Thursday, August 13, 2020
IMPLICATVRVM -- in IV -- III
gono alle leggi secondarie. V. Promessa. OBBLIGo e OBLIGo (prat, ),
debito di fare una cosa, che sia suggerita o dalla legge positiva, o dalla
morale, o dalla usanza, o anche dalla semplice conve: nienza. Ha per
conseguente un senso più lato dell'obligazione, che si riferisce a doveri
positivi, imposti da legge, o contratti per – 255 - promessa. E però eorrere ad
alcuno l'obli go vuol dir convenire, e l'avere obligo verso d'un altro
abbraccia ancora la rico noscenza, o la reciprocazione negli ufizi della vita.
V. Uficio. OBBLIo e OBBLIvioNE, profonda dimen ticanza, che avvenir suole per
difetto di volontà o di sentimento. V. Dimenticanza. OneRoeRio (prat.), il
vitupero o l'in famia, che procede da cosa bruttamente fatta. Si adopera ancora
per la stessa infa mia, o vitupero, nel quale senso dicia mo, che una cosa
torna ad obbrobrio di chicchessia. V. Infamia, Vitupero. Vale ancora detto
oltraggioso, o villa mia, che a qualcheduno s'indirizza, per offenderlo e
schernirlo. OBITo. V. Morte. OccasioNALE (spee. ontol. e prat.), quel che porge
occasione. V. Occasione, Occasionale, aggiunto di causa. V. que sta Voce.
Occasione (prat. e disc.), opportunità di fare, o di dire qualche cosa. È
l'idea stessa dell'opportunità appli cata alla scelta del tempo proprio al
fare, o al dire una data cosa. L'opportunità ha un significato più generico,
perchè ab braccia la convenienza, non solamente del tempo, ma anche del luogo e
delle persone. - Il senso che noi le diamo è uniforme a quello che le diedero i
Greci, i quali la chiamarono euwaipta, e i Latini che la dissero occasio.
Cicerone la definì: occa sio est pars temporis, habens in se ali cuius rei
idoneam faciendi, aut non fa. eiendi opportunitatem. Quare cum tem pore hoe
differt. Nam genere quidem utrumque idem esse intelligitur: verum in tempore
spatium quodammodo decla ratur, quod in annis, aut in anno, aut in aliqua anni
parte spectatur: in oc casione ad spatium temporis, faciendi quaedam
opportunitas intelligitur adjun eta (Cic. de invent. rhet. lib. I. cap. 27).
Occhio (erit. spec. e disc.), organo della visione, posto sotto della fronte, e
a canto alla radice del naso ; composto di membrane e di umori, i quali sono
stati dalla natura predisposti a ricevere e a modificare le impressioni della
luce ; abbondante di nervi, e mosso da mu scoli, de quali l'azione corrisponde
ad ogni parte del meccanismo della visione; unito all'encefalo per mezzo d'un
nervo detto ottico, il quale dalla parte posteriore forma quasi un pedicciuolo
o gambo ; collocato il globo dell'occhio in una ca vità ossea, detta orbita,
umettato cotesto globo da un fluido che tramandan le glandule, dette lacrimali;
coverto esternamente e custodito da due membrane cartilaginose e muscolari,
dette palpebre, le quali son dotate d'una mo bilità istantanea, acciocchè
possano non solamente difendere le parti delicate de gli occhi dalle percosse,
e dal contatto aspro o violento delle minime particelle della materia,
degl'insetti, dell'acqua, e dell'aria stessa, ma ancora chiudere e aprire a
volontà l'accesso alla luce; terminate le palpebre ad un arco carti laginoso,
acciocchè possan quelle abbrac ciare tutta la convessità del globo; sormontate
dalle ciglia, le quali impe 50 - 254 – discono, che il sudore, e qualunque al
tro fluido, che scorra per la fronte, non penetri nell'occhio; senza dir altro
di quel che la natura ha fatto per la bellezza e simmetria della figura, sopra
tutto dell'uomo. Non è parte di questo bell'organo che non porti in se impressa
la ragione dell'uso, cui la natura lo ha destinato. La sua so stanza
membranosa, la forma, l'artifizio col quale son preparati gli effetti della
luce, e le stesse infime parti, che sembrar po trebbero accessorie più che
principali, son tutte coordinate a produrre la visione, la più importante di
tutte le sensazioni, anzi quella per la quale formar possiamo un più chiaro
concetto degli obbietti esterni. Noi abbiam veduto negli articoli lente e luce
le leggi, secondo le quali la luce si propaga, riflette, e si refrange. I suoi
raggi si spandono in linea retta, ma par tendo da uno stesso punto divergono
l'uno dall'altro. Se in questo modo entrassero nell'occhio, e non fossero
raccolti e indi rizzati ad un punto stesso, non si conse guirebbe lo scopo
della visione. Tale scopo è la formazione di una esatta immagine dell'obbietto
visibile nel fondo dell' oc chio, o sia sulla retina, che è la tela de stinata
a riceverne l'impressione. V. Lente, Luce. Ma i raggi di luce, che provengono
da un obbietto vicino, entrano nell'occhio con una divergenza maggiore de
lontani, e non potrebbero andare a cadere nel me desimo punto, e formarvi
l'immagine del l'obbietto senza più e diverse refrazioni, o sia senza l'aiuto
di vari mezzi, più o meno refrangenti. Le lenti degli occhi son le membrane e
gli umori di differente den sità, di cui la natura gli ha provveduti. Che anzi,
le lenti sono una imitazione di coteste membrane delicate e trasparenti, le
quali fan passare i raggi diretti, fran gono gli obliqui, e raccolgono gl'inci
denti per indirizzargli tutti al punto, in cui debbano gli obbietti essere
dipinti. Il globo dell'occhio è vestito esterna mente da una tenuissima
membrana, det ta adnata o congiuntiva, membrana mu cosa, continuazione
detegumenti esterni, che dopo avere rivestito i margini, e l'in terno delle
palpebre, ripiegasi sul globo, e lo ricopre nella massima estensione, senza
eccettuarne lo spazio occupato dal la cornea trasparente. Le altre membrane
proprie dell'occhio sono: 1.º la sclerotica, o cornea opaca, mem brana fibrosa,
congenere alla dura madre, la quale costituisce il guscio duro dell'oc chio: ha
un foro cribroso nella parte po steriore, per lo quale s'introducono i rag gi
del nervo ottico: la sua figura è sfe rica, mancante d'un segmento, accioc chè
nella parte che manca incassarsi po tesse un'altra membrana anteriore, la cor
nea trasparente, come il cristallo s'incassa nell'oriuolo: 2.º la cornea
trasparente, segmento di sfera d'un diametro minore della scle rotica, di
tessuto squamoso, elastico, e diafano: 3.º la coroidea, membrana essenzial
mente vascolare, affine alla pia madre, di color fosco nell'uomo, e di color va
rio negli animali, detta da molti tappeto, perchè riveste tutta l'interna
superficie del la sclerotica dalla parte posteriore all'an teriore, giugnendo
sino all'orbicolo cilia re, presso a poco nel sito, ove la cornea trasparente
s'impianta nella sclerotica. La coroidea non pertanto, in taluni animali
mammiferi è in parte foderata da un al tro strato, che pur dicesi tappeto: –
255 - 4.º la retina, membrana tenuissima, fragile, di colore perlino, nella
quale spam desi, a guisa d'una tela, il nervo ottico: contigua nella parte
interna alla coroidea, procede da dietro in avanti, rivestendo tutto l'ambito
della medesima: gli anato mici discordano nel determinare il limite anteriore
di questa nervea membrana: pen san taluni, che finisca alla distanza di due
linee dal corpo ciliare, al quale si con giunga per un tessuto intermedio:
credono altri, e sono i più accurati, che giunga, sempre più attenuandosi,
insieme colla co roidea, insino al corpo ciliare, e si con fonda poi co'
nervicciuoli ciliari. Un processo della coroidea, aderente al corpo ciliare,
scende verticalmente dietro la cornea trasparente, e innanzi alla lente
cristallina: la sua figura è circolare, ed ha un foro medio, detto pupilla: la
sua superficie anteriore è versicolore e dicesi iride: la posteriore è
uniformemente fo. sca, ed è denominata uvea: lo spazio in terposto tra la
cornea trasparente e l'iride, forma quel che dicesi camera anteriore
dell'occhio: quello tra l'uvea e la lente cristallina, camera posteriore a
vario è il diametro della pupilla, dapoichè es sendo oltremodo mobile e facile
a contrarsi l'armilla denominata iride, avviene che la pupilla si stringa e si
dilati, secondo che la luce è più o meno viva, o copiosa. Gli umori che son
contenuti nell'occhio son due, di varia densità e natura: primo per anteriorità
di sito è l'umore aqueo, il quale occupa le due camere dell'occhio, comunicando
dall'una all'altra per mezzo della pupilla: secondo, perchè più inter no, è
l'umor vitreo, che rinchiuso in una membrana cellulare, detta jaloidea, occupa
quasi due terze parti dell'occhio po steriormente alla lente cristallina: a
rispetto non pertanto della densità, l'umor vitreo dirsi potrebbe primo, e
l'aqueo, secondo. Nella superficie anteriore dell'umor vi treo, dietro la
pupilla, e propriamente nel fondo della camera posteriore dell'occhio, è
impiantata la lente cristallina, diafa na, involta in una capsula anche
diafana, aderente al corpo ciliare, dal qual è cir condata: le due superficie sue,
volte una in avanti e l'altra indietro, entrambe con vesse, sono segmenti di
sfere, di diverso diametro. Giusta il sentimento di Petit, al quale la
generalità del fisiologi aderi sce, il diametro della sfera di cui è seg mento
la superficie anteriore è di cinque linee, e quello della posteriore di due e
mezzo. E quì vuolsi notare, che cotesta misura è presa nell'uomo adulto, dacchè
la convessità è maggiore nella infanzia, e minore nella vecchiaia. Il nervo
ottico, per mezzo del quale l'occhio è in prossimo rapporto col cer vello, non
è il solo, cui la natura abbia dato il ministero della visione; imperocchè dal
ganglio oftalmico si diparte un fascetto di nervi, detto dalla sua figura
flagello ciliare, il quale penetra nell'occhio a canto al nervo ottico, e
oltrepassata la sclerotica, dividesi in molti raggi, che procedendo da dietro
in avanti, tra la sclerotica e la coroidea, vanno a termi nare nel corpo
ciliare. Da questo verisi milmente gli stessi nervicciuoli spandonsi
nell'iride, quasi conduttori di quello squi sito senso, di cui l'anzidetta
membrana è provveduta. Al corredo denervi succede l'altro del muscoli, de quali
il globo del l' occhio è fornito : i muscoli son sei , quattro retti, e due
obliqui : per mezzo loro quest'organo esegue i molti e svariati movimenti, de
quali ha ricevuto l'attitu dine dalla natura. ar Ora applicando le leggi della
refrazione a passaggi che fa la luce per le varie parti dell'occhio insino alla
retina, si perviene facilmente ad intendere come ciascuna del le membrane e gli
umori cooperino al fe nomeno della visione. 1.° I raggi della luce dall'aria,
mezzo raro, passando per la cornea trasparente di quella molto più densa,
debbono es sere avvicinati all'asse, e renduti conver genti; 2.” Nella camera
anteriore e posteriore dell'occhio, incontrando l'umore aqueo, men denso della
cornea, debbon perdere alquanto dell'acquistata convergenza; 3.° La superficie
colorata dall'iride as sorbisce una quantità di raggi soverchi, e ove questi
fossero troppi, o troppo for ti, la pupilla restringendosi, impedisce a molti
il passaggio; 4.º Così giugnendo nella lente cristal lina, non più come erano
prima di pene trar nella cornea, ma perduto avendo al quanto della convergenza
acquistata a tra verso di questa, la lente dell'umore aqueo più densa e di
forma convesso-convessa, opera su di essi una potente refrazione, il cui foco
avviene al di là della superfi cie posteriore di questa. I raggi prolun gati al
di là del foco, vanno a dipingere sul fondo della retina l'immagine dell'ob
bietto, da cui partono. Ma chi può ritrarre tutte le sopraffine cautele,
adoperate dalla natura, accioc chè il fenomeno della visione non patisse la
benchè minima alterazione. Importava, p. e. , che la grandezza dell'immagine
avesse una determinata estensione, accioc chè cadesse nella parte più sensibile
della retina; ovvero che i punti stimolati della stessa non oltrepassassero un
determinato spazio, onde ne risultasse la visione di stinta. Oltre innumerevoli
mezzi coordinati a questo fine, ha la natura fatto per modo che i raggi,
passando dalla lente nel cor po vitreo, s'imbattessero in un mezzo di quello
men denso, onde la convergenza fosse alquanto diminuita, e non confluis sero sì
presto nel foco. La convergenza delle lenti dell' occhio e il diametro del foro
della pupilla sono appunto tali da produrre quell'effetto. La facoltà data alla
pupilla di restringersi e di dilatarsi, onde regolare gli effetli delle
impressioni della luce, troppo viva o troppo debole, deter mina le funzioni
dell'organo e provvede alla sua conservazione. L'occhio infine è un instrumento
acromatico per eccellenza, dapoichè gli obbietti non ci appariscono circondati
di frange colorate, come ve devansi le immagini prodotte da cannoc chiali prima
della scoperta delle lenti acro matiche. Quan'unque sia difficile descri vere
tutte le minute particolarità della strut tura di quest'organo ammirabile ;
pure vuolsi dire, che in esso veggonsi osser vate tutte le regole che i fisici
danno per la costruzione delle lenti acromatiche. Tali regole consistono nella
diversa curvatura delle lenti parziali, onde rimediare all'aber razione di
sfericità, e nella diversa den sità e refrangibilità delle stesse lenti, o sia
de mezzi che i raggi della luce deb bono attraversare, onde riparare all'aber
razione di refrangibilità. L'esempio del l'acromatismo dell'occhio fu, che
persuase Eulero (contra l'opinione di Newton) del la possibilità delle lenti
acromatiche, le quali anche dopo i progressi fatti dall'ot tica, non sono se
non una debole ed im perfetta imitazione dello stupendo artifizio della natura
nella costruzione dell'occhio. Da tutto l'esposto meccanismo di re frazioni
risulta, che i raggi della luce, – 257 – i quali partono da diversi punti
dell'ob bietto luminoso, s'incrociano prima di giugnere alla retina, e vanno in
questa a dipingere l'immagine capovolta, per modo, che divengono inferiori
quelli che primitivamente eran superiori, e che pie ghino a diritta quelli che
venivan da si nistra, e così e converso. Un tal feno meno, che naturalmente
avviene nell'oc chio, artifizialmente si ottiene per mezzo d'una macchina,
appositamente congegnata (la camera oscura), cui l'occhio umano ha servito di
modello. Le estremità dei raggi della luce, proiettati da diversi punti
dell'obbietto visibile, e rimbalzati dal fuoco della lente, vanno a dipingere
nel fondo opaco d'una tela l'immagine capovolta dell'obbietto medesimo. Ma come
avviene, che noi vediamo di ritte le immagini, che vanno a dipin gersi
arrovesciate sulla retina ? E come può spiegarsi, che vedendo ciascun occhio la
stessa immagine, e due essendo le im magini dipinte in ciascuna delle due re
tine, il senso poi ci faccia vedere unica e non doppia la figura dell'obbietto?
I fisici han cercato di dare varie spiega zioni di ambedue i cennati fenomeni,
ma essi adducono più congetture, che fatti dimostrabili, spezialmente per lo
primo. Tali incompiute spiegazioni indicano ab bastanza, che i soli fatti della
sensazione non bastano a rendere una ragione suffi ciente dell'effetto della
visione, sì che con viene ammettere, che la facoltà percet tiva dell'anima vi
abbia ancora la sua parte. Riguardiamo dunque come più me tafisiche che fisiche
le anzidette due qui stioni, e riserviamone la disamina all'ar. ticolo visione.
V. questa voce. La natura ha messo molte differenze nella struttura degli occhi
dell'uomo e de gli altri animali, per adattare quest'or gano alla condizione di
ciascuna delle loro spezie, avendo dato a talune la vi sta più acuta e lontana,
a talune altre più mobile ; avendo ancora moltiplicato in parecchi animali, e
spezialmente ne gl'insetti il numero degli occhi, per sup plire al difetto di
altri sensi, che ha loro negato. Negli uccelli e ne pesci la strut tura degli
occhi è adattata alla diversa qualità del mezzo, nel quale son desti nati a
vivere. Quanto agli uccelli, essendo provveduti di becco, e dovendo distinta
mente vedere gli obbietti che sono alla portata della loro bocca, conveniva da
una parte accrescere la convergenza dei raggi, e per essa la convessità della
parte anteriore del loro occhio. D'altra parte do vendo percorrere l'aria a
grandi altezze, e vedere gli obbietti a lunghe distanze, così per difendersi
come per aggredire, faceva uopo allungare l'organo della visione se condo la
diversità del bisogno. Per con seguire due fini cotanto opposti tra loro, la
natura ha cinto l'occhio degli uccelli d'un cerchio osseo, ma flessibile, il
quale contiene l'azione del muscoli laterali, per accrescere l'effetto della
convergenza dei raggi della luce nella parte anteriore, ed ha aggiunto un
muscolo particolare, det to marsupium, cui ha dato l'ufizio di ti rare più in
dietro l'umor cristallino, onde potere scoprire gli obbietti più lontani. E
circa i pesci, i quali vivono nell'acqua, siccome le leggi della refrazione
della luce esigono, che i raggi che dall'acqua pas sano nell'occhio, sieno
refratti da una su perficie più convessa di quella, che biso gnerebbe, se
passassero da un mezzo men denso come l'aria; così la natura ha mes so
nell'occhio loro una lente più sferica (l'umor cristallino) , di quella che ha
– 258 - data agli animali terrestri. L'anguilla de stinata a vivere nel fango,
e a muoversi in un fondo non istabile, ha gli occhi coverti da un velo
trasparente e solido, il quale serve di custodia alle parti molli del suo
organo, senza impedire la vista. Gli occhi degl'insetti non sono cinti d'ossa,
giusta una osservazione di Aristotele, nè son provveduti di ciglia, ma la
tunica esteriore, che diremmo la cornea, è sì dura, che basta a garantirgli da
pericoli esterni. In essi varia ancora la forma del l'organo secondo le diverse
funzioni, alle quali son destinati : in alcuni gli occhi hanno il lustro e la
rotondità delle per le: in altri la loro forma è semisferica: in altri ha della
sferoide : in molti gli occhi son situati nella fronte sotto delle antenne : in
alcuni dietro di queste : in altri son rilevati nella fronte : in taluni
finalmente sembran da quella distaccati, e alla stessa aderenti in forza di una
par ticolare articolazione. Il numero in fine degli occhi varia ancora
negl'insetti, da poichè la maggior parte ne ha due: al cuni cinque, come le
mosche: altri otto, come i ragnateli: molti un numero mag giore, del quali la
conformazione ci sa rebbe stata sempre ignota senza l'aiuto del microscopio. La
notomia comparata rileva tali differenze, e somministra per questa, più che per
ogni altra parte del l'organismo animale, la dimostrazione del l'antivedimento,
e della infinita sapienza del Creatore. V. Organismo. Ma nell'uomo l'organo
della vista for ma un senso speciale dello spirito, il quale se ne vale per
conoscere la natura este riore, per formare le prime idee gene rali, per
analizzare le sue proprie facol tà, e sopra ogni altra la percezione, e Per
esprimere la parte più riposta de suoi pensieri. Per la visione noi
contempliamo la luce e le sue proprietà; formiamo le prime idee collettive, e
acquistiamo la conoscenza della universalità della natura; esaminiamo la
struttura di tutt'i nostri or gani, e ci spingiamo a penetrare persino nelle
segrete relazioni di questi organi, colla facoltà di percepire gli obbietti
ester ni. Nell'analisi di questa facoltà niun'altra sensazione ci dà tanti
elementi per distin guere i diversi atti del pensiero, quanti ce ne somministra
la vista. Per mezzo suo ravvisiamo negli obbietti esterni le cause delle nostre
sensazioni, conosciamo le qua lità loro, e formiamo il concetto delle es senze,
degli accidenti, e del diversi modi di essere di tutte le cose. L'occhio in som
ma, non solamente è in noi l'organo del la visione materiale, come negli altri
ani mali, ma è uno de principali instrumenti dell'animo, sì che di tutte le
similitudini delle cose sensibili, delle quali il linguag gio suole servirsi
per esprimere gli atti del pensiero, la più naturale e più univer salmente
ricevuta è quella che chiamiamo vista dell'anima, l'intuizione e l'acume
dell'intelletto. V. Intuizione, Percezione. Gli antichi non conobbero anatomica
mente la struttura dell'occhio, ma ammi raron questa sopra ogni altra parte del
l'organismo animale, non solamente per l'importanza del senso della vista, ma
ancora perchè lo considerarono come un instrumento dell'anima. Cicerone, dopo
avere contemplato nella struttura dell'occhio la sapienza del su premo Autor
della natura, passa a para gomare cotesto senso ne bruti, con quel che è
nell'uomo: Omnis sensus hominum multo antecelit sensibus bestiarum. Pri mum
enim oeuli in is artibus, quarum ſudicium est oculorum, in pictis, fie - 259 –
tis , coelatisque formis, in corporum et.am motione, alque gestu multa cer nunt
subtilius. Colorum etiam et figura rum venustatem, atque ordinem , et , utita
dicam, decentiam oculi judicani, atque etiam alia majora. Mam et virtu tes et
vitia cognoscunt: laetantem, do lentem º fortem , ignavum : audacem, timidumque
cognoscunt (de nat, deor. lib. II, cap. 57. 58). Non men bella è la descrizione
che ne fa Plinio, il quale considera l'occhio come la sede dell'anima: Profecto
in oculis animus habitat. ardent, intenduntur, humeetante connivent: hine illa
miseri cordiae lacrima. hos cum osculamur, animum ipsum videmur attingere: hine
fletus, et rigantes ora rivi: quis ille humor est, in dolore tam secundus, et
paratus? aut ubi reliquo tempore? Ani mo autem videmus : animo cernimus : oculi
ceu vasa quaedam, visibilem eſus parlem accipiunt, atque transmittunt sie magna
cogitatio obcoecat, abducto intus visu. sic in morbo comitiali aperti nihil
cernunt, animo caligante ( hist. mat. lib. XI. cap. 54). La differenza più
notabile, che passa tra l'occhio e gli altri sensi è, che questi prendono nelle
sensazioni una parte pura mente passiva, e trasmettono le impres sioni che
ricevono; laddove quello è mosso altresì dall'animo per esprimere il piace re,
il dolore, il rimorso, e per leggere nel volto altrui i più riposti pensieri.
Di qua nasce che l'occhio è quello, che rav viva il gesto, e rende parlante il
lin guaggio d'azione; di qua ancora la virtù che hanno gli occhi di annunziare
le qua lità caratteristiche dell'animo di ciascuno, la modestia, la vanità, la
timidezza, il coraggio, la pietà, l'ipocrisia; e quella anche maggiore di
scoprire nello sguardo altrui la verità, o la menzogna, la leal tà, o la
finzione; nel che la penetrazione loro vince persino la forza delle parole,
colle quali gli uomini malvagi ed astuti cercano di nascondere il proprio
sentimen to. Chi può comunicare loro tanta forza d'azione, tanta intensità di
sentimento, e tanta vivacità di espressione, se non lo spirito e l'intelligenza
? V. Linguaggio. OCCIDENTE (spee. e erit.), parte del l'orizzonte, dove il sole
tramonta, o sia per dove sembra passare dal nostro emi sfero all'altro
inferiore. V. Orizzonte. Distinguesi l'occidente estivo dal ver nale: quello è
il punto, nel quale il sole tramonta per entrare nel segno del gran chio, cioè
quando ricorre la maggiore lunghezza del giorno: questo, quando en tra nel
segno di capricorno, o sia nella stagione della maggior brevità del giorno.
Occidente equinoziale chiamasi il punto dell'orizzonte, nel quale il sole
tramonta per entrare in Ariete, o nella Libra, o sia quando è equidistante dal
settentrione e dal mezzo giorno, il quale punto dicesi ancora punto di vero
occidente. Occidente chiamano i geografi, in un senso relativo, la parte della
terra oppo sta all'oriente. V. questa voce. OccuLro (spec. ontol. e crit.),
quello di cui non si conosce la ragione, o la causa. V. queste voci. - In
questo senso, occulto è tutto quel che l'uomo ignora. Le essenze, le cause, il
meccanismo della natura nella produzione e riproduzione degli Esseri, la virtù
motrice delle forze, son tutte cose per noi occulte. I peripatetici e gli
scolastici chiamarono occulte talune supposte cause o qualità , – 240 - per le
quali spiegavano que fenomeni na turali, di cui non sapevano assegnare altra
sufficiente ragione. Sovente queste cause ocoulte erano incompatibili colla
natura delle cose; e il più delle volte erano di ostacolo alla ricerca delle
vere cause na turali. Infatti il prestigio delle cause oc culte è stata la
principale ragione, che per secoli ha tenuto le scienze fisiche nel la
infanzia, e le ha ripiene d'ipotesi, di favole, e di misteri. Newton le sbandi,
sostituendo l'osservazione de fatti alle ipo tesi, e i moderni ne hanno
proscritto per sino il nome. V. Causa, Ipotesi, Qualità. Occulta finalmente fu
chiamata quella sorta di filosofia arcana, la quale preten deva di penetrare
nesegreti della natura, e di operar cose maravigliose, mediante l'intervenzione
d'invisibili poteri o di al ire misteriose cagioni, come la magia, la cabala,
l'alchimia, e tutte le arti di vinatorie. Dottrine cosiffatte non trovano più
luogo nell'umano sapere. OcEANo (spec. e crit.), nome di mare, che talora
significa tutto il mare, e ta lora, parte di esso. Nel significato comune
intendiamo sotto tal denominazione la parte del mari, la quale empie i vasti
spazi, che separano i continenti, considerandola come distinta da mari che
bagnano gli stessi continenti, quantunque tutti comunichino tra loro per
passaggi o stretti più, o meno ampi. Quanto a rapporti della parte fluida del
globo colla solida, e alle leggi naturali, dal le quali l'una e l'altra son
regolate, gli ocea mi non sono altro che mare. V. questa voce. ODIo (prat.),
maligno affetto, per lo quale taluno desidera il male altrui, e se'n compiace,
Cicerone lo definì ira inveterata, e da lui presero la stessa definizione i
nostri moralisti italiani. Ma l'ira può nascere talvolta da onesta cagione, e
può l'uomo virtuoso adirarsi contra il vizio e il de litto, mentre non sa virtù
portar odio ad alcuno. D'altra parte, sebbene l'ira in vecchiata soglia per
malignità d'animo degenerare in odio, pur tuttavolta non è necessario che per
concepire l'odio, sia l'animo preoccupato da un antecedente abito d'ira, o
d'iracondia. Laonde sem bra che cotesta passione prenda il suo ca rattere non
dalla permanenza dello sde gno, ma sì bene dall'avversione e dalla malevolenza,
di cui è una spezie. V. Av versione, Ira, Malevolenza. ODIoso (prat.), chi
produce o porta odio. ODoRATo (spec.), senso destinato dal la natura a ricevere
e a distinguere gli odori. Va considerato come organo, e come facoltà, o virtù
di sentire. Come organo. La membrana, di cui il naso è vestito, è un
prolungamento di quel la che fodera la gola, la bocca, l'esofago, e lo stomaco.
La sensibilità delle sue parti varia d'intensità a misura che ognuna di esse si
allontana dal cervello: è più squi sita nel naso, alquanto meno nella bocca, e
più attenuata ancora nell'esofago: l'odo rato è quasi il precursore del gusto o
sia del sapore, perchè serve di esploratore alla bocca e al palato per
iscegliere o rifiutare quel che ci si appresta onde essere introdotto nello
stomaco. Le narici destinate al pas saggio dell'aria e con essa degli odori,
formano nell'interno del naso due cavità, separate da un tramezzo, le quali
oltre le aperture anteriori ne hanno due altre po – 241 – steriori verso la
gola, per mezzo delle quali questa comunica colla bocca. Coteste ca vità son
coperte da una membrana spu gnosa, detta pituitosa, a cagione della pituita che
tramanda: la sua superficie ha l'aspetto d'un velluto molto raso: la qua lità
di spugnosa le viene dal suo tessuto, ch'è composto da una minutissima rete di
vasellini di nervi, e di glandule; sic come il vellutato nasce da picciole gem
me o papille nervose, le quali formano propriamente l'organo dell'odorato: la
pi tuita, la quale esce dalle estremità deva sellini, mantiene le papille
nervose nello stato di flessibilità necessaria alle loro fun zioni, al che
serve anche di ausiliario l'umor lacrimale che scende nel naso. I nervi
dell'odorato entrano nelle narici sfioc cati in numerosissimi filamenti, i
quali passano a traverso di altrettanti piccoli fo. rami di cui è fornita una
lamina dell'osso etmoide , forami che le dan l'aspetto di un crivello, il
perchè prende il nome di lamina cribrosa. Per tal mezzo i rami e i moltiplici
filamenti del nervo dell'olfatto (che forma il primo paio di nervi i quali
escono dal cranio), estendonsi insino alla membrana e vi diffondono la
sensazione dell'odore. Oltre al nervo dell'olfatto comu nica ancora col naso un
ramo del nervo oftalmico, la qual comunicazione spiega il perchè i forti odori
producano talvolta le lagrime; e la luce viva operante sugli occhi, lo
starnuto. Da ultimo si distribui scono alla membrana pituitaria, comuni cando
cogli olfattori, altri nervi prove nienti da gangli. La struttura stessa
dell'organo dell'odo rato dimostra due cose: l'una, che la sensazione
dell'odore si formi nella parte superiore, e non nella inferiore delle na rici:
l'altra che la membrana pituitosa è stata dalla natura espressamente formata
per ricevere e ritenere le impressioni del le sostanze odorifere. Di ciò fanno
an che pruova le altre parti del meccanismo di cotesto organo, e spezialmente
le due trombe o imbuti, che trovansi nell'in terno di ciascun lato delle
narici. Cofeste trombe fanno l'ufizio non solamente di spandere e d'irradiare
la membrana delle particelle odorifere, che il naso ha fiu tato, ma ancora di
tenerle per più lungo tempo in contatto colla membrana suddet ta. La notomia
comparata conferma una tale osservazione, dapoichè ha scoverto che ne cani da
caccia, ed in altre spezie di animali dotati di più squisito odorato, le
cennale trombe sono in proporzione mag giori, che nell'uomo. Chi non vede con
quanta sopraffina industria l'Autore del l'organismo abbia predisposto e
adattato il naso alle funzioni alle quali è destinato? Le particelle volatili
dell'odore dovendo passare insieme coll'aria, aver dovevano con essa un meato
comune ; e dovendo in pari tempo invitare il palato a cibi e alle bevande
salutari, o distorlo dalle no cevoli, uopo era che fosse messo in con fine
coll'organo del sapore, e vincesse le impressioni del palato in celerità e in
du rata. V. Organismo. Come virtù di sentire. I corpi tutti della natura,
spezialmente quando sono nello stato di fermentazione, esalano continua mente
particelle sottili solide e fluide, le quali spandonsi nell'aria, e sono dalla
stessa trasportate come da una corrente più o meno veloce, secondo lo stato del
l'atmosfera. I corpi organici sopratutto, tanto nello stato di vita e di
accrescimento, quanto in quello di corruzione e di disso luzione, tramandano
particelle volatili, le quali comunicano all'aria un sentore estra 51 neo o
diverso da quello, cui siamo abi tuati. I vegetabili si fan distinguere per un
odore, che noi diciamo loro proprio, e che il più delle volte è grato e buono:
la natura ha raccolto nel fiori i profumi i più delicati: i succhi acidi o
fermentati tramandano ancora un odore proprio, o caratteristico della cagione
che lo produce: la fermentazione e la putrefazione delle materie vegetabili o
animali tramandano in lontano fetidi sentori. L'aria in som ma è il mestruo,
nel quale si sciolgono, o si confondono coteste particelle volatili, molte
delle quali vi restano sospese, per unirsi poi ad altri corpi coquali abbiano
una maggiore affinità. Certamente son esse, che per mezzo dell'odorato fan
sentire la loro presenza nell'atmosfera che ci circon da, e che è in contatto
co nostri sensi. Congiungendo questo fatto colla interna struttura dell'organo,
per mezzo del qua le si esercita la virtù del sentire, appa risce manifesto,
che il nervo dell'olfatto per mezzo delle sue diramazioni sparse in tutti i
sensi per la membrana pituitosa, è l'instrumento meccanico della sensazione,
come che ignoriamo in qual modo una tal comunicazione si operi. Infatti, se si
mettono i corpi odoriferi fuori del contatto dell'aria, o s'impedisca per altro
mezzo l'esalazione delle parti odorifere; o se la membrana pituitosa sia
divenuta inerte ed insensibile, o il nervo dell'olfatto inabile alle sue
funzioni, cessa interamente la virtù sensitiva dell'odorato. Ora dall'uno e
dall'altro fatto, uniti insieme, risultano due conseguenze, cioè, che
l'attitudine al sentire sta nell'organo, e la causa pro duttiva dell'odore
fuori di esso. Per quanto queste due verità sieno evidenti, e sem brar possano
di quelle, che appartengono più alle intuitive che alle dimostrabili; ciò non
ostante giova averne fatto l'analisi, per aprirci la via a formare un chiaro
con cetto della senzazione dell'odore. OdoRE (spee.), sensazione prodotta dal
le emanazioni del corpi odoriferi. La qualità odorifera de'corpi è comune mente
annoverata tra quelle, che son dette qualità secondarie della materia. Come
debbano intendersi cotesti nomi, l'abbiamo accennato nell'articolo materia, e
il dire mo ancora sotto la voce qualità. V. que ste voci. . - Nell'articolo
odorato abbiamo stabilito due fatti innegabili, il primo che l'orga no, di cui
fa parte il nervo dell'olfatto, ha dalla natura l'attitudine a ricevere e a
trasmettere le impressioni de'corpi odo riferi; il secondo che la causa
produttrice dell'odore, è fuori dell'organo stesso. Ora a compiere la
sensazione, è necessario l'Essere sentente, il quale è tanto fuori dell'organo,
quanto l'è fuori del corpo odorifero, e per conseguente, se la causa
produttrice dell'odore non è nell'organo, molto meno potrebbe stare nell'Essere
sen tente. Ciò non ostante, non è mancato chi dicesse essere la sensazione
dell'odore una modificazione del nostro sentire, o sia provenire da noi stessi,
e non nascere da corpi odoriferi. Tale fu l'opinione di Cartesio, il quale,
dalla estensione in fuori, (in cui ripose l'essenza della ma teria), affermò
essere in noi stessi le sensazioni tutte, della vista, del tatto, dell'udito,
del caldo, del freddo, del l'odorato, e non negli obbietti esterni, che a noi
le tramandano. Di quali con seguenze fosse ſeconda una tale opinione, il
dimostrò Malebranche, il quale non so lamente generalizzò il principio
cartesiano, e scstenne, che noi comunichiamo agli obbietti esterni le
impressioni ricevute dal le sensazioni, e facciamo qualità de corpi le diverse
maniere del nostro sentire; ma se ne valse per negare l'esistenza degli
obbietti sentiti. Nè di meno faceva uopo agli scettici per rinegare la realità
di tutte le cose, e per convalidare una tal dottrina coll'autorità degli stessi
filosofi spiritualisti. Coteste quistioni sembrano frivole agli uo mini dotati
di sano giudizio, come che stra nieri alla filosofia, e tali sono per verità
tutte quelle, nelle quali le speculazioni me. tafisiche fan violenza al senso
comune. Il caldo, il freddo, il sapore, l'odore non sono ne corpi nel senso,
che questi non pro vano la medesima sensazione che provia mo noi; ma per
l'opposito sono ne'corpi, quando per tal modo di dire intendiamo, che in essi è
una naturale disposizione o attitudine a suscitare in noi quelle tali sen sazioni,
e quando si convenga del prin cipio, che da noi si percepiscono gli ob bietti
quali sono, e non trasformati dalla mente in una immagine o idea, che non
corrisponde alle qualità della cosa perce pita. In somma per accogliere
l'opinione di Cartesio e di Malebranche, e di tutti quelli che negano a sensi
la realità degli obbietti percepiti; convien prima rinun ziare alla certezza
fisica, che ci dà la na tura, e poi formarci un sistema d'ipotesi che
volontariamente c'illuda. Ogni per cezione porta seco una credenza istintiva
della esistenza e realità delle cose perce pite, che è il fondamento di tutta
l'umana cognizione, o sia è una legge data dalla natura all'intelletto. ll
supporla diversa da quella che è, e il credere che quando la mente percepisce
gli obbietti esterni, crei fantasime e chimere opposte alle qua lità o
all'essenza degli obbietti medesimi; è lo stesso che uscire dalla condizione e
dai limiti dell'umano ragionamento. V. Cer tezza, Pereezione. Adunque per
formare un giusto con cetto di questa sensazione lasciamo le spe culazioni del
filosofi, e prendiamone gli elementi dal significato che si suole co munemente
dare al vocabolo odore. Al lorchè noi fiutiamo una rosa, ben lontani dal
credere, che la grata impressione che ne riceve l'odorato, sia in noi, ci per
suadiamo esser questa una qualità del fio re. Egli è vero che noi chiamiamo odo
re, tanto la qualità odorifera del fiore, quanto la sensazione che ne proviamo,
ma dalla promiscuità del vocabolo non nasce veruna ambiguità, dapoichè distin
guiamo nel pensiero quel che confondia mo nel nome, e diamo un diverso signi
ficato all'odor della rosa, e alla sensa zione dell'odore. Tanto non
sospettiamo che l'odore possa essere in noi e non nel fiore, quanto la
sperienza ci dice, che appressando il naso alla rosa proviamo quella data
sensazione, la quale svanisce appena se ne allontani. La conseguenza che tutti
traggono da questo fatto è, che v' ha una naturale relazione tra 'l fiore, da
cui emana l'odore, e il senso che lo raccoglie. Cotesta relazione è quella, che
tutti chiamano causa o occasione dell'odo re, la quale denominazione include
come suo effetto la sensazione che in noi pro duce. L'una e l'altra non
pertanto pre suppongono un organo disposto a rice vere l'impressione, ed un
Essere sen tente che la percepisca. In somma nella sensazione dell'odore son
tre le idee che ciascuno distingue : il fiore, o il corpo odorifero, l'organo o
sia l'odorato, e l'Es sere sentente, o sia l'animo che percepi sce l'odore. V.
Sensazione. Quel che abbiam detto dell'odore, è r – 244 – comune al sapore, al
suono, al caldo e al freddo, che vengon dinotati col nome di qualità secondarie
della materia, non perchè sieno fuori di essa, ma perchè non sono essenziali,
permanenti, e comuni a tutti i corpi, come l'estensione, la soli dità, e la
mobilità. V. queste voci. OrFENSIONE e OFFESA (prat.), danno che si arreca,
violando o diminuendo i diritti altrui. È diversa dall'ingiuria, perchè questa
è sempre fatta volontariamente e ingiu stamente; laddove l'offesa può essere in
volontaria, e può anche nascere da giu sta cagione, come nella guerra. In somma
è vocabolo generico che com prende ogni male, che altrui si faccia. V.
Ingiuria. OFICIo, Orizio, e UFIzIo (prat.), quel che a ciascuno spetta di fare,
per debito, o per convenienza. - È un vocabolo, cui i Latini diedero un
significato generico che abbraccia tan to il dovere di giustizia, quanto quel
che è conveniente alla qualità delle persone, al tempo, al luogo, e a qualunque
al tra opportunità, comechè relativa e non assoluta. La definizione che ne dà
Cice rone comprende tutte le divisate idee : quod ratione actum est, id
officium ap pellatur. Seneca spiega più chiaramente in che l'obligazione
imposta dalla legge differisca da'doveri della vita, i quali vanno tutti com
presi nella denominazione di uſizi: Quanto latius officiorum patet, quam furie
re gula l Quam multa pietas, humanitas, liberalitas, justitia, fides exigunt,
quae omnia extra publicas tabulas suntl (de ira lib. II. Cap. 27 in fine). -
Nella lingua italiana ha lo stesso am pio significato, ma è specialmente usato
per esprimere l'incarico o l'incombenza, propria della condizione o dello stato
di ciascuno, nel quale senso equivale al do vere. V. questa voce. OGGETTo. V.
Obbietto, OLTRAGGIO (prat.), offesa fatta volon tariamente ad alcuno, con
danno, e con disprezzo. È una delle spezie delle ingiurie.V. que sta voce.
OLTRAMONDANo (teol.), val celeste e fuori del nostro mondo. In questo senso fu
adoperato dal Var chi, il quale contrappone le nebbie mor tali del mondo agli splendori
del cielo. (Lez. 158). OMEoMERIA e OMIoMERIA (spec. ), so miglianza delle parti
elementari, che, se condo Anassagora, composero la materia. OMIssIoNE e
OMMIssioNE (prat.), trala sciamento di cosa che far si doveva. È una delle
spezie della colpa e della negligenza. V. queste voci. OMONIMo (disc. ), nome
che importa il medesimo d'un altro nome. E però è sempre un vocabolo di rela
zione ad un altro: è l'equivoco degl'Italia ni, preso nel senso gramaticale. V.
Equi voco, Mome. - a ONESTÀ (prat.), virtù, che suggerisce le azioni conformi
al retto ed al giusto. V. questa voce. Scambiasi coll'onesto. – 245 – ONESTo
(prat.), l'operare conforme ai dettami della giustizia e della naturale cquità.
V. queste voci. È vocabolo preso da Latini, equivalente al wakoy de Greci.
Cicerone lo definì, quod detracta omni utililale, sine ullis prae miis
fructibusve possit jure laudari (II. de finib. c. 4.). I dettami della
giustizia e dell'equità na scono da un senso proprio e abituale del la ragione,
per lo quale noi giudichiamo rettamente di quel che è conforme all'uso delle
nostre facoltà, ed a fini della natura, o sia al vero. Cotesta qualità è quella
che taluni de moderni filosofi han chiamato senso morale, denominazione la
quale, sebbene sia stata presa dall'analogia dei sensi esterni, è non pertanto
atta ad espri mere la rettitudine di cui l'umano giudi zio è dotato nel
discernere la convenienza delle azioni. V. Morale, Senso. Il senso morale,
considerato come il mezzo, per lo quale acquistiamo le nozioni dell'onesto e
del giusto vien detto pure senso dell'onesto e del giusto. Ambo que sti
vocaboli non esprimono se non la me desima mozione, dapoichè l'uno differisce
dall'altro per la sola applicazione, che di essi facciamo a due diverse spezie
di azio mi : conveniente alla ragione: giusto quel che una obligazione morale
c'impone di fare: il giusto è compreso nell'onesto, e la virtù è il complesso
del giusto e dell'onesto in sieme. V. Giusto, Obligazione, Virtù. Dalla nozione
dell'onesto e del giusto noi ricaviamo tutte le prime verità, le quali formano
il codice della natura, e son per noi le proposizioni universali, o maggiori,
sopra le quali fondiamo quel ragionamento, che pur dicesi morale, e mediante il
quale discerniamo la conve chiamiamo onesto tutto quel che è nienza o la
disconvenienza delle azioni. Tali sono: l'amare Dio come l'autor del nostro
Essere º il confidare nella sua bontà: l'operare convenientemente a suoi fini,
il servirci degli appetiti e degli aſi fetti per la conservazione e non per la
distruzione della vita e lo scegliere il bene che la ragione ci addita: il fug
gire il male, il non fare agli altri quel che non vorremmo che fosse fatto a
noi. Dalla luce di tali verità, che sono il frutto della comune ragione, e non
della scien za, nasce quella naturale sapienza, che Dio ha scolpito nel cuore
dell'uomo, di cui gl'inizi sono impressi persino ne'no stri istinti, e che può
essere perfetta nella pratica, anche senza il soccorso di alcuna scienza
speculativa. V. Sapienza, Scien za, Verità. ONIRocRITICA (crit.) tare i sogni.
- - Era parte dell'antica scienza divinatoria, la quale cadde insieme colla
mitologia, e col le superstizioni del paganesimo. V. Sogno. , arte d'interpre
ONNIPOTENZA (teol.), la potenza di Dio, concepita da noi, come la causa
efficiente di tutte le cose. V. Causa, Dio. La nozione dell'onnipotenza
contiene un infinito, cui la mente ascende per mezzo del finito. E siccome
leggiamo in noi stessi la verità, che tutto quel che ha avuto un cominciamento
de'essere stato prodotto da una causa, la quale riseder debbe in una potenza
attiva, dotata d'intelli genza e di volontà; così formiamo del la virtù
operativa di tale causa un con cetto tanto illimitato, quanto è quello del la
intelligenza e della volontà, che la determinano. Il concetto dunque della di
vina onnipotenza deriva da quella stessa - 246 – sorgente, dalla quale
attigniamo la no zione dell'infinito, vale a dire dalla po tenza umana,
spogliata delle imperfezioni e de limiti, da quali è circoscritta. V. In
finito, Potenza. ONoMAToPEA (dise.), formazione di nome, che imita il suono
della cosa stessa deno minata. - Tal è l'origine del vocabolo belare, pro prio
della capra e della pecora, del mug gire del buoi, dell'anitrir de cavalli, e
di altri simili. Quelli, i quali han creduto che la pri ma lingua parlata
fosse, e potesse essere, una invenzione dell'uomo, han detto al tresì, che
l'onomatopea avesse sommini strato i primi vocaboli agl'inventori della parola.
Ma senza convenire della origine umana del linguaggio, noi crediamo che i
vocaboli di tal fatta possano conside rarsi come primitivi nel senso, che molti
sli essi dalla lingua madre di tutti i par lari son passati nelle altre di
secondaria formazione; e nel senso altresì che quando è stato necessario creare
nuove voci, l'imi tazione de suoni naturali, è stata la sor gente più comune
dalla quale sono state attinte. Imperocchè non è la creazione dei nomi
particolari, che noi risguardiamo come difficile all'uomo, ma è la struttura
intera del linguaggio, che noi giudichiamo impossibile, perchè avrebbe dovuto
essere antipensata, o sia formata prima, e senza l'aiuto della parola. V.
Linguaggio. Certamente l'onomatopea ha regolato la scelta de nomi radicali
delle antiche lin gue. La somiglianza de suoni radicali nelle lingue che
chiamiamo madri, con quelli delle secondarie o derivate, è il maggiore
argomento della discendenza di tutte da un comune tronco. Lasciamo cotesto ar
gomento a gramatici etimologisti, e a'cul tori della moderna linguistica.
Vuolsi sol tanto osservare che l'onomatopea è il mez zo più facile per formare
i suoni della voce, e per ritenere i nomi delle cose ; e che nasce non
solamente dallo istinto dell'imitazione dato all'uomo, ma ancora da una
tendenza dello stesso nostro orga nismo. Infatti le interiezioni, le quali non
sono nomi, ma semplici accenti, prodotti dal sentimento del piacere, del
dolore, dell'ammirazione, della sorpresa, possono dirsi non solamente simili,
ma identiche in tutte le lingue, per modo che a guisa del gesto son comprese da
tutti quelli che parlano diversi linguaggi; d'onde possia mo desumere una
relazione di confor mità o di analogia che la natura ha sta bilito tra
l'impressione del sentimento e l'espressione della voce. Quel che diciamo
dell'interno sentimento vale ancora per le impressioni desensi ester ni, e
spezialmente dell'udito. La facilità, colla q ale scorrono i suoni delle
lettere poste l'una dopo dell'altra, produce nell'or gano dell'udito
un'impressione che desta in noi lo scorrere dell'acqua; e però dalla
combinazione della lettera labbiale f., e della liquida l, i Greci formarono i
vo caboli che indicavano fluidità, come Moº flamma, Asl vena, Asys3xy fluvius
in fernorum; e i Latini, flamma, fluo, flu ctus ec. Similmente, la combinazione
del le consonanti, nella pronunzia delle quali l'organo della voce incontra
resistenza, sono state in molte lingue adoperate per esprimere la stabilità, la
solidità, la man canza, o la privazione del moto; ond'è che nella lingua latina
stagnum, stamen, stare, sterilis, stirps, stupere, stupidus, provengono dallo
stesso suono iniziale, che la lingua italiana, ed altre tra le mo- . – 247 –
derne volgari, hanno ne medesimi nomi conservato. In conferma di che giova an
cora addurre una ingegnosa osservazione del presidente de Brosses nel trattato
del la meccanica formazione delle lingue. « L'uomo, egli dice, modella
facilmente i nomi, da lui dati a ciascuno degli or gani della parola, sul
carattere o sia sul la inflessione propria degli stessi organi, come gola,
lingua, dente, bocca. Ben si vede, che la lettera caratteristica radi cale di
ciascuno degl'indicati vocaboli, è quella propria dell'organo che vien coi
medesimi espresso. La coincidenza di tutte le lingue per rispetto a tali nomi
caratteri stici, non può non richiamare l'attenzione del filosofo, e dimostra che
la ragione di tale uniformità sta in una causa perma mento. Infatti, sebbene
gli uomini aves sero potuto dare ancora diversi nomi a cen nati organi, non
pertanto la natura è stata il più delle volte la guida, che ha mac chinalmente
determinato quelli e non al tri ; e però conviene risguardargli come vocaboli
necessari appartenenti alla lingua primitiva, e come nati dall'umana confor
mazione. Non solamente l'inflessione gut turale go, gu, gha è stata la radice
del nome dell'organo gola, come nella lingua ebraica gharon, nel greco glottis,
nella tino guttur, nel francese gorge, nello spagnuolo garguero, nell'inglese
gullet, e nel tedesco gurgel; ma ha servito an cora a formare i derivati di
suono simile a quel che questa inflessione profondamente gutturale produce
nella gola, come gar 9arizzare, gorgo, gorgogliare, gorgo glio, gozzo,
gozzoviglia, golfo, e simi li. È facile il trovare molti altri esempi di
derivati dal nome dello stesso organo, e di altri vocaboli derivati dal segno
radi cale degli altri organi della parola, come nelle voci dente, mangiare,
mascella, mordere, lingua, loquela ec. Sopra l'in dicazione da noi datane,
ognun potrà ac crescere i diversi mucchietti di simili vo caboli, e riporre in
ciascuno di essi molti di quelli che son comuni a tutte le lingue. (cap. VI. S.
XVI e XVII. ). L'onomatopea in somma non solamente contiene in se la ragion
delle voci e dei nomi primitivi, ma somministra uno dei più validi argomenti
contra l'opinion di coloro i quali affermarono essere stata del tutto arbitraria
la ragion de nomi impo sti alle cose. Cotesta opinione, che ta luni del moderni
hanno riprodotto , era stata già dall'antica filosofia discussa e riprovata.
Aulo Gellio ci ha conservato l'autorità d'un celebre gramatico, con temporaneo
di Cicerone, la quale merita di essere rammemorata: Momina verba que non posita
fortuito, sed quadam vi et ratione naturae facta esse P. Migi dius in
grammaticis commentariis do cel, rem sane in philosophiae disser tationibus
celebren. Quaeri enim soli tum apud philosophos tuaet ra ovopaxta sint i 3e3si,
natura nomine sint an im positione. In eam rem multa argumenta dicit, cur
videri possint verba naturalia magis quam arbitraria.... Mam sicuti eum
adnuimus, et abnuimus, nolus qui dem ille vel capitis vel oculorum a na tura
rei quam significat, non abborret; ita in vocibus quasi gestus quidam oris et
spiritus naturalis est. Eadem ratio est in graecis quoque voci bus , quam esse
in nostris animadvertimus (lib. X. cap. IV.). V. Mome. OnoRANZA (prat.),
esterna dimostra zione di onore o di esistimazione, che altrui si renda. – 248
– ONoRE (prat.), il sentimento della pro pria dignità. V. Dignità. In altri
termini, è la giusta esistima zione di se medesimo, per rispetto
all'adempimento delle obligazioni e de'doveri. È quel che i latini dicevano
decus. L'onore si scambia col senso dell'one sto, quando la convenienza delle
azioni si riferisce a doveri e alle obligazioni mo rali ; ma riceve un
significato più am plo, allorchè la convenienza delle azioni si misura col
doveri e colle obligazioni imposte dalle leggi della società, o dal le
condizioni del proprio stato. E però l'onore può contenere più dell'onesto, ma
nulla di quel che gli è contrario, V. Onesto. Prendesi ancora per la
dimostrazione dell'altrui merito, e dell'esistimazione che taluno ne faccia,
nel quale senso vale esterno segno di riverenza. ONTA (crit.), ingiuria
commessa con animo di dispregio, comechè non sia ac compagnata da danno, nel
che differisce dall'oltraggio. V. questa voce, ONToLoGIA (crit.), la scienza
delle astratte qualità degli Esseri, e della natura loro. V. Astrazione,
Essere, Qualità. Nacque dal seno della metafisica, e quasi per eccellenza ne
usurpò il nome. Suoi progenitori furono i primi scolastici, i quali inclusero
ne trattati di cotesta scien za tutte le nozioni generali del principi e delle
cause naturali, quali la mente loro concepivale, e le applicarono spezialmente
alla natura di tutte le sostanze, incomin ciando dalla Divinità, e passando
succes sivamente agli spiriti celesti, alle anime umane, alle anime del bruti,
e alle altre entelechie aristoteliche, Così l'ontologia abbracciò le nozioni
della sostanza, della essenza, della esi stenza, della possibilità, dello
spazio, del tempo, dell'unità, del numero, della iden tità, dell'infinito,
della eternità ec. V. que ste voci. Così ancora a se trasse, come sue ap
pendici, la teologia naturale, e la scienza degli spiriti ; e dapoichè nelle
sue astra zioni raccolse e assorbì le nozioni comuni a tutte le parti delle
scienze metafisiche, le fu ancora privativamente attribuita la denominazione di
filosofia prima. V. Me tafisica. - L'ontologia, e con essa la metafisica
cominciò a perder di credito, quando in sul primo rinascimento delle lettere, i
liberi ingegni insorsero contra il dogmatismo ari stotelico, e contra il gergo
del linguag gio scolastico. Cartesio fu il primo a con cepir l'idea d'una
diversa filosofia prima, la quale cominciasse dagli elementi della umana
cognizione, ed indi passasse alla investigazione del principi della materia, e
alla contemplazione del mondo visibile. Da questa nuova genesi data alla filoso
ſia, apparisce manifesto che i Cartesiani esser dovevano, siccome furono i
perse cutori della ontologia scolastica. Ciò non ostante essa seguitò a
confondersi colla metafisica durante il regno della filosofia peripatetica ; e
per un certo sincretismo filosofico, di cui non potrebbesi assegnare una
plausibile ragione, continuò ad es sere coltivata anche da filosofi nutriti nei
principi della scuola cartesiana. Wolfio credette che l'evidenza d'ogni verità
ma tematica nascesse dalle nozioni ontologi che, per mezzo delle quali soltanto
si po tesse dimostrare la convenienza degli at tributi co subbietti loro; e che
lo stesso potesse dirsi non solamente di tutte le ve - 249 - rità, circa le quali
versano le altre scien ze, ma anche delle stesse facoltà e ope razioni
dell'anima. Laonde diede una nuo va forma scientifica all'ontologia, adattolle
il metodo matematico, e rivendicò per lei la considerazione e il nome di
filosofia pri ma, appunto perchè le attribuiva i prin cipi tutti della umana
cognizione. Il nuo vo edifizio di Wolfio per altro fu fondato sopra le
definizioni e gli assiomi ricavati dalle astrazioni degli scolastici, o sia so
pra un pretto razionalismo, che era il vi zio radicale dell'ontologia. Migliore
fu il concetto di Buddeo, che rifiutolle la di gnità e 'l nome di scienza, e
propose di considerarla come un dizionario di defi nizioni e di vocaboli
necessari alla intel lezione delle filosofiche astrazioni. Il me todo
analitico, introdotto nello studio del la filosofia intellettuale, ha
finalmente ri tolto all'ontologia, quel che questa usur pato aveva alle diverse
parti delle scienze metafisiche. La psicologia, la teologia naturale e la
logica teoretica avendo ri fiutato insieme colle ipotesi ogni proposi zione non
dimostrata o non dimostrabile, hanno stabilito sopra più sicure fonda menta i
loro teoremi, ed han quasi par tito tra loro il campo dell'antica ontolo gia.
Di essa non rimangono se non le astratte denominazioni del subbietti della
matura, e delle qualità loro, insieme colle definizioni che determinano le
essenze dei primi, e le spezie delle seconde. Le cen nate denominazioni
compongono il lin guaggio scientifico, siccome le definizioni forman quasi
altrettanti postulati, neces sari a stabilire principi di ragionamento comuni
ed uniformi. Le une e le altre possono essere considerate come le preno zioni
delle scienze metafisiche. V. Meta fisica. ONTosoFIA (grec. sup.),
denominazione data all'ontologia da taluni di quelli, che l'han considerata
come la metafisica ge nerale. OPERARE (prat.), verbo che esprime l'azione per
rispetto all'effetto, che que sta produce. V. Azione. È diverso dall'agire, che
si adopera nel senso intransitivo. V. Agire. OPERAZIONE (spee. e prat.),
funzione o atto della potenza attiva. V. Allo, Potenza. Applicata all'esercizio
che l'anima fa delle sue diverse facoltà, esprime l'atto del guardare,
dell'ascoltare, dell'osservare, del riflettere, del ragionare, del volere, e di
qualunque altro modo del pensare. Coteste funzioni diconsi operazioni dell'ani
ma. V. Anima, Facoltà. Ogni operazione presuppone un agente e un obbietto. In
quelle dell'anima, l'agente sta nella volontà, che rappresenta l'autor
dell'azione; siccome l'obbietto sta nella cosa, a cui s'indirizza il pensiero.
V. Agente, Obbietto. OPINIONE (spee. disc. e crit.), assenti mento dell'animo
ad una proposizione ap parentemente vera, o possibilmente tale. La varietà
delle definizioni di questo vo cabolo è nata da diversi significati che gli dà
il comune uso di parlare. Taluni l'in tendono per l'assentimento che suole pre
starsi alle proposizioni verisimili, ma non certe, nè dimostrate; altri per un
antici pato ed immaturo giudizio ; altri per la maniera che ciascuno ha di
sentire e di congetturare; altri per la nemica della ve rità e della certezza;
altri per ogni sorta di credenza ; altri in un senso più limi tato per quella
credenza, che prestiamo 52 – 250 – all'autorità desensi altrui. Cotesta
diversità di significati è passata dal comune par lare nello scientifico
linguaggio ; il per chè i filosofi stessi han considerato l'opi nione, ora come
la fonte d'una parte delle umane conoscenze, ora come il con trapposto della
verità e della scienza, ora come la sorgente dell'errore e delle false
credenze, e ora come la più possente re golatrice degli umani giudizi. Platone
risguardolla come il mezzo tra la scienza e l'ignoranza, e disse essere più
chiara e più positiva dell'ignoranza, ma più oscura e men soddisfacente della
scien za. Zenone, al dir di Cicerone, chiamolla ambecilla et cum falso
incognitogue com munis. Cicerone stesso ne fece un contrap posto
degl'infallibili giudizi della natura in quel suo aureo detto: opinionum com
menta delet dies; naturae judicia con firmat. Epitteto la risguardò, come l'op posto
della realità, allorchè disse, che l'in felicità degli uomini proviene
dall'opinione che si forman delle cose, e non dalle cose stesse. I nostri
scolastici la definirono, assensus intellectus cum formidine de opposito, vale
a dire un giudizio pro nunziato colla trepidazione dell'errore. E i moderni
filosofi han disputato, se l'opi nione sia nel medesimo subbietto compa tibile
colla scienza; intorno a che taluni han detto, che potendo l'intelletto per
venire allo scoprimento del vero per la dimostrazione, o in difetto di questa
per argomenti probabili e verisimili, non es sere incompatibile l'opinione
colla scienza; ed altri hanno affermato essere impossibile il conciliarle
insieme, siccome impossibile è l'accoppiare nel medesimo subbietto, il dubbio e
la certezza. A quelli che han così disputato noi do manderemmo di determinare
prima il si gnificato proprio del vocabolo opinione, imperocchè nel linguaggio
scientifico non possono ammettersi sensi traslati, se non quando loro si dia un
certo e chiaro si gnificato, rimosse le similitudini e le fi gure del
linguaggio retorico e poetico. Lasciamo al parlare ameno o figurato il
rappresentare l'opinione come il parto del vario e mutabile giudizio degli
uomini , come l'arbitro del gusto e della moda, come la nemica della ragione, o
come la regina del mondo; e fermiamoci a con siderarla qual'è nel suo nascere,
vale a dire come si forma nell'animo, e in che il vero differisca dall'opinione
del vero. E prima di entrare in quest'analisi, con veniamo delle sorgenti dalle
quali pos siamo attignere la cognizione del vero. I seguaci della sana
filosofia ne ammet ton due, i sensi e la ragione. Costoro han chiamato opinione
le conoscenze ac quistate per una di quelle due vie, alla quale non concedevano
la certezza. I sen sisti han chiamato opinioni le conoscenze a priori ; e
gl'idealisti quelle acquistate per mezzo del sensi. La verità sta nel mezzo del
due estremi : la certezza si at tigne, e da sensi, e dalla ragione: i sensi
somministrano l'intuizione, come la somministra la ragione: ma questa, facendo
uso del ragionamento sommini stra ancora un'altra spezie di certezza , che è la
dimostrativa. Avendo noi consi derato la certezza a rispetto delle sorgen ti,
dalle quali l'attigniamo ; ed avendo seguito la comune partizione, abbiam di
stinto la certezza metafisica, dalla fisica e dalla morale: la metafisica vien
dalla dimostrazione, e la fisica dalla intuizione: questa precede quella, e le
serve di fon damento. Resta la morale, che è fondata sopra l'autorità, o sia
sopra la testimo – 251 - nianza de'sensi e del giudizio altrui: l'as sentimento
che le prestiamo produce in noi o la convizione della verità , o una semplice
credenza : nell'uno e nell'altro caso noi non possiamo dimostrare agli al tri
che il contrario non fosse possibile, nè negare a noi stessi, che quel che cre
diamo vero potrebb'essere falso: cotesto assentimento, diverso da quello che
nasce dalla intuizione o dalla dimostrazione è quel che chiamiamo opinione. V.
Certez za, Dimostrazione, Intuizione. Ma v'ha un'altra spezie di giudizi e di
credenze, alle quali conviene del pari il nome di opinioni, e tali sono le
propo sizioni che noi riceviamo come vere, per la conformità che esse hanno , o
colla propria esperienza, o con altre proposi zioni delle quali conosciamo la
verità. Tali sono le proposizioni, i ragionamenti, e le induzioni che per
analogia ricaviamo da proposizioni vere, e sopra le quali sta biliamo ancora la
norma delle nostre azio ni. Siffatte proposizioni formano la parte maggiore
delle nostre conoscenze, e ve m'ha di quelle alle quali prestiamo as sentimento
con tal convizione di verità, che confondiamo l'opinione colla certezza. In
somma tutto il probabile entra nella sfera della certezza morale, nella quale
sfera i nostri concetti non meritano altro nome, che quello di opinioni. Locke,
che non bene definì la certezza, fu più esatto nel definire la probabilità e
l'opi nione. «La maniera, egli dice, colla qua le l'animo riceve tali
proposizioni, è quel che dicesi credenza, assentimento, o opi nione; o sia
riceve per vera una propo sizione, sopra pruove le quali presente mente sembran
vere, senza avere per al tro una certa conoscenza della loro veri tà. La
differenza tra la probabilità e la certezza, tra la credenza e la cognizione
consiste in questo, che in tutte le parti del la cognizione v'ha intuizione,
per modo che ogn'idea immediata, e ogni parte della deduzione ha un legame
manifesto e cer to; laddove, per rispetto a quel che noi chiamiamo credenza,
quel che ci fa ere dere non è evidentemente attaccato per ambo gli estremi
suoi, e per conseguente non dimostra evidentemente la convenienza o la
disconvenienza delle idee in quistio ne. Ora essendo la probabilità destinata a
supplire al difetto di nostra cognizione, e a servirci di guida me punti ne'quali
la cognizione ci vien meno, è manifesto che essa versa sempre circa
proposizioni che qualche motivo ci conduce a creder vere, quantunque non
conosciamo con certezza quel che esse sono. I fondamenti della pro babilità
sono: 1.º la conformità d'una cosa con quel che conosciamo, o colla nostra
propria sperienza: 2.º la testimonianza de gli altri fondata sopra la
conoscenza o l'esperienza loro. I requisiti poi della testi monianza sono: 1.º
il numero: 2.º l'in tegrità: 3.º la capacità: 4.º lo scopo del l'autore, quando
la testimonianza è rica vata da libri: 5.º l'accordo delle diverse parti della
narrazione e delle sue circo stanze: 6.º il peso delle contrarie testimo nianze
» (lib. lV. cap. XV. S. 3. 4). Tale e non altro è nel linguaggio scien tifico
il significato dell'opinione, il quale è talmente collegato colla probabilità,
che definito l'un de due vocaboli, resta an cora determinato il senso
dell'altro. V. Au torità, Proba'ilità , Testimonianza. OPPosizioNE (disc.),
discrepanza tra due proposizioni, che hanno lo stesso subbietto e il medesimo
predicato. Dice meno del vos cabolo contrarietà, perchè questa risguarda so –
252 – le idee, le quali tendono a distruggersi, o ad infermarsi mutuamente. V.
Contra rietà, Proposizione. È uno de termini, sopra de quali la logica
aristotelica stabilì numerose distin zioni e categorie. Imperocchè
distinguevasi da prima la complessa dalla incomplessa. Per incomplessa, detta
ancora semplice, intendevano gli aristotelici la disconve nienza di due cose,
che non possono stare insieme nel medesimo suggetto, come il calore ed il
freddo, la vista e la cecità. Cotesta sorta di opposizione suddividevasi in
altre quattro spezie, cioè la relativa, la contraria, la privativa, e la
contrad dittoria. La complessa poi era da Aristo tele definita, l'affermare e
il negare lo stesso predicato del medesimo suggetto, come Socrate è dotto, e
Socrate non è dotto, e questa spezie di opposizione sud dividevasi in
contraria, subcontraria, e contraddittoria. Gli scolastici credettero poco
esatta la definizione della opposizione complessa, e a quella di Aristotele
sostituirono l'altra: affezione di enunciazioni, colle quali due assolute
proposizioni, supposti i medesimi estremi nello stesso ordine e numero, ed
intese senza alcuna ambiguità intorno alla medesima cosa, si oppongono l'una
all'al tra a rispetto, o della quantità, o della qualità, o di ambedue. In
conseguenza di tal definizione aggiunsero alla suddi visione aristotelica una
quarta spezie, che è la subalterna. Chi desideri spiegazioni ed esempi di tutte
le cennate distinzioni, potrà consul fare qualcuno del vecchi dizionari filoso
fici. Qual prò per l'arte del parlare e del ragionare da questo apparato di
termini logici, sì gravosi alla memoria, e di cia scun de quali il concetto è
più astruso di quello che si prefigge di spiegare? Il con cetto semplice di due
proposizioni o argo menti, del quali uno nega, limita o mo difica l'altro, così
nell'universale come nel particolare, trovasi involto in una selva di nomi,
dequali ciascuno richiede una par ticolare definizione. Ma qual maraviglia, se
lo stesso fecero dell'idea dell'affermare e del negare, quasi che ognuno, prima
di formare un giudizio, dovesse imparare le regole colle quali può dare o
rifiutare il suo assentimento. V. Affermazione , Megazione. Tal è il labirinto
de termini e delle distinzioni, che cingeva la naturale arte del pensare e del
ragionare. V. Logica. OPPosiTo e OPPosro (disc.), quel che differisce
essenzialmente da un'altra cosa. I logici col nome di opposite intende van
quelle cose che differiscono tra loro, ma in modo che non discrepano nella
stessa guisa da una terza. Per contrario chiamavan disparate quelle altre che
dif ferivano da una terza come tra loro. E distinguevano gli oppositi semplici
dai complessi, suddividendo i primi in quelle medesime quattro spezie, delle
quali ab biamo testè parlato nell'articolo oppost zione. V. questa voce.
OPPoRTUNITÀ e OppoRTUNo (dise. e prat.), il tempo, e il luogo conveniente, a
dire o a fare checchessia. La convenienza del tempo e del luogo abbraccia
ancora la qualità delle persone che parlano, o con cui si parla; impe rocchè il
tempo e il luogo non hanno una convenienza materiale propria che abbia a
rispettarsi, ma la prendono dalle per sone, secondo che son esse che operano, o
narrano, o ascoltano l'altrui narrazione. – 255 – Nel discorrere come
nell'operare, l'op portunità è quella che decide del succes so, che l'autor
dell'uno o dell'altro si pre figge. Nelle orazioni, nepoemi, ne'dram mi il dir
le cose a tempo e a luogo, le rende non solamente gradevoli ed utili, ma
verisimili; e siccome la verisimiglianza consiste principalmente in questo, che
una cosa per natura possibile sia descritta come avvenuta, così può dirsi, che
la verisi miglianza sta nella opportunità. Ma l'opportunità è la madre ancora
dell' ordine, dapoichè il principal requi sito di quel che chiamasi ordine, è
che le cose sien disposte nel tempo e nel luogo che loro conviene. Ora in
questo aspetto la risguardarono gli antichi. I Greci la chiamarono euraſia, i
latini, modestia, e Cicerone distinse il doppio significato che aver può il
vocabolo greco: hae scientia continetur ea quam graeci euro tav no minant: non
haec quam interpretamur modestiam, quo in verbo modus inest. ASed illa est
eurogix, in qua intelligitur ordinis conservatio. Ilaque, ut eandem nos
modestiam appellemus, sic definitur a Stoicis, ut modestia sit scientia earum
rerum, quae agentur aut dicentur, suo loco collocandarum. Itaque videtur ea dem
vis ordinis et collocationis fore. Mam et ordinem sie definiunt, com positionem
rerum aptis et accomodatis locis. Loeum autem actionis, opportunita tem
temporis esse dicunt. Tempus autem actionis opportunum, graece evnafta, latine
appellatur occasio. Sic fit, ut mo destia haec, quam ila interpretamur, tut
diari, scientia sit opportunitatis ido neorum ad agendum temporum (de off. lib.
I. c. 4o). Bene osservò il Casaubono che alla po vertà della lingua latina è
dovuto il dop. dio significato dato alla voce modestia, dapoichè due nozioni
diverse, quali son la temperanza o moderazione e l'ordine di luogo e di tempo,
vengono confuse col medesimo nome. Del resto tranne l'im proprietà della
denominazione, la filosofia stoica diede tanta ampiezza al significato della
opportunità, che la scambiò colla prudenza, giusta la testimonianza dello
stesso Cicerone. V. Ordine, Prudenza. ORA (spee e crit.), parte aliquota del
giorno solare, di cui ci serviamo per mi sura del tempo. V. Giorno , Tempo.
Presso la generalità delle civili nazio ni, l'ora è la ventiquattresima parte
del giorno solare, o sia della diurna rota zione della terra per rispetto al
sole; e secondo l'apparenza, è la ventiquattresima parte del tempo interposto
tra due con secutivi passaggi del sole per uno stesso meridiano. Ma l'effettiva
rotazione della terra intorno al suo asse compiesi in un tempo minore del
giorno solare, perchè a cagione del suo moto nell'orbita, essa dopo di aver
compiuto la sua rotazione, non ritorna nella direzione del sole, se non
descrivendo un angolo di altri 598"33. Per la qual cosa un'ora solare non
corri sponde esattamente alla ventiquattresima parte della diurna rotazione, o
sia a 15 gradi, a quali corrisponde la durata del l'ora detta siderea.
Nondimeno, per gli usi civili, e anche per gli astronomici, quando trattasi di
tempo solare, si suppone essere esattamente di 36o gradi il giro, che fa la
terra per tornare nella direzione del sole; per modo che ad un'ora solare si
assegnano ancora quindici gradi di ro tazione, o quindici gradi dell'equatore.
V. Equatore, Giorno. - Ore eguali, equinoziali e astronomi - 254 – che son
dette le ventiquattresime parti del giorno e della notte unite insieme, nume
rate da un mezzogiorno all'altro. Tempo ranee per l'opposito chiamansi le dodi
cesime parti del giorno o della notte, le quali per l'obliquità della sfera
sono più o meno disuguali in diversi tempi , per modo ch'esse accordansi colle
ore eguali soltanto nel tempo degli equinozi. V. que Sta VOce. Ogni ora
dividesi in sessanta minuti, e ciascun minuto in sessanta secondi. Son queste
le parti elementari, o sieno le pri me misure del tempo. V. Misura. La prima
partizione del giorno par che fosse stata in dodici ore; imperocchè narra
Erodoto, che i Greci appresero dagli Egi ziani a dividere il giorno in dodici
parti. I Romani non conobbero la divisione del giorno in ventiquattro ore, se
non al tem po della prima guerra punica. Essi divi devano il giorno in quattro
parti, cioè pri ma, terza, sesta, e nona, delle quali ciascuna conteneva tre
ore, e partivano la notte in altrettante parti, che chiama vano vigilie.
Distinguonsi diverse altre ore, ricevute per misure relative di nazioni, e
traman date per tradizione, come le ore europee, le ilaliane, le babiloniche,
le giudai che, delle quali tutte parla la cronologia. V. questa voce. Gli
autori del sistema metrico decimale francese, per porre d'accordo la divisione
del tempo con quella del cerchio, che sup posero contenere 4oo gradi in vece di
36o, avvisaronsi di dividere il giorno in dieci ore, l'ora in cento minuti, ed
il minuto in cento secondi. Ma era malagevol cosa il mutare una convenzione
sociale, cotanto antica e sì generalmente estesa, come quel la della partizione
del giorno in ventiquat tro ore. Cotesta difficoltà fece ancora ca dere a voto
la nuova divisione del cerchio, la quale non avrebbe avuto alcuna rego lare
relazione coll'antica divisione del tem po. Così il sistema metrico decimale ha
perduto l'oppoggio dell'astronomia ; da poichè non potendo dividersi il
quadrante terrestre in cento gradi, non può un nu mero di metri ridursi
immediatamente ed esattamente in un numero di gradi, nè questo in tempo, o sia
in frazioni della rotazione diurna della terra, siccome gli autori di quel
sistema avevano immagi mato di fare. V. Misura. ORAToRIA (dise.), arte di
parlare no bilmente, e con eloquenza. V. questa voce. ORAToRE (dise.), chi è
perfetto in tutti i tre generi della eloquenza. V. questa VOCG, Per essere
perfetto in ciascuno de tre generi dell'eloquenza, uopo è che il dici tore sia
pronto a trattare qualsivoglia ar gomento gli si presenti, non solamente con
facondia, ma ancora con piena co gnizione della cosa di cui trattasi, con
erudizione, e con ordine, accompagnando tutti questi pregi, con una certa
dignità di gesto e di azione. E per potere unire insieme tanti numeri, convien
che l'ora tore posseda in sommo grado le più im portanti scienze, abbia una
compiuta co gnizione delle arti liberali, e sia ornato di tutte le forme
civili. Questa è la som ma delle qualità che Cicerone esige in un perfetto
oratore nel suo elegante trat tato orator intitolato a Marco Bruto. ORAzioNE
(disc. ), discorso secondo i precetti dell'arte retorica, tessuto col fine di
ottenere l'altrui persuasione, – 255 – La partizione proposta da Aristotele dei
vari generi di eleguenza, di cui abbia mo in quell'articolo parlato, sembra me
glio convenire all'orazione. Cotesti generi son tre: il dimostrativo, il
deliberativo, e il giudiziale; il primo è adoperato per biasimare o per lodare,
e comprende i panegirici, i discorsi accademici, i ge netliaci, gli epitalami,
gli epicedi, i rendimenti di grazie, gli epinici, e le gratulatorie, il secondo
vale a persua dere o a dissuadere, e però gli apparten gono le così dette
suasorie, l'esortazioni, le commendazioni: il terzo si prefigge di discettare
del fatto o del diritto, e abbrac cia l'accusa, la pruova, e la confutazione. I
gramatici distinguono l'orazione dal l'aringa, e per verità cotesti vocaboli
hanno nell'uso del parlare un significato alquanto diverso. L'orazione è ogni
di scorso elaborato, sia scritto o detto, e in nanzi a pochi o a molti; laddove
l'arin ga è pronunziata in publico, e da rostri. È sinonimo di concione, che
noi abbiam tolto a Latini. V. Aringa, Concione. ORBE (spec. e crit.), cerchio o
sfera, al tra volta applicato al moto de corpi celesti. L'antica scienza
astronomica professò per secoli una falsa dottrina intorno al moto de corpi
celesti, fondata nel presupposito che il cielo fosse composto di molte sfere, o
orbi grandi circolari, azzurri e traspa renti, uno rinchiuso in un altro, sopra
i quali si appoggiassero i pianeti, quando trasportavansi da un punto all'altro
del cielo col loro moto proprio. Centro co mune di tutti i cennati cerchi, o
involu cri sferici, era il centro della terra, con siderata allora come il
centro del mon do. ll grande orbe, orbis magnus, era quello in cui supponevasi
che il sole si movesse, o sia quello nel quale la terra compie il suo annuale
rivolgimento. Nel la moderna astronomia, la voce orbe è stata cangiata
nell'altra di orbita. ORBITA (spee. e crit.), la curva che i pianeti descrivono
col proprio loro moto; e quella che la terra descrive nel suo an nuo
rivolgimento intorno al sole. Tanto l'orbita della terra, quanto quella di
tutti i pianeti è un ellissi, nel fuoco della quale è situato il sole. In
questa el lissi i pianeti muovonsi colla legge, che un raggio tirato dal centro
del sole al centro del pianeta descrive aree, sempre proporzionali a tempi. Gli
antichi astronomi credevano, che i pianeti descrivessero curve circolari con
una velocità uniforme. Copernico stesso non andò esente da tal errore, anzi
diede per impossibile il contrario: fieri neguit ut coeleste corpus simplex uno
orbe inae qualiter moveatur. E siccome manifeste erano le ineguaglianze del
moto del pia neti, così per ispiegarle ricorrevasi ad un'altra supposizione,
ch'era quella degli epicicli e degli eccentrici. V. Epiciclo. Gli astronomi
posteriori a Copernico sco persero le orbite ellittiche, e cominciarono a
suspicare che i pianeti si movessero con velocità non uniformi. Keplero, dietro
le osservazioni di Ticho-Brahe, fu il primo a dimostrare le disuguaglianze del
moto dei pianeti. Sua fu la scoverta, che la terra, quando trovasi alla minore
distanza dal sole, muovesi con una velocità maggiore di quella, con cui muovesi
allorchè ne è più distante, e che la sua velocità in qua lunque punto
dell'orbita è in ragione in versa del quadrato della distanza dal sole; dal che
nasce la verità generale di sopra enunciata, cioè che i pianeti descrivono - -
– 256 - intorno al sole aree proporzionali al tem po. V. Moto. Orbita chiamano
gli anatomici la cavi ià, nella quale il globo dell'occhio è col locato. V.
Occhio. ORDINE (spee. crit. teol. e dise. ), la disposizione delle parti d'un
tutto, fatta da un Essere intelligente per conseguire un determinato fine. V.
Fine. L'ordine è naturale, o artifiziale. Na turale dicesi quello che nasce
dalle rela zioni essenziali delle cose, e dalla concate nazione delle cause
naturali. E però chia miamo ordine morale della natura la se rie delle
relazioni degli Esseri intelligenti tra loro, dalle quali risulta la così detta
legge naturale; e nel medesimo senso scambiamo la nozione dell'ordine con quel
la della legge, e del fine che questa si prefigge. Laonde l'ordine fu da un
grande pensatore, maestro di divine ed umane cose, definito: la legge secondo
la qua le si esegue tutto quel che Dio ha sta bilito. Certamente la nozione
dell'ordine morale della natura è il mezzo, per lo quale la mente dirittamente
corre alla co noscenza di Dio, dacchè concependo l'orº dine, concepisce
l'intelligenza, che n'è stata la sorgente e la causa. Cotesto or dine primitivo
dicesi necessario, perchè risulta o dalle essenze stesse delle cose ma- -
teriali, che sono immutabili, o dalla con catenazione delle cause, predisposte
dal Creatore per la economia e conservazione dell'universo. V. Necessario,
Universo. Un tal concetto è bellamente espresso in quei versi di Dante: - le
cose tutte quante Hann'ordine tra loro, e questo è forma Che l'universo a Dio
fa simigliante. ( Par, I. ), Passando ora dall'ordine delle cose sta bilite
dalla suprema intelligenza, a quello che presiede alle opere dell'uomo; non si
dà serie di azioni o di operazioni della mente, che non esiga una
predisposizione di mezzi capace di produrle: questo è quel, che chiamasi ordine
artifiziale o contin gente, perchè dipende dalla volontà delle intelligenze
finite, ed è di sua natura vario e mutabile. La nozione non pertanto
dell'ordine delle cose materiali differisce da quella delle opere
intellettuali; impe rochè la disposizione delle cose materiali è sempre
regolata dal luogo, che queste occupano nello spazio, se sono coesistenti; e
dallo spazio e dal tempo insieme, se son successive, ond'è che gli scolastici
de nominarono cotesta spezie di ordine ordo situs. Ma tanto le cose
coesistenti, quanto le successive portano seco impresse il se gno della
intelligenza che le ha insieme disposte; le prime, perchè quantunque incapaci
per se stesse di moto e di ogni spontanea disposizione, dimostrano avere
ricevuto una particolare destinazione da una causa attiva ed intelligente, posta
fuori di loro; le seconde, perchè le tracce della intelligenza son più
sensibili nell'azione delle cause predisposte a produrre un effetto continuo e
successivo. Chi ne gherebbe, essere nell'orologio più visibile l'intelligenza e
il fine dell'artefice, che nella base d'una colonna, o nel piedi stallo d'una
statua? V. Spazio, Tempo. Quanto poi alle operazioni della mente, essendo i
pensieri successivi, e graduale il passaggio dal noto all'ignoto; è mani festo,
che il tempo gradua e determina la retta disposizione delle idee, dalle quali
nascer dee la conclusione che è il fine del ragionamento e del discorso.
Quest'è quella spezie d'ordine, che gli scolastici - 257 - chiamarono ordo
doctrinae, e col quale noi procediamo nell'insegnamento, o nel l'invenzione;
anteponendo talvolta i prin cipi e le verità generali, alle particolari che
vogliamo dimostrare, e talvolta par tendo dalle verità particolari già note,
onde pervenire allo scoprimento delle ge nerali ed ignote. Le regole che
sogliam fissare per seguire l'una o l'altra via, e che ricaviamo dalla
sperienza stessa della ragione, son quelle che con proprio nome chiamiamo
metodo, dal che apparisce ma nifesto, non essere il metodo altra cosa, se non
l'ordine, che noi stessi diamo alle operazioni della mente, o per dimostrare, o
per inventare. V. Metodo. Distinguevano ancora gli scolastici l'or dine della
intenzione dall'ordine della esecuzione, e chiamavano ordine d'in tenzione la
gradazione delle cause, che col pensiero ci formiamo, per ottenere il fine o l'intento.
In questa gradazione con sideravano il fine come la prima causa, la materia
come la media, e la forma come l'ultima; e per l'opposito nell'ordine di
esecuzione risguardavano come prima la causa efficiente, come media la mate ria
e la forma, e come ultima il fine ; d'ond'era ricavato quel loro assioma: quod
est primum in intentione, illud est ul timum in eacecutione. Tanto nella
disposizione delle cose ma teriali, quanto nella successione del pen sieri, il
numero presta un doppio uſizio, cioè d'indicare la priorità degli uni a ri
spetto degli altri, e il graduale progresso loro dal principio da cui partono
verso il fine al quale tendono. Il numero è quello che forma la serie delle
proposizioni con nesse, o dipendenti le une dalle altre. E quì per serie
intendiamo appunto la gra dazione de legami e delle relazioni, che aver possono
i principi, le nozioni, e le conclusioni, dal complesso delle quali na sce il
corpo o il sistema d'ogni scienza. Di qua il tantum series functuraque pollet.
Il numero in somma è il principale in strumento dell'ordine, tanto nelle cose
ma teriali, quanto nelle intellettuali. V. Nu mero, Serie. Nelle cose
materiali, allorchè la dispo sizione delle diverse parti d'un corpo, o di più
corpi comparati tra loro, formino un accordo, che soddisfa il senso del bel lo,
l'ordine prende il nome di simmetria, la quale non è altro, che il collocamento
di cose coesistenti disposte in accordo tra loro. V. Simmetria. ln fine
l'ordine logico presiede al di scorso come a pensieri, e può dirsi il car dine
della istruzione didascalica, della re torica, e della eloquenza; a rispetto
delle quali discipline è di una importanza an che maggiore, tra perchè senza
l'ordine mancherebbe interamente lo scopo loro, e perchè l'emenda del difetti
d'ordine nel discorso è men facile che ne pensieri. La notabile differenza che
passa tra l'arte del pensare e l'arte del parlare è , che noi non possiamo
persuadere gli altri collame desima facilità, colla quale persuadiamo noi
stessi, nè fargli ricredere colla stessa prontezza con cui noi ci rierediamo;
es sendo che le idee, son più rapide e più vive delle parole, colle quali
dobbiamo esprimerle. L'oratore e lo scrittore, ehe si propongono di persuadere
gli altri d'una verità non ovvia nè facile, o che vo gliono distruggere una
contraria preven zione radicata nell'animo di coloro a quali parlano; uopo è
che dispongano le parti del discorso, e che avvertano alla oppor tunità d'ogni
lor detto, non solamente per riuscire nel fine della persuasione, ma 55 anche
per evitare il pericolo di confermare quella contraria opinione che vorrebbero
cancellare. La retta disposizione dunque di tutte le parti del discorso, se da
una parte è figlia di quella del pensiero e pro cede da medesimi principi ; è
dall'altra soggetta a più severe regole per la mag gior difficoltà del fine che
si prefigge, d'onde segue che senza ordine non si dà oratore, nè eloquenza. V.
queste voci. - Ordine, finalmente, suole denominarsi un capo genere, il quale
regola le parti zioni di moltiplici spezie poste sotto di se, varianti non per
l'essenza, ma permodi, di che può trovarsi l'esempio nelle parti zioni della
storia naturale. In questo senso prende un significato equivalente a quello di
classe e di genere. V. queste voci. ORECCHIA e OREccHIo (spee.), organo dell'udito,
per lo quale gli animali rice vono le impressioni del suono. V. questa V0C0. -
Non può dirsi, se la natura sia stata più industriosa nella struttura degli
occhi, o delle orecchie. Ciascuno de due organi è si maraviglioso, che dopo di
avergli a parte esaminato, ognuno sentesi disposto di dar la preferenza a
quello de'due, che ha in ultimo luogo osservato. Lasciamone la minuta
descrizione a'no tomisti, ma diciamone tanto, quanto ba sti a far intendere
l'organica struttura del senso dell'udito, e distinguiamo la parte esterna
dall'interna. L'esterna, detta auricola, messa dal l'una parte e dall'altra
dell'osso tem porale, elevasi sul resto della superficie della testa: è una
delicata cartilagine di forma circolare, la quale contiene di verse sinuosità.
Sue parti sono l'elice, e l'antelice, che ne abbraccia l'intero circuito; il
trago o sia il bottoncello car tilaginoso, posto dalla banda anteriore per
custodirne l'ingresso ; l'antitrago e la conca, o sia il seno che s'incava in
mezzo all'orecchio esteriore. Nell'uomo, che a differenza del bruti ha le
auricole fisse, son queste contornate da un triplice giro spirale, di cui
l'inclinazione tortuosa pro duce la riflessione de suoni che vi entra no, e fa
sì che tutti si raccolgano nella conca. A questa continuamente annesso è il
meato uditorio, detto alveare, il qua le procede in una direzione serpeggiante
insino alla membrana del timpano. Esso è d'una sostanza in parte cartilaginosa
e in parte ossea, vestito d'una pelle liscia, la quale è spalmata d'una materia
ceru minosa, che è quel che chiamasi cera o cerume dell'orecchio. Una tale
combina zione di parti lo rende sopratutto atto a condurre il suono
nell'interno dell'orec chio, senza alterarlo, dapoichè la stessa sua obliquità
aumentandone le superficie moltiplica i punti della riflessione. Una linguetta
cartilaginosa, triangolare, tre mula, elevata, diritta sopra la cavità del la
conca, situata nella parte superiore del condotto uditorio, determina i suoni
in cidenti ad entrare nel canale, senza che possano uscirne, qualunque sia il
punto dal quale sieno stati reſlessi. Acciocchè un tal effetto si ottenesse,
era necessario che la sostanza del condotto per la sua du rezza fosse stata
capace di reflettere il suo no, e per la sua obliquità di non farlo tornare in
dietro. In fatti se il condotto uditorio fosse stato diritto e perpendico lare
al tamburo, il suono sarebbe stato respinto verso la bocca del condotto me
desimo; laddove entrando obliquamente va ad urtare contra la parte ellittica su
periore della conca, d'onde reflette sopra – 259 - l'inferiore, e di là nel
meato uditorio esterno. Sì maraviglioso è l'artifizio col quale quest'organo è
stato costrutto, che per lo caso in cui il suono fosse troppo forte, la natura
ha messo alla sua imboc catura la linguetta triangolare e tremula di cui
abbiamo testè parlato, acciocchè potesse chiudere l'entrata al suono, e l'ha
fatta mobile per mezzo d' un muscolo, detto di Vasalva, dal nome del suo pri mo
scopritore ed osservatore. Il meato uditorio è chiuso da una mem brana
delicata, secca e trasparen e, detta membrana del timpano o del tamburo, la
quale separa l'orecchio esterno dall'in terno. Passando a questa interna parte,
trovasi la cassa del tamburo, che è una cavità semisferica irregolare, nella
quale sono altre cavità, cioè la parte ossea del la tromba di Eustachio, la
finestra ova le, la rotonda, e i quattro ossicciuoli de nominati, il martello,
l'incudine, l'osso orbicolare o lenticolare, e la staffa. La così detta tromba
d' Eustachio è un con dotto che apre la comunicazione tra l'orec chio, le
narici, e le fauci: per esso rin novasi di continuo l'aria, che si trova nelle
cavità dell'orecchio. Senza di tale instru mento, disposto in forma d'una
tromba, o d'un corno da caccia, tra la cassa del timpano e la dietrobocca,
l'aria racchiusa in quelle cavità, sarebbe soggetta ad una tale rarefazione,
che le toglierebbe ogni elasticità, e renderebbe insensibili gli or gani
dell'udito agli scuotimenti e alle oscil. lazioni del suono. Dicono i
notomisti, trai quali Vasalva, che la chiusura del pas saggio dell'aria per la
tromba di Eusta chio, produca la sordità ; sì che essa è una delle più chiare
indicazioni dell'uso cui questa parte dell'oganismo uditorio è destinato. Non
così di molte altre parti dello stesso organismo, intorno alle quali non
possono formarsi se non semplici con getture. I forami o finestre, una ovale e
l'altra rotonda, son due comunicazioni tra la conca e il vestibolo del
laberinto, di cui parleremo quì appresso. Quanto agli ossicciuoli, sono
notabili nel mar tello il capo ed un manico: il capo ha due prominenze e una
cavità, la quale serve a dargli un'articolazione di gingli mo col corpo
dell'incudine, mentre che il suo manico è incollato alla membrana del tamburo :
l'incudine è un corpo a due braccia, nel quale sono due cavità e una
prominenza, che servono a dargli un'articolazione congiunta col martello : le
sue due braccia son d'ineguale lun ghezza; di queste il più corto non ha al
cuna comunicazione cogli altri ossicciuoli, mentrechè il più lungo termina in
una cavità , che abbraccia un degli estremi dell'osso orbicolare: l'altro
estremo di que sto medesimo osso entra in un'altra ca vità, che presenta la
testa della staffa. Quel che è più notabile intorno agli ossic ciuoli, è che
essi sono ne fanciulli, quali negli adulti, non capaci di alcun accre scimento.
Taluni di essi son provveduti di propri muscoli: il martello ne ha tre, e la
staffa uno. A quale uso sien questi destinati, è incerto tra gli anatomici. Pre
tendono taluni che l'ufizio loro sia di tem perare i suoni soverchiamente
acuti, ma più sicuro è il dire, che l'azione mecca niea denervi e del muscoli è
il maggiore de segreti della natura, e che nell'udito avviene quello stesso che
sentiamo essere della deglutizione, dell'articolazione della voce, e di tutte
le altre funzioni animali, alle quali siamo interamente passivi. Sin qua
abbiamo appena toccato la par te dell'organo dell'udito, la quale serve n – 260
– a raccogliere e indirizzare i suoni. V'ha un'altra più interna camera detta
il labi rinto, nella quale debbon questi entra re, e di cui la parte più
notabile è il labirinto, rinchiuso nell'osso pietroso, e composto di tre parti,
che i notomisti chiamano il vestibolo, la coelea o lu maca , e i canali
semicircolari. Uopo è dire, che le pareti di tutte le cavità del labirinto,
essendo formate dall'osso pietroso son dure e compatte, d'onde se gue che le
impressioni del suono urtando contra le dette pareti nulla perdono della loro
forza, e vengono comunicate nella loro integrità alla parte molle denervi del
l'orecchio. Il vestibolo è una cavità irre golarmente rotonda, nella quale
trovansi la polpa della porzione molle del nervo acu stico, di cui or ora farem
parola, un li quore acquoso, come nel timpano, e una porzione di aria, che dal
timpano passa in questa cavità. La coclea è un canale osseo conico, che segue
per due giri e mezzo una linea spirale, di cui la punta termina col cono
stesso. Trovansi sparsi per tutta la sua estensione piccioli nervi acustici, de
quali la disposizione somiglia ad una tela di corde, che l'analogia ci fa conce
pire come un instrumento di corde armo niche, ognuna delle quali corrisponde ad
uno de suoni formati dalla voce, o pro dotti da corpi. Finalmente i canali semi
circolari, che son tre d'ineguale gran dezza, ma sempre di eguali proporzioni
tra loro, racchiudono nelle loro scanala ture una parte della porzione molle
del nervo acustico, e sembran destinati, giu sta le congetture di taluni
anatomici, a ricevere, secondo la rispettiva loro gran dezza, le varie misure del
tuoni. La comunicazione tra l'organo dell'udito ed il cervello è stabilita per
mezzo del nervo acustico o uditorio, che passa per lo meato uditorio interno, e
nel quale distinguesi la parte molle dalla dura: la molle dividesi in molte
braccia, e forma la dilicata tela che si spande per le varie parti del
labirinto: la dura , passa per lo cranio e viene a spandersi nelle parti
dell'orecchio esterno e della faccia. La ra dice del nervo acustico è attigua a
quella dell'ottavo paio di nervi, che discende giù nel petto e nelle viscere;
nel che gli ana tomici trovano la ragione della corrispon denza tra suoni, e
spezialmente tra le ſorti impressioni che riceve l'orecchio, e i mo vimenti che
queste destano anche nelle parti inferiori del corpo. La comparazione tra
l'organo umano dell'udito e quello de bruti dimostra la so praffina industria,
colla quale il Creatore ha inteso adattarlo alla condizione delle diverse
spezie degli animali, e alla ri spettiva loro destinazione. Negli uccelli
l'orecchio esteriore è di una forma pro pria al volo, non protuberante, ma co
perto e chiuso. Nel quadrupedi è adattato alla positura, e al movimento del
corpo: nelle lepri è largo , aperto, ed eretto, onde sien preste a sentire i
loro persecu tori: negli animali sotterranei è situato al disotto e indietro
della testa, onde non fosse d'ostacolo al continuo loro lavorio: nelle talpe
manca affatto l'auricola, e tro vasi l'orecchio posto tra 'l collo e la spal
la, in forma d'un buco coverto da una pelle, che apresi e chiudesi a guisa d'una
palpebra. Nella generalità, le auricole in quelli animali che ne sono
provveduti, son mobili acciocchè possano portarle in qualunque direzione faccia
bisogno, se condo la varia posizione del capo loro. In niun'altra spezie di
animali l'interna struttura di quest'organo è tanto composta – 261 – ed
artifiziosa quanto nell'uomo; e d'altra parte in ciascuna delle spezie
inferiori le parti del medesimo organo son proporzio mate a quella limitata
udita, che la natura le ha concesso. A niuna, fuorchè all'uomo ha dato l'organo
adattato all'armonia e alla misura del tempo, del quale dono è compagno l'altro
della voce e del canto. V. Canto, Udito, Voce. Mediante gli accurati studi
degli ana tomici dal decimosesto secolo insino ad oggi, noi conosciamo le più
minute parti della interna struttura dell'organo dell'udi to, ma di poche
intendiamo l'uso; e di queste poche giudichiamo per congetture, e per analogie
ricavate dagli effetti della stessa sensazione del suono. Nella visione la
natura ci ha dato indicazioni più chiare che nell'udito. L'occhio è una lente,
che presenta al nostro senso l'immagine fe dele dell'obbietto esterno; ma
qual'è l'im magine del suono, e come questo passa pe'meati dell'udito? Qual è
il giuoco dei muscoli, e denervi, che a guisa di tante corde armoniche portano
alla sensazione le inflessioni del canto e degl'instrumenti musicali? I muscoli
del timpano sono sì delicati, che non possono essere distinti, se non
coll'aiuto delle lenti; e non pertanto da essi dipende il successo di tutte le
mec caniche funzioni dell'organo dell'udito. Ri petiamolo, il modo come gli
organi agisco mo, e il passaggio degli obbietti dalla sensa zione alla
percezione, sono il più impenetra bile desegreti della natural V. Percezione.
OaGANIco (spee. e crit.), quel che appar tiene o è relativo all'organo.V.
questa voce. Dà nome alla generica partizione dei corpi e della materia, la
quale distin guesi in due parti, organica e inorga nica. V. Corpo, Materia,
Organismo. ORGANISMo (spec. prat. e teol.), nome collettivo delle forme, per le
quali i corpi acquistano attitudine alle funzioni vegetali o animali. V. Corpo.
Due sono le classi, nelle quali ordinar sogliamo tutti i corpi della natura,
gli organici e gl'inorganici. Alla classe de gli organici appartengono le
piante e gli animali. Di quelle e di questi è sì grande la moltiplicità e la
varietà, che lo studio dell'uomo, in tutti i secoli sinora trascorsi, non è
bastato a numerargli e ad esau rire la conoscenza di tutte le spezie loro. Di
tali spezie ve n'ha moltissime, e forse il maggior numero, che per la loro pic
ciolezza sottraggonsi all'osservazione del l'uomo, alla cui contemplazione per
altro la natura ha esposto tutte le altre parti della superficie della terra
abitabile. Se queste infime spezie non fossero altro che semplici automati, non
cesseremmo di ammirare i disegni e le forme innumere voli, le quali vennero
alla mente dell'al tissimo inventor loro. Ma cotesti Esseri tutti, son dotati
di forze meccaniche e di vita; e tra le forze vitali, hanno ancor quella di riprodursi,
o sia di creare altri Esseri a loro simili. Sin qua le piante hanno comuni
cogli animali tutte le cen nate qualità. Ma questi sono ancora do tati di moto
volontario e di virtù sensi tiva, alle quali funzioni son relative le
differenze della loro struttura. Sebbene l'idea generale dell'organismo
comprenda le forme così delle une, come degli al tri; pur tuttavolta giova
riservare agli ar ticoli propri del regno vegetale le diffe renze
caratteristiche della struttura delle piante, e limitarci quì alle forme
proprie degli Esseri dotati di virtù sensitiva e di moto volontario. V, Albero,
Pianta, Ve getazione, Vita. – 262 – Il primo costitutivo sensibile del corpo
animale è un tessuto spugnoso, detto cel lulare, formato da innumerevoli lami
nette irregolarmente situate, le quali co municano tra loro per modo, che i
fluidi in esse versati si spandono, e le gonfia mo; mentre d'altra parte la
virtù di con trarsi, di cui son dotate, le fa tornare allo stato loro naturale,
quando cessi o si rallenti l'azione delle forze che le te mevano distese. Da
questo tessuto cellulare mascono le parti solide de corpi, le quali quando sono
distese in lungo e in largo, prendono il nome di membrane, e quando lo sieno in
lungo, chiamansi fibre. Una membrana piegata in forma di canale ci lindrico, o
comico dicesi vaso. Siccome i pori del tessuto cellulare son atti a rice vere
materie estranee, e sopratutto le fer rose; così a misura che queste vanno a
depositarvisi, le parti prendono una mag giore consistenza, e passano allo stato
di cartilagini, e indurendosi a quello di ossa, V. queste voci. Un'altra parte
costitutiva del corpo ani male è la fibra carnosa, di forma filamen tosa,
dotata ancor essa di forza di contra zione, e di vantaggio irritabile, quando
sia toccata con un corpo pungente, o con un fluido acre. Cotesta fibra riunita
in fa scetti forma i muscoli, i quali sono gli or gani così del moto
involontario o mecca nico, necessario all'esercizio delle funzioni naturali del
corpo, come del moto volon tario. V. Museolo. - Un terzo elemento solido,
risguardato come una delle parti costitutive del corpo animale, è la sostanza
midollare, ras somigliante ad una polta omogenea, la quale guardata col
microscopio apparisce composta di globetti. Non è dotata dive runa forza di
contrazione come la cellu lare, nè è irritabile come la fibra musco lare, ma
sembra dalla natura destinata non solamente a formare e a custodire le prime e
le più delicate filamenta de'ner vi, ma anche ad essere l'ultimo veicolo delle
sensazioni. V. Midolla. - . I tre cennati elementi solidi sono i pri mi
componenti sensibili della fabbrica del corpo animale. La cellulare ripiena di
ma teria terrosa forma le ossa: la fibra col legata in fasci costituisce i
muscoli : le membrane vestono il corpo, e ne separano le varie cavità :
l'intestino è un grande vaso rivestito di fibre carnose, nel quale i vasi più
piccioli detti assorbenti, suc ciano il fluido alimentare, per condurlo nelle
altre parti del corpo: le glandule sono ammassi di piccioli vasellini destinati
a separare dal fluido comune e a formare gli altri liquidi, che debbon essere
altrove condotti: una massa ed un fascio midol lare detto cervello e midolla
spinale di rama da se dei fili detti nervi, me quali è riposta l'azione della
vita. Cotesta azio me, regolata colla misura, e colle pro porzioni stabilite
dalla natura, conserva i solidi, rende continua l'azione del flui di, contenuti
nelle loro cavità, determina le leggi del moto degli stessi fluidi, e forma in
una parola quel che dicesi eco nomia del corpo animale. Tal è in breve il
ritratto delle funzioni dell'organismo animale, considerato qual è nelle
spezie, che con impropria espressione diconsi per fette. Imperocchè perfetta è
ogni forma, la quale corrisponde esattamente al suo fine, nè v'ha spezie o famiglia
di ani mali in cui questa corrispondenza non sia stata esattamente calcolata e
determinata. Ciò non ostante, il più o meno composto si suol esprimere con un
vocabolo rela tivo alle spezie inferiori, nelle quali se – 265 – da una parte
si ravvisa un minore artifi zio della natura, v'ha dall'altra minor numero e
minore importanza di funzioni vitali. Questo ritratto non pertanto non è
sufficiente a dare una compiuta idea de gli organi del moto e delle sensazioni,
a rispetto delle quali la struttura del corpo animale prende l'aspetto d'una
macchina della più sublime invenzione, composta di materiali non permanenti, ma
muta bili, in cui non solamente è continua, ma doppia è l'azione del suo
meccanismo , una cioè, di sostenere e di rinnovare ad ogn'istante i componenti,
l'altra di dare moto e azione al composto. Nell'organismo noi contempliamo le
parti costitutive di questa macchina, e nell'articolazione il suo motore. V.
Articolazione. , Ma nell'organismo va principalmente considerato il disegno
generale di tutta l'opera degli Esseri organici, da cui, più che da ogni altra
parte trasparisce l'inſi nità della mente del suo autore, e l'im mensità della
scala, secondo la quale ha egli operato. Qual distanza non v'ha tra l'inerte
polpa della spugna, in cui pare che spiri il carattere dell'animalità, e il
cane e l'elefante, i quali per la forza e per l'espressione del sentimento, più
degli altri si avvicinano all'uomo? Quale lunga gra duale e continua
successione non v'ha tra l'infima spezie degli animali detti radiati e
articolati, e la più compiuta de verte brati, e de mammiferi? Alquanto
superiori alle spugne sono le monadi e gli altri ani mali microscopici, di
omogenea sostanza, di semplice e incompiuta figura, i quali muovonsi
nell'acqua. A questi succedono i polipi di figura meglio determinata e di
membra più distinte, che circondano la bocca, affissi non pertanto a talune so
stanze solide da essi prodotte, privi d'ogni altro moto, fuorchè di quello
delle pro prie membra. A polipi succedono le me duse simili per la mollezza del
corpo, ma provvedute d'un maggior numero di di ramazioni nel canale
intestinale. Alle me duse, gli echinodermi, provveduti d'una buccia più o meno
dura, e di numerose membra destinate ad un lentissimo moto. A questi che forman
propriamente la classe del radiati, succedono i così detti artico dati,
gl'insetti, i crostacei, i vermi, i molluschi. -. - - Dalle dinotate spezie
inferiori passando alle superiori, i vertebrati formano una classe di animali,
a quali è dato un più compiuto organismo, perchè dotati di mag gior potenza
locomotiva, e di più impor tanti funzioni sensitive. Son essi plasmati sopra
uno scheletro, o forma di pezzi ar ticolati, composta d'una colonna spinale, in
cima alla quale è collocata la testa, e la cui opposta estremità va a finire in
un coccige, per lo più prolungato in coda. V" ha de caratteri di
somiglianza, o per meglio dire comuni a tutti i vertebrati, e v'ha delle
differenze che ne distinguono le spezie. I caratteri comuni sono: 1.º le cavità
che contengono le viscere, toraci che ed addominali in tutto o in parte cinte
da costole, o semicerchi ossei, arti colati lateralmente alla spina: 2.º le mem
bra in ciascun di essi appaiate: 3.º il moto delle mascelle sempre verticale:
4.º il fe gato, la milza, il pancreas, le reni, le parti genitali che a tutti
prestano il me desimo uffizio: 5.º il sangue sempre ros so: 6.º il sistema
linfatico sempre distinto dal sanguigno: 7.º la massa cerebrale, i contenuta
nel cranio, distinta nel cervello e nel cervelletto: 8.º l'orecchio formato da
un vestibolo e da tre canali semicirco lari: 9.º simile in tutti il sistema
nervoso. - 264 – Ma i vertebrati sono sparsi per la ter ra, per l'aria, e per
l'acqua, ond'è che il diverso elemento, in cui ciascuno dei tre dinotati generi
vive, richiedeva di verse modificazioni alle comuni forme. I pesci respirano
per le branchie, le quali son poste all'una e all'altra parte del col lo : le
membra loro consistono in talune alette o pinne: la coda termina quasi sem pre
in pinna verticale: il corpo è coverlo di nuda pelle, e questa custodita da sca
glie: le narici non comunicano colla parte posteriore del palato : l'orecchio
non ha canale nè esterna apertura: il cuore ha una sola orecchietta ed un
ventricolo che spinge il sangue nelle branchie : il san gue fa da quel punto un
moto retrogrado per unirsi all'arteria che lo tramanda nel le altre parti del
corpo, serbando sempre un calore non maggiore dell'ambiente : la maggior parte
delle loro uova è fecon data dopo di essere uscite dal corpo della femmina. I rettili
hanno come i pesci il sangue freddo, sebbene respirino l'aria per mez zo de
polmoni: la struttura di questo vi scere è in essi fatta per modo, che ad ogni
pulsazione va nel polmone una parte del sangue delle vene, tornando il resto al
cuore senza passare per lo polmone: il corpo loro è pure vestito di pelle nuda,
e questa coperta di scaglie: son provve. duti talvolta di due, talvolta di
quattro piedi, e talvolta ancora ne sono affatto privi; le quali varietà son
sempre relative ad altre modificazioni, che nelle viscere e negli organi della
generazione son cor relative al numero, o alla mancanza dei piedi: in taluni di
essi la fecondazione delle uova è l'effetto dell'accoppiamento dei sessi: in
altri le uova son fecondate fuori del corpo della femmina: in altri final mente
le uova apronsi nel corpo stesso del la femmina, la quale apparisce vivipara.
Gli uccelli hanno una compiuta respi razione, il cuore con due ventricoli, e il
sangue più caldo ancora, che ne quadru pedi: maggiore è l'ampiezza del loro pol
moni, e le diramazioni dellaaorta sono espo ste all'aria ne sacchi, i quali
sono i ser batoi, che tramandano l'aria per tutto il corpo: il vasto loro
sterno somministra molti punti di congiunzione co muscoli che servono al moto
delle ali: quantun que provveduti di due soli piedi, pure questi potendo venire
in avanti, e insie memente potendo le dita discostarsi nota bilmente le une
dalle altre, formansi per tal modo una base proporzionata alla loro mole: la
testa sostenuta da un collo lun go e mobile per ogni verso, può toc care la
terra, e portandosi innanzi o in dietro, può secondo il bisogno variare la
posizione del centro di gravità, così nel camminare, come nel volare: son privi
di denti, in luogo dequali son provveduti di becco: il corpo loro è vestito di
penne: le loro uova son racchiuse in un guscio calcareo, che si apre al calore
dell'incu bazione, o di altro a quello equivalente. Ma il principal carattere
distintivo delle varie spezie degli animali vertebrati, deb be esser preso
dagli organi e dalle forme della generazione. Noi chiamiamo mammi feri gli
animali che come l'uomo, parto riscono figli viventi, i quali sono da pri ma
nutriti col sangue della madre nell'in terno della matrice, e quando ne sono
usciti, vengono alimentati col latte delle loro mammelle: lo scheletro loro,
l'ap parato degli organi del molo, il sistema nervoso, il cervello, il cuore, i
polmo ni, gli organi della respirazione, il si stema arterioso e venoso son
tutti tempe – 265 - rati alla forma umana. Cotesta classe ab braccia tutte le
numerose famiglie dequa drupedi. I cetacei non differiscono da essi, se non
perchè, essendo destinati a vivere nelle acque, è stata loro data la esterna
forma del pesci, e sono per conseguente privi delle estremità posteriori del
corpo comuni agli altri mammiferi. Tal è il qua dro delle diverse spezie di
viventi che abi tano il nostro globo, e delle quali forma il suo subbietto la
zoologia. V. questa voce. A tutte le cennate spezie soprastà l'uomo, di cui
l'organismo non è limitato a soli fini della vita sensitiva, ma comprende le
sue attitudini all'esercizio delle facoltà in tellettuali di cui è dotato, e
anche all'im perio della terra che abita, e degli ani mali che son destinati a
servirlo. Lo stu dio della sua propria struttura è la più breve via, per la
quale possiam noi giu gnere alla cognizione della sapienza del suo Autore. La
facoltà che hanno i sensi di penetrare nelle interne parti della mac china
umana e di svolgerne l'artifizio ; come l'altra data all'anima di vedere e di
conoscere se stessa, sono le maggiori prerogative dell'uomo, perchè gli svelano
la sua superiorità sopra tutte le altre spe zie di animali insiem co fini della
sua creazione. Tal è lo studio dell'antropo logia, la quale non considera
solamente l'uomo, come uno devertebrati e de'mam miferi, ma come il primo di
tutti gli Es seri creati, che sono sulla terra, come la più perfetta forma
degli Esseri organici, e come un singolar composto, nel quale la materia serve
allo spirito e alla intel ligenza. V. Antropologia, Uomo. - ORGANo (spec. e
disc.), parte della ma teria, conformata dalla natura, per essere instrumento
di funzioni vegetali o animali. In questo senso tutte le parti d'e corpi
vegetabili e le membra de corpi animali possono dirsi organi, o parti
organiche. Ma per distinguere quelle addette ad una iunzione unica ed omogenea,
dalle altre che prestano un ministero generale, sonsi chiamati organi primari
quelli, e secon dari questi. Così le arterie, le vene, i nervi, i muscoli
diconsi primari, e le mani, le dita e simili, secondari. Organi in un senso
speciale son deno minati i sensi , considerati come instru menti per mezzo
dequali riceviamo le im pressioni degli obbietti esterni. V. Senso. Organo
infine è stato chiamato l'appa rato de libri logici di Aristotele, conside rati
come gl'instrumenti del discorso; ed in conformità di tale similitudine nuovo
organo denominò Bacone il suo metodo analitico della induzione, come contrappo
sto del vecchio organo aristotelico. V. In duzione, Logica. - ORGoGLIo (prat.),
l'ingiusta o esage rata opinione del proprio merito. V. que sta voce. È
vocabolo derivato dal greco il quale esprime il fermento dell'amor di se me
desimo, ma nel significato, che comu nemente gli si dà, può dirsi sinonimo di
suberbia, che abbiam preso da Latini. V. Superbia. È la passione degli stolti,
i quali men tre estimano se stessi per qualche imma ginaria dote, disprezzano
negli altri la vera virtù: è il contrapposto della mode stia: è la sorgente
dell'egoismo: è il ne mico della beneficenza e della umanità : è il più sicuro
indizio della picciolezza dell'animo di quelli che se ne pascono: non entra
nell'animo di chicchessia, (giu sta l'aureo detto di la Rochelocault), se 54
non per liberarlo dal rincrescimento di vedere la propria imperfezione.
Differisce dall'alterezza o alterigia, perchè questa accenna più a modi
esterni, che a senti menti dell'animo. V. Alterezza. ORIENTE (spee. e erit.),
parte dell'oriz zonte, dove il sole apparisce a noi nel SUIO IndSCGre. - -
L'oriente prende varie denominazioni da diversi punti, da quali il sole spunta
sull'orizzonte, secondo i vari siti, ne'quali si trova nel suo annuale
progresso; e però oriente equinoziale indica il punto del l'orizzonte, nel
quale il sole si leva al lorchè entra in ariete o in libra. Cotesto punto dicesi
ancora vero oriente, ed è ugualmente distante dal settentrione e dal mezzo
giorno. Oriente estivo o vernale poi chiamasi il punto del levare del sole in
uno de due solstizi. - i solº Oriente chiamano i geografi la parte della terra
opposta all'occidente, il che dà a questi due vocaboli un significato cor
respettivo dell'uno all'altro. V. Occidente. ORITToGNosIA (crit.), nome dato
dai mineralogisti tedeschi all'arte di ricono, scere i corpi inorganici
fossili, così per le qualità costitutive, come pe loro ca ratteri esterni ed
apparenti. : Nel linguaggio generale scientifico va quanto mineralogia. V.
questa voce. ORIzzoNTE (spee. e crit.), linea o cer chio celeste, che separa
l'emisfero supe riore dall'inferiore, e termina la nostra vista. In questa definizione,
che è la comune, son comprese due idee che giova per chia rezza distinguere,
cioè l'orizzonte razio male, o astronomico, e il sensibile o ap, parente.
L'astronomico è un gran cerchio il cui piano passa pel centro della terra, che
divide la sfera in due parti, e di cui i poli sono il zenit e il nadir. Cotesto
cerchio è tutto ideale, e serve alla mente per distinguere e ordinare gli
obbietti ce lesti. Esso è tagliato in due parti eguali dal meridiano e da tutti
i cerchi verti cali. V. Meridiano, Madir, Zenit. i Quanto poi al sensibile o
apparente, giova ancora distinguere i vari significati scientifici da quello,
che comunemente suo le darsi a questi vocaboli. Imperocchè per orizzonte
sensibile intendono ancora gli astronomi quel cerchio minore della sfera, il
qual divide la parte visibile dalla ine visibile della medesima. Cotesto
orizzonte è da essi diviso in orientale e occiden tale e l'orientale è quello
per dove ele vansi i corpi celesti: l'occidentale è l'al tro, per lo quale
tramontano. Chiamasi ancora orizzonte, o orizzonie inclinato il cerchio minore
della terra o della sfera celeste, che separa la parte vi: sibile della terra,
o del cielo dalla invisi: bile: le due cennate circonferenze son de terminate
dalle visuali cond tte dall'occhio dell'osservatore, tangenti alla superficie
terrestre e prolungate sino alla sfera celeste, Nel comune linguaggio
finalmente chia: masi orizzonte quel cerchio determinativo della vista, oltre
del quale non possiamo vedere. - . ORNAMENTo e ORNATo (crit. spec. e disc.),
cosa, pensiero, o parola, che si aggiu gne al suggetto principale, per farlo
vago e bello. - - - - - Le arti, le scienze, e il discorso hanno gli ornamenti
loro propri. La natura stessa ha i suoi, i quali son modelli alle nostre
imitazioni. – 267 - Un pensiero nudo racchiuso in una pro posizione può
contenere una verità, cui pre stiamo il nostro assentimento, senza ve derne per
altro tutto l'utile o il bello. Le idee che la contornano, che ne dimostrano
l'applicazione, e ne sviluppano le conse guenze, la rendono bella e gradevole.
Questi sono gli ornati della filosofia. Le arti, e tra queste, spezialmente
quelle che portano il nome di belle, avendo per principale loro scopo il bello
e il dilette vole, debbono per mezzo degli ornati ac compagnare il vero o il
verisimile, e ren derlo vago e piacevole. La pittura, l'ar chitettura, la
poesia, la musica non po trebbero senza gli ornati alleltare i sensi e
l'immaginazione, nè risvegliare l'idea del bello, del patetico, o del sublime.
Il discorso e l'eloquenza, in qualunque degeneri suoi, esige per suoi
principali requisiti la scelta de'vocaboli, e delle sen tenze, le similitudini,
le immagini, e le figure, che danno forza al parlare e sostengono l'attenzione
degli ascoltanti. V. Eloquenza. È manifesto che le regole degli ornati debbon
essere desunte dal senso e dalla nozione del bello, perchè questo e non altro è
lo scopo loro. E siccome le sor genti del bello stanno, o nell'ordine della
natura, o nella imitazione, la qual dop pia sorgente distingue il bello assoluto
dal relativo, così può dirsi, che la regola co mune a tutti gli ornati, sta in
quel che conviene a ciascun subbietto. V. Conve niente, Bello. ORNIToLoGIA
(crit.), trattato degli uc celli, che forma parte della storia natu rale. V.
Uccello. - Cotesto trattato abbraccia la descrizione della esterna e interna
struttura degli uc celli, delle varie loro spezie e gradazioni, de caratteri
che distinguono le une dalle altre. Comprende ancora le relazioni che la natura
ha stabilito tra essi, e le attitudini alle rispettive loro funzioni, come al
canto, al volo, alla riproduzione, alla formazione denidi, alla rapina, alla
aggressione, alla difesa, ec. L'immensità della natura in ciascuno desuoi regni
è tale, che il più grande lavoro del cultori dell'ornitologia consiste nel
classificarne gli ordini, le spezie, e le famiglie, o sia nel racco gliere le
innumerevoli varietà che se ne trovano sparse per le zone della terra. Son
corsi quasi tre secoli da Belon e da Gesner insino a Linneo, a Cuvier, a La
cépéde, e ad altri moderni naturalisti, ciascun de quali non cessa di proporre
nuove ampliazioni, e modificazioni a la vori de suoi predecessori. Chi ,
essendo straniero allo studio della storia natura le, voglia formare un giusto
concetto del l'ampiezza di questa e di ogni altra parte del regno animale
consulti l'opera di Cu vier, che porta per titolo, regno anima le distribuito
secondo il suo organismo. V. Organismo. ORPELLARE e ORPELLo (prat. e disc.), in
senso traslato, vale fingere e finzione, o falsa apparenza. V. Finzione. Il
Varchi nell'Ercolano. « in qualsi gnificato s'usa orpellare? Quando alcuno,
mediante la ciarla, e per pompa delle pa role vuol mostrare che quello che è or
pello, sia oro, cioè fare a credere ad al cuno le cose o picciole, o false, o
brutte, essere grandi vere e belle 2 (c. 68.). ORRENDo, ORRIBILE, ORRIDo (prat.
e dise.), quel che non si può vedere o udire senza grande ripugnanza. at – 268
– Quantunque queste voci possan dirsi ter minazioni d'un vocabolo che racchiude
uno stesso sentimento, pur tuttavolta conten gono una certa gradazione, che
distingue l'una dall'altra: Orrendo è quel che desta abbomina zione o spavento:
orribile è quel che de sta avversione: orrido è quel che nasce da bruttezza
corporea, e ispira ripugnanza e paura. Gli esempi giustificano la propo sta
gradazione: nel senso dell'abbomine vole, il Firenzuola nell'Asino disse: « tro
vandomi in compagnia di sceleratissimi ladroni, fra sì orrenda moltitudine, po
trò io dar luogo al pianto ? » Nel senso dell'avversione, Dante, diverse
lingue, orribili favelle, e nel senso della ripu gnanza e della paura il Caro,
qual or rido sannuto irto cinghiale? Ciascuno dei tre significati può essere
trasportato al mo rale, e ognun di essi può in un parlare meno esatto o nel
parlar poetico, essere scambiato coll'altro; tanto maggiormente, quanto son
tutti derivati da uno stesso nome, che è l'orrore. Orrendo è stato da poeti
usato ancora in senso di venerando, ma in questo caso de aversi come un nome
contratto da ono rando, non altrimenti che l'orrevole è un contratto di
onorevole. V. questa voce. ORRORE (prat.), sensazione di terrore o di
abominazione, da cui l'animo rifugge. La morte fa orrore, come suol dirsi, e la
virtù ha in orrore il vizio. - ORToGRAFIA (crit. e dise, ), regola di scrivere
correttamente. ORTOPEDIA (crit.), l'arte di correggere o di prevenire ne
fanciulli la difettuosità delle membra. OssEQUIo (prat.), esterna dimostrazione
di riverenza e di onore, che altrui si rende. OssERvANZA (prat.), esterna
dimostra zione di rispeto e di civili convenienze. E meno dell'ossequio.
OssERvAzroNE (spec. e crit.), investiga zione dell'intelletto, per accertarsi
dell'esi stenza, della realtà, e delle relazioni dei fatti esterni, e
degl'interni dell'animo. L'osservazione è il fondamento della sperienza: è
l'instrumento comune delle scienze fisiche e delle morali, comechè diversa sia
nelle une e nelle altre la na tura del fatti, circa i quali versa. Più
compendiosamente può dirsi, che l'osservazione è la vista esterna ed in terna
dell'anima. Da essa ha preso prin cipio ogni sapere umano, che si compone di
scienze di fatto, e di scienze specula tive. Nelle prime ci son maestri gli
anti chi, i quali hanno per rispetto a noi il vanto, non solamente della
priorità, ma anche della diligenza in tutto quello, cui bastar poteva il nudo
ministerio del sen si. Le cose da essi osservate, sopra tutto ne fatti della
natura dimostrano, che la curiosità e la vista del primi osservatori fu tanto
più diligente ed acuta, quanto più viva e maravigliosa era l'impressione che in
loro faceva lo spettacolo del mondo esteriore. Nelle scienze speculative poi
l'osserva zione è guidata dall'interno senso dell'ani mo, il quale serve di
subbietto a se me desimo per la grande prerogativa che gli è stata concessa,
quella cioè di vedere se stesso. Nelle speculative come nelle positive uno è il
cammino della ragione: conoscere i fatti particolari: da fatti par ticolari
ricavare i generali: da'fatti gene rali costanti ed uniformi spiegare le leggi
e il fine della natura. L'osservazione è nemica delle congetture e delle
ipotesi, mediante le quali l'uomo altro non fa, che mettere la sua debole e
picciola ragione in luogo di quella del Creatore. Ciò tanto è vero, quanto lo
spirito dell'esatto osservare è nato nella filosofia dall'abuso delle ipotesi,
sì che dalla falsa via si è conosciuta la vera. Delle congetture si vale la
ragione per trovare i legami tra fatti noti e gl'ignoti; e noi chiamiamo
congetture ogni antici pato giudizio fondato sopra apparenti indizi di verità.
Ma l'osservazione scientifica, che è quella di cui parliamo, non ammette altro
genere di congetture, se non quelle che nascono dalla naturale e rigorosa pro
gressione da particolari agli universali. E però l'osservazione ha per sua
compagna l'induzione. V. questa voce. Osso (spec.), parte solida, dura, e
insiememente frangibile del corpo uma no, cui serve di sostegno e di difesa per
rispetto alle sue parti molli. Le ossa tutte son vestite da una mem brana
tenace detta periostio, e tra esse quelle che son vote contengono nel loro
vacuo una sostanza molle, oleacea, che dicesi midollo. V. questa voce. Non
togliamo a notomisti la descrizione del numero e della varia conformazione
delle ossa; ma non può il filosofo con templatore della più bella opera della
na tura, che è la struttura del corpo umano, passare senza attenzione il
mirabile artifizio dell'articolazione, per mezzo della quale le ossa divengono
il principale instrumento del moto, e di tutte le altre funzioni del
l'organismo animale. V. Articolazione, Organismo. - Gli antichi, comechè
conoscessero men di noi la notomia, furono più di noi am miratori attoniti
della fabbrica del corpo umano, e conobbero l'importanza di questa sopra tutte
le altre sue parti: Quid dieam de ossibus, quae subjecto corpori mira biles
commissuras habent, et ad stabi litatem aptas, et ad artus finiendos ae
comodatas, et ad motum, et ad omnem corporis actionem (Cicer. de nat, deor.
lib. II. cap. 55). OSTENTAZIONE (prat.), pomposa mostra, o ambiziosa
dimostrazione delle proprie qualità. È il carattere discernitivo della vanità,
e della finta virtù. È bello il detto di So crate, rammentato da Cicerone, che
la più breve e retta via a conseguire la vera gloria, è il dimostrarsi tale
nefatti, qua le ognuno esser dovrebbe. Quod si qui, soggiugne il filosofo
latino, simulatione et inani ostentatione, etfielo non modo sermone, sed etiam
vultu stabilem se glo riam consequi posse rentur, vehemen ter errant. Vera
gloria radices agit, atque etiam propagatur: fieta omnia ce leriter, tanquam
flosculi, decidunt, nec simulatum potest quidquam esse diutur num (de off. lib.
II. cap. 12). V. Gloria, Simulazione. OsTINAZIONE (prat.), fermezza di pro
posito, che non cede ad alcuna contraria persuasione. - Prendesi per lo più in
mala parte, e vale pertinacia o fermezza invincibile in una prevenzione
d'animo, comechè tal volta si scontri col vero. In ciò l'ostina zione
differisce dalla pertinacia, la quale contiene la resistenza ad ogni
persuasione in contrario. V. Pertinacia. - 270 – Orrica (crit.), scienza della
visione e della luce. È una parte della Fisica particolare, e delle scienze
fisico-matematiche, la quale spiega i fenomeni della visione e della luce
diretta, reſlessa, o refratta, e ab braccia la catottrica, la diottrica, e la
prospettiva. V. queste voci. OTTIMo (spec. e prat.), superlativo che esprime il
maggior grado del bene e del buono. V. queste voci. OvAIA (spee. ), organo
interno delle femmine, posto nell'infimo ventre in luo ghi diversi, secondo il
diverso genere degli animali, in cui le uova si conser vano, si sviluppano, e
crescono, per passare poi nell'utero delle femmine vi vipare; e negli animali
ovipari, per uscire fuori del ventre. Ovaia nelle piante, è il luogo al quale
sono attaccate le semenze, e d'onde ri cevono nutrimento. Negli animali come
nelle piante, è il deposito del germe della riproduzione, o sia della
generazione. V. queste voci. OvIPARo (spec.), animale che conce pisce l'uovo, e
di poi lo partorisce per covarlo. Gli animali ovipari sono una spezie op posta
a vivipari, come l'uomo, i quadru pedi ed altri. La spezie ovipara, oltre gli
uccelli e la maggior parte de pesci, in chiude diverse spezie d'animali
terrestri, come i granchi, le grancevole, le lucer tole, le rane, le serpi, le
testuggini ed altre. Per lungo tempo si è creduto che la riproduzione degli
animali si operasse per questi due soli modi. Ma le osservazioni fatte sopra
molte spezie d'insetti, e spe zialmente sugl'infusori han renduto pro babile,
ea molti certa la generazione ete rogenea o spontanea , ammessa da Ari stotele,
e riprodotta da Buffon. V. Gene razione, Infusorio. Ovo. V. Uovo. Ozio (prat.),
cessazione dall'operare, cagionata da pigrizia, o da bisogno di riposo. -
Secondo che è suggerito dall'una o dal l'altra cagione, l'ozio prende il
carattere di pratica viziosa, onesta, o indifferente. Nel senso il più ovvio
significa pigri zia, o abito di fuggire le opere virtuose, contratto per amor
d'una vita molle e del tutto materiale; nel quale senso giusta mente è
considerato come la sorgente di ogni vizio, e spezialmente come compa gno della
lussuria. Ma i Latini diedero a questo vocabolo per suo significato proprio
quello del riposo dalle fatiche del corpo, e della quiete della mente, e
distinsero l'honestum dal segne otium. Cotesta di stinzione non può essere più
bellamente espressa, che come leggesi in Cicerone: tanquam in portum confugere,
non iner tiae, negue desidiae, sed otii moderati atque honesti (de clar. Orat.
c. 2. ). E però noi al pari de Latini chiamiamo onesti ozi i tempi, che
impieghiamo allo studio delle lettere, e alla contemplazione della natura,
vacui e scevri da ogni al tra molesta cura. OziosITÀ (prat. ), l'abito del
vivere senza veruna occupazione per solo amor di pigrizia. Colesto vocabolo è
opportuno per di stinguere l'onesto ozio dal riprensibile, - 271 -- CLASSI DE
VOCABOLI COMPRESI SOTTO LA LETTERA O, - ) a FILosoFIA CRITICA. piLosoFIA
sPECULATIVA. “ Obbietto e Orecchio e Obbiettivo o Orbe Oggetto - Orecchia
Oggettivo Orbita Occhio Organico Obbietto e Ordine Occidente Organismo Oggetto
Orecchia e º Occulto Oriente Obligazione Orecchio - Oceano Orittognosia
Occasionale Organico Onirocritica Orizzonte Occhio Organismo º Onta ornamento e
occidente Organo º Ontologia Ornato Occulto Oriente - Opinione Ornitologia '
Oceano ' Orizzonte . Ora Ortografia Odorato Ornamento e Orbe Ortopedia º Odore
Ornato º Orbita Osservazione ' Omeomeria e Osservazione Ordine Ottica Omiomeria
Osso - º Operazione Ottimo º voci oMToLogicBE. Opinione Ovaia ) Ora Oviparo
Obbiettivo o Occasionale Oggettivo Occulto FILOSOFIA DISCORSIVA. Obbiettivo o
Oggettivo Obbietto e Oggetto Obbiezione Occasione Occhio Omonimo Onomatopea
Opinione Opposizione Opposito e Opposto Opportunità e Opportuno Oratoria
Oratore Orazione Ordine Organo Ornamento e Ornato Orpellare e Orpello Orrendo,
Orribile, Orrido Ortografia TEOLOGIA NATURALE. Oltramondano Onnipotenza -
Ordine Organismo FILOSOFIA PRATICA. Obbedienza Obbedire Obligazione Obligo e
Obbligo Obblio e Obblivione Obbrobrio Occasionale Occasione Odioso Offensione e
Offesa Oficio, Ofizio e Ufizio Oltraggio Omissione e Ommissione Onestà Onesto
Onoranza Onore Operare Operazione Opportunità e Opportuno Organismo Orgoglio
Orpellare e Orpello Orrendo, Orribile, Orrido Orrore Ossequio Osservanza
Ostentazione Ostinazione Ottimo Ozio Oziosità GRECISMI SUPERFLUI. Ontosofia –
275 - I p Per (prat.), stato di concordia e di tranquillità, che nel
significato proprio del vocabolo si applica al corpo politico ed è contrapposto
di guerra e di discor dia; e in un senso traslato, si applica all'interno stato
dell'animo, e alla calma delle passioni. Lasciando stare la disamina di tutto
quel che appartiene al corpo politico, come estraneo al nostro argomento,
possiamo trasportarci col pensiero alla umana con dizione prima della
costituzione della civil società, per approfondare la quistione, se lo stato di
guerra o di pace sia il conna turale all'uomo ; vale a dire, se abbia con se
portato nella società il funesto ger me della guerra, o se debba questo ripe
tersi dal disordine delle passioni, e dalle imperfezioni dello stesso corpo
sociale. L'opinione, che lo stato della guerra sia connaturale all'uomo, ha
avuto per suo antesignano Hobbes, autore di molti paradossi politici e morali,
che tutti ri cavò dall'avere considerato l'uomo dal suo peggior lato, cioè
dell'abuso che ha fat to, o può fare delle forze fisiche ed in tellettuali. Ora
per iscoprire il vizio di tal ragionamento, dagli effetti che produce l'uno e
l'altro stato, quello cioè di con cordia o di guerra, fa uopo giudicare qual
sia il più corrispondente ed analogo all'or dine della natura, e all'interesse
degl'in dividui, delle famiglie e delle comunità. Imperocchè non possiamo
chiamar naturale quel che distrugge i vincoli stabiliti dalla natura, o quel
che tende alla distruzione degl'individui, nè dare un contrario nome a ciò che
gli conserva e li fa prosperare. La guerra mette in effervescenza ed in tumulto
le passioni, accende l'ira, l'odio, la vendetta, il desiderio delle uccisioni e
della distruzione delle cose più utili all'uo mo, sol perchè appartengono
all'inimico; spopola le abitazioni, fa tacere ogni legge conservatrice
dell'ordine e della giustizia; sul soglio di questa intronizza la licenza ed il
cieco imperio della forza materiale; e per l'abito di tali vizi non solamente
tien lontani gli uomini dalla pratica dei doveri morali, ma gli rende ancora
sordi alle voci della religione, la quale anche si nasconde durante
l'interregno delle passio ni. L'abito della fierezza e l'ambizione del la
gloria militare tolgono all'animo l'amor degli studi liberali, insiem coll'agio
ne cessario per coltivargli; corrompono l'opi nione del merito e della virtù;
danno al saper vincere e devastare la terra il pri mato sopra ogni altra opera
dell'ingegno; ed elevano al grado di eroica virtù il co raggio e la fortuna
delle armi. La pace per contrario sviluppa le natu rali forze delle nazioni, la
popolazione, l'industria ed il commercio; figlia dell'or dine e della
giustizia, ama ed anima tutte le virtù civili; spande l'agiatezza e l'ab
bondanza in tutte le classi del corpo so ciale; somministra mezzi alla
beneficenza; ripete ogni suo bene dalla luce della reli gione e dall'esercizio
de mutui doveri de gli uomini; favorisce gli studi liberali ed umani; e dà
all'intelletto continui e nuo vi incitamenti per estendere le utili cono
scenze. La pace in somma è lo stato di progresso, nel quale solamente possono
le forze naturali dell'uomo spiegare la loro 55 - 266 – energia, e in cui
veggono le nazioni com piersi tutto intero il corso della civiltà, e di quella
relativa perfezione cui possono aspirare. Di questa verità convengono an che i
popoli guerrieri, allorchè dopo lun ghe calamità di guerra, gustano i frutti e
i benefizi della pace: Bloc paces habuere bonae ventique secundi. Quale de due
stati, l'uno conservatore, l'altro distruttore della spezie umana e del
l'ordine non men naturale che civile, di rassi il connaturale all'uomo? Ciò non
ostante la guerra è il flagello inevitabile della umanità, e de popoli in
civiliti, più che de barbari, perchè la ci viltà stessa, le scienze e le arti
intendono a moltiplicare le armi e i mezzi distruttori, onde renderlo più
micidiale e spaventevole, D onde un pendio sì universale alla di struzione e
alle stragi? Ritorcendo una tal dimanda noi risponderemmo, d'onde l'ira,
l'odio, la vendetta, il furto, la rapina e le uccisioni tra gl'individui? Una è
la risposta ad ambe le quistioni, cioè : l'abuso delle passioni ed il retaggio
del male, comune agli uomini e alle nazioni ! La guerra è una infermità, o uno
stato con vulsivo del corpo politico, prodotto dal l'esaltamento delle stesse
passioni, che strascinano gl'individui alla scambievole loro distruzione : è un
furor cieco, che dacapi delle nazioni si comunica agli eser citi, e a popoli
stessi: è un male inerente alla costituzione del corpo politico, il qua le da
qualunque ragione provenga, trova sempre il suo principio in una di quelle
medesime passioni, di cui la legge con danna negl'individui gli eccessi. La dif
ferenza tra gl'individui e i corpi politici sta in questo, che gl'individui
hanno nel la publica potestà una legge parlante, che vieta i trascorsi e li
punisce; laddove le na zioni non obbediscono ad altra voce, che a quella del
proprio interesse; nè temono altra pena fuori della fortuna e dell'even to.
L'interesse non vuol dire altro che la propria utilità, di cui il sentimento è
più potente ne'corpi morali, che negl'in dividui, tra perchè non trova limiti
in al cuna legge scritta, e perchè non è com battuta dalla coscienza, facoltà
di cui è privo ogni Essere collettizio. Ciò non o stante i capi delle nazioni,
e quelli che le muovono a seconda delle proprie pas sioni, non vogliono
apparire ingiusti; e d'altra parte, come primi autori del mali e delle
desolazioni delle guerre, non pos sono sottrarsi alla voce della loro perso
nale coscienza, nè all'invisibile giudizio del Padre degli uomini e del popoli.
Di qua i manifesti e le dichiarazioni, colle quali chiamasi in testimonianza
della giu stizia d'ogni guerra l'opinione delle altre nazioni, ed invocasi
l'assistenza ed il fa vor dell'Onnipotente. Ma s'invoca e non si consulta
l'opinione delle nazioni, la quale non pertanto è ligia del proprio in teresse,
nè potrebb'essere giudice impar ziale della giustizia delle guerre. E d'al tra
parte, il giudizio divino lascia libero il corso alle azioni umane, persino a
quelle colle quali si profana il venerando nome della Divinità, il che avviene
sempre che s'invoca come fautrice d'ogn'ingiusta ag gressione, e del mali che
ne derivano. Del resto la guerra può essere giusta per l'aggressore ; siccome
l'è nel caso d'una ingiusta aggressione a rispetto del popolo assalito, il
quale per la neces sità della difesa è obligato di resistere all'inimico, e di
respignerlo, o di pre venirlo con mezzi tanto vigorosi, quanto - 267 - quelli,
col quali è stato o può essere at taccato. Lasciamo a publicisti il determi
nare i caratteri così dell'ingiusta aggres sione, come della giusta difesa,
purchè il facciano co puri principi della legge naturale, e non colla
giurisprudenza in ternazionale, conforme il più delle volte all'interesse delle
più potenti nazioni. Cer tamente non istabiliranno essi i limiti del la giusta
difesa là dove furon collocati dal Montesquieu, il quale riconobbe come
necessaria difesa la guerra dichiarata ad un popolo, che potrebbe per la
prosperità d'una lunga pace pervenire a tale stato di potenza che gli
suggerisse un giorno il pensiero di distruggere il suo vicino. Co testo popolo
limitrofo, che teme sol come possibile il suo futuro pericolo, può, se condo il
cennato autore, romper la pace, esporre il proprio paese a tutti i mali del la
guerra, e correre alla distruzione del l'altro, che non ha manifestato alcuna
voglia d'ingrandirsi, nè altro ostile desi derio: l'aggressore, in luogo di
profit tare anch'esso del benefizi della pace, e di gareggiare col vicino in prosperità
e potenza, può distruggerlo pel solo timo re, che potrebbe quello un giorno abu
sare della sua potenza. Cotesto principio, trasportato nella privata morale
degl'in dividui, di quali mostruose conseguenze non sarebbe capace? Tali sono
molte delle conclusioni ricevute, non nel diritto, ma nella giurisprudenza
internazionale, di cui il probabilismo è tanto più ampio, quanto più largo è il
campo della forza, per ri spetto a quello della ragione. (Esprit des loia lib.
X. cap. 2). - Checchessia della giustizia o della in giustizia d'una guerra,
certamente è que sta una malattia inevitabile del corpo po litico, perchè se
può una nazione evitar la, servando verso gli altri popoli tutti i doveri della
reciprocazione e della egua glianza, non potrebbe certamente schi varla, se un
invidioso aggressore venisse a turbarlo dal pacifico corso della sua pro
sperità. Di tal necessità convennero le na zioni, allorchè sotto la fede di
riti reli giosi, per rendere men disastrose le con seguenze della guerra, la
circondarono di forme civili, e dall'esercizio stesso del la forza e della
violenza fecero nascere un diritto, che provvedesse ad un tempo alla difesa
degli assaliti, e tenesse aperte le vie al pentimento e alla riparazione delle
offese. Tal fu lo scopo del diritto della guerra, in quo et suscipiendo et
gerendo et deponendo jus ut plurimum valet et fides. V. Diritto. Ora dalla
resistenza più che dall'aggres sione può dirsi nata l'arte militare, che ha
sopra d'ogni altra aguzzato l'ingegno di tutte le nazioni - e ha a se chiamato
come sue ausiliarie le scienze e le arti tut te, le matematiche, le fisiche, le
fisico matematiche, la chimica, la geografia, la geodesia, e per sino
l'erudizione e la storia, acciocchè l'esperienza venisse an cora in soccorso
della parte teoretica delle sue dottrine. L'associazione delle cennate scienze,
e delle arti che ne dipendono, le ha somministrato, e le somministra tutto dì,
un largo campo di nuove scoverte ed invenzioni, sì che in nessun'altra opera
dell'intelletto l'uomo apparisce tanto gran de, quanto nell'arte di sconvolgere
l'or dine della natura e di distruggere se stes so. Al quale apparato di
grandezza ag giugnendo ancora i prestigi e le illusioni della gloria militare,
riesce facile spie gare, perchè sia quell'arte risguardata come il sostegno
degl'imperi e della vita publica delle nazioni, e venga conside º - 276 - rata
come la più mobile di tutte le pro fessioni, e la più degna di attirare a se i
grandi e straordinari ingegni. Dall'essere l'arte della guerra venuta in sì alto
grado di considerazione, la pace, per una necessaria ripercussione, è de caduta
presso molti popoli dal suo natu ral pregio, ed è accusata di essere la fau
trice della inerzia e della mollezza, che degrada le nazioni, e le dispone a
divenir preda depotenti e devicini; giudizio che la sola ferocia de popoli
barbari, o l'en tusiasmo degli uomini ambiziosi può so stenere contra
l'evidenza della verità, e contra l'interesse generale della umanità. Ma niuno
osa lodare altrimenti la guer ra, se non come un mezzo per conse guire la pace:
suscipienda bella , ut sine iniuria in pace vivatur: questo è il fine e il ben
principale cui tutti desi derano pervenire, ed in grazia del quale si
sopportano gli estremi mali della guer ra, verità che gli stessi grandi capitani
non hanno osato negare. Narrasi in fatti di Gustavo Adolfo, che a coloro i
quali lusingarlo volevano, dicendo essere il suo coraggio uno straordinario
dono della di vina onnipotenza, egli rispondesse, dite piuttosto della sua ira,
giacchè la guerra come rimedio, è il più insopportabile di tutti i vostri mali.
Adunque se è un male, necessario a conseguire un bene, augu riamo alla umanità
il più lungo possedi mento di tal bene, e senza scambiare le definizioni del
male e del bene, risguar diamo come perfetta nella vita publica quella nazione,
che somigliasse nella giu stizia e nella dignità ad un individuo, il quale
rispetta i diritti altrui, e fa rispet tare i suoi. ºalla somiglianza della
tranquillità e dell'equilibrio delle passioni è tolto il dop pio significato,
che nel linguaggio della pratica sapienza suole darsi al vocabolo pace, cioè di
concordia tra gl'individui, o di perfetta calma degli affetti, accompa gnata
dalla interna soddisfazione della pro pria coscienza. V. Coscienza, Passione,
PADRE. V. Paternità. PALATo (spee. ), parte superiore in terna della bocca,
concava ed arcata , che le serve di volta, coperta d'una tu nica glandolosa, e
nel fondo della quale v' ha una grande apertura che si divide in due vie
corrispondenti alle due narici. È la sede del sapore. V. questa voce. PALESE
(disc.), quel che si fa noto col discorso. Forma una delle spezie del
manifesto. V. questa voce. PALINGENESIA (spec. e ontol.), rinasci mento o
rinnovazione del mondo, che ta luni filosofi immaginarono dovere avve nire dopo
l'incendio e la distruzione del l'attuale. Altri, come il Bonnet, han chiamato
con questo nome il risorgimento e il pas saggio che gli Esseri animati faranno
ad uno stato più perfetto del presente. V. Es sere, Mondo. - PALPEBRA (spee.),
membrana cartila ginosa e muscolare, la qual copre e di fende l'occhio. V.
questa voce. PANCIA (spec.), parte anteriore del cor po dalla bocca dello
stomaco al pettignone. E il sacco, nel quale sono rinchiusi gl'intestini, e in
cui la natura ha collocato il laboratorio della digestione e nutrizione. – 277
– PANCREAs (spec.), glandula conglome rata posta sotto il fondo dello stomaco,
dalla parte posteriore, destinata dalla na tura a separare dal sangue un
particolare umore, chiamato succo pancreatico, il quale, secondo la opinione
del fisiologi en tra nel duodeno per distemprare il chilo, e produrre la sua
assimilazione. V. Chilo. PANTEISMo (spec. e ontol.), l'empia dot trina di
Spinoza, il quale pensò e scrisse, la Divinità non essere altro se non l'unica
sostanza di tutte le cose, cioè la materia, dotata di due attributi,
l'estensione ed il pensiero. Non son da confondere con questa dot trina le
altre due, delle quali una ripo neva la Divinità nell'anima del mondo, e
l'altra diceva essere la Divinità uno spi rito universale sparso per lo cielo e
per la terra, di cui parti sono le anime umane. Questa ultima è stata da taluni
moderni denominata panteismo trascendentale, e per verità un tal epiteto le
conviene nel senso, che è negato alla mente il conce pire, l'identità, e gli
attributi di colesta aerea divinità. V. Trascendentale, e Tra scendente.
Quantunque le tre cennate dottrine sie no tra loro affini, perchè tutte tolgono
la personalità a Dio, e ne fanno, non un Essere maggior di tutti gli altri e
autor delle cose create, ma una forza animatrice della materia; pur tuttavolta
differiscono così nel concetto del filosofi che le foggia rono, come nelle
conseguenze che se ne derivavano. Potremmo ancora dire, che ciascuna di esse
diede nascimento ad al tre scuole o sette secondarie, più o meno assurde, delle
quali talune toglievano af fatto di mezzo la Provvidenza, altre la sciavano la
Divinità come inerte spetta trice d'un ordine stabilito dal fato, ed al tre in
fine ammettendo il mondo anima to, ne facevano un Essere secondario cui
soprastava il supremo Autor dell'universo. Ma noi non tessiamo la storia delle
opi nioni filosofiche, e notiamo soltanto le differenze caratteristiche de tre
diversi si stemi teologici degli antichi, i quali deb bon essere risguardati
come conseguenze della ipotesi della eternità della materia, e degli altri
deliri della loro cosmogonia. V. Cosmogonia, Materia. Del resto non è mancato
tra dotti chi con plausibili argomenti ha dimostrato, non essere stato Spinoza
il primo a divi nizzare la materia, e a riporre in essa la sede dello spirito e
della intelligenza; ed aver egli avuto per suoi precursori Ari stotele ed altri
(V. Buddeo analecta hist. philosoph. de spinozismo ante Spinozam). Certamente
ognuno de tre sistemi contiene un perfetto ateismo, perchè la Divinità, o è
conſusa colla materia, o è sparsa per l'aria e pe corpi, o è divisa tra tutti
gli Esseri animati. Come trovarla in quella sede, che assegnolle Lucrezio ? Est
ne Dei sedes nisi terra et pontus et aer Et coelum et virtus ? Superos quid quaerimus
ultra ? Juppiter est quodeunque vides, quocumque moveri. Cicerone attribuì a
Pitagora la dottrina della divinità sparsa per la natura, e non la credette
degna di altra confutazione, che della derisione: Censuit animum esse per
naturam rerum omnem intentum et commeantem, ea quo animi nostri cor perentur,
non vidit distractione huma norum animorum discerpi ae lacerari deum, et cum
miseri animi essent, quod plerisque contingeret, tum dei partem esse miseram.
Cur autem quidquam ignoraret animus hominis, si esset deus? - 270 - Quomodo
porro deus isle, si nihil esset misi animus, aut infiaus aut inſusus es set in
mundo ? Che queste e simili opinioni fossero nate nel regno della
immaginazione, e nell'e- poca della teologia poetica non può recare maraviglia,
perchè di quante altre pue rili favole non fu allora capace l'umana mente? Ma
che siensi riprodotte dopo re pristinato l'imperio della ragione, e dopo la
luce sparsa dalla dottrina della crea zione, non può altrimenti spiegarsi, se
non per quello strano assortimento di qua lità intellettuali, le quali
producono mo stri dello spirito, non dissimili da quelli della materia. In tale
numero vanno com presi Spinoza e i suoi precursori o seguaci (V. il vol. I. a
pag. 245 e seg.). PARAnoLA (disc. e prat.), narrazione allegorica, ricavata per
similitudine da altra cosa apparente o reale in natura, o da alcun fatto
storico, per cavarne una moralità, o sia una verità istruttiva. L'uso delle
parabole è stato comune ai popoli orientali, e sopratutto agli antichi, e tra questi
agli egiziani, a quali piacque al padre Chircherio attribuirne l'invenzio ne.
Della utilità loro ne somministrano un chiaro esempio i fanciulli, co quali ci
serviamo delle parabole, per insinuare loro le prime verità, vestite d'una
forma sensibile, adattata a primi albori della loro ragione. Paragoniamo a
fanciulli i primi popoli, i quali cominciarono a coltivare la sapienza morale,
e dovevano colle si militudini prese dalle cose sensibili, es sere guidati alla
comprensione delle verità astratte e delle cose invisibili: nello stato rude ed
incolto delle nazioni trovasi la vera ragione del gusto degli antichi per le
parabole. L'uso della favola, che for mò la prima sapienza del paganesimo,
contribuì ancora a diffondere quello delle parabole, le quali van comprese nel
ge nere della favola allegorica. V. Favola. I geometri danno a questo vocabolo
un significato affatto speciale, perchè desi gnano per esso la figura, che
nasce dal la sezione d'un cono, quando è tagliato da un piano parallelo ad uno
de suoi lati. PARADosso (disc.), proposizione nuova, vera o verisimile, la
quale per essere fuori della comune opinione, desta maraviglia. V. Opinione. e
È vocabolo dagl'Italiani usato tanto nel sostantivo, quanto nell'addiettivo. I
geometri chiamano paradossi le propo sizioni che appariscono incredibili a
quelli i quali ignorano i teoremi della scienza. Tali sono molte delle
proposizioni intorno agl'incommensurabili, come quella, che la diagonale d'un
quadrato è incommen surabile con uno de suoi lati ; o come l'altra
dell'asintoto, o sia d'una linea che continuamente si approssima ad un'altra, e
mai con essa non si scontra. Di tali proposizioni molte ne somministra il cal
colo infinitesimale. - , L'uso comune ha dato a questo voca bolo il significato
d'una proposizione spe ciosa, ma falsa; il che è contrario alla sua etimologia,
e al senso datogli daGreci e da Latini. IIapaòoºoy non altro dice, che praeter
opinionem. PARAFRASARE e PARAFRASI (disc.), spo sizione o spiegazione del testo
d'un autore in termini più ampi di quelli, che l'au tore stesso ha adoperato,
fatta col fine di farne meglio intendere il senso, o di supplire alle cose, che
si desidera ch'egli avesse detto. – 271 – Il parafrasare è diverso
dall'interpre tare, che si limita alla fedele sposizione del concetti
dell'autore. PARAFRAste (disc.), chi professa l'arte del parafrasare. a
A'parafrasti degli antichi classici auto ri, dobbiamo la cognizione de costumi
ed usanze loro. Per loro opera siam perve nuti ad intendere il senso di molti
luo ghi, che senza tali conoscenze sarebbero stati oscuri, e inintelligibili,
ed abbiamo acquistato notizie, le quali formano il te soro della erudizione. V.
questa voce. - PARAGONE. V. Comparazione. PARALAsse (spec.), angolo al centro
di un astro tra il centro della terra e il luogo dell'osservatore. La paralasse
ha molti usi in astrono mia, e si applica principalmente a mi surare le
distanze del corpi celesti, pren dendo per unità il raggio della terra. In
questo caso si adopera la paralasse oriz zontale, che è l'angolo dell'astro tra
il centro della terra e una tangente alla sua superficie. Conosciuta poi la
distanza e il diametro dell'astro, o sia l'angolo sotto il quale è veduto, se
ne determina l'effet tiva grandezza, anche in raggi terrestri. La paralasse qui
sopra indicata dicesi diurna, quando si vuol distinguere dalla paralasse annua,
che è l'angolo all'astro tra il centro della terra ed il centro del l'orbita.
L'annua si applica specialmente alle stelle fisse, delle quali è tale la di
stanza dalla terra, che il valore di quel l'angolo non è maggiore di qualche se
condo, o di qualche frazione di secondo. V. Orbita. - La paralasse delle stelle
fisse, per l'estrema sua picciolezza, non fu mai ben determinata dagli
astronomi; ma il chia rissimo astronomo di Konisberga Bessel misurò (pochi anni
sono) con nuovo me todo, e con grande accuratezza e intelli genza la paralasse
d'una piccola stella della costellazione del cigno, detta la ses santunesima ,
e trovolla di un terzo di secondo. Cotesto splendido calcolo colloca quella stella
ad una distanza seicentomila volte maggiore della distanza della terra dal
sole, e tale che la stessa luce col l'immensa sua velocità di 17o,ooo mi glia
in un secondo di tempo, dovrebbe impiegare non meno di dieci anni per giugnere
da quell'astro insino a noi! Più si progredisce in questa scienza, e più si
resta compreso di meraviglia per l'im mensità dell'universo. V. questa voce.
PARALogisMo (disc. ), errore di razio cinio, nel quale si cade per diverse vie,
o supponendo vera una proposizione che tal non è , o non dimostrando quel che
debb'essere dimostrato, o cavando da falsi principi una conseguenza ancor essa
falsa. Differisce dal sofismo che indica falso ragionamento nato da sottilità,
o da vo glia di torcere il ragionamento dal vero al falso. Non pertanto i
logici di Porto reale hanno confuso in una stessa classe i sofismi, e i
paralogismi. V. Sofisma. PARENCHIMA (spec.), l'interna sostanza delle viscere.
Lo stesso nome danno i botanici a quel la parte interiore delle piante, per la
quale suppongono, che si distribuisca il succo. PARLARE (spec. e disc. ), la
facoltà , data all'uomo, di esprimere con suoni ar ticolati il pensiero. – 280
– Così genericamente considerato, equi vale a linguaggio. V. questa voce.
Nell'arte discorsiva, il parlare equivale a orazione, o a quel discorso che è
for mato secondo le regole della gramatica, la quale suole dividerlo in otto
parti: nome, pronome, verbo, participio, avverbio - congiunzione, preposizione,
ed inſerie zione. V. queste voci. PanoLA (spee. e dise.), voce articolata,
significativa del concetti dell'uomo. È il dono divino dato all'uomo per co
municare agli altri i concetti dell'animo suo, per formargli, e per potergli
egli stesso ritenere. - La collezione ordinata delle parole oc correnti ad
esprimere tutti gli atti del pen: siero o dell'azione, e a distinguergli nei
vari tempi loro, è quel che dicesi lin guaggio. V. questa voce. PARoNIMo
(disc.), nome derivato da altro, come umano da uomo, e mortale da morte, I
latini chiamarono coniugata questa spe zie di nomi. E i grammatici ne han fatto
uno de luoghi dell'argomentare. V. Luogo. PARTE (spee. e dise. ), quantità
tolta dall'intero o tutto, di cui è sempre mi nore. V. Intero, Tutto. È voce
propria delle cose divisibili, e composte, e però conviene esclusivamente alla
materia. Dall'idea della parte e del tutto nascono molte verità evidenti, le
quali sono state da molti prese come i primi tipi del pen siero, detti
comunemente assiomi. Se una parte torni ad aggiugnersi a quella, dal la quale è
stata tolta si ricompone il tut to, e però le parti prese insieme sono eguali
al tutto, e il tutto è maggiore della parte. Inoltre l'aggregato delle parti
con siderate come divise o come divisibili ge nera la nozione del numero ; e
questo considerato come un tutto, ha le sue par. ti, ciascuna delle quali presa
tante volte, quante occorrono, diviene eguale all'in iero; ond'è che applicando
al numero le idee stesse del tutto e della parte, la mente concepisce
chiaramente, che il numero minore è parte del maggiore; che le parti del numero
divengono i segni delle parti materiali delle cose divisibili ; che la di
visione del numero seguendo quella delle cose materiali, cui è applicata, può
es sere portata insino a quell'ultimo segno, cui giugne la portata desensi; e
che per conseguente il primo elemento del numero rappresenta l'ultima delle
parti della ma teria divisibile. Così la mente acquista la nozione dell'unità,
che in realtà è la stes sa della parte. Tanto è la stessa, quanto potrebbe
l'unità esser definita come l'idea astratta della parte elementare d'ogni cor
po. V. Materia, Mumero, Unità. Se le cennate idee possano essere con siderate
come i tipi delle umane conoscen ze; e se debbansi chiamare prime verità,
assiomi, o verità identiche, dipende dal determinare il significato, che vuolsi
dare a ciascuna delle divisate denominazioni. V. queste voci. L'idea della
parte può esser applicata tanto all'attuale, quanto al possibile, colla
differenza che la quantità della parte at tuale è già determinata, e la
possibile può ricevere quella maggiore o minore deter minazione di cui è capace
ogni massa di materia divisibile. Da ciò segue che la quantità continua è
composta di parti pos sibili, e non attuali. V. Quantità. I geometri chiamano
aliquota quella parte finita di un dato tutto, che ripe tuta quanto occorre,
riproduce esatta mente l'intero. V'ha delle quantità, le quali non possono
essere riprodotte per lo ripetimento della unità convenuta, nè d'una sua parte
comunque picciola: di consi esse incommensurabili, perchè non hanno alcuna
misura comune colla uni tà. Ma se la divisione si supponga estesa all'infinito,
una parte infinitamente pic ciola sarà sempre aliquota di qualunque tut to.
Laonde la distinzione tra quantità com mensurabile e incommensurabile, è rela
tiva alla possibilità di assegnare in atto una parte aliquota, comunque piccola
di essa. Parti dell'orazione son dette gli elementi necessari alla formazione
del discorso, o sieno i diversi nomi particolari e generali i quali servono ad
una compiuta manife stazione del pensiero, secondo le regole date dall'arte di
ben parlare, PARTICELLA (dise. ), parte elementare della parola, la quale o
serve di legatura al discorso, o unita ad altro vocabolo, esprime un'idea
accrescitiva, o diminutiva, del significato del termine, o al mede simo
accessoria. Circa l'uso delle particelle in ciascuna lingua, vedi i grammatici.
PARTICIPIo (disc.), modo impersonale del verbo, il qual esprime l'azione o la
passione del verbo stesso, e prende la for ma d'un nome di qualità. V. Verbo.
Come nome di qualità o addiettivo, è declinabile per numeri e casi
coll'articolo, o col segnacaso, Le regole di tali decli nazioni non sono le
stesse per tutte le lin gue, V. i grammatici. PARTIcoLARE (spee, e dise.), quel
che appartiene all'individuo, o alla spezie, e non al genere. V. queste voci. È
un contrapposto del comune, del ge nerale e dell'universale, comunque queste
tre voci abbiano un significato non iden tico tra loro. V, queste voci. È
diverso dal singolare, perchè il par ticolare esprime una relazione al tutto,
da cui è separato per astrazione; laddove il singolare è considerato come una
cosa in se stessa, senza relazione ad altra. V. Singolare. Gli scolastici
definivano il particolare quel che sottostà all'universale, ma co testa
definizione non conveniva ad alcuno de due vocaboli, ed esprimeva soltanto una
relazione tra loro, e quella stessa che passa tra 'l proprio e il comune. V.
que ste voci, PARTIcoLARITÀ (spec. e prat), l'astratto del particolare,
contrario di generalità e d'universalità. V. queste voci. PARTizIoNE (dise. ),
ordinata distribu zione degli atti del pensiero, o delle va rie parti d'un
discorso, secondo le quali l'autore si prefigge di esaminare o di trattare il
suo argomento. Le partizioni differiscono dalle divisioni, perchè questo vocabolo
fu dagli antichi logici destinato ad esprimere l'enumera zione delle spezie,
che sotto ciascun ge nere si comprendono. V. Divisione. Ne trattati logici
partizioni chiamansi le analisi ordinate, per le quali si sepa rano le idee
semplici dalle complesse, o le particolari dalle universali, per cono scerne le
relazioni. V. queste voci. L'uso delle partizioni è proprio della logica
artifiziale, la quale chiamò an che partizione l'ordinamento de vari ob bietti
del pensiero in date classi, che sono appunto le categorie. V. questa voce. 56
- 282 - PARzIALE (diso. ), nel linguaggio di dascalico, è quel che fa parte
d'un tut to; sebbene nel comune uso di parlare significhi colui che parteggia.
PAssATo (spee.), la parte della durata, che ci ricorda la memoria, o che la suc
cessione stessa de nostri pensieri ci dimo stra essere trascorsa prima del
presente. Dalla nozione del passato e del presente formiamo quella del futuro e
del tempo. V. queste voci. PAssIoNE (spee. e prat.), effetto del l'azione nel
subbietto, in cui si opera il cangiamento. È termine correlativo del l'azione.
V. Azione, Cangiamento. Nel senso intellettuale, Cartesio chiamò passione ogni
percezione che proviene dai sensi, o sia da un obbietto da questi presentato,
contrapponendolo all'azione dell'anima, che egli ripose nel pensiero. V.
Pensiero, Percezione. Nel senso morale, è ogni veemente ap petito o affetto, il
quale agita l'anima, e spigne la volontà a soddisfarlo. Sicco me l'agitazione
veemente giugne insino al segno d'impedirle l'uso della libertà, e rende quasi
passiva l'anima; così è pia ciuto indicare cotesto stato col nome di passione.
V. Affetto, Appetito. I moralisti sono stati soliti di scam biare l'affetto
colla passione, al che ha dato origine il significato del vocabolo la tino affectus.
Ma giova distinguere l'uno dall'altro, tra perchè il linguaggio scien tifico
abborrisce i sinonimi, come gene ratori di confuse nozioni, e perchè v'ha in
realtà una differenza, che distingue i nomi di simile significato. La
differenza sta nel grado della forza, colla quale le passioni operano, o sia
nel maggiore o minore turbamento dell'anima; ond'è che tutti gli affetti, buoni
o mali che sieno, possono divenire passioni. Così considerate le passioni, son
principi d'azione, tanto più forti, quanto maggiore è l'energia colla quale
spingono la potenza all'azione. V. Principio. - Le diverse opinioni manifestate
da filo sofi intorno alle passioni, all'uso di esse, e all'influenza che
esercitano neportamenti della vita, sono nate dal diverso aspet to, nel quale
essi le hanno considerate. Gli stoici le risguardarono come utili prin cipi di
azione, perchè subordinati all'im pero della ragione. I peripatetici per con
trario le tennero come la nebbia che oscura la ragione, e per conseguente come
le naturali nemiche sue; sì che, a loro giu dizio, la sapienza e la virtù altro
non è, che l'arte di dominarle. Entrambi espri mevano un concetto vero, ma gli
uni l'esaminavano nella origine loro, e gli altri in una parte degli effetti
che producono. Cartesio considerò la passione come una commozione dell'anima, e
ne diede una definizione affatto fisiologica, avendola derivata dalle
impressioni degli spiriti ani mali. Lungi da noi le spiegazioni attinte dalle
ignote relazioni del fisico col mora le, e dall'analogia del fenomeni fisici l
Ora le considerazioni utili, che possono esser fatte intorno a cotesto
subbietto, ver sano circa tre punti: I. Circa l'uso delle passioni, nel che si
contiene il fine del la matura: II. Circa l'analisi degli effetti loro, o sia
circa il modo come elle ope rino in noi: III. Circa le categoriche par tizioni
che i filosofi ne han fatto, per me glio conoscerle e trattarle. I. La natura
ha dato alla parte sensi tiva dell'uomo una serie graduale d'im pulsioni,
subordinate all'impero della vo – 285 - lontà e della ragione. Le passioni, con
siderate come la stessa forza impulsiva della natura, richiamano l'attenzione
verso gli obbietti da quali son mosse, danno alla intelligenza l'acume e la
penetrazio ne, di cui manca nello stato della indif. ferenza, imprimono moto
alla vita, in dirizzano ed animano l'immaginazione, ispirano il gusto ed il
genio per le scienze e per le arti, scoprono il bello ed il su blime,
risvegliano la virtù, eccitano il coraggio, generano l'eroismo, e solle vano la
natura umana insino all'altezza degli spiriti d'un ordine superiore. L'in
fluenza loro si spande per una serie di gradi, che corre dalle più tenui insino
alle più nobili funzioni della vita, sì che questa senza di quelle sarebbe
inerte e serva de soli appetiti animali. D'altra parte, le passioni sono un tor
rente, che ci mena alla sommità del bene, come all'eccesso del male. Ma
l'impeto loro, anche quando è indirizzato al male, non è invincibile. La
coscienza le segue a ciascun passo; la riflessione le arresta; il pentimento le
disarma. La sperienza di mostra, che le grandi passioni indirizzate al bene,
sono invincibili, e vanno insino a quel grado di perfezione e di altezza, che
ogni uomo risguarda come superiore alla propria natura; laddove nelle grandi
sceleratezze, gli uomini non mai sono coe renti a loro stessi, nè mai
inconsapevoli della propria e dell'altrui disapprovazione. La stessa
contraddizione dell'operar loro svela ad ogni passo gl' interni combatti menti
della coscienza, e gl'incerti moti della volontà. Nulla più di questo para gone
dimostra, che lo scopo della natura è scolpito nel retto uso delle passioni, e
che i confini del retto stanno nel comune senso della ragione. V. Ragione,
Senso, II. Men chiaramente legger possiamo nell'andamento delle passioni, e
seguirle in quel moto composto che esse acquistano, a guisa di gravi, che
cadendo discendo no. Acconciamente osservò Locke, che la forza di una passione
non mai opera da se sola, senza svegliarne un'altra, o senza essere da un'altra
concitata, sì che è dif ficile discernere il principio e lo scopo che muovono
l'azione, senza dire che spesse volte l'uno e l'altro sono ignoti all'agente
stesso. Il motivo che rende difficile una tale investigazione è, che le
passioni so glion prendere gl'inizi loro da confuse nozioni del bene, che noi
stessi ci for miamo; d'onde segue che il volere svol gere gli elementi della
forza delle passio ni, sarebbe lo stesso che voler trovare le idee semplici
d'una nozione confusa. Vale dunque per le operazioni della parte sen sitiva di
noi, quel ch'è stato osservato per l'intellettiva, cioè che sovente cer chiamo
di ridurre a semplice il complesso della natura. V. queste voci. lII. Molte
partizioni sono state dagli an tichi e da moderni proposte, per ordinare sotto
date categorie le diverse spezie delle passioni. Cartesio credette poter
determi nare il numero delle passioni primitive o semplici, dal misto delle
quali, a suo giudizio, nascono le altre. Ma quali sono le primitive, se ogni
passione ha gl'inizi suoi negli affetti e negli appetiti naturali? Conviene
dunque derivare la partizione delle passioni non solamente da ciò ch'è comune
agli affetti e agli appetiti, ma anche da ciò che da quelli le distingue. Le
distingue lo stato diverso dell'anima, o sia la diversa modificazione ch'ella
ri ceve dalle impulsioni loro. Seguendo un tal principio, gli stoici ridussero
a due i principi, che muovono le passioni, e a º – 284 – quattro i generi loro:
i principi motori sono l'opinione del bene o quella del male: i generi sono,
l'allegrezza, la cupidigia, il dolore e il timore. V. que ste voci. - Ciascuno
de divisati generi ha le sue spezie, delle quali Cicerone fa l'enumera zione:
all'allegrezza appartengono, la voluttà, ogni spezie d'indulgenza pesen si, la
millanteria, la vanità, ed altre si mili: alla cupidigia l'ira, l'odio, l'ini
micizia, l'avidità: al dolore, l'invidia, la gelosia, la compassione,
l'angoscia, il lutto, la mestizia, lo stento, la tristezza, il rammarico, la
sollecitudine, la mole stia, il tormento, la disperazione: al ti more, la
pigrizia, la vergogna, il terrore, lo spavento, la costernazione, la sconfi
danza. (Tusc. lib. IV. cap. 7). V. queste voci. Ora considerando le passioni
come mo dificazioni dello stato dell'anima e delle nostre naturali
inclinazioni, delle quali gl'istinti e gli affetti sono i motori, non si può
non riconoscere come imperfetta, e direm troppo angusta la partizione de gli
stoici. Riteniamo come veri i due prin cipi generali, che essi risguardarono
come la sorgente di tutte le passioni, l'opinione cioè del bene o del male. Ma
questi son due principi razionali, che non agiscon soli, nè sono le cause
immediate della energia delle passioni. L'opinione tramanda le sue impressioni
a sensi, e non sola mente mette in azione due altri principi istintivi, che sono
il piacere e il dolore, ma produce due contrari sentimenti, l'amore cioè e
l'avversione. Son questi i due sentimenti che infiammano l'immagina zione e
generano l'ardire e il timore. Espressioni di tutti i cennati sentimenti sono
l'allegrezza e la tristezza, le quali si mostrano per un linguaggio d'azione,
composto di voci inarticolate, come il riso, il pianto, ed altri esterni segni,
che annunziano negli occhi e ne delineamenti del viso la gioia e la mestizia.
Con que sto linguaggio, che la natura ha dato privativamente all'uomo, e al
quale ha predisposto la conformazione stessa del volto, cominciano i fanciulli
a manife stare il piacere e il dolore: questo stesso linguaggio ritengono gli
adulti in suppli mento della parola, della quale sovente è più pronto ed
espressivo, perchè la smen tisce quando tenta di nascondere gl'in terni
sentimenti dell'animo. Non possono dunque tutte le passioni di sopra mento vate
essere ordinate sotto i quattro soli generi dell'allegrezza, della cupidigia,
del dolore e del timore, nè i segni pos sono in una partizione logica essere
scam biati colle cause delle cose significate. Per meglio ordinarle, e per più
esattamente definirle, uopo è distinguere, 1.º i prin cipi razionali, 2.º i
principi istintivi, 3.º i sentimenti prodotti dall'azione dei cennati principi,
4.º la forza che loro co munica l'immaginazione, 5.º finalmente l'espressione
colla quale la natura stessa li manifesta. Con tali distinzioni sarà fa cile
non solamente rettificare la proposta partizione, ma determinare il significato
di tutte le moltiplici gradazioni delle spe zie, che a ciascuno dedivisati
generi ap partengono. V. Istinto, Linguaggio, Opi nione, Pianto, Riso. PAssivo
(spec. e disc.), il subbietto, nel quale l'azione opera il cangiamento. L'
operazione per la quale il cangia mento avviene, dicesi causa, il cangia mento
stesso, effetto, il subbietto che l'opera, agente, quello che lo soffre, – 285
– paziente, la facoltà di operarlo, potenza attiva, e lo stesso subbietto, in
quanto soggiace alla forza di tal potenza, dicesi passivo. Così i cennati
termini son tra loro correlativi, e son tutti compresi nel la nozione della
potenza attiva. V. Azio ne, Causa, Effetto, Potenza. Nel senso gramaticale
passivo chiamasi quel verbo che esprime una impressione prodotta nel subbietto
senza suo proprio fatto. V. Verbo. PATERNITÀ (prat.), l'astratta nozione della
relazione tra 'l padre e il figlio, che la mente concepisce come il vincolo mo
rale, per lo quale la natura ha attaccato l'uomo alla famiglia, e alla società.
Ne bruti i legami tra padre e figlio van considerati ne pretti termini d'una
causa materiale o meccanica, qual'è la generazione. Il padre e il figlio non
sono consapevoli, l'uno di essere l'autore del l'esistenza di questo, l'altro
di averla da quello ricevuto; nel che non sono essi diversi dagli Esseri
organici inanimati , i quali riproduconsi per sola forza vege tativa. A
differenza delle piante la natura ha stabilito tra gli animali bruti un vin
colo d'istinto tra la madre e i figli. A questo vincolo è affidata la
nutrizione e la conservazione della prole, la quale non prima giugne allo stato
di poter provve dere a se stessa, che sconosce e dimen tica l'autrice
dell'esser suo. In essi la ma ternità tiene luogo di paternità, per quan to
concerne le cure necessarie alla perfe zione dello stato loro naturale. V.
Istinto, Maternità. - Il sentimento dunque della paternità non solamente è
proprio dell'uomo, ma è la prima di tutte le relazioni, per le quali la natura
indirizza la sua vita ad un fine morale. Nel padre questo sentimento è il più
puro e nobile amore, che gli fa ri sguardare il figlio come un altro se stesso;
è la sorgente della benevolenza, perchè non è cura o mezzo, che il padre non
prodighi per la conservazione, per la educazione, e per la felicità del figlio;
è il più gene roso di tutti gli affetti, perchè non è chi non corra a salvare
il figlio a spese della propria vita, e non desideri che i doni e le
benedizioni del cielo si accumulino e si prolunghino più nella persona di lui,
che nella propria; è la fonte della più durevole amicizia ; è la prima e la più
ragionevole di tutte le autorità. In fine non è meno utile al padre stesso,
perchè trova nel figlio il sostegno e la consola zione della sua vecchiezza, e
vede nella esistenza di lui, la durazione del suo nome e d'una ricordanza che
gli tiene luogo di una seconda esistenza, e di presagio d'una futura vita. Nel
figlio poi la relazione della pater nità, comincia dall'essere scuola d'imi
tazione per tutti i portamenti della vita, e passa successivamente ad essere
fonte di gratitudine, e di reciprocazione di af fetti; è nozione di obbedienza
ad una potestà, creata dalla ragione e dalla be nevolenza; è guida di autorità
e di con siglio, che accompagna ciascuno nel mon do; è principio e centro dello
amor di fa miglia, o sia di quella comune ed eguale benevolenza, che legar dee,
l'uno all'al tro, i figli degli stessi genitori; è istruzion morale per la
carriera della paternità, che i figli dovranno a volta loro percorrere; è
scuola a tutti di disinteresse, di virtù, di dignità, e di prudenza; è scala di
ascensione a Dio, o sia alla comune pa ternità del genere umano; è
un'anticipata commendatizia, che ogni figlio porta seco - 286 - col nome d'un
onesto e saggio genitore; è l'incitamento all'onore, alla fama, e alla gloria,
desiderando ciascun de'discen denti, che di se possa dirsi; gui tanti talem
genuere parentes? Tale presso a poco è il ritratto dell'amor paterno, che
Cartesio fece nel trattato delle passioni. « L'amore d'un buon genitore verso i
figli, dice l'autore, è sì puro, che nulla desidera aver da essi, nè brama di
avergli altri di quel che sono; nè aver con loro un legame più stretto di
quello che ha: gli considera sì bene come tanti se stesso, e cerca il bene loro
come il proprio; che anzi lo cerca per essi con maggior sollecitudine, perchè
risguardan dogli come parti d'un tutto, di cui egli forma la parte minore,
preferisce sovente l'interesse loro al proprio, e non teme di perdersi per
salvargli : l'amore che gli uomini dabbene portano a loro amici, è della stessa
natura, quantunque rade volte giunga alla medesima perfezione» (P. II. art.
LXXII). Ma dirassi, esser questo ritratto esage rato, e non corrispondere agli
esempi, che se ne hanno ne costumi delle moderne nazioni; nè tale essere stato
presso gli an tichi popoli, che tramutarono la patria potestà in una tirannica
dominazione, in nanzi alla quale scomparivano persino i naturali diritti della
persona del figlio. Alle quali obbiezioni rispondiamo in primo luogo, che noi
parliamo della perfetta, e non della corrotta natura, o sia de'prin cipi che
costituiscono l'ordine morale del mondo, e non delle anomalie prodotte dalla
depravata volontà dell'uomo. E per quel che concerne le antiche leggi intorno
alla patria potestà, vuolsi notare, che sebbene per la civile costituzione di
qualche popolo si fosse creduto utile il dare a padri l'imperio sulla persona
del figli; pur tuttavolta non temettero i legislatori che potessero abusarne;
nè quelle leggi sminuirono la natural carità impressa nei petti loro, che anzi
furon da questa abro gate e proscritte. Molto meno giudicarsi dee dell'amor
paterno da costumi delle corrotte nazioni, e da delitti pe quali gli uomini
perversi infrangono il più sagro di tutti gli umani legami ; perchè l'orrore
stesso che tali delitti ispirano, dimostra qual sia il senti mento comune della
umanità. Che se fosse necessario dimostrare cogli esempi il naturale ritratto
dell'amor pater no; converrebbe andargli cercando nelle modeste abitazioni di
coloro che vivono col lavoro e colla industria delle loro mani, e non ne palagi
di quelli, ne'quali l'egois mo d'una vita voluttuosa sparge l'indif. ferenza
sopra tutti i doveri, e cancella ersino le vestigie de primi ed intimi af.
" della natura. In quella classe di uo mini e di famiglie cotesti esempi
non so lamente non sono rari, ma formano la generalità della regola, la quale
per es sere da tutti sentita, non de'essere dimo strata. V. Affetto, Amore.
PAUPERISMo (lat. sup.), moltitudine di poveri, che debb'essere nutrita a
publiche spese. - È vocabolo introdotto senza necessità dai moderni economisti.
La povertà è la con dizione di gran parte del genere umano, ed è un de mali che
hanno l'origine loro parte nella natura, e parte nella costitu zione stessa
della società. - Come male prodotto o accresciuto dai vizi della società o
dell'ordine civile, ap partiene alla politica economia. - 287 - Come condizione
inerente alla umana natura, è il suggetto di maggiori e più nobili doveri
dell'uomo morale.V. Povertà. PATTo. V. Promessa. PAURA (prat.), trepidazione
della men te per cagione d'alcun pericolo presente o futuro. È diverso dal
timore, il quale può es sere ben fondato e ragionevole; laddove la voce paura
esprime ancora il falso e l'immaginario spavento del pericolo, od un male anco
ideale. L'ombra sua sola fa 'l mio core un ghiaccio E di bianca paura il viso
tinge. ( PETR. son. 164 ). V. Immaginazione, Timore. PAzIENZA (prat.),
volontaria e lunga sofferenza di un male, e di cosa disag gradevole, dettata
dalla virtù, o dalla utilità. - È dettata dalla virtù, quando con co stanza
soffriamo gli assalti delle avversità; e dalla utilità, quando la prudenza ci
fa antivedere un fatto, o un tempo più fa vorevole del presente. E però
pazienza chiamiamo, tanto la lunga tolleranza dei mali, quanto la lunga
aspettativa d'un bene che desideriamo. Nel primo senso la pazienza esprime una
virtù, figlia della fortezza o della temperanza: nel secondo prende la sua
forza dalla speranza. V. For tezza, Speranza, Temperanza. PAzzIA (prat.), la
perdita intera del SeIlIlO, È la maggiore delle malattie della men te, le quali
han diversi gradi e periodi, e distinguonsi con vari nomi, come la demenza, la
follia, la stoltezza, la stoli dezza, la fatuità. V. queste voci. PECCATo
(prat.), mancamento commesso contra il dovere, o la legge. V. queste voci. Gli
scolastici distinguevano tre sorte di peccato, quello della natura, che è l'ano
malia o il mostro; l'altro dell'arte, che è quello commesso contro la regola
del l'arte che si professa; e il morale o sia il volontario, che la sapienza
pratica si propone di evitare. Impossibil cosa è alla natura dell'uomo evitare
il peccato, o sia qualsivoglia tra sgressione; il perchè è lode il saperlo co
noscere, il ravvedersene e il lavarlo col pentimento. Seneca riferisce come
egregio detto di Epicuro, la sentenza, initium est salutis notitia peccati,
detto che ripete S. Bernardo nel trattato della coscienza: il cognoscimento del
peccato è principio di salute. V. Pentimento. PEDAGOGIA (disc. ), la primaria
istru zione del fanciulli. Siccome la prima istruzione del fanciul li, è quella
delle lettere, e dell'arte del ben parlare; così la pedagogia è consi derata
come una parte della retorica. PEDAGOGICA (erit.), l'arte dell'insegna mento.
V. questa voce. PEGGIo e PEGGIORE (prat. e disc. ), nome comparativo del male e
del cattivo. Il mal mi preme e mi spaventa il peggio. (PETR.). V. queste voci.
PELo (spec.), filamento sottilissimo, cilindrico, diafano, insensibile,
elastico, - 288 - che in compagnia di molti altri si alza in diverse parti della
cute, nella quale è piantato il bulbo, d'onde, come da ra dice nasce ed è
alimentato. Forma la co pertura di molti animali, e soprattutto de'quadrupedi,
ma non è certamente que sto il solo uso, cui la natura ha destinato coteste
filamenta, le quali col nutrimento che ricevono da taluni particolari umori,
crescono e si allungano, presentando qua si il fenomeno d'una vegetazione
stabilita alla superficie del corpo animale. Di tal fenomeno, e dediversi usi,
a quali sem bra aver la natura destinato i peli lascia mo la sposizione a
fisiologi. Nell'uomo, in cui la natura ha riunito tutti i tipi del perfetto e
del bello organismo, i capelli (che per l'essenza loro non sono altro che peli)
formano uno de più vaghi ornamenti della sua figura. Le varietà stesse che presentano
le loro qualità accidentali, co me la quantità, il colore, il fino, il ru vido,
o il liscio sono state messe in ar . monia col colore degli occhi e della
pelle; sì che sotto ogni latitudine, in ogni cli ma, e nelle diverse contrade
della terra, gli accidenti della capellatura e delle chio me accordansi con
ciascuna delle varietà della razza umana. PENA (prat.), male che si soffre per
l'infrazione d'una obligazione. V. Male, Obligazione. Cotesto male può essere
di doppia sor ta: morale, se l'obligazione a cui si con travviene, nasca da una
legge morale; fisico, se nasca da legge positiva. V. Fi sico, Legge, Morale. Il
mal che viene dall'infrazione dell'obligazione morale, è il dolor morale, che
nasce dal rimorso della commessa azione, o sia dal giudizio della coscienza.
Non po tendo le leggi esteriori cagionare l'interno dolor dell'animo,
affliggono la sensibilità del corpo, da cui il dolore si comunica all'anima.
Così nella definizione della pena, il male può essere sempre scambiato col
dolore. V. Coscienza, Dolore. Il timor dell'una o dell'altra spezie di male,
quandochè cada nell'antivedimento dell'agente, diviene un motivo che influi sce
più o meno nella volontà di lui, se condochè è più o meno grave in compa
razione del piacere che aspettasi dall'azio ne. V. Motivo, Volontà. Le pene,
come i premi si partiscono in due classi, cioè naturali e positive. Naturali
son quelle, che necessariamente conseguono dall'azione, e tali sono le di verse
spezie di dolore, che cagioniamo a noi stessi per ogni fatto contrario alla con
servazione del proprio essere: positive le altre che nascono dalle leggi
estrinseche, e per le quali cercasi da legislatori impe dire un'azione
naturalmente libera, ma agli altri dannosa. In generale siccome la pena
prefiggesi d'impedire l'azione, e il premio di promuoverla, così un voca bolo è
contrapposto all'altro. V. Premio. PENDoLo e PENDULo (spec.), corpo pe sante, e
pendente da filo a doppio uso, o di pigliare il perpendicolo, o di misu rare il
tempo colle sue vibrazioni. La causa della vibrazione del pendoli è il peso del
corpo sospeso al filo, il qua le corpo se fosse libero e abbandonato a se
stesso, scenderebbe verso la terra per la forza della sua gravità ; ma essendo
attaccato ad un filo, e questo fissato in un punto, non può obbedire allo
sforzo della gravità, se non in parte ; il per chè è obligato di descrivere un
arco di cerchio. - 289 - Galilei fu il primo, che pensò di so spendere un corpo
grave ad un filo, e di servirsi delle sue vibrazioni per misura del tempo nelle
osservazioni astronomiche e negli sperimenti di Fisica. Huyghens adattò il
pendolo alla costru zione degli orologi, e riuscì ad avere una misura del tempo
molto più esatta di quella che dà il corso apparente del sole, il moto diurno
del quale, non essendo uniforme, non può servire di modello invariabile per la
misura del tempo. Infatti le vibrazioni del pendolo sono sensibilmente
isocrone, vale a dire, che in tempi eguali scorrono per parti di spazio eguali,
e come tali fanno del pendolo un esatto cronometro, o sia un perfetto
misuratore del tempo, V. Tempo. Da tali proprietà del pendolo nacque il
pensiero di scegliere le diverse sue lun ghezze come tipi di misure universali,
o come un termine comune di comparazione e di riduzione delle misure civili
depopo li. Ma cotesto trovato, che parve per al cun tempo essere il più atto a
risolvere il problema d'una misura invariabile presa nella Natura, dopo più
matura riflessione si scoperse essere poco esatto; imperoc chè per essere
generalmente vero, con verrebbe che il peso fosse lo stesso in tutti i punti
della superficie della terra. Ora essendo il peso la sola causa della
oscillazione del pendoli, e questo essendo vario a poli e all'equatore; ne
segue che le vibrazioni del pendoli non potrebbero dare una misura comune, se
non alle con trade site sotto la medesima latitudine, V. Misura, Peso,
PENITENZA (prat.), pena volontaria per la quale l'uomo punisce in se quello che
si duole aver commesso. Ha un senso teologico e canonico, gene ralmente
ricevuto tra cristiani. Ne ha an che uno naturale o morale, il quale nasce
dalla facoltà del pentimento data all'uomo. Non è forse comune ad ogni uomo,
cui la coscienza rimorde di qualche fallo, il dolersene, il deplorare la
propria miseria, e il volere con qualche privazione espiare la sua colpa? V.
Pentimento. PENoso (prat.), tutto quel che affligge l'animo con molesto
sentimento, simile a quello con cui sopportiamo la pena. V. que sta voce. Come
aggiunto di vita, vale condizione misera e degna di compianto. PENSAMENTo
(spee. e dise.), l'atto del pensare, o il pensare stesso, considerato in uno
attuale esercizio. Esprimendo un atto particolare, ha un significato meno ampio
del verbo pensare e del nome pensiero, dacchè ambo questi vocaboli comprendono
così la facoltà come l'esercizio; onde ben direbbesi la facoltà del pensare o
del pensiero, e non la facoltà del pensamento. V. Pensiero. Pensare (spee. ),
volgere l'attenzione ad uno o a più obbietti, interni o esterni che sieno, per
conoscerne le qualità o le relazioni. V. queste voci. Dicesi d'ogni obbietto
presente, passato, o futuro, qualunque sia la facoltà dell'animo, che ad esso
si volga; e però il pensare scambiasi col percepire, col con cepire, col
riflettere, col ricordarsi, e col l'immaginare. V. queste voci. - PENSIERo (spec.),
l'atto di qualunque facoltà dell'anima, per lo quale percepia mo, o formiamo
un'idea, una nozione, 57 o intorno ad esse osserviamo, riflettiamo, ragioniamo,
o immaginiamo. È termine generale, il quale comprende ciascuna delle operazioni
dell'anima, o tutte unite insieme ; sì che è promiscua mente adoperato come
nome collettivo di tutte, e come nome singolare di ciascuna. Il pensiero in
somma è l'esercizio delle facoltà dell'anima, alle quali sta, come ogni atto
alla potenza sua. V. Atto, Po denza. La continuità del pensare è propria del
l'anima umana. Che i pensieri si succe dano continuamente nello stato di
veglia, è un fatto di cui tutti han la coscienza. Per potere da ciò ricavare la
conseguenza, che l'anima pensi sempre, converrebbe dimostrare un altro fatto,
cioè che pensi egualmente nel sonno, di che non si può addurre veruna sperienza
sensibile. Leibnitz credette, che l'azione, o sia il pensiero, fosse
dell'essenza dell'anima: che il supporre in lei uno stato di asso luta inerzia
sia una ipotesi, la quale con traddice alla natura sua; e che la quistione del
continuo pensare debba essere decisa per l'analogia de corpi impercettibili e
demoti invisibili. Ma una siffatta analo gia, che poteva esser compatibile
colla ipotesi delle sue monadi, non può essere accettata come una verità certa
da una severa filosofia. Hume volle spiegare la successione dei pensieri per
l'attrazione delle relazioni, delle quali determinò per sino il numero, V.
Relazione. Ma il parlare di attrazione tra le relazioni del pensieri, è lo
stesso che rendere necessario e macchinale il li bero esercizio delle facoltà
della ragione. In somma la spiegazione di Hume mate rializza il pensiero, e
rinega una impor tante parte degl'interni fenomeni, quelli cioè che nascono
dall'associazione delle idee. V. Associazione. Nella successione del pensieri
ve n'ha di due spezie, gli spontanei cioè e i re golari, i quali nascono
dall'abitudine del ragionamento. Gli uni e gli altri non sono avvertiti, se non
quando divengono nota bili. Da ciò segue che pensieri ciechi o sordi furon
chiamati quelli che trascor rono senza essere avvertiti dall'attenzione o dalla
riflessione; nel che son simili alle insensibili percezioni, colle quali
sogliamo scambiargli. L'avvertenza dell'anima a tali pensieri, o la facoltà
ch'ella esercita di richiamargli a se, è una delle ragioni, che rendono
plausibile il distinguere la percezione dal l'appercezione. V. questa voce.
PENTIMENTo (spee. e prat.), l'atto della volontà, che ritratta una
determinazione già presa; o l'atto della coscienza che si duole di averlo
approvato. Considerato come atto della volontà, il pentimento racchiude il più
luminoso argomento della libertà dell'agente mora le Imperocchè l'animo non
solamente passa per tutti i motivi del deliberare e si determina all'azione,
ora col secondare gl'istinti e i naturali appetiti, ora col mo dificargli, ed
ora col vincergli e soggio gargli; ma torna indietro sul deliberato e lo
ritratta, o prima di mandarlo ad ef, ſetto, o anche dopo, distruggendo il fatto
antecedente con un altro contrario. Questo secondo fatto, al pari del primo,
può esser figlio o della vera o della falsa opinione del bene; sì che l'agente
risaminando in una seconda deliberazione i motivi della sua prima
determinazione, o trova il vero che gli era sfuggito, o lo abbandona dopo
averlo trovato. – 291 – Cotesto argomento, per quanto lumi noso apparisca agli
uomini di sano giu dizio, i quali nella stessa mutabilità della volontà trovano
la pruova maggiore della sua libertà, non chiude l'adito a sofismi de'seguaci
della necessità, perchè non è luce di vero, che il sofismo non cerchi di
annebbiare. Non v'ha ragione, dicon costoro, per credere che la seconda, la
terza, o l'ultima determinazione sia più libera della prima, se i veri motivi
de terminanti stanno nelle naturali predispo sizioni, dalle quali l'uomo è
menato al volere. Che anzi nella revisione che noi facciamo de'propri giudizi
entriamo in una nuova scala di probabilità, delle quali la seconda infievolisce
la prima, e la terza infievolisce la seconda, per modo che quanto più
progrediamo in questa scala, tanto meno ci resta di quell'apparenza di verità,
la quale ci aveva da prima gui dato. In somma dicon essi, che il credere è una
legge assoluta della natura, alla quale noi dobbiamo necessariamente ob bedire,
come al respirare, e al sentire. Ognun vede, che una tal dottrina è fon data
sopra due dati: il primo, che il vero non esiste, e che la volontà non sia gui
data se non da una falsa opinione del vero: il secondo, che la ragione non in
tervenga nella deliberazione se non per un artifizio della ingannevole natura,
la quale si è studiata di nasconderci il punto ov'ella vuole condurci. Ambe
queste ipo tesi distruggono la ragione e son figlie di una falsa e presontuosa
sapienza, la quale pretende di sollevarsi al disopra della con dizione dello
spirito umano, e rovescia l'ordine delle cose esistenti (V. vol. I, a pag.
5o3). Considerato poi il pentimento, come un atto della coscienza, è il
salutare senti mento, col quale la natura richiama l'uo mo dall'errore, e lo
rimette nel cammino del giusto e del vero: è la morale espia zione d'ogni
fallo, la quale lo riconcilia coll'Autor della legge violata: è un mezzo di
purgazione, che prepara il suo passag gio dalla vita terrena alla celeste, o
sia da beni transitori del mondo alla perfetta felicità, e alla vera
beatitudine. V. Co scienza, Felicità, Purgazione. PERCEzioNE (spee. e erit.),
facoltà per la quale l'anima conosce gli obbietti che le son presentati da
sensi. V. Obbietto, Senso. -. Della percezione, come delle altre fa coltà e
operazioni dell'anima, non si pos sono dare logiche definizioni, perchè non si
può definire tutto quel, di cui non si conosce l'essenza e la causa efficiente.
Ben si può descrivere esattamente quel che l'interna osservazione dell'anima ci
ma nifesta. I fatti che da tale osservazione ri sultano, sono i seguenti: 1.º
Che la percezione è diversa dalla sensazione, come il sentire un dolore o un
piacere, è diverso dal vedere un ob bietto qualunque; 2.º Che la percezione
produce in noi l'immediata conoscenza dell'obbietto pre sente a sensi; 3.º Che
l'obbietto percepito è diverso dall'atto dell'anima, che lo percepisce; e tanto
diverso, quanto l'uno è posto fuori e l'altro dentro di noi; l'uno materiale, e
spirituale l'altro; l'uno composto e l'altro semplice ed indivisibile; l'uno
insomma esistente indipendentemente dall'altro; 4.° Che la conoscenza
dell'obbietto per cepito è accompagnato sempre dalla cer tezza della esistenza,
o realità dell'obbietto medesimo; at -- 292 - 5.º Che questa certezza non nasce
dal ragionamento, ma è istintiva e connatu rale all'uomo; 6.º Che la percezione
è un atto dello spirito, provocato dalla sensazione; 7.º Che comunque non possa
la mente umana concepire il modo, col quale la sensazione produce la percezione,
pure è indubitato che ella proviene da una cosa che esiste, che è conforme alla
medesima, e che non potrebbe essere prodotta da una cosa diversa. Conviene quì
rendere onore alla dottrina degli stoici, i quali meglio degli altri com
presero e insegnarono la realità della per cezione. I tre caratteri costitutivi
della loro catalepsia, o visione comprensiva, sic come dice Sesto Empirico,
erano 1.º che la percezione provenga da un obbietto e sterno che in realtà
esiste: 2.º che la per cezione sia, non l'immagine, ma una fedele copia
dell'obbietto rappresentato: 3.º che non possa essere prodotta da un obbietto
diverso. La percezione in somma de essere conceputa come una luce, la quale
illumina l'obbietto, da cui proviene. V. Comprensibile, Sensazione. Da fatti
sin qua esposti risultano due verità generali, sopra le quali è fondata tutta
la filosofia sperimentale, e che deb bon essere considerate come quelle regole
del filosofare, o canoni del retto pensare, de quali altrove parleremo: la
prima è che l'idea nata dalla percezione, è un atto dello spirito il quale
corrisponde a un obbietto posto fuori di noi: la seconda, che la certezza della
esistenza di simili obbietti, o sia desensi e delle cose sensibili, è im pressa
in noi per virtù d'una legge ine rente all'umana costituzione. Da ciò segue che
noi prendiamo la certezza del sensi, come l'archetipo e la misura della realità
di tutti gli altri fatti esteriori. V. Certezza, Idea, Regola. Si adopera
sovente il vocabolo perce zione per l'atto stesso della facoltà, nel quale
significato equivale a idea. In questo senso molti han distinto le percezioni
in primitive o acquisite. Ma cotesta distin zione sembra poco esatta, perchè
considera come primitive le idee complesse che si formano per l'abitudine, e
nelle quali entra sempre il ragionamento. Più esatta ed utile insieme, è la
distin zione tra le sensibili ed insensibili per cezioni. Acciocchè la
percezione produca un'idea chiara e distinta, è necessario il concorso
dell'attenzione, senza la quale sarebbe passaggiera, e non lascerebbe di se
vestigio alcuno, tanto nella compren sione, quanto nella memoria. E però sono
state dette insensibili percezioni quelle, le quali passano dinanzi all'anima,
senza che questa le avverta. La continua sue cessione di tali insensibili percezioni,
che in noi sperimentiamo, fece nascere trai metafisici la quistione, se l'anima
pensi sempre. V. Attenzione, Pensiero. Per contrario le percezioni avvertite,
delle quali l'anima acquista consapevolez za, han fatto sentire a taluni
filosofi la necessità d'introdurre il vocabolo di ap percezione, per esprimere
l'avvertenza, e per distinguere la piena dalla nuda per cezione. Una tal
distinzione giova altresì per istabilire una differenza caratteristica tra
l'anima umana, e quella del bruti. V. Appercezione. - La percezione considerata
come potenza e non come atto dello spirito, tiene il primo luogo nella
partizione delle facoltà dell'anima, perchè le idee de sensi son le prime che
noi acquistiamo, e servono di occasione e di eccitamento alle altre - 295 -
sche rivela la luce stessa della ragione. V. Facoltà. PERDONANZA PERDONARE e
PERDoNo(prat.), il rimettere l'offesa ricevuta. - La confidenza nel perdono del
propri fal li, è un sentimento che l'umana ragione associa alla bontà e
magnanimità del Crea tore verso le creature sue. Cotesto senti mento è dettato
ancora dalla coscienza, che è tanto presta nell'accusarci del falli commessi,
quanto l'è in dimostrarsi sod disfatta del duol che ne proviamo. Il per donare
dunque alle offese che dagli altri riceviamo, è una retribuzione di quel che da
Dio impetriamo per noi stessi; ed è per conseguente un atto doveroso della
virtù umana, il quale trova il suo spec chio nella stessa virtù divina. Il
perdonare è figlio della generosità, ed è contrapposto della vendetta. V. Ge
nerosità, Vendetta. PERFETTo e PERFEzioNE (spee. crit. e ontol.), qualità d'un
subbietto, cui nulla manca delle sue parti costitutive, e dei suoi essenziali
attributi. - La nozione della perfezione può essere applicata ad un subbietto
materiale, o spi rituale, e tanto ad un subbietto attuale, quanto ad uno
possibile; il perchè gli sco lastici distinsero la perfezione fisica dalla
morale, e dalla metafisica. Il perfetto fisico o naturale è ogni Es sere
corporeo, cui nulla manca delle parti costitutive, delle potenze o facoltà sue,
considerate queste, nelle debite loro pro porzioni, sì che possa dirsi
compiutamente atto a quel fine, cui la natura l'ha de stinato. Questa è la
perfezione, che nelle scuole dicevasi ancora everyerza, cioè ope rativa o capace
di operare. Così diciamo un uomo, o un perfetto animale, ciascuno nel suo
genere, quando vogliamo parlare della perfezione delle opere della natura: così
intendevano gli stoici, allorchè dice vano perfetto il mondo. - Perfezione
morale, che è propria e privativa dell'uomo, dicevasi quel grado eminente di
bontà e di virtù, che non solamente non ammette alcuna nota di ri prensione, ma
riscuote lode ed ammira zione. Il sommo grado di tale virtù dava ancora alla
perfezione l'epiteto di reatza, cioè atta a conseguire il fine cui l'uomo è
destinato, che è il sommo bene. Questa perſezione distinguevasi in assoluta e
re lativa. L'assoluta è propria dell'Ente su premo che la possiede per propria
essenza: la relativa conviene all'uomo, il quale ne divien capace per
imitazione, e può tanto prendere della virtù divina, quanto nella sua natura
cape. Alla relativa, che è ca pace del più e del meno, può soltanto adat tarsi
una misura, di cui le parti prendono il nome di gradi. Cotesta denominazione è
comune alla misura di tutto quel che è indivisibile, e per conseguente alle
qualità intellettuali e ad ogni operazione dello spi rito, che può avere
maggiore o minore in tensità, o non maggiore o minor numero di parti. V.
Gradazione, Grado, Parte. La perfezione metafisica, detta ancora essenziale o
trascendentale, è l'astratto concetto, che noi formiamo del perfetto d'ogni
ente attuale o possibile. In altri termini, è la definizione del perfetto, la
quale può essere affermativamente, one gativamente enunciata: affermativamente,
dicendo che è il concorso e l'accordo di tutti gli attributi essenziali
dell'ente: ne gativamente, quando diciamo, tutto quel lo, cui nulla manca de
suoi attributi es senziali. V. Attributo, Essenza. - 294 - Le cennate
distinzioni son logiche, ed utili alla chiarezza delle idee e del discor so,
perchè additano i diversi significati che diamo a vocaboli perfetto e perfe
zione, secondo la diversa natura de sub bietti, a quali l'applichiamo. Tutte le
altre, che facevano gli scolastici, della perfezione estra essenziale, della
sostanziale, del la semplice ed assoluta, della perfezione secundum quid, della
formale, e della virtuale appartengono a quella vana scien za di categorie e di
definizioni nominali, di che componevasi la loro logica artifi ziale. Ciascuna
di queste denominazioni entra in una della spezie di perfezione che abbiamo già
definito, cioè la fisica, la morale, l'assoluta, la relativa, e la metafisica.
- PERFIDIA (prat.), offesa commessa con violazione della fedeltà. È la maggior
di tutte le iniquità, per chè contraria alla naturale rettitudine della ragione
umana, e distruttiva del vincolo morale d'unione e di sicurezza tra gli uo
mini, V. Fedeltà, Pracmao. V. Spergiuro. PERICARDIo (spee. ), la borsa ove sta
racchiuso il cuore. V. questa voce. PERICRANIo ( spec. ), il periostio che
cinge il cranio. V. questa voce. PERIELIo (spec.), il punto dell'orbita d'un
pianeta, nel quale trovasi alla mi nore distanza dal sole. ll suo punto opposto
è l'afelio. V. que sta V0Ce. PEalGio (spee. ), il punto dell'orbita apparente
del sole, o dell'orbita lunare più vicina alla terra. Il Galilei l'ha adoprato
anche nel signi ficato addiettivo dicendo sole perigeo, e luna perigea, le
quali denominazioni sono usate ancora dagli astronomi moderni. Il punto opposto
al perigeo, è l'apo geo. V. questa voce. PERIono (disc.), composto di più pro
posizioni, legate insieme per modo, che da tutte risulti un senso compiuto. Le
proposizioni particolari, dall'unione delle quali nasce il periodo, diconsi
suoi membri, V. Membro, Proposizione. PERIosro (spee. ), membrana fibrosa, che
veste esteriormente le ossa, la quale porta nelle midolla e nelle parti
cellulari di quelle molti del vasellini arteriosi, es sendo essa stessa piena
di numerosi vasel lini venosi. Ne sono privi i denti e le capsule delle
articolazioni. V, queste voci. PERIPATETIco (crit.), filosofo che pro fessa la
dottrina di Aristotele; e nell'ad diettivo, la dottrina stessa, e tutto quel
che ad essa appartiene. Dante ne diede una definizione nomina le. « Perocchè
Aristotele cominciò a dispu tare andando qua e là, chiamato fu Lin dico, e li
suoi compagni, peripatetici, che tanto vale quanto deambulatori; e più ap
presso: lo nome delli accademici si spense, e tutti quelli, che a questa setta
si presero, peripatetici sono chiamati» (Conviv. S. 156). PERIssoLoGIA (grec.
sup.), viziosa ad doppiatura, o replicazione di parole non necessarie alla
chiarezza o alla eleganza del discorso. - - 295 - Qual necessità di esprimere
con una voce greca, quel che può esser detto con vocaboli della propria lingua?
Il reptºcos de'Greci corrisponde al nostro superfluo, e la rspooo)orta alla
superfluità. Nel comune linguaggio degramatici è detto ancora pleonasmo, ma
cotesto nome è proprio d'una figura, che non dovrebbe essere scambiata con un vizio
del discor so. V. Pleonasmo. e PERIsrALTIco (spec.), nome dato al moto
degl'intestini, per lo quale contrag gonsi le diverse parti di essi successiva
mente da sopra in sotto, a somiglianza del moto de vermi, il perchè è detto an
cora moto vermicolare. Il mezzo per lo quale un tal moto av viene, son le fibre
circolari e longitudinali, delle quali è composta la tunica carnosa
degl'intestini. Per esso il chilo è spinto negli orifizi delle vene lattee, e
gli escre menti sono mandati giù, ed indi espulsi. PERITONEo (spec.), membrana
sottile, che copre quasi tutte le viscere del basso ventre. V. questa voce.
PERNIZIE (lat. sup.), estremo danno. V. questa voce. º PERPETUALE e PERPETUo
(spec.), quel che ha principio e non fine. Differisce dall'eterno, che dicesi
di quel che non ha mai avuto principio, nè avrà fine. V. Eterno. PERPLESSITÀ o
PERPLEsso (prat.), stato di dubbio e di fluttuazione, nel quale l'uo mo non sa
risolversi ad un qualche atto della sua volontà. Differisce alquanto dalla
inresoluzione, che è uno stato di compiuta negazione. V. Inresoluzione.
PERSEVERANZA (prat.), stabile e conti nua permanenza in un'azione, o in un
proposito dell'animo. - E il mezzo per lo quale si perviene alla virtù della
costanza, e però presuppone sempre motivi ragionevoli che la determi nano, nel
che differisce dalla pertinacia. V. Costanza, Pertinacia. PERsONA (spec. e
disc. ), l'individuo pensante, dotato di coscienza, il quale è consapevole
delle interne facoltà, e depen Sieri suoi. - È un nome, che conviene privativamente
all'uomo individuo, capace dell'io, V. Io. È anche termine grammaticale, e si
dice di chi parla, o di quello, al quale, o del quale si parla, e si distingue
per diversi casi, o per meglio dire esprime le tre relazioni che il subbietto
della propo sizione può avere nel discorso: son queste le relazioni, che nel
linguaggio gramati cale prendono il nome di prima, di se conda e di terza
persona. - PERsONALE (spee. e disc.), quel che è proprio della persona, o ad
essa è relativo. Ha pure due significati, uno filosofico, l'altro grammaticale.
Nel filosofico diciamo identità personale la consapevolezza che abbiamo della
durata dell'Essere nostro, e della immutabilità della parte spirituale di noi
stessi. V. Identità. Nel significato gramaticale, personali diconsi i pronomi
che determinano i sub bietti del discorso per l'idea precisa d'una persona. E
siccome questo è l'ufizio dei pronomi, così vanno essi tutti considerati come
personali. V. Pronome. - - 296 - Personali sono ancora detti quei modi del
verbi, i quali ricevono una termina zione corrispondente alla persona, o al
subbietto del discorso; il perchè tra modi distinguonsi i personali
dagl'impersonali. V. Modo, Verbo. PERsPICACIA o PERsFICACITÀ (spec.), na tural
dote dell'intelletto, per la quale esso scorge le più rimote relazioni delle
cose e del pensieri. V. Intelletto, PERsu ADERE (dise. ), indurre altri con
parole a credere, o a fare qualche cosa, È questo l'ufizio dell'oratore, giusta
il detto di Cicerone : oratoris officium est dicere ad persuadendum accomodate.
V. Oratore, PERsuAsIoNE (dise. e spec.), l'effetto del persuadere. Differisce
dalla convizione in quanto che questa si riferisce allo assentimento dell'ani
mo; laddove quella è l'opera delle altrui argomentazioni. V. Convizione. PEast
Asiva (diso. ) , la facoltà, o la forza del persuadere. Acciocchè cotesta forza
sia efficace, con vien che abbia due pregi o requisiti, giusta l'ammaestramento
di Demetrio Falereo, la chiarezza cioè e l'usitato, e perciocchè l'oscuro e
l'inusitato non persuade: le pa role scelte e gonfie si lasceranno in questo
fatto della persuasiva da parte ». Valga un tal avvertimento per coloro i quali
per amor di novità e di ricercatezza vanno a disotterrare i vocaboli meno noti,
o pro scritti dall'uso. V. Uso. PERTINACIA (prat. e disc.), fermezza della
propria sentenza, la qual si nega ad ogni contrario parere, per prevenzione
d'animo, e non per ragione. I Latini, da quali abbiam cotesto voca bolo ce ne
han dato la definizione, e in sieme i caratteri che la distinguono dalla perseveranza.
Varrone dice: in quo non debet pertendi et pertendit, pertinacia est in quo
oportet manere, si in eo per etet, perseverantia est (de L. L. lib. IVA sub
init.), e Cicerone : uniouique vir tuti finitimum vitium reperietur, ut au
daeia quae fidentiae; pertinacia, quae perseverantiae finitima est (de invent.
lib. II. cap. 54). Differisce dall'ostinazione, che può talvolta abbattersi nel
vero, nel quale senso suole dirsi ostinato nel bene, come nel male. V.
Ostinazione. PERTURBAzIoNE ( prat. e spee. ), vee mente appetito, o commozione
dell'animo contraria alla sana ragione. È questa una definizione del filosofo
Ze none, riportata da Cicerone, il quale l'ap plica alle passioni: quae Graeci
roSm vo cant, nobis perturbationes appellari ma gis placet, quam morbos
(Tuscul. lib. IV. cap. 5). In un senso più generico, perturbazione è lo
sconvolgimento del natural ordine delle cose. V. Ordine, Passione. PEavERsrrà e
PERvERso ( prat. ), l'ini quità che non dà speranza di pentimento. V. questa
voce. PESCE (speo.), animal che vive nell'ac qua, come in sua propria
abitazione. Il mare, e i viventi che l'abitano sono una delle più maravigliose
pruove della sa pienza del Creatore. Il corpo di cotestivi venti è di varie
forme adattate allo stato, al moto e alle funzioni cui son destinati dalla
natura, non che a mezzi di difesa necessari alla loro conservazione. Il centro
di loro gravità è posto nella parte del corpo più opportuna al nuoto, funzione
principale e caratteristica della loro condizione: son per la maggior parte
coverti e difesi da squame: in luogo depiedi, dequali man cano, son provveduti
di pinne, o alette che servono ad equilibrargli o a tenergli diritti: hanno
nell'interno del corpo una vescica per l'aria, o notatoio, che li rende atti ad
alzarsi, e a profondarsi nell'acqua: l'instrumento del moto loro è la coda, il
piano della quale è verticale nella più parte di essi, e orizzontale in alcuni,
e di cui l'estremità è o rotonda, o disposta in linea retta, o terminata in
punta, o concava, biforcata, o falcata: la testa loro è compressa ne'lati,
stiacciata al disopra, o al disotto, o pure quasi cilindrica, li scia, o armata
di pungoli, più o meno larga, ma non mai in larghezza maggiore del mezzo del
tronco del corpo: la con formazione e la disposizione della bocca, del muso,
del denti, delle narici ne pesci variano secondo la diversità delle spezie: la
stessa varietà v'ha negli occhi e nel sito in cui son collocati, acciocchè pos
sano corrispondere a tutte le convergenze e divergenze del raggi della luce,
cagio nate dalla refrazione che questi soffrono dal mezzo acquoso, per lo quale
passano. Ve n'ha di quelli che respirano pepolmoni (oggi mammiferi cetacei di
Cuvier), ed altri per le branchie, o sia per le alette vicine al capo, le quali
tengono loro luo go di polmoni. Ve n'ha degli ovipari e de vivipari ; de grandi
e colossali, che sono i giganti del mare, e degl'infini tamente piccoli ;
siccome pure v'ha una classe innumerevole d'insetti, creati per compiere negli
animali aquatici una serie tanto lunga, quanto quella de terrestri e degli
aerei. - Le acque tutte hanno i loro abitatori, e le spezie di questi variano,
come quelle della terra e dell'aria, secondo la diver sità delle zone e
declimi, a quali son de stinati. V'ha delle spezie affatto marine, le quali nascono
e nutrisconsi nell'acqua salsa ; ve n'ha delle fluviali, che viver non
potrebbero fuori dell'acqua dolce; ve m'ha delle proprie de laghi e degli sta
gni; ve n'ha delle promiscue al mare e a fiumi, e delle anfibie, come le foche,
che vivono nell'acqua e sulla terra. L'immensità della natura è la stessa in
qualunque serie di Esseri si prenda a con siderarla. L'uomo cerca di
abbracciarne tutte le varietà, denominandole e classifi eandole; ma non prima
crede di averne compiuto il catalogo, che appariscono nuovi individui, i quali
non tardano a divenire spezie. Tal'è la storia di tutte le classifica zioni
fatte da Aristotele insino a noi, così nella ictiologia, come nelle altre parti
del la storia naturale. Ciò non ostante, non è questa una difficoltà, la quale
debba disa nimare gl'ictiologi dal proseguire le osser vazioni, e dal
rettificare le conoscenze dei loro antecessori; colla certezza per altro, che
per quanto potessero ampliarle, non però esauriranno lo studio della natura, sì
che venisse a mancar la materia di nuo ve scoverte alle future generazioni.
Aristotele ne libri della storia naturale fu il primo a dare una
classificazione dei pesci, distribuendogli pe loro caratteri più noti; distinse
i marini da fluviali; suddi vise i primi in due generi, quelli cioè che vivono
nel profondo mare, e gli altri che dimorano presso alle coste; e distinse gli
uni e gli altri in due principali spezie, gli squamosi cioè e i cartilaginosi,
suddivi 5S - 298 - dendo ancora gli uni e gli altri per la maggiore o minore scabrosità
delle loro coperture (lib. ll. cap. XIII., lib. VI. cap. XIII. e XIV., e lib.
VIII. cap. II. e XIII.). Non parliamo degli scrittori antichi poste riori ad
Aristotele, dapoichè tutti sono in feriori a lui, e pieni di false relazioni, e
di maravigliose dicerie, tra le quali non è l'ultima l'uomo pesce mentovato da
Plinio. Tra moderni lo studio dell'ictiolo gia ricominciò dal XVI.° secolo in
poi, e trasuoi cultori si distinsero Paolo Giovio, il P. Belon, Ippolito
Salviati, il Ronde let, Corrado Gesner, Ulisse Aldovrandi, Jonston, e
Charleton. Le spezie da questi riconosciute e classificate non oltrepassa vano
il numero di ducento cinquanta. Una forma più metodica diedero all'ictiologia
gl'inglesi Willughby e Ray, i quali de scrissero intorno a quattrocento pesci.
Gli studi di tutti i cennati ictiologi non fe cero che preparare i grandi
sistemi di clas sificazione, di Artedi e di Linneo, i quali ampliarono le
spezie insino al numero di 477. Cotesto numero da Gmelin fu esteso a 8oo, e da
Block o Schncider a 15oo. Intanto il grande Linneo, che col suo genio abbracciò
tutte le parti e le forme organiche della natura, determinò i carat teri
distintivi delle spezie per la presenza o per la mancanza delle pinne ventrali,
e per la loro posizione relativa alle pinne Pettorali: tolse dalla razza
de'pesci i rettili marini, e considerò come pesci gli animali forniti di pinne,
di cervello, di cervelletto, di midolla spinale, d'un organo di udito, di
narici, d'un cristallino sferico, d'un cuore ad una sola orecchietta, che respi
rano per le branchie, che per lo più hanno una vescica, o notatoio, e son privi
di palpebre, di orecchie esterne, di collo, di membra propriamente dette, e di
parti ge nitali apparenti. Questo è il popolo depe: sci ch'egli divise in
quattro grandi sezioni detti ordini, e in quaranta generi. La clas sificazione
di Linneo è stata più o meno modificata daseguenti naturalisti. Venendo a più
recenti, e più chiari pel nome loro, cioè Lacépéde, Duméril, Cuvier, e Valen
ciennes; il primo di essi propose una parti zione che abbracciar potesse tutto
l'innume rabile regno aquatico. Divise egli i pesci in due grandi classi, cioè
in cartilaginosi a branchie e in ossei a branchie. a cia scuna di tali classi
diede altre classi subor dinate, prendendole dalla presenza o man canza degli
opercoli: ad ognuna di queste classi secondarie diede due ordini caratte
rizzati per la mancanza o presenza della membrana: ad ogni ordine assegnò quat
tro generi subordinati, che determinò per la presenza o mancanza delle catope o
pin ne ventrali, e per la loro posizione. Cote sto quadro fu composto col
disegno di farvi entrare tutti gli Esseri possibili del regno aquatico,
compresi quelli che non sono ancora conosciuti; e però può dirsi averlo
adattato alla innumerabile, e quasi infinita varietà della natura. (V. il
Dizionario delle scienze naturali, art. ittiologia). Tutte queste opere non
pertanto, cedono il luogo al grandioso lavoro della storia naturale de pesci,
data dall'immortale Cu vier e dal suo collaboratore Valenciennes. Questi
raccolto avendo le osservazioni dei naturalisti e de viaggiatori di tutte le na
zioni, e i pesci di tutti i mari, e demag giori fiumi e laghi conosciuti, ed
avendo raccolto nel gabinetto di storia naturale di Francia circa cinquemila
spezie e circa quindicimila individui, ne publicò la de scrizione in
quattordici volumi in quarto, che giungeranno per lo meno insino a venti,
accompagnata da un trattato ge - 299 - nerale intorno alla natura del pesci,
nel quale sono delineate le forme degli organi loro, sì esterni, che interni,
le ossa, le viscere, il sistema vascolare, e il sistema nervoso d'ogni pesce.
Ma questo stesso la voro non può essere considerato se non come lo stato
relativo delle nostre attuali conoscenze. PEso (spec.), qualità de corpi, per
la quale tendono a discendere verso la terra. Differisce dalla gravità come
l'effetto dalla sua causa, perchè per gravità in tendiamo la potenza o la forza
che pro duce il moto de corpi pesanti, e per peso il prodotto di tale forza: in
altri termini la gravità è la forza che agisce sopra cia scuna delle minime
particelle del corpo, mentrechè il peso è la somma delle forze delle molecule
prese insieme. V. Gravità. Dalla cennata differenza segue, che la forza della
gravità non varia a misura della quantità della materia che è necor pi, laddove
il peso cresce in proporzione che si aumenta la loro massa. Newton dimostrò,
che il peso di tutti i corpi, a distanze eguali dalla terra, è proporzio male
alla quantità della materia, ch'essi contengono. Richer aveva nel 1672 sco
perto per mezzo del pendolo, che a Ca yenne il peso era minore che a Parigi,
per la quale scoverta i valenti matematici di quel tempo non solamente
generalizza rono la conseguenza, cioè che il peso è minore all'equatore e
maggiore a poli, ma dedussero ancora due altre verità, cioè il moto della terra
intorno al proprio asse, e lo schiacciamento della sua figura verso i poli. -
La differenza del peso del corpi dà orie gine a quella delle vibrazioni
dependoli; dapoichè essendo il peso la causa del moto dependoli, ne deriva che
le lunghezze di questi variano al variar de pesi ; e però son esse del pari
minori sotto l'equatore, e maggiori solto i poli. Una tal diversità ridotta in
esempio di cifre numeriche, è come segue: se la lunghezza di un pen dolo, che
nella latitudine di Parigi vibra secondi, è di tre piedi parigini, otto li nee
e / ; la lunghezza di un pendolo sincrono sotto l'equatore sarà minore di una
linea e d'una 87ooo parte di linea. (V. Philos. mat. princ. Math. lib. III. ).
V. Pendolo. - Il peso di un corpo, considerato come misura della quantità, o
della massa dei corpi, è capace della stessa definizione che i matematici han
dato delle misure, cioè d'una data quantità, che si prende per unità, ad
oggetto di determinare il suo rapporto con altre quantità omogenee. V. Misura.
PEssiMo (prat.), superlativo di male e di cattivo. V. queste voci. r Perro
(spec.), parte anteriore dell'ani male dal collo alla pancia, formato dal
l'osso pettorale e dalle coste, che rac chiude dentro di se i polmoni e il
cuore. Nel senso traslato prendesi per l'interno dell'uomo, e per lo cuore
stesso, che noi crediamo essere la sede del sentimento, e nel quale gli antichi
credevano che l'ani ma risedesse. Cotesti significati son più poetici che
filosofici. PETULANZA (prat.), immodesta ed in solente arroganza colla quale
taluno pro voca un altro, o fa pompa del vizio. Cicerone nota , che è vizio
della gio vanile età, e non di tutti i giovani, ma de malvagi, V. questa voce.
ºt i- 500 – PIACERE (spec. e prat.), grata commo zione desensi, o interna
soddisfazione del l'anima per lo conseguimento d'un obbiet to, che consideriamo
come un bene. Una è la definizione del piacer desen si, l'altra del piacer
morale. Entrambi nascono da una provvida disposizione della natura, la quale ha
fatto del piacere dei sensi un motore degl'istinti degli animali; e del morale,
un motor della volontà ed un principio delle umane azioni. Per que sto mezzo
ella spigne gli animali a fare quel che conviene alla conservazione de
gl'individui e della spezie; per lo stesso mezzo guida l'uomo all'adempimento
del dovere, e alla ricerca del bene. Suo contrapposto è il dolore, ad evi tare
il quale ha impresso ne sensi un istinto negativo, che accresce le attrattive
del pia cere; ed all'anima ha ispirato l'avversione per tutto quello che ella
apprende come un male. Ma nella scelta, nell'uso, e nel la opinione del piacere
v'ha quella stessa varietà che si scontra nella definizione del bene. Se il
piacere è, secondo la intenzione della natura, l'indice del bene, perchè non
seguirlo sempre e prenderlo per norma dei nostri portamenti? Se una tal
quistione se la proponessero i bruti, e se in costoro supporsi potesse una
filosofia, il bruto filo sofo risponder dovrebbe per l'affermati va. Egli
troverebbe negl'istinti stessi della natura i limiti del piacere: nella propen
sione al moto e al corso, la stanchezza: nell'appetenza del cibo, la sazietà:
nella voluttà, il temperamento delle stagioni: e per tutto piacer morale,
l'ignoranza del futuro, l'assenza d'ogni cura, ed il son no. Ma la stessa
quistione proposta all'uo mo, equivale a quest'altro, perchè non siete del
tutto bruto ? Ciò non ostante la filosofia umana ne ha formato un ar gomento di
controversia, e la parte dei bruti ha avuto molti illustri seguaci. Tali sono
gli epicurei e i materialisti. Ma non rimescoliamo le vecchie controversie
delle scuole filosofiche; e rimettiamoci nel cam mino delle idee che suggerisce
il senso della comune ragione. La nozione del piacere e del dolore si rannoda
sì strettamente con quelle del bene e del male, che nella filosofia razio male
potrebbero que due vocaboli essere definiti come espressione del bene e del
male, salvo che a rendere compiute tali definizioni, converrebbe aggiugner
quelle di ambedue i cennati vocaboli. V. Bene; Dolore, Male. - - PIACEvoLE e
PIACEvoLEzzA (prat.), qua lità d'uomo che si rende bene accetto per le sue
esterne maniere. - Differisce dalla cortesia e gentilezza, in quanto che
esprime l'effetto, che gli atti cortesi ed umani producono in coloro, verso de
quali sono usati. V. Cortesia, Gentilezza. - . Il piacevole ancora è più del
gradevo le, che contiene soltanto benigna acco glienza. V. Gradevole. - .
PIANETA (spec.), corpo celeste che si gira intorno al sole, come al centro del
suo moto, e che muta continuamente di posizione per rispetto alle stelle. - Dal
continuo cangiamento della sua po sizione, ricevette il nome di rhavntms, che
vuol dire errante, come un contrappo sto del fisso, che diamo agli altri astri.
V. questa voce. 1, a º Gli astronomi distinguono i pianeti in primari e
secondari, e danno il primo nome a quelli che girano intorno al sole; il
secondo agli altri, che muovonsi in - 501 - torno ad un pianeta primario.
Insino alla fine del decimottavo secolo contavansi sei pianeti primari, cioè Saturno,
Giove, Marte, la Terra, Venere e Mercurio, ma da quel tempo in qua il loro
numero è cresciuto a undici, scoverti gli altri cin que successivamente da
Herschel, da Piaz zi, da Olbers e da Harding, salvo i fu turi. Per non togliere
alla mitologia il di ritto di dare i nomi a corpi celesti, sono stati questi
denominati Urano, Cerere, Pallade, Giunone e Vesta. Coteste nuove scoverte
hanno altresì ac cresciuto il numero de secondari o desa telliti, i quali son
sinora giunti al nu mero di diciotto: tra questi è annoverata la luna, che gira
intorno alla terra. Sa turno ne ha sette, Urano sei, e Giove quat tro. Sono
stati ancora distinti i pianeti in superiori e inferiori in ragione della loro
distanza dal sole, maggiore o minor di quella alla quale trovasi la terra: tra
su periori sono Urano, Saturno, Giove, Cerere, Pallade, Giunone, Vesta, e
Marte: tra secondari Venere e Mercurio. Tutti muovonsi nelle orbite loro
intorno al sole in piani diversi, e da occidente in oriente, o sia in una
medesima direzione. Il muoversi in piani diversi vuol dire, che i piani delle
orbite de pianeti son va riamente inclinati tra loro, e ad un pia no di
paragone, qual è quello dell'orbita terrestre. Le inclinazioni non pertanto
sono in generale molto piccole, e le linee, nelle quali le orbite si tagliano,
passano sem pre per lo centro del sole. Ma il tempo, nel quale essi compiono il
rivolgimento loro intorno al sole non è lo stesso; im perocchè Urano v'impiega
ottantaquattro anni, Saturno all'incirca trenta , Giove dodici, Cerere,
Pallade, Giunone e Vesta poco più, o poco meno di quattro anni e sette mesi e
mezzo, Marte due, Venere sette mesi, Mercurio tre mesi, e la Terra un anno. Gli
astronomi c'insegnano an cora, che la natura de pianeti è simile a quella della
luna e della terra, cioè corpi sferici, opachi, che ricevono la loro luce dal
sole, densi di materia, montuosi o d'ineguale superficie, e ciascun di essi
cinto dal più al meno, di atmosfera pro pria e mutabile. - - La somiglianza tra
pianeti ha dato luogo alla opinione, che sono essi abitabili come la Terra ;
della quale opinione essendosi impadroniti taluni filosofi speculativi, han
cangiato l'ipotesi in fatto, e sono andati ricercando di qual diversa
conformazione e struttura dovessero essere gli uomini de stinati ad abitargli.
Tra costoro i più nota bili sono Fontenelle e Wolfio, ma di essi più ardito è
stato il secondo. Fontenelle, scrittor elegante e pien di grazie, si limita a
proporre congetture intorno alla diversa figura che aver debbono gli abitatori
delle sfere celesti. « Qual differenza, egli dice, non passa tra la figura e le
maniere no stre, paragonate con quelle degli ameri cani o degli affricani? E
non pertanto noi abitiamo lo stesso vascello, di cui essi ten gono la prora e
noi la poppa. Quanta maggior differenza non dee trovarsi tra noi e gli
abitatori del pianeti, o sia di que vascelli, che navigano pecieli in tanta
distanza da noi? » Per contrario Wolfio, dimostrator matematico così delle
verità identiche, come delle ipotesi, ci dà la mi sura dell'altezza di quegli
uomini compara tivamente alla nostra. « L'Ottica insegna, son sue parole, che
la pupilla dell'occhio si dilata per la luce debole, e si restrigne per la
forte. Ora la luce del sole, essendo per gli abitanti di Giove molto più debo
le, che per noi, dacchè Giove è dal sole più lontano, ne segue che gli
abitatori di quel pianeta hanno la pupilla più larga e più dilatata della
nostra: vuolsi inoltre osservare che la pupilla ha una propor zione costante
col globo dell'occhio, e l'occhio col resto del corpo, per modo che negli
animali l'occhio è sempre maggiore in proporzione della pupilla, e il corpo in
proporzione dell'occhio. Adunque per determinare la grandezza degli abitanti di
Giove, si può stabilire che la distanza di Giove dal sole sta alla distanza
della Terra dal sole come 26 a 5, e per con seguente la luce del sole per
rispetto a Giove, sta alla sua luce per rispetto alla Terra in ragion doppia di
5 a 26. L'espe rienza inoltre dimostra, che il dilatamento della pupilla
avviene in una relazione molto maggiore dell'aumento d'intensità nella luce; il
che se non fosse, i corpi più distanti ci apparirebbero colla stessa chiarezza
del vicini. Laonde il diametro della pupilla degli abitanti di Giove sta al
diametro della nostra in una ragione maggiore di 5 a 26. Supponendolo di 1o a
26, o di 5 a 13; siccome l'ordinaria al tezza degli uomini della Terra è di
cinque piedi e quattro pollici in circa; così ne segue che l'altezza comune
degli abitanti di Giove è di quattordici piedi e due terzi ». Niun altro
esempio è di questo più atto a dimostrare l'assurdità e il ridicolo nel quale
cader possono le ipotesi. Con qual fondamento afferma Wolfio, che gli abi tanti
di Giove, supposto che abbiano il senso della vista , aver debbano la pu pilla
maggiore della nostra, ed una al tezza di corpo proporzionale alla pupilla? È
vero, che la luce sia più debole in Giove, che sulla Terra; ma gli abitanti di
Giove, dotati d'organi più sensibili, potrebbero essere di tal natura, che
quella luce fosse pe'sensi loro più forte della no stra. D'altra parte, è egli
vero, che la grandezza del corpo sia proporzionale al diametro della pupilla ?
Non vediam noi il contrario negli animali? Non lo vedia mo forse ne gatti, che
hanno la pupilla molto maggiore della nostra ? Ne porci che l'hanno più
picciola del gatti? Pianeti, o stelle erranti, sono pur le comete, ma la
difformità del loro moto, la lunghezza delle orbite che descrivono, e la loro
eccentricità per rispetto al moto degli altri pianeti le fan considerare come
parte del sistema planetario che appartiene alla storia del cielo, ma che ha
men di relazione colla terra.V. Cometa, Sistema. PIANTA (speo.), corpo
organico, for mato di cellulare, di vasellini e di umo ri, che trae dalla
terra, o da altro corpo nutritivo il suo alimento. V. Corpo, Or ganismo. nome
generico, che comprende gli alberi e le erbe, le quali vegetano e si
riproducono in una forma a tutti comu ne. V. Albero, Differisce, dagli animali
in quanto trae la nutrizione non da se stessa, ma da al tro corpo cui è aderente;
e da fossili, con siderati come semplici aggregati, privi di organi. La
riproduzione delle piante non è meno maravigliosa di quella degli ani mali,
perchè la natura ha trasportato nella vegetazione i fenomeni della generazione
tanto omogenea quanto eterogenea, e per sino le anomalie, che nella scala degli
Esseri avvicinano gli organici agl'inorga nici. V. Generazione, Vegetazione. Le
piante formano il regno vegetabile, o sia il secondo de tre ordini, ne quali
sogliamo distribuire tutti gli Esseri sensi, bili della natura. Nella
struttura, nella – 505 - gradazione e varietà delle forme, nell'op portunità
del diversi usi a quali son desti nate, e per sino nella vaghezza de'colori e
degli ornati loro, la natura è così ammirae bile per la sua immensità, come l'è
negli animali e ne fossili. All'aspetto di sì grande magnificenza e simmetria
l'uomo dimanda a se stesso, in grazia di chi è stata ella cotanto benigna ?
Compia Cicerone cotesto discorso. Arborumne et herbarum, quae quamquam sine
sensu sunt, tamen a na tura sustinentur? Al id quidem absur dum est / An
bestiarum ? Mihilo pro babilius mutarum et nihil intelligentium causa tantum
laborasse / guorum igitur causa guis diverit ef fectum esse mundum ? Eorum
scilicet animantium, quae ratione utuntur / V. Mondo. PIANro (prat.), esterno
segno di com mozione manifestata collo spargimento del le lagrime, le quali
traboccan fuori per gli occhi. V. Lagrima. Il pianto è una espressione comune
ad affetti e a passioni, anche tra loro con trarie; dapoichè si piagne per dolore,
per tenerezza, per gioia, e anche per ammi razione: è la parte più espressiva
del lin guaggio d'azione, per la quale manife stiamo, prima ancor della parola,
il do lore, e il bisogno: è il primo linguaggio, con cui l'uomo, nascendo,
saluta la vita. V. Linguaggio. Dopo l'infanzia, il pianto resta un lin guaggio
di affetti e di passioni, allorchè le impressioni veementemente eccitano le
forze della interna sensibilità. V. Sensibilità. Picciolo e Piccolo (prat.),
trasportato alle qualità intellettuali, e morali, vale scarso delle une e delle
altre, PIEDE (spec. e disc.), membro del corpo dell'animale, sul quale e
riposa, e col quale cammina. E uno delle membra che la natura ha adattato, così
pel numero come per la for ma, alla varia condizione degli animali. Piede, in
anatomia, o il gran piede, dinota l'intero tratto dalla giuntura del l'anca
insino alla punta delle dita; sic come la mano dinota l'intero tratto dalla
spalla alla punta delle sue dita. Le parti di cotesto piede anatomico sono: la
coscia, la gamba, e l'estremità di questa, pro priamente delta piede, la qual
si com pone di tre parti, cioè del tarso, del me tatarso, e delle dita: il
tarso prende dalla nocca insino al corpo del piede, e corri sponde al polso
della mano: il metatarso è il corpo stesso del piede col suo fondo detto
pianta, la quale pure corrisponde alla palma della mano: le dita, delle quali
triplice è l'uso, l'articolazione, il moto, e la più ferma consistenza della
base. Le ossa del piede anatomico sono il fe more, quel della coscia, la tibia
e la fi bula della gamba, quelli del tarso, del metatarso, e delle dita. Le sue
arterie sono i rami dell'arteria crurale, siccome le sue vene vanno tutte a
terminare alla vena crurale: di queste, cinque sono le prin cipali, la safena,
la grande e la piccola ischiadica, la muscolosa, la poplitea, e la surale. La
natura ha dato due piedi all'uomo e agli uccelli, quattro agli animali desti
nati a camminare per la superficie della terra, e però detti quadrupedi, molti
agl'insetti, e nissuno a talune spezie di rettili. Galeno non lasciò di fare
molte belle osservazioni intorno al maraviglioso antivedimento della natura
nell'avere così variamente adattato il numero de piedi alla diversa condizione
degli animali, e in avere conformato i due dell'uomo per modo che bastino a
tutte le occorrenze sue (de usu partium lib. lII.). V. Arteria, Mano, Mervo,
Osso, Vena. Piede nella poesia greca e latina, e in talune delle lingue moderne
che hanno imitato i metri di quelle, è un elemento della parola, composto d'un
dato numero di sillabe lunghe e brevi.V. Poesia, Verso. PIENo (spee. e ontol.),
lo spazio occu pato dalla materia. In questo significato il pieno è
contrapposto del vacuo. V. Vacuo. I cartesiani supponevano lo spazio as
solutamente pieno, per una conseguenza del principio della loro dottrina, cioè
che l'estensione fosse l'essenza della meteria, e che essendo lo spazio esteso
non poteva essere voto, V. Spazio, Pierà e PierADE (prat.), nobile dispo
sizione d'animo, apparecchiato di ricevere amore, misericordia, e altri
caritativi affetti. È questa una definizione di Dante, nel convivio, di cui
niuno oserebbe proporre altra migliore. I latini diedero a questo vocabolo per
suo proprio significato l'amorevole rispetto e venerazione che portiamo a
maggiori di noi; e però pietas erga parentes et in Deos significò l'amor
filiale, e il rispetto e la riconoscenza dovuta a Dio. Noi ab biam conservato
al vocabolo pietà una parte del significato latino, dacchè così denominiamo la
divozione e ogni reli gioso sentimento. Ritenendo cotesto signi ficato per gli
atti doverosi, co quali ono riamo la Divinità, le testimoniamo la no stra
riconoscenza, e impetriamo la sua assistenza nelle nostre necessità, la pietà
va considerata come una delle virtù car dinali, da cui tutte le altre
dipendono. V. Virtù. Più comunemente, pietà vale compas sione o misericordia. -
L'altro piangeva si, che di pietade l'venni men ( DANTE Inf. v. ). V.
Compassione, Misericordia. PIEroso (prat.), qualità di chi sente compassione e
misericordia, e di chi eser cita atti di religiosa pietà. PIGREzzA e PIGRIZIA
(prat.), lentezza, o tardità nell'operare. Esprime lo stato naturale delle
membra nel punto, in cui ogni animale si risve glia dal sonno. Trasportato al
morale, vale oziosità, e quasi sonnolenza di animo. È meno della
infingardaggine, la qual presuppone un abito vizioso, accompa gnato dal
proposito di nulla fare. V. In fingardaggine. - -- Pio (prat.), chi esercita
atti di reli giosa pietà. Nell'uso comune del parlare scambiasi ancora col
pietoso. V. questa voce. PIRorEcNIA (erit.), l'arte de fuochi ar tifiziali.
PIRRoNisMo (crit.), la dottrina degli an tichi scettici, che dubitavano della
verità di tutte le cose, senza dichiararla incom prensibile, nel che Pirrone
differiva da Arcesila , fondatore della seconda Acca demia. Cotesta scuola
nacque per contrap posto del dogmatici, e può dirsi una de rivazione del
sofisti, che furon maestri nel discettare in contrario senso d'ogni sorta
d'argomento. V. Scetticismo. - 505 - Il pirronismo, rinnovato presso i mo derni
(i quali senza negare la realità del la natura esteriore e del concetti
dell'ani mo, la rivocano in dubbio, perchè non possono dimostrarla), ha preso
il nome di scetticismo. V. questa voce. PrrruRA (crit.), l'arte di
rappresentare gli obbietti visibili con linee, tratti, e colori sopra un piano
eguale e polito, e di esprimere il sentimento nelle figure degli Esseri
animati, È una delle arti, propriamente dette imitative, sebbene la sua parte
migliore sia riposta nella invenzione del perfetto bello ; il perchè è ancora
annoverata tra le arti, che portano il nome di belle. Il primo nome
rigorosamente le compete, quando non fa altro che ritrarre gli ob bietti
sensibili: il secondo, quando crea e compone figure e gruppi, che nel volto e
nel gesto spiegano gl'interni affetti colla stessa verità, con cui gli esprime
la paro la. Del resto l'imitazione abbraccia tanto il meccanico delineamento
delle cose esisten ti, quanto il dare l'esistenza alle cose pos sibili, e
l'adattare loro le forme più con venienti alla qualità del subbietto. E però la
pittura, imitando, finge ed inventa il bello ideale, al pari di quel che fa la
poe sia, colla quale, più che con altra arte ha somiglianza ed aſfinità.
Tuttaddue prefig gonsi lo stesso scopo, questa adoperando la parola, e quella
il muto linguaggio di azio ne: entrambe vogliono ritrarre il perfetto bello, e
aspirano a raggiugnere il sublime, assumendo l'animata espressione degli affet
ti, e delle nobili passioni.V. Finzione, Imi tazione, Invenzione, Linguaggio,
Poesia, PLACIDEzzA e PLACIDITÀ (prat.), qua lità d'animo moderato, che non si
lascia trasportare da commovimenti delle passioni. PLAsTtco (onio'. e crit.),
che ha virtù di formare, o di plasmare. - a Mature plastiche sono stati detti
certi Es seri suppositivi, a quali taluni filosofi hanno attribuito la virtù di
formare le parti decor pi organici, per ispiegare come si compia
quell'ingegnoso artificio che si trova nella struttura e negli organi degli
Esseri vitali. A cotali plastiche nature dassi da loro autori un ministero
secondario, e diremmo instrumentale; dapoichè si suppone che ese guano le leggi
stabilite dalla divina provvi denza, peregolari movimenti della materia Almeno
tal'è l'opinione che i filosofi cristiani han voluto accomodare alle dottrine
degli antichi, i quali ammisero sotto immagini e nomi diversi l'intervenzione
di simili agenti secondari. Cudworth sopra tutti gli altri ri suscitò cotesto
sistema, per ischivare due assurdi cioè, o di ammettere, che nella formazione
decorpi organici tutto fosse for tuitamente avvenuto, nel quale caso una
necessità meccanica avrebbe fatta muovere. la materia; o di supporre che Dio
stesso fosse intervenuto nella formazione e ripro duzione di ciascun corpo,
nella qual secon da ipotesi la Divinità avrebbe dovuto assu mere la figura di
esecutrice delle sue opere. La dottrina delle nature plastiche è si mile a
quella delle unità o de numeri di Pitagora, degli omiomeri di Anassagora, degli
atomi di Leucippo e di Democrito, delle forme sostanziali degli aristotelici,
de corpuscoli di Cartesio, e forse ancora delle monadi di Leibnizio. Comechè
cia scuna delle cennate ipotesi diversifichi dal l'altra per rispetto a mezzi
del suo operare, pure tutte son parti della immaginazione e conseguenze d'un
medesimo principio, o sia della supposta necessità di trovare un agente
intermedio tra l'intelligenza ordi natrice e la materia. Ma se nell'intelletto
59 - 506 - umano non può capire la nozione dell'in finito; e se d'una cosa sola
non può la mente dubitare, cioè dell'infinita sapienza e della onnipotenza del
Creatore, perchè vuole la filosofia trascendere l'umana na tura, pretendendo
d'investigare, come ab: bia la Divinità operato nella creazione, e come operi
nella conservazione di tutte le parti dell'universo? Chi ammira il pro dotto d'una
causa che non può concepire, non può neppure aspirare alla spiegazione del come
abbia quella causa operato.V. In finito, Ipotesi, Un nuovo significato si è
dato a questo vocabolo da fisiologisti, che hanno suppo sto nella materia una
virtù formatrice, per la quale gli Esseri organici si riproducono fuori delle
vie della generazione. Cotesta virtù che essi han chiamato principio pla stico
è in opposizione del principio vitale il quale è indispensabile così nella gene
razione omogenea come nella eterogenea, qualunque sia la sua forma. V. Genera
zione, Infusorio, Uovo. . - - PLEONAsMo (disc.), figura, o vizio del diº scorso
che ridonda di parole non necessarie. Talvolta il pleonasmo serve a dare ener
gia al discorso, e ne forma l'ornamento: in questi casi è una figura, di cui
v'ha esempi presso i più nobili ed eleganti scrit tori, sì antichi che moderni.
- Altra volta, pleonasmo chiamasi la su perfluità, o il ripetimento di parole,
che detraggono e non aggiungono pregio al discorso, il che certamente è un vizio.
- Il signor de Bauzèe notò essere una im proprietà del linguaggio grammaticale
il chiamare collo stesso nome il vizio e la figura, e propose di lasciare il
nome di pleonasmo alla figura, dando all'altro quella di perissologia. V.
questa voce. - PLURALE (disc.), aggiunto che si dà dai gramatici al numero del
più. V. Mumero. I nomi propri, insino a che ritengono una tal qualità non hanno
plurale; ma lo acquistano tosto che divengono appellativi, V. Appellativo,
Proprio si - PNEUMATICA (erit.), la scienza che tratta dell'aria, e del fluidi
aeriformi. Cotesta denominazione è stata talvolta scambiata con quella di
pneumatologia, per cagione dell'ambiguo significato del nome, che le serve di
radice. Imperciocº chè il vocabolo pneuma (aveuux) significa tanto lo spirito,
che noi concepiamo come immateriale, quanto ogni spezie di so stanza
sottilissima, la quale attenuandosi va a confondersi coll'aria che ci circonda.
E però il fiato, il vento, il vapore ed il fuoco stesso son detti ne libri
degli antichi rysvuata; alla moltiplicità de quali signi» ficati debbonsi
ancora aggiugnere i trasla ti, dapoichè lo stesso nome fu dato ad ogni forza
attiva, considerata come causa dell'azione e del moto. Ciò dimostra come il
linguaggio, nato materiale, non può trasformarsi in ispirituale, se non per via
di similitudini. V. Linguaggio. - a º È ricevuto oggidì che pneumatica si
chiami la scienza o il trattato delle pro prietà dell'aria e delle altre
sostanze aeri formi, quantunque potrebbe forse meglio convenirle quello di aerometria
datole da Wolfio. Imperocchè limitandosi esso alla conoscenza delle proprietà
dell'aria, e del le leggi, colle quali si muove o è mos sa, si rarefà, e si
condensa; sembra che l'antico nome prometta più che la scienza non contiene.
Del resto per non fare guerra a nomi ricevuti, conservi pure l'antica denomina
zione, la quale giustifica l'epiteto di pneu - 507 - matica dato alla macchina,
per la quale si estrae, o si rarefà l'aria contenuta in un recipiente
qualunque. Così il nome di pneumatologia, se pur sarà necessario, verrà
riservato alla scienza che abbraccia le sostanze immateriali, cioè l'anima uma
na, quella degli spiriti celesti, e per ul timo quelle del bruti. - - - . . ---
PNEUMAroLocIA (erit.), la scienza delle so stanze spirituali. V. Sostanza,
Spirituale. ., Cotesta denominazione poteva avere un senso determinato quando
credevasi, che si potesse giudicare a priori delle proprietà degli enti o
sostanze immateriali. Sotto una tal denominazione venivano la prima sostanza o
l'Ente perfettissimo ed infini, to, gli spiriti celesti, l'anima umana, e le
anime de'bruti. Ma per decidere della utilità ed opportunità di una sì generica
denominazione, uopo è considerare. 1.º che la prima sostanza (dalla quale come
dall'infinito, nulla possiamo argor mentare alle sostanze finite) forma
l'obbietto d'una scienza propria qual'è la teologi naturale; - -. . . . . . . a
2.º che la dottrina degli spiriti celesti ci viene dalla teologia dogmatica, e
non dalla filosofia razionale; i 3.º che l'anima umana forma l'obbietto proprio
della psicologia, scienza la quale ci serve di scala per ascendere alla cogni
zione degli spiriti di noi maggiori, e per discendere a quelli degli Esseri
animati, a noi inferiori; 4.º che di cotesti Esseri minori null'altro conoscer
possiamo se non quello che ce ne dice l'esperienza, e la comparazione tra gli
atti della loro, e quelli della no stra intelligenza, e - - Ora, riservata alla
teologia la cogni zione di Dio e degli attributi suoi; riman - - - - , - data
la dottrina degli spiriti celesti alla teo» logia rivelata; e considerato il
trattato delle anime de'bruti, come una appendice del la psicologia, a che
altro si ridurrebbe la pomposa denominazione dipneumatologia, se non ad un
sinonimo della psicologia? - D'altra parte giova considerare, che cotesta
denominazione di pneumatologia fu messa in voga da'eabalistici, i quali facevan
servire alla misteriosa scienza dei loro mondi, anche quella delle sostanze
spirituali; e che alla stessa denominazione ricorsero gli scolastici, i quali
trattar vol lero la teologia naturale e la dottrina delle sostanze spirituali,
come appendici della ontologia; due nuove ragioni per evitare un nome generico,
il quale confondendo in una sola nozione le sostanze di tutti gli spiriti,
potrebbe fare risorgere le stesse º false e perniciose opinioni, che altra
volta produsse. V. Psicologia. PoEMA (crit.), rappresentazione d'una azione, o
narrazione d'un fatto vero, o finto, esposto nel linguaggio poetico, col sano
gusto della imitazione e del bello, e col fine d'istruire o di dilettare. Quale
sia il linguaggio poetico e quali le regole della buona imitazione. V. Bel lo,
Finzione, Imitazione. Essendo due i modi dequali la poesia si serve nelle sue
composizioni, la rappresen tazione, e la narrazione, ne segue che la più
generica partizione depoemi, sia quel la del poema drammatico ed epico. Tale fu
la partizione che ne fecero gli antichi: Aut agitur res in scenis, aut acta
refertur. Ma ciascuno de due divisati generi può essere, ed è suddiviso in
tanti altri ge neri secondari, quanti sono i suggetti di versi che il poeta
imprende a trattare. La º - - 308 - qualità dell'argomento somministra al ge
nere drammatico la suddivisione del tra gico, del comico, del pastorale, o del
giocoso; e all'epico il sagro, l'eroico, l'erotico, il didattico, ed altri.
Ciascuno dei divisati generi ha le sue regole, che son proprie dell'arte
poetica, ma tutte conve nir debbono in taluni requisiti essenziali e comuni, i
quali sono i fondamenti del credibile, e del verisimile. L'azione del poema, o
che si rappresenti o che si mar ri, uopo è che sia una e semplice, che si
sviluppi gradatamente in tempo e in luogo possibile, sì che l'impressione che
ne riceve lo spettatore, ed il lettore, passi dal finto al vero, e dal credere
al sentire. Questa è la famosa controversia delle tre unità, che è stata ed è
tanto combat futa dalla folla degli amatori del roman tico. Considerandola noi
come una qui slione di critica universale, la ritoccheremo rell’erticolo unità,
lasciando da banda tutte le altre regole particolari, come straniere al nostro
argomento. V. Unità. PoEsIA (crit.), l'arte d'imitare il bello, e di esprimerlo
col linguaggio degli affetti e delle passioni, sia nella rappresentazione
d'un'azione, sia nella narrazione d'un fatto, col fine d'istruire, o di
dilettare. Il principal carattere di quest'arte sta nel genere della
espressione, o sia nel sentimento che muove ed anima il suo linguaggio. Quelli
che l'han definita sem plice finzione o imitazione, di due ca ratteri propri
dell'arte hanno guardato un solo, lasciando l'altro che pur è essenziale e
costitutivo. Certamente l'immaginazione, che è la facoltà animatrice della
poesia, imita e finge, allorchè trae i suoi concetti dal bello apparente o
ideale, dagli stra ordinari fenomeni della natura, o da vio lenti effetti delle
passioni; ma questo pur fa in tutte le arti imitative e nella stessa eloquenza.
Che è quel che distingue l'ora toria dalla poesia, se non il diverso genere di
linguag io di cui ciascuna delle due arti fa uso? Est ſinitimus, dice Cicerone,
ora tori poeta, numeris adstrictior paulo, verborum autem licentia liberior,
multis vero ornandi generibus socius, ae pene par. (de Orat. lib. I. cap.
XVI.). Ora qual altro è l'ufizio della eloquen za, se non il persuadere
muovendo gli af fetti e le passioni altrui, o sia chiamando il sentimento in
aiuto della severa ragione? Quel che differenzia l'una arte dall'altra, è
appunto la maggior concitazione dell'animo, che rende il poeta più vivo nelle
immagini, e più libero nelle parole: è la forza e la facilità del concetti, che
gli antichi riputarono essere un dono di divina ispirazione che chiamarono
sagro furore, e che noi diciamo estro. Saepe audivi, è detto del grande autore
testè citato, poetam bonum neminem ( id quod a De mocrito et Platone inseriptis
relictum esse dicunt) sine inflammatione animo rum existere posse, et sine
quodam af. flatu quasi furorie (de Orat. lib. II c. 46). Sono noti i luoghi di
Platone nell'Ione, nel Menone, nel Fedro, e nell'apologia di Socrate; siccome
nota è la sua partizione delle quattro spezie di furore o d'ispira zione, tra
le quali quella delle muse, o sia la poetica. Non vogliamo quì disser tare, ma
soltanto dimostrare, che i grandi maestri dell'antichità non formarono della
poesia un concetto diverso del nostro, nè altrimenti la definirono. L'autorità
loro può anche parere superflua a chiunque far voglia l'analisi di quel
sentimento che noi proviamo, allorchè siamo commossi e tra sportati dalla bella
poesia. L'impressione di cotesto sentimento non è mai più viva, che nella
poesia estemporanea, la qual comanda e conduce gli affetti altrui dove il poeta
vuole. E quì va anche ricordato l'effetto che Cicerone descrive avere
nell'animo suo prodotto i versi di Archia, il quale sembra essere apparso come
un por tento dell'arte d'improvvisare: Quoties ego hune Archiam vidi, cum
literam scripsisset nullam, magnum numerum optimorum versuum de iis ipsis
rebus, quae tum agerentur, dicere ea tempore? Quoties revocatum , eamdem rem
dice re, commutatis verbis atque sententiis? Quae vero accurate cogitaleque
scripsis set, ea sic vidi probari, ut ad veterum scriptorum laudem pervenirent.
Hune non ego diligam? non admirer? non omni ratione defendendum putem ? Atgui
sie a summis hominibus eruditissimisque ac cepimus, caeterarum rerum studia et
doctrina, et praeceptis, et arte consta re; poelam natura ipsa valere, et men
tis viribus earcitari, et quasi divino quo dam spiritu inflari (pro Archia
cap.VIII.). La prontezza e la varietà del concetti e delle parole che
sorprendevano Cicerone in Archia, e che sorprendon tutti in udire un facile ed
erudito improvvisatore, na sce dalla facilità con cui l'immaginazione prende le
similitudini o le immagini, vale a dire dipende dal parlare figurato; da poichè
il semplice e naturale discorso, che descrive le cose quali sono, o quali ci
appariscono, schiva e rifiuta le circonlo cuzioni, e i ripetimenti. Cotesto
parlar fi gurato, il quale dà colore e vivacità alla eloquenza, del pari che
alla poesia, non è che il linguaggio degli affetti, che muo vono l'animo e lo
concitano per modo che più le cose non appariscono quali in realtà sono, ma
quali le dipinge l'amore, l'odio, il timore, il dolore, o l'illusione del piace
re. «A chi ama, a chi odia, o a chi è sde gnato (dice Aristotele), e a chi è
con ani mo quieto, simili non appariscono le stesse cose; ma o affatto diverse,
o differenti in grandezza ». (Rhetor. lib. II. cap. I.). Di qua segue, che lo
straordinario, il maraviglioso e il sovrumano ha sempre somministrato figure e
immagini alla poe sia. Presso gli antichi, la mitologia era un de principali
luoghi dal quale i poeti le attignevano; presso i moderni, il ma raviglioso
eroico, ed oggidì il romantico, è sottentrato al mitologico del paganesimo. V.
Romantico, e Romanzo. Del resto, la parte più bella delle im magini poetiche è
stata sempre tolta dalla imitazione della natura, o dalla stessa vi vacità
delle passioni e degli affetti. Di quanti belli esempi d'immagini vive,
delicate, forti, terribili, suscitate da una delle divisate passioni, o da
altri ad esse affini, non sono pieni i poeti classici d'ogni lingua? Di qual
delicatezza non è l'im magine del bello, di Laura, che l'amore detta al
Petrarca? In qual parte del cielo, in quale idea Era l'esempio, onde Natura
tolse Quel bel viso leggiadro, in ch'Ella volse Mostrar quaggiù, quanto lassù
potea. (Son. 126 P. I.). Similmente di qual forza non sono le immagini dello
sdegno, nel quale descrive Virgilio i dei, intenti a rovesciare le mura di
Troja? Divom inclementia, divom IIas evertit opes, sternit gue a culmine Trojan
Hic, ubi disfectas moles, avolsaque saris Sara vides, mia toque undantem
pulvere fumum Neptunus muros, magnogue emota tridenti Fundamenta quatit,
totamque a sedibus urbem Eruit (AENEID. lib. II. v. 6o3 e seg. ). - 510 - Della
stessa vivezza è l'invettiva, nella quale il Dio del mare prorompe allorchè
mettendo il capo fuori del liquido regno, accorgesi della sua sprezzata
autorità? Tantane vos generis tenui fiducia vestri? Tam Coelum terramque meo
sine numine venti Miscere, et tantas audetis tollere moles? Cuos ego. Sed motos
praestat componere fluctus. - - a Al quale ritratto può essere ben para gonato
il terribile tumulto dell'inferno de scritto dal Tasso, nel quarto canto della
Gerusalemme liberata. Chiama gli abitator dell'ombre eterne Il rauco suon della
tartarea tromba Treman le spaziose atre caverne E l'aer cieco a quel romor
rimbomba. Nè si stridendo mai dalle superne Regioni del Cielo il folgor piomba
- , Nè si scossa giammai trema la terra Quando i vapori in sen gravida serra.
Siccome pure non può farsi un ritratto del timore più elegante di quel che lo
stesso poeta fece in Erminia: - - - Nè più governa il fren la man tremante E
mezza quasi par tra viva e morta - - - - - - - - Ella pur fugge, e timida e
smarrita Non si volge a mirar s'anco è seguita, Fuggi tutta la notte e tutto il
giorno Errò senza consiglio e senza guida, Non udendo, o vedendo altro
d'intorno Che le lagrime sue, che le sue strida. Ma nell'ora che 'l sol dal
carro adorno º Scioglie i corsieri, e in grembo al mar s'annida Giunse del bel
Giordano alle chiare acque , E scese in riva al fiume, e qui si giacque ,
(Canto VII. ). Correremmo dietro all'infinito ed empie remmo questo articolo di
luoghi di poeti, che tutti han per le mani, se volessimo dimostrare con esempi,
come la poesia abbellisce col colori delle immagini il ri tratto di tutte le
passioni, e prende da quelle i suoi ornati. D'altra parte cotesta verità è una
di quelle, che basta ricor dare, per essere riconosciuta anche da coloro i
quali l'hanno teoreticamente con traddetta. Il linguaggio poetico è un parlar
figurato: sue figure sono le immagini, delle quali si vale per esprimere gli
affetti, e per adornarne l'espressione: il ritmo stesso, da cui è circoscritto,
gli è dato per innalzarlo al di sopra della comune misura del sentimento: le
immagini e le figure sono il mezzo per lo quale esso trasporta l'animo in
un'altra sfera, in quella cioè delle passioni esaltate: coteste linguaggio, dal
ritmo in fuori, non dife ferisce dall'oratorio, se non per lo diverso grado di
emozione che convien dare agli affetti, quando parlasi alla ragione, o quando
vuolsi concitare l'immaginazione: la misura di tal gradazione sta nel verista
mile, che è norma e guida, così della fine zione come della imitazione. V.
queste voci, a - º i PoErA (orit.), chi possiede l'arte di de serivere e di
muovere gli affetti con poes tico linguaggio. - is Poerica (erit.), arte che dà
le regole e i precetti, propri alla composizione di ogni perfetto poema. - a
Quest'arte è la maestra dello stile poe tico, siccome la retorica l'è della
orato ria, ma sì l'una che l'altra sono nate dopo i grandi maestri della
eloquenza e della poesia. La sperienza ha ridotto in regole i modelli del
bello, del conveniente e del sublime, che dato aveva il natural ingegno dell'uomo.
Molti sono stati gli scrittori di arte poe tica, cominciando da Aristotele, il
quale trattò de due sommi generi che compren dono tutta la poesia, cioè la
rappresenta zione d'un'azione, e la narrazione d'un fatto, il dramma e
l'epopea; e derivar fece la poesia dal natural pendio che l'uo» mo ha per la
imitazione: della elocuzione e delle altre condizioni d'ogni poema pare lò per
incidenti, e da retore più che da poeta, Da retori parlò pure lo stuolo di
tutti gli spositori e comentatori della poetica aristotelica. Orazio attinse i
pre celti dell'arte poetica dal suo proprio ge nio, più che dagli esempi degli
altri. Tre sono i principali requisiti, che secondo lui formano il poeta: la
scelta del sugº getto: la perfetta imitazione: il linguag: gio conveniente alla
qualità dell'argomento, E quì congiungendo il linguaggio poetico colla origine
della poesia, dimostrò esser dovuti a quest'arte i primi semi della cie viltà,
che ridussero gli uomini da boschi nelle città ; e poeta essere stato Orféo il
quale distolse gli uomini dal sangue e dal ferino pasto; poeta, Anſione che
edificò le mura di Tebe ; poeti, i primi teologi della antichità, e da poeti
essere state date le prime leggi, le quali insegnarono a rispettare la santità
dell'imeneo, e apri rono all'uomo il cammin della vita. Tutti questi prodigi
dell'arte nacquero dalla ma gica forza del canto depoeti, i quali non solamente
ammollivano gli animi, ma ren devano mansuete le fiere, e mobili i sassi; dal
che apparisce manifesto, avere Ora zio riposto la forza e l'incantesimo della
poesia nel suo animato linguaggio. Con chiude Orazio il suo trattato colla
divol gata quistione, se la natura, o l'arte formi il poeta, al che risponde -
- - - - - a . . . Nec studium sine divite vena Nec rude quid prosit video ingenium:
alterius sic Altera poscit opem res, et conſurat amice º Boileau, avendo colto
i più bei fiori di Orazio, diede all'arte poetica una forma più istruttiva;
dacchè discese a precetti propri di ciascun genere di poema, e tem lerolli con
tal senso di verità e di critica, che rendette il suo libro una scuola di cri
terio e di gusto; quantunque i suoi giu dizi intorno ad alcuno del moderni
poeti, non sempre sieno stati scevri di passione e forse ancora di meschina
invidia di ma zionalità, non degna di quel severo inge gno. Di rincontro a
cotesti tre luminari maestri dell'arte poetica, possono essere taciuti i nomi
di molti altri, sebbene ele ganti scrittori, come il Vida, il Patrizi, il
Muzio, il Segni, ed altri, perchè non è nostro intento tessere la storia di que
st'arte, ma soltanto additarne lo scopo e l'utilità, al che bastano le cose sin
qua accennate. PoLARITÀ (spec.), proprietà della cala mita di attrarre per
mezzo de' suoi poli il ferro con una forza e con una direzione dell'un polo,
contraria all'altro. V. Ma gnete, Poli - PoL1 (spec.), i due termini dell'asse
della terra, i quali non partecipano del suo moto di rotazione, appunto perchè
si tuati all'estremità di quella linea, intorno alla quale il moto si esegue.
De poli uno denominasi boreale o set. tentrionale, l'altro australe o meridio
nale. Cotesti punti, pe quali passano tutti i cerchi meridiani distano
dall'equatore per un quarto della circonferenza, o sia per 9o gradi dell'antica
divisione e per 1oo della nuova; il perchè dicesi essere questi anche i poli
dell'equatore. ll moto diurno apparente degli astri, prodotto dal moto della
terra, sembra in ciascuno dei - 512 - due emisferi, che avvenga ancora intorno
ad un punto del cielo, situato nel prolun gamento dell'asse della terra. Son
questi i due punti che chiamansi poli celesti, e a quali dansi le stesse
denominazioni dei terrestri: intorno a medesimi supponevano gli antichi, che si
volgessero le sfere. Quel lo che corrisponde al nostro emisfero, è
contrassegnato da una stella di seconda grandezza, che non è da esso distante
se non per meno di due gradi, e però vien detta stella polare, laddove
l'opposto polo non ha a se vicina alcuna bella o notabile stella, il perchè
viene, indicato per la co stellazione più brillante che gli sia vicina la croce
del sud, la quale è da esso lon tana per circa trenta gradi. I poli terrestri
essendo situati nelle zone glaciali, sono stati insino ad ora inaccessi bili.
Dalla parte del settentrione i naviga tori son penetrati insino
all'ottantunesimo grado di latitudine, vale a dire alla di stanza di nove
gradi, o di 54o miglia ita liane dal polo. Nell'emisfero australe poi non hanno
essi potuto oltrepassare il settan tottesimo grado. E però di entrambi igno
rasi, se i poli del nostro pianeta sieno si tuati in terra o in mare. Siccome i
poli terrestri hanno per oriz zonte razionale l'equatore; così godono della
presenza del sole per tutto il tempo in cui questo astro dimora nel rispettivo
loro emisfero, e ne restan privi quando passa nell'altro. Questa è la ragione della
durata di sei mesi di giorno, e di altret tanti di notte, che hanno le regioni
site sotto i poli. I cerchi polari, i quali ab bracciano le zone glaciali, son
formati da quei punti della superficie della terra, che nella sua rivoluzione
diurna corrispon dono a piombo sotto i poli dell'ecclittica e de quali la
distanza da poli dell'equa tore, è per conseguente eguale all'arco che misura
l'obliquità della ecclittica cioè di 23 gradi e mezzo, il che corrisponde a 66
gradi e mezzo di latitudine. V. Eo clittica, Equatore, Latitudine, Zona. Poli
della calamila, chiamansi quei punti, ov'ella esercita la sua maggiore virtù
detta magnetica. V. Magnete, Po larità. Poli de raggi della luce. V, Luce.
PoLIPo (spec.), nome dato oggi dai naturalisti a certe spezie di zoofiti, o
piante animali, che vivono, parte nelle acque dolci, parte nel mare, e che si
moltiplicano sviluppando dal corpo loro novelli polipi, a somiglianza del germo
glio del bottoni delle piante. È una delle spezie, nelle quali è fondata la
dottrina della generazione solitaria, o anomala; anche per la singolare
proprietà che han talune delle cennate spezie, cioè che le parti da essi recise
trasmutansi in polipi interi, proprietà per altro comune a molte spezie di
vermi e d'infusori. I polipi in somma o i zoofiti, formano quel la classe di
Esseri organici, che la natura ha messo a confine tra gli animali e le piante,
e che giova a parte contemplare; così per ammirare l'immensa gradazione degli
Esseri viventi, come per distinguere, se sia possibile i confini che separano
la vita puramente vegetativa dalla sensitiva. V. Generazione, Infusorio,
Seminale. ASostanza, Zoofto, PoLEMICA (erit.), discettazione nella qua le
dibattesi con contrari argomenti una qualche controversia. Fu da prima questo
vocabolo consacrato ad esprimere quella parte della Teologia dogmatica che
tratta delle controversie, i - - 515 - e che risponde alle difficoltà fatte
dagli eretici. Ora si applica ad ogni materia di battuta con opposte
argomentazioni. PoLIANTEA (crit.), collezione di luoghi co muni, disposti per
ordine alfabetico, utile sopratutto agli oratori, e a falsi eruditi. È del
genere delle antologie o florilegi. V. queste voci. PoLIGRAFIA (crit.), l'arte
di scrivere in varie sorte di cifre, e di deciferarle. È diversa dalla criptografia,
e dalla stenografia. V. queste voci. PoLIMAzIA (grec. sup.), moltiplice istru
zione nelle arti, nelle lettere, o nelle scienze. PoLITECNIco (spec.), aggiunto
d'inse gnamento o di scuola, destinata alla istru zione della gioventù in più
scienze o arti necessarie all'esercizio d'una professione, In un senso speciale
è usato per un corso compiuto di scienze ed arti militari. º --- - PoLITEzzA.
V. Pulitezza. PoLITICA (crit.), parte della filosofia pratica, la quale versa
circa i principi del reggimento de popoli, e delle civili società. La filosofia
pratica, o morale, risguarda gl'individui; mentrechè la politica, pro priamente
detta, concerne un ente compo sto, o sia un Essere collettivo, qual è la città
o lo stato. Dalla differenza del sub bietto nasce la difficoltà e la
complicazione della seconda per rispetto alla prima. La politica attigne le sue
verità generali dalla morale, ma coteste verità trasportate ad una persona
fittizia, qual'è la società ci vile, non trovando il fondamento del l'obligazion
morale, non possono sopra di quella esercitare l'influenza che esercitano sopra
l'individuo, e per conseguente per dono molto della forza ed efficacia loro.
Laonde i principi e le regole della filosofia morale sono applicabili alla
politica, ser vate non pertanto le differenze che nascono dalla natura del
subbietto. V. Obligazione V'ha un'altra sorgente di regole e di principi, i
quali forman parte della scienza politica, e sono attinti dall'interesse o sia
dalla utilità del medesimo subbietto. A sif fatte regole molti han dubitato, se
potesse darsi la qualità di scientifiche, essendochè son relative e mutabili,
come l'interesse e le opinioni degli uomini. Ma anche le cose contingenti e
mutabili son soggette all'im perio della sperienza, la quale sceglie l'utile, e
rifiuta il dannoso, e raccoglie il con senso non solo degli uomini presenti, ma
anche depassati. Meglio dunque è dire, che la seconda fonte del principi della
politica è la sperienza, la quale supplisce appunto a quello, in che cessa
l'efficacia e la forza della filosofia morale. E se dalla sperienza possano
ricavarsi verità generali, la poli tica è di quelle scienze, delle quali il com
plesso forma la prudenza o sapienza civile. I filosofi speculativi, che hanno
trattato del reggimento civile han dato nell'utopia, a cominciar da Platone.
Aristotele consi derò la politica così nel diritto, come nel fatto, avendo
distinto due spezie di scien za: una che prefiggesi la scelta della forma
migliore: l'altra che detta le regole più coerenti ad una forma già scelta. La
spe rienza dimostra che sia vano, in tanta difformità di costumi di passioni e
di opi mioni, il disputar dell'ottimo assoluto; e però la prima scienza è
affatto degna degli utopisti; la seconda, degli uomini d'una ra gione matura e
temperata dalla sperienza. 40 - 514 - Ma limitando la politica alle sole regole
conservatrici di qualsivoglia forma, non decaderà per questo stesso dall'onore
e dal nome di scienza ? Le viziose forme, le odiose arti della tirannide, e
della popo lare licenza, entrerebbero a far parte dei suoi principi e delle sue
verità generali? L'obbiezione sarebbe solida, se si desse il nome di forma ad
ogni spezie di reg gimento, comechè tendesse a dissolvere, e non a convalidare
i legami della civile associazione. Ma se si presuppone, come implicita la
condizione, che la forma ci vile debba essere per sua natura custode delle
obligazioni imposte dalla legge na turale, e conservatrice del fine stesso
della società; è manifesto che le diverse forme ricevute dalle culte nazioni
variar possano solamente intorno agli accidenti, o sia circa i mezzi da
procurare il bene, che è il volo comune di tutte. - E penetrando più addentro
nella origine delle società civili, ogni occhio contem platore scoprirà di
leggieri un altro prin cipio della ragione umana, nel quale può dirsi che sia
veramente riposto il segreto vincolo della formazione loro. La ragione
singolare governa l'individuo, mentrechè la legge regge le masse. La legge non
è altro, se non la ragione astratta, o sia l'intelligenza, spogliata da ogni
inte resse individuale. Cotesta ragione univer sale è quella che lega le masse
alla vo lontà degl'individui; che vince ed annulla la forza delle masse stesse,
e la riconcen tra nelle persone de capi e del rappresen tanti loro. Prende ella
altresì la denomi nazione d'interesse publico, la quale al tro non importa se
non il comun fine del bene: a questo fine serve di mezzo il po tere, di cui i
capi delle nazioni son rive stiti. Uno dunque è il principio costitutivo d'ogni
civil reggimento, il pubblico, o sia il comune interesse: due sono i carat teri
discernitivi della regolarità della for ma, e della forza ed energia de suoi
mez zi: 1.º che il comun bene sia il fine di tutte le leggi, 2.º che il potere
sia l'in terprete fedele della volontà e del fine del le leggi. V. Interesse,
Legge. e La politica adopera l'aritmetica per cal colare la sua forza, i suoi
bisogni, l'opu lenza, o i bisogni così della propria, come delle altre nazioni,
onde conoscere i mezzi per accrescere la ricchezza e la potenza propria, per
rimuovere gli ostacoli che si oppongono al suo incremento, o per difen derla
dalle altrui aggressioni. Cotesto ge nere di calcoli prende il nome di aritme
tica politica. Suoi subbietti sono i rapporti della terra, e di ogni altro
elemento di ricchezza al numero degli abitanti; delle rendite alle pubbliche
imposte; della po polazione alla forza publica; della vitalità e mortalità alle
cause naturali, accidentali o locali; delle produzioni del suolo al com mercio
interno o esterno; del numerario a bisogni della circolazione; della moneta
alla sua qualità. Le verità poi che da tali calcoli si ricavano, insieme colle
regole per bene applicarle a bisogni della società civile, formano quell' altra
scienza che chiamasi economia politica. V. Economia. º - - PoLLINE (spec.),
polvere tenuissima con tenuta nelle antere delle piante, la quale è il
serbatoio della loro sostanza seminale. Il polline trovasi in tutte le spezie,
nelle quali il concorso de due organi sessuali è necessario alla loro
fecondazione. È com posto d'una innumerabile moltitudine di corpuscoli
organici, ordinariamente gialli, e talvolta bianchi, turchini, rossi, violet
ti, verdastri, i quali formano una minu -- 515 - tissima polvere. Per bene
osservargli uopo è mettergli sull'acqua, l'umidità della quale li dilata, e li
fa apparire nella vera loro forma. Ma l'acqua stessa li gonfia e gli i apre per
modo, che da tali aperture sca turisce una materia liquida, la quale si spande
per la superficie dell'acqua a guisa d'una nebula oleosa, di maggiore o mi mor
densità, secondo la diversa natura e delle piante. Le analisi de fitotomi non
han potuto sinora somministrare, se non sem plici congetture intorno
all'organica strut tura decennati corpuscoli, perchè la estre ma loro
picciolezza ne rende impossibile la sezione. Ciò non ostante ve n'ha di quelli,
ne quali i granelli del polline la sciano vedere a traverso del minuto e tra
sparente loro epiderme un tessuto cellulare, il quale apparentemente forma la
parte principale del loro organismo. Il polline di molti vegetabili brucia con
una luce viva, quando vien gettato sopra un corpo infiammato; e dà inoltre per
l'analisi chimica molto acido fosforico; il che stabilisce una notabile
correlazione tra questa polvere, e la sostanza semifera animale. Cotesta
analogia diviene anche maggiore, e sorprendente per la somi glianza dell'odore
che tramanda il polline di molti alberi ed arboscelli al tempo della loro
fecondazione, come quello del casta gno selvatico, dell'alianto, del crespino,
delle palme, dell'acacia e forse di tutte le piante conifere. (V. il dizionario
delle scienze naturali). i - . - º PoLMONE (spec.), ampio viscere, in due parti
diviso, il quale riempie in massima parte la cavità del petto, di sostanza mem
branosa, composta d'innumerevoli celle o vescichette, formato dalla natura per
essere l'organo della respirazione. V. questa voce. Le due parti del polmone,
dette pol mone destro e sinistro, son dalla parte su periore connesse colle
fauci per mezzo della trachea, e son rivestite da una ripiegatura della
membrana sierosa, la pleura, quel la stessa che intonaca le pareti interne del
torace, ed è conosciuto sotto il nome di pleura costale, per distinguerla dalla
veste esterna del polmoni, denominata pleura polmonare. a Il polmone destro è
diviso dal sinistro per lo mediastino, o sia per quel panni colo che divide il
petto per lungo, e cia scun de'due è suddiviso in lobi minori per mezzo di
talune fenditure scorrenti dall'orlo anteriore al posteriore. L'intera sostanze
de polmoni è composta di un parenchima, - nel quale dividonsi e suddividonsi i
se guenti vasi: 1.º i bronchi, che ramifican dosi a guisa d'un albero, vanno a
ter minare nelle vescichette aeree: 2.° le ar terie e le vene polmonari. 3.º le
arteri e le vene proprie di questo viscere, dette bronchiali. 4.º i nervi e i
vasi linfatici. Le arterie e le vene polmonari diconsi vasi comuni, perchè fan
passare per lo polmone il sangue di tutto il corpo, onde coll'opera della
respirazione da venoso di venga arterioso: le bronchiali s'indicano col nome di
vasi propri, come quelli che portano a questo viscere, e ne riportano, il
sangue necessario alla sua nutrizione. V. Arteria, Sangue, Vena. e 3 PoLoGRAFIA
(grec. sup.), l'astronomica descrizione del cielo. V. questa voce. i . . º
PoLTRo, PoLTRONE, PoLTRONERIA (prat.), qualità d'uomo vile e pigro. È più della
pigrizia e della infingardag gine, perchè presuppone un abito vizio so,
nascente da animo vile e degradato, ſe - 516 - - come quel de bruti. V.
Infingardaggine, Pigrizia. PoNENTE. V. Occidente. PoarENro (spec.), avvenimento
che non possiamo spiegare per le cause naturali Inote. Nel significato comune
vale ogni cosa insolita, che arreca maraviglia. V. questa V0Ce. Posrrivo (spec.
prat. e dise), quel che è, o può essere in realtà, o nella natura delle cose, o
nel pensiero, o nelle azio ni, ne quali significati ha per suo con trapposto il
negativo. V. Megativo. Nel linguaggio delle scuole chiamavansi positive le
qualità proprie d'ogni sostanza, come il peso, la durezza ed altre simili. In
Algebra chiamansi positive le quan tità maggiori del niente, in opposizione
alle quantità negative o privative, che sono meno del niente. In questo senso
il positivo vale anche affermativo. V. questa voce. Il positivo si contrappone
anche al re lativo, il perchè termini positivi son detti quelli, i quali
escludono la relazione, e dinotano la cosa qual è per se stessa. V. Relativo.
Positivo chiamano ancora i gramatici il grado, o la terminazione semplice del
l'aggettivo, senza alcuna comparazione, o accrescimento di superlativo. V.
Aggettivo. PossA e PossanzA (spee.), vale forza, considerata nello stato di
potenza, più che di azione. V. Forza. Possibile (spee. e ontol. ), quel che
attualmente non esiste, ma è nell'ordine delle cose naturali. Essere
nell'ordine delle cose naturali vuol dire, avere l'attitudine all'essere,
ovvero il non involvere alcuna contraddizione che una cosa sia. Queste sono due
definizioni, una affermativa, l'altra negativa, le quali esprimono la medesima
idea. La seconda è il contrapposto dell'impossibile. V. que Sta voce. -- Noi
acquistiamo la nozione del possibile da quella della esistenza, senza della
quale non potremmo concepirla. Possiamo anzi considerarla come formata per
astrazione dalla nozione universale della esistenza, o come una deduzione immediata
della medesima. Ben disse Leibnizio, che le idee dell'essere e del possibile
son connaturali all'animo, e son delle prime, che l'atten zione e la
riflessione sviluppano in noi. Ora un concetto così facile e connatu rale alla
mente fu ottenebrato, prima dalle definizioni, e indi dalle scolastiche distin
zioni. Taluni definirono il possibile per quello, cui corrisponde una qualche
no zione; altri, per quello, che si può dalla mente chiaramente e distintamente
con cepire; altri, per quello che può la mente semplicemente concepire. Gli
ontologisti poi, e tra questi Wolfio, dalla definizione dell'ente, che dissero
essere quel che può esistere, dedussero, che l'astratta nozione del possibile è
un ente, e come tale ca pace di qualità, di modi, e di perfezioni. Di qua
nasce, che l'esistenza fu definita come il compimento del possibile, e con
siderata come una perſezione dell'ente pos sibile. V. Esistenza. Non contenti
di disputare delle defini zioni, gli scolastici distinsero il possibile di
esistenza dal possibile di natura, e suddivisero il primo in tre altre spezie
su balterne: il futuro, il potenziale, e il mero possibile, dissero futuro quel
pos - 517 - sibile, di cui l'esistenza è già determinata dall'ordine immutabile
della creazione: potenziale, quello che è contenuto nella sua causa, come
l'albero nel seme, e il frutto nell'albero: mero possibile quello di cui
l'esistenza non involve contraddizio ne, comechè non sarà per esistere. Suddi
“visero poi il possibile di natura in metafi sico, fisico, e morale. Metafisico
dicevan quello, che non può passare all'essere, se non per una causa
soprannaturale: fisico, quel che non ripugna al naturale ordine delle cose:
morale, quel che può nascere da una giusta e prudente determinazione della
volontà. - Lasciamo tutte le cennate definizioni e distinzioni agli ontologisti
e a casisti, e riteniamo per l'uso della sana filosofia il semplice e naturale
concetto del possibile, dato da Leibnizio. Vuolsi soltanto aggiu gnere, che
l'idea del possibile circoscritto dall'ordine delle cose naturali, racchiude un
infinito relativo, o sia un che d'indefi nito. Trasportata di poi al di là
della sfera delle cose create, e riferendo il possibile all'onnipotenza
dell'Ente supremo, si con fonde coll'infinito assoluto. V. Indefinito, Infinito.
PossmILITÀ (spee. e ontol.), l'attitudine all'essere, o sia il possibile,
considerato come natura d'una cosa che attualmente non esiste. Quantunque
questo vocabolo non rac chiuda una idea diversa dal possibile, di cui è
derivato, pure gli ontologisti, e tra essi anche Wolfio, non mancarono di de
finirla, e di dedurne molti frivoli teoremi, come i seguenti: la nuda
possibilità non è sufficiente a determinare l'esistenza: oltre la possibilità è
necessaria qualche altra cosa per dare l'esistenza e l'esi stenza è il
compimento della possibilità, ed altri simili. V. Possibile. PosTERIORE (spec.
e dise.), termine di relazione ad altra cosa che precede nell'or dine del
tempo, del luogo, o della causa. Nel senso della relazione dell'effetto alla
causa, si è chiamata da logici a posteriori la dimostrazione, che procede dagli
effetti - - - - alle cause. Tali sono le dimostrazioni fon date nella
esperienza, per la quale dalla conoscenza del particolari si va al generale.
Coteste dimostrazioni appartengono al me todo analitico, o induttivo, che è una
delle due vie, delle quali la ragione si vale nella investigazione del vero.
Convie ne sopratutto alla invenzione, e allo sco primento delle verità ignote,
alle quali non si perviene se non per mezzo delle note. L'inverso metodo è quel
che procede dalle cause agli effetti, e però fu deno minato a priori. V.
Invenzione, Meto do, Priore. PosTULATo (spee. e dise.), proposizio ne, di cui
la verità si presume conosciuta, e però si pone come fondamento d'un'al tra,
che si vuol dimostrare. È termine proveniente dalla geometria, ed è proprio
delle dimostrazioni, alle quali si antepongono gli assiomi e i postulati.
Questi non differiscon da quelli, se non in quanto affermano o negano potersi
fare una data cosa; laddove gli assiomi affer mano o negano la convenienza
d'una cosa per una conseguenza immediata della de finizione della cosa stessa.
Premessa la de finizione, o la cognizione della essenza del circolo, la
proposizione, tutte le linee rette tirate dal centro alla circonferen za, sono
eguali, è un assioma; siccome - 518 - l'altra, da un dato punto e con un dato
raggio descrivasi un cerchio, è un po stulato. V. Assioma. Più ampio è il
significato, che dassi a questo vocabolo nella filosofia discorsiva. Qualunque
proposizione, che si domandi come concessa, o perchè nota, o perchè facile ad
essere dimostrata quando fosse impugnata, è un postulato, che serve di
fondamento e di grado alla dimostrazione della verità, la quale forma il
suggetto del ragionamento. PorENZA (spee, e ontol.), capacità, che ogni causa
ha di produrre l'azione, la quale n'è l'esercizio, siccome l'atto n'è il
termine. V. Azione, Causa. La prima mozione che noi acquistiamo della potenza,
ci viene dalla volontà, la quale può egualmente determinarci a pro durre, e a
non produrre un'azione; dal che ricaviamo essere la volontà una po tenza
attiva. Dalla stessa nozione, per immediata deduzione, ricaviamo che la potenza
attiva non si trova, se non negli Esseri dotati d'intelligenza e di volontà. V.
Intelligenza, Volontà, Applicando tali deduzioni, agli altri fatti contingenti,
distinguiamo quelli i quali di pendono dalla nostra volontà dagli altri, di cui
ignoriamo la causa efficiente. Dei primi conosciamo la causa e l'autor della
causa insieme; mentrechè de secondi non conosciamo altro che l'effetto. Ma l'in
duzione ci apre la strada a fare qualche altro passo nella ricerca delle cause
inviº sibili da fatti visibili. Quanto alle azioni degli Esseri, partecipi
della stessa nostra condizione, noi ci assicuriamo che il prin cipio di quelle
è nella loro volontà, dal che ricaviamo una verità generale, cioè che
l'imputabilità delle azioni loro, come delle nostre dipende interamente dal
buon o dal cattivo uso che tutti facciamo della volontà. Ma la nostra esistenza
è un fatto, che ha la sua origine immediata nella vo lontà del nostri autori,
la successione dei quali risale ad un fatto primitivo, di cui la causa
efficiente dee stare nella volontà d'un Essere necessario cioè non pro dotto da
altro. Essere, e capace di pro durre l'esistenza di Esseri, che potevano essere
e non essere. Da questa seconda conclusione noi passiamo ad una terza più
generale per rispetto alle opere della na tura ; e dapoichè in esse ravvisiamo
un ordine, una simmetria, una intelligenza, ed una potenza ºperiore a quella di
tutti gli Esseri creati, siamo dalla induzione guidati a riconoscere nella
volontà dello stesso Ente necessario la causa efficiente dell'universo. In
somma formiamo in noi stessi la nozione chiara della potenza at tiva, e ne
facciamo la dimostrazione per la regola, che gli effetti naturali dello stesso
genere debbono essere prodotti dalle medesime cause. V. Causa, Cau salità, - -
. La nozione della potenza attiva, desunta dall'esercizio della volontà, è sì
conna turale alla ragione, che la veggiamo na scere insieme colle lingue, nelle
quali i verbi attivi son distinti da passivi, siccome l'agente lo è dal
paziente; segno mani festo, che è questa una di quelle illumi nazioni naturali,
che sono attestate dal senso universale della umanità. A questo senso
contraddissero quegli scettici, i quali negarono la realità delle cause e della
po tenza, perchè non potevano travarla col ragionamento a priori, nè per la
sperienza de'sensi esteriori, V. Azione, Causa. - s. Le scuole han dato al
vocabolo potenza un significato più generico e più indeterº minato insieme; il
che ha prodotto molte vaghe e confuse, nozioni. Aristotele consi derò come
potenza la virtù di operare il cangiamento, del pari che quella di rice verlo o
sopportarlo; e la distinse in attiva e passiva, in razionale e irrazionale,
Suoi teoremi sono : « la polenza è perma mente nelle cose, comechè non sia
ridotta in esercizio: ogni cosa possibile presuppone la potenza, e per
contrario non si dà po tenza delle impossibili : le polenze, razio nali o
meccaniche che sieno, sono o na turali o acquisite». La dottrina aristote lica
della potenza passò nella moderna filo sofia, e diede luogo alla promiscua deno
minazione di potenza e di facoltà per ri spetto agli attributi dell'anima.
Dalla stessa origine nacque la nozione dell'attivo e del passivo nelle ſorze, e
nelle stesse facoltà intellettive. i Giova ora restituire a questo vocabolo il
suo significato proprio, limitandolo al l'azione, di cui è la sorgente. V.
Facoltà, Porza, - e º si i lºrº a a º e PoTENZIALE ( spec. e ontol, ), virtù o
forza inerente in un subbietto, di produrre un qualche effetto, comechè
attualmente mol produca - , ontri a era i In altri termini, è la potenza
conside rara come qualità del subbietto, cui è ine rente. In questo senso,
diciamo calore e freddo potenziale, e con tali espressioni intendiamo che un
corpo, sebbene non - , sia caldo o freddo al tatto, pure ha virtù di eccitare
l'una o l'altra sensazione inter namente, o quando sia messo in contatto o in
combinazione con altra sostanza. . Il potenziale si confonde col virtuale,
quando ambo questi nomi si riferiscano alla capacità della causa, o alla
possibi lità dell'effetto. V. Virtuale. as o o i PorERE (spec. e ontol.), virtù
dell'ope Fante. Una talvirtù va considerata diversamente ne vari subbietti, ne
quali risiede. L'uomo trova in se stesso la nozione del potere, dapoichè la
ricava dall'esercizio della sua volontà. Potendo ciascuno volere, deli berare,
risolvere, eseguire, e produrre l'azione, sente esser questa una virtù ine
rente alla propria costituzione. Una tal no zione dunque non ci viene da sensi
ester ni, ma dall'interno senso della propria natura. Da noi stessi la
trasportiamo fuori di noi, e la ravvisiamo nel nostri simili, me quali
scorgiamo la medesima virtù ope rativa; ed estendendola di poi alle altre cose
contingenti, siccome siam certi che tutto quel che ha cominciato ad esistere,
de essere stato prodotto da una volontà libera ed intelligente, così
congiugniamo la nozione del potere con quella della vo lontà. In fine per la
stessa sealagiugniamo al poter supremo, da cui derivano tutti i poteri
particolari. V. Volontà. Il potere, considerato come una pro prietà degli
Esseri intelligenti, è il prin cipio di quel che in essi dicesi potenza attiva.
V. Potenza, e Considerato poi genericamente, come la virtù che ogni causa ha di
produrre un effetto, è la nozione la quale ci guida alla scoverta del grande
principio della causa lità. V. Causalità, Principio, i º - - - PovERrà (prat.),
scarsezza o mancanza delle cose necessarie al sostentamento del la vita. o º I
La povertà è la condizione naturale dell'uomo, il quale nasce circondato da
bisogni, che non può per se stesso sod - irº -, - - - - - - - a - - . ' .
disfare. Cotesti bisogni lo costituiscono nel l'altrui dipendenza, sì ch'egli
nel primo - 520 - stadio della vita non assicura l'esistenza, se non per le
cure del genitori, e in man canza di costoro per gli aiuti degli altri uomini,
a quali la natura ha ispirato la pietà pe fanciulli. A questo primo stato succede
quello della debolezza delle membra incapaci di sostenere la fatica; dipoi
l'altro della ine spertezza della età e della ignoranza, ed indi lo stato
permanente, quello cioè del la necessità del lavoro. Siccome la natura non ha
presentato all'uomo spontanei gli alimenti, e lo ha messo nella condizione di
dovergli procacciare colla fatica; così è manifesto, essere la povertà una
condi zione naturale, dalla quale non si esce, se non per lo concorso della
propria opera. A differenza degli altri animali, non so lamente dee l'uomo
impiegare l'opera per assicurarsi gli alimenti, ma conosce e teme la differenza
tra l'agiatezza ed il bisogno, o sia tra la povertà e la ricchezza. Nulla manca
a pesci e agli uccelli: nulla a qua drupedi che vivono nel campi: nulla alle
fiere nella solitudine. Donde tal differen za, e perchè l'uomo padrone della
terra e degli animali, è incessantemente agitato dalla sollecitudine e dal
timore di mancare del necessario? D'onde la disuguaglianza tra quelli che ne
abbondano, e gli altri che ne mancano? Conveniva alla condi zione morale
dell'uomo, ch'egli conoscesse i suoi veri bisogni, e la misura di soddis
fargli. Cotesta misura risguarda se stesso, e gli altri. V. Bisogno, Fatica.
Quanto a se medesimo, pochi sarebbero i suoi bisogni, se egli sapesse comporgli
alle indicazioni della natura, o sia della ragione, e se trasportar non si
facesse da quelli che crea l'opinione. Bello è il detto di Epicuro, riportato
da Seneca: Si ad naturam vives, numquam eris pauper, si ad opinionem, numquam
dives: exi. guum natura desiderat, opinio immen sum, detto riportato da Catone:
a te mu tuum sumes; quantulumcumque est, sa tis erit.; nihil enim interest,
utrum non desideres, aut habeas. (Epist. XVI.). Quanto agli altri, la natura ha
creato l'uomo bisognoso e dipendente, per invi tarlo alla comunione e alla
reciprocazione cosimili suoi; e per vincolo di tal comu nione gli ha ispirato
il sentimento della be nevolenza, la quale ci addita l'uso che far dobbiamo
delle cose superflue in favor dei bisognosi. La povertà, o si consideri come
prodotta dalla naturale disuguaglianza delle forze e della capacità
degl'individui; ov vero come cagionata dalle difettuosità del l'ordine civile,
rappresenta la parte dei beni della natura, che trovansi fuori delle mani di quelli,
a quali apparterrebbero. L'ordine civile sopratutto, che strigne e non
iscioglie i legami naturali, ha il de bito di fare sparire la povertà, sia
aprendo nuove vie alla fatica, sia nutrendo quelli, che per infermità o per
età, non possono provvedere a propri bisogni. Per la stessa ragione
gl'individui hanno nello stato ci vile un dover maggiore di quel che avreb bono
nell'ordine delle cose naturali. Tra costoro l'uso delle ricchezze distingue
l'uo mo virtuoso e sapiente dallo stolto: quegli corre in cerca dell'altrui
bisogno per ri storarlo ed estinguerlo: questi si reputa un Essere privilegiato
della natura, e guarda il povero come una creatura degenere, che nulla ha con
se di comune: lo stolto ricco, tamquam aliquie aeternam pos sessionem divitiarum
promiserit, assue seit illis et cohaeret; il sapiente, tune maxime paupertatem
meditatur, cum in medits divitiis constituit (Sen. de vita beata c. 26). I mali
dunque che derivano – 521 – dalla povertà, sono imputabili non alla natura, ma
all'uomo. Dal diverso uso che questi fa del suo superfluo, possono nascere, o
vincoli di unione e di amore, o germi di avversione e di rivalità: di amore, se
l'uom dovizioso riconosce il na tural debito che ha di riversare quel che gli
avanza al sostentamento del povero: di avversione, se l'interesse o la propria
uti lità serva di misura alla liberalità, la quale cessa di meritare un tal
nome, quando i soccorsi che dispensa, sieno comprati a spese delle forze e
della vita del benefi cato. Dalla vera liberalità nasce il dovere della
gratitudine; dalla falsa, i sordi ed invincibili odi tra il padrone e lo
schiavo, e tra l'oppressore e l'oppresso. V. Grati tudine, Liberalità. PRAVITÀ
e PRAvo (prat.), malvagità o vizio che ha in se del deforme. - È contrapposto
del retto e del regolare. Gl'italiani adoprano questi vocaboli nel senso
morale. Presso i latini il significato proprio era la deformità delle membra,
la quale per un senso traslato applicavasi alle deformità dell'animo. PRECETTo
(prat.), regola d'insegna mento, istruzione, o avviso di persona autorevole. -
È proprio delle regole della filosofia spe culativa, pratica e discorsiva. E la
norma che comandamento ci viene dalla dellaragione, legge. diversan dal
PRECIPITANZA (prat.), impeto nel deli berare, senza dare giusto luogo alla ri
flessione. - PRECISIONE e PRECIso(spec. dise. eprat.), esattezza di
ragionamento, di calcolo o di - r--- - sº -- Li C - espressioni, per trovare,
dimostrare, o spiegare una verità, o per adattare una verità generale ad un
caso particolare. La precisione aggiugne al concetto del l'esattezza anche la
convenienza di tutte le al tre relazioni particolari al subbietto del pen
siero, della parola, o dell'azione.V. Esatto. PREcoNoscENZA. V. Prescienza.
PREcoGITARE (spec.), sinonimo di an tipensare, che ci viene dal latino. V. An
tipensare. º - PREDICABILE (disc.), relazione della qua lità al suo subbietto.
È termine scolastico nato da una par tizione logica, per la quale i
peripatetici ordinarono sotto cinque classi tutte le re lazioni del subbietti a
predicati loro. Tali classi sono, il genere, la spezie, il pro prio, la
differenza, l'accidente. V. que ste voci. Cotesto ordinamento è imperfetto, per
chè l'enumerazione non comprende tutte le diverse spezie di relazioni tra
predicato e subbietto. Aristotele, ne topici, comprese i predicabili in quattro
classi, avendo unito in una il proprio e l'accidente. L'esempio di ciascuna
delle dinotate classi può ricavarsi dalla figura del trian golo, la quale in
quanto si considera for-. mata da tre linee, dà l'idea del genere, di cui il
triangolo rettangolo è una spe zie. Le proprietà poi che distinguon questo da
quello formano il proprio e la differenza. Locke credette potere ricavare dalla
con venienza o disconvenienza delle idee quat tro predicabili più universali degli
aristo telici, cioè l'identità e la diversità, la relazione, la coesistenza, e
l'esistenza reale. Vuolsi notare, che niuna di queste 41 I a - -, vº,: - – 522
– operazioni è compresa negli antichi pre dicabili. Hume ridusse i predicabili
a seguenti: alla rassomiglianza, alla identità, alla relazione di spazio o di
tempo, alla re lazione di quantità e di numero, a gradi di qualità, alla
contrarietà ed alla cau salità. E quì giova anche notare, che da tal partizione
restan fuori tutti i predica bili degli aristotelici, e due di quelli di Locke.
- Circa l'utilità di queste e di altre par tizioni, V. Logica. - I predicabili,
del pari che i predicati, perchè comuni a più individui, furon detti
universali.V. Individuo, Predicato, Uni versale. Parmicamento (dise.),
partizione logica, per la quale tutti gli obbietti dell'umana comprensione
furono ordinati in dieci classi dette anche categorie. V. questa voce.
PREDICATo (disc.), tutto quel che può essere affermato o negato d'un subbietto.
Gli addiettivi son predicati denomi su stantivi ; e dal perchè son comuni a più
individui furon ancora detti universali. V. Universale. PREDILEzioNE e
PREDILIGERE (prat.), l'amare con preferenza, o l'amare grande mente una cosa, o
una persona.V.Amare. PREESISTENZAePREESISTERE (spec.eontol.), l'esistere prima
d'un'altra cosa, o d'un al tro. Essere. E vocabolo scientifico, spesso
adoperato per esprimere le opinioni degli antichi in torno alla supposta
esistenza anteriore della materia, o delle anime umane. V. Ani ma, Esistenza,
Materia. e PREgio (prat.), conto o esistimazione, in cui tiensi una persona. È
più di stima, che esprime soltanto un sentimento dovuto per merito ; men trechè
questo vocabolo racchiude ancora l'idea d'un merito distinto, cui si presta una
spontanea testimonianza di onore. E però si adopera anche nel senso d' orma
mento, vale a dire d'un merito che ab bellisce. V. Merito. PREroRMAzione
(spee.), nome dato alla dottrina di quei fisiologi, i quali sosten gono che il
germe del corpi organici di una medesima spezie trovasi rinchiuso in quello
degli Esseri generatori, a comin ciare dal primo Essere, da cui tutti gli altri
sono stati emanati. - È il sistema, detto ancora d'incessa mento o di
evoluzione, opposto alla epi genesi, o successiva formazione. V. Epi genesi, Evoluzione,
Uovo. PREGIUDIZIo (spec.), prematuro, o an ticipato giudizio, formato sopra
l'autorità altrui, e senza matura disamina della sua verità. Il primo scrittore
italiano che adoperato abbia un tal vocabolo nel divisato senso, fu il
Magalotti, ma niun altro dopo di lui ha osato d'imitarlo; il perchè gli ari
starchi del purismo inarcano le ciglia, allorchè il sentono usato fuori del suo
co mune significato di danno. Ma se si po tesse attendere ragione da loro
decreti, domanderemmo, perchè escludere un si gnificato, che è conforme alla
etimologia del nome; e perchè dicendo essi preco noscenza, prenozione, e
precogitare dir non possano pregiudizio nel senso d'un giudizio innanzi tempo
fatto? Ci rispon derebbero che il Magalotti fu scrittore li - 525 – cenzioso, e
che l'uso è fondato nell'au torità, e non nella ragione. Non essendo noi
persuasi dell'una e dell'altra risposta; anzi credendo che l'uso degrammatici
non sia quello del filosofi, e che l'uso, qua lunque sia, non possa mai metter
ceppi al pensiero, risguardiamo come necessario il nuovo significato. Chiamiamo
dunque pre giudizi, insieme con Bacone e con Car tesio, le false opinioni, che
l'autorità, l'educazione, l'abito, o una cieca cre denza sogliono in noi
radicare, insin dal tempo in cui cominciamo a formare la no stra cognizione.
Coleste opinioni sono al trettanti prematuri giudizi, i quali ci ten gon
lontani dalla conoscenza del vero, in sino a che con più matura analisi non gli
soggettiamo alla trutina della sperienza e della ragione. Il dubbio metodico è
quel lo che muove la mente a diffidare d'ogni proposizione che non nasca da
altra per se stessa evidente, o di cui il ragionamento non le somministri una
chiara dimostrazio me. A differenza degiudizi intuitivi e de dotti, i
pregiudizi formano una terza spezie di conoscenze, di cui ci rimane a saggiare
la certezza: prima di tale sperimento non può la ragione prestare loro un
sicuro assen timento.V. Certezza, Giudizio, Opinione. PREMEDITARE e
PREMEDITAZIONE (prat.), deliberato proponimento di fare un'azione o di
sopportare un avvenimento, innanzi che ne venga l'opportunità. È più
dell'antipensare e del precogitare, perchè presuppone un'anticipata determi
nazione della volontà. Differisce tanto dal l'uno e dall'altro, quanto il
pensare dal meditare. Così, infatti, Quintiliano li di stingue: qui ad agendum
nihil cogitati praemeditatique detulerit (lib. IV. cap. 5). V. Anlipensare,
Precogitare. PREMESSA (dise. ), ciascuna delle due prime proposizioni del
sillogismo, dalle quali cavasi la conseguenza. Gli scolastici distinguevano le
premesse in eguali e disuguali e le chiamavano egua'i, quando ognuna delle due,
sepa ratamente presa, non basta per inferirne la conclusione, e a questa tanto
contribuisce l'una, quanto l'altra: disuguali allor chè la seconda proposizione
serve soltanto per applicare la prima, nella quale è con tenuta insieme colla
conseguenza, o sia quando la seconda proposizione sta alla prima, come il
conseguente all'antecedente. Tra le premesse disuguali poi distingue vano la
prima col nome di maggiore, e la seconda con quello di minore. Ma l'uso stesso
delle scuole tolse cotali di stinzioni, e confuse sotto il nome di pre messe le
due proposizioni di ogni sorta di sillogismo, categorico, ipotetico, o dis
giuntivo che fosse; e designò come mag giore la prima e come minore la seconda.
V. Sillogismo. Premesse in somma sono le proposizioni evidenti, le quali
servono di base al ra gionamento. Lo stesso significato dassi an che fuori del
sillogismo, alle cose conces se, o dette antecedentemente, dalle quali si fa
discendere una conclusione qualun que. V. Conelusione. PREMIo (prat.), bene che
si riporta da un'azione virtuosa. I premi si partiscono in naturali e po
sitivi. Naturali diconsi quelli che necessa riamente conseguono dall'azione, e
dequali il primo è l'approvazione della coscienza, o sia l'interna
soddisfazione dell'anima. V. Approvazione, Coscienza. I positivi poi son quelli
che i legislatori umani concedono in ricompensa d'un'azio it - 524 - ne
virtuosa o utile. Cotesta spezie di premi abbraccia tanto i beni reali, quanto
quelli che diconsi di opinione. V. Bene. Contrapposto del premio è la pena , la
quale è capace della stessa partizione. V. Pena. PRENozoNE (spee. e dise.),
nozione ante cedente, che serve di lume al conseguente. È vocabolo adoperato
dal Redi. V. An tecedente, Conseguente, Mozione. I latini con questo vocabolo
intesero esprimere le anticipate nozioni, che na scono dalla luce naturale
della ragione, che da altri sono state dette innate , e che noi chiamiamo prime
verità, o prin cipi dell'umana cognizione. Cicerone ne dà come esempio la
nozione della Divinità. V. Principio, Verità. I latini per altro non fecero che
traspor tare nell'idioma loro la voce greca rpo Xmlis, di cui Epicuro fu il
primo che fa CGSSC US0, PREoccUPAzioNE (spec.), riferita all'ani mo, vale
prevenzione, di cui dee l'intel letto spogliarsi, allorchè vuol procedere al
maturo esame della verità. Esprime non pertanto una più intensa prevenzione,
che resiste alla forza del ra gionamento e della dimostrazione. V. Pre
venzione. - PREPosizioNE (disc.), particella indecli mabile, ed una delle otto
parti della nostra favella, che premessa ad altre parti del di scorso, ne
determina il caso ed il significato. In generale, le preposizioni servono ad
esprimere un rapporto che congiunge l'an tecedente col conseguente, comechè per
se stesse non esprimano alcun rapporto de terminato. - PRESCIENZA (teol.),
attributo di Dio, per lo quale antivede le cose future. Le cose future son di
due sorte: o de rivano dall'ordine delle cose esistenti, ov vero dall'ordine
delle possibili: in altri termini, sono necessarie, o contingenti, e quì
intendesi parlare del necessario di essenza. V. Mecessario. La mente umana
concepisce facilmente la prescienza della mente divina nelle cose necessarie;
dapoichè tutto l'avvenire dee scoprirsi senza velo alla mente divina, autrice
delle cose e delle leggi colle quali si succedono. Inoltre giudicando noi del
l' infinito per le analogie del finito, ci serviamo della limitata previsione,
di cui la mente umana è dotata, come di scala per giugnere alla comprensione
della pre scienza divina. In fatti potendo noi per la sola forza della nostra
previsione anti vedere e determinare i fenomeni, che na sceranno dalle leggi
costanti della natura a noi note; ricaviamo per manifesta in duzione, che
l'Autor di tutto il creato, e la prima di tutte le cause debba necessa riamente
conoscere come queste opereranno per tutta la durazione loro. V. Previsione. Il
concetto della prescienza per rispetto alle cose contingenti, si presenta come
più scabroso da fautori del sistema della necessità, o sia da coloro che
toglier vor rebbero all'uomo la qualità di agente mo rale. Se le azioni libere
e contingenti, dicesi da costoro, hanno la loro ragione sufficiente nella
volontà dell'agente, o non possono essere antivedute, o se son capaci di
antivedimento, son per questo stesso necessarie e non libere; e però am
mettendo la prescienza, negano la libertà. V. Libertà , Mecessità. Siffatte
quistioni son di quelle, che la sana filosofia dee sbandire, perchè mentre –
525 – da una parte impugnano le verità certe, esigono dall'altra una
dimostrazione a prio ri, la quale ripugna alla natura del sub bietto, nel che
vuolsi notare essere ordi nariamente riposto l'artifizio degli scettici.
Comincian costoro dal negare le verità det tate dal senso intimo e dalla
coscienza, e pretendono che si dimostri quel che è indimostrabile.
Indimostrabili sono tutti gli attributi della Divinità, sebbene si fac ciano
manifesti per gli effetti loro. Certo è d'altra parte, che noi abbiamo il po
tere di produrre un'azione, di deliberare, di scegliere, e di determinare la
nostra volontà. Ora quel che il supremo Autor della natura ha voluto che noi
ignoras simo, non può mai formar argomento per negare quel che in noi stessi
sentiamo. Del resto il concetto della divina pre scienza nelle cose contingenti
si apre in noi per la stessa via dell'analogia, per la quale lo formiamo nelle
cose necessa rie. La mente umana è pur dotata d'una previsione delle cose
contingenti, o sia delle sue proprie azioni, la quale non de roga al principio
della sua libertà. Noi possiamo antivedere, ed antivediamo, quel che potremo
fare in date occasioni, quan do le risguardiamo come altrettanti motivi propri
a determinare la nostra volontà. Che altro è l'umana prudenza, se non lo studio
di comporre le azioni all'ordine dei futuri avvenimenti? E qual è il vero sag
gio, se non colui che ha meglio saputo antivedere gli effetti che nasceranno
dal retto uso della sua volontà? Ora qual più naturale concetto della
prescienza divina, che Colui il quale ha predisposto l'ordine di tutte le cause
naturali legga più avanti di noi nel futuro, e conosca dove sarà per guidarci
il libero corso della nostra volontà? Ma la quistione della prescienza si an
noda pure, dagli stessi fautori della neces sità, all'origine del bene e del
male, nel che gli argomenti loro son simili a quello testè esposto. « Se Dio,
dicon essi, anti vede tutte le azioni umane, buone o ree che sieno, perchè non
impedirebbe la consu mazione del male, o perchè destinerebbe le sue creature
alla infelicità e alla miseria»? Cotesto argomento apre l'adito all'empie tà,
dapoichè tende o a diminuire l'onnipo tenza, o a scemare gli attributi
essenziali della giustizia e della bontà di Dio; e forse ancora a rinegarne
l'esistenza. Intanto il vizio dell'argomento giace nel supporre, che noi
dovremmo attendere da una dimostrazione diretta la nozione della Divinità e del
suoi attributi. Ma noi la sen tiamo in noi stessi, la veggiamo nell'im mensità
delle sue opere, e la sperimen tiamo nella sua provvidenza. Certamente
distinguiamo per una luce in noi impressa il bene dal male, amiamo l'uno ed ab
borriamo l'altro, ed abbiamo in noi stessi a guardia del bene il sentimento
della co scienza, che ricompensa la virtù col con tentamento dell'animo, e
perseguita il vizio co rimorsi e col pentimento. Iddio dunque non ha voluto il
male, e tanto non l'ha voluto, quanto ci ha cinto di ripari, per conoscerlo,
per ischivarlo, e per abbando narlo. Questa è la verità di cui ci fan certi le
leggi della nostra morale costituzione. Ma per qual fine siam noi costituiti
nel bi vio di fuggirlo o di abbracciarlo? Cotesta quistione non appartiene alla
prescienza, nè da quella dipende: appartiene sì bene alla imperfezione
dell'umana natura, ed a fini riposti del suo Autore. Non è dun que
l'incompatibilità della prescienza colla libertà, ma è l'orgoglio della ragione
uma na, intollerante degli arcani della natura, – 526 – - che somministra alla
filosofia armi per di struggere le verità conservatrici della no stra morale
esistenza. V. Bene, Male. PREsENTE (spee. e dise.), la parte indi visibile del
tempo, che trascorre nell'atto stesso in cui l'avvertiamo, e separa il pas sato
dal futuro. V. queste voci. L'idea del tempo presente confondesi con quello
dello istante e del momento, e diremmo ancora col punto geometrico, che non ha
dimensioni. Non pertanto co testa indivisibile parte della durata, prende nella
misura pratica del tempo un signi ficato relativo, ed è capace ancora di gra
dazioni, le quali sono con diverse voci espresse da grammatici ne modi deverbi.
V. Istante, Momento, Tempo. I gramatici chiaman presente quel modo de verbi,
che esprime l'esistenza dell'Es sere o dell'azione relativamente al tempo in
cui se ne parla; e siccome l'esistenza dell'Essere o dell'atto può riferirsi ad
un tempo determinato o indeterminato; così distinguono il presente definito
dall'inde finito, e suddividono il definito in tre al tre spezie subalterne, le
quali entrano nel passato e nel futuro, perchè l'atto o l'Es sere di cui si
parla può coincidere col tempo della parola, o può averlo prece duto, o potrà
seguirlo. Di qua le distin zioni del presente definito attuale, del
l'anteriore, e del posteriore. In somma chi parla e chi narra, può far presente
quel che è stato o quel che sarà, ma in tali rincontri il tempo ch'essi chiaman
presen te, per rispetto alla parola, si risolve in quanto alla esistenza reale
del subbietto, in passato ed in futuro. Vedi i gramatici. PREsoNTUoso,
PREsoNTUosITÀ, PREsoNzIoNE (prat.), amore inconsiderato di noi stessi, per lo
quale giudichiamo sempre favore volmente delle qualità, o azioni nostre. È la
causa dell'arroganza. V. questa voce. Ma può la esagerata opinione di noi
stessi scontrarsi colla verità; o sia po trebbe darsi un uomo, che fosse giusta
mente presontuoso ? La quistione va decisa per la negativa; dapoichè l'uomo
presontuoso pecca in due cose, nell'estimare troppo se medesimo, e poco gli
altri; i quali due sentimenti son viziosi e falsi insieme, perchè non è in noi
bene naturale, che non nasca da una pre disposizione della stessa natura,
comune a molti; che non si trovi più eminentemente in altri; e che non sia
infetto da qual cuna delle imperfezioni, inseparabili dal l'umana condizione.
Ciononostante i pre sontuosi, reputandosi figliuoli prediletti del la natura,
oltre all'estimare falsamente se stessi, giudicano ancora falsamente degli
altri. Per costoro non vale l'aforismo: homo sum, humani a me nihil alienum
puto. - La presontuosità è un ostacolo invinci bile alla virtù, perchè preclude
la strada alla conoscenza di se medesimo, e sof foca la voce della coscienza: è
una preoc cupazione dell'animo, per la quale, sia ne'fatti sia ne'detti, l'uomo
serve di auto rità a se stesso, e si ammira o che pensi, o che operi, o che
rilegga i propri pen sieri, o che risamini le azioni sue: gli toglie infine il
frutto della sperienza, che è la prima scuola della vita. V. Conoseen za,
Sperienza. PRESTANTE e PRESTANZA (prat.), qualità di singolare bontà, che
merita preferenza Differisce dall'eccellente, in quanto con tiene un'idea di
relazione ad altre simili qualità tra loro comparate. V. Eccellente. – 527 -
PRESTIGIo (spec.), illusione della mente, prodotta da pregiudizi o da false
opinio ni, le quali impediscono il retto uso del giudizio. V. questa voce. I
prestigi considerati come cause degli errori dell'intelletto, furono da Bacone
chiamati idola, e distinti in tre classi. 1.° Quelli che nascono dalla natura
uni versale, o comune a tutti gli uomini, i quali furon detti da lui idola tribus,
o sieno fantasime di tribù. Tali sono la ten denza che abbiamo per l'altrui
autorità, la natural disposizione a giudicare dell'ignoto dal noto, la facilità
colla quale riduciamo le cause del fenomeni alle più semplici pos sibili, il
genio o l'ambizione dell'invenzio ne, ec. 2.º Quelli che vengono dalla par
ticolar natura di ciascun uomo, detti idola specus, o sieno fantasime di
spelonca : i geometri soggettan tutto a calcolo e ami sura: gli archeologi
riducon tutto all'eru dizione : gli etimologisti alle loro radici favorite, ec.
3.º Quelli che derivano dal si gnificato convenzionale di vocaboli, detti idola
fori, nella quale classe entran tutti gli errori nati dall'abuso e
dall'ambiguità determini, di che la filosofia intellettuale presenta i più numerosi
esempi. Aggiunse Bacone alle tre dinotate sorgenti dell'errore, anche una
quarta, di quelli cioè detti idola theatri, i quali son prodotti dalle false
dottrine, o dalle regole di dimostrazione. Questi non pertanto sono men
pericolosi, perchè meno invincibili deprecedenti: tali sono gli errori generati
dallo spirito di si. stema nelle scienze, dallo spirito di setta nelle
controversie dogmatiche, o da quello di parte nelle opinioni politiche. V.
Errore. PRESUMERE (spec. e disc. ), prendere per vera una proposizione prima
che ven ga dimostrata, È un atto anticipato del giudizio, il quale abbraccia
tanto le vere, quanto le false opinioni. V. questa voce. PRESUNZIONE (spec. e
disc.), proposizione cui prestiamo assentimento, per l'appa rente conformità che
ha col vero. V. As sentimento. Abbraccia tutte le conseguenze che per analogia,
o per similitudine ricaviamo da un fatto noto, onde desumerne una ve rità
ignota. PRETERITo (spec. e diso.), latinismo, che contiene un sinonimo del
passato. V, que Sta Voce. I gramatici danno un tal nome a quella parte del
verbo che esprime il passato. V. Verbo, PRETESTo (prat.), velame o apparente
ragione, per la quale mostriamo esserci determinati ad un'azione, mentre in
realtà da tutt'altro siamo stati mossi. V. Azione. PaEvARICAZIONE (prat.), la
determina zione al mal oprare, presa per seduzione o per altro inonesto motivo
dettato dall'al trui volontà. PREVEDIMENToePREVIDENZA(spec. eprat.), voci che
equivalgono all'antivedimento e all'antivedere, e si applicano all'acume della
vista dell'animo, allorchè leggiamo ne pensieri altrui, più innanzi di quel che
essi dicono, o vediamo le future con seguenze d'un fatto qualuuque. V. Anti
vedimento, PREVENZIONE (spec. e prat.), impedi mento al libero giudizio, il
quale nasce da anticipato concetto, che facciamo for - 528 – mare agli altri, o
formiamo noi stessi, vero o falso che sia. La prevenzione ricevuta o formata
senza maturo esame, è la causa del pregiudizi e della preoccupazione. V. queste
voci. PREVISIONE (spec.), qualità della men te, per la quale antivediamo
l'effetto di una causa costante. V. Causa, Effetto. La previsione risguarda
propriamente i fatti necessari, che dipendono dall'ordine della natura, come il
corso de pianeti, e i fenomeni in generale che nascono da leggi naturali, certe
ed invariabili. Può anche risguardare i fatti contin genti e le stesse azioni
libere dell'uomo, quando colla guida della sperienza cono sciamo, che tali
determinazioni saranno per produrre tali effetti. La natura ha aperto la mente
alla previ sione, mediante l'induzione per la quale conosciamo, che quel che è
sempre avve nuto in un caso, avverrà pure negli altri casi identici. V.
Induzione. La previsione trasportata dagli effetti alle loro cause, dicesi
prescienza, ed è propria della mente Divina.V. Prescienza. PRIMO (spec. e
disc.), nome numerale che si desume dall'unità, la quale pre cede tutte le
altre nell'ordine del numero. V. Mumero. Applicato agli obbietti intellettuali,
ha doppio significato, cioè di quel che pre cede tanto nell'ordine del tempo, o
della successione de pensieri, quanto per rispetto alla chiarezza e alla
importanza loro. In questo secondo senso diciam prime le ve: rità intuitive,
che la ragione vede da se, o sia senza aiuto del ragionamento, e che ci fanno
strada alle altre. V. Verità. Lo stesso doppio significato ha in ogni metodo, e
nell'ordine stesso del discorso; dacchè tanto nell'uno quanto nell'altro
mettonsi innanzi ora le verità generali che rischiarano le particolari, ed ora
le par ticolari che nella succession del pensieri han preceduto tutte le altre.
V. Metodo, Ordine. PRINCIPALE (spec. e disc.), il subbietto, cui prima d'ogni
altro volgiamo il pensie ro, o che forma la materia del discorso. È un termine
di relazione , il quale pre suppone un altro subbietto minore, che chiamasi
accessorio, o incidente. V. que ste voci. PRINCIPIO (crit. ontol. spec. prat. e
disc.), quel che produce qualche effetto da se di stinto, e non è da altra
causa prodotto. V. Causa, Effetto. In questo senso il principio scambiasi
spesso colla causa efficiente, comechè la nozione dell'uno differisca
dall'altra. E in prima, il vocabolo principio è proprio delle cose materiali, o
sia delle parti pri mitive de corpi, e di quelle precisamente che formano
l'essenza loro. Concepisconsi da noi coteste parti, come semplici, in
divisibili, e non prodotte da altro princi pio, il quale se si supponesse,
darebbesi luogo ad una catena di pretesi principi, senza poter mai giugnere a
quello che meritar potrebbe una tal denominazione. Ma siccome noi non conosciamo
l'essenza delle cose, così del pari ignoriamo i veri principi costitutivi di
esse; d'onde segue che la nozione del principio sia un'astra zione della mente,
che il linguaggio ap plica alle cose sensibili in un significato non assoluto,
ma relativo all'umana capacità, e allo stato delle nostre conoscenze. In questo
senso, che è proprio della fisica, – 529 – i principi costitutivi decorpi sono
stati an cora detti elementi.V. Elemento, Essenza, Non diverso è nella chimica
il signi ficato della voce principio, quantunque quella scienza tenti sempre di
scoprire le sostanze elementari scomponendo gli ag gregati formati dalla
natura, o ricompo nendogli, onde ottenere, se ſia possibile gli stessi
composti. Ma i prodotti dell'ana lisi chimica giunti ad un dato segno son
refrattari a qualunque ulteriore investiga zione ; non potendo la scienza per
suo mezzo, meglio che per la fisica, perve nire alla cognizione delle essenze,
atteso chè ella scioglie d'ordinario, ma non ri compone i corpi; nè i reagenti
suoi san conservare l'identità delle sostanze, e del le parti scomposte co
mezzi dell'arte. Chiamano essi principi immediati quei corpi composti,
dall'unione de quali risul tano altri composti più complicati, senza che
l'unione alteri la natura del compo nenti; e però considerano come principi
immediati dell'idrato di calce, l'acqua e la calce, sebbene non sieno per loro
stesse sostanze semplici; e danno lo stesso nome di principi immediati ad ogni
acido e ad ogni base salina, da quali formasi un sale. Similmente distinguono
col nome di prin cipi immediati organici tutte le sostanze composte che
risultano dalle loro analisi, per la sola ragione che non si trovano in altri
composti, fuori de'corpi organici; e non già perchè fossero sostanze semplici
ed elementari della materia. In somma il significato della voce principio nella
chi mica è affatto relativo, e dinota soltanto l'ultimo termine al quale
giugner possono i nostri sensi, o i mezzi adoperati dall'analisi, V. questa
voce. - Passiamo ora dal significato materiale al morale, al logico e
all'intellettuale. Nel morale, risguardiamo la volontà come il principio o come
la causa effi ciente delle azioni, e chiamiamo principi le spinte che riceviamo
dall'istinto o dagli affetti alle azioni necessarie e giovevoli alla conservazione,
o alla perfezione del proprio essere. V. Azione, Volontà. Nel significato
logico chiamiamo prin cipi le nozioni generali, le quali servono di guida al
ragionamento, per trovare o per dimostrare la verità di qualunque pro
posizione. Son queste le nozioni che nel l'ordine delle verità scientifiche
precedono tutte le altre, e vengono designate col no me di assiomi. Se cotali
principi sieno in realtà primitivi, e meritino di essere tutti collocati nella
medesima classe, il vedre mo dall'analisi, che quì appresso ne fa remo. V.
Assioma. Nel significato intellettuale il vocabolo principi abbraccia le
conoscenze che noi consideriamo come prime, tanto nell'or dine del tempo,
quanto nell'ordine della comprensione e della chiarezza. E siccome le verità più
facili alla comprensione so gliono anche presentarsi alla mente innanzi a tutte
le altre; così senza veruna distin zione di origine noi chiamiamo primi prin
cipi tutte le verità, che la ragione scopre di per se stessa, per virtù d'una
naturale illuminazione, e senza soccorso della edu cazione e della scienza.
Coteste verità sono i cardini dell'umana cognizione, perchè in dirizzano la
riflessione al conoscimento di noi stessi, guidano la mente nell'uso del
pensiero e delle proprie facoltà, e manife stano le prime relazioni dell'uomo
verso Dio, e verso gli altri Esseri. Delle cennate verità talune son sì pronte,
luminose e a tutti comuni, che posson dirsi connaturali alla ragione; altre son
figlie della riflessio ne, ma di una riflessione pronta ed imme 42 diata.
Laonde vanno ancor esse partite in due classi, cioè in intuitive e immediate.
Gli esempi sì delle une che delle altre fan meglio sentire l'originalità delle
prime, e l'evidenza di entrambe. Alla classe delle intuitive appartengono le
seguenti: io pen so, voglio, esisto, le mie facoltà intel. lettuali sono un che
di diverso dal mio corpo, ho in me il potere di produrre le mie azioni. Alle
immediate poi appar tengono queste altre: non sono io l'autor di me stesso, nè
delle cose esteriori che mi circondano: ogni cosa, che come me ha cominciato ad
esistere, aver debbe una causa che l'ha prodotta e ho una facoltà che mi
ricorda i pensieri pas sati, e che chiamo memoria e la mia esistenza ha avuto
una durata, son io oggi la stessa persona di ieri, la mac china del mondo è
mossa al presente, come per lo passato, le leggi della na tura son costanti ed
uniformi, v'ha nel l'universo una disposizione di parti, e una armonia tale tra
loro, che è neces sariamente l'effetto d'una causa intelli gente, di tutte le
altre maggiore. V. Co gnizione, Durata, Esistenza, Verità. Potrebbesi forse
fare tra le cennate ve rità una terza distinzione, di quelle cioè che la
riflessione ricava dalle sensazioni, e delle altre, che deduce dalla interna
osservazione di noi stessi. Così per esem pio, dalle sensazioni ricaviamo le no
zioni della esistenza degli altri Esseri, e delle nostre relazioni con essi ;
mentre chè da noi stessi attigniamo quelle della propria esistenza, e delle
facoltà dell'ani ma. Certa cosa è, che le interne nozioni dell'anima hanno una
origine affatto di versa e distinta dalle idee de sensi; d'on de segue che
coloro i quali limitavano le funzioni della riflessione al solo uſizio di
astrarre e di generalizzare le idee desen si, non solamente mutilavano
l'ingegno umano, ma aprivano la via a quegli al tri, che più appresso giunsero
persino a materializzare il pensiero. V. Astrarre, Generalizzare, Pensiero,
Riflessione. Tra gli antichi, Platone ravvisò nelle idee gli archetipi
dell'umana cognizione, comechè avesse di quelle fatto altrettanti Esseri
immaginari, e avesse dato loro una origine anteriore alla vita umana. Ma ba stò
quel principio per imprimere alla sua filosofia il carattere dello
spiritualismo, e per farne la dottrina rivale del sensismo. V. Idea. Tra moderni
Cartesio avendo distinto tre sorte d'idee, le innate, le avventizie, e le
fattizie, trovò nelle prime la vera sor gente di tutte le umane conoscenze.
Chia molle egli innate, o ingenite, non perchè le presupponesse sempre presenti
alla men te, nè perchè le credesse, come Platone, anteriori all'attual
condizione dell'anima, ma perchè considerolle come spontanee e connaturali alla
facoltà che le concepisce. Coteste idee o verità primitive, discendono, secondo
lui, da una, che sta in cima a tutte, la nozione cioè del proprio essere
pensante, nella qual nozione stanno riposti tutti i principi dell'umana
cognizione, e i soli tipi della certezza. Cartesio fece pur guerra alla
dottrina desensisti, e operò nel la filosofia quello stesso cangiamento, che
aveva a diverse riprese prodotto la filoso fia di Platone; ma per avere ammesso
un principio solo di cognizione e di certezza, escludendo affatto le conoscenze
del sensi e la sperienza, diede in una opposta estre mità, e aperse una nuova
strada all'idea lismo e allo scetticismo. V. Cognizione, Innato, Senso.
Leibnitz spiegò e seguì la dottrina di – 551 - Cartesio, per rispetto a
principi, che di cevansi innati, avendo adoperato lo stesso vocabolo nel senso,
che la conoscenza di quelli è stata da Dio impressa nell'animo, come una spezie
d'istinto. Per similitudine comparogli alle proposizioni sottintese ne gli
entimemi, le quali stanno virtualmente nella mente; e li definì, come verità im
mediate, o proposizioni della massima evi denza, le quali non possono essere
dimo strate con altre proposizioni più evidenti di esse. Gli esempi che ne
addusse sono: la nozione del proprio essere l'esistenza di Dio; la conoscenza
delle leggi natu rali. V. Entimema, Verità. Il primo che uscisse dalle
similitudini e dagli esempi, fu il padre Buffier, il quale diede un metodico
trattato delle prime ve rità, col titolo di dottrina del senso co mune.
Credette egli, che i principi o le verità prime si ricavino, o dal senso delle
scienze e delle arti, o dalla testimonianza de sensi propri, o dall'autorità
del sensi altrui. Ma il suo trattato, quantunque lu minoso e originale,
contiene una spezie di categorie, non dissimili dalle aristoteli che, e come
quelle imperfette. Impercioc chè non solameute le verità intuitive tro vansi
ivi confuse colle dedotte, ma da esempi di nozioni figlie d'uno stesso princi
pio, ricavò generi apparentemente diversi perchè la differenza loro potrebbesi
dire af, fatto nominale. Più chiari e certi sembrano i caratteri, ch'egli
additò come atti a discer dere l'evidenza deprimi principi: 1.º che le
proposizioni colle quali taluno imprendesse a negarli, sieno manifestamente men
chia re di quelle colle quali vengono affermati: 2.º che sieno universalmente
in ogni tempo e luogo ricevuti, per modo che coloro i i quali li negassero,
trovar non potrebbero altro assentimento, che di qualche uomo di stravagante
giudizio: 3.º che sieno for temente impressi nell'animo di tutti per modo, che
formino la regola del vivere comune, e persino di coloro i quali spe
culativamente osano rivocargli in dubbio. Kant considerò i primi principi, come
gli elementi del giudizi a priori, e come le forme dell'umana intelligenza.
Lasciamo agli spositori della sua dottrina lo svolgere un tal concetto. V.
Forma , Giudizio, Intelligenza. - Reid e Stewart han fatto deprimi prin cipi il
fondamento della nuova filosofia dello spirito umano, e gli hanno conside rati
come altrettante leggi costitutive della ragione, le quali determinano
invincibil mente la nostra credenza. Il desiderio di penetrare più addentro nella
prima sor gente dell'umana cognizione, indusse an che Reid a tentare una nuova
partizione de primi principi; e per meglio ordinar gli distinse tra le prime
verità le contin genti dalle necessarie. Quanto alle con tingenti, raccolse
vari esempi di verità particolari, ricavate da principi più gene rali, che
ridusse a seguenti: 1.º Tutto quel che la coscienza o il sen so intimo
attestano, realmente esiste: 2.º I pensieri de'quali ho la coscienza, sono i
pensieri d'un Essere, che io chia mo il mio spirito, la mia persona, il me. 3.º
Le cose che la memoria distintamente mi ricorda, sono in realtà avvenute. - 4.º
Son certo della mia identità perso male, e della continuità della mia esistenza
dal momento, in cui la memoria ha eser citato le sue funzioni. 5.º Gli obbietti
che percepisco co'sensi esistono, e son quali li percepisco. 6.º Esercito un
grado di potere sopra le mie azioni e sopra le determinazioni della mia
volontà. º - 552 – 7.° Le facoltà, che la natura mi ha dato per distinguere la
verità dall'errore, non sono mendaci. 8.° I miei simili son creature viventi e
intelligenti come me. 9.° I tratti del viso, i suoni della voce, i gesti
manifestano taluni pensieri, o certe disposizioni dell'animo. 1o.” La natura mi
ha dato la tendenza di credere all'autorità del sensi altrui. 11.° Quantunque
molte delle cose con tingenti dipendano dalla libera volontà de gli altri,
possono non pertanto essere con certe probabilità da me antivedute. 12.º
Nell'ordine della natura tutto quel che avverrà somiglierà probabilmente a quel
che in simili circostanze è avvenuto. Circa poi le verità necessarie, Reid le
suddivise in diversi generi, seguendo le relazioni che esse hanno colle scienze
alle quali appartengono, e però le distinse in verità logiche, metafisiche,
matemati ehe, grammaticali e morali. Prima di determinare il giusto concetto
delle verità primitive, giova osservare, che molti degli esempi di verità
contingenti, addotti da Reid, discendono da un'altra verità più generale, la
qual cosa rende impropria la denominazione e la qualità di principi che loro
volle dare. Così, ben considerati i dodici esempi testè riferiti, po trebbero
tutti essere ridotti, alla certezza dell'Essere pensante, e alla realità delle
facoltà dell'animo e degli obbietti del pen siero. E per quel che concerne le
verità necessarie, gli assiomi geometrici sono principi veri e immutabili, ma
scoverti mediante il ragionamento; gli assiomi lo gici, son certamente
posteriori al ragiona mento naturale, e presuppongono la spe rienza; le regole
gramaticali son precetti di convenienza universale, che pure na scono dall'uso
e dalla perfezione del lin guaggio; e gli assiomi in materia di gu sto, sono
altrettante regole d'imitazione, ricavate del pari dalla sperienza e da un
lungo studio della natura. Da ciò segue che gli assiomi delle scienze, delle
arti e del gusto, son tutti verità derivate, le quali non possono essere
scambiate coprin cipi spontanei dell'umana intelligenza. Premesse queste cose,
giova ora rimuo vere l'ambiguità che nasce dal doppio anzi dal triplice
significato della voce primo. Che intendiamo noi per prime verità ? Prime nel
tempo son le idee, che vengono innanzi a tutte le altre: prime nella co
gnizione son quelle che vincono altre in chiarezza: prime nel metodo, o nell'or
dine dell'insegnamento son le verità che servono di luce alle altre, quantunque
prime non sieno nell'ordine del tempo e della cognizione. In queste appunto
cade l'equivoco, perchè le verità necessarie, che nascono da dimostrazione, e
che noi risguardiamo come assiomi, possono essere messe innanzi alle altre
nell'ordine del l'insegnamento, ma non sono certamente le prime a venire
nell'umana cognizione; laddove le contingenti formano il primo corredo dalla
nostra mente. In fatti noi veggiam prima le cose visibili, e poi le invisibili,
prima il particolare e il con creto, e poi il generale e l'astratto. Che se le
verità necessarie sono immutabili ed eterne, e se eran prima che noi fossimo, e
seguiteranno ad esser quali sempre sono state; ciò non importa che ne avessimo
avuto la conoscenza prima di avere acqui stato la nozione di noi stessi. Non è
già, che le necessarie dipendano dalle contin genti, ma è che queste servono di
occasio ne a quelle, siccome apparisce manifesto dagli esempi, che possiamo da
noi stessi – 555 – raccogliere. Così, non potremmo avere la nozione della
necessaria esistenza di Dio, come non l'hanno i bruti, se non aves simo quella
del proprio Essere; nè avrem mo quella delle proprietà geometriche, se non
avessimo prima acquistato le idee delle qualità della materia; e molto meno
quella delle qualità d'ogni sostanza, se non fosse preceduta la conoscenza del
particolari ob bietti, da quali le abbiam ricavate. Quando dunque le verità
prime si vogliono riferire alla sola priorità della origine, non sola mente non
ne troveremmo alcuna tra le necessarie, ma resterebbe ancora ristretto il
numero delle contingenti; dapoichè tutte potrebbero essere riferite ad un
principio unico, o sia ad una nozione sola, da cui dipenderebbero le altre, la
nozione cioè dell'anima, intelligibile a se medesima. Ora tutti i filosofi
spiritualisti, i quali hanno ammesso le prime verità come prin cipi dell'umana
cognizione, Cartesio, Bos suet, Buffier, Leibnitz, hanno inteso par lare delle
verità note per naturale eviden za, o sia di quelle che tutti gli uomini
intendono ad uno stesso modo, non per opera della scienza o della educazione,
ma per la luce propria della ragione; di quelle in somma che formano la regola
non solamente del viver comune, ma an che di coloro i quali le hanno talvolta spe
culativamente rivocate in dubbio. Tali ve rità, come disse Leibnitz sono le
nozioni immediate, che ricaviamo dalla contempla zione del proprio Essere, o
sia del me me desimo: sono gli elementi del pensiero, i quali aprono la via al
ragionamento: son le proposizioni note ed evidenti, alle quali annodansi, come
a primi anelli, le altre ignote che voglionsi dimostrare: sono le verità
intuitive, tanto diverse dalle di mostrate, quanto i principi distano dalle
conseguenze. Sembra dunque, che per l'esatto concetto delle prime verità, sia
più utile la distinzione tra verità intui tive, o dedotte, che quella tra
verità ne. cessarie o contingenti. V. Contingente, Intuitivo, Mecessario. La
distinzione tra le verità intuitive e quel le di ragionamento non solamente
espri me la differenza, che passa tra primi prin cipi propriamente detti e gli
assiomi; ma serve altresì a spiegare l'indole di quelle verità, che
implicitamente sono nell'anima, e che formano le regole del nostri pratici
portamenti, prima ancora di conoscerle per lo ragionamento. Tali sono le verità
morali, dalle quali siam guidati per una tendenza di cui non possiamo rendere
ragione, se non quando si è in noi sviluppato l'uso delle facoltà dell'anima.
Per la qual cosa invochiamo ne'nostri mali il soccorso della Divinità, prima di
averne formato la vera nozione; sentiamo la pietà de'mali altrui, siamo
benefici, riconoscenti, giusti verso i nostri simili, prima di aver imparato i
precetti del retto vivere; e non solamente distinguiamo una virtù pratica diversa
dalla speculativa, ma siamo costretti di confes sare, che spesse volte il senso
morale è più retto e più costante negli uomini incolti e idioti, che in coloro
i quali han consu mato la vita nello studio della filosofia. D'onde è nata
quella sapienza pratica, se non dalle nozioni dedoveri e del fine della vita,
che la natura ha impresso nell'uomo? Sopra queste nozioni la scienza forma
l'edifizio delle definizioni degli assiomi e dei teoremi, ma nulla può dire,
che non di scenda da quei principi, o che sia di essi più chiaro. In
conclusione, riduciamo ad una no zione chiara e distinta il concetto delle pri
me verità, acciocchè non si ammetta nul - – 534 – la di vago e d'immaginoso tra
gli ele menti dell'umana cognizione. Le prime verità non sono quegli Esseri
ideali, che han supposto molti degli antichi e dei moderni idealisti ; nè sono
principi che stanno di per loro stessi, ma son le pro posizioni evidenti, che
la ragione umana per proprio lume conosce: la loro cer tezza è fondata nella
irrefragabile autorità del senso intimo e della coscienza; cer tezza e autorità
che traggon seco l'invin cibile convizione della loro verità. Le pri me verità
in somma, sono i giudizi in tuitivi dell'anima intorno alle nozioni ele
mentari, necessarie all'esercizio del pen siero, o al portamento della vita: di
que ste, sta in cima alle altre la nozione del proprio essere pensante, dalla
quale, sic come dice Leibnitz, deriviamo quelle del l'Essere in generale, della
sostanza sem plice, della composta, della immateriale, e anche la nozione di
Dio, dapoichè tra sportiamo in Lui infinito quel che in noi è finito. V. Dio,
Infinito, Sostanza. PRIORE (spee. e dise.), termine di re lazione ad altra cosa
che segue in ordine di tempo, di luogo, o di azione. Nel senso di relazione
all'azione, che ne produca un'altra, o sia della causa al l'effetto, i logici
han chiamato a priori la dimostrazione, o il metodo, che pro cede dalla causa
all'effetto. Tali sono le dimostrazioni, che dal generale argomen tano al
particolare, come il sillogismo. Siffatte dimostrazioni appartengono al me todo
sintetico, per lo quale da una verità generale si deduce una conseguenza, o una
verità particolare. V. Dimostrazione, Metodo, Sillogismo. L'inverso metodo è
quello detto a po steriori. V. Posteriore. - - PRIVATIvo (spec. e die. ),
termine il quale dinota la separazione d'una qualità dal suo subbietto,
considerato questo qual è per sua natura. - Differisce dal negativo, che
esprime as solutamente la disconvenienza della qua lità, come non compatibile
col subbietto. V. Megativo. PRIvAzioNE (spee. ontol. e dise.), me gazione
relativa, per la quale separiamo le qualità da subbietti, considerati questi
quali sono per loro natura. Differisce dalla negazione, la quale espri me
l'assoluta disconvenienza della qualità al subbietto. Esempio: il carbone non è
bianco, è negativo. Questo alabastro non è bianco, è pri vativo. V. Megazione.
Aristotele fece della privazione uno dei tre principi universali di tutte le
cose, per chè avendo riposto nella materia la sostanza passiva, e nella forma,
l'attiva, gli fu necessario un terzo principio che spiegar potesse le continue
modificazioni della ma teria, che denominò privazione. V. For ma , Materia.
PaoBABILE (spec. prat. e dise.), quel che è possibile o verisimile che sia
stato, che sia, o che sarà. Ha gli stessi significati del vocabolo pro
babilità, dapoichè si applica, così al pos sibile dell'esistenza, come
all'apparente mente vero. V. Probabilità. Ogni ragionamento, che non è dimo
strativo della verità, dicesi probabile nel senso, che potrebbe non essere qual
sem bra, o sia, che i dati di fatto che si di con veri, tali non fossero. E
però il di mostrativo è proprio delle verità necessa – 555 - rie; il probabile
delle contingenti. V. Con tingente, Dimostrativo, Mecessario. L'arte di
valutare le pruove de fatti con tingenti, e di determinare il grado della
credibilità loro, è stata chiamata logica de' probabili. V. Credibilità,
Logica. PRonABILISMo (prat.), dottrina rilassata di quei moralisti, i quali
insegnano es sere lecita un'azione, fondata sopra una opinione probabile,
quantunque vi sieno opinioni anche più probabili e sicure, che la condannino.
Cotesta falsa e perniciosa dottrina tra sporta dalla ragione e dalla legge di
na tura nell'autorità le fondamenta della mo rale, e introduce uno scetticismo
pratico, il quale favorisce la licenza e la corruzio ne decostumi. È un mal che
proviene dai casisti, i quali si accostumano a ricercare il vero nelle
decisioni delle particolari con troversie, e non ne principi, nello spi rito, e
nel fine della legge. PaoBABILITÀ (spec. prat. e dise.), la possibilità d'un
fatto, o la verità d'una opinione, estimata per le somiglianze, che l'apparente
ha col vero. Cotesto vocabolo racchiude due signifi cati apparentemente simili,
ma in realtà diversi, dapoichè il primo esprime la sem plice possibilità d'un
avvenimento, il se condo la possibilità del vero, giudicata per le sue
apparenze. Son questi due giudizi che l'animo dee - formare con differenti
dati: la possibilità d'un fatto versa circa l'esistenza o la ine sistenza del
fatto medesimo: la verità della opinione, circa la conformità d'un con cetto
dell'animo col vero: quello è un giu dizio di fatto, di cui l'estimazione suole
dipendere dall'avvicendamento di casi af fermativi e negativi: questo è un
giudi zio di comparazione, nel quale conviene dar valore alle apparenze del
vero. Pre messa una tal distinzione, la disamina della probabilità può ricevere
una triplice par tizione: può essere considerata a rispetto, 1.° della
possibile esistenza d'un fatto fu turo, 2.º della esistenza d'un fatto pas
sato, 3.º della verità d'una opinione. Dei tre proposti aspetti l'ultimo
importa più agli studi della ragione, tra perchè ab braccia la parte maggiore
del nostri giu dizi, e perchè una esatta nozione della probabilità e della
verisimiglianza serve a dichiarire quella della certezza, e però va in primo
luogo esaminata. I. Verità d'una opinione. Locke definì la probabilità,
l'apparente convenienza o disconvenienza delle idee, delle quali la connessione
non è immu tabile. Secondo Leibnitz, è l'apparente convenienza e disconvenienza
delle idee fondate sopra la verisimiglianza. Sembra che ambe le cennate
definizioni confondano insieme due diverse operazioni dell'anima, cioè il
giudizio della conve nienza delle idee, e l'assicuranza, che la coscienza le dà
di tal giudizio. Ripetiamo il concetto della probabilità da quello della
certezza, di cui è un correlativo. Le condizioni della certezza sono, che sieno
tutte note le relazioni delle idee, delle quali pronunziamo la convenienza. Ma
di molte idee noi ignoriamo le rela zioni essenziali, e di altre molte conoscia
mo soltanto quelle che cader possono sotto i sensi, o nella comprensione del
nostro intelletto. Il giudizio, che intorno ad esse - 556 – pronunziamo, è fondato
sopra le appa renze e somiglianze del vero: la coscienza non ci assicura, che
quelle non potessero essere diverse da ciò che appariscono, co me il fa per le
verità intuitive, e per le dimostrate. Questo giudizio dubitativo è la
probabilità, di cui i gradi son tanti, quanto è il numero delle relazioni note,
sopra le quali il giudizio è fondato. V. Giu dizio, Relazione. Taluni han
distinto la probabilità dalla evidenza probabile, avendo così deter minato
quella spezie di evidenza, che si acquista fuori della dimostrazione. Ma pare a
noi che basti distinguere la certezza di mostrativa dalla intuitiva, e
stabilire la giusta differenza che passa tra la certezza e la probabilità,
senza fare violenza al proprio significato del vocabolo evidenza, il quale
esprime due idee insieme, cioè l'assicuranza della coscienza, ed il giudizio
dell'intelletto. V. Evidenza. Giova non pertanto distinguere la pro babilità di
natura dalla probabilità di co gnizione, il che meglio corrisponde alla
ricevuta partizione della certezza fisica e della morale. Le verità necessarie
producono la cer tezza dimostrativa, o metafisica: le verità immediate de sensi
producono la certezza fisica: le altre acquistate per mezzo dell'au torità e
della credenza producono la pro babilità, il cui massimo grado prende il nome
di certezza morale. Cotesta spezie di probabilità, elevata alla dignità di cer
tezza, dicesi ancora certezza relativa, perchè è quella che dar può l'opinione,
considerata come l'instrumento maggiore della umana cognizione. Coloro i quali
han voluto riferirla piuttosto al genere del la probabilità, che alla spezie
della cer tezza, l'han chiamata probabilità di cogni zione, per distinguerla
dalla probabilità di natura, fondata nella certezza del sen si. Ciò non ostante
ella ha per noi tutta la forza della certezza, perchè determina l'animo
all'azione: rimuove il dubbio; soddisfa la coscienza; serve di norma a quella
virtù direttrice della vita, che di cesi prudenza, ed esercita, più di tutte le
umane conoscenze, il criterio della ra gione. V. Certezza, Opinione. a II.
Esistenza d'un fatto passato. L'esistenza d'un fatto passato può an che essere
scambiato colla verità del fatto passato, e il concetto che noi ne formiamo è
pure una opinione. Ora l'opinione della verità d'un fatto passato può nascere
dalla propria, e dall'altrui ricordanza: se dalla propria, la memoria
ripresentalo con quel la stessa spezie di certezza o di probabili tà, che
accompagnò la prima percezione del fatto medesimo; se dall'altrui, l'opi nione
della verità sarà unicamente fondata sopra l'autorità, o sia sopra la testimo
nianza del sensi altrui. V. Autorità, Per cezione, Testimonianza. Le varie
spezie di testimonianza, e i modi diversi, co quali può questa essere
manifestata, formano altrettanti gradi di probabilità, dequali il maggiore sta
nella narrazione della prima ed immediata perce zione, che va considerata come
la scienza originale del fatto attestato. I mezzi poi, pe quali cotesta scienza
passa da uno in un altro testimonio, sono altrettante de rivazioni, in ciascuna
delle quali vassi gradatamente sminuendo la chiarezza o l'apparenza della
verità. Tali mezzi in so stanza si posson concepire quasi come una – 557 - -
scala, in cima a cui sta la certezza mo rale, e al piede il dubbio e la
semplice sospizione della verità. Questa è la scala delle pruove, l'estimazione
delle quali è data al criterio della ragione. La proba bilità delle pruove è
graduabile, ma le gradazioni loro non rappresentano gli ele menti costitutivi
della verità, la quale è di sua natura unica e indivisibile; rap presentano sì
bene l'opinione che l'animo ne forma, o sia la misura che il criterio adopera
per discernere la credibilità di quella. V. Credibilità , Pruova. D'altra parte
le derivazioni della cono scenza originale del fatto possono ancora servire a
confermarla, senza nulla toglierle della sua certezza, quandochè sieno con
cordi tra loro, per modo che le ultime facciau fede delle prime, e si possa per
esse risalire alla immediata cognizione dei primi testimoni. Cotesta scala
ascendente contiene pure altrettanti gradi di certezza o di probabilità, pe
quali giudichiamo della verità de fatti rimoti. Tali sono gli elementi del
nostro giudizio intorno alla certezza, o incertezza della storia e della
tradizione. V. Storia, Tradizione. lll, . . i Possibilità d'un fatto futuro, La
sperienza del passato è un principio di probabilità pel futuro, dapoichè noi
giu dichiamo dell'avvenire per analogia del passato. Ma cotesta analogia può
essere fondata o sopra le relazioni che il fatto pas sato abbia col futuro, o
sopra il semplice avvicendamento defatti identici e simili. Di qual'immensa
serie delle future probabilità. Se le relazioni tra il fatto passato e il
futuro sieno costanti per modo, che dato l'uno, dee seguire necessariamente
l'altro, la connessione tra due cennati avvenimenti è quella stessa che passa
tra la causa e l'effetto. Tal'è la cognizione che acquistia mo delle
conversioni del corpi celesti, e di tutti i fenomeni i quali dipendono dalle
leggi costanti e uniformi della natura. Co testa cognizione è accompagnata
dalla cer tezza fisica, e però esce dall'ordine delle probabilità. V. Causa. La
probabilità propriamente comincia, quando vogliasi determinare la possibilità
d'un avvenimento futuro, senza conoscere le relazioni che lo legano a fatti
passati, o imperfettamente conoscendole. E quì vuolsi notare, che cotesta
probabilità è tutta di eognizione, e ha diverse gradazioni, a distinguere le
quali giova suddividerla in tre differenti spezie: 1.a quella che nasce dalle
ignote rela zioni tra fatti passati e i futuri: 2.º quella che nasce dal
concorso di più cause che insieme cooperino al produci mento d'un fatto futuro,
per modo che non possa determinarsi la parte dell'azione di ciascuna di esse:
3.º quella in fine, nella quale l'azione delle cause naturali sia mista a fatti
vo lontari degli uomini. Cotesta ultima spe zie confina colla incertezza, e con
quella affatto si confonde, quando dalla volontà dell'uomo debbasi
principalmente ripetere la causa efficiente del fatto. Il probabile suole scambiarsi
col verisi mile, e la probabilità colla verisimiglianza; ma l'idea dell'una
differisce da quella dell'altra. Imperocchè il probabile si rife risce più alla
possibilità della esistenza di un fatto, ed il verisimile, al giudizio che noi
ne formiamo; quasi che il probabile fosse quello, della cui esistenza possiamo
addurre pruove sufficienti; e il verisimile, ciò che noi giudichiamo esser
vero, quan tunque non potessimo escludere la possi bilità del falso. Il
verisimile dunque è più del probabile, dapoichè molte cose sem plicemente
probabili non sapremmo accet tarle come verisimili. V. questa voce. Il calcolo
delle probabilità, applicato a giuochi di sorte, alla possibile durata della
vita, a progressi delle società civili e della industria umana, e per ultimo an
cora a fatti della volontà, dimostra quanto diverso sia il prodotto che se n
può otte nere in ciascuno de tre dinotati casi. I giuochi di sorte furono i
primi che suggerirono ad insigni matematici il pen siero di soggettare al
calcolo le loro even tualità. Per esso si ottiene, o che sia de terminato il
numero delle relazioni che legano l'evento al fatto del giocatore, o che venga
stabilita una proporzione tra le diverse combinazioni di ciascun giuoco. La
vita è un giuoco di sorte, di cui il calcolo non può determinare la durata per
rispetto all'individuo, ma può con molta approssimazione alla verità stabilirla
per rispetto alla spezie umana. In ambo questi casi il calcolo somministra la
conoscenza d'una parte delle relazioni tra l fatto pas sato ed il futuro. V.
Giuoco. I D'una probabilità a questa inferiore sono i calcoli dell'aritmetica
politica intorno al progressivo aumento della popolazione , della quantità
della produzione e decapi tali produttivi, del consumo, del nume rario
circolante e simili, perchè nati da molte cause insieme miste, di ciascuna
delle quali non si può determinare l'effi cacia e la forza relativa
all'eſſetto. I suoi prodotti non pertanto, o sia l'esperienza, spandono lume
sopra l'azione delle cau se, e ci permettono di stabilire con ap prossimazione
talune regole di vario even to, perchè fondate nel vario operare degli uomini.
9 , - i I i Ma lo stesso calcolo in fine perde ogni valore, quando vogliasi
applicare al verisi mile delle altrui opinioni, perchè speciosa anzi falsa è la
similitudine, che paragona la verità del giudizio ad un composto di parti
omogenee, quasichè potesse la verità scindersi in frazioni, e trovarsi per lo
cal colo un decimo o un centesimo di verità. I fatti umani non sono simili gli
uni agli altri, anche quando artifizialmente ci sfor zassimo di comporre oggi
una moltitu dine di cento uomini, posti nella medesima situazione in cui
trovaronsi in una delle passate età, e in diverse nazioni. Nelle stesse cose
presenti, come soggettare al calcolo le pruove de fatti avvenuti fuori
de'nostri sensi? come nello interpretare i segni potrebbesi determinare le
verità lo ro a rispetto delle cose significate? come, nella estimazione delle
pruove misurar po trebbesi la conformità della parola col pen siero del
testimonio ? come valutare la possibilità dell'errore ne sensi e nel giu dizio
di colui che il primo ha tramandato la scienza originale del fatto ? . . . . È
stato un tempo, in cui l'amor dei metodi matematici, e spezialmente
dell'analitico, ha soggiogato la mente del più grandi uomini, facendo credere,
che po tessero quelli essere con egual successo applicati agli studi della
filosofia morale, quasichè si potesse per tal modo otte nere in queste come in
quelle la certezza dimostrativa. Ma la forma estrinseca del ragionamento non
può mutare l'essenza delle cose, e d'altra parte le verità mo rali hanno un
genere proprio di certezza, che non de'essere scambiato con quello che conviene
alle qualità sensibili della materia. - - - - - - PRoBità (prat.), bontà e
insignità di costumi, accompagnata dalla modestia. La volontà di adempiere i
propri doveri per meritare il nome di probità, non so lamente de'essere
costante e abituale, ma conviene che riconosca per suo principio l'obligazione
morale, o sia quel vincolo che la legge e l'ordine della natura c'im pongono;
nel che è compreso il fine di piacere all'Autore della legge stessa, senza il
quale fine mancherebbe alla virtù l'arº chetipo suo, e sarebbe questa un vano
nome, e un fantasima introdotto dalle uma ne convenienze. V. Legge,
Obligazione, Non può essere disgiunta dalla mode stia, senza la quale non si
può avere la giusta conoscenza di se medesimo, e della umana imperfezione. V.
Modestia, o i tit - 5 º 1 . PROBLEMA (spee. e dise.), proposizione, per la
quale domandasi la ragione d'una cosa ignota. Nelle matematiche ha diverso
signifi cato, e dinota una proposizione per la quale domandasi, che si faccia
una data operazione derivandola da principi e da verità dimostrate; o pure
dimostrandone, dopo che è stata già fatta, l'esattezza, se nell'esporre la
soluzione del problema si adopera il metodo detto da geometri sin tetico; il
perchè fu da taluni logici chia mata proposizione dimostrativa pratica. V.
Proposizione, Sintetico. e a - Problemi furon detti ancora da Aristo tele i dubbi
intorno alle cose naturali, i quali meritano una soluzione. Bacone des siderò,
che l'esempio di Aristotele fosse imitato da moderni, e che cotesta spezie di
dubbi formasse un'appendice delle scienze naturali, acciocchè servissero di
eccitativo agl'ingegni, per accrescere la scienza, e ampliarne i confini. V.
Dubbio, i - a 3 º Paocace (prat.), latinismo che com prende le due qualità del
petulante e dello sfrontato. V. queste voci. . - 1 - PaocREAzioNE. V.
Generazione. - i PaoDEzzA (prat.), fortezza d'animo, accompagnata dal vigor
delle forze, e dall'ardire, nel che si distingue dal co raggio. V. questa voce.
n. 1 - 1 i - - PaoniGALITÀ (prat.), eccesso nello spen dere e nel donare. E il
vizio degli uomini inconsiderati, al quale conduce non l'amor della libe
ralità, ma quello del viver lussurioso. PRoDIGIo (spec.), cosa insolita nell'or
dine della natura, di cui non può asse gnarsi veruna causa naturale. -
Differisce dal portento, in quanto che questo esprime la novità per rispetto a
sen si, e quello l'insolito relativamente alla sua causa. V. Portento. i
PaonRoMo (disc.), discorso o trattato che serve d'introduzione, o di prepara
zione ad altra opera principale. PRoduzioNE (spec. e prat.), la cosa nata dalla
causa producente. -. È termine generico che abbraccia qua lunque opera
materiale o intellettuale, con siderata per rispetto alla potenza che la pro
duce. V. Potenza. - 4 - . . . - siPRoEMmo (disc.), la prima parte d'una
orazione, o d'altra composizione, ove principalmente si propone quel che s'ha a
trattare, - a e 9 PaoroNDITÀ (spec.), una delle tre di n - 540 - - mensioni del
corpo solido, e propriamente l'altezza da sommo a imo. PRocETTo (prat.),
disegno di fare una cosa, accompagnato da una minuta spo sizione di tutte le
sue parti. È una delle spezie di azioni incompiute, di cui la volontà rimanda
ad altro tempo l'eseguimento. V. Volontà. G'Italiani l'hanno usato nel senso di
prof ferta, o principio di trattato, ma non v'ha ragione per restrignerlo a
questo solo si gnificato. Il principio d'un trattato include la sposizione del
pensiero del suo autore. PRogINNAsMA (crit.), esercizio in argo menti di
lettere o di scienze. PaoGREssivo (spec.), epiteto dato a quel la sorta di
filosofia, che promette alla umanità un continuo e successivo avan zamento, per
lo quale perverrà ad uno stato di perfezione. V. questa voce. PRoGREsso
(spec.), avanzamento gra duale e successivo degli Esseri, i quali hanno avuto
un cominciamento e debbono avere una fine. I vegetabili nascono da un germe,
non solamente picciolo ma spesso ancora invi sibile: gli animali passano dallo
stato di prima formazione alla età adulta, e da questa poi, alla vecchiezza e
alla disso luzione: le facoltà loro si sviluppano a misura che gli organi
crescono e diven gono atti alle loro funzioni. Nell'uomo un tal successivo
avanzamento è, più che in ogni altro Essere, notabile; dacchè l'in dividuo non
solamente passa dall'infanzia alla virilità, ma le sue facoltà da uno stato
puramente sensitivo, qual è ne fan ciulli, si cangiano in quelle di un Essere di
superiore natura, dotato d'intelletto e di volontà. Progresso dunque è il
natural corso, che aver debbono gli Esseri orga nici, i quali non acquistano,
se non gra datamente, il pieno uso delle loro facoltà. A somiglianza
degl'individui, le civili società hanno lo stato di giovinezza, e di virilità.
E però progresso può ancora chiamarsi quel corso, che le nazioni han fatto nel
passare dal primo loro stato alla perfetta civiltà. Ammettiamo in terzo luogo
un'altra spe zie di avanzamento o di progresso, che è quello delle facoltà
intellettive ed attive dell'uomo, le quali sviluppandosi formano l'umana
cognizione. Queste hanno un cor so costante per la generalità, ed uno va rio, e
più o meno rapido, per quella classe d'uomini che coltivano le scienze e le
arti, e che si dedicano alla contempla zione delle opere della natura. Ora
quando sentiam parlare di progresso continuo, sempre crescente, il quale con
durci dovrà alla perfezione, a quale delle tre divisale spezie dovremo
riferirlo, alla natura materiale degli Esseri, alle civili istituzioni, o
all'umana cognizione? Niu no si è sinora avvisato di pronunziare un futuro
avanzamento nella material condi zione degli Esseri, per lo quale gli ami mali
o l'uomo divenir dovessero più vigo rosi, longevi, o immortali. Sarebbe que sta
una follia, della quale gli esempi po trebbero appena trovarsi negli ospedali
dei matti. Adunque il futuro avanzamento, che si fa sperare alla spezie umana,
dee risguardare o una migliore sorte delle ci vili società, o un più vasto
teatro di co noscenze, per lo quale lo spirito vedrà più innanzi determini
della sua attual comprensione. Esaminiamo la possibilità dell'una e dell'altra
speranza. Quanto alle civili società, esse hanno certamente un vantaggio per
rispetto agl'in dividui, il quale consiste in questo che la loro vita è
composta di più generazioni, ciascuna delle quali tramanda all'altra la propria
sperienza, l'avverte de suoi er rori, e le dà l'opportunità di riparargli;
donde segue che potrebbero forse perve nire ad uno stato di perfezione, che i
pri mi loro fondatori non potevano augurarsi. Ma di quanto le nazioni saran
capaci di profittare della sperienza, e chi può ac certarci che il futuro loro
corso sarà sem pre indirizzato al conseguimento di quel maggior bene che
costituir potrebbe il suo perfetto stato ? Due mezzi abbiamo per isciogliere
sifº fatte quistioni: il primo è di studiare la natura morale delle società in
quella de gli uomini che le compongono: l'altro di consultare la vecchia
sperienza del genere umano, o sia la storia, che ci offre esem pi d'ogni
genere, e da quali misurar po tremo la probabilità d'un avvenire, in cui il
corso delle nazioni sia diverso o mi gliore di quel che sinora è stato. Quanto
all'umana natura, non potendo supporla negl'istinti, negli affetti, e ne
sentimenti diversa di quel che sinora è stata, non potremmo sperare di vederla
avanzata nel cammino della perfezione, se non per l'aiuto delle istruzioni
della vita civile, nella quale è in realtà riposta tutta la scala dei
miglioramenti, di cui l'uomo è capace. Ma le tendenze, e le passioni del corpo
civile non sono, se non l'aggregato de gl'istinti, degli affetti, e de
sentimenti dei suoi componenti, modificati dall'interesse della sua materiale
prosperità, e dalle pas sioni di quelli che lo rappresentano e lo reggono. La
mistura di tutti questi elementi sì diversi tra loro dà per prodotto un certo
bene publico, ancor esso mutabile, che mai non si ferma nel medesimo punto, si
che il cammino delle nazioni ora si avanza verso un dato scopo, e ora cangiando
di rezione se ne ritira. La vita in somma delle civili società, e per la
instabilità dei consigli, e per la caducità propria d'ogni opera della mano
dell'uomo, ha gli stessi periodi della vita degl'individui, l'età del
nascimento, del vigore, e della dissoluzio ne. Niun popolo è sinora riuscito a
ren dersi eterno per la sapienza delle sue isti tuzioni. Tra queste ve n'ha
delle buone e delle sublimi, che le seguenti gene razioni han cercato e cercano
d'imitare. Ma tutte le combinazioni della sapienza umana non han potuto
impedire il ri torno e la ricorrenza delle stesse passioni e de'medesimi vizi.
Le masse degli uomi ni unite insieme per un interesse comune si amano o si
odiano come gl'individui: l'unione loro è precaria e passeggiera, come
l'interesse che le unisce : l'am bizione, l'idolo del potere o della glo ria,
l'avarizia, il timore, la diffidenza arma gli uni contro degli altri: la
storia, ben lontana dal presentarci un progresso costante verso il bene, o sia
verso un fine salutare a tutti comune, non c'insegna altra verità, se non che
le nazioni poste nella medesima situazione hanno sempre operato allo stesso
modo. Quale probabi lità dunque, che le sole istituzioni civili possano
condurci ad uno stato futuro mi gliore del passato e del presente? Passiamo ora
al terzo progresso delle umane conoscenze, di cui vediamo tutto giorno gli
avanzamenti, e dalle quali po trebbe lo stato civile promettersi una pro
sperità sempre crescente. Ma acciocchè non ci lasciamo illudere dalle vaghe
speranze che potremmo formarci per lo senso d'un – 542 – vocalolo di sua natura
indeterminato ed ambiguo, è necessario distinguere in qual parte delle nostre
conoscenze sia cotesto progresso possibile; e supponendolo an cora illimitato e
quasi infinito, qual sia il frutto che potremo ricavarne. Nello studio e nella
contemplazione della natura noi raccogliamo ogni giorno nuovi fatti, e da
questi passiamo alla conoscenza di altri fatti più generali che sogliam chia
mare leggi naturali, e de quali la saga cità dell'intelletto si vale, sia per
ampliare la cognizione delle qualità e delle rela zione delle cose sensibili,
sia per meglio intendere l'ordine dell' universo. Di tali conoscenze profitta
ancora la mente per imitare le opere della natura, per forma re nuove
combinazioni della materia, per moltiplicare le arti, e con esse l'industria
umana: Questo è il campo delle osser vazioni, delle scoverle e delle
invenzioni, che noi possiamo considerare come ine sauribile, perchè immensa è
la natura. Ella ha voluto riservare a tutte le ge nerazioni uno studio sempre
ſecondo di novità, e con ciò ha dato un saggio della differenza che passa tra
il finito e l'inſi nito. Noi abbiamo superato gli antichi, che ora risguardiamo
come fanciulli, nelle scienze naturali; ogni secolo avanza l'al tro, nè può
antivedersi il limite, dove, arresterassi l'industria umana nel creare nuove
sorgenti di comodità e di ricchez ze. Cotesto illimitato progresso dunque ri
sguarderà unicamente l'interesse materiale delle civili società, accrescerà la
loro po tenza, il commercio, l'agiatezza, il lus so, e lusingherà tutte le
passioni, che fomentar suole l'amor del potere e della gloria. È questa forse
la prosperità che potrà rendere gli uomini migliori; che, potrà estinguere tra
loro gli odi e le ri valità; che potrà render eterna la pace, e immutabile il
regno della giustizia; o che potrà rendere generale e comune a tutte le nazioni
il sentimento della pura e santa religione; sì che possa il comun padre della
umanità, vedere riunita tutta intor no a se la famiglia del genere umano? È
manifesto che la sola prosperità del l'interesse materiale delle società non po
trebbe operare tanti prodigi, nè togliere il male dal mondo; che anzi non potrà
non produrre quelle medesime conseguenze che ha sinora prodotto in tutte le
nazioni, le quali si sono sopra le altre innalzate per potenza e per ricchezze.
Ma v'ha un altro genere di conoscen ze, di cui non abbiamo ancora parlato, e
delle quali è proprio, l'estendere la vista dell'intelletto. Son queste le
scienze meta fisiche per rispetto alle quali varie sono le opinioni, e le
speranze deloro cultori. Ta luni più circospetti e modesti assegnano a queste
scienze per limite l'umana capaci tà, e credono che l'unico e vero loro scopo
debba esser quello d'indagare per mezzo della osservazione gl'interni fatti
dell'ani mo, onde sappia ciascuno conoscere se me desimo, e dall'analisi delle
proprie facoltà. e delle operazioni loro pervenir possa alla cognizione delle
relazioni dell'uomo verso Dio e degli altri Esseri, nel che è riposto l'ordine morale
dell'universo. Dicono co storo essere una tale scienza la maggiore di tutte le
altre, perchè promette all'uomo un progresso in realtà infinito; perchè gli
scopre le sorgenti de doveri suoi, insieme col fine della vita; perchè gli
addita i ter mini della sua capacità, onde raffreni la sua curiosità, e
distinguer sappia l'utile dall'inutile sapere; perchè infine gli dimo stra il
cammino della perfezione, la quale contiene una tale infinità di gradi, quanta
- 545 – è quella che intercede tra la virtù umana e la divina. V. Metafisica.
Altri per contrario di più franco animo ampliano il campo della metafisica, e
cre dono potere per essa penetrare nella co gnizione delle cause e delle
essenze delle cose, e predicono alla mente umana, che perverrà un giorno per
sino a conoscere la sua propria natura, lo stato anteriore all'attuale sua
esistenza, e i suoi futuri destini. Accusano essi di timidità e di cor tezza
d'ingegno i metafisici dell'esperien za, e per non avere con questi nulla di
comune, mutano ancora il nome della scienza, e la chiamano filosofia trascen
dentale. Appartenendo noi a primi, e non a secondi, risguardiamo cotesta
filosofia non come scienza, ma come un poetico parto della immaginazione, e
della vana curiosità di quelli, i quali credono che la ragione abbia in se un
germe riposto di sapienza, capace di farle trascendere i cancelli dell'umana
condizione. V. Tra scendentale, e Trascendente. In conclusione, la voce
progresso, ap plicata agli Esseri organici, non ha altro senso che quello de
naturali periodi della loro materiale esistenza; applicata alle ci vili
società, non indica, se non il corso che le nazioni han fatto e faranno dalla
barbarie a diversi gradi della civiltà; ap plicata alle conoscenze delle
scienze fisi che e delle arti che ne derivano, espri me l'inesauribile campo
delle osservazioni naturali, e della industria umana; appli - cata infine alle
speculazioni della sapienza trascendentale, contiene i deliri della im
maginazione, e il romanzo della filosofia. Finalmente il significato di
graduale e suc cessivo avanzamento verso la perfezione, contiene una idea vera,
quando il voca bolo progresso si applica alla volontà e all'azione, o sia
quando i pratici porta menti della vita si prefiggano per loro sco po
l'imitazione di quella sublime ed eroica virtù che può far dell'uomo una
immagine della Divinità. V. Filosofia, Virtù. PaoIEzIONE (spee. e crit.),
l'atto, col quale si pone in moto un corpo grave, imprimendogli una forza
istantanea in una data direzione, cessata l'azione della qua le, il corpo
rimane abbandonato alla pro pria gravità. V. Forza. » . - Cotesto vocabolo ha
diversi significati nella meccanica, nella prospettiva, e nel la geometria
descrittiva. Nella meccanica esprime l'atto del proiettare i corpi pesan ti.
Nella prospettiva e nella geometria de scrittiva indica la rappresentazione
delle dimensioni e del contorni del corpi visibili sopra una superficie piana.
V. Prospettiva. PaoMEssA, PRoMEssioNE e PRoMissione (prat.), spontanea
dichiarazione di voler dare, o fare qualche cosa in favor d un altro. - - La
promessa accettata da colui, in fa vor del quale è stata fatta, è obligatoria
pel promettente. Essa è il fondamento delle obligazioni volontarie, le quali
nel pri mitivo diritto naturale, del pari che nel secondario o civile, formano
uno de due legami delle umane comunanze. Cotesti le gami sono: le obligazioni
che c'impone la legge del giusto e dell'onesto, e quelle che contraiamo col
proprio fatto. V. Obli gazione. , e - “ - º - º PRoNoME (disc.), voce che nel
discorso tiene il luogo del nome, e serve a deter minare il suggetto, di cui si
parla per l'idea della persona, e non della natura 8lla, - 544 - Riteniamo in
questa definizione il con celto di Beauzée, il quale sembra aver ben conciliato
le difficoltà degramatici in torno alla natura, e all'uso del pronomi. Per
verità il lodato autore non fece al tro che esprimere con maggior precisione il
concetto del P. Buffier. Questi, par lando della definizione del pronome aveva
( nella grammatica francese detto: « Dacchè si parla del pronome non si è
ancora ben conosciuto che esso sia, come se la sua natura fosse di quegl'impene
trabili segreti, ne'quali non è lecito pene trare. Acciocchè non si creda esser
que sta una mia esagerazione, leggasi il dotto Vossio, il luminare della età
sua, e il principe de gramatici. Dopo di aver di chiarato (e con ragione) che
tutte le de finizioni date insino a quel tempo del pro nome non erano in alcun
modo accetta bili, pronunzia, che il pronome è una voce la quale in primo luogo
si riferi sce al nome, e in secondo luogo signi fioa qualche cosa. Per me, col
rispetto dovuto al merito d'un sì grande uomo, confesso di non comprender nulla
della sua definizione ». Ed esponendo in seguito il suo proprio concetto,
osserva che la maggior parte de suggetti, circa i quali versa ogni discorso
hanno un nome par ticolare, oltre del quale ne hanno ancora uno comune,
allorchè parlasi della loro persona. Così, se taluno parli di seme desimo, si
designa colla voce io o me, e se designar vuole la persona cui parla, dice tu o
voi, o se indicar voglia colui di cui parla, lo designa colle voci egli o ella.
Ora siccome i gramatici hanno ri servato come caratteristico delle denomina
zioni proprie, il vocabolo nome, così han chiamato pronomi le denominazioni
comuni che si pongono nel luogo delle proprie. Nel concetto del P. Buſier v'ha
un pic ciol vacuo logico. In che il proprio diffe risce dal comune, e come
l'uno può egual mente che l'altro, determinare il medesimo suggetto? A cotesto
vacuo supplì Beauzée. « I nomi e i pronomi, egli dice, hanno qualche cosa di
comune, dapoichè pren dono il medesimo luogo nel discorso, e producono lo
stesso effetto. Sembra dun que che il carattere comune consiste in questo, che
entrambi determinano il sug getto di cui si parla: il nome determina il
suggetto designandolo per l'idea della sua natura; il che non è del pronome, il
quale può designare suggetti di diversa natura. Il tu per esempio, designa un
uomo quando a lui s'indirizza la parola, e può ancora designare un cavallo, un
cane, un albero, un ruscello, il cielo, la terra, la republica, un Essere
astratto e reale, la Divinità stessa, secondo che sia ad un di essi indirizzato
il discorso. Ma il tu designa sempre il suggetto cui s'indirizza il discorso,
qualunque sia la natura sua, siccome l'io addita la persona che parla, o in
bocca alla quale si pone il discorso ». Eccoci dunque, s'io non m'inganno sulla
buona strada: i nomi determinano il suggetto designandolo per l'idea della
propria natura : i pronomi lo determi nano designandolo per l'idea della per
sona. V. Mome, Persona. PRONOSTICo (spec. prat. e crit.), an fivedimento
dell'animo, per lo quale si annunzia il futuro. La coscienza, la comune
ragione, le scienze, e le arti, hanno ciascuno in de terminati casi una
naturale virtù di pro nosticare, o sia di antivedere il futuro. Ogni uomo
antivede le conseguenze ne – 545 - cessarie delle proprie azioni: la prudenza
regola i pratici portamenti della vita, schi va il male, e predispone il bene
per via di pronostici, che ricava dalla sperienza: l'astronomia pronostica le
periodiche rivo luzioni degli astri: la medicina forma an ticipati giudizi
intorno al corso o all'evento delle malattie: le arti tutte prevedono gli
effetti di date composizioni di elementi materiali, o di forze insieme combinate.
La conoscenza del futuro dunque non è in teramente chiusa alla mente; ma la
natura le ne ha dato tanta, quanta serve all'uso delle proprie facoltà, e allo
scopo della vita. Cotesta conoscenza è interamente fon data nella connessione
delle cause naturali o sia nel grande ed universal principio della causalità. E
però la certezza o pro babilità del pronostici nasce dalla diversa qualità
delle relazioni che gli avvenimenti futuri hanno co passati e copresenti. Quan
do tali relazioni sieno necessarie, i pro nostici son certi, sì che l'uomo
legge nel futuro come nel presente; e per l'opposito divengono probabili e
incerti, se noi co nosciamo una parte sola di tali relazioni. Ogni altro
giudizio fondato sopra la sola possibilità, o sopra ignote relazioni entra nel
genere del vaticini e delle indovinazio ni, V. Causa, Coscienza, Relazione,
PaoNUNZIA e PaoNUNZIAzIoNE (disc.), l'ar ticolazione delle parole, fatta colla
stessa correzione che richiede l'ortografia.V. que sta VOCe. - Siccome noi
pronunziamo prima di scri vere, e scriviamo per ritrarre con figure o cifre
quel che abbiamo pronunziato; così la pronunziazione esser dovrebbe regola e
modello della ortografia. L'esatta corrispondenza tra 'l suono della voce e i
caratteri della scrittura è non per tanto un pregio dato a poche lingue, e
forse alla sola lingua italiana, dapoichè non può trovarsi negl'idiomi che han
dit fonghi o altri suoni composti; non in quelli ne quali il dittongo è nella
scrit tura rappresentato da semplici vocali; e molto meno in quegli altri ne
quali le consonanti superflue nella pronunzia son richieste nella scrittura,
sia per distinguere i vocaboli simili, sia per indicare la ra dice de nomi
composti o derivati. Sarebbe un inutile voto la conformità tra la pro nunzia e
la scrittura, com'è quella della uniformità degli alfabeti. V. Alfabeto. In un
significato più ampio prendesi la pronunziazione per la retta recitazione d'un
discorso; nel quale senso è uno dei principali requisiti dell'oratore,
acciocchè il discorso ottenga il fine che si prefigge, Cicerone definilla,
acconcia moderazione della voce, del volto, e dell'azione. V. Elo quenza.
PaoPAGAzioNE (spec.), l'atto per lo quale gli Esseri organici si moltiplicano
per via di generazione. V. questa voce. PRoFENSIoNE (prat.), tendenza, o di
sposizione dell'animo ad un sentimento o ad un affetto. - È preso dalla
tendenza de'corpi al moto, che è il suo significato proprio. La pro pensione
del mobile a discendere, siccome dice Galilei, si va facendo sempre minore,
quanto egli più vicino si trova al primo termine della sua discesa. È meno
dell'inclinazione, che esprime un principio di sentimento già determinato. V.
Inclinazione. PaoPoRzIoNE (spec.), l'eguaglianza di due rapporti o ragioni. –
546 – Distinguesi in aritmetica e geometrica, secondo che i rapporti che la
compongono sieno aritmetici, o geometrici, cioè di quoziente o di differenza.
V. Ragione, Rapporto. La proporzione aritmetica è stata an che detta
equidifferenza da moderni ma tematici. PRopoNIMENTo, RoposiTo (spec. prat. e
dise. ), ferma determinazione di operare conformemente al deliberato.
Appartiene al genere delle azioni incom piute, perchè indica la determinazione
del la volontà, separata dall'atto dell'esegui mento. V. Volontà. Abbraccia
così la determinazione pre sente, come la successiva, e presuppone sempre una
matura deliberazione congiun tamente alla persuasione della sua conve nienza.
V. Convenienza, Persuasione. E però proposito dell'animo è la costante
determinazione di praticare la virtù, di rendere la giustizia ad ognuno, o di
se guire tale o tale altra regola nel porta mento della vita, o nell'uso delle
nostre facoltà. Distinguesi per conseguente dalla semplice volizione, la quale
può essere passaggiera e mutabile, come la volontà, di cui è l'atto. V.
Volizione, Volontà. Il proposito vale talvolta il suggetto del discorso, o
l'occasione opportuna di dire o di fare qualche cosa. Paoposizione ( disc.),
detto che afferma o nega una cosa, nel quale senso equi vale all'enunciazione.
V. Enunciazione, Ogni proposizione è composta di sub bietto e di attributo , o
predicato, ed è vera o falsa. Il giudizio è la facoltà del l'animo , che
conosce della sua verità , o sia della convenienza delle relazioni del
predicato col subbietto. V. Giudizio, Pre dicato, Subbietto. Le proposizioni
possono essere grama ticalmente o logicamente considerate. La parte gramaticale
risguarda la forma della proposizione, la quale costa essenzialmente del
subbietto dell'attributo o predicato, e del verbo. Del subbietto la mente conce
pisce l'esistenza con una data relazione ad una qualità o accidente: il
predicato espri me appunto la qualità, o l'accidente: il verbo esprime il
giudizio che unisce l'uno all'altro. Dalla natura del subbietto o del
l'attributo nasce la distinzione delle pro posizioni semplici, delle composte,
delle complesse e delle incomplesse; siccome dalle modificazioni fatte al
suggetto o al predicato nascono le proposizioni principali e le incidenti.
Intorno a ciò v. i gram matici. La parte logica risguarda o l'intelligenza de
vocaboli ricevuti, o il vario uso che può farsi delle proposizioni. Senza
correr dietro alle innumerevoli di stinzioni fatte da'logici, per rispetto alla
di versità desubbietti e delle modificazioni lo ro; le principali son quelle
che traggono ragione dalla quantità, o dalla qualità del le proposizioni. --
Per la quantità distinguonsi le universali dalle particolari, o singolari, e le
defi nite dalle indefinite. Proposizione univer sale è quella che comprende una
colle zione d'individui, o un genere tutto in tero; sì che i vocaboli
collettivi, tutto, ogni, niuno sono caratteristici delle pro posizioni
universali, tranne i casi ne quali anche i nomi collettivi possono essere ado
perati per esprimere una proposizione sin golare. - Proposizione particolare è
quella il cui suggetto, sebbene sia espresso con termini – 547 - universali,
pure vien limitato dal predi cato ad un significato individuale. Singolare o
individuale è quell'altra che versa circa un individuo solo. Definite son
quelle, nelle quali trovasi un subbietto di determinata quantità: in definite
quelle altre in cui manca una tale determinazione. Per rispetto poi alla
qualità, le propo sizioni sono affermative o negative, la combinazione delle
quali colle universali e colle particolari fu dagli scolastici espressa
compendiosamente con quattro delle vo cali A, E, I, O, ed enunciata ne due
seguenti versi. Asserit A, negat E, sed universaliter ambo Asserit I, negat 0,
sed particulariter ambo. Le proposizioni sono state ancora distinte in
categoriche e ipotetiche, partizione la quale diede nome a due corrispondenti
spezie di logiche argomentazioni. Catego riche furono dette le proposizioni,
nelle quali si assume assolutamente la conver nienza del predicato al suo
subbielto: ipo tetiche quelle nelle quali il predicato vie ne sotto una data
condizione attribuito al subbietto. - - Circa l'uso che di queste diverse
spezie può farsi, della loro conversione e delle varie sorte di sillogismi, che
da esse pose sono risultare, più opportuno è il parlarne nell'articolo sillogismo.
V. Conversione, ASillogismo. Proposizioni identiche sono state dette quelle,
nelle quali si attribuisce la mede sima nozione, così al subbietto come al
predicato. Tali sono per esempio, l'uomo è uomo, quel che è, è, A è A, A non è
B, ed altre simili. Circa l'utilità di tali proposizioni si è molto disputato
tra sa pienti. Locke chiamolle frivole, perchè per esse di nulla si accresce
l'umana cognizio ne, se si eccettua la comodità che appre stano nelle
dimostrazioni indirette, delle quali lo scopo è, il rendere palpabile l'as
surdo. Leibnitz per l'opposito riconobbe co me importante l'uso di tali
proposizioni, non solamente nel caso delle dimostrazioni indirette, ma anche
quando, nulla inse gnando di nuovo, servono a ricordare quel che sappiamo, o a
ridurre a verità evidenti le ultime conseguenze delle pro posizioni
dimostrabili. Per verità, senza negare l'abuso che i logici han fatto di
siffatte proposizioni, non posson dirsi inutili, tra perchè tutte si risolvono
nel principio della contraddi zione, e perchè sono il fondamento delle
definizioni reali, le quali in sostanza al tro non fanno che determinare la
cosa per la sua essenza, o sia per le qualità che la rendono cognoscibile. V.
Contrad dizione, Definizione. PaoPRIETÀ (ontol. e spec.), attributo inseparabile
dal subbietto. V. Attributo. Gli scolastici definivano la proprietà: quel che
deriva dalla essenza, senza essere l'essenza, il che era lo stesso di quel che
essi dicevano attributo proprio. V. Essenza. PaoPRIo (disc. ), l'attributo
essenziale che distingue una spezie dall' altra, e che per conseguente è comune
agl'indivi dui della medesima spezie. V. Individuo, .Spezie. - Il proprio come
una delle qualità atta a fare discernere i generi dalle spezie, entra negli
universali delogici, e ne cin que predicabili degli aristotelici. V. Ge nere,
Predicabile, Universale. - ar – 548 – - PaosA (dise. ), il discorso naturale,
li bero dalle misure e dalle rime del verso. V. questa voce. È vocabolo
suggerito dalla necessità di distinguere il discorso poetico dal naturale, che
non è circoscritto da altre regole fuor di quelle della sintassi. Per la stessa
ra gione, per la quale distinguesi il parlare sciolto dal misurato, la prosa
dee schi vare ogni misura o cadenza di verso, e correre libera, servate le
regole della pro pria eufonia. V. questa voce. a - PRosiLLogisMo (disc. ), voce
scolastica per la quale designavasi una proposizio ne, o un secondo sillogismo,
con cui raf forzavasi una delle premesse d'un prece dente sillogismo. In questo
caso la mag giore del secondo poteva essere sottintesa nella premessa del
primo. V. Premessa, Sillogismo. - PRosPERITÀ (prat.), seguenza di avve mimenti
favorevoli a nostri desideri. Scambiasi comunemente colla felicità, dalla quale
è diversa. La felicità racchiu de l'idea del bene che ci conviene, lad dove
prosperità dicesi di ogni bene che ci viene dalla fortuna, o che ci procuriamo
per soddisfare il desiderio che ne abbiam concepito. V. Felicità, Fortezza.
PRosPETTIVA (crit. e spec.), arte di de lineare gli obbietti visibili sopra una
su perficie piana, situata d'ordinario tra l'oc chio e l'obbietto, e
considerata come tra sparente. Questa è propriamente quella che dicesi
prospettiva lineare, perchè versa circa la grandezza, la forma, e la posizione
delle linee o de'contorni negli obbietti visibili, e distinguesi in teoretica e
pratica. La teoretica spiega le ragioni delle diverse apparenze o
rappresentazioni di taluni ob bietti, secondo le diverse posizioni dell'oc chio
che le guarda. Cotesta scienza è parte delle fisico-matematiche, dapoichè appar
tiene del pari all'ottica e alla geometria, che anzi forma il suggetto della
così detta geometria de visibili, la quale per un ragionamento tutto geometrico
deduce la grandezza, la figura e la posizione visi bile d'un obbietto dalla grandezza,
dalla figura e dalla posizione reale dell'obbietto medesimo. V. Apparente,
Distanza, Vi sibile. La prospettiva pratica è l'arte di rap presentare gli
obbietti apparenti, e quelli che l'immaginazione concepisce, sotto una forma
simile alla visibile. Tanto la teore tica quanto la pratica costa di due parti,
l'ortografia e la scenografia, la prima delle quali suppone l'occhio ad una di
stanza indefinita dall'oggetto, la seconda ad una distanza finita. Prospettiva
aerea è stata detta quella che per mezzo de'colori, e della grada zione della
luce rappresenta la grandezza de corpi, sminuita in proporzione della loro
distanza. Cotesto effetto si ottiene rappre sentando gli obbietti, come veduti
a tra verso d'una colonna d'aria, la maggiore o minore lunghezza della quale
esprime le diminuzioni loro. La prospettiva lineare e l'aerea formano una parte
principale della scienza del pit tore. La lineare è il fondamento di tutte le
arti del disegno: applicata alla fortifi cazione, prende la denominazione di
pro spettiva militare: suo scopo è il disegnare sopra un piano un poligono, o
altro ob bietto, quale si presenta alla vista dell'os servatore situato ad una
certa altezza, o ad una data distanza. Da questa prospet – 549 – tiva può dirsi
nata una nuova parte della geometria sublime, detta geometria de scrittiva, di
cui doppio è lo scopo: primo è il dar le regole come rappresentare sopra un
piano, che ha due sole dimensioni, cioè lunghezza e larghezza, i corpi che ne
hanno tre, cioè lunghezza, larghezza e profondità, purchè sieno rigorosamente
determinabili: secondo è il dedurre le ve rità generali, che risultano così
dalle for me, come dalle rispettive posizioni dei corpi medesimi. E dovuto
agl'inventori della geometria descrittiva l'avere ricavata da un'arte puramente
grafica una scien za, di cui l'applicazione ha prodotto ine stimabili vantaggi
alle arti e spezialmente alla stereotomia, alla industria ed alle stes se
scienze fisico-matematiche. Di questa nuova scienza, della quale si dà l'onor
della invenzione all'illustre matematico Monge, aveva dato un primo saggio il
dott. Reid nella sua geometria de visibili, Per essa gli artefici apprendono
non so lamente le grafiche costruzioni, ma an cora la composizione delle
macchine ed il meccanismo delle forze loro: per essa conosconsi le vere regole
della prospettiva, e delle ombre nel disegno: per essa acqui stasi la teoria
delle proiezioni, delle quali ha fatto tanto tesoro la scienza delle for
tificazioni: per essa infine, aiutata dal calcolo, l'ingegno si esercita alla
inven zione e alla soluzione del più difficili pro blemi. V. Proiezione.
PaossiMo (prat.), l'uomo considerato come membro di una medesima famiglia. È il
significato sublime che gli ha dato il vangelo nel precetto: ama il prossimo
tuo come te stesso, precetto in cui si racchiude il concetto della perfetta
virtù, della giustizia, della benevolenza, e di tutti i doveri dell'umana
società. L'amare Dio sopra ogni cosa, e il prossimo suo come se stesso, sono i
due precetti nei quali è riposta la legge del cristianesimo, legge che ha messo
l'impronta dell'auto rità divina al senso stesso della ragione. Cotesto senso
era impresso nella umana na tura, cioè ne bisogni, negli affetti, nello
interesse, nella reciprocazione de'doveri, e sopra ogni altro nella coscienza
dell'uomo. La legge di grazia dunque non ha fatto altro, che rendere più forte
la volontà, rischiarando la ragione con una luce più viva, capace di dissipare
la nebbia delle passioni, e del falsi beni che crear suole l'interesse
materiale della vita. Quell'amor del prossimo che la ragione vedeva, e che
l'interesse materiale soffogava, fu diviniz zato, dapoichè acquistò il
carattere di una naturale effusione dello stesso amore, che l'uomo dee a Dio.
Questo primo amore verso l'autore della nostra esistenza im para ad amare se
medesimo ed il prossi mo: se medesimo, nello scegliere il vero bene: il
prossimo, nel guidarlo a volere e ad amare lo stesso bene. È questa la più
chiara e la più semplice dimostrazione della perfetta congruenza del la fede
colla ragione; e però i pochi pen sieri sin qua esposti vanno considerati, non
come un comento teologico, ma co me il chiaro e semplice concetto, che può
formare della divinità della religione cri stiana anche l'uomo di volgare
ragione, quando ne vada cercando le pruove nella verità della sua dottrina, e
nella evidenza della sua luce. V. Religione. PRoTERvIA e PRoTERvITÀ (prat.),
osti nata e indurita iniquità. V. questa voce. L'ostinazione è il carattere che
distin gue questo vocabolo dagli altri propri di - 550 - ogni vizio, sì che la
protervia si applica ad ogni sorta di malignità o malizia.V. que ste voci.
PRovERBIo (dise. e prat.), detto com pendioso, che racchiude una verità nota
per esperienza. Vale ancora villania o ingiuria. V. que ste voci. PRovIDENzA e
PRovvIDENZA (spec. eprat.), la ragione divina che presiede all'ordine e al
reggimento dell'universo, O la ragione che ha coordinato tutte le cose al fine
loro, O la cura che Dio prende di tutte le COS6 , - O la volontà di Dio autrice
dell'ordine di tutte le cose. Son tutte definizioni, che contengono il medesimo
concetto, più o men breve mente espresso, se non che sembra pre feribile la
prima, la quale congiugne le due mozioni essenziali, cioè la causa del l'
ordine, e la conservazione delle cose create. Il conservare poi comprende tanto
l'azione delle leggi generali, sopra le quali riposa l'ordine dell'universo,
quanto le particolari disposizioni che determinano il modo dell'essere di
ciascuna cosa, o di ciascun individuo, e ciò tanto nel mondo materiale, quanto nell'intellettuale
o spi rituale. - Le leggi generali della natura regolano il moto, e le
reciproche relazioni delle di verse parti della materia, dall'accordo delle
quali risulta, l'ordine del mondo sensibile; ma non comprendono quell'altro
ordine di fatti che dipendono dalla volontà degli Es seri intelligenti, pe
quali lo stesso mondo sensibile è stato creato. Ora il limitare i di segni e le
cure della Provvidenza, o sia della mente ordinatrice di tutte le cose, alle
sole leggi fisiche, produrrebbe uno de due seguenti assurdi: o soggetterebbe il
mondo intelligibile a una legge di ne cessità, che distruggerebbe la volontà de
gli agenti liberi; o lascerebbe senza go verno, e in preda al caso il mondo mo
rale. Qual mostruoso concetto, che il mondo sensibile abbia una legge, e che
l'intelligibile non ne abbia alcuna? I soli sofismi della falsa filosofia
potevano con cepire una ipotesi, che la ragione, la spe rienza, e l'opinione di
tutta l'umanità ri gettano. E che sia questa una ipotesi ri pugnante, così al
naturale concetto che la mente forma dall'eterna sapienza del Creatore, come
all'interno sentimento di ogni uomo, il dimostra la pratica dot trina di quegli
stessi filosofi, che teoreti camente la professarono. Tra costoro si di
stinsero gli stoici, che tutto facevano di pendere da un ordine immutabile, e
non lasciavano alla Provvidenza se non l'inu tile prerogativa di antivedere e
di predire il futuro. Ciò non ostante quando leggesi il ritratto che ne fa
Seneca nel libro de pro videntia non può non apparire manifesta la
contraddizione d'un sistema, che da una parte stabilisce il principio della
virtù nella bontà e perfezione di Dio, e dall'al tra nulla gli lascia nella
dispensazione dei beni e demali della vita. Ecco i suoi con cetti: « Iddio ama
i buoni, che ha fatto simili a se, e co quali ha stabilito quasi un legame di
parentado e di amistà: eser cita la virtù loro colle sofferenze e col do lore,
e gli prepara al consorzio del suo eterno domicilio, ma lascia la distribu
zione del male e del bene all'ordine in flessibile delle cose, ed è soltanto
spet tatore del loro portamenti ». Inter bonos viros ac Deum amicitia est,
conciliante – 551 – virtute, amicitiam dico? imo eliam ne. cessitudo et
similitudo quoniam qui dem bonus ipse tempore tantum a Deo differt, discipulus
ejus aemulatorque , et vera progenies: quem parens illema gnificus, virtutum
non levis eraetor, ut severi patres durius educat. Itaque cum videris bonos
viros acceptosque diis la borare, sudare, per arduum ascende re; malos autem
lascivire, et volupta tibus fluere, cogita filiorum nos mode stia delectari,
vermularum licentia: il los disciplina tristiori contineri, horum ali audaciam.
Idem tibi de Deo liqueatº bonum virum in deliciis non habet e peritur, indurat,
sibi illum praeparat. Dopo questi ed altri pensieri non meno sublimi, non può
non destar maraviglia l'ultima conclusione, cui mena il discorso del cennato
autore: Seio, omnia certa et in aeternum dicta lege decurrere. Fata nos ducunt,
et quantum cuique re stet, prima nascentium hora disposuit. Causa pendet ea
caussa, privata ae pu blica longus ordo rerum trahit ... Ille ipse omnium
conditor ac rector scripsit quidem fata, sed sequitur semper pa ret, semel
jussit... Mon potest artifex mutare materiam: haec passa est. Quae dam separari
a quibusdam non possunt, cohaerent, individua sunt. V. Fato. La dottrina della
creazione insieme co gli altri vaneggiamenti delle sette filoso fiche del
paganesimo, ha fatto ancora spa rire i falsi concetti, che queste avevansi
formato della Provvidenza. La RAGIONE su PREMA, che ha creato tutte le cose, e
le ha predisposte ad un fine; che ha stabi lito un ordine per gli Esseri
intelligenti, come per le cose materiali; che ha dato per norma a questi Esseri
la nozione del giusto e dell'onesto; che insiem colla co gnizione del vero
bene, gli ha dotato del libero uso della volontà; che pietosa e soc correvole
provvede a loro bisogni, emenda i falli loro, e a se incessantemente li ri
chiama; questa divina ragione, dico, che noi chiamiamo Provvidenza abbraccia le
cose tutte, corruttibili e incorruttibili, dal le più umili alle più sublimi;
conserva le spezie e gl'individui, e colla sua pre scienza antivede tutti i
futuri avvenimenti, tanto quelli che dipendono dall'ordine ge nerale delle
leggi naturali, quanto gli altri che nascono dal fatto, o sia dalla volontà
degli agenti liberi, a quali ha dato in uso la terra. Questa è la Provvidenza
che ci nutrisce; che invochiamo ne' biso gni, che ci sostiene colla speranza
del bene futuro, che ci consola ne'mali inevitabili della vita, e ci dispensa
il primo e il maggiore di tutti i beni, la pace cioè e l'in terna tranquillità
dell'anima. V. Bene, Creazione, Prescienza. PaovocAMENTo (prat.), l'atto o il
detto, col quale cercasi di commuovere un altro al risentimento, o allo sdegno.
Differisce dall'incitamento, che è pro prio delle commozioni prodotte
dall'istin to, o da altra propria disposizione. V. In citamento. PRUDENZA
(prat.), il discernimento ne cessario nella ricerca del vero, e nella scelta
del bene. - La prudenza è più che virtù: è quel retto giudizio, che una mente
matura acquista per la riflessione e per la sperienza: suoi requisiti sono la
memoria del passato, la penetrazione del giudizio e l'antivedimento del futuro,
il che ha fatto talvolta scam biare cotesto vocabolo coll'altro di pro videnza
(quae virtus er providendo est - 552 - appellata prudentia): è l'umana provi
denza, o sia quel più alto segno di ac corgimento, cui può la ragione
pervenire: cotesto accorgimento applicato alla cura delle domestiche cose forma
l'ottimo pa dre di famiglia, e alle pubbliche, il sag gio amministratore. V.
Providenza. Socrate chiamò la prudenza il complesso di tutte le virtù, ma dir
volle il giudizio necessario alla pratica di tutte le virtù, o come disse
Cicerone, sine qua ne in telligi quidem ulla virtus potest. Ben disse il nostro
Francesco da Buti nel co mento sopra Dante: « Prudenza è virtù intellettuale,
drizzante l'uomo alle virtù morali, e comandante alle virtù intellet tuali ». È
il sale della virtù, il quale indirizza la volontà alla moderazione, e
l'intelletto all'esatto giudizio della verità. V. Virtù. PRUovA (dise. spec. e
prat.), l'argo mento che si adduce per la verità d'un fat to, o d'una opinione.
V. Fatto, Opinione. Vuolsi intendere per opinione l'assenti mento che prestiamo
ad ogni proposizio ne, che a prima vista non apparisca certa o dimostrata.
Locke chiamò pruove le idee interme die, le quali dimostrano la convenienza
delle estreme, e denominò sagacità il na turale artifizio della mente in
ricercarle, In questo senso ogni dimostrazione è una pruova della verità
dimostrata, siccome ogni sillogismo è pruova della sua con seguenza. Da ciò
segue che le sole veri tà, le quali non han bisogno di pruova, son le
intuitive, che anzi queste servono come principi di pruova delle altre. V. Di
mostrazione, Intuitivo, Verità. Intorno alla definizione di Locke Leib nitz
osservò, che la vera arte di trovare le idee medie è l'analisi, mediante la
quale si perviene alla soluzione, non so lamente delle quistioni semplici
intorno alla verità o falsità d'una proposizione, ma ancora delle più
implicate, che ver sano circa le qualità d'un dato subbietto. Altra volta
ascrivevasi a genio d'invenzione il supplire alla dimostrazione d'un teorema
già da altri trovato, e di ciò facevasi quasi un miracolo della sintesi. Ma
quando ri flettasi alla maggior difficoltà che v'ha nel trovare, non solamente
le verità ignote, ma sì bene i mezzi per eseguire quel che i problemi
propongono, ognuno dovrà ri conoscere le superiorità dell'analisi, e ri
sguardarla, come il vero instrumento del l'arte d'inventare. V. Analisi,
Inventare, Sintesi. In un significato meno ampio e più usuale, il vocabolo
pruova si adopera per quelle conoscenze di fatto, acquistate per la credenza a
detti altrui, le quali pas sano nell'animo nostro, accompagnate dalla certezza
morale, e il più delle volte dalla semplice probabilità. Cotesto genere di
conoscenze comprende tanto la notizia de fatti intervenuti fuori del propri
sensi, quanto le opinioni altrui intorno alla ve rità defatti medesimi: coteste
opinioni tras messeci per lo insegnamento, o per la sto rica tradizione,
contengono una scala di conoscenze intermedie, a ciascuna delle quali
corrisponde un diverso grado di pro babilità. La probabilità consiste nella più
o meno verisimile esistenza de'fatti narra ti, e creduti. V. Probabilità.
L'abito di assegnare a ciascuna pruova il giusto suo valore è la principal
funzione del criterio della ragione; siccome le re gole per le quali conduciamo
il ragiona mento dalle verità o da fatti noti agl'ignoti, formano la scienza
che diciamo - 555 - logica. Cotesta scienza, di cui è proprio il discernere le
relazioni di tutte le idee, e il determinare i gradi della connessione loro, è
quella che presiede al criterio del le pruove, e può dirsi l'arte critica uni
versale. Sua derivazione è quella parte dell'arte critica, la quale discute e
deter mina la veracità delle pruove defatti an tichi: applicata alla storia in
generale, alla verità delle sue narrazioni, all'au tenticità o credibilità del
suoi documenti, e alla legittimità delle sue conclusioni, prende la speciale
denominazione di cris tica della storia. V. Criterio, Critica, ALogica, Storia,
I generi delle pruove son tanti, quanti sono i mezzi, pe'quali acquistiamo le
co noscenze, o sia quanti sono gl'instrumenti dell'umana cognizione. Cotesti
instrumenti sono, l'induzione, il ragionamento, la sen sazione: l'induzione
somministra le pruor ve che nascono dalle relazioni di verità ne cessarie, come
l'effetto argomentato da una causa unica e indispensabile, il ragio namento
fornisce quelle, che si deducono dalle relazioni de'fatti possibili e contingen
ti: la sensazione in fine dà le pruove dei fatti a sensi immediati. Ciascuno de
tre di notati generi di pruove perde una parte del la sua originale certezza
nelle conoscenze, che acquistiamo per mezzo dell'autorità, o sia per l'altrui
testimonianza. La scienza originale resta presso quelli, all'autorità de quali
prestiamo credenza; sì che il giur dizio e l'assentimento nostro rimane su
bordinato ad una doppia condizione, cioè che il primitivo concetto di coloro i
quali l'hanno a noi tramandato, sia stato scevro d'errore; e che la
manifestazione di tal concetto sia stata fedele al suo archetipo, Colesti due
presuppositi son quelli che fan discendere la certezza, dal grado proprio, al
relativo. V. Autorità, Credenza, stimonianza. Di tal natura sono le pruove, che
for mano la materia del giudizi contenziosi. I generi di coteste pruove sono
quegli stessi che abbiamo testè additato ; l'induzione somministra gl'indizi
necessari; il ragio namento gl'indizi probabili, le sensazioni, la pruova
testimoniale, nella quale com prendesi la spontanea confessione, con siderata
come la testimonianza che rende l'autore stesso del fatto, spinto dalla for za
della verità, e dalla voce della propria coscienza. V. Coscienza, Indizio, Le
regole per valutare i diversi gradi di credibilità di ciascuna delle divisate
pruove, formano un'arte figlia della lo gica e della critica universale, la
quale dal perchè è applicata ad un particolar genere di fatti, prende la
speciale deno minazione di logica de probabili, V. Pror babile, Te. -
PsiconiAat (erit.), vocabolo di qualche moderno zoologo, per lo quale si è in
teso designare una classe collettizia di corº pi organici vegetanti e viventi,
che erº scono e si sviluppano a guisa de minerali e devegetabili, e si
moltiplicano per pic ciole propagini animale: di questi, ta: luni son privi di
facoltà locomotiva, ed altri no, con altre varietà che rendono in essi incerta
l'essenza di animali o di piante. Tal'è l'immensità della natura, e tale la
legge di continuità, colla quale ha ella disposto la gradazione degli Esseri,
che v' ha un confine quasi indiscernibile trai due regni vegetale ed animale.
Ciò non ostante volendo i zoologi stabilire de ca ratteri discernitivi dell'uno
e dell'altro si son divisi in diverse opinioni, volendo gli 4ù - 554 – uni
prendere per discernicolo il moto sponº taneo e proprio, ed altri l'organo
digesti vo. Checchessia, di tal quistione, si sono insino ad ora designati col
nome di zoo ſiti gli Esseri equivochi che partecipano della pianta e
dell'animale, e si è questa classe suddivisa in molti generi, dando a ciascuno
un proprio carattere. Non sembre, rebbe perciò necessario d'introdurre nuovi
vocaboli, se non nel caso, che delle spe zie meglio conosciute passar dovessero
ad uno de due regni, V. Zoºfilo. a i , a . i 15. i s . PsicoLoGIA (crit. e
spec.), parte della metafisica, la quale tratta delle anime umane. V. Anima,
Metafisica. i, Altra volta è stata la psicologia distinta in empirica e
razionale. Empirica era la scienza dedotta dalla sperienza, per mezzo della
quale spiegavansile interne operazioni dell'anima. Razionale dicevasi la stessa
scienza, quando da principi ricavati dalla sperienza deducevansi a priori le
facoltà e le qualità che convengono alla natura dell'anima. Cotesta
addoppiatura di scien za, che piacque grandemente a Wolfio, altro in sostanza
non era, che una pruova per saggiare la verità e la legittimità delle deduzioni
psicologiche; vale a dire, era il doppio metodo sintetico e analitico, ap
plicato alle medesime verità, le quali han no per comune origine l'interna
osserva zione di noi stessi. Ma la psicologia razio nale, considerata l'anima
come un ente, altigneva anche i principi, le astrazioni e le ipotesi dalla
ontologia, il che lungi dall'accrescer lume alla scienza, le comu nicava una
parte di quel vago ed incom prensibile, di cui l'ontologia per se stessa
abbonda. Or da colesta mistura nacque che alla psicologia si anteponesse lo
studio della logica e della ontologia, e che a - quella si desse il nome di
filosofia razio nale, a questa di filosofia prima. V. Ana disi, Ontologia,
Sintesi. Se tali denominazioni indicar debbono l'ordine col quale formansi e si
succedono in noi le nozioni dell'anima; entrambe con verrebbono alla
psicologia, come quella che apre la mente a principi della teologia na turale,
della filosofia morale, e della logi ca. Ora spogliata la scienza dal gergo on
tologico, e stabilita l'osservazione degl'in terni fenomeni dell'anima, come la
prima guida della conoscenza di noi stessi, e del le nostre facoltà, è
manifesto che la psi cologia porti seco la prima fiaccola della ragione, la
quale partendo dalla nozione della esistenza e della interna attività del
l'anima, comincia dallo spiegarci i primi fenomeni delle sensazioni, e ci
conduce alla conoscenza di tutte le successive ope razioni della mente. - si º
In fatti il primo attributo dell'anima di cui ci accorgiamo, e che ci svela la
realtà della nostra esistenza, è il pensiero: i primi pensieri nascono dalle
sensazioni : la percezione di tali sensazioni desta in noi la curiosità, o la
voglia, di giudicare della verità e delle relazioni loro: non po tendo l'anima,
nella moltiplicità delle im pressioni sensibili, accoglier queste tutte alla
volta, sceglie quelle che più le im portano, e o trascura affatto le altre, o
le rimanda ad una successiva disamina. In queste prime ed elementari operazioni
della mente, l'anima acquista la nozione della potenza che ha in se di produrre
l'azione, o sia dell'uso che può fare del la propria volontà. V. questa voce.
Passando poi a conoscer delle prime idee acquistate, comincia dal comparare le
sue stesse percezioni ; distingue il subbietto dalle qualità, discerne l'eguale
dal disu - - - guale, e il simile dal dissimile; ordina gli obbietti delle
idee; e o li distingue come singolari tra loro, o li raccoglie in diversi
generi da quali forma la spezie ; sente la necessità de segni, tra per non con
fondere gli uni cogli altri, e per astrarre le qualità che vuol particolarmente
esami mare; riconosce per conseguente la neces sità della parola, l'origine del
linguag gio, e la perfetta convenienza che regnar dee tra i segni e le cose
significate. In quest'altra rapida rivista delle operazioni che succedono alle prime
percezioni, quan te altre nozioni l'anima non acquista di se e della capacità
sua 2, Scorge nella ri flessione una potenza creatrice del pensie ro, e in lei
stessa la facoltà di giudicare, di astrarre, di generalizzare, di scoprire le
relazioni invisibili delle cose che cadono sotto i sensi. V. Astrarre,
Generalizzare, Genere, Riflessione, Specie. si Ma tutte le cennate nozioni non
passano fugacemente innanzi all'anima come per uno specchio che rifletta
soltanto gli ob bietti presenti: ella ritiene sì bene le idee e le nozioni
ricevute ; nè solamente le ritiene, ma a se le richiama, quando ne forma gli
obbietti del pensiero, e nel richiamarle forma nuove comparazioni e astrazioni:
a queste operazioni riflettendo, l'anima conosce esser dotata delle facoltà
della memoria, e della immaginazione, mediante le quali acquista la mozione del
passato, distinto dal presente, e per con seguente della durata, della
successione de'suoi stessi pensieri, del futuro, in una parola del tempo e
della sua misura. In somma l'anima, siccome disse Aristotele, è intelligibile a
se stessa, al pari di tutte le altre cose intelligibili. V. Durata, Fu turo,
Immaginazione, Memoria, Mi. sura, Presente, Tempo. º Successivamente, dalla
contemplazione delle sue facoltà, per rispetto al potere che ha di deliberare e
di mandare ad effetto le azioni, acquista ella la grande e uni versal nozione
della causa, e dell'origine di tutti gli Esseri contingenti, la qual no zione
gli serve di scala alla conoscenza dell'Essere necessario. Colla guida spezial
mente di tal nozione e guardando se stes sa, gli Esseri e le cose delle quali è
cir condata, la varietà, l'opportunità, e la bellezza delle cose create,
l'immensità dell'universo, l'ordine e le leggi che lo reggonò ; compie e
perfeziona l'edifizio, della propria cognizione, scopre gli attri buti della
Divinità, legge in essi il grande disegno della creazione, conosce il paren
tado suo col cielo, la spiritualità e l'im mortalità della sua propria
sostanza, le relazioni sue con Dio e cogli altri Es seri, il fine e i doveri
della vita! Quale scienza più di questa apre l'intelletto alla cognizione così
del mondo visibile come dell'invisibile? Ella trascende i limiti dei sensi e
delle percezioni, comprende in se tutta l'ideologia, e tien le chiavi della logica,
della teologia naturale, e della filosofia morale. L' osservazione in som ma
degl' interni fenomeni dello spirito ei apre un cammino facile e sicuro per
modo che possiam dispensarci dal metodo a priori. L'ontologia non è più una
scienza, ma è una serie di definizioni e di postulati, i quali servono a
determi nare il linguaggio delle scienze metafisi che. Collochiamo dunque la
psicologia nel primo ordine degli studi necessari a for mare l'umana
cognizione. V. Cognizione, Scienza. , - - - - - - e PUDICIZIA (prat.), virtù
sprezzatrice di ogni allettamento della voluttà. º - - - - - - 556 - È più
della castità, che esprime soltanto l'astinenza dagli atti illeciti, a quali
può taluno essere incitato dalle seduzioni del l'altro sesso; laddove la
pudicizia esprime il proposito di fuggire ogni macchia an che d'interna
tendenza. V. Castità. PUDoRe (prat.), timor di disonore o d'infamia, che ci
ritrae dalle cose, che possono meritar riprensione, o che sono dalla coscienza
riprovate. Il suo più frequente significato si rife risce alla natural
ripugnanza per gli atti esterni, che offender possono la castità, o la virtù
della pudicizia, cui ha dato il nome. È questo un particolare istinto dato
all'uomo per distinguerlo da bruti, i quali obbediscono alle materiali impul
sioni della voluttà: è più che un istinto, è un sentimento moderatore della
sensua lità, nel quale la natura ha riposto la custodia dell'innocenza e della
modestia, e a cui ha dato per esterno segno il ros sore del volto: in questo
esterno segno ha ella fatto palese la voce della ragione e della coscienza che
resistono agli allet tamenti del senso. Per qual altro fine po teva ella dare a
questo interno sentimento una particolare cspressione, se non per dimostrare
che gl'istinti animali sono nel l'uomo subordinati ad un fine morale del quale
la ragione e la coscienza sono i cu stodi ? V. Rossore. - PULITEzzA e PoLITEzzA
(prat.), qualità di maniere convenienti agli ufizi della ci” viltà. V. queste
voci. PUNTEGGIAMENTo e PUNTEGGIARE ( dise.), l'arte d'indicare nella scrittura,
con se gni convenuti, la misura delle pause che debbonsi fare nel discorso. V.
questa voce. I segni convenuti sono, la virgola che indica la minore di tutte
le pause; il punto e la virgola che indicano una pausa al quanto più lunga, e spezialmente
quella che dee farsi nel passaggio d'un senso so spensivo all'altro; i due
punti che indi cano una pausa più lunga tra due periodi de'quali uno spiega
l'altro; il punto che indica una pausa assoluta, che de'interce dere tra due
diverse proposizioni; il pun to interrogativo, che presuppone un tem po
sufficiente ad essere compreso da chi dee rispondere; il punto ammirativo, che
chiude il discorso con una proposizione la quale merita di esser meditata; il
com ma che separa il principio d'un ragiona mento dall'altro che lo precede. A
questi possono aggiugnersi gli asterischi coguali si notano i detti degli
autori che si cita mo, e i trattolini, o anche i punti ado perati nelle lingue
moderne, per congiu gnere insieme una parola composta di due o più vocaboli,
come greeo-latino fisico matematico, medico-chirurgico, quan tunque di tal
costumanza non si trovi ve stigio nell'ortografia degli scrittori debuoni tempi
della lingua italiana. Cotesto segno di congiunzione trovasi ne vecchi codici
adoperato, e fu da Greci denominato ºtsy, subunio, siccome notarono Servio ed
altri al verso di Virgilio: - - - . . . Neque enim ignari sumus ante malorum.
La misura poi delle pause, quantunque non sia la stessa per tutte le lingue,
pure sono a tutte comuni le ragioni per le quali sono state introdotte. Tali
ragioni sono: 1.º il bisogno di respirare: 2.º la neces sità di distinguere i
diversi sensi partico lari, i quali formano il discorso: 3.º la convenienza di
notare i vari gradi di re - 557 - lazione, che la proposizione principale ha co
suoi incidenti, o che questi hanno tra loro. Quantunque il punteggiamento non
sia di assoluta necessità, siccome il dimo strano le antiche iscrizioni, pur
tuttavolta deesi riconoscere come un pregio della scrittura la perfetta imitazione
della pausa anche per rispetto alla comprensione delet tori, i quali debbon
trovare nella punteg giatura quella stessa facilità, che gli ascol tanti
trovano nell'accentuazione e nelle pause. e PUNTo (spec. e ontol), la minima
parte della quantità, non divisibile in altre parti. V. Parte, Quantità. In
geometria la nozione del punto è un'astrazione, al pari della linea, della
quale il punto è considerato come il ge neratore. Laonde il punto è un segno
nel la quantità, che non ha estensione alcuna, nè in lunghezza, nè in
larghezza, nè in profondità. V. Geometria, Linea. -- Nella fisica, il punto è
l'infima parte sensibile della quantità, la quale per la sua picciolezza può
essere trascurata nel calcolo delle parti d'un corpo. I punti furono da taluni
degli antichi metafisici considerati come le parti elemen tari della materia, o
sia come enti sem plici, indivisibili, ed incorporei; ma per distinguergli da
geometrici furon detti punti reali. Tale fu il concetto di Pitagora e di
Platone, i quali credettero non potere ammettere come principi costitutivi
decor pi altri corpi, i quali essendo ancor essi composti, sarebbe stato
necessario salire di principio in principio insino all'infinito. E però tennero
per fermo, doversi tro vare la ragion sufficiente del composto nel semplice, e
non in altri composti. Cote sti punti son quegli stessi Esseri, che Pi tagora
chiamò unità reali, e Leibnizio, monadi ed unità, V. queste voci, PUNTUALITÀ
(prat.), somma diligenza nell'eseguire un atto doveroso, e tale che non lasci nulla
a desiderare. Aggiugne forza alla diligenza ed alla esattezza. V. queste voci,
PURGAzioNE (teol. e prat.), l'emenda de vizi e degli abiti della vita
sensitiva, acciocchè purificato lo spirito, si rendesse dopo la morte degno
della unione con Dio. E questo un antichissimo concetto della sapienza
socratica, di cui trovansi vesti gie anche nella filosofia pitagorica come chè
diversa fosse la nozione della Divinità in ciascuna di quelle due scuole. È
quel che i Greci dissero aSapois, e che tutti i maggiori sapienti
dell'antichità predica rono come il vero ed ultimo scopo della filosofia.
Quantunque Pitagora avesse professato la dottrina dell'anima universale, ciò
non ostante credette che le anime de mortali svelte dalla comune sostanza
divina, non potessero alla stessa fare ritorno, se non ripurgate dal loto della
vita sensitiva ; il perchè dovessero gli uomini procurare di divenire simili a
Dio. Cotesta sentenza vien riferita da tutti gli antichi pitagorici, e
zialmente da Jerocle nell'aureo carme: « il fine della dottrina pitagorica,
egli di ce, è di dare a tutti le ali, acciocchè ve nendo la morte, deposta la
spoglia mor tale, e sciolti dalla terrena natura, quasi atleti preparati dalle
filosofiche discettazio ni, divenissimo più agili ad imprendere il viaggio del
cielo: allora è che noi sa remo restituiti nel pristino stato, e diver remo
simili a Dio, per quanto all'uomo è possibile. » Più pura e più modesta insieme
fu la dottrina di Socrate, il quale dopo avere stabilito come certo, che Dio è
un Essere per se stesso bello, buono, grande, do lato di tutte le qualità
dell'Essere perfet tissimo, causa universale di tutte le cose; e dopo di avere
riconosciuto come un dog ma a questo affine l'immortalità dell'ani ma, domanda
se è mai credibile che l'anima appena esce dal corpo, vada ad unirsi con Dio.
Ricordinsi le sue memo rabili parole nel Fedone: « se pura uscirà dal corpo,
nulla portando seco di cor poreo; se in vita non partecipò de diletti del
corpo, ma quelli avrà schivato; se, in se raccolto, avrà sempre meditato alla
sua separazione, nel che è riposto il ret to filosofare; se l'anima sarà così
dispo sta, non credete voi, che vada ad unirsi a quel che è a se simile, al
divino, all'immortale, e al sapiente? Che se lor da ed impura esca dal corpo,
come quel la che ha sempre il corpo carezzato ed amato; o sia stata quasi per
incantesimo sempre immersa nelle voluttà e nelle pas sioni, a segno che abbia
creduto vero so lamente quel che è corporeo, o può es sere toccato, veduto,
bevuto, mangiato, o gustato ne venerei piaceri ; ed abbia fuggito ed abborrito
quel che è agli oc chi invisibile, ma alla mente intelligibile, e per mezzo
della filosofia comprensibile; un'anima cosiffatta, credete voi, che pos sa
nell'uscire dal corpo mostrarsi schietta qual sarebbe per natura? No
certamente: ella uscirà per contrario imbrattata ed in fetta dal contagio
contratto per la familia rità e dimestichezza, in cui visse col cor po, renduta
poi dall'abito connaturale. » In somma notò Stobco, che tanto Socrate e
Platone, quanto Pitagora insegnarono come ultimo fine dell'uomo la somiglianza
a Dio (daotaoir Gea), la quale non può ottenersi se non per opera della
purgazione (lib.o II. eclog. eap. III. J. - “ Ora i mezzi per divenire simili
alla Dia vinità erano, in primo luogo lo studio e la conoscenza di se medesimo,
di che fanno testimonianza i detti di Socrate nel Filebo; in secondo luogo la
purgazione, o sia l'emenda de propri difetti; in terzo luogo il disprezzo
de'beni esteriori; e per ultimo la contemplazione delle divine perfezioni,
nella quale riponevasi la vera beatitudine dell'anima. Cotesti mezzi eran tutti
specu lativi, o sia erano altrettanti rimedi che apprestava la filosofia, la
quale non per tanto spiega l'origine e la ragione de riti e delle cerimonie
religiose introdotte presso gli antichi popoli, onde espiare le colpe, e
placare lo sdegno della Divinità. - - Le lavande, e l'espiazioni che facevani
coll'acqua, col fuoco, coll'aria, col san gue degli animali, e con altri
naturali ele menti non ebbero altro scopo che la pur gazione, siccome
chiaramente il dicono quei versi di Ovidio. - - Omne nefas, omnemoue mali
purgamina causam Credebant nostri tollere posse senes Graecia principium moris
fuit : illa nocentes Impia lustratos, ponere facta putant. - (Fasr. lib. II. ).
(V.Buddeode KAeAPsEI Pythagoraeo Platonica). Coleste pratiche, nella materiale
osser vanza delle quali la volgare superstizione riponeva la purgazione; del
pari che il mistico senso che loro dava la filosofia, dimostrano essere stati
antichissimi dogmi della ragione: 1.º la necessità d'uno stato intermedio tra
la vita terrena e la celeste, il quale renda le anime umane degne del consor
zio della Divinità: - 559 - 2.º essere il pentimento il mezzo per lo quale la
natura richiama l'uomo alla riparazione del mal fatto: - 3.º essere questo il
rimedio salutare, per lo quale può l'uomo, non solamente ri parare alle
conseguenze delle sue colpe, ma rimettersi ancora nel cammino della perfezione:
4.º consistere la perfezione nel disprezzo de beni esteriori, e nella contemplazione
della Divinità e del suoi attributi. V. Di vinità, Pentimento, Perfezione.
Punismo (dise.), affettazione di quei gramatici, i quali negano all'uso la fa
coltà di proscrivere taluni vocaboli, e di crearne altri nuovi, secondo le
regole ri conosciute dalle lingue madri, accettate -. da tutti i moderni
idiomi, e insegnate da gli stessi fondatori della lingua italiana. Di costoro
va detto quel che il filosofo Favorino, presso Gellio, diceva ad un giovane,
studioso raccoglitor di viete pa role: vive moribus praeteritis: loquere verbis
praesentibus.. (Lib. I. Cap. X.). V. il discorso preliminare (Sy. IX. XVI.
XVII. XVIII. XIX. XX. XXI, ). PURITÀ e PURo (prat. e spec.), qualità d'animo
schietto, o di azione scevra di qualun que simulazione o duplicità. V. queste
voci. È un traslato di quelle materie che chia miamo semplici, perchè le
consideriamo non miste di cose eterogenee, come le pure acque, l'aer puro, o la
pura aura del mattino e simili, - . - - ---- ·· · ! ! ---- ----*… * · ----
----*•* ! · →---- - • · • ••• · !---- · · -** * , * ---- ! * · ! → ** •---- · … --
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• CLASSI DE VOCABOLI COMPRESI SOTTO LA LETTERA P. FILOSOFIA CRITICAPedagogica
Percezione Perfetto e Perfezione Peripatetico Pirotecnia Pirronismo Pittura
Plastico Pneumatica Pneumatologia Poema Poesia Poeta Poetica Polemica Poliantea
Poligrafia Politica Principio Proginnasma Proiezione Pronostico Prospettiva
Psicodiari Psicologia VOCI ONTOLOGICHE. Palingenesia Potenziale Panteismo
Potere Perfetto e Preesistenza e Perfezione Preesistere Pieno Principio
Plastico Privazione Possibile Proprietà Possibilità Punto Potenza - 562 -
Palato Palingenesia Palpebra Pancia Pancreas e Panteismo Paralasse Parenchima
Parlare Parola Parte Particolare Particolarità Passato Passione Passivo Pelo
Pendolo e Pendulo Pensamento Pensare Pensiero Pentimento Percezione Perfetto e
Perfezione Pericardio Pericranio Perielio - - - - Perigèo Periostio
Peristaltico Peritoneo Perpetuale e Perpetuo Persona Personale Perspicacia o
Perspicacità Persuasione Perturbazione Pesce Peso Petto Piacere Pianeta Pianta
Piede Pieno Polarità Poli Polipo Politecnico Polline Polmone Portento Positivo
FilosoFIA specu LA T1 y A. fossa e Principale Possanza Principio Possibile .
Priore, Possibilità Privativo Posteriore - - Privazione º Postulato Probabile e
Potenza , Probabilità Potenziale e - Problema Potere Prodigio Precisione e
Produzione , Preciso Profondità , , , Precogitare Progressivo a Preesistenza e
Progresso , Preesistere Proiezione i Preformazione Pronostico , Pregiudizio
Propagazione - i Prenozione Proporzione , , Preoccupazione Proponimento,
Presente Proposito Prestigio Proprietà Presumere Prospettiva Presunzione
Providenza e Preterito Provvidenza Prevedimento e Pruova Previdenza Psicologia
Prevenzione Punto Previsione Purità e Primo Puro - 565 - FILOSOFIA DISCORSIVAa
l. 1 - A i 1 º 2 º 1 A TEOLOGIA Palese e i Predicabile i Prescienza - i Parabola
Predicamento i Paradosso - i Predicato a i s . Parafrasare e ri Premessa - i
Parafrasi i Prenozione i Parafraste 't Preposizione i Paralogismo Presente , “
- e Parlare i Presumere i . Parola Presunzione º - Paronimo Preterito i f i
Parte º Primo - Particella Principale º Participio i Principio i i Particolare
Priore - , i f Partizione e Privativo Parziale , Privazione - ; Passivo i
Probabile , a , Pedagogia : Probabilità i i Peggio e Problema i Peggiore .
Prodromo Pensamento e Proemio I - - ! Periodo Pronome e ! Persona - Pronunzia e
- , Personale Pronunziazione . . . Persuadere Proponimento, i Persuasione
Proposito i i Persuasiva Proposizione ... i Pertinacia a Proprio e º Piede -
Prosa - i Pleonasmo Prosillogismo i , Plurale Proverbio a - - - - Positivo
Pruova Posteriore Punteggiamento e Postulato Punteggiare Precisione e Purismo
Preciso - NATURALEa Purgazione - 364 - E IL 0 Pianto Picciolo e Piccolo Pietà e
Pietade Pietoso Pigrezza e Pigrizia Pio Placidezza e Placidità Poltro,
Poltrone, Poltroneria Positivo Povertà Pravità e Pravo Precetto Precipitanza
Precisione e Preciso Predilezione e Prediligere Pregio Premeditare
Premeditazione Premio Presontuoso, Presontuosità, Presonzione Pace Parabola
Particolarità Passione Paternità Paura Pazienza Pazzia Peccato Peggio e
Peggiore Pena Penitenza Penoso Pentimento Perdonanza, Perdonare e Perdono
Perfidia Perplessità o Perplesso Perseveranza Pertinacia Perturbazione
Perversità e Perverso Pessimo Petulanza Piacere Piacevole e Piacevolezza 80 FIA
PRATI CAe Prestante e Prestanza Pretesto Prevaricazione Prevedimento e
Previdenza Prevenzione Principio Probabile Probabilismo Probabilità Probità
Procace Prodezza Prodigalità Produzione Progetto Promessa, Promessione e
Promissione º Pronostico Propensione Proponimento Proposito Prosperità Prossimo
Protervia e Protervità Proverbio Providenza e Provvidenza Provocamento Prudenza
- Pruova Pudicizia Pudore Pulitezza e Politezza -. Puntualità ... Purgazione .
Purità e Puro » - i GRECISMI SUPERFLUI. - - Perissologia Polografia º Polimazia
-; LATINISMI SUPERFLUIe - Pauperismo Pernizie – 565 – Q UADRUPEDE (spec.),
classe di ani mali a quattro piedi, i quali servono di carattere per
distinguergli da quelli che ne hanno due, come l'uomo e gli uccelli, dagli
altri che ne hanno più di quattro, come gl'insetti, e da quelli infine che non
ne hanno alcuno, come la maggior parte del rettili, e i pesci. La vastità del
regno animale ha ren duto necessario il metodo, per lo quale le spezie si
raccolgono sotto un genere, e più generi sotto una classe, retta da un
carattere a tutti comune. Senza que sto metodo, sarebbe stato, non diciam
difficile, ma impossibile all'uomo il cono scere tutti gl'individui, il
distinguergli, e il ritenerne i nomi. È bello il concetto di Leibnitz, che la
conoscenza di tutte le cose individuali è una sorta d'infinito, di cui la Mente
divina soltanto è capace. A cominciare da Aristotele, fondatore della storia
naturale, i più celebri natu ralisti sono andati perfezionando e modifi cando
la classificazione degli animali, a misura che si è estesa la conoscenza del le
loro spezie, e si sono, per mezzo del la fisiologia e della notomia comparata,
meglio conosciuti i caratteri comuni delle spezie principali, e i propri delle
subal terne. Estranea al nostro proposito sarebbe la storia de diversi sistemi
di ordinamento, che sonsi l'uno all'altro succeduti. Impor tante per noi è il
conoscere l'ultimo stato di questa parte delle scienze naturali, per avere un
quadro approssimativo, nel quale possa la mente abbracciare la prodigiosa
quantità e varietà delle opere della natura, V. Zoologia. QUALITÀ (spec. ontol.
e prat.), quel che consideriamo come proprio d'un sub bietto, e che lo fa
distinguere da un altro. V. Subbietto. Ovvero, determinazione intrinseca del
l'Essere, la quale è compresa per se stes sa, senza bisogno di comparazione.
Questa seconda definizione ci viene da gli scolastici, ed esprime lo stesso
concetto della prima, comechè costoro nelle distin zioni che facevano tra le
varie sorte di qualità, uscissero dal significato che le avevano assegnato come
proprio. Impe rochè distinguevano la qualità essenziale dalla extra-essenziale,
che corrisponde all'accidentale, e dividevano l'essenziale in corporea,
spirituale, manifesta, oe culta, attiva, passiva, reale, intenzio nale, primitiva,
derivativa, e questa in necessaria o contingente. V. queste voci. Quanto poi
alla seconda parte della loro definizione, che dà la qualità come rico
noscibile senza bisogno di comparazione, intesero essi riferirsi alla quantità,
che presuppone la comparazione. Così ridus sero a due le possibili
determinazioni in trinseche di ogni cosa, alla qualità che può essere per se
stessa riconosciuta, e alla quantità, che ha bisogno d'un ter mine di paragone,
o sia d'una misura, per essere determinata. V. Quantità. I Greci chiamarono
rotorms la qualità, o sia l'essenza, o il costitutivo de'corpi, che nasceva da
due cose unite insieme, cioè la forma, che era il principio attivo per lo quale
la materia era uscita dal pri miero stato, e la materia stessa che di per se
era passiva ed inerte: distinsero sì - - - - 566 - bene le qualità primitive
dalle derivate, caviamo la nozione della essenza: cotesta comprendendo nelle
primitive gli elemen nozione può risultare da una o più qua ti, ne'quali
risedeva la forza generatrice; lità, per le quali un subbietto si distingue e
nelle derivate, tutte le altre forme sen sibili della natura. V.
Elemento." Aristotele chiamò predicamentale la qualità, qua ovazes quidem
dicuntur, o sia altro non disse, se non che qualità è un astratto di quale. Che
se volessimo ritenerla come definizione, la qualità ci rimanderebbe al quale,
ed il quale alla qualità. " I Latini diedero al vocabolo qualitas ( da
Cicerone per la prima volta adope rato) il medesimo significato de Greci. Ci
cerone nel primo degli Accademici facendo la sposizione della dottrina
peripatetica, narra l'origine di tal vocabolo: de natura ita dicebant, ut eam
dividerent in res duas: ut altera esset efficiens, altera au tem, quasi huie se
praebens, ea, quae efficeretur aliquid. In eo quod efficeret, vim esse
censebant: in eo autem quod efficeretur, materiam quamdam: in utro gue tamen
utrumque. Megue enim ma teriam ipsam cohaerere potuisse, si nul la vi
contineretur . . . . . Sed quod ea utroque, id jam corpus et quasi ova mirare i
quamdam nominabant. Dabitis enim proſeeto ut in rebus inusitatis, quod Graeci
psifaciunt, a quibus haee jam diu traetantur, utamur verbis interdum inauditis.
E alquanto più innanzi, qua litates igiur appellavi, quas rotormrzs Graeci
voeant: quod ipsum apud Grae cos non est vulgi verbum, sed philoso phorum (cap.
VI e VII.). Lasciamo ora tutto il categorico depa ripatetici e degli
scolastici, e ritorniamo alla idea più semplice della prima defi nizione. La
qualità non è l'essenza, ma è una proprietà del subbietto, da cui ri
dall'altro: il pensiero e la volontà son le qualità che formano l'essenza
dell'Essere intelligente; siccome l'estensione, la soli dità, la mobilità sono
le qualità che co stituiscono l'essenza della materia. E sic come non
conosciamo tutta l'essenza delle cose; nè sappiamo come lo spirito pensi e
voglia, o perchè la materia sia solida ed estesa, così consideriamo lo spirito,
è la materia come due subbietti diversi, perchè diverse sono le proprietà o
qualità a ciascun di essi inerenti. Ma non tutte le qualità sono essenziali o
intrinseche, comechè servano a distinguere un sub bietto dall'altro: di qua i
diversi nomi di attributo, di proprietà, di accidente, o di modo, i quali ne
additano la diffe renza. Da ciò ancora è nato che il lin guaggio scientifico
abbia dato al vocabolo qualità un doppio significato; uno pro prio, che esprime
il costitutivo e l'intrin seco; l'altro generico e relativo, il quale abbraccia
tutto quel che appartiene al sub bietto, essenziale, estrinseco, o accidentale
che sia. V. Accidente, Attributo, Modo, Proprietà. - - - - e Di una particolar
distinzione han biso gno le qualità della materia, delle quali talune sono da
noi giudicate inseparabili dalla materia stessa; mentrechè altre non solamente
non sono comuni a tutti i cor pi, ma ci lasciano ignorare come esse operino
sopra i sensi nostri. I filosofi le han distinte co'nomi di qualità primarie, o
secondarie. Noi vediamo e sentiamo essere comuni a tutti i corpi l'estensione,
la solidità, la mobilità, e le risguardiamo come proprietà costitutive
dell'essere loro, perchè son esse che le rendono discerni bili a sensi del
tatto e della vista, e la sciano in noi la convizione della loro in:
separabilità da tutto quel che percepiamo come materiale. Sono state dunque ben
designate col nome di prime o principali, perchè senza di esse non potremmo
avere l'idea del corpi. Per contrario v'ha di altre sensazioni, come quelle
della luce, deco: lori, del suono, degli odori, de sapori, del calore, del
freddo, che pochi corpi (per rispetto a molti de quali è composto l'universo)
tramandano in noi, senza farci discernere da qual causa provengano, e se sieno
ne corpi che le tramandano, o nel mezzo per lo quale passano. Son queste le
qualità dette secondarie che han som: ministrato tanti argomenti di dispute a
fir losofi, ed han servito di arma agl'idealisti ed agli scettici, per negare
l'esistenza della materia, e per cangiare le sensazioni e il mondo stesso in
una scena d'illusioni. Certamente v'ha una differenza tra quel le e queste sensazioni,
ma uopo è vedere a qual conseguenza meni una tal differen za. I sensi ci danno
una idea chiara e distinta delle primarie, ed una oscura e confusa delle
secondarie. Chiaramente co nosciamo che ogni corpo occupa un luo go nello
spazio; che la sua massa è do tata d'una forza la quale impedisce ad un altro
corpo di scacciarlo da quel sito, se non fosse per la impressione del moto, cui
entrambi per propria condizione deb bon obbedire. I sensi dunque, ci danno una
idea diretta e compiuta della esten sione, della solidità e della mobilità di
qualunque corpo. Per contrario, i sensi ci avvertono dell'odore d'un fiore che
fiu ſtiamo, o d'un'atmosfera odorosa che tra . o corpi lontani dalla nostra
vista; il fuoco spande luce e calore; l'iride o il prisma ci fa distinguere
taluni colori pri mitivi, e la natura o l'arte ce ne fanno vedere mille altri
composti. D'onde pro vengono tali sensazioni, quale causa le produce, e dove
cotesta causa risiede? Noi l'ignoriamo, e conosciamo soltanto l'effetto d'una
causa ignota; o sia abbiamo del l'odore, del calore, della luce e decolori una
idea o conoscenza indiretta o relativa. Lo stesso va detto del sapore, del
freddo ſe del suono. La differenza dunque tra le qualità primarie e le
secondarie consiste in questo, che delle une abbiamo una idea diretta, delle
altre una indiretta o relativa , - - - - - - - Penetrando più addentro nella
ricerca della causa di tali sensazioni, tre ipotesi potevansi fare, o che la
causa fosse nei corpi odoriferi e luminosi, o che fosse nel mezzo per lo quale
passa l'odore, la luce, il colore; o che fosse negli uni e nell'al tro insieme,
cioè ne'corpi come una loro intrinseca disposizione, e nell'atmosfera, come
mezzo di comunicazione co nostri sensi. Ma quelli tra filosofi, che abbatter
volevano la certezza del sensi, e gli altri che volevano di tutto dubitare,
preferi rono una quarta ipotesi, la peggiore di tutte, anzi assurda perchè
contraria al co mune senso della umanità, e al fatto del la natura. Dissero
costoro, che la causa di tali qualità non è ne corpi che le tra mandano, e
molto meno nell'atmosfera o in altri corpi che ci circondano, ma ri siede in
noi stessi, e altro non è se non una modificazione dello stesso Essere sen
tente. Così disse Cartesio, e lo stesso ri petè Malebranche, il quale dichiarò
falsa qualunque rappresentazione del sensi. Lo cke distinse nel corpi tre sorte
di qualità, o sia suddivise le secondarie in due, dopo avere ben determinato le
primarie come reali ed inerenti ne'corpi, Considerò egli le secondarie, come
prodotte dalle relazioni, che l'obbietto della sensazione ha cogli altri Esseri
che lo circondano. Coteste relazioni consistono in questo che l'obbietto
produce, o una impressione nei sensi nostri, o un qualche mutamento nel lo
stato del corpi, sopra i quali esercita l'azion sua: nel primo caso, chiamò qua
lità sensibili dell'obbietto le naturali e co stanti disposizioni, per le quali
i nostri organi ricevono quei determinati effetti: nel secondo, chiamò potenza
la virtù di mutare lo stato de'corpi, come la virtù che il sole ha di liquefare
la cera, quella del fuoco, di fondere i metalli, quella della luce, di alterare
lo stato di taluni fluidi. Non pensò certamente che le qua lità da lui dette
sensibili fossero delle pure modificazioni dell'anima che le percepisce; ma
partendo dal falso presupposito che noi percepiamo gli obbietti esterni per
mezzo d'immagini simili agli obbietti stessi; dis se che le immagini prodotte
dalle qua lità primarie avevano una perfetta rasso miglianza col loro
archetipi; laddove al cuna non ve n'era tra le secondarie e le immagini loro,
nè alcuna poteva esserve ne, perchè la qualità del caldo e della luce non è nel
fuoco, come quella del freddo non è nella neve, o quella desa pori non è ne
cibi e nelle vivande che li producono (Essai lib. II. Cap. VIII. ). Plausibile
dunque fu il concetto di Locke, trannechè per la falsa supposizione delle
immagini, comune a tutto il sistema del la percezione. Che il fuoco non
sentisse il calore, che la neve non sentisse il fred do, e che i fiori non
sentissero l'odore, niuno avevalo mai detto, o pensato. Il volgo stesso che
tutto riferisce alle cause immediate, se fosse chiamato ad un'ana lisi delle
proprie sensazioni, non oserebbe dirlo; e se venisse obligato di spiegare come
quegli effetti vengono in noi pro dotti, si fermerebbe a dire che l'ignora. Ciò
non ostante lo stuolo degli scettici, de quali abbondò il secolo decimottavo,
si compiacque dare come una grande e muo va scoverta della filosofia, che la
luce, i colori, e tutte le altre simili sensazioni son pure idee che forma lo
spirito, e non qualità esistenti della materia ; e di tale grande e nuova
scoverta diedero l'onore, o il torto, a Locke che aveva manifesta mente detto
il contrario. L'errore di co storo fu volontario, perchè nacque dal l'ambiguità
de termini delle loro defini zioni. A rimuovere una tale ambiguità, è
necessario rettificare la nozione di quel che noi denominiamo qualità della
materia. Questo è quel che fece Leibnizio, di cui seguiamo i pensieri. Per
qualità di una cosa materiale in tendiamo la potenza che essa ha di pro durre
la percezione di un'idea, o d'un sentimento. Quando cotesta potenza è in
telligibile, e può essere distintamente spie gata, vien chiamata qualità
primaria; ma quando è solamente sensibile, e non produce in noi, che una
sensazione o un'idea confusa, è denominata seconda ria. Coteste idee, sebben
confuse, non sono arbitrarie, ma nascono da una ne cessaria connessione di
relazioni, o sia da una naturale predisposizione degli obbietti sensibili e
degli organi sententi. Una tale connessione nelle secondarie, non è mi nore di
quella che sentiamo nelle prima rie, quantunque ci sia ignoto il come quelle
sensazioni operino in noi. La pruo va della connessione sta nella esatta cor
rispondenza dell'effetto colla sua causa, e nella invariabile costanza del
fenomeni simili. (Nouveaux essais lib. II. cap. VIII.). – 560 - - QUANTITÀ
(spec.ontoli erit.prat. e disc.), parte della materia, considerata, come capace
d'aumento, di diminuzione, e di misura. -- - º º, º Tal è il significato che le
danno i mar tematici, nel linguaggio del quali è sinor nimo di grandezza. V.
questa voce. Gli scolastici ne davano varie astratte ed oscure definizioni, le
quali non contener vano altro concetto, se non che la quan tità è un termine di
relazione che espri me misura. Dicevano infatti essere una intrinseca
determinazione, non ricono scibile se non per la comparazione, nel che la
contrapponevano alla qualità; ov vero, la differenza interna delle cose simili,
o anche, quello in che le cose simili possono differire, senza altera zione
della loro somiglianza. V. Qualità. Il vero concetto della quantità, è di una
idea astratta, e non di una sostanza capace di diverse determinazioni. Allorchè
ne esaminiamo le proprietà, ce la rappre sentiamo come subbietto, e
risguardiamo come sue modificazioni gli accrescimenti e le diminuzioni, di cui
è capace ; ma in realtà essa presuppone un subbietto , di cui è un semplice
modo. L'astrazione non pertanto è necessaria, per conoscere le proprietà
de'corpi insieme colle loro relazioni, dalle quali nasce tutto l'ordine delle
cose materiali. i Tra le qualità della materia, e per con seguente della
quantità, è la divisibilità; dal che nasce una doppia maniera di con siderare
la quantità , cioè come divisibi le, o come già divisa in parti separate e
distinte. Considerata come divisibile, ma non divisa, la quantità prende il
nome di continua, nome di genere che abbraccia due diverse specie, la
permanente e la successiva, di queste due spezie la pri ma rappresenta lo
spazio, la seconda il tempo. V. queste voci. - Risguardata poi la quantità come
divi sa, sorge l'idea del numero, o sia del la unione di parti eguali e simili,
dette unità, le quali divengono altrettanti di visori aliquoti del tutto, e di
ogni suo accrescimento o diminuzione. La geome tria è la scienza della quantità
continua permanente, o sia delle proprietà della estensione: l'aritmetica,
della discreta º il numero è il misuratore dell'una e del l'altra insieme. V.
Aritmetica, Geome» tria, Numero, Sebbene il vocabolo quantità includa l'idea
del finito, ciò non ostante le quantità dette infinite ed infinitesime, formano
il suggetto della parte più sublime dell'arit metica e dell'algebra, non perchè
l'infi nito sia capace di aumento o di diminu zione, ma perchè queste scienze
danno il nome d'infinito a tutto ciò che oltrepassa i limiti d'una grandezza
assegnabile così in aumento come in diminuzione, Ora co teste quantità
indeterminabili non essendo eguali, hanno tra loro diverse proporzio ni, delle
quali l'aritmetica degl'infiniti ed il calcolo infinitesimale delerminano le
ragioni. V. Infinitesimale, Il vocabolo quantità, fuori del senso astratto, che
gli danno le matematiche pure e la metafisica, esprime sempre l'idea del più e
del meno. Cotesta idea nelle scienze fisiche talvolta dimota le differenza
delle diverse parti dello spazio e dell'esten sione, e talvolta ancora il
maggiore o mi nor grado delle potenze e delle proprietà naturali de corpi, come
della gravità, del peso, del moto, della luce, del ca lore, e di altre. Fanno
ancora i fisici una particolare divisione della quantità per ri spetto alla
misura, e la distinguono in 47 – 370 – propria ed impropria. Cotesta
distinzione proposta da Aristotele è stata ritenuta an cora da moderni e
spezialmente da New ton. Costoro chiaman propria quella, che può essere
misurata da un'altra quantità della stessa spezie, vale a dire capace di essere
addoppiata, triplicata, e così via discorrendo. Tal'è l'estensione, il numer
mo, la ragione. Impropria poi chiamano quell'altra, che non può misurare se
stes sa, ma de essere misurata da un'altra, quantità, con essa comparata. Tal'è
la velocità, che non può misurare se stessa, ma è misurata dallo spazio e dal
tempo. ll numero e la ragione, sono le quantità proprie, che più delle altre servono
di mi sura alle improprie. V. Misura, Ragione, Velocità. - in . - Lo stesso
vocabolo applicato alle potenze e alle qualità dell'intelletto, esprime diſ
ferenza di acume, di perspicacia, d'inten sità, o di numero di conoscenze;
siccome nella filosofia pratica vale grado di virtù, di perfezione, di merito;
e, nel senso sfa vorevole, anche di demerito, In Logica, lo stesso vocabolo
differen zia le proposizioni particolari dalle univers sali. V. Proposizione.
Nella gramatica, dinota la misura del tempo nella pronunzia delle sillabe, che
compongono le parole; e suol essere in dicata co segni che esprimono il lungo
ed il breve. - - - ; - e QUERELA (prat.), lamentanza per male ricevuto.
Determina la cagione della lamentanza, e della doglienza. V, queste voci. - - -
- - in - QUERIMONIA (prat.), frequentativo di querela, che vale minuto e
continuo la mentare, - : i - - - - - - - - . QUESTIONE e QUIsTIONE (diec.),
propo sizione interrogativa, o dubbia, la quale richiede ragionata soluzione. -
a Vale ancora tema di discorso, quando questo è enunciato in forma di dubbie do
mande. i , - e º a - º il QUIDrrà e QUIDDrrà (ontol.), essenza della cosa, e
sua definizione reale. V. De finizione, Essenza. - È termine introdotto dalle
scuole, e indi adoperato ancora da buoni scrittori: i - - i Pai come quei che
la cosa per nome e - Apprenda ben, ma la sua quiditate Veder non puote,
s'altri, non la prome. º : e v DANTE. . - . . - Edil Varchi : « Prima ch'io
entri nella seconda parte, e vi racconti le molte e varie opinioni degli
antichi intorno alla quidità o essenza, ovvero natura e sostanza dell'anima mia
ec. » Gli scolastici distinguevano la realità dalla quidità, dacchè col primo
vocabolo esprimevano l'esistenza degli enti, e col se condo l'essenza delle
cose, considerate per quel che sono in se medesime. V. Realità. º - QUIETE
(spec. crit. ontol e prat.), con tinua permanenza d'un corpo nella mede sima
parte dello spazio. V. questa voce. I fisici, distinguendo lo spazio relativo
dall'assoluto, distinsero ancora la quiete in relativa ed assoluta. Relativa
sarebbe quella d'un corpo, che sta fermo in un vascello, che naviga; assoluta
la perma nenza del vascello sulla terra. Da ciò se gue, che la quiete assoluta
non si dà in natura, se la Terra ancora si muove. Ciò non ostante, prendendo il
sensibile e l'ap parente per vero, e risguardando la Terra come immobile, il
corpo che si trova in una quiete relativa nel vascello, si muo verà insieme con
esso, e colla stessa sua velocità. E nella conversa ipotesi, che la terra si
muova, il corpo che è nel vascello avrà un moto assoluto prodotto, in parte dal
moto della Terra nello spazio assoluto, ed in parte dal moto relativo del
vascello. Che se il corpo, posto nel vascello, fosse mosso ancor esso, in tal
caso il suo moto reale, sarà composto, in parte dal moto della Terra nello
spazio universale o asso luto, in parte dal moto relativo del va scello, ed in
parte dal moto suo proprio. Laonde, se la parte della terra dove tro vasi il
vascello, si muovesse verso oriente con una velocità di 1oo 1o gradi; se il
vascello fosse da venti trasportato verso occidente con una velocità di
rogradi; e se un uomo camminasse nel vascello colla velocità d'un grado solo;
quest'uomo sa rebbe verso oriente mosso nello spazio ase soluto con una
velocità di 1ooo1 gradi, e per rispetto alla terra, con nove gradi di velocità
verso occidente.V. Moto, Veloeità. È un assioma, stabilito da Newton, anzi è
una legge della natura, che ogni corpo, persevera nello stato, in cui si trova,
di quiete o di moto uniforme, in sino a che non sia da una causa esterna
costretto di mutarlo. In ciò appunto con siste l'inerzia, di cui è dotata la
mate ria, e che la rende indifferente al moto e alla quiete. V. Inerzia. Il
Siccome la Meccanica esamina i feno meni del moto locale, enon quelli del moto
generale, così intende sempre in un senso assoluto il vocaboli moto e quiete, e
riguarda il moto, come l'effetto d'una forza impressa me corpi che si muovono,
e la quiete, come la privazione d'una tale forza. . o un 9 , iº a cinº i I
metafisici han disputato, se la quiete fosse un che di negativo o di positivo,
e se dovesse piuttosto esser definita, ne gazione o privazione del moto, o
perma nenza del corpo nel luogo stesso dello spa zio. Tranne i Cartesiani i
quali afferma rono, essere la quiete un modo positivo dei corpi, l'opinion
dominante del secolo an tipassato fu che dovesse essere considerato come una
privazione del moto. La ragione, per la quale i Cartesiani fecero della quiete
un modo positivo de'corpi, è, che la con siderarono come la causa della
coesione delle parti della materia, e per conse guente del loro pieno, nemico
dello spa zio. Gli autori poi della contraria senten za, tra quali Leibnizio,
la definirono per una semplice privazione; perchè conside rarono la potenza del
moto come inerente alla materia, e come lo stato normale della natura. Infatti
dicevano, che essendo proprio del moto il trasferire i corpi da una parte dello
spazio all'altra, e il mu tare lo stato de corpi contigui, seguirne dee che la
quiete, come suo contrapposto, niun eangiamento operi a rispetto così dello
spazio, come della contiguità de'cor pi circostanti. Ed aggiugnevano, che il
più facile concetto della quiete consiste appunto nel considerarla come la
cessa zione della potenza produttrice del moto. In conferma di che diceva
Leibnizio, che i corpi dal solo scontro non potrebbero ricevere il moto, se non
ne avessero in loro stessi la potenza ; e che basta ne gare il moto per
concepire la quiete; ma non basta negare la quiete per concepire il moto; non
essendo la sola negazione della quiete sufficiente a determinare il grado del
movimento. E da questa stessa considerazione il lodato metafisico desu meva una
seconda differenza, cioè che ºr - 572 - mentre diversi sono i gradi del molo,
eguali son quelli del riposo. (Nouveaux Essais lib. II. cap. VIII). - Con buona
pace di tanti e si acuti ra gionatori, a noi par manifesto, che co testa
disputa meriti di essere collocata tra le vanità dell'antica metafisica; e che
il vocabolo privazione disconvenga tanto al concetto, quanto alla definizione
della quiete. Al concetto, perchè se noi consi deriamo il moto come un modo e
non come una qualità essenziale decorpi, come modo pure dobbiam considerare la
quiete; formando l'uno e l'altra le due contrarie condizioni, le quali modificano
lo stato di tutti i corpi della natura. Ed a questa considerazione si arroge
l'altra, che se la distinzione tra modi positivi e i negativi, introdotta dagli
scolastici, menar potesse a qualche importante o utile conseguenza, potrebbesi
trovare più di positivo, e di essenziale nella quiete, e più di negativo nel
moto. Imperochè, esclusi i moti dei corpi celesti, ogni altra spezie di moto,
di cui hassi idea sulla Terra è, per così dire, uno stato di eccezione della
materia. Gli attriti e le resistenze de'mezzi distrug gono subito le forze
impresse, e ripon gono i corpi nel primo loro stato di quie te; per modo che
l'inerzia de corpi, per la parte che risguarda la conservazione dello stato di
moto, non cade mai sotto i nostri sensi. Disconviene del pari alla definizione,
perchè, se per far intendere che è la quie te, si dicesse, è la privazione del
moto, converrebbe prima conoscere che cosa è moto; siccome per contrario, se si
deſi nisse il moto per la privazione della quie te, bisognerebbe in altri termini
spiegare quest'altro correlativo. L'una e l'altra de finizione dunque
caderebbero in quel vizio logico sì frequente nelle vecchie scuole, per lo
quale o dicevasi l'idem per diver sa, o spiegavasi una idea ignota, per
un'altra egualmente ignota. E ciò senza farci partigiani de modi negativi o
posi tivi, dacchè forse s'intenderebbe meglio il moto, spiegato per la
cessazione della quiete, che la quiete per la privazione del moto. E quì vuolsi
anche dire, che delle ragioni addotte da Leibnizio, una è de sunta dalle sue
entelechie, o sia dalla ipotesi della potenza attiva, risedente nella materia;
e l'altra è più acuta che vera, quella cioè che non tutti i gradi del moto sono
eguali; dapoichè la quantità del moto non entra in comparazione coll'opposto stato
della quiete, ma è tutta relativa ai diversi gradi della forza, da cui i corpi
sono obligati di muoversi. V. Moto, Pri vazione. se Quantunque l'idea della
quiete, si con cepisca più chiaramente pe sensi, che per qualunque definizione,
ciò non ostante non potrebbe essere qualificata come idea sem plice, perchè è
un'idea di relazione, la quale non si acquista, se non conosciuta quella del
moto e della potenza motrice; sì che va di essa detto quello stesso che abbiamo
osservato del moto, cioè che è una idea complessa. V. Idea. i Ma non ostante
l'idea chiara che ci formiamo della quiete, si può, rigorosa mente parlando,
dire che non esiste in natura. Infatti, la Terra essendo in moto, tutti i corpi
che stanno in istato di quie te, cambiano effettivamente di luogo nel lo spazio
assoluto, e però hanno un moto relativo, ed una quiete parimenti relati va. Di
vantaggio: quando anche la Terra stesse ferma, la materia essendo pesante di
sua natura, gravita sempre verso il centro; sì che la quiete d'un corpo, il –
575 – quale poggia sopra un piano è relativa sotto un altro aspetto, cioè che
se al corpo si togliesse il sostegno, lo stesso, senza imprimergli altra forza
porrebbesi in moto per discendere; d'onde segue che un qua lunque corpo grave
ha sempre un moto virtuale, sebbene non attuale, ed esercita uno sforzo
continuo per vincere la resi stenza che si oppone al suo movimento. Ciò che
dicesi della Terra vale per tutti gli altri corpi celesti, e per lo stesso
Sole, che gira intorno al suo asse; e per le Stelle che hanno un simile moto.
La quiete assoluta dunque non esiste in natura, e il moto è la vita
dell'universo. V. Sole, Terra, Universo. - L'idea della potenza motrice,
applicata alla volontà, ha dato luogo a similitudini, per le quali la filosofia
pratica distingue la quiete naturale o volontaria dalla vio lenta e naturale o
spontanea è quella che ogni agente morale può scegliere in prefe renza del
movimento o dell'azione: violenta è quell'altra che taluno soſfre per la im
pressione di una forza cui non può resiste re. I peripatetici facevano di tal
distinzione una più ampia applicazione, dacchè ricono scevano anche ne bruti e
nelle piante una quiete naturale diversa dalla violenta; il che sebbene possa
dirsi vero in natura, pure non mena ad alcuna conseguenza, perchè niuno sinora
si è avvisato di valu tare il grado di libertà delle azioni degli Esseri
irrazionali, o de movimenti deve getabili. In un senso traslato la filosofia
pratica chiama quiete la pace di cui gode l'animo scevro di cure e di rimorsi,
come contrapposto del torbido e violento moto delle passioni. V. questa voce.
Suole il comune uso di parlare scam biare i significati de due vocaboli quiete
e riposo, comechè nella nostra lingua, differiscano alquanto tra loro;
esprimendo il riposo non l'idea assoluta della perma menza in un luogo, ma il
solo cessare dal moto, dall'opera, e dalla fatica.V. Riposo. - – 575 - CLASSI
DE VOCABOLI COMPRESI soTTO LA LETTERA Q. - FILOSOFIA CRITICA, VOCI ONTOLOGICHE.
Quantità Quiete Qualità Quiddità Quantità Quiete Quidità e FILOSOFIA
SPECULATIVA, Quadrupede Quantità Qualità Quiete - 576 - FILOSOFIA DISCORSIVA,
Quantità Quistione Questione e Qualità Quantità Querela r . FlLOSOFIA PRATICA.
Querimonia Quiete - – 577 – I lº Rasº(spee. e teol.), stato dell'anima,
allorchè richiama l'attenzione alla meditazione di se medesima, e degli interni
obbietti del pensiero. V. Attenzio ne, Meditazione, Pensiero. Il potere che ha
l'anima di ritrarre il pensiero dagli obbietti esterni, e di con centrare la
riflessione nelle sue proprie facoltà, è una delle più manifeste pruove della
sua immaterialità. V. questa voce. RADICALE (disc.), il termine o la voce, da
cui si formano i vocaboli derivati, e i composti. Per termini radicali
intendiamo ancora quelli, che esprimono un'idea a tutti nota, e però servono a
definire gli altri voca boli, senza bisogno d'esser definiti. Così, per un
dizionario tecnico o scientifico, deb bonsi avere come radicali tutti i
vocaboli comuni, i quali si adoperano per ispiegare quelli della scienza o
dell'arte, che deb bon essere definiti. V. Definizione, Dizio nario, Teonico,
RADICE (spec. crit. e disc.), la parte della pianta, che immediatamente e per
lo più assorbisce i succhi della terra, e gli trasmette per nutrimento alle
altre parti sue, V. Pianta. . La radice è composta di fibre legnose, coperte di
corteccia più o meno densa, e nasce da un picciol punto nel seme, detto
radicetta (radicula), che è la base del fu sto, contenuto nell'embrione di ogni
vege tabile erbaceo ed arboreo. V. questa voce. Radice, in matematica, è la
quantità moltiplicata per se stessa, o la quantità, che è considerata come la
base o il fon damento d'una potenza più alta. Radici, in grammatica, diconsi le
voci primitive d'una lingua, dalle quali sono state composte, o derivate le
altre. RAGIONAMENTo (spec. e disc.), opera zione dell'intelletto, per la quale
passiamo da un giudizio ad un altro, che da quello si deduce. V. Giudizio. Il
ragionamento non è altro che un giu dizio complesso, quando sien più le pro
posizioni, delle quali cercasi trovare la convenienza o la connessione; dal che
se gue che il giudizio si confonde col ragio namento, quando la conclusione è
imme diata, o sia quando è manifesta la con nessione tra la proposizione
dedotta e quel la che la precede. V. Conclusione. Ragionamento dicesi tanto
l'interno di scorso, quanto quello manifestato per la pa rola, la quale
nonpertanto interviene sem pre nella operazione dell'animo, come segno e come
strumento del pensiero. Così, chia masi ragionamento morale quello che dalle
evidenti nozioni del giusto e dell'onesto noi deduciamo intorno alla qualità
delle pro prie azioni, per dirle a noi stessi buone, cat tive, o
indifferenti.V. Linguaggio, Segno. L'arte di legare insieme le proposizioni che
formano i diversi gradi del ragiona mento, o sia il trovare la connessione
delle proposizioni che ne formano gli elementi, è propria della logica. V.
questa voce. Il ragionamento, come il giudizio, è sempre vero o falso; ond'è
che per ri spetto alla verità delle conclusioni, i ra gionamenti si distinguono
in dimostrativi 48 – 578 – e probabili. È dimostrativo il ragionamen- seri
inferiori, e l'avvicina alle intelligenze to, quando ciascuna delle
proposizioni de dotte sia una conclusione necessaria della precedente:
probabile quell'altro, nelle cui proposizioni la mente non ravvisi una ne
cessaria connessione. Da ciò segue, che i giudizi dimostrativi sien propri
delle ve rità necessarie, e le contingenti non sieno capaci, se non di
ragionamenti probabili. V. Contingente, Mecessario. RAGIONARE (spee. e disc. ),
applicare il giudizio al discernimento del vero, sia discorrendo, sia pensando.
E dapoichè si presume, che ogni di scorso sia coerente ad un tal fine, però il
ragionare, nell'uso comune del parla re, scambiasi sovente col dire. Il
ragionare prendesi talvolta ancora in mala parte, e significa sottilizzare e
fanta sticare, nel quale senso esprime un abuso del ragionamento. Laonde il
falso argo mentare del filosofi è stato onorato ancora del nome di ragionare, e
Dante disse: a , º Color che ragionando andaro al fondo S'accorser d'esta
innata libertate: - Però moralità lasciaro al mondo. e (Purg. C. XVIII.). - Ma
cotesto significato nasce dalla bizzar ria dell'uso, e de essere sbandito dal
lin guaggio scientifico, perchè contiene una espressione contraria alla
etimologia, e al naturale senso della parola. RAGIONE (spec. erit. e disc. ),
facoltà cognoscitiva dell'uomo. V. Facoltà. È il complesso delle doti
dell'anima, per le quali ella giudica, discorre, inventa e discerne il vero dal
falso : è l'essenza dell'uomo, perchè lo distingue dagli Es superiori. V.
Intelligenza. Riservando a questo vocabolo per suo significato proprio l'umana
intelligenza, noi chiameremo senso interno, la facoltà sensitiva, di cui è
dotata l'anima del bru ti; e di questa facoltà, che è pur comune all'uomo,
rileveremo le differenze nelle varie spezie degli animali. V. Sensitivo,
ASenso. Il linguaggio filosofico non pertanto ha dato alla voce ragione diversi
significati generali, e particolari, il che è stato sor gente di ambiguità e di
errori. Ora è stata adoperata nel senso testè additato che è il proprio; ora in
un senso affatto ideale, qual è la cognizione delle verità primiti ve; ora per
la naturale luce del vero, di cui l'anima è dotata; ora per la ca tena stessa
delle verità universali, che sono il fondamento dell'umana cognizione. Tal è il
significato, che le diede Leibnitz, il quale ridusse a due le funzioni tutte
della ragione, il giudizio cioè e l'invenzione. V. queste voci. Locke distinse
nella ragione quattro gra di di cognizione: 1.º lo scoprire le pruo ve, o le
idee intermedie d'una verità di mostrabile, 2.º il disporre queste in un
ordine, che ne dimostri la connessione, 3.º il discernere una tal connessione
in ogni parte della deduzione, 4.º il rica varne la conclusione. In questo
concetto è manifesto, ch'egli non raffigurò la ra gione se non come la facoltà
ragionatrice. Ma vuolsi piuttosto considerarla come la virtù e la potenza
dell'anima, la quale ha in se stessa la luce del vero, che diffonde sopra tutte
le facoltà sue , e che muove e rischiara l'intelletto. V. queste voci. Platone
considerò la ragione come la facoltà più sublime dell'anima, da cui - - - 579 -
emanavano le idee, o sieno i tipi univer sali del vero e del bello. Un moderno
ri formatore della filosofia ha tolto a presto colesto concetto della filosofia
platonica, e ha vestito la sua ragione di forme, al modo stesso che ha
praticato per la sen sibilità e per lo intelletto.V. Forma, Idea. La ragione,
presa nel suo proprio si gnificato, è stata distinta in teoretica o pura, ed in
pratica. La pura raccoglie dalla sua propria luce le verità intuitive e da
queste deduce i ragionamenti a prio ri: la pratica unisce insieme le conoscenze
della sperienza, e se ne vale per fonda menta de ragionamenti a
posteriori.V.que Sta VOCe. - - Ma la funzione più importante della ragion pura,
è il giudizio critico ch'ella esercita sopra le sue proprie facoltà, non
esclusi i sensi esterni. Cotesta funzione na sce dalla prerogativa data
all'anima umana di vedere se stessa, che vuol dire di es sere intelligibile a
se medesima; e for ma una spezie di poter direttivo, per lo quale la ragione
discerne, se i sensi e le stesse sue interne facoltà sieno nello stato di loro
naturale integrità, misura la sua propria capacità, esamina le origini delle
proprie conoscenze, determina gli obbietti e i limiti delle scienze, presiede
in som ma a tutto il sistema intellettuale. Della ragion pura è figlia quella
parte sublime della umana sapienza, che noi chiamiamo filosofia prima, o
filosofia critica della ragione. V. Animo, Filosofia. Kant fece della ragion
pura un ente ideale che esamina la natura, la legitti mità e i limiti della
umana cognizione, che è il censore di tutte le facoltà dell'ani ma, e la
sorgente delle idee trascendenti, e per conseguente il fondamento della filo
sºfia trascendentale. La critica che cole sta sua ragione esercita è quel che
da lui fu detto criticismo. Cotesta parte del sistema intellettuale di Kant ha
un che di vero, e un che d'ideale. Vero è il principio che l'anima riconoscendo
se stessa, giudica de limiti della propria capacità: ideali son le forme che
assegna alla ragione, e le verità universali, che suppone in lei inerenti, e
delle quali for ma poi il ſondamento de suoi giudizi sin tetici a priori. (V.
il vol. I. di questi saggi a pag. 334 e seg.). In un senso puramente logico si
ado pera ancora cotesto vocabolo per dinotare una verità, che chiaramente
percepiamo, e che determina il nostro giudizio, o sia che serve di motivo
determinante all'in telletto, o alla volontà. V. Motivo. a Ragione sufficiente
è stata detta dai metafisici quella verità che spiega il per chè una cosa
piuttosto sia che non sia. Di tal nozione Leibnitz formò un princi pio
universale, per la dimostrazione di tutti i fatti contingenti. La tolse egli da
Archimede, il quale fu il primo ad appli carla alla meccanica, e sen valse
nella dimostrazione dell'equilibrio della bilancia di braccia eguali, caricata
di pesi eguali. Giusta il concetto leibniziano, siccome le verità necessarie
han per fondamento loro il principio della contraddizione, così i fatti
contingenti, i quali possono essere e non essere, riconoscono la legge da pre
cedenti determinazioni, senza le quali o non sarebbero stati, o sarebbero
altrimenti di quel che sono: le piante, gli animali, l'uomo, han diverse
strutture, le quali nascono dalle diverse funzioni di loro eco nomia animale, o
sia dal diverso fine della natura: le azioni degli uomini riconoscono il
principio loro dalla volontà, siccome questa riconosce il principio suo da mo
ar a - 580 - tivi, che son atti a determinarla. Tutto in somma quel che esiste,
quel che av viene, e quel che è vero nell'ordine delle cose contingenti, ha
secondo Leibnitz la sua ragione sufficiente. Colesto universal principio, che
ha re gnato nelle scuole per tutto il tempo, in cui è stata predominante la
filosofia leibni ziana, fu impugnato nel suo nascere dai seguaci di Locke, e
sopratutto da Clarke; ed è stato di poi acremente contraddetto da Reid e dalla
sua scuola. Nega Reid l'universalità del cennato principio, ed in ultima
analisi lo dichiara inutile, quando vogliasi considerarlo come una regola lo
gica, dacchè non direbbe più del nihil esse sine caussa. Lo accusa Stewart, co
me distruttore del libero arbitrio, perchè induce una necessaria influenza de motivi
nelle determinazioni della volontà; e co me antilogico, per avere dato lo
stesso significato alla voce ragione, quando l'ha applicata all'esistenza degli
Esseri, a fatti contingenti, e alle verità, in ciascuno dei quali sensi esprime
una idea diversa. Le cennate obbiezioni possono dirsi nate dallo spirito di
scuola, o di parte, tra perchè stravolgono il chiaro senso della dottrina di
Leibnizio intorno al libero ar bitrio, e perchè son fondate nell'equivoco che
si fa nascere dal vario senso della voce ragione. Ed in prima vuolsi notare,
che quando Leibnitz adoperò il vocabolo ragione, in tese parlare il linguaggio
allora ricevuto nelle scuole, le quali sempre distinsero la causa dalla
ragione. La differenza dedue cennati vocaboli è chiaramente esposta da Cartesio
in un luogo delle sue meditazioni, dove dice, che d'ogni cosa può investigarsi
la causa, per cui quella esiste: « una tale investigazione, soggiugne, può
farsi an cora di Dio, non perchè abbisogni Egli d'una causa per esistere, ma
perchè la stes sa immensità della sua natura è causa, o sia ragione, la quale
fa sì che non abbia bisogno d'altra causa per esistere ». Da questo luogo
apparisce manifesto, che col nome di ragione intese esprimere il mo tivo, il
quale rende intelligibile il per chè una cosa, un Essere, o un fatto qua lunque
esista in un modo, più che in un altro. A ciò si arroge, che un tal si
gnificato è passato ancora nell'uso del co mune parlare, dapoichè l'adpperiamo
fre quentemente come equivalente di motivo d'un'azione, e ce ne serviamo ancora
nel senso d'una spiegazione delle relazioni, per le quali da un fatto nasce
l'altro, o da una verità si fa passaggio ad un'altra. D'altra parte, il
vocabolo causa ha un significato unico e costante, dapoichè si gnifica
l'azione, o il principio attivo, che ha dato l'essere all'atto, noto o ignoto
che quello sia. Egli è vero, che ne fatti contingenti, i quali dipendono
dall'ordine delle cause naturali, entrambi i vocaboli possono esprimere la
medesima idea; ma è vero altresì, che applicati alle azioni degli agenti
morali, o sia all'uso della volontà, ciascun di essi ha un significato diverso;
e tanto diverso, quanto la ra gion dell'azione esprime un principio an teriore
il quale determina la causa del l'azione, che è la volontà dell'agente mo rale.
Il principio dunque della ragion suf ficiente dice più del nihil esse sine
caussa, perchè abbraccia tanto la causa, quanto la potenza; di tal che nella
sua genera lità comprende ancora i fatti, de quali ignoriamo la causa
efficiente. V. Volontà. Premessa una tal differenza di signifi cati, non è
vero, che il principio della ragion sufficiente distrugga il libero ar – 581 –
bitrio, perchè Leibnitz nell'applicarlo alla volontà, spiegò che i motivi, i
quali ci spingono alla determinazione, dipendono tutti dalla rappresentazione,
o sia dalla opinione del bene; che tra le ragioni, o motivi, ve n'ha sempre
uno, il quale pre vale agli altri, e però dicesi sufficiente a delerminare, che
il prevalere de inten dersi nel senso, che inclina la volontà sen za costrignerla,
anzi lasciandole libera la scelta tra le diverse rappresentazioni del bene, che
da ogni parte se le offrono. Molto men vero è, che Leibnizio avesse confuso tre
diversi significati, a quali non è applicabile la stessa regola, il che sa
rebbe stato un errore logico indegno della sua sublime mente. Pare anzi a noi
che veri non sieno i tre diversi significati, pre supposti da Stewart nel
vocabolo ragione. Noi ne vediam due soli, o che si tratti di esistenza, o di
avvenimenti, o di ve rità. La ragion sufficiente, o si confonde colla causa
efficiente, o è il motivo che determina la causa dell'azione. Nel primo senso
abbraccia tutti i fatti e le verità con tingenti della natura; nel secondo, le
azio mi, o sieno i fatti dipendenti dalla volontà degli agenti morali: il
secondo è più am pio del primo, perchè comprende tanto i fatti esistenti,
quanto i possibili insieme colle loro conseguenze. In somma il prin cipio della
ragion sufficiente è quel della causalità, enunciato in termini atti a com
prendere le cause anche ignote, e le pos sfbili: è una verità metafisica, e
insieme mente una regola logica, utile a spiegare tutte le cose contingenti.
Sin qua della ve rità del principio della ragion sufficiente. Ma Leibnitz l'ha
adoperato come argo mento per dimostrare tutte le sue ipotesi metafisiche,
l'armonia prestabilita, la legge della continuità, e la stessa monadologia, Che
perciò? Un principio logico può es sere, ed è spesso falsamente applicato a
tesi indimostrabili, e ad insolubili quistio ni. In questi casi si rifiuta il
ragionamento, non si accettano le conseguenze, e dirassi, che quel tale
principio logico è malamente applicato. Chi rifiuterebbe il metodo sillo
gistico o l'induttivo, sol perchè si fossero assunte false premesse, o si fosse
scam biata una ipotesi con un fatto? Ora que sto è quel che è avvenuto per la
ragion sufficiente, si è rinegata una regola in odio dell'abuso fattone. s
Ragione da matematici chiamasi una re lazione tra due cose omogenee, che dalla
quantità dell'una determina quella dell'al tra, senza intervento d'una terza.
Può essere di differenza o di quoziente: nel primo caso dicesi aritmetica: nel
secondo, geometri ca. Si usa anche spesso la voce rapporto in luogo di ragione,
quantunque abbia un significato più generico. V. Relazione. Le cose omogenee
che si paragonano, chiamansi termini della ragione, e pren dono tra loro la
denominazione di ante cedente e di conseguente. - Ragione da logici è detta,
ora l'argo mento il quale spiega, perchè la cosa è ad un modo, più che ad un
altro ; ed ora il motivo determinante la persuasione o la convizione. V. queste
voci. RAGIONEvoLE (prat. e disc.), quel che ha in se ragione, o è convenevole.
Dicesi degli uomini, delle cose, depen sieri, e del discorso. RALLEGRANZA
(prat.), allegrezza dimo strata con esterni segni, e spezialmente con sereno e
ridente viso. V. Allegrezza. Vale quanto il congratularsi con se stesso d'un
lieto avvenimento, - 582 – RAMMARICAMENTo e RAMMARICo (prat.), dolor morale,
con esterne manifestazioni, o senza. V. Dolore. RAMMEMoRARE (spee. e dise. ),
il ri passare che fa la mente sopra una cosa che nell'animo ritiene, o il far
menzione col discorso di cose o di persone già note. RAMMENTARE (spec.),
ricordarsi d'una conoscenza che si è avuta, o ricordarla ad altri. Differisce
dal ricordare, perchè si rife risce alla mente, mentre quest'altro vo cabolo
accenna alla memoria sensitiva, che è comune ancora a bruti. E però il
rammentare è proprio dell'uomo, il ricor dare è comune ad ogni animal dotato di
memoria. - RAMPoGNA e RAMPoGNAMENTo (prat.), rinfacciamento del mal fatto.
RANcoRE (prat.), odio coperto, che si nasconde nel cuore, e non si manifesta
con parole. V. Odio. RANCURA (prat.), affanno o doglienza, per cui taluno si
rattrista. Da questo nome nasce il verbo rancu rare, che significa attristarsi
e dolersi, e che il Varchi dice venire dal Provenzale. L'una e l'altra voce non
pertanto son fuori di uso. RAPPoRTo (spec.), quel che si riferisce ad un'altra
idea. Nasce dalla comparazione di qualità co muni o simili, o dalla
associazione delle idee. Il moderno linguaggio filosofico chia ma rapporto quel
che i nostri maggiori, non esclusi gli oltramontani, dissero re lazione.
Cotesto vocabolo essendo più ge nerico e più usitato, si ritiene da noi co me
il termine proprio della scienza. V. Re lazione, Dal paragone di due quantità
omogenee trae origine quel che i matematici chia mano rapporto, o più
propriamente ra gione. V. questa voce. RAPPRESENTARE (spee. e disc. ), spie
gare per figure, per immagini, o per altro segno un obbietto del pensiero.
RAPPRESENTATIvo (spec. e dise.), il se gno, o altro equivalente, atto a
dinotare la cosa o l'idea significata. Cotesto vocabolo è stato di molto uso
nelle scuole, che han professato la dot trina detta delle idee, cioè che non
altri menti si percepiscono da noi gli obbietti esterni, che per mezzo delle
immagini de gli obbietti medesimi. V. Idea, Imma gine, Percezione.
RAssEGNAzIoNE (prat.), conformazione della propria volontà ad un volere su
periore, RAssIMIGLIANZA e RAssoMIGLIANZA (spee. e prat.), accordo di forme
esterne, che rende una cosa simile all'altra. - - Si trasporta dalle forme
sensibili alle qualità dell'intelletto, alla conformità dei pensieri, decostumi
e deportamenti della vita. V. Simile. RAzIocINIo (disc.), ragionamento tes suto
colle regole logiche. V. Logica, Ra gionamento. RAzioNALE (spec.), quel che è
proprio – 585 - della ragione, o che si può concepire, per Si adopera tanto per
le idee delle cose mezzo della ragione, e non per lo mini stero del sensi.
Razionale è un epiteto dato all'anima, per distinguere le sue funzioni
intellettive dalle sensitive. V. Anima. Distinguono i geografi l'orizzonte ra
zionale dal sensibile razionale è quello, di cui il piano passa per lo centro
della terra, e divide il globo in due emisferi eguali: sensibile, quel cerchio
paralello al primo, che passa per l'occhio dell'os Servatore. - Chiamano ancora
i matematici numero intero razionale, quello di cui l'unità forma una parte
aliquota : quantità ra zionale quella che è commensurabile colla sua unità:
quantità irrazionali, o sorde quelle che sono incommensurabili coll'uni tà,
come sarebbe la radice quadrata di 2. Chiamano inoltre ragione, o rapporto,
razionale quello, che può essere rappre sentato da un numero razionale. - e, -
RAzioNALISMo (crit.), dottrina che am mette i concetti della ragione come
l'unica origine dell'umana cognizione. V. Cogni zione. I fautori di cotesta
dottrina dicono che senza le verità generali stabilite dalla ra gione, le idee
sensibili a nulla varrebbero; e che d'altra parte queste servono a quelle per
istabilire l'applicazione del generale al particolare. La stessa denominazione
è stata data al sistema filosofico che attribuisce alla ra gion pura talune
nozioni generali, nelle quali diconsi riposti i tipi della verità e della certezza.
V. Ragione. REALE ( spec. e ontol. ), quel che è esistente, o vero. materiali,
quanto pe'concetti della mente. Nel senso delle prime, viene comunemente
scambiato coll'attuale, e può come quel lo dirsi compimento del possibile: per
ri spetto agli obbietti intellettuali, vale vero.. V. Attuale, Possibile, Vero.
Con questo vocabolo furono nelle scuole designati coloro, i quali ammettevano
l'esistenza delle idee universali, in contrad dizione di quegli altri, i quali
afferma vano, essere le nozioni generali un modo del pensiero rappresentato da
un nome, cui nulla corrisponde in natura. E però gli uni furon detti reali e
gli altri nominali. A correggere gli estremi di coteste due sette venne una
terza dottrina, la quale non ammettendo l'esistenza di quegli enti di ragione
che supponevano i reali, e non riducendo a puri nomi le nozioni generali, che
la mente ricava dalla idee particolari, disse essere reali e veri i con cetti
della mente, e la verità loro trovarsi nelle idee degli obbietti particolari,
dai quali son ricavati. Cotesta media dottrina, nella quale sta la verità , è
stata da mo dermi detta del concettualisti. V. Momina le, Reale. - REALITÀ e
REALTÀ (spec. e ont.), astratto del reale che importa esistenza, attualità, o
verità. Nel linguaggio scolastico, la realità di notava l'esistenza degli enti;
laddove quella delle cose era espressa per lo vocabolo qui dità. V. questa
voce. Realità ontologiche sono state dette le nozioni dell'esistenza o verità
degli enti, proprie della ontologia. V. questa voce. REAzione (spec.), l'azione
scambievole del paziente contro l'agente, esercitata - 584 – per mezzo d'una
forza contraria a quella dallo stesso agente adoperata. V. Azione, Forza. I
peripatetici la definivamo: l'azione che il corpo paziente restituisce all'agente
per effetto d'una qualità contraria a quella che ha prodotto la sua passione, e
ciò nella stessa parte e nello stesso tempo, in cui l'ha sofferta. L'esempio
che se ne adduceva, era dell'acqua, la quale mentre è riscaldata dal fuoco,
raffredda il fuoco che la riscalda. Conoscevasi nelle scuole l'assioma che non
v'ha in natura azione senza reazione, il quale assioma era enun ciato ne
seguenti termini, omne agens, agendo repatitur. È dovuta a Newton la conoscenza
delle leggi fisiche, colle quali ha luogo la rea zione. Suo è il principio, che
l'azione e la reazione sono eguali e contrarie, dal quale principio risulta che
le azioni scam bievoli de due corpi si fanno sempre in contrarie direzioni, e
che queste azioni producono in ciascuno de due eguali cam biamenti. Laonde ogni
corpo che preme la pietra, è dalla pietra a volta sua pre muto. E se un corpo,
urtando contra un altro ne cambia il moto, soggiace ancor esso al medesimo
cambiamento. ll vocabolo reazione, trasportato fuori delle leggi fisiche, ed
applicato al mora le, o sia all'azione delle passioni, dà si militudini
imperfette, come son tutte quel le , che dalla materia si trasportano allo
spirito. REFLEssioNE (spee. ), la ripercussione deraggi della luce, i quali
cadono sopra superficie levigate. V. Luce. La ripercussione avviene per mezzo
di un angolo, che i raggi luminosi fanno colla superficie sopra cui cadono, il
quale angolo è detto di riflessione, ed è eguale a quello che forma per
giugnervi, detto angolo d'incidenza. I fenomeni della luce reflessa formano
suggetto di quella parte dell'ottica, che è detta catottrica. V. questa voce.
REFRAZIONE ( spec.), cangiamento di direzione, che i raggi della luce ricevono
nel passare da un corpo diafano in un altro. V. Luce. La spiegazione del
fenomeni della luce refratta, è il suggetto della diottrica. V. questa voce.
REGoLA (spec. e crit.), precetto, o ve rità generale, che serve di norma alle
azioni. - È un significato trasportato dal mate riale, o sia dalla pratica
direzione che una riga o una linea tracciata sulla carta dà alla mano di chi
scrive. - Doppia è l'applicazione che di questa similitudine facciamo alle
facoltà attive e intellettive dell'animo, perchè due sono i fini, a quali
possono essere indirizzate le nostre azioni, la virtù, e la scienza, la prima
come fine deportamenti della vita; la seconda, come ultimo prodotto delle
conoscenze speculative. La volontà dun que e l'intelletto, han ciascuno le
proprie regole, le quali debbono guidargli al ri spettivo loro fine. In una
parola il fine forma la regola. Quanto alla volontà, noi ricaviamo la mozione
della regola dalla legge e dall'or dime; anzi siamo soliti scambiare il senso
de tre cennati vocaboli, ma in realtà cia scuno differisce dall'altro.
Differisce la regola dalla legge, perchè questa abbraccia non solamente la
norma dell'azione, ma ancora la ragione della - 585 - sua convenienza, e
insiememente il prin cipio dell'obligazione che da essa deriva: dall'ordine
perchè questo presuppone un complesso di regole cospiranti al medesi mo fine.
Diciamo dunque, che la regola nasce dalla legge, e l'ordine dalla rego la. V.
Legge, Ordine. Siccome noi prendiamo dalla natura la prima nozione della legge,
così dalla stessa ricaviamo quella della regola. La connes sione che regna ne
fenomeni naturali, ne quali scorgiamo un fine costante, una relazione
immutabile tra le cause e gli ef fetti, e una volontà operatrice, da cui le
cause intermedie riconoscono l'efficacia loro; ci danno, insieme coll'idea
dell'or dine, quella ancora delle regole, che han determinato il corso e la
successione dei detti fenomeni. E però chiamiamo regole della natura quelle che
ci manifestano le costanti relazioni degli effetti colle cause loro; e per la
stessa ragione consideriamo come regole naturali del vivere quelle che la
natura ha adombrato, e quasi impresse negl'istinti e negli appetiti, acciocchè
que sti ci guidassero insino a che la ragione non pervenga alla sua maturità.
V. Ap petito, Istinto, Matura. Passando poi all'intelletto, l'ordine, e per
conseguente le regole son tanto neces sarie al pensiero, quanto alle operazioni
della volontà. Il complesso di tali regole è quel che dicesi metodo, senza del
quale non puossi pervenire, nè alla dimostrazione delle ve rità note, nè allo
scoprimento delle ignote. Ogni scienza per conseguente, ogni disci plina, ogni
arte presuppone un metodo; siccome ogni metodo altro non è, che una collezione
di regole, per le quali più facil mente dassi compimento al proposito del
l'animo. V. Metodo. Ma il pensiero versa tanto circa gli ob bietti che sono fuori
di noi, quanto circa la mente stessa, che è intelligibile allo spirito, come
tutte le altre cose intelligi bili. E però la mente detta regole a se medesima,
o sia stabilisce i metodi, pei quali indirizza e conduce le proprie sue
facoltà; del che forma ella la scienza delle scienze, che chiamiamo la
filosofia prima, o critica. V. Filosofia. L'immortale Newton credette
necessario di anteporre a suoi principi della filosofia naturale le regole del
filosofare, come le fiaccole che in noi accendono il principio della induzione
e dell'analogia, il quale ci serve di guida nella investigazione delle cause
costanti e generali del fenomeni della natura. V. Analogia, Induzione. Ogni
scienza sperimentale può fare al trettanto, scegliendo quei principi generali,
de quali l'osservazione e la sperienza han no, senza eccettuazione alcuna,
dimostrato la costante ed uniforme ricorrenza. Mag gior bisogno di simili
regole ha la filosofia intellettuale, perchè versa circa una sfera di obbietti
ideali e invisibili, dequali può ora affermare e or negare la realità, se
condochè cangia la faccia del prisma col quale gli osserva. Ma se la natura ci
ha additato l'unico lato per lo quale dobbiamo risguardargli ; se la filosofia
speculativa dee al pari della pratica, corrispondere ai fini della natura; se
lo scopo suo è il ri schiarare e non il confondere o annichilare la ragione; se
la ragione non può dare a se stessa una legge diversa da quella, che ha
ricevuto dalla natura; nè può sup porre difettiva o fallace quella madre, da cui
ha ricevuto tutti i doni suoi; dovrà la filosofia intellettuale riconoscere
pure le sue regole del filosofare, nelle quali sono scritti i limiti, che le
assegna la ragion 49 - 586 – comune della umanità, e che potrebbero dirsi le
condizioni necessarie dell'umano sapere. - , i Due principi sembrano
determinare la verità e la convenienza di tali regole: il primo, che la
conoscenza di se medesimo è l'unico fine della filosofia speculativa ; il
secondo che i progressi dell'umana ra gione non mai potranno trascendere la
naturale capacità delle facoltà sue, e Quali sieno le regole che discendono da
due cennati principi, vedi il primo vo: lume del nostri saggi al capo XX. s
RELATIvo (spec. ontol. prat. e diso. ), quel che per essere inteso, o
determinato ha bisogno di un'altra idea. È contrapposto dell'assoluto, il quale
include l'idea d'una sostanza o d'un sub bietto, che è determinato per la
propria essenza, o sia per le proprie qualità. V. Assoluto. Applicato cotesto
vocabolo agli obbietti del pensiero, ed alle conoscenze dell'ani mo, equivale
ora all'indiretto, ora al sub biettivo, ora all'apparente, ed ora al vee
risimile e al probabile. V. queste voci. In ispezialità aggiunto alla voce
certez za, esprime quel grado di convizione e di verità, che non esclude la possibilità
del falso e dell'errore. V. Certezza, Pro babilità. - I logici e i grammatici
hanno fatto molto uso del relativo per distinguere le propo sizioni e i termini
che richiamano un'altra idea, e non istanno di per se. E però chiamano relative
le proposizioni, che esprimono qualità, le quali risultano dalla comparazione
di due obbietti tra loro; re lativi i termini che ne presuppongono al tri, da
quali nasce la loro determinazione, come quello di padre, di fratello, di mo
glie, di causa, o di effetto ; relativi i pronomi, che per loro stessi nulla
signi ficano, e che per avere un significato deb bono essere aggiunti ad un
altro nome, come il quale.V.Pronome, Proposizione. - In generale il relativo
prende i signifi cati propri del vocabolo relazione, di cui è un derivato. - -
- - - - - I e - e r RELAZIONE (spee. ontol. prat. e dise.), legame tra due
idee, delle quali una serve a richiamare o a determinare l'altra. La
comparazione di due obbietti tra loro somministra il maggior numero delle idee
delle di relazione, quel che mostra la somiglianza, la diversità, o la
differenza de loro accidenti, è ciò che chiamasi re lazione. L'animo ricava le
relazioni da ragioni che nascono, o dalla natura degli obbietti o da qualità
accidentali, anche estrinse che; il perchè distinguonsi le relazioni ne
cessarie dalle accidentali. Le necessarie sono, o immediate, o, derivate dal ra
gionamento: le prime sono intuitive, e comuni a tutti gli uomini, come quelle
di cause e di effetti, le seconde nascono da conoscenze acquistate, e sono,
spesso particolari a coloro che professano un'arte o una scienza, come quelle
che fanno i geometri per le qualità delle figure, o i fisici per le qualità del
corpi. Il principio della causalità essendo connaturale alla ragione, può
essere considerato come quel lo che indirizza la mente a formare la nozione
della relazione. V. Causalità. Tra le relazioni accidentali son comprese le
così dette denominazioni estrinseche, o sien quelle nelle quali ravvisiamo una
somiglianza anche passeggiera, comechè questa dipenda o dal significato del
voca boli, o da rimote analogie, o dal modo stesso col quale le concepiamo.
Tali sono, per esempio, le cose che noi ordiniamo per numeri, le idee di
merito, di prefeº renza ed altre simili. Molte di queste rela zioni son
volontarie, e trovano la ragione di loro stesse, più nell'abito che ne legami
delle cose. Son esse infine che nutriscono e favoriscono l'associazione delle
idee. V. Associazione. Locke affermò, che ogni relazione masca dalla
comparazione, ma questa non in terviene certamente nella più ovvia e più
naturale di tutte le relazioni, in quella cioè delle cause e dell'effetto, di
cui l'una suggerisce l'altra, e nella quale spesso l'uno è noto e l'altra
ignota. Leibnitz ridusse a due classi le relazio ni, a quelle cioè di
comparazione, e alle altre di concorso. Ma questa seconda classe è
indeterminata e vaga. e - - Hume credette che le relazioni tutte na scessero, o
dalla causalità, o dalla conti guità di tempo e di luogo, o dalla somi glianza,
o dalla contrarietà, considerata questa come un complesso della causalità e
della somiglianza. Cotesta opinione dee essere risguardata come non vera, e
come del tutto sistematica, in prima perchè la scia fuori di se molte delle
accidentali e delle volontarie relazioni, e secondaria mente perchè ci viene
dallo spirito d'un sistema intento a rendere meccanica l'ope razione del
pensiero. Kant fece un nuovo ordinamento delle relazioni in quattro classi,
cioè l'identità e disparità, la concordanza e il contra sto, l'intrinseco e
l'estrinseco, il deter minabile e la determinazione, o sia la materia e la
forma. I A noi pare che niun giovamento si ricavi per la filosofia, o sia per
la chiarezza delle nozioni, e per l'analisi delle operazioni della l mente, dal
determinare e dal restrignere i modi del pensiero, dal rendere necessa rie le
sue combinazioni, dal limitarne la spontaneità, dal separare gli stessi modi
del pensiero dalla immaginazione, e dal l'aggravare la memoria d'una serie cate
gorica di denominazioni, tutte arbitrarie e relative. Chiunque consideri, che
tutta l'umana cognizione nasce e si forma col l'arte di scoprire le relazioni
che han tra loro tutti gli obbietti del pensiero, mate riali o immateriali che
sieno; che que st'arte abbraccia non solamente le relazioni reali, ma anche le
apparenti, le neces sarie e le volontarie, le vere e le suppo ste; che
indeterminate ed indeterminabili son quelle suggerite dall'analogia, dalla
somiglianza denomi, e in generale dalla immaginazione; dopo avere distinto le
relazioni necessarie dalle accidentali, rav viserà l'impossibilità di
confondere le une e le altre insieme, e di soggettarle alle partizioni della
logica artifiziale. Di questa logica fu maestro Aristotele, il quale considerò
la relazione come un accidente della sostanza, e l'annoverò tra i dieci suoi
predicamenti. V. questa voce. Relazione morale è stata detta la con formità che
passa tra l'azione, e la legge che ne dà la norma, e di cui è giudice la
coscienza. V. Coscienza, Legge. - e RELIGIONE (teol.), il fermo e costante
proponimento di adempiere i doveri verso Dio e verso i simili nostri, o
L'osservanza del nostri legami con Dio. La prima definizione spiega la cosa; la
seconda, il nome. I doveri verso Dio e verso l'uomo ci son dettati dalla
ragione, che è tempio della Divinità. La somma di tali doveri è l'amare Dio e
il prossimo come noi stessi. Quale più lieve retribu ai - 588 – zione poteva
esiger da noi il Creatore? Amarlo, vuol dire adorarlo, ammirarlo nelle opere
sue, e prenderlo come prin cipio degli affetti nostri; vuol dire, es sergli
riconoscente debenefizi de'quali ha ricolmato l'uomo sopra tutte le altre crea
ture ; vuol dire , sperare nella infallibile promessa di una vita futura, che
ha scol pito nell'animo nostro. L'amare Dio è quel che precipuamente dicesi culto,
il quale forma la prima parte della religio ne. V. Culto. La seconda parte poi
sta nell'amare i nostri simili come noi stessi. Acciocchè sapessimo amare noi
stessi, l'Autor della natura ci ha costituito un fine, al quale riferir
dobbiamo tutte le azioni: cotesto fine è quel sommo bene, di cui tanto di
sputarono i filosofi, e che la ragione sce vra delle suggestioni della vita
sensitiva, di per se vede ed appetisce: a questo fine ci conduce quasi per mano
la coscienza, facendoci pregustare quella interna soddi sfazione, che è
prenunzio della futura beatitudine. Così l'amare Dio, noi stessi, e gli altri
si confonde in un individuo sentimento, e in una medesima virtù. Questa è la
religione, che insegna la ra gione, e che la divina rivelazione ha con fermato,
ampliato, e santificato. Ma la ragione può conoscerla di per se sola ? E se la
conosce, qual bisogno della rivelazione? Rispondano l'esperienza del genere
umano, e tutti gli errori della filosofia ! Ben la conosce la ragione
speculativa ma non la pratica. E quì co nomi di speculativa e di pratica
intendiamo de signare non la ragion pura e la pratica di Kant, ma sì bene la
ragione sana, e la ragion sensitiva, che combatton tra loro, e delle quali una
obbedisce alla legge mo rale, e l'altra a quella de sensi. Colla ragion sana
aperse l'uomo gli occhi alla luce del mondo, e conobbe il vero culto di Dio, il
fine della vita, e le future spe ranze, ma tosto smarrì la sua fida com pagna
nella selva delle illusioni e degli CTrOrl, - Senza l'intervenzione divina
l'avrebbe per sempre perduta, e il mondo avrebbe camminato fuori della sua
legge. Dopo le prime rivelazioni fatte all'uomo nell'atto di sua creazione, due
volte Dio visibil mente intervenne per cavarlo dalle tene bre, nelle quali
erasi profondato: una volta, allorchè volle che fosse la verità conservata in
un picciol canto della Terra, e quivi custodita come un sagro fuoco, che doveva
un giorno essere propagato per lo mondo intero: un'altra volta, al lorchè,
maturo essendo il tempo del di singanno, degnossi mandare tra gli uo mini la
sua vivente parola. Quali prodigiosi effetti non produsse la luce da cui fu
circondata quella divina mis sione? Caddero gl'imperi tutti del mondo, e con
essi i prestigi e le credenze de'po poli: la falsa sapienza delle nazioni dispar
ve: una nuova era cominciò a segnare l'età del mondo rigenerato: i barbari
corsero alla civiltà: il regno della forza cedette il suo scettro alla ragione:
una morale pu blica stabilì tra le nazioni i legami stessi delle famiglie.
Fermiamoci quì, che noi non insegniamo le verità rivelate, ma se guiamo
soltanto le tracce della sana ra gione! (V. il vol. I. Capo VI.). . . La
ragione ci mostra la necessità d'una rivelazione, e ci apre due vie per determi
nare la nostra credenza: la verità stessa della dottrina: e l'esperienza, o sia
la storica tradizione del mondo: l'una e l'al tra ci conducono ad una assoluta
e piena - 589 - convizione della sua divinità. Quel che è vero e perfetto, non
può venire se non da Dio: dee per necessità venire da Dio, quel che l'uomo
separato dalla sua gui da, non aveva saputo mai più rinvenire. Proseguendo ora
il cammino del naturale ragionamento, se la prima pruova della divinità della
rivelazione sta nella verità della sua dottrina, ne deriva, che uno è il vero.
Questo vero non solamente è uni co, ma è immutabile: i comenti, le in
terpretazioni, e gli errori degli uomini non possono alterarlo nè adombrarlo.
Acciocchè no'l potessimo toccare, nè corromperlo, il divino Maestro che lo
dettò, stabilir volle le forme le quali cu stodir dovevano il deposito della
celeste dottrina. L'autenticità di tali forme sta nella sagra tradizione che le
ha traman date. I sapienti del paganesimo, volendo dare un fondamento di
divinità alle false credenze del politeismo, avevan detto an tiquitas proxime
ad deos accedit. Bello era il concetto, ma falsa n'era l'applica cazione, tra
perchè l'antichità loro era monca del suo principio, e perchè era tutta fuori
della storia. La nostra tradi zione per contrario non solamente è tutta
storica, ma mette capo nelle parole stesse dell'infallibile autor della
dottrina. Appli chiamo dunque meglio il detto degli an tichi: antiquitas
proxime ad Deum ac cedit, e da questo principio ricaviamo una seconda
conseguenza, cioè che l'au tenticità del suo testo sta nell'antichità
storicamente comprovata. Adunque son due i principi razionali, sopra i quali è
fondata la verità e l'immutabilità della religione rivelata: il primo, che la
vera dottrina non può esser che una: il se condo, che il senso, lo spirito e le
for ma di tal dottrina son quelle che im mediatamente ci vengono dalla sagra
tradizione. V. Questa voce. REMINIsceNzA (spec.), operazione del l'anima, per
la quale richiamiamo alla memoria una conoscenza che ne era uscita. V. Memoria.
Secondo Aristotele è il più debole grado della memoria. Ma noi consideriamo la
reminiscenza come un atto per lo quale la memoria ripara ad una perdita fatta,
e non già come la stessa facoltà del ri cordare. Così considerata, differisce
dalla rimem branza, la quale conserva l'idea dell'ob bietto, di già
acquistata.V. Rimembranza. REMissioNE (spee. ), la diminuzione di una forza,
comparativamente all'accresci mento di cui è capace. i E il contrapposto
d'intensità. V. que Sta VOce. REMUNERAZIONE e RIMUNERAZIONE (prat.),
restituzione del benefizio ricevuto, o Reciprocazione nel beneficare.
Differisce dalla ricompensa, che include l'idea d'un contraccambio dovuto. V.
Pre mio, Ricompensa. REPRENSIONE e RIPRENSIONE (prat.), bia simo manifestato
con parole. V. Biasimo. REPRoBo (prat.), uomo di dannata opi nione. È più di
maligno e di malvagio, per chè presuppone una notoria perversità, che non
lascia luogo ad emenda. V. Ma ligno, Malvagio. REPULSIONE (spec.), l'azione
contraria all'attrazione, per la quale i corpi, o le loro molecule, in date
circostanze, si al lontanano le une dalle altre. V. Attrazione, REPUTAZroNE e
RIPUTAZIONE (prat.), l'onorevole opinione delle proprie, o delle altrui qualità
intellettuali o morali. E però diciamo, godere d'una buona riputazione, o
averla di altri. -- Differisce in meno dalla fama, la quale presuppone un
giudizio publico ed univer sale; e in più dalla semplice esistimazione, la
quale esprime un giudizio individuale, o di pochi. V. Esistimazione, Fama. Il
meritare una buona riputazione, e il non offendere l'altrui son due regole, le
quali in compendio abbracciano tutta la morale pratica dell'uom civile. La pri
ma include l'idea d'ogni onesto porta mento, e del giusto amore di se mede
simo: la seconda, quella della giustizia e della mutua benevolenza, nelle quali
virtù son fondati i legami della naturale e ci vile comunione degli uomini. E
per con trario il non custodire la propria riputa zione, e il lacerare l'altrui
contiene la somma di tutti i vizi; dapoichè presup pone l'indifferenza al bene
e al male, e la mancanza d'ogni sentimento di giusti zia e di benevolenza verso
degli altri. Chi non rispetta l'altrui riputazione è ingiu sto, malvagio, o per
lo meno malevolo: ingiusto, se gli nega quel che gli è do vuto; malvagio, se
falsamente detrae alla opinione di lui: malevolo, se rende ma nifesto quel che
può, o dee agli altri ri manere nascoso. Son questi i tre caratteri che insieme
concorrono nel vizio della maldicenza. V. questa voce. REsisTENZA (spec.),
ostacolo, che ogni corpo oppone all'azione d'un altro ten dente a farlo
cambiare di sito. Ovvero, forza che opera contrariamente ad un'altra, e ne
distrugge o ne sminuisce l'effetto. V. Forza. La prima definizione è più
conveniente al concetto che ne forma la filosofia spe culativa, la quale
considera la resistenza come una qualità derivante dalla solidità e
impenetrabilità della materia, sensibile al tatto, e come la causa dell'inerzia
che fa durare i corpi nello stato di quiete o di moto insino a che non sieno da
una causa estrinseca obligali di mutare lo stato loro. V. Impenetrabilità,
Inerzia, Solidità. La seconda è propria della fisica, la quale la risguarda
come una potenza va ria, secondo la diversa natura del corpi resistenti; e però
distingue quella del so lidi, de fluidi, dell'aria, de quali parti tamente trattano
la Meccanica, l'Idrosta tica e la Pneumatica. V. queste voci. - - - - - - t ,
REspmAzioNE (spec.), l'azione reciproca dell'aria ambiente e del fluido
nutrimen tale degli animali, esercitata per mezzo de polmoni nell'uomo e negli
animali mam miferi; - - e per mezzo di altri organi speciali nel le altre
spezie di animali; - destinata dalla natura a tenere in con tinuo moto la
circolazione del detto fluido nutrimentale; a temperarlo e modificarlo per
mezzo del rinnovamento dell'aria esterna ; rinnovamento eseguito mediante un'al
terna operazione decennati organi, i quali introducono l'aria, e la ricacciano
pregna di calorico e di evaporazioni animali; le cennate operazioni formano
quel che dicesi ispirazione e espirazione. V. Pol 7207262. Di tutte le funzioni
animali dalle quali risulta la vita, non è alcuna, che possa - 591 – dirsi
tanto essenziale quanto questa, per chè da essa immediatamente dipendono
l'azione, il moto, e la forza vitale di tutti gli altri organi : cotesta forza
vitale si estingue appena cessi, l'azione dell'aria esterna sul sangue, di che
fanno mani festa pruova gli asfixiali. La sua impor tanza è la stessa in tutti
gli animali, non esclusi gl'insetti e i zoofiti; sol che la na tura ha variato
negli organi destinati alla respirazione, adattandogli alla diversità della
forma e della condizione loro, non che dell'elemento nel quale debbono vive re.
Tale varietà forma una delle più bel le parti della fisiologia generale, e
dello studio contemplativo della natura. Nell'uomo e ne mammiferi, la respi:
razione si esegue per mezzo dell'organo de polmoni, del quali l'alterna
operazione segna il principio e il termine della vita extra-uterina; imperocchè
questa comincia con una ispirazione, non prima che uscia mo al contatto
dell'aria esterna, e finisce con una espirazione, colla quale rendiamo lo
spirito a Dio. L'ispirazione consiste nel la dilatazione del torace, la quale
avviene così per l'azione del diaframma, che si abbassa verso la pancia, e
rende più am pia la cavità del petto nella direzione del suo diametro
verticale; come per l'azione demuscoli i quali elevano le costole: da tale
elevazione nasce ancora l'ampliazione degli altri diametri. E quantunque l'ispi
razione non sia eguale per la intensità e per gl'intervalli in tutti i
mammiferi, nè in tutte l'età o condizioni della vita, ciò non ostante per
considerare cotesto feno meno sotto l'aspetto d'una legge generale, possiamo
scegliere per esempio l'uomo trai mammiferi, e tra le varie condizioni della
vita, un uomo sano che si trovi in uno stato di equilibrio e di quiete. In
questo stato l'operazione della ispirazione avviene per un meccanismo
involontario e conti nuo, dapoichè si ripete da sedici a venti volte per ogni
minuto, per modo che cor risponde a quattro battute di polso; non essendo
concesso alla volontà il sospendere un tal moto, se non per un tempo bre
V1SSimO. . . . , - E d'altra parte la respirazione, conside rata pure nello
stato ordinario d'un uomo valido e sano produce, che il diaframma, il quale
erasi contratto per la ispirazione, si distenda ; e per effetto di tale disten
dimento, il diametro verticale del torace si raccorcia, e i visceri addominali
spinti dalla elasticità delle stesse pareti della pan cia rimandano in su lo
stesso diaframma. Similmente le costole elevate nella ispira zione, e gli altri
diametri ampliati, ven gono depressi e di nuovo raccorciati nel la
respirazione. - e Da tale alterna operazione è facile com prendere, che i
polmoni si dilatano nel la ispirazione, e si restringono nella re spirazione,
non per una forza propria del loro tessuto, ma per l'azione dell'aria che vi s'
introduce. E sebbene l'aria vi ri manga per pochi istanti, e per un moto
puramente meccanico sia cacciata fuori per lo restringimento delle pareti del
to race; pure in questa sua brevissima per manenza diviene la causa operatrice
di molti altri fenomeni, a rispetto spezial mente della circolazione del
sangue. Per mezzo suo il sangue penetra nel polmoni e si spande per tutte le
diramazioni del le arterie e delle vene polmonari, non come in un semplice
recipiente chimico, ma come in un apparato d'organi viventi dotati d'una forza
atta a modificarlo, e per un certo modo di dire, a digerirlo an cora. Il sangue
delle arterie polmonari, - 592 - nerastro prima di entrare nepolmoni, dopo di
esser passato per questo viscere, ne esce d'un color vivo e rosso, qual è
quello, che per le vene polmonari ritorna al cuore. Più maraviglioso che
nell'uomo, è il meccanismo della respirazione degli uc celli, de'quali può
dirsi, che non è parte del corpo loro, che non sia stata dalla natura
predisposta ad essere, o organo di respirazione, o recipiente d'aria atmosfe
rica, la quale dà loro vita, moto, e calore corrispondente all'attività di cui
sono dota ti, e alla condizione delle regioni aeree, che son destinati ad
abitare. La grandezza relativa del loro polmoni, la mancanza del diaframma, le
appendici membranose di cui son provveduti, i serbatoi e i condotti destinati a
raccogliere e portare l'aria in tutte le parti del corpo e per sino nelle ossa,
nel tessuto cellulare, e nelle stesse loro penne, con tanta cura descritti da
Camper, da Hunter, da Malacarne, da Gerardi, da Méry, da Cuvier, e da altri
molti motomisti; han fatto dire, che gli uccelli sono infiammati e consumati
dal ſuoco della vita in tutto l'organismo loro. Quelli i quali spiegano
chimicamente, e secondo il sistema di Lavoisier, l'azione dell'aria atmosferica
sul sangue, dicono che l'ossigeno penetra per ogni parte nel loro tessuto,
entra a torrenti in tutte le vie della respirazione, e per una sorta di
perpetua combustione vitale diviene il principio animatore della loro energia
mu scolare. Secondo questa teorica, l'ampiezza del ricettacolo pneumatico,
sparso per l'in tera superficie del loro corpo, spiega la ragione, per la quale
gli uccelli, tra tutti gli animali, sviluppano maggior quantità di calorico, e
consumano più di ossigeno. Certamente la temperatura del loro corpo è
costantemente maggior di quella degli altri viventi, e supera sempre di due o
tre gradi, e secondo alcuni osservatori, anche di dieci, quella dell'uomo: la
mano stessa di chiunque, in parità di circo stanze, tocchi un uccello o una
ranocchia, si accorge d'una tal differenza; il che spiega ancora come i più
piccioli uccelli possano reggere al rigore declimi setten trionali. Un organismo,
disposto quasi in con trario senso, è quello del rettili per ri spetto alla
respirazione, e a rapporti che questa ha colla circolazione del sangue, col
calore animale, e coll'attività del moto muscolare. Il cuore di cotesta spezie
di animali è disposto per modo, che in ognuna delle sue contrazioni non rimanda
al polmone se non una parte sola del sangue, che ha ricevuto dalle altre parti
del corpo; per modo che il resto del sangue senza passare per lo polmone, e
senza aver pro vato gli effetti del fenomeni chimici della respirazione torna
agli organi da quali pro viene; d'onde segue che l'azione dell'aria sul sangue
de rettili è minore che ne mam miferi e negli uccelli, e per conseguente,
minore la respirazione. E siccome la mag giore o minore attività della
respirazione contiene la misura del calore e del moto muscolare degli animali;
così spiegasi il perchè i rettili possano per più lungo tem po sospendere le
inspirazioni, e riman gano per intere stagioni assonnati, senza moto, e senza
bisogno di nutrimento. Passando a pesci, la natura egualmente ingegnosa nella
scelta delle forme, e nel le loro varietà, adattando l'organo della
respirazione al mezzo, nel quale cotesti animali vivono, lo ha collocato alle
due parti del collo in alcune laminette dispo ste in fila, e coverte da un
finissimo re ticino di vasi sanguigni. Ora l'acqua che il pesce inghiotte,
passando per le anzi dette laminette, esce dalle picciole aper ture delle
branchie, e in tal passaggio il poco d'aria che l'acqua contiene, eser cita sul
sangue rosso e freddo di colesta spezie d'animali quella stessa azione, che
nelle altre si fa per mezzo del polmone; d'onde segue che ne pesci le branchie
ten gono luogo di polmoni. Infine chi descriver potrebbe l'immensa varietà
degli organi della respirazione che la natura ha dato alla innumerabile classe
degli animali invertebrati, gli ultimi anelli della quale lasciano i fisiologi
nel dub bio, se debbano essere considerati come pure macchine organiche, o come
animali dotati di vita? Di essi taluni respirano di rettamente l'aria
atmosferica, e taluni altri la prendono per mezzo dell'acqua dolce, o della
salsa; taluni hanno branchie, ed altri alette, che servono alla respirazione;
taluni organi in forma di polmoni; taluni altri, cavità che apronsi e chiudonsi
se condo il bisogno; e questi diversi organi disposti ora al disopra, ed ora al
disotto della testa, ora sul dorso, ed ora a canto all'organo digestivo, ora
alla superficie della pelle, ed ora al disopra. (V. il di zionario delle
scienze naturali). Ritorniamo per poco a considerare il fe nomeno della
respirazione ne mammiferi, e nell'uomo, dotati dell'organo, che noi
consideriamo come proprio a questa fun zione; e senza fermarci ad alcuna scien
tifica spiegazione degli effetti della respi razione, scegliamo il fatto che il
senso e la sperienza ci dimostrano come indubi tato, cioè che se i polmoni non
fossero ad ogn'istante dilatati, e per loro mezzo non fosse continuamente
rinnovata l'azione del l'aria sul sangue, la vita cesserebbe. La vita dunque sta
nella respirazione, e tanto da questa dipende, quanto noi non con cepiamo
altrimenti la morte, che come l'espirazione dell'ultimo alito vitale. Ora
niun'altra funzione, più di questa dimostra l'impercettibile distanza che
separa l'essere dal non essere, e ci fa sentire che la du rata della esistenza
è in realtà una rin novazione continua della vita, operata dal la mano
conservatrice della Provvidenza. V. questa voce. RETINA (spec.), membrana
tenuissima dell'occhio, nella quale vanno a dipin gersi gli obbietti della
visione. V. Occhio, REroRe (dise.), chi professa l'arte del ben dire, o chi ne
insegna i precetti. Gli antichi distinguevano il retore dal l'uomo eloquente,
dall'oratore, dal de clamatore, e dal sofista; imperocchè elo guente era colui
il quale possedeva l'arte del persuadere; oratore chi ne giudizi o nelle
publiche adunanze discuteva le con troversie, publiche o private; declamatore,
chi per insegnamento, o per proprio eser cizio, pronunciava ad alta voce
orazioni studiate, accompagnando colla voce e col gesto la naturale espressione
della parola; sofista, chi per amor della discettazione vestiva il discorso di
artifiziosi argomenti. Del resto usavan pure come nome ge nerico, il vocabolo
retore, e lo scambia vano con quello di oratore, (Cic. de Orat. lib. II, cap.
III.). V. Declamatore, Elo quenza, Oratore, Sofista. REroRICA (crit.), l'arte
di parlare colle regole stabilite dalla logica, e dalla gra matica. Differisce
dall'oratoria in quanto che l'una esprime il complesso delle regole ne. $0 - 594
- cessarie al parlare correttamente e al per suadere, e l'altra, contiene il
discorso e l'azione dell'oratore, con tutti gli ornati della eloquenza. V.
Eloquenza, Oratore, Retore. - - - a RETTILE (spee. ), animale ed insetto che si
muove strisciando una parte del suo corpo per terra, e che è o affatto privo di
piedi, o provveduto di zampe e di piedi troppo piccioli, in proporzione delle
altre sue dimensioni. Lo studio di questa parte del regno della natura forma il
suggetto della erpetolo gia, che abbraccia in un'ampia classe tutti gli animali
che si somigliano per ragione del moto e della potenza locomotiva, cioè da più
colossali serpenti insino a vermi e alle lumache, e della quale può dirsi quel
che abbiamo più volte notato delle altre parti della storia naturale; cioè che
ciascuna di per se occupar può la vita dell'uomo più laborioso, e
somministrargli la cogni zione di tanti individui, di cui la memo ria non
potrebbe ritenere i nomi, senza l'aiuto di numerose partizioni, e suddivi
sioni, che ci mettono nello stato di po tergli distinguere e riconoscere. Per
lungo tempo l'erpetologia è stata men coltivata delle altre parti della storia
naturale, per chè abbraccia Esseri, che sono comune mente risguardati come gli
ultimi nelle facoltà della vita sensitiva, come inutili alla vita dell'uomo,
cui tutto riferiamo, anzi come nocevoli e malefici. Appena il Borelli nel libro
de molu animalium aveva cercato di spiegare il moto loro muscolare (part. II.
prop. XIII.), e de la Hire aveva nel suo trattato di Meccanica parlato della
conformazione, e del moto loro (S. CXII.). Ma il ribrezzo ed anche l'orrore che
talune delle spezie di questa classe ispirano al me : volgo, non sono pe
sapienti osservatori, una ragione per negligere lo studio d'una parte del regno
animale, nella quale la natura è tanto più ammirabile, quanto l'infinita
varietà delle sue forme è stata prodigata per Esseri destinati a vivere nel
profondo della terra, o per insetti, che per la loro infinitesima picciolezza
possono considerarsi come sottratti all'osservazione dell'uomo. In questi
Esseri sopratutto ri luce l'infinita sapienza che ha preseduto a tutte le opere
della creazione, le quali hanno per loro proprio carattere la per fezione,
comechè dovessero essere da noi ignorate. La natura insomma è stata im mensa, e
nella immensità perfetta, non per essere ammirata dalle creature ammesse a
contemplarla, ma perchè non poteva es sere diversa da quel che è. i L'organismo
del rettili ha i suoi partico lari caratteri che lo distinguono da mam miferi e
dagli altri ovipari. Essi respira no l'aria pe polmoni: hanno il sangue rosso e
freddo: una parte sola di questo fluido passa per l'organo della respirazio
mancano di diaframma: non sono coverti da pelo, o da penne: sono ovi pari: non
hanno mammelle: non covano le loro uova. Ciò non ostante v'ha di quelli che si
strascinano per terra, altri che camminano, altri che nuotano, altri che
volano, o possono reggersi in aria per qualche tempo. Taluni han coda, ed altri
ne sono sprovveduti: a taluni cotesta appendice è inutile: a taluni altri
presta l'ufizio di mano, o di ala per nuotare: taluni son privi affatto di
piedi o di zam pe, mentre altri ne hanno due, o quat tro, più o meno lunghe, e
talune di queste anche in forma d'ali da nuotare. Varia ancora è la misura della
loro respi razione, la quale è sempre proporzionale - 395 - al diametro
dell'arteria polmonare, pas ragonato a quello dell'aorta; dal che derivano
ancora le differenze di energia muscolare, e di sensibilità, le quali sta
biliscono tra rettili quelle stesse varietà che si osservano tra mammiferi, e
tra gli uccelli. - º Tali e tante varietà han renduto a matu ralisti diſficile
il trovare un nome di clas se, che abbracciar potesse tutte le divisate spezie,
Linneo e la scuola sua, denomi nolla degli anfibi, denominazione ambi gua,
perchè se per essa debbesi inten dere quella parte di animali aquatici, che
star possono per qualche tempo in terra, o quegli animali terrestri che possono
stare per qualche tempo in acqua, si trovereb bero fuori della classe i rettili,
che non toccano mai l'acqua, e quelli che non ne escono mai. Daubenton divise i
rettili in due grandi famiglie, cioè del quadru pedi ovipari, e del serpenti.
Lacépéde vi aggiunse la famiglia debipedi. La ge neralità del naturalisti ha
ritenuto l'antico nome di rettili. Coteste differenze non hanno impedito, che i
notomisti e i fisio logi spignessero tanto innanzi l'osserva zione e l'analisi
di questa parte del re gno animale, quanto han praticato per le altre. Essi
hanno particolarmente esa minato tutto quel che la rende dissimile da mammiferi
ed ovipari, a rispetto della struttura osteologica, della potenza loco motiva,
della sensibilità, della digestio ne, della sanguificazione, della respira
zione, del canali secretori, della gene razione, delle loro trasformazioni,
degli istinti della loro vita, della utilità che si può da essi ricavare, e in
fine delle qua lità venefiche e malefiche di talune delle loro spezie (V. il
dizionario delle scienze naturali). RETTITUDINE e RETTo (prat.), qualità di
portamenti sempre conformi al giusto e al conveniente. È una similitudine presa
dal camminº diritto, e però la rettitudine è detta anche dirittura, e se le dà
per contrapposto la tortitudine. V. questa voce. - -- REvERENzA e RivERENZA
(prat.), l'atto per lo quale si dà convenevole onore alle gravi e dignitose
persone, - È proprio dell'onore, che il figlio dee rendere al padre, onde Dante
disse: Vidi presso di me un veglio solo, Degno di tanta reverenza in vista, Che
più non dee a padre alcun figliuolo. - ( Purg. I. ). RIAMARE (prat.),
corrispondere all'amore che altri ci porta. V. Amore. RIBALDERIA e RIBALDo
(prat.), qualità d'uomo, che al vizio congiugne l'audacia. RIEREzzo e RIPREzzo
(prat.), sentimento di molestia e di ripugnanza che riceviamo da un fatto, il quale
offende la sensibilità. È una similitudine presa dal freddo della febbre, che
propriamente dicesi ribrezzo : Qual è colui, ch'ha si presso il riprezzo Della
quartana, ch'ha già l'unghia smorta E trema tutto pur guardando il rezzo; Tal
direnn'io alle parole porte. Ma vergogna mi fer le sue minacce Che'nnanzi a
buon signor fa servo forte. (DANTE Inf. XVII. ). RICADIA (prat.), sentimento di
noia o di molestia che riceviamo per qualunque fatto dispiacevole. r - 596 -
RiccHEzzA (prat.), abbondanza di beni esteriori, che può essere commendata o
riprovata, secondo che presta occasione alla liberalità, o alla avarizia. V.
queste voci. È contrapposto di povertà, e come tale, la ricchezza è dal comune
degli uomini considerata essere il maggior dono della fortuna. Costoro per
conseguente la pre dicano come la sorgente della felicità, e di tutti i
godimenti della vita. I filosofi per contrario sono stati soliti di risguar
darlo come il maggior ostacolo alla sa pienza e alla pratica della virtù. Di
qua le declamazioni degli stoici, e tra questi di Seneca, colle quali si è data
alla po vertà la preferenza sopra la ricchezza. Di qua ancora i tanti problemi
morali circa i vantaggi e gl'inconvenienti dell'una o dell'altra. Ma la verità
non può mai trovarsi ne gli estremi; e d'altra parte, la quistione della
maggior convenienza delle due cen nate condizioni della vita non è stata pro
posta ne termini, ne quali doveva essere esaminata. Non avendo, la ricchezza o
la povertà nulla d'intrinseco e di assoluto, nè potendo darsi abbondanza in
taluni senza penuria in altri, la quistione versa unicamente circa l'uso della
ricchezza, e non circa gl'inconvenienti, che possono nascere dall'abuso che se
ne faccia. Il pro blema dunque che può risolvere la filo sofia pratica è , se
l'uso delle ricchezze sia o no compatibile collo studio della sa pienza, e
coll'esercizio della virtù. Seneca, che nelle lettere trattò questo argomento
colla esagerazione stoica, esaminollo nel suo vero aspetto nel libro de vita
bea ta: Mon amat ( sapiens ) divitias, sed mavult. Mon in animum illas , sed in
domum recipit , nec respuit possessas sed continet, et majorem virtuti suae
materiam subministrari vult (Cap. XXI.). Quid autem dubii est, quin major
materia sapienti viro sit, animum ex plicandi suum in diviliis, quam in pau
pertate? Cum in hac unum genus vir tutis sit, non inclinari nec deprimis in
divitiis, et temperantia, et liberalitas, et diligentia, et dispositio, et
magnifi centia campum habent patentem... Quis porro sapientum, nostrorum dico,
qui bus unum est bonum virtus, negat etiam haec quae indifferentia vocamus,
habere in se aliquid preti, et alia aliis esse potiora? Quibusdam ex his
tribuitur ali quid honoris , quibusdam multum. Ne erres itaque, interpotiora
divitiae sunt. Quid ergo inquis , me derides, cum eumdem apud te locum habeant,
quem apud me? Vis scire, quam non habeant eumdem locum ? mihi divitiae si
effluze rint, nihil auferent, nisi semetpsas. tu stupebis, et videberis tibi
sine te re lictus, si illae a te recesserint. apud me divitiae aliquem locum
habent, apud te, summum : ad postremum, divitiae, meae sunt: tu diviliarum es.
(Cap.XXII.). Desine ergo philosophis pecuna in terdicere: nemo sapientiam
paupertate damnavit. Habebit philosophus amplas opes, sed nulli delractas, nec
alieno sanguine cruentas, sine cujusquam in furia partas, sine sordidis
quaestibus, quarum tam honestus sit eaitus quam introitus, quibus nemo
ingemiscat nisi malignus. . . Sicut sapiens nullum de narium intra limen suum
admittel, male intrantem. ita et magnas opes, munus fortunae, fructumque
virtutis non re pudiabit, nee excludet. Quid enim est, quare illis bonum locum
invideat? ve niant, hospitentur, Mec factabit illas, – 397 – nec abscondet,
alterum infruniti ani mi est, alterum timidi et pusilli velut magnum bonum
intra sinum continen tis. Nec ut divi efficiet illas a domo. Quid enim
dicet?utrumne, inutiles estie an, ego uti divitiis nescio ? Quemad modum eliam
si pedibus suis poteri iter conficere, ascendere tamen vehiculum malet: sic si
poterit esse dives volete et habeit utique opes, sed tamquam leves et
avolaturas, nec ulli alii, nee sibi graves esse patietur. Donabit, guid
erezistis aures ? quid ea peditis sinum ? Donabit aut bonis, aut eis quos fa
cere poterit bonos. Donabit cum sum mo consilio, dignissimos eligens º ut qui
meminerit tam ea pensorum quam acceptorum rationem esse reddendam. Donabit ea
recta, et probabili causa, nam inter turpes facturas malum munus est. Habebit
sinum facilem non perfora tum, ea quo multa eveant, nihil ereidat. (Cap.
XXllI.). V. Povertà. Ricompensa (prat), contraccambio ren duto al benefizio, o
all'azione meritoria. RICoNoscrNzA e RICoNosCIMENTo ( spee. e prat.) atto della
memoria che fa rav visare un obbietto altra volta conosciuto. Siccome tra gli
obbietti, che possono essere richiamati alla memoria v ha an cora l'idea d'un
beneficio ricevuto; così ambo questi vocaboli sono nella nostra lingua
adoperati nel senso di contraccam bio e di gratitudine. V. questa voce.
RIcoRDANZA e RICORDARE (spec.), atto della memoria, che ripresenta l'obbietto
altra volta conosciuto. V. Memoria. RIDERE (prat.), manifestare col natu ral
moto della bocca e della voce le di lettazioni dell'animo. V. Riso. RIDEvoLE.
V. la voce che segue. RIDICoLo ( prat. dise, e erit. ), quel che muove a
ridere. È comune a fatti e a detti che conten gono derisione, o piacevolezza,
in cia scuno de quali significati esprime una idea diversa: nel primo importa
dileggiamento: nel secondo, amenità o diletto. I Latini, da quali abbiam preso
il vocabolo, gli davano un significato più ampio di quel che gli dà l'uso della
nostra lingua; im perocchè ne facevano un nome di genere il quale comprendeva
ogni sorta di cosa, atta a muovere il riso, o a dilettare, co me il comico, il
satirico, il giocoso, e tutto quel che sente di facezia o di mot teggio. Nel
senso di grazioso e di faceto adoperollo Plauto nel prologo dell'asina ria:
inest lepos lususque in hac co moedia: ridicula res est. Come un ge nere
oratorio trattollo Cicerone nel secon do libro de oratore, nel quale non sola
mente additò il vario uso che può farne l'oratore secondo la varia natura del
sug getto, ma raccolse altresì i fiori delle la tine lepidezze (cap. 63 e
seg.). Nello stesso senso Orazio: Ridiculum acri Fortius et melius magnas
plerumque secat res. Nella lingua italiana non pertanto di stinguesi
l'addiettivo ridevole dal ridico lo, e con quello vuolsi esprimere ciò che
muove a riso per piacevolezza o per fa cezie, a differenza di questo, che in se
racchiude qualcosa di spregevole, per de formità, o per altro vizio. Qualche
par ticolare esempio, in cui il vocabolo ridi – 598 – colo, sostantivamente
adoperato, esprima anche il dilettevole o il giocoso, è una varietà introdotta
dall'uso, la quale non muta la particolare destinazione di ciascuna delle due
dinotate voci. Più vago e libero è il significato che ad imitazione de Francesi
diamo a questo vocabolo, allorchè ne facciamo un genere di tutto il derisibile,
e ad esso aggreghia mo il satirico, la caricatura ed il mot teggio. Dall'essere
cotesto genere venuto in moda, è derivato che l'amara e la pun gente derisione
soglia essere coperta sotto le apparenze del dilettevole e del gioco so, e
formi il più favorito degl'intratte nimenti del conversare o dello scrivere.
Così inteso, il ridicolo è l'arma più pun gente della satira, la quale lacera
l'ono re, l'esistimazione, e le virtù anche le più severe. Diremo di vantaggio
essere l'arma ausiliaria della calunnia, perchè dove la severità della virtù
rimuove ogni nota, ivi sottentra il ridicolo, che si giova degli accidenti, e di
ogni apparente de formità. È proprio di sì dilettevole arma il correre dietro
all'equivoco e alle om bre, il creare da queste un nuovo verisi mile, il quale
vestito de falsi colori dello spirito e dell'ingegno, si spande nella
moltitudine, sempre inchinevole a giudizi i più maligni. Quanti mali non ha
prodotto e non pro duce cotesto Proteo? Crea e cangia a suo arbitrio l'opinione
del merito e delle vir tù: estolle l'opinione dello spirito e dello ingegno,
sopra quella della severa pro bità: formasi ogni giorno nuovi proseliti pel
timore del suo veleno: fa guerra alla modestia, e mena in trionfo l'audacia :
corrompe colle attrattive d'un falso onore l'animo della gioventù : pone la
falsa scienza in luogo della vera: esalta la pas sione dell'amor proprio: scuote
il freno d'ogni dover morale, e rende licenziosa la ragione: non risparmia
infine le auguste verità della religione, e i principi conser vatori della
privata e della publica morale. L'esperienza ha dimostrato esser questi i mali,
che l'abuso del ridicolo è capace di produrre. La filosofia del XVIII.º secolo
ne fa manifesta pruova. Uno spirito derisore impadronissi dello stile di tutti
i maggiori ingegni di quella età. Bayle, Shaftesbury, Bolingbroke, e Voltaire
trattarono colla derisione e colla ironia i più gravi argo menti della
filosofia e della teologia, e per tal mezzo cercarono di scuotere ogni
credenza, e qualunque sorta di autorità. Quasi per aguzzare la punta dell'arma,
colla quale lacerar doveva le verità della religione, Shaftesbury, scrisse il
famoso saggio intorno alla libertà dello spirito, e all'uso del motteggio, col
quale pretese dimostrare, che il ridicolo, o la disposi-. zione al riso, dataci
dalla natura, abil mente maneggiata, sia il migliore speci fico contra il
vizio, la superstizione, e le illusioni d'uno spirito melanconico. L'a-, teismo
teoretico, e la corruttela de'costumi ne furono le conseguenze (V. il nostro
primo volume a pag. 272 e seg.). , Riduciamo ora entro i suoi giusti e naturali
confini il ridicolo. Riconosciamolo come un genere di dire, il quale per via
d'immagini e di figure muta l'aspetto di tutti gli obbietti, e per tal
artifizio, o li rende dilettevoli, o li mostra degni di derisione e di scherno.
Cotesto genere ap partiene alla immaginazione da cui toglie i suoi fiori, e non
alla ragione; può con questi fiori ornare le cose sensibili, e non
gl'invisibili obbietti dell'animo; e per con seguente può convenire alla
poesia, e tal volta ancora alla eloquenza, ma non al – 599 – ragionamento
scientifico: non al dimostra bile, nè alla ricerca della verità, per se stessa
immutabile: non all'incomprensibile e al soprannaturale: non a quel vero, che
la ragione e la fede custodir debbono come l' unico e il più saldo fondamento
della sapienza e della morale: tali sono de auguste verità della religione,
contra le quali l'ironia e il motteggio diven gono armi insidiose, venefiche ed
empie. Rimosse dunque dagli studi severi della sapienza il motteggio, l'ironia,
e tutte le figure della derisione o dello scherno, lasciamo che vadano ad
abbellire gli ame mi parti della immaginazione: tra questi distinguiamo il
ridevole, o sia il dilet tevole ed il giocoso, dal ridicolo che per gl'Italiani
è propriamente il derisibile: i confini che separano cotesti generi affini, son
quelli stessi che distinguono la satira dalla ingiuria, da famosi libelli, e
dalla calunnia. V. queste voci. - a - - - - - - RIFLEssioNE (spee. e crit.),
facoltà per la quale l'anima considera se stessa, le sue potenze, le sue
operazioni, ed ogni atto del pensiero, presente o passato. Locke definì la
riflessione : « la como scenza che l'anima prende delle sue di verse
operazioni, e per la quale l'intelletto perviene a formare delle idee». Ma non
ammettendo Locke altra origine delle idee se non la sensazione o impressione degli
obbietti esterni, la riflessione diveniva per lui una facoltà ausiliaria, data
dalla natura per isviluppare e perfezionare le idee par ticolari del sensi.
Conseguenza di tal con cetto fu, che confondesse egli la riflessione colla
coscienza, siccome aveva confuso la coscienza coll'opinione della percezione.
Da noi si considera la riflessione come una facoltà la quale versa circa tutti
gli obbietti del pensiero. E siccome ammettia mo un'altra sorgente d'idee
diversa dal la sensazione ; così diciamo che la rifles sione abbraccia tanto
l'esterna, quanto l'interna vista dell'anima. Ed ammettendo del pari, che la
coscienza sia una facoltà compagna del senso intimo, ed affatto di stinta dalla
percezione degli obbietti ester ni; però la distinguiamo dalla riflessione,
allo stesso modo come distinguiamo il sen so dal sentimento. V. Coscienza,
Senso. La riflessione è determinata sempre dalla volontà, il perchè è stata da
molti scam biata coll'attenzione; ma giova distinguerla in quanto che
l'attenzione esprime la scelta dell'obbietto, mentre che la riflessione ad dita
l'azione del pensiero intorno all'ob bietto scelto. La verità di tal
distinzione ap parisce dagli esempi delle cose, alle quali prestiamo
un'attenzione momentanea, sen za farne suggetto di riflessione; e più an cora
apparisce dalla mente de fanciulli, i quali son capaci di attenzione, sebben
tardi acquistino la capacità della riflessio ne. V. Attenzione. RIGIDEzzA
(dise. e prat.), qualità di discorso, di azione, o di virtù, che non esce per
nulla da limiti delle regole. Differisce dall'asprezza, dall'autorità, dalla
durezza e dalla severità. V. queste voci. RicoRE (dise. e prat.), severità di
giu dizio o di volontà, che non si piega per qualunque altro motivo, fuor di
quello che crede conforme a precetti della logica, o della legge. RIMA (disc.),
consonanza, o armonia procedente dalla medesima desinenza del verso V. questa
voce, - 400 - È uno de caratteri che distinguono la poesia delle moderne
nazioni da quella degli antichi, i quali facevano nascere l'armonia del versi
dalla diversa quantità delle sillabe, variamente disposte e non dalla
uniformità del loro suoni finali. Per noi la rima forma parte dell'armonia del
linguaggio poetico, senza formarne un re I rimordimenti della coscienza son la
pena ausiliaria, imposta dalla natura a quelli che nascondono agli altri il
delitto e nasconderlo non possono a se medesimi al che si riferisce il bel
detto di Epicuro: Potest nocenti contingere ut lateat, la tendi fides non
potest. Comentando un tal detto, Seneca soggiungne: Mum quam quisito
essenziale: è un ornamento della fides latendi fit etiam latentibus, quia
poesia ma sarebbe un vizio della prosa. V. Poesia. RIMEMBRARE e RIMEMBRANZA
(spec. ), l'avere in memoria. Esprime la funzione, che la memoria esercita, quando
rinnova una notizia, che sa di possedere. Il suo significato non è affatto
identico del ricordare, e del ram mentare, perchè ambe queste voci pos sono
dinotare l'atto del richiamare alla me moria un obbietto, che ne sia già
uscito, e che vi ritorna per l'associazione delle idee o per la reiterazione
dell'apprensione; laddove il rimembrare è d'una idea che è nel serbatorio della
memoria, comechè in atto non presente. In questo senso usolo Dante più volte,
come nel verso, Ancor me'n duol pur ch'i me ne rimembri; (Inf. c. XVI. ). e nel
trentesimo canto del Paradiso: Che come sole il viso che più trema, Cosi lo
rimembrar del dolce riso La mente mia da se medesma scema. V. Rammentare,
Ricordare. RiMoRDIMENTo e RIMoRso (spec. e prat.), rimprovero della coscienza
per lo mal fatto accompagnato dalla tristezza dell'anima, e dal timore della
pena. V. Coscienza, Pena. - eoarguit illos conscientia, et ipsos sibi ostendit.
Proprium autem est nocentum trepidare. Male de nobis actum erat , guod multa
scelera legem et judicem effugiunt, et scripta supplicia. nisi illa naturalia
et gravia de praesentibus sol verent, et in locum patientiae timorce deret
(Epist. 97). RINoManzA e RINoMINANZA (prat. e dise,), celebrità del nome. È
diverso dalla fama, e dalla riputa zione, che presuppongono un merito ri
conosciuto, comechè questi due vocaboli differiscano anche fra loro. V. Fama ,
Riputazione. RIPENSARE ( spec. ), richiamare alla mente un obbietto, intorno al
quale si è altra volta pensato. È il ripetimento del pensiero, diverso dal
riflettere, che allude all'investigazione delle qualità dell'obbietto già noto.
Così il Petrarca disse: Ch'i no'l so ripensar, non che ridire, e in altro
luogo: Che pur il rimembrar par mi consumi, Qualora a quel di torno ripensando.
(Son. 184 e 2 19.). - 401 - I nostri antichi scrittori usarono ancora questo
verbo al neutro passivo, nel senso di mutar pensiero, o di pentirsi. V. Ri
flettere, RIPoso (spee. e prat.), il cessare dal moto, dalla fatica, o
dall'operare. . Si trasporta dall'uso delle membra del corpo all'azione
dell'anima, e di qualun que delle sue facoltà. Nella nostra lingua, differisce
dalla quiete, che esprime lo stato naturale dei corpi, che non sono in
movimento; lad dove il riposo esprime propriamente il fer marsi, e il restare
da uno stato contrario. V, Quiete, - -- i - - - - - - RIPRODUZIONE (spee. ),
potenza rinno vativa del proprio essere, impressa dalla natura negli animali e
nelle piante. E vocabolo da'naturalisti adoperato tan to per denominare la
generazione comune ed omogenea, quanto per dinotare quella particolare,
eterogenea, propria a talune piante ed animali, i quali per una virtù impressa
nelle parti del loro corpo si mol tiplicano per via di germogli e d'innesti.
Nel primo significato suol essere appli cato alla generazione degli ovipari, e
spe zialmente depesci, a quali la natura sem bra aver dato una fecondità, non
sola mente prodigiosa per la moltiplicazione, ma ancora singolare per rispetto
alla coo. perazione de sessi. Imperocchè i pesci in generale sembrano obbedire ad
una natu rale impulsione, per la quale gli organi della generazione son messi
in movimento senza alcuna intervenzione di quell'appe tito sensitivo, che nelle
altre spezie fa in chinare un sesso verso dell'altro; ond'è che il concepimento
e la fecondazione delle nova, al rinnovarsi di ogni stagione av. viene quasi
per fatto della sola natura. Da ciò ancora segue, che corrispondendo gli
effetti alla loro causa, gli Esseri ge neratori, a guisa di meccanici
operatori, non conoscano i generati, nè prendano di loro alcuna cura. - -
L'analisi e la descrizione degli organi della generazione nepesci; i caratteri
di scernitivi de sessi, distinti nella generalità l'uno dall'altro, e talvolta
ancora confusi negli ermafroditi i formano uno del più importanti obbietti della
zoologia. Le va rietà nelle forme e ne modi della ripro duzione sono
proporzionate al prodigioso numero delle spezie del pesci, degl'in setti e de
zoofiti che popolano il mare e i fiumi. Lo stesso è della conformazione degli
altri organi destinati alle diverse funzioni della loro vita. Nelle acque, le
quali coprono la maggior parte del glo bo, faceva uopo che la natura avesse
accresciuto i mezzi della moltiplicazione, sì che l'immensità degli animali
aquatici star potesse in proporzione co terrestri. V, Pesce, - - - - - - - -
Quanto poi al secondo significato, cioè della generazione spontanea, ammessa
sem pre la necessità del principio vitale gene ratore, pare che la natura
l'abbia stabilita come un mezzo della propagazione delle in fime spezie; nel che
avrebbe ella seguito quella stessa legge di continuità, la quale ha regolato la
gradazione di tutti gli Es seri organici ed animati, non esclusi gl'in setti, e
gl'infusori sparsi per l'aria, per la terra, e per lo mare. V. Generazione,
Infusoria, lnsetto, RIPUTAzIoNE. V. Reputazione. - - Rimir (prot.), chi è
capace del riso. V, questa voce. 51 - 402 - RisIBILITÀ (prat.), la proprietà
che l'uomo ha di ridere. - - º È voce usata dal Magalotti, il qual osservò che
la latrabilità del cane corri sponde alla risibilità dell'uomo, compara zione
falsa, perchè i latrati del cane non sono certamente segni del diletto, com'è
il riso nell'uomo. Che se le passioni del l'uomo, e il linguaggio d'azione, che
la natura gli ha dato per manifestarle po tessero entrare in comparazione colle
voci istintive del bruti; il nitrir de cavalli, il canto degli uccelli, e le
voci di allegrez za, che mandan fuori taluni altri animali, presenterebbero
maggior somiglianza col riso, che il latrare del cani. a - º Riso (prat. ),
molo volontario della bocca e degli organi della voce, cagio nato dalle
piacevoli emozioni. E una proprietà dell'uomo, la quale nasce da una particolar
disposizione dei muscoli del suo viso: è una parte del linguaggio di azione,
per lo quale ma nifesta nel volto gli affetti del piacere, o del dolore ch'egli
prova: l'uno è rappre sentato dal riso, l'altro dal pianto: ambo questi segni
formano il principal carattere, di quel che diciamo volto, che pur è una
privativa proprietà dell'uomo: è al pari del pianto un moto quasi istintivo,
che la volontà non può affatto contenere, onde Dante disse: - a - Che riso e
pianto son tanto seguaci - Alla passion da che ciascun si spicca Che men seguon
voler ne più veraci - - (Purg. C. XXI.). V. Pianto, Volto. - e Gli antichi
credevano, che i fanciulli, i quali venivano alla luce col riso sulle labbra,
fossero i prediletti figliuoli della divinità. E però narravasi di molti grandi
uomini, che venendo al mondo, avessero riso, quasi per prenunzio di loro felice
sorte; ma era questa una superstiziosa cre denza, la quale fa dubitare ancora
della verità degli esempli che se ne adduceva no, comunque, ammessa ancora la
loro verità, nulla proverebbono. - º , º RisoLvERE e RisoLUzIoNE (prat.),
l'atto del la volontà per lo quale ognuno si determina all'azione, rimossa
qualunque dubitazione. º RisPETTo (prat.), sentimento amorevole di dipendenza
che si porta al genitore, al vecchio, e al superiore in dignità, civile o
morale che sia. Differisce dalla riverenza e dalla vene razione. V. queste
voci. e º - RIsponsABILE e RIsponsABILITÀ (prat.), obligazione per la quale
siam tenuti di accettare le conseguenze del proprio fatto. Son vocaboli presi
dal francese, ma me cessari alla filosofia pratica, e sono ado perati dal
Magalotti. - RITENITIvA e RITENTIvA (spec.), facoltà che ha la memoria di
serbare le idee acquistate. Vale buona reminiscenza , e scambiasi ancora colla
memoria stessa.V. queste voci. RITMo ( disc. e crit.), la distinzione
degl'intervalli eguali o diversi, così nel discorso, come nel canto. Cotesta
definizione è di Cicerone : di stinctio, et aequalium, et saepe vario rum
intervallorum percussio numerum conficit. (de Orat. lib. III.). In greco pºuos
vuol dire numero, o disposizione di parti messe insieme con - 405 - date
proporzioni, il perchè Platone defi nillo ordine del movimento (II. delegib.).
Il ritmo è diverso dal metro: è neces sario anche alla prosa: è essenziale
nella musica, nella quale le varie combinazioni degl'intervalli producono
l'innumerabile varietà delle modulazioni della voce, delle arie e del loro
motivi. I metri apparten gono privativamente alla poesia, ma for mano parte del
ritmo de'versi. V. Metro, Musica, Verso. RoMANTIco (erit.), nuovo genere di poe
sia e di gusto, che richiama a vita le bel» lezze e le forme della età di
mezzo. È un dono, che ci vien dall'Alema gna, e che trae origine dalla politica
situa zione, nella quale trovossi quella nazione al cominciar del secolo
decimonono. De pressa allora da un giogo straniero, vo lendo risvegliare
l'antica energia de suoi figli, fece loro risovvenire la virtù, i co stumi, e i
resti ancora di barbarie, che gli rendettero temuti e forti al tempo in cui
fioriva il germanico impero. Convennero i dotti nel pensiero depolitici, e
studia ronsi di accendere l'immaginazione del popolo per la via del dilettevole
e del fan tastico; e però andaron cercando il bello, il grande, e il sublime
nel canti, e nelle rapsodie dell'epoca, che ripresentar vole vano come il loro
tempo eroico. Il Mie belungen-leid salì alla prima sfera de'poe mi epici: nelle
passioni di quella età raf figuraronsi tutti i caratteri della virtù mi litare
e della grandezza d'animo: ne fa volosi racconti delle prodezze militari e
cavalleresche, che alimentar solevano la fantasia del volgo, si videro i
ritratti d'un popolo libero e geloso della sua indipen denza: nelle arti stesse
parve bello tutto quel che piaciuto era ad uomini di sì no bil tempera, e che
ne ricordava le geste, Laonde la poesia ornossi delle immagini e del caratteri
dell' antica cavalleria , e furono rinegate tutte le regole di ragione e di
esperienza, sulle quali il gusto erasi andato formando nel lento passaggio, che
le nazioni avevan fatto dalla barbarie del quinto secolo, insino alla somma
civiltà del decimottavo. Le restrizioni, che le cennate regole avevano messo
alla licen ziosa fantasia, e nelle quali era riposta la comune misura del bello
e del verisi mile, furon dichiarate nemiche della li bertà del pensiero, e del
genio della in venzione. L'architettura, e con essa tutte le arti meccaniche,
tornò a ripudiare le belle forme greche e latine, in grazia del così detto
gusto gotico. Le linee curve parvero più belle delle rette, e le figure
irregolari più variate delle regolari. Tutto in somma prese la tinta e le ombre
del decimoterzo secolo, ed acciocchè le figure degli uomini d'oggidì non
fossero diverse da quelle di allora, le ispide barbe tor narono a coprire il
volto loro. Ma ciò non rimase all'Alemagna. L'amor della imi tazione e della
moda trasportò il medesi mo gusto presso le altre nazioni, e corse tra la
gioventù il grido, che in questo consistesse il rinnovarsi. Del resto la moda È
un vento, che porta e diffonde i ca pricci della fantasia, colla stessa mobili
tà, colla quale gli scaccia e li disperde; e d'altra parte la sua forza non è
tale che vincer possa la costante azione del tempo e della ragione. D'onde poi
a co testo genere di poesia e di gusto sia ve nuto il nome di romantico, se
dalla lin gua che parlavano gli eroi della età di mezzo, o dalla credibilità
del fatti e dei costumi loro, lo discifrerà l'articolo che segue. - º - 404 -
RoMANzo (crit.), favoloso racconto di prodezze, o di altre straordinarie
azioni, scritto col fine di dilettare e spandere nel volgo l'amore del
maraviglioso. Tal sarebbe la definizione del romanzo, se il suo significato
riferir si volesse al l'origine del nome, o se considerarsi voglia qual è stato
insino al secolo deci moltavo, dal quale tempo in poi comin ciossi a dare a
questa sorta di compo sizione uno scopo morale, ed istruttivo. Non è già che
gli antichi non conoscese sero cotesto genere di novelle, che anzi da essi
abbiamo i belli esemplari, e pos siam dire i primi tipi delle favole, delle
novelle d'ogni sorta, e de romanzi ama tori, pastorali, giocosi e morali. Tali
sono, gli amori di Dinia e Dercille di Antonio Diogene, de quali abbiamo un
estratto nella biblioteca di Fozio; gli amori di Teagene e di Cariclea di
Eliodoro, gli amori di Dafni e Cloe di Longo So fista, l'asino d'oro di Apuleo,
e nel ge nere del romanzi morali, la Ciropedia di Senofonte, che per la nobiltà
dell'argo mento, per la qualità dello scrittore, e per l'utilità del suo scopo,
sta in cima a tutti, e meriterebbe essere collocato in una classe dagli altri
diversa. Ma uopo è in primo luogo separare le novelle e le favole dal romanzo,
sotto il quale nome noi siam soliti comprendere una spezie di poema vestito di
episodi, il quale mentir vuole le apparenze della sto ria. Ed in secondo luogo
conviene distin guere da tutti gli altri generi testè cennati il romanzo
cavalleresco, al quale servi ron di argomento le armi, gli amori, e le giostre
dell'antica cavalleria, e che fu così denominato dalla lingua romanza o
provenzale. In questa lingua furono scritti i primi saggi di simili produzioni,
i quali formarono la delizia della corte de'conti di Arles, che dal decimo al
duo decimo secolo dominarone la Provenza e la Catalogna. E siccome cotesta
epoca è per lo appunto quella de trovatori, così essi possono esserne
considerati gl'inventori; lasciando agli eruditi la controversia, se più antica
ne sia l'invenzione, e se sia an cor questo un merito dell'araba letteratura.
Certamente alla cennata epoca apparten gono i più antichi romanzi, che ora noi
conosciamo ; come quel di Turpino, il quale narrò le sventure dell'esercito di
Carlo Magno a Roncisvalle, dove cadde estinto il famoso Orlando, e di cui Dante
scrisse: Dopo la dolorosa rotta, quando º Carlo Magno perde la santa gesta, º
Non sono si terribilmente Orlando, º - (Inf. c. XXXI). - - s - , i Dalla stessa
origine provengono i Reali di Francia, il Guerrino di Durazzo, detto ancora il
Mesehino, la Tavola ri tonda, ed il famoso Amadigi di Gaula, che meritò il
doppio onore di essere tra dotto in bel metro italiano da Bernardo Tasso, e di
essere altamente commendato dal grande Torquato suo figlio. Il maraviglioso e
il fantastico, che più raccomandò cotali scritti a quella rozza e credula età,
era raccolto da canti detrova tori, dalle favolose cronache dell'ottavo e del
nono secolo, e dagl'incantesimi delle arti magiche, cotanto allora in onore.
Ciò non ostante di questo maraviglioso fe cero poi tesoro i nostri moderni
poeti, e da esso tolsero a presto le immagini e i fiori de quali ornarono le
geste degli eroi, quasi in supplimento del mitologico del paganesimo, di cui
non potevano più servirsi. Non vogliamo noi tessere la sto – 40ò - ria di tali
bizzarri prodotti dell'umana fantasia, della quale chi avesse vaghezza
consultar potrà l'origine de romanzi del l'Uezio, o l'erudito quadro datone dal
Fon tanini, nel primo libro della eloquenza italiana. Quel poco che ne abbiamo
quì accennato può giovare a meglio conoscere le origini della moderna poesia, e
i caratteri che la distinguono dall'antica. V. Poesia. A più nobile fine il
gusto della mo derna letteratura indirizzò i romanzi, fa cendone una scuola
della vita, di che il primo onore è dovuto all'illustre autore del Telemaco,
che abbellì col suo incan tevole stile qualunque argomento prese a trattare.
L'esempio suo servì di spinta a molti belli e grand' ingegni per entrare, nella
stessa arena, sì che l'amor del ro manzo parve che soppiantasse quello della
comedia: da grandi ingegni passò a me diocri, e divenne il favorito studio
delle donne di colto ed ameno spirito. Lasciamo tuttociò alla storia della let
teratura, ma vuolsi soltanto notare che dalla moltiplicità e quasi dalla nausea
dei romanzi, è nato a nostri giorni un nuovo genere, nobilissimo per
l'argomento, ed utile sopra ogni altro all'arte della imi tazione, il così
detto romanzo storico, per lo quale basti citare i due grandi nomi di
Walter-Scott, e di Manzoni, ornamento e gloria della presente italiana
letteratura. Le vicissitudini, per le quali è passato questo genere di
composizione, e le tra sformazioni che ha ricevuto per la diver sità degli
argomenti che ha abbracciato, dimostrano che il nome non corrisponde più alle
qualità del subbietto. Laonde, se definir si volesse non il romanzo cavalle
resco del decimoterzo secolo, ma l'eroico, il morale, il giocoso o lo storico
del tempo presente, dovremmo chiamarlo un poema, una novella, o un'azione
verisimile, finta col fine di dilettare o d'istruire. V. Mo vella, Poema.
RoMoRE e RUMORE (spee.), impressione dell'aria sull'organo dell'udito, prodotto
dalla percussione del corpi che l'agitano, o violentemente la mettono fuori del
suo natural equilibrio. V. Aria. Riceve diverse denominazioni, secondo il
diverso grado di forza, con cui l'aria è agitata, e secondo la diversità della
sen sazione che produce. Allorchè l'impressione è ordinata e gradevole, come
nelle modu lazioni della voce e nelle vibrazioni delle corde e degl'instrumenti
armonici, prende il nome di suono. Nella comune accezio ne, il romore è un
contrapposto del suono, il quale esprime le sensazioni disaggrade voli,
moleste, o dolorose, appunto perchè disordinate e incomposte. V. Suono.
RozzEzzA e Rozzo (prat.), qualità di animo, rimaso nella natural semplicità, e
non ripulito da educazione: così Dante: Non altrimenti stupido si turba Lo
montanaro, e rimirando ammuta Quando rozzo e selvatico s'inurba. (Purg. C.
XXVI.). RUMINARE (spec.), riconsiderare, o rian dar colla mente quel che si è
una volta pensato, È un traslato dagli animali, a quali la natura ha dato il
potere di fare tornare dalla cavità della gola nella bocca il cibo ingoiato.
RUVIDEzzA e RUvIdo ( prat.), qualità d'uomo privo di qualunque gentilezza. È un
traslato di quel corpo che non ha superficie pulita, o liscia. 7 - 407 - CLASSI
DE vocABoLI COMPRESI SOTTO LA LETTERA R. FILOSOFIA CRITICA, Radice Ridicolo
Ragione Riflessione Razionalismo Ritmo Regola Romantico Retorica -. Romanzo
Ridevole VOCI ONTOLOGICHE, Reale Relativo Realità e Relazione Realtà -
FILOSOFIA SPECULATIVA, Raccoglimento Radice Ragionamento Ragionare Ragione
Rammemorare Rammentare Rapporto Rappresentare Rappresentativo Rassimiglianza e
Rassomiglianza Razionale Reale Realità e Realtà Reazione Reflessione Refrazione
Regola Relativo Relazione Reminiscenza Remissione Repulsione Resistenza
Respirazione Retina Rettile Riconoscenza e Riconoscimento Ricordanza e
Ricordare Riflessione Rimembrare e Rimembranza Rimordimento e Rimorso Ripensare
Riposo Riproduzione Ritenitiva e Ritentiva Romore e Rumore Ruminare FILOSOFIA
DISCOREIVA, º FILOSOFIA CRITICA, Radicale Relazione Ragionevole Riprezzo Radice
Retore Rallegranza Ricadia Ragionamento Ridevole Rammaricamento e Ricchezza
Ragionare Ridicolo Rammarico Ricompensa Ragione Rigidezza Rampogna e
Riconoscenza e Ragionevole Rigore - Rampognamento Riconoscimento Rammemorare
Rima Rancore Ridere - Rappresentare Rinomanza e Rancura Ridevole -
Rappresentativo Rinominanza Rassegnazione Ridicolo Raziocinio Ritmo
Rassimiglianza e Rigidezza n Relativo - Rassomiglianza Rigore - Relativo
Rimordimento e teoLocIA NATURALE. Relazione Rimorso Remunerazione e Rinomanza e
Raccoglimento Religione , Rimunerazione Rinominanza - Reprensione e Riposo r .
- - Riprensione Risibile - Reprobo Risibilità - e Reputazione e Riso -
Riputazione Risolvere e - , Rettitudine e Risoluzione a Retto - Rispetto
Reverenza e Risponsabile e Riverenza Risponsabilità : Riamare Rozzezza e
Ribalderia e Rozzo Ribaldo Ruvidezza e Ribrezzo e Ruvido S Sea e SAGAcità
(spec.), qualità d'ingegno pronto in iscoprire le relazioni degli obbietti
percepiti, in discernere il vero dal falso, e in giudicare secondo i dettami
della prudenza. Differisce dall'acume, che esprime sol tanto la penetrazione,
astrazion fatta dalla maturità del giudizio, V. Acume, Pru denza. SAGGIo (spee.
dise, e prat.), sostantivo, picciola parte tolta dall'intero, per farne pruova,
o mostra, Si applica alle produzioni del pensiero e delle scienze, e vale
sunto, cenno, o pruova di argomento, compendiosamente trattaſo. - In
significato aggettivo dicesi ancora savio, ed esprime qualità d'uomo che ordina
bene le cose sue, e ben si com porta verso degli altri. Dice men del sa piente
che alla rettitudine del natural giu dizio accoppia il lume della scienza, e
della prudenza. V. Sapiente. SALDEzzA. V. Solidità. SALE (spec. e crit.),
sostanza naturale composta , sparsa nelle acque del mare, nelle acque salse, in
molte sorgenti e la ghi, o in masse solide nascose nelle vi scere della terra,
nel quale stato prende il nome di salgemma, o montano. È uno de più importanti
suggetti delle osservazioni della Chimica, che ne ana lizza la composizione, e
della Mineralo gia la quale esamina le sue forme cristal line, insieme colle
qualità e cogli accidenti delle terre e degli strati, ne quali trovasi
depositato. SANGUE (spec.), fluido mutrimentale, che circola per le parti del
corpi animali, e di cui la composizione e gli accidenti sono stati dalla natura
adattati al diverso organismo, che costituisce le varie spezie di questi
Esseri. Il sangue, considerato per rispetto alle funzioni vitali che esercita
in ogni spezie di animali, è la massa nella quale vanno a confluire, e d'onde
derivano gli altri umori; è lo stimolo eccitatore della vita in tutti gli organi,
a quali somministra la nutrizione; è il liquido nel quale tro vasi disciolta la
sostanza di tutte le parti solide del corpo, e secondo l'espressione d'un
grande fisiologo, è una mucilagine animale plastica, la quale si spande per
tutti gli organi, e riceve in ciascun di essi una particolare modificazione.
Così considerato, l'umor bianco trasparente o latticinoso, che scorre per lo
sistema va sculare del molluschi, che umetta il pa renchima nutritivo
degl'insetti, e che pe netra nel vario tessuto de zoofiti, è un sangue come
quello che per mezzo del cuore circola per le arterie e per le vene de
mammiferi, degli uccelli, del rettili e depesci. V. queste voci. Diverso è
l'esame che la Fisiologia fa del sangue, e della sua circolazione; di verso
quello che ne fa la Chimica: l'una cerca di conoscere le leggi della economia
animale, di cui il sangue è il primo e principale agente: l'altra si prefigge
l'ana lisi de suoi principi costitutivi. La fisio 52 - logia principalmente
considera il maravi glioso sistema della circolazione del san gue, che abbiamo
accennato negli articoli arteria e cuore, e rileva le costanti e re golari
modificazioni, per le quali il san gue riceve sempre nuove parti nutrimen tali,
preparate dalla digestione e dalle fun zioni intestinali, spogliasi di quelle
che sono estranee o superflue alla sua natu rale composizione, e prende
dall'atmosfera per mezzo del polmoni quella virtù vivifi cante, la quale
rinnova in ogn'istante la vita. V. Arteria, Cuore, Polmone. La chimica dalla
sua parte analizza i componenti di questo fluido, qual è nel suo stato normale,
distingue il principio colorante dalle altre parti solide e liquide le quali
formano la sua massa, e giugne insino agli ultimi termini delle sue inve
stigazioni, alle sostanze cioè che non sono capaci di ulteriore scomposizione.
Così, dopo di avere separato il grumo dal sie ro, e nel grumo la fibrina dalla
materia grassa; scomponendo ciascuna di queste parti, perviene a determinare le
propor zioni, nelle quali vi si trovano combinati i primi elementi della
materia, come il carbonio, l'idrogeno, l'ossigeno, l'azoto; e a scoprirvi gli
altri elementi dell'orga nismo, già disposti a prendere le forme delle fibre,
de filamenti, e delle mem brane. V. queste voci. Per quanto le analisi chimiche
sieno insufficienti a scoprirci le vere parti ele mentari del sangue, sono non
pertanto utilissime non solamente per farci discer nere le sue alterazioni
morbose, dal che la medicina sopratutto ritrae grandissimo profitto; ma anche
per ispiegare le modi ficazioni, che riceve dagli organi, pe'quali passa, o dal
diverso vigore delle varie 'età della vita. Per niun'altra parte del
d'organismo l'applicazione della chimica alla economia animale è stata tanto
utile, quanto pel sangue; il che è un merito della moderna chimica, e de grandi
uo mini del secolo decimottavo, come Vau quelin, Parmentier, Deyeux e Fourcroy.
V. Medicina. a - SANITÀ (spec. e prat.), la naturale in tegrità delle parti e
delle forze ne corpi vitali. V. Corpo, Forza. E il vocabolo che esprime la condizione
normale d'ogni animale, giusta la desti nazione e i fini della natura, ed è con
trapposto d'infermità. V. Infermità. A rispetto dell'uomo, il concetto della
sanità comprende non solamente l'inte grità, ma anche l'equilibrio tra le forze
del corpo, e le potenze dell'anima. Il corpo è d'ordinario l'instrumento del
l'anima, ma talvolta è pure un impedimento all'esercizio libero delle facoltà
di lei. In tre modi può esserle d'impedimento, giu sta il divisamento della
filosofia socratica: o per le cure che prestiamo al nutrirci, o per le
infermità che ne alterano lo sta to, o per le perturbazioni degli affetti e
delle passioni. Della perfetta sanità dun que gode soltanto quell'uomo, in cui
le necessità e le forze del corpo sieno per modo rattemperate dell'anima, che
questa non mai perda il retto e libero uso delle sue facoltà. V. Affetto,
Facoltà, Passione. SAPERE (spec.), l'aver chiara e distinta cognizione di
qualche cosa. Usato sostantivamente, è il complesso dell'umana cognizione, nel
quale senso scambiasi colla scienza. V. questa voce. SAPIENTE (prat.), chi
pensa ed opera conformemente a dettami della ragione, - 411 - rischiarata
da'lumi della scienza, e della sperienza. V. questa voce. Secondo la
definizione di Seneca, do veva dirsi sapiente qui hilaris, placidus,
inconcussus cum diis ea pari vivit. Ma il sapiente degli stoici ostentar doveva
una virtù più che umana! - tre it º io a SAPIENZA (crit. spec. e prat.), la co
gnizione del vero, applicata a pratici por tamenti della vita. . Distinguesi la
sapienza in naturale e acquistata. - La naturale o comune è quel retto sen tire
e giudicare, dato alla generalità degli uomini, acciocchè potessero comporre i
pratici portamenti della vita alle regole del giusto e dell'onesto.
L'acquistata poi è la perfetta ragione, formata e sviluppata per la riflessione
e pe'l ragionamento. Il passaggio dall'una all'altra, è assai ac conciamente
esposto da Cicerone: ipsam per se naturam longius progredis quae etiam nullo
docente profecta, ab iis, quorum ea prima et inchoata intelli gentia genera
cognovit, confirmat ipsa per se rationem et perficit. Secondo Vico, la sapienza
naturale è un sentir comune a ciascun popolo, cui si adattano le azioni degli
uomini viventi in ciascuna società; o sia è un senso co mune, nel quale tutti i
popoli si accor dano. Di questa sapienza, siccome dice il cennato autore, gli
elementi son quelli che formano l'altra che dicesi acquistata. V. Senso. Gli
antichi distinsero la sapienza in volgare o esteriore, e in riposta o inter na,
che dissero acroamatica. Cotesta di stinzione presuppone una falsa sapienza
volgare radicata nella moltitudine, che de esser corretta dalla riposta. Ma
qual garantia poteva dar l'umana ragione della sapienza riposta, se era ella
stessa l'au trice della volgare? V. Aeroamatico. Uno non pertanto è il
significato, dato comunemente a questo vocabolo così da gli antichi come da
moderni, il complesso cioè delle conoscenze speculative, diretto al fine di
discernere il vero, e di scegliere il bene, cui la vita è stata dalla natura
indirizzata. Non è la sola scienza, figlia dell'intelletto, ma è l'intelligenza
stessa, rischiarata dallo studio di se medesimo, dalle lezioni della sperienza,
e da quel l'abito di sano giudizio e di costante vir tù, cui diamo il nome di
prudenza. Tal sembra che fosse, nel pensier di Cicero ne, quella universal
filosofia, di cui egli scrisse le lodi in un libro (l'Ortensio), che più non
abbiamo ; filosofia da una parte invisa alla moltitudine, che in essa vede un
molesto censore degli abiti e dei piaceri della vita sensitiva ; e dall'altra,
lacerata dalle vane disputazioni delle scuole e delle sette del così detti
filosofi. V. Fi losofia, Prudenza, Scienza. SAPoRE (spee.), la sensazione che
pro ducono nel palato i cibi, e tutto quel che per la bocca s'introduce nello
stomaco. Mediante questa sensazione, il palato e la lingua sono gli organi
regolatori del l'istinto degli alimenti, che la natura ha dato a tutti gli
animali per la conserva zione della vita. Loro compagno è l'odo rato, che anzi
può dirsi precursore, per chè gl'invita a cibi che la natura ha pre disposto
per la condizione d'ogni animale, e li distoglie da quelli che le sono con
trari, V. Istinto , Odorato. I fisiologi han distinto i sapori semplici da
composti, e ne han dato una certa nu merazione. Per semplici intendon quelli sr
- 412 – che producono una sensazione uniforme ed omogenea, accoppiando insieme
i sa pori contrapposti, come l'amaro e il dolº ce, l'agro e il salso; il caldo
e il freddo, l'aromatico ed il nauseoso, il molle, morbido, untuoso, ed il
duro; il pene trante, lo stupefaciente, l'astringente, il pungente. Per
composti poi intendon quelli che danno una sensazione mista di più sapori
semplici, come l'austero che è astringente e amaro insieme, l'acerbo, che è
astringente ed agro; l'acido che è pungente e caldo; il muriatico, che è salso
e pungente; il rannoso, che è salso, pungente e caldo; il nitroso, che è salso,
pungente e caldo. Coteste spezie diverse di sapori indicano le differenze
principali e caratteristiche di talune sostan ze, che giova distinguere per
l'uso delle arti, della medicina, della chimica; ma non ci danno veruna idea
chiara della natura del sapore. D'altra parte è tanto difficile il distinguere
in esso il semplice dal composto, quanto l'è nell'odore. Chi potrebbe scomporre
le impercettibili grada zioni desapori e degli odori i più dilicati? Intorno al
sapore i metafisici han fatto le stesse quistioni notate già per le altre
sensazioni, che non nascono da una qua lità inerente e comune a tutte le cose
ma teriali. Il sapore è nella materia saporosa, nel mezzo per lo quale passa,
ovvero nello stesso organo che sente? Diciamo lo stesso che abbiam detto
dell'odore, e delle altre qualità secondarie della materia. Non è nel corpo
saporoso, nel senso che questo non gusta se stesso, non è nell'organo sentente,
perchè il sapore proviene da una causa e da una impressione estranea; non è nel
mezzo, perchè questo nulla dà del suo, ma accompagna quel che riceve, e lo
trasmette. Nasce dunque da una pre disposizione data dalla natura alle
particelle e alle molecole de corpi saporosi nelle quali sta l'azione del
sapore ; siccome la sensazione sta nella predisposizione data dalla natura
all'organo del palato per ri ceverne l'impressione. Chi pretende saper più di
questo, penetrar vorrebbe nel segreto della natura.V. Odore, Materia, Qualità.
SATIRA ( crit. prat. e disc. ), poema mordace, che riprende i vizi e le follie
degli uomini. Gli eruditi han disputato intorno alla etimologia del vocabolo, e
al primo in ventor di questo genere di poesia. Il mag gior numero de'dotti lo
deriva dal greco, e crede che il nome gli sia venuto dalla voce carvpo
(satyri), silvane deità, delle quali il carattere era la disonestà e la pe
tulanza, e però licenziose e motteggiatrici. Tra questi sono, lo Scaligero,
l'Heinsio, e il Vossio. Altri, come il Casaubono, Spanemio, e il Dacier, lo fan
venire da nomi latini satur e satura, che vor rebbe dir cosa piena di vari e
molti in gredienti. I primi riconoscono da Greci i primi tipi di questa sorta
di componimenti, i secondi fanno della satira romana una spezie diversa dalla
greca. Noi crediamo che la satira sia nata insiem colla come dia, e che di esse
ognuna abbia preso in ciascun popolo una tinta relativa a costu mi, alla
cultura, e al gusto del tempi, ne quali è stata introdotta; sì che tra la
satira greca e la romana non ammettiamo altra differenza, se non quella che
passa tra la vecchia e la nuova comedia, o sia tra la dura e rozza detrazione,
e la de licata riprensione del vizio. Ciò non ostante i Romani dieronsi il
vanto d una satira propria diversa dalla greca, di cui disse Quintiliano:
satyra - 415 - guidem tota nostra est, in qua primus insignem laudem adeptus
Lucilius (Instit. Orat. lib. X. Cap. I.). Questi è quel Lucilio, cui anche
Orazio aveva dato il primato trai poeli satirici: - cum est Lucilius ausus
Primus in hune operis componere carminamorem. (Sat. I. lib. II.). Ma Orazio nel
dare a Lucilio la lode di essere stato il primo ad ingentilire questa spezie di
poema, e di avere sbandito la durezza e la licenza del versi saturnini e
fescennini, non lo diede come l'inventore d'una nuova maniera di salire, che
anzi sembra non aver mai dato, in ogni ge nere di lettere, altra lode a suoi
concit tadini, se non quella d'una felice imita zione. Checchessia di tale
controversia, che conviene riservare agli eruditi, i partigiani della satira
romana, ne fecero una tri plice partizione, distinguendo la narra tiva dalla
drammatica, e questa dalla varroniana, o menippea. Narrativa, dissero esser
quella, nella quale il poeta stesso parlando riprende, taluni vizi, di che
vedesi l'esempio nella prima delle satire di Giovenale: per dram matica
definirono quella trattata per dia logo: varroniana o menippea chiamaronº
quella tramischiata di verso e di prosa, di greco e di latino, e di versi di
vario metro. A questa spezie di satira possono riferirsi il poema di Seneca
intorno alla morte di Claudio, il Satyricon di Pe tronio, i dialoghi di
Luciano, l'asino doro di Apuleio, e i Cesari dell'impera tor Giuliano. Ma
vuolsi quì anche notare, che in ognuna delle tre divisate spezie i Romani
ebbero antecessori tra Greci. Una simile partizione, desunta dalla diversità
della locuzione o de metri sembra men propria di quella fondata nella natura
dell'argomento, il quale porta seco un carattere, uno stile, ed un gusto
proprio del suggetto, che il poeta abbia scelto. E però più plausibile sembra
la partizione de moderni, che distinguono la satira grave o seria dalla
giocosa, la quale può essere suddivisa nella dilettevole, o ridi cola, dagl'Italiani
detta anche bernesea. SATIRICo (crit. prat. e disc.), carattere di mordacità,
che può darsi ad ogni di scorso, poema o rappresentazione, la quale si veste
delle forme della satira grave, gio cosa o bernesca. V. Satira. SATURNo
(spec.), uno de primari pia neti, tra quelli conosciuti dagli antichi il più
lontano dalla Terra e dal Sole, ed il più lento degli altri nel suo corso. V.
Pianeta, Sole, Terra. Questo pianeta risplende con una debole luce, per la sua
grande distanza, come chè sia il secondo per grandezza, essendo Giove il primo.
Il suo periodo, o sia il tempo che impiega nel rivolgersi intorno al Sole (il
che potrebbe essere denominato suo anno), è di 29 anni e mezzo circa, e
propriamente di 1o759 giorni, cinque ore, sedici minuti, e trentadue secondi.
La sua distanza media dal Sole è di 228778 rag gi terrestri; la proporzione del
suo diame tro a quello della Terra, è come 1o a 1. Un anello circonda il suo
mezzo, a guisa d'un arco, o d'un orizzonte senza toccarlo in nessun luogo. ll
diametro di cotesto anello è più del doppio di quello del pia neta; dacchè
l'uno contiene 23 diametri della Terra, e l'altro ne contiene soli 1o. È
notabile che un sì grande volume contenga in proporzione pochissima massa,
dapoichè la densità di Saturno è appena - 414 - l'ottava parte di quella della
Terra, per Da prima la scena non significò altro, modo che la materia
costitutiva del pia neta è poco più pesante del sughero. No tabile ancora è,
che nel 1781 Herschel scoprì il pianeta Urano, invisibile ad oc chio nudo, il
quale trovasi ad una distanza dal Sole, quasi doppia di quella di Sa turno.
Serva ciò di argomento per con cepire l'immensità de cieli. - SBALoRDIMENTo
(prat.), perdita o so spensione del sentimento. Dicesi propriamente della
interdizione, in cui cadono i sensi esterni per causa improvvisa. - - - È più
dello stupore, che rende soltan immobile l'attenzione. V. Stupore. SBEFFEGGIARE
(prat.), peggiorativo di beffeggiare, perchè oltre al far villania, contiene
una manifestazione di odio, di rabbia, o di disprezzo. V. Beffeggiare.
ScEGLIERE e SCELTA (spec. e prat.) , atto per lo quale la volontà si determina
ad una cosa, più che ad un'altra. È l'atto caratteristico della libertà mo rale
delle azioni, o sia del libero arbitrio. V. Libertà, Volontà. ScEMPIAGGINE e
SCEMPIATAGGINE (prat), sciocchezza, figlia di semplicità. Contiene un che di
diverso dalla balor daggine e dalla scimunitaggine. V. que ste voci. ScENA
(dise. e crit.), il luogo della rappresentazione d'un dramma, 0 il luogo nel
quale figurasi avvenuto il fatto che si rappresenta, O una delle parti nelle
quali suddivi desi il poema drammatico. che il luogo ombroso, nel quale gli at
tori eran difesi da raggi del sole, durante la rappresentazione. Un tal
significato cor risponde esattamente alla etimologia del nome, che vien da outa
umbra, onde co testo vocabolo è divenuto comune a tutte le lingue antiche e
moderne. In processo di tempo, quando i Greci e i Romani cominciarono a ormare
i loro teatri di pit ture, di dorature e di statue, la seena significò il luogo
publico, nel quale gli attori univansi per dare la rappresenta zione del
dramma. E siccome parve con-, veniente, che gli ornati fossero adattati al
genere dello spettacolo, così furon va riati per modo, che la scena della
tragedia figurasse l'esterna facciata d'un edifizio reale; quella della
commedia, strade e case cittadine; e quella de'drammi satirici, selve, monti,
spelonche, o aperte cam pagne. Per tal successivo progresso, vediamo, presso
gli antichi, la rappresentazione della tragedia far passaggio dal carro di
Tespi, a palchi adombrati di frondi, e per ultimo a teatri adornati da quanto
v'ha di più bello nelle produzioni delle arti imitative. Moderno affatto è il
significato, che oggi comunemente dassi alla scena, del luogo cioè in cui figurasi
essere avvenuto il fatto, che si rappresenta; e moderna per con seguente è la
forma che ora diamo alle nostre scene. Cotesta nuova forma aggiu gne certamente
verisimiglianza alle azioni rappresentate, spezialmente pe continui ed
istantanei cangiamenti di scene, che ac compagnano per sino gli accidenti delle
stesse azioni. Per sostenere una tal verisi miglianza, nacque la regola della
unità del luogo, la quale vietava, che la scena si trasportasse da un luogo
all'altro. - 415 - i Che debba pensarsi di questa regola, e delle altre due
unità, le quali hanno per secoli formato il principal canone delle azioni
drammatiche, lo diremo parlando della unità. V. questa voce. - des, Scenico
(erit.), ogni spettacolo teatrale, di qualunque natura esso sia. l . ScENoGRAFIA
(crit.), disegno in pro spettiva delle diverse parti d'un corpo, colle
rispettive loro dimensioni, quali ap pariscono all'occhio. Differisce
dall'ienografia che è l'arte di rappresentare il piano o la pianta d'un
edifizio. V. Icnografia. SCETTICISMo (crit.), dottrina di chi du bita della
veracità del sensi, e della rea lità delle opere della natura. Una cotal
dottrina è l'errore del filosofo, e non dell'uomo; perchè nasce dall'abuso del
ragionamento scientifico, e ripugna all'evidenza naturale e al senso universale
dell'umanità. È dunque un parto de so fismi della falsa scienza. Noi abbiam
detto, come nascesse tra gli antichi, tra quali fu denominato pir ronismo.
Vediamo come rinascesse trai moderni. Cartesio riaperse senza volerlo il varco
allo scetticismo, avendo presnp posto che tutte le nostre facoltà, tranne la
sola coscienza, potessero essere fallaci, e che ogni verità la quale nascesse
da tutt'altra sorgente, dovesse essere dimo strata. E siccome credette, che la
sola verità la quale riposa sopra l'infallibile testimonianza della coscienza,
fosse l'io penso, l'io esisto, così fece di questo principio il fondamento
unico della cer tezza intuitiva. V. Io, Pirronismo. Non negò Cartesio
l'esistenza del mondo materiale, ma la credette dimostrabile per un argomento
indiretto, qual è quello che i sensi non possono essere fallaci, perchè ci
vengono da Dio, incapace d'in gannare. I suoi seguaci ritennero il prin cipio,
ed impugnarono la sua dimostra zione. Ma come avrebbe potuto Cartesio difendere
la certezza della coscienza, se taluno l'avesse rivocata in dubbio per quello
stesso argomento, per lo quale du bitò egli della realtà delle sensazioni ? 0
il suo dubbio diroccava tutto l'edifizio della natura, o la certezza desensi
esterni non poteva essere diversa da quella del senso interno. V. Coscienza.
Malebranche trovò poco concludente la dimostrazione indiretta dell'esistenza
del mondo materiale, e rifuggissi nella rive lazione, la quale ci rende certi
della sua realità, dal che trasse la conseguenza, che noi veggiamo tutto in
Dio. Locke riconobbe l'esistenza della natura esteriore, e protestò contra la
dottrina degli scettici; ma collocò la certezza delle sensazioni in una sfera
inferiore alla in tuitiva ed alla dimostrativa, senza deter minarne il grado. Secondo
il suo concetto, la certezza desensi riposa sopra la fidanza che aver dobbiamo
in Dio (nel che av vicinossi a Cartesio), e sopra la necessità di considerarla
come una legge costitutiva della natura umana, nel che la fece in chinare più
verso la certezza relativa. V. Certezza. Berkeley negò assolutamente
l'esistenza del mondo materiale, avendo ridotto tutti i corpi a semplici idee.
Hume infine, nel trattato della natura umana, rovesciò ogni realità; non perchè
non riconoscesse quella del pensiero, ma perchè risguardò lo spirito come un
ente di ragione, o sia, come un Essere col - 416 - lettivo, rappresentato dalla
sola successione delle idee che ridusse tutte ad impressioni. In somma
dell'entimema di Cartesio accettò la prima parte cogito, e negò la seconda ergo
sum. V. Idea, Impressione. A tali assurdi non sarebbe trascorsa la filosofia
senza i due falsi presuppositi, che la coscienza garentisce la certezza del pen
siero e non quella desensi; e che lo spirito percepisce non gli obbietti, ma le
imma gini loro. O filosofia tu ti affatichi, non di rischiarare e di ampliare
l'umana co gnizione, ma di privarla della luce, che la natura le ha dato l
SCETTIco (crit.), quel filosofo, che se condo gl'insegnamenti della sua setta,
niente afferma per vero, e di tutto du bita. V. Dubbio. Dice lo stesso che
l'antico nome di pir ronista. Aulo Gellio spiega qual ne fosse la dottrina:
quos pyrrhonios philosophos vocamus, ii graeco cognomento scevrror appellantur.
id ferme significat quae sitores et consideratores, nihil enim de cernunt,
nihil constituunt, sed in quae rendo semper considerandoque sunt , quidnam sit
omnium rerum, de quo de cerni constituipue possit. Ae ne videre quoque plane
quicquam, nec audire pu tant, sed ita pati afficigue, quasi viº deant, vel
audiant; eaque ipsa quae affectiones istas efficiant, qualia et cu fusmodi
sint, cunctantur, atque insi stunt. (Noct. Attic. lib. II. c. 5), ScHEMA (grec.
sup.), figura o forma; vocabolo usato dagli antichi in vari sensi, ed ora di
niun uso nella filosofia. Kant richiamò a vita cotesto vocabolo, e denominò
schemi talune forme o tipi del pensiero, i quali si producono appli cando certe
nozioni a priori agli obbietti delle visioni empiriche. Una tale opera zione
esige, secondo lui, l'intervenzione d'una lega o amalgama, che le prestano le
così dette forme della sensibilità, cioè lo spazio e il tempo. Coll'ufizio, o
aiuto di questa lega escon fuori alcuni puri con cetti dell'intelletto, come le
nozioni della potenza, dell'azione, della passione, ed altre (V. il primo volume
di questi Saggi, a pag. 334). SCHEMATISMo (gree. sup.), significò presso gli
antichi il parlare figurato. Bacone si servì di questo nome per espri mere la
conformazione de corpi, e delle parti dell'universo; siccome chiamò me
taschematismo le naturali trasformazioni d'ogni corpo. Kant coerentemente al
significato, che avea dato alla voce schema, additar volle col derivato
schematismo l'arte logica, la quale dirige l'uso che l'intelletto dee fare
delle categorie, onde applicare le nozioni a priori alle rappresentazioni
sensibili. Della inutilità di questo vocabolo noi pensiamo lo stesso che del
precedente. SCHERNo (prat.), atto di disprezzo e di ludibrio insieme. SCHIAvrrù
e SCHIAvo (prat.), condizione inumana, che trae la sua origine dalla guerra, e dall'abuso
della forza. È la servitù degli antichi, riprodotta da popoli barbari, ed
accettata dalle na zioni incivilite, prima per una reciproca zione del diritto
della guerra, ed indian cora per una vile speculazione di traffico e
d'industria. Gli etimologisti, come il Vossio e il Menagio derivarono la voce
schiavo da – 417 - sclavus, nome d'un popolo della Scizia europea, condannato
da Carlo Magno ad una perpetua prigionia. Cotesta etimologia spiegherebbe
l'uniformità del nome che gl'Italiani, i Francesi, gl'Inglesi e i Te deschi han
dato alla medesima idea. Del resto a noi pare, che nella origine del nome poco
o nulla entri lo stato di compressione, in cui Carlo Magno tenne i popoli della
Schiavonia ; e che basti a spiegarla il costume ch'essi tennero di vendersi, e
di far traffico delle stesse loro persone; costume comune a Negri dell'Africa,
che suscitò nelle colte nazioni eu ropee la speculazione di comprare la vita e
le forze di questa disgraziata razza uma na, per addirla a penosi lavori delle
mi niere, e della loro industria coloniale. Senza la schiavitù volontaria, alla
quale i barbari si condannano, e senza la legge di forza che rende tra essi
legittimo un tale traſſico; la servitù una volta proscritta non avrebbe potuto
rinascere tra popoli cristiani. La stessa servitù della gleba, portataci da
barbari nostri invasori, co mechè diversa dalla servitù personale degli
antichi, è scomparsa dinnanzi al chiarore della cristiana civiltà. Che se
qualche suo resto trovasi ancora annidato in taluni ri moti luoghi dell'Europa,
non è chi non convenga della necessità di farla intera mente svanire, e non
l'attenda dalla sa pienza del legislatori, a quali la sorte di quei popoli è
affidata. Una pruova, che senza la schiavitù volontaria del popoli i quali
vendono le loro persone, non sarebbe mai nato il traffico degli schiavi, è la
fatica che oggi si dura ad estirparla; da poichè la faciltà di comperare una
tal merce è quella che principalmente alimenta la speculazione di coloro, i
quali non san no rinunziare all'abito dell'antico lucro. Cotesto fatto serve di
pruova ad una verità più generale, cioè che la schiavitù come l'oppressione
sono un gemino parto della depravazione, o sia dalla morale degradazione de
popoli. V. Servitù. ScHIETTEzzA e SCHIETTo (prat.), qualità d'uomo sincero che
mostra tutto quel che Sente. È una similitudine presa dal semplice, che non ha
mistura di parti diverse. ScienzA (spee, e crit.), chiara cono scenza delle
qualità d'ogni subbietto, ac quistata o per lo ragionamento, o per la sperienza
de propri sensi. V. Qualità, Subbietto. Aristotele definì la scienza, la cono
scenza d'una cosa, per quel che è in se medesima, e non per gli accidenti suoi,
di tal ehe si possa dire di cono scere il perchè sia cosi, e non altrimenti.
Cotesta definizione dice in sostanza lo stesso della precedente, ma si
riferisce alla essenza e alle cause delle cose, che imperfettamente, o per
nulla conosciamo. Ciò tanto è vero, quanto nel definire il vocabolo sapere si
valse egli de'medesimi termini: scire estrem per caussam co gnoscere, et quod
illius est caussa, et quod impossibile est aliter se habere. (poster, analyt.
lib. I.). Se tale fosse il significato della scienza, non potrebbe un tal nome
convenire se non alla conoscenza delle sole verità necessarie. Nel senso poi
d'un sistema di principi e di proposizioni, nel quale noi raccoglia mo tutte le
conoscenze acquistate intorno alle qualità e alle relazioni d'un subbietto
qualunque, lo stesso autore chiamò seien za la serie delle verità dimostrate
per sil logismo, e la distinse dalla opinione, sì 55 - 418 – che in queste due
classi collocò tutte le umane conoscenze. Certamente la scienza va ben
contrapposta alla opinione, ma uopo è avvertire che alla scienza si può
pervenire non per la sola via del sillo gismo, e della diretta dimostrazione,
nel che la partizione di Aristotele può essere risguardata come difettiva. Le
verità in tuitive, e le dedotte, per via della indu zione o del sillogismo,
formano la scien za, propriamente detta; ma a quesa de nominazione sogliam dare
un significato più o meno ampio, o sia uno generico e l'altro particolare. Nel
generico la scien za equivale alla cognizione, che è tutto l'umano sapere,
composto d'ogni sorta di conoscenze, secondo la diversa natura desubbietti, che
entrar possono nell'umana capacità. V. Cognizione. Nel senso particolare, più
comunemente usato, scienza vuol dire il complesso delle conoscenze teoretiche,
che noi possediamo in ciascuna parte dell'umano sapere, di sposto coll'ordine
più alto alla loro com prensione, o all'insegnamento. Tal è il significato che
le diamo, quando parlasi del numero e della partizione delle scien ze; e quando
trattasi di conoscere le re lazioni che esse hanno tra loro, o colle facoltà
dell'animo, dalle quali procedono. Locke ne propose la divisione in tre gran di
rami, che sono, la natura delle cose, l'uomo considerato come agente volonta
rio, e l'arte di comunicare agli altri le conoscenze acquistate intorno ad ambe
due i dinolati obbietti. Il primo abbraccia la cognizione di tutte le cose
materiali ed immateriali, le loro qualità, relazioni, e modo di operare: il
nome che gli conviene è quello di quotam, scienza della natura, di filosofia
naturale, presa nel più ampio senso, che comprende tanto la scienza dei corpi,
quanto quella degli spiriti, in cima a quali è lo stesso supremo Autor della
natura. Il secondo risguarda l'arte di ben indirizzare la volontà, o la potenza
attiva, al fine, nel quale la natura ha riposto la felicità dell'uomo: le
conoscenze che a questo ramo appartengono, versano circa l'applicazione delle
verità che ricaviamo dalle scienze speculative, e però è stata de nominata
etica, o sia scienza decostumi, che potrebbe ancora essere denominata rpaxrom.
Il terzo finalmente abbraccia la dottrina desegni, o delle parole per mezzo delle
quali formiamo e comunichiamo ad altri le idee: il nome che generalmente gli è
dato è di logica, ma potrebbe an cora ricever quello di omustartum, o sia
dottrina de'segni; imperochè di questi fa uso la mente per formare le idee, e
per comunicarle agli altri. Cotesta partizione è la più generica di quante
possano far sene, ed abbraccia in realtà i tre grandi obbietti dell'umana
cognizione; ma è più antica di Locke, ed è la stessa, di quella che proposero
gli antichi grandi maestri del pensare e del parlare, come Platone, Aristotele,
Zenone e Cicerone. Costoro ave vano tripartito tutte le umane conoscenze nella
filosofia naturale, nell'arte del ben civere, e nella dialettica. Vuolsi non
pertanto notare, che una tal partizione comprende propriamente lo studio del
pensiero e della parola, ma la scia fuori di se le conoscenze che acqui stiamo
per lo studio dell'esperienza, come la storia e l'erudizione; del pari che
quelle le quali nascono dall'applicazione deprin cipi e delle regole
teoretiche, come le arti. Da questa imperfetta partizione forse pro venne la
separazione tra le scienze e l'eru dizione, non che tra le scienze e le arti;
quantunque l'erudizione e le scienze deb - 419 - bansi prestare un vicendevole
soccorso, e le arti sieno figlie delle scienze, e sor genti feconde del loro
progressi. V. Arte, Erudizione. Per formare un quadro più compiuto delle umane
conoscenze, e per istabilire le relazioni e i legami che uniscono le une alle
altre, piacque a Bacone di rife rirle alle facoltà dell'animo, che le ge nerano
e nutriscono. Di qua, la sua famosa partizione delle conoscenze figlie della
MEMoRIA, della RAGIONE, e della IM MAGINAZIONE. Noi abbiamo già accennato le
difficoltà che si scontrano nel formare una esatta e categorica partizione di
tutte le umane conoscenze, e il falso concetto che nascer potrebbe in chi
credesse potere riferire esclusivamente ad una delle tre indicate potenze un
dato genere di cono scenze. Simili quadri, sono guide della memoria, utili
soltanto per riconoscere i caratteri discernitivi dediversi rami del sa pere;
per istabilire le principali relazioni delle scienze, che son tra loro
connesse, del pari che quelle tra le scienze e le arti. (V. il disc. prelim. S.
XIII. ). Con tali avvertenze seguendo la parti zione di Bacone, dalla MEMORIA
nasce la storia con tutte le sue suddivisioni, cioè l'antica e la moderna, la
sagra e la profana, l'universale e la particolare, l'areheologia, la civile, la
letteraria, l'ecclesiastica (Tav. I. e II. ). V. Storia. Dalla RAGIONE,
considerata come sorgente dello studio dell'uomo, di Dio, e della natura,
nascono tutte le numerose scienze nelle quali suddividonsi la filosofia specu
lativa, la pratica e la discorsiva. Distin guendo nella ragione umana le
facoltà in tellettive dalle attive; risguardiamo come prime figlie
dell'intelletto la psicologia, in sieme coll'arte discorsiva, o logica: come
parti di questa l'arte di pensare, la gra matica generale e la retorica: dalla
gra matica generale deriviamo la dottrina del linguaggio e de segni: da questa
la scrit tura, prima arte desegni, suddivisa nelle sue varie spezie,
l'alfabetica, l'ideale, la geroglifica, la simbolica, l'emblema tica,
l'araldica, la convenzionale: dal la retorica deriviamo la filologia, la per
dagogia, l'ermeneutica, l'arte critica. (Tav. III.). Passando poi alla volontà,
ne facciamo nascere la filosofia pratica e mo rale, e da questa, la legge
naturale e la po sitiva, insieme con tutte le sue diramazio ni, cioè il diritto
delle genti, il privato o civile, il publico, il politico, l'internazio male, e
la politica economia. (Tav.IV.). Dalla contemplazione di Dio, nascono la
teologia naturale e la rivelata dalla prima la cosmologia e la scienza delle
cause finali e dalla seconda la dottrina apologetica, la dottrina degli spiriti
in visibili, e la sapienza morale dogmatica. (Tav. V.). Più variato è lo studio
delle opere divi ne, che diciam della natura, perchè com prende la numerosa
schiera delle scienze matematiche e fisiche: le matematiche, dette pure, son la
geometria e l'aritme tica: della geometria son parti l'elemen tare e la sublime
dell'aritmetica, la nu merica e la speciosa, o sia l'algebra: di questa
l'elementare e l'infinitesimale dell'infinitesimale, la differenziale e l'in
tegrale. (Tav. VI. ). Seguono a queste le scienze fisiche, e le
fisico-matematiche, dette matematiche mister prima tra tutte è la fisica genera
le, la quale abbraccia lo studio delle pro prietà generali della materia, la
scienza del moto o la meccanica, l'idraulica , e l'astronomia geometrica, o
meccanica gi – 420 – celeste della meccanica son parti la sta tica, la
dinamica, l'acustica: da queste dipendono tutte le così dette arti mecca niche:
della idraulica son parti l'idrosta tica e l'idrodinamica, e di esse son figlie
le arti idrauliche. (Tav. VII.). Succede alla fisica generale la partico lare,
la quale comprende la dottrina dei fluidi imponderabili, la chimica, la no
tomia, la fisiologia generale o biologia, e la storia naturale. De'così detti
fluidi imponderabili il primo è la luce: la scien za che ne spiega i fenomeni,
e ne fa co noscere le leggi, è l'ottica, di cui son parti la calottrica e la
diottrica, e dal le quali dipendono le così dette arti otti che. Dalla chimica
e dalla fisica prendono mome la numerosa classe delle arti chimi che o fisiche,
così dette perchè, per otte nere i loro prodotti si servono delle forze degli
stessi agenti della natura, come il calore, la luce, l'elettricità, il magne
tismo ec. (Tav. VIII. ). V. Arte. La storia naturale, considerata come parte
della fisica particolare, abbraccia i quattro regni della natura, cioè
l'animale, il vegetale, il terrestre e l'etereo, il re gno animale contiene in
se la zoologia, la notomia comparata e la fisiologia ani male: la zoologia
comprende l'antropolo gia, la mammologia, l'ornitologia, l'er petologia,
l'ictiologia, la conchigliolo gia, l'entomologia, l'elmintologia, e la
zoofilologia. L'antropologia alla quale noi diamo lo studio del corpo umano, e
delle speciali attitudini, che la natura gli ha dato, contiene in se la notomia
e la fisiologia zumana, la chimica animale, e tutte le scienze mediche, che noi
suddividiamo in due grandi rami, cioè la patologia gene rale, e l'igiene: come
parti della patolo gia generale consideriamo la nosologia ge nerale, la
sintomatologia, l'etiologia e la patologia speciale di questa son parti la
terapeutica, la farmacologia e le arti mediche come la clinica medica e la cli
nica chirurgica, da cui nascono l'ostetri cia, l'oftalmiatria, l'ortopedia.
(Tav. X.) V. Medicina. Entrando nel regno vegetale, conside riamo come sue
parti la botanica, la fitotomia o fisiologia vegetale, la chi mica vegetale e
l'agricoltura, donde le arti dette agrarie. (Tav. XI. ). Al regno terrestre
diamo la geografia, la geodesia, la geologia, e la minera logia, distinguendo
nella prima la geo yrafia naturale dalla civile, e dall'astro nomica, e
risguardando come parti dello studio della mineralogia, la chimica dei
minerali, la metallurgia, e la cristallo grafia (Tav. Xll.). Al regno etereo fi
nalmente addiciamo l'uranologia, o sia l'astronomia fisica, l'aerologia, e la
metereologia. (Tav. XIII.). La terza delle facoltà dell'animo, cui attribuiamo
un particolar genere di cono scenze, è l'IMMAGINAzioNE. In questo aspetto noi
la consideriamo come madre della poesia e delle arti imitative. E siccome la
poesia prende il suo principal carattere dal linguaggio degli affetti e delle
passio ni; così le diamo per compagna la mu sica. Ma la poesia è un nome
generico, di cui risguardiamo come spezie la sagra e la profana, intendendo per
sagra quella che la prima sciolse la lingua dell'uomo alla preghiera, ed
agl'inni di pianto o di lode a Dio: della profana o umana, consideriamo come
spezie di diverso poe tico linguaggio l'epica, la drammatica, e la lirica. Come
spezie parimenti del l'armonioso linguaggio della musica, di stinguiamo la
vocale dall'instrumentale. - 421 – Quanto poi alle arti imitative, prendendo
esse dalle diverse spezie del bello, il prin cipale loro carattere;
distinguiamo il bello della natura, da quello della ragione, e diamo al primo
le arti del disegno, la pittura e la scoltura, ed al secondo, l'architettura
insieme con tutte le arti, che scelgono per archetipo non il bello di natura,
ma quello di convenzione. (Tav. XIV.). V. Bello. ScoNFIDANZA (prat.),
sentimento di non potere ottenere una cosa che si desidera. V. questa voce.
ScoNFoRTAMENTo e ScoNFoRTo (prat.), dolore per la defraudata aspettativa d'un
bene, cui l'animo non sa rinunziare. È lo stesso che disconforto. V. questa
voce. SconosceNza (prat.), è lo stesso che disconoscenza. V. questa voce.
ScovERTA ( spec. ), trovamento d'un fatto della natura, o d'una verità ignota,
senza l'opera della ragione inventrice. Impropriamente le scoverte son chia
mate invenzioni, perchè nate da una av venturata congiuntura, la quale non dà
merito allo scopritore. Ciò non ostante le scoverte sono talvolta miste
d'invenzione, il che si verifica quan do un fortuito trovato abbia servito d'oc
casione al ragionamento per iscoprire una legge generale della natura, o per
appli. carne ed estenderne le conseguenze. Ora per conoscere, e per graduare il
merito della scoverta, giova distinguere il signifi cato di ambedue i
vocaboli.V. Invenzione. SCRITTURA (crit. spec. e disc.), l'arte di
rappresentare i suoni sensibili all'udito con segni sensibili alla vista. V. Udito,
Vista. La nostra definizione comprende la sola scrittura alfabetica, e la
musicale; dapoi chè se si richiedesse una definizione ge nerale, la quale
abbracciasse tutti i modi, pe quali possiamo trasmettere a lontani i segni
rappresentativi delle nostre idee, e parlare con essi per note; dovremmo dirla
l'arte di comunicare agli altri le nostre idee per mezzo di segni visibili.
Queste due diverse definizioni bastano a dimo strare la vanità di quella
controversia che gli scolastici facevano, cioè se la scrittura rappresentasse
le idee, o le cose stesse, o solamente i suoni articolati. Se si parla della
scrittura alfabetica, questa non rap presenta se non i suoni articolati. Lo
stesso è delle note musicali, le quali son segni di tuoni della voce modulata. Per
contra rio, la scrittura geroglifica, e l'emblema tica rappresentano non i
suoni articolati, ma i nomi o le idee delle cose, quali noi le concepiamo, o
quali siamo soliti a rap presentarle. Niuna quistione può farsi in torno alla
diversità tra le idee e le cose significate, perchè per idea noi intendia mo il
concetto della cosa quale è; e per conseguente tanto è dire che la scrittura
geroglifica o emblematica rappresenta le parole, quanto è il denominarla
scrittura imitativa, o figurata, perchè esprime ad un tempo i nomi, che sono i
segni delle idee, e per mezzo di queste le cose signi ficate. Laonde la
partizione la più generica che possa farsi delle varie spezie di scrit tura, è
in alfabetica e figurata. V. Idea, ASegno. Le investigazioni che far si possono
in torno alla necessità , alla utilità, e alla origine della scrittura, aprono
il campo a nobilissime quistioni non meno specula – 422 – tive, che
archeologiche. La scrittura è ella necessaria alla formazione del linguaggio? È
almeno necessaria alla conservazione e alla perfezione sua? V'è stata una scrit
tura alfabetica primitiva, diffusa poi per imitazione tra popoli, siccome
avvenne per lo linguaggio? Presso i popoli, i quali perdettero l'uso della
primitiva scrittura alfabetica, quale fu prima a ritornarvi, la figurata o
l'alfabetica ? Avendo noi toccato ognuna delle divi sate quistioni nella
dissertazione intorno alla origine del linguaggio e della scrit tura,
rimandiamo i nostri lettori alle cose ivi dette. (V. il vol. I. de nostri
saggi, alla nota 134. PRIMA PRoPosizIoNE SS. 11 e 12.). ScUoLA (erit. e disc.
), luogo, dove s'insegna o s'impara scienza o arte. Vale ancora adunanza
d'uomini di let tere, di arte o di scienze che convengono in un luogo per
comunicare insieme i pen sieri della disciplina che professano. Vale similmente
sistema di dottrina pro fessata da molti sotto un capo, di cui gli altri
seguono i principi o i precetti; e vale pure stile o maniera di dipingere, di
scol pire, imitando un capomaestro, che si sceglie per modello del buono, o del
bello. V. queste voci. ScusA e SCUSAzIoNE (prat.), l'addurre ragioni a pro suo,
o di altri, per isce mare, o per torre di mezzo la colpa. SDEGNo (prat.),
risentimento per un fatto altrui, che abbiamo a male, o perchè ci nuoce, o
perchè fortemente il disap proviamo. - E men dell'ira, perchè possiamo sde
gnarci senza odio o malevolenza. V. que ste voci. SEDUzioNE (prat.), l'indurre
alcuno al mal oprare, o per consiglio, o per esempio, SEGNo (spec. e disc.),
quel che serve a denotare una cosa non presente a sensi o riposta nel pensiero.
E nome generico d'ogni cosa, che per destinazione della natura o dell'uomo, ne
predice o ne addita un'altra; d'ogni sorta di figura o d'immagine, denumeri,
delle cifre, delle lettere, de gesti, e del nomi dati alle cose. Ogni segno
racchiude due idee: la pro pria, o sia quella del segno stesso, e l'altra della
cosa significata. I segni sono natu rali, o artifiziali, che diconsi pure con
venzionali. Maturali son quelli, pe'quali la natura ci fa conoscere noi stessi,
e le cose poste fuori di noi, dapoichè ella non parla all'uomo, che per segni.
Ma tra questi ve n'ha di più o meno chiari, e la maggiore o minore loro
chiarezza na sce dalla più o meno facile comprensibi lità della connessione tra
il segno e la cosa significata. Ve n'ha di quelli, dei quali per una
suggestione della stessa na tura ricaviamo la conoscenza d'un subbietto e di
talune qualità, che ce'l fanno chia ramente percepire. Tali sono le sensazioni,
che ci manifestano la propria esistenza, il mondo esteriore, e le diverse
qualità della materia. Ve n'ha degli altri, dei quali la stessa natura ci ha
spiegato le relazioni colle cose significate, perchè per essi manifestiamo le
interne disposizioni dell'animo, come il riso, il pianto, i suoni della voce,
lo sguardo, i movimenti degli occhi, della fronte e del volto. In som ma, le
passioni, gli affetti, i sentimenti han ciascuno i propri segni, i quali for
mano il così detto linguaggio naturale. Ve n'ha infine un terzo genere men
chiaro – 425 – deprecedenti, alla interpretazione del quale la natura c'invita
e ci alletta; avvertendoci per altro, che non potremo giugnervi, se non per
mezzo della sperienza, la quale ci condurrà dalla conoscenza de'fatti par
ticolari alla cognizione, se non delle cause efficienti, almen delle immediate,
o sia delle leggi generali, in cui son riposti l'ordine e l'economia del mondo
sensibile. Di questi tre generi di segni, il primo e il secondo formano il
suggetto della filo soſia intellettuale, pratica, e discorsiva; il terzo, della
natura esteriore, o sia delle scienze fisiche, e della storia naturale. V.
Connessione, Relazione, Sensazione. Ora giova fermarci spezialmente al se
condo, e dichiarire quel che intendersi debbe per linguaggio naturale. La voce
è data dalla natura agli ani mali, come segno atto ad esprimere i bisogni, i
desideri, gli affetti, il piacere, la gioia e il dolore, comechè taluni tra
loro sieno muti, ed altri l'abbiano rice vuta con diverse gradazioni relative
alla condizione delle spezie loro. Ma i suoni della voce sono articolati o
inarticolati. Gl'inarticolati son comuni a bruti, gli ar ticolati son propri
dell'uomo: questi pren dono il nome di parola, e compongono quel che
propriamente dicesi linguaggio. I suoni inarticolati, e con essi tutti i mo
vimenti delle membra, compresi nel nome di gesto, forman parte del linguaggio
detto di azione, il quale per essere più o men comune a tutti gli animali, suol
essere anche denominato naturale. V. Ge sto, Linguaggio, Parola. La parola
comprende i segni pe quali l'uomo comunica le idee, le conserva, le accresce,
le ordina, le richiama alla me moria, ne astrae le generalità, forma le idee
complesse, i generi, le spezie, in dirizza l'attenzione e l'osservazione,
esercita l'immaginazione, la riflessione, e tutte le potenze dell'anima: la
parola in somma è l'instrumento del pensare e del ragionare. V. Pensiero,
Ragionamento. Ognuno intende, che senza i segni delle idee, niuno potrebbe
comunicare agli altri i propri pensieri; ma i logici, e tutti quelli che son
versati nell'analisi delle operazioni dell'intelletto, dimostrano altresì, che
senza le parole niun potrebbe formare le idee di relazione, e molto meno le
idee generali; che anzi niun potrebbe distinguere gl'in dividui, gli uni dagli
altri; dal che se gue, che le parole son segni naturali e non artifiziali, o
convenzionali. Imperoc chè non potendo l'uomo senza segni for mare le idee, non
avrebbe potuto, senza parole, convenir de segni della parola. E da questa
verità logica nasce l'altra, che il primo linguaggio è stato l'opera della
natura, e non dell'uomo (V. il I. vol, del nostri saggi n. 134. ). I segni
artifiziali son quelli, pe quali gli uomini imitano o rappresentano una cosa da
essi veduta, concepita o immagi nata; e questi possono essere tanti, quanti
sono gl'individui della natura sensibile, e quanti esser possono i vari
concetti del la immaginazione umana, in poter della quale sta lo scegliere una
cosa per dino tarne un'altra. In generale vuolsi notare, che i segni, per
rispetto al loro valore si gnificativo, sono pure di due sorte; dac chè possono
indicare la cosa significata, o per le sue qualità apparenti e accidentali, o
per le sue qualità essenziali: nel primo caso son semplicemente indicativi: nel
se condo divengono caratteri, o note carat teristiche della cosa stessa. V.
Carattere. Finalmente giova notare, che racchiu dendo ogni segno due idee, o
due signi – 424 – ficati, il proprio e quel della cosa rap presentata; uopo è
non iscambiare l'uno per l'altro, e dare alla cosa le qualità del segno, o a
questo le qualità di quel la. L'aver dimenticato questa regola lo gica, e
l'aver confuso i segni delle cose apparenti coloro caratteri, sono state cau se
di falsi ragionamenti, e di molti er rori nella filosofia. Di qua i falsi
concetti intorno alle idee dello spazio, del tempo, della sostanza: di qua lo
scambio delle definizioni nominali colle reali : di qua gli errori circa la
realità denomi e delle cose: di qua le vane controversie de filo sofi che
presero la divisa di nominali o di reali. V. queste voci. SEMBIANTE (spec.),
l'apparente figura del viso, giudicata principalmente per lo movimento degli
occhi. A tal significato alludono i versi di Dante: Perchè l'ombra si tacque e
riguardommi Negli occhi ov'il sembiante più si ficca. (Purg. XXI. ). Esprime
una di quelle tante gradazioni, , che la lingua italiana distingue ne voca boli
aspetto, faccia, fisonomia, sembian te, viso, volto. V. queste voci, SEME e
SEMENZA (spec.), sostanza ani male o vegetale, in cui è virtù di generare un
Essere simile a quello che l'ha prodotta. È il germe della riproduzione, che la
matura ha dato a tutti gli Esseri organici, adattandone le qualità e gli
accidenti ad ogni spezie d'organismo: è il mezzo della generazione così degli
animali come dei vegetabili. V. Generazione. In un significato men generico
dinota quel prodotto delle piante che la terra torna a fecondare, e per lo
quale la spezie vien propagata. V. Pianta. - SEMEIOTICA (crit.), parte della
medici na, che considera i segni, o le indica zioni di sanità o di morbo, le
quali met tono il medico nello stato di giudicare del la qualità del male, e di
prenunziarne l'evento. V. Medicina. SEMPLICE (spec. e ontol.), quel che non ha
parti. È proprio degli Esseri immateriali, e però si contrappone al composto,
che è proprio de'corpi e della materia. V. Com posizione, Composto. Essendo lo
spirito un Essere semplice, semplici son pure i suoi atti, a rispetto de quali
questo vocabolo prende il signi ficato dell'uno e della unità. V. queste voci.
- Semplici son dette le idee, che corri spondono ad un obbietto unico. Locke
con siderò come tali le idee che ci vengono dalle sensazioni, quando l'atto
stesso della percezione non le dimostri a noi come complesse. Ma Leibnitz
avvertì, che le idee della sensazione sono per lo più comples se, e che se tali
a noi non appariscano, ciò nasce dalla percezione, la quale con fusamente le
concepisce ; d'onde ricava che l'analisi fattane da Locke è incom piuta e poco
esatta. V. Idea. Rettificando il concetto e la definizione di Locke, noi
chiamiamo semplici quelle idee primitive, o originarie, delle quali non
conosciamo altre più elementari. Il carattere della semplicità loro nasce, dac
chè non ve n'ha altre, che possano darci una conoscenza più chiara di quella
che per essa ne riceviamo. Tali sono le idee del sentire, dell'essere, del
pensare, ed – 425 – altre simili: queste essendo intelligibili per se medesime,
mancano di altri caratteri cognoscitivi, e sono per conseguente in definibili
(V. il disc. prel.). Semplici chiamò ancora Locke i modi, che l'animo forma con
idee della medesima spezie, vale a dire semplici ancor esse. Ma gli esempi, che
ne addusse, neppure giu stificarono quest'altra distinzione, perchè
manifestamente contenevano idee complesse e non semplici, capaci di logiche
defini zioni. E quì vuolsi anche notare con Leib nizio, che una tal distinzione
a rispetto demodi, sembra essere di poco uso in Lo gica; essendochè il modo
consiste in una combinazione di più idee formata dall'in telletto, il quale può
svolgerle colla stessa facilità, con cui le ha insieme unite. Sif fatte
combinazioni escludono quel concetto d'unità e d'indivisibilità, nel quale è ri
posto il significato del semplice. V. Modo. Al semplice degli atti del pensiero
hanno i logici contrapposto il complesso, per ischivare l'ambiguità del composto,
che si riferisce agli aggregati di cose sensibili. E però il complesso in
questo senso espri me un'aggregazione di numero, e non di parti materiali. V.
Complesso. L'idea del semplice, considerato come indivisibile, è stata ancora
applicata ai primi componenti del numero, ed è nel comune uso di parlare
attribuita pure alle unità delle cose materiali. Ma questo signi ficato è
improprio, perchè nella materia non si dà indivisibilità assoluta, la quale è
attributo proprio degli Esseri senza parti. Laonde metafisicamente parlando,
semplici posson dirsi soltanto quelle unità astratte, che i filosofi hanno
ipoteticamente conce pito, come altrettanti Esseri impercettibili ed
invisibili, ne quali son riposte le forze attive della natura. Tali sarebbero
le unità reali di Pitagora, gli elementi incorrutti bili di Cartesio, e le
monadi di Leibnizio. Ma se quel primo significato è improprio e relativo,
questo è affatto ideale. V. Ele mento, Monade. Improprio del pari è il
significato del semplice, applicato alla qualità di quei corpi che non hanno
mistura di parti di verse, o nella realità, o anche nella nuda apparenza. Tali
per esempio diconsi essere l'acqua, l'aria, i fluidi, i metalli, detti puri, a
rispetto de'quali il semplice, ado perato dal comune linguaggio, equivale
all'omogeneo e all'uniforme. V. Omogeneo. SEMPLICIONE (prat.); peggiorativo di
semplice, che vale di grosso senso e fatuo. V. questa voce. SEMPLICITÀ (prat.
), qualità d'uomo senza studio, e senza esperienza. Prendesi in buona e in
cattiva parte, potendo dinoſare purità di costumi e na turalezza di maniere,
ovvero dabbenaggine ed ignoranza. V. queste voci. SENNo (spee. ), l'intelletto
rischiarato dal sapere e dalla prudenza. V. Intelletto. L'uso comune della
lingua dà a questo vocabolo, ora il significato di sapienza, e di prudenza, or
quello d'interno senso dell'animo, ed ora il confonde colla ra gione e col
giudizio. In tutti questi signi ficati presuppone sempre un che di rifles sione
e di maturità maggior di quella che adoprar suole il comune degli uomini. Non è
questo un vocabolo che ci viene dal latino sensus siccome credettero il Ferrari
e il Menagio, i quali diedero ogni sorta di tortura alle parole per trovare in
esse una origine greca o latina. Bene av verù il Muratori, che dal sensus noi ab
54 – 426 – biam preso la voce senso, e non il sen no, che è di origine affatto
germanica. I Tedeschi hanno il vocabolo sinn, che si gnifica l'interno senso
dell'animo, il pen siero, la mente, e quel che noi diremmo il fior di ragione.
A che derivare da lon tane somiglianze, un vocabolo che porta seco le tracce
d'una più immediata origi ne ? V. Senso. SENSAzIoNE (spec.), impressione che
gli organi ricevono da una causa, capace di essere avvertita dalla sostanza
sentente. La causa può essere esterna o interna: esterna, se nasce da obbietti
che son fuori di noi: interna, se la causa che agisce, è in noi stessi: da
quella proviene la per cezione degli obbietti csteriori: da questa il
sentimento della vita, del moto, del piacere, e del dolore. Parlando della ester
na, noi non possiamo spiegare come l'im pressione avvenga, e quale sia il punto
del contatto degli obbietti esteriori colla sostanza sentente. Sappiam bene,
esser necessario il concorso di due azioni per produrre in noi la conoscenza
de'cennati obbietti: quella degli organi, predisposti dalla natura a riceverne
e a trasmetterne l'impressione : l'altra della sostanza im materiale che
l'avverte. A ciascuna delle due azioni convien dare un diverso nome per meglio
distinguerle, ond'è che chia miamo sensazione la prima, e perce zione la
seconda. Il confonderle tende rebbe a rendere aſfatto materiale e mec canica
l'azione della sostanza che sente, o sia dello spirito. - Non potendo spiegare,
nè comprendere come gli obbietti esteriori agiscano sopra i nostri organi, come
la materia serva allo spirito, e come lo spirito sia presto ad accogliere le
conoscenze che gli organi materiali gli preparano; tutto quel che possiamo far
di meglio nell'analisi della percezione degli obbietti esteriori, è il se
parare i fatti che appartengono a ciascuno de'divisati fenomeni, sceverandoli
da tutto quel di congetturale e di presunto, che le antiche scuole vi avevano
aggiunto, coll'intento di spiegare come la natura operasse. Ora i fatti, che
certamente ap partengono all'esterna sensazione, son due: 1.” La sensazione non
avviene se l'ob bietto esteriore non sia in comunicazione immediata, o mediata
cogli organi del senso. Cotesta verità è dimostrata dal fatto stesso della
natura, la quale ha dato la virtù sensitiva immediata ad alcuni orga ni, come a
quelli del tatto, e ad alcuni altri la mediata, come alla vista, all'udi to,
all'odorato. La vista, senza i raggi della luce, l'udito senza l'azion
dell'aria, e l'odorato senza l'aria e senza l'emana zione delle particelle
odorifere, non po trebbero ricevere veruna impressione. 2.” I mezzi, pequali
l'impressione de gli obbietti esteriori passano alla sostanza sentente sono i
nervi, i quali partendo dal cerebro, giungono insino a ciascuno degli organi
del senso. Son essi gl'instru menti e gli agenti intermedi pe quali passa la
conoscenza degli obbietti esteriori. Se v'ha disordine nelle funzioni loro, o
in qualunque modo venga meno la loro na turale forza e attitudine, la
sensazione è imperfetta, o manca del tutto. Sin qua la natura si palesa, ma da
questo punto in poi lascia ignorare all'osservatore come l'azione degli organi
materiali possa co municarsi allo spirito e come ne avvenga la percezione. V.
questa voce. Passando all'interna sensazione, le cause che la producono son
diverse a rispetto degli effetti che ne risentiamo : talune - 427 - operano
senza produrre veruna modifica zione nel nostro essere: altre alterano il
naturale equilibrio della economia anima le, e portano un cangiamento nell'
ordi nario stato della sensibilità : l'anima av verte quelle come queste, ma
risguarda le prime come funzioni necessarie, pre disposte dalla mano superiore
della natu ra, mentre che è affetta dalle impressioni delle seconde. Se
l'impressione è grata , la chiama piacere, e l'appetisce ; e se l'è molesta, la
denomina dolore, la fugge e cerca di liberarsene, come d'un male. Ma come l'una
e l'altra avvengano, l'ignora; nè può comprendere il modo nel quale la
sensazione che affligge il corpo passi all'anima. Vi passa certamente per lo
stesso mezzo, per lo quale passano le impressioni degli obbietti esterni,
perchè quando queste impressioni divengono cau se di dolore e di piacere,
l'anima riceve ad un tempo ambe le sensazioni, cioè la conoscenza degli
obbietti esterni, e il grato e molesto sentimento ch'essi producono. Una
seconda, e più certa pruova, che i nervi sono i portatori delle interne sensa
zioni è , che renduta nulla l'azione loro in qualche parte del corpo caduta nel
tor pore, cessa del pari la sensibilità ad ogni grata o molesta impressioue. Ma
qui si ferman pure le nostre conoscenze, dapoi chè la natura ci ha nascoso il
meccanismo de'nervi, a rispetto così delle esterne come delle interne
sensazioni. Quelli che han preteso di spiegarlo, non han fatto altro, che
creare ipotesi più o meno assurde, perchè fondate sopra fatti supposti o con
traddetti dalla sperienza, sebbene alcune di tali ipotesi sieno state per
secoli te nute come indubitate verità. Tale fu la dottrina degli spiriti
animali, che face vansi scorrere per tanti tubi più o meno grandi, quanti sono
i nervi; tale ancora quella delle vibrazioni delle fibre nervose, trasformate
in altrettante corde armoniche. Come l'anima senta, è un mistero, del pari che
come l'anima percepisca. V. Do lore, Mervo. . SENSIBILE (spec.), quel che si
conosce per mezzo del senso. V. questa voce. In un significato men proprio
dicesi an cora degli Esseri dotati di sensibilità, come degli animali e delle
piante. Ma in questo caso farebbesi meglio uso dell'addiettivo sensitivo. V.
questa voce. È stato ancora adoperato dal Gelli nel significato di un
sostantivo, come i sen sibili propri, e i sensibili comuni, cioè quel che è
particolare ad ogni senso, e quello di cui tutti partecipano. SENSIBILITÀ
(spec.), attitudine del sensi a ricevere le impressioni dette sensazioni.
Ovvero, attitudine degli Esseri al sen tire. V. queste voci. SENsIsMo (erit.),
sistema filosofico, che ammette le idee del sensi, come unico principio dalla
umana cognizione. È il sistema opposto all'altro, che rine gando l'autorità de
sensi, pone nella sola intelligenza, o sia nelle verità a priori, i principi di
tutte le nostre conoscenze. Il sensismo e lo spiritualismo sono i due estremi,
pe quali ha parteggiato l'an tica e la moderna filosofia, insino a che le false
conseguenze dell'uno e dell'altro non han dimostrato esser due, e non una, le
fonti dell'umana cognizione. V. Cogni zione, Spiritualismo. SENsIsrA (spec.),
seguace della dottrina del sensismo. V. questa voce. r – 428 – SENsitivo
(spec.), chi è dotato di senso, o quel che prende sua origine dal senso. V.
questa voce. - Si adopera in ciascuno de'due dinotati significati. Sensitiva è
stata detta la facoltà del l'anima, che riceve le sensazioni; e l'ani ma
stessa, in quanto è considerata come la sede delle aſſezioni, che le vengono
da' sensi. - Aristotele suppose tre spezie d'anima, la vegetativa, la
sensitiva, e l'intellet tiva, delle quali la prima credette comune alle piante
e agli animali, la seconda co mune agli animali d'ogni genere, e la terza
particolare all'uomo. V. Intelletti va, Vegetativa. Rimossa l'ipotesi della
pluralità delle anime, diciamo ancor oggi anima o na tura sensitiva, la
sostanza immateriale, che è affetta dalle sensazioni. Cotesta na tura è comune
all'uomo e agli animali, ne quali è stata distinta col nome di ani ma de bruti.
In che tali anime fossero simili o dissimili dalla umana; in che dif. ferissero
tra loro nelle varie spezie degli animali, quale ne fosse l'essenza, quale il
futuro loro destino, sono argomenti me quali la metafisica, e spezialmente la
pneumatologia, non hanno risparmiato ipotesi e congetture. Ma se la conoscenza
di noi stessi e della nostra limitata capa cità c'insinua ad essere modesti nel
pre sumere, e circospetti nel pronunziare in torno alla natura della sostanza
sensitiva e intellettiva che è in noi; più cauti an cora esser dobbiamo per
rispetto a quei fatti che sono fuori di noi, e dequali giu dicar possiamo
soltanto per gli effetti, o sia per la esperienza. Non potendo, se non per
questa sola via delibare la cogni zione delle essenze delle cose, e degli Es
seri, uopo è prima d'ogni altro racco gliere i fatti, da quali rileviamo, per
una parte somiglianza, e per l'altra difformità tra l'anima umana e quella del
bruti. Gli animali, che consideriamo come i più perfetti nell'organismo, hanno
lo stesso numero di sensi esterni, e una facoltà sensitiva simile alla umana,
dapoichè ri cevono dalle sensazioni le medesime im pressioni, e son dotati di
moto volontario e di potenza attiva; ond'è che dispongono a loro volontà
dell'uso delle loro membra, e fuggono, o attaccano ogn'inimico, com preso
l'uomo, e deliberatamente operano in tutto quel che concerne la loro salvezza.
Una somiglianza non minore traluce nelle meccaniche funzioni della vita ani
male, nell'appetenza degli alimenti, nella digestione e negli organi digestivi,
nella generazione e negli organi generativi, nel l'agitazione dell'amore, della
gelosia, e di tutti gli appetiti animali. Simile ancora è la mutua influenza o
correlazione tra queste meccaniche funzioni, e le interne impressioni dell'anima:
la sorpresa inter cetta ad essi come a noi la respirazione: la paura suscita il
tremore delle membra: il terrore estorque un freddo sudore, e muove
inaspettatamente il ventre. Comune inoltre è quell'interno senso, che li muove
e dirige alla conservazione del proprio essere, alla riproduzione della spezie,
allo allevamento della prole, e alla conoscenza del rimedi atti a guarirgli di
talune infermità, alle quali sono più esposti: sentono il piacere e il dolore:
se guono quello, e fuggono questo come le più sicure guide del loro bisogni:
manife stano l'uno e l'altro con segni esterni, e con voci inarticolate, le
quali formano il loro linguaggio d'azione: con questo lin guaggio esprimono le
gradevoli o spiace – 429 – voli impressioni delle sensazioni, manten gono le
relazioni necessarie tra gli Esseri della medesima spezie, come delle madri
verso i figli o degl'individui tra loro, per unirsi, o per avvertirsi
reciprocamente di qualche pericolo che ad essi sovrasta. Co testo interno senso
è quello cui diamo il nome d'istinto, che ne bruti tiene luogo di legge
naturale. V. Istinto, Senso. Son pure gli animali capaci di abiti, che in essi
formansi per la reiterazion delle azioni, e per lo ripetimento delle mede sime
sensazioni; ond'è che acquistan co noscenza de luoghi, delle vie, de'ricoveri,
e delle qualità degli altri Esseri o delle cose, loro utili, pericolose, o
indifferenti. Conseguenza di tal capacità è la virtù, che alcune spezie di
animali hanno d'imi tare il gesto, la voce, e persino la parola dell'uomo, o i
gesti e la voce di altri tra loro. La natura ha nella generalità costituito gli
animali in istato di rivalità tra loro. Per rispetto all'uomo talune spezie son
ca paci di relazioni di attaccamento e di di pendenza; e talune altre, sebbene
nemi che ed avverse, lo temono, e lo riconoscono tra gli animali come il solo,
che abbia il potere di domarle e di soggettarle alla sua volontà. Le prime
riconoscono il be nefizio e amano il benefattore, ricordano l'offesa, e
fuggono, ed odiano l'offensore. V' ha tra queste di quelle, che tramu tando il
sentimento di dipendenza in affe zione, dimenticano l'offesa, e la retribui
scono colla benevolenza e coll'amore. Qual è l'uomo che non creda di avere a
fare con un Essere capace di sentimenti morali, quando percuotendo e straziando
il suo cane, lo vede ricorrere alle carezze e agli atti supplichevoli, onde
rimeritare la be nevolenza del padrone? I portamenti del l'animale in
quell'atto hanno un che di rispettoso e di filiale, il quale praticato da un
uomo verso d'un altro uomo, me riterebbe il nome di amore, di generosità, o di
virtù. Del resto ogni spezie di ani mali è capace di educazione, la quale ha il
poter di vincere la forza del più vigorosi tra essi, di accostumargli ad azioni
mec caniche contrarie alla fisica loro struttura, e di mitigare l'indole del
più feroci, insino al segno di rendergli fedeli esecutori della volontà
dell'uomo. Tal è il complesso delle qualità della sostanza sensitiva detta
anima de'bruti, quando la consideriamo negli animali di più perfetto organismo,
o sia nella classe devertebrati e de mammiferi, i quali son provveduti del
nostri cinque or gani di sensi esterni, astrazion fatta dalla maggiore capacità
e dalle attitudini mo rali, che la natura ha dato agli stessi cinque sensi
dell'uomo. V. Organismo. Nelle spezie de bruti men perfette, la virtù sensitiva
va scemando in proporzione del difetto di quei sensi esterni, dequali la natura
gli ha privati, e gradatamente discende insino alla inavvertenza di qual
sivoglia impressione, tranne quella del tatto, come me molluschi e ne zoofiti.
In questi animali la virtù sensitiva viene quasi a confinare colla inerzia
della materia. Ma volendo noi determinare in che l'ani ma sensitiva de'bruti
differisca dall'anima razionale dell'uomo, conviene che la com parazione sia
stabilita col massimo e non col minimo della sua potenza. Ora se dal quadro
delle cennate qualità vogliasi desumere la facoltà dell'anima de bruti, è
manifesto che non possiamo negarle la percezione, il giudizio dalla stessa
inseparabile, e la memoria, sicco me tra le operazioni figlie della memoria
dobbiamo in essi riconoscere gli abiti o – 450 - le assuefazioni involontarie e
quasi mec caniche. Quì si fermano le loro qualità comprensive. . Le idee del
bruti non escono dal parti colare: il generalizzare, l'astrarre, il for mare
idee di qualità, o di relazione, il concepire l'idea del proprio essere, della
esistenza, del possibile, del presente, del passato o del futuro, e il
ragionare, son facoltà e conoscenze d'una natura supe riore ch'essi non possono
acquistare per difetto non meno degli organi, che della potenza sensitiva. Le
cennate operazioni della mente, essenzialmente appartengono alla sostanza
intelligente, e costituiscono le doti proprie dell'umano intelletto. In che
dunque l'anima sensitiva differisce dalla razionale? In tre essenziali qualità,
che sono i tre caratteri discernitivi della sostanza intelligente: la
coscienza, l'in telletto, la parola. Son queste le tre facoltà che formano il
pensiero propria mente detto: la coscienza dà all'uomo la conoscenza di se
medesimo, e fa del l'anima un Essere maggiore, destinato a dominare e dirigere
il corpo, e non a secondarlo e ad obbedirgli : l'intelletto apre alla mente la
conoscenza dell'univer sale, dell'invisibile, e persino dell'infinito: la
parola le somministra i segni per for mare le idee e ragionare. I bruti in
somma percepiscono, e l'uomo pensa. Così gli antichi, come i moderni meta
fisici non hanno mancato di fare per l'ani ma de bruti quello stesso, che han
prati cato per tutte le altre sostanze materiali ed immateriali della natura,
argomenti cioè e congetture per iscoprirne o determinarne l'essenza. Taluni la
elevarono al pari della sostanza intelligente; altri la depressero, insino a
considerarla come una semplice macchina montata dalla natura; altri ne fecero
una forma materiale, diversa del l'anima umana, cui esclusivamente attribui
rono la qualità e la denominazione di spi rito; i meno presontuosi finalmente
la defi nirono come una sostanza incorporea, e per conseguente semplice, ma non
immortale. Nella prima opinione furono molti degli antichi tra quali Galeno,
fondati nell'ar. gomento che il sentimento presuppone la conoscenza. L'opinione
di costoro, che non pertanto ammetteva una differenza tra 'l conoscere e il
ragionare, fu esage rata dal famoso Rorario, il quale diede agli animali una
ragione non dissimile dalla umana e talvolta ancora più previdente. Della
seconda furono antesignati Carte sio, lo spagnuolo Pereira, Malebranche e tutti
i Cartesiani. Nella terza furono i pe ripatetici e gli scolastici. Nella
quarta, Leibnizio e Wolfio. Noi non vogliamo rimescolare quì un argomento,
trattato da Bayle, negli articoli Pereyra e Rorarius, con una erudizione , che
nulla lascia a desiderare. Basta dire che a questi stessi articoli se ne
riportò Leibnizio in una sua lettera a Kortholt, nella quale così reas sume la
sua opinione: Ego bruta ani mam incorpoream habere arbitror, eam que non
perituram, etsi immortalis dici non mereatur, quia eamdem personam non retinet,
ut anima humana, quae conscientiam gestorum, seu memoriam sui conservat, atque
ideo praemii et poenae est capaa ultra hane vitam. Sen tentiam hac de re meam
Baylius dictio nario inseruit voc. Rorarius, adnota tionesque in eam dedit,
quibus pro parte respondi in diario Basnagii. (V. i due articoli citati, e
Leibnitz Op. omn. Edit. Dutens T. V. pag. 321. ). La dottrina che noi
professiamo è, che le ricerche intorno alla essenza dell'anima – 451 – de bruli
sieno tanto vane ed inutili, quanto quelle della essenza della materia e dello
spirito, e che la sana filosofia debba li mitarsi a quelle sole conclusioni, le
quali nascono dalla osservazione e dallo studio de'fatti, La potenza sensitiva
non è certamente corporea, perchè il moto volontario, la forza, e l'azione non
possono trovarsi nella materia ma nascer debbono da un principio, o da una
sostanza superiore per se stessa attiva e capace di volontà. La cennata potenza
è comune all'uomo, nel quale non solamente non si confonde colla facoltà
intellettiva, ma è a questa subor dinata e soggetta. La natura ha stabilito tra
l'una e l'altra limiti sì certi, e carat teri tanto discernibili, che escludono
qua lunque analogia tra loro: il sensitivo ap partiene all'ordine delle cose
terrene: il razionale e l'intellettivo alle celesti: al l'Essere sensitivo la
natura ha negato la conoscenza di se medesimo e la vista del futuro: alla mente
dell'uomo ha dato, non solamente la nozione del proprio es sere e la vista del
futuro, ma le ha aperto ancora la cognizione della prima causa di tutte le
cose, dell'ordine dell'universo e delle leggi che lo reggono. In queste leggi
sono a chiare note scritti i fini della esistenza del bruti, e quelli del la
vita dell'uomo. Sieno questi i termini delle investigazioni filosofiche, oltre
i quali trovasi l'impenetrabile mistero della volontà e della sapienza del
Creatore. V. Intelletto, Intelligenza. . - SENso (spec. e prat.), organo corpo
reo, per mezzo del quale l'anima cono sce le cose poste fuori di se, e Potenza
dell'anima, per la quale si co noscono le cose corporee presenti. Son questi
due significati diversi, che tanto l'uso del comune parlare quanto il
linguaggio scientifico danno al vocabolo senso, e del quali uno esprime
l'instru mento o il mezzo per lo quale sentiamo, l'altro, la virtù stessa del sentire.
Intorno a ciascun di essi giova fare talune avver tenze per avere nozioni
esatte così delle sensazioni, come della potenza sensitiva. Quanto alle
sensazioni, gli organi dei sensi sono gl'instrumenti necessari, che la natura
ci ha dato per acquistare la co noscenza degli obbietti esteriori. Ma nel
ministerio ch'essi ci prestano, uopo è non confondere l'obbietto che per mezzo
loro conosciamo, e il subbietto o la sostanza, che ne acquista la conoscenza.
Quanto all'obbietto, non è alcuno che non lo distingua e non lo creda diverso
dall'organo del senso. Vuolsi soltanto av vertire, che per le cose poste fuori
di noi, la conoscenza che ne acquistiamo è rela tiva alla condizione del nostri
organi, e per conseguente è limitata dalla situazione, in cui ci troviamo,
dalla distanza alla quale le guardiamo, e dalla capacità stessa decennali
organi. La visione dunque (e lo stesso può dirsi dell'udito, dell'odorato, e
del tatto) prende tanta parte dell'ob bietto visibile, quanta corrisponde a
mezzi che ha di vedere. Quel che vede è vero e reale, ma non è tutto quel che è
negli obbietti veduti : de corpi solidi vede la superficie: de'corpi lontani
vede la gran dezza apparente: degl'infinitamente piccioli non vede quello che
per la sua picciolezza non lascia nell'organo una impressione chiara e
distinta. Degli obbietti esterni insomma la conoscenza è limitata dalla
capacità degli organi del senso, la quale è stata dal Creatore adattata all'uso
ed allo scopo della esistenza. Una tale limi – 432 - tazione ci ricorda la condizione
del nostro essere finito, ma non può mai farci du bitare della realità degli
obbietti esterni, perchè l'esistenza loro è fondata sopra que gli stessi
innegabili fatti, pe quali non solamente siam certi della propria esistenza ma
giudichiamo essere contraddittorio ed impossibile il supporre che noi non esi
stessimo, mentre sentiamo di esistere. Quanto poi alla sostanza che è in noi, e
alla quale l'organo serve d'instrumento, per acquistare la conoscenza
dell'obbietto esterno; sarebbe del pari contraddittorio e assurdo il
confonderlo coll' organo stesso. La conoscenza che acquistiamo d'una cosa posta
fuori di noi, è l'atto di un Essere che ha la capacità di sentire e di cono
scere: non è l'occhio che vede, ma siam noi che vediamo. E quando le lenti na
turali dell'occhio non bastano alla visio ne, e da noi si ricorre all'aiuto
d'un te lescopio, non è il telescopio che vede, ma siam noi che vediamo,
mediante un dop pio, instrumento, il naturale cioè e l'ar tifiziale. L'occhio è
una macchina, mera vigliosamente congegnata, atta a refra gnere i raggi della
luce, e a formare sulla retina una immagine distinta dell'obbietto, ma esso non
vede nè l'obbietto nè l'im magine: separato dalla testa, può formare una
immagine ma non può produrre una visione: e lasciato al suo posto, formerà pure
l'immagine dell'obbietto, ma non basterà a produrre la visione, se il nervo
ottico abbia perduto l'attitudine a rendere compiuta la sensazione. Se fosse
vero che nell'occhio risiede la facoltà di vedere, e nell'orecchio quella di
sentire, e così negli altri sensi; ne seguirebbe, che il principio pensante, o
sia l'io, non sarebbe uno, ma moltiplice, il che è per ogni verso assurdo;
dapoichè sarebbe vero, che una parte della materia che vede, un'altra che
sente, una terza che tocca, possano for mare un medesimo ed unico Essere che
Sente e COnOSce. Coteste verità sono sì evidenti, che alla generalità degli
uomini di sano giudizio, sembra strano il soggettarle a disamina e a pruova:
diremo ancora che molti ri sguardano tali dimostrazioni come un lus so, o una
vana pompa della scienza; e tale per verità sarebbe, se la sperienza non avesse
a più riprese dimostrato, che non è stranezza di opinioni, che entrar non possa
nella mente umana. Cicerone fece questa dimostrazione per gli antichi
materialisti, noi la riproduciamo pe'mo derni fisiologisti. (Tusc. lib. I. Cap.
XX.). Giova ancora alla chiarezza della nozione della percezione, stabilire
chiare idee ele mentari delle funzioni degli organi dei sensi. In questa
operazione dell'animo con vien distinguere tre fatti, i quali proven gono da
Esseri diversi, l'obbietto esterno, l'organo materiale che ne riceve l'impres
sione, e la sostanza, o lo spirito, che ne acquista la conoscenza. Noi abbiam
già veduto nell'articolo percezione, di quanta importanza sia il distinguere i
tre dinotati fatti, V. Percezione, Passando ora al secondo significato che
diamo allo stesso vocabolo, chiamiamo an cora senso la virtù di sentire, e sin
qua non v'ha che un semplice trasporto della parte al tutto, figura usuale del
discorso, la qua le non produce alcuna ambiguità. Ma fac ciamo ancorà di
vantaggio, perchè scam biamo la virtù di sentire colla facoltà di conoscere, e
per una similitudine ricavata da sensi esterni, chiamiamo senso inter no, tanto
la potenza sensitiva dell'anima, quanto la intellettiva. Stabilita così la pro
miscuità del vocaboli nel sentire, nel co - 155 - noscere, nel comprendere, e
nel riflettere; non è facoltà, operazione, o qualità del l'animo, alla quale
non abbiamo indistin tamente applicato la voce senso. Di quale diverse
denominazioni di senso interno o intimo, di senso comune, di senso mo rale, a
ciascuna delle quali il linguaggio scientifico è obligato di dare un certo e
diverso significato. Senso interno è in generale la virtù di sentire, o la
potenza sensitiva, comune all'uomo e al bruti. V. Sensitivo. Un significato più
speciale diamo alle voci senso intimo, perchè per esso dino tiamo la facoltà
propria dell'anima razio nale, per la quale questa conosce se stessa e gli
attributi suoi, significato equivalente di quello, che diamo alla interna vista
dell'anima. Cotesto senso abbraccia tutta la sua virtù intellettiva, cioè il
riflettere, il ragionare, il comparare le idee, il co noscerne le relazioni, e
l'ordinarle, da qualunque origine provengano, da sensi esterni, o dalla sua
propria intuizione ; e serve a distinguere le facoltà della ra gione le une
dalle altre, a graduare la certezza che le accompagna, a misurare e a valutare
le imperfezioni o gl'impedi menti degli esterni organi de sensi, e a giudicare
di tutte le cause dell'errore. V. Intuizione, Ragione. Il senso intimo suol
essere scambiato colla coscienza, ma la nozione di que sta facoltà de essere da
quello distinta. E comechè il senso intimo sia insepa rabile dalla ragione e
dalla coscienza, purtuttavolta la nozione semplice che di esso ci formiamo, non
comprende tutti gli attributi della coscienza, che è per noi una nozione
complessa, comprensiva di molte e simultanee operazioni, come il giudizio
antecedente e susseguente al l'azione, la ricordanza delle azioni pas sate, la
sinderesi ec. V. Coscienza, Fa coltà. - Locke riconobbe il senso intimo nella
riflessione, e lo limitò alle conoscenze che l'anima si forma sopra le idee
acquistate da' sensi ; vale a dire non lo riconobbe come sorgente di conoscenze
proprie del l'animo. V. Riflessione. -Senso comune, è una denominazione di
qualità, dinotante il retto giudizio na turale, comune alla generalità degli uo
mini, che non nasce dallo insegnamento, e che non è depravato dalle false dottrine.
Giambattista Vico lo definì, un giudizio senza riflessione, sentito da tutto un
ordine, da tutto un popolo, o da tutto l'uman genere; o sia il criterio
insegnato alle nazioni dalla Provvidenza Divina per definire il certo intorno
al Diritto. Una tal definizione è relativa e particolare alla origine del
diritto, ma può essere ap plicata a qualunque altra parte dell'umana
cognizione. Più generale è la definizione di Pascal, secondo il quale il senso
co mune è la conoscenza del principi, che il ragionamento non può dimostrare nè
contrastare; dapoichè i principi si vedono a differenza delle proposizioni, che
sono dimostrabili. La cennata denominazione è venuta in maggior uso, dacchè i
para dossi filosofici cominciarono a rendere di scettabili le verità più evidenti.
Il padre Buffier chiamò filosofia o dottrina del senso comune quella che
stabilisce per fondamento del suoi teoremi le prime ve rità, o sieno le verità
intuitive della ra gione, e formò di queste i principi ele mentari dell'umana
cognizione. Questa è la filosofia che Reid e Stewart chiamarono filosofia dello
spirito umano. V. Filoso fia, Principio, Verità. 55 In fine senso morale, è
stato da molti denominata quella virtù, che l'anima ha di discernere l'onesto e
il giusto, e che come fiaccola della natura rischiara e di rige i nostri
giudizi, a rispetto delle azioni e de pratici portamenti della vita. Hutcheson,
volendo dare alla dottrina di Locke (che riferiva tutte le idee alla sensazione
come a loro unica sorgente ) una spiegazione che salvar potesse l'origine delle
idee morali, o sia l'assoluta verità ed immutabilità delle distinzioni morali,
chiamò senso morale o interno una par ticolare virtù di percezione, per la
quale l'anima concepisce le idee morali. A que sto modo, equiparò egli il senso
interno agli esterni, o sia aggiunse un novello or gano a quelli di Locke,
interdicendo sem pre all'intelletto la virtù di creare idee semplici. Ma la sua
dottrina, parve a molti, che riducesse le nozioni dell'one sto e del giusto a
prette impressioni, che l'anima riceve dalla vista di talune azioni, per una
simpatia, o avversione istintiva, della quale non si potesse rendere ragione
alcuna. Ad evitare tali ambiguità, determinando il significato del senso
morale, diciamo essere lo stesso senso intimo, in quanto dirige le
determinazioni della volontà, dà la norma alle azioni, e presiede a nostri
giudizi intorno alla qualità delle medesi me. Da esso attigniamo le giuste
nozioni della obligazione e del dovere. V. que ste voci. SENSUALE (prat.), quel
che vien dal senso, o al senso appartiene. E proprio del piacere e delle vane
di lettanze del sensi, o sia della viziosa con cupiscenza. E però non è da
usarsi nel si gnificato di dottrina puramente speculativa. SENSUALITÀ (prat.),
tenace attaccamento agli stimoli desensi e degli appetiti sensitivi, SENTENza
(disc. e prat.), motto breve e arguto, approvato comunemente per vero, Nel suo
primitivo significato, questo vocabolo non esprime se non il concetto
dell'animo, manifestato con parole. Tal'è la definizione di Quintiliano:
sententiam veteres, quod animo sensissent, voca veritmt. . L'opportuno uso
delle sentenze racco glie la luce della verità sparsa negli ar gomenti del
discorso, e serve quasi a con centrarla, per darle una forza maggiore. Sentenze
morali son dette le massime raccolte dalla sperienza della vita, le quali
ricordano in brevi detti, quel che convien praticare, o evitare. Dell'uso di
queste sentenze ne discorsi oratori parla Cicerone ne' suoi libri retorici:
hujusmodi senten tiae simpliees non sunt improbandae, propterea quod habet
brevis expositio, ei rationis nullius indiget, magnam de» lectationem. Ma egli
stesso inculca all'ora tore la sobrietà nell'adoperarle : senten tias interponi
raro convenit, ut rei acto res, non vivendi praeceptores esse vi. deamur (ad
Herenn. lib. IV. Cap. 17). In questo senso scambiasi coll'aforismo e colla
massima. V. queste voci. SENTIMENTo (spec. e prat.), l'atto per lo quale
l'anima avverte le impressioni fatte nel corpo, o il conoscere per la via
de'sensi.V. Im pressione, Senso, o il senso e la facoltà di sentire. E in
significato traslato, facoltà di co noscere quel che avviene nell'interno del
l'animo. È vocabolo di moltiplice significato, o – 455 - perchè si trasporta
dalla parte al tutto, o perchè si scambia il sensitivo coll'intellet tivo ; sì
che i suoi significati son tanti, quanti son quelli, di cui è capace la voce
senso, colla quale spesso si confonde. E però il nostro Francesco da Buti,
traspor tando nella lingua italiana l'aforismo dei sensisti, nihil est in intellectu
quod prius non fuerit in sensu disse: niuna cosa è nell'intelletto, che non sia
stata prima nel sentimento. Si adopera per intelletto, o senno, per divisamento
d'animo, o opinione, per for za o bellezza di concetto, per istinto, per
affezione, o per passione. V. queste voci. Tutti gli anzidetti significati sono
spie gazioni delle varie accezioni che gli dà l'uso, ma il vocabolo è per se
stesso in definibile, come il sentire da cui deriva. “SENTIRE (spee. prat. e
dise.), avver tire le impressioni, che il corpo riceve, o apprendere e
conoscere per via di sen si, tanto in comune, quanto per via di ciascheduno. V.
Senso. Il sentire è una delle due principali fa coltà dell'anima, giusta la
partizione fat tane da Platone: il sentire e il pensare. V. Anima. È uno de
vocaboli incapaci di logica definizione, perchè esprime un'idea sem plice, la
quale non può essere svolta in altre idee più elementari e più chiare. Dalla
virtù sensitiva del corpo si tra sporta alla facoltà intellettiva dell'anima, e
però vale conoscere, giudicare, avere opinione, e ricevere ogni sorta di modi
ficazione che proviene dagl'istinti, dagli appetiti, dagli affetti, e dalle
passioni. V. queste voci. Alla varietà di tanti significati si aggiu gne ancora
la sua varia costruzione, es sendo adoperato sì nell'attivo, che nel neu tro, e
nel neutro passivo. - - - SERENITÀ e SERENo (prat.), traslato della chiarezza
del cielo e dell'aria senza nuvoli, che si applica all'interno godimento del
l'animo, non turbato da alcuna cura o sollecitudine. - - º SERIE (spee. e dise.
), continua suc cessione di verità, o di proposizioni, che hanno una qualche
relazione tra loro; così disposte, o per mostrarne la connessione, o per
dedurne una ultima conseguenza. I matematici chiamano serie una pro gressione
di quantità crescenti o decrescen ti, per lo più, secondo una data legge.
D'ordinario le serie procedono all'infinito, e quando le quantità o termini,
che le compongono son decrescenti in modo, che vadano continuamente
avvicinandosi ad un limite, le serie diconsi eonvergenti. Che se i termini
crescano indefinitamente, le serie sono divergenti. V. Infinito. SERvAGGIo e
SERvIrù (prat.), condizione dell'uomo, cui per fatto di un altro uomo, si
toglie o si restrigne l'uso delle sue na turali facoltà. - La condizione
servile nasce dalla infra zione del primo del doveri imposto all'uo mo verso de
simili suoi: idea correlativa della servitù è la padronanza, o sia il dominio,
che il padrone acquista sulla persona del servo; dominio introdotto non dal
diritto, ma dall'abuso della forza ma teriale ; dominio illegittimo perchè cade
sopra di un Essere incapace di essere pos seduto da altri; che toglie all'uomo
la qualità di agente morale; che lo priva della sua natural dignità; che gli
toglie la personalità, e lo assimila a bruti, co ar - - 456 – stituiti per loro
natural condizione sotto la potestà dell'uomo. Ciò non ostante l'egoismo umano
si per mise di soggiogare i diritti d'una parte della propria spezie, ed
introdusse ogni sorta di servitù, dalle minime insino alle massime privazioni
delle naturali facoltà de soggiogati. Cotesta enormità fu cangiata in diritto e
non solamente divenne la legittima con dizione del vinto per rispetto al
vincitore, ma formò una legge fondamentale dell'or dine civile delle antiche
nazioni. Il cristia nesimo, cui son dovuti i veri principi della civiltà, fece
scomparire la servitù, e re stituì all'uomo la sua pristina dignità. I resti
della condizion servile, che talune nazioni ancora conservano, sono una ma
nifesta pruova del recente loro incivilimen to, e della difficoltà che sempre
si scontra nel riformare le viziose istituzioni, le quali si son cangiate in
abiti e in usanze. Quelli tra popoli barbari che rimasero fuori della comunione
de'doveri della uma nità e della fede cristiana, riprodussero una durissima
servitù, che prese il nome di schiavitù. L'esempio loro tornò a con taminare
l'europea civiltà e per due vie tirolla al male. Da una parte la ripresa glia
parve giustificata dalla reciprocazione del diritto della guerra; e dall'altra
il volontario mercato ch'essi facevano di loro stessi, sembrò essere un giusto
motivo per formarne un capo di commercio e d'in dustria. Alla perfine il
sentimento della umanità ha trionfato dell'avidità e dello spirito mercantile.
Le nazioni europee han no arrossito così del fare un traffico sì vi tuperevole,
come dell'averlo per sì lungo tempo fomentato. Il presente diritto publico non
riconosce per legittima altra servitù, se pur così possa chiamarsi, se non la
cattività di guerra, o la prigionia per cagion di reato: la prima nasce dalla
necessità di difender se stesso e di to gliere all'inimico i mezzi dell'offesa:
la seconda dalla perdita del diritti naturali, o civili, che la legge impone
per pena, e a cui il delinquente per proprio fatto si sottopone. Le privazioni
annesse alle due divisate spezie di cattività, son de terminate dal fine, che
ciascuna di esse si prefigge. Ogni maggior privazione, che s'impo nesse alle
persone del cattivi, fuori del fine, o della publica sicurezza, o degli effetti
salutari della pena, sarebbe un atto inumano, contrario a principi della leg ge
di natura e a precetti della religione. V. Schiavitù. SEVERITÀ (prat.), qualità
d'uomo che esige l'adempimento d'ogni, benchè mi nima obligazione. V.
Obligazione. È alquanto meno della rigidezza e del rigore, che addita un che di
durezza, an che ne modi. V. Rigidezza. SFAccIATAGGINE e SFACCIATEzzA (prat.),
disonestà che non teme o cura vergogna. V. questa voce. ScoMENTo (prat.),
sentimento di non poter vincere una difficoltà, che si oppone al nostro
desiderio. V. questa voce. SICUREzzA (spec. e prat.), sentimento, che ci rende
certi d'un fatto, o d'una ve rità qualunque. Scambiasi talvolta collo stato
dell'ani mo, e talvolta ancora colla convizione della verità; in ciascuno del
quali casi prende il significato dell'assicuranza e del la certezza. V. queste
voci. – 457 – SILLABA (disc.), suono articolato che è elemento della parola, e
formasi da una sola vocale, o da una vocale unita a consonanti. I gramatici han
molto disputato intorno alla esatta definizione della sillaba, come chè niuno
ignori che essa sia, e come si formi. Ognun sa, che in un vocabolo v'ha tante
sillabe, quante sono le vocali, che il numero delle sillabe distingue i
vocaboli monosillabi, da dissillabi, da'trissillabi, e da polisillabi; e che lo
stesso numero delle sillabe serve di misura a versi in quelle lingue, delle
quali il metro non è fon dato nella quantità. V. Metro, Quantità, Vocale.
SILLEssi (disc.), una delle figure prin cipali del discorso, per la quale si
conce pisce il senso devocaboli, non per quello che letteralmente importano, ma
per quel che l'autore del discorso ha inteso dire. V. Figura. È stata così
denominata, quasi che per essere compresa ha bisogno non del sem plice
ministero del sensi, ma della conce zione dell'ascoltante, o del lettore. Per
la stessa ragione i gramatici han chiamato sillessi la concordanza del verbo o
dell'addiettivo, non colla voce che gli è più vicina, ma col subbietto
principale del discorso; appunto perchè dee l'inten dimento supplire alla
materiale giacitura delle parole. Taluni ancora, come lo Sciop pio, l'hanno
distinta in semplice e rela tiva: semplice, quando i termini del di scorso non
si accordano o nel genere o nel numero, o in ambedue insieme: re lativa, quando
il pronome relativo si ri ferisce ad un antecedente che non è es presso, ma che
noi concepiamo per lo senso stesso del periodo. SiLLogisMo (dise.), discorso, o
argo mento composto di tre proposizioni, delle quali la terza è dedotta dalle
due prece denti. - Scopo del sillogismo è il trovare una verità ignota per
mezzo d'una relazione che questa abbia con un'altra verità nota, o sia il
formare un giudizio affermativo o negativo intorno alla convenienza o di
sconvenienza del predicato col subbietto. V. queste voci. Per formare un tal
giudizio, la mente paragona una nuova idea colla già nota, dalla quale risulti,
che l'idea della terza proposizione è compresa nella prima. Que sta novella
idea, che serve di termine di paragone, è quel che dicesi termine me dio. Così,
nel sillogismo, ogni animale è mortale, ma l'uomo è animale, dun que l'uomo è
mortale, si conchiude es sere l'uomo mortale per virtù della seconda
proposizione, in cui si è stabilita la qua lità di animale, comune alla prima e
alla terza proposizione. De tre dinotati termini, dequali è com posto il
sillogismo, dicesi maggiore quello che esprime il predicato o l'attributo, che
è un'idea universale; e minore l'altro che dinota il subbietto, il quale è
un'idea particolare; e però maggiore chiamasi la proposizione che contiene il
primo, minore quella che contiene il secondo: ambedue poi son dette premesse,
perchè nell'or dine del ragionamento precedono la terza, che è detta
conclusione o conseguenza. Il fine delle numerose regole che i logici han dato
per la struttura de sillogismi, è che la conseguenza corrisponda esatta mente
alle premesse. V. questa voce. Non è già, che un sillogismo debba
necessariamente essere composto di tre sole proposizioni, e non possa averne un
nu mero maggiore e talvolta anche minore; imperocchè quando la proposizione
media non somministri quella relazione imme diata tra il predicato e il
subbietto, di cui si va in cerca, uopo è andarla rintrac ciando in altre
proposizioni, insino a che si giunga ad una, la quale unisca l'at tributo al
subbietto. Ma in questo caso le diverse proposizioni, le quali enunciano il
rapporto tra l'uno e l'altro, tengono il luogo d'una proposizione sola, o sia
for mano tutte insieme il termine medio. Tal sarebbe la spezie del sillogismo,
col quale per dimostrare che gli avari sono infelici, si dicesse: gli avari son
tormentati da molti desideri: chi è tormentato da molli desideri, ha molti
bisogni: chi ha molti bisogni, non può tutti soddisfargli: chi non può
soddisfare tutti i bisogni, soffre molte privazioni: chi soffre molte pri
vazioni è infelice: dunque gli avari sono infelici. Possono ancora i sillogismi
contenere due sole proposizioni, e tali sono gli en timemi, ma in una delle
premesse è sot tintesa l'altra. V. Entimema. Aristotele, negli analitici i
quali for mano il suo organo logico, ci diede le due forme di ragionamento, per
le quali si può pervenire allo scoprimento del vero, il sillogismo cioè e
l'induzione. L'una procede dal generale al particolare, l'altra dal particolare
al generale: la prima è la forma propria del ragionamento a priori; la seconda
del ragionamento a posteriori: le differenze, che distinguon quella da questa,
sono state da noi esposte nell'ar ticolo induzione. V. questa voce. Il
sillogismo non pertanto, come primo instrumento dell'arte dialettica, fu la for
ma favorita di Aristotele, e dopo di lui della scuola peripatetica, e della
logica scolastica. Non solamente diede egli le re gole per la sua composizione,
ma discenº der volle alla disamina di ciascuna delle sue parti componenti. Queste
sono le pro posizioni, colle quali si afferma o si nega la convenienza del
predicato al subbietto, e però vanno distinte per la qualità loro in
affermative e negative. Se il suggetto d'una proposizione è un termine
generale, la convenienza del predicato può essere affermata o negata in tutto o
in parte: di qua l'altra distinzione, detta di quan tità, in proposizioni
universali e parli colari: tutti gli uomini sono mortali, è una proposizione
universale: pochi uo mini son dotti, è una proposizione parti colare.
Combinando insieme la qualità e la quantità, le proposizioni tutte possono
essere di quattro spezie, universali af, fermative, universali negative,
partico lari affermative, e particolari negative. V. Proposizione. - - La
meccanica costruzione del sillogismo è riposta nella conversione delle proposi
zioni. Convertere una proposizione, vuol dire trasmutarla in un'altra che
prenda per suggetto il predicato, e per predicato il suggetto. Se una
proposizione può es sere conversa, senza cangiamento di quan tità, la
conversione dicesi semplice, che se v'abbia diminuzione di quantità, allora la
conversione dicesi essere negli accidenti. V. Conversione. - La diversa
combinazione del termine medio ne sillogismi determina il genere loro: i generi
da logici sono stati detti figure. Nella prima figura il termine me dio sta
come suggetto della maggiore e come predicato della minore: nella seconda il
termine medio è predicato della mag giore e della minore: nella terza il ter
mine medio è suggetto così della maggiore come della minore: nella quarta il
termine medio è predicato della maggiore e sug geſto della minore. Delle
quattro dinotate figure le prime tre son di Aristotele, e la quarta di Galeno,
dal quale prese la de nominazione di forma galenica. Ma ciascuna figura di
sillogismo può variare per la qualità o per la quantità delle proposizioni, che
entrano nella sua composizione: tali variazioni diconsi modi. Ora nascendo i
modi dalle diverse com binazioni delle proposizioni universali o particolari,
affermative, o negative; il numero di tali combinazioni, aritmetica mente
calcolato, sarebbe in ogni figura di sessantaquattro; sì che le tre figure di
Aristotele aver potrebbero cento novanta due modi, o spezie di sillogismi, e le
quattro unite insieme, dugento cinquan tasei. Aristotele assegnò quattro modi
alla prima figura, quattro alla seconda, e sei alla terza. Gli scolastici ne
aggiunsero molti altri. I logici più accurati dimostra rono che la maggior
parte di tali modi vengono da sillogismi non concludenti , e li ridussero a
dieci soli, cioè quattro affermativi e sei negativi. Leibnizio cre dette aver
trovato che ciascuna delle quat tro figure aver può sei modi, e però ne
determinò il numero a ventiquattro. (V. la logica o arte di pensare di
Arnaldo). Che diremo di questo apparato di cate gorie, di regole, di
distinzioni e di bar bari nomi che opprimono la memoria ed inceppano la
naturale facoltà del ragiona re? Bello e lepido è il concetto di Locke, cioè
che Dio creando l'uomo non aveva inteso di fare soltanto un animale a due
gambe, lasciando ad Aristotele la cura di renderlo ragionevole e discorsivo; ma
avevalo dotato d'una facoltà capace di percepire, di ragionare, di conoscere la
convenienza e la disconvenienza delle idee, facoltà che naturalmente si
sviluppa e si perfeziona. A questa nota aggiugniamo ancora l'os servazione di
Reid, che se da una parte si consideri il lento corso delle scienze du rante il
tempo in cui la forma sillogistica fu risguardata come l'instrumento esclu sivo
della ragione; e dall'altra si rifletta a rapidi progressi che le stesse
scienze co minciarono a fare dal momento, in cui quella forma cadde in
disusanza, una forte presunzione contro di essa nasce da tal paragone. Ma per
non giudicarne sopra semplici presunzioni, qual è il frutto di quel logico
apparato? Certamente il siste ma che abbracciar volle tutte le forme del
ragionare, dando a ciascuna le sue regole, derivando queste da verità gene rali
ed astratte, ed applicandole per via di distinzioni e di suddivisioni al
pratico uso del ragionamento, fu l'opera d'un ingegno non solamente grande ma
pro digioso; nè i difetti, che nella generalità delle categorie, e nelle
partizioni possono trovarsi, formar debbono una ragione per isminuire
l'ammirazione che riscuoter deb be un sì ardito disegno. Ma tanto lavoro fu
speso per creare l'instrumento della scienza, e non la scienza stessa. Il ragio
namento è un instrumento facile che la natura ci ha dato. Ora l'aver cangiato
questo instrumento naturale per un altro artifiziale, il quale soggetta a regole
cia scuna delle operazioni spontanee dell'in telletto, l'aver creato tante
regole e tanti nomi, quante possono essere le cennate operazioni; l'avere
reassunto le regole par ticolari per portarle ad un principio comu ne; e
l'avere obligato la mente a seguire questa via, e non altra; fecero nascere un
antemurale alla scienza, a superare il - 140 - quale conveniva impiegare le
forze tutte dell'intelletto e della memoria, e spendervi una gran parte della
vita. Il ragionamento in somma, maneggiato non come instru mento, ma come
un'arte principale, servì a se stesso, e non alla scienza, divenne un
instrumento vizioso, il quale faceva ag girare la mente sempre nello stesso cer
chio, a guisa del cavallo attaccato alla ruota d'un mulino, che ritorna
continua mente al punto d'onde è partito. Infine volendo anche misurare tutto
il prodotto dell'arte sillogistica, per rispetto alle verità generali di cui ci
procura la conoscenza, seguiamo col cennato autore l'analisi del le ultime
conclusioni, alle quali ci condu cono le figure e i modi del sillogismo di
Aristotele. Tutti si riducono alla seguente verità, cioè che tutto quel che si
può affermare o negare d'un genere tutto intero, può ancora essere affermato o
negalo di ciascuna spezie e di ciascun individuo, in quello contenuti,
principio indubitato, ma non di tale profondità, che meritato avesse tanto
lungo ed inutile la voro (V. Analyse de la logique d'Aristote). ll detto sin
qua intorno alle regole su perflue, delle quali vestivasi la forma del
sillogismo, nulla detrae alla sua utilità, considerato come instrumento di
dimostra zione. Locke par che lo condannasse in odio delle massime e deprincipi
generali, dei quali aveva abusato la scolastica filosofia; e credette di
suggerire una diversa forma di ragionare, proponendo ad esempio il matematico
ragionamento. Ma in che le dimostrazioni della sintesi matematica son diverse
dalle logiche; e quale altro cam mino seguir potrebbe la mente nel pas saggio
dalle verità generali alle particolari? Lasciamo dunque il sillogismo alla dimo
strazione, e ad ogni altro ragionamento diretto a scoprire le relazioni del
subbietti coloro predicati, limitando le regole logi che a precetti necessari a
stabilire l'esatta corrispondenza delle conseguenze con le loro premesse. V.
Dimostrazione, Logica. SILLoGIzzARE (disc.), il fare raziocinio per via di
sillogismi. SIMBoLrco (erit. e dise.), quel che è espresso per simboli. V.
questa voce. Ogni dottrina può divenire simbolica, se in vece di esser esposta
ne'suoi propri termini, venga figurata sotto allegorie, emblemi, parabole o
enigmi. E però chia miamo sapienza simbolica quella degli Egizi, de Persiani, e
di altri popoli orientali che ebbero per costume di coprirne l'insc gnamento
col velame delle figure; e mitolo gia simbolica, il senso figurato delle favole
del paganesimo. V. Mitologia, Sapienza. ASimbolica parimenti dicesi l'arte d'in
terpretare i segni allegorici e ogni sorta di caratteri figurati, i quali
formano il tecnico linguaggio di taluni altri, come i geroglifici degli Egizi,
gli emblemi del l'araldica, i segni e le figure rappresen tative della
numismatica, e i segni alle gorici degiuristi, pe'quali si dà o si riceve
fittiziamente una cosa, che non potrebbe essere materialmente consegnata; o si
ma nifesta per un segno convenuto un dato proponimento dell'animo; ond'è che
giu risprudenza simbolica è stata denominata quella parte del diritto sì
publico, che pri vato, nella quale taluni atti legittimi ven gono espressi per
mezzo dedinotati segni. V. Segno. SIMBolo (disc. e spec.), segno di cosa
materiale, scelto per rappresentare un concetto, intellettuale o morale che
sia. – 441 – È nome generico che comprende ogni sorta di segno, al quale si dà
un senso convenuto, ma diverso dalla cosa signi ficata. Gli emblemi per
conseguente, le allegorie, le immagini e le figure in ge nerale sono simboli,
quando nascondono un senso diverso da quello che per loro stesse dimostrano. Le
immagini e i simboli han formato la prima lingua scritta dei popoli, che
avevano perduto l'uso della scrittura alfabetica, e che tramandar vo levano
alla posterità i loro pensieri, o la ricordanza del propri fatti. Laonde la pri
ma storia, per le nazioni illetterate, tro vossi scritta ne simboli, e negli
emblemi, l'interpretazione dequali divenne nelle se guenti età una sorgente di
ambigue e di false interpretazioni. È questa una delle ragioni, che involse
nella favola la storia delle prime età del paganesimo, e che empiè di doppi
sensi le loro mitologiche figure, V. Favola, AScrittura, SIMILARE (spee.), il
simile omogeneo. È vocabolo che ci viene dal francese, in trodotto da fisici e
da metafisici, per espri mere le parti d'uno o di più corpi della medesima
natura. Comechè gli manchi la desinenza italiana, esprimendo una idea complessa
del simile e dell'omogeneo, ma diversa dall'uno e dall'altro, uopo è ri
tenerlo, insino a che l'uso non glie ne abbia sostituito altro. V. Simile.
SIMILE e SIMILITUDINE (spee. disc. e crit.), idea di relazione tra due cose che
conven gono in talune delle loro qualità, come chè differiscano in altre. V.
Relazione. I matematici chiamano simili le cose, in ognuna delle quali si trova
tutto quel che è nell'altra, tranne la quantità, in cui ripongono la differenza
delle cose si mili. E però chiamano simili le parti che sono nella stessa
ragione degl'interi, o son tra loro come gl'interi; simili i trian goli, che
hanno gli angoli rispettivamente eguali l'uno all'altro, e quindi i lati son
proporzionali, ma non eguali; simili i ret tangoli, e in generale i poligoni
che negli angoli eguali hanno i lati proporzionali. Non potendo dunque le cose
simili differire tra loro, se non per la quantità, gli anti chi matematici non
ammisero altro mezzo per discernerle, se non il principio della congruenza.
Leibnizio introdusse il prin cipio della similitudine, altrimenti detto
degl'indiscernibili, per lo quale le cose simili son distinte a rispetto della
loro es senza. V. Congruenza, Indiscernibile. Il significato che la filosofia
speculativa e la discorsiva danno al vocabolo simile, è più indeterminato e men
rigoroso di quello del matematici; il perchè si scambia spesso coll'apparente,
e differisce essenzial mente dall'eguale, che dicesi delle cose, le quali sono
della medesima sostanza, e della stessa qualità, e quantità. E siccome per
sostanza intendiamo il subbietto nel quale risiedono le qualità che formano
l'es senza di ciascuna cosa; così è manifesto che la perfetta eguaglianza può
trovarsi negli Esseri semplici, e non ne materiali o composti, ne quali non si
dà identità di natura, nè parità di perfezione. Laonde nel linguaggio
metafisico l'eguale conviene alle sostanze immateriali, ed il simile alle
materiali o sensibili. V. Eguale, Sostanza. SIMMETRIA (spee. e crit.),
disposizione delle parti d'un tutto con analogia d'or dine e di proporzioni,
per modo che dalla loro unione risulti la regolarità e la bel lezza della sua
forma. 56 – 442 – È proprio delle opere materiali, eseguite con geometriche
proporzioni ; ma per si militudine si trasporta ad ogni lavoro in tellettuale,
nel quale concorrano insieme i pregi dell'ordine, della chiarezza, e della
brevità. Nell'accordo di questi tre requisiti è riposta la regolarità o
l'eleganza della forma che noi diamo a pensieri: l'ordine dispone le idee
secondo le naturali loro relazioni: la chiarezza le rende compren sibili, e
facili: la brevità ne riseca il su perfluo. V. Ordine. SIMPATIA (prat.),
affezione istintiva o razionale, per la quale giudichiamo favo revolmente di
taluno, e siam disposti a desiderare ea fare il bene per lui. V. Af fezione. La
simpatia è un principio d'azione, più potente della semplice affezione, perchè
può nascere tanto dall'affezione istintiva, quanto dalla razionale. Puramente
istintiva è la simpatia che nasce dalle apparenze del bello e del buo no.
Razionale è quella che ispira la so miglianza delle qualità dell'animo. Mista
dell'una e dell'altra è quella che nasce dalle affezioni della famiglia, e
dalla con suetudine della vita. V. Amicizia. SIMULARE e SIMULAZIONE (prat.), il
mo strare il contrario di quel che l'uomo ha nell'animo e nel pensiero, o sia
fingere quel che non è. V. Finzione. È diverso dal dissimulare, che importa
soltanto il nascondere il proprio pensiero. V. Dissimulazione. SIMULTANEo (
spec. ), quel che viene dal concorso di più cause nella medesima azione. È
termine adoperato da Magalotti, ed è necessario al linguaggio filosofico.V.
Azio ne, Causa. SINCRETISMo (crit.), mistura di contrarie dottrine, alle quali
si dà forma di sistema. Sincretisti furono i nuovi platonici ales sandrini, i
quali pretesero conciliare in sieme le dottrine di tutte le scuole greche ed
indiane; e tali sono tra moderni quelli che senza discernimento, confondono dot
trine figlie di contrari principi. SINDERESI (prat.), il senso della co
scienza, che rimorde l'uomo e gli fa ri conoscere i falli commessi. V. Coscienza.
SINGoLARE (spec. e disc.), ogni cosa considerata, per quel che è in se stessa,
senza relazione ad altra. È proprio dell'individuo e non della spezie, nè di
altra qualità, che possa essere considerata comune ad altro sub bietto ; nel
che differisce dal particolare. V. questa voce. SINTAssi (disc.), l'ordinamento
del vo caboli del discorso, secondo le regole del linguaggio. Molti grammatici
han preteso, che si distinguesse la sintassi dalla costruzione, comechè l'uno e
l'altro vocabolo, per la sua etimologia, esprima la medesima idea. Del resto,
essendo il significato del voca boli determinato dall'uso, si può senza
inconveniente attribuire alla sintassi quello dell'ordine analitico del
discorso, e consi derare la costruzione come la regola fon damentale del
medesimo. V. Costruzione. SINTESI (disc. e crit.), arte di dimostrare con
metodo diretto la verità trovata prima per altra via con l'analisi. - 445 – È
questo il metodo di Euclide e degli antichi geometri, che vien considerato co
me l'inverso dell'analisi. Appartiene per conseguente al ragionamento a priori.
suo principale instrumento è il sillogismo. V. Analisi. E avvenuto al vocabolo
sintesi quello stesso che notammo per l'analisi, cioè che i logici, i geometri,
i fisici, e i meta fisici gli hanno dato un significato diverso. I logici
diedero questo nome al ragiona mento diretto e propriamente al sillogismo. l
geometri nascondendo la forma del sil logismo, ma allo stesso modo ragionando,
chiamaron sintesi quel genere dimostra tivo di teoremi, per lo quale passando
da una proposizione dimostrata all' altra, si perviene alla conclusione, o sia
alla ve rità particolare di cui vassi in cerca. I fisici intendono per sintesi
quel metodo, che dalle cause già scoverte e ammesse come principi, spiega i fenomeni
che ne sono gli effetti. Kant chiamò sintesi la composizione o l'accessione di
più rappresentazioni tra loro diverse; in chiarimento della qual deſi nizione
giova ricordare, che egli ridusse a due i modi dell'operar della mente,
all'analisi e alla sintesi, facendo consi stere la prima nello scomporre una
rap presentazione complessa ne suoi costitutivi elementi; e la seconda, nel
congiungi mento di più rappresentazioni insieme. Sopra tali definizioni fondò
il cennato au tore la famosa sua distinzione del giudizi sintetici e analitici.
V. Giudizio, Rappre sentazione. Riportando noi tutte le forme di ragio namento
alle due indicate da Aristotele e da Bacone, cioè al sillogismo e alla in
duzione, e dando quello alla sintesi, e questo all'analisi; veniamo per
conseguente ad ammettere il significato logico, come proprio e caratteristico
della voce sintesi, e considerar questo per lo metodo, per lo quale coll'aiuto
delle verità generali di mostriamo le particolari in quelle comprese. V.
Induzione, Sillogismo. La sintesi per le cose dette, ha maggior analogia colle
scienze positive o dimostra tive, che colle scienze naturali, così det te, o
sia colla filosofia sperimentale fon data sopra l'osservazione de fatti partico
lari; ma non può dirsi privativa di quel le o estranea a questa, dapoichè la ri
cerca della verità spesso esige il promiscuo uso dell'uno e dell'altro metodo.
Ciò non ostante Condillae e i seguaci suoi condan narono il metodo sintetico
nelle scienze intellettuali, in odio delle proposizioni ge nerali, degli
assiomi, e delle forme sillo gistiche. Ma condannando un tal metodo, vennero a
condannare altresì la severa di mostrazione, e tolsero all'analisi la sua
compagna ausiliaria. In somma esagera ron tanto i principi della filosofia
speri mentale, che interdir vollero alla razio male per sino il mezzo di
dedurre le verità particolari dalle generali. V. Assioma. SINTETIco (disc. e
crit.), che appar tiene alla sintesi. Metodo sintetico è stato detto l'ordine
che serba la sintesi nel procedere dalle verità generali alle particolari. Un
tal me todo fu detto nelle scuole a priori, perchè parte da principi della
ragione. V. Priore. Niuno meglio di Aristotele, ne suoi ana litici posteriori,
ha dimostrato l'utilità del doppio metodo, del sintetico cioè e dell'analitico,
e quel che ciascun de'due ha di peculiare. Se si tratta di dimostra re,
partendo da un principio universale, assoluto e per se stesso evidente (che
vuol º – 444 – dire indimostrabile) deesi per mezzo del sintetico pervenire
alla conoscenza del par ticolare, del relativo, e del contingente. Laddove poi
trattisi di definire, convien procedere dal particolare, o sia dagl'in dividui,
e paragonandogli insieme, rile vare il comune e il vario tra loro, for mare le
spezie, e da queste comporre il genere, nel che consiste l'analitico, o a
posteriori. Quel metodo insomma conviene più alla dimostrazione e alla scienza
già formata: questo alla osservazione e alla invenzione. V. Posteriore. Queste
definizioni dimostrano quanto ben conoscesse Aristotele l'uso di ambo i metodi,
e spezialmente del sillogismo e della induzione. V. queste voci. Kant chiamò
sintetici a priori i giudizi che la mente forma congiungendo insieme più
rappresentazioni.V. Giudizio, Sintesi. SISTEMA (spee. crit. disc. e prat.), dot
trina, di cui le parti sono insieme coordi nate, per una catena di principi e
di con clusioni, delle quali ognuna dipende dal l'altra. Ogni sistema
presuppone un principio generale, o una verità di fatto fondamen tale, da cui
derivano le altre. Il principio o il fatto, assunto come fondamento di tutta la
dottrina, può esser vero, verisi mile, o dubbio; il perchè i sistemi son di due
sorte, razionali o ipotetici. Tal volta ancora, essendo vero il principio o il
fatto fondamentale, incerte sono le sue deduzioni, sì che un sistema può comin
ciare dal razionale, e finire all'ipotetico. Di qua apparisce manifesta la
differenza tra l'ipotesi e il sistema, che molti han confuso. L'ipotesi non è,
che un princi pio assunto come vero, il quale insino a che non sia dimostrato, rende
condizionali tutte le conclusioni, che da esso si dedu- . cono; e però dà il
carattere al sistema, ma non è il sistema stesso. V. Ipotesi. Ora come
qualificheremo i diversi sistemi di filosofia intellettuali, che hanno succes
sivamente regnato nelle scuole, il platoni co, il peripatetico, il cartesiano,
il lockia no? Gli diremo tutti ipotetici, comechè cia scuno partisse da un
principio vero, avendo Platone e Cartesio ammesso come sorgente delle umane
conoscenze un solo del due principi, da quali le attigniamo; e avendo
Aristotele e Locke riconosciuto soltanto l'altro, cioè i sensi. Imperciocchè
l'ipote tico può nascere tanto dal supporre vero un principio non dimostrato,
quanto dal l'ammettere come generale una verità par ticolare; vizio nel quale
cadono tutti quel li, che col semplice vogliono rendere ra gione del composto,
e pretendono di spie gare la natura per un principio unico, abusando della
massima, che ella agisce sempre per le vie le più semplici. Tale fu il vizio
non solamente dell'antica filosofia intellettuale, ma ancora delle scienze fi
siche, nelle quali tanti erano i sistemi, quanti i principi generali, che
ciascuna scuola assumeva, come supposte cause universali di tutti i fenomeni
naturali. Così, una faceva del fuoco l'agente gene rale della natura, un'altra,
l'acqua; una, i vulcani, e l'altra, il mare; una gli aci di, e l'altra gli
alcali, e così via discor rendo. La difettuosità e l'insufficienza di cotali
sistemi è divenuta manifesta, non prima che l'osservazione e la sperienza han dimostrato
che molti fenomeni non potevano essere spiegati per lo principio da cui
facevansi dipendere, o rimanevano fuori della causa, nella quale era stata
riposta la ragione sufficiente dell'essere loro. Laonde la pretensione di
spiegare i – 445 - fatti della natura per via di sistemi, è ces- a tutti
comune; nella quale operazione se sata insieme coll'amor delle ipotesi, dal che
possiamo dedurre molte utili conseguenze per rispetto al metodo più conveniente
alle scienze fisiche, del pari che alle metafisiche. La qualità di razionale
compete a quei soli sistemi, i quali son fondati nelle os servazioni e nella
sperienza. Chi dal par ticolare cammina al generale, per la scala delle verità
intermedie, è sicuro di non errare nella catena delle cause naturali, e di non
intrudere nulla d'ipotetico nelle sue conclusioni. Ad evitare l'ipotetico, uopo
è rimuovere il ragionamento a priori e at tenersi rigorosamente all'analitico,
o a po steriori. L'induzione e l'analogia sono la vera guida de sistemi
razionali; il sillo gismo e la sintesi son quelli che han pro mosso e favorito
gl'ipotetici. V. Analisi, Induzione, Sillogismo. Ciò non ostante i sistemi
ipotetici come le ipotesi stesse, possono essere di grande utilità, nella
invenzione, o nella classi ficazione de fatti della natura, quando sieno usati
nel modo stesso, nel quale adoperiamo il dubbio metodico, cioè come saggio o
pruova della verità. Un sistema che raccoglie insieme molti particolari fe
nomeni, i quali sembrano dipendere da cause comuni, se gli abbraccia tutti
nelle cause che loro assegna; e se non è smen tito in alcuno de suoi
particolari, anzi viene in ciascun di essi confermato; può per mezzo
dell'osservazione e della spe rienza, da ipotetico che era divenire ra zionale,
non altrimenti di quel che avviene nelle ipotesi del geometri, le quali son di
mostrate vere, quando le contrarie propo sizioni sono escluse come false.
Possono ancora tali sistemi servire come metodici ragunamenti de fatti della
natu ra, per trovare una legge o un carattere non si perviene all'assoluta
verità si giu gne almeno ad ottenerne un prodotto, che può essere ritenuto come
provisional mente vero, o sia come vero relativamente allo stato attuale della
scienza. Nel primo dedue dinotati sensi l'Astrono mia si serve de sistemi
ipotetici, e col mez zo loro ordina tutte le parti dell'universo, esamina i
fenomeni de'corpi celesti, e spie ga i cangiamenti di sito, e i movimenti loro.
Questo è quel che comunemente chia masi sistema del mondo, sistema sola re, o
planetario. Cotesto sistema prende i suoi principi dal moto della Terra e del
Sole, che noi risguardiamo come i due principali pianeti di tutta la volta
empirea. Due sono stati i grandi sistemi planetari, che han tenuto divise le
opinioni degli astronomi, il tolomaico e il copernicano. Tolomeo, Ipparco,
Aristotele e con essi la generalità degli antichi astronomi ten nero, che la
Terra stesse ferma ed immo bile nel centro dell'universo, e che il cielo tutto
si volgesse intorno ad essa da oriente ad occidente, portando seco tutti i
corpi celesti, le stelle e i pianeti. Copernico per contrario, rovesciando un
tal sistema, in segnò essere il Sole fermo nel centro del sistema planetario e
non muoversi se non intorno al proprio asse; muoversi intorno a lui da
occidente in oriente e in diverse orbite Mercurio, Venere, la Terra, Marte,
Giove e Saturno ; muoversi intorno alla Terra la Luna, che l'accompagna nel suo
intero giro intorno al Sole; muoversi allo stesso modo quattro satelliti
intorno a Giove, e sette intorno a Saturno ; muoversi nello spazio planetario
le comete in orbite ec centriche; essere fuori degli spazi plane tari le stelle
fisse, le quali per la immensa loro distanza sembrano poste fuori d'ogni – 446
– relazione colla Terra e cogli altri pianeti; essere infine probabile che ciascuna
di tali stelle sia un sole e insiememente un centro d'un altro particolare
sistema, circondato ancor esso da pianeti, i quali in differenti periodi e a
diverse distanze fanno i loro corsi intorno a rispettivi soli, e son da questi
riscaldati, conservati, ed illuminati; dal che sopratutto formasi in noi l'idea
della immensità dell'universo, e d'un si stema di sistemi. Fondamento di questo
universal sistema è il principio della at irazione universale scoperto dal
grande Newton, il quale ha dato il più saldo so stegno al sistema di Copernico,
perocchè le attrazioni reciproche decorpi celesti ese guendosi in ragion
diretta delle masse; il Sole, al cui confronto la Terra è un ato mo, non
potrebbe obbedire all'azione di questa e rivolgersi intorno ad essa ; ma per
contrario obliga la Terra di descrivere la sua orbita in virtù della forza di
attra zione, congiunta a quella tangenziale, im pressale nella creazione. È
mirabile come il principio di Newton siesi verificato an che ne sistemi delle
stelle doppie, cioè di quelle stelle, che osservate con forti can nocchiali
veggonsi divise in due, la mi nor delle quali gira intorno alla maggiore colla
legge neutoniana. Colesto sistema che noi diciamo coper micano, se non in tutte
le sue parti, cer tamente per lo moto del Sole e della Ter ra, è più antico del
tolomaico, e forse fu il primo che gli antichi astronomi con cepirono in sul
nascere dell'astronomia. Aristotele riferisce essere stata questa l'opi nione
de pitagorici, e di tutta la scuola italica , ma essa scomparve per tutto il
tempo in cui prevalse la filosofia peripa tetica. Sin qua de sistemi ipotetici,
i quali servono di supplimento a razionali. La stessa denominazione dassi
ancora agli ordinamenti delle opere e degli Esseri della natura, che per la
loro immensità non potrebbe la mente individualmente abbrac ciare, e dee per
necessità raccogliere sotto date classi, ordini, generi, e spezie; il che forma
la principal cura della storia naturale. In tali sistemi trattasi di distin
guere i caratteri comuni da propri, e di dare ad ogni collezione d'individui un
se gno di discernenza, preso da una qualità essenziale, a tutti comune. Tra gli
autori che hanno intrapreso il catalogo delle varie spezie della materia
inorganica, v'ha chi ha preso per norma le sue parti costituti ve, e chi la
forma; e negli Esseri orga nici, chi ha scelto per caratteri discernitivi un
organo, e chi un altro, come i nervi, gli organi della generazione, del moto,
della digestione, e simili. Coteste varietà formano i principi di altrettanti
sistemi, distinti co nomi del rispettivi loro autori. La scoverta di nuove
spezie, o di leggi generali della natura non prima conosciu te, il progresso
della notomia e della fi siologia generale, l'esperienza insomma rettifica ed
amplia le prime classificazioni e nuovi sistemi succedono agli antichi. Chi può
rivocare in dubbio l'utilità e la necessità di tali continui cangiamenti, e
quindi di nuovi sistemi ? Il vocabolo si stema dunque, nella distribuzione
delle varie opere e produzioni della natura, non significa altro che ordine e
metodo d'in vestigazione e d'insegnamento. V. Metodo. Ora essendo la nozione
dell'ordine im plicita in quella di sistema, ne avviene che tanto nel
linguaggio comune, quanto nello scientifico, l'un vocabolo scambiasi sovente
coll'altro ; e che ogni scienza, arte, o disciplina aver debba nella mente di
chi la tratta un sistema antipensato, – 447 – il quale renda le parti sue
coerenti l'una all'altra, così nella connessione, come nel ragionamento; d'onde
nasce che il difetto della connessione e della coeren za, chiamisi vizio di
sistema; come nella poesia, nella pittura, nella musica, e in tutte le arti
belle, nelle quali il gusto si offende d'ogn'irregolarità d'ordine e di
simmetria. V. questa voce. Potendo ogni sistema ipotetico peccare o nel
principio che assume come vero, o nella coerenza delle sue parti: uno di tai
difetti è scientifico, l'altro logico: il primo può essere escusabile per la
varietà delle umane opinioni, o per la dubbiezza stessa del subbietto: meno
escusabile è il secondo, perchè nel ragionamento di ognuno si esige la regolare
connessione nelle idee. Intanto per distinguere l'un vizio dall'altro, spirito
di sistema è sta to denominato quello, che ci strascina a false conclusioni per
la forza d'un prin cipio che per avere preoccupato l'intel letto, fa creder
vere tutte le conseguenze che logicamente dallo stesso discendono. In questa
sorta d'errore v'ha eccesso di lo gica, mentrechè ve n'ha difetto nell'altro.
Vuolsi infine notare che l'ordine e la coerenza nella sapienza pratica non è
meno necessaria che nella speculativa; onde noi diamo il nome di sistema morale
alla serie delle azioni le quali formano il por tamento della vita, e sono una
conse guenza del principi e delle preconoscenze che nascono dalla luce stessa della
ragio ne. Ma essendo certi e chiari i principi, qual diversità può darsi nelle
verità che da essi dipendono, e che è quel che può moltiplicarne i sistemi?
Certamente nella filosofia pratica il vocabolo sistema prende un significato
assai più limitato che nella speculativa, perchè la sapienza morale ri pete le
sue preconoscenze dagl'istinti e da naturali principi della ragione ; per chè
le regole che essa dà alle azioni al tro non sono se non deduzioni immediate de
cennati principi ; perchè tali regole hanno lo stesso grado di evidenza presso
tutta l'umanità; e finalmente perchè le riconosciamo come scritte in noi dal su
premo legislatore. Non è dunque da prin cipi, che può nascere la diversità del
si stemi della morale. Ma l'ordine, il meto do, e la coerenza del logico
ragionamento sono egualmente necessari alle scienze fa cili e alle astruse, e a
pensieri del pari che a fatti; il perchè il vocabolo sistema nella filosofia
morale altro non importa, se non metodo nell'insegnamento, e preor dinata
coerenza delle determinazioni della volontà a principi della ragione. V. Ra
gione, Volontà. SISTEMATIco (spec. e prat.), chi ragio na, o opera
coerentemente a principi d'un sistema. V. questa voce. SisToLE (spec.), la
contrazione del cuore degli animali, per effetto della qua le il sangue è da
suoi ventricoli cacciato nelle arterie. La funzione a questa opposta e la dia
stole, che importa dilatazione. V. Cuore, Diastole. SMANIA (prat.), smodata
voglia di fare, o smodata intolleranza di difficoltà, che contraria un nostro
desiderio. SMEMoRAGGINE e SMEMORATo (prat.), qua lità d'uomo che ha perduto la
memoria. V. questa voce. SMENTICANZA. V. Dimenticanza. – 448 – SoAvE e SoAvITÀ
(prat.), quel che per una lenta e continua impressione riesce grato a sensi.
Come traslato, si applica ancora alle cose che producano una placida e grata
affezione dell'animo. SoBRIETÀ (prat.), moderazione negli alimenti. Si applica
in senso traslato alla modera zione d'ogni desiderio, non escluso quello del
sapere. SoDEzzA (spec. e prat.), vale durezza, una delle qualità della
materia.V. Durezza. Nel senso morale vale fermezza e sta bilità di affetti o di
volontà. SoFFERENZA (prat.), penosa tolleranza di una molesta, o dolorosa
sensazione. V. Dolore, Molestia. SoFFicIENTE e SUFFICIENTE (prat.), ido neo a
fare o a produrre qualche cosa. Nel linguaggio filosofico ha ricevuto uno
speciale significato, che è la causa o il fine, il quale rende ragione d'ogni
fatto, e spiega il perchè sia quello che è. Di qua il principio della ragion
sufficiente, co tanto predicato da Leibnitz. V. Ragione. SorisMA e SoFISMo
(disc.), argomento falso, cui l'ambiguo somministra le ap parenze del vero.
SorisrA (disc. e crit.), autore di sofismi. Dagli antichi furon chiamati
sofisti quei retori, i quali i primi misero a prezzo l'insegnamento, e
contaminarono la filo sofia coll'abuso della dialettica. Cotesto abuso
consisteva in questo, che scoprendo il probabile d'ogni argomento o d'una pro
posizione, e scegliendo il senso ambiguo delle parole, potevasi rendere incerto
il certo, e dare al falso le apparenze del VeTO. Aristotele in un apposito
libro, in cui volle esporre il fine che proponevansi i sofisti, e i mezzi che
adopravano per giu gnere all'intento loro, svolse le diverse spezie di artifizi
pe'quali i sofisti facevan guerra al vero. SoFISTIco (disc.), chi parlando fa
sot tigliezze o cavillazioni. SoGGETTo, SUBBIETTo e SUGGETTo (spee. e disc.),
ogni Essere, o cosa, che noi consideriamo come dotato, o come capace di qualità
e di modi. V. queste voci. Le qualità suppongono un Essere o una cosa, cui sono
attaccate. Ora quest'Essere, o questa cosa, è quel che chiamiamo sub bietto che
per la sua etimologia corrisponde a materia soggiacente. Nel linguaggio comune
cotesto vocabolo esprime quella medesima nozione, che nello scientifico è
designato col nome di sostanza. La sola differenza che passa tra le due cennate
voci, è che il subbietto indica una cosa qualunque; mentrechè la sostanza è un
subbietto determinato per la natura delle sue qualità. V. Sostanza. Nel
significato logico, suggetto è l'ar gomento d'un discorso, o il concetto del la
composizione di qualsivoglia opera, o trattato. Sogno (spec.), il pensar de
dormienti. La spiegazione del fenomeno del sogno è de più astrusi argomenti
della filosofia intellettuale, perchè risguarda un di quei fatti della natura,
che dipende dalla mi steriosa unione dello spirito e del corpo. – 449 – Se il
pensiero si suscita nell'animo dedor mienti, uopo è dire che non sieno sospese
le loro facoltà intellettive. E d'altra parte, se la ragione non può formare la
succes sione de pensieri nel sonno, conviene an che dire, che restino sospese
le funzioni di qualcuna delle sue facoltà. Non si può entrare nella disamina di
tali quistioni, nè valutarne la difficoltà, senza aver pri ma tentato di conoscere
quale sia lo stato dell'anima durante il sonno, e quale l'in fluenza che le sue
facoltà esercitano sopra quelle del corpo. V. Corpo. Intanto è un fatto certo,
che nel sonno l'anima conservi la facoltà e l'attributo del pensiero.
Egualmente certo è, che del no stro pensar nel sonno noi riteniamo spesso la
ricordanza, come di un fatto involon tario, e quasi come d'una scena che si è
dentro di noi rappresentata, senza il concorso della nostra volontà. Certo
ancora è, che di molti pensieri avuti nel sonno noi conserviamo la
consapevolezza, senza ritenere la ricordanza delle cose sognate. E finalmente
dubitar non possiamo di aver molte volte pensato dormendo, comechè ne avessimo
perduto tanto la consapevo lezza, quanto la ricordanza. Di questo fatto ne
siamo accertati dalla testimonianza di quelli che essendo desti e presenti al
nostro sonno ci dicono di aver noi parlato sognando; e ne siamo giornalmente
assi curati dalla sperienza che ne facciamo ne. gl'infermi e ne deliranti. Ora
sopra questi tre fatti uniti insieme, molti grandi filosofi hanno fondato l'opi
nione, che il pensar continuo sia un attri buto dell'anima; e che nel sonno
avvenga lo stesso che nella veglia, nella quale di stinguiamo due spezie di
percezioni, le insensibili e le sensibili: delle prime non conserviamo
ricordanza, e di molte nè ri cordanza nè consapevolezza: delle seconde perchè
fermate dall'attenzione, riteniamo sì l'una che l'altra. Ora unendo insieme
queste due spezie di percezioni formano esse uno stato continuo di pensiero,
parte avvertito e parte non avvertito, il quale è in perfetta corrispondenza co
vari pen sieri del sonno. Tal'è stata la sentenza di Cartesio, di Malebranche,
di Leibnizio, e di molti altri filosofi spiritualisti. I sensisti per
contrario, e tra questi Locke, cercano di chiudere ogni adito ad una tal
quistione, considerando il sogno come una conseguenza delle idee acqui state
durante la veglia, ed il sonno come la cessasione intera dell'attenzione e
della riflessione. Ma in mezzo a queste due opinioni può essere bene allogata
una terza più vera, perchè più circospetta. Noi possiam discer nere la
successione continua de nostri pen sieri nello stato di veglia, e distinguere
le insensibili dalle sensibili percezioni, ren dendo ancora, tra le prime,
permanenti quelle, alle quali ci piaccia volgere l'at tenzione; ma non possiamo
fare lo stesso del pensieri del sonno; nè possiamo affer mare o negare, se nel
periodo del sonno si trovi qualche intervallo di assoluta as senza del
pensiero. Molto meno possiamo dirlo de folli e del dementi, lo stato dei quali
è ancora più inesplicabile di quello del sonno. Diciamo dunque che la qui
stione, se l'anima pensi sempre è uno di quei metafisici problemi, che l'uomo
non può risolvere, e de quali può darsi una più o meno probabile soluzione. È
possibile che il pensiero sia continuo nel sonno, come nella veglia ; è
verisimile che il principio semplice ed attivo, il quale dà moto e vita alla
materia, conservi sem pre, come suo essenzial carattere, l'azio 57 - 450 - ne.
Ma chi può dire, che tra le altre mo dificazioni, che riceve dalla sua combi
nazione colla materia, non vi sia ancora quella della interruzione dell'azione?
Cer tamente la continuità non nasce da alcun fatto dimostrato, e per
conseguente è una supposizione, da cui non è permesso de durre una certa
conseguenza. V. Pensiero, .Sonno. SoLE (spec. e teol. ), l'astro regola tore
del corso di tutti i pianeti, che illu mina il mondo, e di cui la luce
sull'oriz zonte distingue il giorno dalla notte. Il sole, giusta la dottrina
copernicana, è il centro del sistema planetario: intorno ad esso rivolgonsi i
pianeti, e tra questi la Terra, in diversi periodi, secondo la rispettiva loro
distanza. V. Pianeta, Si Slema. - I due grandi fenomeni che noi non cessiamo di
contemplare e di ammirare, sono il moto e la luce del sole. Quanto al moto,
l'astronomia dimo stra, che quell'apparente moto annuale e diurno, dal quale
ricaviamo la misura del tempo, la partizione delle stagioni, e la differenza
del giorno dalla notte, non è in realtà che il moto annuale e diurno della
Terra. V. questa voce. - Ciò non ostante il sole ha pure un mo vimento di
rotazione intorno al proprio asse da oriente in occidente, sebbene più lento di
quello della Terra. Il sole è un corpo sferico, come la luna, quantunque a noi
apparisca sotto l'aspetto d'una superfi cie piana. La distanza ci mostra come
piana la superficie dell'uno e dell'altra, a guisa d'un disco, nel centro del
quale imma giniamo un punto, che risguardiamo come un centro della sferoide,
mentrechè quel punto non è, se non il centro del disco, o sia della superficie
apparente. Il movi mento di rotazione è stato dagli astronomi determinato e
calcolato per mezzo del fe nomeno delle macchie solari, talune del le quali
osservate in una parte del disco, veggonsi, in un dato numero di giorni,
passate in un'altra parte del disco stesso, e tornano poi nel periodo di 25
giorni al punto, nel quale furon da prima vedute. Di più sublime investigazione
è stato il penetrare nelle leggi generali, che re golano il moto degli altri
pianeti primari intorno al sole, e fare di questo astro il centro della forza
motrice, cui essi obbe discono. Per dare all'uomo un barlume della meccanica
celeste che muove e tiene in equilibrio gl'innumerabili globi, dei quali
l'universo si compone, Iddio mandò nel mondo i tre grandi ingegni di Keplero di
Galilei e di Newton, i quali determi narono le curve che ciascun pianeta de
scrive, il tempo nel quale consuma il suo corso, e le proporzioni stabilite tra
tempi e le rispettive distanze dal sole. Le leggi che regolano il moto de corpi
nella loro caduta, scoperte da Galilei; e le tre fa mose leggi di Keplero, cioè
che gli spazi descritti da pianeti intorno al sole, son proporzionali a tempi,
che l'orbita di ogni pianeta è un ellissi, nel fuoco del la quale sta il sole,
che i quadrati dei tempi delle rivoluzioni, son proporzio nali a cubi delle
distanze, prepararono la sublime teorica di Newton intorno al l'attrazione di
gravità, di cui la forza ri tiene i pianeti nelle orbite loro, passando per lo
sole, come se da lui emanasse. Tali scoverte aprirono alla mente dell'uomo la
geometria de'cieli, e sono certamente di quelle, che più onorano l'ingegno
umano. Ma giunti a tanta altezza di conoscenze, che abbiamo noi saputo? Che è
mai co – 451 – testa forza, e come essa opera? Dove ella risiede, e come si
conserva e si rinnova? Newton stesso coronò le sue sublimi sco verte colla
confessione dell' umana igno ranza: parlando di forze centripete avvertì, che
non aveva inteso riconoscere nel cen tri una potenza propria ; essendochè essi
non sono altro che punti matematici, nei quali per un concetto della mente, noi
concentriamo l'azione delle forze. V. A trazione. - . - Circa poi la luce, che
è l'altro grande fenomeno, nel quale è riposto tutto lo spettacolo della natura,
non è minore la nostra ignoranza. Giudicando da suoi ef fetti, noi crediamo
ignea la massa del sole: i suoi raggi risplendono, riscaldano, e bruciano come
il fuoco: raccolti per mez zo di lenti consumano, fondono, o can giano in vetro
i corpi più solidi : nello stato loro naturale infiammano i corpi più
accensibili: la loro forza è scemata dalla distanza, ma se è raccolta, divien
fuoco e ne produce i medesimi effetti: uopo è dire che nel suo stato di
naturale densità, non sia da quello diversa. Ammessa come ve risimile cotesta
ipotesi, noi non sappiamo circa la natura della luce nulla di più di quel che
conosciamo della sostanza del fuoco e del calore. V. queste voci. In
conclusione noi possiamo più ammi rare, che conoscere la maggiore delle opere
della natura. Maggiore è per noi, perchè consideriamo quest'astro come l'in
strumento della luce e delle tenebre, come la lampade del mondo che ci rende
visi bili le cose create, come il principio vivi ficante di tutti gli Esseri,
come il regola tore del corso de pianeti, e come il misura tore del tempo.
Questa ammirazione che ora è propria del contemplatori e del sapienti, fu altra
volta un sentimento comune alla prima umanità, la quale ripose ne' cieli la
sede della Divinità, e nel sole il suo tabernacolo. E fu sì vivo un tal
sentimen to, che i popoli i quali per attenersi al sensibile separaronsi dalla
cognizione del Creatore, divinizzarono il sole, e ne fe cero il primo oggetto
della loro idolatria. V. questa voce. SoLECISMo ( disc. ), grossolano errore
contra la sintassi. V. questa voce. SoLIDITÀ (spec.), stato, in cui si tro vano
d' ordinario la più parte de corpi della natura, e per effetto del quale pre
sentano una forma ed una estensione ben terminata. - Si distingue la solidità
dalla liquidità, e dalla fluidità aeriforme, o dal gas. Molti corpi son
liquidi, o fluidi aeriformi nel loro stato ordinario, ma alcuni di essi pas
sano, mediante la diminuzione del calore allo stato solido, o al liquido. Lo
stesso agente della natura può cangiare anche lo stato di molti corpi solidi in
quello di liquidità, o di gas. V. Calore. Acquistasi l'idea della solidità,
spezial mente per lo senso del tatto; e per tal mezzo la mente concepisce
l'idea della ma teria e del mondo esteriore. V. Tatto. Considerata, non come
uno stato acci dentale de'corpi, ma come l'effetto della coesione delle parti,
genera in noi l'idea della impenetrabilità e della estensione; sì che
l'intelletto la concepisce come una qualità comune a tutti i corpi, o sia come
una di quelle che diconsi qualità prima rie della materia. V. Impenetrabilità,
Maleria, Qualità. Spesso i geometri adoperano la parola solidità per indicare
il volume d'un corpo. V. questa voce. ºr – 452 – Sotudo (spec.), qualità d'ogni
corpo nel quale consideriamo la solidità. V. So lidità. - Nel senso che gli
danno i geometri è ogni corpo considerato per le tre dimen sioni sue, di
lunghezza, larghezza, e profondità. V. Dimensione. SoLLECITo (prat.), qualità
di uomo in quieto per l'aspettativa d'un avvenimento. SoLLECITUDINE (prat.),
sorta d'inquie tudine, che l'anima prova per un evento qualunque. V.
Inquietudine. Gli stoici l'enumerarono tra le spezie del dolore, e tra doveri
dell'uom sapiente contaron quello di doverla affatto sbandire dall'animo. V.
Dolore. Comunemente scambiasi colla cura e coll'affanno. - Vale ancora
prestezza e diligenza nel l' operare. SoNNo (spec.), riposo dall'azione, dato
dalla natura agli esterni sensi degli ani mali, per lo ristoramento delle forze
loro. L'umana curiosità cerca sapere, se dello stato di riposo e d'immobilità,
in cui sono gli esterni organi desensi, partecipino pure tutte le facoltà
dell'anima, o alcune tra esse, e quali sieno, durante il sonno, le relazioni
tra sensi e lo spirito? La quistione non solamente è ardua, ma insolubile. Ciò
non ostante è utile il conoscere, il più che è possibile, i par ticolari del
fenomeno del sonno, e dei sogni, perchè da tale investigazione può nascere una
più chiara conoscenza delle funzioni di talune delle facoltà dell'anima. Il
principio di questa investigazione può essere utilmente preso dallo stato di
veglia che è prossimo al sonno; dapoichè ognun sente la somiglianza che passa
tra i sonno, e quello stato in cui l'animo si trova, al lorchè il corpo è
premuto dalla necessità di dormire, e ognun conosce i mezzi che adoprar
sogliamo quando vogliamo secon dare o accelerare le disposizioni della na tura.
Tra questi mezzi il principale è il mettere l'animo in una quiete simile a
quella del corpo, rimuovendo ogni pen siero o cura, che potesse mantener nel
l'attività lo spirito, o il sentimento. In conferma di che si può anche
osservare, che quelli i quali più facilmente si addor mentano, sono i fanciulli
e gli uomini poco avvezzi a riflettere, appunto perchè essendo abitualmente
occupati di obbietti sensibili, tolta o sospesa una tale occupa zione, cessa
immediatamente l'attività delle funzioni della mente loro ; e non prima cadono
nell'ozio, che si abbandonano al sonno. La stessa osservazione ci è traman data
da viaggiatori intorno alla vita dei selvaggi, e dagli storici delle cose ameri
cane, intorno a negri schiavi nelle colonie. Simili a bruti, il tempo loro è
diviso tra il lavoro ed il sonno. Dagli esposti fatti, credette Dugald Ste
wart, poter conchiudere che, durante il sonno, restino sospese le facoltà dipen
denti dall'atto del volere, o sia dalla vo lizione propriamente detta. «
Imperocchè, se la sperienza ci dimostra, che per chia mare il sonno conviene
tener lontano l'esercizio delle facoltà intellettuali; non si può certamente
supporre, che queste ripi glino l'attività al momento, in cui il sonno è
venuto. E per contrario, più naturale è il credere che lo stato del sonno sia
il com pimento di quella disposizione, nella quale la natura e noi stessi ci
mettiamo, allor chè siam vicini a prenderlo. La sola dif ferenza che passa tra
uno stato e l'altro l – 455 – è, che prima del sonno, quantunque sia sospeso
l'esercizio delle facoltà intellettuali, pure è in nostro potere il rimetterlo
in azione; laddove cominciato il sonno, la volontà perde ogni suo impero sulle
facoltà dell'animo, del pari che sulle potenze del corpo. Come questo
cangiamento avvenga, e quale sia il mezzo per lo quale cessi ne gli organi
esterni de sensi l'attività e il moto, è la parte del fenomeno che forse
resterà sempre ignoto, Ora, ammesso come un fatto certo, la sospensione delle
funzioni volontarie della mente, durante il sonno, in due modi possiam
concepire che un tal fatto avven ga: uno è, che cessi interamente la fa coltà
del volere: l'altro che la volontà perda il suo potere sulle altre facoltà del
l'animo, del pari che sugli organi del corpo. I fatti che in noi stessi
osserviamo, ci dicono che il concetto vero è il secon do, e non il primo.
Convien distinguere i fatti sensibili dagli atti del pensiero. Quanto a primi,
gli sforzi che noi fac ciamo ne'sogni, per evitare i pericoli dai quali ci pare
essere minacciati, dimostrano che l'uso della volontà non è sospeso. Spesso
vogliamo profferire parola, e in vocare soccorso, ma i suoni della voce sono
inarticolati e confusi. V'ha dunque una interruzione de soliti legami tra la
facoltà che vuole, e le potenze del corpo che obbediscono: i nostri sforzi
dimostra mo, che l'animo continua a volere; ma che l'azione della volontà
rimane inefficace. Ampliando cotesto fatto, per meglio di chiarirne le conseguenze,
spesso ne sogni che ci atterriscono, noi intendiamo sot trarci colla fuga al
pericolo che ci sovra sta, e non ostante restiamo coricati nel letto, o fermi
nella posizione nella quale il sonno ci ha sorpreso; e talvolta ancora crediam
di fuggire e parci essere trattenuti da qualche difficoltà, o ostacolo, che cel
vieta. Son queste altrettante pruove, che le membra del corpo non obbediscono
ai cenni della volontà. Egli è vero che nel sonno inquieto degl'infermi sembra
che la volontà conservi qualche potere sul cor po, ma i movimenti che in questi
casi il corpo esegue, son piuttosto figli d'un'agi tazione nervosa, anzichè
d'un'azione rego lare impressa a qualche membro colla de terminazione di
produrre un determinato effetto. Ed aggiugnendo a questi fatti quelli che
osserviamo nel fenomeno dell'incubo, noi avvertiamo nel sonno stesso l'impo
tenza di agire, e l'inefficacia della volontà. Quel che distingue questa spezie
di sogno dalle altre, sono le sensazioni penose, dal le quali siamo tormentati.
Coteste sensa zioni son prodotte da una situazione inco moda, che non possiamo
cangiare; d'onde l'impazienza e la smania di non poterci scuotere da quel
letargo. L'incubo dunque ci dà la consapevolezza della impotenza de'nostri
esterni sensi. Finalmente è da os servare, che se la volontà può affrettare il
sonno, quando noi secondar vogliamo il bisogno e le disposizioni che sentiamo
di averne; è manifesto che la volontà con serva la sua attività nello stato
prossimo al sonno; e che sarebbe difficile, anzi impossibile il concepire, come
la volontà possa essere attiva per sospendere gli atti suoi propri. Circa poi i
secondi, pare che l'effetto del sonno sopra le azioni della mente sia simile a
quello che sperimentiamo nelle funzioni degli organi esteriori. Questi sic come
abbiam veduto, non obbediscono più alla volontà, ma i moti vitali ed in
volontari continuano senza veruna inter ruzione. Ora lo stesso possiam
concepire che avvenga degli atti del pensiero. Le operazioni dell'animo, che
sono indipen denti dalla volontà, continuano a fare il loro corso, ma restan
sospese quelle che necessariamente esigono il concorso della stessa volontà. E
siccome molti del nostri pensieri succedonsi senza l'intervento della volontà
(il che è chiaramente dimostrato dal modo come in noi avviene l'associa zione
delle idee); così allo stesso modo possiam concepire che avvenga la succes
sione del pensieri nel sonno. La sola dif. ferenza che distingue il sonno dallo
stato di veglia è, che nel sonno i pensieri ob bediscono ciecamente alle leggi
dell'asso ciazione; laddove nella veglia, son que ste modificate dall'esercizio
della volontà ». (Philos. de l'esprit hum. P. I. S. 6 cap. 5). Questa in breve
è la teorica di Stewart circa la natura e gli effetti del sonno. Quantunque
ingegnosa, e in molte parti fondata sopra fatti certi; pare tuttavolta che
oltrepassi le conseguenze che da tali fatti possono essere legittimamente
dedotte. E in prima si può ben concepire che la potenza attiva dell'animo
continui a volere nel sonno, e che gli organi esterni del corpo cessino di
obbedirle durante lo stato di sospensione e di quiete, nel quale la matura ha
voluto che fossero; ma sembra a noi inconcepibile, che per le operazioni della
mente la stessa facoltà attiva voglia e non possa agire. Insino a che si tratta
degli organi sensibili, i quali debbono ricevere il moto e la spinta all'azione
da una causa da essi diversa, l'impedimento che la natura stessa frappone tra
l'azion della causa e'l suo effetto, potrebbe spie gare sufficientemente il
fenomeno del son no. Ma l'ammettere la medesima differenza tra le facoltà
intellettive ed attive dell'ani mo, è lo stesso che materializzare le une a
rispetto delle altre. E quì vogliamo an che dire, che Stewart sembra essere
uscito da limiti della circospezione della sua scuo la, quando dalla analogia
del sensibile è passato a spiegare un fenomeno tutto in tellettuale. Come
concepire, che le leggi o le regole dell'associazione delle idee agi scano
sole, e mentre la volontà vorrebbe modificarle e dirigerle, mol possa? Quali son
poi coteste leggi o regole di associa zione? L'autore le aveva già partito in
due spezie, cioè dell'associazione spontanea, e di attenzione. Certamente
quando, per ispiegare la connessione delle idee de'sogni, è ricorso
all'associazione delle idee, ha in teso parlare della prima, e non della se
conda, giacchè non può darsi attenzione, senza il concorso della volontà. La
spon tanea, secondo lui, comprende le relazioni di somiglianza, di analogia, di
contrarie tà, di contiguità, di tempo, e di luogo. Ora se si ammette, che la
potenza attiva dell'animo conservi l'atto del volere, co me potrebbe spiegarsi
la sua impotenza ad impedire la progressione di quelle idee? Non intendiamo già
negare, che l'as sociazione abbia una grandissima parte nella successione delle
idee, durante il sonno; ma crediamo che l'autore abban donò le giuste sue
vedute, quando trovar volle il punto nel quale si arresta l'eser cizio delle
facoltà dell'animo durante il sonno, o sia quando volle spiegare come la natura
operi allorchè fa tacere le une, e lascia agire le altre. V. Associazione. Per
non cadere nell'ipotetico, uopo è distinguere i fatti certi dalle congetture, e
separare i fatti sensibili dagl'intellettuali. I fatti certi sono: 1.° Che il
sonno è il compimento di quello stato, nel quale ci troviamo quando la natura
ce ne fa sentire il bisogno; – 58 – 2.º Che in questo stato noi sentiamo la
necessità di far tacere l'azione così del sentimento come del pensiero; 3.º Che
l'azion viva dell'uno e dell'altro è il solo mezzo per lo quale può essere
vinta o frenata la naturale disposizione al sonno; 4.º Che la nostra volontà
può concor rere ad accelerare il sonno, allontanando il pensiero, e rimuovendo
le cause che irritar potessero la nostra sensibilità; 5.º Che il sonno chiude
l'adito alla im pressione degli obbietti esterni, sospen dendo l'attitudine del
sensi a riceverle, e togliendo per conseguente alla percezione il mezzo di
acquistare nuove idee; 6.º Che la memoria e l'immaginazione ritengono e
riproducono le antiche idee, le quali formano il suggetto de sogni; 7.º Che
l'associazione delle idee, le quali provengono dalla immaginazione e
dall'abito, somministrano nuovo alimento a sogni. 8.º Che le fantasime formate
da tali idee, e gli errori che le stesse contengono nelle relazioni di
contiguità di tempo e di luogo, manifestamente dimostrano l'as senza
dell'attenzione e della riflessione; 9.º Insieme coll'attenzione e colla rifles
sione, tace nel sonno il senso intimo del la ragione e la coscienza, sì che
tutte le azioni, che nel suo periodo si fanno, di vengono involontarie e
macchinali. Il ri torno dell'una e dell'altra facoltà, allorchè dal sonno
ripassiamo alla veglia, dimostra che l'animo avverte la differenza tra l'uno e
l'altro stato, rettifica e condanna i giu dizi formati nel sonno, e racquista
la con sapevolezza del proprio essere. - Con questi dati soli ci par difficile
il decidere, se la volontà cessi di volere, o se gli atti di volizione
rimangano ineffi caci per difetto delle potenze esecutrici. In somma il
concetto che la volontà sia nel sonno a se stessa presente, può convenire agli
atti esterni, e non mai alle opera zioni della mente, tra perchè a rispetto di
queste l'assenza dell'attenzione dice lo stesso che l'assenza della volontà, e
perchè si può ben concepire e adattare a sensi esterni l'immagine di
altrettanti esecutori della volontà; ma la stessa immagine diviene
inconcepibile, quando si voglia traspor tarla all'interno senso della ragione,
alla coscienza, alla riflessione o al giudizio. Le operazioni di queste facoltà,
son di loro natura complesse, per modo che l'intelli genza chiama la volontà, e
questa chiama quella. E quantunque cotesta verità notis sima fosse a Stewart, e
da lui in più luo ghi ricordata ; pure la discettazione che ne ha fatto, sente
in certo modo del vi zio di personificare le facoltà dell'animo, e di scindere
l'unità dell'Essere pensante. V. Facoltà, Sogno. - Dovendo noi fermarci innanzi
all'im penetrabile consorzio dello spirito colla ma teria, e limitar dovendo le
nostre con clusioni a soli fatti, che l'osservazione ci presenta come certi ;
risguardiamo come incerta e fallace ogni congettura, che da quelli non
discenda, e diciamo che il son no insieme col riposo desensi esterni porta seco
la sospensione di tutte le operazioni della mente, tranne quelle della memo ria
e della immaginazione sensitiva, nelle quali solamente può trovarsi la ragion
suf ficiente delle fantasime, e del deliri de so gni. V. Immaginazione,
Memoria. SoartE ( dise. ), sorta d' argomenta zione, colla quale per diversi
sillogismi coordinati, o per più gradi di verità note si perviene ad una rimota
verità, che sta in luogo di conclusione. – 456 – È la forma sillogistica, sotto
la quale più facilmente si nasconde il sofismo; e per l'abuso fattone da retori
prendesi il più delle volte in mala parte. Cicerone stesso ne ha così parlato.
SosTANTIvo e SUSTANTIvo (disc.), nome dato alla sostanza o al subbietto;
siccome addiettivo è il nome dato alle qualità sue. V. Addiettivo, Sostanza,
Subbietto. La distinzione che tutte le lingue fanno del sostantivi e degli
addiettivi, dimostra che la nozione della sostanza intorno alla quale han
cotanto sofisticato i metafisici, si è spontaneamente presentatata tra primi
bisogni della parola. SosTANZA (spec. e ontol.), l'astratta mozione del subbietto,
considerato come dotato, o capace di qualità. Cotesta mozione formasi da noi
allorchè concepiamo le qualità delle cose: il sub bietto a cui riferiamo tali
qualità è quel che denominiamo sostanza. E siccome del le cose non conosciamo
se non le qualità sensibili, o comprensibili, così ne segue, che separando per
astrazione le qualità dal subbietto cui sono inerenti, la nozione della
sostanza altro non contiene se non l'esistenza d'un subbietto di quelle capace.
Per meglio dichiarire un tal concetto, i sensi ci fan conoscere la materia per
le sue qualità, cioè per l'estensione, per la solidità, per la coesione delle
parti. Tali qualità presuppongono necessariamente un subbietto, senza del quale
non potrebbero stare, e di cui null'altro possiamo affer mare o negare, se non
quello che le qua lità stesse ne mostrano. Diciam dunque, che la materia è una
sostanza, di cui le qualità sono la solidità e l'estensione, o che il colore,
l'odore, il sapore son qua lità d'una sostanza materiale. V. Mate ria, Qualità.
- Il nome di sostanza conviene tanto ai subbietti corporei, quanto
agl'incorporei, immateriali, o spirituali. Così lo spirito è una sostanza, le
cui qualità sono il pen sare, il volere, il ragionare; e Dio è la prima, o
suprema sostanza che ha per sua qualità l'infinito. Gli scolastici definirono
la sostanza : quod ita ea istit, ut nulla alla re indi geat ad ezistendum.
Cotesta definizione è oscura e difettuosa, perchè abbisogna d'una spiegazione
per essere intesa nel senso in cui essi la concepirono, cioè che la sostanza a
differenza delle qualità non ha bisogno di soggetto, o sia, è soste gno di se
stessa. Ma l'esser sostegno di se stessa, non importa che esista per se stessa
; il che è uno de più grossolani equivochi , che filosofi di torbido e sofi
stico cervello ricavarono da tal definizio ne: vuol dire sì bene, che dà il
sostegno alle qualità, e da esse no'l riceve. Ora, ridotta a tale senso la
definizione degli sco lastici, non contiene altro che un circolo vizioso, cioè
che la sostanza non è qualità. Cartesio credette che noi ricaviamo la nozione
della sostanza dal principio, che del nulla non si danno qualità. Ma tanto è
lontano che cotesta verità sia un prin cipio, quanto è manifesto che ella è una
conseguenza ricavata dal contrapposto del la sostanza. L'assenza delle qualità
nel niente presuppone la nozione delle qualità in quel , che è qualche cosa. -
Locke, quantunque avesse chiaramente definito la sostanza, e avesse detto che
la solidità, l'impenetrabilità, la mobilità fanno nascere in noi la idea della
sostan za, detta materia, e il pensare, l'inten dere, il volere l'idea della
sostanza detta – 457 – spirito, pur tutta volta affermò essere questa un'idea
confusa, di niuno o di poco uso alla filosofia, che converrebbe per sino
sbandire dal linguaggio scienti fico. Cotanto abborrimento per lo vocabolo
sostanza forse era suggerito dall'abuso che ne avevan fatto gli scolastici, e
più di essi ancora Spinoza ; ma gli errori di costoro provennero appunto da una
falsa definizione. Spinoza avevala definito: quel che è in se, e per se stesso
si conce pisce, o di cui il concetto non si forma per lo concetto di qualunque
cosa, dalla qual definizione aveva poi per una serie di sofismi ricavato la
sostanza unica che ha per suoi attributi l'estensione e il pen siero. Ora da
una falsa definizione, o dal l'abuso d'un vocabolo non segue, che debba quello
proscriversi; e d'altra parte uopo è vedere se l'idea, che in se rac chiude
possa essere meglio espressa. Lei bnizio dimostrò, che la nozione della so
stanza non solamente è la più importante di quante ne ha l'umana cognizione, ma
forma il cardine del nostro pensare, per chè dinota il suggetto cui debbon
essere riferite le qualità proprie di ogni Essere. E sebbene noi la formiamo
per astrazione, pure è una nozione necessaria, senza la quale non potremmo
avere la conoscenza di noi stessi, di Dio, degli attributi suoi, e delle
qualità delle cose create. Meglio dunque diremo, che sostanza è un termine
relativo, generale, neces sario per esprimere la conoscenza di qua lunque Essere
o cosa, che abbia qualità. Se questa idea, o nozione, non avesse ricevuto dal
linguaggio scientifico un ter mine proprio, dovrebbe essere denominato con un
altro vocabolo preso dal linguag gio comune. In fatti quando i logici han
voluto sostituire un altro vocabolo espli cativo a quello di sostanza, l'han
chia mato sostrato, e discendendo più verso il comune uso di parlare, l'han
detto subbietto del quale nome potrebbe darsi ancora come equivalente la parola
cosa, di cui tutte le lingue si servono, come d'una espressione generica
adoperata per ogni spezie di suggetto, che non può per le circostanze del
discorso essere altrimenti determinato. In fine la nozione della so stanza è sì
necessaria al pensiero e alla parola, che forma in tutte le lingue il fondamento
della distinzione denomi so stantivi ed addiettivi, V, Qualità, Sostra to,
Subbietto. Da ciò segue che la nozione della so stanza debbesi avere come un
modo della nostra concezione, o come una legge pri mitiva della nostra
intelligenza, per la quale determiniamo la realità di tutti gli obbietti così
della percezione, come d'ogni altro obbietto del pensiero. SosTANZIALE (spec. e
ontol.), quel che è proprio della natura della sostanza, o che da essa è
inseparabile. È vocabolo per lo più adoperato per esprimere gli attributi o le
qualità costi tutive della sostanza; nel quale senso si scambia coll'
essenziale, e si distingue dall'accidentale e dall'accidente. V. que sta VOCe,
SosTRATo (dise.), termine di relazione, adoperato da logici per esprimere un
sub bietto che sostiene le qualità sue, quasi che sottostia alle medesime. In
questo senso equivale a sostanza, o a subbietto. V. queste voci. SotTIGLIEzzA e
SotTILITÀ (spec. e disc.), acume nel pensare, o nel ragionare. rº58 – 458 –
Prendesi talvolta in mala parte, nel quale caso equivale a sofismo, o cavillo.
V. que ste voci. SoTToMoLTIPLICE e SUMMoLTIPLICE (spec.), numero contenuto
esattamente in un nu mero maggiore. V. Moltiplice. È vocabolo proprio del
numero, dacchè per le altre grandezze si adopera più comune mente la
denominazione di parte aliquota. SPAVENTo (prat.), grande paura, pro dotta da
inaspettata cagione. Differisce dal terrore, che esprime sol tanto un timor
capace d'intercettare le vi. tali funzioni. V. Terrore. SPAZIo (spec. e ontol.
), il sito che oc cupano i corpi, o il sito e l'ordine delle cose coesistenti.
Son queste due idee che tutti facilmente concepiscono ed acquistano, insieme
con quelle della solidità, della estensione, e della disposizione delle cose
materiali. Il tatto ci manifesta la solidità e l'impenetra bilità: dalla
solidità la mente forma l'idea della estensione: dalla solidità estesa nasce
quella del sito in cui ogni corpo, o sia ogni parte della materia è allogata:
l'idea dello spazio dunque non è altro che quella della solidità estesa, e
della ordinata distri buzione delle cose coesistenti. Tal'è l'idea dello spazio
limitato, acquistata per mezzo desensi, e della percezione degli obbietti
esterni. Ma tra i sensi non il solo tatto ci procura la conoscenza della estensione
e del luogo. Coteste due idee divengono compiute per mezzo della vista, dacchè
noi tocchiamo i corpi vicini, vediamo i lontani, e misuriamo la differenza che
passa tra gli uni e gli altri; per modo che distinguiamo lo spazio tangibile
dal visi bile, distinzione che ancor essa appartiene allo spazio limitato, e
che si risolve nelle idee della distanza, e della grandezza rea le, o apparente
decorpi lontani. V. Ap parente, Distanza. Sin qua la metafisica non entra per
nulla nella idea dello spazio, la quale diviene un'idea trascendentale ed
astrusa, quan do la mente comincia a volerne conoscere la natura. L'idea del
sito e del luogo nasce in noi per una deduzione immediata della solidità e
della estensione, ma rappresenta ed esprime un obbietto diverso; tanto di
verso, quanto il contenente differisce dal contenuto. Quali sono i termini di
questo vasto recipiente, che in se accoglie tutta la materia estesa, e tutte le
parti dell'immenso universo? È finito o infinito? La sua in finità è assoluta o
relativa? È un che di reale, ovvero un puro nulla? Se non è un nulla, è una
sostanza di per se, o una proprietà di altra sostanza? Se è sostanza, dovrà
dirsi solida penetrabile, fluida, ae riforme, imponderabile? Se è un nulla,
sarà una semplice nostra idea, ovvero una relazione delle cose per rispetto al
sito loro? Ecco le quistioni nelle quali si sono inviº luppati gli antichi e i
moderni metafisici. Pitagora affermò essere lo spazio vacuo ed esteso oltre i
limiti del mondo sensi bile. Epicuro, Democrito, Leucippo dis sero essere
vacuo, impalpabile, penetrabile e non solido: intendevano essi per vacuo un
fluido in cui nuotavano i corpi, opi nione la quale rinacque poi con Gassendi,
perchè necessaria a spiegare il moto e l'ordinamento degli atomi e del
corpuscoli. Aristotele distinse il vacuo continuo o unito (coacervatum) dallo
sparso o dissemina to, e ammise il primo, negato avendo il secondo. Locke tenne
esser lo spazio ma teriale, ma diverso dalla materia de'corpi – 459 – - per la
sola penetrabilità. Cartesio negò ogni sorta di vacuo, avendo considerato lo
spazio come materiale, perchè esteso. Coteste controversie furono con maggiore
ardore ripigliate sul finire del decimo set timo secolo, perchè tre grandi
ingegni, e forse i maggiori tra quanti han colti vato la filosofia, si fecero
antesignani di due opposte sentenze. - Leibnizio definì lo spazio per l'ordine
delle cose coesistenti, e tenne essere una idea gemella di quella del tempo che
è l'ordine delle cose successive. Secondo il suo concetto, formando noi l'idea
dello spazio dalla estensione, consideriamo come distinte le sue parti, sebbene
non differi scano tra loro per quantità o qualità, ma soltanto per unità o
pluralità, o sia per ordine di numero. Da ciò segue, che lo spazio è un ente
immaginario, nel quale la nostra mente concepisce riposte le cose coesistenti,
come in un vasto recipiente. Clarke e Newton per contrario, sosten nero essere
lo spazio un vacuo immenso ed infinito. Clarke sopratutto, che combattè con
Leibnizio per se e pe'l suo maestro Newton, credette dimostrare, che lo spazio
non è un ente immaginario, o sia un nul la, dacchè il nulla non ha quantità, di
mensioni, o proprietà di sorte alcuna; disse non essere una semplice nostra
idea, per chè l'idea abbracciar può le cose finite e non l'infinito; essere lo
spazio infinito, per chè contiene in se il mondo, che è finito ; non essere
materia, perchè se così fosse sarebbe la materia infinita, e questa re
sisterebbe al moto; non essere una semplice idea di relazione al sito de corpi,
perchè lo spazio è una quantità; non essere so stanza di per se, perchè se così
fosse, si confonderebbe l'immensità coll'immenso. Avendo come dimostrate tutte
le cennate proposizioni, Clarke conchiuse, essere lo spazio quel che diciamo
immensità, ed esser questa una proprietà dell'Essere im menso; siccome
l'eternità è proprietà del l'Essere eterno. Tali conclusioni formavan pure la
dottrina dello spazio, professata da Newton, il quale credette dimostrare non
solamente il vacuo nello spazio, ma la necessità di tale vacuo, per potere spie
gare le leggi del moto, e sopratutto il moto de corpi celesti. Questi insomma,
al pari del suo discepolo, tenne essere lo spa zio l'immensità di Dio, anzi
essere il sen sorio della Divinità. Intorno alle opinioni di sì grandi uomini
bello è il considerare, che ognuno seppe ben rilevare i difetti della teorica
del suo competitore, ma niuno vide i nei del pro prio sistema. Egregia sarebbe
la definizione di Leibnizio, dell'ordine cioè delle cose coesistenti, quando
l'avessegli applicata allo spazio limitato, e quando per ordine avesse inteso
la disposizione delle cose ma teriali. Vera ancora sarebbe la similitudine del
tempo che ordina le cose successive, come lo spazio ordina le coesistenti. Ma
se per ordine egl'intese una disposizione ordinaria d'idee, che la mente forma
per poterle collocare l'una dopo dell'altra, lo spazio è un puro fenomeno, o
sia è una illusione del nostri sensi, e collo spazio scomparisce anche
l'estensione, perchè noi concepiamo questa come quella. Lo spazio dunque,
l'estensione, la forma, e la fi gura de'corpi sarebbero tutti fenomeni, o
altrettanti enti immaginari creati dal nostro modo di concepirgli. Tali
sarebbero le con seguenze dello spazio detto fenomenale di Leibnizio, che
qualche moderno scrittore ha con poca riflessione risuscitato a vita. Intanto
egli bene rispose a Clarke, quando osservò non potersi lo spazio concepire co
ai - – 460 – me attributo, dacchè non si dà attributo senza sostanza; e non
potersi concepire come attributo d'un Essere infinito, perchè le qualità
dell'infinito cader non possono nella nostra comprensione. E dalla sua parte
Clarke ben confutò Leibnizio quando gli obbiettò, che il negare la realità
dello spazio è lo stesso che il negare la realità della estensione; ma quando
venne a for mare la sua ipotesi si avvolse in contrad dizioni anche maggiori,
dapoichè suppose lo spazio infinito, cioè semplice, e insie memente capace di
quantità, come l'esten sione. Da tali confuse idee ſec egli nascere il concetto
d'un attributo dell'Infinito o sia di Dio ! V. Infinito. Più modesta di tutti i
nominati filosofi è stata la scuola scozzese, la quale messe da banda le
ipotesi ricorse alla percezione o sia a due sensi della vista e del tatto per
ispiegare e dichiarire sperimentalmente l'idea dello spazio. Senza i due
divisati sensi noi non acquisteremmo mai l'idea dello spazio, quantunque esso
non abbia qualità visibili nè tangibili. Ma noi la for miamo vedendo e toccando
i corpi che sono in esso contenuti: ambe queste sensazioni unite insieme ci
danno l'idea della esisten za, del sito, della distanza, del moto, e della
materiale disposizione di tutti gli obbietti sensibili. Cotesta idea dunque è
una condizione necessaria della facoltà del per cepire, e non solamente è dalla
stessa in separabile, ma è indelebile nell'animo; imperocchè concepiamo come
possibile la distruzione di tutti i corpi che in esso vedia mo, e come
impossibile la distruzione dello spazio che li contiene. Laonde per fatto della
natura noi concepiamo lo spazio come un vacuo immenso, eterno, indissolubile
che in se contiene le cose create, vale a dire incapace esso stesso di
creazione e di an nientamento. Un tal concetto non è una illusione desensi
della percezione, nè una cieca credenza dell'animo, perchè entra es
senzialmente nella realità di tutte le opere della natura: l'estensione e la
figura, che son parti dello spazio limitato formano parte della geometria, o
sia d'una scien za, di cui le verità sarebbe impossibile che non fossero quali
sono. Che è dunque lo spazio illimitato? È un concetto che l'animo forma,
traspor tando lo spazio determinato, all'indeter minato, o sia all'indefinito,
e da questo all'infinito assoluto. Un tal concetto è sug gerito dalla
immaginazione, la quale per via di similitudine è pronta sempre a sup plire a
tutto quel che è al di là desensi e della ragione. Se sia vacuo o pieno: se il
vacuo sia una privazione de corpi, o il puro niente; se il pieno sia formato di
tale o di tale altra sostanza materiale, penetrabile, o impenetrabile, sono
quistio ni, le quali tutte transcendono l'umana capacità, e che niuno sforzo di
scienza potrà mai rendere solubili. Kant, al pari di Reid, disse che il con
cetto dello spazio è una visione empirica o sia sperimentale, prodotta da sensi
del la vista e del tatto, la quale visione è una credenza naturale istintiva,
che non possiamo spiegare per qualsivoglia sup posizione. Ne fece insieme col
tempo una delle due forme della sensibilità, con che intese dire, che son due
leggi o con dizioni della natura, inerenti alla nostra facoltà sensitiva. E se
non avesse avvolto un tal pensiero in altri concetti tenebrosi, e non ci avesse
condannato alla incertezza della realità di tutte le rappresentazioni desensi;
potremmo annoverarlo tra i filo sofi moderni, i quali han tagliato i nodi delle
interminabili quistioni metafisiche ed - 461 - ontologiche iutorno alla natura
e alla rea lità dello spazio. Quel che ha contribuito a moltiplicare le
ipotesi, è l'analogia che la mente sco pre tra lo spazio e il tempo, analogia
la quale ha fatto a molti sperare, di potere per mezzo dell'uno spiegare i
fenomeni dell'altro. Siccome dalla idea del luogo passiamo a quella dello
spazio; così dalla idea della durata passiamo all'altra del tempo: lo spazio
comprende in se le cose estese, il tempo abbraccia le successive: le cose
create tutte sono nello spazio, e nel tempo: l'estensione e la durata non
solamente si misurano a vicenda, ma ser vono di misura alle altre cose
misurabili: non solamente noi concepiamo lo spazio e il tempo allo stesso modo,
e colla stessa facilità, o sia per una immediata dedu zione dalla estensione e
dalla durata; ma i concetti dell'uno e dell'altro sono del pari necessari,
istintivi, ed indelebili. In fatti nulla possiamo concepire che non sia nello
spazio, o nel tempo; e potremo bene immaginare che le cose tutte ver ranno a
mancare insieme con noi, senza poterci dispensare di riferire questo ed ogni
possibile avvenimento ad un tempo futuro, che vedrà innanzi a se disparire le
cose presenti e le successive, del pari, che è avvenuto delle passate. Ma se il
tempo ha somministrato similitudini alle ipotesi dello spazio, questo non è sta
to men fecondo in restituirle al tempo. V. questa voce. In conclusione, un
filosofo sperimen tale dee limitarsi alla idea dello spazio limitato o
determinato, di cui non v'ha nulla di più chiaro. I sensi del tatto e della
vista, dopo di averci somministrato una tale idea, ci mostrano che lo spazio a
è indefinito, perchè si protrae al di là del luogo occupato dal corpo, che ce
ne ha dato la prima conoscenza. La vista al lontana ancora di vantaggio i
limiti del lo spazio, e l'immaginazione, credendo di supplire al difetto della
vista, compie l'idea dello spazio indefinito. Ora se lo spazio originario, e
diremo elementare, non è che il luogo occupato da corpi, cotesto spazio non può
esser pieno di sua natura, perchè il domandare se lo spazio sia pieno o vacuo,
importerebbe lo stesso che cercare, se lo spazio e il corpo sono due cose
identiche. Ma potrebbe lo spa zio indefinito dell'universo essere occupato da
una sostanza tenuissima ed imponde rabile, come un etere sottilissimo; il che
se fosse, nulla aggiugnerebbe o toglierebbe alla idea dello spazio, nello
stesso modo che si può avere una idea chiarissima d'un vaso, della sua forma e
di tutte le altre sue qualità sensibili, senza conoscere la natura d'una
sostanza in esso contenuta. V. Etere, Vacuo. SPECCHIo (spec. e prat.),
cristallo inar gentato o stagnato da una parte, che per essere impenetrabile
alla vista, riflette dal 'altra parte i raggi della luce, e presenta l'immagine
degli oggetti, che gli si met tono davanti. La spiegazione del fenomeno della
re flessione della luce, per mezzo dello spec chio, forma il suggello della
Catottrica. V. questa voce. In senso morale, specchio vale qualun que lucido
esempio o ritratto di virtù, il . perchè diciamo, essere specchio al mon do di
costumi, di vera penitenza, o di altra virtù. V. questa voce, SPECIALE (dise.),
quel che è partico lare, e non comune o generico. – 462 – È addiettivo
proveniente da specie, che gl'Italiani hanno promiscuamente detto spezie. Noi
distingueremo queste due voci dando a ciascuna un significato proprio,
lasciando a derivati quello che dà loro l'uso comune del parlare. V. Specie,
Spezie. SPECIE (spec.), l'immagine o la for ma visibile d'un obbietto. Per rispetto
al modo col quale potessero gli obbietti trasmettere le loro immagini, i
sapienti facevano varie supposizioni: al cuni dicevano essere l'immagine una
ef. fusione della sostanza dell'obbietto; altri l'effetto della reflessione
della luce: altri finalmente l'azione d'un corpo più sottile della luce, che
ricevesse e trasmettesse da uno all'altro le figure de'corpi. Sopra tali
supposizioni distinsero le specie impresse dalle espresse, avendo chiamato
impresse quelle che dall'obbietto vengono all'orga no, ed espresse quelle altre
che proven gono dall'interno all'animo, o che l'or gano tramanda all'obbietto.
Di qua la dottrina peripatetica delle specie inten zionali, che erano poi
distinte in sensi bili e intelligibili, e dalle quali nasce vano le idee. V. Idea
intenzionale. I latini chiamarono species quel che i greci avevano chiamato
idea e forma; il perchè questi tre vocaboli furon da Cice rone scambiati l'uno
per l'altro. Gl'Italiani hanno preso da Latini la voce specie, che per semplice
varietà d'ortografia scrivono ancora spezie. Giova non pertanto alla chiarezza
e precisione del linguaggio filoso fico, dare a ciascuno di questi due vocaboli
un senso diverso, riservando alla spezie un significato puramente logico. V.
Spezie. SPECULARE (spec.), impiegare l'intelletto fissamente nella
contemplazione delle cose. SPECULATIvo (spec.), chi considera at tentamente le
cose, o il pensiero stesso che le considera. Scienza, o dottrina speculativa è
stata detta quella che investiga i principi e le teorie di qualunque parte
dell'umano sa pere, astrazione fatta dalla loro applica zione; ond'è che questo
vocabolo ha per suo contrapposto e correlativo il pratico, Efilosofia
speculativa diciam quella che versa circa gli obbietti invisibili del pensiero,
ed abbraccia ogni parte dello spirito umano. SPENSIERATo (prat.), uomo
trascurato che non ama di occuparsi di nulla, o che opera senza riflessione.
SPERANZA (prat.), espettazione di fu turo bene, e di quel che si desidera.
Cartesio definilla, contento dell'animo per un bene che crede poter conseguire.
ELocke, ideale godimento dell'avvenire. La speranza e il timore sono i due più
potenti motori delle umane azioni, perchè sono i due sentimenti che ci guidano
nel la ricerca del bene, e nella avversione al male. La speranza è sempre
implicita nel desiderio, anzi è quella che lo alimenta e lo sostiene, e ne
forma un principio di azione. V. Desiderio. SPERGIURo (teol. e prat.), bugia au
tenticata da giuramento. È una violazione della fede dovuta a Dio e all'uomo; e
però è la più grave di tutte le perfidie. V. Giuramento. SPERIERzA. V.
Esperienza. SPERIMENTo. V. Esperimento. SPERIMENTALE. V. Esperimentale. – 465 –
SPERMA (spec.), fluido seminale, se gregato da testicoli, che per mezzo d'un
sistema di vasi propri è condotto in un particolare ricettacolo, per servire
all'uso della generazione. V. questa voce. SPEzie (disc.), collezione
d'individui, ne'quali ravvisiamo somiglianza di quali tà, e però comprendiamo
sotto una comune denominazione. V. Individuo, Qualità. La spezie è compresa in
una collezione più ampia, detta genere, il quale ab braccia le qualità comuni a
più spezie. V. Genere. Infima spezie fu detta da logici quella che in se
comprende individui, i quali per difetto di differenze sensibili e caratteristi
che, non potrebbono formare genere. La spezie era uno de predicabili aristo
telici. V. Predicabile. SPIACENZA. V. Dispiacenza. SPIRITo (spec. e crit.),
l'intelligenza d'un Essere incorporeo, e la stessa sostanza incorporea. Così
nell'uno come nell'altro significato cotesto vocabolo comprende tutto l'ordine
degli Esseri immateriali, cominciando dal Primo increato ed infinito, e
terminando alle creature. È in somma la sostanza del l'anima umana ed il
contrapposto della materia. Noi concepiamo lo spirito come una so stanza essenzialmente
diversa dalla materia, perchè in uno sta l'azione, o sia la cau sa, nell'altro
la passione o sia l'effetto; perchè le qualità dell'uno sono essenzial mente
diverse da quelle dell'altra; e final mente perchè, conoscendo le qualità della
nuda materia non informata dallo spirito, distinguiamo negli Esseri animati,
senza alcun dubbio di errore, le funzioni e per conseguente le proprietà della
sostanza cor porea e della incorporea. Diciamo dunque, che l'estensione, la
solidità, la divisibilità sono proprietà della materia; il pensiero e la
volontà, dello spirito. E vero non pertanto, che per tale con trapposto noi
conosciamo la diversa natura dell'una e dell'altro, senza potere altri menti
definire che è lo spirito, o che è la materia, avendo il Supremo autore della
natura, riservato a se la cognizione delle essenze di tutte le cose create. E
però quando vogliamo definire lo spirito per le qualità che consideriamo come
sue proprie, lo diciamo un Essere dotato d'intelligenza e di volontà; e quando
vogliam designarlo per la sua diversità dalla sostanza corpo rea, lo
denominiamo un Essere immate riale. V. Immateriale, Sostanza. Considerato lo
spirito come la sostanza propria dell'anima, si adopera promiscua mente per
l'anima stessa, e per ciascuna delle sue potenze o facoltà intellettuali. Ed in
un senso più speciale è usato que sto vocabolo per esprimere l'acume stesso
dell'intelletto. Laonde chiamasi spirito la prontezza di combinare e di
associare le idee che han qualche relazione tra loro, il quale significato è
proprio de Francesi. Nel senso testè additato, Locke definì lo spirito per la
facoltà di prontamente rac cogliere insieme le idee, nelle quali puossi
ravvisare qualche somiglianza o relazione. V. Acume, Intelligenza. SPIRITUALE
(spec.), ogni essere dotato di spirito, o ogni qualità propria dello spirito.
V. questa voce. Ha per suo contrapposto il materiale, e per suo termine analogo
l'immateriale. V. queste voci. – 464 – SPIRITUALISMo (cril.), sistema
filosofico, che ammette lo spirito, o sia l'intelligen za, come unico principio
della umana co gnizione. È uno degli estremi, ne quali è caduta la filosofia,
avendo altri riconosciuto i sensi, come l'unica origine delle idee, che è quel
che è stato denominato sensi smo. V. questa voce. SPIRITUALITÀ ( spec. ),
l'astratto dello spirituale. È il vocabolo consecrato ad esprimere la sostanza
immateriale dell'anima.V. Anima, ASpirito. Noi concepiamo la spiritualità per
l'ana lisi stessa delle operazioni e delle facoltà dell'anima; e dapoichè
riflettiamo che il volere e il pensare, sono operazioni pro prie d'un agente
libero, dotato di qualità diverse dalla materia, però distinguiamo due sostanze
in noi stessi. La nozione dun que della spiritualità dell'anima, è la stessa
della immaterialità, espressa con due di versi vocaboli, de quali l'uno dice
quel che noi concepiamo che sia, l'altro, quel che certamente non è. V.
Immaterialità. SPLENDoRE (prat.), soprabbondanza di luce scintillante, che si
restrigne intorno ad un obbietto. Si trasporta dalla maggior luce del sole al
chiarore della virtù o della fama. SPONTANEITÀ e SPONTANEo (spec. e prat.),
l'atto di cui il principio è nell'agente stesso che lo produce. Questa
definizione è di Aristotele, e par che non si possa darne una più precisa:
spontaneum est, cuius principium est in agente. La spontaneità è un nome dato
alla qualità, che ha l'intelletto di formare i modi, e di astrarre; dalla qual
virtù na scono le idee generali di spazio, di tem po, di sostanza, di
accidente, di causa e di effetto. Applicato al moto indica spezialmente quello
che ogni animale produce per sua interna virtù; ed applicato alle azioni,
indica quelle che dipendono dalla volontà, e non da alcuno costrignimento. I
casisti han promosso la quistione, se la libertà della volontà consista nella sola
spontaneità dell'azione, ma quelli che han sostenuto l'affermativa sono stati
risguar dati come fautori del sistema della neces sità. Imperocchè, se così
fosse, le azioni umane sarebbero tanto libere, quanto i movimenti e gli atti
che dipendono dal pretto organismo animale. V. Libertà, Mecessità. SPRoPoRzioNE
(spec.), difetto di pro porzione, in più o meno che sia. È termine di
relazione, che nasce dalla comparazione della quantità, al pari del suo
contrapposto. V. Proporzione. SREcoLATEzzA (prat.), ogni sorta d'azio ne
illecita o riprensibile, che esce dal pre scritto della legge morale. STAMPA
(dise. e crit.), l'arte di pren dere con inchiostro permanente le impres sioni
de'caratteri alfabetici, e di qualunque altra figura, sopra carta, pergamena,
tela, o altra simile materia. Il vocabolo stampa è eomune a due diverse spezie
d'impressioni, l'una per dipintura e disegni, l'altra per libri. La prima
differisce dalla seconda in questo, che i caratteri della stampa da disegno
sono incavati in tavole di rame, di legno o di altra materia, laddove i
caratteri da libri son gettati in rilievo. L'una appartiene all'arte della
incisione, e l'altra alla tipografia. Lasciamo a libri di ciascuna delle
mentovate arti la storia dell'invenzione e deprogressi loro. Dicia mo soltanto,
che alla stampa del caratteri alfabetici sono dovuti la diffusione della
coltura in Europa, ed il progresso delle scoverte e delle invenzioni, per le
quali ogni generazione perfeziona ed accresce le conoscenze che le sono state
tramandate. E però gl'inventori di quest'arte son ce lebrati come i più
benemeriti promotori delle scienze, delle arti, e d'ogni utile di sciplina; e
può dirsi che il consenso di tutte le nazioni abbia eretto loro un mo numento
di gloria, il quale durerà insino a che vi saranno lettere. Le città, nelle
quali essi nacquero, disputansi ciascuna il vanto della maternità di sì
illustri figliuoli; e contrastano l'una all'altra la priorità dell'invenzione.
- Magonza se la disputa per Giovanni Fust e per Giovanni Guttemberg, Harlem per
Lorenzo Giovanni Koster, e Strasburgo per Giovanni Mantel. Se si dee prestar
fede ad un privilegio dell'Imperator Massimi liano (messo in fronte della
edizione del Tito Livio del 1518), posteriore di circa 5o anni a primi libri
apparsi in istampa, il merito e l'onor della invenzione son do vuti a Giovanni
Fust di Magonza, il quale ha ancora per se la priorità della data delle sue
edizioni, che risalgono insino all'an no 146o. - - Checchè sia di questa lite e
del vero inventore, se misurar si volessero i gradi delle difficoltà che
gl'inventori ebbero a su perare per giugnere al trovato della stam pa, potremmo
forse maravigliarci del non essere stata fatta una tale scoverta prima della
metà del decimoquinto secolo, quan do le arti tutte del disegno, e con esse
quelle dell'intaglio e del rilievo erano già di molto avanzate. Ed in conferma
di ciò potrebbesi ancora osservare, che i Chinesi trovato avevano quest'arte
parecchi secoli avanti di noi, comechè ignorassero l'uso de caratteri mobili,
ed imperfetta fosse ri masta l'arte loro a rispetto del progressi che la nostra
in breve tempo fece. A questi progressi è dovuta la bibliografia nuovo ramo di
storia letteraria, cui l'arte tipo grafica ha dato nascimento. Quantunque essa
abbracci un genere di conoscenze se condarie ed accessorie, dee ciò non ostante
essere risguardata, come il saper necessa rio de librai, e come un ornamento
della erudizione. V. Bibliografia, Erudizione. STATICA (crit.), parte della
meccanica, la quale prende per suo argomento i cor pi duri, che sono in istato
di equilibrio, V. Meccanica. STATURA (spec.), l'altezza dell'uomo, stabilita
dalla natura in proporzione delle altre sue dimensioni. I fisiologi dimostrano
che la media sta tura dell'uomo è proporzionale alla testa, alla quantità del
cervello, alla capacità degli organi della nutrizione, alla celerità del moto,
e all'agilità della sua persona. D'altra parte gli antichi monumenti pro vano
che la comune ed ordinaria statura degli uomini d'oggigiorno è la stessa che fu
nella prima età del mondo. I corpi im balsamati che si son trovati nell'Egitto,
le mummie, le dimensioni delle antiche tom be scoverte in diversi punti della
Terra, appartenenti a popoli di più o meno gran de statura; gli elmi e le
antiche arma ture adattabili alle persone e alle mem 59 – 466 – bra del nostri
guerrieri, come l' erano a quelli del più rimoti tempi confermano una tal
verità; sì che come favolose tener dob biamo le tradizioni del poeti che ci fan
credere gli uomini de tempi eroici di una statura e di proporzioni molto
maggiori delle presenti. Ciò non esclude che vi sieno stati, e vi sieno ancora
del giganti, siccome v'ha de'nani, i quali formano nella spezie umana una
gradazione simile a quella che si scontra nelle altre razze di animali;
gradazione adattata alle di verse regioni e climi del nostro globo, la quale
puossi ancora credere, che abbia variato nel numero. Imperciocchè è pos sibile,
che nel nascere della umanità e nel primo vigore dell'umana costituzione vi
sieno stati uomini di una misura più grande, anche relativamente a quelli che
tali oggi appariscono a rispetto della ge neralità. Certa cosa è che le forme
sim metriche del corpo umano dimostrano, che i giganti e i nani, i quali sono
al disopra, o al di sotto della media e co mune statura, van considerati come
va rietà aecidentali, e non come differenze caratteristiche di particolari
razze. V. Gi gante, Mano. STELLA (spec.), nome comune a tutti i corpi celesti,
che noi distinguiamo in due grandi classi, le fisse, e le erranti. Erranti
diconsi propriamente i pianeti, i quali mutano sempre di sito e di distan za, a
rispetto così degli uni verso degli altri, come delle stelle fisse, e son
quelli che formano il così detto sistema planeta rio. Il nome di fisso è stato
dato a quel l'altro immenso numero di corpi luminosi, che serban sempre la
stessa distanza tra loro. Si suole anche adoperare la voce ge nerica astro, per
indicare qualunque cor - po celeste, e distinguere conomi di stelle o di
pianeti gli astri fissi o gli erranti. Le comete son comprese ancora tra le
stelle erranti, ma la difformità del perio di , e delle curve che esse
descrivono, e il moto loro eccentrico a rispetto del pia neti propriamente
detti, le fanno collocare in una classe da questi diversa. V. Come ta, Pianeta.
- - Non è parte dell'universo che dia come questa una pruova maggiore della sua
immensità. Gli astronomi la considerano sotto cinque diversi punti di veduta,
cia scun de'quali somministra ad ogni uomo contemplatore argomenti di profonde
medi tazioni intorno alla onnipotenza del Crea tore e alla condizione
dell'uomo, collo cato in mezzo a cotante maraviglie con cortissimi sensi per
discernerle, e con una mente capace quasi di abbracciarle in tutta l'ampiezza
loro. Seguiamo per poco le considerazioni astronomiche intorno alla distanza,
alla grandezza, al numero, alla natura, e al moto delle stesse fisse. Distanza.
Le stelle fisse sono così re mote da noi, che non è ad esse applica bile alcuna
delle misure adoperate nel si stema planetario, per determinare le di stanze de
corpi celesti dalla Terra, o dell'un di essi a rispetto dell'altro. Cote ste
distanze appariscono a noi quasi infi nite ed indeterminabili, perchè non ab
biamo alcuna paralasse sensibile per mi surarle, come ne pianeti; o sia perchè
vedendo noi sempre le stelle nello stesso punto del cielo, da qualunque punto
del l'orbita della Terra le riguardiamo, non possiamo stabilire alcuna
relazione tra la loro distanza ed il diametro dell'orbita stessa. Ciò non
ostante molti astronomi hanno tentato di scoprire una paralasse per qualcheduna
delle principali stelle fisse, e – 467 – Flamsteed credette di averne trovata
una di venti secondi, giusta la quale avrebbesi la distanza della stella Sirio
dal Sole. E siccome la distanza media del Sole dalla Terra è di 23984
semidiametri terrestri; così la distanza di Sirio dalla Terra, sa rebbe di 247
milioni di raggi terrestri. Con altro metodo tentò Huygens di sco prire la
distanza delle stelle fisse, parago nando cioè i diametri apparenti del Sole e
di Sirio, che trovò stare tra loro come 27664 a 1; sì che, se la distanza del
Sole fosse 27664 volte maggiore, vedrebbesi da noi dello stesso diametro del
Sirio. Ora supponendo che questa stella fosse in grandezza eguale al Sole
(supposizione che può contenere errore nel più o nel meno), ne risulta che la
distanza di Sirio dalla Terra sta a quella del Sole dalla Terra come 27664 a 1
; e per conseguente Sirio sarebbe da noi lontano 64o milioni di se midiametri
della Terra. Ma queste antiche esperienze, comunque saggi di grandi uomini, non
sono più da ammettersi ; ed ora la distanza delle stelle fisse se non può dirsi
con certezza misurata nella sua quantità, lo è almeno con certezza nel suo
limite minore. Gli astronomi hanno convenuto, che i diametri, o dischi, che le
stelle sembrano conservare anche nei migliori telescopi, non sono altro che una
pura illusione ottica; e d'altra parte le osservazioni astronomiche hanno
ricevuto tale perfezione, che non solamente non può ammettersi la paralasse di
2o secondi trovata da Flamsteed, ma se esistesse per le stelle la paralasse di
un secondo non potrebbe sfuggire alle misure odierne. Am mettendo una tale
paralasse, che è sicu ramente maggiore della vera, la distanza delle stelle
risulta 2oo,ooo volte almeno quella del Sole dalla Terra, cioè di 48oo milioni
di raggi terrestri. È questo perciò il limite minore della distanza delle stel
le fisse, la quale nondimeno è tale, che la luce, la cui velocità non è minore
di 166,ooo miglia in un secondo, dovrebbe impiegare tre anni per giugnere da
una stella insino a noi. - Ammettendo questo limite della distanza delle stelle
dalla Terra, il dottor Wolla ston ne conchiuse che la luce di Sirio do veva
esser molto maggiore di quella del Sole. In fatti con esperienze fotometriche
dirette trovò che la luce di Sirio, quale apparisce a noi, sta alla luce del
Sole come 1 a 2o,ooo,ooo,ooo ; e poichè le intensità della luce sono in ragione
in versa de'quadrati delle distanze, da quella misura si desumerebbe che se
Sirio fosse per luce eguale al Sole, dovrebbe essere 141,4oo volte più lontano.
Ma si è detto che non può esserlo meno di 2oo,ooo vol-. te; la luce dunque di
Sirio dee sorpas sare di molto quella del Sole. Non è in fine da tacere che il
chiaris simo astronomo Bessel in Koenigsberg da pochi anni è riuscito a
misurare effetti vamente la paralasse di una piccola stella doppia, detta la
sessantunesima del Ci gno, e l'ha trovata di o,35 soltanto: e però la distanza
di quella stella dalla Terra risulta 6oo,ooo volte maggiore di quella della
Terra dal Solel Quantunque, per quanto sappiamo, non vi sia stato finora altro
astronomo che abbia ripetuta l'esperienza del Bessel, nondimeno la fama di lui
come osservatore diligentissimo e come profondo astronomo teoretico, non fa
rivocare in dubbio il suo risultamento. Grandezza. Noi non possiam dire, se la
varia grandezza apparente delle stelle fisse, nasca da diversità delle
dimensioni loro, ovvero dalla maggiore o minore s - – 468 – loro distanza.
L'astronomia non pertanto le considera e le ordina secondo l'appa rente loro
grandezza distribuendole in sei classi, chiamate di prima, di seconda, di
terza, di quarta, di quinta, di se sta grandezza, l'ultima delle quali com
prende le più picciole tra le visibili ad occhio nudo. Oltre queste v'ha la
classe delle telescopiche, e oltre le telescopiche le nebulose, che appariscono
all'occhio come una macchia bianca più o meno estesa. Tale e tanta suddivisione
di gran dezza neppur basterebbe a comodamente osservarle; il perchè vengono
ancora di vise, per rispetto alla loro situazione, in varie costellazioni.
Quelle che non entra no in alcuna costellazione prendono il no me d' informi,
ma di queste molte pas sano a formar parte di nuove costellazio ni, a misura
che agli osservatori riesce di poterle unire sotto dati segni di figure o di
altre somiglianze. V. Costellazione. Numero. È comune il proverbio numera
stellas, si potes. Ciò nonostante gli astro nomi, a cominciar da quelli
dell'antichità, han cercato di numerare le stelle visibili. . Ipparco nell'anno
125 prima dell'era vol gare, essendo comparsa una nuova stella, imprese a fare
un catalogo di tutte le vi sibili, acciocchè potessero i posteri accor gersi
d'ogni altro nuovo avvenimento. Il numero che ne descrisse fu di 1o22, ri dotte
in quarantotto costellazioni. Tolomeo ne aggiunse altre quattro: nell'anno 1437
Ulug Beigh nipote di Tamerlano ne nume rò, in un suo nuovo catalogo 1 o77. Ma
dal secolo decimoseltimo, tempo in cui rinac que lo studio dell'astronomia, è
andato sempre crescendo il numero delle costel lazioni e delle stelle. Alle quarantotto
co stellazioni degli antichi ne furono aggiunte dodici scoverte verso il polo
meridionale, e due verso il settentrionale. Tico-Brahe publicò un catalogo di
777 stelle da lui osservate. Keplero accrebbe il catalogo di Tolomeo insino al
numero di 1163. Il Riccioli portolle a 1468, e il Mayer a 1725. Il dottor
Halley ne aggiunse a queste altre 373 da lui osservate nell'emisfero antartico.
L'Hevelio unendo insieme le osservazioni degli antichi e del moderni diede un
nuovo catalogo di 1888 stelle, numero che Flam steed portò insino a 3ooo, e
Piazzi insino a 7646. Il Riccioli, nel nuovo Almage sto, non ebbe ritegno di
affermare che chi dicesse essere le stelle più di ventimila volte ventimila,
non direbbe nulla d'im probabile. Checchè sia di questo concetto, il quale
sembra più volgare che scienti fico, lo sterminato numero delle stelle fisse
apparisce manifesto, per la moltitudine stessa di quelle che non vediamo, e per
la progressione delle nuove scoverte, che ne accrescono e non ne diminuiscono
il catalogo. Ed un tale accrescimento avviene non solamente per le isolate, ma
per le costellazioni ancora conosciute, sin dal tempo degli antichi. Il numero
decompo menti di ciascuna costellazione è andato crescendo a misura che i mezzi
dell'osser vazione si sono andati perfezionando. In fatti nella costellazione
delle pleiadi com posta di sette stelle già note, il dottore Kook con un
telescopio lungo dodici piedi, con tonne sessantotto; il cappuccino Rheita af
fermò aver egli osservato più di 2ooo stelle nella costellazione d'Orione e più
di 188 nelle pleiadi, l'Huygens, guardando la stel la che è nel mezzo della
spada d'Orione, ve ne scoperse dodici; ed il Galilei ne trovò ottanta nella
spada d'Orione, ventuno nella stella nebulosa della testa di lui, e tren tasei
nella stella nebulosa, detta presepe. Ne tempi a noi più vicini il numero delle
– 469 – stelle già registrate sino alla settima gran dezza, era di circa 2oooo.
L'attenta os servazione de luoghi del cielo, in cui mag giormente si vedono
addensate le piccole stelle, ha fatto di poi sparire quasi ogni limite al loro
numero. Il celebre Herschel padre, che col suoi potenti telescopi si è occupato
con tanto successo dell'astrono mia siderea, esaminando alcune regioni della
via lattea, e contando le stelle com prese nel campo del suo cannocchiale, è
giunto a conchiudere che uno spazio di due gradi di larghezza, e di quindici di
lunghezza, ne conteneva più di 5oooo. Da pochi anni ancora il chiaro astronomo
Bessel di Koenigsberg ha determinato le posizioni di 6oooo piccole stelle della
set tima alla duodecima grandezza, comprese, nella zona celeste, che si estende
da 15 gradi di declinazione sud a 45 gradi di declinazione nord. Chi potrà mai
perve mire a numerare il Cielo? Matura. Chi dice natura, vorrebbe dire essenza,
o vero costitutivo delle sfere ce lesti. Ma se non è dato a noi il conoscere
l'essenza delle cose poste sotto i sensi no stri, e distinguer possiamo
soltanto le ap parenti qualità loro; che di certo può af, fermare l'astronomia
intorno alle qualità proprie de corpi celesti? Null'altro che congetture più o
meno verisimili, desunte dalle loro qualità apparenti. E siccome le qualità a
noi più apparenti son la luce e il moto; così ragionando per analogie de sunte
dalle simili qualità degli altri corpi celesti, la generalità degli astronomi
ha creduto poter dedurre, che le stelle fisse risplendano d'una luce propria;
che sieno altrettanti soli, ciascun de quali è centro d'un particolar sistema
planetario, ed ab bia intorno a se corpi opachi illuminati dalla sua luce. E
siccome tra le stelle fisse v'ha di quelle che alternamente appari scono e
spariscono, e al primo loro ap parire crescono in magnitudine, mentre poi
decrescono allorchè cominciano a di sparire; così si credette da alcuni che que
ste fossero altrettanti pianeti, i quali fan no i loro periodici rivolgimenti
intorno ad una stella fissa, come intorno al proprio sole. E per la stessa
ragione essendo an cora tra le stelle fisse di quelle che scom parse una volta,
non sono più tornate ad apparire, si è da altri congetturato che fosser queste
altrettante comete, che fac ciano intorno a centri de rispettivi loro si stemi
planetari quel corso medesimo, che le comete visibili nel nostro orizzonte
fanno intorno al sole. Ma l'analogia del sistema solare (in cui i pianeti e le
comete sono piccolissimi per rispetto al loro centro di attrazione, e sono
illuminati di luce re flessa), rende poco probabili queste opi nioni, perchè
simili corpi sarebbero ne cessariamente invisibili alla immensa di stanza delle
stelle fisse, dimostrata dalle moderne osservazioni. E però vale me glio
confessare, che non sappiamo dare una plausibile spiegazione di tali fenome ni.
Keplero negò che ogni stella fissa pos sa esser centro d'un proprio sistema pla
netario, dacchè, se così fosse dovrebbero essere collocate a diverse distanze
tra loro. Ora supponendo una di tali stelle due o tre volte più distante
d'un'altra, appa rir dovrebbe nella stessa proporzione più picciola, anche
quando si supponessero eguali nella vera loro magnitudine. Ma per contrario le
osservazioni le più dili genti dimostrano che non v'ha alcuna dif ferenza nella
loro apparente magnitudine. Per tali considerazioni giudicò egli che cotali
stelle fossero tutte fisse nella stessa superficie, o sfera. D'altra parte rispose
– 470 – Huygens alle obbiezioni del Keplero, non solamente coll'esempio de
fuochi e delle fiamme, che son visibili anche a distanze, alle quali spariscono
altri corpi compresi sotto angoli eguali; ma anche spiegando il teorema ottico
nel quale era fondata l'opinion di Keplero, cioè che i diametri apparenti degli
obbietti sono reciprocamente proporzionali alle distanze dall'occhio del
l'osservatore. Questo teorema, egli disse, ha luogo quando il diametro
dell'oggetto abbia una ragione sensibile alla sua di stanza. Il ragionamento di
Huygens è so stenuto dalle scoperte fatte da moderni nel l'astronomia siderea,
dapoichè le stelle, oltre a movimenti generali apparenti, dei quali quì
appresso parleremo, hanno pure taluni moti loro propri, e diversi per le diverse
stelle, sì che non potrebbero mai considerarsi come connesse tra loro, e ſor
manti un solo sistema. L'opinion domi nante degli attuali astronomi è , che le
stelle fisse sieno altrettanti soli. L'analogia poi li porta a credere, che
sieno ancora centri di sistemi planetari. Noi risguar diamo tali opinioni come
ipotesi utili sol tanto, perchè richiamano l'attenzione del l'uomo alla
contemplazione del fenomeni celesti, i quali formano una delle spezie di
quell'ignoto, nel quale trovasi racchiuso un altro ordine di fatti e di verità,
supe riori all'umana ragione. V. Ignoto. Molo. Le stelle fisse hanno vari moti
apparenti. Il moto diurno, o del primo mobile, è quel movimento per lo quale le
stelle son portate insieme colla sfera o firmamento in cui sembrano infisse, in
torno alla Terra da oriente in occidente, compiendo il loro giro in 24 ore
sideree, cioè in 23 ore e 56 minuti di tempo so lare. Questo movimento è una
semplice apparenza, dipendente dalla rotazione del la Terra intorno al suo asse
da occi dente in oriente in 24 ore sideree; impe rocchè di chi osserva il cielo
sulla super ficie terrestre, avviene come di chi stan do in mare attribuisce
alle coste un mo vimento eguale e contrario a quello della Slla IlaVe. - - - -
- - - - Un secondo movimento apparente delle stelle, avvertito anche dagli
antichi, è il moto di precessione, per lo quale le lon gitudini delle stelle
crescono annualmente di 5o secondi e'/, rimanendo costanti le loro latitudini.
Cotesto movimento risulta evidente dal paragone delle posizioni di molte stelle
osservate dagli antichi con le posizioni determinate da moderni. Tico Brahe
calcolò l'aumento della longitudine in un secolo di 1.º 25'. Copernico lo cal
colò di 1.º 23'. 4o”. Flamsteed e Riccioli di 1.° 23.2o”. Presentemente gli astronomi
hanno generalmente adottato la determi nazione di Bessel, che è di 5o22”, o sia
di 1.°23. 42”,351, in cento anni giuliani, contenenti 36525 giorni. Secondo
questo dato la longitudine delle stelle crescerà di 36oº, o sia, faranno esse
l'intero giro del cielo in 258o5 anni. Molti han pensato, non si sa con qual
fondamento, che ter minato questo periodo, la natura termi nerebbe il corso
suo, e la sfera celeste rimarrebbe immobile, se pure il Creatore non disponesse
altrimenti. Ma questa opi nione è tanto più improbabile, quanto il movimento
delle stelle in longitudine è una semplice apparenza, la quale dipende da un
lentissimo movimento dell'asse dell'equa tore terrestre intorno al polo della
ecclit tica. Un tal movimento è prodotto dalla forma sferoidale della Terra, la
quale fa sì che l'attrazione del Sole e della Luna sulla massa terrestre non
possa dirigersi unicamente al centro, ma agendo sulle – 47 i – parti sporgenti
dell'equatore terrestre, ge nera nell'asse quel moto vorticoso, che fa
retrogradare il punto equinoziale, e ac cresce per conseguente le longitudini
delle stelle. V. Longitudine. Subordinato al moto di precessione è un altro
picciolo movimento oscillatorio dell'asse terrestre, detto di mutazione,
scoperto da Bradley. Cotesto movimento si compie in 18 anni, e modifica legger
mente il moto di precessione. Lo stesso Bradley scoperse un altro picciolo movi
mento apparente delle stelle fisse, detto di aberrazione, per lo quale noi non
vediamo le stelle precisamente nel luogo ch'esse occupano, ma sempre più avanti
nella direzione del moto annuo della Ter ra. È questo un inganno ottico,
prodotto dalla combinazione del moto della luce con quello della Terra intorno
al Sole. Oltre a mentovati quattro moti appa renti, i moderni astronomi hanno
scoperto nelle stelle fisse due movimenti reali. Col primo, che vien detto moto
proprio le stelle lentissimamente e progressivamente muovonsi in una direzione
non ancora co nosciuta. Il maggior moto proprio, che sia stato sinora osservato
è di tre secondi e tre quarti in un anno, ed appartiene alla stella indicata
ne'cataloghi col nome di u di Cassiopea. Herschel suppose, che questo picciolo
movimento delle stelle fisse potesse essere in parte l'effetto d'un lento
movimento del sistema solare, che secondo lui si avvicinerebbe alla
costellazione di Ercole. Una tal supposizione fu sostenuta da Argelander, il
quale esaminò diligen temente i moti propri di molte stelle, see verandone la
parte, secondo lui, dovuta al moto del nostro sistema. Ma nella ge neralità gli
astronomi sono concordi nel confessare, che la scienza non è ancora a bastanza
avanzata, per decidere intorno a ciò alcun che di positivo. Lo stesso illustre
astronomo Herschel ar ricchì l'astronomia siderea della più im portante
scoperta, che siesi fatta intorno a tale argomento. Esistono alcune stelle, che
osservate con forti telescopi, si risol vono in due. Si accorse egli il primo,
che la stella minore gira intorno alla mag giore, compiendo una ellissi, nel
cui fuoco trovasi la stella maggiore, ed obbedendo alle leggi di Keplero.
Successivamente gli astronomi hanno studiato molti di cotesti sistemi binari,
determinando i periodi del le rivoluzioni, e gli elementi delle orbite. Per tal
modo il sistema dell'attrazione di Newton ha giustificato il suo predicato di
universale, datogli prima che si potesse suspicare che potesse un giorno
divenire la legge generale della natura. V. Attra zione, Sistema. - - STIMA
(prat.), pregio in che si tiene una persona. Non è da confonderlo col prezzo o
va lore che il si dà alle cose, alle quali conviene meglio il vocabolo
estimazione. V. questa voce. Srorino (prat.), chi manca della ca pacità del
sensi. Vale insensato per natura. V. Insensato. SroLTEzzA, SroLTIZIA, e STOLTo
(prat.), qualità dell'uomo di ottusi sensi. Differisce dal fatuo, che n'è
affatto privo. V. Fatuo. SroMAco (spee.), viscere membranoso a figura di sacco,
dove si ricevono i cibi e le bevande, e dove si dà loro la prima pre parazione
per diventare materia di alimento. – 472 – La sua forma è lunga, attaccata
dalla parte superiore al diaframma, dalla in feriore allo zirbo, dalla destra
al duo deno, e dalla sinistra alla milza: ha due orifizi, uno a ciascuna
estremità: l'orifi zio sinistro, propriamente detto cardia è unito all'esofago,
dicui sembra essere una continuazione: per esso entrano gli alimenti, i quali
dopo di essere stati di geriti, passano all'altro orifizio destro, che è il
piloro, unito al primo degli in testini. Lo stomaco è composto di quattro mem
brane o tuniche. La prima, che è la più interna, è propriamente la membrana muc
cosa. Cotesta tunica non solamente è più grande delle altre, ma è piena ancora
di pieghe e di rughe, spezialmente intorno al piloro, acciocchè il cibo sia
ritenuto nello stomaco insino a che non sieno compiute tutte le operazioni
della digestione: è ta pezzata inoltre di piccole glandule, le qua li separano
un liquore che unge tutta la cavità dello stomaco, e facilita la conco zione
degli alimenti, il perchè è denomi nata tunica glandulosa. Delle altre tre, la
seconda è più fina e più nervosa ; la terza è muscolare, composta di fibre di
ritte e circolari, delle quali le diritte son disposte per lungo tra l'orifizio
superiore e l'inferiore, e le circolari obliquamente dalla parte superiore alla
inferiore dello stomaco; la quarta è delle comuni ed è una ripiegatura del
peritoneo. Di queste la muscolare ha per le continue sue con trazioni la parte
maggiore nel tritamento e nella digestione degli alimenti. V. Mem brana. - - De
nervi dello stomaco alcuni proven gono dall'ottavo paio di quelli del cervel
lo, che spezialmente si distendono intorno all'orifizio superiore, ed altri dal
plesso soleare del gran simpatico: di qua la grande sensibilità dello stomaco,
e la sim patica corrispondenza delle affezioni del cuore, con quelle del capo e
dello sto maco. V. Mervo. STORIA (crit.), narrazione de fatti pas sati
dell'uomo, scritta con ordine di tem po e di luogo, da servire per istruzione
delle seguenti generazioni. La cronologia e la geografia son due compagne
inseparabili della storia, per chè senza di esse non potrebbe lo storico
servare l' ordine del tempi e de luoghi, cotanto necessari alla memoria ; nè po
trebbe dare alla sua narrazione quella im pronta di autenticità, che dee
necessaria mente ricevere da documenti coetanei, o dalla testimonianza delle
persone presenti a fatti che narra. Dalla maggiore o minore ampiezza dei fatti
o del tempo che lo storico abbrac cia nella sua narrazione ; ovvero dalla
diversa qualità del fatti che imprende a narrare nascono le partizioni de vari
ge neri di storie, che sogliamo distinguere nel quadro delle umane conoscenze.
Le due più ampie partizioni, sono, l'antica e la moderna, l'universale e la
parti colare, l'una prende il suo carattere dal tempo: l'altra dalla quantità
dei fatti che formano il suo argomento. L'antica com prende la descrizione de
fatti della uma nità tutta intera dalla origine delle nazio ni insino alla
caduta dell'impero romano, o sia insino al quinto secolo dell'era vol gare. La
moderna propriamente comincia dalla invasione del popoli barbari, e ab braccia
tutte le seguenti etadi; sebbene a distinguere un periodo men lucido, qual è
quello della barbarie, in cui i po poli vincitori immersero i vinti, risguar –
475 – dar si soglia l'età di mezzo (cioè dal quinto al decimo quinto secolo)
come un intervallo capace più della interpretazio ne degli eruditi, che d'una
storica de scrizione. La distinzione non pertanto tra l'antica e la moderna
storia non toglie alla mente la possibilità di abbracciare l'una e l'al tra
insieme, anzi le somministra il mezzo di paragonarle tra loro, e di discernere
in che convengano o disconvengano i fatti e gl' instituti delle vecchie e delle
nuove nazioni. Ma la storia, la quale prende il suo carattere dal tempo, si
abbatte neces sariamente in un ostacolo che rende in certi i suoi inizi. Tal è
lo stato d'igno ranza, che formò la prima condizione dei popoli dell'antichità,
o sia la mancanza delle lettere, che è l'unico mezzo per lo quale i fatti d'una
generazione possono essere all'altra tramandati. Da ciò nasce che il periodo
storico d'ogni popolo del gentilesimo, sia preceduto da un altro in certo
periodo di tradizione. E di qual tra dizione? D'una tradizione volgare, non
misurata dal tempo, mista di favole, e di rimote reminiscenze; e queste,
disnatu rate dalla superstizione e dalla credulità, propria dell'ignoranza. V.
Favola, Tra dizione. Dalla medesima ragione provenne che cotesto stato
d'ignoranza, da prima co mune a tutte le nazioni pagane, essendo cessato
successivamente, e a misura che l'una ricevette dall'altra l'uso delle lettere;
ognuna di esse ritenne la propria tradi zione, ed ebbe una particolar
cronologia, la quale non annodavasi a verun princi pio di tempo alle altre
comune. Ognuna contava il tempo passato per le proprie ge nealogie, e queste mettevan
capo in una origine sempre favolosa. Laonde, quando dalla storia particolare
del popoli si vuol ricomporre la generale, questa rimane senza capo, e ciascuno
de tronchi delle nazioni apparisce, come spontaneamente surto nel proprio
suolo. L'erudizione del l'antichità, che non lasciò nulla d'inten tato nelle
lettere, fu povera e difettiva per rispetto alle origini del popoli e delle lin
gue; nè poteva essere diversa, attesa la mancanza del tempo storico. Quando si
considera, che con tutta la vantata sa pienza degli Egizi, de Persiani, e
de'Greci, non comincia la loro storia certa, se non cinquecento anni prima
dell'era volgare; che ciascun popolo non ebbe altra crono logia fuor di quella
del propri re, o della fondazione delle loro cittadi; che la cro nologia greca
stabilita sulla ristaurazione de giuochi olimpici, non ha altra certa misura di
tempo che di circa 8oo anni avanti l'era volgare; e che poco meno ne ha la
cronologia latina, nata colla fon dazione di Roma; non possiamo non es sere
umiliati per la povertà delle nostre storiche conoscenze, e dobbiamo confes
sare, che la dotta Antichità non seppe, per tremila e più anni, trovare il
mezzo da trasmettere i fatti della propria età alle future generazioni. Le
moderne nazioni han cercato di supplire alla ignoranza delle antiche; e
certamente noi conosciamo la loro archeologia meglio che essi non la conobbero.
Non solamente abbiamo stabi lito la cronologia sopra le sue vere fonda menta,
ma abbiamo circoscritto il globo, determinato la sua figura, e visitato la
terra dall'un polo all'altro; e per lo stu dio delle lingue de popoli ignoti
alla stessa antichità, siam pervenuti a riunire a pro pri tronchi le diverse
famiglie del genere umano. D'onde abbiam preso i principi di queste nuove
conoscenze, e chi ci ha 60 – 474 – dato il bandolo per entrare in un sì tor
tuoso labirinto ? Entriamo in quell'altra partizione della storia, che nasce
dalla qualità de'fatti nar rati. Questa è la sagra, o la profana, che indica le
due fonti diverse, dalle quali noi deriviamo la storia antica. Tutto quel che
abbiam detto delle sue lacune ed im perfezioni risguarda la profana, in suppli
mento e schiarimento della quale viene la sagra. Ciò che la tradizione umana
non ha saputo conservarci, è stato supplito dal la divina, fondata sopra certa
misura di tempo, e sopra storica successione di fatti e di avvenimenti sì
naturali che civili. Ella ci ha dato notizie di popoli, di fon dazioni
d'imperi, di origini di nazioni, di lingue, di leggi scritte, e di civili isti
tuti. Da lei abbiam ricevuto, insieme colla storia delle prime etadi del mondo,
le car dinali nozioni della sapienza morale nata coll'uomo, e conservata da
quelle sole genti che rimasero fedeli all'adorazione e al culto del loro
Creatore. La storia scritta, che ci ha tramandato queste notizie, non solamente
è di cinque cento anni più antica di quella delle na zioni pagane, ma ci viene
da un popolo straniero alle favolose e mitologiche loro tradizioni, il quale
solo possedette lettere e scrittura alfabetica, in retaggio della prima lingua
perfetta che fu messa in bocca all'uomo, come parte delle opere della
creazione. V. Favola, Creazione. Seconda parte, e direm continuazione della
storia sagra, è l'ecclesiastica, la qual prende principio dalla nuova era del
mondo, o sia dalla rigenerazione fattane dal N. S. Gesù Cristo. Che se vogliasi
questa considerare come parte della storia moderna, qual'è; in tale aspetto, la
storia divisa per rispetto al tempo in antica e moderna, vien suddivisa, per
rispetto alla qualità del fatti narrati, in profana o civi le, ed in sagra o
ecclesiastica. Dalla diversa qualità del fatti nascon pure le storie delle
scienze e delle arti, le biografie, le storie della letteratura, e di qualunque
altro genere di fatti, al quale piaccia allo storico limitare la sua nar
razione. Sin qua abbiam considerato il vocabolo storia, come privativamente
proprio del la narrazione di fatti passati, affidati alla memoria, cui serve di
ausiliaria. Ma que sto stesso nome dalla generalità del dotti è dato ancora
alla descrizione delle opere della natura; sì che la prima e più ge merica
partizione della storia, suol essere quella di naturale, o civile. Noi, non per
immutare vocaboli, ma per evitare i falsi concetti che possono nascere dalle
improprie denominazioni, abbiamo altrove notato, quanto sconvenevole sia una
tal partizione. La descrizione de fatti della na tura e del fenomeni suoi è
figlia dell'os servazione, ed è l'opera dell'intelletto e non della memoria.
L'osservazione, che ne han fatto gli altri, serve di guida a quelli che vengono
a ripeterla, o giova come supplimento di notizie a coloro, i quali l'accettano
come propria. Nell'uno e nell'altro caso la natura è a tutti pre sente: le
opere sue son sempre le stesse, e i suoi costanti fenomeni si rinnovano per gli
uomini di tutte le etadi. Ognuno in somma studia la natura, e non la ri corda.
Ciò non ostante l'impropria deno minazione di storia naturale, non mena a
veruna conseguenza, perchè l'uso ne ha determinato il significato, spiegando
che quì per istoria s'intende la descrizione e il catalogo delle opere della
natura. La sola importanza che questa avvertenza può – 475 – avere, è a
rispetto dell'ordine scientifico, e del metodo dell'insegnamento. La sto ria
naturale appartiene alle scienze fisiche e non alle lettere o alla erudizione:
ella de essere associata alle altre scienze na turali, delle quali fa parte.
(V. il disc. prelimin.). Lo studio della storia, dacchè i moderni han diradato
le tenebre della storia anti ca, ha formato e forma il suggetto d'una nuova
scienza, che ha a se attirato uo mini di profondo ingegno. Cotesta nuova
scienza, la quale in sostanza raccoglie le verità che nascono dallo studio
della sperienza, è fondata sopra un principio vero, quando sia inteso nel suo
giusto e proprio senso. La natura è tanto costante nelle leggi che reggono
l'ordine morale, quanto l'è in quelle dalle quali dipende l'ordine delle cose
materiali. Il principio è vero, ma che s'intende per ordine mo rale?
Certamente, la comune morale del l'uomo è sempre la stessa, simili sono le sue
passioni, simili i fatti, ma varie e indefinite le loro modificazioni.
Vorrebbesi forse applicare la costanza e l'uniformità delle leggi della natura
a fatti contingenti dell'uomo; o supporre ne'motivi, che pos sono determinare
la volontà quello stesso ordine impreteribile che è nelle leggi fisi che?
Guardiamoci dalle estremità! È assioma riconosciuto, che dalla spe rienza
possonsi ricavare verità particolari o relative, e non verità generali o asso
lute. Lo studio dunque della sperienza, che è quel che oggi chiamasi filosofia
della storia, dee determinare i limiti, trai quali dobbiamo intendere
l'enunciato prin cipio; quale sia nel corso delle nazioni la forza degli esempi
; quali le sicure con seguenze, che possiam da quelli ricavare. V. Esempio, Filosofia.
STRABISMo (spec.), vizio degli occhi di guardare bieco. Cotesta imperfezione
sembra, il più del le volte, nascere da una difettuosa dispo sizione de'muscoli
o denervi, i quali im pediscono di tenere gli assi de'due occhi in una
direzione paralella. Talvolta an cora dipende da un cattivo abito preso,
sopratutto nella età infantile. Le diverse sperienze fatte dagli ottici e da
medici, sia per iscoprire la causa d'un tal vizio, sia per raddrizzare la
visione di quelli che per abito han cominciato a torcerla, dimostrano che nella
generalità de'casi uno de'due occhi è men forte del l'altro; d'onde segue che
le persone afº fette dallo strabismo, o vedono l'obbietto con un solo occhio, o
se l'inclinazione de rispettivi assi permette a ciascun dei due di vederlo, lo
veggon doppio. Da questa anomalia apparisce manife sto, che la visione unica, e
non doppia, degli obbietti negli uomini sani, non può essere meglio spiegata,
se non per lo para lellismo degli assi degli occhi. V. Visione. STRANEzzA
(prat.), il pensare o l'operare fuor della regola o del comune sentimento. È
men della stravaganza. V. questa voce. STRUMENTo. V. Instrumento. STUDIO
(spec.), l'opera della mente, data alle scienze, alle arti, o ad una di
sciplina qualunque. STUPIDo (prat.), uomo di tardo o in tormentito
intendimento. STUPoRE (prat.), stordimento d'animo per grandi e maravigliose
cose vedere, udi re, o per alcun modo sentire, º – 476 – È definizione di
Dante, da cui apparisce essere lo stupore più della maraviglia, e indicare un
sentimento di ammirazione per cose che sembrino più che umane. V. Ammirazione,
Maraviglia. SUBALTERNo (disc.), nome dato dagli scolastici a quel genere, che
sta di mezzo ad uno superiore o sommo, e all'infimo. Lo stesso nome davasi
ancora alle spe zie, quando volevasi tra esse fare una simile gradazione. V.
Genere, Spezie. - SUBBIETTIvo (spec. disc. e ontol.), ogni virtù, o fatto della
mente, il quale serve di mezzo a conoscere gli obbietti posti fuori di noi, È
termine di relazione all'obbiettivo, e serve a distinguere l'obbietto del
pensiero dal pensiero stesso. Così nella percezione, obbiettiva dicesi la
conoscenza dell'obbietto esterno, e subbiettiva quella che noi ab biamo della
propria facoltà del percepire. V. Obbiettivo. Kant distinse il subbiettivo
empirico dal razionale e per tal distinzione sostenne che il subbiettivo
razionale possa divenire un obbiettivº empirico, il che avviene quando noi
applichiamo un modo del no stro pensiero a qualche obbietto esterno. Tal
sarebbe per esempio la nozione dello spazio, quando noi prendiamo a conside
rarlo come una cosa esistente fuori di noi. Sia ciò detto per sola intelligenza
del si gnificato di questo vocabolo, e non per necessità, o vaghezza di seguire
l'astrusa e sterile neologia del cennato autore. V. Em pirico, Spazio. Taluni
moderni filosofi, i quali han preso il contagio de'neologismi alemanni, hanno
introdotto l'extra-soggettivo, e con tal denominazione hanno inteso esprimere
la percezione d'una sensazione acquistata per mezzo del tatto. Cotesta
percezione presuppone un giudizio intorno alla causa che l'ha prodotta, comechè
questa non sia presente. Tal sarebbe il caso d'una im pressione fatta nella
superficie del corpo, la quale lascia una sensazione dolorosa, o gradevole,
anche quando ne sia stata rimossa la causa. Costoro non hanno altro scopo, che
di oscurare il linguaggio della scienza, e di coprire con nomi speciosi la
frivolezza delle loro scoperte. SUBLIME (disc. spec. e crit.), il bello e il
grande del discorso o del pensiero, che desta ammirazione e sorpresa. È proprio
del discorso che rapisce e trasporta l'animo fuor di se, per un sen timento
misto di piacere e di novità. Co testo sentimento di novità è simile a quel che
in noi produce ogn'invenzione; e per verità come tale risguardiamo ogni con
cetto prontamente trovato, ed ogn'imma gine o figura non attesa, la quale orni
ed ingrandisca l'argomento. La grandezza poi de pensieri giunta alla
opportunità del tempo e del luogo, e alla convenienza del l'espressione produce
due maravigliosi ef fetti: indirizza l'anima a nobili ed elevati sentimenti, e
la trasporta nel bello ideale: comunica al discorso una forza invincibile che
mette l'ascoltante o il lettore nella di pendenza dell'oratore. Ora nel congiun
gere la novità alla opportunità è riposto quel che i grandi retori, o maestri
del par lare, intendono per arte del sublime. Un egregio trattato di quest'arte
è quel di Lon gino, di cui Boileau ci ha lasciato una ele gante versione,
corredata di belli esempi e di critiche osservazioni, nelle quali può dirsi che
sien riposti lo studio e la scuola – 477 – del sublime. Ad esso rimandiamo i
nostri lettori per quel che concerne il sublime nell'arte del dire. Vuolsi
soltanto notare la differenza tra due significati che il comun parlare suole
dare allo stesso vocabolo, adoperandolo ora come un astratto del nobile e
dell'elevato, ed ora come un semplice addiettivo. Stile ed eloquenza sublime
sogliam chiamare quel genere di dire, grave ed ornato che conviene agli
argomenti di grande impor tanza, ne quali l'oratore, certo di muovere le
passioni, si vale delle immagini e delle figure per meglio persuadere. Questo è
quel genere di eloquenza, che Cicerone deno nominò ampio, grave, copioso ed
orna to, per distinguerlo dal semplice, e dal moderato. Qualunque sia
l'elevatezza dello stile e della locuzione dell'oratore, è ma nifesto che egli
potrà ottenere l'intento suo, che è la persuasione, a misura che saprà più o
meno piacere agli uditori, e riscuotere la loro ammirazione. Ora co testo
genere di dire alto ed elevato dista tanto dal vero e dal perfetto sublime,
quanto la volontà dall'azione, quanto i mezzi dal fine, o quanto una naturale
di sposizione dall'arte. Nel passaggio da quel la a questa si scontrano le
difficoltà del l'ignoranza, o i vizi del falso gusto, che per mezzo dell'arte
impariamo a vincere o ad evitare. Il sublime in somma, ado perato come semplice
epiteto indica o il genere della espressione, o l'importanza e l'elevatezza
dell'argomento; nel quale ul timo senso chiamiamo geometria sublime quella
parte delle scienze matematiche che per la soluzione desuoi problemi adopera la
moderna analisi in luogo delle semplici dimostrazioni della geometria
elementare. V. Geometria. Ma v'ha ancora un'altra differenza trai due dinotati
significati, ed è che l'arte del sublime ha luogo tanto nel dire ele vato,
quanto nel semplice e nel tempe rato; dapoichè per sublime propriamente
intendiamo la perfetta imitazione del gran de, del bello, del vero della
natura, che può trovarsi in ogni genere di eloquenza e in ogni maniera di esprimere
i concetti dell'animo, purchè l'esattezza o la forza della espressione agguagli
la finezza del pensiero. V. Eloquenza. Tal essendo il significato proprio di
que sto vocabolo è manifesto, che possa es sere lo stesso applicato a qualunque
opera dell'ingegno, e a qualsivoglia egregio fat to, che porti seco i caratteri
della gran dezza d'animo, o della perfetta virtù. E però il sublime trova il
suo luogo non solamente nella eloquenza, nella poesia ed in ognuna delle arti
imitative, ma ancora nelle scienze, ne fatti eroici, ed in ogni azione, la
quale trascende la comune misura del buono e del bello. V. queste voci.
SUBoRDINATo (spec. disc. e prat.), il pensiero, la proposizione, o l'azione,
che nasce, o è dependente da un'altra. Nelle categorie delle scienze diconsi su
bordinate quelle fondate nel principi, e nelle teoriche d'un'altra, che de
essere prima imparata. Nelle proposizioni, chia mansi con questo nome quelle
che nasco no da altre proposizioni note, o prima dimostrate. Nelle categorie
logiche equi vale al subalterno. V. questa voce. Nella morale pratica
subordinati di consi gli atti virtuosi, i quali debbono essere guidati da una
virtù maggiore o assorbente, che rischiara le altre, come la benevolenza, la
modestia, la pruden za, ed altre simili. V. Virtù. – 478 – SUCCESSIONE (spec.),
seguenza d'idee, o di fatti, che vengono gli uni dopo de gli altri. - Dalla
seguenza del fatti e del pensieri noi formiamo la nozione della durata e del
tempo, e distinguiamo il passato dal presente, e dal futuro. V. queste voci.
Cotesta nozione si ricava tanto dal co stante avvicendamento del fenomeni natu
rali, quanto dal passaggio d'una ad un'al tra idea, o sia dalla continuità del
pensiero. SUGGESTIONE (prat.), pensiero sommi mistrato ad alcuno, per
determinare la volontà di lui ad un atto, al quale non si sarebbe altrimenti
determinato. La suggestione toglie altrui la libertà della deliberazione e
della scelta, ed opera o per via di seduzione, o per costringi mento. E però è
sempre viziosa. V. Se duzione. SUICIDIO (prat.), volontaria distruzione della
propria esistenza. V. Esistenza. Del suicidio sono incapaci i bruti, per chè
obbediscono all'istinto conservatore della esistenza: ne è capace l'uomo per
esaltamento della immaginazione, la quale può spignerlo insino al segno di
vincere non solamente l'istinto, ma anche la voce della ragione. Ripugna la
ragione, del pari che l'istinto, al suicidio, perchè co me dice Cicerone, vetat
dominans ille in nobis Deus, hine nos suo demigrare. V. Immaginazione, Istinto,
Ragione. SUoNo (spec.), sensazione prodotta dal romore, dal passaggio della
voce, e dalle vibrazioni de corpi sonori. Il romore, sotto qualunque denomina
zione venga espresso, lo strepito, il fra gore, è ancor esso un suono, quando
questo vocabolo si prenda in un generico significato; ma noi chiamiamo propria
mente romore l'impressione disaggradevole all'udito, e suono la gradevole, che
con sideriamo come un elemento dell'armonia. Laonde diciamo il romore del
vento, lo strepito delle grida, il fragore del mare, e il suono della voce, o
delle corde. In qualunque desuoi significati il suono è tra le qualità
secondarie della materia, ma la sensazione che ne proviamo richiede il concorso
di tre agenti diversi: il primo è la causa del moto prodotto nell'aria: il
secondo è l'aria stessa, la quale serve di mezzo per comunicarne l'effetto
all'or gano sentente: il terzo è l'organo che lo modifica, secondo la sua
naturale confor mazione. Coloro i quali affermarono, che le impressioni
prodotte dalle qualità secon darie della materia, non emanano da cor pi, ma son
modificazioni della nostra po tenza sensitiva, avrebbero potuto trovare in
questa sensazione la confutazione del loro sistema. Imperocchè la causa del suo
no, e il mezzo per cui passa, son certa mente fuori dell'organo, e dallo stesso
di versi; tanto diversi, quanto chi ascolta è diverso da chi parla. V. Materia,
Qualità. ll suono può essere sotto tre rapporti considerato: come il mezzo
necessario della parola: come un segno naturale della causa che lo produce:
come un ele mento dell'armonia. Lasciamo quest'ulti mo rapporto alla musica, la
quale dà le regole per formare l'armonia co' suoni, sì naturali che
artifiziali, e fermiamoci a primi due. V. Musica. La parola è un suono
composto, il quale ne contiene tanti altri semplici, quante sono le inflessioni
della voce, che ne for mano gli elementi. Cotesti suoni elementari son
rappresentati dalle lettere, come loro – 479 – segni. Intanto il suono stesso
della voce è segno d'un sentimento, o d'un'azione del pensiero, che vogliamo
esprimere, siccome la parola è un segno d'una idea. Ma mentre la voce è segno
della parola, le dà la forma, perchè senza di essa non potrebbe la mente
comporla; sì che per gli obbietti da noi percepiti per mezzo dell'udi to, il
suono ci presta quell'ufizio stesso, che presta la luce per gli obbietti
visibili. La voce rende sensibile l'obbietto all'organo dell'udito, siccome la
luce lo rende visibile all'occhio. Una tal similitudine diviene an che più
manifesta, quando si considera, che la forza e l'intensità del suono estende la
portata della voce, e accresce la capacità dell'udito, come la luce fa per gli
obbietti visibili; e che gl'instrumenti, pe quali ac cresciamo e graduiamo la
forza del suono possono essere assimilati alle lenti e a te lescopi, colla differenza
che gli effetti del suono son limitati dalla picciola sua forza espansiva, e
dalla resistenza dell'aria; mentrechè la luce proviene da una inesau sta
sorgente, e penetra per tutti i mezzi trasparenti, che se le oppongono. V. Orec
chio, Udito. Del resto la natura, che ha dato al l'uomo un organo di suono
perfetto per l'uso della parola, non ne ha privato gli animali bruti, per
quanto occorre alla manifestazione del loro bisogni, e a quel linguaggio di
azione, di cui ogni spezie di animali, è stata più o meno dotata. L'uomo stesso
è stato provveduto di questo linguaggio suppletivo, di cui fan parte i suoni
inarticolati. I sordi muti, gl'infanti e quelli che per morbo restan privi
della parola, trovano nel linguaggio di azione il compenso della mancanza del
linguag gio artifiziale. Adunque il concetto più generico che può farsi del
suono, è di un segno naturale, dato agli uomini per la manifestazione del
sentimento e del pen siero; e a bruti, per la manifestazione dei loro bisogni.
V. Linguaggio, Segno. SUPERBIA (prat.), perverso appetito di propria
eccellenza. Riteniamo la definizione d'un antico moralista italiano. È il vizio
più disdice vole all'uomo, perchè gli fa sconoscere l'infermità della propria
natura insieme co'doveri verso degli altri: è un sentimento figlio
dell'egoismo, egualmente nemico delle naturali virtù, de civili doveri, e della
cristiana carità: è una volontaria demenza che rende l'uomo non solamente
odioso, ma dispregevole. Il moralista fran cese Lamotte definilla, dimenticanza
del proprio nulla. V. Egoismo. Gl'Italiani han preso questa voce dai Latini, e
l'altra orgoglio da Greci; sì che l'una è sinonimo dell'altra. V. Orgoglio.
SUPERFLUo (prat.), quel che non è ne. cessario per lo sostentamento della vita.
L'idea vaga del superfluo ha dato luo go alle tante quistioni agitate dagli eco
nomisti e da moralisti intorno agl'incon venienti, e a vantaggi del lusso. V.
que sta VOCe. SUPERLATIvo (disc.), termine grama ticale maggiore del
comparativo, il quale esprime l'ultimo grado di grandezza, o di altra qualità
d'un suggetto, come mas simo, ottimo, bellissimo, o altro simile. Tra le lingue
volgari l'italiana e la spa gnuola hanno ritenuto le desinenze accre scitive de
nomi di qualità, e formano i comparativi e i superlativi così in questo modo,
come colle particelle e cogli av verbi ausiliari assai, molto, più e simi - 480
– li ; laddove i Francesi e gl' Inglesi si li mitano a questo secondo modo
solamente. V. Comparativo, Positivo. SUPERSTIZIONE (teol. e prat.), falsa re
ligione, che trasporta alle cose materiali il culto e l'adorazione di Dio, o
forma voti falsi o riprovati, o crede di onorare la Divinità con pra tiche
inconvenienti alla sua perfezione. Cicerone diede l'etimologia di questo
vocabolo: non philosophi solum, verum etiam majores nostri superstitionem a
religione separaverunt. Mam qui totos dies precabantur et immolabant ut sui
liberi sibi superstites essent, superstitiosi sunt appellati: quod nomen postea
la tius patuit (de nat. deor. lib. I. c. 42). Uno scrittore cristiano confutando
l'esempio, che dato aveva origine al nome dice: superstitiosi vocantur, non
quia. filios suos superstites optant (omnes enim optamus ), sed aut ii qui
superstitem memoriam defunctorum colunt, aut qui parentibus suis superstites
colebantima gines eorum domi, tamquam deospe nates. (Lactantius lib. IV. C.
28). La superstizione suole nascere da igno ranza, o da timidità d'animo: gli
uomini pii e religiosi amano, onorano, e temono Dio: i superstiziosi lo temono
solamente: in questi parla il solo terrore delle pene: in quelli prevale il
sentimento della filiale confidenza verso l'Autore del nostro esse re, pronto
sempre a porgere la destra all'opera delle sue mani. La superstizione non
pertanto è diversa dall'ipocrisia, la quale contiene una falsa mostra di
sentimenti e di virtù religiose. V. Ipocrisia. SUPPositivo ( disc. ), quel che
nasce dalla supposizione. Gl'Italiani sono stati soliti confondere il
suppositivo col condizionale e coll'ipo tetico. Il Varchi sopratutto chiama sup
positivo il sillogismo ipotetico. Ma per ve rità convien distinguere questi tre
signifi cati, perchè diverse sono la condizione, l'ipotesi, e la supposizione.
V. queste voci. SUPPosizioNE (disc.), proposizione aſ fermativa d'un fatto
sfornito di verità, o d'un nome che non rappresenta la cosa denominata. La
supposizione nella mente di chi la crea, non ha veruna relazione col vero o col
verisimile; e però differisce dalla ipo tesi che è sempre fondata nella
possibilità e nella verisimiglianza, e dalla condizione che presuppone un avvenimento
incerto, ma possibile. V. Condizione, Ipotesi. – si – CLASSI DE' VOCABOLI
COMPRESI SOTTO LA LETTERA S. Sale Sapienza Satira Satirico Scena Scenico
Scenografia Scetticismo - Scettico Scienza Scrittura Scuola Semeiotica Sensismo
Simbolico FILOSOFIA CRITICA, Simile e Similitudine Simmetria Sincretismo
Sintesi Sintetico Sistema Sofista Spirito Spiritualismo Stampa Statica Storia
Sublime Semplice Sostanza Sostanziale VOCI ONTOLOGICHE. Spazio Subbiettivo 61
Sagace e Sagacità Saggio Sale Sangue Sanità Sapere Sapienza Sapore Saturno
Scegliere e Scelta Scienza Scoverta Scrittura Segno Sembiante Seme e Semenza
FIL oso FIA sp Ecu LATIVA. Semplice Senno Sensazione Sensibile Sensibilità
Sensista Sensitivo Senso Sentimento Sentire Serie Sicurezza Simbolo Similare
Simile e Similitudine Simmetria Simultaneo Singolare Sistema Sistematico
Sistole Sodezza Soggetto, Subbietto e Suggetto Sogno Sole Solidità Solido Sonno
Sostanza Sostanziale Sottomoltiplice e Summoltiplice Spazio Specchio Specie
Speculare Speculativo Sperma Spirito Spirituale Spiritualità Spontaneità e
Spontaneo Sproporzione Statura Stella Stomaco Strabismo Studio Subbiettivo
Sublime Subordinato Successione Suono FILOSOFIA DISCORSIVA. Saggio . Satira
Satirico Scena Scrittura Scuola Segno. Sentenza Sentire Serie Sillaba Sillessi
Sillogismo Sillogizzare Simbolico Simbolo Simile e Similitudine Singolare
Sintassi Sintesi Sintetico Sistema Sofisma e Soſismo Sofista Sofistico
Soggetto, Subbietto e Suggetto Solecismo Sorite Sostantivo e Sustantivo
Sostrato Sottigliezza e Sottilità Speciale Spezie Stampa Subalterno Subbiettivo
Sublime Subordinato Superlativo Suppositivo Supposizione Sole Spergiuro
TEOLOGIA NATURALE. Superstizione – 484 – Saggio Sanità Sapiente Sapienza Satira
Satirico Sbalordimento Sbeffeggiare Scegliere e Scelta Scempiaggine e
Scempiataggine Scherno Schiavitù e Schiavo $chiettezza e Schietto $confidenza
Sconfortamento e Sconforto Sconoscenza Scusa e Scusazione FILOSOFIA PRATICA,
Sdegno Seduzione Semplicione Semplicità Senso Sensuale Sensualità Sentenza
Sentimento Sentire Serenità e Sereno Servaggio e Servitù Severità
Sfacciataggine e Sfacciatezza Sgomento Sicurezza Simpatia Simulare e
Simulazione Sinderesi Sistema Sistematico Smania Smemoraggine e Smemorato Soave
e Soavità Sobrietà Sodezza Sofferenza Sofficiente e Sufficiente Sollecito
Sollecitudine Spavento Specchio Spensierato Speranza Spergiuro Splendore
Spontaneità e Spontaneo Sregolatezza Stima Stolido Stoltezza, Stoltizia e
Stolto Stranezza Stupido Stupore Subordinato Suggestione Suicidio Superbia
Superfluo Superstizione GRECISMI SUPERFLUI. Schema Schematismo - 485 – T Tan
(prat.), nota di azione bia simevole, o di cattivo nome. TALENTo (prat. e
spec.), voglia o de siderio di fare. Vale ancora natural prontezza delle fa
coltà dell'animo, nel quale senso scam biasi coll'ingegno. V. questa voce.
TANGIBILE (spec.), quel che cade sotto il senso del tatto. V. questa voce.
TAPINo (prat.), misero per povertà di animo. Si adatta per similitudine ad ogni
sorta d'infelicità e di miseria, e allo stato gretto e basso del volgo. TATTo
(spec.), potenza esteriore sen sitiva sparsa per tutto il corpo degli ani mali,
per la quale si apprendono le qua lità e si sente l'azione o la resistenza
delle cose poste fuori di noi. Quantunque questa potenza sia diffusa per la
superficie del corpo degli animali e di talune piante ancora, e sembri es sere
il carattere costitutivo della sensibili tà ; purtuttavolta la natura ha dato
al l'uomo un organo speciale attivo, per procurarsi la sensazione del tatto, e
per misurarne l'intensità. Questo è la mano per mezzo della quale conosciamo le
qua lità de corpi, e acquistiamo la perfetta conoscenza del mondo esteriore. Le
qua lità de'corpi, che il tatto ci manifesta, e per mezzo delle quali
acquistiamo la co noscenza del mondo esteriore sono il cal do, il freddo, la
durezza, la mollez za, e l'estensione. Non parliamo delle altre qualità, alla
conoscenza delle quali concorre l'opera di altri sensi, come la figura e il
moto, perchè giova conside rare il tatto per rispetto alle sensazioni, che sono
sue proprie, e che non po tremmo altrimenti acquistare. Delle cen nate qualità,
il caldo e il freddo appar tengono a quelle che diconsi secondarie, laddove la
durezza la mollezza e l'esten sione son delle primarie, o sia di quelle che ci
portano la conoscenza insieme col la convizione della esistenza della materia.
V. Calore, Materia, Qualità. Noi concepiamo la durezza come un effetto della
coesione delle parti costitutive della materia, nel quale significato com
prendiamo due idee, una di pura sensa zione, l'altra di riflessione; imperocchè
la coesione è un'idea complessa, che l'animo forma aggiugnendo alla perce zione
d'un corpo che agisce sopra il no stro senso, l'idea d'una qualità. Vo lendo
svolgere questa idea complessa, il dottor Reid credette scorgere nella sensa
zione della durezza un'idea fuggitiva, e quasi un'ombra, che non possiamo spie
gare cosa ella sia, in conferma di che osservò che manca d'un nome proprio,
tanto nel linguaggio scientifico, quanto nel comune. « È cosa maravigliosa,
egli dice, che una sensazione, la qual da noi si prova ogni volta che tocchiamo
un cor po duro, che possiamo produrre e pro lungare a nostro piacere, e che è
distinta e determinata quanto ogni altra; sia ciò non ostante rimasa ignota, e
niuno abbia ancora pensato d'investigarla, e di darle – 486 - un nome in
qualunque lingua si sia, per modo che i filosofi al pari del volgo, o l'hanno
affatto negletta, o l'han confusa colla qualità de'corpi, detta durezza, quan
tunque non abbia con essa la menoma somiglianza. Non potrebbesi forse da ciò
conchiudere, che la conoscenza delle fa coltà umane è ancora nello stato d'in
fanzia, e che non abbiamo ancora im parato a riflettere intorno alle operazioni
della mente, delle quali il sentimento è a noi presente in ogni giorno, ed in
ogni momento della vita? Non potrebbe dirsi che di buon'ora si radicano in noi
degli abiti d'inavvertenza tanto difficili ad esser vinti, quanto ogni altra
spezie di abiti? Parmi di vedere che questa sensazione, comincia a richiamare
l'attenzione de fan ciulli, ma è ben tosto trascurata, appe ma che con essa ci
familiarizziamo, tra perchè la consideriamo di niuna impor ianza, e perchè
limitiamo la nostra atten zione non al segno, ma alla cosa signi ficata .... Se
tal è lo stato, in cui noi ci troviamo per rispetto alla sensazione della
durezza, uopo è tornare alla fanciul lezza, per divenire filosofi; o sia
convien fare ogni sforzo per superare un abito, che è in tanto più tenace, in
quanto è più antico». E quì l'autore dopo di aver fatto l'inutile dimostrazione
che la coe sione delle parti d'un corpo non ha al cuna somiglianza colla
sensazione della durezza, propone come un problema in solubile il trovare la
ragione per la quale possa la mente ricavare dalla coesione del le parti,
l'idea e la credenza della qua lità della durezza. Il solo mezzo da risol
verlo, secondo lui, è il ricorrere ad un principio originale dell'umana
costituzio ne, facendo della idea della durezza una eredenza istintiva, di cui
la sensazione è un segno, che noi per abito confondiamo colla cosa significata.
(Reid, Essais, Chap. V. du Toucher). Con buona pace di sì grande uomo, osiamo
dire, che l'eccesso dell'analisi delle più semplici operazioni della mente, ren
de spesso difficili ed astruse quelle idee che il naturale e comune senso degli
uo mini chiaramente e distintamente perce pisce. Niuna delle idee che noi
concepia mo delle cose materiali, somiglia certa mente alle qualità che in esse
ravvisiamo, nè l'idea della durezza somiglia a corpi duri più o meno di quel,
che l'idea del suono somiglia alle vibrazioni de'corpi so nori, o quella
dell'odore alle particelle de corpi odoriferi; e così di tutte le altre qualità
primarie o secondarie della mate ria. Adunque ogni conseguenza ricavata da
questa verità generale e comune a tut te le nostre sensazioni, non pruova più
per l'una che per l'altra. Ma perchè la sensazione della durezza non ha un nome
diverso dalla qualità del corpi duri ? In risposta a tal quesito dal canto
nostro do manderemmo, qual altro è il nome che diamo alle sensazioni del suono,
dell'odore, ed anche dell'estensione ? Impre stiamo il nome della causa che
produce tali sensazioni, e lo rendiam comune agli effetti da essa prodotti? Nel
calore abbia mo distinto il caldo, che è la sensazio ne, dal calore o sia dalla
qualità che lo produce, perchè le varie combinazioni dei suoni della parola
hanno somministrato l'opportunità di distinguere l'una dall'al tra. Ma pure
cotesta distinzione può dirsi di recente data, perchè introdotta dal tem po, in
cui la chimica e la fisica comin ciarono a distinguere il caldo, dal calore, e
dal calorico. Prima di tale tempo, e per secoli, sotto il nome di caldo, si è
confuso tanto la qualità quanto la sensa zione. V. Caldo, Calore, Calorico.
L'autore nega che la sensazione della durezza contenga una idea di riflessione,
mentrechè a noi sembra, che tale preci samente sia, o che si deduca dalla coe
sione delle parti della materia, o che si deduca dalla impenetrabilità, che è
una conseguenza della coesione. In realtà, noi la deduciamo dall'una e
dall'altra. Dalla coesione, perchè la riflessione forma im mediatamente l'idea
della solidità che con trappone al liquido, e al fluido, e passando a formare
un nome generico, il quale cor risponda a ciascuno de due stati, vi adatta i
vocaboli del duro e del molle. La de duciamo ancora dalla impenetrabilità, per
chè l'ostacolo che questa presenta ad ogni altro corpo suggerisce l'idea della
resi stenza, la quale propriamente spiega la durezza: la solidità,
l'impenetrabilità e la resistenza son tre modi del pensiero, i quali nascono
l'uno dall'altro, e son tutti tre compresi nella idea della durezza. Laonde
questa può essere ben definita per la resistenza, che le parti solide della ma
teria presentano al senso del tatto. V. Coe sione, Impenetrabilità, Solidità.
Se da una parte non crediamo neces sario di riconoscere un principio istintivo
della natura, per ispiegare come in noi nasca l'idea della durezza; dall'altra
non rifiutiamo la teorica de segni naturali, che il lodato autore annodò a
questa par ticolare sensazione. Non la sola durezza, ma tutte le altre
sensazioni possono essere considerate come segni delle cose significa te,
adattati dalla natura agli organi dei sensi, secondo l'uso, cui ciascun di essi
è destinato. La sensazione della durezza può ben dirsi un segno della qualità
dei corpi che tocchiamo; come la visione l'è degli obbietti visibili; il suono,
delle vi brazioni del corpi sonori; l'odore, della qualità odorifera; e così
ancora del sapore. Cotesta teorica dunque abbraccia indistin tamente tutte le
sensazioni, e non costitui sce differenza delle une a rispetto delle al tre. V.
Segno. Dal tatto nasce ancora l'idea della esten sione, ma questo pure è un
modo del pensiero, che formiamo aggiugnendo al l'idea della coesione delle
parti, l'altra della loro continuità, ed inoltre quella del luogo che occupano
nello spazio. V. Esten sione, Spazio. Più importante sembra l'avvertire che il
tatto, considerato come una proprietà comune a tutti gli animali, è dato loro
dalla natura, per difendere e conservare il corpo in ogni sua parte, il perchè
lo ha renduto generale e locale insieme; che nel senso del tatto principalmente
è riposto quel che con altro nome chiamiamo sen sibilità o capacità di sentire;
e che allo stesso senso dobbiam riferire ogn'impres sione interna o esterna,
che ci faccia av vertire l'esistenza d'una causa estrinseca che agisce sopra di
noi. Laonde al tatto debbon essere riferite le sensazioni del cal do, del
freddo, del piacere e del dolore. Sin qua il tatto appartiene interamente alla
natura sensitiva. V. Sensibilità, Senso. A differenza del bruti, è stato dato
al l'uomo un organo speciale, qual è la mano per conoscere le qualità delle
cose materiali, e non solamente per sentire, ma ancora per produrre negli altri
Esseri sensitivi l'impressione del tatto, vale a dire, che nell'uomo comprende
due po tenze, l'attiva e la passiva, nel che giova per incidente rilevare un
difetto della lin gua, la quale collo stesso vocabolo espri me l'una e l'altra
insieme. Da tutto ciò – 488 – apparisce ancora manifesto, che la mano è un
istrumento razionale, conveniente soltanto all'uomo, il quale per mezzo del
tatto esercita il suo imperio sopra tutte le cose create. V. Mano. TAvoLA
(spec.), similitudine del filosofi sensisti, che compararono l'intelletto uma
no ad una tavola nuda, o rasa, nella quale vengono ad imprimersi le immagini
degli obbietti che noi percepiamo. I cennati filosofi vollero per tal compa
razione dire che prima delle idee desensi, la ragione è vota d'ogni altro
principio di cognizione, nè attigne da altra fonte le sue conoscenze. Cotesto
concetto, di cui furono autori Aristotele e Zenone stoico, è stato poi ri
petuto da moderni sensisti, come Locke e Condillac. Questi ampliò anche la simi
litudine, dacchè si servì del paragone di una statua, che acquista una parte
d'in telligenza a misura, che se le apra ognu no degli organi de sensi. V.
Sensista , ASenso. TE (spec.), nella seconda persona, ha il significato stesso
dell'io o del me nella prima, e del se nella terza. V. Io. TEATRo (crit.),
luogo dove si rappre sentano gli spettacoli. Prendesi per l'arte stessa del
rappresen tare qualunque sorta di dramma. V. que Sta VOCe. Tecnico (dise. ),
quel che appartiene ad un'arte, o alle sue regole. V. queste voci. Tecnici
propriamente diconsi i vocaboli o termini che ricevono uno special signifi cato
in ogni scienza o arte. V. Termine. TEDIo (prat.), molestia che sopravviene ad
alcuno, o per lunga aspettativa, o per sazietà di possedere una cosa qualunque.
Ha un significato affine al fastidio e alla noia, e potrebbe anche dirsi un si
nonimo del fastidio, datoci dalla lingua latina. Ma in realtà esprime quel
maggior grado di noia, di cui non si può più tol lerare la continuazione.V.
Fastidio, Moia. TEISMo (grec. sup.), di cui si è par lato alla voce deismo. V.
questa voce. TELEoLoGIA (gree. sup. ), discorso o scienza delle cause finali.
V. Causa. È uno del vocaboli i quali dimostrano l'abuso, che il linguaggio
filosofico fa de grecismi. Se ad ogni trattato, o ar gomento della filosofia,
cui il linguaggio scientifico ricevuto ha dato già un nome, volesse darsi una
greca denominazione, ne risulterebbe una nuova lingua tecnica, . utile soltanto
a rendere misteriosa la scien za, e a fomentare la vanità e l'ostenta zione di
quelli che la professano. E però questo vocabolo quantunque usato da gra vi
scrittori nel tempo in cui era in uso il linguaggio scolastico, dovrebbe ora
essere giudicato superfluo. TELEoLoGico (grec. sup.), derivato dal precedente,
che partecipa del medesimo vizio. TEMA (disc.), soggetto o materia di qua
lunque discorso, o trattato dimostrativo. TEMPERANzA (prat.), virtù per la
quale sappiam rattenere in giusti limiti gli ap petiti sensitivi. V. Appetito.
nome generico, il quale abbraccia ogni sorta di moderazione. Sue parti, o – 489
– spezie, secondo Cicerone sono, la conti nenza e l'astinenza o sia
disinteresse. V. queste voci. - TEMPo (spec. ontol. e disc.), la du rata
continua delle cose che si succedono. V. Durata. Del tempo si è disputato, come
dello spazio, e l'uno ha somministrato all'altro metafisiche sottigliezze, ed
astruse defini zioni. Aristotele e i peripatetici lo deſini rono, numerus molus
secundum prius el posterius. Questa definizione è soprav vivuta insino a
compilatori del dizionario italiano, i quali non seppero dir di me glio, che
quantità che misura il moto delle cose mutabili, rispetto al prima, o al poi.
Distinguiamo in primo luogo l'idea del la durata da quella del tempo, e il
tempo limitato dallo illimitato, o sia riconosciamo nel vocabolo tempo due
significati, uno universale, l'altro particolare, datigli dal l'uso. Certamente
il tempo posto in rela zione collo spazio dà una giusta idea del moto, ma il
moto dà la prima idea del tempo, perchè senza moto non v'ha suc cessione, e non
si può concepir tempo senza successione o durata. Laonde il molo potrebbe dirsi
misura del tempo, piuttosto che inversamente. Che anzi il moto uni forme è in
certo modo la rappresentazione sensibile del tempo. Ma la definizione, la quale
prende i caratteri del tempo dalla relazione ch'essa ha col moto, oltre al di
fetto di considerare soltanto il tempo li mitato o assegnabile, raccoglie più
vizi insieme: confonde la durata col tempo : spiega un termine più noto per uno
meno noto: spiega l' elletto per la sua causa. Ciò non ostante prevalse presso
gli anti chi e i moderni metafisici il concetto, il quale scambia il tempo
colla misura del moto. Leibnizio stesso disse, essere il tem po la misura del
moto equabile, ma questa proposizione tutto al più contiene una proprietà , o
un teorema , e non. una definizione. La sua logica definizione fu, l'ordine
delle eose successive, che Wolfio scolasticamente trasformò in quel l'altra,
ordo successivorum in serie con tinua. Locke, quantunque facesse nascere il
concetto del tempo dalla successione del le idee, pure tornò insieme cogli
altri alla misura del moto. Gli ontologisti avvilup parono di tenebre la
nozione del tempo, perchè andarono cercando se fosse una sostanza, un modo, o
una relazione. Newton infine formò il trascendentale con cetto, che il tempo e
lo spazio fossero Dio, il qual esiste sempre e in ogni luogo e per se stesso
costituisce l'immensità e l'eternità. Riconduciamo la mente al naturale con
cetto del tempo. Noi lo concepiamo come una indefinita continuazione della
durata. La nozione della durata è un modo del pensier nostro, formato dalle due
idee del presente e del passato: a queste ag giugniamo la terza del futuro, e
ne for miamo quella del tempo. Il tempo dun que è un'idea complessa, formata
dalle idee delle tre durate unite insieme, del passato, del presente e del
futuro. Simil mente la mente forma l'idea dello spazio colle idee della
coesione delle parti della materia, e della estensione, alle quali ag giugne
l'altra della loro continua progres sione. Proseguendo il cammino dell'analo gia
tra le due idee complesse dello spazio e del tempo, noi non vediamo obbiettiva
mente nè lo spazio, nè il tempo, ma de duciamo l'uno dalla coesistenza delle
cose, l'altro dalla loro successione: cotesta de 62 – 490 – duzione nasce da
una operazione sponta nea della mente, comune a tutti gli uo mini, e diremo
necessaria, perchè sug gerita dalla luce stessa della ragione: le idee della
durata e del tempo son perma nenti nell'animo, quantunque passeggieri sieno i
fatti, che le han fatto nascere: sta bili del pari sono le idee della
estensione e dello spazio limitato, comechè sieno scom parsi dal pensiero gli
obbietti materiali, da quali le abbiamo ricavate: la ragione umana, per suo
natural senso concepisce lo spazio e il tempo, come due quantità, continue e indefinite,
le quali contengono nell'ampio loro seno tutte le cose create: tutte hanno
nello spazio il sito; e nel tempo, il momento della loro durata. V. Spazio. Se
poi si cerca sapere a qual genere di conoscenze appartengano le due idee del
tempo e dello spazio, se alle intuitive o alle dedotte, ognuno, interrogando se
stesso, sentirà di non averle acquistate per via di ragionamento, nè ancora per
espe rienza; dapoichè non potrà additare una età, o uno stato di conoscenze, in
cui non le abbia avuto, o abbia creduto meno di quel che ora crede allo spazio
e al tem po. Ognun dice a se stesso colla medesima convizione: io sono lo
stesso Essere di ieri è la mia esistenza ha una durata, che ignoro quale sia
questa durata è una parte di quella maggiore, nella qua le vengono, le une dopo
le altre, tutte le cose create. L'idea dunque del tem po, come l'altra dello
spazio limitato, son di quelle immediate deduzioni, le quali vengono suggerite
all'uomo da una legge primitiva o costitutiva della umana in telligenza. Kant
ne fece due forme della natura sensitiva, o sieno due credenze istintive; il
qual concetto potrebbe dirsi vero, se per forma e per credenza non abbia
egl'inteso un che di meccanico e di materiale, capace di formare idee ge nerali
senza l'intervenzion della ragione. V. Forma. Sin qua del tempo limitato. Ma la
mente porta l'idea del tempo oltre i limiti del cominciamento e della futura
durazione di tutte le cose, perchè non sa concepire il principio o la fine del
tempo, come dello spazio; perchè risguarda entrambi come i due vasti
ricettacoli, ne'quali en trano e si succedono tutte le opere della natura; e
perchè non sa disgiungere l'idea stessa d'una perpetua esistenza da quella
d'una perpetua durazione. In somma l'idea del tempo illimitato va a confondersi
col la eternità, siccome quello dello spazio il limitato si confonde colla
immensità. E quì si compie la somiglianza e l'analogia del nostro ragionare
intorno allo spazio e al tempo. Che diremo dunque della nozione del tempo
illimitato? Quello stesso che ab biam detto dello spazio ! È una nozione
confusa, come quella della eternità, del la immensità, e dell'infinito. V.
queste VOCI. Giova infine notare, che a questo vo cabolo l'uso del comune
parlare dà ancora un significato particolare. E però diciamo tempo per età, o
per una certa durata, o anche per misura di spazio. Lo spazio misura il tempo
per mezzo della relazione che l'uno e l'altro hanno col moto, il qual è di sua
natura suc cessivo e continuo così nella durata come nella estensione. Esso
segna e limita il corso del tempo; il perchè nel moto uni forme le parti della
durata sono fra loro come le parti della estensione percorsa. Infatti,
prendendo per unità una delle parti dell'estensione, il rapporto di questa –
491 – unità alle altre parti dell'estensione, è lo stesso del rapporto che si
trova tra la cor rispondente unità della durata e le altre parti sue. V.
Estensione. La natura ha dato all'uomo un perfetto modello di moto uniforme
nella rotazione della Terra intorno al suo asse, o sia nel giro apparente delle
stelle fisse; onde si è potuto stabilire esattamente il rapporto tra la durata
e l'estensione. E sebbene il moto diurno ed il moto annuo del Sole patiscano
talune disuguaglianze, pure son esse calcolabili. Gli astronomi hanno cor retto
il moto diurno del Sole, rendendolo uniforme come quello delle stelle, avendo
immaginato un sole fittizio, il quale si muova con velocità costante e media
tra le velocità che il vero Sole ha nel corso dell'anno. Certo dunque e
costante è il rapporto tra 'l giorno e la circonferenza dell'equatore, o di un
paralello celeste, descritta da un astro, per modo che le parti della durata,
le quali sono aliquote del giorno, han tra loro lo stesso rap porto, che han le
parti aliquote della cir conferenza dell'equatore. V. Stel'a. La mano dell'uomo
imitando la natura è riuscita a trovare in una durata limi tata un moto
uniforme, che ha comparato colla primitiva e naturale misura del gior no; ed
avendo trasportato la circonferenza dell'equatore in un quadrante di picciola
dimensione, ha renduto osservabile il corso del tempo. E siccome in realtà non
è lo spazio che misura il tempo, ma è la so miglianza del rapporti tra le parti
dello spazio e della durata quella che serve di misura; così è indifferente che
questo rap porto sia ricavato da una maggiore o da una minor quantità di spazio
percorso, purchè si trovi la stessa uniformità del moto, che un punto dello
equatore ha sulla sua circonferenza. Per tal mezzo noi abbiamo ricavato che la
ventiquattresima parte del cennato spazio corrisponde alla ventiquattresima
parte della durata, ed abbiam questa come la misura universale del tempo. V.
Misura. Tempo han chiamato i gramatici quella inflessione o forma del verbo,
che riferisce l'azione al presente, al passato, o al futuro. Ciascuna lingua ha
diverse gradazioni per esprimere il prossimo e il rimoto. Ma di ciò vedi i
grammatici. V. Verbo. TENACE e TENACITÀ (prat.), qualità di animo fermo ne suoi
proponimenti, lode voli o riprensibili che sieno. - TENDINE (spec.),
l'estremità del mu scolo. V. questa voce. v TENEBRA ( spec.), la privazion
della luce, per l'assenza del sole dall'orizzonte. La luce e le tenebre formano
quell'av vicendamento di giorno e di notte, di alte e di basse temperature, di
azione e di riposo, nel quale è riposta l'economia della natura, spezialmente
per la vita de gli animali e del vegetabili. V. Luce. E siccome tutto il nostro
linguaggio è preso dalle cose sensibili, così tenebre dello intelletto sono
state dette l'ignoranza e l'errore. V. queste voci. TENEREzzA (prat.), qualità
di poca du rezza, che però è facile a piegarsi. In senso traslato, è qualità
d'animo affettuoso, e pieghevole a sentimenti del l'amore e della
misericordia.V. queste voci. TENTATIvo (prat.), cominciamento di azione, non
portata al suo compimento. V. Azione. r – 492 – - Distinguendo nell'azione il
principio che la muove, dalla volontà che le dà com pimento, il tentativo sta
in mezzo all'uno e all'altra. Differisce dal conato, che espri me soltanto la
forza del principio d'azio ne, che può non ricevere compimento per mancata
determinazione di volontà. Che se l'azione compiuta per volontà dell'agen te,
fosse mancata per estrinseco impedi mento ; in tal caso il conato acquista la
qualità e il nome di tentativo. V. Conato. TEoLoGIA (spec. teol. e crit.),
scienza che per lo studio di noi stessi, e per la contemplazione della natura,
ci conduce alla conoscenza di Dio, e degli attributi suoi. V. Dio. Se questa è
la definizione della teologia, è manifesto che con altro nome è la filo sofia
stessa: è lo studio, che ad un tempo ci mena alla filosofia : è lo scopo della
filosofia, che abbraccia tutta la filosofia. V. questa voce. . Riflettendo in
noi stessi, la mente corre immediatamente alla conoscenza della sua causa, e
d'una causa di se più perfetta. Passando poi alla contemplazione della na tura
esteriore, la terra, gli animali, le piante, il cielo le appalesano il grande
disegno che v'ha in tutte le opere della natura, e le dimostrano che a tal
disegno corrispondono l'ordine, la simmetria e le leggi costanti ed uniformi,
le quali rego lano tutte le parti dell'universo. E quan do, più innanzi
spignendo la riflessione, scopre le relazioni degli Esseri animati colla natura
inanimata, e delle innume revoli spezie di animali coll'uomo, unico Essere
ragionevole; quando conosce come gli Esseri animati si riproducono, come la
natura abbia con finissimo antivedimento predisposto l'organismo a bisogni di
cia - scuna spezie, e le produzioni della terra a loro bisogni ; quando
considera, come l'istinto, a guisa d'una ragion pratica, go verna i bruti, e
come a tutti soprastà l'uo mo, quale sommo signore, e qual potestà immediata
del Creatore; dietro tali e tante considerazioni, la mente perviene alla co
gnizione d'un altro fine morale, cui tutte le cose materiali servono da
instrumenti. Questo fine è, che l'uomo riconosca la provida mano dell'Autore di
tutte le cose; e dalla immensità delle opere sue ascenda col pensiero alla
contemplazione della sua perfezione, e degli attributi che costitui scono la
sua essenza. Fissando sopra tutto gli occhi nel cielo, e vedendo il sole, la
luna e le stelle tut te, parte fisse e parte erranti, parte lumi nose che
riflettono la loro luce, e parte opache che la raccolgono ; considerando che
tutte per una forza loro impressa muo vonsi in una immensità di spazio, che i
sensi e la mente non possono abbracciare; l'uomo forma l'idea dell'infinito, e
con questa spiega la confusa, ma vera nozione degli attributi della Divinità.
V. Immen sità, Infinito. Seguendo l'ordine di queste conoscenze, le quali
successivamente svilupparonsi nella mente dell'uomo, formossi la scienza che
noi chiamiamo teologia naturale: le ve rità che essa c'insegna son tutte
deduzioni che il ragionamento ricava dalla nozione del proprio essere, o
dall'io, e dalla esi stenza del mondo esteriore. V. Io, Mondo. Ma l'uomo, che
prima vedeva Dio da pertutto, cessò di vederlo, tosto che la forza dell'abito
affievolì ed estinse il sen timento dell'ammirazione, da cui era stato compreso
al suo primo apparire nel mon do. E tanto la forza dell'abito prevalse al
sentimento, quanto surse una falsa scien – 495 – - za, la quale cominciò per
istudiare i fe nomeni naturali nel semplice loro rapporto colle leggi, o fatti
generali da cui quelli dipendono, e finì per dimenticare la cau sa intelligente.
A questa causa la falsa filosofia ne sostituì un'altra tutta materiale o sia la
catena stessa delle cause secon de, rotto il primo anello, da cui ogni loro
virtù procede. Quantunque i fisiologi e gli astronomi fossero stati i primi che
nella fabbrica del corpo umano, e del cielo ravvisato avessero i caratteri
della sapienza, della onnipotenza, e della infi mità del Creatore; pure non è
tra essi mancato chi abbia deificato il caso o la natura. Se da una parte nulla
onora tanto l'ingegno umano quanto le maravigliose scoverte dell'astronomia,
uopo è dall'altra convenire, che un astronomo ateo sia il più strano esempio
degli assurdi e delle contraddizioni, di cui una erroneamente è capace. V.
Astronomia, Ateismo, Fi siologia. - Dalle cose sin qua dette manifesta an cora
apparisce la naturale connessione del la teologia naturale colla cosmologia e
colla dottrina delle cause finali, che spe zialmente aprono alla mente la
cognizione d'una Provvidenza conservatrice, la quale veglia a bisogni della
umanità, e conser vando rinnova i benefizi della creazione. V. Causa,
Cosmologia, Creazione. Questa Provvidenza conservatrice non poteva più
chiaramente manifestarsi al l'uomo, che per mezzo della rivelazione, quando per
la sperienza stessa de suoi errori, l'umanità ebbe acquistato la con vizione
che la luce sola della ragione era insufficiente a contenerla ne' fini della
creazione. Da quel momento una nuova dottrina, figlia d'una legge positiva e di
vina, è venuta a spiegare e confermare i precetti della teologia naturale. Tal
è lo scopo della teologia dogmatica o ri velata, la quale ha rigenerato l'uomo,
ha dissipato le tenebre che aveva sparso sul genere umano il vecchio fermento
delle sue passioni, ha purificato la sua ragio ne, e le ha aperto la vera
cognizione della natura. - La teologia naturale dunque è fon data nella sola
luce della ragione: la ri velata nel dogma e nella fede. V. que ste voci.
TEOREMA (spec. e disc.), proposizione di verità speculativa dimostrabile o dimo
Strata. Le proposizioni son dimostrabili, quan do la loro verità nasce, o dalle
stesse definizioni del termini, col quali vengono enunciate; o da assiomi
concessi e rico nosciuti per indubitati; o da altre propo sizioni già
dimostrate, le quali son dive nute evidenti per la dimostrazione fatta ne. V.
Dimostrazione. I teoremi appartengono al genere delle verità dedotte , dapoichè
le proposizioni per se stesse evidenti, che non hanno bi sogno di
dimostrazione, formano il ge nere delle intuitive. Tra queste son com prese
tutte le proposizioni le quali diven gono evidenti, per essere una deduzione
immediata d' una verità per se stessa in tuitiva. Tal sarebbe la proposizione,
tut to quel che ha cominciato ad esistere, de avere una causa che l'abbia pro
dotto. V. Intuitivo, Intuizione. TEoRIA (spec. e crit.), la parte d'ogni
scienza, la quale si limita a considerare speculativamente le proprietà del suo
sub bietto, senza alcuna mira all'applicazione della medesima. V. Applicare. -
494 - TEoRicA (spec.), la parte d'ogni dot trina, che espone i suoi principi
speculati vi, senza veruna applicazione alla pratica. V. questa voce. TEoRIco
(spec.), quel che appartiene alla teoria e non alla pratica. Dicesi anche di
uomo che versi unica mente circa la teoria, e non attenda al l'esperienza. V.
questa voce. TERMINE ( disc. ), nome o vocabolo, che riceve un particolar
significato dal lin guaggio scientifico o tecnico. Tutto quel che i filosofi
han detto del l'abuso determini, a quali dassi un vago ed ambiguo significato,
e degli errori che ne derivano, appartiene al retto uso del definire e del
ragionare, e però lo con sideriamo come parte della logica. I grammatici
distinguono i termini pro pri delle scienze e delle arti, che chiaman tecnici,
da quelli che entrano nella com posizione del comune discorso. V. Tecnica. I
logici poi chiamano termini gli ad diettivi e i sostantivi, considerati come
componenti d'una proposizione, sì che il subbietto e il predicato sono i due
termini de quali quella si compone; e distinguono i semplici da complessi,
nella quale spe zie van compresi quelli che ad un nome semplice aggiungono un
altro di qualità. Suddividono inoltre i complessi in espli cativi e
determinativi, gli esplicativi di chiarano o sviluppano una qualità rin chiusa
nella comprensione del nomi, ai quali sono aggiunti: i determinativi am pliano
o restringono il significato d'un altro termine generale. V. Proposizione.
Termini de sillogismi son dette le varie proposizioni che li compongono; e
termine medio, la proposizione che serve di para gone, acciocchè possa trovarsi
l'ignota verità che si va cercando. V. Sillogismo. TERRA (spec. e crit.), il
globo terra queo, che noi abitiamo. È l'obbietto di tutte le scienze fisiche,
delle quali ognuna prende a considerarla, o nella sua intera forma, o in
ciascuna delle sue parti. E considerata per rispetto all'uomo,
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