lo raccoglie. Cotesta relazione è quella, che tutti chiamano causa o occasione dell'odo re, la quale denominazione include come suo effetto la sensazione che in noi pro duce. L'una e l'altra non pertanto pre suppongono un organo disposto a rice vere l'impressione, ed un Essere sen tente che la percepisca. In somma nella sensazione dell'odore son tre le idee che ciascuno distingue : il fiore, o il corpo odorifero, l'organo o sia l'odorato, e l'Es sere sentente, o sia l'animo che percepi sce l'odore. V. Sensazione. Quel che abbiam detto dell'odore, è r – 244 – comune al sapore, al suono, al caldo e al freddo, che vengon dinotati col nome di qualità secondarie della materia, non perchè sieno fuori di essa, ma perchè non sono essenziali, permanenti, e comuni a tutti i corpi, come l'estensione, la soli dità, e la mobilità. V. queste voci. OrFENSIONE e OFFESA (prat.), danno che si arreca, violando o diminuendo i diritti altrui. È diversa dall'ingiuria, perchè questa è sempre fatta volontariamente e ingiu stamente; laddove l'offesa può essere in volontaria, e può anche nascere da giu sta cagione, come nella guerra. In somma è vocabolo generico che com prende ogni male, che altrui si faccia. V. Ingiuria. OFICIo, Orizio, e UFIzIo (prat.), quel che a ciascuno spetta di fare, per debito, o per convenienza. - È un vocabolo, cui i Latini diedero un significato generico che abbraccia tan to il dovere di giustizia, quanto quel che è conveniente alla qualità delle persone, al tempo, al luogo, e a qualunque al tra opportunità, comechè relativa e non assoluta. La definizione che ne dà Cice rone comprende tutte le divisate idee : quod ratione actum est, id officium ap pellatur. Seneca spiega più chiaramente in che l'obligazione imposta dalla legge differisca da'doveri della vita, i quali vanno tutti com presi nella denominazione di uſizi: Quanto latius officiorum patet, quam furie re gula l Quam multa pietas, humanitas, liberalitas, justitia, fides exigunt, quae omnia extra publicas tabulas suntl (de ira lib. II. Cap. 27 in fine). - Nella lingua italiana ha lo stesso am pio significato, ma è specialmente usato per esprimere l'incarico o l'incombenza, propria della condizione o dello stato di ciascuno, nel quale senso equivale al do vere. V. questa voce. OGGETTo. V. Obbietto, OLTRAGGIO (prat.), offesa fatta volon tariamente ad alcuno, con danno, e con disprezzo. È una delle spezie delle ingiurie.V. que sta voce. OLTRAMONDANo (teol.), val celeste e fuori del nostro mondo. In questo senso fu adoperato dal Var chi, il quale contrappone le nebbie mor tali del mondo agli splendori del cielo. (Lez. 158). OMEoMERIA e OMIoMERIA (spec. ), so miglianza delle parti elementari, che, se condo Anassagora, composero la materia. OMIssIoNE e OMMIssioNE (prat.), trala sciamento di cosa che far si doveva. È una delle spezie della colpa e della negligenza. V. queste voci. OMONIMo (disc. ), nome che importa il medesimo d'un altro nome. E però è sempre un vocabolo di rela zione ad un altro: è l'equivoco degl'Italia ni, preso nel senso gramaticale. V. Equi voco, Mome. - a ONESTÀ (prat.), virtù, che suggerisce le azioni conformi al retto ed al giusto. V. questa voce. Scambiasi coll'onesto. – 245 – ONESTo (prat.), l'operare conforme ai dettami della giustizia e della naturale cquità. V. queste voci. È vocabolo preso da Latini, equivalente al wakoy de Greci. Cicerone lo definì, quod detracta omni utililale, sine ullis prae miis fructibusve possit jure laudari (II. de finib. c. 4.). I dettami della giustizia e dell'equità na scono da un senso proprio e abituale del la ragione, per lo quale noi giudichiamo rettamente di quel che è conforme all'uso delle nostre facoltà, ed a fini della natura, o sia al vero. Cotesta qualità è quella che taluni de moderni filosofi han chiamato senso morale, denominazione la quale, sebbene sia stata presa dall'analogia dei sensi esterni, è non pertanto atta ad espri mere la rettitudine di cui l'umano giudi zio è dotato nel discernere la convenienza delle azioni. V. Morale, Senso. Il senso morale, considerato come il mezzo, per lo quale acquistiamo le nozioni dell'onesto e del giusto vien detto pure senso dell'onesto e del giusto. Ambo que sti vocaboli non esprimono se non la me desima mozione, dapoichè l'uno differisce dall'altro per la sola applicazione, che di essi facciamo a due diverse spezie di azio mi : conveniente alla ragione: giusto quel che una obligazione morale c'impone di fare: il giusto è compreso nell'onesto, e la virtù è il complesso del giusto e dell'onesto in sieme. V. Giusto, Obligazione, Virtù. Dalla nozione dell'onesto e del giusto noi ricaviamo tutte le prime verità, le quali formano il codice della natura, e son per noi le proposizioni universali, o maggiori, sopra le quali fondiamo quel ragionamento, che pur dicesi morale, e mediante il quale discerniamo la conve chiamiamo onesto tutto quel che è nienza o la disconvenienza delle azioni. Tali sono: l'amare Dio come l'autor del nostro Essere º il confidare nella sua bontà: l'operare convenientemente a suoi fini, il servirci degli appetiti e degli aſi fetti per la conservazione e non per la distruzione della vita e lo scegliere il bene che la ragione ci addita: il fug gire il male, il non fare agli altri quel che non vorremmo che fosse fatto a noi. Dalla luce di tali verità, che sono il frutto della comune ragione, e non della scien za, nasce quella naturale sapienza, che Dio ha scolpito nel cuore dell'uomo, di cui gl'inizi sono impressi persino ne'no stri istinti, e che può essere perfetta nella pratica, anche senza il soccorso di alcuna scienza speculativa. V. Sapienza, Scien za, Verità. ONIRocRITICA (crit.) tare i sogni. - - Era parte dell'antica scienza divinatoria, la quale cadde insieme colla mitologia, e col le superstizioni del paganesimo. V. Sogno. , arte d'interpre ONNIPOTENZA (teol.), la potenza di Dio, concepita da noi, come la causa efficiente di tutte le cose. V. Causa, Dio. La nozione dell'onnipotenza contiene un infinito, cui la mente ascende per mezzo del finito. E siccome leggiamo in noi stessi la verità, che tutto quel che ha avuto un cominciamento de'essere stato prodotto da una causa, la quale riseder debbe in una potenza attiva, dotata d'intelli genza e di volontà; così formiamo del la virtù operativa di tale causa un con cetto tanto illimitato, quanto è quello del la intelligenza e della volontà, che la determinano. Il concetto dunque della di vina onnipotenza deriva da quella stessa - 246 – sorgente, dalla quale attigniamo la no zione dell'infinito, vale a dire dalla po tenza umana, spogliata delle imperfezioni e de limiti, da quali è circoscritta. V. In finito, Potenza. ONoMAToPEA (dise.), formazione di nome, che imita il suono della cosa stessa deno minata. - Tal è l'origine del vocabolo belare, pro prio della capra e della pecora, del mug gire del buoi, dell'anitrir de cavalli, e di altri simili. Quelli, i quali han creduto che la pri ma lingua parlata fosse, e potesse essere, una invenzione dell'uomo, han detto al tresì, che l'onomatopea avesse sommini strato i primi vocaboli agl'inventori della parola. Ma senza convenire della origine umana del linguaggio, noi crediamo che i vocaboli di tal fatta possano conside rarsi come primitivi nel senso, che molti sli essi dalla lingua madre di tutti i par lari son passati nelle altre di secondaria formazione; e nel senso altresì che quando è stato necessario creare nuove voci, l'imi tazione de suoni naturali, è stata la sor gente più comune dalla quale sono state attinte. Imperocchè non è la creazione dei nomi particolari, che noi risguardiamo come difficile all'uomo, ma è la struttura intera del linguaggio, che noi giudichiamo impossibile, perchè avrebbe dovuto essere antipensata, o sia formata prima, e senza l'aiuto della parola. V. Linguaggio. Certamente l'onomatopea ha regolato la scelta de nomi radicali delle antiche lin gue. La somiglianza de suoni radicali nelle lingue che chiamiamo madri, con quelli delle secondarie o derivate, è il maggiore argomento della discendenza di tutte da un comune tronco. Lasciamo cotesto ar gomento a gramatici etimologisti, e a'cul tori della moderna linguistica. Vuolsi sol tanto osservare che l'onomatopea è il mez zo più facile per formare i suoni della voce, e per ritenere i nomi delle cose ; e che nasce non solamente dallo istinto dell'imitazione dato all'uomo, ma ancora da una tendenza dello stesso nostro orga nismo. Infatti le interiezioni, le quali non sono nomi, ma semplici accenti, prodotti dal sentimento del piacere, del dolore, dell'ammirazione, della sorpresa, possono dirsi non solamente simili, ma identiche in tutte le lingue, per modo che a guisa del gesto son comprese da tutti quelli che parlano diversi linguaggi; d'onde possia mo desumere una relazione di confor mità o di analogia che la natura ha sta bilito tra l'impressione del sentimento e l'espressione della voce. Quel che diciamo dell'interno sentimento vale ancora per le impressioni desensi ester ni, e spezialmente dell'udito. La facilità, colla q ale scorrono i suoni delle lettere poste l'una dopo dell'altra, produce nell'or gano dell'udito un'impressione che desta in noi lo scorrere dell'acqua; e però dalla combinazione della lettera labbiale f., e della liquida l, i Greci formarono i vo caboli che indicavano fluidità, come Moº flamma, Asl vena, Asys3xy fluvius in fernorum; e i Latini, flamma, fluo, flu ctus ec. Similmente, la combinazione del le consonanti, nella pronunzia delle quali l'organo della voce incontra resistenza, sono state in molte lingue adoperate per esprimere la stabilità, la solidità, la man canza, o la privazione del moto; ond'è che nella lingua latina stagnum, stamen, stare, sterilis, stirps, stupere, stupidus, provengono dallo stesso suono iniziale, che la lingua italiana, ed altre tra le mo- . – 247 – derne volgari, hanno ne medesimi nomi conservato. In conferma di che giova an cora addurre una ingegnosa osservazione del presidente de Brosses nel trattato del la meccanica formazione delle lingue. « L'uomo, egli dice, modella facilmente i nomi, da lui dati a ciascuno degli or gani della parola, sul carattere o sia sul la inflessione propria degli stessi organi, come gola, lingua, dente, bocca. Ben si vede, che la lettera caratteristica radi cale di ciascuno degl'indicati vocaboli, è quella propria dell'organo che vien coi medesimi espresso. La coincidenza di tutte le lingue per rispetto a tali nomi caratteri stici, non può non richiamare l'attenzione del filosofo, e dimostra che la ragione di tale uniformità sta in una causa perma mento. Infatti, sebbene gli uomini aves sero potuto dare ancora diversi nomi a cen nati organi, non pertanto la natura è stata il più delle volte la guida, che ha mac chinalmente determinato quelli e non al tri ; e però conviene risguardargli come vocaboli necessari appartenenti alla lingua primitiva, e come nati dall'umana confor mazione. Non solamente l'inflessione gut turale go, gu, gha è stata la radice del nome dell'organo gola, come nella lingua ebraica gharon, nel greco glottis, nella tino guttur, nel francese gorge, nello spagnuolo garguero, nell'inglese gullet, e nel tedesco gurgel; ma ha servito an cora a formare i derivati di suono simile a quel che questa inflessione profondamente gutturale produce nella gola, come gar 9arizzare, gorgo, gorgogliare, gorgo glio, gozzo, gozzoviglia, golfo, e simi li. È facile il trovare molti altri esempi di derivati dal nome dello stesso organo, e di altri vocaboli derivati dal segno radi cale degli altri organi della parola, come nelle voci dente, mangiare, mascella, mordere, lingua, loquela ec. Sopra l'in dicazione da noi datane, ognun potrà ac crescere i diversi mucchietti di simili vo caboli, e riporre in ciascuno di essi molti di quelli che son comuni a tutte le lingue. (cap. VI. S. XVI e XVII. ). L'onomatopea in somma non solamente contiene in se la ragion delle voci e dei nomi primitivi, ma somministra uno dei più validi argomenti contra l'opinion di coloro i quali affermarono essere stata del tutto arbitraria la ragion de nomi impo sti alle cose. Cotesta opinione, che ta luni del moderni hanno riprodotto , era stata già dall'antica filosofia discussa e riprovata. Aulo Gellio ci ha conservato l'autorità d'un celebre gramatico, con temporaneo di Cicerone, la quale merita di essere rammemorata: Momina verba que non posita fortuito, sed quadam vi et ratione naturae facta esse P. Migi dius in grammaticis commentariis do cel, rem sane in philosophiae disser tationibus celebren. Quaeri enim soli tum apud philosophos tuaet ra ovopaxta sint i 3e3si, natura nomine sint an im positione. In eam rem multa argumenta dicit, cur videri possint verba naturalia magis quam arbitraria.... Mam sicuti eum adnuimus, et abnuimus, nolus qui dem ille vel capitis vel oculorum a na tura rei quam significat, non abborret; ita in vocibus quasi gestus quidam oris et spiritus naturalis est. Eadem ratio est in graecis quoque voci bus , quam esse in nostris animadvertimus (lib. X. cap. IV.). V. Mome. OnoRANZA (prat.), esterna dimostra zione di onore o di esistimazione, che altrui si renda. – 248 – ONoRE (prat.), il sentimento della pro pria dignità. V. Dignità. In altri termini, è la giusta esistima zione di se medesimo, per rispetto all'adempimento delle obligazioni e de'doveri. È quel che i latini dicevano decus. L'onore si scambia col senso dell'one sto, quando la convenienza delle azioni si riferisce a doveri e alle obligazioni mo rali ; ma riceve un significato più am plo, allorchè la convenienza delle azioni si misura col doveri e colle obligazioni imposte dalle leggi della società, o dal le condizioni del proprio stato. E però l'onore può contenere più dell'onesto, ma nulla di quel che gli è contrario, V. Onesto. Prendesi ancora per la dimostrazione dell'altrui merito, e dell'esistimazione che taluno ne faccia, nel quale senso vale esterno segno di riverenza. ONTA (crit.), ingiuria commessa con animo di dispregio, comechè non sia ac compagnata da danno, nel che differisce dall'oltraggio. V. questa voce, ONToLoGIA (crit.), la scienza delle astratte qualità degli Esseri, e della natura loro. V. Astrazione, Essere, Qualità. Nacque dal seno della metafisica, e quasi per eccellenza ne usurpò il nome. Suoi progenitori furono i primi scolastici, i quali inclusero ne trattati di cotesta scien za tutte le nozioni generali del principi e delle cause naturali, quali la mente loro concepivale, e le applicarono spezialmente alla natura di tutte le sostanze, incomin ciando dalla Divinità, e passando succes sivamente agli spiriti celesti, alle anime umane, alle anime del bruti, e alle altre entelechie aristoteliche, Così l'ontologia abbracciò le nozioni della sostanza, della essenza, della esi stenza, della possibilità, dello spazio, del tempo, dell'unità, del numero, della iden tità, dell'infinito, della eternità ec. V. que ste voci. Così ancora a se trasse, come sue ap pendici, la teologia naturale, e la scienza degli spiriti ; e dapoichè nelle sue astra zioni raccolse e assorbì le nozioni comuni a tutte le parti delle scienze metafisiche, le fu ancora privativamente attribuita la denominazione di filosofia prima. V. Me tafisica. - L'ontologia, e con essa la metafisica cominciò a perder di credito, quando in sul primo rinascimento delle lettere, i liberi ingegni insorsero contra il dogmatismo ari stotelico, e contra il gergo del linguag gio scolastico. Cartesio fu il primo a con cepir l'idea d'una diversa filosofia prima, la quale cominciasse dagli elementi della umana cognizione, ed indi passasse alla investigazione del principi della materia, e alla contemplazione del mondo visibile. Da questa nuova genesi data alla filoso ſia, apparisce manifesto che i Cartesiani esser dovevano, siccome furono i perse cutori della ontologia scolastica. Ciò non ostante essa seguitò a confondersi colla metafisica durante il regno della filosofia peripatetica ; e per un certo sincretismo filosofico, di cui non potrebbesi assegnare una plausibile ragione, continuò ad es sere coltivata anche da filosofi nutriti nei principi della scuola cartesiana. Wolfio credette che l'evidenza d'ogni verità ma tematica nascesse dalle nozioni ontologi che, per mezzo delle quali soltanto si po tesse dimostrare la convenienza degli at tributi co subbietti loro; e che lo stesso potesse dirsi non solamente di tutte le ve - 249 - rità, circa le quali versano le altre scien ze, ma anche delle stesse facoltà e ope razioni dell'anima. Laonde diede una nuo va forma scientifica all'ontologia, adattolle il metodo matematico, e rivendicò per lei la considerazione e il nome di filosofia pri ma, appunto perchè le attribuiva i prin cipi tutti della umana cognizione. Il nuo vo edifizio di Wolfio per altro fu fondato sopra le definizioni e gli assiomi ricavati dalle astrazioni degli scolastici, o sia so pra un pretto razionalismo, che era il vi zio radicale dell'ontologia. Migliore fu il concetto di Buddeo, che rifiutolle la di gnità e 'l nome di scienza, e propose di considerarla come un dizionario di defi nizioni e di vocaboli necessari alla intel lezione delle filosofiche astrazioni. Il me todo analitico, introdotto nello studio del la filosofia intellettuale, ha finalmente ri tolto all'ontologia, quel che questa usur pato aveva alle diverse parti delle scienze metafisiche. La psicologia, la teologia naturale e la logica teoretica avendo ri fiutato insieme colle ipotesi ogni proposi zione non dimostrata o non dimostrabile, hanno stabilito sopra più sicure fonda menta i loro teoremi, ed han quasi par tito tra loro il campo dell'antica ontolo gia. Di essa non rimangono se non le astratte denominazioni del subbietti della matura, e delle qualità loro, insieme colle definizioni che determinano le essenze dei primi, e le spezie delle seconde. Le cen nate denominazioni compongono il lin guaggio scientifico, siccome le definizioni forman quasi altrettanti postulati, neces sari a stabilire principi di ragionamento comuni ed uniformi. Le une e le altre possono essere considerate come le preno zioni delle scienze metafisiche. V. Meta fisica. ONTosoFIA (grec. sup.), denominazione data all'ontologia da taluni di quelli, che l'han considerata come la metafisica ge nerale. OPERARE (prat.), verbo che esprime l'azione per rispetto all'effetto, che que sta produce. V. Azione. È diverso dall'agire, che si adopera nel senso intransitivo. V. Agire. OPERAZIONE (spee. e prat.), funzione o atto della potenza attiva. V. Allo, Potenza. Applicata all'esercizio che l'anima fa delle sue diverse facoltà, esprime l'atto del guardare, dell'ascoltare, dell'osservare, del riflettere, del ragionare, del volere, e di qualunque altro modo del pensare. Coteste funzioni diconsi operazioni dell'ani ma. V. Anima, Facoltà. Ogni operazione presuppone un agente e un obbietto. In quelle dell'anima, l'agente sta nella volontà, che rappresenta l'autor dell'azione; siccome l'obbietto sta nella cosa, a cui s'indirizza il pensiero. V. Agente, Obbietto. OPINIONE (spee. disc. e crit.), assenti mento dell'animo ad una proposizione ap parentemente vera, o possibilmente tale. La varietà delle definizioni di questo vo cabolo è nata da diversi significati che gli dà il comune uso di parlare. Taluni l'in tendono per l'assentimento che suole pre starsi alle proposizioni verisimili, ma non certe, nè dimostrate; altri per un antici pato ed immaturo giudizio ; altri per la maniera che ciascuno ha di sentire e di congetturare; altri per la nemica della ve rità e della certezza; altri per ogni sorta di credenza ; altri in un senso più limi tato per quella credenza, che prestiamo 52 – 250 – all'autorità desensi altrui. Cotesta diversità di significati è passata dal comune par lare nello scientifico linguaggio ; il per chè i filosofi stessi han considerato l'opi nione, ora come la fonte d'una parte delle umane conoscenze, ora come il con trapposto della verità e della scienza, ora come la sorgente dell'errore e delle false credenze, e ora come la più possente re golatrice degli umani giudizi. Platone risguardolla come il mezzo tra la scienza e l'ignoranza, e disse essere più chiara e più positiva dell'ignoranza, ma più oscura e men soddisfacente della scien za. Zenone, al dir di Cicerone, chiamolla ambecilla et cum falso incognitogue com munis. Cicerone stesso ne fece un contrap posto degl'infallibili giudizi della natura in quel suo aureo detto: opinionum com menta delet dies; naturae judicia con firmat. Epitteto la risguardò, come l'op posto della realità, allorchè disse, che l'in felicità degli uomini proviene dall'opinione che si forman delle cose, e non dalle cose stesse. I nostri scolastici la definirono, assensus intellectus cum formidine de opposito, vale a dire un giudizio pro nunziato colla trepidazione dell'errore. E i moderni filosofi han disputato, se l'opi nione sia nel medesimo subbietto compa tibile colla scienza; intorno a che taluni han detto, che potendo l'intelletto per venire allo scoprimento del vero per la dimostrazione, o in difetto di questa per argomenti probabili e verisimili, non es sere incompatibile l'opinione colla scienza; ed altri hanno affermato essere impossibile il conciliarle insieme, siccome impossibile è l'accoppiare nel medesimo subbietto, il dubbio e la certezza. A quelli che han così disputato noi do manderemmo di determinare prima il si gnificato proprio del vocabolo opinione, imperocchè nel linguaggio scientifico non possono ammettersi sensi traslati, se non quando loro si dia un certo e chiaro si gnificato, rimosse le similitudini e le fi gure del linguaggio retorico e poetico. Lasciamo al parlare ameno o figurato il rappresentare l'opinione come il parto del vario e mutabile giudizio degli uomini , come l'arbitro del gusto e della moda, come la nemica della ragione, o come la regina del mondo; e fermiamoci a con siderarla qual'è nel suo nascere, vale a dire come si forma nell'animo, e in che il vero differisca dall'opinione del vero. E prima di entrare in quest'analisi, con veniamo delle sorgenti dalle quali pos siamo attignere la cognizione del vero. I seguaci della sana filosofia ne ammet ton due, i sensi e la ragione. Costoro han chiamato opinione le conoscenze ac quistate per una di quelle due vie, alla quale non concedevano la certezza. I sen sisti han chiamato opinioni le conoscenze a priori ; e gl'idealisti quelle acquistate per mezzo del sensi. La verità sta nel mezzo del due estremi : la certezza si at tigne, e da sensi, e dalla ragione: i sensi somministrano l'intuizione, come la somministra la ragione: ma questa, facendo uso del ragionamento sommini stra ancora un'altra spezie di certezza , che è la dimostrativa. Avendo noi consi derato la certezza a rispetto delle sorgen ti, dalle quali l'attigniamo ; ed avendo seguito la comune partizione, abbiam di stinto la certezza metafisica, dalla fisica e dalla morale: la metafisica vien dalla dimostrazione, e la fisica dalla intuizione: questa precede quella, e le serve di fon damento. Resta la morale, che è fondata sopra l'autorità, o sia sopra la testimo – 251 - nianza de'sensi e del giudizio altrui: l'as sentimento che le prestiamo produce in noi o la convizione della verità , o una semplice credenza : nell'uno e nell'altro caso noi non possiamo dimostrare agli al tri che il contrario non fosse possibile, nè negare a noi stessi, che quel che cre diamo vero potrebb'essere falso: cotesto assentimento, diverso da quello che nasce dalla intuizione o dalla dimostrazione è quel che chiamiamo opinione. V. Certez za, Dimostrazione, Intuizione. Ma v'ha un'altra spezie di giudizi e di credenze, alle quali conviene del pari il nome di opinioni, e tali sono le propo sizioni che noi riceviamo come vere, per la conformità che esse hanno , o colla propria esperienza, o con altre proposi zioni delle quali conosciamo la verità. Tali sono le proposizioni, i ragionamenti, e le induzioni che per analogia ricaviamo da proposizioni vere, e sopra le quali sta biliamo ancora la norma delle nostre azio ni. Siffatte proposizioni formano la parte maggiore delle nostre conoscenze, e ve m'ha di quelle alle quali prestiamo as sentimento con tal convizione di verità, che confondiamo l'opinione colla certezza. In somma tutto il probabile entra nella sfera della certezza morale, nella quale sfera i nostri concetti non meritano altro nome, che quello di opinioni. Locke, che non bene definì la certezza, fu più esatto nel definire la probabilità e l'opi nione. «La maniera, egli dice, colla qua le l'animo riceve tali proposizioni, è quel che dicesi credenza, assentimento, o opi nione; o sia riceve per vera una propo sizione, sopra pruove le quali presente mente sembran vere, senza avere per al tro una certa conoscenza della loro veri tà. La differenza tra la probabilità e la certezza, tra la credenza e la cognizione consiste in questo, che in tutte le parti del la cognizione v'ha intuizione, per modo che ogn'idea immediata, e ogni parte della deduzione ha un legame manifesto e cer to; laddove, per rispetto a quel che noi chiamiamo credenza, quel che ci fa ere dere non è evidentemente attaccato per ambo gli estremi suoi, e per conseguente non dimostra evidentemente la convenienza o la disconvenienza delle idee in quistio ne. Ora essendo la probabilità destinata a supplire al difetto di nostra cognizione, e a servirci di guida me punti ne'quali la cognizione ci vien meno, è manifesto che essa versa sempre circa proposizioni che qualche motivo ci conduce a creder vere, quantunque non conosciamo con certezza quel che esse sono. I fondamenti della pro babilità sono: 1.º la conformità d'una cosa con quel che conosciamo, o colla nostra propria sperienza: 2.º la testimonianza de gli altri fondata sopra la conoscenza o l'esperienza loro. I requisiti poi della testi monianza sono: 1.º il numero: 2.º l'in tegrità: 3.º la capacità: 4.º lo scopo del l'autore, quando la testimonianza è rica vata da libri: 5.º l'accordo delle diverse parti della narrazione e delle sue circo stanze: 6.º il peso delle contrarie testimo nianze » (lib. lV. cap. XV. S. 3. 4). Tale e non altro è nel linguaggio scien tifico il significato dell'opinione, il quale è talmente collegato colla probabilità, che definito l'un de due vocaboli, resta an cora determinato il senso dell'altro. V. Au torità, Proba'ilità , Testimonianza. OPPosizioNE (disc.), discrepanza tra due proposizioni, che hanno lo stesso subbietto e il medesimo predicato. Dice meno del vos cabolo contrarietà, perchè questa risguarda so – 252 – le idee, le quali tendono a distruggersi, o ad infermarsi mutuamente. V. Contra rietà, Proposizione. È uno de termini, sopra de quali la logica aristotelica stabilì numerose distin zioni e categorie. Imperocchè distinguevasi da prima la complessa dalla incomplessa. Per incomplessa, detta ancora semplice, intendevano gli aristotelici la disconve nienza di due cose, che non possono stare insieme nel medesimo suggetto, come il calore ed il freddo, la vista e la cecità. Cotesta sorta di opposizione suddividevasi in altre quattro spezie, cioè la relativa, la contraria, la privativa, e la contrad dittoria. La complessa poi era da Aristo tele definita, l'affermare e il negare lo stesso predicato del medesimo suggetto, come Socrate è dotto, e Socrate non è dotto, e questa spezie di opposizione sud dividevasi in contraria, subcontraria, e contraddittoria. Gli scolastici credettero poco esatta la definizione della opposizione complessa, e a quella di Aristotele sostituirono l'altra: affezione di enunciazioni, colle quali due assolute proposizioni, supposti i medesimi estremi nello stesso ordine e numero, ed intese senza alcuna ambiguità intorno alla medesima cosa, si oppongono l'una all'al tra a rispetto, o della quantità, o della qualità, o di ambedue. In conseguenza di tal definizione aggiunsero alla suddi visione aristotelica una quarta spezie, che è la subalterna. Chi desideri spiegazioni ed esempi di tutte le cennate distinzioni, potrà consul fare qualcuno del vecchi dizionari filoso fici. Qual prò per l'arte del parlare e del ragionare da questo apparato di termini logici, sì gravosi alla memoria, e di cia scun de quali il concetto è più astruso di quello che si prefigge di spiegare? Il con cetto semplice di due proposizioni o argo menti, del quali uno nega, limita o mo difica l'altro, così nell'universale come nel particolare, trovasi involto in una selva di nomi, dequali ciascuno richiede una par ticolare definizione. Ma qual maraviglia, se lo stesso fecero dell'idea dell'affermare e del negare, quasi che ognuno, prima di formare un giudizio, dovesse imparare le regole colle quali può dare o rifiutare il suo assentimento. V. Affermazione , Megazione. Tal è il labirinto de termini e delle distinzioni, che cingeva la naturale arte del pensare e del ragionare. V. Logica. OPPosiTo e OPPosro (disc.), quel che differisce essenzialmente da un'altra cosa. I logici col nome di opposite intende van quelle cose che differiscono tra loro, ma in modo che non discrepano nella stessa guisa da una terza. Per contrario chiamavan disparate quelle altre che dif ferivano da una terza come tra loro. E distinguevano gli oppositi semplici dai complessi, suddividendo i primi in quelle medesime quattro spezie, delle quali ab biamo testè parlato nell'articolo oppost zione. V. questa voce. OPPoRTUNITÀ e OppoRTUNo (dise. e prat.), il tempo, e il luogo conveniente, a dire o a fare checchessia. La convenienza del tempo e del luogo abbraccia ancora la qualità delle persone che parlano, o con cui si parla; impe rocchè il tempo e il luogo non hanno una convenienza materiale propria che abbia a rispettarsi, ma la prendono dalle per sone, secondo che son esse che operano, o narrano, o ascoltano l'altrui narrazione. – 255 – Nel discorrere come nell'operare, l'op portunità è quella che decide del succes so, che l'autor dell'uno o dell'altro si pre figge. Nelle orazioni, nepoemi, ne'dram mi il dir le cose a tempo e a luogo, le rende non solamente gradevoli ed utili, ma verisimili; e siccome la verisimiglianza consiste principalmente in questo, che una cosa per natura possibile sia descritta come avvenuta, così può dirsi, che la verisi miglianza sta nella opportunità. Ma l'opportunità è la madre ancora dell' ordine, dapoichè il principal requi sito di quel che chiamasi ordine, è che le cose sien disposte nel tempo e nel luogo che loro conviene. Ora in questo aspetto la risguardarono gli antichi. I Greci la chiamarono euraſia, i latini, modestia, e Cicerone distinse il doppio significato che aver può il vocabolo greco: hae scientia continetur ea quam graeci euro tav no minant: non haec quam interpretamur modestiam, quo in verbo modus inest. ASed illa est eurogix, in qua intelligitur ordinis conservatio. Ilaque, ut eandem nos modestiam appellemus, sic definitur a Stoicis, ut modestia sit scientia earum rerum, quae agentur aut dicentur, suo loco collocandarum. Itaque videtur ea dem vis ordinis et collocationis fore. Mam et ordinem sie definiunt, com positionem rerum aptis et accomodatis locis. Loeum autem actionis, opportunita tem temporis esse dicunt. Tempus autem actionis opportunum, graece evnafta, latine appellatur occasio. Sic fit, ut mo destia haec, quam ila interpretamur, tut diari, scientia sit opportunitatis ido neorum ad agendum temporum (de off. lib. I. c. 4o). Bene osservò il Casaubono che alla po vertà della lingua latina è dovuto il dop. dio significato dato alla voce modestia, dapoichè due nozioni diverse, quali son la temperanza o moderazione e l'ordine di luogo e di tempo, vengono confuse col medesimo nome. Del resto tranne l'im proprietà della denominazione, la filosofia stoica diede tanta ampiezza al significato della opportunità, che la scambiò colla prudenza, giusta la testimonianza dello stesso Cicerone. V. Ordine, Prudenza. ORA (spee e crit.), parte aliquota del giorno solare, di cui ci serviamo per mi sura del tempo. V. Giorno , Tempo. Presso la generalità delle civili nazio ni, l'ora è la ventiquattresima parte del giorno solare, o sia della diurna rota zione della terra per rispetto al sole; e secondo l'apparenza, è la ventiquattresima parte del tempo interposto tra due con secutivi passaggi del sole per uno stesso meridiano. Ma l'effettiva rotazione della terra intorno al suo asse compiesi in un tempo minore del giorno solare, perchè a cagione del suo moto nell'orbita, essa dopo di aver compiuto la sua rotazione, non ritorna nella direzione del sole, se non descrivendo un angolo di altri 598"33. Per la qual cosa un'ora solare non corri sponde esattamente alla ventiquattresima parte della diurna rotazione, o sia a 15 gradi, a quali corrisponde la durata del l'ora detta siderea. Nondimeno, per gli usi civili, e anche per gli astronomici, quando trattasi di tempo solare, si suppone essere esattamente di 36o gradi il giro, che fa la terra per tornare nella direzione del sole; per modo che ad un'ora solare si assegnano ancora quindici gradi di ro tazione, o quindici gradi dell'equatore. V. Equatore, Giorno. - Ore eguali, equinoziali e astronomi - 254 – che son dette le ventiquattresime parti del giorno e della notte unite insieme, nume rate da un mezzogiorno all'altro. Tempo ranee per l'opposito chiamansi le dodi cesime parti del giorno o della notte, le quali per l'obliquità della sfera sono più o meno disuguali in diversi tempi , per modo ch'esse accordansi colle ore eguali soltanto nel tempo degli equinozi. V. que Sta VOce. Ogni ora dividesi in sessanta minuti, e ciascun minuto in sessanta secondi. Son queste le parti elementari, o sieno le pri me misure del tempo. V. Misura. La prima partizione del giorno par che fosse stata in dodici ore; imperocchè narra Erodoto, che i Greci appresero dagli Egi ziani a dividere il giorno in dodici parti. I Romani non conobbero la divisione del giorno in ventiquattro ore, se non al tem po della prima guerra punica. Essi divi devano il giorno in quattro parti, cioè pri ma, terza, sesta, e nona, delle quali ciascuna conteneva tre ore, e partivano la notte in altrettante parti, che chiama vano vigilie. Distinguonsi diverse altre ore, ricevute per misure relative di nazioni, e traman date per tradizione, come le ore europee, le ilaliane, le babiloniche, le giudai che, delle quali tutte parla la cronologia. V. questa voce. Gli autori del sistema metrico decimale francese, per porre d'accordo la divisione del tempo con quella del cerchio, che sup posero contenere 4oo gradi in vece di 36o, avvisaronsi di dividere il giorno in dieci ore, l'ora in cento minuti, ed il minuto in cento secondi. Ma era malagevol cosa il mutare una convenzione sociale, cotanto antica e sì generalmente estesa, come quel la della partizione del giorno in ventiquat tro ore. Cotesta difficoltà fece ancora ca dere a voto la nuova divisione del cerchio, la quale non avrebbe avuto alcuna rego lare relazione coll'antica divisione del tem po. Così il sistema metrico decimale ha perduto l'oppoggio dell'astronomia ; da poichè non potendo dividersi il quadrante terrestre in cento gradi, non può un nu mero di metri ridursi immediatamente ed esattamente in un numero di gradi, nè questo in tempo, o sia in frazioni della rotazione diurna della terra, siccome gli autori di quel sistema avevano immagi mato di fare. V. Misura. ORAToRIA (dise.), arte di parlare no bilmente, e con eloquenza. V. questa voce. ORAToRE (dise.), chi è perfetto in tutti i tre generi della eloquenza. V. questa VOCG, Per essere perfetto in ciascuno de tre generi dell'eloquenza, uopo è che il dici tore sia pronto a trattare qualsivoglia ar gomento gli si presenti, non solamente con facondia, ma ancora con piena co gnizione della cosa di cui trattasi, con erudizione, e con ordine, accompagnando tutti questi pregi, con una certa dignità di gesto e di azione. E per potere unire insieme tanti numeri, convien che l'ora tore posseda in sommo grado le più im portanti scienze, abbia una compiuta co gnizione delle arti liberali, e sia ornato di tutte le forme civili. Questa è la som ma delle qualità che Cicerone esige in un perfetto oratore nel suo elegante trat tato orator intitolato a Marco Bruto. ORAzioNE (disc. ), discorso secondo i precetti dell'arte retorica, tessuto col fine di ottenere l'altrui persuasione, – 255 – La partizione proposta da Aristotele dei vari generi di eleguenza, di cui abbia mo in quell'articolo parlato, sembra me glio convenire all'orazione. Cotesti generi son tre: il dimostrativo, il deliberativo, e il giudiziale; il primo è adoperato per biasimare o per lodare, e comprende i panegirici, i discorsi accademici, i ge netliaci, gli epitalami, gli epicedi, i rendimenti di grazie, gli epinici, e le gratulatorie, il secondo vale a persua dere o a dissuadere, e però gli apparten gono le così dette suasorie, l'esortazioni, le commendazioni: il terzo si prefigge di discettare del fatto o del diritto, e abbrac cia l'accusa, la pruova, e la confutazione. I gramatici distinguono l'orazione dal l'aringa, e per verità cotesti vocaboli hanno nell'uso del parlare un significato alquanto diverso. L'orazione è ogni di scorso elaborato, sia scritto o detto, e in nanzi a pochi o a molti; laddove l'arin ga è pronunziata in publico, e da rostri. È sinonimo di concione, che noi abbiam tolto a Latini. V. Aringa, Concione. ORBE (spec. e crit.), cerchio o sfera, al tra volta applicato al moto de corpi celesti. L'antica scienza astronomica professò per secoli una falsa dottrina intorno al moto de corpi celesti, fondata nel presupposito che il cielo fosse composto di molte sfere, o orbi grandi circolari, azzurri e traspa renti, uno rinchiuso in un altro, sopra i quali si appoggiassero i pianeti, quando trasportavansi da un punto all'altro del cielo col loro moto proprio. Centro co mune di tutti i cennati cerchi, o involu cri sferici, era il centro della terra, con siderata allora come il centro del mon do. ll grande orbe, orbis magnus, era quello in cui supponevasi che il sole si movesse, o sia quello nel quale la terra compie il suo annuale rivolgimento. Nel la moderna astronomia, la voce orbe è stata cangiata nell'altra di orbita. ORBITA (spee. e crit.), la curva che i pianeti descrivono col proprio loro moto; e quella che la terra descrive nel suo an nuo rivolgimento intorno al sole. Tanto l'orbita della terra, quanto quella di tutti i pianeti è un ellissi, nel fuoco della quale è situato il sole. In questa el lissi i pianeti muovonsi colla legge, che un raggio tirato dal centro del sole al centro del pianeta descrive aree, sempre proporzionali a tempi. Gli antichi astronomi credevano, che i pianeti descrivessero curve circolari con una velocità uniforme. Copernico stesso non andò esente da tal errore, anzi diede per impossibile il contrario: fieri neguit ut coeleste corpus simplex uno orbe inae qualiter moveatur. E siccome manifeste erano le ineguaglianze del moto del pia neti, così per ispiegarle ricorrevasi ad un'altra supposizione, ch'era quella degli epicicli e degli eccentrici. V. Epiciclo. Gli astronomi posteriori a Copernico sco persero le orbite ellittiche, e cominciarono a suspicare che i pianeti si movessero con velocità non uniformi. Keplero, dietro le osservazioni di Ticho-Brahe, fu il primo a dimostrare le disuguaglianze del moto dei pianeti. Sua fu la scoverta, che la terra, quando trovasi alla minore distanza dal sole, muovesi con una velocità maggiore di quella, con cui muovesi allorchè ne è più distante, e che la sua velocità in qua lunque punto dell'orbita è in ragione in versa del quadrato della distanza dal sole; dal che nasce la verità generale di sopra enunciata, cioè che i pianeti descrivono - - – 256 - intorno al sole aree proporzionali al tem po. V. Moto. Orbita chiamano gli anatomici la cavi ià, nella quale il globo dell'occhio è col locato. V. Occhio. ORDINE (spee. crit. teol. e dise. ), la disposizione delle parti d'un tutto, fatta da un Essere intelligente per conseguire un determinato fine. V. Fine. L'ordine è naturale, o artifiziale. Na turale dicesi quello che nasce dalle rela zioni essenziali delle cose, e dalla concate nazione delle cause naturali. E però chia miamo ordine morale della natura la se rie delle relazioni degli Esseri intelligenti tra loro, dalle quali risulta la così detta legge naturale; e nel medesimo senso scambiamo la nozione dell'ordine con quel la della legge, e del fine che questa si prefigge. Laonde l'ordine fu da un grande pensatore, maestro di divine ed umane cose, definito: la legge secondo la qua le si esegue tutto quel che Dio ha sta bilito. Certamente la nozione dell'ordine morale della natura è il mezzo, per lo quale la mente dirittamente corre alla co noscenza di Dio, dacchè concependo l'orº dine, concepisce l'intelligenza, che n'è stata la sorgente e la causa. Cotesto or dine primitivo dicesi necessario, perchè risulta o dalle essenze stesse delle cose ma- - teriali, che sono immutabili, o dalla con catenazione delle cause, predisposte dal Creatore per la economia e conservazione dell'universo. V. Necessario, Universo. Un tal concetto è bellamente espresso in quei versi di Dante: - le cose tutte quante Hann'ordine tra loro, e questo è forma Che l'universo a Dio fa simigliante. ( Par, I. ), Passando ora dall'ordine delle cose sta bilite dalla suprema intelligenza, a quello che presiede alle opere dell'uomo; non si dà serie di azioni o di operazioni della mente, che non esiga una predisposizione di mezzi capace di produrle: questo è quel, che chiamasi ordine artifiziale o contin gente, perchè dipende dalla volontà delle intelligenze finite, ed è di sua natura vario e mutabile. La nozione non pertanto dell'ordine delle cose materiali differisce da quella delle opere intellettuali; impe rochè la disposizione delle cose materiali è sempre regolata dal luogo, che queste occupano nello spazio, se sono coesistenti; e dallo spazio e dal tempo insieme, se son successive, ond'è che gli scolastici de nominarono cotesta spezie di ordine ordo situs. Ma tanto le cose coesistenti, quanto le successive portano seco impresse il se gno della intelligenza che le ha insieme disposte; le prime, perchè quantunque incapaci per se stesse di moto e di ogni spontanea disposizione, dimostrano avere ricevuto una particolare destinazione da una causa attiva ed intelligente, posta fuori di loro; le seconde, perchè le tracce della intelligenza son più sensibili nell'azione delle cause predisposte a produrre un effetto continuo e successivo. Chi ne gherebbe, essere nell'orologio più visibile l'intelligenza e il fine dell'artefice, che nella base d'una colonna, o nel piedi stallo d'una statua? V. Spazio, Tempo. Quanto poi alle operazioni della mente, essendo i pensieri successivi, e graduale il passaggio dal noto all'ignoto; è mani festo, che il tempo gradua e determina la retta disposizione delle idee, dalle quali nascer dee la conclusione che è il fine del ragionamento e del discorso. Quest'è quella spezie d'ordine, che gli scolastici - 257 - chiamarono ordo doctrinae, e col quale noi procediamo nell'insegnamento, o nel l'invenzione; anteponendo talvolta i prin cipi e le verità generali, alle particolari che vogliamo dimostrare, e talvolta par tendo dalle verità particolari già note, onde pervenire allo scoprimento delle ge nerali ed ignote. Le regole che sogliam fissare per seguire l'una o l'altra via, e che ricaviamo dalla sperienza stessa della ragione, son quelle che con proprio nome chiamiamo metodo, dal che apparisce ma nifesto, non essere il metodo altra cosa, se non l'ordine, che noi stessi diamo alle operazioni della mente, o per dimostrare, o per inventare. V. Metodo. Distinguevano ancora gli scolastici l'or dine della intenzione dall'ordine della esecuzione, e chiamavano ordine d'in tenzione la gradazione delle cause, che col pensiero ci formiamo, per ottenere il fine o l'intento. In questa gradazione con sideravano il fine come la prima causa, la materia come la media, e la forma come l'ultima; e per l'opposito nell'ordine di esecuzione risguardavano come prima la causa efficiente, come media la mate ria e la forma, e come ultima il fine ; d'ond'era ricavato quel loro assioma: quod est primum in intentione, illud est ul timum in eacecutione. Tanto nella disposizione delle cose ma teriali, quanto nella successione del pen sieri, il numero presta un doppio uſizio, cioè d'indicare la priorità degli uni a ri spetto degli altri, e il graduale progresso loro dal principio da cui partono verso il fine al quale tendono. Il numero è quello che forma la serie delle proposizioni con nesse, o dipendenti le une dalle altre. E quì per serie intendiamo appunto la gra dazione de legami e delle relazioni, che aver possono i principi, le nozioni, e le conclusioni, dal complesso delle quali na sce il corpo o il sistema d'ogni scienza. Di qua il tantum series functuraque pollet. Il numero in somma è il principale in strumento dell'ordine, tanto nelle cose ma teriali, quanto nelle intellettuali. V. Nu mero, Serie. Nelle cose materiali, allorchè la dispo sizione delle diverse parti d'un corpo, o di più corpi comparati tra loro, formino un accordo, che soddisfa il senso del bel lo, l'ordine prende il nome di simmetria, la quale non è altro, che il collocamento di cose coesistenti disposte in accordo tra loro. V. Simmetria. ln fine l'ordine logico presiede al di scorso come a pensieri, e può dirsi il car dine della istruzione didascalica, della re torica, e della eloquenza; a rispetto delle quali discipline è di una importanza an che maggiore, tra perchè senza l'ordine mancherebbe interamente lo scopo loro, e perchè l'emenda del difetti d'ordine nel discorso è men facile che ne pensieri. La notabile differenza che passa tra l'arte del pensare e l'arte del parlare è , che noi non possiamo persuadere gli altri collame desima facilità, colla quale persuadiamo noi stessi, nè fargli ricredere colla stessa prontezza con cui noi ci rierediamo; es sendo che le idee, son più rapide e più vive delle parole, colle quali dobbiamo esprimerle. L'oratore e lo scrittore, ehe si propongono di persuadere gli altri d'una verità non ovvia nè facile, o che vo gliono distruggere una contraria preven zione radicata nell'animo di coloro a quali parlano; uopo è che dispongano le parti del discorso, e che avvertano alla oppor tunità d'ogni lor detto, non solamente per riuscire nel fine della persuasione, ma 55 anche per evitare il pericolo di confermare quella contraria opinione che vorrebbero cancellare. La retta disposizione dunque di tutte le parti del discorso, se da una parte è figlia di quella del pensiero e pro cede da medesimi principi ; è dall'altra soggetta a più severe regole per la mag gior difficoltà del fine che si prefigge, d'onde segue che senza ordine non si dà oratore, nè eloquenza. V. queste voci. - Ordine, finalmente, suole denominarsi un capo genere, il quale regola le parti zioni di moltiplici spezie poste sotto di se, varianti non per l'essenza, ma permodi, di che può trovarsi l'esempio nelle parti zioni della storia naturale. In questo senso prende un significato equivalente a quello di classe e di genere. V. queste voci. ORECCHIA e OREccHIo (spee.), organo dell'udito, per lo quale gli animali rice vono le impressioni del suono. V. questa V0C0. - Non può dirsi, se la natura sia stata più industriosa nella struttura degli occhi, o delle orecchie. Ciascuno de due organi è si maraviglioso, che dopo di avergli a parte esaminato, ognuno sentesi disposto di dar la preferenza a quello de'due, che ha in ultimo luogo osservato. Lasciamone la minuta descrizione a'no tomisti, ma diciamone tanto, quanto ba sti a far intendere l'organica struttura del senso dell'udito, e distinguiamo la parte esterna dall'interna. L'esterna, detta auricola, messa dal l'una parte e dall'altra dell'osso tem porale, elevasi sul resto della superficie della testa: è una delicata cartilagine di forma circolare, la quale contiene di verse sinuosità. Sue parti sono l'elice, e l'antelice, che ne abbraccia l'intero circuito; il trago o sia il bottoncello car tilaginoso, posto dalla banda anteriore per custodirne l'ingresso ; l'antitrago e la conca, o sia il seno che s'incava in mezzo all'orecchio esteriore. Nell'uomo, che a differenza del bruti ha le auricole fisse, son queste contornate da un triplice giro spirale, di cui l'inclinazione tortuosa pro duce la riflessione de suoni che vi entra no, e fa sì che tutti si raccolgano nella conca. A questa continuamente annesso è il meato uditorio, detto alveare, il qua le procede in una direzione serpeggiante insino alla membrana del timpano. Esso è d'una sostanza in parte cartilaginosa e in parte ossea, vestito d'una pelle liscia, la quale è spalmata d'una materia ceru minosa, che è quel che chiamasi cera o cerume dell'orecchio. Una tale combina zione di parti lo rende sopratutto atto a condurre il suono nell'interno dell'orec chio, senza alterarlo, dapoichè la stessa sua obliquità aumentandone le superficie moltiplica i punti della riflessione. Una linguetta cartilaginosa, triangolare, tre mula, elevata, diritta sopra la cavità del la conca, situata nella parte superiore del condotto uditorio, determina i suoni in cidenti ad entrare nel canale, senza che possano uscirne, qualunque sia il punto dal quale sieno stati reſlessi. Acciocchè un tal effetto si ottenesse, era necessario che la sostanza del condotto per la sua du rezza fosse stata capace di reflettere il suo no, e per la sua obliquità di non farlo tornare in dietro. In fatti se il condotto uditorio fosse stato diritto e perpendico lare al tamburo, il suono sarebbe stato respinto verso la bocca del condotto me desimo; laddove entrando obliquamente va ad urtare contra la parte ellittica su periore della conca, d'onde reflette sopra – 259 - l'inferiore, e di là nel meato uditorio esterno. Sì maraviglioso è l'artifizio col quale quest'organo è stato costrutto, che per lo caso in cui il suono fosse troppo forte, la natura ha messo alla sua imboc catura la linguetta triangolare e tremula di cui abbiamo testè parlato, acciocchè potesse chiudere l'entrata al suono, e l'ha fatta mobile per mezzo d' un muscolo, detto di Vasalva, dal nome del suo pri mo scopritore ed osservatore. Il meato uditorio è chiuso da una mem brana delicata, secca e trasparen e, detta membrana del timpano o del tamburo, la quale separa l'orecchio esterno dall'in terno. Passando a questa interna parte, trovasi la cassa del tamburo, che è una cavità semisferica irregolare, nella quale sono altre cavità, cioè la parte ossea del la tromba di Eustachio, la finestra ova le, la rotonda, e i quattro ossicciuoli de nominati, il martello, l'incudine, l'osso orbicolare o lenticolare, e la staffa. La così detta tromba d' Eustachio è un con dotto che apre la comunicazione tra l'orec chio, le narici, e le fauci: per esso rin novasi di continuo l'aria, che si trova nelle cavità dell'orecchio. Senza di tale instru mento, disposto in forma d'una tromba, o d'un corno da caccia, tra la cassa del timpano e la dietrobocca, l'aria racchiusa in quelle cavità, sarebbe soggetta ad una tale rarefazione, che le toglierebbe ogni elasticità, e renderebbe insensibili gli or gani dell'udito agli scuotimenti e alle oscil. lazioni del suono. Dicono i notomisti, trai quali Vasalva, che la chiusura del pas saggio dell'aria per la tromba di Eusta chio, produca la sordità ; sì che essa è una delle più chiare indicazioni dell'uso cui questa parte dell'oganismo uditorio è destinato. Non così di molte altre parti dello stesso organismo, intorno alle quali non possono formarsi se non semplici con getture. I forami o finestre, una ovale e l'altra rotonda, son due comunicazioni tra la conca e il vestibolo del laberinto, di cui parleremo quì appresso. Quanto agli ossicciuoli, sono notabili nel mar tello il capo ed un manico: il capo ha due prominenze e una cavità, la quale serve a dargli un'articolazione di gingli mo col corpo dell'incudine, mentre che il suo manico è incollato alla membrana del tamburo : l'incudine è un corpo a due braccia, nel quale sono due cavità e una prominenza, che servono a dargli un'articolazione congiunta col martello : le sue due braccia son d'ineguale lun ghezza; di queste il più corto non ha al cuna comunicazione cogli altri ossicciuoli, mentrechè il più lungo termina in una cavità , che abbraccia un degli estremi dell'osso orbicolare: l'altro estremo di que sto medesimo osso entra in un'altra ca vità, che presenta la testa della staffa. Quel che è più notabile intorno agli ossic ciuoli, è che essi sono ne fanciulli, quali negli adulti, non capaci di alcun accre scimento. Taluni di essi son provveduti di propri muscoli: il martello ne ha tre, e la staffa uno. A quale uso sien questi destinati, è incerto tra gli anatomici. Pre tendono taluni che l'ufizio loro sia di tem perare i suoni soverchiamente acuti, ma più sicuro è il dire, che l'azione mecca niea denervi e del muscoli è il maggiore de segreti della natura, e che nell'udito avviene quello stesso che sentiamo essere della deglutizione, dell'articolazione della voce, e di tutte le altre funzioni animali, alle quali siamo interamente passivi. Sin qua abbiamo appena toccato la par te dell'organo dell'udito, la quale serve n – 260 – a raccogliere e indirizzare i suoni. V'ha un'altra più interna camera detta il labi rinto, nella quale debbon questi entra re, e di cui la parte più notabile è il labirinto, rinchiuso nell'osso pietroso, e composto di tre parti, che i notomisti chiamano il vestibolo, la coelea o lu maca , e i canali semicircolari. Uopo è dire, che le pareti di tutte le cavità del labirinto, essendo formate dall'osso pietroso son dure e compatte, d'onde se gue che le impressioni del suono urtando contra le dette pareti nulla perdono della loro forza, e vengono comunicate nella loro integrità alla parte molle denervi del l'orecchio. Il vestibolo è una cavità irre golarmente rotonda, nella quale trovansi la polpa della porzione molle del nervo acu stico, di cui or ora farem parola, un li quore acquoso, come nel timpano, e una porzione di aria, che dal timpano passa in questa cavità. La coclea è un canale osseo conico, che segue per due giri e mezzo una linea spirale, di cui la punta termina col cono stesso. Trovansi sparsi per tutta la sua estensione piccioli nervi acustici, de quali la disposizione somiglia ad una tela di corde, che l'analogia ci fa conce pire come un instrumento di corde armo niche, ognuna delle quali corrisponde ad uno de suoni formati dalla voce, o pro dotti da corpi. Finalmente i canali semi circolari, che son tre d'ineguale gran dezza, ma sempre di eguali proporzioni tra loro, racchiudono nelle loro scanala ture una parte della porzione molle del nervo acustico, e sembran destinati, giu sta le congetture di taluni anatomici, a ricevere, secondo la rispettiva loro gran dezza, le varie misure del tuoni. La comunicazione tra l'organo dell'udito ed il cervello è stabilita per mezzo del nervo acustico o uditorio, che passa per lo meato uditorio interno, e nel quale distinguesi la parte molle dalla dura: la molle dividesi in molte braccia, e forma la dilicata tela che si spande per le varie parti del labirinto: la dura , passa per lo cranio e viene a spandersi nelle parti dell'orecchio esterno e della faccia. La ra dice del nervo acustico è attigua a quella dell'ottavo paio di nervi, che discende giù nel petto e nelle viscere; nel che gli ana tomici trovano la ragione della corrispon denza tra suoni, e spezialmente tra le ſorti impressioni che riceve l'orecchio, e i mo vimenti che queste destano anche nelle parti inferiori del corpo. La comparazione tra l'organo umano dell'udito e quello de bruti dimostra la so praffina industria, colla quale il Creatore ha inteso adattarlo alla condizione delle diverse spezie degli animali, e alla ri spettiva loro destinazione. Negli uccelli l'orecchio esteriore è di una forma pro pria al volo, non protuberante, ma co perto e chiuso. Nel quadrupedi è adattato alla positura, e al movimento del corpo: nelle lepri è largo , aperto, ed eretto, onde sien preste a sentire i loro persecu tori: negli animali sotterranei è situato al disotto e indietro della testa, onde non fosse d'ostacolo al continuo loro lavorio: nelle talpe manca affatto l'auricola, e tro vasi l'orecchio posto tra 'l collo e la spal la, in forma d'un buco coverto da una pelle, che apresi e chiudesi a guisa d'una palpebra. Nella generalità, le auricole in quelli animali che ne sono provveduti, son mobili acciocchè possano portarle in qualunque direzione faccia bisogno, se condo la varia posizione del capo loro. In niun'altra spezie di animali l'interna struttura di quest'organo è tanto composta – 261 – ed artifiziosa quanto nell'uomo; e d'altra parte in ciascuna delle spezie inferiori le parti del medesimo organo son proporzio mate a quella limitata udita, che la natura le ha concesso. A niuna, fuorchè all'uomo ha dato l'organo adattato all'armonia e alla misura del tempo, del quale dono è compagno l'altro della voce e del canto. V. Canto, Udito, Voce. Mediante gli accurati studi degli ana tomici dal decimosesto secolo insino ad oggi, noi conosciamo le più minute parti della interna struttura dell'organo dell'udi to, ma di poche intendiamo l'uso; e di queste poche giudichiamo per congetture, e per analogie ricavate dagli effetti della stessa sensazione del suono. Nella visione la natura ci ha dato indicazioni più chiare che nell'udito. L'occhio è una lente, che presenta al nostro senso l'immagine fe dele dell'obbietto esterno; ma qual'è l'im magine del suono, e come questo passa pe'meati dell'udito? Qual è il giuoco dei muscoli, e denervi, che a guisa di tante corde armoniche portano alla sensazione le inflessioni del canto e degl'instrumenti musicali? I muscoli del timpano sono sì delicati, che non possono essere distinti, se non coll'aiuto delle lenti; e non pertanto da essi dipende il successo di tutte le mec caniche funzioni dell'organo dell'udito. Ri petiamolo, il modo come gli organi agisco mo, e il passaggio degli obbietti dalla sensa zione alla percezione, sono il più impenetra bile desegreti della natural V. Percezione. OaGANIco (spee. e crit.), quel che appar tiene o è relativo all'organo.V. questa voce. Dà nome alla generica partizione dei corpi e della materia, la quale distin guesi in due parti, organica e inorga nica. V. Corpo, Materia, Organismo. ORGANISMo (spec. prat. e teol.), nome collettivo delle forme, per le quali i corpi acquistano attitudine alle funzioni vegetali o animali. V. Corpo. Due sono le classi, nelle quali ordinar sogliamo tutti i corpi della natura, gli organici e gl'inorganici. Alla classe de gli organici appartengono le piante e gli animali. Di quelle e di questi è sì grande la moltiplicità e la varietà, che lo studio dell'uomo, in tutti i secoli sinora trascorsi, non è bastato a numerargli e ad esau rire la conoscenza di tutte le spezie loro. Di tali spezie ve n'ha moltissime, e forse il maggior numero, che per la loro pic ciolezza sottraggonsi all'osservazione del l'uomo, alla cui contemplazione per altro la natura ha esposto tutte le altre parti della superficie della terra abitabile. Se queste infime spezie non fossero altro che semplici automati, non cesseremmo di ammirare i disegni e le forme innumere voli, le quali vennero alla mente dell'al tissimo inventor loro. Ma cotesti Esseri tutti, son dotati di forze meccaniche e di vita; e tra le forze vitali, hanno ancor quella di riprodursi, o sia di creare altri Esseri a loro simili. Sin qua le piante hanno comuni cogli animali tutte le cen nate qualità. Ma questi sono ancora do tati di moto volontario e di virtù sensi tiva, alle quali funzioni son relative le differenze della loro struttura. Sebbene l'idea generale dell'organismo comprenda le forme così delle une, come degli al tri; pur tuttavolta giova riservare agli ar ticoli propri del regno vegetale le diffe renze caratteristiche della struttura delle piante, e limitarci quì alle forme proprie degli Esseri dotati di virtù sensitiva e di moto volontario. V, Albero, Pianta, Ve getazione, Vita. – 262 – Il primo costitutivo sensibile del corpo animale è un tessuto spugnoso, detto cel lulare, formato da innumerevoli lami nette irregolarmente situate, le quali co municano tra loro per modo, che i fluidi in esse versati si spandono, e le gonfia mo; mentre d'altra parte la virtù di con trarsi, di cui son dotate, le fa tornare allo stato loro naturale, quando cessi o si rallenti l'azione delle forze che le te mevano distese. Da questo tessuto cellulare mascono le parti solide de corpi, le quali quando sono distese in lungo e in largo, prendono il nome di membrane, e quando lo sieno in lungo, chiamansi fibre. Una membrana piegata in forma di canale ci lindrico, o comico dicesi vaso. Siccome i pori del tessuto cellulare son atti a rice vere materie estranee, e sopratutto le fer rose; così a misura che queste vanno a depositarvisi, le parti prendono una mag giore consistenza, e passano allo stato di cartilagini, e indurendosi a quello di ossa, V. queste voci. Un'altra parte costitutiva del corpo ani male è la fibra carnosa, di forma filamen tosa, dotata ancor essa di forza di contra zione, e di vantaggio irritabile, quando sia toccata con un corpo pungente, o con un fluido acre. Cotesta fibra riunita in fa scetti forma i muscoli, i quali sono gli or gani così del moto involontario o mecca nico, necessario all'esercizio delle funzioni naturali del corpo, come del moto volon tario. V. Museolo. - Un terzo elemento solido, risguardato come una delle parti costitutive del corpo animale, è la sostanza midollare, ras somigliante ad una polta omogenea, la quale guardata col microscopio apparisce composta di globetti. Non è dotata dive runa forza di contrazione come la cellu lare, nè è irritabile come la fibra musco lare, ma sembra dalla natura destinata non solamente a formare e a custodire le prime e le più delicate filamenta de'ner vi, ma anche ad essere l'ultimo veicolo delle sensazioni. V. Midolla. - . I tre cennati elementi solidi sono i pri mi componenti sensibili della fabbrica del corpo animale. La cellulare ripiena di ma teria terrosa forma le ossa: la fibra col legata in fasci costituisce i muscoli : le membrane vestono il corpo, e ne separano le varie cavità : l'intestino è un grande vaso rivestito di fibre carnose, nel quale i vasi più piccioli detti assorbenti, suc ciano il fluido alimentare, per condurlo nelle altre parti del corpo: le glandule sono ammassi di piccioli vasellini destinati a separare dal fluido comune e a formare gli altri liquidi, che debbon essere altrove condotti: una massa ed un fascio midol lare detto cervello e midolla spinale di rama da se dei fili detti nervi, me quali è riposta l'azione della vita. Cotesta azio me, regolata colla misura, e colle pro porzioni stabilite dalla natura, conserva i solidi, rende continua l'azione del flui di, contenuti nelle loro cavità, determina le leggi del moto degli stessi fluidi, e forma in una parola quel che dicesi eco nomia del corpo animale. Tal è in breve il ritratto delle funzioni dell'organismo animale, considerato qual è nelle spezie, che con impropria espressione diconsi per fette. Imperocchè perfetta è ogni forma, la quale corrisponde esattamente al suo fine, nè v'ha spezie o famiglia di ani mali in cui questa corrispondenza non sia stata esattamente calcolata e determinata. Ciò non ostante, il più o meno composto si suol esprimere con un vocabolo rela tivo alle spezie inferiori, nelle quali se – 265 – da una parte si ravvisa un minore artifi zio della natura, v'ha dall'altra minor numero e minore importanza di funzioni vitali. Questo ritratto non pertanto non è sufficiente a dare una compiuta idea de gli organi del moto e delle sensazioni, a rispetto delle quali la struttura del corpo animale prende l'aspetto d'una macchina della più sublime invenzione, composta di materiali non permanenti, ma muta bili, in cui non solamente è continua, ma doppia è l'azione del suo meccanismo , una cioè, di sostenere e di rinnovare ad ogn'istante i componenti, l'altra di dare moto e azione al composto. Nell'organismo noi contempliamo le parti costitutive di questa macchina, e nell'articolazione il suo motore. V. Articolazione. , Ma nell'organismo va principalmente considerato il disegno generale di tutta l'opera degli Esseri organici, da cui, più che da ogni altra parte trasparisce l'inſi nità della mente del suo autore, e l'im mensità della scala, secondo la quale ha egli operato. Qual distanza non v'ha tra l'inerte polpa della spugna, in cui pare che spiri il carattere dell'animalità, e il cane e l'elefante, i quali per la forza e per l'espressione del sentimento, più degli altri si avvicinano all'uomo? Quale lunga gra duale e continua successione non v'ha tra l'infima spezie degli animali detti radiati e articolati, e la più compiuta de verte brati, e de mammiferi? Alquanto superiori alle spugne sono le monadi e gli altri ani mali microscopici, di omogenea sostanza, di semplice e incompiuta figura, i quali muovonsi nell'acqua. A questi succedono i polipi di figura meglio determinata e di membra più distinte, che circondano la bocca, affissi non pertanto a talune so stanze solide da essi prodotte, privi d'ogni altro moto, fuorchè di quello delle pro prie membra. A polipi succedono le me duse simili per la mollezza del corpo, ma provvedute d'un maggior numero di di ramazioni nel canale intestinale. Alle me duse, gli echinodermi, provveduti d'una buccia più o meno dura, e di numerose membra destinate ad un lentissimo moto. A questi che forman propriamente la classe del radiati, succedono i così detti artico dati, gl'insetti, i crostacei, i vermi, i molluschi. -. - - Dalle dinotate spezie inferiori passando alle superiori, i vertebrati formano una classe di animali, a quali è dato un più compiuto organismo, perchè dotati di mag gior potenza locomotiva, e di più impor tanti funzioni sensitive. Son essi plasmati sopra uno scheletro, o forma di pezzi ar ticolati, composta d'una colonna spinale, in cima alla quale è collocata la testa, e la cui opposta estremità va a finire in un coccige, per lo più prolungato in coda. V" ha de caratteri di somiglianza, o per meglio dire comuni a tutti i vertebrati, e v'ha delle differenze che ne distinguono le spezie. I caratteri comuni sono: 1.º le cavità che contengono le viscere, toraci che ed addominali in tutto o in parte cinte da costole, o semicerchi ossei, arti colati lateralmente alla spina: 2.º le mem bra in ciascun di essi appaiate: 3.º il moto delle mascelle sempre verticale: 4.º il fe gato, la milza, il pancreas, le reni, le parti genitali che a tutti prestano il me desimo uffizio: 5.º il sangue sempre ros so: 6.º il sistema linfatico sempre distinto dal sanguigno: 7.º la massa cerebrale, i contenuta nel cranio, distinta nel cervello e nel cervelletto: 8.º l'orecchio formato da un vestibolo e da tre canali semicirco lari: 9.º simile in tutti il sistema nervoso. - 264 – Ma i vertebrati sono sparsi per la ter ra, per l'aria, e per l'acqua, ond'è che il diverso elemento, in cui ciascuno dei tre dinotati generi vive, richiedeva di verse modificazioni alle comuni forme. I pesci respirano per le branchie, le quali son poste all'una e all'altra parte del col lo : le membra loro consistono in talune alette o pinne: la coda termina quasi sem pre in pinna verticale: il corpo è coverlo di nuda pelle, e questa custodita da sca glie: le narici non comunicano colla parte posteriore del palato : l'orecchio non ha canale nè esterna apertura: il cuore ha una sola orecchietta ed un ventricolo che spinge il sangue nelle branchie : il san gue fa da quel punto un moto retrogrado per unirsi all'arteria che lo tramanda nel le altre parti del corpo, serbando sempre un calore non maggiore dell'ambiente : la maggior parte delle loro uova è fecon data dopo di essere uscite dal corpo della femmina. I rettili hanno come i pesci il sangue freddo, sebbene respirino l'aria per mez zo de polmoni: la struttura di questo vi scere è in essi fatta per modo, che ad ogni pulsazione va nel polmone una parte del sangue delle vene, tornando il resto al cuore senza passare per lo polmone: il corpo loro è pure vestito di pelle nuda, e questa coperta di scaglie: son provve. duti talvolta di due, talvolta di quattro piedi, e talvolta ancora ne sono affatto privi; le quali varietà son sempre relative ad altre modificazioni, che nelle viscere e negli organi della generazione son cor relative al numero, o alla mancanza dei piedi: in taluni di essi la fecondazione delle uova è l'effetto dell'accoppiamento dei sessi: in altri le uova son fecondate fuori del corpo della femmina: in altri final mente le uova apronsi nel corpo stesso del la femmina, la quale apparisce vivipara. Gli uccelli hanno una compiuta respi razione, il cuore con due ventricoli, e il sangue più caldo ancora, che ne quadru pedi: maggiore è l'ampiezza del loro pol moni, e le diramazioni dellaaorta sono espo ste all'aria ne sacchi, i quali sono i ser batoi, che tramandano l'aria per tutto il corpo: il vasto loro sterno somministra molti punti di congiunzione co muscoli che servono al moto delle ali: quantun que provveduti di due soli piedi, pure questi potendo venire in avanti, e insie memente potendo le dita discostarsi nota bilmente le une dalle altre, formansi per tal modo una base proporzionata alla loro mole: la testa sostenuta da un collo lun go e mobile per ogni verso, può toc care la terra, e portandosi innanzi o in dietro, può secondo il bisogno variare la posizione del centro di gravità, così nel camminare, come nel volare: son privi di denti, in luogo dequali son provveduti di becco: il corpo loro è vestito di penne: le loro uova son racchiuse in un guscio calcareo, che si apre al calore dell'incu bazione, o di altro a quello equivalente. Ma il principal carattere distintivo delle varie spezie degli animali vertebrati, deb be esser preso dagli organi e dalle forme della generazione. Noi chiamiamo mammi feri gli animali che come l'uomo, parto riscono figli viventi, i quali sono da pri ma nutriti col sangue della madre nell'in terno della matrice, e quando ne sono usciti, vengono alimentati col latte delle loro mammelle: lo scheletro loro, l'ap parato degli organi del molo, il sistema nervoso, il cervello, il cuore, i polmo ni, gli organi della respirazione, il si stema arterioso e venoso son tutti tempe – 265 - rati alla forma umana. Cotesta classe ab braccia tutte le numerose famiglie dequa drupedi. I cetacei non differiscono da essi, se non perchè, essendo destinati a vivere nelle acque, è stata loro data la esterna forma del pesci, e sono per conseguente privi delle estremità posteriori del corpo comuni agli altri mammiferi. Tal è il qua dro delle diverse spezie di viventi che abi tano il nostro globo, e delle quali forma il suo subbietto la zoologia. V. questa voce. A tutte le cennate spezie soprastà l'uomo, di cui l'organismo non è limitato a soli fini della vita sensitiva, ma comprende le sue attitudini all'esercizio delle facoltà in tellettuali di cui è dotato, e anche all'im perio della terra che abita, e degli ani mali che son destinati a servirlo. Lo stu dio della sua propria struttura è la più breve via, per la quale possiam noi giu gnere alla cognizione della sapienza del suo Autore. La facoltà che hanno i sensi di penetrare nelle interne parti della mac china umana e di svolgerne l'artifizio ; come l'altra data all'anima di vedere e di conoscere se stessa, sono le maggiori prerogative dell'uomo, perchè gli svelano la sua superiorità sopra tutte le altre spe zie di animali insiem co fini della sua creazione. Tal è lo studio dell'antropo logia, la quale non considera solamente l'uomo, come uno devertebrati e de'mam miferi, ma come il primo di tutti gli Es seri creati, che sono sulla terra, come la più perfetta forma degli Esseri organici, e come un singolar composto, nel quale la materia serve allo spirito e alla intel ligenza. V. Antropologia, Uomo. - ORGANo (spec. e disc.), parte della ma teria, conformata dalla natura, per essere instrumento di funzioni vegetali o animali. In questo senso tutte le parti d'e corpi vegetabili e le membra de corpi animali possono dirsi organi, o parti organiche. Ma per distinguere quelle addette ad una iunzione unica ed omogenea, dalle altre che prestano un ministero generale, sonsi chiamati organi primari quelli, e secon dari questi. Così le arterie, le vene, i nervi, i muscoli diconsi primari, e le mani, le dita e simili, secondari. Organi in un senso speciale son deno minati i sensi , considerati come instru menti per mezzo dequali riceviamo le im pressioni degli obbietti esterni. V. Senso. Organo infine è stato chiamato l'appa rato de libri logici di Aristotele, conside rati come gl'instrumenti del discorso; ed in conformità di tale similitudine nuovo organo denominò Bacone il suo metodo analitico della induzione, come contrappo sto del vecchio organo aristotelico. V. In duzione, Logica. - ORGoGLIo (prat.), l'ingiusta o esage rata opinione del proprio merito. V. que sta voce. È vocabolo derivato dal greco il quale esprime il fermento dell'amor di se me desimo, ma nel significato, che comu nemente gli si dà, può dirsi sinonimo di suberbia, che abbiam preso da Latini. V. Superbia. È la passione degli stolti, i quali men tre estimano se stessi per qualche imma ginaria dote, disprezzano negli altri la vera virtù: è il contrapposto della mode stia: è la sorgente dell'egoismo: è il ne mico della beneficenza e della umanità : è il più sicuro indizio della picciolezza dell'animo di quelli che se ne pascono: non entra nell'animo di chicchessia, (giu sta l'aureo detto di la Rochelocault), se 54 non per liberarlo dal rincrescimento di vedere la propria imperfezione. Differisce dall'alterezza o alterigia, perchè questa accenna più a modi esterni, che a senti menti dell'animo. V. Alterezza. ORIENTE (spee. e erit.), parte dell'oriz zonte, dove il sole apparisce a noi nel SUIO IndSCGre. - - L'oriente prende varie denominazioni da diversi punti, da quali il sole spunta sull'orizzonte, secondo i vari siti, ne'quali si trova nel suo annuale progresso; e però oriente equinoziale indica il punto del l'orizzonte, nel quale il sole si leva al lorchè entra in ariete o in libra. Cotesto punto dicesi ancora vero oriente, ed è ugualmente distante dal settentrione e dal mezzo giorno. Oriente estivo o vernale poi chiamasi il punto del levare del sole in uno de due solstizi. - i solº Oriente chiamano i geografi la parte della terra opposta all'occidente, il che dà a questi due vocaboli un significato cor respettivo dell'uno all'altro. V. Occidente. ORITToGNosIA (crit.), nome dato dai mineralogisti tedeschi all'arte di ricono, scere i corpi inorganici fossili, così per le qualità costitutive, come pe loro ca ratteri esterni ed apparenti. : Nel linguaggio generale scientifico va quanto mineralogia. V. questa voce. ORIzzoNTE (spee. e crit.), linea o cer chio celeste, che separa l'emisfero supe riore dall'inferiore, e termina la nostra vista. In questa definizione, che è la comune, son comprese due idee che giova per chia rezza distinguere, cioè l'orizzonte razio male, o astronomico, e il sensibile o ap, parente. L'astronomico è un gran cerchio il cui piano passa pel centro della terra, che divide la sfera in due parti, e di cui i poli sono il zenit e il nadir. Cotesto cerchio è tutto ideale, e serve alla mente per distinguere e ordinare gli obbietti ce lesti. Esso è tagliato in due parti eguali dal meridiano e da tutti i cerchi verti cali. V. Meridiano, Madir, Zenit. i Quanto poi al sensibile o apparente, giova ancora distinguere i vari significati scientifici da quello, che comunemente suo le darsi a questi vocaboli. Imperocchè per orizzonte sensibile intendono ancora gli astronomi quel cerchio minore della sfera, il qual divide la parte visibile dalla ine visibile della medesima. Cotesto orizzonte è da essi diviso in orientale e occiden tale e l'orientale è quello per dove ele vansi i corpi celesti: l'occidentale è l'al tro, per lo quale tramontano. Chiamasi ancora orizzonte, o orizzonie inclinato il cerchio minore della terra o della sfera celeste, che separa la parte vi: sibile della terra, o del cielo dalla invisi: bile: le due cennate circonferenze son de terminate dalle visuali cond tte dall'occhio dell'osservatore, tangenti alla superficie terrestre e prolungate sino alla sfera celeste, Nel comune linguaggio finalmente chia: masi orizzonte quel cerchio determinativo della vista, oltre del quale non possiamo vedere. - . ORNAMENTo e ORNATo (crit. spec. e disc.), cosa, pensiero, o parola, che si aggiu gne al suggetto principale, per farlo vago e bello. - - - - - Le arti, le scienze, e il discorso hanno gli ornamenti loro propri. La natura stessa ha i suoi, i quali son modelli alle nostre imitazioni. – 267 - Un pensiero nudo racchiuso in una pro posizione può contenere una verità, cui pre stiamo il nostro assentimento, senza ve derne per altro tutto l'utile o il bello. Le idee che la contornano, che ne dimostrano l'applicazione, e ne sviluppano le conse guenze, la rendono bella e gradevole. Questi sono gli ornati della filosofia. Le arti, e tra queste, spezialmente quelle che portano il nome di belle, avendo per principale loro scopo il bello e il dilette vole, debbono per mezzo degli ornati ac compagnare il vero o il verisimile, e ren derlo vago e piacevole. La pittura, l'ar chitettura, la poesia, la musica non po trebbero senza gli ornati alleltare i sensi e l'immaginazione, nè risvegliare l'idea del bello, del patetico, o del sublime. Il discorso e l'eloquenza, in qualunque degeneri suoi, esige per suoi principali requisiti la scelta de'vocaboli, e delle sen tenze, le similitudini, le immagini, e le figure, che danno forza al parlare e sostengono l'attenzione degli ascoltanti. V. Eloquenza. È manifesto che le regole degli ornati debbon essere desunte dal senso e dalla nozione del bello, perchè questo e non altro è lo scopo loro. E siccome le sor genti del bello stanno, o nell'ordine della natura, o nella imitazione, la qual dop pia sorgente distingue il bello assoluto dal relativo, così può dirsi, che la regola co mune a tutti gli ornati, sta in quel che conviene a ciascun subbietto. V. Conve niente, Bello. ORNIToLoGIA (crit.), trattato degli uc celli, che forma parte della storia natu rale. V. Uccello. - Cotesto trattato abbraccia la descrizione della esterna e interna struttura degli uc celli, delle varie loro spezie e gradazioni, de caratteri che distinguono le une dalle altre. Comprende ancora le relazioni che la natura ha stabilito tra essi, e le attitudini alle rispettive loro funzioni, come al canto, al volo, alla riproduzione, alla formazione denidi, alla rapina, alla aggressione, alla difesa, ec. L'immensità della natura in ciascuno desuoi regni è tale, che il più grande lavoro del cultori dell'ornitologia consiste nel classificarne gli ordini, le spezie, e le famiglie, o sia nel racco gliere le innumerevoli varietà che se ne trovano sparse per le zone della terra. Son corsi quasi tre secoli da Belon e da Gesner insino a Linneo, a Cuvier, a La cépéde, e ad altri moderni naturalisti, ciascun de quali non cessa di proporre nuove ampliazioni, e modificazioni a la vori de suoi predecessori. Chi , essendo straniero allo studio della storia natura le, voglia formare un giusto concetto del l'ampiezza di questa e di ogni altra parte del regno animale consulti l'opera di Cu vier, che porta per titolo, regno anima le distribuito secondo il suo organismo. V. Organismo. ORPELLARE e ORPELLo (prat. e disc.), in senso traslato, vale fingere e finzione, o falsa apparenza. V. Finzione. Il Varchi nell'Ercolano. « in qualsi gnificato s'usa orpellare? Quando alcuno, mediante la ciarla, e per pompa delle pa role vuol mostrare che quello che è or pello, sia oro, cioè fare a credere ad al cuno le cose o picciole, o false, o brutte, essere grandi vere e belle 2 (c. 68.). ORRENDo, ORRIBILE, ORRIDo (prat. e dise.), quel che non si può vedere o udire senza grande ripugnanza. at – 268 – Quantunque queste voci possan dirsi ter minazioni d'un vocabolo che racchiude uno stesso sentimento, pur tuttavolta conten gono una certa gradazione, che distingue l'una dall'altra: Orrendo è quel che desta abbomina zione o spavento: orribile è quel che de sta avversione: orrido è quel che nasce da bruttezza corporea, e ispira ripugnanza e paura. Gli esempi giustificano la propo sta gradazione: nel senso dell'abbomine vole, il Firenzuola nell'Asino disse: « tro vandomi in compagnia di sceleratissimi ladroni, fra sì orrenda moltitudine, po trò io dar luogo al pianto ? » Nel senso dell'avversione, Dante, diverse lingue, orribili favelle, e nel senso della ripu gnanza e della paura il Caro, qual or rido sannuto irto cinghiale? Ciascuno dei tre significati può essere trasportato al mo rale, e ognun di essi può in un parlare meno esatto o nel parlar poetico, essere scambiato coll'altro; tanto maggiormente, quanto son tutti derivati da uno stesso nome, che è l'orrore. Orrendo è stato da poeti usato ancora in senso di venerando, ma in questo caso de aversi come un nome contratto da ono rando, non altrimenti che l'orrevole è un contratto di onorevole. V. questa voce. ORRORE (prat.), sensazione di terrore o di abominazione, da cui l'animo rifugge. La morte fa orrore, come suol dirsi, e la virtù ha in orrore il vizio. - ORToGRAFIA (crit. e dise, ), regola di scrivere correttamente. ORTOPEDIA (crit.), l'arte di correggere o di prevenire ne fanciulli la difettuosità delle membra. OssEQUIo (prat.), esterna dimostrazione di riverenza e di onore, che altrui si rende. OssERvANZA (prat.), esterna dimostra zione di rispeto e di civili convenienze. E meno dell'ossequio. OssERvAzroNE (spec. e crit.), investiga zione dell'intelletto, per accertarsi dell'esi stenza, della realtà, e delle relazioni dei fatti esterni, e degl'interni dell'animo. L'osservazione è il fondamento della sperienza: è l'instrumento comune delle scienze fisiche e delle morali, comechè diversa sia nelle une e nelle altre la na tura del fatti, circa i quali versa. Più compendiosamente può dirsi, che l'osservazione è la vista esterna ed in terna dell'anima. Da essa ha preso prin cipio ogni sapere umano, che si compone di scienze di fatto, e di scienze specula tive. Nelle prime ci son maestri gli anti chi, i quali hanno per rispetto a noi il vanto, non solamente della priorità, ma anche della diligenza in tutto quello, cui bastar poteva il nudo ministerio del sen si. Le cose da essi osservate, sopra tutto ne fatti della natura dimostrano, che la curiosità e la vista del primi osservatori fu tanto più diligente ed acuta, quanto più viva e maravigliosa era l'impressione che in loro faceva lo spettacolo del mondo esteriore. Nelle scienze speculative poi l'osserva zione è guidata dall'interno senso dell'ani mo, il quale serve di subbietto a se me desimo per la grande prerogativa che gli è stata concessa, quella cioè di vedere se stesso. Nelle speculative come nelle positive uno è il cammino della ragione: conoscere i fatti particolari: da fatti par ticolari ricavare i generali: da'fatti gene rali costanti ed uniformi spiegare le leggi e il fine della natura. L'osservazione è nemica delle congetture e delle ipotesi, mediante le quali l'uomo altro non fa, che mettere la sua debole e picciola ragione in luogo di quella del Creatore. Ciò tanto è vero, quanto lo spirito dell'esatto osservare è nato nella filosofia dall'abuso delle ipotesi, sì che dalla falsa via si è conosciuta la vera. Delle congetture si vale la ragione per trovare i legami tra fatti noti e gl'ignoti; e noi chiamiamo congetture ogni antici pato giudizio fondato sopra apparenti indizi di verità. Ma l'osservazione scientifica, che è quella di cui parliamo, non ammette altro genere di congetture, se non quelle che nascono dalla naturale e rigorosa pro gressione da particolari agli universali. E però l'osservazione ha per sua compagna l'induzione. V. questa voce. Osso (spec.), parte solida, dura, e insiememente frangibile del corpo uma no, cui serve di sostegno e di difesa per rispetto alle sue parti molli. Le ossa tutte son vestite da una mem brana tenace detta periostio, e tra esse quelle che son vote contengono nel loro vacuo una sostanza molle, oleacea, che dicesi midollo. V. questa voce. Non togliamo a notomisti la descrizione del numero e della varia conformazione delle ossa; ma non può il filosofo con templatore della più bella opera della na tura, che è la struttura del corpo umano, passare senza attenzione il mirabile artifizio dell'articolazione, per mezzo della quale le ossa divengono il principale instrumento del moto, e di tutte le altre funzioni del l'organismo animale. V. Articolazione, Organismo. - Gli antichi, comechè conoscessero men di noi la notomia, furono più di noi am miratori attoniti della fabbrica del corpo umano, e conobbero l'importanza di questa sopra tutte le altre sue parti: Quid dieam de ossibus, quae subjecto corpori mira biles commissuras habent, et ad stabi litatem aptas, et ad artus finiendos ae comodatas, et ad motum, et ad omnem corporis actionem (Cicer. de nat, deor. lib. II. cap. 55). OSTENTAZIONE (prat.), pomposa mostra, o ambiziosa dimostrazione delle proprie qualità. È il carattere discernitivo della vanità, e della finta virtù. È bello il detto di So crate, rammentato da Cicerone, che la più breve e retta via a conseguire la vera gloria, è il dimostrarsi tale nefatti, qua le ognuno esser dovrebbe. Quod si qui, soggiugne il filosofo latino, simulatione et inani ostentatione, etfielo non modo sermone, sed etiam vultu stabilem se glo riam consequi posse rentur, vehemen ter errant. Vera gloria radices agit, atque etiam propagatur: fieta omnia ce leriter, tanquam flosculi, decidunt, nec simulatum potest quidquam esse diutur num (de off. lib. II. cap. 12). V. Gloria, Simulazione. OsTINAZIONE (prat.), fermezza di pro posito, che non cede ad alcuna contraria persuasione. - Prendesi per lo più in mala parte, e vale pertinacia o fermezza invincibile in una prevenzione d'animo, comechè tal volta si scontri col vero. In ciò l'ostina zione differisce dalla pertinacia, la quale contiene la resistenza ad ogni persuasione in contrario. V. Pertinacia. - 270 – Orrica (crit.), scienza della visione e della luce. È una parte della Fisica particolare, e delle scienze fisico-matematiche, la quale spiega i fenomeni della visione e della luce diretta, reſlessa, o refratta, e ab braccia la catottrica, la diottrica, e la prospettiva. V. queste voci. OTTIMo (spec. e prat.), superlativo che esprime il maggior grado del bene e del buono. V. queste voci. OvAIA (spee. ), organo interno delle femmine, posto nell'infimo ventre in luo ghi diversi, secondo il diverso genere degli animali, in cui le uova si conser vano, si sviluppano, e crescono, per passare poi nell'utero delle femmine vi vipare; e negli animali ovipari, per uscire fuori del ventre. Ovaia nelle piante, è il luogo al quale sono attaccate le semenze, e d'onde ri cevono nutrimento. Negli animali come nelle piante, è il deposito del germe della riproduzione, o sia della generazione. V. queste voci. OvIPARo (spec.), animale che conce pisce l'uovo, e di poi lo partorisce per covarlo. Gli animali ovipari sono una spezie op posta a vivipari, come l'uomo, i quadru pedi ed altri. La spezie ovipara, oltre gli uccelli e la maggior parte de pesci, in chiude diverse spezie d'animali terrestri, come i granchi, le grancevole, le lucer tole, le rane, le serpi, le testuggini ed altre. Per lungo tempo si è creduto che la riproduzione degli animali si operasse per questi due soli modi. Ma le osservazioni fatte sopra molte spezie d'insetti, e spe zialmente sugl'infusori han renduto pro babile, ea molti certa la generazione ete rogenea o spontanea , ammessa da Ari stotele, e riprodotta da Buffon. V. Gene razione, Infusorio. Ovo. V. Uovo. Ozio (prat.), cessazione dall'operare, cagionata da pigrizia, o da bisogno di riposo. - Secondo che è suggerito dall'una o dal l'altra cagione, l'ozio prende il carattere di pratica viziosa, onesta, o indifferente. Nel senso il più ovvio significa pigri zia, o abito di fuggire le opere virtuose, contratto per amor d'una vita molle e del tutto materiale; nel quale senso giusta mente è considerato come la sorgente di ogni vizio, e spezialmente come compa gno della lussuria. Ma i Latini diedero a questo vocabolo per suo significato proprio quello del riposo dalle fatiche del corpo, e della quiete della mente, e distinsero l'honestum dal segne otium. Cotesta di stinzione non può essere più bellamente espressa, che come leggesi in Cicerone: tanquam in portum confugere, non iner tiae, negue desidiae, sed otii moderati atque honesti (de clar. Orat. c. 2. ). E però noi al pari de Latini chiamiamo onesti ozi i tempi, che impieghiamo allo studio delle lettere, e alla contemplazione della natura, vacui e scevri da ogni al tra molesta cura. OziosITÀ (prat. ), l'abito del vivere senza veruna occupazione per solo amor di pigrizia. Colesto vocabolo è opportuno per di stinguere l'onesto ozio dal riprensibile, - 271 -- CLASSI DE VOCABOLI COMPRESI SOTTO LA LETTERA O, - ) a FILosoFIA CRITICA. piLosoFIA sPECULATIVA. “ Obbietto e Orecchio e Obbiettivo o Orbe Oggetto - Orecchia Oggettivo Orbita Occhio Organico Obbietto e Ordine Occidente Organismo Oggetto Orecchia e º Occulto Oriente Obligazione Orecchio - Oceano Orittognosia Occasionale Organico Onirocritica Orizzonte Occhio Organismo º Onta ornamento e occidente Organo º Ontologia Ornato Occulto Oriente - Opinione Ornitologia ' Oceano ' Orizzonte . Ora Ortografia Odorato Ornamento e Orbe Ortopedia º Odore Ornato º Orbita Osservazione ' Omeomeria e Osservazione Ordine Ottica Omiomeria Osso - º Operazione Ottimo º voci oMToLogicBE. Opinione Ovaia ) Ora Oviparo Obbiettivo o Occasionale Oggettivo Occulto FILOSOFIA DISCORSIVA. Obbiettivo o Oggettivo Obbietto e Oggetto Obbiezione Occasione Occhio Omonimo Onomatopea Opinione Opposizione Opposito e Opposto Opportunità e Opportuno Oratoria Oratore Orazione Ordine Organo Ornamento e Ornato Orpellare e Orpello Orrendo, Orribile, Orrido Ortografia TEOLOGIA NATURALE. Oltramondano Onnipotenza - Ordine Organismo FILOSOFIA PRATICA. Obbedienza Obbedire Obligazione Obligo e Obbligo Obblio e Obblivione Obbrobrio Occasionale Occasione Odioso Offensione e Offesa Oficio, Ofizio e Ufizio Oltraggio Omissione e Ommissione Onestà Onesto Onoranza Onore Operare Operazione Opportunità e Opportuno Organismo Orgoglio Orpellare e Orpello Orrendo, Orribile, Orrido Orrore Ossequio Osservanza Ostentazione Ostinazione Ottimo Ozio Oziosità GRECISMI SUPERFLUI. Ontosofia – 275 - I p Per (prat.), stato di concordia e di tranquillità, che nel significato proprio del vocabolo si applica al corpo politico ed è contrapposto di guerra e di discor dia; e in un senso traslato, si applica all'interno stato dell'animo, e alla calma delle passioni. Lasciando stare la disamina di tutto quel che appartiene al corpo politico, come estraneo al nostro argomento, possiamo trasportarci col pensiero alla umana con dizione prima della costituzione della civil società, per approfondare la quistione, se lo stato di guerra o di pace sia il conna turale all'uomo ; vale a dire, se abbia con se portato nella società il funesto ger me della guerra, o se debba questo ripe tersi dal disordine delle passioni, e dalle imperfezioni dello stesso corpo sociale. L'opinione, che lo stato della guerra sia connaturale all'uomo, ha avuto per suo antesignano Hobbes, autore di molti paradossi politici e morali, che tutti ri cavò dall'avere considerato l'uomo dal suo peggior lato, cioè dell'abuso che ha fat to, o può fare delle forze fisiche ed in tellettuali. Ora per iscoprire il vizio di tal ragionamento, dagli effetti che produce l'uno e l'altro stato, quello cioè di con cordia o di guerra, fa uopo giudicare qual sia il più corrispondente ed analogo all'or dine della natura, e all'interesse degl'in dividui, delle famiglie e delle comunità. Imperocchè non possiamo chiamar naturale quel che distrugge i vincoli stabiliti dalla natura, o quel che tende alla distruzione degl'individui, nè dare un contrario nome a ciò che gli conserva e li fa prosperare. La guerra mette in effervescenza ed in tumulto le passioni, accende l'ira, l'odio, la vendetta, il desiderio delle uccisioni e della distruzione delle cose più utili all'uo mo, sol perchè appartengono all'inimico; spopola le abitazioni, fa tacere ogni legge conservatrice dell'ordine e della giustizia; sul soglio di questa intronizza la licenza ed il cieco imperio della forza materiale; e per l'abito di tali vizi non solamente tien lontani gli uomini dalla pratica dei doveri morali, ma gli rende ancora sordi alle voci della religione, la quale anche si nasconde durante l'interregno delle passio ni. L'abito della fierezza e l'ambizione del la gloria militare tolgono all'animo l'amor degli studi liberali, insiem coll'agio ne cessario per coltivargli; corrompono l'opi nione del merito e della virtù; danno al saper vincere e devastare la terra il pri mato sopra ogni altra opera dell'ingegno; ed elevano al grado di eroica virtù il co raggio e la fortuna delle armi. La pace per contrario sviluppa le natu rali forze delle nazioni, la popolazione, l'industria ed il commercio; figlia dell'or dine e della giustizia, ama ed anima tutte le virtù civili; spande l'agiatezza e l'ab bondanza in tutte le classi del corpo so ciale; somministra mezzi alla beneficenza; ripete ogni suo bene dalla luce della reli gione e dall'esercizio de mutui doveri de gli uomini; favorisce gli studi liberali ed umani; e dà all'intelletto continui e nuo vi incitamenti per estendere le utili cono scenze. La pace in somma è lo stato di progresso, nel quale solamente possono le forze naturali dell'uomo spiegare la loro 55 - 266 – energia, e in cui veggono le nazioni com piersi tutto intero il corso della civiltà, e di quella relativa perfezione cui possono aspirare. Di questa verità convengono an che i popoli guerrieri, allorchè dopo lun ghe calamità di guerra, gustano i frutti e i benefizi della pace: Bloc paces habuere bonae ventique secundi. Quale de due stati, l'uno conservatore, l'altro distruttore della spezie umana e del l'ordine non men naturale che civile, di rassi il connaturale all'uomo? Ciò non ostante la guerra è il flagello inevitabile della umanità, e de popoli in civiliti, più che de barbari, perchè la ci viltà stessa, le scienze e le arti intendono a moltiplicare le armi e i mezzi distruttori, onde renderlo più micidiale e spaventevole, D onde un pendio sì universale alla di struzione e alle stragi? Ritorcendo una tal dimanda noi risponderemmo, d'onde l'ira, l'odio, la vendetta, il furto, la rapina e le uccisioni tra gl'individui? Una è la risposta ad ambe le quistioni, cioè : l'abuso delle passioni ed il retaggio del male, comune agli uomini e alle nazioni ! La guerra è una infermità, o uno stato con vulsivo del corpo politico, prodotto dal l'esaltamento delle stesse passioni, che strascinano gl'individui alla scambievole loro distruzione : è un furor cieco, che dacapi delle nazioni si comunica agli eser citi, e a popoli stessi: è un male inerente alla costituzione del corpo politico, il qua le da qualunque ragione provenga, trova sempre il suo principio in una di quelle medesime passioni, di cui la legge con danna negl'individui gli eccessi. La dif ferenza tra gl'individui e i corpi politici sta in questo, che gl'individui hanno nel la publica potestà una legge parlante, che vieta i trascorsi e li punisce; laddove le na zioni non obbediscono ad altra voce, che a quella del proprio interesse; nè temono altra pena fuori della fortuna e dell'even to. L'interesse non vuol dire altro che la propria utilità, di cui il sentimento è più potente ne'corpi morali, che negl'in dividui, tra perchè non trova limiti in al cuna legge scritta, e perchè non è com battuta dalla coscienza, facoltà di cui è privo ogni Essere collettizio. Ciò non o stante i capi delle nazioni, e quelli che le muovono a seconda delle proprie pas sioni, non vogliono apparire ingiusti; e d'altra parte, come primi autori del mali e delle desolazioni delle guerre, non pos sono sottrarsi alla voce della loro perso nale coscienza, nè all'invisibile giudizio del Padre degli uomini e del popoli. Di qua i manifesti e le dichiarazioni, colle quali chiamasi in testimonianza della giu stizia d'ogni guerra l'opinione delle altre nazioni, ed invocasi l'assistenza ed il fa vor dell'Onnipotente. Ma s'invoca e non si consulta l'opinione delle nazioni, la quale non pertanto è ligia del proprio in teresse, nè potrebb'essere giudice impar ziale della giustizia delle guerre. E d'al tra parte, il giudizio divino lascia libero il corso alle azioni umane, persino a quelle colle quali si profana il venerando nome della Divinità, il che avviene sempre che s'invoca come fautrice d'ogn'ingiusta ag gressione, e del mali che ne derivano. Del resto la guerra può essere giusta per l'aggressore ; siccome l'è nel caso d'una ingiusta aggressione a rispetto del popolo assalito, il quale per la neces sità della difesa è obligato di resistere all'inimico, e di respignerlo, o di pre venirlo con mezzi tanto vigorosi, quanto - 267 - quelli, col quali è stato o può essere at taccato. Lasciamo a publicisti il determi nare i caratteri così dell'ingiusta aggres sione, come della giusta difesa, purchè il facciano co puri principi della legge naturale, e non colla giurisprudenza in ternazionale, conforme il più delle volte all'interesse delle più potenti nazioni. Cer tamente non istabiliranno essi i limiti del la giusta difesa là dove furon collocati dal Montesquieu, il quale riconobbe come necessaria difesa la guerra dichiarata ad un popolo, che potrebbe per la prosperità d'una lunga pace pervenire a tale stato di potenza che gli suggerisse un giorno il pensiero di distruggere il suo vicino. Co testo popolo limitrofo, che teme sol come possibile il suo futuro pericolo, può, se condo il cennato autore, romper la pace, esporre il proprio paese a tutti i mali del la guerra, e correre alla distruzione del l'altro, che non ha manifestato alcuna voglia d'ingrandirsi, nè altro ostile desi derio: l'aggressore, in luogo di profit tare anch'esso del benefizi della pace, e di gareggiare col vicino in prosperità e potenza, può distruggerlo pel solo timo re, che potrebbe quello un giorno abu sare della sua potenza. Cotesto principio, trasportato nella privata morale degl'in dividui, di quali mostruose conseguenze non sarebbe capace? Tali sono molte delle conclusioni ricevute, non nel diritto, ma nella giurisprudenza internazionale, di cui il probabilismo è tanto più ampio, quanto più largo è il campo della forza, per ri spetto a quello della ragione. (Esprit des loia lib. X. cap. 2). - Checchessia della giustizia o della in giustizia d'una guerra, certamente è que sta una malattia inevitabile del corpo po litico, perchè se può una nazione evitar la, servando verso gli altri popoli tutti i doveri della reciprocazione e della egua glianza, non potrebbe certamente schi varla, se un invidioso aggressore venisse a turbarlo dal pacifico corso della sua pro sperità. Di tal necessità convennero le na zioni, allorchè sotto la fede di riti reli giosi, per rendere men disastrose le con seguenze della guerra, la circondarono di forme civili, e dall'esercizio stesso del la forza e della violenza fecero nascere un diritto, che provvedesse ad un tempo alla difesa degli assaliti, e tenesse aperte le vie al pentimento e alla riparazione delle offese. Tal fu lo scopo del diritto della guerra, in quo et suscipiendo et gerendo et deponendo jus ut plurimum valet et fides. V. Diritto. Ora dalla resistenza più che dall'aggres sione può dirsi nata l'arte militare, che ha sopra d'ogni altra aguzzato l'ingegno di tutte le nazioni - e ha a se chiamato come sue ausiliarie le scienze e le arti tut te, le matematiche, le fisiche, le fisico matematiche, la chimica, la geografia, la geodesia, e per sino l'erudizione e la storia, acciocchè l'esperienza venisse an cora in soccorso della parte teoretica delle sue dottrine. L'associazione delle cennate scienze, e delle arti che ne dipendono, le ha somministrato, e le somministra tutto dì, un largo campo di nuove scoverte ed invenzioni, sì che in nessun'altra opera dell'intelletto l'uomo apparisce tanto gran de, quanto nell'arte di sconvolgere l'or dine della natura e di distruggere se stes so. Al quale apparato di grandezza ag giugnendo ancora i prestigi e le illusioni della gloria militare, riesce facile spie gare, perchè sia quell'arte risguardata come il sostegno degl'imperi e della vita publica delle nazioni, e venga conside º - 276 - rata come la più mobile di tutte le pro fessioni, e la più degna di attirare a se i grandi e straordinari ingegni. Dall'essere l'arte della guerra venuta in sì alto grado di considerazione, la pace, per una necessaria ripercussione, è de caduta presso molti popoli dal suo natu ral pregio, ed è accusata di essere la fau trice della inerzia e della mollezza, che degrada le nazioni, e le dispone a divenir preda depotenti e devicini; giudizio che la sola ferocia de popoli barbari, o l'en tusiasmo degli uomini ambiziosi può so stenere contra l'evidenza della verità, e contra l'interesse generale della umanità. Ma niuno osa lodare altrimenti la guer ra, se non come un mezzo per conse guire la pace: suscipienda bella , ut sine iniuria in pace vivatur: questo è il fine e il ben principale cui tutti desi derano pervenire, ed in grazia del quale si sopportano gli estremi mali della guer ra, verità che gli stessi grandi capitani non hanno osato negare. Narrasi in fatti di Gustavo Adolfo, che a coloro i quali lusingarlo volevano, dicendo essere il suo coraggio uno straordinario dono della di vina onnipotenza, egli rispondesse, dite piuttosto della sua ira, giacchè la guerra come rimedio, è il più insopportabile di tutti i vostri mali. Adunque se è un male, necessario a conseguire un bene, augu riamo alla umanità il più lungo possedi mento di tal bene, e senza scambiare le definizioni del male e del bene, risguar diamo come perfetta nella vita publica quella nazione, che somigliasse nella giu stizia e nella dignità ad un individuo, il quale rispetta i diritti altrui, e fa rispet tare i suoi. ºalla somiglianza della tranquillità e dell'equilibrio delle passioni è tolto il dop pio significato, che nel linguaggio della pratica sapienza suole darsi al vocabolo pace, cioè di concordia tra gl'individui, o di perfetta calma degli affetti, accompa gnata dalla interna soddisfazione della pro pria coscienza. V. Coscienza, Passione, PADRE. V. Paternità. PALATo (spee. ), parte superiore in terna della bocca, concava ed arcata , che le serve di volta, coperta d'una tu nica glandolosa, e nel fondo della quale v' ha una grande apertura che si divide in due vie corrispondenti alle due narici. È la sede del sapore. V. questa voce. PALESE (disc.), quel che si fa noto col discorso. Forma una delle spezie del manifesto. V. questa voce. PALINGENESIA (spec. e ontol.), rinasci mento o rinnovazione del mondo, che ta luni filosofi immaginarono dovere avve nire dopo l'incendio e la distruzione del l'attuale. Altri, come il Bonnet, han chiamato con questo nome il risorgimento e il pas saggio che gli Esseri animati faranno ad uno stato più perfetto del presente. V. Es sere, Mondo. - PALPEBRA (spee.), membrana cartila ginosa e muscolare, la qual copre e di fende l'occhio. V. questa voce. PANCIA (spec.), parte anteriore del cor po dalla bocca dello stomaco al pettignone. E il sacco, nel quale sono rinchiusi gl'intestini, e in cui la natura ha collocato il laboratorio della digestione e nutrizione. – 277 – PANCREAs (spec.), glandula conglome rata posta sotto il fondo dello stomaco, dalla parte posteriore, destinata dalla na tura a separare dal sangue un particolare umore, chiamato succo pancreatico, il quale, secondo la opinione del fisiologi en tra nel duodeno per distemprare il chilo, e produrre la sua assimilazione. V. Chilo. PANTEISMo (spec. e ontol.), l'empia dot trina di Spinoza, il quale pensò e scrisse, la Divinità non essere altro se non l'unica sostanza di tutte le cose, cioè la materia, dotata di due attributi, l'estensione ed il pensiero. Non son da confondere con questa dot trina le altre due, delle quali una ripo neva la Divinità nell'anima del mondo, e l'altra diceva essere la Divinità uno spi rito universale sparso per lo cielo e per la terra, di cui parti sono le anime umane. Questa ultima è stata da taluni moderni denominata panteismo trascendentale, e per verità un tal epiteto le conviene nel senso, che è negato alla mente il conce pire, l'identità, e gli attributi di colesta aerea divinità. V. Trascendentale, e Tra scendente. Quantunque le tre cennate dottrine sie no tra loro affini, perchè tutte tolgono la personalità a Dio, e ne fanno, non un Essere maggior di tutti gli altri e autor delle cose create, ma una forza animatrice della materia; pur tuttavolta differiscono così nel concetto del filosofi che le foggia rono, come nelle conseguenze che se ne derivavano. Potremmo ancora dire, che ciascuna di esse diede nascimento ad al tre scuole o sette secondarie, più o meno assurde, delle quali talune toglievano af fatto di mezzo la Provvidenza, altre la sciavano la Divinità come inerte spetta trice d'un ordine stabilito dal fato, ed al tre in fine ammettendo il mondo anima to, ne facevano un Essere secondario cui soprastava il supremo Autor dell'universo. Ma noi non tessiamo la storia delle opi nioni filosofiche, e notiamo soltanto le differenze caratteristiche de tre diversi si stemi teologici degli antichi, i quali deb bon essere risguardati come conseguenze della ipotesi della eternità della materia, e degli altri deliri della loro cosmogonia. V. Cosmogonia, Materia. Del resto non è mancato tra dotti chi con plausibili argomenti ha dimostrato, non essere stato Spinoza il primo a divi nizzare la materia, e a riporre in essa la sede dello spirito e della intelligenza; ed aver egli avuto per suoi precursori Ari stotele ed altri (V. Buddeo analecta hist. philosoph. de spinozismo ante Spinozam). Certamente ognuno de tre sistemi contiene un perfetto ateismo, perchè la Divinità, o è conſusa colla materia, o è sparsa per l'aria e pe corpi, o è divisa tra tutti gli Esseri animati. Come trovarla in quella sede, che assegnolle Lucrezio ? Est ne Dei sedes nisi terra et pontus et aer Et coelum et virtus ? Superos quid quaerimus ultra ? Juppiter est quodeunque vides, quocumque moveri. Cicerone attribuì a Pitagora la dottrina della divinità sparsa per la natura, e non la credette degna di altra confutazione, che della derisione: Censuit animum esse per naturam rerum omnem intentum et commeantem, ea quo animi nostri cor perentur, non vidit distractione huma norum animorum discerpi ae lacerari deum, et cum miseri animi essent, quod plerisque contingeret, tum dei partem esse miseram. Cur autem quidquam ignoraret animus hominis, si esset deus? - 270 - Quomodo porro deus isle, si nihil esset misi animus, aut infiaus aut inſusus es set in mundo ? Che queste e simili opinioni fossero nate nel regno della immaginazione, e nell'e- poca della teologia poetica non può recare maraviglia, perchè di quante altre pue rili favole non fu allora capace l'umana mente? Ma che siensi riprodotte dopo re pristinato l'imperio della ragione, e dopo la luce sparsa dalla dottrina della crea zione, non può altrimenti spiegarsi, se non per quello strano assortimento di qua lità intellettuali, le quali producono mo stri dello spirito, non dissimili da quelli della materia. In tale numero vanno com presi Spinoza e i suoi precursori o seguaci (V. il vol. I. a pag. 245 e seg.). PARAnoLA (disc. e prat.), narrazione allegorica, ricavata per similitudine da altra cosa apparente o reale in natura, o da alcun fatto storico, per cavarne una moralità, o sia una verità istruttiva. L'uso delle parabole è stato comune ai popoli orientali, e sopratutto agli antichi, e tra questi agli egiziani, a quali piacque al padre Chircherio attribuirne l'invenzio ne. Della utilità loro ne somministrano un chiaro esempio i fanciulli, co quali ci serviamo delle parabole, per insinuare loro le prime verità, vestite d'una forma sensibile, adattata a primi albori della loro ragione. Paragoniamo a fanciulli i primi popoli, i quali cominciarono a coltivare la sapienza morale, e dovevano colle si militudini prese dalle cose sensibili, es sere guidati alla comprensione delle verità astratte e delle cose invisibili: nello stato rude ed incolto delle nazioni trovasi la vera ragione del gusto degli antichi per le parabole. L'uso della favola, che for mò la prima sapienza del paganesimo, contribuì ancora a diffondere quello delle parabole, le quali van comprese nel ge nere della favola allegorica. V. Favola. I geometri danno a questo vocabolo un significato affatto speciale, perchè desi gnano per esso la figura, che nasce dal la sezione d'un cono, quando è tagliato da un piano parallelo ad uno de suoi lati. PARADosso (disc.), proposizione nuova, vera o verisimile, la quale per essere fuori della comune opinione, desta maraviglia. V. Opinione. e È vocabolo dagl'Italiani usato tanto nel sostantivo, quanto nell'addiettivo. I geometri chiamano paradossi le propo sizioni che appariscono incredibili a quelli i quali ignorano i teoremi della scienza. Tali sono molte delle proposizioni intorno agl'incommensurabili, come quella, che la diagonale d'un quadrato è incommen surabile con uno de suoi lati ; o come l'altra dell'asintoto, o sia d'una linea che continuamente si approssima ad un'altra, e mai con essa non si scontra. Di tali proposizioni molte ne somministra il cal colo infinitesimale. - , L'uso comune ha dato a questo voca bolo il significato d'una proposizione spe ciosa, ma falsa; il che è contrario alla sua etimologia, e al senso datogli daGreci e da Latini. IIapaòoºoy non altro dice, che praeter opinionem. PARAFRASARE e PARAFRASI (disc.), spo sizione o spiegazione del testo d'un autore in termini più ampi di quelli, che l'au tore stesso ha adoperato, fatta col fine di farne meglio intendere il senso, o di supplire alle cose, che si desidera ch'egli avesse detto. – 271 – Il parafrasare è diverso dall'interpre tare, che si limita alla fedele sposizione del concetti dell'autore. PARAFRAste (disc.), chi professa l'arte del parafrasare. a A'parafrasti degli antichi classici auto ri, dobbiamo la cognizione de costumi ed usanze loro. Per loro opera siam perve nuti ad intendere il senso di molti luo ghi, che senza tali conoscenze sarebbero stati oscuri, e inintelligibili, ed abbiamo acquistato notizie, le quali formano il te soro della erudizione. V. questa voce. - PARAGONE. V. Comparazione. PARALAsse (spec.), angolo al centro di un astro tra il centro della terra e il luogo dell'osservatore. La paralasse ha molti usi in astrono mia, e si applica principalmente a mi surare le distanze del corpi celesti, pren dendo per unità il raggio della terra. In questo caso si adopera la paralasse oriz zontale, che è l'angolo dell'astro tra il centro della terra e una tangente alla sua superficie. Conosciuta poi la distanza e il diametro dell'astro, o sia l'angolo sotto il quale è veduto, se ne determina l'effet tiva grandezza, anche in raggi terrestri. La paralasse qui sopra indicata dicesi diurna, quando si vuol distinguere dalla paralasse annua, che è l'angolo all'astro tra il centro della terra ed il centro del l'orbita. L'annua si applica specialmente alle stelle fisse, delle quali è tale la di stanza dalla terra, che il valore di quel l'angolo non è maggiore di qualche se condo, o di qualche frazione di secondo. V. Orbita. - La paralasse delle stelle fisse, per l'estrema sua picciolezza, non fu mai ben determinata dagli astronomi; ma il chia rissimo astronomo di Konisberga Bessel misurò (pochi anni sono) con nuovo me todo, e con grande accuratezza e intelli genza la paralasse d'una piccola stella della costellazione del cigno, detta la ses santunesima , e trovolla di un terzo di secondo. Cotesto splendido calcolo colloca quella stella ad una distanza seicentomila volte maggiore della distanza della terra dal sole, e tale che la stessa luce col l'immensa sua velocità di 17o,ooo mi glia in un secondo di tempo, dovrebbe impiegare non meno di dieci anni per giugnere da quell'astro insino a noi! Più si progredisce in questa scienza, e più si resta compreso di meraviglia per l'im mensità dell'universo. V. questa voce. PARALogisMo (disc. ), errore di razio cinio, nel quale si cade per diverse vie, o supponendo vera una proposizione che tal non è , o non dimostrando quel che debb'essere dimostrato, o cavando da falsi principi una conseguenza ancor essa falsa. Differisce dal sofismo che indica falso ragionamento nato da sottilità, o da vo glia di torcere il ragionamento dal vero al falso. Non pertanto i logici di Porto reale hanno confuso in una stessa classe i sofismi, e i paralogismi. V. Sofisma. PARENCHIMA (spec.), l'interna sostanza delle viscere. Lo stesso nome danno i botanici a quel la parte interiore delle piante, per la quale suppongono, che si distribuisca il succo. PARLARE (spec. e disc. ), la facoltà , data all'uomo, di esprimere con suoni ar ticolati il pensiero. – 280 – Così genericamente considerato, equi vale a linguaggio. V. questa voce. Nell'arte discorsiva, il parlare equivale a orazione, o a quel discorso che è for mato secondo le regole della gramatica, la quale suole dividerlo in otto parti: nome, pronome, verbo, participio, avverbio - congiunzione, preposizione, ed inſerie zione. V. queste voci. PanoLA (spee. e dise.), voce articolata, significativa del concetti dell'uomo. È il dono divino dato all'uomo per co municare agli altri i concetti dell'animo suo, per formargli, e per potergli egli stesso ritenere. - La collezione ordinata delle parole oc correnti ad esprimere tutti gli atti del pen: siero o dell'azione, e a distinguergli nei vari tempi loro, è quel che dicesi lin guaggio. V. questa voce. PARoNIMo (disc.), nome derivato da altro, come umano da uomo, e mortale da morte, I latini chiamarono coniugata questa spe zie di nomi. E i grammatici ne han fatto uno de luoghi dell'argomentare. V. Luogo. PARTE (spee. e dise. ), quantità tolta dall'intero o tutto, di cui è sempre mi nore. V. Intero, Tutto. È voce propria delle cose divisibili, e composte, e però conviene esclusivamente alla materia. Dall'idea della parte e del tutto nascono molte verità evidenti, le quali sono state da molti prese come i primi tipi del pen siero, detti comunemente assiomi. Se una parte torni ad aggiugnersi a quella, dal la quale è stata tolta si ricompone il tut to, e però le parti prese insieme sono eguali al tutto, e il tutto è maggiore della parte. Inoltre l'aggregato delle parti con siderate come divise o come divisibili ge nera la nozione del numero ; e questo considerato come un tutto, ha le sue par. ti, ciascuna delle quali presa tante volte, quante occorrono, diviene eguale all'in iero; ond'è che applicando al numero le idee stesse del tutto e della parte, la mente concepisce chiaramente, che il numero minore è parte del maggiore; che le parti del numero divengono i segni delle parti materiali delle cose divisibili ; che la di visione del numero seguendo quella delle cose materiali, cui è applicata, può es sere portata insino a quell'ultimo segno, cui giugne la portata desensi; e che per conseguente il primo elemento del numero rappresenta l'ultima delle parti della ma teria divisibile. Così la mente acquista la nozione dell'unità, che in realtà è la stes sa della parte. Tanto è la stessa, quanto potrebbe l'unità esser definita come l'idea astratta della parte elementare d'ogni cor po. V. Materia, Mumero, Unità. Se le cennate idee possano essere con siderate come i tipi delle umane conoscen ze; e se debbansi chiamare prime verità, assiomi, o verità identiche, dipende dal determinare il significato, che vuolsi dare a ciascuna delle divisate denominazioni. V. queste voci. L'idea della parte può esser applicata tanto all'attuale, quanto al possibile, colla differenza che la quantità della parte at tuale è già determinata, e la possibile può ricevere quella maggiore o minore deter minazione di cui è capace ogni massa di materia divisibile. Da ciò segue che la quantità continua è composta di parti pos sibili, e non attuali. V. Quantità. I geometri chiamano aliquota quella parte finita di un dato tutto, che ripe tuta quanto occorre, riproduce esatta mente l'intero. V'ha delle quantità, le quali non possono essere riprodotte per lo ripetimento della unità convenuta, nè d'una sua parte comunque picciola: di consi esse incommensurabili, perchè non hanno alcuna misura comune colla uni tà. Ma se la divisione si supponga estesa all'infinito, una parte infinitamente pic ciola sarà sempre aliquota di qualunque tut to. Laonde la distinzione tra quantità com mensurabile e incommensurabile, è rela tiva alla possibilità di assegnare in atto una parte aliquota, comunque piccola di essa. Parti dell'orazione son dette gli elementi necessari alla formazione del discorso, o sieno i diversi nomi particolari e generali i quali servono ad una compiuta manife stazione del pensiero, secondo le regole date dall'arte di ben parlare, PARTICELLA (dise. ), parte elementare della parola, la quale o serve di legatura al discorso, o unita ad altro vocabolo, esprime un'idea accrescitiva, o diminutiva, del significato del termine, o al mede simo accessoria. Circa l'uso delle particelle in ciascuna lingua, vedi i grammatici. PARTICIPIo (disc.), modo impersonale del verbo, il qual esprime l'azione o la passione del verbo stesso, e prende la for ma d'un nome di qualità. V. Verbo. Come nome di qualità o addiettivo, è declinabile per numeri e casi coll'articolo, o col segnacaso, Le regole di tali decli nazioni non sono le stesse per tutte le lin gue, V. i grammatici. PARTIcoLARE (spee, e dise.), quel che appartiene all'individuo, o alla spezie, e non al genere. V. queste voci. È un contrapposto del comune, del ge nerale e dell'universale, comunque queste tre voci abbiano un significato non iden tico tra loro. V, queste voci. È diverso dal singolare, perchè il par ticolare esprime una relazione al tutto, da cui è separato per astrazione; laddove il singolare è considerato come una cosa in se stessa, senza relazione ad altra. V. Singolare. Gli scolastici definivano il particolare quel che sottostà all'universale, ma co testa definizione non conveniva ad alcuno de due vocaboli, ed esprimeva soltanto una relazione tra loro, e quella stessa che passa tra 'l proprio e il comune. V. que ste voci, PARTIcoLARITÀ (spec. e prat), l'astratto del particolare, contrario di generalità e d'universalità. V. queste voci. PARTizIoNE (dise. ), ordinata distribu zione degli atti del pensiero, o delle va rie parti d'un discorso, secondo le quali l'autore si prefigge di esaminare o di trattare il suo argomento. Le partizioni differiscono dalle divisioni, perchè questo vocabolo fu dagli antichi logici destinato ad esprimere l'enumera zione delle spezie, che sotto ciascun ge nere si comprendono. V. Divisione. Ne trattati logici partizioni chiamansi le analisi ordinate, per le quali si sepa rano le idee semplici dalle complesse, o le particolari dalle universali, per cono scerne le relazioni. V. queste voci. L'uso delle partizioni è proprio della logica artifiziale, la quale chiamò an che partizione l'ordinamento de vari ob bietti del pensiero in date classi, che sono appunto le categorie. V. questa voce. 56 - 282 - PARzIALE (diso. ), nel linguaggio di dascalico, è quel che fa parte d'un tut to; sebbene nel comune uso di parlare significhi colui che parteggia. PAssATo (spee.), la parte della durata, che ci ricorda la memoria, o che la suc cessione stessa de nostri pensieri ci dimo stra essere trascorsa prima del presente. Dalla nozione del passato e del presente formiamo quella del futuro e del tempo. V. queste voci. PAssIoNE (spee. e prat.), effetto del l'azione nel subbietto, in cui si opera il cangiamento. È termine correlativo del l'azione. V. Azione, Cangiamento. Nel senso intellettuale, Cartesio chiamò passione ogni percezione che proviene dai sensi, o sia da un obbietto da questi presentato, contrapponendolo all'azione dell'anima, che egli ripose nel pensiero. V. Pensiero, Percezione. Nel senso morale, è ogni veemente ap petito o affetto, il quale agita l'anima, e spigne la volontà a soddisfarlo. Sicco me l'agitazione veemente giugne insino al segno d'impedirle l'uso della libertà, e rende quasi passiva l'anima; così è pia ciuto indicare cotesto stato col nome di passione. V. Affetto, Appetito. I moralisti sono stati soliti di scam biare l'affetto colla passione, al che ha dato origine il significato del vocabolo la tino affectus. Ma giova distinguere l'uno dall'altro, tra perchè il linguaggio scien tifico abborrisce i sinonimi, come gene ratori di confuse nozioni, e perchè v'ha in realtà una differenza, che distingue i nomi di simile significato. La differenza sta nel grado della forza, colla quale le passioni operano, o sia nel maggiore o minore turbamento dell'anima; ond'è che tutti gli affetti, buoni o mali che sieno, possono divenire passioni. Così considerate le passioni, son principi d'azione, tanto più forti, quanto maggiore è l'energia colla quale spingono la potenza all'azione. V. Principio. - Le diverse opinioni manifestate da filo sofi intorno alle passioni, all'uso di esse, e all'influenza che esercitano neportamenti della vita, sono nate dal diverso aspet to, nel quale essi le hanno considerate. Gli stoici le risguardarono come utili prin cipi di azione, perchè subordinati all'im pero della ragione. I peripatetici per con trario le tennero come la nebbia che oscura la ragione, e per conseguente come le naturali nemiche sue; sì che, a loro giu dizio, la sapienza e la virtù altro non è, che l'arte di dominarle. Entrambi espri mevano un concetto vero, ma gli uni l'esaminavano nella origine loro, e gli altri in una parte degli effetti che producono. Cartesio considerò la passione come una commozione dell'anima, e ne diede una definizione affatto fisiologica, avendola derivata dalle impressioni degli spiriti ani mali. Lungi da noi le spiegazioni attinte dalle ignote relazioni del fisico col mora le, e dall'analogia del fenomeni fisici l Ora le considerazioni utili, che possono esser fatte intorno a cotesto subbietto, ver sano circa tre punti: I. Circa l'uso delle passioni, nel che si contiene il fine del la matura: II. Circa l'analisi degli effetti loro, o sia circa il modo come elle ope rino in noi: III. Circa le categoriche par tizioni che i filosofi ne han fatto, per me glio conoscerle e trattarle. I. La natura ha dato alla parte sensi tiva dell'uomo una serie graduale d'im pulsioni, subordinate all'impero della vo – 285 - lontà e della ragione. Le passioni, con siderate come la stessa forza impulsiva della natura, richiamano l'attenzione verso gli obbietti da quali son mosse, danno alla intelligenza l'acume e la penetrazio ne, di cui manca nello stato della indif. ferenza, imprimono moto alla vita, in dirizzano ed animano l'immaginazione, ispirano il gusto ed il genio per le scienze e per le arti, scoprono il bello ed il su blime, risvegliano la virtù, eccitano il coraggio, generano l'eroismo, e solle vano la natura umana insino all'altezza degli spiriti d'un ordine superiore. L'in fluenza loro si spande per una serie di gradi, che corre dalle più tenui insino alle più nobili funzioni della vita, sì che questa senza di quelle sarebbe inerte e serva de soli appetiti animali. D'altra parte, le passioni sono un tor rente, che ci mena alla sommità del bene, come all'eccesso del male. Ma l'impeto loro, anche quando è indirizzato al male, non è invincibile. La coscienza le segue a ciascun passo; la riflessione le arresta; il pentimento le disarma. La sperienza di mostra, che le grandi passioni indirizzate al bene, sono invincibili, e vanno insino a quel grado di perfezione e di altezza, che ogni uomo risguarda come superiore alla propria natura; laddove nelle grandi sceleratezze, gli uomini non mai sono coe renti a loro stessi, nè mai inconsapevoli della propria e dell'altrui disapprovazione. La stessa contraddizione dell'operar loro svela ad ogni passo gl' interni combatti menti della coscienza, e gl'incerti moti della volontà. Nulla più di questo para gone dimostra, che lo scopo della natura è scolpito nel retto uso delle passioni, e che i confini del retto stanno nel comune senso della ragione. V. Ragione, Senso, II. Men chiaramente legger possiamo nell'andamento delle passioni, e seguirle in quel moto composto che esse acquistano, a guisa di gravi, che cadendo discendo no. Acconciamente osservò Locke, che la forza di una passione non mai opera da se sola, senza svegliarne un'altra, o senza essere da un'altra concitata, sì che è dif ficile discernere il principio e lo scopo che muovono l'azione, senza dire che spesse volte l'uno e l'altro sono ignoti all'agente stesso. Il motivo che rende difficile una tale investigazione è, che le passioni so glion prendere gl'inizi loro da confuse nozioni del bene, che noi stessi ci for miamo; d'onde segue che il volere svol gere gli elementi della forza delle passio ni, sarebbe lo stesso che voler trovare le idee semplici d'una nozione confusa. Vale dunque per le operazioni della parte sen sitiva di noi, quel ch'è stato osservato per l'intellettiva, cioè che sovente cer chiamo di ridurre a semplice il complesso della natura. V. queste voci. lII. Molte partizioni sono state dagli an tichi e da moderni proposte, per ordinare sotto date categorie le diverse spezie delle passioni. Cartesio credette poter determi nare il numero delle passioni primitive o semplici, dal misto delle quali, a suo giudizio, nascono le altre. Ma quali sono le primitive, se ogni passione ha gl'inizi suoi negli affetti e negli appetiti naturali? Conviene dunque derivare la partizione delle passioni non solamente da ciò ch'è comune agli affetti e agli appetiti, ma anche da ciò che da quelli le distingue. Le distingue lo stato diverso dell'anima, o sia la diversa modificazione ch'ella ri ceve dalle impulsioni loro. Seguendo un tal principio, gli stoici ridussero a due i principi, che muovono le passioni, e a º – 284 – quattro i generi loro: i principi motori sono l'opinione del bene o quella del male: i generi sono, l'allegrezza, la cupidigia, il dolore e il timore. V. que ste voci. - Ciascuno de divisati generi ha le sue spezie, delle quali Cicerone fa l'enumera zione: all'allegrezza appartengono, la voluttà, ogni spezie d'indulgenza pesen si, la millanteria, la vanità, ed altre si mili: alla cupidigia l'ira, l'odio, l'ini micizia, l'avidità: al dolore, l'invidia, la gelosia, la compassione, l'angoscia, il lutto, la mestizia, lo stento, la tristezza, il rammarico, la sollecitudine, la mole stia, il tormento, la disperazione: al ti more, la pigrizia, la vergogna, il terrore, lo spavento, la costernazione, la sconfi danza. (Tusc. lib. IV. cap. 7). V. queste voci. Ora considerando le passioni come mo dificazioni dello stato dell'anima e delle nostre naturali inclinazioni, delle quali gl'istinti e gli affetti sono i motori, non si può non riconoscere come imperfetta, e direm troppo angusta la partizione de gli stoici. Riteniamo come veri i due prin cipi generali, che essi risguardarono come la sorgente di tutte le passioni, l'opinione cioè del bene o del male. Ma questi son due principi razionali, che non agiscon soli, nè sono le cause immediate della energia delle passioni. L'opinione tramanda le sue impressioni a sensi, e non sola mente mette in azione due altri principi istintivi, che sono il piacere e il dolore, ma produce due contrari sentimenti, l'amore cioè e l'avversione. Son questi i due sentimenti che infiammano l'immagina zione e generano l'ardire e il timore. Espressioni di tutti i cennati sentimenti sono l'allegrezza e la tristezza, le quali si mostrano per un linguaggio d'azione, composto di voci inarticolate, come il riso, il pianto, ed altri esterni segni, che annunziano negli occhi e ne delineamenti del viso la gioia e la mestizia. Con que sto linguaggio, che la natura ha dato privativamente all'uomo, e al quale ha predisposto la conformazione stessa del volto, cominciano i fanciulli a manife stare il piacere e il dolore: questo stesso linguaggio ritengono gli adulti in suppli mento della parola, della quale sovente è più pronto ed espressivo, perchè la smen tisce quando tenta di nascondere gl'in terni sentimenti dell'animo. Non possono dunque tutte le passioni di sopra mento vate essere ordinate sotto i quattro soli generi dell'allegrezza, della cupidigia, del dolore e del timore, nè i segni pos sono in una partizione logica essere scam biati colle cause delle cose significate. Per meglio ordinarle, e per più esattamente definirle, uopo è distinguere, 1.º i prin cipi razionali, 2.º i principi istintivi, 3.º i sentimenti prodotti dall'azione dei cennati principi, 4.º la forza che loro co munica l'immaginazione, 5.º finalmente l'espressione colla quale la natura stessa li manifesta. Con tali distinzioni sarà fa cile non solamente rettificare la proposta partizione, ma determinare il significato di tutte le moltiplici gradazioni delle spe zie, che a ciascuno dedivisati generi ap partengono. V. Istinto, Linguaggio, Opi nione, Pianto, Riso. PAssivo (spec. e disc.), il subbietto, nel quale l'azione opera il cangiamento. L' operazione per la quale il cangia mento avviene, dicesi causa, il cangia mento stesso, effetto, il subbietto che l'opera, agente, quello che lo soffre, – 285 – paziente, la facoltà di operarlo, potenza attiva, e lo stesso subbietto, in quanto soggiace alla forza di tal potenza, dicesi passivo. Così i cennati termini son tra loro correlativi, e son tutti compresi nel la nozione della potenza attiva. V. Azio ne, Causa, Effetto, Potenza. Nel senso gramaticale passivo chiamasi quel verbo che esprime una impressione prodotta nel subbietto senza suo proprio fatto. V. Verbo. PATERNITÀ (prat.), l'astratta nozione della relazione tra 'l padre e il figlio, che la mente concepisce come il vincolo mo rale, per lo quale la natura ha attaccato l'uomo alla famiglia, e alla società. Ne bruti i legami tra padre e figlio van considerati ne pretti termini d'una causa materiale o meccanica, qual'è la generazione. Il padre e il figlio non sono consapevoli, l'uno di essere l'autore del l'esistenza di questo, l'altro di averla da quello ricevuto; nel che non sono essi diversi dagli Esseri organici inanimati , i quali riproduconsi per sola forza vege tativa. A differenza delle piante la natura ha stabilito tra gli animali bruti un vin colo d'istinto tra la madre e i figli. A questo vincolo è affidata la nutrizione e la conservazione della prole, la quale non prima giugne allo stato di poter provve dere a se stessa, che sconosce e dimen tica l'autrice dell'esser suo. In essi la ma ternità tiene luogo di paternità, per quan to concerne le cure necessarie alla perfe zione dello stato loro naturale. V. Istinto, Maternità. - Il sentimento dunque della paternità non solamente è proprio dell'uomo, ma è la prima di tutte le relazioni, per le quali la natura indirizza la sua vita ad un fine morale. Nel padre questo sentimento è il più puro e nobile amore, che gli fa ri sguardare il figlio come un altro se stesso; è la sorgente della benevolenza, perchè non è cura o mezzo, che il padre non prodighi per la conservazione, per la educazione, e per la felicità del figlio; è il più gene roso di tutti gli affetti, perchè non è chi non corra a salvare il figlio a spese della propria vita, e non desideri che i doni e le benedizioni del cielo si accumulino e si prolunghino più nella persona di lui, che nella propria; è la fonte della più durevole amicizia ; è la prima e la più ragionevole di tutte le autorità. In fine non è meno utile al padre stesso, perchè trova nel figlio il sostegno e la consola zione della sua vecchiezza, e vede nella esistenza di lui, la durazione del suo nome e d'una ricordanza che gli tiene luogo di una seconda esistenza, e di presagio d'una futura vita. Nel figlio poi la relazione della pater nità, comincia dall'essere scuola d'imi tazione per tutti i portamenti della vita, e passa successivamente ad essere fonte di gratitudine, e di reciprocazione di af fetti; è nozione di obbedienza ad una potestà, creata dalla ragione e dalla be nevolenza; è guida di autorità e di con siglio, che accompagna ciascuno nel mon do; è principio e centro dello amor di fa miglia, o sia di quella comune ed eguale benevolenza, che legar dee, l'uno all'al tro, i figli degli stessi genitori; è istruzion morale per la carriera della paternità, che i figli dovranno a volta loro percorrere; è scuola a tutti di disinteresse, di virtù, di dignità, e di prudenza; è scala di ascensione a Dio, o sia alla comune pa ternità del genere umano; è un'anticipata commendatizia, che ogni figlio porta seco - 286 - col nome d'un onesto e saggio genitore; è l'incitamento all'onore, alla fama, e alla gloria, desiderando ciascun de'discen denti, che di se possa dirsi; gui tanti talem genuere parentes? Tale presso a poco è il ritratto dell'amor paterno, che Cartesio fece nel trattato delle passioni. « L'amore d'un buon genitore verso i figli, dice l'autore, è sì puro, che nulla desidera aver da essi, nè brama di avergli altri di quel che sono; nè aver con loro un legame più stretto di quello che ha: gli considera sì bene come tanti se stesso, e cerca il bene loro come il proprio; che anzi lo cerca per essi con maggior sollecitudine, perchè risguardan dogli come parti d'un tutto, di cui egli forma la parte minore, preferisce sovente l'interesse loro al proprio, e non teme di perdersi per salvargli : l'amore che gli uomini dabbene portano a loro amici, è della stessa natura, quantunque rade volte giunga alla medesima perfezione» (P. II. art. LXXII). Ma dirassi, esser questo ritratto esage rato, e non corrispondere agli esempi, che se ne hanno ne costumi delle moderne nazioni; nè tale essere stato presso gli an tichi popoli, che tramutarono la patria potestà in una tirannica dominazione, in nanzi alla quale scomparivano persino i naturali diritti della persona del figlio. Alle quali obbiezioni rispondiamo in primo luogo, che noi parliamo della perfetta, e non della corrotta natura, o sia de'prin cipi che costituiscono l'ordine morale del mondo, e non delle anomalie prodotte dalla depravata volontà dell'uomo. E per quel che concerne le antiche leggi intorno alla patria potestà, vuolsi notare, che sebbene per la civile costituzione di qualche popolo si fosse creduto utile il dare a padri l'imperio sulla persona del figli; pur tuttavolta non temettero i legislatori che potessero abusarne; nè quelle leggi sminuirono la natural carità impressa nei petti loro, che anzi furon da questa abro gate e proscritte. Molto meno giudicarsi dee dell'amor paterno da costumi delle corrotte nazioni, e da delitti pe quali gli uomini perversi infrangono il più sagro di tutti gli umani legami ; perchè l'orrore stesso che tali delitti ispirano, dimostra qual sia il senti mento comune della umanità. Che se fosse necessario dimostrare cogli esempi il naturale ritratto dell'amor pater no; converrebbe andargli cercando nelle modeste abitazioni di coloro che vivono col lavoro e colla industria delle loro mani, e non ne palagi di quelli, ne'quali l'egois mo d'una vita voluttuosa sparge l'indif. ferenza sopra tutti i doveri, e cancella ersino le vestigie de primi ed intimi af. " della natura. In quella classe di uo mini e di famiglie cotesti esempi non so lamente non sono rari, ma formano la generalità della regola, la quale per es sere da tutti sentita, non de'essere dimo strata. V. Affetto, Amore. PAUPERISMo (lat. sup.), moltitudine di poveri, che debb'essere nutrita a publiche spese. - È vocabolo introdotto senza necessità dai moderni economisti. La povertà è la con dizione di gran parte del genere umano, ed è un de mali che hanno l'origine loro parte nella natura, e parte nella costitu zione stessa della società. - Come male prodotto o accresciuto dai vizi della società o dell'ordine civile, ap partiene alla politica economia. - 287 - Come condizione inerente alla umana natura, è il suggetto di maggiori e più nobili doveri dell'uomo morale.V. Povertà. PATTo. V. Promessa. PAURA (prat.), trepidazione della men te per cagione d'alcun pericolo presente o futuro. È diverso dal timore, il quale può es sere ben fondato e ragionevole; laddove la voce paura esprime ancora il falso e l'immaginario spavento del pericolo, od un male anco ideale. L'ombra sua sola fa 'l mio core un ghiaccio E di bianca paura il viso tinge. ( PETR. son. 164 ). V. Immaginazione, Timore. PAzIENZA (prat.), volontaria e lunga sofferenza di un male, e di cosa disag gradevole, dettata dalla virtù, o dalla utilità. - È dettata dalla virtù, quando con co stanza soffriamo gli assalti delle avversità; e dalla utilità, quando la prudenza ci fa antivedere un fatto, o un tempo più fa vorevole del presente. E però pazienza chiamiamo, tanto la lunga tolleranza dei mali, quanto la lunga aspettativa d'un bene che desideriamo. Nel primo senso la pazienza esprime una virtù, figlia della fortezza o della temperanza: nel secondo prende la sua forza dalla speranza. V. For tezza, Speranza, Temperanza. PAzzIA (prat.), la perdita intera del SeIlIlO, È la maggiore delle malattie della men te, le quali han diversi gradi e periodi, e distinguonsi con vari nomi, come la demenza, la follia, la stoltezza, la stoli dezza, la fatuità. V. queste voci. PECCATo (prat.), mancamento commesso contra il dovere, o la legge. V. queste voci. Gli scolastici distinguevano tre sorte di peccato, quello della natura, che è l'ano malia o il mostro; l'altro dell'arte, che è quello commesso contro la regola del l'arte che si professa; e il morale o sia il volontario, che la sapienza pratica si propone di evitare. Impossibil cosa è alla natura dell'uomo evitare il peccato, o sia qualsivoglia tra sgressione; il perchè è lode il saperlo co noscere, il ravvedersene e il lavarlo col pentimento. Seneca riferisce come egregio detto di Epicuro, la sentenza, initium est salutis notitia peccati, detto che ripete S. Bernardo nel trattato della coscienza: il cognoscimento del peccato è principio di salute. V. Pentimento. PEDAGOGIA (disc. ), la primaria istru zione del fanciulli. Siccome la prima istruzione del fanciul li, è quella delle lettere, e dell'arte del ben parlare; così la pedagogia è consi derata come una parte della retorica. PEDAGOGICA (erit.), l'arte dell'insegna mento. V. questa voce. PEGGIo e PEGGIORE (prat. e disc. ), nome comparativo del male e del cattivo. Il mal mi preme e mi spaventa il peggio. (PETR.). V. queste voci. PELo (spec.), filamento sottilissimo, cilindrico, diafano, insensibile, elastico, - 288 - che in compagnia di molti altri si alza in diverse parti della cute, nella quale è piantato il bulbo, d'onde, come da ra dice nasce ed è alimentato. Forma la co pertura di molti animali, e soprattutto de'quadrupedi, ma non è certamente que sto il solo uso, cui la natura ha destinato coteste filamenta, le quali col nutrimento che ricevono da taluni particolari umori, crescono e si allungano, presentando qua si il fenomeno d'una vegetazione stabilita alla superficie del corpo animale. Di tal fenomeno, e dediversi usi, a quali sem bra aver la natura destinato i peli lascia mo la sposizione a fisiologi. Nell'uomo, in cui la natura ha riunito tutti i tipi del perfetto e del bello organismo, i capelli (che per l'essenza loro non sono altro che peli) formano uno de più vaghi ornamenti della sua figura. Le varietà stesse che presentano le loro qualità accidentali, co me la quantità, il colore, il fino, il ru vido, o il liscio sono state messe in ar . monia col colore degli occhi e della pelle; sì che sotto ogni latitudine, in ogni cli ma, e nelle diverse contrade della terra, gli accidenti della capellatura e delle chio me accordansi con ciascuna delle varietà della razza umana. PENA (prat.), male che si soffre per l'infrazione d'una obligazione. V. Male, Obligazione. Cotesto male può essere di doppia sor ta: morale, se l'obligazione a cui si con travviene, nasca da una legge morale; fisico, se nasca da legge positiva. V. Fi sico, Legge, Morale. Il mal che viene dall'infrazione dell'obligazione morale, è il dolor morale, che nasce dal rimorso della commessa azione, o sia dal giudizio della coscienza. Non po tendo le leggi esteriori cagionare l'interno dolor dell'animo, affliggono la sensibilità del corpo, da cui il dolore si comunica all'anima. Così nella definizione della pena, il male può essere sempre scambiato col dolore. V. Coscienza, Dolore. Il timor dell'una o dell'altra spezie di male, quandochè cada nell'antivedimento dell'agente, diviene un motivo che influi sce più o meno nella volontà di lui, se condochè è più o meno grave in compa razione del piacere che aspettasi dall'azio ne. V. Motivo, Volontà. Le pene, come i premi si partiscono in due classi, cioè naturali e positive. Naturali son quelle, che necessariamente conseguono dall'azione, e tali sono le di verse spezie di dolore, che cagioniamo a noi stessi per ogni fatto contrario alla con servazione del proprio essere: positive le altre che nascono dalle leggi estrinseche, e per le quali cercasi da legislatori impe dire un'azione naturalmente libera, ma agli altri dannosa. In generale siccome la pena prefiggesi d'impedire l'azione, e il premio di promuoverla, così un voca bolo è contrapposto all'altro. V. Premio. PENDoLo e PENDULo (spec.), corpo pe sante, e pendente da filo a doppio uso, o di pigliare il perpendicolo, o di misu rare il tempo colle sue vibrazioni. La causa della vibrazione del pendoli è il peso del corpo sospeso al filo, il qua le corpo se fosse libero e abbandonato a se stesso, scenderebbe verso la terra per la forza della sua gravità ; ma essendo attaccato ad un filo, e questo fissato in un punto, non può obbedire allo sforzo della gravità, se non in parte ; il per chè è obligato di descrivere un arco di cerchio. - 289 - Galilei fu il primo, che pensò di so spendere un corpo grave ad un filo, e di servirsi delle sue vibrazioni per misura del tempo nelle osservazioni astronomiche e negli sperimenti di Fisica. Huyghens adattò il pendolo alla costru zione degli orologi, e riuscì ad avere una misura del tempo molto più esatta di quella che dà il corso apparente del sole, il moto diurno del quale, non essendo uniforme, non può servire di modello invariabile per la misura del tempo. Infatti le vibrazioni del pendolo sono sensibilmente isocrone, vale a dire, che in tempi eguali scorrono per parti di spazio eguali, e come tali fanno del pendolo un esatto cronometro, o sia un perfetto misuratore del tempo, V. Tempo. Da tali proprietà del pendolo nacque il pensiero di scegliere le diverse sue lun ghezze come tipi di misure universali, o come un termine comune di comparazione e di riduzione delle misure civili depopo li. Ma cotesto trovato, che parve per al cun tempo essere il più atto a risolvere il problema d'una misura invariabile presa nella Natura, dopo più matura riflessione si scoperse essere poco esatto; imperoc chè per essere generalmente vero, con verrebbe che il peso fosse lo stesso in tutti i punti della superficie della terra. Ora essendo il peso la sola causa della oscillazione del pendoli, e questo essendo vario a poli e all'equatore; ne segue che le vibrazioni del pendoli non potrebbero dare una misura comune, se non alle con trade site sotto la medesima latitudine, V. Misura, Peso, PENITENZA (prat.), pena volontaria per la quale l'uomo punisce in se quello che si duole aver commesso. Ha un senso teologico e canonico, gene ralmente ricevuto tra cristiani. Ne ha an che uno naturale o morale, il quale nasce dalla facoltà del pentimento data all'uomo. Non è forse comune ad ogni uomo, cui la coscienza rimorde di qualche fallo, il dolersene, il deplorare la propria miseria, e il volere con qualche privazione espiare la sua colpa? V. Pentimento. PENoso (prat.), tutto quel che affligge l'animo con molesto sentimento, simile a quello con cui sopportiamo la pena. V. que sta voce. Come aggiunto di vita, vale condizione misera e degna di compianto. PENSAMENTo (spee. e dise.), l'atto del pensare, o il pensare stesso, considerato in uno attuale esercizio. Esprimendo un atto particolare, ha un significato meno ampio del verbo pensare e del nome pensiero, dacchè ambo questi vocaboli comprendono così la facoltà come l'esercizio; onde ben direbbesi la facoltà del pensare o del pensiero, e non la facoltà del pensamento. V. Pensiero. Pensare (spee. ), volgere l'attenzione ad uno o a più obbietti, interni o esterni che sieno, per conoscerne le qualità o le relazioni. V. queste voci. Dicesi d'ogni obbietto presente, passato, o futuro, qualunque sia la facoltà dell'animo, che ad esso si volga; e però il pensare scambiasi col percepire, col con cepire, col riflettere, col ricordarsi, e col l'immaginare. V. queste voci. - PENSIERo (spec.), l'atto di qualunque facoltà dell'anima, per lo quale percepia mo, o formiamo un'idea, una nozione, 57 o intorno ad esse osserviamo, riflettiamo, ragioniamo, o immaginiamo. È termine generale, il quale comprende ciascuna delle operazioni dell'anima, o tutte unite insieme ; sì che è promiscua mente adoperato come nome collettivo di tutte, e come nome singolare di ciascuna. Il pensiero in somma è l'esercizio delle facoltà dell'anima, alle quali sta, come ogni atto alla potenza sua. V. Atto, Po denza. La continuità del pensare è propria del l'anima umana. Che i pensieri si succe dano continuamente nello stato di veglia, è un fatto di cui tutti han la coscienza. Per potere da ciò ricavare la conseguenza, che l'anima pensi sempre, converrebbe dimostrare un altro fatto, cioè che pensi egualmente nel sonno, di che non si può addurre veruna sperienza sensibile. Leibnitz credette, che l'azione, o sia il pensiero, fosse dell'essenza dell'anima: che il supporre in lei uno stato di asso luta inerzia sia una ipotesi, la quale con traddice alla natura sua; e che la quistione del continuo pensare debba essere decisa per l'analogia de corpi impercettibili e demoti invisibili. Ma una siffatta analo gia, che poteva esser compatibile colla ipotesi delle sue monadi, non può essere accettata come una verità certa da una severa filosofia. Hume volle spiegare la successione dei pensieri per l'attrazione delle relazioni, delle quali determinò per sino il numero, V. Relazione. Ma il parlare di attrazione tra le relazioni del pensieri, è lo stesso che rendere necessario e macchinale il li bero esercizio delle facoltà della ragione. In somma la spiegazione di Hume mate rializza il pensiero, e rinega una impor tante parte degl'interni fenomeni, quelli cioè che nascono dall'associazione delle idee. V. Associazione. Nella successione del pensieri ve n'ha di due spezie, gli spontanei cioè e i re golari, i quali nascono dall'abitudine del ragionamento. Gli uni e gli altri non sono avvertiti, se non quando divengono nota bili. Da ciò segue che pensieri ciechi o sordi furon chiamati quelli che trascor rono senza essere avvertiti dall'attenzione o dalla riflessione; nel che son simili alle insensibili percezioni, colle quali sogliamo scambiargli. L'avvertenza dell'anima a tali pensieri, o la facoltà ch'ella esercita di richiamargli a se, è una delle ragioni, che rendono plausibile il distinguere la percezione dal l'appercezione. V. questa voce. PENTIMENTo (spee. e prat.), l'atto della volontà, che ritratta una determinazione già presa; o l'atto della coscienza che si duole di averlo approvato. Considerato come atto della volontà, il pentimento racchiude il più luminoso argomento della libertà dell'agente mora le Imperocchè l'animo non solamente passa per tutti i motivi del deliberare e si determina all'azione, ora col secondare gl'istinti e i naturali appetiti, ora col mo dificargli, ed ora col vincergli e soggio gargli; ma torna indietro sul deliberato e lo ritratta, o prima di mandarlo ad ef, ſetto, o anche dopo, distruggendo il fatto antecedente con un altro contrario. Questo secondo fatto, al pari del primo, può esser figlio o della vera o della falsa opinione del bene; sì che l'agente risaminando in una seconda deliberazione i motivi della sua prima determinazione, o trova il vero che gli era sfuggito, o lo abbandona dopo averlo trovato. – 291 – Cotesto argomento, per quanto lumi noso apparisca agli uomini di sano giu dizio, i quali nella stessa mutabilità della volontà trovano la pruova maggiore della sua libertà, non chiude l'adito a sofismi de'seguaci della necessità, perchè non è luce di vero, che il sofismo non cerchi di annebbiare. Non v'ha ragione, dicon costoro, per credere che la seconda, la terza, o l'ultima determinazione sia più libera della prima, se i veri motivi de terminanti stanno nelle naturali predispo sizioni, dalle quali l'uomo è menato al volere. Che anzi nella revisione che noi facciamo de'propri giudizi entriamo in una nuova scala di probabilità, delle quali la seconda infievolisce la prima, e la terza infievolisce la seconda, per modo che quanto più progrediamo in questa scala, tanto meno ci resta di quell'apparenza di verità, la quale ci aveva da prima gui dato. In somma dicon essi, che il credere è una legge assoluta della natura, alla quale noi dobbiamo necessariamente ob bedire, come al respirare, e al sentire. Ognun vede, che una tal dottrina è fon data sopra due dati: il primo, che il vero non esiste, e che la volontà non sia gui data se non da una falsa opinione del vero: il secondo, che la ragione non in tervenga nella deliberazione se non per un artifizio della ingannevole natura, la quale si è studiata di nasconderci il punto ov'ella vuole condurci. Ambe queste ipo tesi distruggono la ragione e son figlie di una falsa e presontuosa sapienza, la quale pretende di sollevarsi al disopra della con dizione dello spirito umano, e rovescia l'ordine delle cose esistenti (V. vol. I, a pag. 5o3). Considerato poi il pentimento, come un atto della coscienza, è il salutare senti mento, col quale la natura richiama l'uo mo dall'errore, e lo rimette nel cammino del giusto e del vero: è la morale espia zione d'ogni fallo, la quale lo riconcilia coll'Autor della legge violata: è un mezzo di purgazione, che prepara il suo passag gio dalla vita terrena alla celeste, o sia da beni transitori del mondo alla perfetta felicità, e alla vera beatitudine. V. Co scienza, Felicità, Purgazione. PERCEzioNE (spee. e erit.), facoltà per la quale l'anima conosce gli obbietti che le son presentati da sensi. V. Obbietto, Senso. -. Della percezione, come delle altre fa coltà e operazioni dell'anima, non si pos sono dare logiche definizioni, perchè non si può definire tutto quel, di cui non si conosce l'essenza e la causa efficiente. Ben si può descrivere esattamente quel che l'interna osservazione dell'anima ci ma nifesta. I fatti che da tale osservazione ri sultano, sono i seguenti: 1.º Che la percezione è diversa dalla sensazione, come il sentire un dolore o un piacere, è diverso dal vedere un ob bietto qualunque; 2.º Che la percezione produce in noi l'immediata conoscenza dell'obbietto pre sente a sensi; 3.º Che l'obbietto percepito è diverso dall'atto dell'anima, che lo percepisce; e tanto diverso, quanto l'uno è posto fuori e l'altro dentro di noi; l'uno materiale, e spirituale l'altro; l'uno composto e l'altro semplice ed indivisibile; l'uno insomma esistente indipendentemente dall'altro; 4.° Che la conoscenza dell'obbietto per cepito è accompagnato sempre dalla cer tezza della esistenza, o realità dell'obbietto medesimo; at -- 292 - 5.º Che questa certezza non nasce dal ragionamento, ma è istintiva e connatu rale all'uomo; 6.º Che la percezione è un atto dello spirito, provocato dalla sensazione; 7.º Che comunque non possa la mente umana concepire il modo, col quale la sensazione produce la percezione, pure è indubitato che ella proviene da una cosa che esiste, che è conforme alla medesima, e che non potrebbe essere prodotta da una cosa diversa. Conviene quì rendere onore alla dottrina degli stoici, i quali meglio degli altri com presero e insegnarono la realità della per cezione. I tre caratteri costitutivi della loro catalepsia, o visione comprensiva, sic come dice Sesto Empirico, erano 1.º che la percezione provenga da un obbietto e sterno che in realtà esiste: 2.º che la per cezione sia, non l'immagine, ma una fedele copia dell'obbietto rappresentato: 3.º che non possa essere prodotta da un obbietto diverso. La percezione in somma de essere conceputa come una luce, la quale illumina l'obbietto, da cui proviene. V. Comprensibile, Sensazione. Da fatti sin qua esposti risultano due verità generali, sopra le quali è fondata tutta la filosofia sperimentale, e che deb bon essere considerate come quelle regole del filosofare, o canoni del retto pensare, de quali altrove parleremo: la prima è che l'idea nata dalla percezione, è un atto dello spirito il quale corrisponde a un obbietto posto fuori di noi: la seconda, che la certezza della esistenza di simili obbietti, o sia desensi e delle cose sensibili, è im pressa in noi per virtù d'una legge ine rente all'umana costituzione. Da ciò segue che noi prendiamo la certezza del sensi, come l'archetipo e la misura della realità di tutti gli altri fatti esteriori. V. Certezza, Idea, Regola. Si adopera sovente il vocabolo perce zione per l'atto stesso della facoltà, nel quale significato equivale a idea. In questo senso molti han distinto le percezioni in primitive o acquisite. Ma cotesta distin zione sembra poco esatta, perchè considera come primitive le idee complesse che si formano per l'abitudine, e nelle quali entra sempre il ragionamento. Più esatta ed utile insieme, è la distin zione tra le sensibili ed insensibili per cezioni. Acciocchè la percezione produca un'idea chiara e distinta, è necessario il concorso dell'attenzione, senza la quale sarebbe passaggiera, e non lascerebbe di se vestigio alcuno, tanto nella compren sione, quanto nella memoria. E però sono state dette insensibili percezioni quelle, le quali passano dinanzi all'anima, senza che questa le avverta. La continua sue cessione di tali insensibili percezioni, che in noi sperimentiamo, fece nascere trai metafisici la quistione, se l'anima pensi sempre. V. Attenzione, Pensiero. Per contrario le percezioni avvertite, delle quali l'anima acquista consapevolez za, han fatto sentire a taluni filosofi la necessità d'introdurre il vocabolo di ap percezione, per esprimere l'avvertenza, e per distinguere la piena dalla nuda per cezione. Una tal distinzione giova altresì per istabilire una differenza caratteristica tra l'anima umana, e quella del bruti. V. Appercezione. - La percezione considerata come potenza e non come atto dello spirito, tiene il primo luogo nella partizione delle facoltà dell'anima, perchè le idee de sensi son le prime che noi acquistiamo, e servono di occasione e di eccitamento alle altre - 295 - sche rivela la luce stessa della ragione. V. Facoltà. PERDONANZA PERDONARE e PERDoNo(prat.), il rimettere l'offesa ricevuta. - La confidenza nel perdono del propri fal li, è un sentimento che l'umana ragione associa alla bontà e magnanimità del Crea tore verso le creature sue. Cotesto senti mento è dettato ancora dalla coscienza, che è tanto presta nell'accusarci del falli commessi, quanto l'è in dimostrarsi sod disfatta del duol che ne proviamo. Il per donare dunque alle offese che dagli altri riceviamo, è una retribuzione di quel che da Dio impetriamo per noi stessi; ed è per conseguente un atto doveroso della virtù umana, il quale trova il suo spec chio nella stessa virtù divina. Il perdonare è figlio della generosità, ed è contrapposto della vendetta. V. Ge nerosità, Vendetta. PERFETTo e PERFEzioNE (spee. crit. e ontol.), qualità d'un subbietto, cui nulla manca delle sue parti costitutive, e dei suoi essenziali attributi. - La nozione della perfezione può essere applicata ad un subbietto materiale, o spi rituale, e tanto ad un subbietto attuale, quanto ad uno possibile; il perchè gli sco lastici distinsero la perfezione fisica dalla morale, e dalla metafisica. Il perfetto fisico o naturale è ogni Es sere corporeo, cui nulla manca delle parti costitutive, delle potenze o facoltà sue, considerate queste, nelle debite loro pro porzioni, sì che possa dirsi compiutamente atto a quel fine, cui la natura l'ha de stinato. Questa è la perfezione, che nelle scuole dicevasi ancora everyerza, cioè ope rativa o capace di operare. Così diciamo un uomo, o un perfetto animale, ciascuno nel suo genere, quando vogliamo parlare della perfezione delle opere della natura: così intendevano gli stoici, allorchè dice vano perfetto il mondo. - Perfezione morale, che è propria e privativa dell'uomo, dicevasi quel grado eminente di bontà e di virtù, che non solamente non ammette alcuna nota di ri prensione, ma riscuote lode ed ammira zione. Il sommo grado di tale virtù dava ancora alla perfezione l'epiteto di reatza, cioè atta a conseguire il fine cui l'uomo è destinato, che è il sommo bene. Questa perſezione distinguevasi in assoluta e re lativa. L'assoluta è propria dell'Ente su premo che la possiede per propria essenza: la relativa conviene all'uomo, il quale ne divien capace per imitazione, e può tanto prendere della virtù divina, quanto nella sua natura cape. Alla relativa, che è ca pace del più e del meno, può soltanto adat tarsi una misura, di cui le parti prendono il nome di gradi. Cotesta denominazione è comune alla misura di tutto quel che è indivisibile, e per conseguente alle qualità intellettuali e ad ogni operazione dello spi rito, che può avere maggiore o minore in tensità, o non maggiore o minor numero di parti. V. Gradazione, Grado, Parte. La perfezione metafisica, detta ancora essenziale o trascendentale, è l'astratto concetto, che noi formiamo del perfetto d'ogni ente attuale o possibile. In altri termini, è la definizione del perfetto, la quale può essere affermativamente, one gativamente enunciata: affermativamente, dicendo che è il concorso e l'accordo di tutti gli attributi essenziali dell'ente: ne gativamente, quando diciamo, tutto quel lo, cui nulla manca de suoi attributi es senziali. V. Attributo, Essenza. - 294 - Le cennate distinzioni son logiche, ed utili alla chiarezza delle idee e del discor so, perchè additano i diversi significati che diamo a vocaboli perfetto e perfe zione, secondo la diversa natura de sub bietti, a quali l'applichiamo. Tutte le altre, che facevano gli scolastici, della perfezione estra essenziale, della sostanziale, del la semplice ed assoluta, della perfezione secundum quid, della formale, e della virtuale appartengono a quella vana scien za di categorie e di definizioni nominali, di che componevasi la loro logica artifi ziale. Ciascuna di queste denominazioni entra in una della spezie di perfezione che abbiamo già definito, cioè la fisica, la morale, l'assoluta, la relativa, e la metafisica. - PERFIDIA (prat.), offesa commessa con violazione della fedeltà. È la maggior di tutte le iniquità, per chè contraria alla naturale rettitudine della ragione umana, e distruttiva del vincolo morale d'unione e di sicurezza tra gli uo mini, V. Fedeltà, Pracmao. V. Spergiuro. PERICARDIo (spee. ), la borsa ove sta racchiuso il cuore. V. questa voce. PERICRANIo ( spec. ), il periostio che cinge il cranio. V. questa voce. PERIELIo (spec.), il punto dell'orbita d'un pianeta, nel quale trovasi alla mi nore distanza dal sole. ll suo punto opposto è l'afelio. V. que sta V0Ce. PEalGio (spee. ), il punto dell'orbita apparente del sole, o dell'orbita lunare più vicina alla terra. Il Galilei l'ha adoprato anche nel signi ficato addiettivo dicendo sole perigeo, e luna perigea, le quali denominazioni sono usate ancora dagli astronomi moderni. Il punto opposto al perigeo, è l'apo geo. V. questa voce. PERIono (disc.), composto di più pro posizioni, legate insieme per modo, che da tutte risulti un senso compiuto. Le proposizioni particolari, dall'unione delle quali nasce il periodo, diconsi suoi membri, V. Membro, Proposizione. PERIosro (spee. ), membrana fibrosa, che veste esteriormente le ossa, la quale porta nelle midolla e nelle parti cellulari di quelle molti del vasellini arteriosi, es sendo essa stessa piena di numerosi vasel lini venosi. Ne sono privi i denti e le capsule delle articolazioni. V, queste voci. PERIPATETIco (crit.), filosofo che pro fessa la dottrina di Aristotele; e nell'ad diettivo, la dottrina stessa, e tutto quel che ad essa appartiene. Dante ne diede una definizione nomina le. « Perocchè Aristotele cominciò a dispu tare andando qua e là, chiamato fu Lin dico, e li suoi compagni, peripatetici, che tanto vale quanto deambulatori; e più ap presso: lo nome delli accademici si spense, e tutti quelli, che a questa setta si presero, peripatetici sono chiamati» (Conviv. S. 156). PERIssoLoGIA (grec. sup.), viziosa ad doppiatura, o replicazione di parole non necessarie alla chiarezza o alla eleganza del discorso. - - 295 - Qual necessità di esprimere con una voce greca, quel che può esser detto con vocaboli della propria lingua? Il reptºcos de'Greci corrisponde al nostro superfluo, e la rspooo)orta alla superfluità. Nel comune linguaggio degramatici è detto ancora pleonasmo, ma cotesto nome è proprio d'una figura, che non dovrebbe essere scambiata con un vizio del discor so. V. Pleonasmo. e PERIsrALTIco (spec.), nome dato al moto degl'intestini, per lo quale contrag gonsi le diverse parti di essi successiva mente da sopra in sotto, a somiglianza del moto de vermi, il perchè è detto an cora moto vermicolare. Il mezzo per lo quale un tal moto av viene, son le fibre circolari e longitudinali, delle quali è composta la tunica carnosa degl'intestini. Per esso il chilo è spinto negli orifizi delle vene lattee, e gli escre menti sono mandati giù, ed indi espulsi. PERITONEo (spec.), membrana sottile, che copre quasi tutte le viscere del basso ventre. V. questa voce. PERNIZIE (lat. sup.), estremo danno. V. questa voce. º PERPETUALE e PERPETUo (spec.), quel che ha principio e non fine. Differisce dall'eterno, che dicesi di quel che non ha mai avuto principio, nè avrà fine. V. Eterno. PERPLESSITÀ o PERPLEsso (prat.), stato di dubbio e di fluttuazione, nel quale l'uo mo non sa risolversi ad un qualche atto della sua volontà. Differisce alquanto dalla inresoluzione, che è uno stato di compiuta negazione. V. Inresoluzione. PERSEVERANZA (prat.), stabile e conti nua permanenza in un'azione, o in un proposito dell'animo. - E il mezzo per lo quale si perviene alla virtù della costanza, e però presuppone sempre motivi ragionevoli che la determi nano, nel che differisce dalla pertinacia. V. Costanza, Pertinacia. PERsONA (spec. e disc. ), l'individuo pensante, dotato di coscienza, il quale è consapevole delle interne facoltà, e depen Sieri suoi. - È un nome, che conviene privativamente all'uomo individuo, capace dell'io, V. Io. È anche termine grammaticale, e si dice di chi parla, o di quello, al quale, o del quale si parla, e si distingue per diversi casi, o per meglio dire esprime le tre relazioni che il subbietto della propo sizione può avere nel discorso: son queste le relazioni, che nel linguaggio gramati cale prendono il nome di prima, di se conda e di terza persona. - PERsONALE (spee. e disc.), quel che è proprio della persona, o ad essa è relativo. Ha pure due significati, uno filosofico, l'altro grammaticale. Nel filosofico diciamo identità personale la consapevolezza che abbiamo della durata dell'Essere nostro, e della immutabilità della parte spirituale di noi stessi. V. Identità. Nel significato gramaticale, personali diconsi i pronomi che determinano i sub bietti del discorso per l'idea precisa d'una persona. E siccome questo è l'ufizio dei pronomi, così vanno essi tutti considerati come personali. V. Pronome. - - 296 - Personali sono ancora detti quei modi del verbi, i quali ricevono una termina zione corrispondente alla persona, o al subbietto del discorso; il perchè tra modi distinguonsi i personali dagl'impersonali. V. Modo, Verbo. PERsPICACIA o PERsFICACITÀ (spec.), na tural dote dell'intelletto, per la quale esso scorge le più rimote relazioni delle cose e del pensieri. V. Intelletto, PERsu ADERE (dise. ), indurre altri con parole a credere, o a fare qualche cosa, È questo l'ufizio dell'oratore, giusta il detto di Cicerone : oratoris officium est dicere ad persuadendum accomodate. V. Oratore, PERsuAsIoNE (dise. e spec.), l'effetto del persuadere. Differisce dalla convizione in quanto che questa si riferisce allo assentimento dell'ani mo; laddove quella è l'opera delle altrui argomentazioni. V. Convizione. PEast Asiva (diso. ) , la facoltà, o la forza del persuadere. Acciocchè cotesta forza sia efficace, con vien che abbia due pregi o requisiti, giusta l'ammaestramento di Demetrio Falereo, la chiarezza cioè e l'usitato, e perciocchè l'oscuro e l'inusitato non persuade: le pa role scelte e gonfie si lasceranno in questo fatto della persuasiva da parte ». Valga un tal avvertimento per coloro i quali per amor di novità e di ricercatezza vanno a disotterrare i vocaboli meno noti, o pro scritti dall'uso. V. Uso. PERTINACIA (prat. e disc.), fermezza della propria sentenza, la qual si nega ad ogni contrario parere, per prevenzione d'animo, e non per ragione. I Latini, da quali abbiam cotesto voca bolo ce ne han dato la definizione, e in sieme i caratteri che la distinguono dalla perseveranza. Varrone dice: in quo non debet pertendi et pertendit, pertinacia est in quo oportet manere, si in eo per etet, perseverantia est (de L. L. lib. IVA sub init.), e Cicerone : uniouique vir tuti finitimum vitium reperietur, ut au daeia quae fidentiae; pertinacia, quae perseverantiae finitima est (de invent. lib. II. cap. 54). Differisce dall'ostinazione, che può talvolta abbattersi nel vero, nel quale senso suole dirsi ostinato nel bene, come nel male. V. Ostinazione. PERTURBAzIoNE ( prat. e spee. ), vee mente appetito, o commozione dell'animo contraria alla sana ragione. È questa una definizione del filosofo Ze none, riportata da Cicerone, il quale l'ap plica alle passioni: quae Graeci roSm vo cant, nobis perturbationes appellari ma gis placet, quam morbos (Tuscul. lib. IV. cap. 5). In un senso più generico, perturbazione è lo sconvolgimento del natural ordine delle cose. V. Ordine, Passione. PEavERsrrà e PERvERso ( prat. ), l'ini quità che non dà speranza di pentimento. V. questa voce. PESCE (speo.), animal che vive nell'ac qua, come in sua propria abitazione. Il mare, e i viventi che l'abitano sono una delle più maravigliose pruove della sa pienza del Creatore. Il corpo di cotestivi venti è di varie forme adattate allo stato, al moto e alle funzioni cui son destinati dalla natura, non che a mezzi di difesa necessari alla loro conservazione. Il centro di loro gravità è posto nella parte del corpo più opportuna al nuoto, funzione principale e caratteristica della loro condizione: son per la maggior parte coverti e difesi da squame: in luogo depiedi, dequali man cano, son provveduti di pinne, o alette che servono ad equilibrargli o a tenergli diritti: hanno nell'interno del corpo una vescica per l'aria, o notatoio, che li rende atti ad alzarsi, e a profondarsi nell'acqua: l'instrumento del moto loro è la coda, il piano della quale è verticale nella più parte di essi, e orizzontale in alcuni, e di cui l'estremità è o rotonda, o disposta in linea retta, o terminata in punta, o concava, biforcata, o falcata: la testa loro è compressa ne'lati, stiacciata al disopra, o al disotto, o pure quasi cilindrica, li scia, o armata di pungoli, più o meno larga, ma non mai in larghezza maggiore del mezzo del tronco del corpo: la con formazione e la disposizione della bocca, del muso, del denti, delle narici ne pesci variano secondo la diversità delle spezie: la stessa varietà v'ha negli occhi e nel sito in cui son collocati, acciocchè pos sano corrispondere a tutte le convergenze e divergenze del raggi della luce, cagio nate dalla refrazione che questi soffrono dal mezzo acquoso, per lo quale passano. Ve n'ha di quelli che respirano pepolmoni (oggi mammiferi cetacei di Cuvier), ed altri per le branchie, o sia per le alette vicine al capo, le quali tengono loro luo go di polmoni. Ve n'ha degli ovipari e de vivipari ; de grandi e colossali, che sono i giganti del mare, e degl'infini tamente piccoli ; siccome pure v'ha una classe innumerevole d'insetti, creati per compiere negli animali aquatici una serie tanto lunga, quanto quella de terrestri e degli aerei. - Le acque tutte hanno i loro abitatori, e le spezie di questi variano, come quelle della terra e dell'aria, secondo la diver sità delle zone e declimi, a quali son de stinati. V'ha delle spezie affatto marine, le quali nascono e nutrisconsi nell'acqua salsa ; ve n'ha delle fluviali, che viver non potrebbero fuori dell'acqua dolce; ve m'ha delle proprie de laghi e degli sta gni; ve n'ha delle promiscue al mare e a fiumi, e delle anfibie, come le foche, che vivono nell'acqua e sulla terra. L'immensità della natura è la stessa in qualunque serie di Esseri si prenda a con siderarla. L'uomo cerca di abbracciarne tutte le varietà, denominandole e classifi eandole; ma non prima crede di averne compiuto il catalogo, che appariscono nuovi individui, i quali non tardano a divenire spezie. Tal'è la storia di tutte le classifica zioni fatte da Aristotele insino a noi, così nella ictiologia, come nelle altre parti del la storia naturale. Ciò non ostante, non è questa una difficoltà, la quale debba disa nimare gl'ictiologi dal proseguire le osser vazioni, e dal rettificare le conoscenze dei loro antecessori; colla certezza per altro, che per quanto potessero ampliarle, non però esauriranno lo studio della natura, sì che venisse a mancar la materia di nuo ve scoverte alle future generazioni. Aristotele ne libri della storia naturale fu il primo a dare una classificazione dei pesci, distribuendogli pe loro caratteri più noti; distinse i marini da fluviali; suddi vise i primi in due generi, quelli cioè che vivono nel profondo mare, e gli altri che dimorano presso alle coste; e distinse gli uni e gli altri in due principali spezie, gli squamosi cioè e i cartilaginosi, suddivi 5S - 298 - dendo ancora gli uni e gli altri per la maggiore o minore scabrosità delle loro coperture (lib. ll. cap. XIII., lib. VI. cap. XIII. e XIV., e lib. VIII. cap. II. e XIII.). Non parliamo degli scrittori antichi poste riori ad Aristotele, dapoichè tutti sono in feriori a lui, e pieni di false relazioni, e di maravigliose dicerie, tra le quali non è l'ultima l'uomo pesce mentovato da Plinio. Tra moderni lo studio dell'ictiolo gia ricominciò dal XVI.° secolo in poi, e trasuoi cultori si distinsero Paolo Giovio, il P. Belon, Ippolito Salviati, il Ronde let, Corrado Gesner, Ulisse Aldovrandi, Jonston, e Charleton. Le spezie da questi riconosciute e classificate non oltrepassa vano il numero di ducento cinquanta. Una forma più metodica diedero all'ictiologia gl'inglesi Willughby e Ray, i quali de scrissero intorno a quattrocento pesci. Gli studi di tutti i cennati ictiologi non fe cero che preparare i grandi sistemi di clas sificazione, di Artedi e di Linneo, i quali ampliarono le spezie insino al numero di 477. Cotesto numero da Gmelin fu esteso a 8oo, e da Block o Schncider a 15oo. Intanto il grande Linneo, che col suo genio abbracciò tutte le parti e le forme organiche della natura, determinò i carat teri distintivi delle spezie per la presenza o per la mancanza delle pinne ventrali, e per la loro posizione relativa alle pinne Pettorali: tolse dalla razza de'pesci i rettili marini, e considerò come pesci gli animali forniti di pinne, di cervello, di cervelletto, di midolla spinale, d'un organo di udito, di narici, d'un cristallino sferico, d'un cuore ad una sola orecchietta, che respi rano per le branchie, che per lo più hanno una vescica, o notatoio, e son privi di palpebre, di orecchie esterne, di collo, di membra propriamente dette, e di parti ge nitali apparenti. Questo è il popolo depe: sci ch'egli divise in quattro grandi sezioni detti ordini, e in quaranta generi. La clas sificazione di Linneo è stata più o meno modificata daseguenti naturalisti. Venendo a più recenti, e più chiari pel nome loro, cioè Lacépéde, Duméril, Cuvier, e Valen ciennes; il primo di essi propose una parti zione che abbracciar potesse tutto l'innume rabile regno aquatico. Divise egli i pesci in due grandi classi, cioè in cartilaginosi a branchie e in ossei a branchie. a cia scuna di tali classi diede altre classi subor dinate, prendendole dalla presenza o man canza degli opercoli: ad ognuna di queste classi secondarie diede due ordini caratte rizzati per la mancanza o presenza della membrana: ad ogni ordine assegnò quat tro generi subordinati, che determinò per la presenza o mancanza delle catope o pin ne ventrali, e per la loro posizione. Cote sto quadro fu composto col disegno di farvi entrare tutti gli Esseri possibili del regno aquatico, compresi quelli che non sono ancora conosciuti; e però può dirsi averlo adattato alla innumerabile, e quasi infinita varietà della natura. (V. il Dizionario delle scienze naturali, art. ittiologia). Tutte queste opere non pertanto, cedono il luogo al grandioso lavoro della storia naturale de pesci, data dall'immortale Cu vier e dal suo collaboratore Valenciennes. Questi raccolto avendo le osservazioni dei naturalisti e de viaggiatori di tutte le na zioni, e i pesci di tutti i mari, e demag giori fiumi e laghi conosciuti, ed avendo raccolto nel gabinetto di storia naturale di Francia circa cinquemila spezie e circa quindicimila individui, ne publicò la de scrizione in quattordici volumi in quarto, che giungeranno per lo meno insino a venti, accompagnata da un trattato ge - 299 - nerale intorno alla natura del pesci, nel quale sono delineate le forme degli organi loro, sì esterni, che interni, le ossa, le viscere, il sistema vascolare, e il sistema nervoso d'ogni pesce. Ma questo stesso la voro non può essere considerato se non come lo stato relativo delle nostre attuali conoscenze. PEso (spec.), qualità de corpi, per la quale tendono a discendere verso la terra. Differisce dalla gravità come l'effetto dalla sua causa, perchè per gravità in tendiamo la potenza o la forza che pro duce il moto de corpi pesanti, e per peso il prodotto di tale forza: in altri termini la gravità è la forza che agisce sopra cia scuna delle minime particelle del corpo, mentrechè il peso è la somma delle forze delle molecule prese insieme. V. Gravità. Dalla cennata differenza segue, che la forza della gravità non varia a misura della quantità della materia che è necor pi, laddove il peso cresce in proporzione che si aumenta la loro massa. Newton dimostrò, che il peso di tutti i corpi, a distanze eguali dalla terra, è proporzio male alla quantità della materia, ch'essi contengono. Richer aveva nel 1672 sco perto per mezzo del pendolo, che a Ca yenne il peso era minore che a Parigi, per la quale scoverta i valenti matematici di quel tempo non solamente generalizza rono la conseguenza, cioè che il peso è minore all'equatore e maggiore a poli, ma dedussero ancora due altre verità, cioè il moto della terra intorno al proprio asse, e lo schiacciamento della sua figura verso i poli. - La differenza del peso del corpi dà orie gine a quella delle vibrazioni dependoli; dapoichè essendo il peso la causa del moto dependoli, ne deriva che le lunghezze di questi variano al variar de pesi ; e però son esse del pari minori sotto l'equatore, e maggiori solto i poli. Una tal diversità ridotta in esempio di cifre numeriche, è come segue: se la lunghezza di un pen dolo, che nella latitudine di Parigi vibra secondi, è di tre piedi parigini, otto li nee e / ; la lunghezza di un pendolo sincrono sotto l'equatore sarà minore di una linea e d'una 87ooo parte di linea. (V. Philos. mat. princ. Math. lib. III. ). V. Pendolo. - Il peso di un corpo, considerato come misura della quantità, o della massa dei corpi, è capace della stessa definizione che i matematici han dato delle misure, cioè d'una data quantità, che si prende per unità, ad oggetto di determinare il suo rapporto con altre quantità omogenee. V. Misura. PEssiMo (prat.), superlativo di male e di cattivo. V. queste voci. r Perro (spec.), parte anteriore dell'ani male dal collo alla pancia, formato dal l'osso pettorale e dalle coste, che rac chiude dentro di se i polmoni e il cuore. Nel senso traslato prendesi per l'interno dell'uomo, e per lo cuore stesso, che noi crediamo essere la sede del sentimento, e nel quale gli antichi credevano che l'ani ma risedesse. Cotesti significati son più poetici che filosofici. PETULANZA (prat.), immodesta ed in solente arroganza colla quale taluno pro voca un altro, o fa pompa del vizio. Cicerone nota , che è vizio della gio vanile età, e non di tutti i giovani, ma de malvagi, V. questa voce. ºt i- 500 – PIACERE (spec. e prat.), grata commo zione desensi, o interna soddisfazione del l'anima per lo conseguimento d'un obbiet to, che consideriamo come un bene. Una è la definizione del piacer desen si, l'altra del piacer morale. Entrambi nascono da una provvida disposizione della natura, la quale ha fatto del piacere dei sensi un motore degl'istinti degli animali; e del morale, un motor della volontà ed un principio delle umane azioni. Per que sto mezzo ella spigne gli animali a fare quel che conviene alla conservazione de gl'individui e della spezie; per lo stesso mezzo guida l'uomo all'adempimento del dovere, e alla ricerca del bene. Suo contrapposto è il dolore, ad evi tare il quale ha impresso ne sensi un istinto negativo, che accresce le attrattive del pia cere; ed all'anima ha ispirato l'avversione per tutto quello che ella apprende come un male. Ma nella scelta, nell'uso, e nel la opinione del piacere v'ha quella stessa varietà che si scontra nella definizione del bene. Se il piacere è, secondo la intenzione della natura, l'indice del bene, perchè non seguirlo sempre e prenderlo per norma dei nostri portamenti? Se una tal quistione se la proponessero i bruti, e se in costoro supporsi potesse una filosofia, il bruto filo sofo risponder dovrebbe per l'affermati va. Egli troverebbe negl'istinti stessi della natura i limiti del piacere: nella propen sione al moto e al corso, la stanchezza: nell'appetenza del cibo, la sazietà: nella voluttà, il temperamento delle stagioni: e per tutto piacer morale, l'ignoranza del futuro, l'assenza d'ogni cura, ed il son no. Ma la stessa quistione proposta all'uo mo, equivale a quest'altro, perchè non siete del tutto bruto ? Ciò non ostante la filosofia umana ne ha formato un ar gomento di controversia, e la parte dei bruti ha avuto molti illustri seguaci. Tali sono gli epicurei e i materialisti. Ma non rimescoliamo le vecchie controversie delle scuole filosofiche; e rimettiamoci nel cam mino delle idee che suggerisce il senso della comune ragione. La nozione del piacere e del dolore si rannoda sì strettamente con quelle del bene e del male, che nella filosofia razio male potrebbero que due vocaboli essere definiti come espressione del bene e del male, salvo che a rendere compiute tali definizioni, converrebbe aggiugner quelle di ambedue i cennati vocaboli. V. Bene; Dolore, Male. - - PIACEvoLE e PIACEvoLEzzA (prat.), qua lità d'uomo che si rende bene accetto per le sue esterne maniere. - Differisce dalla cortesia e gentilezza, in quanto che esprime l'effetto, che gli atti cortesi ed umani producono in coloro, verso de quali sono usati. V. Cortesia, Gentilezza. - . Il piacevole ancora è più del gradevo le, che contiene soltanto benigna acco glienza. V. Gradevole. - . PIANETA (spec.), corpo celeste che si gira intorno al sole, come al centro del suo moto, e che muta continuamente di posizione per rispetto alle stelle. - Dal continuo cangiamento della sua po sizione, ricevette il nome di rhavntms, che vuol dire errante, come un contrappo sto del fisso, che diamo agli altri astri. V. questa voce. 1, a º Gli astronomi distinguono i pianeti in primari e secondari, e danno il primo nome a quelli che girano intorno al sole; il secondo agli altri, che muovonsi in - 501 - torno ad un pianeta primario. Insino alla fine del decimottavo secolo contavansi sei pianeti primari, cioè Saturno, Giove, Marte, la Terra, Venere e Mercurio, ma da quel tempo in qua il loro numero è cresciuto a undici, scoverti gli altri cin que successivamente da Herschel, da Piaz zi, da Olbers e da Harding, salvo i fu turi. Per non togliere alla mitologia il di ritto di dare i nomi a corpi celesti, sono stati questi denominati Urano, Cerere, Pallade, Giunone e Vesta. Coteste nuove scoverte hanno altresì ac cresciuto il numero de secondari o desa telliti, i quali son sinora giunti al nu mero di diciotto: tra questi è annoverata la luna, che gira intorno alla terra. Sa turno ne ha sette, Urano sei, e Giove quat tro. Sono stati ancora distinti i pianeti in superiori e inferiori in ragione della loro distanza dal sole, maggiore o minor di quella alla quale trovasi la terra: tra su periori sono Urano, Saturno, Giove, Cerere, Pallade, Giunone, Vesta, e Marte: tra secondari Venere e Mercurio. Tutti muovonsi nelle orbite loro intorno al sole in piani diversi, e da occidente in oriente, o sia in una medesima direzione. Il muoversi in piani diversi vuol dire, che i piani delle orbite de pianeti son va riamente inclinati tra loro, e ad un pia no di paragone, qual è quello dell'orbita terrestre. Le inclinazioni non pertanto sono in generale molto piccole, e le linee, nelle quali le orbite si tagliano, passano sem pre per lo centro del sole. Ma il tempo, nel quale essi compiono il rivolgimento loro intorno al sole non è lo stesso; im perocchè Urano v'impiega ottantaquattro anni, Saturno all'incirca trenta , Giove dodici, Cerere, Pallade, Giunone e Vesta poco più, o poco meno di quattro anni e sette mesi e mezzo, Marte due, Venere sette mesi, Mercurio tre mesi, e la Terra un anno. Gli astronomi c'insegnano an cora, che la natura de pianeti è simile a quella della luna e della terra, cioè corpi sferici, opachi, che ricevono la loro luce dal sole, densi di materia, montuosi o d'ineguale superficie, e ciascun di essi cinto dal più al meno, di atmosfera pro pria e mutabile. - - La somiglianza tra pianeti ha dato luogo alla opinione, che sono essi abitabili come la Terra ; della quale opinione essendosi impadroniti taluni filosofi speculativi, han cangiato l'ipotesi in fatto, e sono andati ricercando di qual diversa conformazione e struttura dovessero essere gli uomini de stinati ad abitargli. Tra costoro i più nota bili sono Fontenelle e Wolfio, ma di essi più ardito è stato il secondo. Fontenelle, scrittor elegante e pien di grazie, si limita a proporre congetture intorno alla diversa figura che aver debbono gli abitatori delle sfere celesti. « Qual differenza, egli dice, non passa tra la figura e le maniere no stre, paragonate con quelle degli ameri cani o degli affricani? E non pertanto noi abitiamo lo stesso vascello, di cui essi ten gono la prora e noi la poppa. Quanta maggior differenza non dee trovarsi tra noi e gli abitatori del pianeti, o sia di que vascelli, che navigano pecieli in tanta distanza da noi? » Per contrario Wolfio, dimostrator matematico così delle verità identiche, come delle ipotesi, ci dà la mi sura dell'altezza di quegli uomini compara tivamente alla nostra. « L'Ottica insegna, son sue parole, che la pupilla dell'occhio si dilata per la luce debole, e si restrigne per la forte. Ora la luce del sole, essendo per gli abitanti di Giove molto più debo le, che per noi, dacchè Giove è dal sole più lontano, ne segue che gli abitatori di quel pianeta hanno la pupilla più larga e più dilatata della nostra: vuolsi inoltre osservare che la pupilla ha una propor zione costante col globo dell'occhio, e l'occhio col resto del corpo, per modo che negli animali l'occhio è sempre maggiore in proporzione della pupilla, e il corpo in proporzione dell'occhio. Adunque per determinare la grandezza degli abitanti di Giove, si può stabilire che la distanza di Giove dal sole sta alla distanza della Terra dal sole come 26 a 5, e per con seguente la luce del sole per rispetto a Giove, sta alla sua luce per rispetto alla Terra in ragion doppia di 5 a 26. L'espe rienza inoltre dimostra, che il dilatamento della pupilla avviene in una relazione molto maggiore dell'aumento d'intensità nella luce; il che se non fosse, i corpi più distanti ci apparirebbero colla stessa chiarezza del vicini. Laonde il diametro della pupilla degli abitanti di Giove sta al diametro della nostra in una ragione maggiore di 5 a 26. Supponendolo di 1o a 26, o di 5 a 13; siccome l'ordinaria al tezza degli uomini della Terra è di cinque piedi e quattro pollici in circa; così ne segue che l'altezza comune degli abitanti di Giove è di quattordici piedi e due terzi ». Niun altro esempio è di questo più atto a dimostrare l'assurdità e il ridicolo nel quale cader possono le ipotesi. Con qual fondamento afferma Wolfio, che gli abi tanti di Giove, supposto che abbiano il senso della vista , aver debbano la pu pilla maggiore della nostra, ed una al tezza di corpo proporzionale alla pupilla? È vero, che la luce sia più debole in Giove, che sulla Terra; ma gli abitanti di Giove, dotati d'organi più sensibili, potrebbero essere di tal natura, che quella luce fosse pe'sensi loro più forte della no stra. D'altra parte, è egli vero, che la grandezza del corpo sia proporzionale al diametro della pupilla ? Non vediam noi il contrario negli animali? Non lo vedia mo forse ne gatti, che hanno la pupilla molto maggiore della nostra ? Ne porci che l'hanno più picciola del gatti? Pianeti, o stelle erranti, sono pur le comete, ma la difformità del loro moto, la lunghezza delle orbite che descrivono, e la loro eccentricità per rispetto al moto degli altri pianeti le fan considerare come parte del sistema planetario che appartiene alla storia del cielo, ma che ha men di relazione colla terra.V. Cometa, Sistema. PIANTA (speo.), corpo organico, for mato di cellulare, di vasellini e di umo ri, che trae dalla terra, o da altro corpo nutritivo il suo alimento. V. Corpo, Or ganismo. nome generico, che comprende gli alberi e le erbe, le quali vegetano e si riproducono in una forma a tutti comu ne. V. Albero, Differisce, dagli animali in quanto trae la nutrizione non da se stessa, ma da al tro corpo cui è aderente; e da fossili, con siderati come semplici aggregati, privi di organi. La riproduzione delle piante non è meno maravigliosa di quella degli ani mali, perchè la natura ha trasportato nella vegetazione i fenomeni della generazione tanto omogenea quanto eterogenea, e per sino le anomalie, che nella scala degli Esseri avvicinano gli organici agl'inorga nici. V. Generazione, Vegetazione. Le piante formano il regno vegetabile, o sia il secondo de tre ordini, ne quali sogliamo distribuire tutti gli Esseri sensi, bili della natura. Nella struttura, nella – 505 - gradazione e varietà delle forme, nell'op portunità del diversi usi a quali son desti nate, e per sino nella vaghezza de'colori e degli ornati loro, la natura è così ammirae bile per la sua immensità, come l'è negli animali e ne fossili. All'aspetto di sì grande magnificenza e simmetria l'uomo dimanda a se stesso, in grazia di chi è stata ella cotanto benigna ? Compia Cicerone cotesto discorso. Arborumne et herbarum, quae quamquam sine sensu sunt, tamen a na tura sustinentur? Al id quidem absur dum est / An bestiarum ? Mihilo pro babilius mutarum et nihil intelligentium causa tantum laborasse / guorum igitur causa guis diverit ef fectum esse mundum ? Eorum scilicet animantium, quae ratione utuntur / V. Mondo. PIANro (prat.), esterno segno di com mozione manifestata collo spargimento del le lagrime, le quali traboccan fuori per gli occhi. V. Lagrima. Il pianto è una espressione comune ad affetti e a passioni, anche tra loro con trarie; dapoichè si piagne per dolore, per tenerezza, per gioia, e anche per ammi razione: è la parte più espressiva del lin guaggio d'azione, per la quale manife stiamo, prima ancor della parola, il do lore, e il bisogno: è il primo linguaggio, con cui l'uomo, nascendo, saluta la vita. V. Linguaggio. Dopo l'infanzia, il pianto resta un lin guaggio di affetti e di passioni, allorchè le impressioni veementemente eccitano le forze della interna sensibilità. V. Sensibilità. Picciolo e Piccolo (prat.), trasportato alle qualità intellettuali, e morali, vale scarso delle une e delle altre, PIEDE (spec. e disc.), membro del corpo dell'animale, sul quale e riposa, e col quale cammina. E uno delle membra che la natura ha adattato, così pel numero come per la for ma, alla varia condizione degli animali. Piede, in anatomia, o il gran piede, dinota l'intero tratto dalla giuntura del l'anca insino alla punta delle dita; sic come la mano dinota l'intero tratto dalla spalla alla punta delle sue dita. Le parti di cotesto piede anatomico sono: la coscia, la gamba, e l'estremità di questa, pro priamente delta piede, la qual si com pone di tre parti, cioè del tarso, del me tatarso, e delle dita: il tarso prende dalla nocca insino al corpo del piede, e corri sponde al polso della mano: il metatarso è il corpo stesso del piede col suo fondo detto pianta, la quale pure corrisponde alla palma della mano: le dita, delle quali triplice è l'uso, l'articolazione, il moto, e la più ferma consistenza della base. Le ossa del piede anatomico sono il fe more, quel della coscia, la tibia e la fi bula della gamba, quelli del tarso, del metatarso, e delle dita. Le sue arterie sono i rami dell'arteria crurale, siccome le sue vene vanno tutte a terminare alla vena crurale: di queste, cinque sono le prin cipali, la safena, la grande e la piccola ischiadica, la muscolosa, la poplitea, e la surale. La natura ha dato due piedi all'uomo e agli uccelli, quattro agli animali desti nati a camminare per la superficie della terra, e però detti quadrupedi, molti agl'insetti, e nissuno a talune spezie di rettili. Galeno non lasciò di fare molte belle osservazioni intorno al maraviglioso antivedimento della natura nell'avere così variamente adattato il numero de piedi alla diversa condizione degli animali, e in avere conformato i due dell'uomo per modo che bastino a tutte le occorrenze sue (de usu partium lib. lII.). V. Arteria, Mano, Mervo, Osso, Vena. Piede nella poesia greca e latina, e in talune delle lingue moderne che hanno imitato i metri di quelle, è un elemento della parola, composto d'un dato numero di sillabe lunghe e brevi.V. Poesia, Verso. PIENo (spee. e ontol.), lo spazio occu pato dalla materia. In questo significato il pieno è contrapposto del vacuo. V. Vacuo. I cartesiani supponevano lo spazio as solutamente pieno, per una conseguenza del principio della loro dottrina, cioè che l'estensione fosse l'essenza della meteria, e che essendo lo spazio esteso non poteva essere voto, V. Spazio, Pierà e PierADE (prat.), nobile dispo sizione d'animo, apparecchiato di ricevere amore, misericordia, e altri caritativi affetti. È questa una definizione di Dante, nel convivio, di cui niuno oserebbe proporre altra migliore. I latini diedero a questo vocabolo per suo proprio significato l'amorevole rispetto e venerazione che portiamo a maggiori di noi; e però pietas erga parentes et in Deos significò l'amor filiale, e il rispetto e la riconoscenza dovuta a Dio. Noi ab biam conservato al vocabolo pietà una parte del significato latino, dacchè così denominiamo la divozione e ogni reli gioso sentimento. Ritenendo cotesto signi ficato per gli atti doverosi, co quali ono riamo la Divinità, le testimoniamo la no stra riconoscenza, e impetriamo la sua assistenza nelle nostre necessità, la pietà va considerata come una delle virtù car dinali, da cui tutte le altre dipendono. V. Virtù. Più comunemente, pietà vale compas sione o misericordia. - L'altro piangeva si, che di pietade l'venni men ( DANTE Inf. v. ). V. Compassione, Misericordia. PIEroso (prat.), qualità di chi sente compassione e misericordia, e di chi eser cita atti di religiosa pietà. PIGREzzA e PIGRIZIA (prat.), lentezza, o tardità nell'operare. Esprime lo stato naturale delle membra nel punto, in cui ogni animale si risve glia dal sonno. Trasportato al morale, vale oziosità, e quasi sonnolenza di animo. È meno della infingardaggine, la qual presuppone un abito vizioso, accompa gnato dal proposito di nulla fare. V. In fingardaggine. - -- Pio (prat.), chi esercita atti di reli giosa pietà. Nell'uso comune del parlare scambiasi ancora col pietoso. V. questa voce. PIRorEcNIA (erit.), l'arte de fuochi ar tifiziali. PIRRoNisMo (crit.), la dottrina degli an tichi scettici, che dubitavano della verità di tutte le cose, senza dichiararla incom prensibile, nel che Pirrone differiva da Arcesila , fondatore della seconda Acca demia. Cotesta scuola nacque per contrap posto del dogmatici, e può dirsi una de rivazione del sofisti, che furon maestri nel discettare in contrario senso d'ogni sorta d'argomento. V. Scetticismo. - 505 - Il pirronismo, rinnovato presso i mo derni (i quali senza negare la realità del la natura esteriore e del concetti dell'ani mo, la rivocano in dubbio, perchè non possono dimostrarla), ha preso il nome di scetticismo. V. questa voce. PrrruRA (crit.), l'arte di rappresentare gli obbietti visibili con linee, tratti, e colori sopra un piano eguale e polito, e di esprimere il sentimento nelle figure degli Esseri animati, È una delle arti, propriamente dette imitative, sebbene la sua parte migliore sia riposta nella invenzione del perfetto bello ; il perchè è ancora annoverata tra le arti, che portano il nome di belle. Il primo nome rigorosamente le compete, quando non fa altro che ritrarre gli ob bietti sensibili: il secondo, quando crea e compone figure e gruppi, che nel volto e nel gesto spiegano gl'interni affetti colla stessa verità, con cui gli esprime la paro la. Del resto l'imitazione abbraccia tanto il meccanico delineamento delle cose esisten ti, quanto il dare l'esistenza alle cose pos sibili, e l'adattare loro le forme più con venienti alla qualità del subbietto. E però la pittura, imitando, finge ed inventa il bello ideale, al pari di quel che fa la poe sia, colla quale, più che con altra arte ha somiglianza ed aſfinità. Tuttaddue prefig gonsi lo stesso scopo, questa adoperando la parola, e quella il muto linguaggio di azio ne: entrambe vogliono ritrarre il perfetto bello, e aspirano a raggiugnere il sublime, assumendo l'animata espressione degli affet ti, e delle nobili passioni.V. Finzione, Imi tazione, Invenzione, Linguaggio, Poesia, PLACIDEzzA e PLACIDITÀ (prat.), qua lità d'animo moderato, che non si lascia trasportare da commovimenti delle passioni. PLAsTtco (onio'. e crit.), che ha virtù di formare, o di plasmare. - a Mature plastiche sono stati detti certi Es seri suppositivi, a quali taluni filosofi hanno attribuito la virtù di formare le parti decor pi organici, per ispiegare come si compia quell'ingegnoso artificio che si trova nella struttura e negli organi degli Esseri vitali. A cotali plastiche nature dassi da loro autori un ministero secondario, e diremmo instrumentale; dapoichè si suppone che ese guano le leggi stabilite dalla divina provvi denza, peregolari movimenti della materia Almeno tal'è l'opinione che i filosofi cristiani han voluto accomodare alle dottrine degli antichi, i quali ammisero sotto immagini e nomi diversi l'intervenzione di simili agenti secondari. Cudworth sopra tutti gli altri ri suscitò cotesto sistema, per ischivare due assurdi cioè, o di ammettere, che nella formazione decorpi organici tutto fosse for tuitamente avvenuto, nel quale caso una necessità meccanica avrebbe fatta muovere. la materia; o di supporre che Dio stesso fosse intervenuto nella formazione e ripro duzione di ciascun corpo, nella qual secon da ipotesi la Divinità avrebbe dovuto assu mere la figura di esecutrice delle sue opere. La dottrina delle nature plastiche è si mile a quella delle unità o de numeri di Pitagora, degli omiomeri di Anassagora, degli atomi di Leucippo e di Democrito, delle forme sostanziali degli aristotelici, de corpuscoli di Cartesio, e forse ancora delle monadi di Leibnizio. Comechè cia scuna delle cennate ipotesi diversifichi dal l'altra per rispetto a mezzi del suo operare, pure tutte son parti della immaginazione e conseguenze d'un medesimo principio, o sia della supposta necessità di trovare un agente intermedio tra l'intelligenza ordi natrice e la materia. Ma se nell'intelletto 59 - 506 - umano non può capire la nozione dell'in finito; e se d'una cosa sola non può la mente dubitare, cioè dell'infinita sapienza e della onnipotenza del Creatore, perchè vuole la filosofia trascendere l'umana na tura, pretendendo d'investigare, come ab: bia la Divinità operato nella creazione, e come operi nella conservazione di tutte le parti dell'universo? Chi ammira il pro dotto d'una causa che non può concepire, non può neppure aspirare alla spiegazione del come abbia quella causa operato.V. In finito, Ipotesi, Un nuovo significato si è dato a questo vocabolo da fisiologisti, che hanno suppo sto nella materia una virtù formatrice, per la quale gli Esseri organici si riproducono fuori delle vie della generazione. Cotesta virtù che essi han chiamato principio pla stico è in opposizione del principio vitale il quale è indispensabile così nella gene razione omogenea come nella eterogenea, qualunque sia la sua forma. V. Genera zione, Infusorio, Uovo. . - - PLEONAsMo (disc.), figura, o vizio del diº scorso che ridonda di parole non necessarie. Talvolta il pleonasmo serve a dare ener gia al discorso, e ne forma l'ornamento: in questi casi è una figura, di cui v'ha esempi presso i più nobili ed eleganti scrit tori, sì antichi che moderni. - Altra volta, pleonasmo chiamasi la su perfluità, o il ripetimento di parole, che detraggono e non aggiungono pregio al discorso, il che certamente è un vizio. - Il signor de Bauzèe notò essere una im proprietà del linguaggio grammaticale il chiamare collo stesso nome il vizio e la figura, e propose di lasciare il nome di pleonasmo alla figura, dando all'altro quella di perissologia. V. questa voce. - PLURALE (disc.), aggiunto che si dà dai gramatici al numero del più. V. Mumero. I nomi propri, insino a che ritengono una tal qualità non hanno plurale; ma lo acquistano tosto che divengono appellativi, V. Appellativo, Proprio si - PNEUMATICA (erit.), la scienza che tratta dell'aria, e del fluidi aeriformi. Cotesta denominazione è stata talvolta scambiata con quella di pneumatologia, per cagione dell'ambiguo significato del nome, che le serve di radice. Imperciocº chè il vocabolo pneuma (aveuux) significa tanto lo spirito, che noi concepiamo come immateriale, quanto ogni spezie di so stanza sottilissima, la quale attenuandosi va a confondersi coll'aria che ci circonda. E però il fiato, il vento, il vapore ed il fuoco stesso son detti ne libri degli antichi rysvuata; alla moltiplicità de quali signi» ficati debbonsi ancora aggiugnere i trasla ti, dapoichè lo stesso nome fu dato ad ogni forza attiva, considerata come causa dell'azione e del moto. Ciò dimostra come il linguaggio, nato materiale, non può trasformarsi in ispirituale, se non per via di similitudini. V. Linguaggio. - a º È ricevuto oggidì che pneumatica si chiami la scienza o il trattato delle pro prietà dell'aria e delle altre sostanze aeri formi, quantunque potrebbe forse meglio convenirle quello di aerometria datole da Wolfio. Imperocchè limitandosi esso alla conoscenza delle proprietà dell'aria, e del le leggi, colle quali si muove o è mos sa, si rarefà, e si condensa; sembra che l'antico nome prometta più che la scienza non contiene. Del resto per non fare guerra a nomi ricevuti, conservi pure l'antica denomina zione, la quale giustifica l'epiteto di pneu - 507 - matica dato alla macchina, per la quale si estrae, o si rarefà l'aria contenuta in un recipiente qualunque. Così il nome di pneumatologia, se pur sarà necessario, verrà riservato alla scienza che abbraccia le sostanze immateriali, cioè l'anima uma na, quella degli spiriti celesti, e per ul timo quelle del bruti. - - - . . --- PNEUMAroLocIA (erit.), la scienza delle so stanze spirituali. V. Sostanza, Spirituale. ., Cotesta denominazione poteva avere un senso determinato quando credevasi, che si potesse giudicare a priori delle proprietà degli enti o sostanze immateriali. Sotto una tal denominazione venivano la prima sostanza o l'Ente perfettissimo ed infini, to, gli spiriti celesti, l'anima umana, e le anime de'bruti. Ma per decidere della utilità ed opportunità di una sì generica denominazione, uopo è considerare. 1.º che la prima sostanza (dalla quale come dall'infinito, nulla possiamo argor mentare alle sostanze finite) forma l'obbietto d'una scienza propria qual'è la teologi naturale; - -. . . . . . . a 2.º che la dottrina degli spiriti celesti ci viene dalla teologia dogmatica, e non dalla filosofia razionale; i 3.º che l'anima umana forma l'obbietto proprio della psicologia, scienza la quale ci serve di scala per ascendere alla cogni zione degli spiriti di noi maggiori, e per discendere a quelli degli Esseri animati, a noi inferiori; 4.º che di cotesti Esseri minori null'altro conoscer possiamo se non quello che ce ne dice l'esperienza, e la comparazione tra gli atti della loro, e quelli della no stra intelligenza, e - - Ora, riservata alla teologia la cogni zione di Dio e degli attributi suoi; riman - - - - , - data la dottrina degli spiriti celesti alla teo» logia rivelata; e considerato il trattato delle anime de'bruti, come una appendice del la psicologia, a che altro si ridurrebbe la pomposa denominazione dipneumatologia, se non ad un sinonimo della psicologia? - D'altra parte giova considerare, che cotesta denominazione di pneumatologia fu messa in voga da'eabalistici, i quali facevan servire alla misteriosa scienza dei loro mondi, anche quella delle sostanze spirituali; e che alla stessa denominazione ricorsero gli scolastici, i quali trattar vol lero la teologia naturale e la dottrina delle sostanze spirituali, come appendici della ontologia; due nuove ragioni per evitare un nome generico, il quale confondendo in una sola nozione le sostanze di tutti gli spiriti, potrebbe fare risorgere le stesse º false e perniciose opinioni, che altra volta produsse. V. Psicologia. PoEMA (crit.), rappresentazione d'una azione, o narrazione d'un fatto vero, o finto, esposto nel linguaggio poetico, col sano gusto della imitazione e del bello, e col fine d'istruire o di dilettare. Quale sia il linguaggio poetico e quali le regole della buona imitazione. V. Bel lo, Finzione, Imitazione. Essendo due i modi dequali la poesia si serve nelle sue composizioni, la rappresen tazione, e la narrazione, ne segue che la più generica partizione depoemi, sia quel la del poema drammatico ed epico. Tale fu la partizione che ne fecero gli antichi: Aut agitur res in scenis, aut acta refertur. Ma ciascuno de due divisati generi può essere, ed è suddiviso in tanti altri ge neri secondari, quanti sono i suggetti di versi che il poeta imprende a trattare. La º - - 308 - qualità dell'argomento somministra al ge nere drammatico la suddivisione del tra gico, del comico, del pastorale, o del giocoso; e all'epico il sagro, l'eroico, l'erotico, il didattico, ed altri. Ciascuno dei divisati generi ha le sue regole, che son proprie dell'arte poetica, ma tutte conve nir debbono in taluni requisiti essenziali e comuni, i quali sono i fondamenti del credibile, e del verisimile. L'azione del poema, o che si rappresenti o che si mar ri, uopo è che sia una e semplice, che si sviluppi gradatamente in tempo e in luogo possibile, sì che l'impressione che ne riceve lo spettatore, ed il lettore, passi dal finto al vero, e dal credere al sentire. Questa è la famosa controversia delle tre unità, che è stata ed è tanto combat futa dalla folla degli amatori del roman tico. Considerandola noi come una qui slione di critica universale, la ritoccheremo rell’erticolo unità, lasciando da banda tutte le altre regole particolari, come straniere al nostro argomento. V. Unità. PoEsIA (crit.), l'arte d'imitare il bello, e di esprimerlo col linguaggio degli affetti e delle passioni, sia nella rappresentazione d'un'azione, sia nella narrazione d'un fatto, col fine d'istruire, o di dilettare. Il principal carattere di quest'arte sta nel genere della espressione, o sia nel sentimento che muove ed anima il suo linguaggio. Quelli che l'han definita sem plice finzione o imitazione, di due ca ratteri propri dell'arte hanno guardato un solo, lasciando l'altro che pur è essenziale e costitutivo. Certamente l'immaginazione, che è la facoltà animatrice della poesia, imita e finge, allorchè trae i suoi concetti dal bello apparente o ideale, dagli stra ordinari fenomeni della natura, o da vio lenti effetti delle passioni; ma questo pur fa in tutte le arti imitative e nella stessa eloquenza. Che è quel che distingue l'ora toria dalla poesia, se non il diverso genere di linguag io di cui ciascuna delle due arti fa uso? Est ſinitimus, dice Cicerone, ora tori poeta, numeris adstrictior paulo, verborum autem licentia liberior, multis vero ornandi generibus socius, ae pene par. (de Orat. lib. I. cap. XVI.). Ora qual altro è l'ufizio della eloquen za, se non il persuadere muovendo gli af fetti e le passioni altrui, o sia chiamando il sentimento in aiuto della severa ragione? Quel che differenzia l'una arte dall'altra, è appunto la maggior concitazione dell'animo, che rende il poeta più vivo nelle immagini, e più libero nelle parole: è la forza e la facilità del concetti, che gli antichi riputarono essere un dono di divina ispirazione che chiamarono sagro furore, e che noi diciamo estro. Saepe audivi, è detto del grande autore testè citato, poetam bonum neminem ( id quod a De mocrito et Platone inseriptis relictum esse dicunt) sine inflammatione animo rum existere posse, et sine quodam af. flatu quasi furorie (de Orat. lib. II c. 46). Sono noti i luoghi di Platone nell'Ione, nel Menone, nel Fedro, e nell'apologia di Socrate; siccome nota è la sua partizione delle quattro spezie di furore o d'ispira zione, tra le quali quella delle muse, o sia la poetica. Non vogliamo quì disser tare, ma soltanto dimostrare, che i grandi maestri dell'antichità non formarono della poesia un concetto diverso del nostro, nè altrimenti la definirono. L'autorità loro può anche parere superflua a chiunque far voglia l'analisi di quel sentimento che noi proviamo, allorchè siamo commossi e tra sportati dalla bella poesia. L'impressione di cotesto sentimento non è mai più viva, che nella poesia estemporanea, la qual comanda e conduce gli affetti altrui dove il poeta vuole. E quì va anche ricordato l'effetto che Cicerone descrive avere nell'animo suo prodotto i versi di Archia, il quale sembra essere apparso come un por tento dell'arte d'improvvisare: Quoties ego hune Archiam vidi, cum literam scripsisset nullam, magnum numerum optimorum versuum de iis ipsis rebus, quae tum agerentur, dicere ea tempore? Quoties revocatum , eamdem rem dice re, commutatis verbis atque sententiis? Quae vero accurate cogitaleque scripsis set, ea sic vidi probari, ut ad veterum scriptorum laudem pervenirent. Hune non ego diligam? non admirer? non omni ratione defendendum putem ? Atgui sie a summis hominibus eruditissimisque ac cepimus, caeterarum rerum studia et doctrina, et praeceptis, et arte consta re; poelam natura ipsa valere, et men tis viribus earcitari, et quasi divino quo dam spiritu inflari (pro Archia cap.VIII.). La prontezza e la varietà del concetti e delle parole che sorprendevano Cicerone in Archia, e che sorprendon tutti in udire un facile ed erudito improvvisatore, na sce dalla facilità con cui l'immaginazione prende le similitudini o le immagini, vale a dire dipende dal parlare figurato; da poichè il semplice e naturale discorso, che descrive le cose quali sono, o quali ci appariscono, schiva e rifiuta le circonlo cuzioni, e i ripetimenti. Cotesto parlar fi gurato, il quale dà colore e vivacità alla eloquenza, del pari che alla poesia, non è che il linguaggio degli affetti, che muo vono l'animo e lo concitano per modo che più le cose non appariscono quali in realtà sono, ma quali le dipinge l'amore, l'odio, il timore, il dolore, o l'illusione del piace re. «A chi ama, a chi odia, o a chi è sde gnato (dice Aristotele), e a chi è con ani mo quieto, simili non appariscono le stesse cose; ma o affatto diverse, o differenti in grandezza ». (Rhetor. lib. II. cap. I.). Di qua segue, che lo straordinario, il maraviglioso e il sovrumano ha sempre somministrato figure e immagini alla poe sia. Presso gli antichi, la mitologia era un de principali luoghi dal quale i poeti le attignevano; presso i moderni, il ma raviglioso eroico, ed oggidì il romantico, è sottentrato al mitologico del paganesimo. V. Romantico, e Romanzo. Del resto, la parte più bella delle im magini poetiche è stata sempre tolta dalla imitazione della natura, o dalla stessa vi vacità delle passioni e degli affetti. Di quanti belli esempi d'immagini vive, delicate, forti, terribili, suscitate da una delle divisate passioni, o da altri ad esse affini, non sono pieni i poeti classici d'ogni lingua? Di qual delicatezza non è l'im magine del bello, di Laura, che l'amore detta al Petrarca? In qual parte del cielo, in quale idea Era l'esempio, onde Natura tolse Quel bel viso leggiadro, in ch'Ella volse Mostrar quaggiù, quanto lassù potea. (Son. 126 P. I.). Similmente di qual forza non sono le immagini dello sdegno, nel quale descrive Virgilio i dei, intenti a rovesciare le mura di Troja? Divom inclementia, divom IIas evertit opes, sternit gue a culmine Trojan Hic, ubi disfectas moles, avolsaque saris Sara vides, mia toque undantem pulvere fumum Neptunus muros, magnogue emota tridenti Fundamenta quatit, totamque a sedibus urbem Eruit (AENEID. lib. II. v. 6o3 e seg. ). - 510 - Della stessa vivezza è l'invettiva, nella quale il Dio del mare prorompe allorchè mettendo il capo fuori del liquido regno, accorgesi della sua sprezzata autorità? Tantane vos generis tenui fiducia vestri? Tam Coelum terramque meo sine numine venti Miscere, et tantas audetis tollere moles? Cuos ego. Sed motos praestat componere fluctus. - - a Al quale ritratto può essere ben para gonato il terribile tumulto dell'inferno de scritto dal Tasso, nel quarto canto della Gerusalemme liberata. Chiama gli abitator dell'ombre eterne Il rauco suon della tartarea tromba Treman le spaziose atre caverne E l'aer cieco a quel romor rimbomba. Nè si stridendo mai dalle superne Regioni del Cielo il folgor piomba - , Nè si scossa giammai trema la terra Quando i vapori in sen gravida serra. Siccome pure non può farsi un ritratto del timore più elegante di quel che lo stesso poeta fece in Erminia: - - - Nè più governa il fren la man tremante E mezza quasi par tra viva e morta - - - - - - - - Ella pur fugge, e timida e smarrita Non si volge a mirar s'anco è seguita, Fuggi tutta la notte e tutto il giorno Errò senza consiglio e senza guida, Non udendo, o vedendo altro d'intorno Che le lagrime sue, che le sue strida. Ma nell'ora che 'l sol dal carro adorno º Scioglie i corsieri, e in grembo al mar s'annida Giunse del bel Giordano alle chiare acque , E scese in riva al fiume, e qui si giacque , (Canto VII. ). Correremmo dietro all'infinito ed empie remmo questo articolo di luoghi di poeti, che tutti han per le mani, se volessimo dimostrare con esempi, come la poesia abbellisce col colori delle immagini il ri tratto di tutte le passioni, e prende da quelle i suoi ornati. D'altra parte cotesta verità è una di quelle, che basta ricor dare, per essere riconosciuta anche da coloro i quali l'hanno teoreticamente con traddetta. Il linguaggio poetico è un parlar figurato: sue figure sono le immagini, delle quali si vale per esprimere gli affetti, e per adornarne l'espressione: il ritmo stesso, da cui è circoscritto, gli è dato per innalzarlo al di sopra della comune misura del sentimento: le immagini e le figure sono il mezzo per lo quale esso trasporta l'animo in un'altra sfera, in quella cioè delle passioni esaltate: coteste linguaggio, dal ritmo in fuori, non dife ferisce dall'oratorio, se non per lo diverso grado di emozione che convien dare agli affetti, quando parlasi alla ragione, o quando vuolsi concitare l'immaginazione: la misura di tal gradazione sta nel verista mile, che è norma e guida, così della fine zione come della imitazione. V. queste voci, a - º i PoErA (orit.), chi possiede l'arte di de serivere e di muovere gli affetti con poes tico linguaggio. - is Poerica (erit.), arte che dà le regole e i precetti, propri alla composizione di ogni perfetto poema. - a Quest'arte è la maestra dello stile poe tico, siccome la retorica l'è della orato ria, ma sì l'una che l'altra sono nate dopo i grandi maestri della eloquenza e della poesia. La sperienza ha ridotto in regole i modelli del bello, del conveniente e del sublime, che dato aveva il natural ingegno dell'uomo. Molti sono stati gli scrittori di arte poe tica, cominciando da Aristotele, il quale trattò de due sommi generi che compren dono tutta la poesia, cioè la rappresenta zione d'un'azione, e la narrazione d'un fatto, il dramma e l'epopea; e derivar fece la poesia dal natural pendio che l'uo» mo ha per la imitazione: della elocuzione e delle altre condizioni d'ogni poema pare lò per incidenti, e da retore più che da poeta, Da retori parlò pure lo stuolo di tutti gli spositori e comentatori della poetica aristotelica. Orazio attinse i pre celti dell'arte poetica dal suo proprio ge nio, più che dagli esempi degli altri. Tre sono i principali requisiti, che secondo lui formano il poeta: la scelta del sugº getto: la perfetta imitazione: il linguag: gio conveniente alla qualità dell'argomento, E quì congiungendo il linguaggio poetico colla origine della poesia, dimostrò esser dovuti a quest'arte i primi semi della cie viltà, che ridussero gli uomini da boschi nelle città ; e poeta essere stato Orféo il quale distolse gli uomini dal sangue e dal ferino pasto; poeta, Anſione che edificò le mura di Tebe ; poeti, i primi teologi della antichità, e da poeti essere state date le prime leggi, le quali insegnarono a rispettare la santità dell'imeneo, e apri rono all'uomo il cammin della vita. Tutti questi prodigi dell'arte nacquero dalla ma gica forza del canto depoeti, i quali non solamente ammollivano gli animi, ma ren devano mansuete le fiere, e mobili i sassi; dal che apparisce manifesto, avere Ora zio riposto la forza e l'incantesimo della poesia nel suo animato linguaggio. Con chiude Orazio il suo trattato colla divol gata quistione, se la natura, o l'arte formi il poeta, al che risponde - - - - - - a . . . Nec studium sine divite vena Nec rude quid prosit video ingenium: alterius sic Altera poscit opem res, et conſurat amice º Boileau, avendo colto i più bei fiori di Orazio, diede all'arte poetica una forma più istruttiva; dacchè discese a precetti propri di ciascun genere di poema, e tem lerolli con tal senso di verità e di critica, che rendette il suo libro una scuola di cri terio e di gusto; quantunque i suoi giu dizi intorno ad alcuno del moderni poeti, non sempre sieno stati scevri di passione e forse ancora di meschina invidia di ma zionalità, non degna di quel severo inge gno. Di rincontro a cotesti tre luminari maestri dell'arte poetica, possono essere taciuti i nomi di molti altri, sebbene ele ganti scrittori, come il Vida, il Patrizi, il Muzio, il Segni, ed altri, perchè non è nostro intento tessere la storia di que st'arte, ma soltanto additarne lo scopo e l'utilità, al che bastano le cose sin qua accennate. PoLARITÀ (spec.), proprietà della cala mita di attrarre per mezzo de' suoi poli il ferro con una forza e con una direzione dell'un polo, contraria all'altro. V. Ma gnete, Poli - PoL1 (spec.), i due termini dell'asse della terra, i quali non partecipano del suo moto di rotazione, appunto perchè si tuati all'estremità di quella linea, intorno alla quale il moto si esegue. De poli uno denominasi boreale o set. tentrionale, l'altro australe o meridio nale. Cotesti punti, pe quali passano tutti i cerchi meridiani distano dall'equatore per un quarto della circonferenza, o sia per 9o gradi dell'antica divisione e per 1oo della nuova; il perchè dicesi essere questi anche i poli dell'equatore. ll moto diurno apparente degli astri, prodotto dal moto della terra, sembra in ciascuno dei - 512 - due emisferi, che avvenga ancora intorno ad un punto del cielo, situato nel prolun gamento dell'asse della terra. Son questi i due punti che chiamansi poli celesti, e a quali dansi le stesse denominazioni dei terrestri: intorno a medesimi supponevano gli antichi, che si volgessero le sfere. Quel lo che corrisponde al nostro emisfero, è contrassegnato da una stella di seconda grandezza, che non è da esso distante se non per meno di due gradi, e però vien detta stella polare, laddove l'opposto polo non ha a se vicina alcuna bella o notabile stella, il perchè viene, indicato per la co stellazione più brillante che gli sia vicina la croce del sud, la quale è da esso lon tana per circa trenta gradi. I poli terrestri essendo situati nelle zone glaciali, sono stati insino ad ora inaccessi bili. Dalla parte del settentrione i naviga tori son penetrati insino all'ottantunesimo grado di latitudine, vale a dire alla di stanza di nove gradi, o di 54o miglia ita liane dal polo. Nell'emisfero australe poi non hanno essi potuto oltrepassare il settan tottesimo grado. E però di entrambi igno rasi, se i poli del nostro pianeta sieno si tuati in terra o in mare. Siccome i poli terrestri hanno per oriz zonte razionale l'equatore; così godono della presenza del sole per tutto il tempo in cui questo astro dimora nel rispettivo loro emisfero, e ne restan privi quando passa nell'altro. Questa è la ragione della durata di sei mesi di giorno, e di altret tanti di notte, che hanno le regioni site sotto i poli. I cerchi polari, i quali ab bracciano le zone glaciali, son formati da quei punti della superficie della terra, che nella sua rivoluzione diurna corrispon dono a piombo sotto i poli dell'ecclittica e de quali la distanza da poli dell'equa tore, è per conseguente eguale all'arco che misura l'obliquità della ecclittica cioè di 23 gradi e mezzo, il che corrisponde a 66 gradi e mezzo di latitudine. V. Eo clittica, Equatore, Latitudine, Zona. Poli della calamila, chiamansi quei punti, ov'ella esercita la sua maggiore virtù detta magnetica. V. Magnete, Po larità. Poli de raggi della luce. V, Luce. PoLIPo (spec.), nome dato oggi dai naturalisti a certe spezie di zoofiti, o piante animali, che vivono, parte nelle acque dolci, parte nel mare, e che si moltiplicano sviluppando dal corpo loro novelli polipi, a somiglianza del germo glio del bottoni delle piante. È una delle spezie, nelle quali è fondata la dottrina della generazione solitaria, o anomala; anche per la singolare proprietà che han talune delle cennate spezie, cioè che le parti da essi recise trasmutansi in polipi interi, proprietà per altro comune a molte spezie di vermi e d'infusori. I polipi in somma o i zoofiti, formano quel la classe di Esseri organici, che la natura ha messo a confine tra gli animali e le piante, e che giova a parte contemplare; così per ammirare l'immensa gradazione degli Esseri viventi, come per distinguere, se sia possibile i confini che separano la vita puramente vegetativa dalla sensitiva. V. Generazione, Infusorio, Seminale. ASostanza, Zoofto, PoLEMICA (erit.), discettazione nella qua le dibattesi con contrari argomenti una qualche controversia. Fu da prima questo vocabolo consacrato ad esprimere quella parte della Teologia dogmatica che tratta delle controversie, i - - 515 - e che risponde alle difficoltà fatte dagli eretici. Ora si applica ad ogni materia di battuta con opposte argomentazioni. PoLIANTEA (crit.), collezione di luoghi co muni, disposti per ordine alfabetico, utile sopratutto agli oratori, e a falsi eruditi. È del genere delle antologie o florilegi. V. queste voci. PoLIGRAFIA (crit.), l'arte di scrivere in varie sorte di cifre, e di deciferarle. È diversa dalla criptografia, e dalla stenografia. V. queste voci. PoLIMAzIA (grec. sup.), moltiplice istru zione nelle arti, nelle lettere, o nelle scienze. PoLITECNIco (spec.), aggiunto d'inse gnamento o di scuola, destinata alla istru zione della gioventù in più scienze o arti necessarie all'esercizio d'una professione, In un senso speciale è usato per un corso compiuto di scienze ed arti militari. º --- - PoLITEzzA. V. Pulitezza. PoLITICA (crit.), parte della filosofia pratica, la quale versa circa i principi del reggimento de popoli, e delle civili società. La filosofia pratica, o morale, risguarda gl'individui; mentrechè la politica, pro priamente detta, concerne un ente compo sto, o sia un Essere collettivo, qual è la città o lo stato. Dalla differenza del sub bietto nasce la difficoltà e la complicazione della seconda per rispetto alla prima. La politica attigne le sue verità generali dalla morale, ma coteste verità trasportate ad una persona fittizia, qual'è la società ci vile, non trovando il fondamento del l'obligazion morale, non possono sopra di quella esercitare l'influenza che esercitano sopra l'individuo, e per conseguente per dono molto della forza ed efficacia loro. Laonde i principi e le regole della filosofia morale sono applicabili alla politica, ser vate non pertanto le differenze che nascono dalla natura del subbietto. V. Obligazione V'ha un'altra sorgente di regole e di principi, i quali forman parte della scienza politica, e sono attinti dall'interesse o sia dalla utilità del medesimo subbietto. A sif fatte regole molti han dubitato, se potesse darsi la qualità di scientifiche, essendochè son relative e mutabili, come l'interesse e le opinioni degli uomini. Ma anche le cose contingenti e mutabili son soggette all'im perio della sperienza, la quale sceglie l'utile, e rifiuta il dannoso, e raccoglie il con senso non solo degli uomini presenti, ma anche depassati. Meglio dunque è dire, che la seconda fonte del principi della politica è la sperienza, la quale supplisce appunto a quello, in che cessa l'efficacia e la forza della filosofia morale. E se dalla sperienza possano ricavarsi verità generali, la poli tica è di quelle scienze, delle quali il com plesso forma la prudenza o sapienza civile. I filosofi speculativi, che hanno trattato del reggimento civile han dato nell'utopia, a cominciar da Platone. Aristotele consi derò la politica così nel diritto, come nel fatto, avendo distinto due spezie di scien za: una che prefiggesi la scelta della forma migliore: l'altra che detta le regole più coerenti ad una forma già scelta. La spe rienza dimostra che sia vano, in tanta difformità di costumi di passioni e di opi mioni, il disputar dell'ottimo assoluto; e però la prima scienza è affatto degna degli utopisti; la seconda, degli uomini d'una ra gione matura e temperata dalla sperienza. 40 - 514 - Ma limitando la politica alle sole regole conservatrici di qualsivoglia forma, non decaderà per questo stesso dall'onore e dal nome di scienza ? Le viziose forme, le odiose arti della tirannide, e della popo lare licenza, entrerebbero a far parte dei suoi principi e delle sue verità generali? L'obbiezione sarebbe solida, se si desse il nome di forma ad ogni spezie di reg gimento, comechè tendesse a dissolvere, e non a convalidare i legami della civile associazione. Ma se si presuppone, come implicita la condizione, che la forma ci vile debba essere per sua natura custode delle obligazioni imposte dalla legge na turale, e conservatrice del fine stesso della società; è manifesto che le diverse forme ricevute dalle culte nazioni variar possano solamente intorno agli accidenti, o sia circa i mezzi da procurare il bene, che è il volo comune di tutte. - E penetrando più addentro nella origine delle società civili, ogni occhio contem platore scoprirà di leggieri un altro prin cipio della ragione umana, nel quale può dirsi che sia veramente riposto il segreto vincolo della formazione loro. La ragione singolare governa l'individuo, mentrechè la legge regge le masse. La legge non è altro, se non la ragione astratta, o sia l'intelligenza, spogliata da ogni inte resse individuale. Cotesta ragione univer sale è quella che lega le masse alla vo lontà degl'individui; che vince ed annulla la forza delle masse stesse, e la riconcen tra nelle persone de capi e del rappresen tanti loro. Prende ella altresì la denomi nazione d'interesse publico, la quale al tro non importa se non il comun fine del bene: a questo fine serve di mezzo il po tere, di cui i capi delle nazioni son rive stiti. Uno dunque è il principio costitutivo d'ogni civil reggimento, il pubblico, o sia il comune interesse: due sono i carat teri discernitivi della regolarità della for ma, e della forza ed energia de suoi mez zi: 1.º che il comun bene sia il fine di tutte le leggi, 2.º che il potere sia l'in terprete fedele della volontà e del fine del le leggi. V. Interesse, Legge. e La politica adopera l'aritmetica per cal colare la sua forza, i suoi bisogni, l'opu lenza, o i bisogni così della propria, come delle altre nazioni, onde conoscere i mezzi per accrescere la ricchezza e la potenza propria, per rimuovere gli ostacoli che si oppongono al suo incremento, o per difen derla dalle altrui aggressioni. Cotesto ge nere di calcoli prende il nome di aritme tica politica. Suoi subbietti sono i rapporti della terra, e di ogni altro elemento di ricchezza al numero degli abitanti; delle rendite alle pubbliche imposte; della po polazione alla forza publica; della vitalità e mortalità alle cause naturali, accidentali o locali; delle produzioni del suolo al com mercio interno o esterno; del numerario a bisogni della circolazione; della moneta alla sua qualità. Le verità poi che da tali calcoli si ricavano, insieme colle regole per bene applicarle a bisogni della società civile, formano quell' altra scienza che chiamasi economia politica. V. Economia. º - - PoLLINE (spec.), polvere tenuissima con tenuta nelle antere delle piante, la quale è il serbatoio della loro sostanza seminale. Il polline trovasi in tutte le spezie, nelle quali il concorso de due organi sessuali è necessario alla loro fecondazione. È com posto d'una innumerabile moltitudine di corpuscoli organici, ordinariamente gialli, e talvolta bianchi, turchini, rossi, violet ti, verdastri, i quali formano una minu -- 515 - tissima polvere. Per bene osservargli uopo è mettergli sull'acqua, l'umidità della quale li dilata, e li fa apparire nella vera loro forma. Ma l'acqua stessa li gonfia e gli i apre per modo, che da tali aperture sca turisce una materia liquida, la quale si spande per la superficie dell'acqua a guisa d'una nebula oleosa, di maggiore o mi mor densità, secondo la diversa natura e delle piante. Le analisi de fitotomi non han potuto sinora somministrare, se non sem plici congetture intorno all'organica strut tura decennati corpuscoli, perchè la estre ma loro picciolezza ne rende impossibile la sezione. Ciò non ostante ve n'ha di quelli, ne quali i granelli del polline la sciano vedere a traverso del minuto e tra sparente loro epiderme un tessuto cellulare, il quale apparentemente forma la parte principale del loro organismo. Il polline di molti vegetabili brucia con una luce viva, quando vien gettato sopra un corpo infiammato; e dà inoltre per l'analisi chimica molto acido fosforico; il che stabilisce una notabile correlazione tra questa polvere, e la sostanza semifera animale. Cotesta analogia diviene anche maggiore, e sorprendente per la somi glianza dell'odore che tramanda il polline di molti alberi ed arboscelli al tempo della loro fecondazione, come quello del casta gno selvatico, dell'alianto, del crespino, delle palme, dell'acacia e forse di tutte le piante conifere. (V. il dizionario delle scienze naturali). i - . - º PoLMONE (spec.), ampio viscere, in due parti diviso, il quale riempie in massima parte la cavità del petto, di sostanza mem branosa, composta d'innumerevoli celle o vescichette, formato dalla natura per essere l'organo della respirazione. V. questa voce. Le due parti del polmone, dette pol mone destro e sinistro, son dalla parte su periore connesse colle fauci per mezzo della trachea, e son rivestite da una ripiegatura della membrana sierosa, la pleura, quel la stessa che intonaca le pareti interne del torace, ed è conosciuto sotto il nome di pleura costale, per distinguerla dalla veste esterna del polmoni, denominata pleura polmonare. a Il polmone destro è diviso dal sinistro per lo mediastino, o sia per quel panni colo che divide il petto per lungo, e cia scun de'due è suddiviso in lobi minori per mezzo di talune fenditure scorrenti dall'orlo anteriore al posteriore. L'intera sostanze de polmoni è composta di un parenchima, - nel quale dividonsi e suddividonsi i se guenti vasi: 1.º i bronchi, che ramifican dosi a guisa d'un albero, vanno a ter minare nelle vescichette aeree: 2.° le ar terie e le vene polmonari. 3.º le arteri e le vene proprie di questo viscere, dette bronchiali. 4.º i nervi e i vasi linfatici. Le arterie e le vene polmonari diconsi vasi comuni, perchè fan passare per lo polmone il sangue di tutto il corpo, onde coll'opera della respirazione da venoso di venga arterioso: le bronchiali s'indicano col nome di vasi propri, come quelli che portano a questo viscere, e ne riportano, il sangue necessario alla sua nutrizione. V. Arteria, Sangue, Vena. e 3 PoLoGRAFIA (grec. sup.), l'astronomica descrizione del cielo. V. questa voce. i . . º PoLTRo, PoLTRONE, PoLTRONERIA (prat.), qualità d'uomo vile e pigro. È più della pigrizia e della infingardag gine, perchè presuppone un abito vizio so, nascente da animo vile e degradato, ſe - 516 - - come quel de bruti. V. Infingardaggine, Pigrizia. PoNENTE. V. Occidente. PoarENro (spec.), avvenimento che non possiamo spiegare per le cause naturali Inote. Nel significato comune vale ogni cosa insolita, che arreca maraviglia. V. questa V0Ce. Posrrivo (spec. prat. e dise), quel che è, o può essere in realtà, o nella natura delle cose, o nel pensiero, o nelle azio ni, ne quali significati ha per suo con trapposto il negativo. V. Megativo. Nel linguaggio delle scuole chiamavansi positive le qualità proprie d'ogni sostanza, come il peso, la durezza ed altre simili. In Algebra chiamansi positive le quan tità maggiori del niente, in opposizione alle quantità negative o privative, che sono meno del niente. In questo senso il positivo vale anche affermativo. V. questa voce. Il positivo si contrappone anche al re lativo, il perchè termini positivi son detti quelli, i quali escludono la relazione, e dinotano la cosa qual è per se stessa. V. Relativo. Positivo chiamano ancora i gramatici il grado, o la terminazione semplice del l'aggettivo, senza alcuna comparazione, o accrescimento di superlativo. V. Aggettivo. PossA e PossanzA (spee.), vale forza, considerata nello stato di potenza, più che di azione. V. Forza. Possibile (spee. e ontol. ), quel che attualmente non esiste, ma è nell'ordine delle cose naturali. Essere nell'ordine delle cose naturali vuol dire, avere l'attitudine all'essere, ovvero il non involvere alcuna contraddizione che una cosa sia. Queste sono due definizioni, una affermativa, l'altra negativa, le quali esprimono la medesima idea. La seconda è il contrapposto dell'impossibile. V. que Sta voce. -- Noi acquistiamo la nozione del possibile da quella della esistenza, senza della quale non potremmo concepirla. Possiamo anzi considerarla come formata per astrazione dalla nozione universale della esistenza, o come una deduzione immediata della medesima. Ben disse Leibnizio, che le idee dell'essere e del possibile son connaturali all'animo, e son delle prime, che l'atten zione e la riflessione sviluppano in noi. Ora un concetto così facile e connatu rale alla mente fu ottenebrato, prima dalle definizioni, e indi dalle scolastiche distin zioni. Taluni definirono il possibile per quello, cui corrisponde una qualche no zione; altri, per quello, che si può dalla mente chiaramente e distintamente con cepire; altri, per quello che può la mente semplicemente concepire. Gli ontologisti poi, e tra questi Wolfio, dalla definizione dell'ente, che dissero essere quel che può esistere, dedussero, che l'astratta nozione del possibile è un ente, e come tale ca pace di qualità, di modi, e di perfezioni. Di qua nasce, che l'esistenza fu definita come il compimento del possibile, e con siderata come una perſezione dell'ente pos sibile. V. Esistenza. Non contenti di disputare delle defini zioni, gli scolastici distinsero il possibile di esistenza dal possibile di natura, e suddivisero il primo in tre altre spezie su balterne: il futuro, il potenziale, e il mero possibile, dissero futuro quel pos - 517 - sibile, di cui l'esistenza è già determinata dall'ordine immutabile della creazione: potenziale, quello che è contenuto nella sua causa, come l'albero nel seme, e il frutto nell'albero: mero possibile quello di cui l'esistenza non involve contraddizio ne, comechè non sarà per esistere. Suddi “visero poi il possibile di natura in metafi sico, fisico, e morale. Metafisico dicevan quello, che non può passare all'essere, se non per una causa soprannaturale: fisico, quel che non ripugna al naturale ordine delle cose: morale, quel che può nascere da una giusta e prudente determinazione della volontà. - Lasciamo tutte le cennate definizioni e distinzioni agli ontologisti e a casisti, e riteniamo per l'uso della sana filosofia il semplice e naturale concetto del possibile, dato da Leibnizio. Vuolsi soltanto aggiu gnere, che l'idea del possibile circoscritto dall'ordine delle cose naturali, racchiude un infinito relativo, o sia un che d'indefi nito. Trasportata di poi al di là della sfera delle cose create, e riferendo il possibile all'onnipotenza dell'Ente supremo, si con fonde coll'infinito assoluto. V. Indefinito, Infinito. PossmILITÀ (spee. e ontol.), l'attitudine all'essere, o sia il possibile, considerato come natura d'una cosa che attualmente non esiste. Quantunque questo vocabolo non rac chiuda una idea diversa dal possibile, di cui è derivato, pure gli ontologisti, e tra essi anche Wolfio, non mancarono di de finirla, e di dedurne molti frivoli teoremi, come i seguenti: la nuda possibilità non è sufficiente a determinare l'esistenza: oltre la possibilità è necessaria qualche altra cosa per dare l'esistenza e l'esi stenza è il compimento della possibilità, ed altri simili. V. Possibile. PosTERIORE (spec. e dise.), termine di relazione ad altra cosa che precede nell'or dine del tempo, del luogo, o della causa. Nel senso della relazione dell'effetto alla causa, si è chiamata da logici a posteriori la dimostrazione, che procede dagli effetti - - - - alle cause. Tali sono le dimostrazioni fon date nella esperienza, per la quale dalla conoscenza del particolari si va al generale. Coteste dimostrazioni appartengono al me todo analitico, o induttivo, che è una delle due vie, delle quali la ragione si vale nella investigazione del vero. Convie ne sopratutto alla invenzione, e allo sco primento delle verità ignote, alle quali non si perviene se non per mezzo delle note. L'inverso metodo è quel che procede dalle cause agli effetti, e però fu deno minato a priori. V. Invenzione, Meto do, Priore. PosTULATo (spee. e dise.), proposizio ne, di cui la verità si presume conosciuta, e però si pone come fondamento d'un'al tra, che si vuol dimostrare. È termine proveniente dalla geometria, ed è proprio delle dimostrazioni, alle quali si antepongono gli assiomi e i postulati. Questi non differiscon da quelli, se non in quanto affermano o negano potersi fare una data cosa; laddove gli assiomi affer mano o negano la convenienza d'una cosa per una conseguenza immediata della de finizione della cosa stessa. Premessa la de finizione, o la cognizione della essenza del circolo, la proposizione, tutte le linee rette tirate dal centro alla circonferen za, sono eguali, è un assioma; siccome - 518 - l'altra, da un dato punto e con un dato raggio descrivasi un cerchio, è un po stulato. V. Assioma. Più ampio è il significato, che dassi a questo vocabolo nella filosofia discorsiva. Qualunque proposizione, che si domandi come concessa, o perchè nota, o perchè facile ad essere dimostrata quando fosse impugnata, è un postulato, che serve di fondamento e di grado alla dimostrazione della verità, la quale forma il suggetto del ragionamento. PorENZA (spee, e ontol.), capacità, che ogni causa ha di produrre l'azione, la quale n'è l'esercizio, siccome l'atto n'è il termine. V. Azione, Causa. La prima mozione che noi acquistiamo della potenza, ci viene dalla volontà, la quale può egualmente determinarci a pro durre, e a non produrre un'azione; dal che ricaviamo essere la volontà una po tenza attiva. Dalla stessa nozione, per immediata deduzione, ricaviamo che la potenza attiva non si trova, se non negli Esseri dotati d'intelligenza e di volontà. V. Intelligenza, Volontà, Applicando tali deduzioni, agli altri fatti contingenti, distinguiamo quelli i quali di pendono dalla nostra volontà dagli altri, di cui ignoriamo la causa efficiente. Dei primi conosciamo la causa e l'autor della causa insieme; mentrechè de secondi non conosciamo altro che l'effetto. Ma l'in duzione ci apre la strada a fare qualche altro passo nella ricerca delle cause inviº sibili da fatti visibili. Quanto alle azioni degli Esseri, partecipi della stessa nostra condizione, noi ci assicuriamo che il prin cipio di quelle è nella loro volontà, dal che ricaviamo una verità generale, cioè che l'imputabilità delle azioni loro, come delle nostre dipende interamente dal buon o dal cattivo uso che tutti facciamo della volontà. Ma la nostra esistenza è un fatto, che ha la sua origine immediata nella vo lontà del nostri autori, la successione dei quali risale ad un fatto primitivo, di cui la causa efficiente dee stare nella volontà d'un Essere necessario cioè non pro dotto da altro. Essere, e capace di pro durre l'esistenza di Esseri, che potevano essere e non essere. Da questa seconda conclusione noi passiamo ad una terza più generale per rispetto alle opere della na tura ; e dapoichè in esse ravvisiamo un ordine, una simmetria, una intelligenza, ed una potenza ºperiore a quella di tutti gli Esseri creati, siamo dalla induzione guidati a riconoscere nella volontà dello stesso Ente necessario la causa efficiente dell'universo. In somma formiamo in noi stessi la nozione chiara della potenza at tiva, e ne facciamo la dimostrazione per la regola, che gli effetti naturali dello stesso genere debbono essere prodotti dalle medesime cause. V. Causa, Cau salità, - - . La nozione della potenza attiva, desunta dall'esercizio della volontà, è sì conna turale alla ragione, che la veggiamo na scere insieme colle lingue, nelle quali i verbi attivi son distinti da passivi, siccome l'agente lo è dal paziente; segno mani festo, che è questa una di quelle illumi nazioni naturali, che sono attestate dal senso universale della umanità. A questo senso contraddissero quegli scettici, i quali negarono la realità delle cause e della po tenza, perchè non potevano travarla col ragionamento a priori, nè per la sperienza de'sensi esteriori, V. Azione, Causa. - s. Le scuole han dato al vocabolo potenza un significato più generico e più indeterº minato insieme; il che ha prodotto molte vaghe e confuse, nozioni. Aristotele consi derò come potenza la virtù di operare il cangiamento, del pari che quella di rice verlo o sopportarlo; e la distinse in attiva e passiva, in razionale e irrazionale, Suoi teoremi sono : « la polenza è perma mente nelle cose, comechè non sia ridotta in esercizio: ogni cosa possibile presuppone la potenza, e per contrario non si dà po tenza delle impossibili : le polenze, razio nali o meccaniche che sieno, sono o na turali o acquisite». La dottrina aristote lica della potenza passò nella moderna filo sofia, e diede luogo alla promiscua deno minazione di potenza e di facoltà per ri spetto agli attributi dell'anima. Dalla stessa origine nacque la nozione dell'attivo e del passivo nelle ſorze, e nelle stesse facoltà intellettive. i Giova ora restituire a questo vocabolo il suo significato proprio, limitandolo al l'azione, di cui è la sorgente. V. Facoltà, Porza, - e º si i lºrº a a º e PoTENZIALE ( spec. e ontol, ), virtù o forza inerente in un subbietto, di produrre un qualche effetto, comechè attualmente mol produca - , ontri a era i In altri termini, è la potenza conside rara come qualità del subbietto, cui è ine rente. In questo senso, diciamo calore e freddo potenziale, e con tali espressioni intendiamo che un corpo, sebbene non - , sia caldo o freddo al tatto, pure ha virtù di eccitare l'una o l'altra sensazione inter namente, o quando sia messo in contatto o in combinazione con altra sostanza. . Il potenziale si confonde col virtuale, quando ambo questi nomi si riferiscano alla capacità della causa, o alla possibi lità dell'effetto. V. Virtuale. as o o i PorERE (spec. e ontol.), virtù dell'ope Fante. Una talvirtù va considerata diversamente ne vari subbietti, ne quali risiede. L'uomo trova in se stesso la nozione del potere, dapoichè la ricava dall'esercizio della sua volontà. Potendo ciascuno volere, deli berare, risolvere, eseguire, e produrre l'azione, sente esser questa una virtù ine rente alla propria costituzione. Una tal no zione dunque non ci viene da sensi ester ni, ma dall'interno senso della propria natura. Da noi stessi la trasportiamo fuori di noi, e la ravvisiamo nel nostri simili, me quali scorgiamo la medesima virtù ope rativa; ed estendendola di poi alle altre cose contingenti, siccome siam certi che tutto quel che ha cominciato ad esistere, de essere stato prodotto da una volontà libera ed intelligente, così congiugniamo la nozione del potere con quella della vo lontà. In fine per la stessa sealagiugniamo al poter supremo, da cui derivano tutti i poteri particolari. V. Volontà. Il potere, considerato come una pro prietà degli Esseri intelligenti, è il prin cipio di quel che in essi dicesi potenza attiva. V. Potenza, e Considerato poi genericamente, come la virtù che ogni causa ha di produrre un effetto, è la nozione la quale ci guida alla scoverta del grande principio della causa lità. V. Causalità, Principio, i º - - - PovERrà (prat.), scarsezza o mancanza delle cose necessarie al sostentamento del la vita. o º I La povertà è la condizione naturale dell'uomo, il quale nasce circondato da bisogni, che non può per se stesso sod - irº -, - - - - - - - a - - . ' . disfare. Cotesti bisogni lo costituiscono nel l'altrui dipendenza, sì ch'egli nel primo - 520 - stadio della vita non assicura l'esistenza, se non per le cure del genitori, e in man canza di costoro per gli aiuti degli altri uomini, a quali la natura ha ispirato la pietà pe fanciulli. A questo primo stato succede quello della debolezza delle membra incapaci di sostenere la fatica; dipoi l'altro della ine spertezza della età e della ignoranza, ed indi lo stato permanente, quello cioè del la necessità del lavoro. Siccome la natura non ha presentato all'uomo spontanei gli alimenti, e lo ha messo nella condizione di dovergli procacciare colla fatica; così è manifesto, essere la povertà una condi zione naturale, dalla quale non si esce, se non per lo concorso della propria opera. A differenza degli altri animali, non so lamente dee l'uomo impiegare l'opera per assicurarsi gli alimenti, ma conosce e teme la differenza tra l'agiatezza ed il bisogno, o sia tra la povertà e la ricchezza. Nulla manca a pesci e agli uccelli: nulla a qua drupedi che vivono nel campi: nulla alle fiere nella solitudine. Donde tal differen za, e perchè l'uomo padrone della terra e degli animali, è incessantemente agitato dalla sollecitudine e dal timore di mancare del necessario? D'onde la disuguaglianza tra quelli che ne abbondano, e gli altri che ne mancano? Conveniva alla condi zione morale dell'uomo, ch'egli conoscesse i suoi veri bisogni, e la misura di soddis fargli. Cotesta misura risguarda se stesso, e gli altri. V. Bisogno, Fatica. Quanto a se medesimo, pochi sarebbero i suoi bisogni, se egli sapesse comporgli alle indicazioni della natura, o sia della ragione, e se trasportar non si facesse da quelli che crea l'opinione. Bello è il detto di Epicuro, riportato da Seneca: Si ad naturam vives, numquam eris pauper, si ad opinionem, numquam dives: exi. guum natura desiderat, opinio immen sum, detto riportato da Catone: a te mu tuum sumes; quantulumcumque est, sa tis erit.; nihil enim interest, utrum non desideres, aut habeas. (Epist. XVI.). Quanto agli altri, la natura ha creato l'uomo bisognoso e dipendente, per invi tarlo alla comunione e alla reciprocazione cosimili suoi; e per vincolo di tal comu nione gli ha ispirato il sentimento della be nevolenza, la quale ci addita l'uso che far dobbiamo delle cose superflue in favor dei bisognosi. La povertà, o si consideri come prodotta dalla naturale disuguaglianza delle forze e della capacità degl'individui; ov vero come cagionata dalle difettuosità del l'ordine civile, rappresenta la parte dei beni della natura, che trovansi fuori delle mani di quelli, a quali apparterrebbero. L'ordine civile sopratutto, che strigne e non iscioglie i legami naturali, ha il de bito di fare sparire la povertà, sia aprendo nuove vie alla fatica, sia nutrendo quelli, che per infermità o per età, non possono provvedere a propri bisogni. Per la stessa ragione gl'individui hanno nello stato ci vile un dover maggiore di quel che avreb bono nell'ordine delle cose naturali. Tra costoro l'uso delle ricchezze distingue l'uo mo virtuoso e sapiente dallo stolto: quegli corre in cerca dell'altrui bisogno per ri storarlo ed estinguerlo: questi si reputa un Essere privilegiato della natura, e guarda il povero come una creatura degenere, che nulla ha con se di comune: lo stolto ricco, tamquam aliquie aeternam pos sessionem divitiarum promiserit, assue seit illis et cohaeret; il sapiente, tune maxime paupertatem meditatur, cum in medits divitiis constituit (Sen. de vita beata c. 26). I mali dunque che derivano – 521 – dalla povertà, sono imputabili non alla natura, ma all'uomo. Dal diverso uso che questi fa del suo superfluo, possono nascere, o vincoli di unione e di amore, o germi di avversione e di rivalità: di amore, se l'uom dovizioso riconosce il na tural debito che ha di riversare quel che gli avanza al sostentamento del povero: di avversione, se l'interesse o la propria uti lità serva di misura alla liberalità, la quale cessa di meritare un tal nome, quando i soccorsi che dispensa, sieno comprati a spese delle forze e della vita del benefi cato. Dalla vera liberalità nasce il dovere della gratitudine; dalla falsa, i sordi ed invincibili odi tra il padrone e lo schiavo, e tra l'oppressore e l'oppresso. V. Grati tudine, Liberalità. PRAVITÀ e PRAvo (prat.), malvagità o vizio che ha in se del deforme. - È contrapposto del retto e del regolare. Gl'italiani adoprano questi vocaboli nel senso morale. Presso i latini il significato proprio era la deformità delle membra, la quale per un senso traslato applicavasi alle deformità dell'animo. PRECETTo (prat.), regola d'insegna mento, istruzione, o avviso di persona autorevole. - È proprio delle regole della filosofia spe culativa, pratica e discorsiva. E la norma che comandamento ci viene dalla dellaragione, legge. diversan dal PRECIPITANZA (prat.), impeto nel deli berare, senza dare giusto luogo alla ri flessione. - PRECISIONE e PRECIso(spec. dise. eprat.), esattezza di ragionamento, di calcolo o di - r--- - sº -- Li C - espressioni, per trovare, dimostrare, o spiegare una verità, o per adattare una verità generale ad un caso particolare. La precisione aggiugne al concetto del l'esattezza anche la convenienza di tutte le al tre relazioni particolari al subbietto del pen siero, della parola, o dell'azione.V. Esatto. PREcoNoscENZA. V. Prescienza. PREcoGITARE (spec.), sinonimo di an tipensare, che ci viene dal latino. V. An tipensare. º - PREDICABILE (disc.), relazione della qua lità al suo subbietto. È termine scolastico nato da una par tizione logica, per la quale i peripatetici ordinarono sotto cinque classi tutte le re lazioni del subbietti a predicati loro. Tali classi sono, il genere, la spezie, il pro prio, la differenza, l'accidente. V. que ste voci. Cotesto ordinamento è imperfetto, per chè l'enumerazione non comprende tutte le diverse spezie di relazioni tra predicato e subbietto. Aristotele, ne topici, comprese i predicabili in quattro classi, avendo unito in una il proprio e l'accidente. L'esempio di ciascuna delle dinotate classi può ricavarsi dalla figura del trian golo, la quale in quanto si considera for-. mata da tre linee, dà l'idea del genere, di cui il triangolo rettangolo è una spe zie. Le proprietà poi che distinguon questo da quello formano il proprio e la differenza. Locke credette potere ricavare dalla con venienza o disconvenienza delle idee quat tro predicabili più universali degli aristo telici, cioè l'identità e la diversità, la relazione, la coesistenza, e l'esistenza reale. Vuolsi notare, che niuna di queste 41 I a - -, vº,: - – 522 – operazioni è compresa negli antichi pre dicabili. Hume ridusse i predicabili a seguenti: alla rassomiglianza, alla identità, alla relazione di spazio o di tempo, alla re lazione di quantità e di numero, a gradi di qualità, alla contrarietà ed alla cau salità. E quì giova anche notare, che da tal partizione restan fuori tutti i predica bili degli aristotelici, e due di quelli di Locke. - Circa l'utilità di queste e di altre par tizioni, V. Logica. - I predicabili, del pari che i predicati, perchè comuni a più individui, furon detti universali.V. Individuo, Predicato, Uni versale. Parmicamento (dise.), partizione logica, per la quale tutti gli obbietti dell'umana comprensione furono ordinati in dieci classi dette anche categorie. V. questa voce. PREDICATo (disc.), tutto quel che può essere affermato o negato d'un subbietto. Gli addiettivi son predicati denomi su stantivi ; e dal perchè son comuni a più individui furon ancora detti universali. V. Universale. PREDILEzioNE e PREDILIGERE (prat.), l'amare con preferenza, o l'amare grande mente una cosa, o una persona.V.Amare. PREESISTENZAePREESISTERE (spec.eontol.), l'esistere prima d'un'altra cosa, o d'un al tro. Essere. E vocabolo scientifico, spesso adoperato per esprimere le opinioni degli antichi in torno alla supposta esistenza anteriore della materia, o delle anime umane. V. Ani ma, Esistenza, Materia. e PREgio (prat.), conto o esistimazione, in cui tiensi una persona. È più di stima, che esprime soltanto un sentimento dovuto per merito ; men trechè questo vocabolo racchiude ancora l'idea d'un merito distinto, cui si presta una spontanea testimonianza di onore. E però si adopera anche nel senso d' orma mento, vale a dire d'un merito che ab bellisce. V. Merito. PREroRMAzione (spee.), nome dato alla dottrina di quei fisiologi, i quali sosten gono che il germe del corpi organici di una medesima spezie trovasi rinchiuso in quello degli Esseri generatori, a comin ciare dal primo Essere, da cui tutti gli altri sono stati emanati. - È il sistema, detto ancora d'incessa mento o di evoluzione, opposto alla epi genesi, o successiva formazione. V. Epi genesi, Evoluzione, Uovo. PREGIUDIZIo (spec.), prematuro, o an ticipato giudizio, formato sopra l'autorità altrui, e senza matura disamina della sua verità. Il primo scrittore italiano che adoperato abbia un tal vocabolo nel divisato senso, fu il Magalotti, ma niun altro dopo di lui ha osato d'imitarlo; il perchè gli ari starchi del purismo inarcano le ciglia, allorchè il sentono usato fuori del suo co mune significato di danno. Ma se si po tesse attendere ragione da loro decreti, domanderemmo, perchè escludere un si gnificato, che è conforme alla etimologia del nome; e perchè dicendo essi preco noscenza, prenozione, e precogitare dir non possano pregiudizio nel senso d'un giudizio innanzi tempo fatto? Ci rispon derebbero che il Magalotti fu scrittore li - 525 – cenzioso, e che l'uso è fondato nell'au torità, e non nella ragione. Non essendo noi persuasi dell'una e dell'altra risposta; anzi credendo che l'uso degrammatici non sia quello del filosofi, e che l'uso, qua lunque sia, non possa mai metter ceppi al pensiero, risguardiamo come necessario il nuovo significato. Chiamiamo dunque pre giudizi, insieme con Bacone e con Car tesio, le false opinioni, che l'autorità, l'educazione, l'abito, o una cieca cre denza sogliono in noi radicare, insin dal tempo in cui cominciamo a formare la no stra cognizione. Coleste opinioni sono al trettanti prematuri giudizi, i quali ci ten gon lontani dalla conoscenza del vero, in sino a che con più matura analisi non gli soggettiamo alla trutina della sperienza e della ragione. Il dubbio metodico è quel lo che muove la mente a diffidare d'ogni proposizione che non nasca da altra per se stessa evidente, o di cui il ragionamento non le somministri una chiara dimostrazio me. A differenza degiudizi intuitivi e de dotti, i pregiudizi formano una terza spezie di conoscenze, di cui ci rimane a saggiare la certezza: prima di tale sperimento non può la ragione prestare loro un sicuro assen timento.V. Certezza, Giudizio, Opinione. PREMEDITARE e PREMEDITAZIONE (prat.), deliberato proponimento di fare un'azione o di sopportare un avvenimento, innanzi che ne venga l'opportunità. È più dell'antipensare e del precogitare, perchè presuppone un'anticipata determi nazione della volontà. Differisce tanto dal l'uno e dall'altro, quanto il pensare dal meditare. Così, infatti, Quintiliano li di stingue: qui ad agendum nihil cogitati praemeditatique detulerit (lib. IV. cap. 5). V. Anlipensare, Precogitare. PREMESSA (dise. ), ciascuna delle due prime proposizioni del sillogismo, dalle quali cavasi la conseguenza. Gli scolastici distinguevano le premesse in eguali e disuguali e le chiamavano egua'i, quando ognuna delle due, sepa ratamente presa, non basta per inferirne la conclusione, e a questa tanto contribuisce l'una, quanto l'altra: disuguali allor chè la seconda proposizione serve soltanto per applicare la prima, nella quale è con tenuta insieme colla conseguenza, o sia quando la seconda proposizione sta alla prima, come il conseguente all'antecedente. Tra le premesse disuguali poi distingue vano la prima col nome di maggiore, e la seconda con quello di minore. Ma l'uso stesso delle scuole tolse cotali di stinzioni, e confuse sotto il nome di pre messe le due proposizioni di ogni sorta di sillogismo, categorico, ipotetico, o dis giuntivo che fosse; e designò come mag giore la prima e come minore la seconda. V. Sillogismo. Premesse in somma sono le proposizioni evidenti, le quali servono di base al ra gionamento. Lo stesso significato dassi an che fuori del sillogismo, alle cose conces se, o dette antecedentemente, dalle quali si fa discendere una conclusione qualun que. V. Conelusione. PREMIo (prat.), bene che si riporta da un'azione virtuosa. I premi si partiscono in naturali e po sitivi. Naturali diconsi quelli che necessa riamente conseguono dall'azione, e dequali il primo è l'approvazione della coscienza, o sia l'interna soddisfazione dell'anima. V. Approvazione, Coscienza. I positivi poi son quelli che i legislatori umani concedono in ricompensa d'un'azio it - 524 - ne virtuosa o utile. Cotesta spezie di premi abbraccia tanto i beni reali, quanto quelli che diconsi di opinione. V. Bene. Contrapposto del premio è la pena , la quale è capace della stessa partizione. V. Pena. PRENozoNE (spee. e dise.), nozione ante cedente, che serve di lume al conseguente. È vocabolo adoperato dal Redi. V. An tecedente, Conseguente, Mozione. I latini con questo vocabolo intesero esprimere le anticipate nozioni, che na scono dalla luce naturale della ragione, che da altri sono state dette innate , e che noi chiamiamo prime verità, o prin cipi dell'umana cognizione. Cicerone ne dà come esempio la nozione della Divinità. V. Principio, Verità. I latini per altro non fecero che traspor tare nell'idioma loro la voce greca rpo Xmlis, di cui Epicuro fu il primo che fa CGSSC US0, PREoccUPAzioNE (spec.), riferita all'ani mo, vale prevenzione, di cui dee l'intel letto spogliarsi, allorchè vuol procedere al maturo esame della verità. Esprime non pertanto una più intensa prevenzione, che resiste alla forza del ra gionamento e della dimostrazione. V. Pre venzione. - PREPosizioNE (disc.), particella indecli mabile, ed una delle otto parti della nostra favella, che premessa ad altre parti del di scorso, ne determina il caso ed il significato. In generale, le preposizioni servono ad esprimere un rapporto che congiunge l'an tecedente col conseguente, comechè per se stesse non esprimano alcun rapporto de terminato. - PRESCIENZA (teol.), attributo di Dio, per lo quale antivede le cose future. Le cose future son di due sorte: o de rivano dall'ordine delle cose esistenti, ov vero dall'ordine delle possibili: in altri termini, sono necessarie, o contingenti, e quì intendesi parlare del necessario di essenza. V. Mecessario. La mente umana concepisce facilmente la prescienza della mente divina nelle cose necessarie; dapoichè tutto l'avvenire dee scoprirsi senza velo alla mente divina, autrice delle cose e delle leggi colle quali si succedono. Inoltre giudicando noi del l' infinito per le analogie del finito, ci serviamo della limitata previsione, di cui la mente umana è dotata, come di scala per giugnere alla comprensione della pre scienza divina. In fatti potendo noi per la sola forza della nostra previsione anti vedere e determinare i fenomeni, che na sceranno dalle leggi costanti della natura a noi note; ricaviamo per manifesta in duzione, che l'Autor di tutto il creato, e la prima di tutte le cause debba necessa riamente conoscere come queste opereranno per tutta la durazione loro. V. Previsione. Il concetto della prescienza per rispetto alle cose contingenti, si presenta come più scabroso da fautori del sistema della necessità, o sia da coloro che toglier vor rebbero all'uomo la qualità di agente mo rale. Se le azioni libere e contingenti, dicesi da costoro, hanno la loro ragione sufficiente nella volontà dell'agente, o non possono essere antivedute, o se son capaci di antivedimento, son per questo stesso necessarie e non libere; e però am mettendo la prescienza, negano la libertà. V. Libertà , Mecessità. Siffatte quistioni son di quelle, che la sana filosofia dee sbandire, perchè mentre – 525 – da una parte impugnano le verità certe, esigono dall'altra una dimostrazione a prio ri, la quale ripugna alla natura del sub bietto, nel che vuolsi notare essere ordi nariamente riposto l'artifizio degli scettici. Comincian costoro dal negare le verità det tate dal senso intimo e dalla coscienza, e pretendono che si dimostri quel che è indimostrabile. Indimostrabili sono tutti gli attributi della Divinità, sebbene si fac ciano manifesti per gli effetti loro. Certo è d'altra parte, che noi abbiamo il po tere di produrre un'azione, di deliberare, di scegliere, e di determinare la nostra volontà. Ora quel che il supremo Autor della natura ha voluto che noi ignoras simo, non può mai formar argomento per negare quel che in noi stessi sentiamo. Del resto il concetto della divina pre scienza nelle cose contingenti si apre in noi per la stessa via dell'analogia, per la quale lo formiamo nelle cose necessa rie. La mente umana è pur dotata d'una previsione delle cose contingenti, o sia delle sue proprie azioni, la quale non de roga al principio della sua libertà. Noi possiamo antivedere, ed antivediamo, quel che potremo fare in date occasioni, quan do le risguardiamo come altrettanti motivi propri a determinare la nostra volontà. Che altro è l'umana prudenza, se non lo studio di comporre le azioni all'ordine dei futuri avvenimenti? E qual è il vero sag gio, se non colui che ha meglio saputo antivedere gli effetti che nasceranno dal retto uso della sua volontà? Ora qual più naturale concetto della prescienza divina, che Colui il quale ha predisposto l'ordine di tutte le cause naturali legga più avanti di noi nel futuro, e conosca dove sarà per guidarci il libero corso della nostra volontà? Ma la quistione della prescienza si an noda pure, dagli stessi fautori della neces sità, all'origine del bene e del male, nel che gli argomenti loro son simili a quello testè esposto. « Se Dio, dicon essi, anti vede tutte le azioni umane, buone o ree che sieno, perchè non impedirebbe la consu mazione del male, o perchè destinerebbe le sue creature alla infelicità e alla miseria»? Cotesto argomento apre l'adito all'empie tà, dapoichè tende o a diminuire l'onnipo tenza, o a scemare gli attributi essenziali della giustizia e della bontà di Dio; e forse ancora a rinegarne l'esistenza. Intanto il vizio dell'argomento giace nel supporre, che noi dovremmo attendere da una dimostrazione diretta la nozione della Divinità e del suoi attributi. Ma noi la sen tiamo in noi stessi, la veggiamo nell'im mensità delle sue opere, e la sperimen tiamo nella sua provvidenza. Certamente distinguiamo per una luce in noi impressa il bene dal male, amiamo l'uno ed ab borriamo l'altro, ed abbiamo in noi stessi a guardia del bene il sentimento della co scienza, che ricompensa la virtù col con tentamento dell'animo, e perseguita il vizio co rimorsi e col pentimento. Iddio dunque non ha voluto il male, e tanto non l'ha voluto, quanto ci ha cinto di ripari, per conoscerlo, per ischivarlo, e per abbando narlo. Questa è la verità di cui ci fan certi le leggi della nostra morale costituzione. Ma per qual fine siam noi costituiti nel bi vio di fuggirlo o di abbracciarlo? Cotesta quistione non appartiene alla prescienza, nè da quella dipende: appartiene sì bene alla imperfezione dell'umana natura, ed a fini riposti del suo Autore. Non è dun que l'incompatibilità della prescienza colla libertà, ma è l'orgoglio della ragione uma na, intollerante degli arcani della natura, – 526 – - che somministra alla filosofia armi per di struggere le verità conservatrici della no stra morale esistenza. V. Bene, Male. PREsENTE (spee. e dise.), la parte indi visibile del tempo, che trascorre nell'atto stesso in cui l'avvertiamo, e separa il pas sato dal futuro. V. queste voci. L'idea del tempo presente confondesi con quello dello istante e del momento, e diremmo ancora col punto geometrico, che non ha dimensioni. Non pertanto co testa indivisibile parte della durata, prende nella misura pratica del tempo un signi ficato relativo, ed è capace ancora di gra dazioni, le quali sono con diverse voci espresse da grammatici ne modi deverbi. V. Istante, Momento, Tempo. I gramatici chiaman presente quel modo de verbi, che esprime l'esistenza dell'Es sere o dell'azione relativamente al tempo in cui se ne parla; e siccome l'esistenza dell'Essere o dell'atto può riferirsi ad un tempo determinato o indeterminato; così distinguono il presente definito dall'inde finito, e suddividono il definito in tre al tre spezie subalterne, le quali entrano nel passato e nel futuro, perchè l'atto o l'Es sere di cui si parla può coincidere col tempo della parola, o può averlo prece duto, o potrà seguirlo. Di qua le distin zioni del presente definito attuale, del l'anteriore, e del posteriore. In somma chi parla e chi narra, può far presente quel che è stato o quel che sarà, ma in tali rincontri il tempo ch'essi chiaman presen te, per rispetto alla parola, si risolve in quanto alla esistenza reale del subbietto, in passato ed in futuro. Vedi i gramatici. PREsoNTUoso, PREsoNTUosITÀ, PREsoNzIoNE (prat.), amore inconsiderato di noi stessi, per lo quale giudichiamo sempre favore volmente delle qualità, o azioni nostre. È la causa dell'arroganza. V. questa voce. Ma può la esagerata opinione di noi stessi scontrarsi colla verità; o sia po trebbe darsi un uomo, che fosse giusta mente presontuoso ? La quistione va decisa per la negativa; dapoichè l'uomo presontuoso pecca in due cose, nell'estimare troppo se medesimo, e poco gli altri; i quali due sentimenti son viziosi e falsi insieme, perchè non è in noi bene naturale, che non nasca da una pre disposizione della stessa natura, comune a molti; che non si trovi più eminentemente in altri; e che non sia infetto da qual cuna delle imperfezioni, inseparabili dal l'umana condizione. Ciononostante i pre sontuosi, reputandosi figliuoli prediletti del la natura, oltre all'estimare falsamente se stessi, giudicano ancora falsamente degli altri. Per costoro non vale l'aforismo: homo sum, humani a me nihil alienum puto. - La presontuosità è un ostacolo invinci bile alla virtù, perchè preclude la strada alla conoscenza di se medesimo, e sof foca la voce della coscienza: è una preoc cupazione dell'animo, per la quale, sia ne'fatti sia ne'detti, l'uomo serve di auto rità a se stesso, e si ammira o che pensi, o che operi, o che rilegga i propri pen sieri, o che risamini le azioni sue: gli toglie infine il frutto della sperienza, che è la prima scuola della vita. V. Conoseen za, Sperienza. PRESTANTE e PRESTANZA (prat.), qualità di singolare bontà, che merita preferenza Differisce dall'eccellente, in quanto con tiene un'idea di relazione ad altre simili qualità tra loro comparate. V. Eccellente. – 527 - PRESTIGIo (spec.), illusione della mente, prodotta da pregiudizi o da false opinio ni, le quali impediscono il retto uso del giudizio. V. questa voce. I prestigi considerati come cause degli errori dell'intelletto, furono da Bacone chiamati idola, e distinti in tre classi. 1.° Quelli che nascono dalla natura uni versale, o comune a tutti gli uomini, i quali furon detti da lui idola tribus, o sieno fantasime di tribù. Tali sono la ten denza che abbiamo per l'altrui autorità, la natural disposizione a giudicare dell'ignoto dal noto, la facilità colla quale riduciamo le cause del fenomeni alle più semplici pos sibili, il genio o l'ambizione dell'invenzio ne, ec. 2.º Quelli che vengono dalla par ticolar natura di ciascun uomo, detti idola specus, o sieno fantasime di spelonca : i geometri soggettan tutto a calcolo e ami sura: gli archeologi riducon tutto all'eru dizione : gli etimologisti alle loro radici favorite, ec. 3.º Quelli che derivano dal si gnificato convenzionale di vocaboli, detti idola fori, nella quale classe entran tutti gli errori nati dall'abuso e dall'ambiguità determini, di che la filosofia intellettuale presenta i più numerosi esempi. Aggiunse Bacone alle tre dinotate sorgenti dell'errore, anche una quarta, di quelli cioè detti idola theatri, i quali son prodotti dalle false dottrine, o dalle regole di dimostrazione. Questi non pertanto sono men pericolosi, perchè meno invincibili deprecedenti: tali sono gli errori generati dallo spirito di si. stema nelle scienze, dallo spirito di setta nelle controversie dogmatiche, o da quello di parte nelle opinioni politiche. V. Errore. PRESUMERE (spec. e disc. ), prendere per vera una proposizione prima che ven ga dimostrata, È un atto anticipato del giudizio, il quale abbraccia tanto le vere, quanto le false opinioni. V. questa voce. PRESUNZIONE (spec. e disc.), proposizione cui prestiamo assentimento, per l'appa rente conformità che ha col vero. V. As sentimento. Abbraccia tutte le conseguenze che per analogia, o per similitudine ricaviamo da un fatto noto, onde desumerne una ve rità ignota. PRETERITo (spec. e diso.), latinismo, che contiene un sinonimo del passato. V, que Sta Voce. I gramatici danno un tal nome a quella parte del verbo che esprime il passato. V. Verbo, PRETESTo (prat.), velame o apparente ragione, per la quale mostriamo esserci determinati ad un'azione, mentre in realtà da tutt'altro siamo stati mossi. V. Azione. PaEvARICAZIONE (prat.), la determina zione al mal oprare, presa per seduzione o per altro inonesto motivo dettato dall'al trui volontà. PREVEDIMENToePREVIDENZA(spec. eprat.), voci che equivalgono all'antivedimento e all'antivedere, e si applicano all'acume della vista dell'animo, allorchè leggiamo ne pensieri altrui, più innanzi di quel che essi dicono, o vediamo le future con seguenze d'un fatto qualuuque. V. Anti vedimento, PREVENZIONE (spec. e prat.), impedi mento al libero giudizio, il quale nasce da anticipato concetto, che facciamo for - 528 – mare agli altri, o formiamo noi stessi, vero o falso che sia. La prevenzione ricevuta o formata senza maturo esame, è la causa del pregiudizi e della preoccupazione. V. queste voci. PREVISIONE (spec.), qualità della men te, per la quale antivediamo l'effetto di una causa costante. V. Causa, Effetto. La previsione risguarda propriamente i fatti necessari, che dipendono dall'ordine della natura, come il corso de pianeti, e i fenomeni in generale che nascono da leggi naturali, certe ed invariabili. Può anche risguardare i fatti contin genti e le stesse azioni libere dell'uomo, quando colla guida della sperienza cono sciamo, che tali determinazioni saranno per produrre tali effetti. La natura ha aperto la mente alla previ sione, mediante l'induzione per la quale conosciamo, che quel che è sempre avve nuto in un caso, avverrà pure negli altri casi identici. V. Induzione. La previsione trasportata dagli effetti alle loro cause, dicesi prescienza, ed è propria della mente Divina.V. Prescienza. PRIMO (spec. e disc.), nome numerale che si desume dall'unità, la quale pre cede tutte le altre nell'ordine del numero. V. Mumero. Applicato agli obbietti intellettuali, ha doppio significato, cioè di quel che pre cede tanto nell'ordine del tempo, o della successione de pensieri, quanto per rispetto alla chiarezza e alla importanza loro. In questo secondo senso diciam prime le ve: rità intuitive, che la ragione vede da se, o sia senza aiuto del ragionamento, e che ci fanno strada alle altre. V. Verità. Lo stesso doppio significato ha in ogni metodo, e nell'ordine stesso del discorso; dacchè tanto nell'uno quanto nell'altro mettonsi innanzi ora le verità generali che rischiarano le particolari, ed ora le par ticolari che nella succession del pensieri han preceduto tutte le altre. V. Metodo, Ordine. PRINCIPALE (spec. e disc.), il subbietto, cui prima d'ogni altro volgiamo il pensie ro, o che forma la materia del discorso. È un termine di relazione , il quale pre suppone un altro subbietto minore, che chiamasi accessorio, o incidente. V. que ste voci. PRINCIPIO (crit. ontol. spec. prat. e disc.), quel che produce qualche effetto da se di stinto, e non è da altra causa prodotto. V. Causa, Effetto. In questo senso il principio scambiasi spesso colla causa efficiente, comechè la nozione dell'uno differisca dall'altra. E in prima, il vocabolo principio è proprio delle cose materiali, o sia delle parti pri mitive de corpi, e di quelle precisamente che formano l'essenza loro. Concepisconsi da noi coteste parti, come semplici, in divisibili, e non prodotte da altro princi pio, il quale se si supponesse, darebbesi luogo ad una catena di pretesi principi, senza poter mai giugnere a quello che meritar potrebbe una tal denominazione. Ma siccome noi non conosciamo l'essenza delle cose, così del pari ignoriamo i veri principi costitutivi di esse; d'onde segue che la nozione del principio sia un'astra zione della mente, che il linguaggio ap plica alle cose sensibili in un significato non assoluto, ma relativo all'umana capacità, e allo stato delle nostre conoscenze. In questo senso, che è proprio della fisica, – 529 – i principi costitutivi decorpi sono stati an cora detti elementi.V. Elemento, Essenza, Non diverso è nella chimica il signi ficato della voce principio, quantunque quella scienza tenti sempre di scoprire le sostanze elementari scomponendo gli ag gregati formati dalla natura, o ricompo nendogli, onde ottenere, se ſia possibile gli stessi composti. Ma i prodotti dell'ana lisi chimica giunti ad un dato segno son refrattari a qualunque ulteriore investiga zione ; non potendo la scienza per suo mezzo, meglio che per la fisica, perve nire alla cognizione delle essenze, atteso chè ella scioglie d'ordinario, ma non ri compone i corpi; nè i reagenti suoi san conservare l'identità delle sostanze, e del le parti scomposte co mezzi dell'arte. Chiamano essi principi immediati quei corpi composti, dall'unione de quali risul tano altri composti più complicati, senza che l'unione alteri la natura del compo nenti; e però considerano come principi immediati dell'idrato di calce, l'acqua e la calce, sebbene non sieno per loro stesse sostanze semplici; e danno lo stesso nome di principi immediati ad ogni acido e ad ogni base salina, da quali formasi un sale. Similmente distinguono col nome di prin cipi immediati organici tutte le sostanze composte che risultano dalle loro analisi, per la sola ragione che non si trovano in altri composti, fuori de'corpi organici; e non già perchè fossero sostanze semplici ed elementari della materia. In somma il significato della voce principio nella chi mica è affatto relativo, e dinota soltanto l'ultimo termine al quale giugner possono i nostri sensi, o i mezzi adoperati dall'analisi, V. questa voce. - Passiamo ora dal significato materiale al morale, al logico e all'intellettuale. Nel morale, risguardiamo la volontà come il principio o come la causa effi ciente delle azioni, e chiamiamo principi le spinte che riceviamo dall'istinto o dagli affetti alle azioni necessarie e giovevoli alla conservazione, o alla perfezione del proprio essere. V. Azione, Volontà. Nel significato logico chiamiamo prin cipi le nozioni generali, le quali servono di guida al ragionamento, per trovare o per dimostrare la verità di qualunque pro posizione. Son queste le nozioni che nel l'ordine delle verità scientifiche precedono tutte le altre, e vengono designate col no me di assiomi. Se cotali principi sieno in realtà primitivi, e meritino di essere tutti collocati nella medesima classe, il vedre mo dall'analisi, che quì appresso ne fa remo. V. Assioma. Nel significato intellettuale il vocabolo principi abbraccia le conoscenze che noi consideriamo come prime, tanto nell'or dine del tempo, quanto nell'ordine della comprensione e della chiarezza. E siccome le verità più facili alla comprensione so gliono anche presentarsi alla mente innanzi a tutte le altre; così senza veruna distin zione di origine noi chiamiamo primi prin cipi tutte le verità, che la ragione scopre di per se stessa, per virtù d'una naturale illuminazione, e senza soccorso della edu cazione e della scienza. Coteste verità sono i cardini dell'umana cognizione, perchè in dirizzano la riflessione al conoscimento di noi stessi, guidano la mente nell'uso del pensiero e delle proprie facoltà, e manife stano le prime relazioni dell'uomo verso Dio, e verso gli altri Esseri. Delle cennate verità talune son sì pronte, luminose e a tutti comuni, che posson dirsi connaturali alla ragione; altre son figlie della riflessio ne, ma di una riflessione pronta ed imme 42 diata. Laonde vanno ancor esse partite in due classi, cioè in intuitive e immediate. Gli esempi sì delle une che delle altre fan meglio sentire l'originalità delle prime, e l'evidenza di entrambe. Alla classe delle intuitive appartengono le seguenti: io pen so, voglio, esisto, le mie facoltà intel. lettuali sono un che di diverso dal mio corpo, ho in me il potere di produrre le mie azioni. Alle immediate poi appar tengono queste altre: non sono io l'autor di me stesso, nè delle cose esteriori che mi circondano: ogni cosa, che come me ha cominciato ad esistere, aver debbe una causa che l'ha prodotta e ho una facoltà che mi ricorda i pensieri pas sati, e che chiamo memoria e la mia esistenza ha avuto una durata, son io oggi la stessa persona di ieri, la mac china del mondo è mossa al presente, come per lo passato, le leggi della na tura son costanti ed uniformi, v'ha nel l'universo una disposizione di parti, e una armonia tale tra loro, che è neces sariamente l'effetto d'una causa intelli gente, di tutte le altre maggiore. V. Co gnizione, Durata, Esistenza, Verità. Potrebbesi forse fare tra le cennate ve rità una terza distinzione, di quelle cioè che la riflessione ricava dalle sensazioni, e delle altre, che deduce dalla interna osservazione di noi stessi. Così per esem pio, dalle sensazioni ricaviamo le no zioni della esistenza degli altri Esseri, e delle nostre relazioni con essi ; mentre chè da noi stessi attigniamo quelle della propria esistenza, e delle facoltà dell'ani ma. Certa cosa è, che le interne nozioni dell'anima hanno una origine affatto di versa e distinta dalle idee de sensi; d'on de segue che coloro i quali limitavano le funzioni della riflessione al solo uſizio di astrarre e di generalizzare le idee desen si, non solamente mutilavano l'ingegno umano, ma aprivano la via a quegli al tri, che più appresso giunsero persino a materializzare il pensiero. V. Astrarre, Generalizzare, Pensiero, Riflessione. Tra gli antichi, Platone ravvisò nelle idee gli archetipi dell'umana cognizione, comechè avesse di quelle fatto altrettanti Esseri immaginari, e avesse dato loro una origine anteriore alla vita umana. Ma ba stò quel principio per imprimere alla sua filosofia il carattere dello spiritualismo, e per farne la dottrina rivale del sensismo. V. Idea. Tra moderni Cartesio avendo distinto tre sorte d'idee, le innate, le avventizie, e le fattizie, trovò nelle prime la vera sor gente di tutte le umane conoscenze. Chia molle egli innate, o ingenite, non perchè le presupponesse sempre presenti alla men te, nè perchè le credesse, come Platone, anteriori all'attual condizione dell'anima, ma perchè considerolle come spontanee e connaturali alla facoltà che le concepisce. Coteste idee o verità primitive, discendono, secondo lui, da una, che sta in cima a tutte, la nozione cioè del proprio essere pensante, nella qual nozione stanno riposti tutti i principi dell'umana cognizione, e i soli tipi della certezza. Cartesio fece pur guerra alla dottrina desensisti, e operò nel la filosofia quello stesso cangiamento, che aveva a diverse riprese prodotto la filoso fia di Platone; ma per avere ammesso un principio solo di cognizione e di certezza, escludendo affatto le conoscenze del sensi e la sperienza, diede in una opposta estre mità, e aperse una nuova strada all'idea lismo e allo scetticismo. V. Cognizione, Innato, Senso. Leibnitz spiegò e seguì la dottrina di – 551 - Cartesio, per rispetto a principi, che di cevansi innati, avendo adoperato lo stesso vocabolo nel senso, che la conoscenza di quelli è stata da Dio impressa nell'animo, come una spezie d'istinto. Per similitudine comparogli alle proposizioni sottintese ne gli entimemi, le quali stanno virtualmente nella mente; e li definì, come verità im mediate, o proposizioni della massima evi denza, le quali non possono essere dimo strate con altre proposizioni più evidenti di esse. Gli esempi che ne addusse sono: la nozione del proprio essere l'esistenza di Dio; la conoscenza delle leggi natu rali. V. Entimema, Verità. Il primo che uscisse dalle similitudini e dagli esempi, fu il padre Buffier, il quale diede un metodico trattato delle prime ve rità, col titolo di dottrina del senso co mune. Credette egli, che i principi o le verità prime si ricavino, o dal senso delle scienze e delle arti, o dalla testimonianza de sensi propri, o dall'autorità del sensi altrui. Ma il suo trattato, quantunque lu minoso e originale, contiene una spezie di categorie, non dissimili dalle aristoteli che, e come quelle imperfette. Impercioc chè non solameute le verità intuitive tro vansi ivi confuse colle dedotte, ma da esempi di nozioni figlie d'uno stesso princi pio, ricavò generi apparentemente diversi perchè la differenza loro potrebbesi dire af, fatto nominale. Più chiari e certi sembrano i caratteri, ch'egli additò come atti a discer dere l'evidenza deprimi principi: 1.º che le proposizioni colle quali taluno imprendesse a negarli, sieno manifestamente men chia re di quelle colle quali vengono affermati: 2.º che sieno universalmente in ogni tempo e luogo ricevuti, per modo che coloro i i quali li negassero, trovar non potrebbero altro assentimento, che di qualche uomo di stravagante giudizio: 3.º che sieno for temente impressi nell'animo di tutti per modo, che formino la regola del vivere comune, e persino di coloro i quali spe culativamente osano rivocargli in dubbio. Kant considerò i primi principi, come gli elementi del giudizi a priori, e come le forme dell'umana intelligenza. Lasciamo agli spositori della sua dottrina lo svolgere un tal concetto. V. Forma , Giudizio, Intelligenza. - Reid e Stewart han fatto deprimi prin cipi il fondamento della nuova filosofia dello spirito umano, e gli hanno conside rati come altrettante leggi costitutive della ragione, le quali determinano invincibil mente la nostra credenza. Il desiderio di penetrare più addentro nella prima sor gente dell'umana cognizione, indusse an che Reid a tentare una nuova partizione de primi principi; e per meglio ordinar gli distinse tra le prime verità le contin genti dalle necessarie. Quanto alle con tingenti, raccolse vari esempi di verità particolari, ricavate da principi più gene rali, che ridusse a seguenti: 1.º Tutto quel che la coscienza o il sen so intimo attestano, realmente esiste: 2.º I pensieri de'quali ho la coscienza, sono i pensieri d'un Essere, che io chia mo il mio spirito, la mia persona, il me. 3.º Le cose che la memoria distintamente mi ricorda, sono in realtà avvenute. - 4.º Son certo della mia identità perso male, e della continuità della mia esistenza dal momento, in cui la memoria ha eser citato le sue funzioni. 5.º Gli obbietti che percepisco co'sensi esistono, e son quali li percepisco. 6.º Esercito un grado di potere sopra le mie azioni e sopra le determinazioni della mia volontà. º - 552 – 7.° Le facoltà, che la natura mi ha dato per distinguere la verità dall'errore, non sono mendaci. 8.° I miei simili son creature viventi e intelligenti come me. 9.° I tratti del viso, i suoni della voce, i gesti manifestano taluni pensieri, o certe disposizioni dell'animo. 1o.” La natura mi ha dato la tendenza di credere all'autorità del sensi altrui. 11.° Quantunque molte delle cose con tingenti dipendano dalla libera volontà de gli altri, possono non pertanto essere con certe probabilità da me antivedute. 12.º Nell'ordine della natura tutto quel che avverrà somiglierà probabilmente a quel che in simili circostanze è avvenuto. Circa poi le verità necessarie, Reid le suddivise in diversi generi, seguendo le relazioni che esse hanno colle scienze alle quali appartengono, e però le distinse in verità logiche, metafisiche, matemati ehe, grammaticali e morali. Prima di determinare il giusto concetto delle verità primitive, giova osservare, che molti degli esempi di verità contingenti, addotti da Reid, discendono da un'altra verità più generale, la qual cosa rende impropria la denominazione e la qualità di principi che loro volle dare. Così, ben considerati i dodici esempi testè riferiti, po trebbero tutti essere ridotti, alla certezza dell'Essere pensante, e alla realità delle facoltà dell'animo e degli obbietti del pen siero. E per quel che concerne le verità necessarie, gli assiomi geometrici sono principi veri e immutabili, ma scoverti mediante il ragionamento; gli assiomi lo gici, son certamente posteriori al ragiona mento naturale, e presuppongono la spe rienza; le regole gramaticali son precetti di convenienza universale, che pure na scono dall'uso e dalla perfezione del lin guaggio; e gli assiomi in materia di gu sto, sono altrettante regole d'imitazione, ricavate del pari dalla sperienza e da un lungo studio della natura. Da ciò segue che gli assiomi delle scienze, delle arti e del gusto, son tutti verità derivate, le quali non possono essere scambiate coprin cipi spontanei dell'umana intelligenza. Premesse queste cose, giova ora rimuo vere l'ambiguità che nasce dal doppio anzi dal triplice significato della voce primo. Che intendiamo noi per prime verità ? Prime nel tempo son le idee, che vengono innanzi a tutte le altre: prime nella co gnizione son quelle che vincono altre in chiarezza: prime nel metodo, o nell'or dine dell'insegnamento son le verità che servono di luce alle altre, quantunque prime non sieno nell'ordine del tempo e della cognizione. In queste appunto cade l'equivoco, perchè le verità necessarie, che nascono da dimostrazione, e che noi risguardiamo come assiomi, possono essere messe innanzi alle altre nell'ordine del l'insegnamento, ma non sono certamente le prime a venire nell'umana cognizione; laddove le contingenti formano il primo corredo dalla nostra mente. In fatti noi veggiam prima le cose visibili, e poi le invisibili, prima il particolare e il con creto, e poi il generale e l'astratto. Che se le verità necessarie sono immutabili ed eterne, e se eran prima che noi fossimo, e seguiteranno ad esser quali sempre sono state; ciò non importa che ne avessimo avuto la conoscenza prima di avere acqui stato la nozione di noi stessi. Non è già, che le necessarie dipendano dalle contin genti, ma è che queste servono di occasio ne a quelle, siccome apparisce manifesto dagli esempi, che possiamo da noi stessi – 555 – raccogliere. Così, non potremmo avere la nozione della necessaria esistenza di Dio, come non l'hanno i bruti, se non aves simo quella del proprio Essere; nè avrem mo quella delle proprietà geometriche, se non avessimo prima acquistato le idee delle qualità della materia; e molto meno quella delle qualità d'ogni sostanza, se non fosse preceduta la conoscenza del particolari ob bietti, da quali le abbiam ricavate. Quando dunque le verità prime si vogliono riferire alla sola priorità della origine, non sola mente non ne troveremmo alcuna tra le necessarie, ma resterebbe ancora ristretto il numero delle contingenti; dapoichè tutte potrebbero essere riferite ad un principio unico, o sia ad una nozione sola, da cui dipenderebbero le altre, la nozione cioè dell'anima, intelligibile a se medesima. Ora tutti i filosofi spiritualisti, i quali hanno ammesso le prime verità come prin cipi dell'umana cognizione, Cartesio, Bos suet, Buffier, Leibnitz, hanno inteso par lare delle verità note per naturale eviden za, o sia di quelle che tutti gli uomini intendono ad uno stesso modo, non per opera della scienza o della educazione, ma per la luce propria della ragione; di quelle in somma che formano la regola non solamente del viver comune, ma an che di coloro i quali le hanno talvolta spe culativamente rivocate in dubbio. Tali ve rità, come disse Leibnitz sono le nozioni immediate, che ricaviamo dalla contempla zione del proprio Essere, o sia del me me desimo: sono gli elementi del pensiero, i quali aprono la via al ragionamento: son le proposizioni note ed evidenti, alle quali annodansi, come a primi anelli, le altre ignote che voglionsi dimostrare: sono le verità intuitive, tanto diverse dalle di mostrate, quanto i principi distano dalle conseguenze. Sembra dunque, che per l'esatto concetto delle prime verità, sia più utile la distinzione tra verità intui tive, o dedotte, che quella tra verità ne. cessarie o contingenti. V. Contingente, Intuitivo, Mecessario. La distinzione tra le verità intuitive e quel le di ragionamento non solamente espri me la differenza, che passa tra primi prin cipi propriamente detti e gli assiomi; ma serve altresì a spiegare l'indole di quelle verità, che implicitamente sono nell'anima, e che formano le regole del nostri pratici portamenti, prima ancora di conoscerle per lo ragionamento. Tali sono le verità morali, dalle quali siam guidati per una tendenza di cui non possiamo rendere ragione, se non quando si è in noi sviluppato l'uso delle facoltà dell'anima. Per la qual cosa invochiamo ne'nostri mali il soccorso della Divinità, prima di averne formato la vera nozione; sentiamo la pietà de'mali altrui, siamo benefici, riconoscenti, giusti verso i nostri simili, prima di aver imparato i precetti del retto vivere; e non solamente distinguiamo una virtù pratica diversa dalla speculativa, ma siamo costretti di confes sare, che spesse volte il senso morale è più retto e più costante negli uomini incolti e idioti, che in coloro i quali han consu mato la vita nello studio della filosofia. D'onde è nata quella sapienza pratica, se non dalle nozioni dedoveri e del fine della vita, che la natura ha impresso nell'uomo? Sopra queste nozioni la scienza forma l'edifizio delle definizioni degli assiomi e dei teoremi, ma nulla può dire, che non di scenda da quei principi, o che sia di essi più chiaro. In conclusione, riduciamo ad una no zione chiara e distinta il concetto delle pri me verità, acciocchè non si ammetta nul - – 534 – la di vago e d'immaginoso tra gli ele menti dell'umana cognizione. Le prime verità non sono quegli Esseri ideali, che han supposto molti degli antichi e dei moderni idealisti ; nè sono principi che stanno di per loro stessi, ma son le pro posizioni evidenti, che la ragione umana per proprio lume conosce: la loro cer tezza è fondata nella irrefragabile autorità del senso intimo e della coscienza; cer tezza e autorità che traggon seco l'invin cibile convizione della loro verità. Le pri me verità in somma, sono i giudizi in tuitivi dell'anima intorno alle nozioni ele mentari, necessarie all'esercizio del pen siero, o al portamento della vita: di que ste, sta in cima alle altre la nozione del proprio essere pensante, dalla quale, sic come dice Leibnitz, deriviamo quelle del l'Essere in generale, della sostanza sem plice, della composta, della immateriale, e anche la nozione di Dio, dapoichè tra sportiamo in Lui infinito quel che in noi è finito. V. Dio, Infinito, Sostanza. PRIORE (spee. e dise.), termine di re lazione ad altra cosa che segue in ordine di tempo, di luogo, o di azione. Nel senso di relazione all'azione, che ne produca un'altra, o sia della causa al l'effetto, i logici han chiamato a priori la dimostrazione, o il metodo, che pro cede dalla causa all'effetto. Tali sono le dimostrazioni, che dal generale argomen tano al particolare, come il sillogismo. Siffatte dimostrazioni appartengono al me todo sintetico, per lo quale da una verità generale si deduce una conseguenza, o una verità particolare. V. Dimostrazione, Metodo, Sillogismo. L'inverso metodo è quello detto a po steriori. V. Posteriore. - - PRIVATIvo (spec. e die. ), termine il quale dinota la separazione d'una qualità dal suo subbietto, considerato questo qual è per sua natura. - Differisce dal negativo, che esprime as solutamente la disconvenienza della qua lità, come non compatibile col subbietto. V. Megativo. PRIvAzioNE (spee. ontol. e dise.), me gazione relativa, per la quale separiamo le qualità da subbietti, considerati questi quali sono per loro natura. Differisce dalla negazione, la quale espri me l'assoluta disconvenienza della qualità al subbietto. Esempio: il carbone non è bianco, è negativo. Questo alabastro non è bianco, è pri vativo. V. Megazione. Aristotele fece della privazione uno dei tre principi universali di tutte le cose, per chè avendo riposto nella materia la sostanza passiva, e nella forma, l'attiva, gli fu necessario un terzo principio che spiegar potesse le continue modificazioni della ma teria, che denominò privazione. V. For ma , Materia. PaoBABILE (spec. prat. e dise.), quel che è possibile o verisimile che sia stato, che sia, o che sarà. Ha gli stessi significati del vocabolo pro babilità, dapoichè si applica, così al pos sibile dell'esistenza, come all'apparente mente vero. V. Probabilità. Ogni ragionamento, che non è dimo strativo della verità, dicesi probabile nel senso, che potrebbe non essere qual sem bra, o sia, che i dati di fatto che si di con veri, tali non fossero. E però il di mostrativo è proprio delle verità necessa – 555 - rie; il probabile delle contingenti. V. Con tingente, Dimostrativo, Mecessario. L'arte di valutare le pruove de fatti con tingenti, e di determinare il grado della credibilità loro, è stata chiamata logica de' probabili. V. Credibilità, Logica. PRonABILISMo (prat.), dottrina rilassata di quei moralisti, i quali insegnano es sere lecita un'azione, fondata sopra una opinione probabile, quantunque vi sieno opinioni anche più probabili e sicure, che la condannino. Cotesta falsa e perniciosa dottrina tra sporta dalla ragione e dalla legge di na tura nell'autorità le fondamenta della mo rale, e introduce uno scetticismo pratico, il quale favorisce la licenza e la corruzio ne decostumi. È un mal che proviene dai casisti, i quali si accostumano a ricercare il vero nelle decisioni delle particolari con troversie, e non ne principi, nello spi rito, e nel fine della legge. PaoBABILITÀ (spec. prat. e dise.), la possibilità d'un fatto, o la verità d'una opinione, estimata per le somiglianze, che l'apparente ha col vero. Cotesto vocabolo racchiude due signifi cati apparentemente simili, ma in realtà diversi, dapoichè il primo esprime la sem plice possibilità d'un avvenimento, il se condo la possibilità del vero, giudicata per le sue apparenze. Son questi due giudizi che l'animo dee - formare con differenti dati: la possibilità d'un fatto versa circa l'esistenza o la ine sistenza del fatto medesimo: la verità della opinione, circa la conformità d'un con cetto dell'animo col vero: quello è un giu dizio di fatto, di cui l'estimazione suole dipendere dall'avvicendamento di casi af fermativi e negativi: questo è un giudi zio di comparazione, nel quale conviene dar valore alle apparenze del vero. Pre messa una tal distinzione, la disamina della probabilità può ricevere una triplice par tizione: può essere considerata a rispetto, 1.° della possibile esistenza d'un fatto fu turo, 2.º della esistenza d'un fatto pas sato, 3.º della verità d'una opinione. Dei tre proposti aspetti l'ultimo importa più agli studi della ragione, tra perchè ab braccia la parte maggiore del nostri giu dizi, e perchè una esatta nozione della probabilità e della verisimiglianza serve a dichiarire quella della certezza, e però va in primo luogo esaminata. I. Verità d'una opinione. Locke definì la probabilità, l'apparente convenienza o disconvenienza delle idee, delle quali la connessione non è immu tabile. Secondo Leibnitz, è l'apparente convenienza e disconvenienza delle idee fondate sopra la verisimiglianza. Sembra che ambe le cennate definizioni confondano insieme due diverse operazioni dell'anima, cioè il giudizio della conve nienza delle idee, e l'assicuranza, che la coscienza le dà di tal giudizio. Ripetiamo il concetto della probabilità da quello della certezza, di cui è un correlativo. Le condizioni della certezza sono, che sieno tutte note le relazioni delle idee, delle quali pronunziamo la convenienza. Ma di molte idee noi ignoriamo le rela zioni essenziali, e di altre molte conoscia mo soltanto quelle che cader possono sotto i sensi, o nella comprensione del nostro intelletto. Il giudizio, che intorno ad esse - 556 – pronunziamo, è fondato sopra le appa renze e somiglianze del vero: la coscienza non ci assicura, che quelle non potessero essere diverse da ciò che appariscono, co me il fa per le verità intuitive, e per le dimostrate. Questo giudizio dubitativo è la probabilità, di cui i gradi son tanti, quanto è il numero delle relazioni note, sopra le quali il giudizio è fondato. V. Giu dizio, Relazione. Taluni han distinto la probabilità dalla evidenza probabile, avendo così deter minato quella spezie di evidenza, che si acquista fuori della dimostrazione. Ma pare a noi che basti distinguere la certezza di mostrativa dalla intuitiva, e stabilire la giusta differenza che passa tra la certezza e la probabilità, senza fare violenza al proprio significato del vocabolo evidenza, il quale esprime due idee insieme, cioè l'assicuranza della coscienza, ed il giudizio dell'intelletto. V. Evidenza. Giova non pertanto distinguere la pro babilità di natura dalla probabilità di co gnizione, il che meglio corrisponde alla ricevuta partizione della certezza fisica e della morale. Le verità necessarie producono la cer tezza dimostrativa, o metafisica: le verità immediate de sensi producono la certezza fisica: le altre acquistate per mezzo dell'au torità e della credenza producono la pro babilità, il cui massimo grado prende il nome di certezza morale. Cotesta spezie di probabilità, elevata alla dignità di cer tezza, dicesi ancora certezza relativa, perchè è quella che dar può l'opinione, considerata come l'instrumento maggiore della umana cognizione. Coloro i quali han voluto riferirla piuttosto al genere del la probabilità, che alla spezie della cer tezza, l'han chiamata probabilità di cogni zione, per distinguerla dalla probabilità di natura, fondata nella certezza del sen si. Ciò non ostante ella ha per noi tutta la forza della certezza, perchè determina l'animo all'azione: rimuove il dubbio; soddisfa la coscienza; serve di norma a quella virtù direttrice della vita, che di cesi prudenza, ed esercita, più di tutte le umane conoscenze, il criterio della ra gione. V. Certezza, Opinione. a II. Esistenza d'un fatto passato. L'esistenza d'un fatto passato può an che essere scambiato colla verità del fatto passato, e il concetto che noi ne formiamo è pure una opinione. Ora l'opinione della verità d'un fatto passato può nascere dalla propria, e dall'altrui ricordanza: se dalla propria, la memoria ripresentalo con quel la stessa spezie di certezza o di probabili tà, che accompagnò la prima percezione del fatto medesimo; se dall'altrui, l'opi nione della verità sarà unicamente fondata sopra l'autorità, o sia sopra la testimo nianza del sensi altrui. V. Autorità, Per cezione, Testimonianza. Le varie spezie di testimonianza, e i modi diversi, co quali può questa essere manifestata, formano altrettanti gradi di probabilità, dequali il maggiore sta nella narrazione della prima ed immediata perce zione, che va considerata come la scienza originale del fatto attestato. I mezzi poi, pe quali cotesta scienza passa da uno in un altro testimonio, sono altrettante de rivazioni, in ciascuna delle quali vassi gradatamente sminuendo la chiarezza o l'apparenza della verità. Tali mezzi in so stanza si posson concepire quasi come una – 557 - - scala, in cima a cui sta la certezza mo rale, e al piede il dubbio e la semplice sospizione della verità. Questa è la scala delle pruove, l'estimazione delle quali è data al criterio della ragione. La proba bilità delle pruove è graduabile, ma le gradazioni loro non rappresentano gli ele menti costitutivi della verità, la quale è di sua natura unica e indivisibile; rap presentano sì bene l'opinione che l'animo ne forma, o sia la misura che il criterio adopera per discernere la credibilità di quella. V. Credibilità , Pruova. D'altra parte le derivazioni della cono scenza originale del fatto possono ancora servire a confermarla, senza nulla toglierle della sua certezza, quandochè sieno con cordi tra loro, per modo che le ultime facciau fede delle prime, e si possa per esse risalire alla immediata cognizione dei primi testimoni. Cotesta scala ascendente contiene pure altrettanti gradi di certezza o di probabilità, pe quali giudichiamo della verità de fatti rimoti. Tali sono gli elementi del nostro giudizio intorno alla certezza, o incertezza della storia e della tradizione. V. Storia, Tradizione. lll, . . i Possibilità d'un fatto futuro, La sperienza del passato è un principio di probabilità pel futuro, dapoichè noi giu dichiamo dell'avvenire per analogia del passato. Ma cotesta analogia può essere fondata o sopra le relazioni che il fatto pas sato abbia col futuro, o sopra il semplice avvicendamento defatti identici e simili. Di qual'immensa serie delle future probabilità. Se le relazioni tra il fatto passato e il futuro sieno costanti per modo, che dato l'uno, dee seguire necessariamente l'altro, la connessione tra due cennati avvenimenti è quella stessa che passa tra la causa e l'effetto. Tal'è la cognizione che acquistia mo delle conversioni del corpi celesti, e di tutti i fenomeni i quali dipendono dalle leggi costanti e uniformi della natura. Co testa cognizione è accompagnata dalla cer tezza fisica, e però esce dall'ordine delle probabilità. V. Causa. La probabilità propriamente comincia, quando vogliasi determinare la possibilità d'un avvenimento futuro, senza conoscere le relazioni che lo legano a fatti passati, o imperfettamente conoscendole. E quì vuolsi notare, che cotesta probabilità è tutta di eognizione, e ha diverse gradazioni, a distinguere le quali giova suddividerla in tre differenti spezie: 1.a quella che nasce dalle ignote rela zioni tra fatti passati e i futuri: 2.º quella che nasce dal concorso di più cause che insieme cooperino al produci mento d'un fatto futuro, per modo che non possa determinarsi la parte dell'azione di ciascuna di esse: 3.º quella in fine, nella quale l'azione delle cause naturali sia mista a fatti vo lontari degli uomini. Cotesta ultima spe zie confina colla incertezza, e con quella affatto si confonde, quando dalla volontà dell'uomo debbasi principalmente ripetere la causa efficiente del fatto. Il probabile suole scambiarsi col verisi mile, e la probabilità colla verisimiglianza; ma l'idea dell'una differisce da quella dell'altra. Imperocchè il probabile si rife risce più alla possibilità della esistenza di un fatto, ed il verisimile, al giudizio che noi ne formiamo; quasi che il probabile fosse quello, della cui esistenza possiamo addurre pruove sufficienti; e il verisimile, ciò che noi giudichiamo esser vero, quan tunque non potessimo escludere la possi bilità del falso. Il verisimile dunque è più del probabile, dapoichè molte cose sem plicemente probabili non sapremmo accet tarle come verisimili. V. questa voce. Il calcolo delle probabilità, applicato a giuochi di sorte, alla possibile durata della vita, a progressi delle società civili e della industria umana, e per ultimo an cora a fatti della volontà, dimostra quanto diverso sia il prodotto che se n può otte nere in ciascuno de tre dinotati casi. I giuochi di sorte furono i primi che suggerirono ad insigni matematici il pen siero di soggettare al calcolo le loro even tualità. Per esso si ottiene, o che sia de terminato il numero delle relazioni che legano l'evento al fatto del giocatore, o che venga stabilita una proporzione tra le diverse combinazioni di ciascun giuoco. La vita è un giuoco di sorte, di cui il calcolo non può determinare la durata per rispetto all'individuo, ma può con molta approssimazione alla verità stabilirla per rispetto alla spezie umana. In ambo questi casi il calcolo somministra la conoscenza d'una parte delle relazioni tra l fatto pas sato ed il futuro. V. Giuoco. I D'una probabilità a questa inferiore sono i calcoli dell'aritmetica politica intorno al progressivo aumento della popolazione , della quantità della produzione e decapi tali produttivi, del consumo, del nume rario circolante e simili, perchè nati da molte cause insieme miste, di ciascuna delle quali non si può determinare l'effi cacia e la forza relativa all'eſſetto. I suoi prodotti non pertanto, o sia l'esperienza, spandono lume sopra l'azione delle cau se, e ci permettono di stabilire con ap prossimazione talune regole di vario even to, perchè fondate nel vario operare degli uomini. 9 , - i I i Ma lo stesso calcolo in fine perde ogni valore, quando vogliasi applicare al verisi mile delle altrui opinioni, perchè speciosa anzi falsa è la similitudine, che paragona la verità del giudizio ad un composto di parti omogenee, quasichè potesse la verità scindersi in frazioni, e trovarsi per lo cal colo un decimo o un centesimo di verità. I fatti umani non sono simili gli uni agli altri, anche quando artifizialmente ci sfor zassimo di comporre oggi una moltitu dine di cento uomini, posti nella medesima situazione in cui trovaronsi in una delle passate età, e in diverse nazioni. Nelle stesse cose presenti, come soggettare al calcolo le pruove de fatti avvenuti fuori de'nostri sensi? come nello interpretare i segni potrebbesi determinare le verità lo ro a rispetto delle cose significate? come, nella estimazione delle pruove misurar po trebbesi la conformità della parola col pen siero del testimonio ? come valutare la possibilità dell'errore ne sensi e nel giu dizio di colui che il primo ha tramandato la scienza originale del fatto ? . . . . È stato un tempo, in cui l'amor dei metodi matematici, e spezialmente dell'analitico, ha soggiogato la mente del più grandi uomini, facendo credere, che po tessero quelli essere con egual successo applicati agli studi della filosofia morale, quasichè si potesse per tal modo otte nere in queste come in quelle la certezza dimostrativa. Ma la forma estrinseca del ragionamento non può mutare l'essenza delle cose, e d'altra parte le verità mo rali hanno un genere proprio di certezza, che non de'essere scambiato con quello che conviene alle qualità sensibili della materia. - - - - - - PRoBità (prat.), bontà e insignità di costumi, accompagnata dalla modestia. La volontà di adempiere i propri doveri per meritare il nome di probità, non so lamente de'essere costante e abituale, ma conviene che riconosca per suo principio l'obligazione morale, o sia quel vincolo che la legge e l'ordine della natura c'im pongono; nel che è compreso il fine di piacere all'Autore della legge stessa, senza il quale fine mancherebbe alla virtù l'arº chetipo suo, e sarebbe questa un vano nome, e un fantasima introdotto dalle uma ne convenienze. V. Legge, Obligazione, Non può essere disgiunta dalla mode stia, senza la quale non si può avere la giusta conoscenza di se medesimo, e della umana imperfezione. V. Modestia, o i tit - 5 º 1 . PROBLEMA (spee. e dise.), proposizione, per la quale domandasi la ragione d'una cosa ignota. Nelle matematiche ha diverso signifi cato, e dinota una proposizione per la quale domandasi, che si faccia una data operazione derivandola da principi e da verità dimostrate; o pure dimostrandone, dopo che è stata già fatta, l'esattezza, se nell'esporre la soluzione del problema si adopera il metodo detto da geometri sin tetico; il perchè fu da taluni logici chia mata proposizione dimostrativa pratica. V. Proposizione, Sintetico. e a - Problemi furon detti ancora da Aristo tele i dubbi intorno alle cose naturali, i quali meritano una soluzione. Bacone des siderò, che l'esempio di Aristotele fosse imitato da moderni, e che cotesta spezie di dubbi formasse un'appendice delle scienze naturali, acciocchè servissero di eccitativo agl'ingegni, per accrescere la scienza, e ampliarne i confini. V. Dubbio, i - a 3 º Paocace (prat.), latinismo che com prende le due qualità del petulante e dello sfrontato. V. queste voci. . - 1 - PaocREAzioNE. V. Generazione. - i PaoDEzzA (prat.), fortezza d'animo, accompagnata dal vigor delle forze, e dall'ardire, nel che si distingue dal co raggio. V. questa voce. n. 1 - 1 i - - PaoniGALITÀ (prat.), eccesso nello spen dere e nel donare. E il vizio degli uomini inconsiderati, al quale conduce non l'amor della libe ralità, ma quello del viver lussurioso. PRoDIGIo (spec.), cosa insolita nell'or dine della natura, di cui non può asse gnarsi veruna causa naturale. - Differisce dal portento, in quanto che questo esprime la novità per rispetto a sen si, e quello l'insolito relativamente alla sua causa. V. Portento. i PaonRoMo (disc.), discorso o trattato che serve d'introduzione, o di prepara zione ad altra opera principale. PRoduzioNE (spec. e prat.), la cosa nata dalla causa producente. -. È termine generico che abbraccia qua lunque opera materiale o intellettuale, con siderata per rispetto alla potenza che la pro duce. V. Potenza. - 4 - . . . - siPRoEMmo (disc.), la prima parte d'una orazione, o d'altra composizione, ove principalmente si propone quel che s'ha a trattare, - a e 9 PaoroNDITÀ (spec.), una delle tre di n - 540 - - mensioni del corpo solido, e propriamente l'altezza da sommo a imo. PRocETTo (prat.), disegno di fare una cosa, accompagnato da una minuta spo sizione di tutte le sue parti. È una delle spezie di azioni incompiute, di cui la volontà rimanda ad altro tempo l'eseguimento. V. Volontà. G'Italiani l'hanno usato nel senso di prof ferta, o principio di trattato, ma non v'ha ragione per restrignerlo a questo solo si gnificato. Il principio d'un trattato include la sposizione del pensiero del suo autore. PRogINNAsMA (crit.), esercizio in argo menti di lettere o di scienze. PaoGREssivo (spec.), epiteto dato a quel la sorta di filosofia, che promette alla umanità un continuo e successivo avan zamento, per lo quale perverrà ad uno stato di perfezione. V. questa voce. PRoGREsso (spec.), avanzamento gra duale e successivo degli Esseri, i quali hanno avuto un cominciamento e debbono avere una fine. I vegetabili nascono da un germe, non solamente picciolo ma spesso ancora invi sibile: gli animali passano dallo stato di prima formazione alla età adulta, e da questa poi, alla vecchiezza e alla disso luzione: le facoltà loro si sviluppano a misura che gli organi crescono e diven gono atti alle loro funzioni. Nell'uomo un tal successivo avanzamento è, più che in ogni altro Essere, notabile; dacchè l'in dividuo non solamente passa dall'infanzia alla virilità, ma le sue facoltà da uno stato puramente sensitivo, qual è ne fan ciulli, si cangiano in quelle di un Essere di superiore natura, dotato d'intelletto e di volontà. Progresso dunque è il natural corso, che aver debbono gli Esseri orga nici, i quali non acquistano, se non gra datamente, il pieno uso delle loro facoltà. A somiglianza degl'individui, le civili società hanno lo stato di giovinezza, e di virilità. E però progresso può ancora chiamarsi quel corso, che le nazioni han fatto nel passare dal primo loro stato alla perfetta civiltà. Ammettiamo in terzo luogo un'altra spe zie di avanzamento o di progresso, che è quello delle facoltà intellettive ed attive dell'uomo, le quali sviluppandosi formano l'umana cognizione. Queste hanno un cor so costante per la generalità, ed uno va rio, e più o meno rapido, per quella classe d'uomini che coltivano le scienze e le arti, e che si dedicano alla contempla zione delle opere della natura. Ora quando sentiam parlare di progresso continuo, sempre crescente, il quale con durci dovrà alla perfezione, a quale delle tre divisale spezie dovremo riferirlo, alla natura materiale degli Esseri, alle civili istituzioni, o all'umana cognizione? Niu no si è sinora avvisato di pronunziare un futuro avanzamento nella material condi zione degli Esseri, per lo quale gli ami mali o l'uomo divenir dovessero più vigo rosi, longevi, o immortali. Sarebbe que sta una follia, della quale gli esempi po trebbero appena trovarsi negli ospedali dei matti. Adunque il futuro avanzamento, che si fa sperare alla spezie umana, dee risguardare o una migliore sorte delle ci vili società, o un più vasto teatro di co noscenze, per lo quale lo spirito vedrà più innanzi determini della sua attual comprensione. Esaminiamo la possibilità dell'una e dell'altra speranza. Quanto alle civili società, esse hanno certamente un vantaggio per rispetto agl'in dividui, il quale consiste in questo che la loro vita è composta di più generazioni, ciascuna delle quali tramanda all'altra la propria sperienza, l'avverte de suoi er rori, e le dà l'opportunità di riparargli; donde segue che potrebbero forse perve nire ad uno stato di perfezione, che i pri mi loro fondatori non potevano augurarsi. Ma di quanto le nazioni saran capaci di profittare della sperienza, e chi può ac certarci che il futuro loro corso sarà sem pre indirizzato al conseguimento di quel maggior bene che costituir potrebbe il suo perfetto stato ? Due mezzi abbiamo per isciogliere sifº fatte quistioni: il primo è di studiare la natura morale delle società in quella de gli uomini che le compongono: l'altro di consultare la vecchia sperienza del genere umano, o sia la storia, che ci offre esem pi d'ogni genere, e da quali misurar po tremo la probabilità d'un avvenire, in cui il corso delle nazioni sia diverso o mi gliore di quel che sinora è stato. Quanto all'umana natura, non potendo supporla negl'istinti, negli affetti, e ne sentimenti diversa di quel che sinora è stata, non potremmo sperare di vederla avanzata nel cammino della perfezione, se non per l'aiuto delle istruzioni della vita civile, nella quale è in realtà riposta tutta la scala dei miglioramenti, di cui l'uomo è capace. Ma le tendenze, e le passioni del corpo civile non sono, se non l'aggregato de gl'istinti, degli affetti, e de sentimenti dei suoi componenti, modificati dall'interesse della sua materiale prosperità, e dalle pas sioni di quelli che lo rappresentano e lo reggono. La mistura di tutti questi elementi sì diversi tra loro dà per prodotto un certo bene publico, ancor esso mutabile, che mai non si ferma nel medesimo punto, si che il cammino delle nazioni ora si avanza verso un dato scopo, e ora cangiando di rezione se ne ritira. La vita in somma delle civili società, e per la instabilità dei consigli, e per la caducità propria d'ogni opera della mano dell'uomo, ha gli stessi periodi della vita degl'individui, l'età del nascimento, del vigore, e della dissoluzio ne. Niun popolo è sinora riuscito a ren dersi eterno per la sapienza delle sue isti tuzioni. Tra queste ve n'ha delle buone e delle sublimi, che le seguenti gene razioni han cercato e cercano d'imitare. Ma tutte le combinazioni della sapienza umana non han potuto impedire il ri torno e la ricorrenza delle stesse passioni e de'medesimi vizi. Le masse degli uomi ni unite insieme per un interesse comune si amano o si odiano come gl'individui: l'unione loro è precaria e passeggiera, come l'interesse che le unisce : l'am bizione, l'idolo del potere o della glo ria, l'avarizia, il timore, la diffidenza arma gli uni contro degli altri: la storia, ben lontana dal presentarci un progresso costante verso il bene, o sia verso un fine salutare a tutti comune, non c'insegna altra verità, se non che le nazioni poste nella medesima situazione hanno sempre operato allo stesso modo. Quale probabi lità dunque, che le sole istituzioni civili possano condurci ad uno stato futuro mi gliore del passato e del presente? Passiamo ora al terzo progresso delle umane conoscenze, di cui vediamo tutto giorno gli avanzamenti, e dalle quali po trebbe lo stato civile promettersi una pro sperità sempre crescente. Ma acciocchè non ci lasciamo illudere dalle vaghe speranze che potremmo formarci per lo senso d'un – 542 – vocalolo di sua natura indeterminato ed ambiguo, è necessario distinguere in qual parte delle nostre conoscenze sia cotesto progresso possibile; e supponendolo an cora illimitato e quasi infinito, qual sia il frutto che potremo ricavarne. Nello studio e nella contemplazione della natura noi raccogliamo ogni giorno nuovi fatti, e da questi passiamo alla conoscenza di altri fatti più generali che sogliam chia mare leggi naturali, e de quali la saga cità dell'intelletto si vale, sia per ampliare la cognizione delle qualità e delle rela zione delle cose sensibili, sia per meglio intendere l'ordine dell' universo. Di tali conoscenze profitta ancora la mente per imitare le opere della natura, per forma re nuove combinazioni della materia, per moltiplicare le arti, e con esse l'industria umana: Questo è il campo delle osser vazioni, delle scoverle e delle invenzioni, che noi possiamo considerare come ine sauribile, perchè immensa è la natura. Ella ha voluto riservare a tutte le ge nerazioni uno studio sempre ſecondo di novità, e con ciò ha dato un saggio della differenza che passa tra il finito e l'inſi nito. Noi abbiamo superato gli antichi, che ora risguardiamo come fanciulli, nelle scienze naturali; ogni secolo avanza l'al tro, nè può antivedersi il limite, dove, arresterassi l'industria umana nel creare nuove sorgenti di comodità e di ricchez ze. Cotesto illimitato progresso dunque ri sguarderà unicamente l'interesse materiale delle civili società, accrescerà la loro po tenza, il commercio, l'agiatezza, il lus so, e lusingherà tutte le passioni, che fomentar suole l'amor del potere e della gloria. È questa forse la prosperità che potrà rendere gli uomini migliori; che, potrà estinguere tra loro gli odi e le ri valità; che potrà render eterna la pace, e immutabile il regno della giustizia; o che potrà rendere generale e comune a tutte le nazioni il sentimento della pura e santa religione; sì che possa il comun padre della umanità, vedere riunita tutta intor no a se la famiglia del genere umano? È manifesto che la sola prosperità del l'interesse materiale delle società non po trebbe operare tanti prodigi, nè togliere il male dal mondo; che anzi non potrà non produrre quelle medesime conseguenze che ha sinora prodotto in tutte le nazioni, le quali si sono sopra le altre innalzate per potenza e per ricchezze. Ma v'ha un altro genere di conoscen ze, di cui non abbiamo ancora parlato, e delle quali è proprio, l'estendere la vista dell'intelletto. Son queste le scienze meta fisiche per rispetto alle quali varie sono le opinioni, e le speranze deloro cultori. Ta luni più circospetti e modesti assegnano a queste scienze per limite l'umana capaci tà, e credono che l'unico e vero loro scopo debba esser quello d'indagare per mezzo della osservazione gl'interni fatti dell'ani mo, onde sappia ciascuno conoscere se me desimo, e dall'analisi delle proprie facoltà. e delle operazioni loro pervenir possa alla cognizione delle relazioni dell'uomo verso Dio e degli altri Esseri, nel che è riposto l'ordine morale dell'universo. Dicono co storo essere una tale scienza la maggiore di tutte le altre, perchè promette all'uomo un progresso in realtà infinito; perchè gli scopre le sorgenti de doveri suoi, insieme col fine della vita; perchè gli addita i ter mini della sua capacità, onde raffreni la sua curiosità, e distinguer sappia l'utile dall'inutile sapere; perchè infine gli dimo stra il cammino della perfezione, la quale contiene una tale infinità di gradi, quanta - 545 – è quella che intercede tra la virtù umana e la divina. V. Metafisica. Altri per contrario di più franco animo ampliano il campo della metafisica, e cre dono potere per essa penetrare nella co gnizione delle cause e delle essenze delle cose, e predicono alla mente umana, che perverrà un giorno per sino a conoscere la sua propria natura, lo stato anteriore all'attuale sua esistenza, e i suoi futuri destini. Accusano essi di timidità e di cor tezza d'ingegno i metafisici dell'esperien za, e per non avere con questi nulla di comune, mutano ancora il nome della scienza, e la chiamano filosofia trascen dentale. Appartenendo noi a primi, e non a secondi, risguardiamo cotesta filosofia non come scienza, ma come un poetico parto della immaginazione, e della vana curiosità di quelli, i quali credono che la ragione abbia in se un germe riposto di sapienza, capace di farle trascendere i cancelli dell'umana condizione. V. Tra scendentale, e Trascendente. In conclusione, la voce progresso, ap plicata agli Esseri organici, non ha altro senso che quello de naturali periodi della loro materiale esistenza; applicata alle ci vili società, non indica, se non il corso che le nazioni han fatto e faranno dalla barbarie a diversi gradi della civiltà; ap plicata alle conoscenze delle scienze fisi che e delle arti che ne derivano, espri me l'inesauribile campo delle osservazioni naturali, e della industria umana; appli - cata infine alle speculazioni della sapienza trascendentale, contiene i deliri della im maginazione, e il romanzo della filosofia. Finalmente il significato di graduale e suc cessivo avanzamento verso la perfezione, contiene una idea vera, quando il voca bolo progresso si applica alla volontà e all'azione, o sia quando i pratici porta menti della vita si prefiggano per loro sco po l'imitazione di quella sublime ed eroica virtù che può far dell'uomo una immagine della Divinità. V. Filosofia, Virtù. PaoIEzIONE (spee. e crit.), l'atto, col quale si pone in moto un corpo grave, imprimendogli una forza istantanea in una data direzione, cessata l'azione della qua le, il corpo rimane abbandonato alla pro pria gravità. V. Forza. » . - Cotesto vocabolo ha diversi significati nella meccanica, nella prospettiva, e nel la geometria descrittiva. Nella meccanica esprime l'atto del proiettare i corpi pesan ti. Nella prospettiva e nella geometria de scrittiva indica la rappresentazione delle dimensioni e del contorni del corpi visibili sopra una superficie piana. V. Prospettiva. PaoMEssA, PRoMEssioNE e PRoMissione (prat.), spontanea dichiarazione di voler dare, o fare qualche cosa in favor d un altro. - - La promessa accettata da colui, in fa vor del quale è stata fatta, è obligatoria pel promettente. Essa è il fondamento delle obligazioni volontarie, le quali nel pri mitivo diritto naturale, del pari che nel secondario o civile, formano uno de due legami delle umane comunanze. Cotesti le gami sono: le obligazioni che c'impone la legge del giusto e dell'onesto, e quelle che contraiamo col proprio fatto. V. Obli gazione. , e - “ - º - º PRoNoME (disc.), voce che nel discorso tiene il luogo del nome, e serve a deter minare il suggetto, di cui si parla per l'idea della persona, e non della natura 8lla, - 544 - Riteniamo in questa definizione il con celto di Beauzée, il quale sembra aver ben conciliato le difficoltà degramatici in torno alla natura, e all'uso del pronomi. Per verità il lodato autore non fece al tro che esprimere con maggior precisione il concetto del P. Buffier. Questi, par lando della definizione del pronome aveva ( nella grammatica francese detto: « Dacchè si parla del pronome non si è ancora ben conosciuto che esso sia, come se la sua natura fosse di quegl'impene trabili segreti, ne'quali non è lecito pene trare. Acciocchè non si creda esser que sta una mia esagerazione, leggasi il dotto Vossio, il luminare della età sua, e il principe de gramatici. Dopo di aver di chiarato (e con ragione) che tutte le de finizioni date insino a quel tempo del pro nome non erano in alcun modo accetta bili, pronunzia, che il pronome è una voce la quale in primo luogo si riferi sce al nome, e in secondo luogo signi fioa qualche cosa. Per me, col rispetto dovuto al merito d'un sì grande uomo, confesso di non comprender nulla della sua definizione ». Ed esponendo in seguito il suo proprio concetto, osserva che la maggior parte de suggetti, circa i quali versa ogni discorso hanno un nome par ticolare, oltre del quale ne hanno ancora uno comune, allorchè parlasi della loro persona. Così, se taluno parli di seme desimo, si designa colla voce io o me, e se designar vuole la persona cui parla, dice tu o voi, o se indicar voglia colui di cui parla, lo designa colle voci egli o ella. Ora siccome i gramatici hanno ri servato come caratteristico delle denomina zioni proprie, il vocabolo nome, così han chiamato pronomi le denominazioni comuni che si pongono nel luogo delle proprie. Nel concetto del P. Buſier v'ha un pic ciol vacuo logico. In che il proprio diffe risce dal comune, e come l'uno può egual mente che l'altro, determinare il medesimo suggetto? A cotesto vacuo supplì Beauzée. « I nomi e i pronomi, egli dice, hanno qualche cosa di comune, dapoichè pren dono il medesimo luogo nel discorso, e producono lo stesso effetto. Sembra dun que che il carattere comune consiste in questo, che entrambi determinano il sug getto di cui si parla: il nome determina il suggetto designandolo per l'idea della sua natura; il che non è del pronome, il quale può designare suggetti di diversa natura. Il tu per esempio, designa un uomo quando a lui s'indirizza la parola, e può ancora designare un cavallo, un cane, un albero, un ruscello, il cielo, la terra, la republica, un Essere astratto e reale, la Divinità stessa, secondo che sia ad un di essi indirizzato il discorso. Ma il tu designa sempre il suggetto cui s'indirizza il discorso, qualunque sia la natura sua, siccome l'io addita la persona che parla, o in bocca alla quale si pone il discorso ». Eccoci dunque, s'io non m'inganno sulla buona strada: i nomi determinano il suggetto designandolo per l'idea della propria natura : i pronomi lo determi nano designandolo per l'idea della per sona. V. Mome, Persona. PRONOSTICo (spec. prat. e crit.), an fivedimento dell'animo, per lo quale si annunzia il futuro. La coscienza, la comune ragione, le scienze, e le arti, hanno ciascuno in de terminati casi una naturale virtù di pro nosticare, o sia di antivedere il futuro. Ogni uomo antivede le conseguenze ne – 545 - cessarie delle proprie azioni: la prudenza regola i pratici portamenti della vita, schi va il male, e predispone il bene per via di pronostici, che ricava dalla sperienza: l'astronomia pronostica le periodiche rivo luzioni degli astri: la medicina forma an ticipati giudizi intorno al corso o all'evento delle malattie: le arti tutte prevedono gli effetti di date composizioni di elementi materiali, o di forze insieme combinate. La conoscenza del futuro dunque non è in teramente chiusa alla mente; ma la natura le ne ha dato tanta, quanta serve all'uso delle proprie facoltà, e allo scopo della vita. Cotesta conoscenza è interamente fon data nella connessione delle cause naturali o sia nel grande ed universal principio della causalità. E però la certezza o pro babilità del pronostici nasce dalla diversa qualità delle relazioni che gli avvenimenti futuri hanno co passati e copresenti. Quan do tali relazioni sieno necessarie, i pro nostici son certi, sì che l'uomo legge nel futuro come nel presente; e per l'opposito divengono probabili e incerti, se noi co nosciamo una parte sola di tali relazioni. Ogni altro giudizio fondato sopra la sola possibilità, o sopra ignote relazioni entra nel genere del vaticini e delle indovinazio ni, V. Causa, Coscienza, Relazione, PaoNUNZIA e PaoNUNZIAzIoNE (disc.), l'ar ticolazione delle parole, fatta colla stessa correzione che richiede l'ortografia.V. que sta VOCe. - Siccome noi pronunziamo prima di scri vere, e scriviamo per ritrarre con figure o cifre quel che abbiamo pronunziato; così la pronunziazione esser dovrebbe regola e modello della ortografia. L'esatta corrispondenza tra 'l suono della voce e i caratteri della scrittura è non per tanto un pregio dato a poche lingue, e forse alla sola lingua italiana, dapoichè non può trovarsi negl'idiomi che han dit fonghi o altri suoni composti; non in quelli ne quali il dittongo è nella scrit tura rappresentato da semplici vocali; e molto meno in quegli altri ne quali le consonanti superflue nella pronunzia son richieste nella scrittura, sia per distinguere i vocaboli simili, sia per indicare la ra dice de nomi composti o derivati. Sarebbe un inutile voto la conformità tra la pro nunzia e la scrittura, com'è quella della uniformità degli alfabeti. V. Alfabeto. In un significato più ampio prendesi la pronunziazione per la retta recitazione d'un discorso; nel quale senso è uno dei principali requisiti dell'oratore, acciocchè il discorso ottenga il fine che si prefigge, Cicerone definilla, acconcia moderazione della voce, del volto, e dell'azione. V. Elo quenza. PaoPAGAzioNE (spec.), l'atto per lo quale gli Esseri organici si moltiplicano per via di generazione. V. questa voce. PRoFENSIoNE (prat.), tendenza, o di sposizione dell'animo ad un sentimento o ad un affetto. - È preso dalla tendenza de'corpi al moto, che è il suo significato proprio. La pro pensione del mobile a discendere, siccome dice Galilei, si va facendo sempre minore, quanto egli più vicino si trova al primo termine della sua discesa. È meno dell'inclinazione, che esprime un principio di sentimento già determinato. V. Inclinazione. PaoPoRzIoNE (spec.), l'eguaglianza di due rapporti o ragioni. – 546 – Distinguesi in aritmetica e geometrica, secondo che i rapporti che la compongono sieno aritmetici, o geometrici, cioè di quoziente o di differenza. V. Ragione, Rapporto. La proporzione aritmetica è stata an che detta equidifferenza da moderni ma tematici. PRopoNIMENTo, RoposiTo (spec. prat. e dise. ), ferma determinazione di operare conformemente al deliberato. Appartiene al genere delle azioni incom piute, perchè indica la determinazione del la volontà, separata dall'atto dell'esegui mento. V. Volontà. Abbraccia così la determinazione pre sente, come la successiva, e presuppone sempre una matura deliberazione congiun tamente alla persuasione della sua conve nienza. V. Convenienza, Persuasione. E però proposito dell'animo è la costante determinazione di praticare la virtù, di rendere la giustizia ad ognuno, o di se guire tale o tale altra regola nel porta mento della vita, o nell'uso delle nostre facoltà. Distinguesi per conseguente dalla semplice volizione, la quale può essere passaggiera e mutabile, come la volontà, di cui è l'atto. V. Volizione, Volontà. Il proposito vale talvolta il suggetto del discorso, o l'occasione opportuna di dire o di fare qualche cosa. Paoposizione ( disc.), detto che afferma o nega una cosa, nel quale senso equi vale all'enunciazione. V. Enunciazione, Ogni proposizione è composta di sub bietto e di attributo , o predicato, ed è vera o falsa. Il giudizio è la facoltà del l'animo , che conosce della sua verità , o sia della convenienza delle relazioni del predicato col subbietto. V. Giudizio, Pre dicato, Subbietto. Le proposizioni possono essere grama ticalmente o logicamente considerate. La parte gramaticale risguarda la forma della proposizione, la quale costa essenzialmente del subbietto dell'attributo o predicato, e del verbo. Del subbietto la mente conce pisce l'esistenza con una data relazione ad una qualità o accidente: il predicato espri me appunto la qualità, o l'accidente: il verbo esprime il giudizio che unisce l'uno all'altro. Dalla natura del subbietto o del l'attributo nasce la distinzione delle pro posizioni semplici, delle composte, delle complesse e delle incomplesse; siccome dalle modificazioni fatte al suggetto o al predicato nascono le proposizioni principali e le incidenti. Intorno a ciò v. i gram matici. La parte logica risguarda o l'intelligenza de vocaboli ricevuti, o il vario uso che può farsi delle proposizioni. Senza correr dietro alle innumerevoli di stinzioni fatte da'logici, per rispetto alla di versità desubbietti e delle modificazioni lo ro; le principali son quelle che traggono ragione dalla quantità, o dalla qualità del le proposizioni. -- Per la quantità distinguonsi le universali dalle particolari, o singolari, e le defi nite dalle indefinite. Proposizione univer sale è quella che comprende una colle zione d'individui, o un genere tutto in tero; sì che i vocaboli collettivi, tutto, ogni, niuno sono caratteristici delle pro posizioni universali, tranne i casi ne quali anche i nomi collettivi possono essere ado perati per esprimere una proposizione sin golare. - Proposizione particolare è quella il cui suggetto, sebbene sia espresso con termini – 547 - universali, pure vien limitato dal predi cato ad un significato individuale. Singolare o individuale è quell'altra che versa circa un individuo solo. Definite son quelle, nelle quali trovasi un subbietto di determinata quantità: in definite quelle altre in cui manca una tale determinazione. Per rispetto poi alla qualità, le propo sizioni sono affermative o negative, la combinazione delle quali colle universali e colle particolari fu dagli scolastici espressa compendiosamente con quattro delle vo cali A, E, I, O, ed enunciata ne due seguenti versi. Asserit A, negat E, sed universaliter ambo Asserit I, negat 0, sed particulariter ambo. Le proposizioni sono state ancora distinte in categoriche e ipotetiche, partizione la quale diede nome a due corrispondenti spezie di logiche argomentazioni. Catego riche furono dette le proposizioni, nelle quali si assume assolutamente la conver nienza del predicato al suo subbielto: ipo tetiche quelle nelle quali il predicato vie ne sotto una data condizione attribuito al subbietto. - - Circa l'uso che di queste diverse spezie può farsi, della loro conversione e delle varie sorte di sillogismi, che da esse pose sono risultare, più opportuno è il parlarne nell'articolo sillogismo. V. Conversione, ASillogismo. Proposizioni identiche sono state dette quelle, nelle quali si attribuisce la mede sima nozione, così al subbietto come al predicato. Tali sono per esempio, l'uomo è uomo, quel che è, è, A è A, A non è B, ed altre simili. Circa l'utilità di tali proposizioni si è molto disputato tra sa pienti. Locke chiamolle frivole, perchè per esse di nulla si accresce l'umana cognizio ne, se si eccettua la comodità che appre stano nelle dimostrazioni indirette, delle quali lo scopo è, il rendere palpabile l'as surdo. Leibnitz per l'opposito riconobbe co me importante l'uso di tali proposizioni, non solamente nel caso delle dimostrazioni indirette, ma anche quando, nulla inse gnando di nuovo, servono a ricordare quel che sappiamo, o a ridurre a verità evidenti le ultime conseguenze delle pro posizioni dimostrabili. Per verità, senza negare l'abuso che i logici han fatto di siffatte proposizioni, non posson dirsi inutili, tra perchè tutte si risolvono nel principio della contraddi zione, e perchè sono il fondamento delle definizioni reali, le quali in sostanza al tro non fanno che determinare la cosa per la sua essenza, o sia per le qualità che la rendono cognoscibile. V. Contrad dizione, Definizione. PaoPRIETÀ (ontol. e spec.), attributo inseparabile dal subbietto. V. Attributo. Gli scolastici definivano la proprietà: quel che deriva dalla essenza, senza essere l'essenza, il che era lo stesso di quel che essi dicevano attributo proprio. V. Essenza. PaoPRIo (disc. ), l'attributo essenziale che distingue una spezie dall' altra, e che per conseguente è comune agl'indivi dui della medesima spezie. V. Individuo, .Spezie. - Il proprio come una delle qualità atta a fare discernere i generi dalle spezie, entra negli universali delogici, e ne cin que predicabili degli aristotelici. V. Ge nere, Predicabile, Universale. - ar – 548 – - PaosA (dise. ), il discorso naturale, li bero dalle misure e dalle rime del verso. V. questa voce. È vocabolo suggerito dalla necessità di distinguere il discorso poetico dal naturale, che non è circoscritto da altre regole fuor di quelle della sintassi. Per la stessa ra gione, per la quale distinguesi il parlare sciolto dal misurato, la prosa dee schi vare ogni misura o cadenza di verso, e correre libera, servate le regole della pro pria eufonia. V. questa voce. a - PRosiLLogisMo (disc. ), voce scolastica per la quale designavasi una proposizio ne, o un secondo sillogismo, con cui raf forzavasi una delle premesse d'un prece dente sillogismo. In questo caso la mag giore del secondo poteva essere sottintesa nella premessa del primo. V. Premessa, Sillogismo. - PRosPERITÀ (prat.), seguenza di avve mimenti favorevoli a nostri desideri. Scambiasi comunemente colla felicità, dalla quale è diversa. La felicità racchiu de l'idea del bene che ci conviene, lad dove prosperità dicesi di ogni bene che ci viene dalla fortuna, o che ci procuriamo per soddisfare il desiderio che ne abbiam concepito. V. Felicità, Fortezza. PRosPETTIVA (crit. e spec.), arte di de lineare gli obbietti visibili sopra una su perficie piana, situata d'ordinario tra l'oc chio e l'obbietto, e considerata come tra sparente. Questa è propriamente quella che dicesi prospettiva lineare, perchè versa circa la grandezza, la forma, e la posizione delle linee o de'contorni negli obbietti visibili, e distinguesi in teoretica e pratica. La teoretica spiega le ragioni delle diverse apparenze o rappresentazioni di taluni ob bietti, secondo le diverse posizioni dell'oc chio che le guarda. Cotesta scienza è parte delle fisico-matematiche, dapoichè appar tiene del pari all'ottica e alla geometria, che anzi forma il suggetto della così detta geometria de visibili, la quale per un ragionamento tutto geometrico deduce la grandezza, la figura e la posizione visi bile d'un obbietto dalla grandezza, dalla figura e dalla posizione reale dell'obbietto medesimo. V. Apparente, Distanza, Vi sibile. La prospettiva pratica è l'arte di rap presentare gli obbietti apparenti, e quelli che l'immaginazione concepisce, sotto una forma simile alla visibile. Tanto la teore tica quanto la pratica costa di due parti, l'ortografia e la scenografia, la prima delle quali suppone l'occhio ad una di stanza indefinita dall'oggetto, la seconda ad una distanza finita. Prospettiva aerea è stata detta quella che per mezzo de'colori, e della grada zione della luce rappresenta la grandezza de corpi, sminuita in proporzione della loro distanza. Cotesto effetto si ottiene rappre sentando gli obbietti, come veduti a tra verso d'una colonna d'aria, la maggiore o minore lunghezza della quale esprime le diminuzioni loro. La prospettiva lineare e l'aerea formano una parte principale della scienza del pit tore. La lineare è il fondamento di tutte le arti del disegno: applicata alla fortifi cazione, prende la denominazione di pro spettiva militare: suo scopo è il disegnare sopra un piano un poligono, o altro ob bietto, quale si presenta alla vista dell'os servatore situato ad una certa altezza, o ad una data distanza. Da questa prospet – 549 – tiva può dirsi nata una nuova parte della geometria sublime, detta geometria de scrittiva, di cui doppio è lo scopo: primo è il dar le regole come rappresentare sopra un piano, che ha due sole dimensioni, cioè lunghezza e larghezza, i corpi che ne hanno tre, cioè lunghezza, larghezza e profondità, purchè sieno rigorosamente determinabili: secondo è il dedurre le ve rità generali, che risultano così dalle for me, come dalle rispettive posizioni dei corpi medesimi. E dovuto agl'inventori della geometria descrittiva l'avere ricavata da un'arte puramente grafica una scien za, di cui l'applicazione ha prodotto ine stimabili vantaggi alle arti e spezialmente alla stereotomia, alla industria ed alle stes se scienze fisico-matematiche. Di questa nuova scienza, della quale si dà l'onor della invenzione all'illustre matematico Monge, aveva dato un primo saggio il dott. Reid nella sua geometria de visibili, Per essa gli artefici apprendono non so lamente le grafiche costruzioni, ma an cora la composizione delle macchine ed il meccanismo delle forze loro: per essa conosconsi le vere regole della prospettiva, e delle ombre nel disegno: per essa acqui stasi la teoria delle proiezioni, delle quali ha fatto tanto tesoro la scienza delle for tificazioni: per essa infine, aiutata dal calcolo, l'ingegno si esercita alla inven zione e alla soluzione del più difficili pro blemi. V. Proiezione. PaossiMo (prat.), l'uomo considerato come membro di una medesima famiglia. È il significato sublime che gli ha dato il vangelo nel precetto: ama il prossimo tuo come te stesso, precetto in cui si racchiude il concetto della perfetta virtù, della giustizia, della benevolenza, e di tutti i doveri dell'umana società. L'amare Dio sopra ogni cosa, e il prossimo suo come se stesso, sono i due precetti nei quali è riposta la legge del cristianesimo, legge che ha messo l'impronta dell'auto rità divina al senso stesso della ragione. Cotesto senso era impresso nella umana na tura, cioè ne bisogni, negli affetti, nello interesse, nella reciprocazione de'doveri, e sopra ogni altro nella coscienza dell'uomo. La legge di grazia dunque non ha fatto altro, che rendere più forte la volontà, rischiarando la ragione con una luce più viva, capace di dissipare la nebbia delle passioni, e del falsi beni che crear suole l'interesse materiale della vita. Quell'amor del prossimo che la ragione vedeva, e che l'interesse materiale soffogava, fu diviniz zato, dapoichè acquistò il carattere di una naturale effusione dello stesso amore, che l'uomo dee a Dio. Questo primo amore verso l'autore della nostra esistenza im para ad amare se medesimo ed il prossi mo: se medesimo, nello scegliere il vero bene: il prossimo, nel guidarlo a volere e ad amare lo stesso bene. È questa la più chiara e la più semplice dimostrazione della perfetta congruenza del la fede colla ragione; e però i pochi pen sieri sin qua esposti vanno considerati, non come un comento teologico, ma co me il chiaro e semplice concetto, che può formare della divinità della religione cri stiana anche l'uomo di volgare ragione, quando ne vada cercando le pruove nella verità della sua dottrina, e nella evidenza della sua luce. V. Religione. PRoTERvIA e PRoTERvITÀ (prat.), osti nata e indurita iniquità. V. questa voce. L'ostinazione è il carattere che distin gue questo vocabolo dagli altri propri di - 550 - ogni vizio, sì che la protervia si applica ad ogni sorta di malignità o malizia.V. que ste voci. PRovERBIo (dise. e prat.), detto com pendioso, che racchiude una verità nota per esperienza. Vale ancora villania o ingiuria. V. que ste voci. PRovIDENzA e PRovvIDENZA (spec. eprat.), la ragione divina che presiede all'ordine e al reggimento dell'universo, O la ragione che ha coordinato tutte le cose al fine loro, O la cura che Dio prende di tutte le COS6 , - O la volontà di Dio autrice dell'ordine di tutte le cose. Son tutte definizioni, che contengono il medesimo concetto, più o men breve mente espresso, se non che sembra pre feribile la prima, la quale congiugne le due mozioni essenziali, cioè la causa del l' ordine, e la conservazione delle cose create. Il conservare poi comprende tanto l'azione delle leggi generali, sopra le quali riposa l'ordine dell'universo, quanto le particolari disposizioni che determinano il modo dell'essere di ciascuna cosa, o di ciascun individuo, e ciò tanto nel mondo materiale, quanto nell'intellettuale o spi rituale. - Le leggi generali della natura regolano il moto, e le reciproche relazioni delle di verse parti della materia, dall'accordo delle quali risulta, l'ordine del mondo sensibile; ma non comprendono quell'altro ordine di fatti che dipendono dalla volontà degli Es seri intelligenti, pe quali lo stesso mondo sensibile è stato creato. Ora il limitare i di segni e le cure della Provvidenza, o sia della mente ordinatrice di tutte le cose, alle sole leggi fisiche, produrrebbe uno de due seguenti assurdi: o soggetterebbe il mondo intelligibile a una legge di ne cessità, che distruggerebbe la volontà de gli agenti liberi; o lascerebbe senza go verno, e in preda al caso il mondo mo rale. Qual mostruoso concetto, che il mondo sensibile abbia una legge, e che l'intelligibile non ne abbia alcuna? I soli sofismi della falsa filosofia potevano con cepire una ipotesi, che la ragione, la spe rienza, e l'opinione di tutta l'umanità ri gettano. E che sia questa una ipotesi ri pugnante, così al naturale concetto che la mente forma dall'eterna sapienza del Creatore, come all'interno sentimento di ogni uomo, il dimostra la pratica dot trina di quegli stessi filosofi, che teoreti camente la professarono. Tra costoro si di stinsero gli stoici, che tutto facevano di pendere da un ordine immutabile, e non lasciavano alla Provvidenza se non l'inu tile prerogativa di antivedere e di predire il futuro. Ciò non ostante quando leggesi il ritratto che ne fa Seneca nel libro de pro videntia non può non apparire manifesta la contraddizione d'un sistema, che da una parte stabilisce il principio della virtù nella bontà e perfezione di Dio, e dall'al tra nulla gli lascia nella dispensazione dei beni e demali della vita. Ecco i suoi con cetti: « Iddio ama i buoni, che ha fatto simili a se, e co quali ha stabilito quasi un legame di parentado e di amistà: eser cita la virtù loro colle sofferenze e col do lore, e gli prepara al consorzio del suo eterno domicilio, ma lascia la distribu zione del male e del bene all'ordine in flessibile delle cose, ed è soltanto spet tatore del loro portamenti ». Inter bonos viros ac Deum amicitia est, conciliante – 551 – virtute, amicitiam dico? imo eliam ne. cessitudo et similitudo quoniam qui dem bonus ipse tempore tantum a Deo differt, discipulus ejus aemulatorque , et vera progenies: quem parens illema gnificus, virtutum non levis eraetor, ut severi patres durius educat. Itaque cum videris bonos viros acceptosque diis la borare, sudare, per arduum ascende re; malos autem lascivire, et volupta tibus fluere, cogita filiorum nos mode stia delectari, vermularum licentia: il los disciplina tristiori contineri, horum ali audaciam. Idem tibi de Deo liqueatº bonum virum in deliciis non habet e peritur, indurat, sibi illum praeparat. Dopo questi ed altri pensieri non meno sublimi, non può non destar maraviglia l'ultima conclusione, cui mena il discorso del cennato autore: Seio, omnia certa et in aeternum dicta lege decurrere. Fata nos ducunt, et quantum cuique re stet, prima nascentium hora disposuit. Causa pendet ea caussa, privata ae pu blica longus ordo rerum trahit ... Ille ipse omnium conditor ac rector scripsit quidem fata, sed sequitur semper pa ret, semel jussit... Mon potest artifex mutare materiam: haec passa est. Quae dam separari a quibusdam non possunt, cohaerent, individua sunt. V. Fato. La dottrina della creazione insieme co gli altri vaneggiamenti delle sette filoso fiche del paganesimo, ha fatto ancora spa rire i falsi concetti, che queste avevansi formato della Provvidenza. La RAGIONE su PREMA, che ha creato tutte le cose, e le ha predisposte ad un fine; che ha stabi lito un ordine per gli Esseri intelligenti, come per le cose materiali; che ha dato per norma a questi Esseri la nozione del giusto e dell'onesto; che insiem colla co gnizione del vero bene, gli ha dotato del libero uso della volontà; che pietosa e soc correvole provvede a loro bisogni, emenda i falli loro, e a se incessantemente li ri chiama; questa divina ragione, dico, che noi chiamiamo Provvidenza abbraccia le cose tutte, corruttibili e incorruttibili, dal le più umili alle più sublimi; conserva le spezie e gl'individui, e colla sua pre scienza antivede tutti i futuri avvenimenti, tanto quelli che dipendono dall'ordine ge nerale delle leggi naturali, quanto gli altri che nascono dal fatto, o sia dalla volontà degli agenti liberi, a quali ha dato in uso la terra. Questa è la Provvidenza che ci nutrisce; che invochiamo ne' biso gni, che ci sostiene colla speranza del bene futuro, che ci consola ne'mali inevitabili della vita, e ci dispensa il primo e il maggiore di tutti i beni, la pace cioè e l'in terna tranquillità dell'anima. V. Bene, Creazione, Prescienza. PaovocAMENTo (prat.), l'atto o il detto, col quale cercasi di commuovere un altro al risentimento, o allo sdegno. Differisce dall'incitamento, che è pro prio delle commozioni prodotte dall'istin to, o da altra propria disposizione. V. In citamento. PRUDENZA (prat.), il discernimento ne cessario nella ricerca del vero, e nella scelta del bene. - La prudenza è più che virtù: è quel retto giudizio, che una mente matura acquista per la riflessione e per la sperienza: suoi requisiti sono la memoria del passato, la penetrazione del giudizio e l'antivedimento del futuro, il che ha fatto talvolta scam biare cotesto vocabolo coll'altro di pro videnza (quae virtus er providendo est - 552 - appellata prudentia): è l'umana provi denza, o sia quel più alto segno di ac corgimento, cui può la ragione pervenire: cotesto accorgimento applicato alla cura delle domestiche cose forma l'ottimo pa dre di famiglia, e alle pubbliche, il sag gio amministratore. V. Providenza. Socrate chiamò la prudenza il complesso di tutte le virtù, ma dir volle il giudizio necessario alla pratica di tutte le virtù, o come disse Cicerone, sine qua ne in telligi quidem ulla virtus potest. Ben disse il nostro Francesco da Buti nel co mento sopra Dante: « Prudenza è virtù intellettuale, drizzante l'uomo alle virtù morali, e comandante alle virtù intellet tuali ». È il sale della virtù, il quale indirizza la volontà alla moderazione, e l'intelletto all'esatto giudizio della verità. V. Virtù. PRUovA (dise. spec. e prat.), l'argo mento che si adduce per la verità d'un fat to, o d'una opinione. V. Fatto, Opinione. Vuolsi intendere per opinione l'assenti mento che prestiamo ad ogni proposizio ne, che a prima vista non apparisca certa o dimostrata. Locke chiamò pruove le idee interme die, le quali dimostrano la convenienza delle estreme, e denominò sagacità il na turale artifizio della mente in ricercarle, In questo senso ogni dimostrazione è una pruova della verità dimostrata, siccome ogni sillogismo è pruova della sua con seguenza. Da ciò segue che le sole veri tà, le quali non han bisogno di pruova, son le intuitive, che anzi queste servono come principi di pruova delle altre. V. Di mostrazione, Intuitivo, Verità. Intorno alla definizione di Locke Leib nitz osservò, che la vera arte di trovare le idee medie è l'analisi, mediante la quale si perviene alla soluzione, non so lamente delle quistioni semplici intorno alla verità o falsità d'una proposizione, ma ancora delle più implicate, che ver sano circa le qualità d'un dato subbietto. Altra volta ascrivevasi a genio d'invenzione il supplire alla dimostrazione d'un teorema già da altri trovato, e di ciò facevasi quasi un miracolo della sintesi. Ma quando ri flettasi alla maggior difficoltà che v'ha nel trovare, non solamente le verità ignote, ma sì bene i mezzi per eseguire quel che i problemi propongono, ognuno dovrà ri conoscere le superiorità dell'analisi, e ri sguardarla, come il vero instrumento del l'arte d'inventare. V. Analisi, Inventare, Sintesi. In un significato meno ampio e più usuale, il vocabolo pruova si adopera per quelle conoscenze di fatto, acquistate per la credenza a detti altrui, le quali pas sano nell'animo nostro, accompagnate dalla certezza morale, e il più delle volte dalla semplice probabilità. Cotesto genere di conoscenze comprende tanto la notizia de fatti intervenuti fuori del propri sensi, quanto le opinioni altrui intorno alla ve rità defatti medesimi: coteste opinioni tras messeci per lo insegnamento, o per la sto rica tradizione, contengono una scala di conoscenze intermedie, a ciascuna delle quali corrisponde un diverso grado di pro babilità. La probabilità consiste nella più o meno verisimile esistenza de'fatti narra ti, e creduti. V. Probabilità. L'abito di assegnare a ciascuna pruova il giusto suo valore è la principal funzione del criterio della ragione; siccome le re gole per le quali conduciamo il ragiona mento dalle verità o da fatti noti agl'ignoti, formano la scienza che diciamo - 555 - logica. Cotesta scienza, di cui è proprio il discernere le relazioni di tutte le idee, e il determinare i gradi della connessione loro, è quella che presiede al criterio del le pruove, e può dirsi l'arte critica uni versale. Sua derivazione è quella parte dell'arte critica, la quale discute e deter mina la veracità delle pruove defatti an tichi: applicata alla storia in generale, alla verità delle sue narrazioni, all'au tenticità o credibilità del suoi documenti, e alla legittimità delle sue conclusioni, prende la speciale denominazione di cris tica della storia. V. Criterio, Critica, ALogica, Storia, I generi delle pruove son tanti, quanti sono i mezzi, pe'quali acquistiamo le co noscenze, o sia quanti sono gl'instrumenti dell'umana cognizione. Cotesti instrumenti sono, l'induzione, il ragionamento, la sen sazione: l'induzione somministra le pruor ve che nascono dalle relazioni di verità ne cessarie, come l'effetto argomentato da una causa unica e indispensabile, il ragio namento fornisce quelle, che si deducono dalle relazioni de'fatti possibili e contingen ti: la sensazione in fine dà le pruove dei fatti a sensi immediati. Ciascuno de tre di notati generi di pruove perde una parte del la sua originale certezza nelle conoscenze, che acquistiamo per mezzo dell'autorità, o sia per l'altrui testimonianza. La scienza originale resta presso quelli, all'autorità de quali prestiamo credenza; sì che il giur dizio e l'assentimento nostro rimane su bordinato ad una doppia condizione, cioè che il primitivo concetto di coloro i quali l'hanno a noi tramandato, sia stato scevro d'errore; e che la manifestazione di tal concetto sia stata fedele al suo archetipo, Colesti due presuppositi son quelli che fan discendere la certezza, dal grado proprio, al relativo. V. Autorità, Credenza, stimonianza. Di tal natura sono le pruove, che for mano la materia del giudizi contenziosi. I generi di coteste pruove sono quegli stessi che abbiamo testè additato ; l'induzione somministra gl'indizi necessari; il ragio namento gl'indizi probabili, le sensazioni, la pruova testimoniale, nella quale com prendesi la spontanea confessione, con siderata come la testimonianza che rende l'autore stesso del fatto, spinto dalla for za della verità, e dalla voce della propria coscienza. V. Coscienza, Indizio, Le regole per valutare i diversi gradi di credibilità di ciascuna delle divisate pruove, formano un'arte figlia della lo gica e della critica universale, la quale dal perchè è applicata ad un particolar genere di fatti, prende la speciale deno minazione di logica de probabili, V. Pror babile, Te. - PsiconiAat (erit.), vocabolo di qualche moderno zoologo, per lo quale si è in teso designare una classe collettizia di corº pi organici vegetanti e viventi, che erº scono e si sviluppano a guisa de minerali e devegetabili, e si moltiplicano per pic ciole propagini animale: di questi, ta: luni son privi di facoltà locomotiva, ed altri no, con altre varietà che rendono in essi incerta l'essenza di animali o di piante. Tal'è l'immensità della natura, e tale la legge di continuità, colla quale ha ella disposto la gradazione degli Esseri, che v' ha un confine quasi indiscernibile trai due regni vegetale ed animale. Ciò non ostante volendo i zoologi stabilire de ca ratteri discernitivi dell'uno e dell'altro si son divisi in diverse opinioni, volendo gli 4ù - 554 – uni prendere per discernicolo il moto sponº taneo e proprio, ed altri l'organo digesti vo. Checchessia, di tal quistione, si sono insino ad ora designati col nome di zoo ſiti gli Esseri equivochi che partecipano della pianta e dell'animale, e si è questa classe suddivisa in molti generi, dando a ciascuno un proprio carattere. Non sembre, rebbe perciò necessario d'introdurre nuovi vocaboli, se non nel caso, che delle spe zie meglio conosciute passar dovessero ad uno de due regni, V. Zoºfilo. a i , a . i 15. i s . PsicoLoGIA (crit. e spec.), parte della metafisica, la quale tratta delle anime umane. V. Anima, Metafisica. i, Altra volta è stata la psicologia distinta in empirica e razionale. Empirica era la scienza dedotta dalla sperienza, per mezzo della quale spiegavansile interne operazioni dell'anima. Razionale dicevasi la stessa scienza, quando da principi ricavati dalla sperienza deducevansi a priori le facoltà e le qualità che convengono alla natura dell'anima. Cotesta addoppiatura di scien za, che piacque grandemente a Wolfio, altro in sostanza non era, che una pruova per saggiare la verità e la legittimità delle deduzioni psicologiche; vale a dire, era il doppio metodo sintetico e analitico, ap plicato alle medesime verità, le quali han no per comune origine l'interna osserva zione di noi stessi. Ma la psicologia razio nale, considerata l'anima come un ente, altigneva anche i principi, le astrazioni e le ipotesi dalla ontologia, il che lungi dall'accrescer lume alla scienza, le comu nicava una parte di quel vago ed incom prensibile, di cui l'ontologia per se stessa abbonda. Or da colesta mistura nacque che alla psicologia si anteponesse lo studio della logica e della ontologia, e che a - quella si desse il nome di filosofia razio nale, a questa di filosofia prima. V. Ana disi, Ontologia, Sintesi. Se tali denominazioni indicar debbono l'ordine col quale formansi e si succedono in noi le nozioni dell'anima; entrambe con verrebbono alla psicologia, come quella che apre la mente a principi della teologia na turale, della filosofia morale, e della logi ca. Ora spogliata la scienza dal gergo on tologico, e stabilita l'osservazione degl'in terni fenomeni dell'anima, come la prima guida della conoscenza di noi stessi, e del le nostre facoltà, è manifesto che la psi cologia porti seco la prima fiaccola della ragione, la quale partendo dalla nozione della esistenza e della interna attività del l'anima, comincia dallo spiegarci i primi fenomeni delle sensazioni, e ci conduce alla conoscenza di tutte le successive ope razioni della mente. - si º In fatti il primo attributo dell'anima di cui ci accorgiamo, e che ci svela la realtà della nostra esistenza, è il pensiero: i primi pensieri nascono dalle sensazioni : la percezione di tali sensazioni desta in noi la curiosità, o la voglia, di giudicare della verità e delle relazioni loro: non po tendo l'anima, nella moltiplicità delle im pressioni sensibili, accoglier queste tutte alla volta, sceglie quelle che più le im portano, e o trascura affatto le altre, o le rimanda ad una successiva disamina. In queste prime ed elementari operazioni della mente, l'anima acquista la nozione della potenza che ha in se di produrre l'azione, o sia dell'uso che può fare del la propria volontà. V. questa voce. Passando poi a conoscer delle prime idee acquistate, comincia dal comparare le sue stesse percezioni ; distingue il subbietto dalle qualità, discerne l'eguale dal disu - - - guale, e il simile dal dissimile; ordina gli obbietti delle idee; e o li distingue come singolari tra loro, o li raccoglie in diversi generi da quali forma la spezie ; sente la necessità de segni, tra per non con fondere gli uni cogli altri, e per astrarre le qualità che vuol particolarmente esami mare; riconosce per conseguente la neces sità della parola, l'origine del linguag gio, e la perfetta convenienza che regnar dee tra i segni e le cose significate. In quest'altra rapida rivista delle operazioni che succedono alle prime percezioni, quan te altre nozioni l'anima non acquista di se e della capacità sua 2, Scorge nella ri flessione una potenza creatrice del pensie ro, e in lei stessa la facoltà di giudicare, di astrarre, di generalizzare, di scoprire le relazioni invisibili delle cose che cadono sotto i sensi. V. Astrarre, Generalizzare, Genere, Riflessione, Specie. si Ma tutte le cennate nozioni non passano fugacemente innanzi all'anima come per uno specchio che rifletta soltanto gli ob bietti presenti: ella ritiene sì bene le idee e le nozioni ricevute ; nè solamente le ritiene, ma a se le richiama, quando ne forma gli obbietti del pensiero, e nel richiamarle forma nuove comparazioni e astrazioni: a queste operazioni riflettendo, l'anima conosce esser dotata delle facoltà della memoria, e della immaginazione, mediante le quali acquista la mozione del passato, distinto dal presente, e per con seguente della durata, della successione de'suoi stessi pensieri, del futuro, in una parola del tempo e della sua misura. In somma l'anima, siccome disse Aristotele, è intelligibile a se stessa, al pari di tutte le altre cose intelligibili. V. Durata, Fu turo, Immaginazione, Memoria, Mi. sura, Presente, Tempo. º Successivamente, dalla contemplazione delle sue facoltà, per rispetto al potere che ha di deliberare e di mandare ad effetto le azioni, acquista ella la grande e uni versal nozione della causa, e dell'origine di tutti gli Esseri contingenti, la qual no zione gli serve di scala alla conoscenza dell'Essere necessario. Colla guida spezial mente di tal nozione e guardando se stes sa, gli Esseri e le cose delle quali è cir condata, la varietà, l'opportunità, e la bellezza delle cose create, l'immensità dell'universo, l'ordine e le leggi che lo reggonò ; compie e perfeziona l'edifizio, della propria cognizione, scopre gli attri buti della Divinità, legge in essi il grande disegno della creazione, conosce il paren tado suo col cielo, la spiritualità e l'im mortalità della sua propria sostanza, le relazioni sue con Dio e cogli altri Es seri, il fine e i doveri della vita! Quale scienza più di questa apre l'intelletto alla cognizione così del mondo visibile come dell'invisibile? Ella trascende i limiti dei sensi e delle percezioni, comprende in se tutta l'ideologia, e tien le chiavi della logica, della teologia naturale, e della filosofia morale. L' osservazione in som ma degl' interni fenomeni dello spirito ei apre un cammino facile e sicuro per modo che possiam dispensarci dal metodo a priori. L'ontologia non è più una scienza, ma è una serie di definizioni e di postulati, i quali servono a determi nare il linguaggio delle scienze metafisi che. Collochiamo dunque la psicologia nel primo ordine degli studi necessari a for mare l'umana cognizione. V. Cognizione, Scienza. , - - - - - - e PUDICIZIA (prat.), virtù sprezzatrice di ogni allettamento della voluttà. º - - - - - - 556 - È più della castità, che esprime soltanto l'astinenza dagli atti illeciti, a quali può taluno essere incitato dalle seduzioni del l'altro sesso; laddove la pudicizia esprime il proposito di fuggire ogni macchia an che d'interna tendenza. V. Castità. PUDoRe (prat.), timor di disonore o d'infamia, che ci ritrae dalle cose, che possono meritar riprensione, o che sono dalla coscienza riprovate. Il suo più frequente significato si rife risce alla natural ripugnanza per gli atti esterni, che offender possono la castità, o la virtù della pudicizia, cui ha dato il nome. È questo un particolare istinto dato all'uomo per distinguerlo da bruti, i quali obbediscono alle materiali impul sioni della voluttà: è più che un istinto, è un sentimento moderatore della sensua lità, nel quale la natura ha riposto la custodia dell'innocenza e della modestia, e a cui ha dato per esterno segno il ros sore del volto: in questo esterno segno ha ella fatto palese la voce della ragione e della coscienza che resistono agli allet tamenti del senso. Per qual altro fine po teva ella dare a questo interno sentimento una particolare cspressione, se non per dimostrare che gl'istinti animali sono nel l'uomo subordinati ad un fine morale del quale la ragione e la coscienza sono i cu stodi ? V. Rossore. - PULITEzzA e PoLITEzzA (prat.), qualità di maniere convenienti agli ufizi della ci” viltà. V. queste voci. PUNTEGGIAMENTo e PUNTEGGIARE ( dise.), l'arte d'indicare nella scrittura, con se gni convenuti, la misura delle pause che debbonsi fare nel discorso. V. questa voce. I segni convenuti sono, la virgola che indica la minore di tutte le pause; il punto e la virgola che indicano una pausa al quanto più lunga, e spezialmente quella che dee farsi nel passaggio d'un senso so spensivo all'altro; i due punti che indi cano una pausa più lunga tra due periodi de'quali uno spiega l'altro; il punto che indica una pausa assoluta, che de'interce dere tra due diverse proposizioni; il pun to interrogativo, che presuppone un tem po sufficiente ad essere compreso da chi dee rispondere; il punto ammirativo, che chiude il discorso con una proposizione la quale merita di esser meditata; il com ma che separa il principio d'un ragiona mento dall'altro che lo precede. A questi possono aggiugnersi gli asterischi coguali si notano i detti degli autori che si cita mo, e i trattolini, o anche i punti ado perati nelle lingue moderne, per congiu gnere insieme una parola composta di due o più vocaboli, come greeo-latino fisico matematico, medico-chirurgico, quan tunque di tal costumanza non si trovi ve stigio nell'ortografia degli scrittori debuoni tempi della lingua italiana. Cotesto segno di congiunzione trovasi ne vecchi codici adoperato, e fu da Greci denominato ºtsy, subunio, siccome notarono Servio ed altri al verso di Virgilio: - - - . . . Neque enim ignari sumus ante malorum. La misura poi delle pause, quantunque non sia la stessa per tutte le lingue, pure sono a tutte comuni le ragioni per le quali sono state introdotte. Tali ragioni sono: 1.º il bisogno di respirare: 2.º la neces sità di distinguere i diversi sensi partico lari, i quali formano il discorso: 3.º la convenienza di notare i vari gradi di re - 557 - lazione, che la proposizione principale ha co suoi incidenti, o che questi hanno tra loro. Quantunque il punteggiamento non sia di assoluta necessità, siccome il dimo strano le antiche iscrizioni, pur tuttavolta deesi riconoscere come un pregio della scrittura la perfetta imitazione della pausa anche per rispetto alla comprensione delet tori, i quali debbon trovare nella punteg giatura quella stessa facilità, che gli ascol tanti trovano nell'accentuazione e nelle pause. e PUNTo (spec. e ontol), la minima parte della quantità, non divisibile in altre parti. V. Parte, Quantità. In geometria la nozione del punto è un'astrazione, al pari della linea, della quale il punto è considerato come il ge neratore. Laonde il punto è un segno nel la quantità, che non ha estensione alcuna, nè in lunghezza, nè in larghezza, nè in profondità. V. Geometria, Linea. -- Nella fisica, il punto è l'infima parte sensibile della quantità, la quale per la sua picciolezza può essere trascurata nel calcolo delle parti d'un corpo. I punti furono da taluni degli antichi metafisici considerati come le parti elemen tari della materia, o sia come enti sem plici, indivisibili, ed incorporei; ma per distinguergli da geometrici furon detti punti reali. Tale fu il concetto di Pitagora e di Platone, i quali credettero non potere ammettere come principi costitutivi decor pi altri corpi, i quali essendo ancor essi composti, sarebbe stato necessario salire di principio in principio insino all'infinito. E però tennero per fermo, doversi tro vare la ragion sufficiente del composto nel semplice, e non in altri composti. Cote sti punti son quegli stessi Esseri, che Pi tagora chiamò unità reali, e Leibnizio, monadi ed unità, V. queste voci, PUNTUALITÀ (prat.), somma diligenza nell'eseguire un atto doveroso, e tale che non lasci nulla a desiderare. Aggiugne forza alla diligenza ed alla esattezza. V. queste voci, PURGAzioNE (teol. e prat.), l'emenda de vizi e degli abiti della vita sensitiva, acciocchè purificato lo spirito, si rendesse dopo la morte degno della unione con Dio. E questo un antichissimo concetto della sapienza socratica, di cui trovansi vesti gie anche nella filosofia pitagorica come chè diversa fosse la nozione della Divinità in ciascuna di quelle due scuole. È quel che i Greci dissero aSapois, e che tutti i maggiori sapienti dell'antichità predica rono come il vero ed ultimo scopo della filosofia. Quantunque Pitagora avesse professato la dottrina dell'anima universale, ciò non ostante credette che le anime de mortali svelte dalla comune sostanza divina, non potessero alla stessa fare ritorno, se non ripurgate dal loto della vita sensitiva ; il perchè dovessero gli uomini procurare di divenire simili a Dio. Cotesta sentenza vien riferita da tutti gli antichi pitagorici, e zialmente da Jerocle nell'aureo carme: « il fine della dottrina pitagorica, egli di ce, è di dare a tutti le ali, acciocchè ve nendo la morte, deposta la spoglia mor tale, e sciolti dalla terrena natura, quasi atleti preparati dalle filosofiche discettazio ni, divenissimo più agili ad imprendere il viaggio del cielo: allora è che noi sa remo restituiti nel pristino stato, e diver remo simili a Dio, per quanto all'uomo è possibile. » Più pura e più modesta insieme fu la dottrina di Socrate, il quale dopo avere stabilito come certo, che Dio è un Essere per se stesso bello, buono, grande, do lato di tutte le qualità dell'Essere perfet tissimo, causa universale di tutte le cose; e dopo di avere riconosciuto come un dog ma a questo affine l'immortalità dell'ani ma, domanda se è mai credibile che l'anima appena esce dal corpo, vada ad unirsi con Dio. Ricordinsi le sue memo rabili parole nel Fedone: « se pura uscirà dal corpo, nulla portando seco di cor poreo; se in vita non partecipò de diletti del corpo, ma quelli avrà schivato; se, in se raccolto, avrà sempre meditato alla sua separazione, nel che è riposto il ret to filosofare; se l'anima sarà così dispo sta, non credete voi, che vada ad unirsi a quel che è a se simile, al divino, all'immortale, e al sapiente? Che se lor da ed impura esca dal corpo, come quel la che ha sempre il corpo carezzato ed amato; o sia stata quasi per incantesimo sempre immersa nelle voluttà e nelle pas sioni, a segno che abbia creduto vero so lamente quel che è corporeo, o può es sere toccato, veduto, bevuto, mangiato, o gustato ne venerei piaceri ; ed abbia fuggito ed abborrito quel che è agli oc chi invisibile, ma alla mente intelligibile, e per mezzo della filosofia comprensibile; un'anima cosiffatta, credete voi, che pos sa nell'uscire dal corpo mostrarsi schietta qual sarebbe per natura? No certamente: ella uscirà per contrario imbrattata ed in fetta dal contagio contratto per la familia rità e dimestichezza, in cui visse col cor po, renduta poi dall'abito connaturale. » In somma notò Stobco, che tanto Socrate e Platone, quanto Pitagora insegnarono come ultimo fine dell'uomo la somiglianza a Dio (daotaoir Gea), la quale non può ottenersi se non per opera della purgazione (lib.o II. eclog. eap. III. J. - “ Ora i mezzi per divenire simili alla Dia vinità erano, in primo luogo lo studio e la conoscenza di se medesimo, di che fanno testimonianza i detti di Socrate nel Filebo; in secondo luogo la purgazione, o sia l'emenda de propri difetti; in terzo luogo il disprezzo de'beni esteriori; e per ultimo la contemplazione delle divine perfezioni, nella quale riponevasi la vera beatitudine dell'anima. Cotesti mezzi eran tutti specu lativi, o sia erano altrettanti rimedi che apprestava la filosofia, la quale non per tanto spiega l'origine e la ragione de riti e delle cerimonie religiose introdotte presso gli antichi popoli, onde espiare le colpe, e placare lo sdegno della Divinità. - - Le lavande, e l'espiazioni che facevani coll'acqua, col fuoco, coll'aria, col san gue degli animali, e con altri naturali ele menti non ebbero altro scopo che la pur gazione, siccome chiaramente il dicono quei versi di Ovidio. - - Omne nefas, omnemoue mali purgamina causam Credebant nostri tollere posse senes Graecia principium moris fuit : illa nocentes Impia lustratos, ponere facta putant. - (Fasr. lib. II. ). (V.Buddeode KAeAPsEI Pythagoraeo Platonica). Coleste pratiche, nella materiale osser vanza delle quali la volgare superstizione riponeva la purgazione; del pari che il mistico senso che loro dava la filosofia, dimostrano essere stati antichissimi dogmi della ragione: 1.º la necessità d'uno stato intermedio tra la vita terrena e la celeste, il quale renda le anime umane degne del consor zio della Divinità: - 559 - 2.º essere il pentimento il mezzo per lo quale la natura richiama l'uomo alla riparazione del mal fatto: - 3.º essere questo il rimedio salutare, per lo quale può l'uomo, non solamente ri parare alle conseguenze delle sue colpe, ma rimettersi ancora nel cammino della perfezione: 4.º consistere la perfezione nel disprezzo de beni esteriori, e nella contemplazione della Divinità e del suoi attributi. V. Di vinità, Pentimento, Perfezione. Punismo (dise.), affettazione di quei gramatici, i quali negano all'uso la fa coltà di proscrivere taluni vocaboli, e di crearne altri nuovi, secondo le regole ri conosciute dalle lingue madri, accettate -. da tutti i moderni idiomi, e insegnate da gli stessi fondatori della lingua italiana. Di costoro va detto quel che il filosofo Favorino, presso Gellio, diceva ad un giovane, studioso raccoglitor di viete pa role: vive moribus praeteritis: loquere verbis praesentibus.. (Lib. I. Cap. X.). V. il discorso preliminare (Sy. IX. XVI. XVII. XVIII. XIX. XX. XXI, ). PURITÀ e PURo (prat. e spec.), qualità d'animo schietto, o di azione scevra di qualun que simulazione o duplicità. V. queste voci. È un traslato di quelle materie che chia miamo semplici, perchè le consideriamo non miste di cose eterogenee, come le pure acque, l'aer puro, o la pura aura del mattino e simili, - . - - ---- ·· · ---- ----*… * · ---- ----*•* · →---- - • · • ••• · ---- · · -** * * ---- * · → ** •---- · … -- ·---- + • … • … -- « · ---- - -→ · |- ---- * · * |-· · - - - -* * - · *.* *…* ---- · →|- ---- · • • • ----|-- · · · |-• · * – * - ·|- ---- & * • CLASSI DE VOCABOLI COMPRESI SOTTO LA LETTERA P. FILOSOFIA CRITICAPedagogica Percezione Perfetto e Perfezione Peripatetico Pirotecnia Pirronismo Pittura Plastico Pneumatica Pneumatologia Poema Poesia Poeta Poetica Polemica Poliantea Poligrafia Politica Principio Proginnasma Proiezione Pronostico Prospettiva Psicodiari Psicologia VOCI ONTOLOGICHE. Palingenesia Potenziale Panteismo Potere Perfetto e Preesistenza e Perfezione Preesistere Pieno Principio Plastico Privazione Possibile Proprietà Possibilità Punto Potenza - 562 - Palato Palingenesia Palpebra Pancia Pancreas e Panteismo Paralasse Parenchima Parlare Parola Parte Particolare Particolarità Passato Passione Passivo Pelo Pendolo e Pendulo Pensamento Pensare Pensiero Pentimento Percezione Perfetto e Perfezione Pericardio Pericranio Perielio - - - - Perigèo Periostio Peristaltico Peritoneo Perpetuale e Perpetuo Persona Personale Perspicacia o Perspicacità Persuasione Perturbazione Pesce Peso Petto Piacere Pianeta Pianta Piede Pieno Polarità Poli Polipo Politecnico Polline Polmone Portento Positivo FilosoFIA specu LA T1 y A. fossa e Principale Possanza Principio Possibile . Priore, Possibilità Privativo Posteriore - - Privazione º Postulato Probabile e Potenza , Probabilità Potenziale e - Problema Potere Prodigio Precisione e Produzione , Preciso Profondità , , , Precogitare Progressivo a Preesistenza e Progresso , Preesistere Proiezione i Preformazione Pronostico , Pregiudizio Propagazione - i Prenozione Proporzione , , Preoccupazione Proponimento, Presente Proposito Prestigio Proprietà Presumere Prospettiva Presunzione Providenza e Preterito Provvidenza Prevedimento e Pruova Previdenza Psicologia Prevenzione Punto Previsione Purità e Primo Puro - 565 - FILOSOFIA DISCORSIVAa l. 1 - A i 1 º 2 º 1 A TEOLOGIA Palese e i Predicabile i Prescienza - i Parabola Predicamento i Paradosso - i Predicato a i s . Parafrasare e ri Premessa - i Parafrasi i Prenozione i Parafraste 't Preposizione i Paralogismo Presente , “ - e Parlare i Presumere i . Parola Presunzione º - Paronimo Preterito i f i Parte º Primo - Particella Principale º Participio i Principio i i Particolare Priore - , i f Partizione e Privativo Parziale , Privazione - ; Passivo i Probabile , a , Pedagogia : Probabilità i i Peggio e Problema i Peggiore . Prodromo Pensamento e Proemio I - - ! Periodo Pronome e ! Persona - Pronunzia e - , Personale Pronunziazione . . . Persuadere Proponimento, i Persuasione Proposito i i Persuasiva Proposizione ... i Pertinacia a Proprio e º Piede - Prosa - i Pleonasmo Prosillogismo i , Plurale Proverbio a - - - - Positivo Pruova Posteriore Punteggiamento e Postulato Punteggiare Precisione e Purismo Preciso - NATURALEa Purgazione - 364 - E IL 0 Pianto Picciolo e Piccolo Pietà e Pietade Pietoso Pigrezza e Pigrizia Pio Placidezza e Placidità Poltro, Poltrone, Poltroneria Positivo Povertà Pravità e Pravo Precetto Precipitanza Precisione e Preciso Predilezione e Prediligere Pregio Premeditare Premeditazione Premio Presontuoso, Presontuosità, Presonzione Pace Parabola Particolarità Passione Paternità Paura Pazienza Pazzia Peccato Peggio e Peggiore Pena Penitenza Penoso Pentimento Perdonanza, Perdonare e Perdono Perfidia Perplessità o Perplesso Perseveranza Pertinacia Perturbazione Perversità e Perverso Pessimo Petulanza Piacere Piacevole e Piacevolezza 80 FIA PRATI CAe Prestante e Prestanza Pretesto Prevaricazione Prevedimento e Previdenza Prevenzione Principio Probabile Probabilismo Probabilità Probità Procace Prodezza Prodigalità Produzione Progetto Promessa, Promessione e Promissione º Pronostico Propensione Proponimento Proposito Prosperità Prossimo Protervia e Protervità Proverbio Providenza e Provvidenza Provocamento Prudenza - Pruova Pudicizia Pudore Pulitezza e Politezza -. Puntualità ... Purgazione . Purità e Puro » - i GRECISMI SUPERFLUI. - - Perissologia Polografia º Polimazia -; LATINISMI SUPERFLUIe - Pauperismo Pernizie – 565 – Q UADRUPEDE (spec.), classe di ani mali a quattro piedi, i quali servono di carattere per distinguergli da quelli che ne hanno due, come l'uomo e gli uccelli, dagli altri che ne hanno più di quattro, come gl'insetti, e da quelli infine che non ne hanno alcuno, come la maggior parte del rettili, e i pesci. La vastità del regno animale ha ren duto necessario il metodo, per lo quale le spezie si raccolgono sotto un genere, e più generi sotto una classe, retta da un carattere a tutti comune. Senza que sto metodo, sarebbe stato, non diciam difficile, ma impossibile all'uomo il cono scere tutti gl'individui, il distinguergli, e il ritenerne i nomi. È bello il concetto di Leibnitz, che la conoscenza di tutte le cose individuali è una sorta d'infinito, di cui la Mente divina soltanto è capace. A cominciare da Aristotele, fondatore della storia naturale, i più celebri natu ralisti sono andati perfezionando e modifi cando la classificazione degli animali, a misura che si è estesa la conoscenza del le loro spezie, e si sono, per mezzo del la fisiologia e della notomia comparata, meglio conosciuti i caratteri comuni delle spezie principali, e i propri delle subal terne. Estranea al nostro proposito sarebbe la storia de diversi sistemi di ordinamento, che sonsi l'uno all'altro succeduti. Impor tante per noi è il conoscere l'ultimo stato di questa parte delle scienze naturali, per avere un quadro approssimativo, nel quale possa la mente abbracciare la prodigiosa quantità e varietà delle opere della natura, V. Zoologia. QUALITÀ (spec. ontol. e prat.), quel che consideriamo come proprio d'un sub bietto, e che lo fa distinguere da un altro. V. Subbietto. Ovvero, determinazione intrinseca del l'Essere, la quale è compresa per se stes sa, senza bisogno di comparazione. Questa seconda definizione ci viene da gli scolastici, ed esprime lo stesso concetto della prima, comechè costoro nelle distin zioni che facevano tra le varie sorte di qualità, uscissero dal significato che le avevano assegnato come proprio. Impe rochè distinguevano la qualità essenziale dalla extra-essenziale, che corrisponde all'accidentale, e dividevano l'essenziale in corporea, spirituale, manifesta, oe culta, attiva, passiva, reale, intenzio nale, primitiva, derivativa, e questa in necessaria o contingente. V. queste voci. Quanto poi alla seconda parte della loro definizione, che dà la qualità come rico noscibile senza bisogno di comparazione, intesero essi riferirsi alla quantità, che presuppone la comparazione. Così ridus sero a due le possibili determinazioni in trinseche di ogni cosa, alla qualità che può essere per se stessa riconosciuta, e alla quantità, che ha bisogno d'un ter mine di paragone, o sia d'una misura, per essere determinata. V. Quantità. I Greci chiamarono rotorms la qualità, o sia l'essenza, o il costitutivo de'corpi, che nasceva da due cose unite insieme, cioè la forma, che era il principio attivo per lo quale la materia era uscita dal pri miero stato, e la materia stessa che di per se era passiva ed inerte: distinsero sì - - - - 566 - bene le qualità primitive dalle derivate, caviamo la nozione della essenza: cotesta comprendendo nelle primitive gli elemen nozione può risultare da una o più qua ti, ne'quali risedeva la forza generatrice; lità, per le quali un subbietto si distingue e nelle derivate, tutte le altre forme sen sibili della natura. V. Elemento." Aristotele chiamò predicamentale la qualità, qua ovazes quidem dicuntur, o sia altro non disse, se non che qualità è un astratto di quale. Che se volessimo ritenerla come definizione, la qualità ci rimanderebbe al quale, ed il quale alla qualità. " I Latini diedero al vocabolo qualitas ( da Cicerone per la prima volta adope rato) il medesimo significato de Greci. Ci cerone nel primo degli Accademici facendo la sposizione della dottrina peripatetica, narra l'origine di tal vocabolo: de natura ita dicebant, ut eam dividerent in res duas: ut altera esset efficiens, altera au tem, quasi huie se praebens, ea, quae efficeretur aliquid. In eo quod efficeret, vim esse censebant: in eo autem quod efficeretur, materiam quamdam: in utro gue tamen utrumque. Megue enim ma teriam ipsam cohaerere potuisse, si nul la vi contineretur . . . . . Sed quod ea utroque, id jam corpus et quasi ova mirare i quamdam nominabant. Dabitis enim proſeeto ut in rebus inusitatis, quod Graeci psifaciunt, a quibus haee jam diu traetantur, utamur verbis interdum inauditis. E alquanto più innanzi, qua litates igiur appellavi, quas rotormrzs Graeci voeant: quod ipsum apud Grae cos non est vulgi verbum, sed philoso phorum (cap. VI e VII.). Lasciamo ora tutto il categorico depa ripatetici e degli scolastici, e ritorniamo alla idea più semplice della prima defi nizione. La qualità non è l'essenza, ma è una proprietà del subbietto, da cui ri dall'altro: il pensiero e la volontà son le qualità che formano l'essenza dell'Essere intelligente; siccome l'estensione, la soli dità, la mobilità sono le qualità che co stituiscono l'essenza della materia. E sic come non conosciamo tutta l'essenza delle cose; nè sappiamo come lo spirito pensi e voglia, o perchè la materia sia solida ed estesa, così consideriamo lo spirito, è la materia come due subbietti diversi, perchè diverse sono le proprietà o qualità a ciascun di essi inerenti. Ma non tutte le qualità sono essenziali o intrinseche, comechè servano a distinguere un sub bietto dall'altro: di qua i diversi nomi di attributo, di proprietà, di accidente, o di modo, i quali ne additano la diffe renza. Da ciò ancora è nato che il lin guaggio scientifico abbia dato al vocabolo qualità un doppio significato; uno pro prio, che esprime il costitutivo e l'intrin seco; l'altro generico e relativo, il quale abbraccia tutto quel che appartiene al sub bietto, essenziale, estrinseco, o accidentale che sia. V. Accidente, Attributo, Modo, Proprietà. - - - - e Di una particolar distinzione han biso gno le qualità della materia, delle quali talune sono da noi giudicate inseparabili dalla materia stessa; mentrechè altre non solamente non sono comuni a tutti i cor pi, ma ci lasciano ignorare come esse operino sopra i sensi nostri. I filosofi le han distinte co'nomi di qualità primarie, o secondarie. Noi vediamo e sentiamo essere comuni a tutti i corpi l'estensione, la solidità, la mobilità, e le risguardiamo come proprietà costitutive dell'essere loro, perchè son esse che le rendono discerni bili a sensi del tatto e della vista, e la sciano in noi la convizione della loro in: separabilità da tutto quel che percepiamo come materiale. Sono state dunque ben designate col nome di prime o principali, perchè senza di esse non potremmo avere l'idea del corpi. Per contrario v'ha di altre sensazioni, come quelle della luce, deco: lori, del suono, degli odori, de sapori, del calore, del freddo, che pochi corpi (per rispetto a molti de quali è composto l'universo) tramandano in noi, senza farci discernere da qual causa provengano, e se sieno ne corpi che le tramandano, o nel mezzo per lo quale passano. Son queste le qualità dette secondarie che han som: ministrato tanti argomenti di dispute a fir losofi, ed han servito di arma agl'idealisti ed agli scettici, per negare l'esistenza della materia, e per cangiare le sensazioni e il mondo stesso in una scena d'illusioni. Certamente v'ha una differenza tra quel le e queste sensazioni, ma uopo è vedere a qual conseguenza meni una tal differen za. I sensi ci danno una idea chiara e distinta delle primarie, ed una oscura e confusa delle secondarie. Chiaramente co nosciamo che ogni corpo occupa un luo go nello spazio; che la sua massa è do tata d'una forza la quale impedisce ad un altro corpo di scacciarlo da quel sito, se non fosse per la impressione del moto, cui entrambi per propria condizione deb bon obbedire. I sensi dunque, ci danno una idea diretta e compiuta della esten sione, della solidità e della mobilità di qualunque corpo. Per contrario, i sensi ci avvertono dell'odore d'un fiore che fiu ſtiamo, o d'un'atmosfera odorosa che tra . o corpi lontani dalla nostra vista; il fuoco spande luce e calore; l'iride o il prisma ci fa distinguere taluni colori pri mitivi, e la natura o l'arte ce ne fanno vedere mille altri composti. D'onde pro vengono tali sensazioni, quale causa le produce, e dove cotesta causa risiede? Noi l'ignoriamo, e conosciamo soltanto l'effetto d'una causa ignota; o sia abbiamo del l'odore, del calore, della luce e decolori una idea o conoscenza indiretta o relativa. Lo stesso va detto del sapore, del freddo ſe del suono. La differenza dunque tra le qualità primarie e le secondarie consiste in questo, che delle une abbiamo una idea diretta, delle altre una indiretta o relativa , - - - - - - - Penetrando più addentro nella ricerca della causa di tali sensazioni, tre ipotesi potevansi fare, o che la causa fosse nei corpi odoriferi e luminosi, o che fosse nel mezzo per lo quale passa l'odore, la luce, il colore; o che fosse negli uni e nell'al tro insieme, cioè ne'corpi come una loro intrinseca disposizione, e nell'atmosfera, come mezzo di comunicazione co nostri sensi. Ma quelli tra filosofi, che abbatter volevano la certezza del sensi, e gli altri che volevano di tutto dubitare, preferi rono una quarta ipotesi, la peggiore di tutte, anzi assurda perchè contraria al co mune senso della umanità, e al fatto del la natura. Dissero costoro, che la causa di tali qualità non è ne corpi che le tra mandano, e molto meno nell'atmosfera o in altri corpi che ci circondano, ma ri siede in noi stessi, e altro non è se non una modificazione dello stesso Essere sen tente. Così disse Cartesio, e lo stesso ri petè Malebranche, il quale dichiarò falsa qualunque rappresentazione del sensi. Lo cke distinse nel corpi tre sorte di qualità, o sia suddivise le secondarie in due, dopo avere ben determinato le primarie come reali ed inerenti ne'corpi, Considerò egli le secondarie, come prodotte dalle relazioni, che l'obbietto della sensazione ha cogli altri Esseri che lo circondano. Coteste relazioni consistono in questo che l'obbietto produce, o una impressione nei sensi nostri, o un qualche mutamento nel lo stato del corpi, sopra i quali esercita l'azion sua: nel primo caso, chiamò qua lità sensibili dell'obbietto le naturali e co stanti disposizioni, per le quali i nostri organi ricevono quei determinati effetti: nel secondo, chiamò potenza la virtù di mutare lo stato de'corpi, come la virtù che il sole ha di liquefare la cera, quella del fuoco, di fondere i metalli, quella della luce, di alterare lo stato di taluni fluidi. Non pensò certamente che le qua lità da lui dette sensibili fossero delle pure modificazioni dell'anima che le percepisce; ma partendo dal falso presupposito che noi percepiamo gli obbietti esterni per mezzo d'immagini simili agli obbietti stessi; dis se che le immagini prodotte dalle qua lità primarie avevano una perfetta rasso miglianza col loro archetipi; laddove al cuna non ve n'era tra le secondarie e le immagini loro, nè alcuna poteva esserve ne, perchè la qualità del caldo e della luce non è nel fuoco, come quella del freddo non è nella neve, o quella desa pori non è ne cibi e nelle vivande che li producono (Essai lib. II. Cap. VIII. ). Plausibile dunque fu il concetto di Locke, trannechè per la falsa supposizione delle immagini, comune a tutto il sistema del la percezione. Che il fuoco non sentisse il calore, che la neve non sentisse il fred do, e che i fiori non sentissero l'odore, niuno avevalo mai detto, o pensato. Il volgo stesso che tutto riferisce alle cause immediate, se fosse chiamato ad un'ana lisi delle proprie sensazioni, non oserebbe dirlo; e se venisse obligato di spiegare come quegli effetti vengono in noi pro dotti, si fermerebbe a dire che l'ignora. Ciò non ostante lo stuolo degli scettici, de quali abbondò il secolo decimottavo, si compiacque dare come una grande e muo va scoverta della filosofia, che la luce, i colori, e tutte le altre simili sensazioni son pure idee che forma lo spirito, e non qualità esistenti della materia ; e di tale grande e nuova scoverta diedero l'onore, o il torto, a Locke che aveva manifesta mente detto il contrario. L'errore di co storo fu volontario, perchè nacque dal l'ambiguità de termini delle loro defini zioni. A rimuovere una tale ambiguità, è necessario rettificare la nozione di quel che noi denominiamo qualità della materia. Questo è quel che fece Leibnizio, di cui seguiamo i pensieri. Per qualità di una cosa materiale in tendiamo la potenza che essa ha di pro durre la percezione di un'idea, o d'un sentimento. Quando cotesta potenza è in telligibile, e può essere distintamente spie gata, vien chiamata qualità primaria; ma quando è solamente sensibile, e non produce in noi, che una sensazione o un'idea confusa, è denominata seconda ria. Coteste idee, sebben confuse, non sono arbitrarie, ma nascono da una ne cessaria connessione di relazioni, o sia da una naturale predisposizione degli obbietti sensibili e degli organi sententi. Una tale connessione nelle secondarie, non è mi nore di quella che sentiamo nelle prima rie, quantunque ci sia ignoto il come quelle sensazioni operino in noi. La pruo va della connessione sta nella esatta cor rispondenza dell'effetto colla sua causa, e nella invariabile costanza del fenomeni simili. (Nouveaux essais lib. II. cap. VIII.). – 560 - - QUANTITÀ (spec.ontoli erit.prat. e disc.), parte della materia, considerata, come capace d'aumento, di diminuzione, e di misura. -- - º º, º Tal è il significato che le danno i mar tematici, nel linguaggio del quali è sinor nimo di grandezza. V. questa voce. Gli scolastici ne davano varie astratte ed oscure definizioni, le quali non contener vano altro concetto, se non che la quan tità è un termine di relazione che espri me misura. Dicevano infatti essere una intrinseca determinazione, non ricono scibile se non per la comparazione, nel che la contrapponevano alla qualità; ov vero, la differenza interna delle cose simili, o anche, quello in che le cose simili possono differire, senza altera zione della loro somiglianza. V. Qualità. Il vero concetto della quantità, è di una idea astratta, e non di una sostanza capace di diverse determinazioni. Allorchè ne esaminiamo le proprietà, ce la rappre sentiamo come subbietto, e risguardiamo come sue modificazioni gli accrescimenti e le diminuzioni, di cui è capace ; ma in realtà essa presuppone un subbietto , di cui è un semplice modo. L'astrazione non pertanto è necessaria, per conoscere le proprietà de'corpi insieme colle loro relazioni, dalle quali nasce tutto l'ordine delle cose materiali. i Tra le qualità della materia, e per con seguente della quantità, è la divisibilità; dal che nasce una doppia maniera di con siderare la quantità , cioè come divisibi le, o come già divisa in parti separate e distinte. Considerata come divisibile, ma non divisa, la quantità prende il nome di continua, nome di genere che abbraccia due diverse specie, la permanente e la successiva, di queste due spezie la pri ma rappresenta lo spazio, la seconda il tempo. V. queste voci. - Risguardata poi la quantità come divi sa, sorge l'idea del numero, o sia del la unione di parti eguali e simili, dette unità, le quali divengono altrettanti di visori aliquoti del tutto, e di ogni suo accrescimento o diminuzione. La geome tria è la scienza della quantità continua permanente, o sia delle proprietà della estensione: l'aritmetica, della discreta º il numero è il misuratore dell'una e del l'altra insieme. V. Aritmetica, Geome» tria, Numero, Sebbene il vocabolo quantità includa l'idea del finito, ciò non ostante le quantità dette infinite ed infinitesime, formano il suggetto della parte più sublime dell'arit metica e dell'algebra, non perchè l'infi nito sia capace di aumento o di diminu zione, ma perchè queste scienze danno il nome d'infinito a tutto ciò che oltrepassa i limiti d'una grandezza assegnabile così in aumento come in diminuzione, Ora co teste quantità indeterminabili non essendo eguali, hanno tra loro diverse proporzio ni, delle quali l'aritmetica degl'infiniti ed il calcolo infinitesimale delerminano le ragioni. V. Infinitesimale, Il vocabolo quantità, fuori del senso astratto, che gli danno le matematiche pure e la metafisica, esprime sempre l'idea del più e del meno. Cotesta idea nelle scienze fisiche talvolta dimota le differenza delle diverse parti dello spazio e dell'esten sione, e talvolta ancora il maggiore o mi nor grado delle potenze e delle proprietà naturali de corpi, come della gravità, del peso, del moto, della luce, del ca lore, e di altre. Fanno ancora i fisici una particolare divisione della quantità per ri spetto alla misura, e la distinguono in 47 – 370 – propria ed impropria. Cotesta distinzione proposta da Aristotele è stata ritenuta an cora da moderni e spezialmente da New ton. Costoro chiaman propria quella, che può essere misurata da un'altra quantità della stessa spezie, vale a dire capace di essere addoppiata, triplicata, e così via discorrendo. Tal'è l'estensione, il numer mo, la ragione. Impropria poi chiamano quell'altra, che non può misurare se stes sa, ma de essere misurata da un'altra, quantità, con essa comparata. Tal'è la velocità, che non può misurare se stessa, ma è misurata dallo spazio e dal tempo. ll numero e la ragione, sono le quantità proprie, che più delle altre servono di mi sura alle improprie. V. Misura, Ragione, Velocità. - in . - Lo stesso vocabolo applicato alle potenze e alle qualità dell'intelletto, esprime diſ ferenza di acume, di perspicacia, d'inten sità, o di numero di conoscenze; siccome nella filosofia pratica vale grado di virtù, di perfezione, di merito; e, nel senso sfa vorevole, anche di demerito, In Logica, lo stesso vocabolo differen zia le proposizioni particolari dalle univers sali. V. Proposizione. Nella gramatica, dinota la misura del tempo nella pronunzia delle sillabe, che compongono le parole; e suol essere in dicata co segni che esprimono il lungo ed il breve. - - - ; - e QUERELA (prat.), lamentanza per male ricevuto. Determina la cagione della lamentanza, e della doglienza. V, queste voci. - - - - - in - QUERIMONIA (prat.), frequentativo di querela, che vale minuto e continuo la mentare, - : i - - - - - - - - . QUESTIONE e QUIsTIONE (diec.), propo sizione interrogativa, o dubbia, la quale richiede ragionata soluzione. - a Vale ancora tema di discorso, quando questo è enunciato in forma di dubbie do mande. i , - e º a - º il QUIDrrà e QUIDDrrà (ontol.), essenza della cosa, e sua definizione reale. V. De finizione, Essenza. - È termine introdotto dalle scuole, e indi adoperato ancora da buoni scrittori: i - - i Pai come quei che la cosa per nome e - Apprenda ben, ma la sua quiditate Veder non puote, s'altri, non la prome. º : e v DANTE. . - . . - Edil Varchi : « Prima ch'io entri nella seconda parte, e vi racconti le molte e varie opinioni degli antichi intorno alla quidità o essenza, ovvero natura e sostanza dell'anima mia ec. » Gli scolastici distinguevano la realità dalla quidità, dacchè col primo vocabolo esprimevano l'esistenza degli enti, e col se condo l'essenza delle cose, considerate per quel che sono in se medesime. V. Realità. º - QUIETE (spec. crit. ontol e prat.), con tinua permanenza d'un corpo nella mede sima parte dello spazio. V. questa voce. I fisici, distinguendo lo spazio relativo dall'assoluto, distinsero ancora la quiete in relativa ed assoluta. Relativa sarebbe quella d'un corpo, che sta fermo in un vascello, che naviga; assoluta la perma nenza del vascello sulla terra. Da ciò se gue, che la quiete assoluta non si dà in natura, se la Terra ancora si muove. Ciò non ostante, prendendo il sensibile e l'ap parente per vero, e risguardando la Terra come immobile, il corpo che si trova in una quiete relativa nel vascello, si muo verà insieme con esso, e colla stessa sua velocità. E nella conversa ipotesi, che la terra si muova, il corpo che è nel vascello avrà un moto assoluto prodotto, in parte dal moto della Terra nello spazio assoluto, ed in parte dal moto relativo del vascello. Che se il corpo, posto nel vascello, fosse mosso ancor esso, in tal caso il suo moto reale, sarà composto, in parte dal moto della Terra nello spazio universale o asso luto, in parte dal moto relativo del va scello, ed in parte dal moto suo proprio. Laonde, se la parte della terra dove tro vasi il vascello, si muovesse verso oriente con una velocità di 1oo 1o gradi; se il vascello fosse da venti trasportato verso occidente con una velocità di rogradi; e se un uomo camminasse nel vascello colla velocità d'un grado solo; quest'uomo sa rebbe verso oriente mosso nello spazio ase soluto con una velocità di 1ooo1 gradi, e per rispetto alla terra, con nove gradi di velocità verso occidente.V. Moto, Veloeità. È un assioma, stabilito da Newton, anzi è una legge della natura, che ogni corpo, persevera nello stato, in cui si trova, di quiete o di moto uniforme, in sino a che non sia da una causa esterna costretto di mutarlo. In ciò appunto con siste l'inerzia, di cui è dotata la mate ria, e che la rende indifferente al moto e alla quiete. V. Inerzia. Il Siccome la Meccanica esamina i feno meni del moto locale, enon quelli del moto generale, così intende sempre in un senso assoluto il vocaboli moto e quiete, e riguarda il moto, come l'effetto d'una forza impressa me corpi che si muovono, e la quiete, come la privazione d'una tale forza. . o un 9 , iº a cinº i I metafisici han disputato, se la quiete fosse un che di negativo o di positivo, e se dovesse piuttosto esser definita, ne gazione o privazione del moto, o perma nenza del corpo nel luogo stesso dello spa zio. Tranne i Cartesiani i quali afferma rono, essere la quiete un modo positivo dei corpi, l'opinion dominante del secolo an tipassato fu che dovesse essere considerato come una privazione del moto. La ragione, per la quale i Cartesiani fecero della quiete un modo positivo de'corpi, è, che la con siderarono come la causa della coesione delle parti della materia, e per conse guente del loro pieno, nemico dello spa zio. Gli autori poi della contraria senten za, tra quali Leibnizio, la definirono per una semplice privazione; perchè conside rarono la potenza del moto come inerente alla materia, e come lo stato normale della natura. Infatti dicevano, che essendo proprio del moto il trasferire i corpi da una parte dello spazio all'altra, e il mu tare lo stato de corpi contigui, seguirne dee che la quiete, come suo contrapposto, niun eangiamento operi a rispetto così dello spazio, come della contiguità de'cor pi circostanti. Ed aggiugnevano, che il più facile concetto della quiete consiste appunto nel considerarla come la cessa zione della potenza produttrice del moto. In conferma di che diceva Leibnizio, che i corpi dal solo scontro non potrebbero ricevere il moto, se non ne avessero in loro stessi la potenza ; e che basta ne gare il moto per concepire la quiete; ma non basta negare la quiete per concepire il moto; non essendo la sola negazione della quiete sufficiente a determinare il grado del movimento. E da questa stessa considerazione il lodato metafisico desu meva una seconda differenza, cioè che ºr - 572 - mentre diversi sono i gradi del molo, eguali son quelli del riposo. (Nouveaux Essais lib. II. cap. VIII). - Con buona pace di tanti e si acuti ra gionatori, a noi par manifesto, che co testa disputa meriti di essere collocata tra le vanità dell'antica metafisica; e che il vocabolo privazione disconvenga tanto al concetto, quanto alla definizione della quiete. Al concetto, perchè se noi consi deriamo il moto come un modo e non come una qualità essenziale decorpi, come modo pure dobbiam considerare la quiete; formando l'uno e l'altra le due contrarie condizioni, le quali modificano lo stato di tutti i corpi della natura. Ed a questa considerazione si arroge l'altra, che se la distinzione tra modi positivi e i negativi, introdotta dagli scolastici, menar potesse a qualche importante o utile conseguenza, potrebbesi trovare più di positivo, e di essenziale nella quiete, e più di negativo nel moto. Imperochè, esclusi i moti dei corpi celesti, ogni altra spezie di moto, di cui hassi idea sulla Terra è, per così dire, uno stato di eccezione della materia. Gli attriti e le resistenze de'mezzi distrug gono subito le forze impresse, e ripon gono i corpi nel primo loro stato di quie te; per modo che l'inerzia de corpi, per la parte che risguarda la conservazione dello stato di moto, non cade mai sotto i nostri sensi. Disconviene del pari alla definizione, perchè, se per far intendere che è la quie te, si dicesse, è la privazione del moto, converrebbe prima conoscere che cosa è moto; siccome per contrario, se si deſi nisse il moto per la privazione della quie te, bisognerebbe in altri termini spiegare quest'altro correlativo. L'una e l'altra de finizione dunque caderebbero in quel vizio logico sì frequente nelle vecchie scuole, per lo quale o dicevasi l'idem per diver sa, o spiegavasi una idea ignota, per un'altra egualmente ignota. E ciò senza farci partigiani de modi negativi o posi tivi, dacchè forse s'intenderebbe meglio il moto, spiegato per la cessazione della quiete, che la quiete per la privazione del moto. E quì vuolsi anche dire, che delle ragioni addotte da Leibnizio, una è de sunta dalle sue entelechie, o sia dalla ipotesi della potenza attiva, risedente nella materia; e l'altra è più acuta che vera, quella cioè che non tutti i gradi del moto sono eguali; dapoichè la quantità del moto non entra in comparazione coll'opposto stato della quiete, ma è tutta relativa ai diversi gradi della forza, da cui i corpi sono obligati di muoversi. V. Moto, Pri vazione. se Quantunque l'idea della quiete, si con cepisca più chiaramente pe sensi, che per qualunque definizione, ciò non ostante non potrebbe essere qualificata come idea sem plice, perchè è un'idea di relazione, la quale non si acquista, se non conosciuta quella del moto e della potenza motrice; sì che va di essa detto quello stesso che abbiamo osservato del moto, cioè che è una idea complessa. V. Idea. i Ma non ostante l'idea chiara che ci formiamo della quiete, si può, rigorosa mente parlando, dire che non esiste in natura. Infatti, la Terra essendo in moto, tutti i corpi che stanno in istato di quie te, cambiano effettivamente di luogo nel lo spazio assoluto, e però hanno un moto relativo, ed una quiete parimenti relati va. Di vantaggio: quando anche la Terra stesse ferma, la materia essendo pesante di sua natura, gravita sempre verso il centro; sì che la quiete d'un corpo, il – 575 – quale poggia sopra un piano è relativa sotto un altro aspetto, cioè che se al corpo si togliesse il sostegno, lo stesso, senza imprimergli altra forza porrebbesi in moto per discendere; d'onde segue che un qua lunque corpo grave ha sempre un moto virtuale, sebbene non attuale, ed esercita uno sforzo continuo per vincere la resi stenza che si oppone al suo movimento. Ciò che dicesi della Terra vale per tutti gli altri corpi celesti, e per lo stesso Sole, che gira intorno al suo asse; e per le Stelle che hanno un simile moto. La quiete assoluta dunque non esiste in natura, e il moto è la vita dell'universo. V. Sole, Terra, Universo. - L'idea della potenza motrice, applicata alla volontà, ha dato luogo a similitudini, per le quali la filosofia pratica distingue la quiete naturale o volontaria dalla vio lenta e naturale o spontanea è quella che ogni agente morale può scegliere in prefe renza del movimento o dell'azione: violenta è quell'altra che taluno soſfre per la im pressione di una forza cui non può resiste re. I peripatetici facevano di tal distinzione una più ampia applicazione, dacchè ricono scevano anche ne bruti e nelle piante una quiete naturale diversa dalla violenta; il che sebbene possa dirsi vero in natura, pure non mena ad alcuna conseguenza, perchè niuno sinora si è avvisato di valu tare il grado di libertà delle azioni degli Esseri irrazionali, o de movimenti deve getabili. In un senso traslato la filosofia pratica chiama quiete la pace di cui gode l'animo scevro di cure e di rimorsi, come contrapposto del torbido e violento moto delle passioni. V. questa voce. Suole il comune uso di parlare scam biare i significati de due vocaboli quiete e riposo, comechè nella nostra lingua, differiscano alquanto tra loro; esprimendo il riposo non l'idea assoluta della perma menza in un luogo, ma il solo cessare dal moto, dall'opera, e dalla fatica.V. Riposo. - – 575 - CLASSI DE VOCABOLI COMPRESI soTTO LA LETTERA Q. - FILOSOFIA CRITICA, VOCI ONTOLOGICHE. Quantità Quiete Qualità Quiddità Quantità Quiete Quidità e FILOSOFIA SPECULATIVA, Quadrupede Quantità Qualità Quiete - 576 - FILOSOFIA DISCORSIVA, Quantità Quistione Questione e Qualità Quantità Querela r . FlLOSOFIA PRATICA. Querimonia Quiete - – 577 – I lº Rasº(spee. e teol.), stato dell'anima, allorchè richiama l'attenzione alla meditazione di se medesima, e degli interni obbietti del pensiero. V. Attenzio ne, Meditazione, Pensiero. Il potere che ha l'anima di ritrarre il pensiero dagli obbietti esterni, e di con centrare la riflessione nelle sue proprie facoltà, è una delle più manifeste pruove della sua immaterialità. V. questa voce. RADICALE (disc.), il termine o la voce, da cui si formano i vocaboli derivati, e i composti. Per termini radicali intendiamo ancora quelli, che esprimono un'idea a tutti nota, e però servono a definire gli altri voca boli, senza bisogno d'esser definiti. Così, per un dizionario tecnico o scientifico, deb bonsi avere come radicali tutti i vocaboli comuni, i quali si adoperano per ispiegare quelli della scienza o dell'arte, che deb bon essere definiti. V. Definizione, Dizio nario, Teonico, RADICE (spec. crit. e disc.), la parte della pianta, che immediatamente e per lo più assorbisce i succhi della terra, e gli trasmette per nutrimento alle altre parti sue, V. Pianta. . La radice è composta di fibre legnose, coperte di corteccia più o meno densa, e nasce da un picciol punto nel seme, detto radicetta (radicula), che è la base del fu sto, contenuto nell'embrione di ogni vege tabile erbaceo ed arboreo. V. questa voce. Radice, in matematica, è la quantità moltiplicata per se stessa, o la quantità, che è considerata come la base o il fon damento d'una potenza più alta. Radici, in grammatica, diconsi le voci primitive d'una lingua, dalle quali sono state composte, o derivate le altre. RAGIONAMENTo (spec. e disc.), opera zione dell'intelletto, per la quale passiamo da un giudizio ad un altro, che da quello si deduce. V. Giudizio. Il ragionamento non è altro che un giu dizio complesso, quando sien più le pro posizioni, delle quali cercasi trovare la convenienza o la connessione; dal che se gue che il giudizio si confonde col ragio namento, quando la conclusione è imme diata, o sia quando è manifesta la con nessione tra la proposizione dedotta e quel la che la precede. V. Conclusione. Ragionamento dicesi tanto l'interno di scorso, quanto quello manifestato per la pa rola, la quale nonpertanto interviene sem pre nella operazione dell'animo, come segno e come strumento del pensiero. Così, chia masi ragionamento morale quello che dalle evidenti nozioni del giusto e dell'onesto noi deduciamo intorno alla qualità delle pro prie azioni, per dirle a noi stessi buone, cat tive, o indifferenti.V. Linguaggio, Segno. L'arte di legare insieme le proposizioni che formano i diversi gradi del ragiona mento, o sia il trovare la connessione delle proposizioni che ne formano gli elementi, è propria della logica. V. questa voce. Il ragionamento, come il giudizio, è sempre vero o falso; ond'è che per ri spetto alla verità delle conclusioni, i ra gionamenti si distinguono in dimostrativi 48 – 578 – e probabili. È dimostrativo il ragionamen- seri inferiori, e l'avvicina alle intelligenze to, quando ciascuna delle proposizioni de dotte sia una conclusione necessaria della precedente: probabile quell'altro, nelle cui proposizioni la mente non ravvisi una ne cessaria connessione. Da ciò segue, che i giudizi dimostrativi sien propri delle ve rità necessarie, e le contingenti non sieno capaci, se non di ragionamenti probabili. V. Contingente, Mecessario. RAGIONARE (spee. e disc. ), applicare il giudizio al discernimento del vero, sia discorrendo, sia pensando. E dapoichè si presume, che ogni di scorso sia coerente ad un tal fine, però il ragionare, nell'uso comune del parla re, scambiasi sovente col dire. Il ragionare prendesi talvolta ancora in mala parte, e significa sottilizzare e fanta sticare, nel quale senso esprime un abuso del ragionamento. Laonde il falso argo mentare del filosofi è stato onorato ancora del nome di ragionare, e Dante disse: a , º Color che ragionando andaro al fondo S'accorser d'esta innata libertate: - Però moralità lasciaro al mondo. e (Purg. C. XVIII.). - Ma cotesto significato nasce dalla bizzar ria dell'uso, e de essere sbandito dal lin guaggio scientifico, perchè contiene una espressione contraria alla etimologia, e al naturale senso della parola. RAGIONE (spec. erit. e disc. ), facoltà cognoscitiva dell'uomo. V. Facoltà. È il complesso delle doti dell'anima, per le quali ella giudica, discorre, inventa e discerne il vero dal falso : è l'essenza dell'uomo, perchè lo distingue dagli Es superiori. V. Intelligenza. Riservando a questo vocabolo per suo significato proprio l'umana intelligenza, noi chiameremo senso interno, la facoltà sensitiva, di cui è dotata l'anima del bru ti; e di questa facoltà, che è pur comune all'uomo, rileveremo le differenze nelle varie spezie degli animali. V. Sensitivo, ASenso. Il linguaggio filosofico non pertanto ha dato alla voce ragione diversi significati generali, e particolari, il che è stato sor gente di ambiguità e di errori. Ora è stata adoperata nel senso testè additato che è il proprio; ora in un senso affatto ideale, qual è la cognizione delle verità primiti ve; ora per la naturale luce del vero, di cui l'anima è dotata; ora per la ca tena stessa delle verità universali, che sono il fondamento dell'umana cognizione. Tal è il significato, che le diede Leibnitz, il quale ridusse a due le funzioni tutte della ragione, il giudizio cioè e l'invenzione. V. queste voci. Locke distinse nella ragione quattro gra di di cognizione: 1.º lo scoprire le pruo ve, o le idee intermedie d'una verità di mostrabile, 2.º il disporre queste in un ordine, che ne dimostri la connessione, 3.º il discernere una tal connessione in ogni parte della deduzione, 4.º il rica varne la conclusione. In questo concetto è manifesto, ch'egli non raffigurò la ra gione se non come la facoltà ragionatrice. Ma vuolsi piuttosto considerarla come la virtù e la potenza dell'anima, la quale ha in se stessa la luce del vero, che diffonde sopra tutte le facoltà sue , e che muove e rischiara l'intelletto. V. queste voci. Platone considerò la ragione come la facoltà più sublime dell'anima, da cui - - - 579 - emanavano le idee, o sieno i tipi univer sali del vero e del bello. Un moderno ri formatore della filosofia ha tolto a presto colesto concetto della filosofia platonica, e ha vestito la sua ragione di forme, al modo stesso che ha praticato per la sen sibilità e per lo intelletto.V. Forma, Idea. La ragione, presa nel suo proprio si gnificato, è stata distinta in teoretica o pura, ed in pratica. La pura raccoglie dalla sua propria luce le verità intuitive e da queste deduce i ragionamenti a prio ri: la pratica unisce insieme le conoscenze della sperienza, e se ne vale per fonda menta de ragionamenti a posteriori.V.que Sta VOCe. - - Ma la funzione più importante della ragion pura, è il giudizio critico ch'ella esercita sopra le sue proprie facoltà, non esclusi i sensi esterni. Cotesta funzione na sce dalla prerogativa data all'anima umana di vedere se stessa, che vuol dire di es sere intelligibile a se medesima; e for ma una spezie di poter direttivo, per lo quale la ragione discerne, se i sensi e le stesse sue interne facoltà sieno nello stato di loro naturale integrità, misura la sua propria capacità, esamina le origini delle proprie conoscenze, determina gli obbietti e i limiti delle scienze, presiede in som ma a tutto il sistema intellettuale. Della ragion pura è figlia quella parte sublime della umana sapienza, che noi chiamiamo filosofia prima, o filosofia critica della ragione. V. Animo, Filosofia. Kant fece della ragion pura un ente ideale che esamina la natura, la legitti mità e i limiti della umana cognizione, che è il censore di tutte le facoltà dell'ani ma, e la sorgente delle idee trascendenti, e per conseguente il fondamento della filo sºfia trascendentale. La critica che cole sta sua ragione esercita è quel che da lui fu detto criticismo. Cotesta parte del sistema intellettuale di Kant ha un che di vero, e un che d'ideale. Vero è il principio che l'anima riconoscendo se stessa, giudica de limiti della propria capacità: ideali son le forme che assegna alla ragione, e le verità universali, che suppone in lei inerenti, e delle quali for ma poi il ſondamento de suoi giudizi sin tetici a priori. (V. il vol. I. di questi saggi a pag. 334 e seg.). In un senso puramente logico si ado pera ancora cotesto vocabolo per dinotare una verità, che chiaramente percepiamo, e che determina il nostro giudizio, o sia che serve di motivo determinante all'in telletto, o alla volontà. V. Motivo. a Ragione sufficiente è stata detta dai metafisici quella verità che spiega il per chè una cosa piuttosto sia che non sia. Di tal nozione Leibnitz formò un princi pio universale, per la dimostrazione di tutti i fatti contingenti. La tolse egli da Archimede, il quale fu il primo ad appli carla alla meccanica, e sen valse nella dimostrazione dell'equilibrio della bilancia di braccia eguali, caricata di pesi eguali. Giusta il concetto leibniziano, siccome le verità necessarie han per fondamento loro il principio della contraddizione, così i fatti contingenti, i quali possono essere e non essere, riconoscono la legge da pre cedenti determinazioni, senza le quali o non sarebbero stati, o sarebbero altrimenti di quel che sono: le piante, gli animali, l'uomo, han diverse strutture, le quali nascono dalle diverse funzioni di loro eco nomia animale, o sia dal diverso fine della natura: le azioni degli uomini riconoscono il principio loro dalla volontà, siccome questa riconosce il principio suo da mo ar a - 580 - tivi, che son atti a determinarla. Tutto in somma quel che esiste, quel che av viene, e quel che è vero nell'ordine delle cose contingenti, ha secondo Leibnitz la sua ragione sufficiente. Colesto universal principio, che ha re gnato nelle scuole per tutto il tempo, in cui è stata predominante la filosofia leibni ziana, fu impugnato nel suo nascere dai seguaci di Locke, e sopratutto da Clarke; ed è stato di poi acremente contraddetto da Reid e dalla sua scuola. Nega Reid l'universalità del cennato principio, ed in ultima analisi lo dichiara inutile, quando vogliasi considerarlo come una regola lo gica, dacchè non direbbe più del nihil esse sine caussa. Lo accusa Stewart, co me distruttore del libero arbitrio, perchè induce una necessaria influenza de motivi nelle determinazioni della volontà; e co me antilogico, per avere dato lo stesso significato alla voce ragione, quando l'ha applicata all'esistenza degli Esseri, a fatti contingenti, e alle verità, in ciascuno dei quali sensi esprime una idea diversa. Le cennate obbiezioni possono dirsi nate dallo spirito di scuola, o di parte, tra perchè stravolgono il chiaro senso della dottrina di Leibnizio intorno al libero ar bitrio, e perchè son fondate nell'equivoco che si fa nascere dal vario senso della voce ragione. Ed in prima vuolsi notare, che quando Leibnitz adoperò il vocabolo ragione, in tese parlare il linguaggio allora ricevuto nelle scuole, le quali sempre distinsero la causa dalla ragione. La differenza dedue cennati vocaboli è chiaramente esposta da Cartesio in un luogo delle sue meditazioni, dove dice, che d'ogni cosa può investigarsi la causa, per cui quella esiste: « una tale investigazione, soggiugne, può farsi an cora di Dio, non perchè abbisogni Egli d'una causa per esistere, ma perchè la stes sa immensità della sua natura è causa, o sia ragione, la quale fa sì che non abbia bisogno d'altra causa per esistere ». Da questo luogo apparisce manifesto, che col nome di ragione intese esprimere il mo tivo, il quale rende intelligibile il per chè una cosa, un Essere, o un fatto qua lunque esista in un modo, più che in un altro. A ciò si arroge, che un tal si gnificato è passato ancora nell'uso del co mune parlare, dapoichè l'adpperiamo fre quentemente come equivalente di motivo d'un'azione, e ce ne serviamo ancora nel senso d'una spiegazione delle relazioni, per le quali da un fatto nasce l'altro, o da una verità si fa passaggio ad un'altra. D'altra parte, il vocabolo causa ha un significato unico e costante, dapoichè si gnifica l'azione, o il principio attivo, che ha dato l'essere all'atto, noto o ignoto che quello sia. Egli è vero, che ne fatti contingenti, i quali dipendono dall'ordine delle cause naturali, entrambi i vocaboli possono esprimere la medesima idea; ma è vero altresì, che applicati alle azioni degli agenti morali, o sia all'uso della volontà, ciascun di essi ha un significato diverso; e tanto diverso, quanto la ra gion dell'azione esprime un principio an teriore il quale determina la causa del l'azione, che è la volontà dell'agente mo rale. Il principio dunque della ragion suf ficiente dice più del nihil esse sine caussa, perchè abbraccia tanto la causa, quanto la potenza; di tal che nella sua genera lità comprende ancora i fatti, de quali ignoriamo la causa efficiente. V. Volontà. Premessa una tal differenza di signifi cati, non è vero, che il principio della ragion sufficiente distrugga il libero ar – 581 – bitrio, perchè Leibnitz nell'applicarlo alla volontà, spiegò che i motivi, i quali ci spingono alla determinazione, dipendono tutti dalla rappresentazione, o sia dalla opinione del bene; che tra le ragioni, o motivi, ve n'ha sempre uno, il quale pre vale agli altri, e però dicesi sufficiente a delerminare, che il prevalere de inten dersi nel senso, che inclina la volontà sen za costrignerla, anzi lasciandole libera la scelta tra le diverse rappresentazioni del bene, che da ogni parte se le offrono. Molto men vero è, che Leibnizio avesse confuso tre diversi significati, a quali non è applicabile la stessa regola, il che sa rebbe stato un errore logico indegno della sua sublime mente. Pare anzi a noi che veri non sieno i tre diversi significati, pre supposti da Stewart nel vocabolo ragione. Noi ne vediam due soli, o che si tratti di esistenza, o di avvenimenti, o di ve rità. La ragion sufficiente, o si confonde colla causa efficiente, o è il motivo che determina la causa dell'azione. Nel primo senso abbraccia tutti i fatti e le verità con tingenti della natura; nel secondo, le azio mi, o sieno i fatti dipendenti dalla volontà degli agenti morali: il secondo è più am pio del primo, perchè comprende tanto i fatti esistenti, quanto i possibili insieme colle loro conseguenze. In somma il prin cipio della ragion sufficiente è quel della causalità, enunciato in termini atti a com prendere le cause anche ignote, e le pos sfbili: è una verità metafisica, e insieme mente una regola logica, utile a spiegare tutte le cose contingenti. Sin qua della ve rità del principio della ragion sufficiente. Ma Leibnitz l'ha adoperato come argo mento per dimostrare tutte le sue ipotesi metafisiche, l'armonia prestabilita, la legge della continuità, e la stessa monadologia, Che perciò? Un principio logico può es sere, ed è spesso falsamente applicato a tesi indimostrabili, e ad insolubili quistio ni. In questi casi si rifiuta il ragionamento, non si accettano le conseguenze, e dirassi, che quel tale principio logico è malamente applicato. Chi rifiuterebbe il metodo sillo gistico o l'induttivo, sol perchè si fossero assunte false premesse, o si fosse scam biata una ipotesi con un fatto? Ora que sto è quel che è avvenuto per la ragion sufficiente, si è rinegata una regola in odio dell'abuso fattone. s Ragione da matematici chiamasi una re lazione tra due cose omogenee, che dalla quantità dell'una determina quella dell'al tra, senza intervento d'una terza. Può essere di differenza o di quoziente: nel primo caso dicesi aritmetica: nel secondo, geometri ca. Si usa anche spesso la voce rapporto in luogo di ragione, quantunque abbia un significato più generico. V. Relazione. Le cose omogenee che si paragonano, chiamansi termini della ragione, e pren dono tra loro la denominazione di ante cedente e di conseguente. - Ragione da logici è detta, ora l'argo mento il quale spiega, perchè la cosa è ad un modo, più che ad un altro ; ed ora il motivo determinante la persuasione o la convizione. V. queste voci. RAGIONEvoLE (prat. e disc.), quel che ha in se ragione, o è convenevole. Dicesi degli uomini, delle cose, depen sieri, e del discorso. RALLEGRANZA (prat.), allegrezza dimo strata con esterni segni, e spezialmente con sereno e ridente viso. V. Allegrezza. Vale quanto il congratularsi con se stesso d'un lieto avvenimento, - 582 – RAMMARICAMENTo e RAMMARICo (prat.), dolor morale, con esterne manifestazioni, o senza. V. Dolore. RAMMEMoRARE (spee. e dise. ), il ri passare che fa la mente sopra una cosa che nell'animo ritiene, o il far menzione col discorso di cose o di persone già note. RAMMENTARE (spec.), ricordarsi d'una conoscenza che si è avuta, o ricordarla ad altri. Differisce dal ricordare, perchè si rife risce alla mente, mentre quest'altro vo cabolo accenna alla memoria sensitiva, che è comune ancora a bruti. E però il rammentare è proprio dell'uomo, il ricor dare è comune ad ogni animal dotato di memoria. - RAMPoGNA e RAMPoGNAMENTo (prat.), rinfacciamento del mal fatto. RANcoRE (prat.), odio coperto, che si nasconde nel cuore, e non si manifesta con parole. V. Odio. RANCURA (prat.), affanno o doglienza, per cui taluno si rattrista. Da questo nome nasce il verbo rancu rare, che significa attristarsi e dolersi, e che il Varchi dice venire dal Provenzale. L'una e l'altra voce non pertanto son fuori di uso. RAPPoRTo (spec.), quel che si riferisce ad un'altra idea. Nasce dalla comparazione di qualità co muni o simili, o dalla associazione delle idee. Il moderno linguaggio filosofico chia ma rapporto quel che i nostri maggiori, non esclusi gli oltramontani, dissero re lazione. Cotesto vocabolo essendo più ge nerico e più usitato, si ritiene da noi co me il termine proprio della scienza. V. Re lazione, Dal paragone di due quantità omogenee trae origine quel che i matematici chia mano rapporto, o più propriamente ra gione. V. questa voce. RAPPRESENTARE (spee. e disc. ), spie gare per figure, per immagini, o per altro segno un obbietto del pensiero. RAPPRESENTATIvo (spec. e dise.), il se gno, o altro equivalente, atto a dinotare la cosa o l'idea significata. Cotesto vocabolo è stato di molto uso nelle scuole, che han professato la dot trina detta delle idee, cioè che non altri menti si percepiscono da noi gli obbietti esterni, che per mezzo delle immagini de gli obbietti medesimi. V. Idea, Imma gine, Percezione. RAssEGNAzIoNE (prat.), conformazione della propria volontà ad un volere su periore, RAssIMIGLIANZA e RAssoMIGLIANZA (spee. e prat.), accordo di forme esterne, che rende una cosa simile all'altra. - - Si trasporta dalle forme sensibili alle qualità dell'intelletto, alla conformità dei pensieri, decostumi e deportamenti della vita. V. Simile. RAzIocINIo (disc.), ragionamento tes suto colle regole logiche. V. Logica, Ra gionamento. RAzioNALE (spec.), quel che è proprio – 585 - della ragione, o che si può concepire, per Si adopera tanto per le idee delle cose mezzo della ragione, e non per lo mini stero del sensi. Razionale è un epiteto dato all'anima, per distinguere le sue funzioni intellettive dalle sensitive. V. Anima. Distinguono i geografi l'orizzonte ra zionale dal sensibile razionale è quello, di cui il piano passa per lo centro della terra, e divide il globo in due emisferi eguali: sensibile, quel cerchio paralello al primo, che passa per l'occhio dell'os Servatore. - Chiamano ancora i matematici numero intero razionale, quello di cui l'unità forma una parte aliquota : quantità ra zionale quella che è commensurabile colla sua unità: quantità irrazionali, o sorde quelle che sono incommensurabili coll'uni tà, come sarebbe la radice quadrata di 2. Chiamano inoltre ragione, o rapporto, razionale quello, che può essere rappre sentato da un numero razionale. - e, - RAzioNALISMo (crit.), dottrina che am mette i concetti della ragione come l'unica origine dell'umana cognizione. V. Cogni zione. I fautori di cotesta dottrina dicono che senza le verità generali stabilite dalla ra gione, le idee sensibili a nulla varrebbero; e che d'altra parte queste servono a quelle per istabilire l'applicazione del generale al particolare. La stessa denominazione è stata data al sistema filosofico che attribuisce alla ra gion pura talune nozioni generali, nelle quali diconsi riposti i tipi della verità e della certezza. V. Ragione. REALE ( spec. e ontol. ), quel che è esistente, o vero. materiali, quanto pe'concetti della mente. Nel senso delle prime, viene comunemente scambiato coll'attuale, e può come quel lo dirsi compimento del possibile: per ri spetto agli obbietti intellettuali, vale vero.. V. Attuale, Possibile, Vero. Con questo vocabolo furono nelle scuole designati coloro, i quali ammettevano l'esistenza delle idee universali, in contrad dizione di quegli altri, i quali afferma vano, essere le nozioni generali un modo del pensiero rappresentato da un nome, cui nulla corrisponde in natura. E però gli uni furon detti reali e gli altri nominali. A correggere gli estremi di coteste due sette venne una terza dottrina, la quale non ammettendo l'esistenza di quegli enti di ragione che supponevano i reali, e non riducendo a puri nomi le nozioni generali, che la mente ricava dalla idee particolari, disse essere reali e veri i con cetti della mente, e la verità loro trovarsi nelle idee degli obbietti particolari, dai quali son ricavati. Cotesta media dottrina, nella quale sta la verità , è stata da mo dermi detta del concettualisti. V. Momina le, Reale. - REALITÀ e REALTÀ (spec. e ont.), astratto del reale che importa esistenza, attualità, o verità. Nel linguaggio scolastico, la realità di notava l'esistenza degli enti; laddove quella delle cose era espressa per lo vocabolo qui dità. V. questa voce. Realità ontologiche sono state dette le nozioni dell'esistenza o verità degli enti, proprie della ontologia. V. questa voce. REAzione (spec.), l'azione scambievole del paziente contro l'agente, esercitata - 584 – per mezzo d'una forza contraria a quella dallo stesso agente adoperata. V. Azione, Forza. I peripatetici la definivamo: l'azione che il corpo paziente restituisce all'agente per effetto d'una qualità contraria a quella che ha prodotto la sua passione, e ciò nella stessa parte e nello stesso tempo, in cui l'ha sofferta. L'esempio che se ne adduceva, era dell'acqua, la quale mentre è riscaldata dal fuoco, raffredda il fuoco che la riscalda. Conoscevasi nelle scuole l'assioma che non v'ha in natura azione senza reazione, il quale assioma era enun ciato ne seguenti termini, omne agens, agendo repatitur. È dovuta a Newton la conoscenza delle leggi fisiche, colle quali ha luogo la rea zione. Suo è il principio, che l'azione e la reazione sono eguali e contrarie, dal quale principio risulta che le azioni scam bievoli de due corpi si fanno sempre in contrarie direzioni, e che queste azioni producono in ciascuno de due eguali cam biamenti. Laonde ogni corpo che preme la pietra, è dalla pietra a volta sua pre muto. E se un corpo, urtando contra un altro ne cambia il moto, soggiace ancor esso al medesimo cambiamento. ll vocabolo reazione, trasportato fuori delle leggi fisiche, ed applicato al mora le, o sia all'azione delle passioni, dà si militudini imperfette, come son tutte quel le , che dalla materia si trasportano allo spirito. REFLEssioNE (spee. ), la ripercussione deraggi della luce, i quali cadono sopra superficie levigate. V. Luce. La ripercussione avviene per mezzo di un angolo, che i raggi luminosi fanno colla superficie sopra cui cadono, il quale angolo è detto di riflessione, ed è eguale a quello che forma per giugnervi, detto angolo d'incidenza. I fenomeni della luce reflessa formano suggetto di quella parte dell'ottica, che è detta catottrica. V. questa voce. REFRAZIONE ( spec.), cangiamento di direzione, che i raggi della luce ricevono nel passare da un corpo diafano in un altro. V. Luce. La spiegazione del fenomeni della luce refratta, è il suggetto della diottrica. V. questa voce. REGoLA (spec. e crit.), precetto, o ve rità generale, che serve di norma alle azioni. - È un significato trasportato dal mate riale, o sia dalla pratica direzione che una riga o una linea tracciata sulla carta dà alla mano di chi scrive. - Doppia è l'applicazione che di questa similitudine facciamo alle facoltà attive e intellettive dell'animo, perchè due sono i fini, a quali possono essere indirizzate le nostre azioni, la virtù, e la scienza, la prima come fine deportamenti della vita; la seconda, come ultimo prodotto delle conoscenze speculative. La volontà dun que e l'intelletto, han ciascuno le proprie regole, le quali debbono guidargli al ri spettivo loro fine. In una parola il fine forma la regola. Quanto alla volontà, noi ricaviamo la mozione della regola dalla legge e dall'or dime; anzi siamo soliti scambiare il senso de tre cennati vocaboli, ma in realtà cia scuno differisce dall'altro. Differisce la regola dalla legge, perchè questa abbraccia non solamente la norma dell'azione, ma ancora la ragione della - 585 - sua convenienza, e insiememente il prin cipio dell'obligazione che da essa deriva: dall'ordine perchè questo presuppone un complesso di regole cospiranti al medesi mo fine. Diciamo dunque, che la regola nasce dalla legge, e l'ordine dalla rego la. V. Legge, Ordine. Siccome noi prendiamo dalla natura la prima nozione della legge, così dalla stessa ricaviamo quella della regola. La connes sione che regna ne fenomeni naturali, ne quali scorgiamo un fine costante, una relazione immutabile tra le cause e gli ef fetti, e una volontà operatrice, da cui le cause intermedie riconoscono l'efficacia loro; ci danno, insieme coll'idea dell'or dine, quella ancora delle regole, che han determinato il corso e la successione dei detti fenomeni. E però chiamiamo regole della natura quelle che ci manifestano le costanti relazioni degli effetti colle cause loro; e per la stessa ragione consideriamo come regole naturali del vivere quelle che la natura ha adombrato, e quasi impresse negl'istinti e negli appetiti, acciocchè que sti ci guidassero insino a che la ragione non pervenga alla sua maturità. V. Ap petito, Istinto, Matura. Passando poi all'intelletto, l'ordine, e per conseguente le regole son tanto neces sarie al pensiero, quanto alle operazioni della volontà. Il complesso di tali regole è quel che dicesi metodo, senza del quale non puossi pervenire, nè alla dimostrazione delle ve rità note, nè allo scoprimento delle ignote. Ogni scienza per conseguente, ogni disci plina, ogni arte presuppone un metodo; siccome ogni metodo altro non è, che una collezione di regole, per le quali più facil mente dassi compimento al proposito del l'animo. V. Metodo. Ma il pensiero versa tanto circa gli ob bietti che sono fuori di noi, quanto circa la mente stessa, che è intelligibile allo spirito, come tutte le altre cose intelligi bili. E però la mente detta regole a se medesima, o sia stabilisce i metodi, pei quali indirizza e conduce le proprie sue facoltà; del che forma ella la scienza delle scienze, che chiamiamo la filosofia prima, o critica. V. Filosofia. L'immortale Newton credette necessario di anteporre a suoi principi della filosofia naturale le regole del filosofare, come le fiaccole che in noi accendono il principio della induzione e dell'analogia, il quale ci serve di guida nella investigazione delle cause costanti e generali del fenomeni della natura. V. Analogia, Induzione. Ogni scienza sperimentale può fare al trettanto, scegliendo quei principi generali, de quali l'osservazione e la sperienza han no, senza eccettuazione alcuna, dimostrato la costante ed uniforme ricorrenza. Mag gior bisogno di simili regole ha la filosofia intellettuale, perchè versa circa una sfera di obbietti ideali e invisibili, dequali può ora affermare e or negare la realità, se condochè cangia la faccia del prisma col quale gli osserva. Ma se la natura ci ha additato l'unico lato per lo quale dobbiamo risguardargli ; se la filosofia speculativa dee al pari della pratica, corrispondere ai fini della natura; se lo scopo suo è il ri schiarare e non il confondere o annichilare la ragione; se la ragione non può dare a se stessa una legge diversa da quella, che ha ricevuto dalla natura; nè può sup porre difettiva o fallace quella madre, da cui ha ricevuto tutti i doni suoi; dovrà la filosofia intellettuale riconoscere pure le sue regole del filosofare, nelle quali sono scritti i limiti, che le assegna la ragion 49 - 586 – comune della umanità, e che potrebbero dirsi le condizioni necessarie dell'umano sapere. - , i Due principi sembrano determinare la verità e la convenienza di tali regole: il primo, che la conoscenza di se medesimo è l'unico fine della filosofia speculativa ; il secondo che i progressi dell'umana ra gione non mai potranno trascendere la naturale capacità delle facoltà sue, e Quali sieno le regole che discendono da due cennati principi, vedi il primo vo: lume del nostri saggi al capo XX. s RELATIvo (spec. ontol. prat. e diso. ), quel che per essere inteso, o determinato ha bisogno di un'altra idea. È contrapposto dell'assoluto, il quale include l'idea d'una sostanza o d'un sub bietto, che è determinato per la propria essenza, o sia per le proprie qualità. V. Assoluto. Applicato cotesto vocabolo agli obbietti del pensiero, ed alle conoscenze dell'ani mo, equivale ora all'indiretto, ora al sub biettivo, ora all'apparente, ed ora al vee risimile e al probabile. V. queste voci. In ispezialità aggiunto alla voce certez za, esprime quel grado di convizione e di verità, che non esclude la possibilità del falso e dell'errore. V. Certezza, Pro babilità. - I logici e i grammatici hanno fatto molto uso del relativo per distinguere le propo sizioni e i termini che richiamano un'altra idea, e non istanno di per se. E però chiamano relative le proposizioni, che esprimono qualità, le quali risultano dalla comparazione di due obbietti tra loro; re lativi i termini che ne presuppongono al tri, da quali nasce la loro determinazione, come quello di padre, di fratello, di mo glie, di causa, o di effetto ; relativi i pronomi, che per loro stessi nulla signi ficano, e che per avere un significato deb bono essere aggiunti ad un altro nome, come il quale.V.Pronome, Proposizione. - In generale il relativo prende i signifi cati propri del vocabolo relazione, di cui è un derivato. - - - - - - - I e - e r RELAZIONE (spee. ontol. prat. e dise.), legame tra due idee, delle quali una serve a richiamare o a determinare l'altra. La comparazione di due obbietti tra loro somministra il maggior numero delle idee delle di relazione, quel che mostra la somiglianza, la diversità, o la differenza de loro accidenti, è ciò che chiamasi re lazione. L'animo ricava le relazioni da ragioni che nascono, o dalla natura degli obbietti o da qualità accidentali, anche estrinse che; il perchè distinguonsi le relazioni ne cessarie dalle accidentali. Le necessarie sono, o immediate, o, derivate dal ra gionamento: le prime sono intuitive, e comuni a tutti gli uomini, come quelle di cause e di effetti, le seconde nascono da conoscenze acquistate, e sono, spesso particolari a coloro che professano un'arte o una scienza, come quelle che fanno i geometri per le qualità delle figure, o i fisici per le qualità del corpi. Il principio della causalità essendo connaturale alla ragione, può essere considerato come quel lo che indirizza la mente a formare la nozione della relazione. V. Causalità. Tra le relazioni accidentali son comprese le così dette denominazioni estrinseche, o sien quelle nelle quali ravvisiamo una somiglianza anche passeggiera, comechè questa dipenda o dal significato del voca boli, o da rimote analogie, o dal modo stesso col quale le concepiamo. Tali sono, per esempio, le cose che noi ordiniamo per numeri, le idee di merito, di prefeº renza ed altre simili. Molte di queste rela zioni son volontarie, e trovano la ragione di loro stesse, più nell'abito che ne legami delle cose. Son esse infine che nutriscono e favoriscono l'associazione delle idee. V. Associazione. Locke affermò, che ogni relazione masca dalla comparazione, ma questa non in terviene certamente nella più ovvia e più naturale di tutte le relazioni, in quella cioè delle cause e dell'effetto, di cui l'una suggerisce l'altra, e nella quale spesso l'uno è noto e l'altra ignota. Leibnitz ridusse a due classi le relazio ni, a quelle cioè di comparazione, e alle altre di concorso. Ma questa seconda classe è indeterminata e vaga. e - - Hume credette che le relazioni tutte na scessero, o dalla causalità, o dalla conti guità di tempo e di luogo, o dalla somi glianza, o dalla contrarietà, considerata questa come un complesso della causalità e della somiglianza. Cotesta opinione dee essere risguardata come non vera, e come del tutto sistematica, in prima perchè la scia fuori di se molte delle accidentali e delle volontarie relazioni, e secondaria mente perchè ci viene dallo spirito d'un sistema intento a rendere meccanica l'ope razione del pensiero. Kant fece un nuovo ordinamento delle relazioni in quattro classi, cioè l'identità e disparità, la concordanza e il contra sto, l'intrinseco e l'estrinseco, il deter minabile e la determinazione, o sia la materia e la forma. I A noi pare che niun giovamento si ricavi per la filosofia, o sia per la chiarezza delle nozioni, e per l'analisi delle operazioni della l mente, dal determinare e dal restrignere i modi del pensiero, dal rendere necessa rie le sue combinazioni, dal limitarne la spontaneità, dal separare gli stessi modi del pensiero dalla immaginazione, e dal l'aggravare la memoria d'una serie cate gorica di denominazioni, tutte arbitrarie e relative. Chiunque consideri, che tutta l'umana cognizione nasce e si forma col l'arte di scoprire le relazioni che han tra loro tutti gli obbietti del pensiero, mate riali o immateriali che sieno; che que st'arte abbraccia non solamente le relazioni reali, ma anche le apparenti, le neces sarie e le volontarie, le vere e le suppo ste; che indeterminate ed indeterminabili son quelle suggerite dall'analogia, dalla somiglianza denomi, e in generale dalla immaginazione; dopo avere distinto le relazioni necessarie dalle accidentali, rav viserà l'impossibilità di confondere le une e le altre insieme, e di soggettarle alle partizioni della logica artifiziale. Di questa logica fu maestro Aristotele, il quale considerò la relazione come un accidente della sostanza, e l'annoverò tra i dieci suoi predicamenti. V. questa voce. Relazione morale è stata detta la con formità che passa tra l'azione, e la legge che ne dà la norma, e di cui è giudice la coscienza. V. Coscienza, Legge. - e RELIGIONE (teol.), il fermo e costante proponimento di adempiere i doveri verso Dio e verso i simili nostri, o L'osservanza del nostri legami con Dio. La prima definizione spiega la cosa; la seconda, il nome. I doveri verso Dio e verso l'uomo ci son dettati dalla ragione, che è tempio della Divinità. La somma di tali doveri è l'amare Dio e il prossimo come noi stessi. Quale più lieve retribu ai - 588 – zione poteva esiger da noi il Creatore? Amarlo, vuol dire adorarlo, ammirarlo nelle opere sue, e prenderlo come prin cipio degli affetti nostri; vuol dire, es sergli riconoscente debenefizi de'quali ha ricolmato l'uomo sopra tutte le altre crea ture ; vuol dire , sperare nella infallibile promessa di una vita futura, che ha scol pito nell'animo nostro. L'amare Dio è quel che precipuamente dicesi culto, il quale forma la prima parte della religio ne. V. Culto. La seconda parte poi sta nell'amare i nostri simili come noi stessi. Acciocchè sapessimo amare noi stessi, l'Autor della natura ci ha costituito un fine, al quale riferir dobbiamo tutte le azioni: cotesto fine è quel sommo bene, di cui tanto di sputarono i filosofi, e che la ragione sce vra delle suggestioni della vita sensitiva, di per se vede ed appetisce: a questo fine ci conduce quasi per mano la coscienza, facendoci pregustare quella interna soddi sfazione, che è prenunzio della futura beatitudine. Così l'amare Dio, noi stessi, e gli altri si confonde in un individuo sentimento, e in una medesima virtù. Questa è la religione, che insegna la ra gione, e che la divina rivelazione ha con fermato, ampliato, e santificato. Ma la ragione può conoscerla di per se sola ? E se la conosce, qual bisogno della rivelazione? Rispondano l'esperienza del genere umano, e tutti gli errori della filosofia ! Ben la conosce la ragione speculativa ma non la pratica. E quì co nomi di speculativa e di pratica intendiamo de signare non la ragion pura e la pratica di Kant, ma sì bene la ragione sana, e la ragion sensitiva, che combatton tra loro, e delle quali una obbedisce alla legge mo rale, e l'altra a quella de sensi. Colla ragion sana aperse l'uomo gli occhi alla luce del mondo, e conobbe il vero culto di Dio, il fine della vita, e le future spe ranze, ma tosto smarrì la sua fida com pagna nella selva delle illusioni e degli CTrOrl, - Senza l'intervenzione divina l'avrebbe per sempre perduta, e il mondo avrebbe camminato fuori della sua legge. Dopo le prime rivelazioni fatte all'uomo nell'atto di sua creazione, due volte Dio visibil mente intervenne per cavarlo dalle tene bre, nelle quali erasi profondato: una volta, allorchè volle che fosse la verità conservata in un picciol canto della Terra, e quivi custodita come un sagro fuoco, che doveva un giorno essere propagato per lo mondo intero: un'altra volta, al lorchè, maturo essendo il tempo del di singanno, degnossi mandare tra gli uo mini la sua vivente parola. Quali prodigiosi effetti non produsse la luce da cui fu circondata quella divina mis sione? Caddero gl'imperi tutti del mondo, e con essi i prestigi e le credenze de'po poli: la falsa sapienza delle nazioni dispar ve: una nuova era cominciò a segnare l'età del mondo rigenerato: i barbari corsero alla civiltà: il regno della forza cedette il suo scettro alla ragione: una morale pu blica stabilì tra le nazioni i legami stessi delle famiglie. Fermiamoci quì, che noi non insegniamo le verità rivelate, ma se guiamo soltanto le tracce della sana ra gione! (V. il vol. I. Capo VI.). . . La ragione ci mostra la necessità d'una rivelazione, e ci apre due vie per determi nare la nostra credenza: la verità stessa della dottrina: e l'esperienza, o sia la storica tradizione del mondo: l'una e l'al tra ci conducono ad una assoluta e piena - 589 - convizione della sua divinità. Quel che è vero e perfetto, non può venire se non da Dio: dee per necessità venire da Dio, quel che l'uomo separato dalla sua gui da, non aveva saputo mai più rinvenire. Proseguendo ora il cammino del naturale ragionamento, se la prima pruova della divinità della rivelazione sta nella verità della sua dottrina, ne deriva, che uno è il vero. Questo vero non solamente è uni co, ma è immutabile: i comenti, le in terpretazioni, e gli errori degli uomini non possono alterarlo nè adombrarlo. Acciocchè no'l potessimo toccare, nè corromperlo, il divino Maestro che lo dettò, stabilir volle le forme le quali cu stodir dovevano il deposito della celeste dottrina. L'autenticità di tali forme sta nella sagra tradizione che le ha traman date. I sapienti del paganesimo, volendo dare un fondamento di divinità alle false credenze del politeismo, avevan detto an tiquitas proxime ad deos accedit. Bello era il concetto, ma falsa n'era l'applica cazione, tra perchè l'antichità loro era monca del suo principio, e perchè era tutta fuori della storia. La nostra tradi zione per contrario non solamente è tutta storica, ma mette capo nelle parole stesse dell'infallibile autor della dottrina. Appli chiamo dunque meglio il detto degli an tichi: antiquitas proxime ad Deum ac cedit, e da questo principio ricaviamo una seconda conseguenza, cioè che l'au tenticità del suo testo sta nell'antichità storicamente comprovata. Adunque son due i principi razionali, sopra i quali è fondata la verità e l'immutabilità della religione rivelata: il primo, che la vera dottrina non può esser che una: il se condo, che il senso, lo spirito e le for ma di tal dottrina son quelle che im mediatamente ci vengono dalla sagra tradizione. V. Questa voce. REMINIsceNzA (spec.), operazione del l'anima, per la quale richiamiamo alla memoria una conoscenza che ne era uscita. V. Memoria. Secondo Aristotele è il più debole grado della memoria. Ma noi consideriamo la reminiscenza come un atto per lo quale la memoria ripara ad una perdita fatta, e non già come la stessa facoltà del ri cordare. Così considerata, differisce dalla rimem branza, la quale conserva l'idea dell'ob bietto, di già acquistata.V. Rimembranza. REMissioNE (spee. ), la diminuzione di una forza, comparativamente all'accresci mento di cui è capace. i E il contrapposto d'intensità. V. que Sta VOce. REMUNERAZIONE e RIMUNERAZIONE (prat.), restituzione del benefizio ricevuto, o Reciprocazione nel beneficare. Differisce dalla ricompensa, che include l'idea d'un contraccambio dovuto. V. Pre mio, Ricompensa. REPRENSIONE e RIPRENSIONE (prat.), bia simo manifestato con parole. V. Biasimo. REPRoBo (prat.), uomo di dannata opi nione. È più di maligno e di malvagio, per chè presuppone una notoria perversità, che non lascia luogo ad emenda. V. Ma ligno, Malvagio. REPULSIONE (spec.), l'azione contraria all'attrazione, per la quale i corpi, o le loro molecule, in date circostanze, si al lontanano le une dalle altre. V. Attrazione, REPUTAZroNE e RIPUTAZIONE (prat.), l'onorevole opinione delle proprie, o delle altrui qualità intellettuali o morali. E però diciamo, godere d'una buona riputazione, o averla di altri. -- Differisce in meno dalla fama, la quale presuppone un giudizio publico ed univer sale; e in più dalla semplice esistimazione, la quale esprime un giudizio individuale, o di pochi. V. Esistimazione, Fama. Il meritare una buona riputazione, e il non offendere l'altrui son due regole, le quali in compendio abbracciano tutta la morale pratica dell'uom civile. La pri ma include l'idea d'ogni onesto porta mento, e del giusto amore di se mede simo: la seconda, quella della giustizia e della mutua benevolenza, nelle quali virtù son fondati i legami della naturale e ci vile comunione degli uomini. E per con trario il non custodire la propria riputa zione, e il lacerare l'altrui contiene la somma di tutti i vizi; dapoichè presup pone l'indifferenza al bene e al male, e la mancanza d'ogni sentimento di giusti zia e di benevolenza verso degli altri. Chi non rispetta l'altrui riputazione è ingiu sto, malvagio, o per lo meno malevolo: ingiusto, se gli nega quel che gli è do vuto; malvagio, se falsamente detrae alla opinione di lui: malevolo, se rende ma nifesto quel che può, o dee agli altri ri manere nascoso. Son questi i tre caratteri che insieme concorrono nel vizio della maldicenza. V. questa voce. REsisTENZA (spec.), ostacolo, che ogni corpo oppone all'azione d'un altro ten dente a farlo cambiare di sito. Ovvero, forza che opera contrariamente ad un'altra, e ne distrugge o ne sminuisce l'effetto. V. Forza. La prima definizione è più conveniente al concetto che ne forma la filosofia spe culativa, la quale considera la resistenza come una qualità derivante dalla solidità e impenetrabilità della materia, sensibile al tatto, e come la causa dell'inerzia che fa durare i corpi nello stato di quiete o di moto insino a che non sieno da una causa estrinseca obligali di mutare lo stato loro. V. Impenetrabilità, Inerzia, Solidità. La seconda è propria della fisica, la quale la risguarda come una potenza va ria, secondo la diversa natura del corpi resistenti; e però distingue quella del so lidi, de fluidi, dell'aria, de quali parti tamente trattano la Meccanica, l'Idrosta tica e la Pneumatica. V. queste voci. - - - - - - t , REspmAzioNE (spec.), l'azione reciproca dell'aria ambiente e del fluido nutrimen tale degli animali, esercitata per mezzo de polmoni nell'uomo e negli animali mam miferi; - - e per mezzo di altri organi speciali nel le altre spezie di animali; - destinata dalla natura a tenere in con tinuo moto la circolazione del detto fluido nutrimentale; a temperarlo e modificarlo per mezzo del rinnovamento dell'aria esterna ; rinnovamento eseguito mediante un'al terna operazione decennati organi, i quali introducono l'aria, e la ricacciano pregna di calorico e di evaporazioni animali; le cennate operazioni formano quel che dicesi ispirazione e espirazione. V. Pol 7207262. Di tutte le funzioni animali dalle quali risulta la vita, non è alcuna, che possa - 591 – dirsi tanto essenziale quanto questa, per chè da essa immediatamente dipendono l'azione, il moto, e la forza vitale di tutti gli altri organi : cotesta forza vitale si estingue appena cessi, l'azione dell'aria esterna sul sangue, di che fanno mani festa pruova gli asfixiali. La sua impor tanza è la stessa in tutti gli animali, non esclusi gl'insetti e i zoofiti; sol che la na tura ha variato negli organi destinati alla respirazione, adattandogli alla diversità della forma e della condizione loro, non che dell'elemento nel quale debbono vive re. Tale varietà forma una delle più bel le parti della fisiologia generale, e dello studio contemplativo della natura. Nell'uomo e ne mammiferi, la respi: razione si esegue per mezzo dell'organo de polmoni, del quali l'alterna operazione segna il principio e il termine della vita extra-uterina; imperocchè questa comincia con una ispirazione, non prima che uscia mo al contatto dell'aria esterna, e finisce con una espirazione, colla quale rendiamo lo spirito a Dio. L'ispirazione consiste nel la dilatazione del torace, la quale avviene così per l'azione del diaframma, che si abbassa verso la pancia, e rende più am pia la cavità del petto nella direzione del suo diametro verticale; come per l'azione demuscoli i quali elevano le costole: da tale elevazione nasce ancora l'ampliazione degli altri diametri. E quantunque l'ispi razione non sia eguale per la intensità e per gl'intervalli in tutti i mammiferi, nè in tutte l'età o condizioni della vita, ciò non ostante per considerare cotesto feno meno sotto l'aspetto d'una legge generale, possiamo scegliere per esempio l'uomo trai mammiferi, e tra le varie condizioni della vita, un uomo sano che si trovi in uno stato di equilibrio e di quiete. In questo stato l'operazione della ispirazione avviene per un meccanismo involontario e conti nuo, dapoichè si ripete da sedici a venti volte per ogni minuto, per modo che cor risponde a quattro battute di polso; non essendo concesso alla volontà il sospendere un tal moto, se non per un tempo bre V1SSimO. . . . , - E d'altra parte la respirazione, conside rata pure nello stato ordinario d'un uomo valido e sano produce, che il diaframma, il quale erasi contratto per la ispirazione, si distenda ; e per effetto di tale disten dimento, il diametro verticale del torace si raccorcia, e i visceri addominali spinti dalla elasticità delle stesse pareti della pan cia rimandano in su lo stesso diaframma. Similmente le costole elevate nella ispira zione, e gli altri diametri ampliati, ven gono depressi e di nuovo raccorciati nel la respirazione. - e Da tale alterna operazione è facile com prendere, che i polmoni si dilatano nel la ispirazione, e si restringono nella re spirazione, non per una forza propria del loro tessuto, ma per l'azione dell'aria che vi s' introduce. E sebbene l'aria vi ri manga per pochi istanti, e per un moto puramente meccanico sia cacciata fuori per lo restringimento delle pareti del to race; pure in questa sua brevissima per manenza diviene la causa operatrice di molti altri fenomeni, a rispetto spezial mente della circolazione del sangue. Per mezzo suo il sangue penetra nel polmoni e si spande per tutte le diramazioni del le arterie e delle vene polmonari, non come in un semplice recipiente chimico, ma come in un apparato d'organi viventi dotati d'una forza atta a modificarlo, e per un certo modo di dire, a digerirlo an cora. Il sangue delle arterie polmonari, - 592 - nerastro prima di entrare nepolmoni, dopo di esser passato per questo viscere, ne esce d'un color vivo e rosso, qual è quello, che per le vene polmonari ritorna al cuore. Più maraviglioso che nell'uomo, è il meccanismo della respirazione degli uc celli, de'quali può dirsi, che non è parte del corpo loro, che non sia stata dalla natura predisposta ad essere, o organo di respirazione, o recipiente d'aria atmosfe rica, la quale dà loro vita, moto, e calore corrispondente all'attività di cui sono dota ti, e alla condizione delle regioni aeree, che son destinati ad abitare. La grandezza relativa del loro polmoni, la mancanza del diaframma, le appendici membranose di cui son provveduti, i serbatoi e i condotti destinati a raccogliere e portare l'aria in tutte le parti del corpo e per sino nelle ossa, nel tessuto cellulare, e nelle stesse loro penne, con tanta cura descritti da Camper, da Hunter, da Malacarne, da Gerardi, da Méry, da Cuvier, e da altri molti motomisti; han fatto dire, che gli uccelli sono infiammati e consumati dal ſuoco della vita in tutto l'organismo loro. Quelli i quali spiegano chimicamente, e secondo il sistema di Lavoisier, l'azione dell'aria atmosferica sul sangue, dicono che l'ossigeno penetra per ogni parte nel loro tessuto, entra a torrenti in tutte le vie della respirazione, e per una sorta di perpetua combustione vitale diviene il principio animatore della loro energia mu scolare. Secondo questa teorica, l'ampiezza del ricettacolo pneumatico, sparso per l'in tera superficie del loro corpo, spiega la ragione, per la quale gli uccelli, tra tutti gli animali, sviluppano maggior quantità di calorico, e consumano più di ossigeno. Certamente la temperatura del loro corpo è costantemente maggior di quella degli altri viventi, e supera sempre di due o tre gradi, e secondo alcuni osservatori, anche di dieci, quella dell'uomo: la mano stessa di chiunque, in parità di circo stanze, tocchi un uccello o una ranocchia, si accorge d'una tal differenza; il che spiega ancora come i più piccioli uccelli possano reggere al rigore declimi setten trionali. Un organismo, disposto quasi in con trario senso, è quello del rettili per ri spetto alla respirazione, e a rapporti che questa ha colla circolazione del sangue, col calore animale, e coll'attività del moto muscolare. Il cuore di cotesta spezie di animali è disposto per modo, che in ognuna delle sue contrazioni non rimanda al polmone se non una parte sola del sangue, che ha ricevuto dalle altre parti del corpo; per modo che il resto del sangue senza passare per lo polmone, e senza aver pro vato gli effetti del fenomeni chimici della respirazione torna agli organi da quali pro viene; d'onde segue che l'azione dell'aria sul sangue de rettili è minore che ne mam miferi e negli uccelli, e per conseguente, minore la respirazione. E siccome la mag giore o minore attività della respirazione contiene la misura del calore e del moto muscolare degli animali; così spiegasi il perchè i rettili possano per più lungo tem po sospendere le inspirazioni, e riman gano per intere stagioni assonnati, senza moto, e senza bisogno di nutrimento. Passando a pesci, la natura egualmente ingegnosa nella scelta delle forme, e nel le loro varietà, adattando l'organo della respirazione al mezzo, nel quale cotesti animali vivono, lo ha collocato alle due parti del collo in alcune laminette dispo ste in fila, e coverte da un finissimo re ticino di vasi sanguigni. Ora l'acqua che il pesce inghiotte, passando per le anzi dette laminette, esce dalle picciole aper ture delle branchie, e in tal passaggio il poco d'aria che l'acqua contiene, eser cita sul sangue rosso e freddo di colesta spezie d'animali quella stessa azione, che nelle altre si fa per mezzo del polmone; d'onde segue che ne pesci le branchie ten gono luogo di polmoni. Infine chi descriver potrebbe l'immensa varietà degli organi della respirazione che la natura ha dato alla innumerabile classe degli animali invertebrati, gli ultimi anelli della quale lasciano i fisiologi nel dub bio, se debbano essere considerati come pure macchine organiche, o come animali dotati di vita? Di essi taluni respirano di rettamente l'aria atmosferica, e taluni altri la prendono per mezzo dell'acqua dolce, o della salsa; taluni hanno branchie, ed altri alette, che servono alla respirazione; taluni organi in forma di polmoni; taluni altri, cavità che apronsi e chiudonsi se condo il bisogno; e questi diversi organi disposti ora al disopra, ed ora al disotto della testa, ora sul dorso, ed ora a canto all'organo digestivo, ora alla superficie della pelle, ed ora al disopra. (V. il di zionario delle scienze naturali). Ritorniamo per poco a considerare il fe nomeno della respirazione ne mammiferi, e nell'uomo, dotati dell'organo, che noi consideriamo come proprio a questa fun zione; e senza fermarci ad alcuna scien tifica spiegazione degli effetti della respi razione, scegliamo il fatto che il senso e la sperienza ci dimostrano come indubi tato, cioè che se i polmoni non fossero ad ogn'istante dilatati, e per loro mezzo non fosse continuamente rinnovata l'azione del l'aria sul sangue, la vita cesserebbe. La vita dunque sta nella respirazione, e tanto da questa dipende, quanto noi non con cepiamo altrimenti la morte, che come l'espirazione dell'ultimo alito vitale. Ora niun'altra funzione, più di questa dimostra l'impercettibile distanza che separa l'essere dal non essere, e ci fa sentire che la du rata della esistenza è in realtà una rin novazione continua della vita, operata dal la mano conservatrice della Provvidenza. V. questa voce. RETINA (spec.), membrana tenuissima dell'occhio, nella quale vanno a dipin gersi gli obbietti della visione. V. Occhio, REroRe (dise.), chi professa l'arte del ben dire, o chi ne insegna i precetti. Gli antichi distinguevano il retore dal l'uomo eloquente, dall'oratore, dal de clamatore, e dal sofista; imperocchè elo guente era colui il quale possedeva l'arte del persuadere; oratore chi ne giudizi o nelle publiche adunanze discuteva le con troversie, publiche o private; declamatore, chi per insegnamento, o per proprio eser cizio, pronunciava ad alta voce orazioni studiate, accompagnando colla voce e col gesto la naturale espressione della parola; sofista, chi per amor della discettazione vestiva il discorso di artifiziosi argomenti. Del resto usavan pure come nome ge nerico, il vocabolo retore, e lo scambia vano con quello di oratore, (Cic. de Orat. lib. II, cap. III.). V. Declamatore, Elo quenza, Oratore, Sofista. REroRICA (crit.), l'arte di parlare colle regole stabilite dalla logica, e dalla gra matica. Differisce dall'oratoria in quanto che l'una esprime il complesso delle regole ne. $0 - 594 - cessarie al parlare correttamente e al per suadere, e l'altra, contiene il discorso e l'azione dell'oratore, con tutti gli ornati della eloquenza. V. Eloquenza, Oratore, Retore. - - - a RETTILE (spee. ), animale ed insetto che si muove strisciando una parte del suo corpo per terra, e che è o affatto privo di piedi, o provveduto di zampe e di piedi troppo piccioli, in proporzione delle altre sue dimensioni. Lo studio di questa parte del regno della natura forma il suggetto della erpetolo gia, che abbraccia in un'ampia classe tutti gli animali che si somigliano per ragione del moto e della potenza locomotiva, cioè da più colossali serpenti insino a vermi e alle lumache, e della quale può dirsi quel che abbiamo più volte notato delle altre parti della storia naturale; cioè che ciascuna di per se occupar può la vita dell'uomo più laborioso, e somministrargli la cogni zione di tanti individui, di cui la memo ria non potrebbe ritenere i nomi, senza l'aiuto di numerose partizioni, e suddivi sioni, che ci mettono nello stato di po tergli distinguere e riconoscere. Per lungo tempo l'erpetologia è stata men coltivata delle altre parti della storia naturale, per chè abbraccia Esseri, che sono comune mente risguardati come gli ultimi nelle facoltà della vita sensitiva, come inutili alla vita dell'uomo, cui tutto riferiamo, anzi come nocevoli e malefici. Appena il Borelli nel libro de molu animalium aveva cercato di spiegare il moto loro muscolare (part. II. prop. XIII.), e de la Hire aveva nel suo trattato di Meccanica parlato della conformazione, e del moto loro (S. CXII.). Ma il ribrezzo ed anche l'orrore che talune delle spezie di questa classe ispirano al me : volgo, non sono pe sapienti osservatori, una ragione per negligere lo studio d'una parte del regno animale, nella quale la natura è tanto più ammirabile, quanto l'infinita varietà delle sue forme è stata prodigata per Esseri destinati a vivere nel profondo della terra, o per insetti, che per la loro infinitesima picciolezza possono considerarsi come sottratti all'osservazione dell'uomo. In questi Esseri sopratutto ri luce l'infinita sapienza che ha preseduto a tutte le opere della creazione, le quali hanno per loro proprio carattere la per fezione, comechè dovessero essere da noi ignorate. La natura insomma è stata im mensa, e nella immensità perfetta, non per essere ammirata dalle creature ammesse a contemplarla, ma perchè non poteva es sere diversa da quel che è. i L'organismo del rettili ha i suoi partico lari caratteri che lo distinguono da mam miferi e dagli altri ovipari. Essi respira no l'aria pe polmoni: hanno il sangue rosso e freddo: una parte sola di questo fluido passa per l'organo della respirazio mancano di diaframma: non sono coverti da pelo, o da penne: sono ovi pari: non hanno mammelle: non covano le loro uova. Ciò non ostante v'ha di quelli che si strascinano per terra, altri che camminano, altri che nuotano, altri che volano, o possono reggersi in aria per qualche tempo. Taluni han coda, ed altri ne sono sprovveduti: a taluni cotesta appendice è inutile: a taluni altri presta l'ufizio di mano, o di ala per nuotare: taluni son privi affatto di piedi o di zam pe, mentre altri ne hanno due, o quat tro, più o meno lunghe, e talune di queste anche in forma d'ali da nuotare. Varia ancora è la misura della loro respi razione, la quale è sempre proporzionale - 395 - al diametro dell'arteria polmonare, pas ragonato a quello dell'aorta; dal che derivano ancora le differenze di energia muscolare, e di sensibilità, le quali sta biliscono tra rettili quelle stesse varietà che si osservano tra mammiferi, e tra gli uccelli. - º Tali e tante varietà han renduto a matu ralisti diſficile il trovare un nome di clas se, che abbracciar potesse tutte le divisate spezie, Linneo e la scuola sua, denomi nolla degli anfibi, denominazione ambi gua, perchè se per essa debbesi inten dere quella parte di animali aquatici, che star possono per qualche tempo in terra, o quegli animali terrestri che possono stare per qualche tempo in acqua, si trovereb bero fuori della classe i rettili, che non toccano mai l'acqua, e quelli che non ne escono mai. Daubenton divise i rettili in due grandi famiglie, cioè del quadru pedi ovipari, e del serpenti. Lacépéde vi aggiunse la famiglia debipedi. La ge neralità del naturalisti ha ritenuto l'antico nome di rettili. Coteste differenze non hanno impedito, che i notomisti e i fisio logi spignessero tanto innanzi l'osserva zione e l'analisi di questa parte del re gno animale, quanto han praticato per le altre. Essi hanno particolarmente esa minato tutto quel che la rende dissimile da mammiferi ed ovipari, a rispetto della struttura osteologica, della potenza loco motiva, della sensibilità, della digestio ne, della sanguificazione, della respira zione, del canali secretori, della gene razione, delle loro trasformazioni, degli istinti della loro vita, della utilità che si può da essi ricavare, e in fine delle qua lità venefiche e malefiche di talune delle loro spezie (V. il dizionario delle scienze naturali). RETTITUDINE e RETTo (prat.), qualità di portamenti sempre conformi al giusto e al conveniente. È una similitudine presa dal camminº diritto, e però la rettitudine è detta anche dirittura, e se le dà per contrapposto la tortitudine. V. questa voce. - -- REvERENzA e RivERENZA (prat.), l'atto per lo quale si dà convenevole onore alle gravi e dignitose persone, - È proprio dell'onore, che il figlio dee rendere al padre, onde Dante disse: Vidi presso di me un veglio solo, Degno di tanta reverenza in vista, Che più non dee a padre alcun figliuolo. - ( Purg. I. ). RIAMARE (prat.), corrispondere all'amore che altri ci porta. V. Amore. RIBALDERIA e RIBALDo (prat.), qualità d'uomo, che al vizio congiugne l'audacia. RIEREzzo e RIPREzzo (prat.), sentimento di molestia e di ripugnanza che riceviamo da un fatto, il quale offende la sensibilità. È una similitudine presa dal freddo della febbre, che propriamente dicesi ribrezzo : Qual è colui, ch'ha si presso il riprezzo Della quartana, ch'ha già l'unghia smorta E trema tutto pur guardando il rezzo; Tal direnn'io alle parole porte. Ma vergogna mi fer le sue minacce Che'nnanzi a buon signor fa servo forte. (DANTE Inf. XVII. ). RICADIA (prat.), sentimento di noia o di molestia che riceviamo per qualunque fatto dispiacevole. r - 596 - RiccHEzzA (prat.), abbondanza di beni esteriori, che può essere commendata o riprovata, secondo che presta occasione alla liberalità, o alla avarizia. V. queste voci. È contrapposto di povertà, e come tale, la ricchezza è dal comune degli uomini considerata essere il maggior dono della fortuna. Costoro per conseguente la pre dicano come la sorgente della felicità, e di tutti i godimenti della vita. I filosofi per contrario sono stati soliti di risguar darlo come il maggior ostacolo alla sa pienza e alla pratica della virtù. Di qua le declamazioni degli stoici, e tra questi di Seneca, colle quali si è data alla po vertà la preferenza sopra la ricchezza. Di qua ancora i tanti problemi morali circa i vantaggi e gl'inconvenienti dell'una o dell'altra. Ma la verità non può mai trovarsi ne gli estremi; e d'altra parte, la quistione della maggior convenienza delle due cen nate condizioni della vita non è stata pro posta ne termini, ne quali doveva essere esaminata. Non avendo, la ricchezza o la povertà nulla d'intrinseco e di assoluto, nè potendo darsi abbondanza in taluni senza penuria in altri, la quistione versa unicamente circa l'uso della ricchezza, e non circa gl'inconvenienti, che possono nascere dall'abuso che se ne faccia. Il pro blema dunque che può risolvere la filo sofia pratica è , se l'uso delle ricchezze sia o no compatibile collo studio della sa pienza, e coll'esercizio della virtù. Seneca, che nelle lettere trattò questo argomento colla esagerazione stoica, esaminollo nel suo vero aspetto nel libro de vita bea ta: Mon amat ( sapiens ) divitias, sed mavult. Mon in animum illas , sed in domum recipit , nec respuit possessas sed continet, et majorem virtuti suae materiam subministrari vult (Cap. XXI.). Quid autem dubii est, quin major materia sapienti viro sit, animum ex plicandi suum in diviliis, quam in pau pertate? Cum in hac unum genus vir tutis sit, non inclinari nec deprimis in divitiis, et temperantia, et liberalitas, et diligentia, et dispositio, et magnifi centia campum habent patentem... Quis porro sapientum, nostrorum dico, qui bus unum est bonum virtus, negat etiam haec quae indifferentia vocamus, habere in se aliquid preti, et alia aliis esse potiora? Quibusdam ex his tribuitur ali quid honoris , quibusdam multum. Ne erres itaque, interpotiora divitiae sunt. Quid ergo inquis , me derides, cum eumdem apud te locum habeant, quem apud me? Vis scire, quam non habeant eumdem locum ? mihi divitiae si effluze rint, nihil auferent, nisi semetpsas. tu stupebis, et videberis tibi sine te re lictus, si illae a te recesserint. apud me divitiae aliquem locum habent, apud te, summum : ad postremum, divitiae, meae sunt: tu diviliarum es. (Cap.XXII.). Desine ergo philosophis pecuna in terdicere: nemo sapientiam paupertate damnavit. Habebit philosophus amplas opes, sed nulli delractas, nec alieno sanguine cruentas, sine cujusquam in furia partas, sine sordidis quaestibus, quarum tam honestus sit eaitus quam introitus, quibus nemo ingemiscat nisi malignus. . . Sicut sapiens nullum de narium intra limen suum admittel, male intrantem. ita et magnas opes, munus fortunae, fructumque virtutis non re pudiabit, nee excludet. Quid enim est, quare illis bonum locum invideat? ve niant, hospitentur, Mec factabit illas, – 397 – nec abscondet, alterum infruniti ani mi est, alterum timidi et pusilli velut magnum bonum intra sinum continen tis. Nec ut divi efficiet illas a domo. Quid enim dicet?utrumne, inutiles estie an, ego uti divitiis nescio ? Quemad modum eliam si pedibus suis poteri iter conficere, ascendere tamen vehiculum malet: sic si poterit esse dives volete et habeit utique opes, sed tamquam leves et avolaturas, nec ulli alii, nee sibi graves esse patietur. Donabit, guid erezistis aures ? quid ea peditis sinum ? Donabit aut bonis, aut eis quos fa cere poterit bonos. Donabit cum sum mo consilio, dignissimos eligens º ut qui meminerit tam ea pensorum quam acceptorum rationem esse reddendam. Donabit ea recta, et probabili causa, nam inter turpes facturas malum munus est. Habebit sinum facilem non perfora tum, ea quo multa eveant, nihil ereidat. (Cap. XXllI.). V. Povertà. Ricompensa (prat), contraccambio ren duto al benefizio, o all'azione meritoria. RICoNoscrNzA e RICoNosCIMENTo ( spee. e prat.) atto della memoria che fa rav visare un obbietto altra volta conosciuto. Siccome tra gli obbietti, che possono essere richiamati alla memoria v ha an cora l'idea d'un beneficio ricevuto; così ambo questi vocaboli sono nella nostra lingua adoperati nel senso di contraccam bio e di gratitudine. V. questa voce. RIcoRDANZA e RICORDARE (spec.), atto della memoria, che ripresenta l'obbietto altra volta conosciuto. V. Memoria. RIDERE (prat.), manifestare col natu ral moto della bocca e della voce le di lettazioni dell'animo. V. Riso. RIDEvoLE. V. la voce che segue. RIDICoLo ( prat. dise, e erit. ), quel che muove a ridere. È comune a fatti e a detti che conten gono derisione, o piacevolezza, in cia scuno de quali significati esprime una idea diversa: nel primo importa dileggiamento: nel secondo, amenità o diletto. I Latini, da quali abbiam preso il vocabolo, gli davano un significato più ampio di quel che gli dà l'uso della nostra lingua; im perocchè ne facevano un nome di genere il quale comprendeva ogni sorta di cosa, atta a muovere il riso, o a dilettare, co me il comico, il satirico, il giocoso, e tutto quel che sente di facezia o di mot teggio. Nel senso di grazioso e di faceto adoperollo Plauto nel prologo dell'asina ria: inest lepos lususque in hac co moedia: ridicula res est. Come un ge nere oratorio trattollo Cicerone nel secon do libro de oratore, nel quale non sola mente additò il vario uso che può farne l'oratore secondo la varia natura del sug getto, ma raccolse altresì i fiori delle la tine lepidezze (cap. 63 e seg.). Nello stesso senso Orazio: Ridiculum acri Fortius et melius magnas plerumque secat res. Nella lingua italiana non pertanto di stinguesi l'addiettivo ridevole dal ridico lo, e con quello vuolsi esprimere ciò che muove a riso per piacevolezza o per fa cezie, a differenza di questo, che in se racchiude qualcosa di spregevole, per de formità, o per altro vizio. Qualche par ticolare esempio, in cui il vocabolo ridi – 598 – colo, sostantivamente adoperato, esprima anche il dilettevole o il giocoso, è una varietà introdotta dall'uso, la quale non muta la particolare destinazione di ciascuna delle due dinotate voci. Più vago e libero è il significato che ad imitazione de Francesi diamo a questo vocabolo, allorchè ne facciamo un genere di tutto il derisibile, e ad esso aggreghia mo il satirico, la caricatura ed il mot teggio. Dall'essere cotesto genere venuto in moda, è derivato che l'amara e la pun gente derisione soglia essere coperta sotto le apparenze del dilettevole e del gioco so, e formi il più favorito degl'intratte nimenti del conversare o dello scrivere. Così inteso, il ridicolo è l'arma più pun gente della satira, la quale lacera l'ono re, l'esistimazione, e le virtù anche le più severe. Diremo di vantaggio essere l'arma ausiliaria della calunnia, perchè dove la severità della virtù rimuove ogni nota, ivi sottentra il ridicolo, che si giova degli accidenti, e di ogni apparente de formità. È proprio di sì dilettevole arma il correre dietro all'equivoco e alle om bre, il creare da queste un nuovo verisi mile, il quale vestito de falsi colori dello spirito e dell'ingegno, si spande nella moltitudine, sempre inchinevole a giudizi i più maligni. Quanti mali non ha prodotto e non pro duce cotesto Proteo? Crea e cangia a suo arbitrio l'opinione del merito e delle vir tù: estolle l'opinione dello spirito e dello ingegno, sopra quella della severa pro bità: formasi ogni giorno nuovi proseliti pel timore del suo veleno: fa guerra alla modestia, e mena in trionfo l'audacia : corrompe colle attrattive d'un falso onore l'animo della gioventù : pone la falsa scienza in luogo della vera: esalta la pas sione dell'amor proprio: scuote il freno d'ogni dover morale, e rende licenziosa la ragione: non risparmia infine le auguste verità della religione, e i principi conser vatori della privata e della publica morale. L'esperienza ha dimostrato esser questi i mali, che l'abuso del ridicolo è capace di produrre. La filosofia del XVIII.º secolo ne fa manifesta pruova. Uno spirito derisore impadronissi dello stile di tutti i maggiori ingegni di quella età. Bayle, Shaftesbury, Bolingbroke, e Voltaire trattarono colla derisione e colla ironia i più gravi argo menti della filosofia e della teologia, e per tal mezzo cercarono di scuotere ogni credenza, e qualunque sorta di autorità. Quasi per aguzzare la punta dell'arma, colla quale lacerar doveva le verità della religione, Shaftesbury, scrisse il famoso saggio intorno alla libertà dello spirito, e all'uso del motteggio, col quale pretese dimostrare, che il ridicolo, o la disposi-. zione al riso, dataci dalla natura, abil mente maneggiata, sia il migliore speci fico contra il vizio, la superstizione, e le illusioni d'uno spirito melanconico. L'a-, teismo teoretico, e la corruttela de'costumi ne furono le conseguenze (V. il nostro primo volume a pag. 272 e seg.). , Riduciamo ora entro i suoi giusti e naturali confini il ridicolo. Riconosciamolo come un genere di dire, il quale per via d'immagini e di figure muta l'aspetto di tutti gli obbietti, e per tal artifizio, o li rende dilettevoli, o li mostra degni di derisione e di scherno. Cotesto genere ap partiene alla immaginazione da cui toglie i suoi fiori, e non alla ragione; può con questi fiori ornare le cose sensibili, e non gl'invisibili obbietti dell'animo; e per con seguente può convenire alla poesia, e tal volta ancora alla eloquenza, ma non al – 599 – ragionamento scientifico: non al dimostra bile, nè alla ricerca della verità, per se stessa immutabile: non all'incomprensibile e al soprannaturale: non a quel vero, che la ragione e la fede custodir debbono come l' unico e il più saldo fondamento della sapienza e della morale: tali sono de auguste verità della religione, contra le quali l'ironia e il motteggio diven gono armi insidiose, venefiche ed empie. Rimosse dunque dagli studi severi della sapienza il motteggio, l'ironia, e tutte le figure della derisione o dello scherno, lasciamo che vadano ad abbellire gli ame mi parti della immaginazione: tra questi distinguiamo il ridevole, o sia il dilet tevole ed il giocoso, dal ridicolo che per gl'Italiani è propriamente il derisibile: i confini che separano cotesti generi affini, son quelli stessi che distinguono la satira dalla ingiuria, da famosi libelli, e dalla calunnia. V. queste voci. - a - - - - - - RIFLEssioNE (spee. e crit.), facoltà per la quale l'anima considera se stessa, le sue potenze, le sue operazioni, ed ogni atto del pensiero, presente o passato. Locke definì la riflessione : « la como scenza che l'anima prende delle sue di verse operazioni, e per la quale l'intelletto perviene a formare delle idee». Ma non ammettendo Locke altra origine delle idee se non la sensazione o impressione degli obbietti esterni, la riflessione diveniva per lui una facoltà ausiliaria, data dalla natura per isviluppare e perfezionare le idee par ticolari del sensi. Conseguenza di tal con cetto fu, che confondesse egli la riflessione colla coscienza, siccome aveva confuso la coscienza coll'opinione della percezione. Da noi si considera la riflessione come una facoltà la quale versa circa tutti gli obbietti del pensiero. E siccome ammettia mo un'altra sorgente d'idee diversa dal la sensazione ; così diciamo che la rifles sione abbraccia tanto l'esterna, quanto l'interna vista dell'anima. Ed ammettendo del pari, che la coscienza sia una facoltà compagna del senso intimo, ed affatto di stinta dalla percezione degli obbietti ester ni; però la distinguiamo dalla riflessione, allo stesso modo come distinguiamo il sen so dal sentimento. V. Coscienza, Senso. La riflessione è determinata sempre dalla volontà, il perchè è stata da molti scam biata coll'attenzione; ma giova distinguerla in quanto che l'attenzione esprime la scelta dell'obbietto, mentre che la riflessione ad dita l'azione del pensiero intorno all'ob bietto scelto. La verità di tal distinzione ap parisce dagli esempi delle cose, alle quali prestiamo un'attenzione momentanea, sen za farne suggetto di riflessione; e più an cora apparisce dalla mente de fanciulli, i quali son capaci di attenzione, sebben tardi acquistino la capacità della riflessio ne. V. Attenzione. RIGIDEzzA (dise. e prat.), qualità di discorso, di azione, o di virtù, che non esce per nulla da limiti delle regole. Differisce dall'asprezza, dall'autorità, dalla durezza e dalla severità. V. queste voci. RicoRE (dise. e prat.), severità di giu dizio o di volontà, che non si piega per qualunque altro motivo, fuor di quello che crede conforme a precetti della logica, o della legge. RIMA (disc.), consonanza, o armonia procedente dalla medesima desinenza del verso V. questa voce, - 400 - È uno de caratteri che distinguono la poesia delle moderne nazioni da quella degli antichi, i quali facevano nascere l'armonia del versi dalla diversa quantità delle sillabe, variamente disposte e non dalla uniformità del loro suoni finali. Per noi la rima forma parte dell'armonia del linguaggio poetico, senza formarne un re I rimordimenti della coscienza son la pena ausiliaria, imposta dalla natura a quelli che nascondono agli altri il delitto e nasconderlo non possono a se medesimi al che si riferisce il bel detto di Epicuro: Potest nocenti contingere ut lateat, la tendi fides non potest. Comentando un tal detto, Seneca soggiungne: Mum quam quisito essenziale: è un ornamento della fides latendi fit etiam latentibus, quia poesia ma sarebbe un vizio della prosa. V. Poesia. RIMEMBRARE e RIMEMBRANZA (spec. ), l'avere in memoria. Esprime la funzione, che la memoria esercita, quando rinnova una notizia, che sa di possedere. Il suo significato non è affatto identico del ricordare, e del ram mentare, perchè ambe queste voci pos sono dinotare l'atto del richiamare alla me moria un obbietto, che ne sia già uscito, e che vi ritorna per l'associazione delle idee o per la reiterazione dell'apprensione; laddove il rimembrare è d'una idea che è nel serbatorio della memoria, comechè in atto non presente. In questo senso usolo Dante più volte, come nel verso, Ancor me'n duol pur ch'i me ne rimembri; (Inf. c. XVI. ). e nel trentesimo canto del Paradiso: Che come sole il viso che più trema, Cosi lo rimembrar del dolce riso La mente mia da se medesma scema. V. Rammentare, Ricordare. RiMoRDIMENTo e RIMoRso (spec. e prat.), rimprovero della coscienza per lo mal fatto accompagnato dalla tristezza dell'anima, e dal timore della pena. V. Coscienza, Pena. - eoarguit illos conscientia, et ipsos sibi ostendit. Proprium autem est nocentum trepidare. Male de nobis actum erat , guod multa scelera legem et judicem effugiunt, et scripta supplicia. nisi illa naturalia et gravia de praesentibus sol verent, et in locum patientiae timorce deret (Epist. 97). RINoManzA e RINoMINANZA (prat. e dise,), celebrità del nome. È diverso dalla fama, e dalla riputa zione, che presuppongono un merito ri conosciuto, comechè questi due vocaboli differiscano anche fra loro. V. Fama , Riputazione. RIPENSARE ( spec. ), richiamare alla mente un obbietto, intorno al quale si è altra volta pensato. È il ripetimento del pensiero, diverso dal riflettere, che allude all'investigazione delle qualità dell'obbietto già noto. Così il Petrarca disse: Ch'i no'l so ripensar, non che ridire, e in altro luogo: Che pur il rimembrar par mi consumi, Qualora a quel di torno ripensando. (Son. 184 e 2 19.). - 401 - I nostri antichi scrittori usarono ancora questo verbo al neutro passivo, nel senso di mutar pensiero, o di pentirsi. V. Ri flettere, RIPoso (spee. e prat.), il cessare dal moto, dalla fatica, o dall'operare. . Si trasporta dall'uso delle membra del corpo all'azione dell'anima, e di qualun que delle sue facoltà. Nella nostra lingua, differisce dalla quiete, che esprime lo stato naturale dei corpi, che non sono in movimento; lad dove il riposo esprime propriamente il fer marsi, e il restare da uno stato contrario. V, Quiete, - -- i - - - - - - RIPRODUZIONE (spee. ), potenza rinno vativa del proprio essere, impressa dalla natura negli animali e nelle piante. E vocabolo da'naturalisti adoperato tan to per denominare la generazione comune ed omogenea, quanto per dinotare quella particolare, eterogenea, propria a talune piante ed animali, i quali per una virtù impressa nelle parti del loro corpo si mol tiplicano per via di germogli e d'innesti. Nel primo significato suol essere appli cato alla generazione degli ovipari, e spe zialmente depesci, a quali la natura sem bra aver dato una fecondità, non sola mente prodigiosa per la moltiplicazione, ma ancora singolare per rispetto alla coo. perazione de sessi. Imperocchè i pesci in generale sembrano obbedire ad una natu rale impulsione, per la quale gli organi della generazione son messi in movimento senza alcuna intervenzione di quell'appe tito sensitivo, che nelle altre spezie fa in chinare un sesso verso dell'altro; ond'è che il concepimento e la fecondazione delle nova, al rinnovarsi di ogni stagione av. viene quasi per fatto della sola natura. Da ciò ancora segue, che corrispondendo gli effetti alla loro causa, gli Esseri ge neratori, a guisa di meccanici operatori, non conoscano i generati, nè prendano di loro alcuna cura. - - L'analisi e la descrizione degli organi della generazione nepesci; i caratteri di scernitivi de sessi, distinti nella generalità l'uno dall'altro, e talvolta ancora confusi negli ermafroditi i formano uno del più importanti obbietti della zoologia. Le va rietà nelle forme e ne modi della ripro duzione sono proporzionate al prodigioso numero delle spezie del pesci, degl'in setti e de zoofiti che popolano il mare e i fiumi. Lo stesso è della conformazione degli altri organi destinati alle diverse funzioni della loro vita. Nelle acque, le quali coprono la maggior parte del glo bo, faceva uopo che la natura avesse accresciuto i mezzi della moltiplicazione, sì che l'immensità degli animali aquatici star potesse in proporzione co terrestri. V, Pesce, - - - - - - - - Quanto poi al secondo significato, cioè della generazione spontanea, ammessa sem pre la necessità del principio vitale gene ratore, pare che la natura l'abbia stabilita come un mezzo della propagazione delle in fime spezie; nel che avrebbe ella seguito quella stessa legge di continuità, la quale ha regolato la gradazione di tutti gli Es seri organici ed animati, non esclusi gl'in setti, e gl'infusori sparsi per l'aria, per la terra, e per lo mare. V. Generazione, Infusoria, lnsetto, RIPUTAzIoNE. V. Reputazione. - - Rimir (prot.), chi è capace del riso. V, questa voce. 51 - 402 - RisIBILITÀ (prat.), la proprietà che l'uomo ha di ridere. - - º È voce usata dal Magalotti, il qual osservò che la latrabilità del cane corri sponde alla risibilità dell'uomo, compara zione falsa, perchè i latrati del cane non sono certamente segni del diletto, com'è il riso nell'uomo. Che se le passioni del l'uomo, e il linguaggio d'azione, che la natura gli ha dato per manifestarle po tessero entrare in comparazione colle voci istintive del bruti; il nitrir de cavalli, il canto degli uccelli, e le voci di allegrez za, che mandan fuori taluni altri animali, presenterebbero maggior somiglianza col riso, che il latrare del cani. a - º Riso (prat. ), molo volontario della bocca e degli organi della voce, cagio nato dalle piacevoli emozioni. E una proprietà dell'uomo, la quale nasce da una particolar disposizione dei muscoli del suo viso: è una parte del linguaggio di azione, per lo quale ma nifesta nel volto gli affetti del piacere, o del dolore ch'egli prova: l'uno è rappre sentato dal riso, l'altro dal pianto: ambo questi segni formano il principal carattere, di quel che diciamo volto, che pur è una privativa proprietà dell'uomo: è al pari del pianto un moto quasi istintivo, che la volontà non può affatto contenere, onde Dante disse: - a - Che riso e pianto son tanto seguaci - Alla passion da che ciascun si spicca Che men seguon voler ne più veraci - - (Purg. C. XXI.). V. Pianto, Volto. - e Gli antichi credevano, che i fanciulli, i quali venivano alla luce col riso sulle labbra, fossero i prediletti figliuoli della divinità. E però narravasi di molti grandi uomini, che venendo al mondo, avessero riso, quasi per prenunzio di loro felice sorte; ma era questa una superstiziosa cre denza, la quale fa dubitare ancora della verità degli esempli che se ne adduceva no, comunque, ammessa ancora la loro verità, nulla proverebbono. - º , º RisoLvERE e RisoLUzIoNE (prat.), l'atto del la volontà per lo quale ognuno si determina all'azione, rimossa qualunque dubitazione. º RisPETTo (prat.), sentimento amorevole di dipendenza che si porta al genitore, al vecchio, e al superiore in dignità, civile o morale che sia. Differisce dalla riverenza e dalla vene razione. V. queste voci. e º - RIsponsABILE e RIsponsABILITÀ (prat.), obligazione per la quale siam tenuti di accettare le conseguenze del proprio fatto. Son vocaboli presi dal francese, ma me cessari alla filosofia pratica, e sono ado perati dal Magalotti. - RITENITIvA e RITENTIvA (spec.), facoltà che ha la memoria di serbare le idee acquistate. Vale buona reminiscenza , e scambiasi ancora colla memoria stessa.V. queste voci. RITMo ( disc. e crit.), la distinzione degl'intervalli eguali o diversi, così nel discorso, come nel canto. Cotesta definizione è di Cicerone : di stinctio, et aequalium, et saepe vario rum intervallorum percussio numerum conficit. (de Orat. lib. III.). In greco pºuos vuol dire numero, o disposizione di parti messe insieme con - 405 - date proporzioni, il perchè Platone defi nillo ordine del movimento (II. delegib.). Il ritmo è diverso dal metro: è neces sario anche alla prosa: è essenziale nella musica, nella quale le varie combinazioni degl'intervalli producono l'innumerabile varietà delle modulazioni della voce, delle arie e del loro motivi. I metri apparten gono privativamente alla poesia, ma for mano parte del ritmo de'versi. V. Metro, Musica, Verso. RoMANTIco (erit.), nuovo genere di poe sia e di gusto, che richiama a vita le bel» lezze e le forme della età di mezzo. È un dono, che ci vien dall'Alema gna, e che trae origine dalla politica situa zione, nella quale trovossi quella nazione al cominciar del secolo decimonono. De pressa allora da un giogo straniero, vo lendo risvegliare l'antica energia de suoi figli, fece loro risovvenire la virtù, i co stumi, e i resti ancora di barbarie, che gli rendettero temuti e forti al tempo in cui fioriva il germanico impero. Convennero i dotti nel pensiero depolitici, e studia ronsi di accendere l'immaginazione del popolo per la via del dilettevole e del fan tastico; e però andaron cercando il bello, il grande, e il sublime nel canti, e nelle rapsodie dell'epoca, che ripresentar vole vano come il loro tempo eroico. Il Mie belungen-leid salì alla prima sfera de'poe mi epici: nelle passioni di quella età raf figuraronsi tutti i caratteri della virtù mi litare e della grandezza d'animo: ne fa volosi racconti delle prodezze militari e cavalleresche, che alimentar solevano la fantasia del volgo, si videro i ritratti d'un popolo libero e geloso della sua indipen denza: nelle arti stesse parve bello tutto quel che piaciuto era ad uomini di sì no bil tempera, e che ne ricordava le geste, Laonde la poesia ornossi delle immagini e del caratteri dell' antica cavalleria , e furono rinegate tutte le regole di ragione e di esperienza, sulle quali il gusto erasi andato formando nel lento passaggio, che le nazioni avevan fatto dalla barbarie del quinto secolo, insino alla somma civiltà del decimottavo. Le restrizioni, che le cennate regole avevano messo alla licen ziosa fantasia, e nelle quali era riposta la comune misura del bello e del verisi mile, furon dichiarate nemiche della li bertà del pensiero, e del genio della in venzione. L'architettura, e con essa tutte le arti meccaniche, tornò a ripudiare le belle forme greche e latine, in grazia del così detto gusto gotico. Le linee curve parvero più belle delle rette, e le figure irregolari più variate delle regolari. Tutto in somma prese la tinta e le ombre del decimoterzo secolo, ed acciocchè le figure degli uomini d'oggidì non fossero diverse da quelle di allora, le ispide barbe tor narono a coprire il volto loro. Ma ciò non rimase all'Alemagna. L'amor della imi tazione e della moda trasportò il medesi mo gusto presso le altre nazioni, e corse tra la gioventù il grido, che in questo consistesse il rinnovarsi. Del resto la moda È un vento, che porta e diffonde i ca pricci della fantasia, colla stessa mobili tà, colla quale gli scaccia e li disperde; e d'altra parte la sua forza non è tale che vincer possa la costante azione del tempo e della ragione. D'onde poi a co testo genere di poesia e di gusto sia ve nuto il nome di romantico, se dalla lin gua che parlavano gli eroi della età di mezzo, o dalla credibilità del fatti e dei costumi loro, lo discifrerà l'articolo che segue. - º - 404 - RoMANzo (crit.), favoloso racconto di prodezze, o di altre straordinarie azioni, scritto col fine di dilettare e spandere nel volgo l'amore del maraviglioso. Tal sarebbe la definizione del romanzo, se il suo significato riferir si volesse al l'origine del nome, o se considerarsi voglia qual è stato insino al secolo deci moltavo, dal quale tempo in poi comin ciossi a dare a questa sorta di compo sizione uno scopo morale, ed istruttivo. Non è già che gli antichi non conoscese sero cotesto genere di novelle, che anzi da essi abbiamo i belli esemplari, e pos siam dire i primi tipi delle favole, delle novelle d'ogni sorta, e de romanzi ama tori, pastorali, giocosi e morali. Tali sono, gli amori di Dinia e Dercille di Antonio Diogene, de quali abbiamo un estratto nella biblioteca di Fozio; gli amori di Teagene e di Cariclea di Eliodoro, gli amori di Dafni e Cloe di Longo So fista, l'asino d'oro di Apuleo, e nel ge nere del romanzi morali, la Ciropedia di Senofonte, che per la nobiltà dell'argo mento, per la qualità dello scrittore, e per l'utilità del suo scopo, sta in cima a tutti, e meriterebbe essere collocato in una classe dagli altri diversa. Ma uopo è in primo luogo separare le novelle e le favole dal romanzo, sotto il quale nome noi siam soliti comprendere una spezie di poema vestito di episodi, il quale mentir vuole le apparenze della sto ria. Ed in secondo luogo conviene distin guere da tutti gli altri generi testè cennati il romanzo cavalleresco, al quale servi ron di argomento le armi, gli amori, e le giostre dell'antica cavalleria, e che fu così denominato dalla lingua romanza o provenzale. In questa lingua furono scritti i primi saggi di simili produzioni, i quali formarono la delizia della corte de'conti di Arles, che dal decimo al duo decimo secolo dominarone la Provenza e la Catalogna. E siccome cotesta epoca è per lo appunto quella de trovatori, così essi possono esserne considerati gl'inventori; lasciando agli eruditi la controversia, se più antica ne sia l'invenzione, e se sia an cor questo un merito dell'araba letteratura. Certamente alla cennata epoca apparten gono i più antichi romanzi, che ora noi conosciamo ; come quel di Turpino, il quale narrò le sventure dell'esercito di Carlo Magno a Roncisvalle, dove cadde estinto il famoso Orlando, e di cui Dante scrisse: Dopo la dolorosa rotta, quando º Carlo Magno perde la santa gesta, º Non sono si terribilmente Orlando, º - (Inf. c. XXXI). - - s - , i Dalla stessa origine provengono i Reali di Francia, il Guerrino di Durazzo, detto ancora il Mesehino, la Tavola ri tonda, ed il famoso Amadigi di Gaula, che meritò il doppio onore di essere tra dotto in bel metro italiano da Bernardo Tasso, e di essere altamente commendato dal grande Torquato suo figlio. Il maraviglioso e il fantastico, che più raccomandò cotali scritti a quella rozza e credula età, era raccolto da canti detrova tori, dalle favolose cronache dell'ottavo e del nono secolo, e dagl'incantesimi delle arti magiche, cotanto allora in onore. Ciò non ostante di questo maraviglioso fe cero poi tesoro i nostri moderni poeti, e da esso tolsero a presto le immagini e i fiori de quali ornarono le geste degli eroi, quasi in supplimento del mitologico del paganesimo, di cui non potevano più servirsi. Non vogliamo noi tessere la sto – 40ò - ria di tali bizzarri prodotti dell'umana fantasia, della quale chi avesse vaghezza consultar potrà l'origine de romanzi del l'Uezio, o l'erudito quadro datone dal Fon tanini, nel primo libro della eloquenza italiana. Quel poco che ne abbiamo quì accennato può giovare a meglio conoscere le origini della moderna poesia, e i caratteri che la distinguono dall'antica. V. Poesia. A più nobile fine il gusto della mo derna letteratura indirizzò i romanzi, fa cendone una scuola della vita, di che il primo onore è dovuto all'illustre autore del Telemaco, che abbellì col suo incan tevole stile qualunque argomento prese a trattare. L'esempio suo servì di spinta a molti belli e grand' ingegni per entrare, nella stessa arena, sì che l'amor del ro manzo parve che soppiantasse quello della comedia: da grandi ingegni passò a me diocri, e divenne il favorito studio delle donne di colto ed ameno spirito. Lasciamo tuttociò alla storia della let teratura, ma vuolsi soltanto notare che dalla moltiplicità e quasi dalla nausea dei romanzi, è nato a nostri giorni un nuovo genere, nobilissimo per l'argomento, ed utile sopra ogni altro all'arte della imi tazione, il così detto romanzo storico, per lo quale basti citare i due grandi nomi di Walter-Scott, e di Manzoni, ornamento e gloria della presente italiana letteratura. Le vicissitudini, per le quali è passato questo genere di composizione, e le tra sformazioni che ha ricevuto per la diver sità degli argomenti che ha abbracciato, dimostrano che il nome non corrisponde più alle qualità del subbietto. Laonde, se definir si volesse non il romanzo cavalle resco del decimoterzo secolo, ma l'eroico, il morale, il giocoso o lo storico del tempo presente, dovremmo chiamarlo un poema, una novella, o un'azione verisimile, finta col fine di dilettare o d'istruire. V. Mo vella, Poema. RoMoRE e RUMORE (spee.), impressione dell'aria sull'organo dell'udito, prodotto dalla percussione del corpi che l'agitano, o violentemente la mettono fuori del suo natural equilibrio. V. Aria. Riceve diverse denominazioni, secondo il diverso grado di forza, con cui l'aria è agitata, e secondo la diversità della sen sazione che produce. Allorchè l'impressione è ordinata e gradevole, come nelle modu lazioni della voce e nelle vibrazioni delle corde e degl'instrumenti armonici, prende il nome di suono. Nella comune accezio ne, il romore è un contrapposto del suono, il quale esprime le sensazioni disaggrade voli, moleste, o dolorose, appunto perchè disordinate e incomposte. V. Suono. RozzEzzA e Rozzo (prat.), qualità di animo, rimaso nella natural semplicità, e non ripulito da educazione: così Dante: Non altrimenti stupido si turba Lo montanaro, e rimirando ammuta Quando rozzo e selvatico s'inurba. (Purg. C. XXVI.). RUMINARE (spec.), riconsiderare, o rian dar colla mente quel che si è una volta pensato, È un traslato dagli animali, a quali la natura ha dato il potere di fare tornare dalla cavità della gola nella bocca il cibo ingoiato. RUVIDEzzA e RUvIdo ( prat.), qualità d'uomo privo di qualunque gentilezza. È un traslato di quel corpo che non ha superficie pulita, o liscia. 7 - 407 - CLASSI DE vocABoLI COMPRESI SOTTO LA LETTERA R. FILOSOFIA CRITICA, Radice Ridicolo Ragione Riflessione Razionalismo Ritmo Regola Romantico Retorica -. Romanzo Ridevole VOCI ONTOLOGICHE, Reale Relativo Realità e Relazione Realtà - FILOSOFIA SPECULATIVA, Raccoglimento Radice Ragionamento Ragionare Ragione Rammemorare Rammentare Rapporto Rappresentare Rappresentativo Rassimiglianza e Rassomiglianza Razionale Reale Realità e Realtà Reazione Reflessione Refrazione Regola Relativo Relazione Reminiscenza Remissione Repulsione Resistenza Respirazione Retina Rettile Riconoscenza e Riconoscimento Ricordanza e Ricordare Riflessione Rimembrare e Rimembranza Rimordimento e Rimorso Ripensare Riposo Riproduzione Ritenitiva e Ritentiva Romore e Rumore Ruminare FILOSOFIA DISCOREIVA, º FILOSOFIA CRITICA, Radicale Relazione Ragionevole Riprezzo Radice Retore Rallegranza Ricadia Ragionamento Ridevole Rammaricamento e Ricchezza Ragionare Ridicolo Rammarico Ricompensa Ragione Rigidezza Rampogna e Riconoscenza e Ragionevole Rigore - Rampognamento Riconoscimento Rammemorare Rima Rancore Ridere - Rappresentare Rinomanza e Rancura Ridevole - Rappresentativo Rinominanza Rassegnazione Ridicolo Raziocinio Ritmo Rassimiglianza e Rigidezza n Relativo - Rassomiglianza Rigore - Relativo Rimordimento e teoLocIA NATURALE. Relazione Rimorso Remunerazione e Rinomanza e Raccoglimento Religione , Rimunerazione Rinominanza - Reprensione e Riposo r . - - Riprensione Risibile - Reprobo Risibilità - e Reputazione e Riso - Riputazione Risolvere e - , Rettitudine e Risoluzione a Retto - Rispetto Reverenza e Risponsabile e Riverenza Risponsabilità : Riamare Rozzezza e Ribalderia e Rozzo Ribaldo Ruvidezza e Ribrezzo e Ruvido S Sea e SAGAcità (spec.), qualità d'ingegno pronto in iscoprire le relazioni degli obbietti percepiti, in discernere il vero dal falso, e in giudicare secondo i dettami della prudenza. Differisce dall'acume, che esprime sol tanto la penetrazione, astrazion fatta dalla maturità del giudizio, V. Acume, Pru denza. SAGGIo (spee. dise, e prat.), sostantivo, picciola parte tolta dall'intero, per farne pruova, o mostra, Si applica alle produzioni del pensiero e delle scienze, e vale sunto, cenno, o pruova di argomento, compendiosamente trattaſo. - In significato aggettivo dicesi ancora savio, ed esprime qualità d'uomo che ordina bene le cose sue, e ben si com porta verso degli altri. Dice men del sa piente che alla rettitudine del natural giu dizio accoppia il lume della scienza, e della prudenza. V. Sapiente. SALDEzzA. V. Solidità. SALE (spec. e crit.), sostanza naturale composta , sparsa nelle acque del mare, nelle acque salse, in molte sorgenti e la ghi, o in masse solide nascose nelle vi scere della terra, nel quale stato prende il nome di salgemma, o montano. È uno de più importanti suggetti delle osservazioni della Chimica, che ne ana lizza la composizione, e della Mineralo gia la quale esamina le sue forme cristal line, insieme colle qualità e cogli accidenti delle terre e degli strati, ne quali trovasi depositato. SANGUE (spec.), fluido mutrimentale, che circola per le parti del corpi animali, e di cui la composizione e gli accidenti sono stati dalla natura adattati al diverso organismo, che costituisce le varie spezie di questi Esseri. Il sangue, considerato per rispetto alle funzioni vitali che esercita in ogni spezie di animali, è la massa nella quale vanno a confluire, e d'onde derivano gli altri umori; è lo stimolo eccitatore della vita in tutti gli organi, a quali somministra la nutrizione; è il liquido nel quale tro vasi disciolta la sostanza di tutte le parti solide del corpo, e secondo l'espressione d'un grande fisiologo, è una mucilagine animale plastica, la quale si spande per tutti gli organi, e riceve in ciascun di essi una particolare modificazione. Così considerato, l'umor bianco trasparente o latticinoso, che scorre per lo sistema va sculare del molluschi, che umetta il pa renchima nutritivo degl'insetti, e che pe netra nel vario tessuto de zoofiti, è un sangue come quello che per mezzo del cuore circola per le arterie e per le vene de mammiferi, degli uccelli, del rettili e depesci. V. queste voci. Diverso è l'esame che la Fisiologia fa del sangue, e della sua circolazione; di verso quello che ne fa la Chimica: l'una cerca di conoscere le leggi della economia animale, di cui il sangue è il primo e principale agente: l'altra si prefigge l'ana lisi de suoi principi costitutivi. La fisio 52 - logia principalmente considera il maravi glioso sistema della circolazione del san gue, che abbiamo accennato negli articoli arteria e cuore, e rileva le costanti e re golari modificazioni, per le quali il san gue riceve sempre nuove parti nutrimen tali, preparate dalla digestione e dalle fun zioni intestinali, spogliasi di quelle che sono estranee o superflue alla sua natu rale composizione, e prende dall'atmosfera per mezzo del polmoni quella virtù vivifi cante, la quale rinnova in ogn'istante la vita. V. Arteria, Cuore, Polmone. La chimica dalla sua parte analizza i componenti di questo fluido, qual è nel suo stato normale, distingue il principio colorante dalle altre parti solide e liquide le quali formano la sua massa, e giugne insino agli ultimi termini delle sue inve stigazioni, alle sostanze cioè che non sono capaci di ulteriore scomposizione. Così, dopo di avere separato il grumo dal sie ro, e nel grumo la fibrina dalla materia grassa; scomponendo ciascuna di queste parti, perviene a determinare le propor zioni, nelle quali vi si trovano combinati i primi elementi della materia, come il carbonio, l'idrogeno, l'ossigeno, l'azoto; e a scoprirvi gli altri elementi dell'orga nismo, già disposti a prendere le forme delle fibre, de filamenti, e delle mem brane. V. queste voci. Per quanto le analisi chimiche sieno insufficienti a scoprirci le vere parti ele mentari del sangue, sono non pertanto utilissime non solamente per farci discer nere le sue alterazioni morbose, dal che la medicina sopratutto ritrae grandissimo profitto; ma anche per ispiegare le modi ficazioni, che riceve dagli organi, pe'quali passa, o dal diverso vigore delle varie 'età della vita. Per niun'altra parte del d'organismo l'applicazione della chimica alla economia animale è stata tanto utile, quanto pel sangue; il che è un merito della moderna chimica, e de grandi uo mini del secolo decimottavo, come Vau quelin, Parmentier, Deyeux e Fourcroy. V. Medicina. a - SANITÀ (spec. e prat.), la naturale in tegrità delle parti e delle forze ne corpi vitali. V. Corpo, Forza. E il vocabolo che esprime la condizione normale d'ogni animale, giusta la desti nazione e i fini della natura, ed è con trapposto d'infermità. V. Infermità. A rispetto dell'uomo, il concetto della sanità comprende non solamente l'inte grità, ma anche l'equilibrio tra le forze del corpo, e le potenze dell'anima. Il corpo è d'ordinario l'instrumento del l'anima, ma talvolta è pure un impedimento all'esercizio libero delle facoltà di lei. In tre modi può esserle d'impedimento, giu sta il divisamento della filosofia socratica: o per le cure che prestiamo al nutrirci, o per le infermità che ne alterano lo sta to, o per le perturbazioni degli affetti e delle passioni. Della perfetta sanità dun que gode soltanto quell'uomo, in cui le necessità e le forze del corpo sieno per modo rattemperate dell'anima, che questa non mai perda il retto e libero uso delle sue facoltà. V. Affetto, Facoltà, Passione. SAPERE (spec.), l'aver chiara e distinta cognizione di qualche cosa. Usato sostantivamente, è il complesso dell'umana cognizione, nel quale senso scambiasi colla scienza. V. questa voce. SAPIENTE (prat.), chi pensa ed opera conformemente a dettami della ragione, - 411 - rischiarata da'lumi della scienza, e della sperienza. V. questa voce. Secondo la definizione di Seneca, do veva dirsi sapiente qui hilaris, placidus, inconcussus cum diis ea pari vivit. Ma il sapiente degli stoici ostentar doveva una virtù più che umana! - tre it º io a SAPIENZA (crit. spec. e prat.), la co gnizione del vero, applicata a pratici por tamenti della vita. . Distinguesi la sapienza in naturale e acquistata. - La naturale o comune è quel retto sen tire e giudicare, dato alla generalità degli uomini, acciocchè potessero comporre i pratici portamenti della vita alle regole del giusto e dell'onesto. L'acquistata poi è la perfetta ragione, formata e sviluppata per la riflessione e pe'l ragionamento. Il passaggio dall'una all'altra, è assai ac conciamente esposto da Cicerone: ipsam per se naturam longius progredis quae etiam nullo docente profecta, ab iis, quorum ea prima et inchoata intelli gentia genera cognovit, confirmat ipsa per se rationem et perficit. Secondo Vico, la sapienza naturale è un sentir comune a ciascun popolo, cui si adattano le azioni degli uomini viventi in ciascuna società; o sia è un senso co mune, nel quale tutti i popoli si accor dano. Di questa sapienza, siccome dice il cennato autore, gli elementi son quelli che formano l'altra che dicesi acquistata. V. Senso. Gli antichi distinsero la sapienza in volgare o esteriore, e in riposta o inter na, che dissero acroamatica. Cotesta di stinzione presuppone una falsa sapienza volgare radicata nella moltitudine, che de esser corretta dalla riposta. Ma qual garantia poteva dar l'umana ragione della sapienza riposta, se era ella stessa l'au trice della volgare? V. Aeroamatico. Uno non pertanto è il significato, dato comunemente a questo vocabolo così da gli antichi come da moderni, il complesso cioè delle conoscenze speculative, diretto al fine di discernere il vero, e di scegliere il bene, cui la vita è stata dalla natura indirizzata. Non è la sola scienza, figlia dell'intelletto, ma è l'intelligenza stessa, rischiarata dallo studio di se medesimo, dalle lezioni della sperienza, e da quel l'abito di sano giudizio e di costante vir tù, cui diamo il nome di prudenza. Tal sembra che fosse, nel pensier di Cicero ne, quella universal filosofia, di cui egli scrisse le lodi in un libro (l'Ortensio), che più non abbiamo ; filosofia da una parte invisa alla moltitudine, che in essa vede un molesto censore degli abiti e dei piaceri della vita sensitiva ; e dall'altra, lacerata dalle vane disputazioni delle scuole e delle sette del così detti filosofi. V. Fi losofia, Prudenza, Scienza. SAPoRE (spee.), la sensazione che pro ducono nel palato i cibi, e tutto quel che per la bocca s'introduce nello stomaco. Mediante questa sensazione, il palato e la lingua sono gli organi regolatori del l'istinto degli alimenti, che la natura ha dato a tutti gli animali per la conserva zione della vita. Loro compagno è l'odo rato, che anzi può dirsi precursore, per chè gl'invita a cibi che la natura ha pre disposto per la condizione d'ogni animale, e li distoglie da quelli che le sono con trari, V. Istinto , Odorato. I fisiologi han distinto i sapori semplici da composti, e ne han dato una certa nu merazione. Per semplici intendon quelli sr - 412 – che producono una sensazione uniforme ed omogenea, accoppiando insieme i sa pori contrapposti, come l'amaro e il dolº ce, l'agro e il salso; il caldo e il freddo, l'aromatico ed il nauseoso, il molle, morbido, untuoso, ed il duro; il pene trante, lo stupefaciente, l'astringente, il pungente. Per composti poi intendon quelli che danno una sensazione mista di più sapori semplici, come l'austero che è astringente e amaro insieme, l'acerbo, che è astringente ed agro; l'acido che è pungente e caldo; il muriatico, che è salso e pungente; il rannoso, che è salso, pungente e caldo; il nitroso, che è salso, pungente e caldo. Coteste spezie diverse di sapori indicano le differenze principali e caratteristiche di talune sostan ze, che giova distinguere per l'uso delle arti, della medicina, della chimica; ma non ci danno veruna idea chiara della natura del sapore. D'altra parte è tanto difficile il distinguere in esso il semplice dal composto, quanto l'è nell'odore. Chi potrebbe scomporre le impercettibili grada zioni desapori e degli odori i più dilicati? Intorno al sapore i metafisici han fatto le stesse quistioni notate già per le altre sensazioni, che non nascono da una qua lità inerente e comune a tutte le cose ma teriali. Il sapore è nella materia saporosa, nel mezzo per lo quale passa, ovvero nello stesso organo che sente? Diciamo lo stesso che abbiam detto dell'odore, e delle altre qualità secondarie della materia. Non è nel corpo saporoso, nel senso che questo non gusta se stesso, non è nell'organo sentente, perchè il sapore proviene da una causa e da una impressione estranea; non è nel mezzo, perchè questo nulla dà del suo, ma accompagna quel che riceve, e lo trasmette. Nasce dunque da una pre disposizione data dalla natura alle particelle e alle molecole de corpi saporosi nelle quali sta l'azione del sapore ; siccome la sensazione sta nella predisposizione data dalla natura all'organo del palato per ri ceverne l'impressione. Chi pretende saper più di questo, penetrar vorrebbe nel segreto della natura.V. Odore, Materia, Qualità. SATIRA ( crit. prat. e disc. ), poema mordace, che riprende i vizi e le follie degli uomini. Gli eruditi han disputato intorno alla etimologia del vocabolo, e al primo in ventor di questo genere di poesia. Il mag gior numero de'dotti lo deriva dal greco, e crede che il nome gli sia venuto dalla voce carvpo (satyri), silvane deità, delle quali il carattere era la disonestà e la pe tulanza, e però licenziose e motteggiatrici. Tra questi sono, lo Scaligero, l'Heinsio, e il Vossio. Altri, come il Casaubono, Spanemio, e il Dacier, lo fan venire da nomi latini satur e satura, che vor rebbe dir cosa piena di vari e molti in gredienti. I primi riconoscono da Greci i primi tipi di questa sorta di componimenti, i secondi fanno della satira romana una spezie diversa dalla greca. Noi crediamo che la satira sia nata insiem colla come dia, e che di esse ognuna abbia preso in ciascun popolo una tinta relativa a costu mi, alla cultura, e al gusto del tempi, ne quali è stata introdotta; sì che tra la satira greca e la romana non ammettiamo altra differenza, se non quella che passa tra la vecchia e la nuova comedia, o sia tra la dura e rozza detrazione, e la de licata riprensione del vizio. Ciò non ostante i Romani dieronsi il vanto d una satira propria diversa dalla greca, di cui disse Quintiliano: satyra - 415 - guidem tota nostra est, in qua primus insignem laudem adeptus Lucilius (Instit. Orat. lib. X. Cap. I.). Questi è quel Lucilio, cui anche Orazio aveva dato il primato trai poeli satirici: - cum est Lucilius ausus Primus in hune operis componere carminamorem. (Sat. I. lib. II.). Ma Orazio nel dare a Lucilio la lode di essere stato il primo ad ingentilire questa spezie di poema, e di avere sbandito la durezza e la licenza del versi saturnini e fescennini, non lo diede come l'inventore d'una nuova maniera di salire, che anzi sembra non aver mai dato, in ogni ge nere di lettere, altra lode a suoi concit tadini, se non quella d'una felice imita zione. Checchessia di tale controversia, che conviene riservare agli eruditi, i partigiani della satira romana, ne fecero una tri plice partizione, distinguendo la narra tiva dalla drammatica, e questa dalla varroniana, o menippea. Narrativa, dissero esser quella, nella quale il poeta stesso parlando riprende, taluni vizi, di che vedesi l'esempio nella prima delle satire di Giovenale: per dram matica definirono quella trattata per dia logo: varroniana o menippea chiamaronº quella tramischiata di verso e di prosa, di greco e di latino, e di versi di vario metro. A questa spezie di satira possono riferirsi il poema di Seneca intorno alla morte di Claudio, il Satyricon di Pe tronio, i dialoghi di Luciano, l'asino doro di Apuleio, e i Cesari dell'impera tor Giuliano. Ma vuolsi quì anche notare, che in ognuna delle tre divisate spezie i Romani ebbero antecessori tra Greci. Una simile partizione, desunta dalla diversità della locuzione o de metri sembra men propria di quella fondata nella natura dell'argomento, il quale porta seco un carattere, uno stile, ed un gusto proprio del suggetto, che il poeta abbia scelto. E però più plausibile sembra la partizione de moderni, che distinguono la satira grave o seria dalla giocosa, la quale può essere suddivisa nella dilettevole, o ridi cola, dagl'Italiani detta anche bernesea. SATIRICo (crit. prat. e disc.), carattere di mordacità, che può darsi ad ogni di scorso, poema o rappresentazione, la quale si veste delle forme della satira grave, gio cosa o bernesca. V. Satira. SATURNo (spec.), uno de primari pia neti, tra quelli conosciuti dagli antichi il più lontano dalla Terra e dal Sole, ed il più lento degli altri nel suo corso. V. Pianeta, Sole, Terra. Questo pianeta risplende con una debole luce, per la sua grande distanza, come chè sia il secondo per grandezza, essendo Giove il primo. Il suo periodo, o sia il tempo che impiega nel rivolgersi intorno al Sole (il che potrebbe essere denominato suo anno), è di 29 anni e mezzo circa, e propriamente di 1o759 giorni, cinque ore, sedici minuti, e trentadue secondi. La sua distanza media dal Sole è di 228778 rag gi terrestri; la proporzione del suo diame tro a quello della Terra, è come 1o a 1. Un anello circonda il suo mezzo, a guisa d'un arco, o d'un orizzonte senza toccarlo in nessun luogo. ll diametro di cotesto anello è più del doppio di quello del pia neta; dacchè l'uno contiene 23 diametri della Terra, e l'altro ne contiene soli 1o. È notabile che un sì grande volume contenga in proporzione pochissima massa, dapoichè la densità di Saturno è appena - 414 - l'ottava parte di quella della Terra, per Da prima la scena non significò altro, modo che la materia costitutiva del pia neta è poco più pesante del sughero. No tabile ancora è, che nel 1781 Herschel scoprì il pianeta Urano, invisibile ad oc chio nudo, il quale trovasi ad una distanza dal Sole, quasi doppia di quella di Sa turno. Serva ciò di argomento per con cepire l'immensità de cieli. - SBALoRDIMENTo (prat.), perdita o so spensione del sentimento. Dicesi propriamente della interdizione, in cui cadono i sensi esterni per causa improvvisa. - - - È più dello stupore, che rende soltan immobile l'attenzione. V. Stupore. SBEFFEGGIARE (prat.), peggiorativo di beffeggiare, perchè oltre al far villania, contiene una manifestazione di odio, di rabbia, o di disprezzo. V. Beffeggiare. ScEGLIERE e SCELTA (spec. e prat.) , atto per lo quale la volontà si determina ad una cosa, più che ad un'altra. È l'atto caratteristico della libertà mo rale delle azioni, o sia del libero arbitrio. V. Libertà, Volontà. ScEMPIAGGINE e SCEMPIATAGGINE (prat), sciocchezza, figlia di semplicità. Contiene un che di diverso dalla balor daggine e dalla scimunitaggine. V. que ste voci. ScENA (dise. e crit.), il luogo della rappresentazione d'un dramma, 0 il luogo nel quale figurasi avvenuto il fatto che si rappresenta, O una delle parti nelle quali suddivi desi il poema drammatico. che il luogo ombroso, nel quale gli at tori eran difesi da raggi del sole, durante la rappresentazione. Un tal significato cor risponde esattamente alla etimologia del nome, che vien da outa umbra, onde co testo vocabolo è divenuto comune a tutte le lingue antiche e moderne. In processo di tempo, quando i Greci e i Romani cominciarono a ormare i loro teatri di pit ture, di dorature e di statue, la seena significò il luogo publico, nel quale gli attori univansi per dare la rappresenta zione del dramma. E siccome parve con-, veniente, che gli ornati fossero adattati al genere dello spettacolo, così furon va riati per modo, che la scena della tragedia figurasse l'esterna facciata d'un edifizio reale; quella della commedia, strade e case cittadine; e quella de'drammi satirici, selve, monti, spelonche, o aperte cam pagne. Per tal successivo progresso, vediamo, presso gli antichi, la rappresentazione della tragedia far passaggio dal carro di Tespi, a palchi adombrati di frondi, e per ultimo a teatri adornati da quanto v'ha di più bello nelle produzioni delle arti imitative. Moderno affatto è il significato, che oggi comunemente dassi alla scena, del luogo cioè in cui figurasi essere avvenuto il fatto, che si rappresenta; e moderna per con seguente è la forma che ora diamo alle nostre scene. Cotesta nuova forma aggiu gne certamente verisimiglianza alle azioni rappresentate, spezialmente pe continui ed istantanei cangiamenti di scene, che ac compagnano per sino gli accidenti delle stesse azioni. Per sostenere una tal verisi miglianza, nacque la regola della unità del luogo, la quale vietava, che la scena si trasportasse da un luogo all'altro. - 415 - i Che debba pensarsi di questa regola, e delle altre due unità, le quali hanno per secoli formato il principal canone delle azioni drammatiche, lo diremo parlando della unità. V. questa voce. - des, Scenico (erit.), ogni spettacolo teatrale, di qualunque natura esso sia. l . ScENoGRAFIA (crit.), disegno in pro spettiva delle diverse parti d'un corpo, colle rispettive loro dimensioni, quali ap pariscono all'occhio. Differisce dall'ienografia che è l'arte di rappresentare il piano o la pianta d'un edifizio. V. Icnografia. SCETTICISMo (crit.), dottrina di chi du bita della veracità del sensi, e della rea lità delle opere della natura. Una cotal dottrina è l'errore del filosofo, e non dell'uomo; perchè nasce dall'abuso del ragionamento scientifico, e ripugna all'evidenza naturale e al senso universale dell'umanità. È dunque un parto de so fismi della falsa scienza. Noi abbiam detto, come nascesse tra gli antichi, tra quali fu denominato pir ronismo. Vediamo come rinascesse trai moderni. Cartesio riaperse senza volerlo il varco allo scetticismo, avendo presnp posto che tutte le nostre facoltà, tranne la sola coscienza, potessero essere fallaci, e che ogni verità la quale nascesse da tutt'altra sorgente, dovesse essere dimo strata. E siccome credette, che la sola verità la quale riposa sopra l'infallibile testimonianza della coscienza, fosse l'io penso, l'io esisto, così fece di questo principio il fondamento unico della cer tezza intuitiva. V. Io, Pirronismo. Non negò Cartesio l'esistenza del mondo materiale, ma la credette dimostrabile per un argomento indiretto, qual è quello che i sensi non possono essere fallaci, perchè ci vengono da Dio, incapace d'in gannare. I suoi seguaci ritennero il prin cipio, ed impugnarono la sua dimostra zione. Ma come avrebbe potuto Cartesio difendere la certezza della coscienza, se taluno l'avesse rivocata in dubbio per quello stesso argomento, per lo quale du bitò egli della realtà delle sensazioni ? 0 il suo dubbio diroccava tutto l'edifizio della natura, o la certezza desensi esterni non poteva essere diversa da quella del senso interno. V. Coscienza. Malebranche trovò poco concludente la dimostrazione indiretta dell'esistenza del mondo materiale, e rifuggissi nella rive lazione, la quale ci rende certi della sua realità, dal che trasse la conseguenza, che noi veggiamo tutto in Dio. Locke riconobbe l'esistenza della natura esteriore, e protestò contra la dottrina degli scettici; ma collocò la certezza delle sensazioni in una sfera inferiore alla in tuitiva ed alla dimostrativa, senza deter minarne il grado. Secondo il suo concetto, la certezza desensi riposa sopra la fidanza che aver dobbiamo in Dio (nel che av vicinossi a Cartesio), e sopra la necessità di considerarla come una legge costitutiva della natura umana, nel che la fece in chinare più verso la certezza relativa. V. Certezza. Berkeley negò assolutamente l'esistenza del mondo materiale, avendo ridotto tutti i corpi a semplici idee. Hume infine, nel trattato della natura umana, rovesciò ogni realità; non perchè non riconoscesse quella del pensiero, ma perchè risguardò lo spirito come un ente di ragione, o sia, come un Essere col - 416 - lettivo, rappresentato dalla sola successione delle idee che ridusse tutte ad impressioni. In somma dell'entimema di Cartesio accettò la prima parte cogito, e negò la seconda ergo sum. V. Idea, Impressione. A tali assurdi non sarebbe trascorsa la filosofia senza i due falsi presuppositi, che la coscienza garentisce la certezza del pen siero e non quella desensi; e che lo spirito percepisce non gli obbietti, ma le imma gini loro. O filosofia tu ti affatichi, non di rischiarare e di ampliare l'umana co gnizione, ma di privarla della luce, che la natura le ha dato l SCETTIco (crit.), quel filosofo, che se condo gl'insegnamenti della sua setta, niente afferma per vero, e di tutto du bita. V. Dubbio. Dice lo stesso che l'antico nome di pir ronista. Aulo Gellio spiega qual ne fosse la dottrina: quos pyrrhonios philosophos vocamus, ii graeco cognomento scevrror appellantur. id ferme significat quae sitores et consideratores, nihil enim de cernunt, nihil constituunt, sed in quae rendo semper considerandoque sunt , quidnam sit omnium rerum, de quo de cerni constituipue possit. Ae ne videre quoque plane quicquam, nec audire pu tant, sed ita pati afficigue, quasi viº deant, vel audiant; eaque ipsa quae affectiones istas efficiant, qualia et cu fusmodi sint, cunctantur, atque insi stunt. (Noct. Attic. lib. II. c. 5), ScHEMA (grec. sup.), figura o forma; vocabolo usato dagli antichi in vari sensi, ed ora di niun uso nella filosofia. Kant richiamò a vita cotesto vocabolo, e denominò schemi talune forme o tipi del pensiero, i quali si producono appli cando certe nozioni a priori agli obbietti delle visioni empiriche. Una tale opera zione esige, secondo lui, l'intervenzione d'una lega o amalgama, che le prestano le così dette forme della sensibilità, cioè lo spazio e il tempo. Coll'ufizio, o aiuto di questa lega escon fuori alcuni puri con cetti dell'intelletto, come le nozioni della potenza, dell'azione, della passione, ed altre (V. il primo volume di questi Saggi, a pag. 334). SCHEMATISMo (gree. sup.), significò presso gli antichi il parlare figurato. Bacone si servì di questo nome per espri mere la conformazione de corpi, e delle parti dell'universo; siccome chiamò me taschematismo le naturali trasformazioni d'ogni corpo. Kant coerentemente al significato, che avea dato alla voce schema, additar volle col derivato schematismo l'arte logica, la quale dirige l'uso che l'intelletto dee fare delle categorie, onde applicare le nozioni a priori alle rappresentazioni sensibili. Della inutilità di questo vocabolo noi pensiamo lo stesso che del precedente. SCHERNo (prat.), atto di disprezzo e di ludibrio insieme. SCHIAvrrù e SCHIAvo (prat.), condizione inumana, che trae la sua origine dalla guerra, e dall'abuso della forza. È la servitù degli antichi, riprodotta da popoli barbari, ed accettata dalle na zioni incivilite, prima per una reciproca zione del diritto della guerra, ed indian cora per una vile speculazione di traffico e d'industria. Gli etimologisti, come il Vossio e il Menagio derivarono la voce schiavo da – 417 - sclavus, nome d'un popolo della Scizia europea, condannato da Carlo Magno ad una perpetua prigionia. Cotesta etimologia spiegherebbe l'uniformità del nome che gl'Italiani, i Francesi, gl'Inglesi e i Te deschi han dato alla medesima idea. Del resto a noi pare, che nella origine del nome poco o nulla entri lo stato di compressione, in cui Carlo Magno tenne i popoli della Schiavonia ; e che basti a spiegarla il costume ch'essi tennero di vendersi, e di far traffico delle stesse loro persone; costume comune a Negri dell'Africa, che suscitò nelle colte nazioni eu ropee la speculazione di comprare la vita e le forze di questa disgraziata razza uma na, per addirla a penosi lavori delle mi niere, e della loro industria coloniale. Senza la schiavitù volontaria, alla quale i barbari si condannano, e senza la legge di forza che rende tra essi legittimo un tale traſſico; la servitù una volta proscritta non avrebbe potuto rinascere tra popoli cristiani. La stessa servitù della gleba, portataci da barbari nostri invasori, co mechè diversa dalla servitù personale degli antichi, è scomparsa dinnanzi al chiarore della cristiana civiltà. Che se qualche suo resto trovasi ancora annidato in taluni ri moti luoghi dell'Europa, non è chi non convenga della necessità di farla intera mente svanire, e non l'attenda dalla sa pienza del legislatori, a quali la sorte di quei popoli è affidata. Una pruova, che senza la schiavitù volontaria del popoli i quali vendono le loro persone, non sarebbe mai nato il traffico degli schiavi, è la fatica che oggi si dura ad estirparla; da poichè la faciltà di comperare una tal merce è quella che principalmente alimenta la speculazione di coloro, i quali non san no rinunziare all'abito dell'antico lucro. Cotesto fatto serve di pruova ad una verità più generale, cioè che la schiavitù come l'oppressione sono un gemino parto della depravazione, o sia dalla morale degradazione de popoli. V. Servitù. ScHIETTEzzA e SCHIETTo (prat.), qualità d'uomo sincero che mostra tutto quel che Sente. È una similitudine presa dal semplice, che non ha mistura di parti diverse. ScienzA (spee, e crit.), chiara cono scenza delle qualità d'ogni subbietto, ac quistata o per lo ragionamento, o per la sperienza de propri sensi. V. Qualità, Subbietto. Aristotele definì la scienza, la cono scenza d'una cosa, per quel che è in se medesima, e non per gli accidenti suoi, di tal ehe si possa dire di cono scere il perchè sia cosi, e non altrimenti. Cotesta definizione dice in sostanza lo stesso della precedente, ma si riferisce alla essenza e alle cause delle cose, che imperfettamente, o per nulla conosciamo. Ciò tanto è vero, quanto nel definire il vocabolo sapere si valse egli de'medesimi termini: scire estrem per caussam co gnoscere, et quod illius est caussa, et quod impossibile est aliter se habere. (poster, analyt. lib. I.). Se tale fosse il significato della scienza, non potrebbe un tal nome convenire se non alla conoscenza delle sole verità necessarie. Nel senso poi d'un sistema di principi e di proposizioni, nel quale noi raccoglia mo tutte le conoscenze acquistate intorno alle qualità e alle relazioni d'un subbietto qualunque, lo stesso autore chiamò seien za la serie delle verità dimostrate per sil logismo, e la distinse dalla opinione, sì 55 - 418 – che in queste due classi collocò tutte le umane conoscenze. Certamente la scienza va ben contrapposta alla opinione, ma uopo è avvertire che alla scienza si può pervenire non per la sola via del sillo gismo, e della diretta dimostrazione, nel che la partizione di Aristotele può essere risguardata come difettiva. Le verità in tuitive, e le dedotte, per via della indu zione o del sillogismo, formano la scien za, propriamente detta; ma a quesa de nominazione sogliam dare un significato più o meno ampio, o sia uno generico e l'altro particolare. Nel generico la scien za equivale alla cognizione, che è tutto l'umano sapere, composto d'ogni sorta di conoscenze, secondo la diversa natura desubbietti, che entrar possono nell'umana capacità. V. Cognizione. Nel senso particolare, più comunemente usato, scienza vuol dire il complesso delle conoscenze teoretiche, che noi possediamo in ciascuna parte dell'umano sapere, di sposto coll'ordine più alto alla loro com prensione, o all'insegnamento. Tal è il significato che le diamo, quando parlasi del numero e della partizione delle scien ze; e quando trattasi di conoscere le re lazioni che esse hanno tra loro, o colle facoltà dell'animo, dalle quali procedono. Locke ne propose la divisione in tre gran di rami, che sono, la natura delle cose, l'uomo considerato come agente volonta rio, e l'arte di comunicare agli altri le conoscenze acquistate intorno ad ambe due i dinolati obbietti. Il primo abbraccia la cognizione di tutte le cose materiali ed immateriali, le loro qualità, relazioni, e modo di operare: il nome che gli conviene è quello di quotam, scienza della natura, di filosofia naturale, presa nel più ampio senso, che comprende tanto la scienza dei corpi, quanto quella degli spiriti, in cima a quali è lo stesso supremo Autor della natura. Il secondo risguarda l'arte di ben indirizzare la volontà, o la potenza attiva, al fine, nel quale la natura ha riposto la felicità dell'uomo: le conoscenze che a questo ramo appartengono, versano circa l'applicazione delle verità che ricaviamo dalle scienze speculative, e però è stata de nominata etica, o sia scienza decostumi, che potrebbe ancora essere denominata rpaxrom. Il terzo finalmente abbraccia la dottrina desegni, o delle parole per mezzo delle quali formiamo e comunichiamo ad altri le idee: il nome che generalmente gli è dato è di logica, ma potrebbe an cora ricever quello di omustartum, o sia dottrina de'segni; imperochè di questi fa uso la mente per formare le idee, e per comunicarle agli altri. Cotesta partizione è la più generica di quante possano far sene, ed abbraccia in realtà i tre grandi obbietti dell'umana cognizione; ma è più antica di Locke, ed è la stessa, di quella che proposero gli antichi grandi maestri del pensare e del parlare, come Platone, Aristotele, Zenone e Cicerone. Costoro ave vano tripartito tutte le umane conoscenze nella filosofia naturale, nell'arte del ben civere, e nella dialettica. Vuolsi non pertanto notare, che una tal partizione comprende propriamente lo studio del pensiero e della parola, ma la scia fuori di se le conoscenze che acqui stiamo per lo studio dell'esperienza, come la storia e l'erudizione; del pari che quelle le quali nascono dall'applicazione deprin cipi e delle regole teoretiche, come le arti. Da questa imperfetta partizione forse pro venne la separazione tra le scienze e l'eru dizione, non che tra le scienze e le arti; quantunque l'erudizione e le scienze deb - 419 - bansi prestare un vicendevole soccorso, e le arti sieno figlie delle scienze, e sor genti feconde del loro progressi. V. Arte, Erudizione. Per formare un quadro più compiuto delle umane conoscenze, e per istabilire le relazioni e i legami che uniscono le une alle altre, piacque a Bacone di rife rirle alle facoltà dell'animo, che le ge nerano e nutriscono. Di qua, la sua famosa partizione delle conoscenze figlie della MEMoRIA, della RAGIONE, e della IM MAGINAZIONE. Noi abbiamo già accennato le difficoltà che si scontrano nel formare una esatta e categorica partizione di tutte le umane conoscenze, e il falso concetto che nascer potrebbe in chi credesse potere riferire esclusivamente ad una delle tre indicate potenze un dato genere di cono scenze. Simili quadri, sono guide della memoria, utili soltanto per riconoscere i caratteri discernitivi dediversi rami del sa pere; per istabilire le principali relazioni delle scienze, che son tra loro connesse, del pari che quelle tra le scienze e le arti. (V. il disc. prelim. S. XIII. ). Con tali avvertenze seguendo la parti zione di Bacone, dalla MEMORIA nasce la storia con tutte le sue suddivisioni, cioè l'antica e la moderna, la sagra e la profana, l'universale e la particolare, l'areheologia, la civile, la letteraria, l'ecclesiastica (Tav. I. e II. ). V. Storia. Dalla RAGIONE, considerata come sorgente dello studio dell'uomo, di Dio, e della natura, nascono tutte le numerose scienze nelle quali suddividonsi la filosofia specu lativa, la pratica e la discorsiva. Distin guendo nella ragione umana le facoltà in tellettive dalle attive; risguardiamo come prime figlie dell'intelletto la psicologia, in sieme coll'arte discorsiva, o logica: come parti di questa l'arte di pensare, la gra matica generale e la retorica: dalla gra matica generale deriviamo la dottrina del linguaggio e de segni: da questa la scrit tura, prima arte desegni, suddivisa nelle sue varie spezie, l'alfabetica, l'ideale, la geroglifica, la simbolica, l'emblema tica, l'araldica, la convenzionale: dal la retorica deriviamo la filologia, la per dagogia, l'ermeneutica, l'arte critica. (Tav. III.). Passando poi alla volontà, ne facciamo nascere la filosofia pratica e mo rale, e da questa, la legge naturale e la po sitiva, insieme con tutte le sue diramazio ni, cioè il diritto delle genti, il privato o civile, il publico, il politico, l'internazio male, e la politica economia. (Tav.IV.). Dalla contemplazione di Dio, nascono la teologia naturale e la rivelata dalla prima la cosmologia e la scienza delle cause finali e dalla seconda la dottrina apologetica, la dottrina degli spiriti in visibili, e la sapienza morale dogmatica. (Tav. V.). Più variato è lo studio delle opere divi ne, che diciam della natura, perchè com prende la numerosa schiera delle scienze matematiche e fisiche: le matematiche, dette pure, son la geometria e l'aritme tica: della geometria son parti l'elemen tare e la sublime dell'aritmetica, la nu merica e la speciosa, o sia l'algebra: di questa l'elementare e l'infinitesimale dell'infinitesimale, la differenziale e l'in tegrale. (Tav. VI. ). Seguono a queste le scienze fisiche, e le fisico-matematiche, dette matematiche mister prima tra tutte è la fisica genera le, la quale abbraccia lo studio delle pro prietà generali della materia, la scienza del moto o la meccanica, l'idraulica , e l'astronomia geometrica, o meccanica gi – 420 – celeste della meccanica son parti la sta tica, la dinamica, l'acustica: da queste dipendono tutte le così dette arti mecca niche: della idraulica son parti l'idrosta tica e l'idrodinamica, e di esse son figlie le arti idrauliche. (Tav. VII.). Succede alla fisica generale la partico lare, la quale comprende la dottrina dei fluidi imponderabili, la chimica, la no tomia, la fisiologia generale o biologia, e la storia naturale. De'così detti fluidi imponderabili il primo è la luce: la scien za che ne spiega i fenomeni, e ne fa co noscere le leggi, è l'ottica, di cui son parti la calottrica e la diottrica, e dal le quali dipendono le così dette arti otti che. Dalla chimica e dalla fisica prendono mome la numerosa classe delle arti chimi che o fisiche, così dette perchè, per otte nere i loro prodotti si servono delle forze degli stessi agenti della natura, come il calore, la luce, l'elettricità, il magne tismo ec. (Tav. VIII. ). V. Arte. La storia naturale, considerata come parte della fisica particolare, abbraccia i quattro regni della natura, cioè l'animale, il vegetale, il terrestre e l'etereo, il re gno animale contiene in se la zoologia, la notomia comparata e la fisiologia ani male: la zoologia comprende l'antropolo gia, la mammologia, l'ornitologia, l'er petologia, l'ictiologia, la conchigliolo gia, l'entomologia, l'elmintologia, e la zoofilologia. L'antropologia alla quale noi diamo lo studio del corpo umano, e delle speciali attitudini, che la natura gli ha dato, contiene in se la notomia e la fisiologia zumana, la chimica animale, e tutte le scienze mediche, che noi suddividiamo in due grandi rami, cioè la patologia gene rale, e l'igiene: come parti della patolo gia generale consideriamo la nosologia ge nerale, la sintomatologia, l'etiologia e la patologia speciale di questa son parti la terapeutica, la farmacologia e le arti mediche come la clinica medica e la cli nica chirurgica, da cui nascono l'ostetri cia, l'oftalmiatria, l'ortopedia. (Tav. X.) V. Medicina. Entrando nel regno vegetale, conside riamo come sue parti la botanica, la fitotomia o fisiologia vegetale, la chi mica vegetale e l'agricoltura, donde le arti dette agrarie. (Tav. XI. ). Al regno terrestre diamo la geografia, la geodesia, la geologia, e la minera logia, distinguendo nella prima la geo yrafia naturale dalla civile, e dall'astro nomica, e risguardando come parti dello studio della mineralogia, la chimica dei minerali, la metallurgia, e la cristallo grafia (Tav. Xll.). Al regno etereo fi nalmente addiciamo l'uranologia, o sia l'astronomia fisica, l'aerologia, e la metereologia. (Tav. XIII.). La terza delle facoltà dell'animo, cui attribuiamo un particolar genere di cono scenze, è l'IMMAGINAzioNE. In questo aspetto noi la consideriamo come madre della poesia e delle arti imitative. E siccome la poesia prende il suo principal carattere dal linguaggio degli affetti e delle passio ni; così le diamo per compagna la mu sica. Ma la poesia è un nome generico, di cui risguardiamo come spezie la sagra e la profana, intendendo per sagra quella che la prima sciolse la lingua dell'uomo alla preghiera, ed agl'inni di pianto o di lode a Dio: della profana o umana, consideriamo come spezie di diverso poe tico linguaggio l'epica, la drammatica, e la lirica. Come spezie parimenti del l'armonioso linguaggio della musica, di stinguiamo la vocale dall'instrumentale. - 421 – Quanto poi alle arti imitative, prendendo esse dalle diverse spezie del bello, il prin cipale loro carattere; distinguiamo il bello della natura, da quello della ragione, e diamo al primo le arti del disegno, la pittura e la scoltura, ed al secondo, l'architettura insieme con tutte le arti, che scelgono per archetipo non il bello di natura, ma quello di convenzione. (Tav. XIV.). V. Bello. ScoNFIDANZA (prat.), sentimento di non potere ottenere una cosa che si desidera. V. questa voce. ScoNFoRTAMENTo e ScoNFoRTo (prat.), dolore per la defraudata aspettativa d'un bene, cui l'animo non sa rinunziare. È lo stesso che disconforto. V. questa voce. SconosceNza (prat.), è lo stesso che disconoscenza. V. questa voce. ScovERTA ( spec. ), trovamento d'un fatto della natura, o d'una verità ignota, senza l'opera della ragione inventrice. Impropriamente le scoverte son chia mate invenzioni, perchè nate da una av venturata congiuntura, la quale non dà merito allo scopritore. Ciò non ostante le scoverte sono talvolta miste d'invenzione, il che si verifica quan do un fortuito trovato abbia servito d'oc casione al ragionamento per iscoprire una legge generale della natura, o per appli. carne ed estenderne le conseguenze. Ora per conoscere, e per graduare il merito della scoverta, giova distinguere il signifi cato di ambedue i vocaboli.V. Invenzione. SCRITTURA (crit. spec. e disc.), l'arte di rappresentare i suoni sensibili all'udito con segni sensibili alla vista. V. Udito, Vista. La nostra definizione comprende la sola scrittura alfabetica, e la musicale; dapoi chè se si richiedesse una definizione ge nerale, la quale abbracciasse tutti i modi, pe quali possiamo trasmettere a lontani i segni rappresentativi delle nostre idee, e parlare con essi per note; dovremmo dirla l'arte di comunicare agli altri le nostre idee per mezzo di segni visibili. Queste due diverse definizioni bastano a dimo strare la vanità di quella controversia che gli scolastici facevano, cioè se la scrittura rappresentasse le idee, o le cose stesse, o solamente i suoni articolati. Se si parla della scrittura alfabetica, questa non rap presenta se non i suoni articolati. Lo stesso è delle note musicali, le quali son segni di tuoni della voce modulata. Per contra rio, la scrittura geroglifica, e l'emblema tica rappresentano non i suoni articolati, ma i nomi o le idee delle cose, quali noi le concepiamo, o quali siamo soliti a rap presentarle. Niuna quistione può farsi in torno alla diversità tra le idee e le cose significate, perchè per idea noi intendia mo il concetto della cosa quale è; e per conseguente tanto è dire che la scrittura geroglifica o emblematica rappresenta le parole, quanto è il denominarla scrittura imitativa, o figurata, perchè esprime ad un tempo i nomi, che sono i segni delle idee, e per mezzo di queste le cose signi ficate. Laonde la partizione la più generica che possa farsi delle varie spezie di scrit tura, è in alfabetica e figurata. V. Idea, ASegno. Le investigazioni che far si possono in torno alla necessità , alla utilità, e alla origine della scrittura, aprono il campo a nobilissime quistioni non meno specula – 422 – tive, che archeologiche. La scrittura è ella necessaria alla formazione del linguaggio? È almeno necessaria alla conservazione e alla perfezione sua? V'è stata una scrit tura alfabetica primitiva, diffusa poi per imitazione tra popoli, siccome avvenne per lo linguaggio? Presso i popoli, i quali perdettero l'uso della primitiva scrittura alfabetica, quale fu prima a ritornarvi, la figurata o l'alfabetica ? Avendo noi toccato ognuna delle divi sate quistioni nella dissertazione intorno alla origine del linguaggio e della scrit tura, rimandiamo i nostri lettori alle cose ivi dette. (V. il vol. I. de nostri saggi, alla nota 134. PRIMA PRoPosizIoNE SS. 11 e 12.). ScUoLA (erit. e disc. ), luogo, dove s'insegna o s'impara scienza o arte. Vale ancora adunanza d'uomini di let tere, di arte o di scienze che convengono in un luogo per comunicare insieme i pen sieri della disciplina che professano. Vale similmente sistema di dottrina pro fessata da molti sotto un capo, di cui gli altri seguono i principi o i precetti; e vale pure stile o maniera di dipingere, di scol pire, imitando un capomaestro, che si sceglie per modello del buono, o del bello. V. queste voci. ScusA e SCUSAzIoNE (prat.), l'addurre ragioni a pro suo, o di altri, per isce mare, o per torre di mezzo la colpa. SDEGNo (prat.), risentimento per un fatto altrui, che abbiamo a male, o perchè ci nuoce, o perchè fortemente il disap proviamo. - E men dell'ira, perchè possiamo sde gnarci senza odio o malevolenza. V. que ste voci. SEDUzioNE (prat.), l'indurre alcuno al mal oprare, o per consiglio, o per esempio, SEGNo (spec. e disc.), quel che serve a denotare una cosa non presente a sensi o riposta nel pensiero. E nome generico d'ogni cosa, che per destinazione della natura o dell'uomo, ne predice o ne addita un'altra; d'ogni sorta di figura o d'immagine, denumeri, delle cifre, delle lettere, de gesti, e del nomi dati alle cose. Ogni segno racchiude due idee: la pro pria, o sia quella del segno stesso, e l'altra della cosa significata. I segni sono natu rali, o artifiziali, che diconsi pure con venzionali. Maturali son quelli, pe'quali la natura ci fa conoscere noi stessi, e le cose poste fuori di noi, dapoichè ella non parla all'uomo, che per segni. Ma tra questi ve n'ha di più o meno chiari, e la maggiore o minore loro chiarezza na sce dalla più o meno facile comprensibi lità della connessione tra il segno e la cosa significata. Ve n'ha di quelli, dei quali per una suggestione della stessa na tura ricaviamo la conoscenza d'un subbietto e di talune qualità, che ce'l fanno chia ramente percepire. Tali sono le sensazioni, che ci manifestano la propria esistenza, il mondo esteriore, e le diverse qualità della materia. Ve n'ha degli altri, dei quali la stessa natura ci ha spiegato le relazioni colle cose significate, perchè per essi manifestiamo le interne disposizioni dell'animo, come il riso, il pianto, i suoni della voce, lo sguardo, i movimenti degli occhi, della fronte e del volto. In som ma, le passioni, gli affetti, i sentimenti han ciascuno i propri segni, i quali for mano il così detto linguaggio naturale. Ve n'ha infine un terzo genere men chiaro – 425 – deprecedenti, alla interpretazione del quale la natura c'invita e ci alletta; avvertendoci per altro, che non potremo giugnervi, se non per mezzo della sperienza, la quale ci condurrà dalla conoscenza de'fatti par ticolari alla cognizione, se non delle cause efficienti, almen delle immediate, o sia delle leggi generali, in cui son riposti l'ordine e l'economia del mondo sensibile. Di questi tre generi di segni, il primo e il secondo formano il suggetto della filo soſia intellettuale, pratica, e discorsiva; il terzo, della natura esteriore, o sia delle scienze fisiche, e della storia naturale. V. Connessione, Relazione, Sensazione. Ora giova fermarci spezialmente al se condo, e dichiarire quel che intendersi debbe per linguaggio naturale. La voce è data dalla natura agli ani mali, come segno atto ad esprimere i bisogni, i desideri, gli affetti, il piacere, la gioia e il dolore, comechè taluni tra loro sieno muti, ed altri l'abbiano rice vuta con diverse gradazioni relative alla condizione delle spezie loro. Ma i suoni della voce sono articolati o inarticolati. Gl'inarticolati son comuni a bruti, gli ar ticolati son propri dell'uomo: questi pren dono il nome di parola, e compongono quel che propriamente dicesi linguaggio. I suoni inarticolati, e con essi tutti i mo vimenti delle membra, compresi nel nome di gesto, forman parte del linguaggio detto di azione, il quale per essere più o men comune a tutti gli animali, suol essere anche denominato naturale. V. Ge sto, Linguaggio, Parola. La parola comprende i segni pe quali l'uomo comunica le idee, le conserva, le accresce, le ordina, le richiama alla me moria, ne astrae le generalità, forma le idee complesse, i generi, le spezie, in dirizza l'attenzione e l'osservazione, esercita l'immaginazione, la riflessione, e tutte le potenze dell'anima: la parola in somma è l'instrumento del pensare e del ragionare. V. Pensiero, Ragionamento. Ognuno intende, che senza i segni delle idee, niuno potrebbe comunicare agli altri i propri pensieri; ma i logici, e tutti quelli che son versati nell'analisi delle operazioni dell'intelletto, dimostrano altresì, che senza le parole niun potrebbe formare le idee di relazione, e molto meno le idee generali; che anzi niun potrebbe distinguere gl'in dividui, gli uni dagli altri; dal che se gue, che le parole son segni naturali e non artifiziali, o convenzionali. Imperoc chè non potendo l'uomo senza segni for mare le idee, non avrebbe potuto, senza parole, convenir de segni della parola. E da questa verità logica nasce l'altra, che il primo linguaggio è stato l'opera della natura, e non dell'uomo (V. il I. vol, del nostri saggi n. 134. ). I segni artifiziali son quelli, pe quali gli uomini imitano o rappresentano una cosa da essi veduta, concepita o immagi nata; e questi possono essere tanti, quanti sono gl'individui della natura sensibile, e quanti esser possono i vari concetti del la immaginazione umana, in poter della quale sta lo scegliere una cosa per dino tarne un'altra. In generale vuolsi notare, che i segni, per rispetto al loro valore si gnificativo, sono pure di due sorte; dac chè possono indicare la cosa significata, o per le sue qualità apparenti e accidentali, o per le sue qualità essenziali: nel primo caso son semplicemente indicativi: nel se condo divengono caratteri, o note carat teristiche della cosa stessa. V. Carattere. Finalmente giova notare, che racchiu dendo ogni segno due idee, o due signi – 424 – ficati, il proprio e quel della cosa rap presentata; uopo è non iscambiare l'uno per l'altro, e dare alla cosa le qualità del segno, o a questo le qualità di quel la. L'aver dimenticato questa regola lo gica, e l'aver confuso i segni delle cose apparenti coloro caratteri, sono state cau se di falsi ragionamenti, e di molti er rori nella filosofia. Di qua i falsi concetti intorno alle idee dello spazio, del tempo, della sostanza: di qua lo scambio delle definizioni nominali colle reali : di qua gli errori circa la realità denomi e delle cose: di qua le vane controversie de filo sofi che presero la divisa di nominali o di reali. V. queste voci. SEMBIANTE (spec.), l'apparente figura del viso, giudicata principalmente per lo movimento degli occhi. A tal significato alludono i versi di Dante: Perchè l'ombra si tacque e riguardommi Negli occhi ov'il sembiante più si ficca. (Purg. XXI. ). Esprime una di quelle tante gradazioni, , che la lingua italiana distingue ne voca boli aspetto, faccia, fisonomia, sembian te, viso, volto. V. queste voci, SEME e SEMENZA (spec.), sostanza ani male o vegetale, in cui è virtù di generare un Essere simile a quello che l'ha prodotta. È il germe della riproduzione, che la matura ha dato a tutti gli Esseri organici, adattandone le qualità e gli accidenti ad ogni spezie d'organismo: è il mezzo della generazione così degli animali come dei vegetabili. V. Generazione. In un significato men generico dinota quel prodotto delle piante che la terra torna a fecondare, e per lo quale la spezie vien propagata. V. Pianta. - SEMEIOTICA (crit.), parte della medici na, che considera i segni, o le indica zioni di sanità o di morbo, le quali met tono il medico nello stato di giudicare del la qualità del male, e di prenunziarne l'evento. V. Medicina. SEMPLICE (spec. e ontol.), quel che non ha parti. È proprio degli Esseri immateriali, e però si contrappone al composto, che è proprio de'corpi e della materia. V. Com posizione, Composto. Essendo lo spirito un Essere semplice, semplici son pure i suoi atti, a rispetto de quali questo vocabolo prende il signi ficato dell'uno e della unità. V. queste voci. - Semplici son dette le idee, che corri spondono ad un obbietto unico. Locke con siderò come tali le idee che ci vengono dalle sensazioni, quando l'atto stesso della percezione non le dimostri a noi come complesse. Ma Leibnitz avvertì, che le idee della sensazione sono per lo più comples se, e che se tali a noi non appariscano, ciò nasce dalla percezione, la quale con fusamente le concepisce ; d'onde ricava che l'analisi fattane da Locke è incom piuta e poco esatta. V. Idea. Rettificando il concetto e la definizione di Locke, noi chiamiamo semplici quelle idee primitive, o originarie, delle quali non conosciamo altre più elementari. Il carattere della semplicità loro nasce, dac chè non ve n'ha altre, che possano darci una conoscenza più chiara di quella che per essa ne riceviamo. Tali sono le idee del sentire, dell'essere, del pensare, ed – 425 – altre simili: queste essendo intelligibili per se medesime, mancano di altri caratteri cognoscitivi, e sono per conseguente in definibili (V. il disc. prel.). Semplici chiamò ancora Locke i modi, che l'animo forma con idee della medesima spezie, vale a dire semplici ancor esse. Ma gli esempi, che ne addusse, neppure giu stificarono quest'altra distinzione, perchè manifestamente contenevano idee complesse e non semplici, capaci di logiche defini zioni. E quì vuolsi anche notare con Leib nizio, che una tal distinzione a rispetto demodi, sembra essere di poco uso in Lo gica; essendochè il modo consiste in una combinazione di più idee formata dall'in telletto, il quale può svolgerle colla stessa facilità, con cui le ha insieme unite. Sif fatte combinazioni escludono quel concetto d'unità e d'indivisibilità, nel quale è ri posto il significato del semplice. V. Modo. Al semplice degli atti del pensiero hanno i logici contrapposto il complesso, per ischivare l'ambiguità del composto, che si riferisce agli aggregati di cose sensibili. E però il complesso in questo senso espri me un'aggregazione di numero, e non di parti materiali. V. Complesso. L'idea del semplice, considerato come indivisibile, è stata ancora applicata ai primi componenti del numero, ed è nel comune uso di parlare attribuita pure alle unità delle cose materiali. Ma questo signi ficato è improprio, perchè nella materia non si dà indivisibilità assoluta, la quale è attributo proprio degli Esseri senza parti. Laonde metafisicamente parlando, semplici posson dirsi soltanto quelle unità astratte, che i filosofi hanno ipoteticamente conce pito, come altrettanti Esseri impercettibili ed invisibili, ne quali son riposte le forze attive della natura. Tali sarebbero le unità reali di Pitagora, gli elementi incorrutti bili di Cartesio, e le monadi di Leibnizio. Ma se quel primo significato è improprio e relativo, questo è affatto ideale. V. Ele mento, Monade. Improprio del pari è il significato del semplice, applicato alla qualità di quei corpi che non hanno mistura di parti di verse, o nella realità, o anche nella nuda apparenza. Tali per esempio diconsi essere l'acqua, l'aria, i fluidi, i metalli, detti puri, a rispetto de'quali il semplice, ado perato dal comune linguaggio, equivale all'omogeneo e all'uniforme. V. Omogeneo. SEMPLICIONE (prat.); peggiorativo di semplice, che vale di grosso senso e fatuo. V. questa voce. SEMPLICITÀ (prat. ), qualità d'uomo senza studio, e senza esperienza. Prendesi in buona e in cattiva parte, potendo dinoſare purità di costumi e na turalezza di maniere, ovvero dabbenaggine ed ignoranza. V. queste voci. SENNo (spee. ), l'intelletto rischiarato dal sapere e dalla prudenza. V. Intelletto. L'uso comune della lingua dà a questo vocabolo, ora il significato di sapienza, e di prudenza, or quello d'interno senso dell'animo, ed ora il confonde colla ra gione e col giudizio. In tutti questi signi ficati presuppone sempre un che di rifles sione e di maturità maggior di quella che adoprar suole il comune degli uomini. Non è questo un vocabolo che ci viene dal latino sensus siccome credettero il Ferrari e il Menagio, i quali diedero ogni sorta di tortura alle parole per trovare in esse una origine greca o latina. Bene av verù il Muratori, che dal sensus noi ab 54 – 426 – biam preso la voce senso, e non il sen no, che è di origine affatto germanica. I Tedeschi hanno il vocabolo sinn, che si gnifica l'interno senso dell'animo, il pen siero, la mente, e quel che noi diremmo il fior di ragione. A che derivare da lon tane somiglianze, un vocabolo che porta seco le tracce d'una più immediata origi ne ? V. Senso. SENSAzIoNE (spec.), impressione che gli organi ricevono da una causa, capace di essere avvertita dalla sostanza sentente. La causa può essere esterna o interna: esterna, se nasce da obbietti che son fuori di noi: interna, se la causa che agisce, è in noi stessi: da quella proviene la per cezione degli obbietti csteriori: da questa il sentimento della vita, del moto, del piacere, e del dolore. Parlando della ester na, noi non possiamo spiegare come l'im pressione avvenga, e quale sia il punto del contatto degli obbietti esteriori colla sostanza sentente. Sappiam bene, esser necessario il concorso di due azioni per produrre in noi la conoscenza de'cennati obbietti: quella degli organi, predisposti dalla natura a riceverne e a trasmetterne l'impressione : l'altra della sostanza im materiale che l'avverte. A ciascuna delle due azioni convien dare un diverso nome per meglio distinguerle, ond'è che chia miamo sensazione la prima, e perce zione la seconda. Il confonderle tende rebbe a rendere aſfatto materiale e mec canica l'azione della sostanza che sente, o sia dello spirito. - Non potendo spiegare, nè comprendere come gli obbietti esteriori agiscano sopra i nostri organi, come la materia serva allo spirito, e come lo spirito sia presto ad accogliere le conoscenze che gli organi materiali gli preparano; tutto quel che possiamo far di meglio nell'analisi della percezione degli obbietti esteriori, è il se parare i fatti che appartengono a ciascuno de'divisati fenomeni, sceverandoli da tutto quel di congetturale e di presunto, che le antiche scuole vi avevano aggiunto, coll'intento di spiegare come la natura operasse. Ora i fatti, che certamente ap partengono all'esterna sensazione, son due: 1.” La sensazione non avviene se l'ob bietto esteriore non sia in comunicazione immediata, o mediata cogli organi del senso. Cotesta verità è dimostrata dal fatto stesso della natura, la quale ha dato la virtù sensitiva immediata ad alcuni orga ni, come a quelli del tatto, e ad alcuni altri la mediata, come alla vista, all'udi to, all'odorato. La vista, senza i raggi della luce, l'udito senza l'azion dell'aria, e l'odorato senza l'aria e senza l'emana zione delle particelle odorifere, non po trebbero ricevere veruna impressione. 2.” I mezzi, pequali l'impressione de gli obbietti esteriori passano alla sostanza sentente sono i nervi, i quali partendo dal cerebro, giungono insino a ciascuno degli organi del senso. Son essi gl'instru menti e gli agenti intermedi pe quali passa la conoscenza degli obbietti esteriori. Se v'ha disordine nelle funzioni loro, o in qualunque modo venga meno la loro na turale forza e attitudine, la sensazione è imperfetta, o manca del tutto. Sin qua la natura si palesa, ma da questo punto in poi lascia ignorare all'osservatore come l'azione degli organi materiali possa co municarsi allo spirito e come ne avvenga la percezione. V. questa voce. Passando all'interna sensazione, le cause che la producono son diverse a rispetto degli effetti che ne risentiamo : talune - 427 - operano senza produrre veruna modifica zione nel nostro essere: altre alterano il naturale equilibrio della economia anima le, e portano un cangiamento nell' ordi nario stato della sensibilità : l'anima av verte quelle come queste, ma risguarda le prime come funzioni necessarie, pre disposte dalla mano superiore della natu ra, mentre che è affetta dalle impressioni delle seconde. Se l'impressione è grata , la chiama piacere, e l'appetisce ; e se l'è molesta, la denomina dolore, la fugge e cerca di liberarsene, come d'un male. Ma come l'una e l'altra avvengano, l'ignora; nè può comprendere il modo nel quale la sensazione che affligge il corpo passi all'anima. Vi passa certamente per lo stesso mezzo, per lo quale passano le impressioni degli obbietti esterni, perchè quando queste impressioni divengono cau se di dolore e di piacere, l'anima riceve ad un tempo ambe le sensazioni, cioè la conoscenza degli obbietti esterni, e il grato e molesto sentimento ch'essi producono. Una seconda, e più certa pruova, che i nervi sono i portatori delle interne sensa zioni è , che renduta nulla l'azione loro in qualche parte del corpo caduta nel tor pore, cessa del pari la sensibilità ad ogni grata o molesta impressioue. Ma qui si ferman pure le nostre conoscenze, dapoi chè la natura ci ha nascoso il meccanismo de'nervi, a rispetto così delle esterne come delle interne sensazioni. Quelli che han preteso di spiegarlo, non han fatto altro, che creare ipotesi più o meno assurde, perchè fondate sopra fatti supposti o con traddetti dalla sperienza, sebbene alcune di tali ipotesi sieno state per secoli te nute come indubitate verità. Tale fu la dottrina degli spiriti animali, che face vansi scorrere per tanti tubi più o meno grandi, quanti sono i nervi; tale ancora quella delle vibrazioni delle fibre nervose, trasformate in altrettante corde armoniche. Come l'anima senta, è un mistero, del pari che come l'anima percepisca. V. Do lore, Mervo. . SENSIBILE (spec.), quel che si conosce per mezzo del senso. V. questa voce. In un significato men proprio dicesi an cora degli Esseri dotati di sensibilità, come degli animali e delle piante. Ma in questo caso farebbesi meglio uso dell'addiettivo sensitivo. V. questa voce. È stato ancora adoperato dal Gelli nel significato di un sostantivo, come i sen sibili propri, e i sensibili comuni, cioè quel che è particolare ad ogni senso, e quello di cui tutti partecipano. SENSIBILITÀ (spec.), attitudine del sensi a ricevere le impressioni dette sensazioni. Ovvero, attitudine degli Esseri al sen tire. V. queste voci. SENsIsMo (erit.), sistema filosofico, che ammette le idee del sensi, come unico principio dalla umana cognizione. È il sistema opposto all'altro, che rine gando l'autorità de sensi, pone nella sola intelligenza, o sia nelle verità a priori, i principi di tutte le nostre conoscenze. Il sensismo e lo spiritualismo sono i due estremi, pe quali ha parteggiato l'an tica e la moderna filosofia, insino a che le false conseguenze dell'uno e dell'altro non han dimostrato esser due, e non una, le fonti dell'umana cognizione. V. Cogni zione, Spiritualismo. SENsIsrA (spec.), seguace della dottrina del sensismo. V. questa voce. r – 428 – SENsitivo (spec.), chi è dotato di senso, o quel che prende sua origine dal senso. V. questa voce. - Si adopera in ciascuno de'due dinotati significati. Sensitiva è stata detta la facoltà del l'anima, che riceve le sensazioni; e l'ani ma stessa, in quanto è considerata come la sede delle aſſezioni, che le vengono da' sensi. - Aristotele suppose tre spezie d'anima, la vegetativa, la sensitiva, e l'intellet tiva, delle quali la prima credette comune alle piante e agli animali, la seconda co mune agli animali d'ogni genere, e la terza particolare all'uomo. V. Intelletti va, Vegetativa. Rimossa l'ipotesi della pluralità delle anime, diciamo ancor oggi anima o na tura sensitiva, la sostanza immateriale, che è affetta dalle sensazioni. Cotesta na tura è comune all'uomo e agli animali, ne quali è stata distinta col nome di ani ma de bruti. In che tali anime fossero simili o dissimili dalla umana; in che dif. ferissero tra loro nelle varie spezie degli animali, quale ne fosse l'essenza, quale il futuro loro destino, sono argomenti me quali la metafisica, e spezialmente la pneumatologia, non hanno risparmiato ipotesi e congetture. Ma se la conoscenza di noi stessi e della nostra limitata capa cità c'insinua ad essere modesti nel pre sumere, e circospetti nel pronunziare in torno alla natura della sostanza sensitiva e intellettiva che è in noi; più cauti an cora esser dobbiamo per rispetto a quei fatti che sono fuori di noi, e dequali giu dicar possiamo soltanto per gli effetti, o sia per la esperienza. Non potendo, se non per questa sola via delibare la cogni zione delle essenze delle cose, e degli Es seri, uopo è prima d'ogni altro racco gliere i fatti, da quali rileviamo, per una parte somiglianza, e per l'altra difformità tra l'anima umana e quella del bruti. Gli animali, che consideriamo come i più perfetti nell'organismo, hanno lo stesso numero di sensi esterni, e una facoltà sensitiva simile alla umana, dapoichè ri cevono dalle sensazioni le medesime im pressioni, e son dotati di moto volontario e di potenza attiva; ond'è che dispongono a loro volontà dell'uso delle loro membra, e fuggono, o attaccano ogn'inimico, com preso l'uomo, e deliberatamente operano in tutto quel che concerne la loro salvezza. Una somiglianza non minore traluce nelle meccaniche funzioni della vita ani male, nell'appetenza degli alimenti, nella digestione e negli organi digestivi, nella generazione e negli organi generativi, nel l'agitazione dell'amore, della gelosia, e di tutti gli appetiti animali. Simile ancora è la mutua influenza o correlazione tra queste meccaniche funzioni, e le interne impressioni dell'anima: la sorpresa inter cetta ad essi come a noi la respirazione: la paura suscita il tremore delle membra: il terrore estorque un freddo sudore, e muove inaspettatamente il ventre. Comune inoltre è quell'interno senso, che li muove e dirige alla conservazione del proprio essere, alla riproduzione della spezie, allo allevamento della prole, e alla conoscenza del rimedi atti a guarirgli di talune infermità, alle quali sono più esposti: sentono il piacere e il dolore: se guono quello, e fuggono questo come le più sicure guide del loro bisogni: manife stano l'uno e l'altro con segni esterni, e con voci inarticolate, le quali formano il loro linguaggio d'azione: con questo lin guaggio esprimono le gradevoli o spiace – 429 – voli impressioni delle sensazioni, manten gono le relazioni necessarie tra gli Esseri della medesima spezie, come delle madri verso i figli o degl'individui tra loro, per unirsi, o per avvertirsi reciprocamente di qualche pericolo che ad essi sovrasta. Co testo interno senso è quello cui diamo il nome d'istinto, che ne bruti tiene luogo di legge naturale. V. Istinto, Senso. Son pure gli animali capaci di abiti, che in essi formansi per la reiterazion delle azioni, e per lo ripetimento delle mede sime sensazioni; ond'è che acquistan co noscenza de luoghi, delle vie, de'ricoveri, e delle qualità degli altri Esseri o delle cose, loro utili, pericolose, o indifferenti. Conseguenza di tal capacità è la virtù, che alcune spezie di animali hanno d'imi tare il gesto, la voce, e persino la parola dell'uomo, o i gesti e la voce di altri tra loro. La natura ha nella generalità costituito gli animali in istato di rivalità tra loro. Per rispetto all'uomo talune spezie son ca paci di relazioni di attaccamento e di di pendenza; e talune altre, sebbene nemi che ed avverse, lo temono, e lo riconoscono tra gli animali come il solo, che abbia il potere di domarle e di soggettarle alla sua volontà. Le prime riconoscono il be nefizio e amano il benefattore, ricordano l'offesa, e fuggono, ed odiano l'offensore. V' ha tra queste di quelle, che tramu tando il sentimento di dipendenza in affe zione, dimenticano l'offesa, e la retribui scono colla benevolenza e coll'amore. Qual è l'uomo che non creda di avere a fare con un Essere capace di sentimenti morali, quando percuotendo e straziando il suo cane, lo vede ricorrere alle carezze e agli atti supplichevoli, onde rimeritare la be nevolenza del padrone? I portamenti del l'animale in quell'atto hanno un che di rispettoso e di filiale, il quale praticato da un uomo verso d'un altro uomo, me riterebbe il nome di amore, di generosità, o di virtù. Del resto ogni spezie di ani mali è capace di educazione, la quale ha il poter di vincere la forza del più vigorosi tra essi, di accostumargli ad azioni mec caniche contrarie alla fisica loro struttura, e di mitigare l'indole del più feroci, insino al segno di rendergli fedeli esecutori della volontà dell'uomo. Tal è il complesso delle qualità della sostanza sensitiva detta anima de'bruti, quando la consideriamo negli animali di più perfetto organismo, o sia nella classe devertebrati e de mammiferi, i quali son provveduti del nostri cinque or gani di sensi esterni, astrazion fatta dalla maggiore capacità e dalle attitudini mo rali, che la natura ha dato agli stessi cinque sensi dell'uomo. V. Organismo. Nelle spezie de bruti men perfette, la virtù sensitiva va scemando in proporzione del difetto di quei sensi esterni, dequali la natura gli ha privati, e gradatamente discende insino alla inavvertenza di qual sivoglia impressione, tranne quella del tatto, come me molluschi e ne zoofiti. In questi animali la virtù sensitiva viene quasi a confinare colla inerzia della materia. Ma volendo noi determinare in che l'ani ma sensitiva de'bruti differisca dall'anima razionale dell'uomo, conviene che la com parazione sia stabilita col massimo e non col minimo della sua potenza. Ora se dal quadro delle cennate qualità vogliasi desumere la facoltà dell'anima de bruti, è manifesto che non possiamo negarle la percezione, il giudizio dalla stessa inseparabile, e la memoria, sicco me tra le operazioni figlie della memoria dobbiamo in essi riconoscere gli abiti o – 450 - le assuefazioni involontarie e quasi mec caniche. Quì si fermano le loro qualità comprensive. . Le idee del bruti non escono dal parti colare: il generalizzare, l'astrarre, il for mare idee di qualità, o di relazione, il concepire l'idea del proprio essere, della esistenza, del possibile, del presente, del passato o del futuro, e il ragionare, son facoltà e conoscenze d'una natura supe riore ch'essi non possono acquistare per difetto non meno degli organi, che della potenza sensitiva. Le cennate operazioni della mente, essenzialmente appartengono alla sostanza intelligente, e costituiscono le doti proprie dell'umano intelletto. In che dunque l'anima sensitiva differisce dalla razionale? In tre essenziali qualità, che sono i tre caratteri discernitivi della sostanza intelligente: la coscienza, l'in telletto, la parola. Son queste le tre facoltà che formano il pensiero propria mente detto: la coscienza dà all'uomo la conoscenza di se medesimo, e fa del l'anima un Essere maggiore, destinato a dominare e dirigere il corpo, e non a secondarlo e ad obbedirgli : l'intelletto apre alla mente la conoscenza dell'univer sale, dell'invisibile, e persino dell'infinito: la parola le somministra i segni per for mare le idee e ragionare. I bruti in somma percepiscono, e l'uomo pensa. Così gli antichi, come i moderni meta fisici non hanno mancato di fare per l'ani ma de bruti quello stesso, che han prati cato per tutte le altre sostanze materiali ed immateriali della natura, argomenti cioè e congetture per iscoprirne o determinarne l'essenza. Taluni la elevarono al pari della sostanza intelligente; altri la depressero, insino a considerarla come una semplice macchina montata dalla natura; altri ne fecero una forma materiale, diversa del l'anima umana, cui esclusivamente attribui rono la qualità e la denominazione di spi rito; i meno presontuosi finalmente la defi nirono come una sostanza incorporea, e per conseguente semplice, ma non immortale. Nella prima opinione furono molti degli antichi tra quali Galeno, fondati nell'ar. gomento che il sentimento presuppone la conoscenza. L'opinione di costoro, che non pertanto ammetteva una differenza tra 'l conoscere e il ragionare, fu esage rata dal famoso Rorario, il quale diede agli animali una ragione non dissimile dalla umana e talvolta ancora più previdente. Della seconda furono antesignati Carte sio, lo spagnuolo Pereira, Malebranche e tutti i Cartesiani. Nella terza furono i pe ripatetici e gli scolastici. Nella quarta, Leibnizio e Wolfio. Noi non vogliamo rimescolare quì un argomento, trattato da Bayle, negli articoli Pereyra e Rorarius, con una erudizione , che nulla lascia a desiderare. Basta dire che a questi stessi articoli se ne riportò Leibnizio in una sua lettera a Kortholt, nella quale così reas sume la sua opinione: Ego bruta ani mam incorpoream habere arbitror, eam que non perituram, etsi immortalis dici non mereatur, quia eamdem personam non retinet, ut anima humana, quae conscientiam gestorum, seu memoriam sui conservat, atque ideo praemii et poenae est capaa ultra hane vitam. Sen tentiam hac de re meam Baylius dictio nario inseruit voc. Rorarius, adnota tionesque in eam dedit, quibus pro parte respondi in diario Basnagii. (V. i due articoli citati, e Leibnitz Op. omn. Edit. Dutens T. V. pag. 321. ). La dottrina che noi professiamo è, che le ricerche intorno alla essenza dell'anima – 451 – de bruli sieno tanto vane ed inutili, quanto quelle della essenza della materia e dello spirito, e che la sana filosofia debba li mitarsi a quelle sole conclusioni, le quali nascono dalla osservazione e dallo studio de'fatti, La potenza sensitiva non è certamente corporea, perchè il moto volontario, la forza, e l'azione non possono trovarsi nella materia ma nascer debbono da un principio, o da una sostanza superiore per se stessa attiva e capace di volontà. La cennata potenza è comune all'uomo, nel quale non solamente non si confonde colla facoltà intellettiva, ma è a questa subor dinata e soggetta. La natura ha stabilito tra l'una e l'altra limiti sì certi, e carat teri tanto discernibili, che escludono qua lunque analogia tra loro: il sensitivo ap partiene all'ordine delle cose terrene: il razionale e l'intellettivo alle celesti: al l'Essere sensitivo la natura ha negato la conoscenza di se medesimo e la vista del futuro: alla mente dell'uomo ha dato, non solamente la nozione del proprio es sere e la vista del futuro, ma le ha aperto ancora la cognizione della prima causa di tutte le cose, dell'ordine dell'universo e delle leggi che lo reggono. In queste leggi sono a chiare note scritti i fini della esistenza del bruti, e quelli del la vita dell'uomo. Sieno questi i termini delle investigazioni filosofiche, oltre i quali trovasi l'impenetrabile mistero della volontà e della sapienza del Creatore. V. Intelletto, Intelligenza. . - SENso (spec. e prat.), organo corpo reo, per mezzo del quale l'anima cono sce le cose poste fuori di se, e Potenza dell'anima, per la quale si co noscono le cose corporee presenti. Son questi due significati diversi, che tanto l'uso del comune parlare quanto il linguaggio scientifico danno al vocabolo senso, e del quali uno esprime l'instru mento o il mezzo per lo quale sentiamo, l'altro, la virtù stessa del sentire. Intorno a ciascun di essi giova fare talune avver tenze per avere nozioni esatte così delle sensazioni, come della potenza sensitiva. Quanto alle sensazioni, gli organi dei sensi sono gl'instrumenti necessari, che la natura ci ha dato per acquistare la co noscenza degli obbietti esteriori. Ma nel ministerio ch'essi ci prestano, uopo è non confondere l'obbietto che per mezzo loro conosciamo, e il subbietto o la sostanza, che ne acquista la conoscenza. Quanto all'obbietto, non è alcuno che non lo distingua e non lo creda diverso dall'organo del senso. Vuolsi soltanto av vertire, che per le cose poste fuori di noi, la conoscenza che ne acquistiamo è rela tiva alla condizione del nostri organi, e per conseguente è limitata dalla situazione, in cui ci troviamo, dalla distanza alla quale le guardiamo, e dalla capacità stessa decennali organi. La visione dunque (e lo stesso può dirsi dell'udito, dell'odorato, e del tatto) prende tanta parte dell'ob bietto visibile, quanta corrisponde a mezzi che ha di vedere. Quel che vede è vero e reale, ma non è tutto quel che è negli obbietti veduti : de corpi solidi vede la superficie: de'corpi lontani vede la gran dezza apparente: degl'infinitamente piccioli non vede quello che per la sua picciolezza non lascia nell'organo una impressione chiara e distinta. Degli obbietti esterni insomma la conoscenza è limitata dalla capacità degli organi del senso, la quale è stata dal Creatore adattata all'uso ed allo scopo della esistenza. Una tale limi – 432 - tazione ci ricorda la condizione del nostro essere finito, ma non può mai farci du bitare della realità degli obbietti esterni, perchè l'esistenza loro è fondata sopra que gli stessi innegabili fatti, pe quali non solamente siam certi della propria esistenza ma giudichiamo essere contraddittorio ed impossibile il supporre che noi non esi stessimo, mentre sentiamo di esistere. Quanto poi alla sostanza che è in noi, e alla quale l'organo serve d'instrumento, per acquistare la conoscenza dell'obbietto esterno; sarebbe del pari contraddittorio e assurdo il confonderlo coll' organo stesso. La conoscenza che acquistiamo d'una cosa posta fuori di noi, è l'atto di un Essere che ha la capacità di sentire e di cono scere: non è l'occhio che vede, ma siam noi che vediamo. E quando le lenti na turali dell'occhio non bastano alla visio ne, e da noi si ricorre all'aiuto d'un te lescopio, non è il telescopio che vede, ma siam noi che vediamo, mediante un dop pio, instrumento, il naturale cioè e l'ar tifiziale. L'occhio è una macchina, mera vigliosamente congegnata, atta a refra gnere i raggi della luce, e a formare sulla retina una immagine distinta dell'obbietto, ma esso non vede nè l'obbietto nè l'im magine: separato dalla testa, può formare una immagine ma non può produrre una visione: e lasciato al suo posto, formerà pure l'immagine dell'obbietto, ma non basterà a produrre la visione, se il nervo ottico abbia perduto l'attitudine a rendere compiuta la sensazione. Se fosse vero che nell'occhio risiede la facoltà di vedere, e nell'orecchio quella di sentire, e così negli altri sensi; ne seguirebbe, che il principio pensante, o sia l'io, non sarebbe uno, ma moltiplice, il che è per ogni verso assurdo; dapoichè sarebbe vero, che una parte della materia che vede, un'altra che sente, una terza che tocca, possano for mare un medesimo ed unico Essere che Sente e COnOSce. Coteste verità sono sì evidenti, che alla generalità degli uomini di sano giudizio, sembra strano il soggettarle a disamina e a pruova: diremo ancora che molti ri sguardano tali dimostrazioni come un lus so, o una vana pompa della scienza; e tale per verità sarebbe, se la sperienza non avesse a più riprese dimostrato, che non è stranezza di opinioni, che entrar non possa nella mente umana. Cicerone fece questa dimostrazione per gli antichi materialisti, noi la riproduciamo pe'mo derni fisiologisti. (Tusc. lib. I. Cap. XX.). Giova ancora alla chiarezza della nozione della percezione, stabilire chiare idee ele mentari delle funzioni degli organi dei sensi. In questa operazione dell'animo con vien distinguere tre fatti, i quali proven gono da Esseri diversi, l'obbietto esterno, l'organo materiale che ne riceve l'impres sione, e la sostanza, o lo spirito, che ne acquista la conoscenza. Noi abbiam già veduto nell'articolo percezione, di quanta importanza sia il distinguere i tre dinotati fatti, V. Percezione, Passando ora al secondo significato che diamo allo stesso vocabolo, chiamiamo an cora senso la virtù di sentire, e sin qua non v'ha che un semplice trasporto della parte al tutto, figura usuale del discorso, la qua le non produce alcuna ambiguità. Ma fac ciamo ancorà di vantaggio, perchè scam biamo la virtù di sentire colla facoltà di conoscere, e per una similitudine ricavata da sensi esterni, chiamiamo senso inter no, tanto la potenza sensitiva dell'anima, quanto la intellettiva. Stabilita così la pro miscuità del vocaboli nel sentire, nel co - 155 - noscere, nel comprendere, e nel riflettere; non è facoltà, operazione, o qualità del l'animo, alla quale non abbiamo indistin tamente applicato la voce senso. Di quale diverse denominazioni di senso interno o intimo, di senso comune, di senso mo rale, a ciascuna delle quali il linguaggio scientifico è obligato di dare un certo e diverso significato. Senso interno è in generale la virtù di sentire, o la potenza sensitiva, comune all'uomo e al bruti. V. Sensitivo. Un significato più speciale diamo alle voci senso intimo, perchè per esso dino tiamo la facoltà propria dell'anima razio nale, per la quale questa conosce se stessa e gli attributi suoi, significato equivalente di quello, che diamo alla interna vista dell'anima. Cotesto senso abbraccia tutta la sua virtù intellettiva, cioè il riflettere, il ragionare, il comparare le idee, il co noscerne le relazioni, e l'ordinarle, da qualunque origine provengano, da sensi esterni, o dalla sua propria intuizione ; e serve a distinguere le facoltà della ra gione le une dalle altre, a graduare la certezza che le accompagna, a misurare e a valutare le imperfezioni o gl'impedi menti degli esterni organi de sensi, e a giudicare di tutte le cause dell'errore. V. Intuizione, Ragione. Il senso intimo suol essere scambiato colla coscienza, ma la nozione di que sta facoltà de essere da quello distinta. E comechè il senso intimo sia insepa rabile dalla ragione e dalla coscienza, purtuttavolta la nozione semplice che di esso ci formiamo, non comprende tutti gli attributi della coscienza, che è per noi una nozione complessa, comprensiva di molte e simultanee operazioni, come il giudizio antecedente e susseguente al l'azione, la ricordanza delle azioni pas sate, la sinderesi ec. V. Coscienza, Fa coltà. - Locke riconobbe il senso intimo nella riflessione, e lo limitò alle conoscenze che l'anima si forma sopra le idee acquistate da' sensi ; vale a dire non lo riconobbe come sorgente di conoscenze proprie del l'animo. V. Riflessione. -Senso comune, è una denominazione di qualità, dinotante il retto giudizio na turale, comune alla generalità degli uo mini, che non nasce dallo insegnamento, e che non è depravato dalle false dottrine. Giambattista Vico lo definì, un giudizio senza riflessione, sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, o da tutto l'uman genere; o sia il criterio insegnato alle nazioni dalla Provvidenza Divina per definire il certo intorno al Diritto. Una tal definizione è relativa e particolare alla origine del diritto, ma può essere ap plicata a qualunque altra parte dell'umana cognizione. Più generale è la definizione di Pascal, secondo il quale il senso co mune è la conoscenza del principi, che il ragionamento non può dimostrare nè contrastare; dapoichè i principi si vedono a differenza delle proposizioni, che sono dimostrabili. La cennata denominazione è venuta in maggior uso, dacchè i para dossi filosofici cominciarono a rendere di scettabili le verità più evidenti. Il padre Buffier chiamò filosofia o dottrina del senso comune quella che stabilisce per fondamento del suoi teoremi le prime ve rità, o sieno le verità intuitive della ra gione, e formò di queste i principi ele mentari dell'umana cognizione. Questa è la filosofia che Reid e Stewart chiamarono filosofia dello spirito umano. V. Filoso fia, Principio, Verità. 55 In fine senso morale, è stato da molti denominata quella virtù, che l'anima ha di discernere l'onesto e il giusto, e che come fiaccola della natura rischiara e di rige i nostri giudizi, a rispetto delle azioni e de pratici portamenti della vita. Hutcheson, volendo dare alla dottrina di Locke (che riferiva tutte le idee alla sensazione come a loro unica sorgente ) una spiegazione che salvar potesse l'origine delle idee morali, o sia l'assoluta verità ed immutabilità delle distinzioni morali, chiamò senso morale o interno una par ticolare virtù di percezione, per la quale l'anima concepisce le idee morali. A que sto modo, equiparò egli il senso interno agli esterni, o sia aggiunse un novello or gano a quelli di Locke, interdicendo sem pre all'intelletto la virtù di creare idee semplici. Ma la sua dottrina, parve a molti, che riducesse le nozioni dell'one sto e del giusto a prette impressioni, che l'anima riceve dalla vista di talune azioni, per una simpatia, o avversione istintiva, della quale non si potesse rendere ragione alcuna. Ad evitare tali ambiguità, determinando il significato del senso morale, diciamo essere lo stesso senso intimo, in quanto dirige le determinazioni della volontà, dà la norma alle azioni, e presiede a nostri giudizi intorno alla qualità delle medesi me. Da esso attigniamo le giuste nozioni della obligazione e del dovere. V. que ste voci. SENSUALE (prat.), quel che vien dal senso, o al senso appartiene. E proprio del piacere e delle vane di lettanze del sensi, o sia della viziosa con cupiscenza. E però non è da usarsi nel si gnificato di dottrina puramente speculativa. SENSUALITÀ (prat.), tenace attaccamento agli stimoli desensi e degli appetiti sensitivi, SENTENza (disc. e prat.), motto breve e arguto, approvato comunemente per vero, Nel suo primitivo significato, questo vocabolo non esprime se non il concetto dell'animo, manifestato con parole. Tal'è la definizione di Quintiliano: sententiam veteres, quod animo sensissent, voca veritmt. . L'opportuno uso delle sentenze racco glie la luce della verità sparsa negli ar gomenti del discorso, e serve quasi a con centrarla, per darle una forza maggiore. Sentenze morali son dette le massime raccolte dalla sperienza della vita, le quali ricordano in brevi detti, quel che convien praticare, o evitare. Dell'uso di queste sentenze ne discorsi oratori parla Cicerone ne' suoi libri retorici: hujusmodi senten tiae simpliees non sunt improbandae, propterea quod habet brevis expositio, ei rationis nullius indiget, magnam de» lectationem. Ma egli stesso inculca all'ora tore la sobrietà nell'adoperarle : senten tias interponi raro convenit, ut rei acto res, non vivendi praeceptores esse vi. deamur (ad Herenn. lib. IV. Cap. 17). In questo senso scambiasi coll'aforismo e colla massima. V. queste voci. SENTIMENTo (spec. e prat.), l'atto per lo quale l'anima avverte le impressioni fatte nel corpo, o il conoscere per la via de'sensi.V. Im pressione, Senso, o il senso e la facoltà di sentire. E in significato traslato, facoltà di co noscere quel che avviene nell'interno del l'animo. È vocabolo di moltiplice significato, o – 455 - perchè si trasporta dalla parte al tutto, o perchè si scambia il sensitivo coll'intellet tivo ; sì che i suoi significati son tanti, quanti son quelli, di cui è capace la voce senso, colla quale spesso si confonde. E però il nostro Francesco da Buti, traspor tando nella lingua italiana l'aforismo dei sensisti, nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu disse: niuna cosa è nell'intelletto, che non sia stata prima nel sentimento. Si adopera per intelletto, o senno, per divisamento d'animo, o opinione, per for za o bellezza di concetto, per istinto, per affezione, o per passione. V. queste voci. Tutti gli anzidetti significati sono spie gazioni delle varie accezioni che gli dà l'uso, ma il vocabolo è per se stesso in definibile, come il sentire da cui deriva. “SENTIRE (spee. prat. e dise.), avver tire le impressioni, che il corpo riceve, o apprendere e conoscere per via di sen si, tanto in comune, quanto per via di ciascheduno. V. Senso. Il sentire è una delle due principali fa coltà dell'anima, giusta la partizione fat tane da Platone: il sentire e il pensare. V. Anima. È uno de vocaboli incapaci di logica definizione, perchè esprime un'idea sem plice, la quale non può essere svolta in altre idee più elementari e più chiare. Dalla virtù sensitiva del corpo si tra sporta alla facoltà intellettiva dell'anima, e però vale conoscere, giudicare, avere opinione, e ricevere ogni sorta di modi ficazione che proviene dagl'istinti, dagli appetiti, dagli affetti, e dalle passioni. V. queste voci. Alla varietà di tanti significati si aggiu gne ancora la sua varia costruzione, es sendo adoperato sì nell'attivo, che nel neu tro, e nel neutro passivo. - - - SERENITÀ e SERENo (prat.), traslato della chiarezza del cielo e dell'aria senza nuvoli, che si applica all'interno godimento del l'animo, non turbato da alcuna cura o sollecitudine. - - º SERIE (spee. e dise. ), continua suc cessione di verità, o di proposizioni, che hanno una qualche relazione tra loro; così disposte, o per mostrarne la connessione, o per dedurne una ultima conseguenza. I matematici chiamano serie una pro gressione di quantità crescenti o decrescen ti, per lo più, secondo una data legge. D'ordinario le serie procedono all'infinito, e quando le quantità o termini, che le compongono son decrescenti in modo, che vadano continuamente avvicinandosi ad un limite, le serie diconsi eonvergenti. Che se i termini crescano indefinitamente, le serie sono divergenti. V. Infinito. SERvAGGIo e SERvIrù (prat.), condizione dell'uomo, cui per fatto di un altro uomo, si toglie o si restrigne l'uso delle sue na turali facoltà. - La condizione servile nasce dalla infra zione del primo del doveri imposto all'uo mo verso de simili suoi: idea correlativa della servitù è la padronanza, o sia il dominio, che il padrone acquista sulla persona del servo; dominio introdotto non dal diritto, ma dall'abuso della forza ma teriale ; dominio illegittimo perchè cade sopra di un Essere incapace di essere pos seduto da altri; che toglie all'uomo la qualità di agente morale; che lo priva della sua natural dignità; che gli toglie la personalità, e lo assimila a bruti, co ar - - 456 – stituiti per loro natural condizione sotto la potestà dell'uomo. Ciò non ostante l'egoismo umano si per mise di soggiogare i diritti d'una parte della propria spezie, ed introdusse ogni sorta di servitù, dalle minime insino alle massime privazioni delle naturali facoltà de soggiogati. Cotesta enormità fu cangiata in diritto e non solamente divenne la legittima con dizione del vinto per rispetto al vincitore, ma formò una legge fondamentale dell'or dine civile delle antiche nazioni. Il cristia nesimo, cui son dovuti i veri principi della civiltà, fece scomparire la servitù, e re stituì all'uomo la sua pristina dignità. I resti della condizion servile, che talune nazioni ancora conservano, sono una ma nifesta pruova del recente loro incivilimen to, e della difficoltà che sempre si scontra nel riformare le viziose istituzioni, le quali si son cangiate in abiti e in usanze. Quelli tra popoli barbari che rimasero fuori della comunione de'doveri della uma nità e della fede cristiana, riprodussero una durissima servitù, che prese il nome di schiavitù. L'esempio loro tornò a con taminare l'europea civiltà e per due vie tirolla al male. Da una parte la ripresa glia parve giustificata dalla reciprocazione del diritto della guerra; e dall'altra il volontario mercato ch'essi facevano di loro stessi, sembrò essere un giusto motivo per formarne un capo di commercio e d'in dustria. Alla perfine il sentimento della umanità ha trionfato dell'avidità e dello spirito mercantile. Le nazioni europee han no arrossito così del fare un traffico sì vi tuperevole, come dell'averlo per sì lungo tempo fomentato. Il presente diritto publico non riconosce per legittima altra servitù, se pur così possa chiamarsi, se non la cattività di guerra, o la prigionia per cagion di reato: la prima nasce dalla necessità di difender se stesso e di to gliere all'inimico i mezzi dell'offesa: la seconda dalla perdita del diritti naturali, o civili, che la legge impone per pena, e a cui il delinquente per proprio fatto si sottopone. Le privazioni annesse alle due divisate spezie di cattività, son de terminate dal fine, che ciascuna di esse si prefigge. Ogni maggior privazione, che s'impo nesse alle persone del cattivi, fuori del fine, o della publica sicurezza, o degli effetti salutari della pena, sarebbe un atto inumano, contrario a principi della leg ge di natura e a precetti della religione. V. Schiavitù. SEVERITÀ (prat.), qualità d'uomo che esige l'adempimento d'ogni, benchè mi nima obligazione. V. Obligazione. È alquanto meno della rigidezza e del rigore, che addita un che di durezza, an che ne modi. V. Rigidezza. SFAccIATAGGINE e SFACCIATEzzA (prat.), disonestà che non teme o cura vergogna. V. questa voce. ScoMENTo (prat.), sentimento di non poter vincere una difficoltà, che si oppone al nostro desiderio. V. questa voce. SICUREzzA (spec. e prat.), sentimento, che ci rende certi d'un fatto, o d'una ve rità qualunque. Scambiasi talvolta collo stato dell'ani mo, e talvolta ancora colla convizione della verità; in ciascuno del quali casi prende il significato dell'assicuranza e del la certezza. V. queste voci. – 457 – SILLABA (disc.), suono articolato che è elemento della parola, e formasi da una sola vocale, o da una vocale unita a consonanti. I gramatici han molto disputato intorno alla esatta definizione della sillaba, come chè niuno ignori che essa sia, e come si formi. Ognun sa, che in un vocabolo v'ha tante sillabe, quante sono le vocali, che il numero delle sillabe distingue i vocaboli monosillabi, da dissillabi, da'trissillabi, e da polisillabi; e che lo stesso numero delle sillabe serve di misura a versi in quelle lingue, delle quali il metro non è fon dato nella quantità. V. Metro, Quantità, Vocale. SILLEssi (disc.), una delle figure prin cipali del discorso, per la quale si conce pisce il senso devocaboli, non per quello che letteralmente importano, ma per quel che l'autore del discorso ha inteso dire. V. Figura. È stata così denominata, quasi che per essere compresa ha bisogno non del sem plice ministero del sensi, ma della conce zione dell'ascoltante, o del lettore. Per la stessa ragione i gramatici han chiamato sillessi la concordanza del verbo o dell'addiettivo, non colla voce che gli è più vicina, ma col subbietto principale del discorso; appunto perchè dee l'inten dimento supplire alla materiale giacitura delle parole. Taluni ancora, come lo Sciop pio, l'hanno distinta in semplice e rela tiva: semplice, quando i termini del di scorso non si accordano o nel genere o nel numero, o in ambedue insieme: re lativa, quando il pronome relativo si ri ferisce ad un antecedente che non è es presso, ma che noi concepiamo per lo senso stesso del periodo. SiLLogisMo (dise.), discorso, o argo mento composto di tre proposizioni, delle quali la terza è dedotta dalle due prece denti. - Scopo del sillogismo è il trovare una verità ignota per mezzo d'una relazione che questa abbia con un'altra verità nota, o sia il formare un giudizio affermativo o negativo intorno alla convenienza o di sconvenienza del predicato col subbietto. V. queste voci. Per formare un tal giudizio, la mente paragona una nuova idea colla già nota, dalla quale risulti, che l'idea della terza proposizione è compresa nella prima. Que sta novella idea, che serve di termine di paragone, è quel che dicesi termine me dio. Così, nel sillogismo, ogni animale è mortale, ma l'uomo è animale, dun que l'uomo è mortale, si conchiude es sere l'uomo mortale per virtù della seconda proposizione, in cui si è stabilita la qua lità di animale, comune alla prima e alla terza proposizione. De tre dinotati termini, dequali è com posto il sillogismo, dicesi maggiore quello che esprime il predicato o l'attributo, che è un'idea universale; e minore l'altro che dinota il subbietto, il quale è un'idea particolare; e però maggiore chiamasi la proposizione che contiene il primo, minore quella che contiene il secondo: ambedue poi son dette premesse, perchè nell'or dine del ragionamento precedono la terza, che è detta conclusione o conseguenza. Il fine delle numerose regole che i logici han dato per la struttura de sillogismi, è che la conseguenza corrisponda esatta mente alle premesse. V. questa voce. Non è già, che un sillogismo debba necessariamente essere composto di tre sole proposizioni, e non possa averne un nu mero maggiore e talvolta anche minore; imperocchè quando la proposizione media non somministri quella relazione imme diata tra il predicato e il subbietto, di cui si va in cerca, uopo è andarla rintrac ciando in altre proposizioni, insino a che si giunga ad una, la quale unisca l'at tributo al subbietto. Ma in questo caso le diverse proposizioni, le quali enunciano il rapporto tra l'uno e l'altro, tengono il luogo d'una proposizione sola, o sia for mano tutte insieme il termine medio. Tal sarebbe la spezie del sillogismo, col quale per dimostrare che gli avari sono infelici, si dicesse: gli avari son tormentati da molti desideri: chi è tormentato da molli desideri, ha molti bisogni: chi ha molti bisogni, non può tutti soddisfargli: chi non può soddisfare tutti i bisogni, soffre molte privazioni: chi soffre molte pri vazioni è infelice: dunque gli avari sono infelici. Possono ancora i sillogismi contenere due sole proposizioni, e tali sono gli en timemi, ma in una delle premesse è sot tintesa l'altra. V. Entimema. Aristotele, negli analitici i quali for mano il suo organo logico, ci diede le due forme di ragionamento, per le quali si può pervenire allo scoprimento del vero, il sillogismo cioè e l'induzione. L'una procede dal generale al particolare, l'altra dal particolare al generale: la prima è la forma propria del ragionamento a priori; la seconda del ragionamento a posteriori: le differenze, che distinguon quella da questa, sono state da noi esposte nell'ar ticolo induzione. V. questa voce. Il sillogismo non pertanto, come primo instrumento dell'arte dialettica, fu la for ma favorita di Aristotele, e dopo di lui della scuola peripatetica, e della logica scolastica. Non solamente diede egli le re gole per la sua composizione, ma discenº der volle alla disamina di ciascuna delle sue parti componenti. Queste sono le pro posizioni, colle quali si afferma o si nega la convenienza del predicato al subbietto, e però vanno distinte per la qualità loro in affermative e negative. Se il suggetto d'una proposizione è un termine generale, la convenienza del predicato può essere affermata o negata in tutto o in parte: di qua l'altra distinzione, detta di quan tità, in proposizioni universali e parli colari: tutti gli uomini sono mortali, è una proposizione universale: pochi uo mini son dotti, è una proposizione parti colare. Combinando insieme la qualità e la quantità, le proposizioni tutte possono essere di quattro spezie, universali af, fermative, universali negative, partico lari affermative, e particolari negative. V. Proposizione. - - La meccanica costruzione del sillogismo è riposta nella conversione delle proposi zioni. Convertere una proposizione, vuol dire trasmutarla in un'altra che prenda per suggetto il predicato, e per predicato il suggetto. Se una proposizione può es sere conversa, senza cangiamento di quan tità, la conversione dicesi semplice, che se v'abbia diminuzione di quantità, allora la conversione dicesi essere negli accidenti. V. Conversione. - La diversa combinazione del termine medio ne sillogismi determina il genere loro: i generi da logici sono stati detti figure. Nella prima figura il termine me dio sta come suggetto della maggiore e come predicato della minore: nella seconda il termine medio è predicato della mag giore e della minore: nella terza il ter mine medio è suggetto così della maggiore come della minore: nella quarta il termine medio è predicato della maggiore e sug geſto della minore. Delle quattro dinotate figure le prime tre son di Aristotele, e la quarta di Galeno, dal quale prese la de nominazione di forma galenica. Ma ciascuna figura di sillogismo può variare per la qualità o per la quantità delle proposizioni, che entrano nella sua composizione: tali variazioni diconsi modi. Ora nascendo i modi dalle diverse com binazioni delle proposizioni universali o particolari, affermative, o negative; il numero di tali combinazioni, aritmetica mente calcolato, sarebbe in ogni figura di sessantaquattro; sì che le tre figure di Aristotele aver potrebbero cento novanta due modi, o spezie di sillogismi, e le quattro unite insieme, dugento cinquan tasei. Aristotele assegnò quattro modi alla prima figura, quattro alla seconda, e sei alla terza. Gli scolastici ne aggiunsero molti altri. I logici più accurati dimostra rono che la maggior parte di tali modi vengono da sillogismi non concludenti , e li ridussero a dieci soli, cioè quattro affermativi e sei negativi. Leibnizio cre dette aver trovato che ciascuna delle quat tro figure aver può sei modi, e però ne determinò il numero a ventiquattro. (V. la logica o arte di pensare di Arnaldo). Che diremo di questo apparato di cate gorie, di regole, di distinzioni e di bar bari nomi che opprimono la memoria ed inceppano la naturale facoltà del ragiona re? Bello e lepido è il concetto di Locke, cioè che Dio creando l'uomo non aveva inteso di fare soltanto un animale a due gambe, lasciando ad Aristotele la cura di renderlo ragionevole e discorsivo; ma avevalo dotato d'una facoltà capace di percepire, di ragionare, di conoscere la convenienza e la disconvenienza delle idee, facoltà che naturalmente si sviluppa e si perfeziona. A questa nota aggiugniamo ancora l'os servazione di Reid, che se da una parte si consideri il lento corso delle scienze du rante il tempo in cui la forma sillogistica fu risguardata come l'instrumento esclu sivo della ragione; e dall'altra si rifletta a rapidi progressi che le stesse scienze co minciarono a fare dal momento, in cui quella forma cadde in disusanza, una forte presunzione contro di essa nasce da tal paragone. Ma per non giudicarne sopra semplici presunzioni, qual è il frutto di quel logico apparato? Certamente il siste ma che abbracciar volle tutte le forme del ragionare, dando a ciascuna le sue regole, derivando queste da verità gene rali ed astratte, ed applicandole per via di distinzioni e di suddivisioni al pratico uso del ragionamento, fu l'opera d'un ingegno non solamente grande ma pro digioso; nè i difetti, che nella generalità delle categorie, e nelle partizioni possono trovarsi, formar debbono una ragione per isminuire l'ammirazione che riscuoter deb be un sì ardito disegno. Ma tanto lavoro fu speso per creare l'instrumento della scienza, e non la scienza stessa. Il ragio namento è un instrumento facile che la natura ci ha dato. Ora l'aver cangiato questo instrumento naturale per un altro artifiziale, il quale soggetta a regole cia scuna delle operazioni spontanee dell'in telletto, l'aver creato tante regole e tanti nomi, quante possono essere le cennate operazioni; l'avere reassunto le regole par ticolari per portarle ad un principio comu ne; e l'avere obligato la mente a seguire questa via, e non altra; fecero nascere un antemurale alla scienza, a superare il - 140 - quale conveniva impiegare le forze tutte dell'intelletto e della memoria, e spendervi una gran parte della vita. Il ragionamento in somma, maneggiato non come instru mento, ma come un'arte principale, servì a se stesso, e non alla scienza, divenne un instrumento vizioso, il quale faceva ag girare la mente sempre nello stesso cer chio, a guisa del cavallo attaccato alla ruota d'un mulino, che ritorna continua mente al punto d'onde è partito. Infine volendo anche misurare tutto il prodotto dell'arte sillogistica, per rispetto alle verità generali di cui ci procura la conoscenza, seguiamo col cennato autore l'analisi del le ultime conclusioni, alle quali ci condu cono le figure e i modi del sillogismo di Aristotele. Tutti si riducono alla seguente verità, cioè che tutto quel che si può affermare o negare d'un genere tutto intero, può ancora essere affermato o negalo di ciascuna spezie e di ciascun individuo, in quello contenuti, principio indubitato, ma non di tale profondità, che meritato avesse tanto lungo ed inutile la voro (V. Analyse de la logique d'Aristote). ll detto sin qua intorno alle regole su perflue, delle quali vestivasi la forma del sillogismo, nulla detrae alla sua utilità, considerato come instrumento di dimostra zione. Locke par che lo condannasse in odio delle massime e deprincipi generali, dei quali aveva abusato la scolastica filosofia; e credette di suggerire una diversa forma di ragionare, proponendo ad esempio il matematico ragionamento. Ma in che le dimostrazioni della sintesi matematica son diverse dalle logiche; e quale altro cam mino seguir potrebbe la mente nel pas saggio dalle verità generali alle particolari? Lasciamo dunque il sillogismo alla dimo strazione, e ad ogni altro ragionamento diretto a scoprire le relazioni del subbietti coloro predicati, limitando le regole logi che a precetti necessari a stabilire l'esatta corrispondenza delle conseguenze con le loro premesse. V. Dimostrazione, Logica. SILLoGIzzARE (disc.), il fare raziocinio per via di sillogismi. SIMBoLrco (erit. e dise.), quel che è espresso per simboli. V. questa voce. Ogni dottrina può divenire simbolica, se in vece di esser esposta ne'suoi propri termini, venga figurata sotto allegorie, emblemi, parabole o enigmi. E però chia miamo sapienza simbolica quella degli Egizi, de Persiani, e di altri popoli orientali che ebbero per costume di coprirne l'insc gnamento col velame delle figure; e mitolo gia simbolica, il senso figurato delle favole del paganesimo. V. Mitologia, Sapienza. ASimbolica parimenti dicesi l'arte d'in terpretare i segni allegorici e ogni sorta di caratteri figurati, i quali formano il tecnico linguaggio di taluni altri, come i geroglifici degli Egizi, gli emblemi del l'araldica, i segni e le figure rappresen tative della numismatica, e i segni alle gorici degiuristi, pe'quali si dà o si riceve fittiziamente una cosa, che non potrebbe essere materialmente consegnata; o si ma nifesta per un segno convenuto un dato proponimento dell'animo; ond'è che giu risprudenza simbolica è stata denominata quella parte del diritto sì publico, che pri vato, nella quale taluni atti legittimi ven gono espressi per mezzo dedinotati segni. V. Segno. SIMBolo (disc. e spec.), segno di cosa materiale, scelto per rappresentare un concetto, intellettuale o morale che sia. – 441 – È nome generico che comprende ogni sorta di segno, al quale si dà un senso convenuto, ma diverso dalla cosa signi ficata. Gli emblemi per conseguente, le allegorie, le immagini e le figure in ge nerale sono simboli, quando nascondono un senso diverso da quello che per loro stesse dimostrano. Le immagini e i simboli han formato la prima lingua scritta dei popoli, che avevano perduto l'uso della scrittura alfabetica, e che tramandar vo levano alla posterità i loro pensieri, o la ricordanza del propri fatti. Laonde la pri ma storia, per le nazioni illetterate, tro vossi scritta ne simboli, e negli emblemi, l'interpretazione dequali divenne nelle se guenti età una sorgente di ambigue e di false interpretazioni. È questa una delle ragioni, che involse nella favola la storia delle prime età del paganesimo, e che empiè di doppi sensi le loro mitologiche figure, V. Favola, AScrittura, SIMILARE (spee.), il simile omogeneo. È vocabolo che ci viene dal francese, in trodotto da fisici e da metafisici, per espri mere le parti d'uno o di più corpi della medesima natura. Comechè gli manchi la desinenza italiana, esprimendo una idea complessa del simile e dell'omogeneo, ma diversa dall'uno e dall'altro, uopo è ri tenerlo, insino a che l'uso non glie ne abbia sostituito altro. V. Simile. SIMILE e SIMILITUDINE (spee. disc. e crit.), idea di relazione tra due cose che conven gono in talune delle loro qualità, come chè differiscano in altre. V. Relazione. I matematici chiamano simili le cose, in ognuna delle quali si trova tutto quel che è nell'altra, tranne la quantità, in cui ripongono la differenza delle cose si mili. E però chiamano simili le parti che sono nella stessa ragione degl'interi, o son tra loro come gl'interi; simili i trian goli, che hanno gli angoli rispettivamente eguali l'uno all'altro, e quindi i lati son proporzionali, ma non eguali; simili i ret tangoli, e in generale i poligoni che negli angoli eguali hanno i lati proporzionali. Non potendo dunque le cose simili differire tra loro, se non per la quantità, gli anti chi matematici non ammisero altro mezzo per discernerle, se non il principio della congruenza. Leibnizio introdusse il prin cipio della similitudine, altrimenti detto degl'indiscernibili, per lo quale le cose simili son distinte a rispetto della loro es senza. V. Congruenza, Indiscernibile. Il significato che la filosofia speculativa e la discorsiva danno al vocabolo simile, è più indeterminato e men rigoroso di quello del matematici; il perchè si scambia spesso coll'apparente, e differisce essenzial mente dall'eguale, che dicesi delle cose, le quali sono della medesima sostanza, e della stessa qualità, e quantità. E siccome per sostanza intendiamo il subbietto nel quale risiedono le qualità che formano l'es senza di ciascuna cosa; così è manifesto che la perfetta eguaglianza può trovarsi negli Esseri semplici, e non ne materiali o composti, ne quali non si dà identità di natura, nè parità di perfezione. Laonde nel linguaggio metafisico l'eguale conviene alle sostanze immateriali, ed il simile alle materiali o sensibili. V. Eguale, Sostanza. SIMMETRIA (spee. e crit.), disposizione delle parti d'un tutto con analogia d'or dine e di proporzioni, per modo che dalla loro unione risulti la regolarità e la bel lezza della sua forma. 56 – 442 – È proprio delle opere materiali, eseguite con geometriche proporzioni ; ma per si militudine si trasporta ad ogni lavoro in tellettuale, nel quale concorrano insieme i pregi dell'ordine, della chiarezza, e della brevità. Nell'accordo di questi tre requisiti è riposta la regolarità o l'eleganza della forma che noi diamo a pensieri: l'ordine dispone le idee secondo le naturali loro relazioni: la chiarezza le rende compren sibili, e facili: la brevità ne riseca il su perfluo. V. Ordine. SIMPATIA (prat.), affezione istintiva o razionale, per la quale giudichiamo favo revolmente di taluno, e siam disposti a desiderare ea fare il bene per lui. V. Af fezione. La simpatia è un principio d'azione, più potente della semplice affezione, perchè può nascere tanto dall'affezione istintiva, quanto dalla razionale. Puramente istintiva è la simpatia che nasce dalle apparenze del bello e del buo no. Razionale è quella che ispira la so miglianza delle qualità dell'animo. Mista dell'una e dell'altra è quella che nasce dalle affezioni della famiglia, e dalla con suetudine della vita. V. Amicizia. SIMULARE e SIMULAZIONE (prat.), il mo strare il contrario di quel che l'uomo ha nell'animo e nel pensiero, o sia fingere quel che non è. V. Finzione. È diverso dal dissimulare, che importa soltanto il nascondere il proprio pensiero. V. Dissimulazione. SIMULTANEo ( spec. ), quel che viene dal concorso di più cause nella medesima azione. È termine adoperato da Magalotti, ed è necessario al linguaggio filosofico.V. Azio ne, Causa. SINCRETISMo (crit.), mistura di contrarie dottrine, alle quali si dà forma di sistema. Sincretisti furono i nuovi platonici ales sandrini, i quali pretesero conciliare in sieme le dottrine di tutte le scuole greche ed indiane; e tali sono tra moderni quelli che senza discernimento, confondono dot trine figlie di contrari principi. SINDERESI (prat.), il senso della co scienza, che rimorde l'uomo e gli fa ri conoscere i falli commessi. V. Coscienza. SINGoLARE (spec. e disc.), ogni cosa considerata, per quel che è in se stessa, senza relazione ad altra. È proprio dell'individuo e non della spezie, nè di altra qualità, che possa essere considerata comune ad altro sub bietto ; nel che differisce dal particolare. V. questa voce. SINTAssi (disc.), l'ordinamento del vo caboli del discorso, secondo le regole del linguaggio. Molti grammatici han preteso, che si distinguesse la sintassi dalla costruzione, comechè l'uno e l'altro vocabolo, per la sua etimologia, esprima la medesima idea. Del resto, essendo il significato del voca boli determinato dall'uso, si può senza inconveniente attribuire alla sintassi quello dell'ordine analitico del discorso, e consi derare la costruzione come la regola fon damentale del medesimo. V. Costruzione. SINTESI (disc. e crit.), arte di dimostrare con metodo diretto la verità trovata prima per altra via con l'analisi. - 445 – È questo il metodo di Euclide e degli antichi geometri, che vien considerato co me l'inverso dell'analisi. Appartiene per conseguente al ragionamento a priori. suo principale instrumento è il sillogismo. V. Analisi. E avvenuto al vocabolo sintesi quello stesso che notammo per l'analisi, cioè che i logici, i geometri, i fisici, e i meta fisici gli hanno dato un significato diverso. I logici diedero questo nome al ragiona mento diretto e propriamente al sillogismo. l geometri nascondendo la forma del sil logismo, ma allo stesso modo ragionando, chiamaron sintesi quel genere dimostra tivo di teoremi, per lo quale passando da una proposizione dimostrata all' altra, si perviene alla conclusione, o sia alla ve rità particolare di cui vassi in cerca. I fisici intendono per sintesi quel metodo, che dalle cause già scoverte e ammesse come principi, spiega i fenomeni che ne sono gli effetti. Kant chiamò sintesi la composizione o l'accessione di più rappresentazioni tra loro diverse; in chiarimento della qual deſi nizione giova ricordare, che egli ridusse a due i modi dell'operar della mente, all'analisi e alla sintesi, facendo consi stere la prima nello scomporre una rap presentazione complessa ne suoi costitutivi elementi; e la seconda, nel congiungi mento di più rappresentazioni insieme. Sopra tali definizioni fondò il cennato au tore la famosa sua distinzione del giudizi sintetici e analitici. V. Giudizio, Rappre sentazione. Riportando noi tutte le forme di ragio namento alle due indicate da Aristotele e da Bacone, cioè al sillogismo e alla in duzione, e dando quello alla sintesi, e questo all'analisi; veniamo per conseguente ad ammettere il significato logico, come proprio e caratteristico della voce sintesi, e considerar questo per lo metodo, per lo quale coll'aiuto delle verità generali di mostriamo le particolari in quelle comprese. V. Induzione, Sillogismo. La sintesi per le cose dette, ha maggior analogia colle scienze positive o dimostra tive, che colle scienze naturali, così det te, o sia colla filosofia sperimentale fon data sopra l'osservazione de fatti partico lari; ma non può dirsi privativa di quel le o estranea a questa, dapoichè la ri cerca della verità spesso esige il promiscuo uso dell'uno e dell'altro metodo. Ciò non ostante Condillae e i seguaci suoi condan narono il metodo sintetico nelle scienze intellettuali, in odio delle proposizioni ge nerali, degli assiomi, e delle forme sillo gistiche. Ma condannando un tal metodo, vennero a condannare altresì la severa di mostrazione, e tolsero all'analisi la sua compagna ausiliaria. In somma esagera ron tanto i principi della filosofia speri mentale, che interdir vollero alla razio male per sino il mezzo di dedurre le verità particolari dalle generali. V. Assioma. SINTETIco (disc. e crit.), che appar tiene alla sintesi. Metodo sintetico è stato detto l'ordine che serba la sintesi nel procedere dalle verità generali alle particolari. Un tal me todo fu detto nelle scuole a priori, perchè parte da principi della ragione. V. Priore. Niuno meglio di Aristotele, ne suoi ana litici posteriori, ha dimostrato l'utilità del doppio metodo, del sintetico cioè e dell'analitico, e quel che ciascun de'due ha di peculiare. Se si tratta di dimostra re, partendo da un principio universale, assoluto e per se stesso evidente (che vuol º – 444 – dire indimostrabile) deesi per mezzo del sintetico pervenire alla conoscenza del par ticolare, del relativo, e del contingente. Laddove poi trattisi di definire, convien procedere dal particolare, o sia dagl'in dividui, e paragonandogli insieme, rile vare il comune e il vario tra loro, for mare le spezie, e da queste comporre il genere, nel che consiste l'analitico, o a posteriori. Quel metodo insomma conviene più alla dimostrazione e alla scienza già formata: questo alla osservazione e alla invenzione. V. Posteriore. Queste definizioni dimostrano quanto ben conoscesse Aristotele l'uso di ambo i metodi, e spezialmente del sillogismo e della induzione. V. queste voci. Kant chiamò sintetici a priori i giudizi che la mente forma congiungendo insieme più rappresentazioni.V. Giudizio, Sintesi. SISTEMA (spee. crit. disc. e prat.), dot trina, di cui le parti sono insieme coordi nate, per una catena di principi e di con clusioni, delle quali ognuna dipende dal l'altra. Ogni sistema presuppone un principio generale, o una verità di fatto fondamen tale, da cui derivano le altre. Il principio o il fatto, assunto come fondamento di tutta la dottrina, può esser vero, verisi mile, o dubbio; il perchè i sistemi son di due sorte, razionali o ipotetici. Tal volta ancora, essendo vero il principio o il fatto fondamentale, incerte sono le sue deduzioni, sì che un sistema può comin ciare dal razionale, e finire all'ipotetico. Di qua apparisce manifesta la differenza tra l'ipotesi e il sistema, che molti han confuso. L'ipotesi non è, che un princi pio assunto come vero, il quale insino a che non sia dimostrato, rende condizionali tutte le conclusioni, che da esso si dedu- . cono; e però dà il carattere al sistema, ma non è il sistema stesso. V. Ipotesi. Ora come qualificheremo i diversi sistemi di filosofia intellettuali, che hanno succes sivamente regnato nelle scuole, il platoni co, il peripatetico, il cartesiano, il lockia no? Gli diremo tutti ipotetici, comechè cia scuno partisse da un principio vero, avendo Platone e Cartesio ammesso come sorgente delle umane conoscenze un solo del due principi, da quali le attigniamo; e avendo Aristotele e Locke riconosciuto soltanto l'altro, cioè i sensi. Imperciocchè l'ipote tico può nascere tanto dal supporre vero un principio non dimostrato, quanto dal l'ammettere come generale una verità par ticolare; vizio nel quale cadono tutti quel li, che col semplice vogliono rendere ra gione del composto, e pretendono di spie gare la natura per un principio unico, abusando della massima, che ella agisce sempre per le vie le più semplici. Tale fu il vizio non solamente dell'antica filosofia intellettuale, ma ancora delle scienze fi siche, nelle quali tanti erano i sistemi, quanti i principi generali, che ciascuna scuola assumeva, come supposte cause universali di tutti i fenomeni naturali. Così, una faceva del fuoco l'agente gene rale della natura, un'altra, l'acqua; una, i vulcani, e l'altra, il mare; una gli aci di, e l'altra gli alcali, e così via discor rendo. La difettuosità e l'insufficienza di cotali sistemi è divenuta manifesta, non prima che l'osservazione e la sperienza han dimostrato che molti fenomeni non potevano essere spiegati per lo principio da cui facevansi dipendere, o rimanevano fuori della causa, nella quale era stata riposta la ragione sufficiente dell'essere loro. Laonde la pretensione di spiegare i – 445 - fatti della natura per via di sistemi, è ces- a tutti comune; nella quale operazione se sata insieme coll'amor delle ipotesi, dal che possiamo dedurre molte utili conseguenze per rispetto al metodo più conveniente alle scienze fisiche, del pari che alle metafisiche. La qualità di razionale compete a quei soli sistemi, i quali son fondati nelle os servazioni e nella sperienza. Chi dal par ticolare cammina al generale, per la scala delle verità intermedie, è sicuro di non errare nella catena delle cause naturali, e di non intrudere nulla d'ipotetico nelle sue conclusioni. Ad evitare l'ipotetico, uopo è rimuovere il ragionamento a priori e at tenersi rigorosamente all'analitico, o a po steriori. L'induzione e l'analogia sono la vera guida de sistemi razionali; il sillo gismo e la sintesi son quelli che han pro mosso e favorito gl'ipotetici. V. Analisi, Induzione, Sillogismo. Ciò non ostante i sistemi ipotetici come le ipotesi stesse, possono essere di grande utilità, nella invenzione, o nella classi ficazione de fatti della natura, quando sieno usati nel modo stesso, nel quale adoperiamo il dubbio metodico, cioè come saggio o pruova della verità. Un sistema che raccoglie insieme molti particolari fe nomeni, i quali sembrano dipendere da cause comuni, se gli abbraccia tutti nelle cause che loro assegna; e se non è smen tito in alcuno de suoi particolari, anzi viene in ciascun di essi confermato; può per mezzo dell'osservazione e della spe rienza, da ipotetico che era divenire ra zionale, non altrimenti di quel che avviene nelle ipotesi del geometri, le quali son di mostrate vere, quando le contrarie propo sizioni sono escluse come false. Possono ancora tali sistemi servire come metodici ragunamenti de fatti della natu ra, per trovare una legge o un carattere non si perviene all'assoluta verità si giu gne almeno ad ottenerne un prodotto, che può essere ritenuto come provisional mente vero, o sia come vero relativamente allo stato attuale della scienza. Nel primo dedue dinotati sensi l'Astrono mia si serve de sistemi ipotetici, e col mez zo loro ordina tutte le parti dell'universo, esamina i fenomeni de'corpi celesti, e spie ga i cangiamenti di sito, e i movimenti loro. Questo è quel che comunemente chia masi sistema del mondo, sistema sola re, o planetario. Cotesto sistema prende i suoi principi dal moto della Terra e del Sole, che noi risguardiamo come i due principali pianeti di tutta la volta empirea. Due sono stati i grandi sistemi planetari, che han tenuto divise le opinioni degli astronomi, il tolomaico e il copernicano. Tolomeo, Ipparco, Aristotele e con essi la generalità degli antichi astronomi ten nero, che la Terra stesse ferma ed immo bile nel centro dell'universo, e che il cielo tutto si volgesse intorno ad essa da oriente ad occidente, portando seco tutti i corpi celesti, le stelle e i pianeti. Copernico per contrario, rovesciando un tal sistema, in segnò essere il Sole fermo nel centro del sistema planetario e non muoversi se non intorno al proprio asse; muoversi intorno a lui da occidente in oriente e in diverse orbite Mercurio, Venere, la Terra, Marte, Giove e Saturno ; muoversi intorno alla Terra la Luna, che l'accompagna nel suo intero giro intorno al Sole; muoversi allo stesso modo quattro satelliti intorno a Giove, e sette intorno a Saturno ; muoversi nello spazio planetario le comete in orbite ec centriche; essere fuori degli spazi plane tari le stelle fisse, le quali per la immensa loro distanza sembrano poste fuori d'ogni – 446 – relazione colla Terra e cogli altri pianeti; essere infine probabile che ciascuna di tali stelle sia un sole e insiememente un centro d'un altro particolare sistema, circondato ancor esso da pianeti, i quali in differenti periodi e a diverse distanze fanno i loro corsi intorno a rispettivi soli, e son da questi riscaldati, conservati, ed illuminati; dal che sopratutto formasi in noi l'idea della immensità dell'universo, e d'un si stema di sistemi. Fondamento di questo universal sistema è il principio della at irazione universale scoperto dal grande Newton, il quale ha dato il più saldo so stegno al sistema di Copernico, perocchè le attrazioni reciproche decorpi celesti ese guendosi in ragion diretta delle masse; il Sole, al cui confronto la Terra è un ato mo, non potrebbe obbedire all'azione di questa e rivolgersi intorno ad essa ; ma per contrario obliga la Terra di descrivere la sua orbita in virtù della forza di attra zione, congiunta a quella tangenziale, im pressale nella creazione. È mirabile come il principio di Newton siesi verificato an che ne sistemi delle stelle doppie, cioè di quelle stelle, che osservate con forti can nocchiali veggonsi divise in due, la mi nor delle quali gira intorno alla maggiore colla legge neutoniana. Colesto sistema che noi diciamo coper micano, se non in tutte le sue parti, cer tamente per lo moto del Sole e della Ter ra, è più antico del tolomaico, e forse fu il primo che gli antichi astronomi con cepirono in sul nascere dell'astronomia. Aristotele riferisce essere stata questa l'opi nione de pitagorici, e di tutta la scuola italica , ma essa scomparve per tutto il tempo in cui prevalse la filosofia peripa tetica. Sin qua de sistemi ipotetici, i quali servono di supplimento a razionali. La stessa denominazione dassi ancora agli ordinamenti delle opere e degli Esseri della natura, che per la loro immensità non potrebbe la mente individualmente abbrac ciare, e dee per necessità raccogliere sotto date classi, ordini, generi, e spezie; il che forma la principal cura della storia naturale. In tali sistemi trattasi di distin guere i caratteri comuni da propri, e di dare ad ogni collezione d'individui un se gno di discernenza, preso da una qualità essenziale, a tutti comune. Tra gli autori che hanno intrapreso il catalogo delle varie spezie della materia inorganica, v'ha chi ha preso per norma le sue parti costituti ve, e chi la forma; e negli Esseri orga nici, chi ha scelto per caratteri discernitivi un organo, e chi un altro, come i nervi, gli organi della generazione, del moto, della digestione, e simili. Coteste varietà formano i principi di altrettanti sistemi, distinti co nomi del rispettivi loro autori. La scoverta di nuove spezie, o di leggi generali della natura non prima conosciu te, il progresso della notomia e della fi siologia generale, l'esperienza insomma rettifica ed amplia le prime classificazioni e nuovi sistemi succedono agli antichi. Chi può rivocare in dubbio l'utilità e la necessità di tali continui cangiamenti, e quindi di nuovi sistemi ? Il vocabolo si stema dunque, nella distribuzione delle varie opere e produzioni della natura, non significa altro che ordine e metodo d'in vestigazione e d'insegnamento. V. Metodo. Ora essendo la nozione dell'ordine im plicita in quella di sistema, ne avviene che tanto nel linguaggio comune, quanto nello scientifico, l'un vocabolo scambiasi sovente coll'altro ; e che ogni scienza, arte, o disciplina aver debba nella mente di chi la tratta un sistema antipensato, – 447 – il quale renda le parti sue coerenti l'una all'altra, così nella connessione, come nel ragionamento; d'onde nasce che il difetto della connessione e della coeren za, chiamisi vizio di sistema; come nella poesia, nella pittura, nella musica, e in tutte le arti belle, nelle quali il gusto si offende d'ogn'irregolarità d'ordine e di simmetria. V. questa voce. Potendo ogni sistema ipotetico peccare o nel principio che assume come vero, o nella coerenza delle sue parti: uno di tai difetti è scientifico, l'altro logico: il primo può essere escusabile per la varietà delle umane opinioni, o per la dubbiezza stessa del subbietto: meno escusabile è il secondo, perchè nel ragionamento di ognuno si esige la regolare connessione nelle idee. Intanto per distinguere l'un vizio dall'altro, spirito di sistema è sta to denominato quello, che ci strascina a false conclusioni per la forza d'un prin cipio che per avere preoccupato l'intel letto, fa creder vere tutte le conseguenze che logicamente dallo stesso discendono. In questa sorta d'errore v'ha eccesso di lo gica, mentrechè ve n'ha difetto nell'altro. Vuolsi infine notare che l'ordine e la coerenza nella sapienza pratica non è meno necessaria che nella speculativa; onde noi diamo il nome di sistema morale alla serie delle azioni le quali formano il por tamento della vita, e sono una conse guenza del principi e delle preconoscenze che nascono dalla luce stessa della ragio ne. Ma essendo certi e chiari i principi, qual diversità può darsi nelle verità che da essi dipendono, e che è quel che può moltiplicarne i sistemi? Certamente nella filosofia pratica il vocabolo sistema prende un significato assai più limitato che nella speculativa, perchè la sapienza morale ri pete le sue preconoscenze dagl'istinti e da naturali principi della ragione ; per chè le regole che essa dà alle azioni al tro non sono se non deduzioni immediate de cennati principi ; perchè tali regole hanno lo stesso grado di evidenza presso tutta l'umanità; e finalmente perchè le riconosciamo come scritte in noi dal su premo legislatore. Non è dunque da prin cipi, che può nascere la diversità del si stemi della morale. Ma l'ordine, il meto do, e la coerenza del logico ragionamento sono egualmente necessari alle scienze fa cili e alle astruse, e a pensieri del pari che a fatti; il perchè il vocabolo sistema nella filosofia morale altro non importa, se non metodo nell'insegnamento, e preor dinata coerenza delle determinazioni della volontà a principi della ragione. V. Ra gione, Volontà. SISTEMATIco (spec. e prat.), chi ragio na, o opera coerentemente a principi d'un sistema. V. questa voce. SisToLE (spec.), la contrazione del cuore degli animali, per effetto della qua le il sangue è da suoi ventricoli cacciato nelle arterie. La funzione a questa opposta e la dia stole, che importa dilatazione. V. Cuore, Diastole. SMANIA (prat.), smodata voglia di fare, o smodata intolleranza di difficoltà, che contraria un nostro desiderio. SMEMoRAGGINE e SMEMORATo (prat.), qua lità d'uomo che ha perduto la memoria. V. questa voce. SMENTICANZA. V. Dimenticanza. – 448 – SoAvE e SoAvITÀ (prat.), quel che per una lenta e continua impressione riesce grato a sensi. Come traslato, si applica ancora alle cose che producano una placida e grata affezione dell'animo. SoBRIETÀ (prat.), moderazione negli alimenti. Si applica in senso traslato alla modera zione d'ogni desiderio, non escluso quello del sapere. SoDEzzA (spec. e prat.), vale durezza, una delle qualità della materia.V. Durezza. Nel senso morale vale fermezza e sta bilità di affetti o di volontà. SoFFERENZA (prat.), penosa tolleranza di una molesta, o dolorosa sensazione. V. Dolore, Molestia. SoFFicIENTE e SUFFICIENTE (prat.), ido neo a fare o a produrre qualche cosa. Nel linguaggio filosofico ha ricevuto uno speciale significato, che è la causa o il fine, il quale rende ragione d'ogni fatto, e spiega il perchè sia quello che è. Di qua il principio della ragion sufficiente, co tanto predicato da Leibnitz. V. Ragione. SorisMA e SoFISMo (disc.), argomento falso, cui l'ambiguo somministra le ap parenze del vero. SorisrA (disc. e crit.), autore di sofismi. Dagli antichi furon chiamati sofisti quei retori, i quali i primi misero a prezzo l'insegnamento, e contaminarono la filo sofia coll'abuso della dialettica. Cotesto abuso consisteva in questo, che scoprendo il probabile d'ogni argomento o d'una pro posizione, e scegliendo il senso ambiguo delle parole, potevasi rendere incerto il certo, e dare al falso le apparenze del VeTO. Aristotele in un apposito libro, in cui volle esporre il fine che proponevansi i sofisti, e i mezzi che adopravano per giu gnere all'intento loro, svolse le diverse spezie di artifizi pe'quali i sofisti facevan guerra al vero. SoFISTIco (disc.), chi parlando fa sot tigliezze o cavillazioni. SoGGETTo, SUBBIETTo e SUGGETTo (spee. e disc.), ogni Essere, o cosa, che noi consideriamo come dotato, o come capace di qualità e di modi. V. queste voci. Le qualità suppongono un Essere o una cosa, cui sono attaccate. Ora quest'Essere, o questa cosa, è quel che chiamiamo sub bietto che per la sua etimologia corrisponde a materia soggiacente. Nel linguaggio comune cotesto vocabolo esprime quella medesima nozione, che nello scientifico è designato col nome di sostanza. La sola differenza che passa tra le due cennate voci, è che il subbietto indica una cosa qualunque; mentrechè la sostanza è un subbietto determinato per la natura delle sue qualità. V. Sostanza. Nel significato logico, suggetto è l'ar gomento d'un discorso, o il concetto del la composizione di qualsivoglia opera, o trattato. Sogno (spec.), il pensar de dormienti. La spiegazione del fenomeno del sogno è de più astrusi argomenti della filosofia intellettuale, perchè risguarda un di quei fatti della natura, che dipende dalla mi steriosa unione dello spirito e del corpo. – 449 – Se il pensiero si suscita nell'animo dedor mienti, uopo è dire che non sieno sospese le loro facoltà intellettive. E d'altra parte, se la ragione non può formare la succes sione de pensieri nel sonno, conviene an che dire, che restino sospese le funzioni di qualcuna delle sue facoltà. Non si può entrare nella disamina di tali quistioni, nè valutarne la difficoltà, senza aver pri ma tentato di conoscere quale sia lo stato dell'anima durante il sonno, e quale l'in fluenza che le sue facoltà esercitano sopra quelle del corpo. V. Corpo. Intanto è un fatto certo, che nel sonno l'anima conservi la facoltà e l'attributo del pensiero. Egualmente certo è, che del no stro pensar nel sonno noi riteniamo spesso la ricordanza, come di un fatto involon tario, e quasi come d'una scena che si è dentro di noi rappresentata, senza il concorso della nostra volontà. Certo ancora è, che di molti pensieri avuti nel sonno noi conserviamo la consapevolezza, senza ritenere la ricordanza delle cose sognate. E finalmente dubitar non possiamo di aver molte volte pensato dormendo, comechè ne avessimo perduto tanto la consapevo lezza, quanto la ricordanza. Di questo fatto ne siamo accertati dalla testimonianza di quelli che essendo desti e presenti al nostro sonno ci dicono di aver noi parlato sognando; e ne siamo giornalmente assi curati dalla sperienza che ne facciamo ne. gl'infermi e ne deliranti. Ora sopra questi tre fatti uniti insieme, molti grandi filosofi hanno fondato l'opi nione, che il pensar continuo sia un attri buto dell'anima; e che nel sonno avvenga lo stesso che nella veglia, nella quale di stinguiamo due spezie di percezioni, le insensibili e le sensibili: delle prime non conserviamo ricordanza, e di molte nè ri cordanza nè consapevolezza: delle seconde perchè fermate dall'attenzione, riteniamo sì l'una che l'altra. Ora unendo insieme queste due spezie di percezioni formano esse uno stato continuo di pensiero, parte avvertito e parte non avvertito, il quale è in perfetta corrispondenza co vari pen sieri del sonno. Tal'è stata la sentenza di Cartesio, di Malebranche, di Leibnizio, e di molti altri filosofi spiritualisti. I sensisti per contrario, e tra questi Locke, cercano di chiudere ogni adito ad una tal quistione, considerando il sogno come una conseguenza delle idee acqui state durante la veglia, ed il sonno come la cessasione intera dell'attenzione e della riflessione. Ma in mezzo a queste due opinioni può essere bene allogata una terza più vera, perchè più circospetta. Noi possiam discer nere la successione continua de nostri pen sieri nello stato di veglia, e distinguere le insensibili dalle sensibili percezioni, ren dendo ancora, tra le prime, permanenti quelle, alle quali ci piaccia volgere l'at tenzione; ma non possiamo fare lo stesso del pensieri del sonno; nè possiamo affer mare o negare, se nel periodo del sonno si trovi qualche intervallo di assoluta as senza del pensiero. Molto meno possiamo dirlo de folli e del dementi, lo stato dei quali è ancora più inesplicabile di quello del sonno. Diciamo dunque che la qui stione, se l'anima pensi sempre è uno di quei metafisici problemi, che l'uomo non può risolvere, e de quali può darsi una più o meno probabile soluzione. È possibile che il pensiero sia continuo nel sonno, come nella veglia ; è verisimile che il principio semplice ed attivo, il quale dà moto e vita alla materia, conservi sem pre, come suo essenzial carattere, l'azio 57 - 450 - ne. Ma chi può dire, che tra le altre mo dificazioni, che riceve dalla sua combi nazione colla materia, non vi sia ancora quella della interruzione dell'azione? Cer tamente la continuità non nasce da alcun fatto dimostrato, e per conseguente è una supposizione, da cui non è permesso de durre una certa conseguenza. V. Pensiero, .Sonno. SoLE (spec. e teol. ), l'astro regola tore del corso di tutti i pianeti, che illu mina il mondo, e di cui la luce sull'oriz zonte distingue il giorno dalla notte. Il sole, giusta la dottrina copernicana, è il centro del sistema planetario: intorno ad esso rivolgonsi i pianeti, e tra questi la Terra, in diversi periodi, secondo la rispettiva loro distanza. V. Pianeta, Si Slema. - I due grandi fenomeni che noi non cessiamo di contemplare e di ammirare, sono il moto e la luce del sole. Quanto al moto, l'astronomia dimo stra, che quell'apparente moto annuale e diurno, dal quale ricaviamo la misura del tempo, la partizione delle stagioni, e la differenza del giorno dalla notte, non è in realtà che il moto annuale e diurno della Terra. V. questa voce. - Ciò non ostante il sole ha pure un mo vimento di rotazione intorno al proprio asse da oriente in occidente, sebbene più lento di quello della Terra. Il sole è un corpo sferico, come la luna, quantunque a noi apparisca sotto l'aspetto d'una superfi cie piana. La distanza ci mostra come piana la superficie dell'uno e dell'altra, a guisa d'un disco, nel centro del quale imma giniamo un punto, che risguardiamo come un centro della sferoide, mentrechè quel punto non è, se non il centro del disco, o sia della superficie apparente. Il movi mento di rotazione è stato dagli astronomi determinato e calcolato per mezzo del fe nomeno delle macchie solari, talune del le quali osservate in una parte del disco, veggonsi, in un dato numero di giorni, passate in un'altra parte del disco stesso, e tornano poi nel periodo di 25 giorni al punto, nel quale furon da prima vedute. Di più sublime investigazione è stato il penetrare nelle leggi generali, che re golano il moto degli altri pianeti primari intorno al sole, e fare di questo astro il centro della forza motrice, cui essi obbe discono. Per dare all'uomo un barlume della meccanica celeste che muove e tiene in equilibrio gl'innumerabili globi, dei quali l'universo si compone, Iddio mandò nel mondo i tre grandi ingegni di Keplero di Galilei e di Newton, i quali determi narono le curve che ciascun pianeta de scrive, il tempo nel quale consuma il suo corso, e le proporzioni stabilite tra tempi e le rispettive distanze dal sole. Le leggi che regolano il moto de corpi nella loro caduta, scoperte da Galilei; e le tre fa mose leggi di Keplero, cioè che gli spazi descritti da pianeti intorno al sole, son proporzionali a tempi, che l'orbita di ogni pianeta è un ellissi, nel fuoco del la quale sta il sole, che i quadrati dei tempi delle rivoluzioni, son proporzio nali a cubi delle distanze, prepararono la sublime teorica di Newton intorno al l'attrazione di gravità, di cui la forza ri tiene i pianeti nelle orbite loro, passando per lo sole, come se da lui emanasse. Tali scoverte aprirono alla mente dell'uomo la geometria de'cieli, e sono certamente di quelle, che più onorano l'ingegno umano. Ma giunti a tanta altezza di conoscenze, che abbiamo noi saputo? Che è mai co – 451 – testa forza, e come essa opera? Dove ella risiede, e come si conserva e si rinnova? Newton stesso coronò le sue sublimi sco verte colla confessione dell' umana igno ranza: parlando di forze centripete avvertì, che non aveva inteso riconoscere nel cen tri una potenza propria ; essendochè essi non sono altro che punti matematici, nei quali per un concetto della mente, noi concentriamo l'azione delle forze. V. A trazione. - . - Circa poi la luce, che è l'altro grande fenomeno, nel quale è riposto tutto lo spettacolo della natura, non è minore la nostra ignoranza. Giudicando da suoi ef fetti, noi crediamo ignea la massa del sole: i suoi raggi risplendono, riscaldano, e bruciano come il fuoco: raccolti per mez zo di lenti consumano, fondono, o can giano in vetro i corpi più solidi : nello stato loro naturale infiammano i corpi più accensibili: la loro forza è scemata dalla distanza, ma se è raccolta, divien fuoco e ne produce i medesimi effetti: uopo è dire che nel suo stato di naturale densità, non sia da quello diversa. Ammessa come ve risimile cotesta ipotesi, noi non sappiamo circa la natura della luce nulla di più di quel che conosciamo della sostanza del fuoco e del calore. V. queste voci. In conclusione noi possiamo più ammi rare, che conoscere la maggiore delle opere della natura. Maggiore è per noi, perchè consideriamo quest'astro come l'in strumento della luce e delle tenebre, come la lampade del mondo che ci rende visi bili le cose create, come il principio vivi ficante di tutti gli Esseri, come il regola tore del corso de pianeti, e come il misura tore del tempo. Questa ammirazione che ora è propria del contemplatori e del sapienti, fu altra volta un sentimento comune alla prima umanità, la quale ripose ne' cieli la sede della Divinità, e nel sole il suo tabernacolo. E fu sì vivo un tal sentimen to, che i popoli i quali per attenersi al sensibile separaronsi dalla cognizione del Creatore, divinizzarono il sole, e ne fe cero il primo oggetto della loro idolatria. V. questa voce. SoLECISMo ( disc. ), grossolano errore contra la sintassi. V. questa voce. SoLIDITÀ (spec.), stato, in cui si tro vano d' ordinario la più parte de corpi della natura, e per effetto del quale pre sentano una forma ed una estensione ben terminata. - Si distingue la solidità dalla liquidità, e dalla fluidità aeriforme, o dal gas. Molti corpi son liquidi, o fluidi aeriformi nel loro stato ordinario, ma alcuni di essi pas sano, mediante la diminuzione del calore allo stato solido, o al liquido. Lo stesso agente della natura può cangiare anche lo stato di molti corpi solidi in quello di liquidità, o di gas. V. Calore. Acquistasi l'idea della solidità, spezial mente per lo senso del tatto; e per tal mezzo la mente concepisce l'idea della ma teria e del mondo esteriore. V. Tatto. Considerata, non come uno stato acci dentale de'corpi, ma come l'effetto della coesione delle parti, genera in noi l'idea della impenetrabilità e della estensione; sì che l'intelletto la concepisce come una qualità comune a tutti i corpi, o sia come una di quelle che diconsi qualità prima rie della materia. V. Impenetrabilità, Maleria, Qualità. Spesso i geometri adoperano la parola solidità per indicare il volume d'un corpo. V. questa voce. ºr – 452 – Sotudo (spec.), qualità d'ogni corpo nel quale consideriamo la solidità. V. So lidità. - Nel senso che gli danno i geometri è ogni corpo considerato per le tre dimen sioni sue, di lunghezza, larghezza, e profondità. V. Dimensione. SoLLECITo (prat.), qualità di uomo in quieto per l'aspettativa d'un avvenimento. SoLLECITUDINE (prat.), sorta d'inquie tudine, che l'anima prova per un evento qualunque. V. Inquietudine. Gli stoici l'enumerarono tra le spezie del dolore, e tra doveri dell'uom sapiente contaron quello di doverla affatto sbandire dall'animo. V. Dolore. Comunemente scambiasi colla cura e coll'affanno. - Vale ancora prestezza e diligenza nel l' operare. SoNNo (spec.), riposo dall'azione, dato dalla natura agli esterni sensi degli ani mali, per lo ristoramento delle forze loro. L'umana curiosità cerca sapere, se dello stato di riposo e d'immobilità, in cui sono gli esterni organi desensi, partecipino pure tutte le facoltà dell'anima, o alcune tra esse, e quali sieno, durante il sonno, le relazioni tra sensi e lo spirito? La quistione non solamente è ardua, ma insolubile. Ciò non ostante è utile il conoscere, il più che è possibile, i par ticolari del fenomeno del sonno, e dei sogni, perchè da tale investigazione può nascere una più chiara conoscenza delle funzioni di talune delle facoltà dell'anima. Il principio di questa investigazione può essere utilmente preso dallo stato di veglia che è prossimo al sonno; dapoichè ognun sente la somiglianza che passa tra i sonno, e quello stato in cui l'animo si trova, al lorchè il corpo è premuto dalla necessità di dormire, e ognun conosce i mezzi che adoprar sogliamo quando vogliamo secon dare o accelerare le disposizioni della na tura. Tra questi mezzi il principale è il mettere l'animo in una quiete simile a quella del corpo, rimuovendo ogni pen siero o cura, che potesse mantener nel l'attività lo spirito, o il sentimento. In conferma di che si può anche osservare, che quelli i quali più facilmente si addor mentano, sono i fanciulli e gli uomini poco avvezzi a riflettere, appunto perchè essendo abitualmente occupati di obbietti sensibili, tolta o sospesa una tale occupa zione, cessa immediatamente l'attività delle funzioni della mente loro ; e non prima cadono nell'ozio, che si abbandonano al sonno. La stessa osservazione ci è traman data da viaggiatori intorno alla vita dei selvaggi, e dagli storici delle cose ameri cane, intorno a negri schiavi nelle colonie. Simili a bruti, il tempo loro è diviso tra il lavoro ed il sonno. Dagli esposti fatti, credette Dugald Ste wart, poter conchiudere che, durante il sonno, restino sospese le facoltà dipen denti dall'atto del volere, o sia dalla vo lizione propriamente detta. « Imperocchè, se la sperienza ci dimostra, che per chia mare il sonno conviene tener lontano l'esercizio delle facoltà intellettuali; non si può certamente supporre, che queste ripi glino l'attività al momento, in cui il sonno è venuto. E per contrario, più naturale è il credere che lo stato del sonno sia il com pimento di quella disposizione, nella quale la natura e noi stessi ci mettiamo, allor chè siam vicini a prenderlo. La sola dif ferenza che passa tra uno stato e l'altro l – 455 – è, che prima del sonno, quantunque sia sospeso l'esercizio delle facoltà intellettuali, pure è in nostro potere il rimetterlo in azione; laddove cominciato il sonno, la volontà perde ogni suo impero sulle facoltà dell'animo, del pari che sulle potenze del corpo. Come questo cangiamento avvenga, e quale sia il mezzo per lo quale cessi ne gli organi esterni de sensi l'attività e il moto, è la parte del fenomeno che forse resterà sempre ignoto, Ora, ammesso come un fatto certo, la sospensione delle funzioni volontarie della mente, durante il sonno, in due modi possiam concepire che un tal fatto avven ga: uno è, che cessi interamente la fa coltà del volere: l'altro che la volontà perda il suo potere sulle altre facoltà del l'animo, del pari che sugli organi del corpo. I fatti che in noi stessi osserviamo, ci dicono che il concetto vero è il secon do, e non il primo. Convien distinguere i fatti sensibili dagli atti del pensiero. Quanto a primi, gli sforzi che noi fac ciamo ne'sogni, per evitare i pericoli dai quali ci pare essere minacciati, dimostrano che l'uso della volontà non è sospeso. Spesso vogliamo profferire parola, e in vocare soccorso, ma i suoni della voce sono inarticolati e confusi. V'ha dunque una interruzione de soliti legami tra la facoltà che vuole, e le potenze del corpo che obbediscono: i nostri sforzi dimostra mo, che l'animo continua a volere; ma che l'azione della volontà rimane inefficace. Ampliando cotesto fatto, per meglio di chiarirne le conseguenze, spesso ne sogni che ci atterriscono, noi intendiamo sot trarci colla fuga al pericolo che ci sovra sta, e non ostante restiamo coricati nel letto, o fermi nella posizione nella quale il sonno ci ha sorpreso; e talvolta ancora crediam di fuggire e parci essere trattenuti da qualche difficoltà, o ostacolo, che cel vieta. Son queste altrettante pruove, che le membra del corpo non obbediscono ai cenni della volontà. Egli è vero che nel sonno inquieto degl'infermi sembra che la volontà conservi qualche potere sul cor po, ma i movimenti che in questi casi il corpo esegue, son piuttosto figli d'un'agi tazione nervosa, anzichè d'un'azione rego lare impressa a qualche membro colla de terminazione di produrre un determinato effetto. Ed aggiugnendo a questi fatti quelli che osserviamo nel fenomeno dell'incubo, noi avvertiamo nel sonno stesso l'impo tenza di agire, e l'inefficacia della volontà. Quel che distingue questa spezie di sogno dalle altre, sono le sensazioni penose, dal le quali siamo tormentati. Coteste sensa zioni son prodotte da una situazione inco moda, che non possiamo cangiare; d'onde l'impazienza e la smania di non poterci scuotere da quel letargo. L'incubo dunque ci dà la consapevolezza della impotenza de'nostri esterni sensi. Finalmente è da os servare, che se la volontà può affrettare il sonno, quando noi secondar vogliamo il bisogno e le disposizioni che sentiamo di averne; è manifesto che la volontà con serva la sua attività nello stato prossimo al sonno; e che sarebbe difficile, anzi impossibile il concepire, come la volontà possa essere attiva per sospendere gli atti suoi propri. Circa poi i secondi, pare che l'effetto del sonno sopra le azioni della mente sia simile a quello che sperimentiamo nelle funzioni degli organi esteriori. Questi sic come abbiam veduto, non obbediscono più alla volontà, ma i moti vitali ed in volontari continuano senza veruna inter ruzione. Ora lo stesso possiam concepire che avvenga degli atti del pensiero. Le operazioni dell'animo, che sono indipen denti dalla volontà, continuano a fare il loro corso, ma restan sospese quelle che necessariamente esigono il concorso della stessa volontà. E siccome molti del nostri pensieri succedonsi senza l'intervento della volontà (il che è chiaramente dimostrato dal modo come in noi avviene l'associa zione delle idee); così allo stesso modo possiam concepire che avvenga la succes sione del pensieri nel sonno. La sola dif. ferenza che distingue il sonno dallo stato di veglia è, che nel sonno i pensieri ob bediscono ciecamente alle leggi dell'asso ciazione; laddove nella veglia, son que ste modificate dall'esercizio della volontà ». (Philos. de l'esprit hum. P. I. S. 6 cap. 5). Questa in breve è la teorica di Stewart circa la natura e gli effetti del sonno. Quantunque ingegnosa, e in molte parti fondata sopra fatti certi; pare tuttavolta che oltrepassi le conseguenze che da tali fatti possono essere legittimamente dedotte. E in prima si può ben concepire che la potenza attiva dell'animo continui a volere nel sonno, e che gli organi esterni del corpo cessino di obbedirle durante lo stato di sospensione e di quiete, nel quale la matura ha voluto che fossero; ma sembra a noi inconcepibile, che per le operazioni della mente la stessa facoltà attiva voglia e non possa agire. Insino a che si tratta degli organi sensibili, i quali debbono ricevere il moto e la spinta all'azione da una causa da essi diversa, l'impedimento che la natura stessa frappone tra l'azion della causa e'l suo effetto, potrebbe spie gare sufficientemente il fenomeno del son no. Ma l'ammettere la medesima differenza tra le facoltà intellettive ed attive dell'ani mo, è lo stesso che materializzare le une a rispetto delle altre. E quì vogliamo an che dire, che Stewart sembra essere uscito da limiti della circospezione della sua scuo la, quando dalla analogia del sensibile è passato a spiegare un fenomeno tutto in tellettuale. Come concepire, che le leggi o le regole dell'associazione delle idee agi scano sole, e mentre la volontà vorrebbe modificarle e dirigerle, mol possa? Quali son poi coteste leggi o regole di associa zione? L'autore le aveva già partito in due spezie, cioè dell'associazione spontanea, e di attenzione. Certamente quando, per ispiegare la connessione delle idee de'sogni, è ricorso all'associazione delle idee, ha in teso parlare della prima, e non della se conda, giacchè non può darsi attenzione, senza il concorso della volontà. La spon tanea, secondo lui, comprende le relazioni di somiglianza, di analogia, di contrarie tà, di contiguità, di tempo, e di luogo. Ora se si ammette, che la potenza attiva dell'animo conservi l'atto del volere, co me potrebbe spiegarsi la sua impotenza ad impedire la progressione di quelle idee? Non intendiamo già negare, che l'as sociazione abbia una grandissima parte nella successione delle idee, durante il sonno; ma crediamo che l'autore abban donò le giuste sue vedute, quando trovar volle il punto nel quale si arresta l'eser cizio delle facoltà dell'animo durante il sonno, o sia quando volle spiegare come la natura operi allorchè fa tacere le une, e lascia agire le altre. V. Associazione. Per non cadere nell'ipotetico, uopo è distinguere i fatti certi dalle congetture, e separare i fatti sensibili dagl'intellettuali. I fatti certi sono: 1.° Che il sonno è il compimento di quello stato, nel quale ci troviamo quando la natura ce ne fa sentire il bisogno; – 58 – 2.º Che in questo stato noi sentiamo la necessità di far tacere l'azione così del sentimento come del pensiero; 3.º Che l'azion viva dell'uno e dell'altro è il solo mezzo per lo quale può essere vinta o frenata la naturale disposizione al sonno; 4.º Che la nostra volontà può concor rere ad accelerare il sonno, allontanando il pensiero, e rimuovendo le cause che irritar potessero la nostra sensibilità; 5.º Che il sonno chiude l'adito alla im pressione degli obbietti esterni, sospen dendo l'attitudine del sensi a riceverle, e togliendo per conseguente alla percezione il mezzo di acquistare nuove idee; 6.º Che la memoria e l'immaginazione ritengono e riproducono le antiche idee, le quali formano il suggetto de sogni; 7.º Che l'associazione delle idee, le quali provengono dalla immaginazione e dall'abito, somministrano nuovo alimento a sogni. 8.º Che le fantasime formate da tali idee, e gli errori che le stesse contengono nelle relazioni di contiguità di tempo e di luogo, manifestamente dimostrano l'as senza dell'attenzione e della riflessione; 9.º Insieme coll'attenzione e colla rifles sione, tace nel sonno il senso intimo del la ragione e la coscienza, sì che tutte le azioni, che nel suo periodo si fanno, di vengono involontarie e macchinali. Il ri torno dell'una e dell'altra facoltà, allorchè dal sonno ripassiamo alla veglia, dimostra che l'animo avverte la differenza tra l'uno e l'altro stato, rettifica e condanna i giu dizi formati nel sonno, e racquista la con sapevolezza del proprio essere. - Con questi dati soli ci par difficile il decidere, se la volontà cessi di volere, o se gli atti di volizione rimangano ineffi caci per difetto delle potenze esecutrici. In somma il concetto che la volontà sia nel sonno a se stessa presente, può convenire agli atti esterni, e non mai alle opera zioni della mente, tra perchè a rispetto di queste l'assenza dell'attenzione dice lo stesso che l'assenza della volontà, e perchè si può ben concepire e adattare a sensi esterni l'immagine di altrettanti esecutori della volontà; ma la stessa immagine diviene inconcepibile, quando si voglia traspor tarla all'interno senso della ragione, alla coscienza, alla riflessione o al giudizio. Le operazioni di queste facoltà, son di loro natura complesse, per modo che l'intelli genza chiama la volontà, e questa chiama quella. E quantunque cotesta verità notis sima fosse a Stewart, e da lui in più luo ghi ricordata ; pure la discettazione che ne ha fatto, sente in certo modo del vi zio di personificare le facoltà dell'animo, e di scindere l'unità dell'Essere pensante. V. Facoltà, Sogno. - Dovendo noi fermarci innanzi all'im penetrabile consorzio dello spirito colla ma teria, e limitar dovendo le nostre con clusioni a soli fatti, che l'osservazione ci presenta come certi ; risguardiamo come incerta e fallace ogni congettura, che da quelli non discenda, e diciamo che il son no insieme col riposo desensi esterni porta seco la sospensione di tutte le operazioni della mente, tranne quelle della memo ria e della immaginazione sensitiva, nelle quali solamente può trovarsi la ragion suf ficiente delle fantasime, e del deliri de so gni. V. Immaginazione, Memoria. SoartE ( dise. ), sorta d' argomenta zione, colla quale per diversi sillogismi coordinati, o per più gradi di verità note si perviene ad una rimota verità, che sta in luogo di conclusione. – 456 – È la forma sillogistica, sotto la quale più facilmente si nasconde il sofismo; e per l'abuso fattone da retori prendesi il più delle volte in mala parte. Cicerone stesso ne ha così parlato. SosTANTIvo e SUSTANTIvo (disc.), nome dato alla sostanza o al subbietto; siccome addiettivo è il nome dato alle qualità sue. V. Addiettivo, Sostanza, Subbietto. La distinzione che tutte le lingue fanno del sostantivi e degli addiettivi, dimostra che la nozione della sostanza intorno alla quale han cotanto sofisticato i metafisici, si è spontaneamente presentatata tra primi bisogni della parola. SosTANZA (spec. e ontol.), l'astratta mozione del subbietto, considerato come dotato, o capace di qualità. Cotesta mozione formasi da noi allorchè concepiamo le qualità delle cose: il sub bietto a cui riferiamo tali qualità è quel che denominiamo sostanza. E siccome del le cose non conosciamo se non le qualità sensibili, o comprensibili, così ne segue, che separando per astrazione le qualità dal subbietto cui sono inerenti, la nozione della sostanza altro non contiene se non l'esistenza d'un subbietto di quelle capace. Per meglio dichiarire un tal concetto, i sensi ci fan conoscere la materia per le sue qualità, cioè per l'estensione, per la solidità, per la coesione delle parti. Tali qualità presuppongono necessariamente un subbietto, senza del quale non potrebbero stare, e di cui null'altro possiamo affer mare o negare, se non quello che le qua lità stesse ne mostrano. Diciam dunque, che la materia è una sostanza, di cui le qualità sono la solidità e l'estensione, o che il colore, l'odore, il sapore son qua lità d'una sostanza materiale. V. Mate ria, Qualità. - Il nome di sostanza conviene tanto ai subbietti corporei, quanto agl'incorporei, immateriali, o spirituali. Così lo spirito è una sostanza, le cui qualità sono il pen sare, il volere, il ragionare; e Dio è la prima, o suprema sostanza che ha per sua qualità l'infinito. Gli scolastici definirono la sostanza : quod ita ea istit, ut nulla alla re indi geat ad ezistendum. Cotesta definizione è oscura e difettuosa, perchè abbisogna d'una spiegazione per essere intesa nel senso in cui essi la concepirono, cioè che la sostanza a differenza delle qualità non ha bisogno di soggetto, o sia, è soste gno di se stessa. Ma l'esser sostegno di se stessa, non importa che esista per se stessa ; il che è uno de più grossolani equivochi , che filosofi di torbido e sofi stico cervello ricavarono da tal definizio ne: vuol dire sì bene, che dà il sostegno alle qualità, e da esse no'l riceve. Ora, ridotta a tale senso la definizione degli sco lastici, non contiene altro che un circolo vizioso, cioè che la sostanza non è qualità. Cartesio credette che noi ricaviamo la nozione della sostanza dal principio, che del nulla non si danno qualità. Ma tanto è lontano che cotesta verità sia un prin cipio, quanto è manifesto che ella è una conseguenza ricavata dal contrapposto del la sostanza. L'assenza delle qualità nel niente presuppone la nozione delle qualità in quel , che è qualche cosa. - Locke, quantunque avesse chiaramente definito la sostanza, e avesse detto che la solidità, l'impenetrabilità, la mobilità fanno nascere in noi la idea della sostan za, detta materia, e il pensare, l'inten dere, il volere l'idea della sostanza detta – 457 – spirito, pur tutta volta affermò essere questa un'idea confusa, di niuno o di poco uso alla filosofia, che converrebbe per sino sbandire dal linguaggio scienti fico. Cotanto abborrimento per lo vocabolo sostanza forse era suggerito dall'abuso che ne avevan fatto gli scolastici, e più di essi ancora Spinoza ; ma gli errori di costoro provennero appunto da una falsa definizione. Spinoza avevala definito: quel che è in se, e per se stesso si conce pisce, o di cui il concetto non si forma per lo concetto di qualunque cosa, dalla qual definizione aveva poi per una serie di sofismi ricavato la sostanza unica che ha per suoi attributi l'estensione e il pen siero. Ora da una falsa definizione, o dal l'abuso d'un vocabolo non segue, che debba quello proscriversi; e d'altra parte uopo è vedere se l'idea, che in se rac chiude possa essere meglio espressa. Lei bnizio dimostrò, che la nozione della so stanza non solamente è la più importante di quante ne ha l'umana cognizione, ma forma il cardine del nostro pensare, per chè dinota il suggetto cui debbon essere riferite le qualità proprie di ogni Essere. E sebbene noi la formiamo per astrazione, pure è una nozione necessaria, senza la quale non potremmo avere la conoscenza di noi stessi, di Dio, degli attributi suoi, e delle qualità delle cose create. Meglio dunque diremo, che sostanza è un termine relativo, generale, neces sario per esprimere la conoscenza di qua lunque Essere o cosa, che abbia qualità. Se questa idea, o nozione, non avesse ricevuto dal linguaggio scientifico un ter mine proprio, dovrebbe essere denominato con un altro vocabolo preso dal linguag gio comune. In fatti quando i logici han voluto sostituire un altro vocabolo espli cativo a quello di sostanza, l'han chia mato sostrato, e discendendo più verso il comune uso di parlare, l'han detto subbietto del quale nome potrebbe darsi ancora come equivalente la parola cosa, di cui tutte le lingue si servono, come d'una espressione generica adoperata per ogni spezie di suggetto, che non può per le circostanze del discorso essere altrimenti determinato. In fine la nozione della so stanza è sì necessaria al pensiero e alla parola, che forma in tutte le lingue il fondamento della distinzione denomi so stantivi ed addiettivi, V, Qualità, Sostra to, Subbietto. Da ciò segue che la nozione della so stanza debbesi avere come un modo della nostra concezione, o come una legge pri mitiva della nostra intelligenza, per la quale determiniamo la realità di tutti gli obbietti così della percezione, come d'ogni altro obbietto del pensiero. SosTANZIALE (spec. e ontol.), quel che è proprio della natura della sostanza, o che da essa è inseparabile. È vocabolo per lo più adoperato per esprimere gli attributi o le qualità costi tutive della sostanza; nel quale senso si scambia coll' essenziale, e si distingue dall'accidentale e dall'accidente. V. que sta VOCe, SosTRATo (dise.), termine di relazione, adoperato da logici per esprimere un sub bietto che sostiene le qualità sue, quasi che sottostia alle medesime. In questo senso equivale a sostanza, o a subbietto. V. queste voci. SotTIGLIEzzA e SotTILITÀ (spec. e disc.), acume nel pensare, o nel ragionare. rº58 – 458 – Prendesi talvolta in mala parte, nel quale caso equivale a sofismo, o cavillo. V. que ste voci. SoTToMoLTIPLICE e SUMMoLTIPLICE (spec.), numero contenuto esattamente in un nu mero maggiore. V. Moltiplice. È vocabolo proprio del numero, dacchè per le altre grandezze si adopera più comune mente la denominazione di parte aliquota. SPAVENTo (prat.), grande paura, pro dotta da inaspettata cagione. Differisce dal terrore, che esprime sol tanto un timor capace d'intercettare le vi. tali funzioni. V. Terrore. SPAZIo (spec. e ontol. ), il sito che oc cupano i corpi, o il sito e l'ordine delle cose coesistenti. Son queste due idee che tutti facilmente concepiscono ed acquistano, insieme con quelle della solidità, della estensione, e della disposizione delle cose materiali. Il tatto ci manifesta la solidità e l'impenetra bilità: dalla solidità la mente forma l'idea della estensione: dalla solidità estesa nasce quella del sito in cui ogni corpo, o sia ogni parte della materia è allogata: l'idea dello spazio dunque non è altro che quella della solidità estesa, e della ordinata distri buzione delle cose coesistenti. Tal'è l'idea dello spazio limitato, acquistata per mezzo desensi, e della percezione degli obbietti esterni. Ma tra i sensi non il solo tatto ci procura la conoscenza della estensione e del luogo. Coteste due idee divengono compiute per mezzo della vista, dacchè noi tocchiamo i corpi vicini, vediamo i lontani, e misuriamo la differenza che passa tra gli uni e gli altri; per modo che distinguiamo lo spazio tangibile dal visi bile, distinzione che ancor essa appartiene allo spazio limitato, e che si risolve nelle idee della distanza, e della grandezza rea le, o apparente decorpi lontani. V. Ap parente, Distanza. Sin qua la metafisica non entra per nulla nella idea dello spazio, la quale diviene un'idea trascendentale ed astrusa, quan do la mente comincia a volerne conoscere la natura. L'idea del sito e del luogo nasce in noi per una deduzione immediata della solidità e della estensione, ma rappresenta ed esprime un obbietto diverso; tanto di verso, quanto il contenente differisce dal contenuto. Quali sono i termini di questo vasto recipiente, che in se accoglie tutta la materia estesa, e tutte le parti dell'immenso universo? È finito o infinito? La sua in finità è assoluta o relativa? È un che di reale, ovvero un puro nulla? Se non è un nulla, è una sostanza di per se, o una proprietà di altra sostanza? Se è sostanza, dovrà dirsi solida penetrabile, fluida, ae riforme, imponderabile? Se è un nulla, sarà una semplice nostra idea, ovvero una relazione delle cose per rispetto al sito loro? Ecco le quistioni nelle quali si sono inviº luppati gli antichi e i moderni metafisici. Pitagora affermò essere lo spazio vacuo ed esteso oltre i limiti del mondo sensi bile. Epicuro, Democrito, Leucippo dis sero essere vacuo, impalpabile, penetrabile e non solido: intendevano essi per vacuo un fluido in cui nuotavano i corpi, opi nione la quale rinacque poi con Gassendi, perchè necessaria a spiegare il moto e l'ordinamento degli atomi e del corpuscoli. Aristotele distinse il vacuo continuo o unito (coacervatum) dallo sparso o dissemina to, e ammise il primo, negato avendo il secondo. Locke tenne esser lo spazio ma teriale, ma diverso dalla materia de'corpi – 459 – - per la sola penetrabilità. Cartesio negò ogni sorta di vacuo, avendo considerato lo spazio come materiale, perchè esteso. Coteste controversie furono con maggiore ardore ripigliate sul finire del decimo set timo secolo, perchè tre grandi ingegni, e forse i maggiori tra quanti han colti vato la filosofia, si fecero antesignani di due opposte sentenze. - Leibnizio definì lo spazio per l'ordine delle cose coesistenti, e tenne essere una idea gemella di quella del tempo che è l'ordine delle cose successive. Secondo il suo concetto, formando noi l'idea dello spazio dalla estensione, consideriamo come distinte le sue parti, sebbene non differi scano tra loro per quantità o qualità, ma soltanto per unità o pluralità, o sia per ordine di numero. Da ciò segue, che lo spazio è un ente immaginario, nel quale la nostra mente concepisce riposte le cose coesistenti, come in un vasto recipiente. Clarke e Newton per contrario, sosten nero essere lo spazio un vacuo immenso ed infinito. Clarke sopratutto, che combattè con Leibnizio per se e pe'l suo maestro Newton, credette dimostrare, che lo spazio non è un ente immaginario, o sia un nul la, dacchè il nulla non ha quantità, di mensioni, o proprietà di sorte alcuna; disse non essere una semplice nostra idea, per chè l'idea abbracciar può le cose finite e non l'infinito; essere lo spazio infinito, per chè contiene in se il mondo, che è finito ; non essere materia, perchè se così fosse sarebbe la materia infinita, e questa re sisterebbe al moto; non essere una semplice idea di relazione al sito de corpi, perchè lo spazio è una quantità; non essere so stanza di per se, perchè se così fosse, si confonderebbe l'immensità coll'immenso. Avendo come dimostrate tutte le cennate proposizioni, Clarke conchiuse, essere lo spazio quel che diciamo immensità, ed esser questa una proprietà dell'Essere im menso; siccome l'eternità è proprietà del l'Essere eterno. Tali conclusioni formavan pure la dottrina dello spazio, professata da Newton, il quale credette dimostrare non solamente il vacuo nello spazio, ma la necessità di tale vacuo, per potere spie gare le leggi del moto, e sopratutto il moto de corpi celesti. Questi insomma, al pari del suo discepolo, tenne essere lo spa zio l'immensità di Dio, anzi essere il sen sorio della Divinità. Intorno alle opinioni di sì grandi uomini bello è il considerare, che ognuno seppe ben rilevare i difetti della teorica del suo competitore, ma niuno vide i nei del pro prio sistema. Egregia sarebbe la definizione di Leibnizio, dell'ordine cioè delle cose coesistenti, quando l'avessegli applicata allo spazio limitato, e quando per ordine avesse inteso la disposizione delle cose ma teriali. Vera ancora sarebbe la similitudine del tempo che ordina le cose successive, come lo spazio ordina le coesistenti. Ma se per ordine egl'intese una disposizione ordinaria d'idee, che la mente forma per poterle collocare l'una dopo dell'altra, lo spazio è un puro fenomeno, o sia è una illusione del nostri sensi, e collo spazio scomparisce anche l'estensione, perchè noi concepiamo questa come quella. Lo spazio dunque, l'estensione, la forma, e la fi gura de'corpi sarebbero tutti fenomeni, o altrettanti enti immaginari creati dal nostro modo di concepirgli. Tali sarebbero le con seguenze dello spazio detto fenomenale di Leibnizio, che qualche moderno scrittore ha con poca riflessione risuscitato a vita. Intanto egli bene rispose a Clarke, quando osservò non potersi lo spazio concepire co ai - – 460 – me attributo, dacchè non si dà attributo senza sostanza; e non potersi concepire come attributo d'un Essere infinito, perchè le qualità dell'infinito cader non possono nella nostra comprensione. E dalla sua parte Clarke ben confutò Leibnizio quando gli obbiettò, che il negare la realità dello spazio è lo stesso che il negare la realità della estensione; ma quando venne a for mare la sua ipotesi si avvolse in contrad dizioni anche maggiori, dapoichè suppose lo spazio infinito, cioè semplice, e insie memente capace di quantità, come l'esten sione. Da tali confuse idee ſec egli nascere il concetto d'un attributo dell'Infinito o sia di Dio ! V. Infinito. Più modesta di tutti i nominati filosofi è stata la scuola scozzese, la quale messe da banda le ipotesi ricorse alla percezione o sia a due sensi della vista e del tatto per ispiegare e dichiarire sperimentalmente l'idea dello spazio. Senza i due divisati sensi noi non acquisteremmo mai l'idea dello spazio, quantunque esso non abbia qualità visibili nè tangibili. Ma noi la for miamo vedendo e toccando i corpi che sono in esso contenuti: ambe queste sensazioni unite insieme ci danno l'idea della esisten za, del sito, della distanza, del moto, e della materiale disposizione di tutti gli obbietti sensibili. Cotesta idea dunque è una condizione necessaria della facoltà del per cepire, e non solamente è dalla stessa in separabile, ma è indelebile nell'animo; imperocchè concepiamo come possibile la distruzione di tutti i corpi che in esso vedia mo, e come impossibile la distruzione dello spazio che li contiene. Laonde per fatto della natura noi concepiamo lo spazio come un vacuo immenso, eterno, indissolubile che in se contiene le cose create, vale a dire incapace esso stesso di creazione e di an nientamento. Un tal concetto non è una illusione desensi della percezione, nè una cieca credenza dell'animo, perchè entra es senzialmente nella realità di tutte le opere della natura: l'estensione e la figura, che son parti dello spazio limitato formano parte della geometria, o sia d'una scien za, di cui le verità sarebbe impossibile che non fossero quali sono. Che è dunque lo spazio illimitato? È un concetto che l'animo forma, traspor tando lo spazio determinato, all'indeter minato, o sia all'indefinito, e da questo all'infinito assoluto. Un tal concetto è sug gerito dalla immaginazione, la quale per via di similitudine è pronta sempre a sup plire a tutto quel che è al di là desensi e della ragione. Se sia vacuo o pieno: se il vacuo sia una privazione de corpi, o il puro niente; se il pieno sia formato di tale o di tale altra sostanza materiale, penetrabile, o impenetrabile, sono quistio ni, le quali tutte transcendono l'umana capacità, e che niuno sforzo di scienza potrà mai rendere solubili. Kant, al pari di Reid, disse che il con cetto dello spazio è una visione empirica o sia sperimentale, prodotta da sensi del la vista e del tatto, la quale visione è una credenza naturale istintiva, che non possiamo spiegare per qualsivoglia sup posizione. Ne fece insieme col tempo una delle due forme della sensibilità, con che intese dire, che son due leggi o con dizioni della natura, inerenti alla nostra facoltà sensitiva. E se non avesse avvolto un tal pensiero in altri concetti tenebrosi, e non ci avesse condannato alla incertezza della realità di tutte le rappresentazioni desensi; potremmo annoverarlo tra i filo sofi moderni, i quali han tagliato i nodi delle interminabili quistioni metafisiche ed - 461 - ontologiche iutorno alla natura e alla rea lità dello spazio. Quel che ha contribuito a moltiplicare le ipotesi, è l'analogia che la mente sco pre tra lo spazio e il tempo, analogia la quale ha fatto a molti sperare, di potere per mezzo dell'uno spiegare i fenomeni dell'altro. Siccome dalla idea del luogo passiamo a quella dello spazio; così dalla idea della durata passiamo all'altra del tempo: lo spazio comprende in se le cose estese, il tempo abbraccia le successive: le cose create tutte sono nello spazio, e nel tempo: l'estensione e la durata non solamente si misurano a vicenda, ma ser vono di misura alle altre cose misurabili: non solamente noi concepiamo lo spazio e il tempo allo stesso modo, e colla stessa facilità, o sia per una immediata dedu zione dalla estensione e dalla durata; ma i concetti dell'uno e dell'altro sono del pari necessari, istintivi, ed indelebili. In fatti nulla possiamo concepire che non sia nello spazio, o nel tempo; e potremo bene immaginare che le cose tutte ver ranno a mancare insieme con noi, senza poterci dispensare di riferire questo ed ogni possibile avvenimento ad un tempo futuro, che vedrà innanzi a se disparire le cose presenti e le successive, del pari, che è avvenuto delle passate. Ma se il tempo ha somministrato similitudini alle ipotesi dello spazio, questo non è sta to men fecondo in restituirle al tempo. V. questa voce. In conclusione, un filosofo sperimen tale dee limitarsi alla idea dello spazio limitato o determinato, di cui non v'ha nulla di più chiaro. I sensi del tatto e della vista, dopo di averci somministrato una tale idea, ci mostrano che lo spazio a è indefinito, perchè si protrae al di là del luogo occupato dal corpo, che ce ne ha dato la prima conoscenza. La vista al lontana ancora di vantaggio i limiti del lo spazio, e l'immaginazione, credendo di supplire al difetto della vista, compie l'idea dello spazio indefinito. Ora se lo spazio originario, e diremo elementare, non è che il luogo occupato da corpi, cotesto spazio non può esser pieno di sua natura, perchè il domandare se lo spazio sia pieno o vacuo, importerebbe lo stesso che cercare, se lo spazio e il corpo sono due cose identiche. Ma potrebbe lo spa zio indefinito dell'universo essere occupato da una sostanza tenuissima ed imponde rabile, come un etere sottilissimo; il che se fosse, nulla aggiugnerebbe o toglierebbe alla idea dello spazio, nello stesso modo che si può avere una idea chiarissima d'un vaso, della sua forma e di tutte le altre sue qualità sensibili, senza conoscere la natura d'una sostanza in esso contenuta. V. Etere, Vacuo. SPECCHIo (spec. e prat.), cristallo inar gentato o stagnato da una parte, che per essere impenetrabile alla vista, riflette dal 'altra parte i raggi della luce, e presenta l'immagine degli oggetti, che gli si met tono davanti. La spiegazione del fenomeno della re flessione della luce, per mezzo dello spec chio, forma il suggello della Catottrica. V. questa voce. In senso morale, specchio vale qualun que lucido esempio o ritratto di virtù, il . perchè diciamo, essere specchio al mon do di costumi, di vera penitenza, o di altra virtù. V. questa voce, SPECIALE (dise.), quel che è partico lare, e non comune o generico. – 462 – È addiettivo proveniente da specie, che gl'Italiani hanno promiscuamente detto spezie. Noi distingueremo queste due voci dando a ciascuna un significato proprio, lasciando a derivati quello che dà loro l'uso comune del parlare. V. Specie, Spezie. SPECIE (spec.), l'immagine o la for ma visibile d'un obbietto. Per rispetto al modo col quale potessero gli obbietti trasmettere le loro immagini, i sapienti facevano varie supposizioni: al cuni dicevano essere l'immagine una ef. fusione della sostanza dell'obbietto; altri l'effetto della reflessione della luce: altri finalmente l'azione d'un corpo più sottile della luce, che ricevesse e trasmettesse da uno all'altro le figure de'corpi. Sopra tali supposizioni distinsero le specie impresse dalle espresse, avendo chiamato impresse quelle che dall'obbietto vengono all'orga no, ed espresse quelle altre che proven gono dall'interno all'animo, o che l'or gano tramanda all'obbietto. Di qua la dottrina peripatetica delle specie inten zionali, che erano poi distinte in sensi bili e intelligibili, e dalle quali nasce vano le idee. V. Idea intenzionale. I latini chiamarono species quel che i greci avevano chiamato idea e forma; il perchè questi tre vocaboli furon da Cice rone scambiati l'uno per l'altro. Gl'Italiani hanno preso da Latini la voce specie, che per semplice varietà d'ortografia scrivono ancora spezie. Giova non pertanto alla chiarezza e precisione del linguaggio filoso fico, dare a ciascuno di questi due vocaboli un senso diverso, riservando alla spezie un significato puramente logico. V. Spezie. SPECULARE (spec.), impiegare l'intelletto fissamente nella contemplazione delle cose. SPECULATIvo (spec.), chi considera at tentamente le cose, o il pensiero stesso che le considera. Scienza, o dottrina speculativa è stata detta quella che investiga i principi e le teorie di qualunque parte dell'umano sa pere, astrazione fatta dalla loro applica zione; ond'è che questo vocabolo ha per suo contrapposto e correlativo il pratico, Efilosofia speculativa diciam quella che versa circa gli obbietti invisibili del pensiero, ed abbraccia ogni parte dello spirito umano. SPENSIERATo (prat.), uomo trascurato che non ama di occuparsi di nulla, o che opera senza riflessione. SPERANZA (prat.), espettazione di fu turo bene, e di quel che si desidera. Cartesio definilla, contento dell'animo per un bene che crede poter conseguire. ELocke, ideale godimento dell'avvenire. La speranza e il timore sono i due più potenti motori delle umane azioni, perchè sono i due sentimenti che ci guidano nel la ricerca del bene, e nella avversione al male. La speranza è sempre implicita nel desiderio, anzi è quella che lo alimenta e lo sostiene, e ne forma un principio di azione. V. Desiderio. SPERGIURo (teol. e prat.), bugia au tenticata da giuramento. È una violazione della fede dovuta a Dio e all'uomo; e però è la più grave di tutte le perfidie. V. Giuramento. SPERIERzA. V. Esperienza. SPERIMENTo. V. Esperimento. SPERIMENTALE. V. Esperimentale. – 465 – SPERMA (spec.), fluido seminale, se gregato da testicoli, che per mezzo d'un sistema di vasi propri è condotto in un particolare ricettacolo, per servire all'uso della generazione. V. questa voce. SPEzie (disc.), collezione d'individui, ne'quali ravvisiamo somiglianza di quali tà, e però comprendiamo sotto una comune denominazione. V. Individuo, Qualità. La spezie è compresa in una collezione più ampia, detta genere, il quale ab braccia le qualità comuni a più spezie. V. Genere. Infima spezie fu detta da logici quella che in se comprende individui, i quali per difetto di differenze sensibili e caratteristi che, non potrebbono formare genere. La spezie era uno de predicabili aristo telici. V. Predicabile. SPIACENZA. V. Dispiacenza. SPIRITo (spec. e crit.), l'intelligenza d'un Essere incorporeo, e la stessa sostanza incorporea. Così nell'uno come nell'altro significato cotesto vocabolo comprende tutto l'ordine degli Esseri immateriali, cominciando dal Primo increato ed infinito, e terminando alle creature. È in somma la sostanza del l'anima umana ed il contrapposto della materia. Noi concepiamo lo spirito come una so stanza essenzialmente diversa dalla materia, perchè in uno sta l'azione, o sia la cau sa, nell'altro la passione o sia l'effetto; perchè le qualità dell'uno sono essenzial mente diverse da quelle dell'altra; e final mente perchè, conoscendo le qualità della nuda materia non informata dallo spirito, distinguiamo negli Esseri animati, senza alcun dubbio di errore, le funzioni e per conseguente le proprietà della sostanza cor porea e della incorporea. Diciamo dunque, che l'estensione, la solidità, la divisibilità sono proprietà della materia; il pensiero e la volontà, dello spirito. E vero non pertanto, che per tale con trapposto noi conosciamo la diversa natura dell'una e dell'altro, senza potere altri menti definire che è lo spirito, o che è la materia, avendo il Supremo autore della natura, riservato a se la cognizione delle essenze di tutte le cose create. E però quando vogliamo definire lo spirito per le qualità che consideriamo come sue proprie, lo diciamo un Essere dotato d'intelligenza e di volontà; e quando vogliam designarlo per la sua diversità dalla sostanza corpo rea, lo denominiamo un Essere immate riale. V. Immateriale, Sostanza. Considerato lo spirito come la sostanza propria dell'anima, si adopera promiscua mente per l'anima stessa, e per ciascuna delle sue potenze o facoltà intellettuali. Ed in un senso più speciale è usato que sto vocabolo per esprimere l'acume stesso dell'intelletto. Laonde chiamasi spirito la prontezza di combinare e di associare le idee che han qualche relazione tra loro, il quale significato è proprio de Francesi. Nel senso testè additato, Locke definì lo spirito per la facoltà di prontamente rac cogliere insieme le idee, nelle quali puossi ravvisare qualche somiglianza o relazione. V. Acume, Intelligenza. SPIRITUALE (spec.), ogni essere dotato di spirito, o ogni qualità propria dello spirito. V. questa voce. Ha per suo contrapposto il materiale, e per suo termine analogo l'immateriale. V. queste voci. – 464 – SPIRITUALISMo (cril.), sistema filosofico, che ammette lo spirito, o sia l'intelligen za, come unico principio della umana co gnizione. È uno degli estremi, ne quali è caduta la filosofia, avendo altri riconosciuto i sensi, come l'unica origine delle idee, che è quel che è stato denominato sensi smo. V. questa voce. SPIRITUALITÀ ( spec. ), l'astratto dello spirituale. È il vocabolo consecrato ad esprimere la sostanza immateriale dell'anima.V. Anima, ASpirito. Noi concepiamo la spiritualità per l'ana lisi stessa delle operazioni e delle facoltà dell'anima; e dapoichè riflettiamo che il volere e il pensare, sono operazioni pro prie d'un agente libero, dotato di qualità diverse dalla materia, però distinguiamo due sostanze in noi stessi. La nozione dun que della spiritualità dell'anima, è la stessa della immaterialità, espressa con due di versi vocaboli, de quali l'uno dice quel che noi concepiamo che sia, l'altro, quel che certamente non è. V. Immaterialità. SPLENDoRE (prat.), soprabbondanza di luce scintillante, che si restrigne intorno ad un obbietto. Si trasporta dalla maggior luce del sole al chiarore della virtù o della fama. SPONTANEITÀ e SPONTANEo (spec. e prat.), l'atto di cui il principio è nell'agente stesso che lo produce. Questa definizione è di Aristotele, e par che non si possa darne una più precisa: spontaneum est, cuius principium est in agente. La spontaneità è un nome dato alla qualità, che ha l'intelletto di formare i modi, e di astrarre; dalla qual virtù na scono le idee generali di spazio, di tem po, di sostanza, di accidente, di causa e di effetto. Applicato al moto indica spezialmente quello che ogni animale produce per sua interna virtù; ed applicato alle azioni, indica quelle che dipendono dalla volontà, e non da alcuno costrignimento. I casisti han promosso la quistione, se la libertà della volontà consista nella sola spontaneità dell'azione, ma quelli che han sostenuto l'affermativa sono stati risguar dati come fautori del sistema della neces sità. Imperocchè, se così fosse, le azioni umane sarebbero tanto libere, quanto i movimenti e gli atti che dipendono dal pretto organismo animale. V. Libertà, Mecessità. SPRoPoRzioNE (spec.), difetto di pro porzione, in più o meno che sia. È termine di relazione, che nasce dalla comparazione della quantità, al pari del suo contrapposto. V. Proporzione. SREcoLATEzzA (prat.), ogni sorta d'azio ne illecita o riprensibile, che esce dal pre scritto della legge morale. STAMPA (dise. e crit.), l'arte di pren dere con inchiostro permanente le impres sioni de'caratteri alfabetici, e di qualunque altra figura, sopra carta, pergamena, tela, o altra simile materia. Il vocabolo stampa è eomune a due diverse spezie d'impressioni, l'una per dipintura e disegni, l'altra per libri. La prima differisce dalla seconda in questo, che i caratteri della stampa da disegno sono incavati in tavole di rame, di legno o di altra materia, laddove i caratteri da libri son gettati in rilievo. L'una appartiene all'arte della incisione, e l'altra alla tipografia. Lasciamo a libri di ciascuna delle mentovate arti la storia dell'invenzione e deprogressi loro. Dicia mo soltanto, che alla stampa del caratteri alfabetici sono dovuti la diffusione della coltura in Europa, ed il progresso delle scoverte e delle invenzioni, per le quali ogni generazione perfeziona ed accresce le conoscenze che le sono state tramandate. E però gl'inventori di quest'arte son ce lebrati come i più benemeriti promotori delle scienze, delle arti, e d'ogni utile di sciplina; e può dirsi che il consenso di tutte le nazioni abbia eretto loro un mo numento di gloria, il quale durerà insino a che vi saranno lettere. Le città, nelle quali essi nacquero, disputansi ciascuna il vanto della maternità di sì illustri figliuoli; e contrastano l'una all'altra la priorità dell'invenzione. - Magonza se la disputa per Giovanni Fust e per Giovanni Guttemberg, Harlem per Lorenzo Giovanni Koster, e Strasburgo per Giovanni Mantel. Se si dee prestar fede ad un privilegio dell'Imperator Massimi liano (messo in fronte della edizione del Tito Livio del 1518), posteriore di circa 5o anni a primi libri apparsi in istampa, il merito e l'onor della invenzione son do vuti a Giovanni Fust di Magonza, il quale ha ancora per se la priorità della data delle sue edizioni, che risalgono insino all'an no 146o. - - Checchè sia di questa lite e del vero inventore, se misurar si volessero i gradi delle difficoltà che gl'inventori ebbero a su perare per giugnere al trovato della stam pa, potremmo forse maravigliarci del non essere stata fatta una tale scoverta prima della metà del decimoquinto secolo, quan do le arti tutte del disegno, e con esse quelle dell'intaglio e del rilievo erano già di molto avanzate. Ed in conferma di ciò potrebbesi ancora osservare, che i Chinesi trovato avevano quest'arte parecchi secoli avanti di noi, comechè ignorassero l'uso de caratteri mobili, ed imperfetta fosse ri masta l'arte loro a rispetto del progressi che la nostra in breve tempo fece. A questi progressi è dovuta la bibliografia nuovo ramo di storia letteraria, cui l'arte tipo grafica ha dato nascimento. Quantunque essa abbracci un genere di conoscenze se condarie ed accessorie, dee ciò non ostante essere risguardata, come il saper necessa rio de librai, e come un ornamento della erudizione. V. Bibliografia, Erudizione. STATICA (crit.), parte della meccanica, la quale prende per suo argomento i cor pi duri, che sono in istato di equilibrio, V. Meccanica. STATURA (spec.), l'altezza dell'uomo, stabilita dalla natura in proporzione delle altre sue dimensioni. I fisiologi dimostrano che la media sta tura dell'uomo è proporzionale alla testa, alla quantità del cervello, alla capacità degli organi della nutrizione, alla celerità del moto, e all'agilità della sua persona. D'altra parte gli antichi monumenti pro vano che la comune ed ordinaria statura degli uomini d'oggigiorno è la stessa che fu nella prima età del mondo. I corpi im balsamati che si son trovati nell'Egitto, le mummie, le dimensioni delle antiche tom be scoverte in diversi punti della Terra, appartenenti a popoli di più o meno gran de statura; gli elmi e le antiche arma ture adattabili alle persone e alle mem 59 – 466 – bra del nostri guerrieri, come l' erano a quelli del più rimoti tempi confermano una tal verità; sì che come favolose tener dob biamo le tradizioni del poeti che ci fan credere gli uomini de tempi eroici di una statura e di proporzioni molto maggiori delle presenti. Ciò non esclude che vi sieno stati, e vi sieno ancora del giganti, siccome v'ha de'nani, i quali formano nella spezie umana una gradazione simile a quella che si scontra nelle altre razze di animali; gradazione adattata alle di verse regioni e climi del nostro globo, la quale puossi ancora credere, che abbia variato nel numero. Imperciocchè è pos sibile, che nel nascere della umanità e nel primo vigore dell'umana costituzione vi sieno stati uomini di una misura più grande, anche relativamente a quelli che tali oggi appariscono a rispetto della ge neralità. Certa cosa è che le forme sim metriche del corpo umano dimostrano, che i giganti e i nani, i quali sono al disopra, o al di sotto della media e co mune statura, van considerati come va rietà aecidentali, e non come differenze caratteristiche di particolari razze. V. Gi gante, Mano. STELLA (spec.), nome comune a tutti i corpi celesti, che noi distinguiamo in due grandi classi, le fisse, e le erranti. Erranti diconsi propriamente i pianeti, i quali mutano sempre di sito e di distan za, a rispetto così degli uni verso degli altri, come delle stelle fisse, e son quelli che formano il così detto sistema planeta rio. Il nome di fisso è stato dato a quel l'altro immenso numero di corpi luminosi, che serban sempre la stessa distanza tra loro. Si suole anche adoperare la voce ge nerica astro, per indicare qualunque cor - po celeste, e distinguere conomi di stelle o di pianeti gli astri fissi o gli erranti. Le comete son comprese ancora tra le stelle erranti, ma la difformità del perio di , e delle curve che esse descrivono, e il moto loro eccentrico a rispetto del pia neti propriamente detti, le fanno collocare in una classe da questi diversa. V. Come ta, Pianeta. - - Non è parte dell'universo che dia come questa una pruova maggiore della sua immensità. Gli astronomi la considerano sotto cinque diversi punti di veduta, cia scun de'quali somministra ad ogni uomo contemplatore argomenti di profonde medi tazioni intorno alla onnipotenza del Crea tore e alla condizione dell'uomo, collo cato in mezzo a cotante maraviglie con cortissimi sensi per discernerle, e con una mente capace quasi di abbracciarle in tutta l'ampiezza loro. Seguiamo per poco le considerazioni astronomiche intorno alla distanza, alla grandezza, al numero, alla natura, e al moto delle stesse fisse. Distanza. Le stelle fisse sono così re mote da noi, che non è ad esse applica bile alcuna delle misure adoperate nel si stema planetario, per determinare le di stanze de corpi celesti dalla Terra, o dell'un di essi a rispetto dell'altro. Cote ste distanze appariscono a noi quasi infi nite ed indeterminabili, perchè non ab biamo alcuna paralasse sensibile per mi surarle, come ne pianeti; o sia perchè vedendo noi sempre le stelle nello stesso punto del cielo, da qualunque punto del l'orbita della Terra le riguardiamo, non possiamo stabilire alcuna relazione tra la loro distanza ed il diametro dell'orbita stessa. Ciò non ostante molti astronomi hanno tentato di scoprire una paralasse per qualcheduna delle principali stelle fisse, e – 467 – Flamsteed credette di averne trovata una di venti secondi, giusta la quale avrebbesi la distanza della stella Sirio dal Sole. E siccome la distanza media del Sole dalla Terra è di 23984 semidiametri terrestri; così la distanza di Sirio dalla Terra, sa rebbe di 247 milioni di raggi terrestri. Con altro metodo tentò Huygens di sco prire la distanza delle stelle fisse, parago nando cioè i diametri apparenti del Sole e di Sirio, che trovò stare tra loro come 27664 a 1; sì che, se la distanza del Sole fosse 27664 volte maggiore, vedrebbesi da noi dello stesso diametro del Sirio. Ora supponendo che questa stella fosse in grandezza eguale al Sole (supposizione che può contenere errore nel più o nel meno), ne risulta che la distanza di Sirio dalla Terra sta a quella del Sole dalla Terra come 27664 a 1 ; e per conseguente Sirio sarebbe da noi lontano 64o milioni di se midiametri della Terra. Ma queste antiche esperienze, comunque saggi di grandi uomini, non sono più da ammettersi ; ed ora la distanza delle stelle fisse se non può dirsi con certezza misurata nella sua quantità, lo è almeno con certezza nel suo limite minore. Gli astronomi hanno convenuto, che i diametri, o dischi, che le stelle sembrano conservare anche nei migliori telescopi, non sono altro che una pura illusione ottica; e d'altra parte le osservazioni astronomiche hanno ricevuto tale perfezione, che non solamente non può ammettersi la paralasse di 2o secondi trovata da Flamsteed, ma se esistesse per le stelle la paralasse di un secondo non potrebbe sfuggire alle misure odierne. Am mettendo una tale paralasse, che è sicu ramente maggiore della vera, la distanza delle stelle risulta 2oo,ooo volte almeno quella del Sole dalla Terra, cioè di 48oo milioni di raggi terrestri. È questo perciò il limite minore della distanza delle stel le fisse, la quale nondimeno è tale, che la luce, la cui velocità non è minore di 166,ooo miglia in un secondo, dovrebbe impiegare tre anni per giugnere da una stella insino a noi. - Ammettendo questo limite della distanza delle stelle dalla Terra, il dottor Wolla ston ne conchiuse che la luce di Sirio do veva esser molto maggiore di quella del Sole. In fatti con esperienze fotometriche dirette trovò che la luce di Sirio, quale apparisce a noi, sta alla luce del Sole come 1 a 2o,ooo,ooo,ooo ; e poichè le intensità della luce sono in ragione in versa de'quadrati delle distanze, da quella misura si desumerebbe che se Sirio fosse per luce eguale al Sole, dovrebbe essere 141,4oo volte più lontano. Ma si è detto che non può esserlo meno di 2oo,ooo vol-. te; la luce dunque di Sirio dee sorpas sare di molto quella del Sole. Non è in fine da tacere che il chiaris simo astronomo Bessel in Koenigsberg da pochi anni è riuscito a misurare effetti vamente la paralasse di una piccola stella doppia, detta la sessantunesima del Ci gno, e l'ha trovata di o,35 soltanto: e però la distanza di quella stella dalla Terra risulta 6oo,ooo volte maggiore di quella della Terra dal Solel Quantunque, per quanto sappiamo, non vi sia stato finora altro astronomo che abbia ripetuta l'esperienza del Bessel, nondimeno la fama di lui come osservatore diligentissimo e come profondo astronomo teoretico, non fa rivocare in dubbio il suo risultamento. Grandezza. Noi non possiam dire, se la varia grandezza apparente delle stelle fisse, nasca da diversità delle dimensioni loro, ovvero dalla maggiore o minore s - – 468 – loro distanza. L'astronomia non pertanto le considera e le ordina secondo l'appa rente loro grandezza distribuendole in sei classi, chiamate di prima, di seconda, di terza, di quarta, di quinta, di se sta grandezza, l'ultima delle quali com prende le più picciole tra le visibili ad occhio nudo. Oltre queste v'ha la classe delle telescopiche, e oltre le telescopiche le nebulose, che appariscono all'occhio come una macchia bianca più o meno estesa. Tale e tanta suddivisione di gran dezza neppur basterebbe a comodamente osservarle; il perchè vengono ancora di vise, per rispetto alla loro situazione, in varie costellazioni. Quelle che non entra no in alcuna costellazione prendono il no me d' informi, ma di queste molte pas sano a formar parte di nuove costellazio ni, a misura che agli osservatori riesce di poterle unire sotto dati segni di figure o di altre somiglianze. V. Costellazione. Numero. È comune il proverbio numera stellas, si potes. Ciò nonostante gli astro nomi, a cominciar da quelli dell'antichità, han cercato di numerare le stelle visibili. . Ipparco nell'anno 125 prima dell'era vol gare, essendo comparsa una nuova stella, imprese a fare un catalogo di tutte le vi sibili, acciocchè potessero i posteri accor gersi d'ogni altro nuovo avvenimento. Il numero che ne descrisse fu di 1o22, ri dotte in quarantotto costellazioni. Tolomeo ne aggiunse altre quattro: nell'anno 1437 Ulug Beigh nipote di Tamerlano ne nume rò, in un suo nuovo catalogo 1 o77. Ma dal secolo decimoseltimo, tempo in cui rinac que lo studio dell'astronomia, è andato sempre crescendo il numero delle costel lazioni e delle stelle. Alle quarantotto co stellazioni degli antichi ne furono aggiunte dodici scoverte verso il polo meridionale, e due verso il settentrionale. Tico-Brahe publicò un catalogo di 777 stelle da lui osservate. Keplero accrebbe il catalogo di Tolomeo insino al numero di 1163. Il Riccioli portolle a 1468, e il Mayer a 1725. Il dottor Halley ne aggiunse a queste altre 373 da lui osservate nell'emisfero antartico. L'Hevelio unendo insieme le osservazioni degli antichi e del moderni diede un nuovo catalogo di 1888 stelle, numero che Flam steed portò insino a 3ooo, e Piazzi insino a 7646. Il Riccioli, nel nuovo Almage sto, non ebbe ritegno di affermare che chi dicesse essere le stelle più di ventimila volte ventimila, non direbbe nulla d'im probabile. Checchè sia di questo concetto, il quale sembra più volgare che scienti fico, lo sterminato numero delle stelle fisse apparisce manifesto, per la moltitudine stessa di quelle che non vediamo, e per la progressione delle nuove scoverte, che ne accrescono e non ne diminuiscono il catalogo. Ed un tale accrescimento avviene non solamente per le isolate, ma per le costellazioni ancora conosciute, sin dal tempo degli antichi. Il numero decompo menti di ciascuna costellazione è andato crescendo a misura che i mezzi dell'osser vazione si sono andati perfezionando. In fatti nella costellazione delle pleiadi com posta di sette stelle già note, il dottore Kook con un telescopio lungo dodici piedi, con tonne sessantotto; il cappuccino Rheita af fermò aver egli osservato più di 2ooo stelle nella costellazione d'Orione e più di 188 nelle pleiadi, l'Huygens, guardando la stel la che è nel mezzo della spada d'Orione, ve ne scoperse dodici; ed il Galilei ne trovò ottanta nella spada d'Orione, ventuno nella stella nebulosa della testa di lui, e tren tasei nella stella nebulosa, detta presepe. Ne tempi a noi più vicini il numero delle – 469 – stelle già registrate sino alla settima gran dezza, era di circa 2oooo. L'attenta os servazione de luoghi del cielo, in cui mag giormente si vedono addensate le piccole stelle, ha fatto di poi sparire quasi ogni limite al loro numero. Il celebre Herschel padre, che col suoi potenti telescopi si è occupato con tanto successo dell'astrono mia siderea, esaminando alcune regioni della via lattea, e contando le stelle com prese nel campo del suo cannocchiale, è giunto a conchiudere che uno spazio di due gradi di larghezza, e di quindici di lunghezza, ne conteneva più di 5oooo. Da pochi anni ancora il chiaro astronomo Bessel di Koenigsberg ha determinato le posizioni di 6oooo piccole stelle della set tima alla duodecima grandezza, comprese, nella zona celeste, che si estende da 15 gradi di declinazione sud a 45 gradi di declinazione nord. Chi potrà mai perve mire a numerare il Cielo? Matura. Chi dice natura, vorrebbe dire essenza, o vero costitutivo delle sfere ce lesti. Ma se non è dato a noi il conoscere l'essenza delle cose poste sotto i sensi no stri, e distinguer possiamo soltanto le ap parenti qualità loro; che di certo può af, fermare l'astronomia intorno alle qualità proprie de corpi celesti? Null'altro che congetture più o meno verisimili, desunte dalle loro qualità apparenti. E siccome le qualità a noi più apparenti son la luce e il moto; così ragionando per analogie de sunte dalle simili qualità degli altri corpi celesti, la generalità degli astronomi ha creduto poter dedurre, che le stelle fisse risplendano d'una luce propria; che sieno altrettanti soli, ciascun de quali è centro d'un particolar sistema planetario, ed ab bia intorno a se corpi opachi illuminati dalla sua luce. E siccome tra le stelle fisse v'ha di quelle che alternamente appari scono e spariscono, e al primo loro ap parire crescono in magnitudine, mentre poi decrescono allorchè cominciano a di sparire; così si credette da alcuni che que ste fossero altrettanti pianeti, i quali fan no i loro periodici rivolgimenti intorno ad una stella fissa, come intorno al proprio sole. E per la stessa ragione essendo an cora tra le stelle fisse di quelle che scom parse una volta, non sono più tornate ad apparire, si è da altri congetturato che fosser queste altrettante comete, che fac ciano intorno a centri de rispettivi loro si stemi planetari quel corso medesimo, che le comete visibili nel nostro orizzonte fanno intorno al sole. Ma l'analogia del sistema solare (in cui i pianeti e le comete sono piccolissimi per rispetto al loro centro di attrazione, e sono illuminati di luce re flessa), rende poco probabili queste opi nioni, perchè simili corpi sarebbero ne cessariamente invisibili alla immensa di stanza delle stelle fisse, dimostrata dalle moderne osservazioni. E però vale me glio confessare, che non sappiamo dare una plausibile spiegazione di tali fenome ni. Keplero negò che ogni stella fissa pos sa esser centro d'un proprio sistema pla netario, dacchè, se così fosse dovrebbero essere collocate a diverse distanze tra loro. Ora supponendo una di tali stelle due o tre volte più distante d'un'altra, appa rir dovrebbe nella stessa proporzione più picciola, anche quando si supponessero eguali nella vera loro magnitudine. Ma per contrario le osservazioni le più dili genti dimostrano che non v'ha alcuna dif ferenza nella loro apparente magnitudine. Per tali considerazioni giudicò egli che cotali stelle fossero tutte fisse nella stessa superficie, o sfera. D'altra parte rispose – 470 – Huygens alle obbiezioni del Keplero, non solamente coll'esempio de fuochi e delle fiamme, che son visibili anche a distanze, alle quali spariscono altri corpi compresi sotto angoli eguali; ma anche spiegando il teorema ottico nel quale era fondata l'opinion di Keplero, cioè che i diametri apparenti degli obbietti sono reciprocamente proporzionali alle distanze dall'occhio del l'osservatore. Questo teorema, egli disse, ha luogo quando il diametro dell'oggetto abbia una ragione sensibile alla sua di stanza. Il ragionamento di Huygens è so stenuto dalle scoperte fatte da moderni nel l'astronomia siderea, dapoichè le stelle, oltre a movimenti generali apparenti, dei quali quì appresso parleremo, hanno pure taluni moti loro propri, e diversi per le diverse stelle, sì che non potrebbero mai considerarsi come connesse tra loro, e ſor manti un solo sistema. L'opinion domi nante degli attuali astronomi è , che le stelle fisse sieno altrettanti soli. L'analogia poi li porta a credere, che sieno ancora centri di sistemi planetari. Noi risguar diamo tali opinioni come ipotesi utili sol tanto, perchè richiamano l'attenzione del l'uomo alla contemplazione del fenomeni celesti, i quali formano una delle spezie di quell'ignoto, nel quale trovasi racchiuso un altro ordine di fatti e di verità, supe riori all'umana ragione. V. Ignoto. Molo. Le stelle fisse hanno vari moti apparenti. Il moto diurno, o del primo mobile, è quel movimento per lo quale le stelle son portate insieme colla sfera o firmamento in cui sembrano infisse, in torno alla Terra da oriente in occidente, compiendo il loro giro in 24 ore sideree, cioè in 23 ore e 56 minuti di tempo so lare. Questo movimento è una semplice apparenza, dipendente dalla rotazione del la Terra intorno al suo asse da occi dente in oriente in 24 ore sideree; impe rocchè di chi osserva il cielo sulla super ficie terrestre, avviene come di chi stan do in mare attribuisce alle coste un mo vimento eguale e contrario a quello della Slla IlaVe. - - - - - - - - Un secondo movimento apparente delle stelle, avvertito anche dagli antichi, è il moto di precessione, per lo quale le lon gitudini delle stelle crescono annualmente di 5o secondi e'/, rimanendo costanti le loro latitudini. Cotesto movimento risulta evidente dal paragone delle posizioni di molte stelle osservate dagli antichi con le posizioni determinate da moderni. Tico Brahe calcolò l'aumento della longitudine in un secolo di 1.º 25'. Copernico lo cal colò di 1.º 23'. 4o”. Flamsteed e Riccioli di 1.° 23.2o”. Presentemente gli astronomi hanno generalmente adottato la determi nazione di Bessel, che è di 5o22”, o sia di 1.°23. 42”,351, in cento anni giuliani, contenenti 36525 giorni. Secondo questo dato la longitudine delle stelle crescerà di 36oº, o sia, faranno esse l'intero giro del cielo in 258o5 anni. Molti han pensato, non si sa con qual fondamento, che ter minato questo periodo, la natura termi nerebbe il corso suo, e la sfera celeste rimarrebbe immobile, se pure il Creatore non disponesse altrimenti. Ma questa opi nione è tanto più improbabile, quanto il movimento delle stelle in longitudine è una semplice apparenza, la quale dipende da un lentissimo movimento dell'asse dell'equa tore terrestre intorno al polo della ecclit tica. Un tal movimento è prodotto dalla forma sferoidale della Terra, la quale fa sì che l'attrazione del Sole e della Luna sulla massa terrestre non possa dirigersi unicamente al centro, ma agendo sulle – 47 i – parti sporgenti dell'equatore terrestre, ge nera nell'asse quel moto vorticoso, che fa retrogradare il punto equinoziale, e ac cresce per conseguente le longitudini delle stelle. V. Longitudine. Subordinato al moto di precessione è un altro picciolo movimento oscillatorio dell'asse terrestre, detto di mutazione, scoperto da Bradley. Cotesto movimento si compie in 18 anni, e modifica legger mente il moto di precessione. Lo stesso Bradley scoperse un altro picciolo movi mento apparente delle stelle fisse, detto di aberrazione, per lo quale noi non vediamo le stelle precisamente nel luogo ch'esse occupano, ma sempre più avanti nella direzione del moto annuo della Ter ra. È questo un inganno ottico, prodotto dalla combinazione del moto della luce con quello della Terra intorno al Sole. Oltre a mentovati quattro moti appa renti, i moderni astronomi hanno scoperto nelle stelle fisse due movimenti reali. Col primo, che vien detto moto proprio le stelle lentissimamente e progressivamente muovonsi in una direzione non ancora co nosciuta. Il maggior moto proprio, che sia stato sinora osservato è di tre secondi e tre quarti in un anno, ed appartiene alla stella indicata ne'cataloghi col nome di u di Cassiopea. Herschel suppose, che questo picciolo movimento delle stelle fisse potesse essere in parte l'effetto d'un lento movimento del sistema solare, che secondo lui si avvicinerebbe alla costellazione di Ercole. Una tal supposizione fu sostenuta da Argelander, il quale esaminò diligen temente i moti propri di molte stelle, see verandone la parte, secondo lui, dovuta al moto del nostro sistema. Ma nella ge neralità gli astronomi sono concordi nel confessare, che la scienza non è ancora a bastanza avanzata, per decidere intorno a ciò alcun che di positivo. Lo stesso illustre astronomo Herschel ar ricchì l'astronomia siderea della più im portante scoperta, che siesi fatta intorno a tale argomento. Esistono alcune stelle, che osservate con forti telescopi, si risol vono in due. Si accorse egli il primo, che la stella minore gira intorno alla mag giore, compiendo una ellissi, nel cui fuoco trovasi la stella maggiore, ed obbedendo alle leggi di Keplero. Successivamente gli astronomi hanno studiato molti di cotesti sistemi binari, determinando i periodi del le rivoluzioni, e gli elementi delle orbite. Per tal modo il sistema dell'attrazione di Newton ha giustificato il suo predicato di universale, datogli prima che si potesse suspicare che potesse un giorno divenire la legge generale della natura. V. Attra zione, Sistema. - - STIMA (prat.), pregio in che si tiene una persona. Non è da confonderlo col prezzo o va lore che il si dà alle cose, alle quali conviene meglio il vocabolo estimazione. V. questa voce. Srorino (prat.), chi manca della ca pacità del sensi. Vale insensato per natura. V. Insensato. SroLTEzzA, SroLTIZIA, e STOLTo (prat.), qualità dell'uomo di ottusi sensi. Differisce dal fatuo, che n'è affatto privo. V. Fatuo. SroMAco (spee.), viscere membranoso a figura di sacco, dove si ricevono i cibi e le bevande, e dove si dà loro la prima pre parazione per diventare materia di alimento. – 472 – La sua forma è lunga, attaccata dalla parte superiore al diaframma, dalla in feriore allo zirbo, dalla destra al duo deno, e dalla sinistra alla milza: ha due orifizi, uno a ciascuna estremità: l'orifi zio sinistro, propriamente detto cardia è unito all'esofago, dicui sembra essere una continuazione: per esso entrano gli alimenti, i quali dopo di essere stati di geriti, passano all'altro orifizio destro, che è il piloro, unito al primo degli in testini. Lo stomaco è composto di quattro mem brane o tuniche. La prima, che è la più interna, è propriamente la membrana muc cosa. Cotesta tunica non solamente è più grande delle altre, ma è piena ancora di pieghe e di rughe, spezialmente intorno al piloro, acciocchè il cibo sia ritenuto nello stomaco insino a che non sieno compiute tutte le operazioni della digestione: è ta pezzata inoltre di piccole glandule, le qua li separano un liquore che unge tutta la cavità dello stomaco, e facilita la conco zione degli alimenti, il perchè è denomi nata tunica glandulosa. Delle altre tre, la seconda è più fina e più nervosa ; la terza è muscolare, composta di fibre di ritte e circolari, delle quali le diritte son disposte per lungo tra l'orifizio superiore e l'inferiore, e le circolari obliquamente dalla parte superiore alla inferiore dello stomaco; la quarta è delle comuni ed è una ripiegatura del peritoneo. Di queste la muscolare ha per le continue sue con trazioni la parte maggiore nel tritamento e nella digestione degli alimenti. V. Mem brana. - - De nervi dello stomaco alcuni proven gono dall'ottavo paio di quelli del cervel lo, che spezialmente si distendono intorno all'orifizio superiore, ed altri dal plesso soleare del gran simpatico: di qua la grande sensibilità dello stomaco, e la sim patica corrispondenza delle affezioni del cuore, con quelle del capo e dello sto maco. V. Mervo. STORIA (crit.), narrazione de fatti pas sati dell'uomo, scritta con ordine di tem po e di luogo, da servire per istruzione delle seguenti generazioni. La cronologia e la geografia son due compagne inseparabili della storia, per chè senza di esse non potrebbe lo storico servare l' ordine del tempi e de luoghi, cotanto necessari alla memoria ; nè po trebbe dare alla sua narrazione quella im pronta di autenticità, che dee necessaria mente ricevere da documenti coetanei, o dalla testimonianza delle persone presenti a fatti che narra. Dalla maggiore o minore ampiezza dei fatti o del tempo che lo storico abbrac cia nella sua narrazione ; ovvero dalla diversa qualità del fatti che imprende a narrare nascono le partizioni de vari ge neri di storie, che sogliamo distinguere nel quadro delle umane conoscenze. Le due più ampie partizioni, sono, l'antica e la moderna, l'universale e la parti colare, l'una prende il suo carattere dal tempo: l'altra dalla quantità dei fatti che formano il suo argomento. L'antica com prende la descrizione de fatti della uma nità tutta intera dalla origine delle nazio ni insino alla caduta dell'impero romano, o sia insino al quinto secolo dell'era vol gare. La moderna propriamente comincia dalla invasione del popoli barbari, e ab braccia tutte le seguenti etadi; sebbene a distinguere un periodo men lucido, qual è quello della barbarie, in cui i po poli vincitori immersero i vinti, risguar – 475 – dar si soglia l'età di mezzo (cioè dal quinto al decimo quinto secolo) come un intervallo capace più della interpretazio ne degli eruditi, che d'una storica de scrizione. La distinzione non pertanto tra l'antica e la moderna storia non toglie alla mente la possibilità di abbracciare l'una e l'al tra insieme, anzi le somministra il mezzo di paragonarle tra loro, e di discernere in che convengano o disconvengano i fatti e gl' instituti delle vecchie e delle nuove nazioni. Ma la storia, la quale prende il suo carattere dal tempo, si abbatte neces sariamente in un ostacolo che rende in certi i suoi inizi. Tal è lo stato d'igno ranza, che formò la prima condizione dei popoli dell'antichità, o sia la mancanza delle lettere, che è l'unico mezzo per lo quale i fatti d'una generazione possono essere all'altra tramandati. Da ciò nasce che il periodo storico d'ogni popolo del gentilesimo, sia preceduto da un altro in certo periodo di tradizione. E di qual tra dizione? D'una tradizione volgare, non misurata dal tempo, mista di favole, e di rimote reminiscenze; e queste, disnatu rate dalla superstizione e dalla credulità, propria dell'ignoranza. V. Favola, Tra dizione. Dalla medesima ragione provenne che cotesto stato d'ignoranza, da prima co mune a tutte le nazioni pagane, essendo cessato successivamente, e a misura che l'una ricevette dall'altra l'uso delle lettere; ognuna di esse ritenne la propria tradi zione, ed ebbe una particolar cronologia, la quale non annodavasi a verun princi pio di tempo alle altre comune. Ognuna contava il tempo passato per le proprie ge nealogie, e queste mettevan capo in una origine sempre favolosa. Laonde, quando dalla storia particolare del popoli si vuol ricomporre la generale, questa rimane senza capo, e ciascuno de tronchi delle nazioni apparisce, come spontaneamente surto nel proprio suolo. L'erudizione del l'antichità, che non lasciò nulla d'inten tato nelle lettere, fu povera e difettiva per rispetto alle origini del popoli e delle lin gue; nè poteva essere diversa, attesa la mancanza del tempo storico. Quando si considera, che con tutta la vantata sa pienza degli Egizi, de Persiani, e de'Greci, non comincia la loro storia certa, se non cinquecento anni prima dell'era volgare; che ciascun popolo non ebbe altra crono logia fuor di quella del propri re, o della fondazione delle loro cittadi; che la cro nologia greca stabilita sulla ristaurazione de giuochi olimpici, non ha altra certa misura di tempo che di circa 8oo anni avanti l'era volgare; e che poco meno ne ha la cronologia latina, nata colla fon dazione di Roma; non possiamo non es sere umiliati per la povertà delle nostre storiche conoscenze, e dobbiamo confes sare, che la dotta Antichità non seppe, per tremila e più anni, trovare il mezzo da trasmettere i fatti della propria età alle future generazioni. Le moderne nazioni han cercato di supplire alla ignoranza delle antiche; e certamente noi conosciamo la loro archeologia meglio che essi non la conobbero. Non solamente abbiamo stabi lito la cronologia sopra le sue vere fonda menta, ma abbiamo circoscritto il globo, determinato la sua figura, e visitato la terra dall'un polo all'altro; e per lo stu dio delle lingue de popoli ignoti alla stessa antichità, siam pervenuti a riunire a pro pri tronchi le diverse famiglie del genere umano. D'onde abbiam preso i principi di queste nuove conoscenze, e chi ci ha 60 – 474 – dato il bandolo per entrare in un sì tor tuoso labirinto ? Entriamo in quell'altra partizione della storia, che nasce dalla qualità de'fatti nar rati. Questa è la sagra, o la profana, che indica le due fonti diverse, dalle quali noi deriviamo la storia antica. Tutto quel che abbiam detto delle sue lacune ed im perfezioni risguarda la profana, in suppli mento e schiarimento della quale viene la sagra. Ciò che la tradizione umana non ha saputo conservarci, è stato supplito dal la divina, fondata sopra certa misura di tempo, e sopra storica successione di fatti e di avvenimenti sì naturali che civili. Ella ci ha dato notizie di popoli, di fon dazioni d'imperi, di origini di nazioni, di lingue, di leggi scritte, e di civili isti tuti. Da lei abbiam ricevuto, insieme colla storia delle prime etadi del mondo, le car dinali nozioni della sapienza morale nata coll'uomo, e conservata da quelle sole genti che rimasero fedeli all'adorazione e al culto del loro Creatore. La storia scritta, che ci ha tramandato queste notizie, non solamente è di cinque cento anni più antica di quella delle na zioni pagane, ma ci viene da un popolo straniero alle favolose e mitologiche loro tradizioni, il quale solo possedette lettere e scrittura alfabetica, in retaggio della prima lingua perfetta che fu messa in bocca all'uomo, come parte delle opere della creazione. V. Favola, Creazione. Seconda parte, e direm continuazione della storia sagra, è l'ecclesiastica, la qual prende principio dalla nuova era del mondo, o sia dalla rigenerazione fattane dal N. S. Gesù Cristo. Che se vogliasi questa considerare come parte della storia moderna, qual'è; in tale aspetto, la storia divisa per rispetto al tempo in antica e moderna, vien suddivisa, per rispetto alla qualità del fatti narrati, in profana o civi le, ed in sagra o ecclesiastica. Dalla diversa qualità del fatti nascon pure le storie delle scienze e delle arti, le biografie, le storie della letteratura, e di qualunque altro genere di fatti, al quale piaccia allo storico limitare la sua nar razione. Sin qua abbiam considerato il vocabolo storia, come privativamente proprio del la narrazione di fatti passati, affidati alla memoria, cui serve di ausiliaria. Ma que sto stesso nome dalla generalità del dotti è dato ancora alla descrizione delle opere della natura; sì che la prima e più ge merica partizione della storia, suol essere quella di naturale, o civile. Noi, non per immutare vocaboli, ma per evitare i falsi concetti che possono nascere dalle improprie denominazioni, abbiamo altrove notato, quanto sconvenevole sia una tal partizione. La descrizione de fatti della na tura e del fenomeni suoi è figlia dell'os servazione, ed è l'opera dell'intelletto e non della memoria. L'osservazione, che ne han fatto gli altri, serve di guida a quelli che vengono a ripeterla, o giova come supplimento di notizie a coloro, i quali l'accettano come propria. Nell'uno e nell'altro caso la natura è a tutti pre sente: le opere sue son sempre le stesse, e i suoi costanti fenomeni si rinnovano per gli uomini di tutte le etadi. Ognuno in somma studia la natura, e non la ri corda. Ciò non ostante l'impropria deno minazione di storia naturale, non mena a veruna conseguenza, perchè l'uso ne ha determinato il significato, spiegando che quì per istoria s'intende la descrizione e il catalogo delle opere della natura. La sola importanza che questa avvertenza può – 475 – avere, è a rispetto dell'ordine scientifico, e del metodo dell'insegnamento. La sto ria naturale appartiene alle scienze fisiche e non alle lettere o alla erudizione: ella de essere associata alle altre scienze na turali, delle quali fa parte. (V. il disc. prelimin.). Lo studio della storia, dacchè i moderni han diradato le tenebre della storia anti ca, ha formato e forma il suggetto d'una nuova scienza, che ha a se attirato uo mini di profondo ingegno. Cotesta nuova scienza, la quale in sostanza raccoglie le verità che nascono dallo studio della sperienza, è fondata sopra un principio vero, quando sia inteso nel suo giusto e proprio senso. La natura è tanto costante nelle leggi che reggono l'ordine morale, quanto l'è in quelle dalle quali dipende l'ordine delle cose materiali. Il principio è vero, ma che s'intende per ordine mo rale? Certamente, la comune morale del l'uomo è sempre la stessa, simili sono le sue passioni, simili i fatti, ma varie e indefinite le loro modificazioni. Vorrebbesi forse applicare la costanza e l'uniformità delle leggi della natura a fatti contingenti dell'uomo; o supporre ne'motivi, che pos sono determinare la volontà quello stesso ordine impreteribile che è nelle leggi fisi che? Guardiamoci dalle estremità! È assioma riconosciuto, che dalla spe rienza possonsi ricavare verità particolari o relative, e non verità generali o asso lute. Lo studio dunque della sperienza, che è quel che oggi chiamasi filosofia della storia, dee determinare i limiti, trai quali dobbiamo intendere l'enunciato prin cipio; quale sia nel corso delle nazioni la forza degli esempi ; quali le sicure con seguenze, che possiam da quelli ricavare. V. Esempio, Filosofia. STRABISMo (spec.), vizio degli occhi di guardare bieco. Cotesta imperfezione sembra, il più del le volte, nascere da una difettuosa dispo sizione de'muscoli o denervi, i quali im pediscono di tenere gli assi de'due occhi in una direzione paralella. Talvolta an cora dipende da un cattivo abito preso, sopratutto nella età infantile. Le diverse sperienze fatte dagli ottici e da medici, sia per iscoprire la causa d'un tal vizio, sia per raddrizzare la visione di quelli che per abito han cominciato a torcerla, dimostrano che nella generalità de'casi uno de'due occhi è men forte del l'altro; d'onde segue che le persone afº fette dallo strabismo, o vedono l'obbietto con un solo occhio, o se l'inclinazione de rispettivi assi permette a ciascun dei due di vederlo, lo veggon doppio. Da questa anomalia apparisce manife sto, che la visione unica, e non doppia, degli obbietti negli uomini sani, non può essere meglio spiegata, se non per lo para lellismo degli assi degli occhi. V. Visione. STRANEzzA (prat.), il pensare o l'operare fuor della regola o del comune sentimento. È men della stravaganza. V. questa voce. STRUMENTo. V. Instrumento. STUDIO (spec.), l'opera della mente, data alle scienze, alle arti, o ad una di sciplina qualunque. STUPIDo (prat.), uomo di tardo o in tormentito intendimento. STUPoRE (prat.), stordimento d'animo per grandi e maravigliose cose vedere, udi re, o per alcun modo sentire, º – 476 – È definizione di Dante, da cui apparisce essere lo stupore più della maraviglia, e indicare un sentimento di ammirazione per cose che sembrino più che umane. V. Ammirazione, Maraviglia. SUBALTERNo (disc.), nome dato dagli scolastici a quel genere, che sta di mezzo ad uno superiore o sommo, e all'infimo. Lo stesso nome davasi ancora alle spe zie, quando volevasi tra esse fare una simile gradazione. V. Genere, Spezie. - SUBBIETTIvo (spec. disc. e ontol.), ogni virtù, o fatto della mente, il quale serve di mezzo a conoscere gli obbietti posti fuori di noi, È termine di relazione all'obbiettivo, e serve a distinguere l'obbietto del pensiero dal pensiero stesso. Così nella percezione, obbiettiva dicesi la conoscenza dell'obbietto esterno, e subbiettiva quella che noi ab biamo della propria facoltà del percepire. V. Obbiettivo. Kant distinse il subbiettivo empirico dal razionale e per tal distinzione sostenne che il subbiettivo razionale possa divenire un obbiettivº empirico, il che avviene quando noi applichiamo un modo del no stro pensiero a qualche obbietto esterno. Tal sarebbe per esempio la nozione dello spazio, quando noi prendiamo a conside rarlo come una cosa esistente fuori di noi. Sia ciò detto per sola intelligenza del si gnificato di questo vocabolo, e non per necessità, o vaghezza di seguire l'astrusa e sterile neologia del cennato autore. V. Em pirico, Spazio. Taluni moderni filosofi, i quali han preso il contagio de'neologismi alemanni, hanno introdotto l'extra-soggettivo, e con tal denominazione hanno inteso esprimere la percezione d'una sensazione acquistata per mezzo del tatto. Cotesta percezione presuppone un giudizio intorno alla causa che l'ha prodotta, comechè questa non sia presente. Tal sarebbe il caso d'una im pressione fatta nella superficie del corpo, la quale lascia una sensazione dolorosa, o gradevole, anche quando ne sia stata rimossa la causa. Costoro non hanno altro scopo, che di oscurare il linguaggio della scienza, e di coprire con nomi speciosi la frivolezza delle loro scoperte. SUBLIME (disc. spec. e crit.), il bello e il grande del discorso o del pensiero, che desta ammirazione e sorpresa. È proprio del discorso che rapisce e trasporta l'animo fuor di se, per un sen timento misto di piacere e di novità. Co testo sentimento di novità è simile a quel che in noi produce ogn'invenzione; e per verità come tale risguardiamo ogni con cetto prontamente trovato, ed ogn'imma gine o figura non attesa, la quale orni ed ingrandisca l'argomento. La grandezza poi de pensieri giunta alla opportunità del tempo e del luogo, e alla convenienza del l'espressione produce due maravigliosi ef fetti: indirizza l'anima a nobili ed elevati sentimenti, e la trasporta nel bello ideale: comunica al discorso una forza invincibile che mette l'ascoltante o il lettore nella di pendenza dell'oratore. Ora nel congiun gere la novità alla opportunità è riposto quel che i grandi retori, o maestri del par lare, intendono per arte del sublime. Un egregio trattato di quest'arte è quel di Lon gino, di cui Boileau ci ha lasciato una ele gante versione, corredata di belli esempi e di critiche osservazioni, nelle quali può dirsi che sien riposti lo studio e la scuola – 477 – del sublime. Ad esso rimandiamo i nostri lettori per quel che concerne il sublime nell'arte del dire. Vuolsi soltanto notare la differenza tra due significati che il comun parlare suole dare allo stesso vocabolo, adoperandolo ora come un astratto del nobile e dell'elevato, ed ora come un semplice addiettivo. Stile ed eloquenza sublime sogliam chiamare quel genere di dire, grave ed ornato che conviene agli argomenti di grande impor tanza, ne quali l'oratore, certo di muovere le passioni, si vale delle immagini e delle figure per meglio persuadere. Questo è quel genere di eloquenza, che Cicerone deno nominò ampio, grave, copioso ed orna to, per distinguerlo dal semplice, e dal moderato. Qualunque sia l'elevatezza dello stile e della locuzione dell'oratore, è ma nifesto che egli potrà ottenere l'intento suo, che è la persuasione, a misura che saprà più o meno piacere agli uditori, e riscuotere la loro ammirazione. Ora co testo genere di dire alto ed elevato dista tanto dal vero e dal perfetto sublime, quanto la volontà dall'azione, quanto i mezzi dal fine, o quanto una naturale di sposizione dall'arte. Nel passaggio da quel la a questa si scontrano le difficoltà del l'ignoranza, o i vizi del falso gusto, che per mezzo dell'arte impariamo a vincere o ad evitare. Il sublime in somma, ado perato come semplice epiteto indica o il genere della espressione, o l'importanza e l'elevatezza dell'argomento; nel quale ul timo senso chiamiamo geometria sublime quella parte delle scienze matematiche che per la soluzione desuoi problemi adopera la moderna analisi in luogo delle semplici dimostrazioni della geometria elementare. V. Geometria. Ma v'ha ancora un'altra differenza trai due dinotati significati, ed è che l'arte del sublime ha luogo tanto nel dire ele vato, quanto nel semplice e nel tempe rato; dapoichè per sublime propriamente intendiamo la perfetta imitazione del gran de, del bello, del vero della natura, che può trovarsi in ogni genere di eloquenza e in ogni maniera di esprimere i concetti dell'animo, purchè l'esattezza o la forza della espressione agguagli la finezza del pensiero. V. Eloquenza. Tal essendo il significato proprio di que sto vocabolo è manifesto, che possa es sere lo stesso applicato a qualunque opera dell'ingegno, e a qualsivoglia egregio fat to, che porti seco i caratteri della gran dezza d'animo, o della perfetta virtù. E però il sublime trova il suo luogo non solamente nella eloquenza, nella poesia ed in ognuna delle arti imitative, ma ancora nelle scienze, ne fatti eroici, ed in ogni azione, la quale trascende la comune misura del buono e del bello. V. queste voci. SUBoRDINATo (spec. disc. e prat.), il pensiero, la proposizione, o l'azione, che nasce, o è dependente da un'altra. Nelle categorie delle scienze diconsi su bordinate quelle fondate nel principi, e nelle teoriche d'un'altra, che de essere prima imparata. Nelle proposizioni, chia mansi con questo nome quelle che nasco no da altre proposizioni note, o prima dimostrate. Nelle categorie logiche equi vale al subalterno. V. questa voce. Nella morale pratica subordinati di consi gli atti virtuosi, i quali debbono essere guidati da una virtù maggiore o assorbente, che rischiara le altre, come la benevolenza, la modestia, la pruden za, ed altre simili. V. Virtù. – 478 – SUCCESSIONE (spec.), seguenza d'idee, o di fatti, che vengono gli uni dopo de gli altri. - Dalla seguenza del fatti e del pensieri noi formiamo la nozione della durata e del tempo, e distinguiamo il passato dal presente, e dal futuro. V. queste voci. Cotesta nozione si ricava tanto dal co stante avvicendamento del fenomeni natu rali, quanto dal passaggio d'una ad un'al tra idea, o sia dalla continuità del pensiero. SUGGESTIONE (prat.), pensiero sommi mistrato ad alcuno, per determinare la volontà di lui ad un atto, al quale non si sarebbe altrimenti determinato. La suggestione toglie altrui la libertà della deliberazione e della scelta, ed opera o per via di seduzione, o per costringi mento. E però è sempre viziosa. V. Se duzione. SUICIDIO (prat.), volontaria distruzione della propria esistenza. V. Esistenza. Del suicidio sono incapaci i bruti, per chè obbediscono all'istinto conservatore della esistenza: ne è capace l'uomo per esaltamento della immaginazione, la quale può spignerlo insino al segno di vincere non solamente l'istinto, ma anche la voce della ragione. Ripugna la ragione, del pari che l'istinto, al suicidio, perchè co me dice Cicerone, vetat dominans ille in nobis Deus, hine nos suo demigrare. V. Immaginazione, Istinto, Ragione. SUoNo (spec.), sensazione prodotta dal romore, dal passaggio della voce, e dalle vibrazioni de corpi sonori. Il romore, sotto qualunque denomina zione venga espresso, lo strepito, il fra gore, è ancor esso un suono, quando questo vocabolo si prenda in un generico significato; ma noi chiamiamo propria mente romore l'impressione disaggradevole all'udito, e suono la gradevole, che con sideriamo come un elemento dell'armonia. Laonde diciamo il romore del vento, lo strepito delle grida, il fragore del mare, e il suono della voce, o delle corde. In qualunque desuoi significati il suono è tra le qualità secondarie della materia, ma la sensazione che ne proviamo richiede il concorso di tre agenti diversi: il primo è la causa del moto prodotto nell'aria: il secondo è l'aria stessa, la quale serve di mezzo per comunicarne l'effetto all'or gano sentente: il terzo è l'organo che lo modifica, secondo la sua naturale confor mazione. Coloro i quali affermarono, che le impressioni prodotte dalle qualità secon darie della materia, non emanano da cor pi, ma son modificazioni della nostra po tenza sensitiva, avrebbero potuto trovare in questa sensazione la confutazione del loro sistema. Imperocchè la causa del suo no, e il mezzo per cui passa, son certa mente fuori dell'organo, e dallo stesso di versi; tanto diversi, quanto chi ascolta è diverso da chi parla. V. Materia, Qualità. ll suono può essere sotto tre rapporti considerato: come il mezzo necessario della parola: come un segno naturale della causa che lo produce: come un ele mento dell'armonia. Lasciamo quest'ulti mo rapporto alla musica, la quale dà le regole per formare l'armonia co' suoni, sì naturali che artifiziali, e fermiamoci a primi due. V. Musica. La parola è un suono composto, il quale ne contiene tanti altri semplici, quante sono le inflessioni della voce, che ne for mano gli elementi. Cotesti suoni elementari son rappresentati dalle lettere, come loro – 479 – segni. Intanto il suono stesso della voce è segno d'un sentimento, o d'un'azione del pensiero, che vogliamo esprimere, siccome la parola è un segno d'una idea. Ma mentre la voce è segno della parola, le dà la forma, perchè senza di essa non potrebbe la mente comporla; sì che per gli obbietti da noi percepiti per mezzo dell'udi to, il suono ci presta quell'ufizio stesso, che presta la luce per gli obbietti visibili. La voce rende sensibile l'obbietto all'organo dell'udito, siccome la luce lo rende visibile all'occhio. Una tal similitudine diviene an che più manifesta, quando si considera, che la forza e l'intensità del suono estende la portata della voce, e accresce la capacità dell'udito, come la luce fa per gli obbietti visibili; e che gl'instrumenti, pe quali ac cresciamo e graduiamo la forza del suono possono essere assimilati alle lenti e a te lescopi, colla differenza che gli effetti del suono son limitati dalla picciola sua forza espansiva, e dalla resistenza dell'aria; mentrechè la luce proviene da una inesau sta sorgente, e penetra per tutti i mezzi trasparenti, che se le oppongono. V. Orec chio, Udito. Del resto la natura, che ha dato al l'uomo un organo di suono perfetto per l'uso della parola, non ne ha privato gli animali bruti, per quanto occorre alla manifestazione del loro bisogni, e a quel linguaggio di azione, di cui ogni spezie di animali, è stata più o meno dotata. L'uomo stesso è stato provveduto di questo linguaggio suppletivo, di cui fan parte i suoni inarticolati. I sordi muti, gl'infanti e quelli che per morbo restan privi della parola, trovano nel linguaggio di azione il compenso della mancanza del linguag gio artifiziale. Adunque il concetto più generico che può farsi del suono, è di un segno naturale, dato agli uomini per la manifestazione del sentimento e del pen siero; e a bruti, per la manifestazione dei loro bisogni. V. Linguaggio, Segno. SUPERBIA (prat.), perverso appetito di propria eccellenza. Riteniamo la definizione d'un antico moralista italiano. È il vizio più disdice vole all'uomo, perchè gli fa sconoscere l'infermità della propria natura insieme co'doveri verso degli altri: è un sentimento figlio dell'egoismo, egualmente nemico delle naturali virtù, de civili doveri, e della cristiana carità: è una volontaria demenza che rende l'uomo non solamente odioso, ma dispregevole. Il moralista fran cese Lamotte definilla, dimenticanza del proprio nulla. V. Egoismo. Gl'Italiani han preso questa voce dai Latini, e l'altra orgoglio da Greci; sì che l'una è sinonimo dell'altra. V. Orgoglio. SUPERFLUo (prat.), quel che non è ne. cessario per lo sostentamento della vita. L'idea vaga del superfluo ha dato luo go alle tante quistioni agitate dagli eco nomisti e da moralisti intorno agl'incon venienti, e a vantaggi del lusso. V. que sta VOCe. SUPERLATIvo (disc.), termine grama ticale maggiore del comparativo, il quale esprime l'ultimo grado di grandezza, o di altra qualità d'un suggetto, come mas simo, ottimo, bellissimo, o altro simile. Tra le lingue volgari l'italiana e la spa gnuola hanno ritenuto le desinenze accre scitive de nomi di qualità, e formano i comparativi e i superlativi così in questo modo, come colle particelle e cogli av verbi ausiliari assai, molto, più e simi - 480 – li ; laddove i Francesi e gl' Inglesi si li mitano a questo secondo modo solamente. V. Comparativo, Positivo. SUPERSTIZIONE (teol. e prat.), falsa re ligione, che trasporta alle cose materiali il culto e l'adorazione di Dio, o forma voti falsi o riprovati, o crede di onorare la Divinità con pra tiche inconvenienti alla sua perfezione. Cicerone diede l'etimologia di questo vocabolo: non philosophi solum, verum etiam majores nostri superstitionem a religione separaverunt. Mam qui totos dies precabantur et immolabant ut sui liberi sibi superstites essent, superstitiosi sunt appellati: quod nomen postea la tius patuit (de nat. deor. lib. I. c. 42). Uno scrittore cristiano confutando l'esempio, che dato aveva origine al nome dice: superstitiosi vocantur, non quia. filios suos superstites optant (omnes enim optamus ), sed aut ii qui superstitem memoriam defunctorum colunt, aut qui parentibus suis superstites colebantima gines eorum domi, tamquam deospe nates. (Lactantius lib. IV. C. 28). La superstizione suole nascere da igno ranza, o da timidità d'animo: gli uomini pii e religiosi amano, onorano, e temono Dio: i superstiziosi lo temono solamente: in questi parla il solo terrore delle pene: in quelli prevale il sentimento della filiale confidenza verso l'Autore del nostro esse re, pronto sempre a porgere la destra all'opera delle sue mani. La superstizione non pertanto è diversa dall'ipocrisia, la quale contiene una falsa mostra di sentimenti e di virtù religiose. V. Ipocrisia. SUPPositivo ( disc. ), quel che nasce dalla supposizione. Gl'Italiani sono stati soliti confondere il suppositivo col condizionale e coll'ipo tetico. Il Varchi sopratutto chiama sup positivo il sillogismo ipotetico. Ma per ve rità convien distinguere questi tre signifi cati, perchè diverse sono la condizione, l'ipotesi, e la supposizione. V. queste voci. SUPPosizioNE (disc.), proposizione aſ fermativa d'un fatto sfornito di verità, o d'un nome che non rappresenta la cosa denominata. La supposizione nella mente di chi la crea, non ha veruna relazione col vero o col verisimile; e però differisce dalla ipo tesi che è sempre fondata nella possibilità e nella verisimiglianza, e dalla condizione che presuppone un avvenimento incerto, ma possibile. V. Condizione, Ipotesi. – si – CLASSI DE' VOCABOLI COMPRESI SOTTO LA LETTERA S. Sale Sapienza Satira Satirico Scena Scenico Scenografia Scetticismo - Scettico Scienza Scrittura Scuola Semeiotica Sensismo Simbolico FILOSOFIA CRITICA, Simile e Similitudine Simmetria Sincretismo Sintesi Sintetico Sistema Sofista Spirito Spiritualismo Stampa Statica Storia Sublime Semplice Sostanza Sostanziale VOCI ONTOLOGICHE. Spazio Subbiettivo 61 Sagace e Sagacità Saggio Sale Sangue Sanità Sapere Sapienza Sapore Saturno Scegliere e Scelta Scienza Scoverta Scrittura Segno Sembiante Seme e Semenza FIL oso FIA sp Ecu LATIVA. Semplice Senno Sensazione Sensibile Sensibilità Sensista Sensitivo Senso Sentimento Sentire Serie Sicurezza Simbolo Similare Simile e Similitudine Simmetria Simultaneo Singolare Sistema Sistematico Sistole Sodezza Soggetto, Subbietto e Suggetto Sogno Sole Solidità Solido Sonno Sostanza Sostanziale Sottomoltiplice e Summoltiplice Spazio Specchio Specie Speculare Speculativo Sperma Spirito Spirituale Spiritualità Spontaneità e Spontaneo Sproporzione Statura Stella Stomaco Strabismo Studio Subbiettivo Sublime Subordinato Successione Suono FILOSOFIA DISCORSIVA. Saggio . Satira Satirico Scena Scrittura Scuola Segno. Sentenza Sentire Serie Sillaba Sillessi Sillogismo Sillogizzare Simbolico Simbolo Simile e Similitudine Singolare Sintassi Sintesi Sintetico Sistema Sofisma e Soſismo Sofista Sofistico Soggetto, Subbietto e Suggetto Solecismo Sorite Sostantivo e Sustantivo Sostrato Sottigliezza e Sottilità Speciale Spezie Stampa Subalterno Subbiettivo Sublime Subordinato Superlativo Suppositivo Supposizione Sole Spergiuro TEOLOGIA NATURALE. Superstizione – 484 – Saggio Sanità Sapiente Sapienza Satira Satirico Sbalordimento Sbeffeggiare Scegliere e Scelta Scempiaggine e Scempiataggine Scherno Schiavitù e Schiavo $chiettezza e Schietto $confidenza Sconfortamento e Sconforto Sconoscenza Scusa e Scusazione FILOSOFIA PRATICA, Sdegno Seduzione Semplicione Semplicità Senso Sensuale Sensualità Sentenza Sentimento Sentire Serenità e Sereno Servaggio e Servitù Severità Sfacciataggine e Sfacciatezza Sgomento Sicurezza Simpatia Simulare e Simulazione Sinderesi Sistema Sistematico Smania Smemoraggine e Smemorato Soave e Soavità Sobrietà Sodezza Sofferenza Sofficiente e Sufficiente Sollecito Sollecitudine Spavento Specchio Spensierato Speranza Spergiuro Splendore Spontaneità e Spontaneo Sregolatezza Stima Stolido Stoltezza, Stoltizia e Stolto Stranezza Stupido Stupore Subordinato Suggestione Suicidio Superbia Superfluo Superstizione GRECISMI SUPERFLUI. Schema Schematismo - 485 – T Tan (prat.), nota di azione bia simevole, o di cattivo nome. TALENTo (prat. e spec.), voglia o de siderio di fare. Vale ancora natural prontezza delle fa coltà dell'animo, nel quale senso scam biasi coll'ingegno. V. questa voce. TANGIBILE (spec.), quel che cade sotto il senso del tatto. V. questa voce. TAPINo (prat.), misero per povertà di animo. Si adatta per similitudine ad ogni sorta d'infelicità e di miseria, e allo stato gretto e basso del volgo. TATTo (spec.), potenza esteriore sen sitiva sparsa per tutto il corpo degli ani mali, per la quale si apprendono le qua lità e si sente l'azione o la resistenza delle cose poste fuori di noi. Quantunque questa potenza sia diffusa per la superficie del corpo degli animali e di talune piante ancora, e sembri es sere il carattere costitutivo della sensibili tà ; purtuttavolta la natura ha dato al l'uomo un organo speciale attivo, per procurarsi la sensazione del tatto, e per misurarne l'intensità. Questo è la mano per mezzo della quale conosciamo le qua lità de corpi, e acquistiamo la perfetta conoscenza del mondo esteriore. Le qua lità de'corpi, che il tatto ci manifesta, e per mezzo delle quali acquistiamo la co noscenza del mondo esteriore sono il cal do, il freddo, la durezza, la mollez za, e l'estensione. Non parliamo delle altre qualità, alla conoscenza delle quali concorre l'opera di altri sensi, come la figura e il moto, perchè giova conside rare il tatto per rispetto alle sensazioni, che sono sue proprie, e che non po tremmo altrimenti acquistare. Delle cen nate qualità, il caldo e il freddo appar tengono a quelle che diconsi secondarie, laddove la durezza la mollezza e l'esten sione son delle primarie, o sia di quelle che ci portano la conoscenza insieme col la convizione della esistenza della materia. V. Calore, Materia, Qualità. Noi concepiamo la durezza come un effetto della coesione delle parti costitutive della materia, nel quale significato com prendiamo due idee, una di pura sensa zione, l'altra di riflessione; imperocchè la coesione è un'idea complessa, che l'animo forma aggiugnendo alla perce zione d'un corpo che agisce sopra il no stro senso, l'idea d'una qualità. Vo lendo svolgere questa idea complessa, il dottor Reid credette scorgere nella sensa zione della durezza un'idea fuggitiva, e quasi un'ombra, che non possiamo spie gare cosa ella sia, in conferma di che osservò che manca d'un nome proprio, tanto nel linguaggio scientifico, quanto nel comune. « È cosa maravigliosa, egli dice, che una sensazione, la qual da noi si prova ogni volta che tocchiamo un cor po duro, che possiamo produrre e pro lungare a nostro piacere, e che è distinta e determinata quanto ogni altra; sia ciò non ostante rimasa ignota, e niuno abbia ancora pensato d'investigarla, e di darle – 486 - un nome in qualunque lingua si sia, per modo che i filosofi al pari del volgo, o l'hanno affatto negletta, o l'han confusa colla qualità de'corpi, detta durezza, quan tunque non abbia con essa la menoma somiglianza. Non potrebbesi forse da ciò conchiudere, che la conoscenza delle fa coltà umane è ancora nello stato d'in fanzia, e che non abbiamo ancora im parato a riflettere intorno alle operazioni della mente, delle quali il sentimento è a noi presente in ogni giorno, ed in ogni momento della vita? Non potrebbe dirsi che di buon'ora si radicano in noi degli abiti d'inavvertenza tanto difficili ad esser vinti, quanto ogni altra spezie di abiti? Parmi di vedere che questa sensazione, comincia a richiamare l'attenzione de fan ciulli, ma è ben tosto trascurata, appe ma che con essa ci familiarizziamo, tra perchè la consideriamo di niuna impor ianza, e perchè limitiamo la nostra atten zione non al segno, ma alla cosa signi ficata .... Se tal è lo stato, in cui noi ci troviamo per rispetto alla sensazione della durezza, uopo è tornare alla fanciul lezza, per divenire filosofi; o sia convien fare ogni sforzo per superare un abito, che è in tanto più tenace, in quanto è più antico». E quì l'autore dopo di aver fatto l'inutile dimostrazione che la coe sione delle parti d'un corpo non ha al cuna somiglianza colla sensazione della durezza, propone come un problema in solubile il trovare la ragione per la quale possa la mente ricavare dalla coesione del le parti, l'idea e la credenza della qua lità della durezza. Il solo mezzo da risol verlo, secondo lui, è il ricorrere ad un principio originale dell'umana costituzio ne, facendo della idea della durezza una eredenza istintiva, di cui la sensazione è un segno, che noi per abito confondiamo colla cosa significata. (Reid, Essais, Chap. V. du Toucher). Con buona pace di sì grande uomo, osiamo dire, che l'eccesso dell'analisi delle più semplici operazioni della mente, ren de spesso difficili ed astruse quelle idee che il naturale e comune senso degli uo mini chiaramente e distintamente perce pisce. Niuna delle idee che noi concepia mo delle cose materiali, somiglia certa mente alle qualità che in esse ravvisiamo, nè l'idea della durezza somiglia a corpi duri più o meno di quel, che l'idea del suono somiglia alle vibrazioni de'corpi so nori, o quella dell'odore alle particelle de corpi odoriferi; e così di tutte le altre qualità primarie o secondarie della mate ria. Adunque ogni conseguenza ricavata da questa verità generale e comune a tut te le nostre sensazioni, non pruova più per l'una che per l'altra. Ma perchè la sensazione della durezza non ha un nome diverso dalla qualità del corpi duri ? In risposta a tal quesito dal canto nostro do manderemmo, qual altro è il nome che diamo alle sensazioni del suono, dell'odore, ed anche dell'estensione ? Impre stiamo il nome della causa che produce tali sensazioni, e lo rendiam comune agli effetti da essa prodotti? Nel calore abbia mo distinto il caldo, che è la sensazio ne, dal calore o sia dalla qualità che lo produce, perchè le varie combinazioni dei suoni della parola hanno somministrato l'opportunità di distinguere l'una dall'al tra. Ma pure cotesta distinzione può dirsi di recente data, perchè introdotta dal tem po, in cui la chimica e la fisica comin ciarono a distinguere il caldo, dal calore, e dal calorico. Prima di tale tempo, e per secoli, sotto il nome di caldo, si è confuso tanto la qualità quanto la sensa zione. V. Caldo, Calore, Calorico. L'autore nega che la sensazione della durezza contenga una idea di riflessione, mentrechè a noi sembra, che tale preci samente sia, o che si deduca dalla coe sione delle parti della materia, o che si deduca dalla impenetrabilità, che è una conseguenza della coesione. In realtà, noi la deduciamo dall'una e dall'altra. Dalla coesione, perchè la riflessione forma im mediatamente l'idea della solidità che con trappone al liquido, e al fluido, e passando a formare un nome generico, il quale cor risponda a ciascuno de due stati, vi adatta i vocaboli del duro e del molle. La de duciamo ancora dalla impenetrabilità, per chè l'ostacolo che questa presenta ad ogni altro corpo suggerisce l'idea della resi stenza, la quale propriamente spiega la durezza: la solidità, l'impenetrabilità e la resistenza son tre modi del pensiero, i quali nascono l'uno dall'altro, e son tutti tre compresi nella idea della durezza. Laonde questa può essere ben definita per la resistenza, che le parti solide della ma teria presentano al senso del tatto. V. Coe sione, Impenetrabilità, Solidità. Se da una parte non crediamo neces sario di riconoscere un principio istintivo della natura, per ispiegare come in noi nasca l'idea della durezza; dall'altra non rifiutiamo la teorica de segni naturali, che il lodato autore annodò a questa par ticolare sensazione. Non la sola durezza, ma tutte le altre sensazioni possono essere considerate come segni delle cose significa te, adattati dalla natura agli organi dei sensi, secondo l'uso, cui ciascun di essi è destinato. La sensazione della durezza può ben dirsi un segno della qualità dei corpi che tocchiamo; come la visione l'è degli obbietti visibili; il suono, delle vi brazioni del corpi sonori; l'odore, della qualità odorifera; e così ancora del sapore. Cotesta teorica dunque abbraccia indistin tamente tutte le sensazioni, e non costitui sce differenza delle une a rispetto delle al tre. V. Segno. Dal tatto nasce ancora l'idea della esten sione, ma questo pure è un modo del pensiero, che formiamo aggiugnendo al l'idea della coesione delle parti, l'altra della loro continuità, ed inoltre quella del luogo che occupano nello spazio. V. Esten sione, Spazio. Più importante sembra l'avvertire che il tatto, considerato come una proprietà comune a tutti gli animali, è dato loro dalla natura, per difendere e conservare il corpo in ogni sua parte, il perchè lo ha renduto generale e locale insieme; che nel senso del tatto principalmente è riposto quel che con altro nome chiamiamo sen sibilità o capacità di sentire; e che allo stesso senso dobbiam riferire ogn'impres sione interna o esterna, che ci faccia av vertire l'esistenza d'una causa estrinseca che agisce sopra di noi. Laonde al tatto debbon essere riferite le sensazioni del cal do, del freddo, del piacere e del dolore. Sin qua il tatto appartiene interamente alla natura sensitiva. V. Sensibilità, Senso. A differenza del bruti, è stato dato al l'uomo un organo speciale, qual è la mano per conoscere le qualità delle cose materiali, e non solamente per sentire, ma ancora per produrre negli altri Esseri sensitivi l'impressione del tatto, vale a dire, che nell'uomo comprende due po tenze, l'attiva e la passiva, nel che giova per incidente rilevare un difetto della lin gua, la quale collo stesso vocabolo espri me l'una e l'altra insieme. Da tutto ciò – 488 – apparisce ancora manifesto, che la mano è un istrumento razionale, conveniente soltanto all'uomo, il quale per mezzo del tatto esercita il suo imperio sopra tutte le cose create. V. Mano. TAvoLA (spec.), similitudine del filosofi sensisti, che compararono l'intelletto uma no ad una tavola nuda, o rasa, nella quale vengono ad imprimersi le immagini degli obbietti che noi percepiamo. I cennati filosofi vollero per tal compa razione dire che prima delle idee desensi, la ragione è vota d'ogni altro principio di cognizione, nè attigne da altra fonte le sue conoscenze. Cotesto concetto, di cui furono autori Aristotele e Zenone stoico, è stato poi ri petuto da moderni sensisti, come Locke e Condillac. Questi ampliò anche la simi litudine, dacchè si servì del paragone di una statua, che acquista una parte d'in telligenza a misura, che se le apra ognu no degli organi de sensi. V. Sensista , ASenso. TE (spec.), nella seconda persona, ha il significato stesso dell'io o del me nella prima, e del se nella terza. V. Io. TEATRo (crit.), luogo dove si rappre sentano gli spettacoli. Prendesi per l'arte stessa del rappresen tare qualunque sorta di dramma. V. que Sta VOCe. Tecnico (dise. ), quel che appartiene ad un'arte, o alle sue regole. V. queste voci. Tecnici propriamente diconsi i vocaboli o termini che ricevono uno special signifi cato in ogni scienza o arte. V. Termine. TEDIo (prat.), molestia che sopravviene ad alcuno, o per lunga aspettativa, o per sazietà di possedere una cosa qualunque. Ha un significato affine al fastidio e alla noia, e potrebbe anche dirsi un si nonimo del fastidio, datoci dalla lingua latina. Ma in realtà esprime quel maggior grado di noia, di cui non si può più tol lerare la continuazione.V. Fastidio, Moia. TEISMo (grec. sup.), di cui si è par lato alla voce deismo. V. questa voce. TELEoLoGIA (gree. sup. ), discorso o scienza delle cause finali. V. Causa. È uno del vocaboli i quali dimostrano l'abuso, che il linguaggio filosofico fa de grecismi. Se ad ogni trattato, o ar gomento della filosofia, cui il linguaggio scientifico ricevuto ha dato già un nome, volesse darsi una greca denominazione, ne risulterebbe una nuova lingua tecnica, . utile soltanto a rendere misteriosa la scien za, e a fomentare la vanità e l'ostenta zione di quelli che la professano. E però questo vocabolo quantunque usato da gra vi scrittori nel tempo in cui era in uso il linguaggio scolastico, dovrebbe ora essere giudicato superfluo. TELEoLoGico (grec. sup.), derivato dal precedente, che partecipa del medesimo vizio. TEMA (disc.), soggetto o materia di qua lunque discorso, o trattato dimostrativo. TEMPERANzA (prat.), virtù per la quale sappiam rattenere in giusti limiti gli ap petiti sensitivi. V. Appetito. nome generico, il quale abbraccia ogni sorta di moderazione. Sue parti, o – 489 – spezie, secondo Cicerone sono, la conti nenza e l'astinenza o sia disinteresse. V. queste voci. - TEMPo (spec. ontol. e disc.), la du rata continua delle cose che si succedono. V. Durata. Del tempo si è disputato, come dello spazio, e l'uno ha somministrato all'altro metafisiche sottigliezze, ed astruse defini zioni. Aristotele e i peripatetici lo deſini rono, numerus molus secundum prius el posterius. Questa definizione è soprav vivuta insino a compilatori del dizionario italiano, i quali non seppero dir di me glio, che quantità che misura il moto delle cose mutabili, rispetto al prima, o al poi. Distinguiamo in primo luogo l'idea del la durata da quella del tempo, e il tempo limitato dallo illimitato, o sia riconosciamo nel vocabolo tempo due significati, uno universale, l'altro particolare, datigli dal l'uso. Certamente il tempo posto in rela zione collo spazio dà una giusta idea del moto, ma il moto dà la prima idea del tempo, perchè senza moto non v'ha suc cessione, e non si può concepir tempo senza successione o durata. Laonde il molo potrebbe dirsi misura del tempo, piuttosto che inversamente. Che anzi il moto uni forme è in certo modo la rappresentazione sensibile del tempo. Ma la definizione, la quale prende i caratteri del tempo dalla relazione ch'essa ha col moto, oltre al di fetto di considerare soltanto il tempo li mitato o assegnabile, raccoglie più vizi insieme: confonde la durata col tempo : spiega un termine più noto per uno meno noto: spiega l' elletto per la sua causa. Ciò non ostante prevalse presso gli anti chi e i moderni metafisici il concetto, il quale scambia il tempo colla misura del moto. Leibnizio stesso disse, essere il tem po la misura del moto equabile, ma questa proposizione tutto al più contiene una proprietà , o un teorema , e non. una definizione. La sua logica definizione fu, l'ordine delle eose successive, che Wolfio scolasticamente trasformò in quel l'altra, ordo successivorum in serie con tinua. Locke, quantunque facesse nascere il concetto del tempo dalla successione del le idee, pure tornò insieme cogli altri alla misura del moto. Gli ontologisti avvilup parono di tenebre la nozione del tempo, perchè andarono cercando se fosse una sostanza, un modo, o una relazione. Newton infine formò il trascendentale con cetto, che il tempo e lo spazio fossero Dio, il qual esiste sempre e in ogni luogo e per se stesso costituisce l'immensità e l'eternità. Riconduciamo la mente al naturale con cetto del tempo. Noi lo concepiamo come una indefinita continuazione della durata. La nozione della durata è un modo del pensier nostro, formato dalle due idee del presente e del passato: a queste ag giugniamo la terza del futuro, e ne for miamo quella del tempo. Il tempo dun que è un'idea complessa, formata dalle idee delle tre durate unite insieme, del passato, del presente e del futuro. Simil mente la mente forma l'idea dello spazio colle idee della coesione delle parti della materia, e della estensione, alle quali ag giugne l'altra della loro continua progres sione. Proseguendo il cammino dell'analo gia tra le due idee complesse dello spazio e del tempo, noi non vediamo obbiettiva mente nè lo spazio, nè il tempo, ma de duciamo l'uno dalla coesistenza delle cose, l'altro dalla loro successione: cotesta de 62 – 490 – duzione nasce da una operazione sponta nea della mente, comune a tutti gli uo mini, e diremo necessaria, perchè sug gerita dalla luce stessa della ragione: le idee della durata e del tempo son perma nenti nell'animo, quantunque passeggieri sieno i fatti, che le han fatto nascere: sta bili del pari sono le idee della estensione e dello spazio limitato, comechè sieno scom parsi dal pensiero gli obbietti materiali, da quali le abbiamo ricavate: la ragione umana, per suo natural senso concepisce lo spazio e il tempo, come due quantità, continue e indefinite, le quali contengono nell'ampio loro seno tutte le cose create: tutte hanno nello spazio il sito; e nel tempo, il momento della loro durata. V. Spazio. Se poi si cerca sapere a qual genere di conoscenze appartengano le due idee del tempo e dello spazio, se alle intuitive o alle dedotte, ognuno, interrogando se stesso, sentirà di non averle acquistate per via di ragionamento, nè ancora per espe rienza; dapoichè non potrà additare una età, o uno stato di conoscenze, in cui non le abbia avuto, o abbia creduto meno di quel che ora crede allo spazio e al tem po. Ognun dice a se stesso colla medesima convizione: io sono lo stesso Essere di ieri è la mia esistenza ha una durata, che ignoro quale sia questa durata è una parte di quella maggiore, nella qua le vengono, le une dopo le altre, tutte le cose create. L'idea dunque del tem po, come l'altra dello spazio limitato, son di quelle immediate deduzioni, le quali vengono suggerite all'uomo da una legge primitiva o costitutiva della umana in telligenza. Kant ne fece due forme della natura sensitiva, o sieno due credenze istintive; il qual concetto potrebbe dirsi vero, se per forma e per credenza non abbia egl'inteso un che di meccanico e di materiale, capace di formare idee ge nerali senza l'intervenzion della ragione. V. Forma. Sin qua del tempo limitato. Ma la mente porta l'idea del tempo oltre i limiti del cominciamento e della futura durazione di tutte le cose, perchè non sa concepire il principio o la fine del tempo, come dello spazio; perchè risguarda entrambi come i due vasti ricettacoli, ne'quali en trano e si succedono tutte le opere della natura; e perchè non sa disgiungere l'idea stessa d'una perpetua esistenza da quella d'una perpetua durazione. In somma l'idea del tempo illimitato va a confondersi col la eternità, siccome quello dello spazio il limitato si confonde colla immensità. E quì si compie la somiglianza e l'analogia del nostro ragionare intorno allo spazio e al tempo. Che diremo dunque della nozione del tempo illimitato? Quello stesso che ab biam detto dello spazio ! È una nozione confusa, come quella della eternità, del la immensità, e dell'infinito. V. queste VOCI. Giova infine notare, che a questo vo cabolo l'uso del comune parlare dà ancora un significato particolare. E però diciamo tempo per età, o per una certa durata, o anche per misura di spazio. Lo spazio misura il tempo per mezzo della relazione che l'uno e l'altro hanno col moto, il qual è di sua natura suc cessivo e continuo così nella durata come nella estensione. Esso segna e limita il corso del tempo; il perchè nel moto uni forme le parti della durata sono fra loro come le parti della estensione percorsa. Infatti, prendendo per unità una delle parti dell'estensione, il rapporto di questa – 491 – unità alle altre parti dell'estensione, è lo stesso del rapporto che si trova tra la cor rispondente unità della durata e le altre parti sue. V. Estensione. La natura ha dato all'uomo un perfetto modello di moto uniforme nella rotazione della Terra intorno al suo asse, o sia nel giro apparente delle stelle fisse; onde si è potuto stabilire esattamente il rapporto tra la durata e l'estensione. E sebbene il moto diurno ed il moto annuo del Sole patiscano talune disuguaglianze, pure son esse calcolabili. Gli astronomi hanno cor retto il moto diurno del Sole, rendendolo uniforme come quello delle stelle, avendo immaginato un sole fittizio, il quale si muova con velocità costante e media tra le velocità che il vero Sole ha nel corso dell'anno. Certo dunque e costante è il rapporto tra 'l giorno e la circonferenza dell'equatore, o di un paralello celeste, descritta da un astro, per modo che le parti della durata, le quali sono aliquote del giorno, han tra loro lo stesso rap porto, che han le parti aliquote della cir conferenza dell'equatore. V. Stel'a. La mano dell'uomo imitando la natura è riuscita a trovare in una durata limi tata un moto uniforme, che ha comparato colla primitiva e naturale misura del gior no; ed avendo trasportato la circonferenza dell'equatore in un quadrante di picciola dimensione, ha renduto osservabile il corso del tempo. E siccome in realtà non è lo spazio che misura il tempo, ma è la so miglianza del rapporti tra le parti dello spazio e della durata quella che serve di misura; così è indifferente che questo rap porto sia ricavato da una maggiore o da una minor quantità di spazio percorso, purchè si trovi la stessa uniformità del moto, che un punto dello equatore ha sulla sua circonferenza. Per tal mezzo noi abbiamo ricavato che la ventiquattresima parte del cennato spazio corrisponde alla ventiquattresima parte della durata, ed abbiam questa come la misura universale del tempo. V. Misura. Tempo han chiamato i gramatici quella inflessione o forma del verbo, che riferisce l'azione al presente, al passato, o al futuro. Ciascuna lingua ha diverse gradazioni per esprimere il prossimo e il rimoto. Ma di ciò vedi i grammatici. V. Verbo. TENACE e TENACITÀ (prat.), qualità di animo fermo ne suoi proponimenti, lode voli o riprensibili che sieno. - TENDINE (spec.), l'estremità del mu scolo. V. questa voce. v TENEBRA ( spec.), la privazion della luce, per l'assenza del sole dall'orizzonte. La luce e le tenebre formano quell'av vicendamento di giorno e di notte, di alte e di basse temperature, di azione e di riposo, nel quale è riposta l'economia della natura, spezialmente per la vita de gli animali e del vegetabili. V. Luce. E siccome tutto il nostro linguaggio è preso dalle cose sensibili, così tenebre dello intelletto sono state dette l'ignoranza e l'errore. V. queste voci. TENEREzzA (prat.), qualità di poca du rezza, che però è facile a piegarsi. In senso traslato, è qualità d'animo affettuoso, e pieghevole a sentimenti del l'amore e della misericordia.V. queste voci. TENTATIvo (prat.), cominciamento di azione, non portata al suo compimento. V. Azione. r – 492 – - Distinguendo nell'azione il principio che la muove, dalla volontà che le dà com pimento, il tentativo sta in mezzo all'uno e all'altra. Differisce dal conato, che espri me soltanto la forza del principio d'azio ne, che può non ricevere compimento per mancata determinazione di volontà. Che se l'azione compiuta per volontà dell'agen te, fosse mancata per estrinseco impedi mento ; in tal caso il conato acquista la qualità e il nome di tentativo. V. Conato. TEoLoGIA (spec. teol. e crit.), scienza che per lo studio di noi stessi, e per la contemplazione della natura, ci conduce alla conoscenza di Dio, e degli attributi suoi. V. Dio. Se questa è la definizione della teologia, è manifesto che con altro nome è la filo sofia stessa: è lo studio, che ad un tempo ci mena alla filosofia : è lo scopo della filosofia, che abbraccia tutta la filosofia. V. questa voce. . Riflettendo in noi stessi, la mente corre immediatamente alla conoscenza della sua causa, e d'una causa di se più perfetta. Passando poi alla contemplazione della na tura esteriore, la terra, gli animali, le piante, il cielo le appalesano il grande disegno che v'ha in tutte le opere della natura, e le dimostrano che a tal disegno corrispondono l'ordine, la simmetria e le leggi costanti ed uniformi, le quali rego lano tutte le parti dell'universo. E quan do, più innanzi spignendo la riflessione, scopre le relazioni degli Esseri animati colla natura inanimata, e delle innume revoli spezie di animali coll'uomo, unico Essere ragionevole; quando conosce come gli Esseri animati si riproducono, come la natura abbia con finissimo antivedimento predisposto l'organismo a bisogni di cia - scuna spezie, e le produzioni della terra a loro bisogni ; quando considera, come l'istinto, a guisa d'una ragion pratica, go verna i bruti, e come a tutti soprastà l'uo mo, quale sommo signore, e qual potestà immediata del Creatore; dietro tali e tante considerazioni, la mente perviene alla co gnizione d'un altro fine morale, cui tutte le cose materiali servono da instrumenti. Questo fine è, che l'uomo riconosca la provida mano dell'Autore di tutte le cose; e dalla immensità delle opere sue ascenda col pensiero alla contemplazione della sua perfezione, e degli attributi che costitui scono la sua essenza. Fissando sopra tutto gli occhi nel cielo, e vedendo il sole, la luna e le stelle tut te, parte fisse e parte erranti, parte lumi nose che riflettono la loro luce, e parte opache che la raccolgono ; considerando che tutte per una forza loro impressa muo vonsi in una immensità di spazio, che i sensi e la mente non possono abbracciare; l'uomo forma l'idea dell'infinito, e con questa spiega la confusa, ma vera nozione degli attributi della Divinità. V. Immen sità, Infinito. Seguendo l'ordine di queste conoscenze, le quali successivamente svilupparonsi nella mente dell'uomo, formossi la scienza che noi chiamiamo teologia naturale: le ve rità che essa c'insegna son tutte deduzioni che il ragionamento ricava dalla nozione del proprio essere, o dall'io, e dalla esi stenza del mondo esteriore. V. Io, Mondo. Ma l'uomo, che prima vedeva Dio da pertutto, cessò di vederlo, tosto che la forza dell'abito affievolì ed estinse il sen timento dell'ammirazione, da cui era stato compreso al suo primo apparire nel mon do. E tanto la forza dell'abito prevalse al sentimento, quanto surse una falsa scien – 495 – - za, la quale cominciò per istudiare i fe nomeni naturali nel semplice loro rapporto colle leggi, o fatti generali da cui quelli dipendono, e finì per dimenticare la cau sa intelligente. A questa causa la falsa filosofia ne sostituì un'altra tutta materiale o sia la catena stessa delle cause secon de, rotto il primo anello, da cui ogni loro virtù procede. Quantunque i fisiologi e gli astronomi fossero stati i primi che nella fabbrica del corpo umano, e del cielo ravvisato avessero i caratteri della sapienza, della onnipotenza, e della infi mità del Creatore; pure non è tra essi mancato chi abbia deificato il caso o la natura. Se da una parte nulla onora tanto l'ingegno umano quanto le maravigliose scoverte dell'astronomia, uopo è dall'altra convenire, che un astronomo ateo sia il più strano esempio degli assurdi e delle contraddizioni, di cui una erroneamente è capace. V. Astronomia, Ateismo, Fi siologia. - Dalle cose sin qua dette manifesta an cora apparisce la naturale connessione del la teologia naturale colla cosmologia e colla dottrina delle cause finali, che spe zialmente aprono alla mente la cognizione d'una Provvidenza conservatrice, la quale veglia a bisogni della umanità, e conser vando rinnova i benefizi della creazione. V. Causa, Cosmologia, Creazione. Questa Provvidenza conservatrice non poteva più chiaramente manifestarsi al l'uomo, che per mezzo della rivelazione, quando per la sperienza stessa de suoi errori, l'umanità ebbe acquistato la con vizione che la luce sola della ragione era insufficiente a contenerla ne' fini della creazione. Da quel momento una nuova dottrina, figlia d'una legge positiva e di vina, è venuta a spiegare e confermare i precetti della teologia naturale. Tal è lo scopo della teologia dogmatica o ri velata, la quale ha rigenerato l'uomo, ha dissipato le tenebre che aveva sparso sul genere umano il vecchio fermento delle sue passioni, ha purificato la sua ragio ne, e le ha aperto la vera cognizione della natura. - La teologia naturale dunque è fon data nella sola luce della ragione: la ri velata nel dogma e nella fede. V. que ste voci. TEOREMA (spec. e disc.), proposizione di verità speculativa dimostrabile o dimo Strata. Le proposizioni son dimostrabili, quan do la loro verità nasce, o dalle stesse definizioni del termini, col quali vengono enunciate; o da assiomi concessi e rico nosciuti per indubitati; o da altre propo sizioni già dimostrate, le quali son dive nute evidenti per la dimostrazione fatta ne. V. Dimostrazione. I teoremi appartengono al genere delle verità dedotte , dapoichè le proposizioni per se stesse evidenti, che non hanno bi sogno di dimostrazione, formano il ge nere delle intuitive. Tra queste son com prese tutte le proposizioni le quali diven gono evidenti, per essere una deduzione immediata d' una verità per se stessa in tuitiva. Tal sarebbe la proposizione, tut to quel che ha cominciato ad esistere, de avere una causa che l'abbia pro dotto. V. Intuitivo, Intuizione. TEoRIA (spec. e crit.), la parte d'ogni scienza, la quale si limita a considerare speculativamente le proprietà del suo sub bietto, senza alcuna mira all'applicazione della medesima. V. Applicare. - 494 - TEoRicA (spec.), la parte d'ogni dot trina, che espone i suoi principi speculati vi, senza veruna applicazione alla pratica. V. questa voce. TEoRIco (spec.), quel che appartiene alla teoria e non alla pratica. Dicesi anche di uomo che versi unica mente circa la teoria, e non attenda al l'esperienza. V. questa voce. TERMINE ( disc. ), nome o vocabolo, che riceve un particolar significato dal lin guaggio scientifico o tecnico. Tutto quel che i filosofi han detto del l'abuso determini, a quali dassi un vago ed ambiguo significato, e degli errori che ne derivano, appartiene al retto uso del definire e del ragionare, e però lo con sideriamo come parte della logica. I grammatici distinguono i termini pro pri delle scienze e delle arti, che chiaman tecnici, da quelli che entrano nella com posizione del comune discorso. V. Tecnica. I logici poi chiamano termini gli ad diettivi e i sostantivi, considerati come componenti d'una proposizione, sì che il subbietto e il predicato sono i due termini de quali quella si compone; e distinguono i semplici da complessi, nella quale spe zie van compresi quelli che ad un nome semplice aggiungono un altro di qualità. Suddividono inoltre i complessi in espli cativi e determinativi, gli esplicativi di chiarano o sviluppano una qualità rin chiusa nella comprensione del nomi, ai quali sono aggiunti: i determinativi am pliano o restringono il significato d'un altro termine generale. V. Proposizione. Termini de sillogismi son dette le varie proposizioni che li compongono; e termine medio, la proposizione che serve di para gone, acciocchè possa trovarsi l'ignota verità che si va cercando. V. Sillogismo. TERRA (spec. e crit.), il globo terra queo, che noi abitiamo. È l'obbietto di tutte le scienze fisiche, delle quali ognuna prende a considerarla, o nella sua intera forma, o in ciascuna delle sue parti. E considerata per rispetto all'uomo, 

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