Thursday, August 13, 2020
IMPLICATVRVM -- in IV -- II
l'azion dell'in telletto nel formare le idee generali. Co testa virtù
dell'intelletto presuppone due altre operazioni compagne, senza le quali non
potrebbe sceverare le qualità da sub bietti, nè considerarle une separatamente
dalle altre : una è l'astrazione, l'altra è la denominazione, o sia l'attaccare
ad ogn'idea di qualità un segno, per lo quale riesce a concepirla divisamente
dal sub bietto, e dalle altre cui trovasi unita: i nomi fanno l'ufizio di
segni, e son som ministrati dal linguaggio. Da ciò nasce la nota generalità,
che il linguaggio è l'in strumento necessario del pensiero,V. Lin. guaggio, Segno,
GENERAZIONE (spec.), funzione anima le, per la quale gli Esseri organici d'ogni
sorta e della medesima spezie, possono produrre un altro a loro simile nelle
qua lità essenziali, Cotesto vocabolo è proprio della ripro duzione degli
Esseri organici, in ciascuno de quali la natura ha impresso la facoltà di
riprodursi, insieme col germe della riproduzione. Gli antichi, e tra questi
Ari, stotele, credettero che gl'insetti e molti altri Esseri organici inferiori
nascessero dalla corruzione. I più sapienti fisiologi del decimosettimo secolo,
come il Mal pighi, il Suammerdam, e il Redi confu tarono cotesta opinione, e
affaticaronsi a dimostrare, che negli animali come nei vegetabili non si dà
generazione sponta nea, ma tutto preesiste nell'uovo e nei semi. Harvey fu
autor della massima omnia ea ovo. Buffon inchinò alla opinione de gli antichi,
che taluni de moderni fisiologi han fatto rivivere, fondandola principal mente
nella generazione degli animali, che chiamano infusori. Costoro distin guono la
generazione omogenea dalla eterogenea o spontanea: chiamano omo genea quella in
cui l'Essere procreatore è della stessa natura del procreato: etero genea
l'altra, in cui il nuovo Essere or. ganico è prodotto dalla combinazione di
componenti diversi, e senza un precedente principio vitale. V. Infusorio.
Impropriamente gli antichi diedero lo stesso nome alla formazione della mate
ria inorganica, che chiamarono generato compositi. Aristotele avevala definita,
mu tatio totius, nullo subiecto sensibili rema nente, dacchè in essa
considerava il can giamento della forma sostanziale, la quale dalla materia del
primo subbietto faceva nascerne un altro. E siccome in ogni nuo va composizione
i peripatetici vedevan tre cose degne d'esser considerate, cioè la pri ma
materia, la nuova forma sostanziale di cui veniva rivestita, e l'antica di cui
era stata privata; così stabilirono essere tre i principi della generazione, la
materia, la forma, e la privazione. Cotesta dot trina riferivasi manifestamente
alla perpe tua successione delle cose, mediante la ge nerazione e la
corruzione. Gli scolastici ri tennero la definizione aristotelica (mutatio
totius, nullo sensibili subiecto remanen te), ma spiegarono la mutazione del
sub bietto, come locale, e non come sostan ziale; per modo che la nuova composi
zione non contiene se non il passaggio ad - 279 - una diversa combinazione
degli stessi ele menti. Per verità costoro non dissero niente di diverso da
quel che detto aveva Aristo tele, ma col solo cangiamento delle pa role
credettero di poter evitare le conse guenze di quella dottrina. In luogo di
spie gare per la via del moto la mutazione del subbietto, sarebbe bastato
l'abbandonare il concetto delle forme sostanziali, alle quali non pertanto
rimasero tenacemente attac cati. Riducendo ora a senso di ragione l'uno e
l'altro concetto, diremo che i feno meni della produzione nella materia inor
ganica non possono confondersi colla ripro duzione la quale nasce dall'azione
del prin cipio vitale de corpi organici; perchè in quelli non v'ha, che una semplice
com binazione di particelle elementari, le quali si separano da un'anteriore
combinazione per rimanere isolate, o per entrare in un nuovo composto. E se
diversa è l'idea della riproduzione organica da quella della for mazione del
composto, uopo è che diversi sieno i nomi, co quali le cennate due idee vengono
espresse. V. Corruzione, Forma, Materia. - - GENERE ( disc. ), nome collettivo
che raccoglie sotto di se le spezie. V. Spezie. Le spezie son considerate, come
aventi alcune qualità comuni, le quali portano un nome, che esprime appunto una
tal comunanza. L'uno e l'altro vocabolo espri mono due idee generali, che
differiscono tra loro per un più , e per un meno di universalità che
rispettivamente contengo no. L'idea del genere per la sua mag giore universalità
contiene la spezie, co me la spezie contiene gl'individui. Il no me animale è
un genere, il quale com prende come sue spezie l'uomo e il bruto: il
quadrilatero è un genere per rispetto al parallelogrammo e al trapezio, che
sono sue spezie: la materia è un nome, che comprende in se tutti i corpi i
quali hanno diverse forme: lo stesso vocabolo corpo contiene una idea di
genere, che abbrac cia come sue spezie i corpi organici, e gli inorganici.
Apparisce da ciò manifesto, che lo stesso nome può essere genere per ri spetto
ad una collezione di spezie subal terne, e spezie a risguardo degl'indivi dui,
che in se contiene. E però il corpo può passare come genere a rispetto dell'or
ganico e dell'inorganico, e come una spezie della sostanza immateriale. Da ciò
nasce la definizione e la partizione degeneri fatta dagli scolastici. Costoro
definirono il ge nere logico un universale, che è predi cabile di molte cose di
spezie diverse; e ne fecero due partizioni, cioè del genere sommo, e del medio
o subalterno. Chia maron sommo quello che può essere sud diviso in molte altre
spezie, senza ricono scere verun altro genere a se superiore; che corrisponde a
quel che i moderni più volentieri chiaman classe. Subalterno poi è quell'altro,
che stando in mezzo tra I sommo e l'infima delle spezie, può essere considerato
ora come genere, e ora come spezie. E da tal partizione inferivano, che tutte
le cose, le quali esistono per le pro prie loro qualità, come la sostanza, deb
bon tutte dirsi generi sommi, ond'è che v ha tanti generi sommi, quanti sono i
predicamenti o le categorie di Aristotele, ciascuna delle quali esiste
indipendente mente dall'altra. Non è questo il luogo da ricordare di quanti
falsi concetti ed errori sia stata causa cotesta definizione della sostanza e delle
cose per se stesse esistenti (V. vol. l. pag. 245): limitiamoci alla sola
sposizione della dottri na. V. Categoria, Classe, Sostanza. Passando ora ad
esaminare il divario tra'l genere e la spezie, questo nasce dac chè
gl'individui compresi nell'uno diſſeri scono da quelli compresi nell'altra per
qual che attributo essenziale, che non è a tutti comune. Il difetto o la
presenza di cotesto attributo forma il carattere discernitivo di quelle due
collezioni d'individui, e chia masi DIFFERENZA. Il concetto che noi for miamo
della differenza, è pure un'idea generale, perchè raccoglie in se le idee
particolari di tutti i divari che distinguono gl'individui delle spezie da
quelli de ge neri. L'uomo si distingue dagli animali per la ragione, la quale
forma la diffe renza caratteristica della spezie umana. E però la differenza
formava il terzo dei predicabili, o idee universali degli aristo telici. V.
Differenza. Ma dall'attributo essenziale, che è negli uni e manca negli altri,
possono nascere altre qualità particolari agl'individui che compongono la
spezie. L'uomo per esem pio, come dotato di ragione e d'intelli genza, ha la
facoltà di esprimere colla pa rola il pensiero, e di comunicarla agli al tri
uomini ragionevoli intelligenti, e par lanti come lui. Cotesta facoltà è una
qua lità, che nasce dal suo essenziale attributo di Essere ragionevole, ed è
pure un'idea universale, perchè è comune a tutti gl'in dividui della spezie
umana. E per addurne un altro esempio nelle cose sensibili, l'an golo retto è
la differenza che caratterizza il triangolo rettangolo, come una spezie del
genere che abbraccia tutte le figure di tre lati e di tre angoli. Ora, conse
guenza di tale attributo essenziale del trian golo rettangolo è, che il
quadrato della ipotenusa sia eguale alla somma de qua drati del cateti, o sia
degli altri due lati. Cotesta qualità necessaria dell'attributo es senziale, è
quel che i logici aristotelici han chiamato proprio. Gli scolastici poi per
carattere discernitivo del proprio aggiun sero, quod convenit omni et soli,
cioè a tutta la spezie, e a ciascuno degl'individui che la compongono. Vogliamo
pure accen mare che l'amor delle categorie fece sud dividere il PROPRIO in
altre quattro spezie subalterne, che sono le seguenti: 1.” il convenit omni,
soli, et semper, che è il proprio testè spiegato: 2.” il eonvenit omni, sed non
soli: tal sarebbe nella estensione la proprietà dell'esser divisibile, la quale
non pertanto non è privativa della sola estensione, ma è comune ancora a tutta
la quantità, co me il numero, la durata, la forza: 3,” il convenit soli, sed
non omni tal sarebbe la qualità d'esser sapiente o dotto in una scienza o in
un'arte più che in un'altra: cotesta qualità conviene alla spezie umana,
comechè non tutti gli uo mini la possedano. 4.º il convenit omni et soli, sed
non semper: tal sarebbe la canizie, la quale è propria degli animali, a quali
si fa bianco il pelo nella vecchiezza. Finalmente v'ha un'altra sorta d'idee
generali, per le quali possono distinguersi gl'individui, comechè non
differiscano nè per attributi essenziali, nè per qualità da questi dipendenti.
Tal'è l'idea dell'acci dente, il quale non può stare da se, e senza un
subbietto, per modo che non può la mente concepirlo, senza concepire la
sostanza o il subbietto, cui è attaccato. Per contrario nell'idea del subbietto
non è compresa quella dell'accidente; un uomo vestito per rispetto ad un uomo
nudo; una materia lavorata in confronto d'una mate ria grezza; la stessa cosa
diversamente co lorata, sono altrettante qualità secondarie, - 281 -- le quali
distinguono gl'individui, sebbene non formino differenza nè proprio. Tali sono
i cinque predicabili aristote lici, o sieno le cinque idee universali, sot to
le quali van comprese le qualità che possono essere comuni a più individui. V.
Predicabile. “ a Ma i così detti nomi universali rappre sentano un semplice
atto del nostro pen siero, ovvero esprimono un che di vero e di reale ? In
altri termini il genere è un nome puramente collettivo, che non dice nulla di
più di quel che direbbe la serie de nomi singolari in esso compresi; odinota
una qualità vera e reale, la qual si trova in ciascuno degl'individui com presi
nel genere stesso? Questa è la fa mosa controversia che agitò le scuole, o le
sette de Reali e de'Mominali, in mezzo a quali stanno i Concettualisti. V,
queste voci. - GENERIco (dise.), che appartiene al ge mere, o che costituisce
il genere. GENERosITA' (prat.), atto virtuoso per lo quale preferiamo il bene
altrui al proprio. Conseguenza di tal virtù è il perdonare l'offesa ricevuta, e
il contraccambiare il male per lo bene: la generosità è il carat tere proprio
della eminente virtù, la quale credesi contaminata dalla vendetta. - La
filosofia stoica condannò la vendetta, di che fa fede un bel luogo di Seneca:
Ille ingens animus, et verus aestima tor sui, non vindicat infuriam, quia non
sentit. Ut tela a duro resiliunt, et cum dolore caedentis solida feriuntur; ita
nulla magnum animum injuria ad sen sum sui adducit, fragilior eo quod petit.
Quanto pulehrius est, velut nulli pene trabilem telo, omnes injurias contume
liasque respuere? Ultio, doloris confes sio est: non est magnus animus, quem
ineurpat injuria. Aut potentior te, aut imbecillior laesit: si imbecillior,
parce illi: si potentior, tibi (deira lib. III. c. 5). Ma tutta la sapienza del
paganesimo non giunse a inculcare il benefizio, come ri compensa dell'ingiuria,
il che è proprio della perfezione della morale cristiana. V. Beneficenza. -
GENERoso (prat.), l'uomo che esercita atti di generosità. È più del liberale, e
del benefico; da poichè il liberale è quello che dona gra tuitamente, ma senza
profusione, e senza privazione di comodo proprio; e benefico dicesi
generalmente colui, il quale ama e pratica il bene verso degli altri. V. que
ste voci. e GENIo (spec. e prat.), spirito di ma tura superiore all'umano. Gli
antichi credettero, essere i geni quel le divinità minori, che stavan di mezzo
agli uomini e agli dei, chiamati ancora demoni. - I cristiani si son serviti di
questo stesso vocabolo per dinotare quegli spiriti buoni, o angeli, che son
dati agli uomini come custodi e guide al ben oprare, onde Gio vammaria Cecchi
disse: Quel santo precettor, quell'alma guida, Genio appellato, il qual come
ministro Della ragion lo sproni al ben oprare, E dell'opere ingiuste il tiri e
frene. Per similitudine chiamiamo geni quegli uomini di superiore intelligenza,
i quali spezialmente distinguonsi per la facoltà della invenzione. (V. il
discorso prelim.). 56 - 282 - Lo stesso vocabolo si adopera in signi ficato
d'indole buona o cattiva, d'incli nazione d'animo, di simpatia, o di pia cere
che prendiamo in fare qualche cosa. Di tutti i quali significati v'ha esempi ne
gli scrittori antichi e moderni, e non vi ha ragione per rifiutarne alcuno.
.GENITIvo (disc.), caso del nome, che alla idea principale della parola
aggiugne l'idea accessoria di una relazione con al tra cosa, o persona. V.
Relazione. I trattalisti di gramatica generale han distinto molte spezie di
relazioni: 1.° del tutto alla parte, come caput hominis. 2.° della parte al
tutto, come homo crassi capitis. 3.º del subbietto all'attributo, alla qua
lità, o all'accidente, come misericordia Dei, puer optimae indolis, o color
rosae. 4.° della causa efficiente all'effetto, co me opus Dei, oratio
Ciceronis. . 5.º dell'effetto alla causa, come Crea tor mundi. 6.° della causa
finale all'effetto, come potio saporis. - 7.° della materia al composto, come
vas auri. - - 8.º dell'obbietto all'atto del pensiero, come cogitatio belli,
contemptus mortis, 9.° della persona alla cosa, come pe cus Melibaei, divitiae
Craesi. 1o.° del nome proprio al comune, e dell'individuo alla spezie, come
oppidum Lugduni. s . - Altri vi hanno aggiunto molte spezie da primi ommesse,
ma a ciascuno di tali elenchi potrebbe farsi un nuovo suppli mento; il che
dimostra l'imperfezione e l'inutilità di simili categorie. Se si vo lesse che
la definizione di cotesto caso der terminasse ancora la possibilità di tutte le
varie spezie di relazioni, delle quali è ca pace, basterebbe dire con Beauzée,
che il medesimo esprime sempre il termine come seguente d'una relazione, di cui
l'ante cedente è espresso da un nome appellativo cui è congiunto. E però egli
credette che meglio sarebbe stato denominato caso de terminativo, anzichè
genitivo ; appunto perchè determina la relazione dell'antece dente. Vuolsi per
rispetto a questo caso fare la stessa osservazione notata per gli altri, cioè
che le lingue le quali non hanno casi declinabili, esprimono la re lazione
colle preposizioni e non colle ter minazioni declinabili dello stesso nome,
come nella lingua greca, e nella latina, V. Caso, Relazione. - 2 , GENTILEzzA
(prat.), nobile e dignitosa cortesia. e - Hassi di questo vocabolo un'antica de
finizione di Dante, e forse di alcun prima di lui: « Federico di Soave, ultimo
im peratore del romani, domandato che fosse gentilezza, rispose, che era antica
ric chezza e be costumi ». (Conviv. 69). GEodEsIA (crit.), per antico
significato, quella parte della geometria pratica, che insegna l'arte di
dividere i terreni. I Greci adoperavano indistintamente i nomi di geometria e
di geodesia per in dicare la scienza, la quale versa circa la misura della
estensione, così in astratto, come nell'applicazione delle teorie alla mi sura
e divisione de terreni. Ma da lungo tempo le due cennate denominazioni sono
state appropriate a scienze affatto diverse. La geometria considera in generale
la fi gura, le proprietà, e la misura del corpi. L'applicazione che dei suoi
teoremi si fa - 285 - alla misura e divisione dei terreni, e alla compiuta
descrizione in disegno d'una par ticolare regione, ha preso il nome di to
pografia. Quella scienza maggiore poi, che tratta delle operazioni primarie, oc
correnti per la formazione della carta ge nerale d'uno stato o di una
provincia, e che estende i suoi metodi astronomici e trigonometrici anche alla
determinazione della forma e della grandezza della terra, è stata denominata
geodesia. Le opera zioni della topografia e della geodesia mi rano allo stesso
scopo, ma colla differenza che la prima, limitandosi a spazi più ri stretti,
può adoperare metodi e instrumenti meno esatti; laddove la seconda, abbrac
ciando grandi estensioni di terreno e lo stesso globo terrestre, richiede somma
pre cisione così negl'instrumenti e nell'uso che se ne fa, come ne calcoli
delle osservazioni col medesimi eseguite. Per la qual cosa i risultamenti della
topografia sono grafici o sia di disegno, e quelli della geodesia, numerici, e
però di gran lunga più esatti. Alla geodesia dunque è dovuto il bel trovato di
trasportare la terra sulla carta; trovato il quale ha messo il mondo sotto la
mano dell'uomo, e ha fatto scompa rire d'innanzi allo ingegno le difficoltà che
nascevano dalla immensità della natura. - GeogNosiA (crit.), scienza, la quale
de termina i caratteri per conoscere la strut tura, la composizione, e la situazione
delle grandi masse lapidee, o delle sostanze mi nerali, le quali sottostanno
alla superficie della terra. V. Terra. º Groconia (gree. sup.), ha lo stesso ob
bietto della geologia, che è quello d'inda gare il come formaronsi, e furon
disposti i diversi strati della terra. V. Geologia. GEOGRAFIA (crit.), la
descrizione della terra, considerata per se stessa, e per le sue naturali
relazioni colle altre parti del l'universo. V. Terra, Universo. Nella
partizione generale delle scienze vien ella compresa in due aspetti, affatto
diversi tra loro, cioè per la parte mera mente descrittiva, e per la
scientifica. La descrittiva, suddivisa in naturale, stori ca, e politica, serve
d'introduzione alla storia naturale e civile del mondo. La scientifica poi
versa circa le relazioni che la terra ha col cielo, e circa la conoscenza del
fenomeni, che nascono dalla configu razione e struttura di lei. L'una prende il
nome di geografia astronomica, l'altra di geografia fisica. L'astronomica,
detta anche matematica, applica i principi dell'astronomia alla spie gazione
del fenomeni, che i moti appa renti del sole producono sulla terra, co me la
varietà delle stagioni e del climi, insieme colle corrispondenti loro tempera
ture; prefiggesi ancora di determinare le posizioni del diversi luoghi della
terra per rispetto a cerchi massimi terrestri, posti in relazione con quelli
della sfera celeste, che è il determinare le longitudini e le latitu dini
geografiche; e finalmente svolge e descrive i diversi metodi escogitati per rap
presentare sulla carta i cerchi terrestri, che servir debbono di linee
principali nel la descrizione, o sia disegno, delle varie parti della
superficie terrestre: infine versa pure circa la teorica delle proiezioni geo
grafiche. Cotesta scienza può dirsi, es sere l'astronomia stessa applicata alla
ter ra, considerando questa come il pianeta dal quale parte lo sguardo
dell'osserva tore. V. Astronomia, Cielo, Pianeta. La geografia fisica poi versa
circa i fe nomeni che nascono dalla naturale costi º – 284 – tuzione della
terra, dalla diversa qualità delle sue parti, dalle tracce della sua pri mitiva
formazione, distinte da quelle del le alterazioni e modificazioni, alle quali è
stata soggetta. L'osservazione e l'analisi, cui son do vuti i progressi di
tutte le scienze fisiche, avendo moltiplicato i fatti e le induzioni, han
prodotto nella geografia fisica quella stessa suddivisione, che è avvenuta
nelle altre scienze naturali. E però la parte del la geografia fisica, che
risguarda l'in terna conformazione della terra, conside rata tanto a rispetto
del suo primitivo stato, quanto a risguardo delle susseguenti mu tazioni, è
passata a formare il suggetto d'una speziale scienza, detta geologia. V.
Geologia. Attesa una tal suddivisione, la geogra fa fisica, propriamente detta,
si limita a fenomeni della esterna conformazione della terra, e a quelli che
risultano dalla corrispondenza del due globi celesti, che esercitano sopra di
lei una più sensibile influenza, il sole cioè e la luna. La terra dunque
considerata in due emisferi, i con tinenti, e i mari sì esterni che interni, le
montagne, le valli, i fiumi, i laghi, le isole, gli stretti, gl'istmi, i compar
timenti, le proporzioni, e la corrispon denza di tutte queste parti tra loro,
in somma la grandiosa e magnifica struttura del tutto, e delle sue parti; sono
gli og getti che abbraccia la geografia fisica. In questo moltiplice numero di
oggetti, il metodo stesso della osservazione e dell'analisi, ha renduto
opportuna un'altra sud divisione tra la parte solida e la fluida della terra.
Laonde l'idrografia ha fatto suoi i mari e le coste per quanto concerne la
navigazione; e l'idrologia ha a se ri chiamato la disamina delle diverse qua
lità delle acque, che scorrono sia alla su perficie, sia nelle interne cavità
della terra. L'una e l'altra non pertanto van sempre considerate, del pari che
la geologia, co me parti della geografia fisica, la quale raccoglie insieme i
fatti necessari alla co gnizione di tutte le parti del globo terre stre. V.
Idrografia, Idrologia. In fine essendo cotanto ampio lo scopo della geografia
fisica, per necessità di or. dine, le appartiene ancora la cognizione de
fenomeni dell'atmosfera, i venti, le temperature delle diverse parti del globo,
le alterazioni provenienti dal calore del sole, le meteore, e ogni altra
variazione dell'aria che circonda la terra. Altra volta la geografia fisica
correva dietro alle stesse fantasime della fisica, o sia della così detta
filosofia naturale; da poichè volevasi per suo mezzo conoscere, meno i fatti,
che le cause. Ora ella segue i principi e il metodo della fisica gene rale:
osserva e raccoglie i fatti partico lari, forma i generali, e ricava da quelli
le leggi costanti e uniformi della natura. V. Fisica. GEoLoGIA (crit.), scienza
la quale dalle disposizioni interne ed esterne delle parti della terra, dalla
diversa qualità delle sue masse lapidee, e dalla varia composizio ne, spessezza
e direzione degli strati che sottostanno alla superficie della terra me desima,
ricava le induzioni per distin guere i fatti che appartengono alla primi tiva
creazione del mondo, da quelli che additano le mutazioni sopravvenute al no
stro globo. V. Creazione, Terra. Le due grandi epoche testè additate, cioè
quella della formazione e delle mu tazioni, sogliono essere presentate anche in
altri termini, i quali per altro conten - 285 - gono la stessa idea
cronologica. Tali sono le partizioni de terreni di primitiva for mazione, e de
secondari, formati poste riormente all'esistenza del corpi organiz zati. V.
Corpo. GeoMETRA, chi possiede la scienza della geometria, e in generale, chi
oltre della scienza positiva, è dotato delle qualità della mente, che lo studio
delle scienze matematiche esige, e perfeziona insieme, Tali sono la prontezza
del concepire e del l'astrarre, l'esattezza del ragionare, e la facilità di
ritenere le verità una volta di mostrate. In questo senso il nome di geo metra
è dato per eccellenza ad ogni esimio matematico. V. Geometria, Matematica.
GEoMETRIA, scienza la quale versa cir ca le proprietà e la misura dell'estensione
figurata. V. Figura. a La geometria propriamente astrae la e stensione dalle
altre qualità del corpo, e imprende ad esaminarla a rispetto delle sue tre
diverse dimensioni, cioè la lun ghezza, la larghezza, e la profondità; con
siderate queste da prima divisamente l'una dall'altra, ed indi unite insieme.
Da ciò nasce la triplice partizione della geome tria, cioè delle proprietà
delle linee, delle superficie, e de solidi. - Comunque la geometria esamini
astrat tamente le proprietà dell'estensione, pure le verità ch'ella ricava da
tali astrazioni, sono reali, immutabili e necessarie. Im perciocchè esprimono
le condizioni natu rali de corpi estesi, o sieno le leggi che la natura ha
seguito nello stabilire l'or dine delle cose materiali. Coteste verità non pertanto
son dedotte dal ragionamen to, nè possono essere scambiate con quel l'altro
ordine di verità intuitive, anche necessarie ed eterne, che la ragione sco. pre
per la sua propria luce; e che però chiamansi prime verità, o primi prin cipi.
Primi in realtà sono anche a rispetto delle verità geometriche, dapoichè ogni
dimostrazione partir debbe da una propo sizione evidente, che non de'essere per
se stessa dimostrata, e che serve di fonda mento a quelle altre, le quali
nell'or dine della deduzione le susseguono. In conferma di che ognun vede, che
prima di acquistar le nozioni delle proprietà del l'estensione, noi abbiam
quelle dell'esten sione stessa, e generalizzando cotesta no zione abbiam quella
del subbietto, o sia della sostanza materiale, delle sue qualità, de corpi,
delle spezie, della figura, ec. V. Estensione, Figura, Qualità, So stanza.
Moltiplice è l'uso e la utilità della geo metria, che anzi può ella dirsi la
scienza madre della invenzione. Per essa acqui stiamo e perfezioniamo l'arte
del ragiona mento, la severità del giudizio, l'ordine delle deduzioni nel
ragionamento, la chia rezza delle idee, la prontezza della con cezione, l'abito
in fine di formare le serie delle idee connesse. Senza geometria non avremmo
scienze! V. Scienza. Per essa, considerata come base e ſon damento di tutte le
matematiche, impa riamo pure a misurare il moto e il tem po, l'estensione, le
distanze lontane come le vicine, e il moto de corpi celesti; per lei ci si
svelano le leggi immediate defe nomeni del cielo; per lei in somma por tiamo
l'umana comprensione insino all'al tezza della ragione divina. A tali
conoscenze allude il sublime concetto di Platone, che Dio geometrizza ne'cieli.
V. Cielo. La geometria presiede del pari a tutte le arti, perchè da lei
attingon queste i dati delle proporzioni, della forza decor pi, e delle leggi
del moto; per lei l'uomo inventa le macchine e arma il suo brac cio di tanti
instrumenti ausiliari, quanti gli occorrono per imitare la natura, e per
dominare la terra. Senza geometria dunque ci mancherebbero ancora le arti ! V.
Arle , Instrumento. - - - Le proprietà dell'estensione figurata, che la
geometria contempla, non sono, nè possono essere esattamente quelle decorpi
naturali, per la differenza che passa tra l ritratto della figura e la materia
figurata. Ma le proprietà geometriche sono i tipi delle proprietà materiali, o
naturali, le quali si approssimano alla perfezione, a misura che a quelle più
si avvicinano. Ciò non ostante la geometria per molte delle sue verità dà pure
i mezzi da misurare e determinare le differenze tra l'astratto e il concreto;
il che spezialmente è proprio della geometria applicata, o sia pratica. La
geometria in considerazione del di versi metodi di ragionamento che adopera,
onde pervenire allo scoprimento delle ve rità sue, si distingue in elementare e
supe riore, o sublime. La prima serve di scala alla seconda, perchè si limita a
dimostrare le proprietà della linea retta e della circola re, e de solidi
terminati da figure rettilinee o circolari; laddove la seconda versa circa le
proprietà delle altre curve, diverse dal cerchio. E vien detta sublime, perchè
nel l'indagare le proprietà di tali curve, fa uso per la soluzione de suoi
problemi dell'ana lisi moderna, non meno che del calcolo dif ferenziale e
integrale, quasi che per tal mezzo oltrepassi la virtù delle semplici di
mostrazioni delle quali fanno uso la geo metria elementare e l'antica analisi.
L'associazione dell'algebra alla geome tria, ha agevolato l'applicazione di
questa scienza alle altre scienze fisiche, dapoichè vi ha in pari tempo
introdotto l'uso del l'analisi algebraica, che è il più efficace instrumento
per la ricerca della verità. L'onore di siffatta invenzione è dovuta a
Cartesio. V. Algebra. e L'invenzione del calcolo differenziale este se l'uso dell'analisi
nella geometria, tra perchè ha facilitato la scoverta di molte altre proprietà
delle curve, alle quali non giugnevano gli antichi metodi; e perchè ha
somministrato il mezzo di risolvere per vie più facili molti de problemi della
stessa geometria elementare. V. Differenziale, Infinitesimale. In fine
l'invenzione del calcolo integra le, che per un'operazione inversa del dif.
ferenziale, ottiene la quadratura e la ret tificazione delle curve, non meno
che la cubatura de solidi, estese anche di van taggio il campo della geometria
sublime, V. Integrale. GeoNoMIA (gree. sup.), conoscenza del le terre atte alla
coltura. Vuolsi notare che il significato non cor risponde alla etimologia del
vocabolo, e che l'idea non merita un nome nuovo. GERoGLIFICo. V. Carattere.
GERUNDIo (dise.), sorta di participio, o nome verbale, introdotto dalla lingua
latina, per fare dell'infinito un nome so stantivo e renderlo capace tanto del
signi ficato attivo quanto del passivo. Il gerundio ebbe tra latini tre termina
zioni, amandum, amandi, amando, che lo rendevano declinabile in tre casi. I
Greci spiegavano coll'infinito i diversi significati del gerundio. Le lingue
volgari viventi hanno imitato i Greci e non i La - 287 – fini; se non se
gl'Italiani usano il gerun dio in una sola terminazione, siccome nota il Varchi
nell'Ercolano: « I Greci e gli Ebrei non hanno gerundi, e i Toscani ne hanno
solamente uno, cioè quello che for nisce nella sillaba do, del quale si ser
vono molto più, e più leggiadramente, che non fanno i Latini del loro; perchè
non solo l'usano in voce attiva e passiva, e colla preposizione in o senza,
come i La tini; ma ancora in questa guisa: egli mi mandò dicendo: colui lo
mandò pregando. GEsTo (dise. e prat.), moto, o porta mento del corpo, e
soprattutto delle mani, per lo quale accompagniamo la parola, o esprimiamo per
segni muti un interno sentimento, o un concetto dell'animo. L'espressione del
sentimento o del pen siero, fatta col gesto, dicesi linguaggio di azione. V.
Linguaggio. GIIIaccio (spee.), l'acqua congelata per l'abbassamento della
temperatura in sino al grado zero, o al di là. V. Gelo. V'ha di ghiacci
perpetui verso l'estreme regioni depoli, le quali sembrano non es sere state
soggette ad alcun cangiamento di stato, dacchè l'andamento del globo è quale
ora lo vediamo. Ciò pare aver dato a ta luni naturalisti il motivo di credere,
che lo stato naturale dell'acqua sia il solido, e non il fluido. Ma perchè
considerare, come una qualità essenziale dell'aequa, l'effetto della perenne
temperatura di ta lune regioni della terra? V. Fluido. GIGANTE ( spee.), uomo
di eui la sta tura e le proporzioni son superiori alle più grandi sin ora
conosciute. a - I critici e i naturalisti disputano, se debba credersi alla
esistenza del giganti. I naturalisti la negano principalmente per chè negli
strati della terra non si sono mai trovate ossa umane di straordinarie
proporzioni; siccome neppure si son rin venuti veri antropoliti. I critici per
con trario credono non potersi rifiutare l'au torità della storia e della tradizione
insie me, le quali han conservato la ricordanza delle razze del giganti, che si
fecero te mere nelle prime età del mondo, come domatori delle fiere, e come i
primi con quistatori della terra. Molto meno, dicon costoro, può rifiutarsi la
testimonianza de gli scrittori i quali han tramandato fatti da essi veduti,
quando anche volessero aversi come favolose le tradizioni del tempi incerti, e
le descrizioni del ciclopi e dei Polifemi. Plinio parla del gigante Gabba ro,
che a tempi dell'Imperator Claudio venne a Roma, e di cui l'altezza era di nove
piedi e nove pollici. Gaspare Bau hin, scrittore degno di ogni fede, narra aver
veduto a Uffenbach uno svizzero di otto piedi. In fine appariscono di tratto in
tratto, anche anostri tempi uomini e don me di straordinarie stature, che
vengono a farsi ammirare come giganti. La con troversia tra i critici e i
naturalisti par che possa essere decisa domandando la defini zione del vocabolo
gigante. Se sotto que sto nome vogliasi intendere un uomo mo stro, come quelli che
ammucchiavano mon tagne per muovere guerra al cielo; o come quelli, di cui le
ossa fossili potessero dimo strarci le vestigie di una razza umana, scomparsa
dalla terra ; o anche come i Patagoni, pretesi giganti delle terre ma
gellaniche, alti dieci piedi , rileghiamo coteste dicerie tra le favole degli
antichi e del moderni viaggiatori. Ma se per gi. ganti s'intendano uomini di
straordinaria statura, i quali debbono per necessità avan - - 288 zare gli
altri anche nelle proporzioni della robustezza e della forza; qual maraviglia,
che nella origine della umanità, e nel pri mo vigor dell'umana costituzione
nasces sero uomini di più grande misura, e che ne nascano ancora tra popoli di
tempera men degenerati? - Nè diremo esser questa una eccezione della natura, ma
piuttosto una gradazio ne; perchè essendovi in tutte le forme de gli animali un
massimo ed un minimo di quantità e di proporzioni; ed avendo la natura creato i
popoli nani tra i Lap poni, gli Esquimali e i Samoiedi; uopo è che si trovi
l'estremo contrario in quelle regioni o climi, ne'quali, per lo concorso di
maggiori attitudini naturali, possono le forze e la vita animale meglio svilup
parsi e conservarsi. I giganti e i nani (è un osservazione già fatta da Buffon)
i quali sono al disopra o al disotto della media statura degli uomini, debbono
es sere considerati come varietà singolari e accidentali, e non come differenze
carat teristiche di speciali razze umane. Ciò non vieta, che la storia
naturale, non cerchi, tra gli obbietti delle sue curiosità, di de terminare
quali sieno i due punti estremi di tali varietà, e quale il rapporto tra le
facoltà intellettuali e le forme organiche di quelli, che più si allontanano
dalle misure e proporzioni comuni. GINNASIo (crit.), sorta di scuola, dove in
antico i giovani esercitavansi nelle gin nastiche e negli studi liberali. È
nome, che oggi si dà ad arbitrio a qualunque publica scuola o liceo. GINNASTICA
(crit.), arte di esercitare il corpo per conservare il vigore e la sanità. -
GiocoNDITA (prat.), contentezza, ac compagnata da cortesia. º Differisce
dall'allegrezza e dalla ilarità, dalla giovialità e dalla giulività. L'alle
grezza dimostra lo stato dell'animo, ed esprime l'idea semplice del sentimento:
l'ilarità un'idea complessa dell'allegrezza e dell' esterna manifestazione di
tal senti mento: la giovialità, una piacevolezza propria più del temperamento,
che della riflessione: la giulività, il sentimento ac compagnato da segni del
volto e delle ma niere. V. queste voci. GIOIA (prat.), espansione dell'allegrez
za, manifestata con esterni segni. V. Al legrezza. - È meno della letizia e
della esultazione, e più del giubilo. V. queste voci. GIORNALE (crit.), scritto
periodico, col quale informasi il publico de libri usciti in luce, delle
scoverte fatte nelle scienze o nelle arti, e di ogni letteraria novità. Prende
l'epiteto di letterario, di scien tifico, o di giornal d'una o di più arti,
secondo che abbraccia una, o un'altra materia. - - È una istituzione del
decimosettimo se colo, di cui l'onore è dovuto agli autori del così detto
Journal des scavants, e alla protezione che gli concedette Colbert. Ne furono
autori Dionigi de Sallo, pre sidente d'un parlamento francese, l'abate Gallois,
l'abate di Bourzè, Goberville, Chapelain ed altri. Cotesto esempio fu to sto imitato
dalle società del dotti di altre lingue e di altri paesi: Lipsia diede il suo
giornale latino, denominato acta erudito rum, di cui fu collaboratore Leibnitz
: Bayle fecesi continuatore del giornale fran cese, di cui cangiò il titolo in
quello di – 289 – nouvelles de la republique des lettres: gl'Inglesi diedero le
transazioni filosofi che l'Italia ne diede tanti, quante sono le sue principali
città: Roma fu la prima ad imitare il giornale francese per l'opera dell'abate
Nazzari bergamasco, e del car dinale Michelangelo Ricci, che sen fece il
protettore: al giornale romano vennero appresso quelli di Venezia, di Ferrara,
di Modena, e in fine il giornale de lette rati di Firenze, che ecclissò gli
altri, e tenne per molti anni il primato, anche al confronto degli stranieri.
(V. la prefa zione del detto giornale de letterati). Principale scopo di
siffatte opere periodi che, fu il diffondere la notizia de'libri stra nieri, e
di farne conoscere il giusto loro valore. Ma non minore fu il vantaggio che
ritraevasi dal giudizio critico, da cui erano accompagnati gli estratti delle
nuove pro duzioni. E per verità, tali giudizi diven nero una scuola di critica,
alla quale con corsero i primi ingegni di Europa, e alla cui autorità
soggettaronsigli scrittori di più alto merito. Per la medesima ragione la
censura, che i cennati giornali esercitarono sopra le opere meno lodevoli,
servì di freno a mediocri scrittori per non commetter nulla alla sorte delle
stampe, che non avesse meritato una anticipata approvazione dei dotti, i quali
dopo la publicazione ne sa rebbero stati i censori. Tal fu l'autorità, di cui
per molti anni godettero il giornal dei dotti di Francia, gli atti degli
eruditi di Lipsia, le notizie della republica delle let tere, e il giornale de
letterati italiani. All'esempio di questi giornali siam de bitori non solamente
dell'effemeridi fisiche e astronomiche, per mezzo delle quali si son comunicate
da un punto all'altro del l'Europa i lavori de'suoi principali Osser vatori, ma
ancora delle periodiche publi cazioni fatte dagl'istituti di storia naturale,
di Medicina, di Fisica, di Chimica, e di arti; e da questa medesima origine dob
biamo ripetere gli atti delle accademie delle scienze e delle lettere.
Imperocchè gli acca demici consessi compresero la necessità di render
periodiche le publicazioni degli atti loro, allorchè videro esser questo il
solo mezzo per lo quale potevano più presta mente diffondere la notizia del
loro lavori, o de nuovi trovati, e conservarne la me moria. Ognun sa, che prima
del rinnovel lamento dell'accademia francese (il quale avvenne nel 1699) i
lavori di quel corpo scientifico trovavansi dispersi tra le opere dei
rispettivi loro autori, e molti conservavansi scritti a penna e inediti nel
palazzo dell'Os servatorio, sì che con grande fatica pote rono essere riuniti
in una spezial collezione. Una tal collezione forma un preludio alle memorie
periodiche della nuova accademia, che da quell'epoca in poi non furono più in
termesse. Quanta sia stata, e qual sia l'uti lità del giornali letterari
scientifici, o tec mici, il dimostra la rapidità colla quale si sono diffuse
tra tutte le nazioni le scienze, e le arti; sì che rimosse le difficoltà dei
diversi idiomi, le nazioni han tutte gareg giato nell'avanzamento delle utili
cono scenze, e spezialmente delle scienze na turali, e delle loro applicazioni
agli usi della vita, alla industria, e alla politica economia. Ma tal'è la
natura di tutte le umane istituzioni, che quando sieno tra sportate fuori del
fine per cui furono create, perdono la loro utilità, e divengono tal volta
dannose. I giornali letterari, introdotti per riuni re i lumi tra dotti e per
eccitare l'univer sale attenzione sopra argomenti nuovi, di vennero in processo
di tempo oggetto di speculazioni librarie, e di false ostentazioni 57 – 290 -
d'ingegno. Lo scrivere giornali divenne un'arte, per la quale cercossi
principal mente di acquistar fama di bello spirito; ripetendo le cose dette,
compendiando, e riducendo a prospetti enciclopedici tutto l'umano sapere. Essi
al presente alimentano la curiosità più che la scienza; e a coloro i quali vo
glionsi istruire a poche spese, sommini strano l'opportunità di parlare e di
giu dicar di tutto. Che penseremo della loro utilità ? Non rinegheremo l'antico
merito loro per la sola ragione dell'abuso, che tal volta se n fa, e diremo di
essi quello che già abbiam detto del dizionari delle scienze e delle arti. V.
Dizionario. GIovANEzzA, GIovENEzzA e GiovINEzzA (prat.), età che segue
all'adolescenza. E il primo periodo della vita operosa, che è raccomandata alla
educazione, la quale uopo è che trovi il campo prepa rato da talune
disposizioni, atte a fecon dare i suoi semi. L'esempio e l'autorità le prepara,
ma le sviluppa nel cuor dei giovani la benevolenza, che è il primo sentimento,
il qual de essere in loro colti vato ed alimentato per l'amor degenitori, per
l'affezione verso i congiunti, e per lo rispetto a precettori e agli anziani.
L'abi to di tali sentimenti non solamente rende docile l'animo del giovani, ma
ispira loro la confidenza nel consiglio del vecchi, e il desiderio d'imitargli;
d'onde la virtù della modestia, senza la quale nulla di buono può sperarsi
dalla gioventù. Questa è la virtù, che accresce in loro l'esistima zione degli
altri, e sminuisce la propria; che sveglia in essi il desiderio della per
fezione, e li muove a cercarla in quelli, che han già raccolto maturo frutto di
lode e di onore. E siccome l'artigiano nelle opere della mano, l'oratore nella
eloquen za, e il capitano nelle geste gloriose, ser vono di modello agli altri,
che aspirano a divenir chiari nella medesima arte; così il primo scalino alla
fama del giovani è l'aver saputo meritare la stima e l'amor di quelli, ch'essi
si proposero d'imitare: cum quibus, dice Cicerone, si frequentes sunt,
opinionem afferunt populo, eorum fore se similes, quos sibi ipsi delegerunt ad
imitandum (de off lib. II. c. 13). Ma dirassi, esser questa una parte dell'edu
cazione, il che da noi si concede, se sotto questo nome si comprendano tutte le
cure, per le quali l'uomo de esser condotto dalla fanciullezza in sino allo
stato dell'adulta ragione. Laonde avendo noi discorso prin cipalmente della
educazione razionale, la quale si prefigge di sviluppare e perfe zionare le
facoltà dell'animo, consideria mo in questo articolo l'indole degiovani, e i primi
abiti della loro vita, come l'in troduzione alla vera scuola della vita, e
della conoscenza di se medesimi. V. Edu cazione. GiovENTU' (prat.), vocabolo,
cui l'uso dà un doppio significato, cioè di età gio vanile, e di un numero
d'uomini giovani. GiovIALITA' (prat.), allegria accompa gnata da naturale e
spontanea piacevolezza. V. Giocondità. - a GIUBILo (prat.), l'allegrezza
conside rata nel suo principio, come un movi mento nell'anima, non ancora
manifestato con esterni segni. V. Allegrezza. Così Francesco da Buti: «
Allegrezza ha » prima movimento nell'anima, e chia » masi giubilo, e poi esce
nel volto, e » dilatasi nella faccia, e chiamasi leli - 291 - » zia, e poi si
sparge per tutto il corpo, » e muovelo, e chiamasi esultazione , V.
Esultazione, Letizia. GIUorzio (spec.), facoltà dell'anima, per la quale
affermiamo o neghiamo la verità d'una proposizione. È vocabolo comune, tanto
alla potenza dell'anima, allorchè la consideriamo do tata di tale facoltà,
quanto all'atto, col quale l'esercitiamo. Considerato nel primo senso, entra
nella grande partizione fat ta dagli antichi delle intellettuali facoltà,
dell'apprensione, cioè, del giudizio, e del ragionamento. Differisce
dall'appren sione o comprensione, in quanto che que sta è spogliata dal
giudizio; laddove il giudizio presuppone sempre la compren sione. Da ciò segue
che ogni giudizio è vero o falso, e per contrario la comprensio ne non è nè
vera nè falsa. V. Apprensio ne, Comprensione. Le verità, circa le quali versa
il giu dizio possono essere intuitive o dedotte. Nelle prime il giudizio
accompagna sem pre la concezione, perchè l'affermazione o la negazione è una
conseguenza neces saria delle relazioni del subbietto le quali son tutte note,
e presenti alla mente, co me nelle proposizioni il tutto è maggiore della
parte, due e due fan quattro ec.; laddove nelle seconde l'atto del giudizio è
separato dalla concezione, perchè l'afferma zione e la negazione sono una
conseguenza degli altri fatti, che la mente acquistar dee per mezzo del sensi
esterni o interni. Ma da questa differenza infuori, che può dirsi di tempo,
l'affermazione o la mega zione è sempre in noi accompagnata dalla convizione
della verità del proprio giudi zio. Una tal convizione non pertanto è re lativa
alla maggiore o minore prontezza, con cui il giudizio è stato formato, o sia
alla maggiore o minore evidenza delle re lazioni, sopra le quali è fondata la
de duzione del ragionamento. Da ciò segue che ne giudizi, che portiamo intorno
a fatti manifestati da sensi esterni, dalla memo ria, o dalla coscienza; la
convizione della loro verità è sempre eguale a quella che abbiamo della
veracità del mezzo, per lo quale gli abbiamo formati. Ma è sempre vero, che non
si dà giudizio affermativo o negativo, che non sia in noi accompa gnato dalla
convizione della sua verità. Ciò nonostante piacque a Locke distin guere il
giudizio dalla cognizione acqui stata per mezzo della dimostrazione: a questa
sola diede la virtù di conoscere con certezza la convenienza o disconvenienza
di due idee, e definì il giudizio come il pensiero o la supposizione della
conve nienza di due idee fondata sopra l'ordi naria verisimiglianza. A tal modo
scambiò il giudizio colla presunzione, ed ebbe per vero che potesse darsi
cognizione senza giudizio. V. Certezza, Cognizione, Con 2922207262. Il giudizio
rende chiare e distinte così le idee del sensi, come le nozioni che ci vengono
dall'interno senso dell'anima ; dirige tanto l'analisi delle idee complesse,
quanto le combinazioni delle semplici; fa manifeste le relazioni delle idee tra
loro; interviene in somma in tutte le ope razioni intellettuali, tranne la sola
ap prensione, o concezione. V. Concezione, Relazione. Dalle premesse nozioni
spontanea nasce la partizione del giudizi in intuitivi e de dotti, che diconsi
pure derivativi. Intui tivi son quelli, pe quali riconosciamo la verità d'una
proposizione non prima che l'abbiamo intesa: cotesti giudizi son si ºr – 292 -
pronti, che possono essere considerati come l'azione naturale delle nostre
facoltà. Deri vativi diconsi quegli altri, i quali versano circa proposizioni,
la convenienza o di sconvenienza delle quali de'essere dedotta dalla
dimostrazione. I primi non esigono altro, che la maturità dell'intelletto sce
vro da prevenzione: i secondi presuppon gono la disamina di altre verità di
ragione o di fatto, le quali compongono la dimo strazione. V. Dimostrazione.
Rant distinse i giudizi in sintetici e ana litici, ed ammise una particolare
sorta di 3iudizi sintetici a priori, che la mente ricava da sue naturali
illuminazioni. « V'ha di molti predicati, egli disse, che non somministra la
sperienza, e che non pertanto la mente aggiugne a subbiet ti. Non essendo a
questi inerenti, e non avendogli acquistati per esperienza; d'onde altro
potrebbero venirci, se non dalla mente stessa » ? Credette inoltre, che
l'aritme tica, la geometria e la fisica ne sommini strassero molti esempi, e
tra gli altri ad dusse i seguenti: la proposizione 7-F5=12 contiene un giudizio
sintetico a priori, per chè dalla unione di sette e di cinque unità potremmo
soltanto ricavare il numero do dici, ma non mai sapremmo che il do dici
comprende in se l'uno e l'altro nu mero insieme; d'onde segue che non po tremmo
analiticamente acquistare una tal mozione, se non per l'aiuto di qualche se gno
esterno, come delle dita della mano: nella geometria la proposizione, la linea
retta è la più breve di quante se'n pos sano tirare tra due punti dati,
contiene del pari un giudizio sintetico a priori, perchè il concetto del breve
non è com preso in quello della linea, e d'altra parte la sola visione non
basterebbe a farci co noscere una tal verità: nella Fisica, la proposizione,
nelle mutazioni del mondo corporeo la quantità della materia è sempre la
stessa, e rimane immutabile, e quell'altra, nella comunicazione del moto
l'azione e la reazione son sem pre eguali tra loro, sono ancor esse due giudizi
sintetici a priori, perchè in am bedue trovasi il concetto della perpetuità,
che non può venire dalla sperienza. In fine anche la metafisica ha i suoi
giudizi sintetici a priori, e di tal natura è l'as sioma, il mondo ha dovuto
necessaria mente avere un cominciamento. Con chiude l'autore, che senza giudizi
sinte tici a priori non avremmo metafisica, perchè questa scienza appunto si
prefigge di trascendere i confini della sperienza, e di dare alla mente
l'appoggio di preno zioni, per mezzo delle quali possa un tal fine conseguire.
Noi abbiamo altrove detto, che la di stinzione del giudizi in analitici e
sintetici non solamente non è nuova, ma è antica quanto l'analisi e la sintesi.
Nuova sì be ne, e nello stesso tempo falsa, è la forma de giudizi sintetici a
priori introdotta da Kant, perchè fondata nel presupposito, che i predicati
aggiunti dalla mente al sub bietto non si trovino nel concetto del sub bietto
stesso, e molto meno nella sperien za. Concediamo, che non si trovino nel
l'idea del subbietto ; ma che dirassi, se dagli esempi stessi addotti da Kant
si di mostra, che quel predicati ch'egli ha sup posto venire dalla propria
suppellettile del la mente, sono altrettante idee di espe rienza ? Non può la
mente concepire la proposi zione 7--5= 12, se prima non abbia for mato l'idea
del numero e della unità. Ma queste idee sono astrazioni e generalità ricavate
dalle idee sensibili, o sia dalla - 295 - sperienza. Adunque formato che abbia
le idee del numero e della unità, potrà com porre l'equazione del sette e del
cinque colla stessa facilità, colla quale vedrà tutte le altre possibili
combinazioni delle unità, che si racchiudono nel numero di dodici. E quanto
all'esempio tratto dalla geome tria, il predicato breve, dato alla linea retta
contiene una idea di relazione alla curva, la quale tanto è lontano che nasca a
priori, quanto è manifesto che venga da sensi, o sia dalla comparazione del
l'una e dell'altra. Lo stesso dee dirsi delle due verità fisiche, che nelle
mutazioni del mondo corporeo la quantità della materia rimane sempre la stessa;
e che la rea zione nel moto è eguale all'azione. Il pre dicato della perpetuità
che Kant vuol tro vare nelle forme della ragione, è una ve rità di esperienza,
che noi ricaviamo dalla uniformità e immutabilità delle leggi della natura: è
una verità generale come le al tre, che ricaviamo dalla osservazione e dal
l'analisi del fenomeni naturali. (V. vol. I. pag. 341). V. Analitico,
Sintetico. GIULIVITA' (prat.), allegria dimostrata co segni del volto e
dell'esterne maniere. V. Giocondità, Giovialità. GIUoco (crit. spec. e prat.),
sperimento d'ingegno, di destrezza, o di sorte fatto per passatempo, per
esercizio del corpo, o per premio di lode, ovvero di guadagno. Dalla
definizione nasce la partizione dei giuochi nelle seguenti classi, cioè giuo
chi di destrezza, d'ingegno, di azzardo, o misti d'ingegno e di azzardo
insieme. La ragione, cui appartiene il giudizio critico, e diremo ancora
censorio di tutti i fatti umani, considera i giuochi, o co me parte della
ginnastica e della palestra, o come prodotti dell'ingegno, o come azioni, delle
quali valuta la convenienza e la moralità. Come esercizi di palestra, i giuochi
en trano tra le occupazioni dell'adolescenza e della gioventù , e per rispetto
ad essi può dirsi, che gli antichi ne avessero esau rito l'invenzione: la
corsa, la lotta, la palla, l'arco, i carri, il circo, e quanti altri troviam
descritti nel libri loro, sieno equestri o curuli, sieno agonali o ginnici. Di
questi molti son andati in disuso presso i moderni, i quali per l'esercizio
della gio ventù scelgon quelli, che possono accrescere la forza, la destrezza,
e l'agilità, senza of. fendere il pudore, o altro dovere di one stà o di civil
convenienza dell'umanità. La gioventù prende tal diletto a giuochi, che quando
sia abbandonata a se stessa, scam bia il mezzo per lo fine, e ne forma una
occupazione della vita. Quelli che così si comportano, perpetuano
l'adolescenza, e in luogo di avanzare verso le altre etadi, tornano in dietro
alla infanzia. Qual è il frutto che ne ricavano? Diremo loro con Seneca: Quid
prodest equum regere, cur sum eius fraeno temperare, affectibus
effraenatissimis abstrahi? Quid prodest multos vincere luctatione vel caestu,
ab iracundia vinci?... hae viles ea professo artes, quae manu constant, ad
instru menta vitae plurimum conferunt, tamen ad virtutem non pertinent (Epist.
88). Quanto a giuochi publici, noi considerar sogliamo il popolo come una
moltitudine di giovani o di fanciulli, sia perchè l'unico scopo d'ogni publico
spettacolo è il diletto; sia perchè la generalità che forma la massa del
popolo, non sa veder ne giuochi una ragione più utile del passatempo e del di
letto. E però in questo senso può dirsi, che il popolo rappresenti la perpetua
gioventù – 294 – d'una nazione, la quale mai non invec chia, perchè sempre si
rinnova, e sempre gioirebbe del piaceri dell'ozio, se le ne fosse fatta copia.
Ora cotesta similitudine procede ancora a rispetto del correttivo, che conviene
apprestare allo smodato pen dio pegiuochi. Non solamente la parsimo mia degli
spettacoli de essere contrapposta alla intemperanza, cui la moltitudine sa
rebbe inclinata, ma nella scelta degiuochi uopo è considerarla, come ogni altra
gio ventù spettatrice, la qual de essere acco stumata a rispettare il pudore
insieme con tutti gli altri doveri della umanità. E però lontani sieno dagli
occhi di colesta inedu cata gioventù gli spettacoli di crudeltà, che violano la
naturale legge della sensibilità, e sminuiscono l'orrore per lo spargimento del
sangue. Di questo precetto noi intendiamo esten dere il senso e la forza in
sino al rispetto per la sensibilità degli animali, nello stra zio de quali
suole il volgo dilettarsi. Im perocchè uno e indivisibile è il sentimento della
commiserazione, la quale abbraccia tutti gli Esseri di natura sensitiva; per mo
do che chi contrae l'abito di violarlo per gli Esseri inferiori, apresi un
facile pas saggio a soggiogarlo ancora per gl'indivi dui della propria spezie.
In somma, i giuo chi e gli spettacoli atroci rendon fiero e san guinario il
popolo. Quanto a giuochi d'ingegno, essi aguz zano la mente, e alimentano
l'arte com binatrice del pensiero. Uno de più inge gnosi, e forse ancora il più
antico, è quello degli scacchi. Lasciamo agli eruditi il di sputar della
antichità e della etimologia del suo nome. Certamente è stato il giuoco più
sparso nell'oriente e nell'occidente, tra nazioni di costumi e di gusto
diverse, che ha formato e forma il passatempo fa vorito di molti uomini di acuto
ingegno, e soprattutto de grandi capitani. La ragione di questo universal
credito è, che tutte le combinazioni possibili del giuoco possono essere
determinate dalla finezza del giuoca tore, per modo che la vittoria o la per
dita è imputabile alle sue proprie mosse, esclusa ogni qualunque parte della
sorte. In somma due re in questo giuoco, cir condato ciascuno da suoi legati,
da tri buni, da cavalli e da fanti vengono a com battimento tra loro in un
misurato terre no, nel quale un dato numero di mosse decider dee della vittoria
o della perdita. Tra i tanti che hanno scritto di colesto giuoco, il più
notabile è Augusto di Luv neburgo, Duca di Wolfenbuttel, sotto il nome di
Augusto Seldeno, il cui comento contiene la sposizione di tutto il suo in
gegnoso artifizio. Simile al giuoco degli scacchi, è il chi nese, descritto da
molti degli antichi mis sionari, e commendato come ingegnosis simo da
Leibnizio; perchè i giuocatori, senza impadronirsi de segni che rappre sentan
le persone del combattenti, muo vonsi ciascuno per assediare l'altro, onde
ridurre il nemico alla necessità della resa. Di questi e di altri molti fa
menzione il lodato autore per dimostrare, che possono le probabilità del
giuochi formare una fe conda materia d'invenzione, ed un sog getto proprio del
calcolo matematico, e soprattutto dell'infinitesimale, nel quale concetto era
stato egli preceduto dal Cav. de Merè, da Montmort, da Pascal, da Fermat e da
Huygens, che di proposito aveva trattato dell'applicazione del calcolo a
giuochi di azzardo. Leibnitz non sola mente credette poter essere il calcolo ap
plicato a giuochi di determinate combina zioni, ma ancora alle eventualità
degiuo – 295 – chi misti d'ingegno e di sorte, ne quali entran due dati
diversi, cioè le conseguenze certe del ragionamento, e gli eventi pos sibili
della fortuna. (Leibnitii adnotatio de quibusdam ludis). In somma il calcolo ne
giuochi apre alla mente due vie per determinare la proba bilità degli eventi,
una a priori, a po steriori l'altra. Facciam uso della prima, quando il numero
degli eventi possa es sere assegnato per mezzo del calcolo; e della seconda,
allorchè, essendo quel nu mero illimitato e incognito, non è possi bile
determinare il rapporto tra l numero to tale delle possibili combinazioni del
giuo co, e il numero particolare degli eventi d'un dato genere. In questo caso
noi pren diamo per guida l'esperienza, o sia il nu mero de casi avvenuti, del
quali le ma tematiche ci danno i mezzi da determinare le probabilità. E quì
giova avvertire che il vocabolo probabilità ha, secondo la comune accezione un
significato vago e poco esatto, il quale quando non sia ri dotto alla
precisione de dati matematici, può essere sorgente di fallaci ed arbitra rie
deduzioni. E sebbene i calcoli mate matici dar non possano l'identica verità di
fatto; pur tutta volta danno il vero e esatto rapporto tra dati, che assumono
co me veri, e gli eventi che debbono risul tarne. Gli esempi del calcolo delle
probabilità a priori si hanno ne giuochi d'ingegno e di azzardo, ne'quali (come
abbiamo te stè detto) si può calcolare il numero to tale delle combinazioni: la
probabilità del l'evento sarà maggiore o minore secondo la natura del giuoco, e
potrà essere in tero, o sia confonderassi colla certezza, quando si potrà
calcolare a priori il nu mero delle relazioni che legano l'evento al fatto del
giuocatore. Di ciò fa mani festa pruova l'uomo machina, che giuoca agli
scacchi. E d'altra parte gli esempi delle proba bilità calcolate a posteriori,
gli abbiamo ne vari giuochi o scommesse fondate nelle varie durate della vita
umana, desunte dalle tavole mortuarie. Assegnan queste per esempio all'uomo di
quarant'anni una durata di anni ventitrè, comechè questi morir possa di 41 , o
pur di 90 anni; d'onde apparisce manifesto, che quel cal colo non determina, nè
garantisce l'esi stenza individuale, ma esprime la relazio ne, che il numero
degli eventi dimostra vera nella spezie umana, collettivamente presa. Intanto
questa relazione così deter minata serve di fondamento a contratti vi talizi, e
stabilisce sopra condizioni eque ed eguali l'obligazione tanto di colui, il
quale prende a suo rischio l'evento, quanto dell'altro che ne gode: la
condizione della vita, sebbene fortuita, acquista per en trambi una giusta
misura di guadagno, o di perdita. Diversa dalle probabilità sinora discorse, è
quella de fatti dipendenti dalla libera volontà dell'uomo, a quali si è anche
pre teso di applicare il calcolo matematico. Quantunque molti sommi geometri,
trai quali Condorcet, abbiano tentato di fare una tale applicazione, e per tal
modo ab bian voluto graduare l'autorità e la cre denza dovuta a sensi, o al
giudizio al trui; pur tutta volta debole e incerto è il soccorso, che può in
tal genere di fatti somministrare il calcolo. Imperciocchè do vunque entra la
volontà dell'agente mo rale, indeterminabili sono gli eventi che da quella
dipendono. Nel calcoli di tal fatta, le condizioni degli agenti morali, che il
geometra assume come dati della proba bilità calcolabile, son sempre diverse da
quelle che il fatto presenta; d'onde segue che i prodotti del cennati calcoli
esprimon sempre una verità ipotetica, dalla quale tutto al più si ricava una
rimota relazione, soggetta ancor essa alle condizioni della esperienza. Per non
anticipare in questo luogo quel che va più opportunamente det to in proposito
della logica de probabili, vedi l'articolo Probabilità. Finalmente i giuochi,
valutati come azioni, acquistano quella qualità che dà loro il proposito
dell'agente: sono utili, se si prefiggono l'esercitazione del corpo o della
mente: indiſerenti se sono usati co me dilettevoli passatempi : riprensibili e
viziosi, se di essi si faccia una specula zione di fortuna: e al pari d'ogni
altro eccesso posson rendere turpe e ignomi niosa la vita. Tal è il carattere
che acqui stano in quelli, i quali in lustris, popinis, alea, vino, tempus
aetatis omne con sumunt. GIURAMENTO (teol. e prat.), affermazio ne o promessa
d'un fatto, garantita colla invocazione della Divinità. È il più saldo legame
della fede umana; imperocchè se l'uomo non può mentire in nanzi a se medesimo,
e nell'interno della sua coscienza, molto meno può farlo in nanzi
all'invisibile testimonio de suoi pen sieri. Non è popolo o uomo, il quale
ricono sce la Divinità, che non riconosca pure la forza e la santità del
giuramento; d'onde segue che la sua inviolabilità de'esser con siderata come la
prima di tutte le obliga zioni che ci vengono dalla legge della na tura.
Tal'essendo per legge naturale, è ne. cessario che le leggi civili considerino
il giuramento come la prima di tutte le pruo ve, e come il più potente mezzo
per isve lare la verità, quando l'interesse o la mali zia voglia occultarla.
Queste leggi non pos sono nè debbono credere possibile la vio lazione del
giuramento, perchè non deesi presumere quel che offenderebbe la dignità della natura
umana. Che se l'esempio di qualche mostro morale ha dimostrato, tal volta il
contrario, cotali eccezioni nulla provano contra l'universalità dell'umano
sentimento, come le deformità di qualche individuo non mutano i caratteri
distintivi delle spezie loro. Contrappongansi a tali casi i contrari esempi di
quei delinquenti, i quali sebbene abbiano soggiogato la for za di tutti i
sentimenti morali, e per l'abito della ferocia sembrino avere rinegato l'umana
natura; pur tutta volta richia mati a manifestare la verità al cospetto di Dio,
cedono alla voce della coscienza, e accusano se stessi a spese d'ogni loro in
teresse, e della vita stessa. Cotesta pruova non è più luminosa di quella che
vorreb besi trarre della perfidia degli spergiuri? Ciò non ostante imprudenti,
e forse an cora ingiusti, sono stati que legislatori, che sonsi serviti del
giuramento come di un'arma contra l'autore stesso d'un fatto, ch'essi volevan
punire. E cotesta impruden za o ingiustizia è tanto più grave, quanto maggior è
l'interesse, col quale la co scienza combatter dee. Per conservare il lesa la
santità del giuramento, uopo è che esso sia vincolo di verità e di fede verso
degli altri, e non instrumento di pena contra colui che lo pronunzia. Giustizia
(prat.), virtù morale per la quale l'uomo adempie l'obligazione, e soddisfa il
sentimento del dovere. V. Do vere, Obligazione. Il significato di questo
vocabolo è tanto ampio, quanto quello dell'obligazione, – 297 - e in se
comprende i doveri così del giu slo, come dell'onesto. Tal è il senso nel quale
lo prende la filosofia morale. Nel significato datole da giureconsulti e dalle
civili istituzioni, la giustizia è la virtù che soprastà all'adempimento delle
obligazioni degli uni verso degli altri. In questo senso, la giustizia presuppone
il diritto di uno ad esigere l'adempimento dell'obligazione, e il rifiuto d'un
altro a prestarla; nella quale collisione, il giu sto scompagnasi dall'onesto,
e la giusti zia civile distinguesi dalla naturale. Nella naturale ciascuno è
giudice di se stesso: nella civile un terzo è giudice di due con tendenti:
quella è interna e perfetta: que sta, esterna ed imperfetta, perchè si li mita
alle sole azioni, e alle obligazioni le quali partoriscono il diritto di doman
darne l'adempimento. Di qua la distin zione tra la giustizia perfetta e l'imper
fetta, tra la giustizia e l'equità; di qua pure le tante altre partizioni della
giusti zia, fondate sopra la diversità delle cose che ne formano il suggetto, o
delle per sone giudicabili, o delle leggi da appli care, o de modi co quali
vien ella eser citata; le quali partizioni son tutte estranee all'obbietto
della filosofia morale. V. Di rillo, Equità, Legge. GIUSTo (spec. e prat.),
quel che con viene al dover morale d'ogni uomo. V. Do 297°e. - La mozione del
giusto acquistasi per la immediata relazione, che l'anima scorge tra se, e
l'Ente perfettissimo: è la nozione stessa dell'onesto, che il senso morale, o
sia la luce della ragione, ci rivela: è il fondamento della legge naturale, e
del l'ordine morale dell'universo. V. Onesto, ASenso. Il giusto e l'onesto son
le fondamenta delle regole della morale, le quali rico noscono l'immutabilità
loro, non da al cuna legge scritta, ma dall'eterna verità della divina
sapienza, di cui un raggio illumina l'umana mente. Tal'è la sana dottrina della
immutabilità, delle così det te distinzioni morali, che taluni scettici
rivocarono in dubbio, contra il consen so dell'umanità, o sia contra l'evidenza
della ragione. Costoro fecero del giusto un'idea di relazione alla legge, e non
al dovere, e ragionando da meschini giu risprudenti e non da filosofi,
applicarono la teoria della promulgazione della legge alla moralità delle
azioni. E siccome nelle civili società, l'azione giusta o ingiusta presuppone
una legge anteriore che la co mandi o la vieti; così conchiusero che la nozione
del giusto non è nata che colla legge, e dopo la legge. V. Distinzione. Al
sofismo ricavato dalla necessità del la publicazione, rispondiamo col concetto
di Cicerone intorno alla legge primitiva: Erat enim ratio profecta a rerum na
tura, et ad recte faciendum impellens, et a delicto avocans, quae non tum de
nique incipit lea: esse cum scripta est, sed lum cum orta est; orta autem simul
est cum mente divina. Quamobrem lea vera atque princeps, apta ad ſubendum et ad
vetandum, ratio est recta summi Jovis. V. Legge. GLANDULA (spec.), organo
dell'interna sostanza delle viscere, detta parenchima, di vario colore,
composto di un coperchio este riore, o integumento, nel quale si con tiene un
plesso vascolare, posto dalla na tura nel corpo degli animali per separare, e
talvolta ancora per trasformare i diversi liquidi necessari alle funzioni
vitali. 58 – 298 – Cotesta spezie di organi è compiuta ne gli animali, che han
vasi e cuore; incom piuta in quelli, che non ne hanno. Le prin cipali glandule
sono le lacrimali, le sa livari, il pancreas, il fegato, le mam melle, i reni,
i testicoli, e le ovaie. La loro forma è irregolarmente rotonda, av viluppata
da una membrana talvolta cel lulare, e talvolta fibrosa, e cinta da una membrana
sierosa, ovvero da un tessuto cellulare o adiposo. Passano a traverso dei
medesimi molti vasi sanguigni e linfatici, e pochi nervi. Tranne il fegato, le
altre glandule ricevono solamente del sangue ar terioso, e trasformano questo
fluido in al tri liquidi, di cui le proprietà e gli acci denti esteriori
differiscono tra loro. Tali sono la saliva, le lacrime, la bile, l'ori ma, lo
sperma, il latte, che sgorgano dai canali escretori delle glandule. Molte di
queste sviluppansi nella età della pubertà, e mancano di secrezione nella
vecchiezza. Oltre alle cennate glandule, destinate alla secrezione, v'ha un
altro genere delle così dette conglobate, il quale è interposto nel sistema
linfatico. I vasi linfatici afferenti vi portan la linfa e il chilo, mentre che
gli efferenti sel riprendono. L'importante ufizio di tali glandule è l'operare
l'assimi lazione o il trasmutamento dediversi flui di circolanti nel sistema
linfatico, in un umore omogeneo, che si scarica nell'alveo della circolazione
sanguigna per mezzo del canale toracico. Come tali trasformazioni si operino, è
tra i misteri della natura. GLITTOGRAFIA (crit.), arte degl'intagli di cavo e
di rilievo in pietre dure. E una delle arti dette del disegno. Gronerto
(spee.), parte elementare del tessuto de corpi organici, da cui svi luppansi le
così dette cellule e le fibre. V. Fibra. GLobo. V. Terra. .GLoRIA (prat.),
splendida rinomanza di virtù, degna di esistimazione, e di be nevolenza. V.
Benevolenza, Esistimazio ne, Virtù. Cicerone diede diverse definizioni della
gloria: una volta la definì, frequens de aliquo fama cum laude (de invent. II,
c. 55): un'altra volta, consentiens laus bonorum, incorrupta voa bene fudican
tium de excellente virtute (Tuscul. III, c. 2 ): una terza volta: summa et per
fecta gloria constat ex tribus his: si di ligit multitudo, si fidem habet, si
cum admiratione quadam honore dignos putat (de offic. II, c. 9). La terza piace
più delle altre, perchè contiene i caratteri co stitutivi della vera gloria,
cioè la publica esistimazione congiunta colla benevolenza. Son questi i due
requisiti che la distin guono dalla falsa ed apparente. I nostri moralisti
italiani, come Francesco da Buti, Albertano, il Passavanti, e tutti gli altri
che scrissero dopo di costoro, non fecero che tradurre, chi una e chi un'altra
delle cennate tre definizioni, Ma che di reale o di utile ha la gloria per
coloro che la ottengono? Consideriamola in primo luogo come la manifestazione
d'un sentimento che la virtù desta negli altri, o sia come la testimo nianza di
fatti grandemente giusti ed onesti. Che vale cotesta testimonianza, se manchi
la verità del fatto, o se questo non sia tale, qual è apparso a coloro i quali
il commendano? Nulla certamente! E se è vero, che aggiugne alla interna
soddisfa zione dell'animo? Nulla del pari. Potreb be anzi il premio della
coscienza perdere del suo natural pregio, se taluno gli ante ponesse il
desiderio della celebrità. La glo ria dunque è un premio del tutto estrin seco,
che allettar non dee il cuore del l'uom virtuoso: saepe justus esse debe bis
cum infamia ! Vuolsi in secondo luogo considerarla gloria per la sua durata:
ella è fragile e caduca, come fragili e passeggiere sono le parole e i fatti
degli uomini: gloria, dice Seneca, vanum et volatile quiddam est, auraque
mobilius. Le opinioni son mu tabili, il tempo distrugge, le lapidi e i
monumenti, le nazioni spariscono, i lin guaggi si dimenticano e si rinnovano,
la memoria degli eroi si perde, e la polvere loro si confonde nel comune
ricettacolo della terra! - Giova in terzo luogo considerar cote sta publica
testimonianza per rispetto alla sua imparzialità. Gli elementi, che la for mano
sono l'opinione, e il fallace giudi zio degli uomini, anzi non degli uomini, ma
della moltitudine: l'una e l'altra core ron dietro alle apparenze e alle
illusioni, e lasciansi sedurre dall'interesse, dal ti more, e dall'adulazione.
Quante false virtù non ha l'uomo divinizzato; quanti fortu nati delitti non
sono stati sublimati ad eroi che virtù , quanti esterminatori dell'uma nità non
sono stati collocati nel numero degli eroi; di quanti falsi giudizi non son
piene le storie e le biografie degli uo mini, i cui nomi son registrati nell'ae
reo tempio della gloria; e per l'opposito, quanti veri eroi non giacciono
inglori ed ignoti? Consideriamola in fine per rispetto alla sua utilità. Il
desiderio di meritarla è im presso in noi dalla natura : cotesto desi derio è
il sentimento stesso della immor talità, trasformato nell'amor della cele
brità. Noi vogliamo che il nome nostro passi alla posterità, perchè crediamo vi
vere per l'avvenire più che per lo presente, In questa prospettiva, ci
accostumiamo a più lunghi e penosi sperimenti; soppor tiamo con maggiore
costanza le durezze della vita e le ingiustizie della fortuna; dominiamo i
nostri appetiti sensitivi; as sociamo in somma l'idea della durazione del nome
a quella d'una seconda vita, di cui la presente non è che una debole Immagine.
La gloria dunque è utile, perchè senza di lei non saprebbero gli uomini
estimare la virtù. L'uom sapiente la valuta per gli altri, e non per se. Per se
medesimo, la considera come un bene esterno, il qual perde ogni sua luce,
innanzi al giudizio e all'autorità della coscienza. V. Coscienza. GLoRioso
(prat.), ha doppio senso, cioè d'uomo o di cosa degna di gloria, e di uomo
vaneggiante per gloria. GLossARIo (erit.), dizionario che spiega le voci oscure
antiche, le barbariche, e le frasi d'un dialetto corrotto, o alterato. V.
Dizionario. - - º GNoMoLoGIA (grec. sup.), l'arte della eloquenza sentenziosa.
GNoMoNIcA (crit.), arte di fabbricare orologi solari. GoDIMENro (prat.), l'usar
di qualche cosa, che dà diletto. - - GorrAGINE (prat.), semplicità di manie re,
che alla gente educata apparisce ru stica e grossolana. - 500 – GoLA (spec. e
prat.), la parte ante riore del corpo tra 'l mento e il petto, che internamente
contiene il condotto, per lo quale passano gli alimenti allo stomaco. . Vizio
della gola è l'immoderato deside rio di cibi, la soverchia ricercatezza nella
scelta di quelli, o la voracità, che ne è il maggior grado. V. Voracità. È tra
vizi più comuni, che formano la mollezza della vita, e al quale alludono i noti
versi del Petrarca: La gola, il sonno, e l'oziose piume Hanno dal mondo ogni
virtù sbandita. GoNGoLARE (prat.), dimostrare la gioia con tripudio, e con
esterni segni. GoTA (spec.), ciascuna delle due parti del viso, tra le quali
stanno la bocca e il naso. È una delle parti caratteristiche del viso umano, e
insiememente è la sede del pu dore. V. Pudore. l GRADAzIoNE (dise. e prat.), lo
scom partimento degradi in ogni cosa capace di misura, o di estimazione.
Nell'arte discorsiva chiamasi gradazione quella seguela di proposizioni, per le
quali si passa da una all'altra, come per mez zo, o per grado ad un ultimo
fine. Tal è quel luogo di Cicerone ad Erennio: Afri eano industria virtutem,
virtus gloriam, gloria aemulos comparavit. Gradazione pure dicesi
quell'argomenta zione, la quale costa di quattro o più pro posizioni talmente
ordinate, che l'attributo della prima sia il suggetto della seconda,
l'attributo di questa sia il suggetto della terza, e così di mano in mano.
Porfirio ne dà l'esempio: l'uomo è animale: l'animale : è una cosa vivente: la
cosa vivente è un corpo: il corpo è una sostanza: dunque l'uomo è una sostanza.
Cotesta spezie d'ar gomentazione non pertanto può condurre al falso, o
all'eleneo e al sorite vizioso, quando non si servino le regole logiche per
rispetto alla universalità del predicati; e quando tra i predicati s'includa un
termine ambiguo o equivoco, che serva di passag gio dal vero al falso. Tal sarebbe
per esem pio il seguente argomento: Pietro è uo mo: l'uomo è un animale:
l'animale è un genere: il genere è un universale: dunque Pietro è un
universale. V. Elen co, Equivoco, Sorite, Universale. Nelle cose morali,
gradazione delle virtù e de'vizi dicesi il più o il meno del bene o del male,
per cui distinguonsi gli abi tuali portamenti di ciascuno. In somma dal meno al
più v'ha in tutte le cose un passaggio continuo e non interrotto, che è quel
che dicesi gradazione. GRADEvoLE (prat.), quel che produce soddisfazione
all'animo. È meno del piacevole, perchè il sem plice gradimento dista alquanto
dal pia cere. V. Piacere, Piacevole. - Differisce anche dal grato, che include
il sentimento della reciprocazione, o sia della gratitudine. V. Grato. GRADo
(dise. e spec.), passaggio d'una idea, o d'una proposizione ad un'altra. È
proprio delle idee intermedie, che le gansi colle estreme, sia nel ragionamento
e nella cognizione, sia nella certezza o probabilità del nostri giudizi. V.
Probabi lità, Ragionamento. - GRAMATICA (erit.), scienza del principi generali
del linguaggio. -- - - - - 501 - Siccome la parola è il segno del pen siero, e
ne è al tempo stesso l'instrumento, così ne segue che le regole del ben pen
sare sieno comuni al retto parlare; il per chè la gramatica può dirsi, ed è in
real tà, la logica della parola. Le lingue hanno una struttura comune: tutte
hanno la stessa partizione di termini generali, di nomi propri, di verbi, di
tempi, di modi, di proposizioni, di av verbi, di congiunzioni: siccome, le re
gole del pensare sono identiche, e comuni a tutti gli uomini qualunque sia
l'idioma loro: così la stessa uniformità si trova nel le regole del parlare. Da
ciò segue, che la gramatica si distingue in generale e particolare: la generale
comprende le re gole immutabili del discorso, o sia del lin guaggio,
considerato come l'espressione del pensiero: la particolare contiene i pre
cetti, per l'applicazione di quelle regole a segni, i quali formano la favella,
o l'idioma di ciascun popolo. V. Lingua, Linguaggio. GRANDE (prat.), quel che
oltrepassa la comune misura del buono. V. Buono. GRANDEzzA (spec. e prat.),
ogni com posto di parti. Grandezza, nel senso matematico, è tutto quel che è
capace di accrescimento o di diminuzione, e di cui si può assegnare il doppio o
la metà, il triplo o la terza parte, e in generale gli esatti multipli e summul
tipli. Si distingue in discreta, e conti nua: la discreta, o il numero, è la
col lezione di più cose, o di più parti simili e separate, delle quali ciascuna
chiamasi unità: la continua è quella, che si con sidera come un sol tutto senza
distinzione di parti. Ma la grandezza continua può ancora essere ridotta a
numero, quando si riferisca ad un'altra della stessa spezie, presa per unità di
misura. Così considera ta, prende il nome di quantità, attesa la moltiplicità
delle sue parti. V. Numero, 9uantità. La grandezza continua è di due sorte, che
sono l'estensione e il tempo: quella si compone di parti coesistenti: questa,
di parti infinitesime successive. V. Estensio ne, Tempo. Distinguesi ancora la
grandezza in a stratta e concreta, secondochè è conside rata, o per se stessa,
o per l'applicazio ne, che facciasi del suo concetto ad un particolare
subbielto. Nel significato comune, il vocabolo gran dezza vale composto di
molte parti, e però relativo al meno e al più. - Nel significato morale, la
grandezza im porta un grado di eccellenza, che riscuote ammirazione. Grandezza
d'animo dicesi quella non ordinaria elevatezza di virtù, che sa dominare le
comuni passioni. Per similitudine noi sogliamo così denominare quel nobile
istinto, il quale corre dietro a tutto quel che non è ordinario, come al suo
proprio modello ; nel quale senso l'applichiamo a tutte le passioni che ol
trepassano la comune misura; alle virtù e a'vizi, alle azioni utili, alle
benefiche, e anche alle disastrose. V'ha dunque nel comune uso di parlare una
vera e una falsa grandezza, che converrebbe meglio chiamare impeto o forza
d'anima, per distinguerla da quella, la quale si ele va al cielo, domina e
sprezza i beni e i mali della vita ; sente il male altrui più del proprio; è
soccorrevole e generosa; fugge la vanità e la lode, e cerca sol tanto, nella
oscurità e nel silenzio, la ta cita approvazione della coscienza. – 502 –
D'altra parte, la falsa grandezza ab bracciar suole l'idolo della gloria; il
quale lusinga e abbaglia la mente di chi l'ado ra; le promette le ricompense
della lode e della celebrità; le offre per suoi modelli il sublime e il bello
della immaginazione; le propone per fini delle azioni i fastosi beni della
vita, le dominazioni, gl'imperi; e per mezzi da pervenirvi la miseria, l'oppres
sione e i gemiti dell'umanità. V. Gloria. In conclusione, la vera grandezza
d'ani mo, o sia la perfetta e sublime virtù non è per la terra; o se vi
alligna, conviene andarla cercando fuori degli spettacoli del mondo.
GRANDILoquenza (dise.), pomposa ma niera di parlare, che adopera sonori vo
caboli, e nobiltà d'immagini e di figure. Non è sempre una qualità che aggiu
gne pregio al discorso elevato, o sia al terzo genere dell'eloquenza, perchè la
pom pa suole condurre al gonfio e al caricato, V. Eloquenza. GRANDIoso (crit.),
quello cui l'arte si studia di dare le proporzioni del grande. V. Grande. - - È
qualità che darsi suole a prodotti delle arti imitative, nelle quali il gran
dioso che scontrasi col bello, forma il su blime. V. Sublime. GRATITUDINE
(prat.), amore che por tiamo ad alcuno per benefizio ricevuto. V. Benefizio. Va
considerato come un sentimento doe veroso, e non come virtù, dapoichè nasce
spontaneo nell'animo di qualunque uomo, colto o rozzo che sia. Gli uomini i più
discordi nelle opinioni circa i beni ei mali della vita, e gli stessi malvagi
sentono e dicono di dovere rendere con una reci procazione di benevolenza il
benefizio ri cevuto. Donde poi avviene, che facilmente il dimenticano, e più
spesso ancora lo contraccambiano coll'ingiuria? L'egoismo, il quale compra
sempre l'utilità propria a spese del bene altrui, risguarda come onerosa
l'obligazione della gratitudine; e volendo evitare la taccia della sconoscenza,
o cerca sminuire l'importanza del benefi zio, o finge, se può, d'ignorarlo. È
poi degno di perduta gente il contraccambio dell'ingiuria e dell'offesa, da cui
nasce il peggior di tutti gli odi. Mullum est, dice Seneca, odium perniciosius,
quam ea violati beneficii pudore. Del resto, un sì mostruoso vizio vien dalla
corruzione e non dalla rozzezza dei costumi: alberga nelle città e non nelle
campagne; tra popoli che diconsi incivi liti, e non tra barbari; nelle classi
che nutrisconsi di vanità e di orgoglio, e non tra gli uomini modesti, dacchè
la ricos noscenza ha sempre per sua compagna la modestia. V. Modestia. Non è
già, che la gratitudine consista nella restituzione del benefizio, perchè gra
to è chi lo sente, e desidera di renderlo, se la fortuna gliene conceda
l'opportunità. Che se una tale opportunità si presenti, l'animo allora gioisce
non tanto pel ben che rende, quanto perchè sentesi sgravato da un debito, che
gl'importava soddisfa re. In somma il sentimento della gratitu dine, al pari
d'ogni altro dovere è ripo sto nella coscienza: ut omnium aliarum virtutum,
nota il moralista testè citato, ita huius ad animum tota aestimatio re dits hie
si in officio, quidquid deſuit, fortuna peccat (de benef. lib. IV c. 21). Una
pruova, che la natura ispira la ri conoscenza e che la pravità del costumi –
505 - l'estingue, la danno i bruti, i più indomiti de'quali, vinti da benefizi
e dalle carezze dell'uomo, vengono a deporre a piedi suoi la forza e la
fierezza, che gli rende for midabili; senza parlare di quei domestici animali,
che la natura ci ha dato in ser vitù, e i quali ci rendono testimonianze di
fedeltà e di amore in cambio di per cosse e di strazi che da noi ricevono. Che
l'uomo ingrato, il quale contraccambia il benefizio colla indifferenza, coll'ingiu
ria, e coll'odio, si umili innanzi al ca ne, il quale spira sulla tomba del
padro ne! (V. Plinio Hist. nat. lib. VIII cap. 4o e Buffon , histoire naturelle
du Chien ). Vuolsi quì notare, che i Latini, come chè coltivato avessero la
filosofia stoica, la quale più di tutte le altre si distinse per l'analisi del
sentimenti morali, pure mancarono d'un termine, che esprimesse il sentimento e
il dover della gratitudine, essendo stato cotesto vocabolo formato nei tempi
della bassa latinità. Furon essi so liti di esprimere con due parole gratus
animus quel, che i Greci dicevano suYa pista, o evyyouoovym, e che le lingue
vol gari han detto gratitudine, formando un regolare derivato della stessa
radice latina. Questo è uno degli esempi i quali dimo strand, che la penuria
del pari che la co pia del vocaboli nelle lingue, è una qua lità accidentale,
la quale nasce dal fatto degli scrittori, e non da difetto delle voci radicali.
GRATo (prat.), quel che è accetto, e si accoglie con animo disposto a
restituire il ben fatto. GRAVE (spee.), nome sostantivo, dato a corpi in
considerazione della tendenza loro alla discesa. È termine sperialmente
adoperato dalla Fisica. GRAVEzzA, GRAvosITA', GRAvoso (disc. e prat.),
significato traslato dal peso dei corpi, che si applica, ora alla importanza
dell'argomento, ora alla riprensibilità del l'azione, e ora alla noia o
molestia che ri ceve l'animo; nel quale ultimo senso si ado perano pure le voci
gravosità, e gravoso: Si è debile il filo, a cui s'attene - La gravosa mia
vita. PETRARCA. GRAvrtA' (spee. e prat.), proprietà della materia, per la quale
i corpi ten dono a discendere verso la terra. V. Cor po, Materia. I filosofi
tutti, antichi e moderni, han preteso spiegare la causa della gravità, o sia
della tendenza che hanno i corpi a di scendere verso il centro della terra,
come prima dicevasi; ma le opinioni di tutti, non escluse le più gravi e le più
verisi mili, son rimase e rimarranno nella sfera delle congetture; dapoichè di
tutte le cause naturali non ve n'ha forse alcuna, che più di questa racchiuda
il segreto del mec canismo dell'universo. Diciamo ora, che la tendenza del
corpi è verso la terra, e non verso il centro, dapoichè cotesto mo do di dire
farebbe presupporre una forza o virtù residente esclusivamente nel centro, laddove
la forza di attrazione appartiene a tutta la massa terrestre, e a tutte le sue
singole parti; di tal che un corpo è spinto verso la terra dalla forza
risultante da tutte le forze parziali, la cui direzione è nor male alla
superficie terrestre, e per la for ma sferoidica di questa neppure passa pre
cisamente per lo centro. – 504 – Quanto poi alla investigazione della cau sa
efficiente della gravità, era questo un subbietto della fisica generale,
allorchè era considerata, come la metafisica dei corpi. Ora la fisica si limita
a rintracciare le leggi del fenomeni naturali, ne quali si manifestano a noi
gli effetti costanti della forza di gravità, considerata o asso lutamente, o
relativamente. Dicesi asso luta la gravità, quando non è rattenuta da alcuna
resistenza: relativa, quando spenda una parte della sua potenza per vincere la
resistenza di qualche ostacolo. V. Resistenza. Le leggi del moto dimostrano che
i corpi cadon tutti colla stessa celerità, quando si sottraggano alla
resistenza dell'aria; d'onde segue che la gravità agisce egual mente sopra
tutte le molecule loro. Così considerata, la gravità differisce dal peso;
dacchè quella rappresenta l'azione della forza distribuita sopra tutti i
componenti; e questo, la somma delle azioni delle mo lecule prese insieme. V.
Forza, Peso. Gravità specifica è detta la relazione che passa tra il peso e il
volume di due diversi corpi. L'esempio dichiarisce me glio l'idea: se per
mettere in equilibrio due corpi sia necessario porre ne due piatti d'una
bilancia un volume doppio di quello che è nell'altro, dirassi che quest'ultimo
ha una gravità specifica, doppia di quello. Sic come una tale relazione è
variabile in tutti i corpi; così i Fisici hanno scelto per ter mine di paragone
tra tutti l'acqua distillata. La gravità è comune a solidi e a fluidi. Ella è
considerata dalla scienza tanto nella quiete, quanto nel moto. Fuori della quie
te, le leggi della gravità entrano in com binazione con quelle del moto. La
scienza che stabilisce le leggi dell' equilibrio dei corpi solidi animati da
forze, e spezial mente dalla gravità, vien denominata sta tica, e quella che
tratta dell'equilibrio dei fluidi, dicesi idrostatica. V. Fluido, Idro statica,
Statica. Lo stesso vocabolo, trasportato agli oh bietti del pensiero, e alle
qualità delle azioni, significa importanza; applicato al giudizio e alla
testimonianza altrui vale autorità; e usato nel senso d'una qualità degli
esterni portamenti, vuol dire conte gno, o sembianza autorevole e dignitosa. V.
Autorità. I moti esterni del corpo, e spezialmente del viso, sono il linguaggio
naturale del l'anima; e però gli atti regolari e com posti corrispondono agli
affetti bene ordi nati; siccome i frivoli ed incompositi espri mono gli opposti
sentimenti. In questo senso la gravità, è l'espressione della na tural dignità
dell'uomo. GRAVITAZIONE (spec.), la tendenza d'un corpo verso dell'altro, per
virtù della leg. ge di sua gravità. V. Gravità. Secondo Keplero ogni corpo
tende verso gli altri corpi della medesima spezie per virtù d'una forza ch'egli
chiamò tratto ria, e dalla quale fec'egli derivare il moto de pianeti. Secondo
Newton non solamente ogni corpo, ma ogni parte della materia tende o gravita
verso dell'altra, e così i corpi come le parti della materia si attraggono in
ragion diretta delle loro masse, e nella inversa del quadrati delle loro
distanze. Il vocabolo gravitazione si confonde spesso con quello di attrazione,
ma più giusta mente potrebbesi considerarla prima come l'effetto della seconda.
L'attrazione tra corpi è scambievole, e tal'è ancora la gravita zione; e però
prevalendo l'attrazione del corpo di maggior massa, prevale ancora – 505 – la
gravitazione, o sia la tendenza del mi nore verso il maggiore. Così diciamo,
che il sole attrae la terra, e la terra gra vita sul sole. In generale, cotesta
dot trina trova la sua principale applicazione ne corpi celesti, ne quali la
gravitazione de pianeti principali verso del sole, e dei satelliti verso i
rispettivi pianeti è fondata sopra fenomeni evidenti, che possono es sere
risguardati come fatti certi della na tura. V. Attrazione. GRAZIA (dise. e
prat.), allettamento che accompagna il bello. Si applica al discorso, ad ogni
ornato che consideriamo come bello, e alle azioni che sono acconciamente fatte.
In significato di favore, esprime una concessione che il superiore fa
all'inferio re, nel quale senso vale più di favore e di benefizio, che
riceviamo ancora dagli eguali e dagl'inferiori. V. queste voci. GRossEzzA
(prat. e spec.), traslato delle cose materiali, che si adopera per espri mere
rozzezza di opere, e anche ignoran za, o tardità di concepire. GRossoLANITA e
GRossoLANo (prat.), roz zezza d'uomo non educato e goffo. Contiene ambe le idee
della rozzezza e della goffaggine, e però dice più di cia scuna delle due
indicate voci. GUANCIA. V. Gota. GUARDINGo (prat.), qualità d'uomo at tento ad
evitare il male, o il pericolo. Esprime meno del cauto e del circo spetto,
dacchè il cauto antivede e opera con riflessione, e il circospetto mira prin
cipalmente a motivi di esterna convenienza. Gesto (crit.), sentimento del
palato. Per similitudine si applica al sentimento del bello. In tal significato
il gusto è la facoltà di discernere il bello dal brutto, tanto negli obbietti
de sensi, quanto in quelli dell'intelletto. Il gusto si distingue in esterno ed
in terno, la qual distinzione corrisponde ap punto alla diversa qualità degli
obbietti, circa i quali l'animo esercita la sua fa eoltà discernitrice. E
siccome questi ob bietti son compresi sotto le denominazioni generali del
fisico e del morale, così gu sto fisico è stato detto quello che giudica degli
obbietti del sensi, e morale quel l'altro che abbraccia il bello intellettuale.
V. Bello. - La facoltà di conoscere e di discernere il bello ripete il
principio suo dalla natu rale rettitudine del giudizio, dapoichè il bello non è
altro che il vero. V. Giudi zio, Vero. E siccome il bello trovasi nell'ordine
delle cose, così il gusto abbraccia ancora il conveniente, o sia tutto quel che
è coe rente ad una perfetta disposizione di parti e ad ogni esatta coordinazione
di mezzi per rispetto al fine loro. V. Ordine. Ma la convenienza e l'ordine ne
fatti, che dipendono dalla volontà degli uomini nascono sovente
dall'arbitrario, o sia da quel che dicesi legge di convenzione; il perchè
arbitraria e mutabile è cotesta spe zie di gusto, come quella che prende nor ma
non solamente dal vero, ma anche dalla immaginazione, e da tutto ciò che è atto
a muoverla nella scelta degli ob bietti, che alla stessa si presentano come
belli o dilettevoli. V. Immaginazione. Due autori inglesi, i quali trattarono,
sebben poeticamente depiaceri dell'imma ginazione, credettero poter determinare
le 59 – 506 – molle del gusto, e ne designarono tre, la novità cioè, il grande
e il bello. Il dottore Reid accolse il concetto loro, e considerolle come gli
elementi, i quali muovono la cosiddetta facoltà del gusto. Comechè sia
generalmente vera l'influenza che i tre cennati obbietti esercitano sopra di
noi, pare tuttavolta che soverchiamente si restringa la forza
dell'immaginazione, assegnandole quei soli motori. L'abitudine, l'imitazione,
l'associazione delle idee, che pur grandemente influiscono nel gusto, sogliono
sovente da essi discostarsi; e d'al tra parte, è sì vago ed indeterminato il
campo del bello ideale, che gli uomini lasciano talvolta le tracce del vero e
del verisimile, per abbracciare idee fattizie o fantastiche, le quali
direbbonsi bizzarrie e capricci. Adunque quel che di certo e di caratteristico
può dirsi del gusto è, che vien regolato dalla immaginazione, e ha per suo
primo scopo il dilettevole ed il gaio. L'opinione del bello e del dilettevole,
che il gusto genera, allorchè diviene do minante, è quel che dicesi moda. La va
rietà in fine che si trova in tal sorta di opinioni, ha suggerito la
distinzione del gusto assoluto e del relativo. Cotesta di stinzione appunto
esprime la differenza tra il bello della natura, e l'ideale o fattizio degli
uomini. V. Moda, Opinione. GUTTURALE (disc.), quel suono delle voci, che si
forma nella gola. - 507 - Geodesia Geognosia Geografia Geologia Geometra
Geometria Ginnasio Ginnastica FILosoFIA caricA. Giornale Giuoco Glittografia
Glossario Gnomonica Gramatica Grandioso Gusto CLASSI DE' VOCABOLI COMPRESI
SOTTO LA LETTERA G. FILOSOFIA SPECULATIVA. Galvanismo Ganglio Gas Gelo Generale
Generalizzare Generazione Genio Ghiaccio Gigante Giudizio Giuoco Giusto
Glandula Globetto Gola Gota Grado Grandezza Grave Gravità Gravitazione
Grossezza – 508 – FILOSOFIA DISCORSIVA. TEOLOGIA Generale Gradazione Giuramento
Generalità Grado Generalizzare Grandiloquenza Genere Gravezza, Generico
Gravosità, Genitivo Gravoso Gerundio Grazia Gesto Gutturale NATURALE. FILOSOFIA
PRATICA Gabbare Gagliardezza e Gagliardia Gaiezza Galloria Garbatezza e Garbo
Gaudio Gelosia Gemere Gemito Generosità Generoso Genio Gentilezza Gesto Giocondità
Gioia Giovanezza, Giovenezza e Giovinezza Gioventù Giovialità Giubilo Giulività
Geogonia Geonomia Giuoco Giuramento Giustizia Giusto Gloria Glorioso Godimento
Goffagine Gola Gongolare Gradazione Gradevole Grande Grandezza Gratitudine
Grato Gravezza, Gravosità, Gravoso Gravità Grazia Grossezza Grossolanità e
Grossolano Guardingo GRECISMI SUPURFLUI. Gnomologia FINE DELLA I, PARTE DEL
SECONDO VOLUME. S A G G I D I FILOSO FIA INTELLETTUALE VOLUM E II. D IZI ON A
RIO DELLA RAGIONE PARTE II.” I – Z. N A P O IL II DALLA TIPOGRAFIA TRANI
MDCCCXLVI, {- - - 1 - Iaa (grec. sup.), arte medica. IATRochIMICA (grec. sup.),
l'arte di cu rare le infermità co rimedi chimici. IATTANza (prat.), il dir di
se più che non è, o più che non è stimato dagli altri. È uno de sinonimi, che
ci viene da la tinismi conservati dall'uso, dapoichè cor risponde esattamente a
millanteria. V. que Sta VOCe. o º IBRIDISMo (spec.), spuria fecondazione, che
può avvenire tra due Esseri animali, o vegetabili di spezie diverse, e di cui
il prodotto è un altro Essere d'una terza spezie. L'ibridismo delle piante è
assai più fre quente di quello degli animali. Tra que sti il più importante,
che sembra ancora predisposto dalla natura in favor della in dustria dell'uomo,
è la generazione del mulo. Nelle piante questa spuria genera zione avviene,
quando il polline d'una spezie feconda l'ovaia d'un'altra, sì che ne risulta
una pianta dissimile dalle spe zie, che l'hanno prodotta, ma che par tecipa de
caratteri di ognuna delle due. La differenza che passa tra l'ibridismo delle
piante e degli animali, è che quelle si possono riprodurre colori semi, lad
dove tra questi gl'ibridi per la maggior parte non si riproducono. V.
Generazione e Polline. IcASTIco (crit.), termine dottrinale, che dassi per
aggiunto alla imitazione, che se gue il simile per natura, e non il fanta
stico, di cui è contrapposto. - - - a - - - - - , s ICNOGRAFIA (crit.), arte di
rappresen- . tare per mezzo del disegno gli edifizi colle loro geometriche
proporzioni. ICONOGRAFIA (grec. sup. ), descrizione delle immagini, del busti,
e delle antiche pitture, la quale è parte della iconologia IcoNoLoGIA (erit.),
parte della filologia, la quale versa circa l'interpretazione dei monumenti
antichi, delle immagini, e de gli emblemi. V. Filologia. IcTIoLoGIA (crit.),
parte della zoologia, che tratta del pesci e degli altri animali aquatici. V.
Pesce. Ionio. V. Dio. IDEA (spec.), conoscenza, che l'anima acquista degli
obbietti esterni per mezzo della sensazione e della percezione. V. Per cezione,
Sensazione. Altra volta l'idea dinotava una specie o forma dell'obbietto
esterno, poichè vo levasi spiegare come l'impressione del corpi potesse
comunicarsi allo spirito. Aristotele professò intorno all'origine del le idee
la dottrina, che dipoi passò per tutte le seguenti scuole insino a Locke, cioè
che i sensi sono la sola sorgente degli obbietti del pensiero, e che non
potendo essi ri cevere gli obbietti materiali, ne prendono le immagini o forme.
Le immagini degli obbietti esterni trasmesse da sensi furono dette specie
sensibili. Queste stesse spe cie allorchè son riprodotte dalla memoria o dalla
immaginazione, furon chiamate – 2 – immagini o fantasime (exytxauxrx). In fine
quando le specie degli obbietti erano purificate e generalizzate
dall'intelletto pren devano il nome di specie intelligibili. Il concetto, che
gli obbietti esterni pas sassero non immediatamente ma mediata mente al
pensiero, è stato per secoli uni versalmente ricevuto ; e può dirsi essere
stato insino al tempo nostro un prestigio della filosofia. Cotesto prestigio
divenne so pra tutto invincibile, quando si conobbe nel senso della visione il
fenomeno della immagine dell'obbietto esterno, dipinto nel fondo della retina.
E siccome le naturali leggi della visione ci son più note, e noi siam soliti
prenderle per norma nella spie gazione degli effetti di tutte le altre sen
sazioni; così niuno ha per secoli dubitato, che gli obbietti esterni non
potessero essere per altro mezzo percepiti, che per le im magini loro. Le
scuole hanno soltanto va riato nella spiegazione del modo, per lo quale gli
obbietti materiali potessero co municarsi allo spirito; nel che ciascuna di
esse secondo la rispettiva dottrina ag giugneva ad una ipotesi metafisica un'al
tra fisica non meno incerta di quella. È dovuto alla scuola di Reid l'avere
stabi lito come dogma fondamentale della filo sofia intellettuale, che l'anima
percepisce gli obbietti esterni non per via di rappre sentazione, ma quali in
realtà essi sono. Cotesta verità quantunque fosse stata an nunziata da qualche
altro de'moderni filo sofi, e spezialmente da Cartesio, pur tut tavolta non era
sì chiaramente concepita, che impedisse loro di tornare alla ipotesi delle
immagini, siccome diremo nell'arti colo percezione. La voce idea ebbe altro
significato pres so i pitagorici e i platonici. Costoro ammi sero tre principi
universali di tutte le cose: 1.º una materia esterna: 2.º le forme, o idee, o
tipi eterni ed immutabili, sopra i quali le cose materiali erano modellate: 3.º
la causa efficiente o sia Dio, che ne fu il supremo artefice. Da ciò segue che
i peripatetici mutarono il primo significato del vocabolo idea, trasportandolo
dalle forme invisibili ed universali alle partico lari degli obbietti esterni
desensi. V. For ma, Specie. Ora il moderno linguaggio filosofico ri tenendo
l'antico vocabolo, ne limita il si gnificato alla conoscenza immediata del
l'obbietto esterno, separandolo dalla causa che lo produce e dal mezzo per lo
quale una tal conoscenza si acquista. Idee, nel linguaggio ricevuto, diconsi
pure le co noscenze che l'anima acquista per mezzo della riflessione e del suo
interno sen so. Ma giova alla chiarezza e alla pre cisione del linguaggio
filosofico il distin guere con diversi nomi due generi di co noscenze che
nascono da principi diversi. V. Mozione. Le idee, considerate per rispetto agli
ob bietti loro, sono semplici o complesse, singolari o universali. Semplici
diconsi quelle che nascono da un atto unico della percezione: complesse quelle
che nascono da più percezioni unite insieme. Locke chiamò semplici le idee
degli ob bietti presentati da sensi o dalla riflessione quando la mente non
possa scomporle per l'atto solo della percezione, come per esem pio la
calidità, la frigidità nel ghiaccio, la mollezza nella cera, le idee del pia
cere, del dolore ec. Ma la sua definizione non fa intendere la natura dell'
atto che vuol definire ; e gli esempi che ne ad dusse non tutti sono d'idee
semplici. Noi chiamiamo semplici quelle idee, delle quali non conosciamo altre
più elementari : la 5 - semplicità loro consiste in questo, che ne ignoriamo le
qualità, sì che non possiamo formarne un concetto più chiaro di quello che ne
dà la sensazione o la riflessione. Parlando ora di quelle che ci vengono per la
sensazione, semplici diremmo le idee del vivere, del sentire, del vedere, del
l'udire, del toccare, dell'odorare, dell'as saporare, ec. (V. il disc.
prelim.). Singolare è l'idea d'un obbietto reale e delle qualità sue:
universale è l'idea di tali qualità considerate come comuni a più, astrazion
fatta dall'individuo che è stato il primo obbietto della percezione. V.
Astrazione, Universale. Considerate poi le idee per rispetto al modo nel quale
noi le percepiamo, pos sono essere chiare o oscure. Chiare son quelle che ci
fan pienamente conoscere l'obbietto loro: oscure le altre, che cel fanno
imperfettamente conoscere. La chia rezza e l'oscurità essendo capaci di diverse
gradazioni, è da tal diversità nata l'altra partizione in distinte cioè e
confuse. Di stinta dicesi quella che fa discernere un obbietto da un altro:
confusa quella in cui manca una tale discernenza. Le idee distinte, quando
contengano la particolare cognizione de caratteri che le rendono tali, diconsi
adequate. Idee innate sono state dette quelle ve rità evidenti, che l'anima
scopre per la sua interna vista, che le sono connatu rali, e delle quali la
cognizione riconosce come suo principio il senso intimo. Pla tone le credette
figlie della reminiscenza d'uno stato antecedente alla presente con dizione
dell'anima. Cartesio da cui viene la denominazione d'innate, le credette coe
sistenti coll'anima, o sia nell'anima im presse, per modo che abbiamo in noi
stessi la facoltà di riprodurle. Ad evitare l'am biguità, spiegò egli che non
intendeva con ciò dire, che fossero sempre all'ani ma presenti, dapoichè in
questo senso niuna idea potrebbe dirsi innata. Locke esagerò il concetto di
Cartesio, e non solamente negolle, ma risguardò la dottrina delle idee innate
come una sor gente di pregiudizi e di errori; il perchè limitò alla sensazione
l'origine di tutta l'umana cognizione. Leibnitz rivendicò in certo modo la dot
trina di Cartesio, purgandola dagli equi vochi delle parole. Chiamò innate,
inge nite o primitive le idee che ricaviamo dalla contemplazione della nostra
propria natu ra, e delle interne qualità dell'animo, le quali idee nascon tutte
da quella dell'io. Così, pensando a noi stessi, acquistiamo l'idea dell'Essere,
della sostanza semplice, della composta, della immateriale, ed an che l'idea di
Dio, dapoichè concependo quel che in noi è finito, concepiamo pure quel che in
Dio è infinito. Coteste idee, ed altre che pur deriviamo dalla cogni zione di
noi stessi, furono denominate ancora da Leibnitz verità immediate. Il P.
Buffier chiamolle primitive verità, o verità del senso comune. V. Io, Prin
cipio, Senso, Verità. IDEALE (spee. crit. e prat.), quel che non ha altra
esistenza che nell'idea. In questo senso l'idea è presa nel signi ficato più
generico, cioè qualunque con cetto del pensiero. - L'ideale scambiasi sovente
coll'imma ginativo, e suol essere applicato agli ar chetipi, che
l'immaginazione si forma, componendo, generalizzando, o assimi gliando; nel
quale caso equivale al bello razionale. Ond'è, che secondo il Milizia l'ideale
è l'unione delle parti scelte, come ne i- 4 – le più belle che sono disperse
nella natura. V. bello. IDEALISMo (crit.), dottrina di coloro i quali negano
ogni realità nella natura cor porea, e la riconoscono soltanto nelle idee. V.
Idea, Matura, Realità. IDEALISTA(spec.), chi professa l'idealismo. IDENTIco
(spec. e dise. ), quel che ha identità. V. questa voce. Identiche sono state
dette quelle propo sizioni, che si spiegano per loro stesse, come quel che è ,
è : A non è B, ed altre simili. In tali proposizioni è conte muta la nozione
della realità. V. Propo sizione, Realità. IDENTITA' (spee. e ontol.), il
costitutivo permanente di ogni cosa, per lo quale vien questa considerata
sempre qual'è in se stessa, e qual'è stata. Rigorosamente parlando, l'identità
con viene alla sostanza intelligente, a cagione de la sua unità ed
immutabilità. Non con viene per contrario agli Esseri corporei, ne quali la
materia riceve continue modi ficazioni e cangiamenti di parti. In que sfi si dà
identità di rassomiglianza e non di sostanza. Due bicchieri di vino attinti dal
medesimo vaso; due vesti formate da uno stesso drappo; un fiume sempre fluente
sotto la medesima denominazione, diconsi essere i medesimi per somiglianza e
non per sostanza. Lo stesso può dirsi del corpo umano e di tutti gli Esseri
organici, i quali in un periodo della loro durazione non sono gli stessi di
quel che in altro periodo sono stati, comechè non appariscano diversi. Locke
ripose l'identità degli Esseri or ganici nella continuità degli stessi organi,
co quali è cominciata la loro esistenza, ed applicò questa spezie d'identità
ancora all'uomo. Leibnitz per contrario distinse nelle so stanze individuali
animate, l'identità vera dall'apparente: ripose la vera nella con servazione
della medesima anima, o se condo il suo linguaggio, nella conserva zione della
medesima monade o unità rea le; laddove risguardò l'apparente come propria di
tutti i corpi, e tra questi, de gli Esseri organici. - Identità personale
dicesi il sentimento nella continuazione del proprio essere. Co testo
sentimento è alimentato dalla memo ria, la quale ci fa avvertire la continua
zione o la durata della esistenza, e la medesimezza del nostro essere,
semprechè ci ripresenta al pensiero un obbietto altra volta percepito. Ma nasce
dall'idea dell'io, o sia dell'Essere pensante, che è di sua natura uno ed
indivisibile; sì che è una di quelle prime verità, che leggiamo in noi stessi,
e che possono dirsi i tipi della cel. tezza e dell'evidenza. E pero ciascuno
può dire, io penso, io esisto, io ho una du rata, io sono la stessa persona di
ieri. V. Durata, Io, Verità. Da tali prenozioni nasce la risposta alla
quistione proposta da Locke, cioè in che è riposta l'identità dell'uomo?
Considerato come un composto di due sostanze, uopo è dire che son due le idee
d'identità, che vanno in lui distinte, una di rassomi glianza nella continuità
del suo essere or ganico; l'altra di sostanza nella conti nuità della persona
pensante. Non può que sta essere da quella mutata, siccome l'ac cidente non può
mutare la sostanza.V. Ras somiglianza, Sostanza, Uomo. Dal concetto della
identità ricavarono gli antichi metafisici l'altro della realità, – 5 – Avendo
essi stabilito come principio ideo logico, che la mente non può concepire quel
che non è, dedussero come la pri ma di tutte le verità che quel che è, è.
Parmenide eleatico fu l'autore di tal con cetto, secondo il quale l'identità si
con fonde colla realità. Ma l'essere nel concetto della mente, è lo stesso
dell'essere nella natura? L'avere identificato queste due spezie di essere , fu
anche la prima sorgente dell'idealismo, e di qua pure nacquero le false
opinioni de così detti filosofi reali. V. Essere , Idealismo, Reale. Dalla
nozione dell'identità dedusse Ari stotele il principio della contraddizione,
cioè che una cosa non può essere e non essere nel medesimo tempo, principio che
fu poi generalizzato da Leibnitz, e di cui formò egli il modulo di tutte le
verità. V. Contraddizione, Principio. IDEoLoGIA (crit.), la scienza che prende
per suo argomento l'origine delle idee, e dell'umana cognizione. V. Cognizione,
Idea. È una denominazione nuova, nata in Francia al cominciar del decimonono se
colo, in odio delle quistioni, delle quali eran piene l'ontologia, la
cosmologia, e la psicologia; e forse dettata dal desiderio di proscrivere il
nome della metafisica. Destutt-Tracy fu allora designato come il primo
ideologista del tempo suo. Comunque il nuovo vocabolo non sa rebbe stato
improprio per esprimere il par ticolar obbietto della formazione del pen siero,
pur tuttavolta sembra non essere stato ricevuto dall'uso per più ragioni: la
prima, perchè la nuova denominazione parte da una scuola, la quale non am
metteva altra sorgente delle idee, che le sensazioni: la seconda, perchè tolto
alla parola idea quel significato unico e g.. nerale che le davano le scuole di
Locke e di Condillac, diveniva improprio il resti tuirle lo stesso significato
nella denomina zione della scienza: la terza, perchè nulla è tanto alieno dalla
severità delle scienze, quanto il far la guerra a nomi ricevuti per sola
vaghezza di novità, o di simmetria di linguaggio. In fatti, risecate dalla m -
tafisica le ipotesi, ridotta l'ontologia ad un semplice vocabolario
scientifico, e la cosmo logia alla dimostrazione dell'ordine e della perfezione
dell'universo, quale sarebl la ragione di condannare il nome di metafi sica che
distingue le investigazioni del per siero delle idee e desensi? In fine la
scienza del pensiero abbraccia non solamente il modo come quello si forma, ma
ancora la natura e la qualità di tutti gli obbietti suoi per modo che
l'ideologia, mentre chè invaderebbe il campo della psicologia, lascerebbe fuor
di se un'altra parte della medesima scienza, si separerebbe dalla teologia
naturale e dalle nozioni cosme logiche, e scinderebbe la connessione ne.
cessaria delle scienze metafisiche. In som ma il concetto e il nome della ideologia
nacque dalla idea d'un meccanismo, cui l'analisi di Tracy soggettar voleva il
pen siero; meccanismo, che aveva per sua unica leva la sensazione, e per suo
ulti mo termine il più profuso materialismo. V. Cosmologia, Metafisica,
Ontologia, Psicologia. IDIoLATRIA (grec. sup.), eccessivo amor di se medesimo,
portato insino all'adora zione. IDIOMA (disc.), linguaggio particolare d'un
popolo. V. Linguaggio, Parlare. – 6 – InfoTA (prat e disc.), uomo senza
lettere. È contrapposto di letterato, ed esprime una particolare spezie
d'ignoranza, quella cioè delle lettere. È un grecismo passato nella lingua la
tina, e da questa a noi. È un perfetto sinonimo d'illetterato. È men
disprezzativo d'ignorante, dac chè un idiota può esser valente in qual che
arte, ed apprezzabile per ingegno, o per virtù; laddove l'ignorante manca di
quelle conoscenze, che sarebbe obligato di sapere. V. Ignorante, Ignoranza.
IdiotisMo (dise, ), vizio nel parlare e nello scrivere, degno della plebe, e de
gli uomini illetterati. InoLATRIA (teol.), adorazione e culto de falsi dei,
compresi nella generica de nominazione d'idoli. E stata la religione dell'uomo
degene rato. Della sua origine non si può asse gnare il cominciamento, perchè
mette capo nell'antichità, priva di lettere e di storia certa; ma ben si
possono determinare le cause, che le diedero nascimento, e pro pagar la fecero
per la terra. Il cuor del l'uomo rivolto unicamente alle cure del la vita
sensitiva; l'abito di giudicare delle cose per la sola impressione desensi; la
materiale interpretazione delle opere della natura; l'opinione del bene e del
male ricavata dalle nude sensazioni del piacere e del dolore; e l'assenza
d'ogni riflessione sul proprio intelletto, e sull'interno senso dell'anima,
furon le cause, che misero gl'idoli o i falsi dei nel luogo dell'unico e
supremo Autor di tutte le cose. Com pendiando tali cause e riferendo a suoi
veri principi il concetto della religione, può dirsi che l'uomo cominciò dal
trovare Dio in se stesso, e lo smarrì quando volle andarlo cercando fuori di
se. Il più segnalato del benefizi, che il cri stianesimo ha renduto
all'umanità, è l'a- vere sbandito dal mondo l'idolatria, fa cendo arrossire
l'uomo della volontaria ce cità, nella quale era per secoli vivuto. I padri
della chiesa nel loro scritti apologe tici contra i gentili, il dotto rabbino
Mosè Maimonide, e tra gli eruditi Gherardo Vos sio esposero l'origine e il
progresso del l'idolatria desumendo quella e questo dalla mitologia e da
misteri del paganesimo, dai suoi riti religiosi, dalle interpretazioni dei
sapienti, dalle varie dottrine dell'antica filosofia naturale, e dalle notizie
che la storia sagra ci ha tramandato, così depo poli idolatri che furono a
contatto cogli Ebrei, come delle idolatrie, nelle quali questo popolo stesso
talvolta cadde. Cotesti trattati appartengono o alla teologia rive lata, o alla
erudizione, o alla storia della filosofia, secondo il vario scopo che i loro
autori si prefissero. Alla teologia naturale, e allo studio dello spirito
umano, importa conoscere qual fosse stata la prima sor gente dell'errore, e
come i prestigi e le assurdità della idolatria avessero potuto cacciar fuori
dalla mente dell'uomo la no zione la più connaturale alla sua ragione, quella
cioè della prima causa dell'esser suo. Per isvolgere tali quistioni, giova di
stinguere le diverse spezie d'idolatria fog giate dall'ignoranza e dalla
superstizione degli antichi popoli; dapoichè la grada zione stessa degli
errori, ne'quali trascorse il politeismo, dimostra come avvenuto fos se il
passaggio dal vero al falso. Piacque al Vossio, per abbracciar tutta la materia
della religione de gentili, distinguere le varie loro idolatrie in due sommi
generi di culto, il proprio cioè e il simbolico e – 7 – proprio chiamò quello,
renduto diretta mente all'obbietto scambiato colla Divinità, come l'adorazione
prestata al sole da po poli che il deificarono: simbolico l'altro che
prestarono a segni e alle figure, non perchè le credessero altrettante
divinità, ma perchè le rappresentavano: suddivise poi il proprio, in semplice e
misto e il semplice in culto di sostanza, o di ac cidente: la sostanza in
spirituale, cor porea, o composta: la spirituale in som ma, media, o infima, le
quali tre spezie abbracciano il culto della Divinità conside rata come la prima
sostanza, degli spiriti medi, detti demoni o geni, e delle ani me del defunti:
la sostanza corporea, in particolare o universale: la particolare in tante
spezie, quante furono le parti della natura divinizzate dal politeismo :
nell'universale comprese il culto della na tura e del mondo; e nella sostanza
com posta, l'adorazione prestata alle deità, alle quali attribuivasi un corpo
etereo; in fine per culto di accidente intese denominar quello prestato alle
qualità delle sostanze spirituali, o corporee, che furon diviniz zate, e delle
quali immenso fu il numero, come la fede, la concordia, la sanità; o come il
tempo, il giorno, la notte, ed altre simili. Quanto poi al culto sim bolico,
furono in quello compresi gl'idoli e le immagini, che è appunto la parte del
culto materiale e volgare, espressa dal vocabolo idolatria. Lasciamo tutte le
cen nate categorie e partizioni a quelli che vogliono storicamente ed
eruditamente co noscere la religione degentili; e riteniamo soltanto per noi la
generica divisione del culto in proprio e in simbolico. L'uomo cominciò dal
culto proprio di Dio; chiamò indi i sensi in aiuto della mente, o sia creò il
culto simbolico; e finì per iscam biare questo per quello. A cotesto passag
gio, dovuto interamente alle impressioni desensi, diedero la prima spinta le
opere o per meglio dire le maraviglie stesse della natura. E quì per non uscire
da limiti nei quali contener dobbiamo il presente arti colo, assumer dobbiamo
come certe e note talune verità, che son dimostrate dagli eruditi e dagli
archeologi. La prima ido latria fu quella degli astri e spezialmente del sole e
della luna, considerati come immediati dispensatori de'benefizi che dalla
influenza loro riconosciamo. Confermiamo cotesta opinione coll'autorità di Mosè
Mai monide (nel libro de idolatria tradotto da Dionigi Vossio). «A'tempi di
Enos, egli dice, gli uomini gravemente errarono, e lo stupore adombrò pure la
mente desa pienti di quella età. Lo stesso Enos fu par tecipe del medesimo
errore, il qual pro venne dalla seguente cagione. Erano essi soliti dire, che
Dio creato aveva le stelle e le sfere come rettori del mondo; che collocato le
aveva nell'alto de'cieli, ac ciocchè fossero onorate, servendosene Egli, come
di suoi ministri. Laonde meritamente dobbiamo esaltarle e venerarle. E non pri
ma formato ebbero un tal concetto, che cominciarono a edificar templi alle
stelle, a indirizzare loro sagrifizi, inni di lode e adorazioni, e ad
inchinarsi al cospetto di esse; falsamente credendo di potere così acquistare
la benevolenza del Creatore. Tale fu il principio della idolatria, e tale il di
scorso che tenevano quelli tra gli adora tori degl'idoli, che ne intendevano la
ra gione. Non dicevano già, che fuori delle stelle non vi fosse altro Dio, ma
crede vano, che quel vano culto fosse da Lui comandato. In processo di tempo
appar vero falsi profeti, i quali cominciarono a spacciare, esser volontà di
Dio, che tra – 8 - le stelle fossero spezialmente adorate or questa ed or
quella; che loro si facessero sagrifizi e libazioni, con tale o tale altro
rito, e si formassero i loro simulacri, ac ciocchè potessero essere adorati
dalla mol titudine, dalle donne, da fanciulli, e dal resto della umanità. Ed
essi stessi addita rono la figura del simulacri, che avevano foggiato, dicendo
essere stata loro rive lata. Così tutti dieronsi a formare simu lacri ne
templi, sotto gli alberi, e sulle cime de monti e decolli; e dopo di aver gli
formati, congregati insieme comincia rono ad adorargli, e ad invitare tutti a
fare lo stesso, dicendo che da quel simu lacri provenivano i beni e i mali
d'ogni sorta; il perchè dovevano essere venerati e temuti. I sacerdoti poi di
tale culto dalla loro parte promettevano accrescimento di beni e prosperità, e
inculcavano così le cose da farsi, come quelle da cui conve niva astenersi.
Successivamente sopravven nero altri impostori, i quali davano ad intendere,
che una tale stella o sfera, o un dato angelo parlato avevano, prescri vendo il
modo col quale dovevano essere venerati, e spiegato avevano la ragione di
cotesto culto, colle particolarità delle cose da farsi, o da evitarsi. D'allora
in poi questi detti miracolosi si sparsero per tutta la terra, sì che prestossi
alle imma gini un culto proprio di sagrifizi e di ado razione. Collo scorrere
del tempo il NoME VENERABILE scomparve dalla lingua e dal l'animo degli uomini,
per modo che que sti più no'l riconobbero; ed avvenne, che il genere umano
tutto intero, le donne e i fanciulli non avessero altra conoscenza della
Divinità fuori delle immagini di legno o di pietra, e de'templi lapidei, che ave
vano sin dalla tenera età imparato a ve nerare e adorare, e nel nome de quali
erano accostumati a giurare. I sapienti poi, i sacerdoti e gli altri dotti
neppur credevano, che vi fosse altra divinità fuori delle stelle e delle sfere,
in grazia e per similitudine delle quali erano stati foggiati i simulacri.
Niuno del mortali conosceva più il potente autor de mondi, tranne po chi, tra i
quali Enoc, Metusalem, Noach e Heber. A tal modo procedevano e suc cedevansi le
cose, quando nacque la co lonna del mondo, il nostro padre Abramo». Abbiamo
scelto l'autorità di Maimonide perchè è conforme alla verità contestata dalla
storia sagra, dalla profana, e dalle più antiche opinioni della filosofia del
pa ganesimo, le quali ci danno la spiega zione delle popolari credenze. Noi
troviamo l'adorazione degli astri nell'antichissima idolatria de Caldei,
nell'antica religione de Persiani, e nella dottrina di Zoroastro; e vediamo
eretti i primi e più famosi tem pli sulle cime demonti, o in altri luoghi
eminenti; il culto del fuoco tramandato a tutti i popoli della terra; il sole
personifi cato sotto vari nomi, come di Belo presso gli Assiri, di Mitra presso
i Persiani, di Osiride presso gli Egizi, di Adone presso i Fenici; di Saturno,
di Apollo, e dello stesso Giove presso i Greci e i Romani (Macrob. Saturn. lib.
1 cap. 23. Euseb. praep. evang. lib. 1 cap. 7). Dal culto degli astri nacque
l'altro della natura , d'onde la dottrina de due principi, co tanto diffusa
nell'oriente ; da questo il culto delle qualità benefiche o malefiche delle
sostanze corporee o incorporee; ed indi i simulacri d'ognuna di tali deità,
delle quali alcune erano onorate per lo bene che potevano dispensare, ed altre
per lo male, che cercavasi di allontanare. Delle quali opinioni tutte, la
ragione dei sapienti, allorchè volle spiegare i principi – 9 – e le cause,
escogitò le diverse ipotesi che servirono di fondamenta a vari sistemi della
filosofia naturale degli antichi. Allora fu che della divinità degli astri
trovossi una ragione a priori, fondata interamente nel le similitudini e nelle
immagini delle cose sensibili. « Gli astri, si disse, sono nati dalla migliore
e più pura parte dell'ete re: son di una sostanza pura, e non mi sta, perchè
sono la sede del calore e della luce: uopo è dunque che sieno ami mati. Il
chiaror del sole è più splendido di qualunque fuoco, perchè irradia in ogni
punto l'immenso mondo: il tatto suo non solamente riscalda ma spesso ancora
brucia, il che non farebbe se non fosse d'ignea natura. E siccome ogni fuoco
non può durare senza un qualche alimento ; così i vapori dell'oceano servono di
ali mento al sole: da ciò segue, ch' esser debbe ancora simile al fuoco che noi
ado periamo per gli usi della vita, e a quello che è racchiuso nel corpi
animati. Ora il fuoco, che noi adoperiamo per gli usi della vita, è distruttore
e consumator di tutte le cose, perchè scompone e scioglie tutto quello in cui
penetra ; laddove il fuoco corporeo è salutifero e vitale, per chè conserva,
alimenta, accresce, sostie ne, e dà moto a sensi. Non è dubbio che coteste
qualità trovansi pure nel sole, per opera del quale tutto fiorisce, e ogni
cosa, ciascuna nel suo genere, cresce e diviene adulta. Se dunque il fuoco del
sole è si mile al corporeo, uopo è, che il sole stesso sia animato, e tali
ancora sieno gli altri astri, i quali nascono nel celeste ardore, che vien
denominato etere, ovvero cielo». «Infatti siccome di tutte le spezie di ani
mali, taluni nascono in terra, altri nel l'acqua, ed altri nell'aria; così
sembra assurdo ad Aristotele, che niuna spezie ne nasca in quella parte, che è
la più adatta al nascer di Esseri animati. Gli astri occupano lo spazio etereo,
che è sot tilissimo, mobilissimo e insiememente pie no di vigore; il perchè
l'animal che quivi è generato, uopo è che sia dotato del più acuto senso, e
della più rapida mobilità. Ora dovendo gli astri, perchè generati nell'etere,
aver senso e intelligenza, ne segue che debbano essere messi nel nu mero delle
divinità ». « Quel che poi rende manifesto il senso e l'intelligenza negli
astri, è l'ordine e l'uniformità del corso loro; imperocchè non si può
concepire deliberato proposito di muoversi, nè misura di moto, senza una
ragione deliberante, la quale non fa nulla d'incerto, di difforme o di for
tuito. Molto meno può presumersi che l'or dine, e l'eterna uniformità del corso
de gli astri nascano da forza naturale, o da caso; perchè l'uniformità è figlia
della ra gione, e il caso ama la varietà e la dif formità; d'onde segue, che
gli astri muo vonsi per volontà, per senso, e per di vinità propria. E per
verità lodevole è la opinione di Aristotele intorno alle di verse cause del
moto, che ridusse a tre: la naturale, prodotta dalla propria essen za, la forza
impressa, o la volontà. Il sole, la luna, e le stelle, si muovon tut te. I
corpi che obbediscono al moto della propria essenza, sono portati in giù, o in
su, secondo il peso o la leggerezza loro; de quali movimenti niun de due si
verifica negli astri, che muovonsi in giro. Molto meno può dirsi che
obbediscano ad una forza, la quale gli obliga a muoversi con tra la legge della
naturale gravità; per chè qual potrebbe essere la forza mag giore della loro ?
Resta dunque il solo moto volontario. Le quali cose ben consi 2 – 10 – derate,
fan sì che non solamente indotto, ma empio debba dirsi chiunque neghi la
divinità degli astri. Non v' ha poi molta differenza tra il negare la divinità
degli astri, e il credergli privi d'azione e d'in gerenza nel reggimento del
mondo ; da poichè per me l'esser privo d'azione equi vale perfettamente al non
esistere. In con clusione, è tanto manifesto che gli astri sieno dei, quanto io
non potrei credere es sere di sana mente quelli che lo negano». « Rimane ora a
considerare qual sia l'es senza loro, nel che nulla riesce tanto dif. ficile,
quanto il trasportare la mente fuori dell'abito delle cose sensibili. Cotesta
dif ficoltà è quella che ha strascinato il volgo, e i filosofi volgari, a
contemplare la di vinità nel simulacri fabbricati dalla mano dell'uomo ». « Ma
ccnoscendo noi per una certa nozione dell'animo, che Dio esser debbe un Essere
animato, del quale nulla di più eccelleute si trovi in tutta la natura ; io
credo che ad una tal nostra prenozione e presentimento, esattamente corrisponda
il concetto, che il mondo, di cui nulla può farsi di più eccellente, sia animato,
e sia Dio insieme » (Cic. de nat. deor. lib. II. cap. 15 a 17). Chi crederebbe
essere stata questa la dot trina professata dalla scuola degli stoici, che noi
risguardiamo come la più severa tra le antiche, così nella filosofia pratica,
come nell'arte del ragionare? Quale uomo volgare ed indòtto dell'età presente,
do tato di retto senso, pesando un per uno gli argomenti della deificazione del
mondo e degli astri testè addotti, non compian gerebbe la ragione di quegli
antichi sa pienti, che noi ammiriamo come i mae stri del sapere umano? Intanto
le ipotesi e le materiali similitudini, dalle quali il concetto e gli attributi
della divinità furon dedotti, dimostrano la genesi della idola tria e della
così detta filosofia naturale : l'idolatria nacque dall'avere l'uomo per duto
l'idea della creazione e del supremo Autor dell'universo: la filosofia
naturale, dall'aver voluto trovare nella natura le cause della falsa religione
che avevasi for mato: senza l'idolatria, non sarebbe mai nata quella chimerica
scienza della natu ra, nella quale si perdette l'antichità. E per contrapposto,
il cristianesimo, resti tuendo l'idea della creazione, ha fatto svanire
l'idolatria; ha ridonato al genere umano la cognizione della PRIMA CAUSA di
tutte le cose; ed ha aperto alla ragione i principi della vera filosofia. Del
resto la nozione di questa prima causa è sì connaturale e necessaria alla mente
umana, che la idolatria non ha mai potuto spegnerla o cancellarla; che anzi
dalle inesplicabili contraddizioni nel le quali ricadeva il politeismo, il
concetto della unità di Dio era l'ultimo asilo nel quale prendeva riposo la
ragione stanca di tutte le sue incertezze. Niuno degli anti chi sapienti dubitò
mai, che la pluralità de nomi delle divinità, fosse una plura lità di simboli e
non di persone, di che fanno manifesta pruova le spiegazioni che ne danno tanto
quelli che interpretarono la religion civile, o l'idolatria propria mente
detta, quanto gli altri ch'eran se guaci del culto della natura, come gli
stoici. Cicerone fa dire a costoro: Vide tisne igitur, ut a physicis rebus,
bene atque utiliter inventis, tracta ratio sit ad commentitios et fictos deos ?
Quae res genuit falsas opiniones, erroresque turbulentos, et superstitiones
paene ani les. Et formae enim nobis deorum, et aetates, et vestitus,
ornatusque, noti suntº genera praeterea, coniugia, co – 11 – gnationes,
omniaque traducta ad simi litudinem imbecillitatis humanae. Mam et perturbatis
animis inducunture acci pimus enim deorum cupiditates, aegri tudines,
iracundias. nec vero, ut fa bulae ferunt, di bellis praeliisque ca ruerunt, ut
apud Homerum, cum duos evercitus contrarios alii dii ea alia parte defenderent,
sed etiam , ut eum Tita nis et cum Gigantibus propria bella ges serunt. Haec et
dicuntur, et creduntur stultissime, et plena sunt futilitatis sum maeque
levitatis. Sed tamen, his fabu lis spretis, ae repudiatis Deus pertinens per
naturam cujusque rei, per terras Ceres, per maria Neptunus, alii per alia
poterunt intelligi (De nat. deor. lib.lI. cap. 28). E Seneca: Quoties voles,
tibi licet aliter hunc auctorem rerum mostra rum, et Jovem illum optimum ac
maxi mum rite dices, et tonantem et stato rem: qui non (ut historici
tradiderunt), ea eo quod post votum susceptum, acies romanorum fugientium, sed
quod stant beneficio eſus omnia, stator stabilitorque est. Hune eumdem et fatum
si diveris, non mentieris ; nam cum fatum nihil aliud sit quam series impleaa
caussa rum, illa est prima omnium causa, ex qua caeterae pendent. Quaecumque
voles illi nomina proprie aptabis, vim ali quam, effectumque coelestium rerum
continentia. Tot appellationes ejus pos sunt esse, quot munera (Debenefic. lib.
IV c. 7). Chi potrà poi non ammirare il con cetto proprio di Cicerone? Deus,
qui in telligitur a nobis, non alio modo intel, ligi potest, nisi mens soluta
quaedam et libera, segregata ab omni concretione mortali, omnia sentiens et
movens, ipsa que praedita motu sempiterno (Tusculan. lib. I, c. 27). Ora quanta
maggiore ma raviglia non produrrà il paradosso di quel moderno filosofo, il
quale rinegando il senso della natura, e la più certa tra tutte le storiche
verità, sforzossi di trovare nel politeismo la prima religione dell'uomo? (V.
il primo vol. pag. 26o). V. Culto, Dio. IDoLo (teol. spec. e prat.), immagine,
o simulacro di falsa divinità, cui pre stasi la riverenza e il culto dovuto al
vero Dio. Bacone chiamò idoli della mente quelle fantasime o false
preconoscenze, le quali profondamente la illudono, e divengon poi le sorgenti
di tutti i nostri errori.V. Errore. Scelse una tal denominazione, perchè
l'effetto loro non è solamente di render fal so il giudizio circa i
particolari, ma an cora di disporre l'animo talmente, che l'errore nasca quasi
come una conseguenza del vizio dell'intelletto. E siccome l'abito ci fa
risguardare quelle illusioni come ve rità, delle quali non osiamo mai dubi
tare, così denominolle idoli della men te. Per esprimere un tal concetto con un
vocabolo più proprio, noi li diremo pre stigi o cause della volontaria
ignoranza. V. Ignoranza, Prestigio. Nel senso morale, idolo suole chiamarsi
qualunque obbietto, nel quale si riponga smoderato affetto, o gli si dia un
pregio e valore, che è solo nella nostra imma ginazione. lDoNEITÀ (prat.),
attitudine a fare, o a ricevere qualche cosa. Taluni han voluto distinguere
l'attitu dime dalla idoneità, come se quella fosse una qualità, che si può
promiscuamente acquistare per arte o per natura, e que sta, per natura
solamente. Altri han pre teso che l'idoneità si dicesse delle sole per ºk – 12
– sone, e l'attitudine delle persone e delle cose. Ma di tali distinzioni non
si trova rastro ne buoni scrittori italiani o latini. Che anzi presso i latini,
da quali ci viene il vocabolo idoneo, trovasi usato indistin tamente, tanto per
le qualità naturali, quanto per le acquistate; e così per le persone, come per
le cose. E potrebbesi anche dire, che l'attitudine considerata , per rispetto
alla sua etimologia, come una disposizione all'azione, è men capace del
significato materiale, che prende quando si applica alle cose. Conviene
piuttosto dire che i vocaboli idoneità e idoneo sieno di quei sinonimi che ci
vengono dalla lingua madre. V. At titudine, Disposizione. IDRAULICA (crit.),
parte della fisica ge nerale la quale versa circa l'equilibrio e il moto de
corpi fluidi. V. Fisica, Fluido. Lo scopo di questa scienza è il como scere le
leggi naturali del moto defluidi, tanto per ispiegare i fenomeni che da quel lo
dipendono, quanto per adattare l'uso del fluido principale, o sia dell'acqua ai
vari bisogni dell'industria umana. L'ana lisi, che non cessa di suddividere le
qua lità de corpi, per meglio dichiarirle, suddi vide l'idraulica in due parti,
l'idrostatica e l'idrodinamica: la prima abbraccia l'equi librio de'corpi
fluidi: la seconda, il moto loro. V. Idrodinamica, Idrostatica. IDRODINAMICA
(erit.), la scienza che versa circa le leggi del moto e dell'equi librio del
fluidi. V. Fluido, Moto. Cotesta denominazione è stata ricevuta per l'autorità
di Daniele Bernulli, che fu il primo a scoprire talune leggi generali del moto
del fluidi, e trattò la scienza più ampiamente di quel che avevan fatto gli
altri fisici suoi antecessori, il che la fece distinguere dalla idrostatica.
IDROGEOLOGIA (gree. sup.), trattato del le terre e delle acque insieme. Cotesta
nuova denominazione altro non ispiegherebbe, se non l'unione di due parti della
storia naturale, delle quali cia scuna ha sinora avuto il proprio nome,
l'idrologia cioè e la geologia; e per altro verso potrebbe produrre confusione
tra due significati, uno speciale e l'altro generale, che si suole dare alla idrologia.
IDROGRAFIA (crit.), parte della geogra fia, la quale descrive il mare e i feno
meni naturali, che importa conoscere per l'arte della navigazione. L'idrografia
si occupa ancora della de scrizione del fiumi, de laghi e di tutte le acque che
coprono la superficie terrestre, spezialmente se sono navigabili. È proprio
dell'idrografia il disegno delle carte nautiche, nelle quali sono additate le
correnti, gli alti e bassifondi, gli sco gli, i banchi di arena, i promontori,
i golfi, i seni, le rade, i porti, nelle loro naturali posizioni e distanze, e
tutte le par ticolarità necessarie a conoscere le oppor tunità della
navigazione, e tra queste la qualità ancora delle coste. V. Nautica.
IDROGRAFICO (erit.), nome dato all'arte descrittiva del mare e alle carte
nautiche, fatte colle regole della idrografia. inoiosa (crit.), parte della
storia na turale e della fisica, la quale tratta della natura delle acque, e
delle diverse pro prietà loro. V. Acqua. Cotesta scienza non è solamente
descrit tiva, dapoichè non si limita a determi – 15 – nare le diverse spezie
delle acque a ri spetto della combinazione di questo flui do, colle diverse
sostanze delle quali tro vasi impregnato, ma abbraccia altresì la cognizione e
l'analisi di quelle medesime sostanze. E siccome l'acqua è il dissolvente più
comune della natura, così distinguesi in lei, del pari che nella terra, uno
stato di combinazioni secondario, diverso dal pri mitivo. Da ciò segue che
l'idrologia an nodasi in molte delle sue ricerche alla chi mica e alla geologia.V.
Chimica, Geologia. IDROMETRIA (crit.), scienza la quale dà le regole per
misurare il peso, la forza e la velocità, così dell'acqua, come de gli altri
fluidi. V. Forza, Peso, Velocità. L'idrometria misura ancora la quantità e il
valore delle acque nella distribuzione che se ne fa per l'uso della
irrigazione, o per adoperarle come un motore nelle arti industriali. È pur
questa una denominazione intro dotta in grazia del professore Guglielmini;
dovendo per verità essere considerata come una parte dell'idrodinamica e
dell'idrosta tica. V. queste voci. IDRostATICA (crit.), parte della fisica
generale, la quale esamina le leggi del l'equilibrio del fluidi. V. Fisica,
Fluido. È una delle branche dell'idraulica e comprende le leggi
dell'equilibrio, così de corpi fluidi, come degli altri corpi che sono in essi
immersi. V. Idraulica. IERoGLIFICo. V. Carattere. IGNAVIA (prat.), codardia, o
pigrizia, la quale nasce da viltà d'animo. È uno de sinonimi che ci vengono
dalla lingua latina: in questa, come nella no strale, è contrapposto di
coraggio e di fortezza d'animo: aequitas, temperantia, fortitudo certant cum
iniquitate, luru ria, ignavia. Cic. IGNOBILE e IGNOBILTÀ (prat.), contrario di
nobile, che al pari di questo vocabolo, si trasporta ad un significato morale,
cioè di quel che conviene o sconviene al de coro e all'onore. V. queste voci.
IGNOMINIA (prat.), publica nota di bia simo, nella quale incorre chiunque
faccia azioni, riprovate come turpi dalla legge o dalla universale opinione.
Dice più del disonore e meno dell'in famia: più del disonore, perchè contiene
ancora l'idea della pena, che seco porta la publicità: meno dell'infamia,
perchè questa importa perdita irreparabile della esistimazione e dell'onore.
L'ignominia è riparabile, perchè può essere ricomprata con un atto di virtù che
la cancelli; lad dove l'infamia è indelebile. V. Disonore, Infamia.
IGNORANTISMo (erit.), sistema di quelli, i quali credono dover essere i popoli
te. nuti nello stato d'ignoranza. IGNORANZA (spee, e prat.), la privazione delle
idee necessarie alla cognizione, o al giudizio. V. Cognizione, Giudizio. È
tanto ovvia, quanto vera la distin zione dell'ignoranza in due: la volontaria e
l'involontaria: la volontaria nasce dal difetto della riflessione:
l'involontaria, dai limiti, che la natura ha messo alla umana capacità.
Parliamo di questa in primo luo go, perchè essendo una conseguenza della
natural costituzione dell'intelletto, il rin tracciarne le cause forma uno
studio pa – 14 – ralello a quello delle origini e de limiti della umana
cognizione. Locke ridusse a due le cause dell'igno ranza involontaria: la prima
sta nella scar sezza o limitato numero delle nostre idee: la seconda, nel non
potere noi scoprire la connessione tra le idee che abbiamo. « Quanto alla
natural povertà delle no stre conoscenze, dice Locke, noi non abº biamo altre
idee semplici o elementari, se non quelle che ci vengono da sensi esterni o
interni. E però, per rispetto al più grande numero delle creature
dell'universo, e alle qualità loro, siamo come i ciechi per ri spetto a colori,
essendo noi privi per sino delle facoltà che sarebbero necessarie per
conoscerle. Due estremi opposti chiudono la visione alle nostre facoltà. Da una
par te, l'immensa distanza tra quasi tutte le parti del mondo, le quali
sarebbero espo ste al senso della vista, invola queste alla nostra cognizione;
per modo che il mondo visibile può dirsi essere una picciola parte
dell'universo, e noi da essi possiam con siderarci, come racchiusi in un
cantuccio dello spazio, cioè a dire nel sistema del nostro sole, ignari affatto
di quel che av viene negli altri pianeti, che al pari del nostro, girano
intorno a lui. E d'altra parte molti altri corpi si nascondono a noi, a cagione
della loro picciolezza, quantun que c'importerebbe moltissimo il conoscer gli;
imperciocchè dalla tessitura loro po tremmo meglio conoscere gli usi e gli ef
fetti di quelli che son visibili, e sapere perchè il rabarbaro purga, la cicuta
uc cide, e l'oppio fa dormire». « Non meno importante è la seconda sorgente
dell'ignoranza, la quale nasce dal non poter trovare la connessione tra le
idee, le quali formano l'attuale no stra cognizione. L'ignorare una tal con
nessione, è quel che ci rende affatto in capaci d'una cognizione universale e
cer ta; sì che le umane conoscenze si limi tano a quelle solamente che
acquistar pos siamo per mezzo dell'osservazione e della sperienza. La
grandezza, la figura, il moto de'corpi celesti che ci circondano, produ cono in
noi varie sensazioni di colori, di suoni, di sapori, di odori, di piacere, o di
dolore. E siccome le meccaniche af fezioni del cennati corpi non hanno alcun
legame di somiglianza colle idee, che in noi risvegliano; così non possiam
formare alcun concetto distinto del modo com'esse operino; nè possiamo
ragionarne altri menti, che considerandole come altrettanti effetti prodotti
dal disegno e dall'opera d'un Agente infinitamente sapiente, che trascende la
nostra comprensione. E per la stessa ragione, per la quale non pos siam dedurre
dalle nostre idee le qualità sensibili de'corpi che le producono; ci è
impossibile il comprendere come lo spirito agisca sul corpo, come un pensiero
pro duca il moto necorpi, o come un corpo produca il pensiero. Non pertanto
questi ed altri simili effetti nascono da un legame che è costante e regolare nel
corso ordi nario della natura, ma che noi non pos siamo scoprire dalle nostre
idee; il per chè non possiamo addurne altra ragione, fuori della volontà
dell'Autore sapientis simo di tutte le cose, le quali esistono e agiscono per
vie incomprensibili al no stro debole intelletto ». (Locke lib. IV. cap. III.
SS. 22 a 28). Niun altro scrittore ha detto più di Locke intorno alle cause
dell'ignoranza, che anzi tutti lo han copiato, taluni citandolo, e taluni altri
appropriandosi i pensieri di lui. Per dichiarire alquanto i suoi concetti di
remo, essere una la causa dell'ignoranza, – 15 – cioè la limitata capacità
dell'uomo; ed es ser due i limiti che la circoscrivono, il difetto del sensi
esterni, e quello dell'in terno senso dell'anima: dal primo nasce lo scarso
numero delle idee: dal secondo l'insufficienza dell'intelletto a conoscerne la
connessione. E dichiarando ancora ciò che Locke intese esprimere con tal voca
bolo, vuolsi notare, che l'esser difettivo nella connessione delle idee
proviene dalla ignoranza delle qualità delle cose, e per conseguente delle loro
relazioni, il com plesso delle quali forma ciò che dicesi con nessione. Dal non
conoscere poi le qua lità e le relazioni, nasce l'ignoranza delle essenze o del
costitutivo delle cose; e da quest'altro mancamento di conoscenze, proviene
l'ignoranza delle cause efficien ti, e del segreto magistero della natura. V.
Causa, Connessione, Essenza. Dal sin qua detto apparisce manifesto, che
l'ignoranza prodotta dal difetto della capacità, è una condizione necessaria de
gli Esseri creati, o finiti, che cotesta condizione è relativa e proporzionale
a fini della natura, o sia alla destinazione di ciascuno decennati Esseri; che
nella scala delle intelligenze e delle capacità l'uomo è dotato di quel maggior
grado di cogni zione, che può convenire ad un Essere sensitivo e ragionevole,
destinato a sopra stare alle altre spezie di creature, le quali abitano la
terra; e che se da una parte, limitata è la capacità sua, dall'altra i li miti
i quali la circoscrivono, non forman difetto nell'umana condizione, ma son re
lativi a quel maggior grado di perfezione, di cui son dotati gli Esseri d'un
ordine superiore. Il dolersi dunque di tali limiti, o l'ascrivergli ad
imperfezione del proprio essere , sarebbe lo stesso che sconoscere la natura e
l'ordine delle cose create. Ciò non ostante questi limiti non sono quali
appariscono all'occhio del volgo, perchè la natura non ha interdetto asso
lutamente alla mente umana l'investiga zione di tutte le qualità delle sostanze
o degli Esseri, nè di tutte le relazioni loro, nè di tutte le cause mediate, o
immediate de' suoi fenomeni; nel che conviene di stinguere la cognizione
puramente speri mentale dalla scientifica, e per contrap posto l'ignoranza del
volgo da quella del dotto. La sperienza è la guida, coll'aiuto della quale,
passiamo dalle conoscenze co muni alle scientifiche, o sia da fatti par
ticolari a generali: per mezzo de'fatti ge nerali noi acquistiamo la conoscenza
di talune delle leggi della natura: la cono scenza di tali leggi è quel che
forma la cognizione scientifica: la sperienza in som ma ci dà il particolare, e
la scienza il ge nerale. Ma la natura ferma a dati punti i nostri passi, e
rende vana ogni ulteriore curiosità: cotesti punti di fermata impe discono
l'ingresso a due grandi misteri, de quali uno risguarda la materia, e l'al tro
lo spirito; il primo è il costitutivo delle cose, o sia la conoscenza del primi
com ponenti della materia: il secondo, è l'a- zione dello spirito sopra del
corpo, o sia come l'intelligenza e la volontà muovano la materia. Quì è dove
l'ignoranza del volgo confondesi con quella del dotto: quì cessa ogni
cognizione sperimentale o scien tifica, e sottentrano le congetture e le ipo
tesi metafisiche. Intanto lunga è la catena delle cause secondarie, che son tra
mezzo a fenomeni naturali e alla volontà del primo motore. Questo è il campo
dato alle umane inve stigazioni, campo inesausto, nel quale ogni nuovo passo
che si dà, apre alla mente una più ampia cognizione della sa – 16 – pienza che
presiede all'ordine immutabile dell'universo. Cotesto studio non pertanto è più
ricco di fenomeni nel mondo sen sibile, perchè più lunga è la catena delle
cause seconde, per mezzo delle quali opera la Mente che lo ha creato e lo
conserva. E però le scienze fisiche van sempre più innanzi nel loro progressi,
i quali per quanto grandi e maravigliosi appariscano a noi, non cesseranno di
preparare nuo ve maraviglie alle future generazioni. Più angusto per contrario
è il cerchio del fe nomeni invisibili dello spirito, perchè sce vra di
composizione e di parti è la sua sostanza, perchè più immediata è l'azione
della suprema intelligenza che lo dirige, e perchè interni e non esterni sono i
mez zi, che vi adopra. La luce del vero, ri flessa nelle facoltà dell'animo, e
soprat tutto nella coscienza, è il mezzo unico per lo quale la Divina sapienza
manifesta all'uomo l'ordine morale dell'universo. Al chiaror di questa luce la
sua mente pene tra nella cognizione, così delle leggina turali, come
dell'ordine, che muove e regge i due mondi, cioè il sensibile e l'in
tellettuale. Ma non presuma la mente, nello studio degl'invisibili fenomeni del
pensiero, di giugnere alla conoscenza del come l'intelligenza muova la materia,
sic come nello studio del fenomeni materiali, e delle loro cause efficienti,
non isperi di giugnere alla conoscenza del costitutivo e dell'essenza delle
cose! Son questi i due cancelli del sapere umano. V. Fenomeno, Materia,
Qualità, Relazione, Sostanza. Veniamo ora alla terza delle cagioni del
l'ignoranza volontaria, che Locke deriva o dalle idee incompiute che ci
formiamo, o da un difetto di riflessione e di diligen za. « Questo è quel che
avviene quando noi ommettiamo d'investigare le idee in termedie, le quali
potrebbero mostrarci la convenienza o disconvenienza delle une a rispetto delle
altre. Così molti ignorano le verità matematiche, non per difetto matu rale di
capacità, ma perchè non si appli cano a indagare, e ad esaminare le loro
relazioni. L'abuso de vocaboli, a giudizio del cennato autore, è la causa più
fre quente di questo volontario difetto, per chè è impossibile scoprire la
convenienza o disconvenienza delle idee, quando il pensiero versa e si aggira
circa le voci, che hanno un significato incerto ed am biguo. Infatti i
matematici, accostuman dosi a riflettere sopra le idee stesse, e non sopra i
vocaboli che le esprimono, hanno evitato le difficoltà e le dispute di parole,
le quali hanno arrestato il progresso delle altre scienze. E per contrario
nelle altre conoscenze che risguardano il mondo intel lettuale, quelli che le
hanno professate, sonsi smarriti in un labirinto di parole e di controversie,
sì che hanno essi stessi ignorato a qual punto ne fossero, e non han saputo
nelle loro proprie opinioni di stinguere il vero dal falso». Senza negare, che
il falso o il dubbio significato devo caboli abbia sovente messo fuori di
strada la riflessione, e le sia stato d'ostacolo a rintracciare le qualità e le
vere relazioni de subbietti del pensiero; a noi sembra, che non possa cotesto
abuso essere ad dotto come causa, nè come esempio dei due vizi che l'intelletto
suole contrarre, cioè, o di prendere per chiare le idee confuse e incompiute, o
di astenersi dal l'analisi delle idee complesse, delle quali non vede le
relazioni e le conseguenze. Molto meno ci sembra che l'esempio delle
matematiche faccia pruova dell'assunto di Locke. Imperocchè l'incerto ed
erroneo si gnificato devocaboli può mettere la rifles – 17 – sione in una falsa
strada, ma non la im pedisce di progredire nella investigazione delle qualità o
relazioni delle idee. E di ciò fan pruova le stesse controversie di parole,
nate dal falso, o ambiguo signi ficato del vocaboli, le quali sono altret tante
progressioni della mente, fondate so pra un significato assunto come vero. E
quanto alle matematiche, se l'esempio del la geometria potesse dimostrare la
propo sizione di Locke, che i matematici sono stati esatti investigatori delle
relazioni delle idee, perchè han messo le idee stesse in luogo de'segni ;
l'esempio dell'algebra, che è interamente fondata sull'uso dese gni e non delle
idee, infermerebbe il suo argomento. Ma che vuol dire il mettere le idee in
luogo desegni? Ecco l'esempio d'una nozione confusa, o incompiuta, che per
secoli si è tenuta per chiara, e sulla quale si è da molti grandi uomini fon
dato tutto l'edifizio della ideologia. Se per idea s'intende una specie
impressa, o sia una immagine dell'obbietto scolpita nell'anima, può in tal caso
concepirsi il segno o il nome dato a quella immagine, come una cosa diversa e
distinta dalla idea; e però potrebbesi mettere da parte il segno, e concepir da
se la cosa signi ficata. Ma se per idea deesi intendere il concetto stesso
dell'animo, inseparabile dal nome per lo quale lo distinguiamo , come
potrebbesi metter da parte l'uno, e ritenere l'altro ? Il vantaggio che la geo
metria ha sulle scienze speculative del pen siero è , che quella versa circa
obbietti sensibili, dequali le qualità e le relazioni son determinabili per
misura di quantità; laddove queste sono fondate sopra concetti dell'animo,
dequali il significato e le re lazioni son determinate dalla opinione, o sia
dal vario giudizio degli uomini; ond'è che per acquistarne nozioni chiare e di
stinte, e per discernerne le giuste relazio ni, uopo è che essi sieno calcati
sopra i tipi della ragione, o sia della comune ve rità. Le nozioni incompiute,
e l'indolenza dell'animo nell'investigare, son vizi che l'intelletto contrae, e
però sono effetti e non cause. Convien dunque cercare l'ori gine di tali vizi
nelle cause, le quali fan deviare la mente da comuni principi del vero. V.
Idea, Segno. E in prima convien dichiarare, che noi chiamiamo volontaria
qualunque ignoran za, che l'uomo potrebbe evitare, se vo lesse o potesse sempre
fare uso di tutta la capacità, di cui la natura lo ha do tato; sì che con tal denominazione
noi esprimiamo tanto l'ignoranza la quale na sce dal difetto d'istruzione,
quanto quello stato di false credenze ed opinioni, nelle quali spesso siamo
indotti per educazione, o per altro abito di falsi ed anticipati giudizi, di
cui non abbiam saputo spo gliarci. In questo senso, l'uomo che non pratica quel
che praticò Socrate o Carte sio, che non ricorre al dubbio metodico per
depurare la sua cognizione, o per rifarla da nuovo, direbbesi ignorante al pari
dello idiota. In altri termini conſon diamo nello stesso vocabolo tutti i gradi
della ignoranza vincibile e invincibile. Co testi due significati, che nella
filosofia pra tica conviene distinguere, possono essere confusi nella
teoretica, nella quale consi deriamo l'ignoranza come il contrapposto della
cognizione, e come uno stato di pri vazione, nel quale l'uomo cade per fatto
suo, e non della natura. Ciò non ostante l'analisi delle diverse cause
dell'ignoranza giova non solamente per farne conoscere le origini, ma ancora
per additarci i rimedi, pe quali l'abito della riflessione può con 5 - - 18 –
durre la mente a quel perfetto stato di co gnizione, che corrisponde alla sua
natu rale capacità. Una tale analisi fu tentata da Bacone, il quale ridusse a
quattro le cause degli errori che nascono dalla vo lontaria ignoranza : 1.º la
comune ten denza a spiegare la natura delle cose ignote per le vie, che son più
alla portata della mostra capacità, o più conformi al proprio interesse: 2.º
l'educazione o l'autorità, per la quale acquistiamo pregiudizi, o sia for miamo
anticipate opinioni, di cui non di scutiamo la verità : 3.º l'abuso, o i vizi
del linguaggio, pel quale mezzo imma giniamo essere le cose conformi a nomi, e
crediamo in essi vedere le essenze delle cose stesse: 4.º i falsi sistemi di
filosofia, pe quali formiamo erronei concetti della verità e della realità
delle umane cono scenze. Son queste le cause dell'ignoranza ch'egli chiamò
idoli della tribù, della spe /onca, del foro, e del teatro. V. Idolo,
Prestigio. Scrutinati rigorosamente gl'idoli di Ba cone, pare che taluni sieno
piuttosto esem pi, che cause di errori; ed altri, sebbene possano essere
considerati come sorgenti di opinioni e di giudizi falsi, pure si ri feriscono
ad una causa più generale, cui sarebbe meglio dovuto il nome di primi tiva. Le
cause dell'errore debbon essere derivate dalle stesse fonti della cognizione,
le quali son due, le credenze e i giudizi; imperocchè noi cominciamo dal
credere, e di poi passiamo a ragionare. E siccome l'ignoranza non è altro che
la privazione, o il difetto di cognizione; così ne segue che a due sole possano
essere ridotte le primitive e vere cause di tutti gli errori, cioè l'abuso
dell'autorità, e i pregiudizi, o sieno le false anticipate nozioni sopra le
quali fondiamo i nostri giudizi. L'edu cazione, che radica in noi le false cre
denze e i pregiudizi, altro non è che l'abi to, il quale va giornalmente
confermando le prime impressioni degli esempi e delle opinioni altrui, che i
nostri primi giudizi avevano ritenuto come veri. L'abuso del linguaggio è uno
de mezzi, pe quali for miamo falsi concetti delle essenze, o sia del
costitutivo delle cose ; siccome le im perfezioni dello stesso linguaggio sono
un altro mezzo che involontariamente ci stra scina a stabilire similitudini ed
analogie tra le cose sensibili, e gli obbietti invi sibili del pensiero. V.
Abito, Autorità , Credenza, Giudizio, Linguaggio, Pre giudizio. Dalle cose sin
qua dette, manifesta ap parisce la differenza che passa tra l'igno ranza e
l'errore: l'una è la mancanza delle idee necessarie a conoscere: l'altra è una
falsa conoscenza: quella è la causa, e questo l'effetto, comechè non sempre
l'errore nasca dalla ignoranza, o l'igno ranza produca l'errore: la prima
genera il secondo quando l'opinione o il giudizio contrario al vero è prodotto
dal difetto di conoscenze, che aver dovremmo e non abbiamo. V. Errore. Nella
filosofia pratica l'ignoranza è con siderata, tanto come ostacolo all'adempi
mento del dovere e all'esercizio della vir tù, quanto come causa dell'errore e
delle azioni biasimevoli. E però va soggetto ad un maggior numero di
distinzioni, e a di verse gradazioni. A rispetto della sua ori gine,
l'ignoranza pratica, al pari della speculativa, distinguesi in due sorte, vo
lontaria cioè e involontaria, ma questi due vocaboli prendono un significato re
lativo più che assoluto. L'involontario non abbraccia solamente quel che
trascende l'umana capacità, ma altresì l'ignoto per – 19 – fatto non proprio, o
per un abito invo lontario nel progresso, comechè fosse vo lontario nel suo cominciamento;
sì che molte di quelle ignoranze, le quali spe culativamente direbbonsi
volontarie, pra ticamente son reputate involontarie. Lo stesso significato
relativo prendono l'igno ranza vincibile e la invincibile, dapoichè la
possibilità delle azioni è misurata non coll'astratto senso metafisico, ma col
senso compatibile colla umana condizione; d'onde segue che l'ignoranza
invincibile per fat to, per abito, o per difetto relativo e non assoluto, si
confonde e si scambia colla in volontaria. E quanto alla vincibile, distin
guesi ancora l'escusabile dalla inescusa bile, nella qual distinzione entrano
le varie gradazioni della colpa, della negligenza, e della semplice ommissione.
V. queste voci. Per rispetto alla cosa ignorata, distin guesi ancora da moralisti
e da legisti, l'ignoranza di fatto da quella di diritto: la prima non solamente
è scusabile, ma si ha per invincibile ed involontaria: la seconda è sempre
vincibile, e però non escusabile e sempre colposa. Non è per messo ad alcun
uomo l'ignorare i prin cipi della legge naturale, dacchè la natura l'ha
scolpita nella mente di tutti; siccome non è permesso ad alcun cittadino l'igno
rare la legge civile, che il legislatore rende nota a tutti per mezzo della
publicazione. L'ignoranza finalmente per rispetto alla maggiore o minore
influenza che può avere nella determinazione della volontà, suol es sere
distinta in essenziale o accidentale essenziale è quella che versa circa il me
rito o valor dell'azione; per modo che se l'autor suo avesse conosciuto la
qualità del fatto, o la possibilità delle sue conse guenze, se'n sarebbe
astenuto : acciden tale è quella, che non ha alcun legame comotivi che han
determinato la volontà, per modo che l'azione può essere conside rata come
indipendente dal fatto ignorato L'errore che è conseguenza dell'igno ranza,
prende lo stesso carattere della causa che lo produce; e però v'ha di tante ca
tegorie dell'errore, quante ve n'ha del l'ignoranza stessa. L'errore
involontario e il volontario, l'invincibile e il vincibile, l'escusabile e
l'inescusabile, l'essenziale e l'accidentale, l'error di fatto e di di ritto,
esprimono le stesse idee contenute nelle sopracennate distinzioni, e dinotano
la medesima qualità, che dalla causa si trasfonde nel suo effetto. Ciò non
ostante, non sempre l'errore è conseguenza dell'ignoranza. L'error vo lontario,
il quale nasce da difetto di ri flessione e di accorgimento proviene dalla
medesima origine dell'ignoranza, ma non è da questa prodotto. Chi mal intende o
male applica la legge di natura, non può dirsi che l'ignori ma ne stravolge il
vero senso per indolenza, o per poca maturità di giudizio. V. Errore. IGNOTo
(spec.), contrapposto di noto, che nel linguaggio scientifico si adopera per
esprimere la verità che si cerca di ricavare dalle relazioni delle cose nole.
V. Moto. L'ignoto è il campo, nel quale l'uomo esercita quello istinto
investigatore, che dicesi curiosità. Esso abbraccia tanto quel che ignoriamo
per difetto di conoscenze, di fatto o di riflessione, quanto quello che è al di
là delimiti della umana capa cità, o comprensione. Le prime due spe zie
d'ignoto han dato nome all'ignoranza: la terza si scambia coll'incomprensibile.
V. Curiosità, Incomprensibile. Intanto nell'ignoto racchiudonsi le pruo ve di
un altro ordine di verità superiori a – 20 – alla ragione umana. Quali sono le
parti primitive di tutte le cose? quale l'essenza della materia ? quale la
natura dello spi rito? in che consiste il principio della vita animale? come la
volontà genera il moto? come gli obbietti materiali per mezzo delle sensazioni
passano nello spirito? Tutte le cennate quistioni presuppongono altrettanti
fatti certi, de quali non sappiamo spiegare le ragioni; vale a dire, che gli
obbietti sono noti, ma ignote sono le qualità loro, perchè superiori alla
nostra comprensione, e riservate alla cognizione d'una mente della nostra
maggiore. L'ignoto dunque ci somministra un invincibile argomento
dell'esistenza d'un Essere sapientissimo, la prima di tutte le cause, che in se
con tiene la cognizione di quello, cui i sensi e la ragion dell'uomo non
possono perve nire. Ed applicando lo stesso ragionamento nlle opere della
natura, noi vediamo la minima parte delle maraviglie dell'univer so, e colla
immaginazione più che cosensi concepiamo l'immensità dello spazio, le grandi
moli, e i corpi luminosi del firma mento; sì che da ciò che ignoriamo, più che
da quel che percepiamo, si forma in noi l'idea di quel magnifico tutto, che
chiamiamo universo. I fatti particolari dai quali ricaviamo una tal'idea son
certi, ma le qualità e gli accidenti che entrano nella composizione del tutto
ci sono igno te; non altrimenti che di una macchina, della quale conoscessimo i
componenti, ed ignorassimo l'artifizio. Ora procedendo an cora più oltre, noi
dal finito ricaviamo la nozione dell'infinito, prima relativo e poi assoluto.
Che l'infinito esista, è una il lazione che noi ricaviamo dal finito, ma le sue
qualità trascendono l'umana com prensione. Deduciamo dalle cose dette due
conseguenze: la prima, che l'ignoto è scala alla mente per iscoprire l'esistenza
di verità e di fatti superiori alla nostra capacità: la seconda, che l'ignoto
non può essere motivo di negare la realità del le credenze istintive, che ci
vengono dal la natura, ma è al contrario ragione per giugnere alla cognizione
della prima causa di tutte le cose, e per formare il concetto dello infinito.
V. questa voce. ILARITÀ (prat.), contentezza d'animo di mostrata ancora nel
volto. V. questa voce. È voce che ci viene da latini, presso i quali aveva lo
stesso significato, e po trebbe dirsi un sinonimo di gaiezza e di giulività, se
per proprio significato non esprimesse più l'apparente, che la vera e solida
allegrezza, tanto nell'italiana quanto nella latina favella. In pruova di ciò,
i no stri han distinto l'ilarità di volto dalla ila rità di animo; e i Latini
contrapponevano l'ilarità al gaudio e alla interna letizia : nolo tibi umquam
deesse laetitiamº volo illam tibi domi nasci: nascitur, si modo intra teipsum
sit ceterae hilaritates non implent pectus, sed frontem remittunte leves sunt, nisi
forte tu fudicas illum gaudere, qui ridet (Senec, epist. XXIII.). ILLAZIONE
(disc.), conclusione, la qual si deriva dall'argomento. È un latinismo, il
quale è sinonimo di conseguenza. ILLEcEBRA e ILLECEBRoso (prat.), lati nismi, e
perfetti sinonimi di lusinga, o allettamento, e di lusinghevole. V. que ste
voci. ILLECITo (prat.), tutto quel che è vie. tato dalle leggi divine, o umane,
ed è contrapposto del lecito. V. questa voce. – 21 – ILLETTERATo (disc. e
prat.), privo o ignorante di lettere, sinonimo d'idiota. V. questa voce.
ILLIBATEzzA (prat.), innocenza o pu rità di costume, che non ha macchia di
sorta alcuna. Dicesi tanto dell'animo, e della perfetta virtù, quanto in un
senso più limitato, di qualche particolare dote, come del di sinteresse, della
imparzialità nella giusti zia, della castità, e di ogni altra qualità propria
della dignità, o del decoro del l'uomo. ILLIBERALE (crit. e prat.), tutto quel
che non è conveniente ad una ingenua educazione. È negazione del vocabolo
liberale, e però altra volta chiamavansi illiberali le arti meccaniche ed ogni
occupazione con siderata come vile, o degna di servile con dizione. V. Arte. In
un senso traslato dassi la stessa de nominazione a fatti e a sentimenti non de
gni di uomo generoso e dabbene. ILLUMINAZIONE (spec.), ispirazione, che la
mente riceve per una luce naturale o divina, la quale si spande sopra le sue
facoltà. - I teologi hanno adoperato un tal voca bolo per esprimere gli effetti
della luce, che infonde nell'anima la grazia divina. La filosofia può per
analogia usarlo per dinotare quella naturale luce del vero, che rischiara la
ragione e la coscienza dell'uomo; anche perchè niun'altra pa rola esprime
meglio la spontaneità d'un pregio, che lo spirito porta seco, e che non può
riconoscere se non dal suo Autore, ILLUSIONE (spee. e prat.), errore pro dotto
dalla somiglianza delle sensazioni, V. Sensazione, Somiglianza. L'illusione è
fondata sopra l'apparenza, ma è accompagnata da un falso giudizio intorno alla
realità dell'obbietto. La falla cia di tal giudizio nasce dalla precipitanza,
colla quale sogliamo scambiare l'obbietto presente con un altro lontano, o sia,
è prodotto da una falsa somiglianza, o da falsa associazione d'idee. V.
Apparenza, Associazione, Somiglianza. IMBECILLITÀ (prat.), debolezza del cor
po, che per un traslato si applica ancora all'animo o alla mente. Dice più che
debolezza, perchè nel suo senso proprio esprime mancanza di forze e bisogno di
sostegno; e nel morale o traslato vale infermità di mente, che si avvicina alla
stupidità. IMBRoGLIo (prat.), confusione o disor dine preparato per frodare o
ingannare altrui. Differisce da intrigo, perchè questo può non contenere frode,
esprimendo soltanto un intralciamento di fatti per lo quale si possa più
facilmente pervenire ad un fine. Differisce pure da raggiro o rigiro, per chè
queste voci esprimono una pratica se greta e tortuosa sì, ma minore dell'intri
go, come son le pratiche amorose, e ogni negoziato coperto. È diverso ancora da
inviluppo o vilup po, perchè queste due voci indicano un aggruppamento di fili,
da quali è difficile slacciarsi. Quantunque nell'uso comune del par lare tutti
gli anzidetti vocaboli sovente si scambiano gli uni per gli altri, ciò non
ostante ciascuno ha nella sua etimologia – 22 – la ragione del proprio significato,
sì che non possono aversi come sinonimi. V. In trigo, Rigiro, Viluppo. IMITARE
(spec. disc. e prat.), fare a simiglianza, o seguire l'esempio altrui. La
tendenza ad imitare è un principio istintivo della natura sensitiva, e però è
comune a tutti gli animali. Per essi è una lezione della natura, la quale
insegna loro a fare uso delle facoltà, di cui sono stati dotati. Nell'uomo è un
principio anche razionale che dirige l'uso delle sue facoltà intellettuali, e
gli somministra le prime nozioni della possibilità e dell'analogia. V.
Analogia, Possibilità. IMITAZIONE (spec. e crit.), tutto quel che si fa sopra
l'esempio altrui. L'imitazione è sì connaturale agli uo mini e a bruti, che va
considerata, come un istinto animale e razionale insieme. A'bruti la virtù
imitatrice è stata data, come una pratica lezione di quel che con viene alla
conservazione, all'uso della vita, e alla rispettiva condizione loro. Negli uo
mini prende il doppio carattere d'istinto animale e razionale. A fanciulli è
prima maestra del parlare, del modulare la voce, del gestire, e delle azioni,
che essi com pongono ad esempio del genitori, delle balie, degli educatori, e
di tutte le per sone colle quali più frequentemente con VCTSaIlO. Ma l'uomo
fuor dell'infanzia è pure un animale imitatore, di che deesi trovare la ragione
nella sua natural costituzione. I primi passi delle sue intellettuali facoltà
son segnati sopra l'imitazione, perchè egli imita i pensieri e le azioni di
coloro che preseggono alla sua istruzione, e perchè nel Progresso della vita è
naturalmente dispo sto ad imitare tutto quel che approva negli altri. Il
fondamento di questa naturale pre disposizione dell'animo nostro, è l'autorità
che esercitano sopra di noi la testimonianza e le opinioni di quelli, che
cominciano a dileguare le tenebre della nostra igno ranza, e che ci tramandano
i principi del le umane conoscenze. L'imitazione dun que non è , se non la
conseguenza del l'autorità, e della credenza che noi le pre stiamo; e questa
credenza appunto, con siderata come una naturale inclinazione, è quel che si è
designato col nome d'istinto razionale.V. Autorità, Credenza, Istinto. Tanto è
vero che l'imitazione sia una traccia aperta in noi dal nostro Autore, quanto
ci ha Egli dotato d'una facoltà, per essenza imitatrice, qual'è l'immagi
nazione. Di questa facoltà è proprio il comparare insieme gli obbietti del
pensie ro, il rilevarne le somiglianze, l'astrarre le qualità del subbietti, il
generalizzarle, il formare in somma il simile, che è ap punto l'imitare. Ad
essa dobbiamo l'arte di ritrarre le bellezze della natura, di trasportare sul
marmo o sulla tela le sue belle forme, la vivezza de suoi colori, la vaghezza e
la varietà de suoi ornati, e di ritrarre per sino il bello, il grande ed il
sublime dello spirito, della parola e dell'azione. D'onde, e perchè tanto pen
dio per l'imitazione ? perchè la natura ci ha collocato nel gran teatro delle
sue opere per esserne i contemplatori; perchè in questa contemplazione è tutta
la nostra scienza ; perchè gl'istinti altro non sono che la tradizione della
stessa natura; e finalmente perchè in lei sola troviamo ri posti i tipi del
vero, del bello, e del per fetto, che sono gli obbietti della umana cognizione.
V. Bello, Immaginazione, Perfetto. – 25 – IMMAcoLATo e IMMACULATo (prat.), qua
lità che si dà alle anime pure, e non contaminate da verun difetto, o macchia.
V. Macchia. IMMAGINARE (spec.), il formar col pen siero un concetto vero o
supposto, simile ad altri concetti veri, o anche da questi dissimili, ma
possibili. È un derivato d'immagine, siccome l'immaginazione è un derivato
dello im maginare; ed è diverso dal concepire, il quale verbo esprime una
operazione della ragione, o sia della virtù comprensiva del la mente. Può
questa concepire ancora un obbietto supposto e considerarne le qua lità, ma il
supporlo e il presentarlo alla ragione è proprio di quella facoltà che ri
chiama le idee passate, che dà esistenza alle cose possibili, e che ne forma an
cora delle nuove, cioè della immagina zione. V. questa parola. IMMAGINATIvA
(spee. e crit.), sostantiva mente preso, è la virtù stessa, che l'im
maginazione ha di ricavare obbietti del pensiero dalle immagini desensi. V. Im
maginazione, Immagine. In questo senso, l'immaginativa è stata noverata tra le
tre principali potenze del l'anima, insieme coll'apprensiva, e colla
memorativa. V. Apprensiva, Memora itiva, Potenza. Differisce nell'uomo da
quella de'bruti, perchè l'uomo, come dice il Gelli, serba, insieme colle
immagini, i modi e ogni altra parte dell'idea complessa, formata mercè dell'intelletto.
L'origine di questo vocabolo è viziosa, perchè nasce dal presupposito delle
antiche scuole, che spiegavano la percezione delle idee sensibili per le
impressioni delle im magini. Ma l'uso legittima ancora le false etimologie. V.
Idea. IMMAGINAZIONE (spec. e crit.), facoltà dell'anima, per la quale dalle
idee o no zioni altra volta acquistate, formiamo un nuovo obbietto del
pensiero. V. Facoltà. Le operazioni della immaginazione son complesse, dapoichè
presuppongono la coo perazione della memoria, della concezione o apprensione, e
della facoltà di astrarre e di generalizzare. Il fondamento di tutte queste
operazioni sta nella memoria, che somministra i materiali, da quali l'imma
ginazione forma i suoi suggetti; d' onde segue che l'immaginazione sarebbe
sterile senza la memoria, da cui è alimentata ed arricchita. V. Apprensione,
Astrazio ne, Eccezione, Generalizzare. Taluni han distinto l'immaginazione pas
siva dall'attiva, ed han chiamato passiva quella che ha il solo poter di
ritenere le conoscenze acquistate, che è comune agli uomini ed a bruti, e si
riproduce senza concorso della nostra volontà ne sogni. Ma l'immaginazione
passiva, per rispetto alla sola virtù di ritenere, si confonde mani festamente
colla memoria, sì che il di stinguerla da questa conterrebbe una inu tile
addoppiatura della medesima facoltà. Attiva poi fu detta quella, che combina
insieme le conoscenze somministrate dalla memoria, le ordina, le paragona, e ne
forma nuovi suggetti del pensiero. Questa è la facoltà che merita il nome
d'imma ginazione, e va considerata per la diversa natura delle idee, alle quali
si rivolge, e pe'vari fenomeni che da essa dipendono. Ella riceve dalla memoria
le conoscenze già acquistate, e ne dà alla stessa delle nuove da se formate.
Seguendo dunque la natura delle idee, circa le quali può – 24 – versare,
l'immaginazione va meglio par tita in sensitiva ed intellettiva. Sensitiva è
quella che versa circa le idee acquistate per la percezione; laddove l'intel
lettiva si occupa delle nozioni acquistate me diante la riflessione. Cotesta
partizione corri sponde a quella della memoria.V. Memoria. L'immaginazione,
considerata per la varietà delle sue combinazioni corre die tro al vero, o al
supposto. Nel primo caso va in traccia di verità ignote, e nel se condo cerca
il verisimile: quel cammino mena alle invenzioni: questo al bello idea le, e al
dilettevole. Ella ha dunque due facce : è madre dell'invenzione ; è ali mento
della poesia e di tutte le arti del l'imitazione e del gusto, V. Bello, Imi
tazione, Invenzione. L'immaginazione sregolata o capricciosa produce fantasimi
e deliri, simili a quelli de sogni. V. Fantasia, Fantasima, Fan tasticheria. La
grande forza dell'immaginazione, bene o mal secondata dalle altre potenze
dell'anima, mena del pari ad ardite spe culazioni, vere o false, utili o
dannose, sì che è causa del genio, dell'entusiasmo, e del fanatismo. V.
Entusiasmo, Fana tismo, Genio. IMMAGINE (spec.), ritratto d'un obbietto
percepito per mezzo della sensazione. Altra volta le idee concepivansi, come altrettante
immagini degli obbietti esterni i quali per venivano alla cognizione
dell'anima, non immediatamente e quali essi sono, ma me diatamente, e come per
mezzo d'uno spec chio; il perchè eran dette pure specie o for me.V. Idea,
Forma, Percezione, Specie. Immagini diconsi pure le idee serbate dalla memoria,
o ripresentate dall'imma ginazione, che da esse prende nome. Immagini in fine
diconsi le finzioni e le supposizioni che l'immaginazione for ma dalle idee o
nozioni altra volta acqui state. V. Immaginazione. IMMAGINoso (disc. e prat.),
pieno, o fecondo d'immagini. IMMANE e l'IMANITÀ (prat.), qualità di fierezza e
di crudeltà, che non è mode rata da alcun sentimento di pietà. L'immane
equivale allo spietato e al fe rino; sì che tanto l'uno quanto l'altro voca
bolo possono aversi come due di quei per fetti sinonimi, che ci vengono dalla
lingua latina, V. Crudeltà, Ferità, Ferocia. IMMANSUETo (prat.), negazione di
man sueto. V. questa voce. IMMATERIALE (spec. teol. e ontol.), quel che non è
composto, nè divisibile, o sia quel che è sfornito di tutte le proprietà della
materia. V. Materia. Di molte voci può darsi una definizione negativa e non
affermativa. Tali sono quel le che dinotano sostanze, di cui non pos siamo
conoscere la vera natura, e che per conseguente dobbiamo considerare come
uniche nel proprio ordine. Discernendole noi per le rispettive qualità loro,
possiamo meglio intenderle che spiegarle, e di molte possiamo meglio dire quel
che non sono, che quel che sono. Da ciò segue, che gli antichi e i mo derni
filosofi han creduto parlare con mag gior precisione, dicendo l'anima immate
riale, o sia semplice, indissolubile, e non soggetta a distruzione come il
corpo. Tal è il fondamento della distinzione che fassi nel linguaggio
filosofico tra l'immateria lità, e la spiritualità. Per verità pare, – 25 – che
essendo la voce spirito un contrap posto di materia, e ciò tanto nel comune
quanto nello scientifico linguaggio, l'ad diettivo spirituale potrebbe del pari
es serlo del materiale. In somma, noi dia mo, senza pericolo di equivoco, una
no zione sufficiente della natura di Dio, degli Angeli e dell'anima umana,
chiamandogli spiriti. Perchè tanta circospezione in di stinguere
nell'addiettivo, quel che non di stinguiamo nel sostantivo? La sola ragione che
se'n può addurre, è che della nozione negativa può darsi una dimostrazione, di
cui sarebbe incapace l'affermativa. V. Ani ma, Spirito. IMMATERIALITÀ (spec.
teol. e ontol.), astratto d'immateriale, adoperato come con trapposto di
materialità, o sia come mega zione della natura materiale. V. Materia. È
vocabolo spezialmente usato per dino tare la natura dell'anima umana, e delle
sostanze intelligenti. La sana filosofia è stata offesa persino dal dubbio,
fatto da taluni scrittori, se avesse potuto l'onnipo tenza divina aggiugnere
alla materia l'in telligenza ed il pensiero, del quale dub bio fu primo autore
Locke. Intorno a tal quistione, e circa la dimostrazione, sì di retta che
indiretta, della immaterialità del l'anima, vedi il nostro primo volume a pag.
188, e ivi la nota 64. IMMEDIATo (spec. e disc.), quel che è senza altro di
mezzo. Causa immediata dicesi da metafisici quel la cui è legato
necessariamente l'effetto, senza che se ne conosca altra intermedia.
Proposizioni immediate furono dette dai logici quelle, di cui la connessione
spie gasi per loro stesse, perchè il predicato è così essenziale al subbietto,
che non può nulla concepirsi di anteriore al medesimo, V. Causa, Proposizione.
IMMEMORABILE (spec. e disc.), quel che non può conservarsi nella memoria;
ovvero quel tempo trasandato, di cui il comincia mento è andato in
dimenticanza. IMMENSITÀ (spec. e ontol.), quel che non è capace di misura, o
per la qualità della cosa, o per difetto dell'umana capacità. Nel primo senso,
è attributo dell'infi. nito assoluto: nel secondo entra nella spezie
dell'infinito relativo o potenziale. È propriamente adoperato per esprimere
l'infinità dello spazio. In questo senso è un modo della idea dello spazio,
formato dalla facoltà che ha l'animo di aggiugner tanto alle quantità
determinate, quanto possa renderle indeterminabili ed inconce pibili. V.
Infinito, Spazio. IMMENso (spec. e ont.), quel che ha im mensità, tanto
assoluta, quanto relativa. V. Assoluto, Relativo. IMMENSURABILE (spec.),
proprietà del l'immenso, che per noi è incapace di mi sura, e però si applica
all'infinito. V. Im menso, Infinito. I geometri lo dicono incommensurabile. V.
questa voce. IMMISERICORDroso (prat.), contrapposto di misericordioso per forza
della particella negativa. V. Misericordioso. IMMoBILE (spec. e prat.), quel
che non ha, non esercita, o ha perduto la potenza del moto. V. Moto. La
distinzione delle diverse spezie del l'immobile, che fece Aristotele, non è 4 –
26 – altro che una partizione fondata ne'tre cen nati significati. Imperocchè chiamò
immo bile tutto quel che non è atto a muoversi, come il vacuo; quel che con
difficoltà si muove come il sasso che forma la cima d'un monte; quel che
lentamente si muo ve, come la testuggine; e quel che seb bene sia atto a
muoversi, pure non si muove per difetto di spinta; o che cote sto difetto
provenga da causa interna ne gli Esseri dotati di moto volontario, ov vero da
causa estrinseca, come nella pietra che è tenuta in alto sospesa. In questa ul
tima spezie trovasi quel che dicesi quiete. V. Quiete. L'esempio di questo
vocabolo dimostra, come una chiara definizione può rendere inutili molte delle
logiche categorie. lMMOBILITÀ (spec.), contrapposto di mo bilità. V. questa
voce. IMMODERANZA (prat.), difetto contrario alla virtù della moderazione. È proprio
di quella volontà, che non serba limiti, o che non sa contenere gl'im pulsi
degli appetiti e delle passioni. V. Mo deranza, Moderazione. IMMoDERATo
(prat.), quel che è fuor de limiti del naturale e del ragionevole. È un
perfetto sinonimo dello smodera fo, e può essere addotto come esempio de
sinonimi, che ci vengono da latinismi. (V. il disc. prelim.). IMMODESTIA
(prat.), contrapposto di mo destia. V. questa voce. IMMORALE (prat.),
contrapposto di mo rale, che si applica tanto al fatto, quanto alla persona. V.
Morale. IMMORTALE (spec. e teol.), quel che non è soggetto alla dissoluzione
della morte. V. Morte, Che è quel che la ragione concepisce come immortale? Dio
e l'anima umana / Dio per sua propria natura, e l'anima umana per volontà
dell'Autor suo, il quale avendola creata semplice, immateriale, e capace di
distinguer se stessa dalle altre cose, le ha aperto la cognizione d'un'altra
vita, e ha in lei impresso l'istinto e il desiderio della immortalità.V. Anima,
Dio, Immortalità. IMMORTALITÀ (spec. e teol.), lo stato d'una vita futura, non
soggetto più a dis soluzione di morte. È vocabolo consecrato ad esprimere la
condizione dell'anima umana, la quale è unita ad un corpo dissolubile e
mortale. Intorno alla dottrina della immortalità dell'anima, e alla triplice
dimostrazione che ne somministrano il senso della na tura, l'essenza stessa
dell'anima, e l'or dine dell'universo, vedi il nostro primo volume nella nota
66. IMMUTABILE (spec. e teol.), proprietà dell'Essere semplice, incapace di
qualsi voglia mutazione. Per eccellenza la diamo a Dio, come Essere semplice,
perfettissimo ed eterno. V. Mutabile, Mutazione. IMPAZIENZA (prat.),
contrapposto di pa zienza. V. questa voce. IMPECCABILE, IMPECCABILITÀ (teol.),
qua lità di Essere, che non può peccare. L'impeccabilità per natura appartiene
solamente a Dio. IMPENETRABILITÀ (spec. e ontol.), qualità della materia, per
la quale un corpo non – 27 – può rompere la coesione delle parti d'un altro
corpo. V. Corpo, Materia. Altri l'han detta solidità, consideran dola per la
resistenza, che un corpo op pone a qualunque altro, per non essere mosso dallo
spazio che occupa. V. Soli dità, Spazio. IMPENITENZA (teol.), contrario di peni
tenza. V. questa voce. IMPENSATAMENTE e IMPENSATo (prat.), av verbio e nome che
esprimono avvenimenti non preveduti, o sieno cose non attese, comechè si
potessero antivedere. IMPERATIvo (dise. ), uno de modi del verbo, che esprime
il comandamento, la preghiera, l'esortazione o il consiglio a fare qualche
cosa. E però conviene sempre alla seconda persona, e al tempo futuro.
IMPERCETTIBILE (spec. ), quel che non può essere avvertito dalla facoltà di
perce pire. V. Percepire, Percezione. È proprio degli obbietti sommamente
piccioli, o delle deboli e lontane impres sioni, che ricevono i sensi, come
della luce refratta, o del suono lontano, che non pervengono insino a nostri
sensi. È diverso dall'incomprensibile, e dal l'inintelligibile che si
riferiscono alle fa coltà intellettive, e non a difetto desensi. V.
Incomprensibile, Inintelligibile. Il Galilei ha adoprato questo vocabolo nel
senso proprio; il Segneri ed altri nel senso improprio dell'incomprensibile,
che de'essere evitato. IMPERCETTIBILITÀ (spee.), astratto d'im percettibile,
per lo quale va detto quel che abbiam notato per l'impercettibile. E però
diremo l'impercettibilità degli ob bietti, e non l'impercettibilità dell'umano
intendimento. IMPERFETTo (spec. e disc.), negazione del perfetto in tutti i
significati di questo vocabolo. V. Perfetto. Nel senso che gli danno i
gramatici vale tempo indefinito tra il presente e 'l passato, che esprime il
principio e'l pro seguimento di checchessia, senza mostrarne il fine; ed in
questo significato si usa pure in forza di sostantivo. IMPERFEZIONE (spec.),
difetto delle qua lità proprie dell'individuo, che il rende difforme dagli
altri Esseri della medesima spezie. V. Individuo, Qualità, Spezie.
L'imperfezione è propria delle cose mate riali o composte, le quali portano con
esso loro il principio della dissoluzione. Nelle sostanze spirituali non possiamo
concepire imperfezione, se non per quanto trovansi miste alle materiali. In
questo senso di ciam che l'uomo è una creatura imper fetta, perchè partecipa
della natura cor porea ; e in questo senso medesimo ris guardiamo
l'imperfezione sua, come l'ori gine del male fisico o necessario, cui è
soggetto. V. Corpo, Male, Sostanza , Spirito. IMPERITo e IMPERIZIA (prat. e
disc.), negazione di perizia, o di saper fare. Esprime una gradazione
dell'ignoranza, e non tutta l'ignoranza; dacchè v'ha de gl'imperiti in un'arte
o in un mestiere, che non possono dirsi ignoranti. Così nel l'italiana come
nella latina favella impe rito vale inesperto. I nostri buoni scrit tori han
detto imperito nell'arte, o im perizia de'medici in casi, ne'quali sareb i bero
stati impropriamente usati i vocaboli ignorante e ignoranza. I latini del pari
dissero imperite dictum, o imperite fa ctum, e non avrebbero potuto scambiare
l'imperite coll'ignoranter. Cesare fa dire ad Ariovisto, non se tam barbarum,
neque tam imperitum esse rerum, ut non sciret. Malamente dunque il vocabolario
della mostra lingua notò l'ignoranza come equi valente dell'imperizia. V.
Ignoranza. IMPERsCRUTABILE (spec.), quel che non può essere compreso, nè
ricercato dal l'umano intelletto. È proprio del soprannaturale, e del mi
racoloso. IMPERSEVERANTEeIMPERSEVERANZA(prat.), negazioni del perseverante. V.
questa voce. IMPERsONALE (disc.), aggiunto di verbo difettivo, o di modo del
verbo, che non riceve tutte le inflessioni corrispondenti alle persone del
nome. V. Difettivo. È necessario distinguere i verbi da modi, detti
impersonali. Verbi impersonali han chiamato i gra matici quelli, che hanno una
sola inflessio ne, corrispondente alla terza persona, come piace, giova,
conviene, piove, neviga ec. nella forma attiva; e nella passiva, come dicesi,
credesi, vuolsi, duolmi ec. Co testa denominazione è impropria, perchè suppone
la mancanza di qualunque perso na, mentre ve n'ha una, che è la terza; perchè
in molti casi nella terza persona è implicitamente compresa anche la prima; e finalmente
perchè sovente a verbi perso mali dassi la forma degl'impersonali, come negli
esempi del dicesi, del credesi, e del vuolsi. Per coprire tali difformità tra
la definizione e la cosa definita, i gra matici sono stati obligati di
distinguere gl'impersonali perfetti, dagl'imperfetti, e da personali, tramutati
in impersonali. Vale dunque meglio comprendere tra di fettivi i verbi, a quali
si dà una sola in flessione, senza negare loro la qualità di personali. Più
propriamente sono stati detti impersonali i modi deverbi i quali non hanno una
terminazione relativa alle fun zioni del subbietto, e non possono per con
seguente formare proposizioni. Tali sono l' infinitivo e il participio ne quali
non sono determinati nè persona nè numero, e son declinabili come i nomi. V.
Infini tivo, Participio. IMPERSUASIBILE, IMPERsu Asm ILITÀ (spee. e disc.),
qualità di persona incapace di arrendersi alla forza del ragionamento, per
ignoranza, o per ostinazione. IMPERTERRITo (prat.), incapace d'essere
atterrito. È più d'intrepido, che esprime la sola assenza della trepidazione.
Imperterrito è chi resta immoto a qualunque pericolo. V. Intrepido.
IMPERTINENTE (disc. e prat.), quel che non pertiene, o che è straniero al sug
getto del discorso, o al fatto presente. Vale ancora insolente o incivile con
ar roganza. IMPERTURBABILE, IMPERTURBABILITÀ(prat.), stato d'un animo che la
forza delle pas sioni non può smuovere. Seneca, seguendo l'opinione degli Stoi
ci, presuppone come necessaria alla vita beata l'assoluta imperturbabilità: qui
pru dens est, et constans: qui constans est, et imperturbatus, qui
imperturbatus est, – 29 – sine tristitia est: qui sine tristitia est, beatus
est : ergo prudens beatus est, et prudentia ad beatam vitam satis est (epist.
85). Ma questa imperturbabilità è più che umana! V. Perturbazione.
IMPERTURBAZIONE (prat.), ferma e si cura tranquillità d'animo. È voce usata dal
Salvini, che la spiega per ataraxia , o privazione di tumulto. IMPERvERsARE
(prat.), l'andar di male in peggio in qualunque azione illecitaosconcia.
IMPERvERTIRE (prat.), depravarsi. Si usa sempre nel neutro passivo. V. Per
versità e Perverso. IMPETo (prat. e disc.), forza e veemenza del moto. Nel suo
significato proprio, è vocabolo, che appartiene alla meccanica. Ne suoi
traslati è capace di quelle stesse varie si gnificazioni, che riceve il moto. E
però diciamo impeto di sentimento, di affetti, di passioni, o di discorso.
Gl'Italiani han ritenuto quella stessa varietà di significati, che gli davano i
Latini. V. Moto. IMPETUosITÀ e IMPETUoso (prat.), ec cesso d'impeto, di cui è
un accrescitivo o peggiorativo. In questo senso medesimo si usa il vocabolo
impetuoso. IMPIETÀ. V. Empietà IMPIGLIARE (prat.), usato nel senso neu tro
passivo, vale incepparsi e invilupparsi l'animo. Perchè l'animo tuo tanto
s'impiglia Disse il maestro, che l'andare allenti º DANTE. IMPLACABILE (prat.),
contrapposto di placabile. V. questa voce. IMPONDERABILE (spec.), qualità data
a taluni fluidi aeriformi, il peso de'quali si sottrae alla osservazione de
mostri sensi, e agli esperimenti di qualsivoglia instrumento meccanico. Tali
fluidi sono, l'elettrico, il magnetico, il calorico e la luce. Le proprietà
loro formano il suggetto della Fisica parti colare, ma l'imponderabilità sebben
rela tiva e non assoluta, va considerata come una eccezione ad una delle
qualità generali della materia, che è il peso. V. Materia, Peso. IMpossme
(spec. e ontol.), quel che ripugna alla natura, o all'ordine delle cose
naturali, e però non può avere esi stenza. V. Esistenza. È il contrapposto del
possibile. V. que Sla VOCe. I metafisici distinsero l'impossibile as soluto dal
fisico, e dal morale. Chia marono assoluto quel che è contrario alla natura
degli Esseri e delle cose, come sa rebbe che Dio non esistesse, o non fosse
immortale; che il cerchio fosse quadrato; che il corpo non occupasse spazio;
che le opere create nel tempo esistessero ab eterno; ed altre simili
ripugnanze, o con traddizioni, le quali presupponessero due cose, che non
possano stare insieme, e di cui una necessariamente distrugga l'al tra. Da
questo concetto dell'impossibile cui dassi ancora la denominazione di metafi
sico, nasce quello della immutabilità del le essenze di tutte le cose, le quali
se fos sero altramente costituite, sarebbero di verse di quel che sono; e nasce
del pari il principio della contraddizione, cioè che tutto quel che è, non può
nello stesso tempo non essere. V. Contraddizione. – 50 – Chiamaron poi fisico
quell'impossibile il quale resiste all'ordine delle cose natu rali, sì che un
avvenimento contrario a quest'ordine, sin che lo stesso reggerà, non può aversi
come possibile. Tal sareb be, che il sole non apparisse nel dì se guente
sull'orizzonte, o che torcesse per altra via il suo corso. Finalmente dissero
morale quell'impossibile relativo, che tra passa l'ordinaria misura delle forze
e della capacità dell'uomo, quantunque non im plichi contraddizione, che il
fatto giudi cato impossibile in realtà avvenga. E però dicesi moralmente
impossibile, che taluno situato a grande distanza da un ago fac cia passare un
filo per la sua cruna; che il primo dardo scoccato dalle mura d'una piazza
assediata vada a ferire in un de signato punto il corpo d'uno degli asse
dianti; che un uomo di sana e acuta mente non comprenda il senso d'una verità
ov via; o che un giudice d'intemerata pro bità, abbia fatto mercato della
giustizia. In tutti i dinotati esempi l'impossibile si scambia col difficile e
coll'inverisimile, o sia si esce dal rigore del significato scien tifico. V.
Relativo. Diverse altre denominazioni diedero gli scolastici all'impossibile
fisico e al mora le, come d'ipotetico condizionale, estrin seco, secundum quid
ec. Ma in realtà esse non erano che modi diversi da spie gare le cennate
distinzioni. IMPOSSIBILITÀ (spec. e ontol.), la no zione dell'impossibile, considerata
come qualità, o come ragione esclusiva della possibilità. V. Possibilità. Gli
scolastici la definirono repugnantia ad ezistendum, e tornarono a suddivi derla
in tante sorte, quante erano le spe zie dell'impossibile. Ognun vede la
superfluità di coteste di stinzioni e nomi, introdotti unicamente per
accrescere quell'apparato di parole, nelle quali nascondevansi le sottigliezze
e i so fismi della scuola. - IMPRECAZIONE (prat.), il desiderare e pregar male
contra gli altri, o contra se medesimo. IMPRESSIONE (spec.), orma della figura
d'un corpo duro, cagionato dalla pres sione sopra d'un altro corpo molle. Cote
sto significato è proprio delle cose mate riali. V. Corpo, Duro, Molle. Le
ambiguità, che un tal vocabolo ha prodotto nella filosofia, sono nate dalle
similitudini tratte appunto dalle cose ma teriali. Tali ambiguità sono
antichissime, dapoichè può affermarsi, che colle simili tudini cominciarono gli
uomini a spiegare i fenomeni della mente. In fatti taluni de gli stoici
definirono il comprensibile, o sia la loro catalepsia per mezzo della im
pressione, e di poi spiegarono l'impres sione per la stampa del ferro nella
cera. Taluni altri, per ischivare l'assurdo del l'effetto materiale, definirono
l'impressione come una modificazione o alterazione pro dotta nell'anima. Ma se
il primo concetto è falso, il secondo contiene certamente una confusa nozione,
a dichiarire la quale non potrebbesi pervenire in sino a che non si potesse
conoscere l'essenza dell'anima, e le leggi della sua associazione alla ma
teria. Di qua una novella pruova, che le idee semplici, tra le quali le
sensazioni, non son capaci di definizioni, e che nulla è tanto pericoloso nella
filosofia, quanto lo spiegare i fenomeni dello spirito colle immagini delle
cose materiali. V. Com prensibile, Definizione. – 51 – Ciò non ostante più per
metafora che per analogia, è stato cotesto vocabolo ap plicato alle operazioni
de sensi sopra lo spirito, e ancora alle cause degli stessi interni fenomeni
dell'animo. Di tal meta fora hanno abusato coloro i quali hanno spiegato la
sensazione, come una impres sione meccanica degli obbietti esterni so pra i
sensi; e più ancora quelli che scam biarono l'impressione colla percezione, e
la percezione coll'idea, per modo che l'idea passò ad essere una pretta impres
sione. - Hume tra tutti è quegli che ne abbia più abusato, avendo bipartito
tutte le per cezioni in pensieri o idee, ed impressioni: chiamò idee le
percezioni men vive, e le più forti, impressioni: riportò tutto a sensi, per
poi negare la realità delle sensazioni. Così ridusse tutte le operazioni e le
fa coltà dell'animo alla sola percezione, e le idee a semplici impressioni ; e
fondò so pra falsi principi l'edifizio del materia lismo e dello scetticismo.
V. Idea, Ma terialismo, Percezione. Per evitare simili ambiguità, non esclu
deremo il significato metaforico del voca bolo impressione, ma lo limiteremo
nei termini dall'analogia permessi; e diremo che la sensazione nasce dalla
impressione degli obbietti esterni sopra gli organi, nel quale senso non sarà
che un equivalente dell'azione. Lasceremo per conseguente nell'impenetrabile
segreto della natura il come gli obbietti esterni esercitino una tale azione, e
rinunzieremo al disegno di spiegare mercè d'un sol vocabolo il com mercio
dell'anima col corpo, IMPROBABILE e IMPROBABILITÀ (disc.), negazioni di
probabile e di probabilità. V. queste voci. IMPROBITÀ (prat.), pravità d'animo
e di costumi, giunta all'audacia, o alla inverecondia. V. queste voci. E voce
latina, contrapposto di probità, e sinonimo di malvagità. IMPaoBo (prat.),
sinonimo di malva gio, e contrapposto di probo. IMPROPERIo (prat.), detto
ingiurioso, o villania, di cui il convizio è un sinonimo. V. questa voce.
IMPROPORZIONALE e IMPRoPonzioNATo(spee.) negazione di quel che ha proporzione.
V. questa voce. IMPROPRIETÀ e IMPRoPRIo (disc. e prat.), quel che è
sconvenevole, o non adattato, tanto nell'azione, quanto nel discorso.
IMPRovEDENZA, IMPRovIDENZA e IMPRovIDo (prat.), negazioni di provedenza, e di
pro vido; qualità d'uomo non bene accorto di prevedere le cose, che debbono
avvenire. IMPRUDENZA (prat.), contrario di pru denza. V. questa voce. IMPUDENTE
e IMPUDENZA (prat.), qualità d'uomo che ha perduto la verecondia nel male
oprare, o nel disonesto parlare. IMPUDICIZIA (prat.), vizio opposto alla virtù
della pudicizia. V. questa voce. È il turpe amor della voluttà, sciolto dal
freno della verecondia e del pudore: è l'immondizia dell'anima, renduta sen
suale. V. Voluttà. IMPULSIONE E IMPULso. V. Moto. IMPUNITÀ (prat.), esenzione
dalla pena. – 52 – Cotesto vocabolo, appartiene al linguag gio delle leggi
secondarie o positive, a dif. ferenza del nome e dell'idea della pena, la quale
riconosce la sua origine dalle leggi primitive o naturali, e deriva dal le
nozioni della legge, dell'obligazione e della coscienza. V. Legge, Obligazione,
Pena. La perturbazione dell'animo, la qual produce l'inquietudine e la
tristezza, è la pena inflitta dal giudizio della coscienza. Ogni esterna pena
può essere scansata per la malizia del delinquenti, o per l'impo tenza della
publica potestà. Ma niuno può sfuggire l'interna pena del rimorso e delle
lacerazioni della coscienza, innanzi alla qua le non è chi resti impunito. V.
Coscienza, IMPUTABILE e IMPUTABILITÀ (prat.), quel che può essere ascritto a
difetto, o colpa, V. queste voci. Son vocaboli di più frequente uso nel
linguaggio delle leggi positive, le quali giudicano delle azioni esteriori. Ma
sic come ogni giudizio prende i suoi tipi dal la coscienza; nè può darsi fatto
punibile. dalle leggi positive, che la coscienza non abbia prima condannato,
così l'imputa bilità ha un significato morale primitivo, che determina e regola
quello di tutte le leggi secondarie, V. Coscienza, legge, INABILE e INABILITÀ
(prat.), negazione della potenza di fare. V. Abile, INADEGUATo (spec. e disc.),
qualità d'idea o di nozione non compiuta. V. Idea. INANIMARE e INANIMIRE
(prat.), dare o prendere animo, che vuol dire forza di CuOre. Quì la particella
in ha forza accresci tiva. Diſſerisce per qualche grado dall'in coraggiare. V.
questa voce. INANIMATo (prat.), vale senza anima. Quì la particella in ha forza
negativa, sì che diciamo le cose inanimate in con trapposizione delle animate.
Adoperasi anche come participio, e nel senso stesso del verbo inanimare, ma è
da evitarsi, tanto maggiormente, quanto la lingua ha l'equivalente di questo
signi ficato nell'altro participio inanimito. INAPPRENSIBILE (spec.), quel che
non può essere dalla mente compreso per di fetto di altre conoscenze, che aver
do vrebbe, e non ha, INARTIcoLATo (disc.), negazione di ar ticolato. V. questa
voce. Per un significato speciale, che il Var chi volle dare a questo vocabolo,
inarti colate furon da lui dette le lingue, « le quali non si possono scrivere,
come ne sono molte tra le nazioni barbare, e al cune tra quelle che barbare non
sono, come quella che usano nella Francia i Brettoni Brettonanti, chiamati
così, per chè non hanno mai preso la lingua fran zese, come gli altri Brettoni,
ma si sono mantenuti la loro antica, la quale si por tarono di Brettagna,
chiamata poi Inghil terra, donde furono cacciati colle armi; e come nell'Italia
la pura genovese». (Varchi Ercolano). Arbitrario è cotesto significato, del
pari che è la partizione, che il Varchi fece delle lingue. Se l'articolato si
riferisce ai suoni della voce e alle inflessioni della pronunzia, perchè
chiamare inarticolate le lingue, delle quali i suoni troppo com posti non
possono essere rappresentati dai – 55 – segni o caratteri della scrittura? V.
Ca rattere, Lingua, Segno. INARTIFICIOso (prat.), negazione di ar tificio. V.
questa voce. È vocabolo usato dal Salvini. INAvvEDUto (prat.), qualità d'uomo
che non volge l'animo alle cose presenti, o anche alle future, che posson
essere pre vedute. È una negazione dell'avveduto, ma è meno del disavveduto;
dacchè quel voca bolo esprime un che d'involontario, e questo contiene un che
d'inconsiderato. V. Avveduto, Disavveduto. INAvvERTENZA (prat.), negazione del
l'avvertenza. V. questa voce. L'inavvertenza contiene pure qualche cosa
dell'involontario, il perchè è meno della disavvertenza, e dista ancor di van
taggio dalla disattenzione, la qual presup pone colpa della volontà. V.
Attenzione. INAZIONE (prat.), volontaria cessazione dell'operare. È voce usata
dal Magalotti, che può essere applicata tanto in generale allo stato di quiete
delle facoltà attive o intellettive, quanto in particolare agli abiti viziosi,
che da tale stato sogliono derivare, come la pigrizia, l'indolenza, e l'apatia
o in differenza per qualsivoglia sentimento. INCAPACITÀ (spec. e prat.),
negazione di capacità. V. questa voce. INCASTITÀ (prat.), negazione di castità.
V. questa voce. Giusta la definizione di Ser Brunetto, « è abito, per lo quale
l'uomo pecca nelle cose dilettevoli, senza grande istanza di tentazioni,
siccome l'uomo che non è costretto, e va cercando le delettazioni ». È in
somma, il vizio, ridotto in abito. INCAUTo (prat.), negazione di cauto. V.
questa voce. INCENTIvo (prat.), provocazione o sti molo all'azione, lecita o
illecita che sia. È proprio degli appetiti sensitivi, con siderati come
principi d'azione. V. Azione. INCERTEzzA e INCERTITUDINE (spec.), stato di
sospensione, in cui l'animo si trova, quando il dubbio gl'impedisce di cono
scere, o di giudicare. V. Dubbio. Applicato all'atto stesso del giudizio,
scambiasi talvolta col dubbio, talvolta col probabile e coll'improbabile, e
tal'altra, ancora col vario evento delle cose future; onde diciamo motivi
d'incertezza, incer tezza degli umani giudizi, e incertezze del tempo e della
vita. INCERTo (spec.), nome di qualità, che riceve i diversi significati, che
soglionsi dare allo astratto, incertezza. INCIDENTE e INCIDENZA (disc.), parte
ac cessoria del discorso, che si lega al sug getto principale del medesimo. -
Gli ornati del discorso, nella prosa o nel verso, le similitudini, le immagini,
le spiegazioni, i comenti, le digressioni, sono incidenti per rispetto
all'argomento principale col quale divengon connessi per mezzo del
ragionamento. I nostri Italiani hanno particolarmente dato il nome d'in cidenze
alle digressioni. Proposizioni incidenti son dette in logica quelle che fanno
parte del suggetto o del 5 - 54 - predicato, e vengono all'uno o all'altro
congiunte per mezzo del relativo il qua le. Coteste proposizioni son di doppio
ge nere, esplicative o determinative. Espli cative son quelle che sviluppano e
rendon più chiara l'idea della proposizione prin cipale cui sono congiunte:
determinative le altre, che ampliano o restringono l'idea del vocabolo, al
quale si legano; d'onde segue che le incidenti esplicative possono essere
separate dalle principali, senza al terarne il senso; laddove inseparabili sono
le determinative, perchè disgiungendo l'in cidente dall'idea del principale
perde quel carattere di universalità o di particolarità, che da esso riceveva.
I gramatici danno le regole e gli esempi per dimostrare come una o più
proposizioni incidenti possano essere unite al suggetto; quali di esse pos sano
essere converse in proposizioni prin cipali, e come debbano essere collocate
nell'ordine del discorso. INCIDERE (crit.), intagliare col bolino oro, argento,
rame, legno o cristallo per imprimervi caratteri e figure d'ogni genere. E una
delle arti dette del disegno. INCITAMENTo (prat.), l'interno movi mento, per lo
quale gli appetiti, sensi tivi o razionali che sieno, indirizzano la volontà
all'azione. V. Azione. INCIVILTÀ (prat.), negazione e contrap posto di civiltà.
V. questa voce. INCLINAZIONE (spec. e prat.), disposizione dell'animo a date
azioni, la quale può na scere o dalla natura, o dall'abito. Le inclinazioni che
provengono da na turali tendenze dell'animo, possono ris guardare tanto il
piacere sensitivo, quanto il morale. Se sono relative ad obbietti sen sibili,
sogliono nascere dalla stessa con formazione degli organi, e da primi tipi
de'nostri bisogni: sono altrettante indica zioni o suggerimenti, pe quali la
natura indirizza la potenza attiva dell'uomo alla conservazione e al migliore
stato del pro prio essere. Ma quantunque noi risguar diamo coleste inclinazioni
sensibili, come veicoli dati a sensi; pur tuttavolta, im propriamente un tal
vocabolo si traspor terebbe agli Esseri dotati di sola natura sensitiva, tra
perchè noi le consideriamo come principi motori della volontà, e per chè la
ragione vede sempre la causa che produce le inclinazioni, e il fine cui sono
destinate. In somma noi facciam differenza tra esse e gl'istinti, e di questi
formiamo il concetto, come di cause materiali e mec caniche; mentrechè
consideriamo le incli nazioni come prette tendenze razionali, che secondiamo o
rifiutiamo a nostro pie no e libero arbitrio. E quanto a noi stessi, le
distinguiamo pure dagli appetiti e dalle passioni, perchè le inclinazioni sono
nella intensità più moderate sì degli uni che delle altre; per modo che ci
guidano e ci con ducono, senza spingerci, o strascinarci. V. Appetito, Istinto.
Quel che la natura ha predisposto per la vita sensitiva, lo ha pure con analogo
ordine praticato per le funzioni intellettuali e morali dello spirito, che ha
dotato di ten denze e di appetiti razionali. Scopo delle une e degli altri è
l'indirizzare l'uso delle interne facoltà al conseguimento del bene e del
piacer morale che lo accompagna. Esempi delle inclinazioni sensitive sono la
tendenza al conversare, al viver civile, al credere alla testimonianza del
sensi al trui, all'imitare: esempi delle intellettuali, – 5ò – la curiosità di
conoscere e di sapere, il desiderio di penetrare nelle cause di tutte le cose,
l'investigazione dell'avvenire, il ragionare per similitudini, e per analo gie:
esempi in fine delle inclinazioni mo rali sono, la pietà del dolore altrui,
l'af fezione per la fanciullezza, il rispetto per la vecchiezza, e la
benevolenza verso i simili, ed altre, che portiamo con noi stessi, e che più
vivamente sentiamo nel la prima età della vita. V. Affezione, Benevolenza.
Diverse dalle naturali sono le inclina zioni, le quali nascon dall'abito, e di
cui la forza è tale, che vince la stessa natu ra. Se l'abito viene a confermare
le na turali tendenze, irresistibili divengono le inclinazioni che risultano da
cotesta forza composta; l'effetto che ne risulta, è un rapido ed istantaneo
passaggio dalla di sposizione dell'animo al desiderio, e da questo all'appetito
e alla passione. E sic come l'abito è una forza accessoria, la quale può
attaccarsi alle buone e alle ree tendenze, alle sensitive, del pari che alle
razionali e alle morali; così ne segue che l'abito ha di per se solo la forza
di can giare in virtù le inclinazioni, se le man tiene nella dipendenza della
ragione; o in vizio, se a questa le sottrae. E però l'abito della continenza
rende l'uomo su periore a sensi, e il fa divenire uno spi rito puro e quasi
celeste; siccome e con verso l'abito della indulgenza pe sensi, lo rende servo
delle dilettazioni, e il fa discendere nella classe del bruti, i quali vivono
per obbedire alle loro macchinali impulsioni. Similmente l'abito delle inve
stigazioni erudite, o scientifiche fa dello studio delle lettere o delle
scienze un bi sogno inesausto dello spirito; e per con trario il disuso
dell'attenzione e della ri flessione finisce per estinguere le naturali
disposizioni dell'intelletto. E per non to gliere alla vita pratica i suoi
esempi, l'abito della benevolenza rende l'uomo soccorre vole generoso ed
eroico; laddove l'amor di se medesimo cangiato in usanza ed in costume, il
rende egoista, avaro, immi sericordioso, e crudele. V. Abito. INCOGITABILE
(spec.), quel che non può utilmente cadere nel pensiero, o a cui il pensiero
non può giugnere. E proprio delle cose soprannaturali, delle quali manca alla
mente ogni prin cipio d'investigazione. E un latinismo adottato in difetto di
altro derivato proprio del verbo pensare; trovandosi ricevuti dall'uso della
lingua i vocaboli impensatamente e impensato, e non l'impensabile. V.
Impensato. INcoGNITo (spec. e dise.), ignota qua lità o relazione d'un
subbietto noto. I matematici chiamano incognita la quan tità, che cercasi di
trovare nella soluzione de problemi. Per similitudine dassi la stes sa
denominazione a qualunque relazione o qualità ignota, cui si vuole pervenire
per mezzo delle altre relazioni o verità note. V. Ignoto. INcoLPABILE (prat.),
il fatto o la per sona, cui non può essere attaccata nota di colpa. V. questa
voce. INcoMMENSURABILE (spec. e ontol.), ter mine geometrico, del quale i
metafisici si servono per esprimere una proprietà del l'infinito. V. Infinito.
Secondo i geometri, e giusta una defi nizione del Viviani, conviene alle quan
tità, tra le quali non si dà mai parte ali it – 56 – quota comune, che possa
misurare ambe due. V. Quantità. INcoMMUTABILE (spec.), quel che rimane sempre
fermo per deliberato proposito. È diverso dall'immutabile, che rimane sempre
qual è per natura. E però diremo che incommutabili sono le leggi che Dio ha
dato alle cose mondane, e immutabili sono le essenze. V. Essenza, Immutabile.
INcoMPARABILE(disc.), quel che è sì perfetto nel suo genere che non può essere
ad altra cosa paragonato, o sia che non ha simile. In questo vocabolo la
particella in, ser vendo solamente a negare la possibilità della comparazione,
concorre a formare una proposizione affermativa della eccel lenza del
subbietto. V. Comparazione. INcoMPATIBILE (spec. e dise.), quel che non può
stare insieme con un altro, senza distruggerlo. È voce che vien dall'antica
Fisica, nel linguaggio della quale chiamavansi incom patibili le sostanze, o i
principi delle cose materiali, ch'eran tra loro ripugnanti, come il calore e il
freddo, o il moto e la quiete nel medesimo corpo. Per un traslato si applica a
principi spe culativi, de'quali l'uno esclude l'altro, e agli argomenti del
discorso, quando sono tra loro contradditori. º INCOMPIUTo (spee. ontol. e
disc.), ne gazione del compiuto. V. questa voce. Secondo gli scolastici
l'incompletum era la parte, considerata separatamente dal tut to,
distinguendola dall'imperfetto. Per ra gione della sua entità la parte non
poteva dirsi priva di perfezione, ma il suo man cante era relativo al tutto. V.
Parte, Tutto. INCOMPLEsso (spec. ont. e dise.), mega zione del complesso, che
equivale al sem plice. V. queste voci. È vocabolo usato per dinotare le so
stanze semplici, e soprattutto quella del l'Ente necessario, la quale non può
non essere. V. Semplice. Incomplessa denominarono ancora gli scolastici
ogn'idea, cui convengono di verse qualità inseparabili tra loro, come l'idea
dell'uomo, o del corpo animato. Incomplessi chiamarono i logici i vo caboli i
quali sono necessari ad esprimere un concetto unico e indivisibile: la stessa
denominazione diedero a sillogismi formati da proposizioni semplici. V.
Sillogismo. INCOMPossIBILE (spec. e ont.), quel che non può stare insieme con
un altro, o che si tratti delle qualità inerenti al me desimo subbietto, ovvero
delle proprietà che costituiscono l'essenza di ciascuna cosa. In altri termini
l'incompossibile, con tiene ne' termini della possibilità, la stessa idea
dell'incompatibile. In questo senso appunto fu adoperato dal Segneri. V. In
compatibile. INCOMPosiTo e INcoMPosTo (spec. e disc.), negazione del composto.
V. questa voce. Adattato al discorso, l'incomposito vale disadorno.
INCOMPRENSIBILE (spec.), quel che oltre passa la capacità dell'umana mente. un
contrapposto del comprensibile, consecrato dall'uso del filosofi ad esprimere
la dottrina de pirronisti, degli accademici e degli scettici, i quali non
ammettendo altra sorgente dell'umana cognizione, che le sensazioni; e d'altra
parte non conce dendo alla percezione se non la sola opi – 57 – nione,
ridussero tutta l'umana cognizione al dubbio. Pirrone da prima, esagerando la
formola di Socrate, convertì in un dub bio tanto quel che Socrate presupponeva
di sapere, quanto quel che confessava d'igno rare. Indi Arcesila, capo della
nuova ac cademia negò la certezza dell'umana com prensione affermando, essere
impossibile, il conoscere, se la percezione fosse con forme agli obbietti
esterni. Questo è quel che i greci dissero acatalepsia, o sia in
comprensibilità, dottrina la quale è stata ancora riprodotta da taluni
demoderni scel tici. V. Comprensibile, Pirronismo. INCONCEPIBILE (spec.), quel
che la mente non può comprendere, o spiegare. Nel comune uso del parlare si
confonde coll'incomprensibile, ma in realtà diffe risce da questo per quei
medesimi carat teri, che distinguono la concezione dalla comprensione. V.
queste voci. INCONCLUDENTE (disc.), persona o di scorso, che difetta nella
coerenza, o con messione degli argomenti. INCONGRUENZA (spec.), negazione di
con gruenza. V. questa voce. INCONSIDERATEzzA (prat.), difetto di ri flessione
e di consiglio, per cui si cade in errore. È meno della spensierataggine, che
vale assoluta assenza di riflessione e negligenza. V. Negligenza. INCONTINENZA
(prat.), negazione di con tinenza. V. questa voce. Esprime l'abito vizioso, che
corrompe la parte dell'appetito, lasciando salva la ragione. - INCONVENEvoLE,
INCONVENIENTE e INcoN vENIENZA (spec. e prat.), negazioni degli affermativi
conveniente e convenienza. Differiscono da vocaboli sconveniente e
sconvenienza, che nel linguaggio della sapienza pratica contengono una grada
zione in meno. V. queste voci. lNCORAGGIARE (prat.), ispirare o comu nicare
altrui il coraggio. Esprime una gradazione in più dell'ina nimire, dacchè il
dare animo, o l'inco rare vuol dir meno del dar coraggio, che è una passione di
sua natura divampante. V. Inanimire. INCORPOREo (spec.), negazione di cor
poreo, ed è nome di qualità che conviene allo spirito. V. questa voce.
INCoRRIGIBILE (prat.), uom vizioso, che non dà speranza di pentimenti e di
emenda. INCoRRUTTIBILE (spec. e prat.), quel che non è soggetto a corruzione,
come le so stanze incorporee. In senso traslato, dicesi del giudizio fermo d'un
uomo, che non si lascia ab bagliare da alcuna apparente ragione, o sedurre da
qualsivoglia affetto, o passione. INcostANZA (prat.), negazione di co stanza.
V. questa voce. INCREATo (teol.), qualità che conviene all'Essere eterno.
INCREDIBILE (spec. disc. e prat.), ne gazione del credibile, che si riferisce
tal volta a quel, che non può essere credu to, perchè impossibile o
inverisimile, e talvolta ancora a quello cui non si vuo – 58 – le prestare
credenza. V. Credenza, Cre dibile. - Nel discorso riceve spesso un significato
iperbolico, allorchè è usato per esprimere un fatto straordinario, che a molti
sem brar può non verisimile. INCREDULITÀ (spec. teol. e prat.), errore
volontario di chi nega le cose, che deb bono ragionevolmente esser credute
vere. In un senso speciale è il vizio di colo ro, i quali negano le verità
rivelate, e anche le verità di natural evidenza. In ciascuno de due dinotati
casi l'incredulità offende la fede, o il senso della ragione. V. Fede, Verità.
INcREDULo (spec. teol. e prat.), ognun ch'è tinto del vizio della incredulità.
Increduli son quelli che negano i dogmi della religione rivelata ; e increduli
del pari posson dirsi gli atei e i materialisti. V. queste voci. INCRUDELIRE
(prat.), divenire o far cru dele altri. V. Crudeltà. INCUBAZIONE (spec.), azione
degli ovi pari, che covano le uova. V. Oviparo. È una delle due spezie della
generazione omogenea, per la quale gli Esseri organici, dotati di vita animale
producono un altro Essere simile, per virtù d'un principio vitale in loro
esistente. V. Generazione, Uovo. INCURIOSITÀ (prat.), negazione di cu riosità,
vocabolo usato dal Segneri. È abito, o vizio d'indolenza che rende l'animo
pigro ed ozioso. V. Curiosità. INDEBITo (prat.), negazione di ciò, che
dovrebbesi praticar per dovere. Si usa comunemente nel senso d'ingiu sto e
d'inconveniente, o inconvenevole. V. Dovere, Inconveniente. INDECENTE e
INDECENZA (prat.), ogni fatto contrario al decoro e alla moral di gnità
dell'uomo. V. Decenza, Decoro. Dicesi particolarmente delle azioni, che son di
cattivo esempio. INDECLINABILE (disc.), ogni parte del discorso, che per legge
gramaticale non può essere declinata. V. Declinare. INDEcoRo (prat.), negazione
del decoro. E vocabolo usato dal Segneri, come addiettivo. INDEcoRosAMENTE
(prat.), vale con modo sconvenevole. INDEFEsso (prat.), qualità di diligenza
continua e minuta, che non si disanima per veruna difficoltà. INDEFINIBILE
(disc.), quel che non è ca pace di logica definizione. V. Definizione. Quali
sieno le idee indefinibili. V. il discorso preliminare. INDEFINITEzzA (spec.),
stato delle cose indefinite. E voce usata dal Salvini. V. Indefinito.
INDEFINrro (spee. e ontol.), quel che la considerazione della nostra mente non
può limitare, e concepisce come illimitato. Così, non potendo noi immaginare
una estensione, la quale per quanto grande che fosse, non potrebbe essere
minore d'un'al tra più grande, chiamiamo indefinita la grandezza indeterminata
delle cose possi – 59 – bili. Per la stessa ragione diciamo indefi nito il
numero delle stelle, e indefinita mente divisibile la materia. Non
impropriamente Cartesio distinse l'in definito dall'infinito, la qual
distinzione sembra più plausibile di quella che gli sco lastici fecero tra
l'infinito assoluto ed il relativo o potenziale. V. Infinito. INDEGNAMENTo. V.
Salegno. INDEGNAZIONE e INDIGNAZIONE (prat.), esaltamento dell'ira. V. questa
voce. INDEGNITÀ (prat.), azione vituperevole, che offende ancora il publico
esempio. V. questa voce. INDELIBERATo (prat.), negazione del de liberato, che
conviene alle azioni fatte senza maturo esame della volontà. V. que sta VOce.
INDEPENDENTE e INDIPENDENTE (ont. spec. dise. e prat.), quel che riconosce
l'esser suo da se, e non da altri: è il contrap posto del dipendente. V. questa
voce. Gli scolastici distinsero l'independente assoluto dal relativo. Il
concetto dell'as soluto dissero convenire solamente a Dio, da essi detto ens a
se, perchè ha in se stesso la ragione della sua esistenza; d'onde segue, che
nascendo l'indipendenza dalla propria essenza, porta anche seco il ca rattere
di ente necessario, il quale esi sterebbe quando anche non esistesse ve
run'altra cosa fuori di Lui. V. Dio. Quanto poi al relativo, varie erano le
suddivisioni, che se 'n facevano, secondo che riferivasi all'essere, alla
causa, alle qualità, a modi, alle relazioni, o alle azioni. Comprendiamo tutte
queste suddi visioni nella triplice partizione del signifi cato metafisico, del
logico, e del morale. Vario e moltiplice è il senso metafisico del vocabolo
indipendente, perchè può riferirsi o all'essenza, o alla causa, o alla
sostanza, o alle qualità del subbietto, o a modi. L'Ente assoluto, considerato
per rispetto alla sua essenza, è semplice, ne cessario, e però unico. Laonde il
voca bolo indipendente non solamente conviene a Lui esclusivamente, ma non
potrebbe essere adattato, neanche in un senso im proprio agli Esseri creati, i
quali nulla tengono da se medesimi. Ma quando con sideriamo l'Ente necessario
come la prima causa di tutte le cose create, noi com prendiamo nel concetto
della causalità tutta la catena delle cause seconde, delle quali ciascuna,
sebben sia dipendente da un'al tra; pur tuttavolta, in quanto agisce, è
indipendente per rispetto all'effetto, che da se dipende. L'idea dunque del
relativo è una similitudine, o un modo di conce pire della nostra mente, la
quale può en trare nel concetto della causa, e non in quello dell'essenza. V.
Causa, Essenza. Quanto poi alla sostanza, allorchè noi ce ne formiamo la
nozione, e diciamo es sere questo indipendente da ogni altra, non intendiamo
dire che esista di per se, ma sì bene esprimiamo un'idea di diver sità. In
altri termini ogni sostanza, o ogni subbietto non dipende da quelle di diversa
natura, perchè le qualità che con vengono all'una non possono convenire
all'altra. In questo senso l'indipendente, che gli scolastici chiamarono
relativo, è una negazione non del dipendente, ma del simile. V. Sostanza. E
circa le qualità, uopo è distinguere le essenziali dalle accidentali o estrinse
che, nella qual denominazione compren – 40 – diamo ancora i modi. Se le qualità
sono essenziali, essendo esse parti del costitu tivo delle cose, si scambiano
coll'essenza, a rispetto della quale impropria e falsa sarebbe la denominazione
dell'indipendente relativo, per le ragioni testè addotte. Che se vogliasi
parlare delle accidentali, e con siderarle come indipendenti dal subbietto,
perchè potrebbe questo star senza di esse, o essere le medesime aggiunte a
diverso subbietto; è manifesto che in questo caso l'indipendente relativo
esprimerebbe un'al tra idea, quella cioè dello accessorio e del principale.
Adunque l'indipendente re lativo degli scolastici confonde nel signifi cato del
medesimo vocabolo molte diverse nozioni, come quelle della essenza, della
causa, della sostanza, della diversità, e dell'accessorio. V. Aceessorio, Diversità.
Di tutte le accezioni date all'indipen dente relativo la più plausibile è
quella che gli dà la filosofia speculativa, allor chè l'applica alla volontà, o
sia alla li bertà dell'agente morale. L'uomo è libero, e però indipendente
nell'uso della volontà, perchè questa ha per sua compagna la ra gione, la quale
lo rischiara nella scelta del bene o del male, senza costrignerlo nelle sue
determinazioni. V. Libertà, Vo lontà. - Diverso dal significato ontologico e
dallo speculativo, è il logico, nel quale scam biar si suole il concetto della
dipendenza con quel della connessione. Le idee di rc lazione diconsi dipendenti
le une dalle al tre, perchè soglionsi richiamare a vicenda; nel quale senso la
relazione è considerata come un legame, senza del quale non si formerebbero, nè
potrebbero essere inte se. Per la stessa ragione le proposizioni connesse, le
subordinate, le conseguenze, gl'incidenti si hanno come parti del di scorso
dipendenti da quelle, dalle quali son rette, o a cui si riferiscono; e per contrario
indipendenti diconsi le proposi zioni e gli argomenti principali, i quali
stanno di per se, o che per essere intesi non han bisogno d'altro antecedente.
V. Re lazione. Finalmente lo stesso vocabolo, comechè sia frequentemente usato
nel linguaggio della pratica sapienza del vivere; pur tut tavolta è tanto
variamente definito, quanto varia e difforme è l'opinione del bene e della
felicità, che ci rende indipendenti. Di tal varietà vuolsi vedere la ragione
nel la definizione del nome astratto, il quale rappresenta l'idolo, cui tutti
corron dietro. INDEPENDENZA e INDIPENDENZA (prat.), la condizione d'un animo
scevro di pas sioni e di esterni bisogni. Cotesta condizione formerebbe uno
stato di perfezione, la quale sembra incompa tibile coll'umana natura, che è
circon data di bisogni, e di desideri. Gli uni e gli altri sono altrettanti
legami, che co stituiscono l'uomo nella dipendenza dall'or dine fisico e morale
dell'universo: l'ordine fisico nasce dalla concatenazione di tutte le parti
della materia, delle quali le une non possono stare senza delle altre: l'or
dine morale, dalle necessarie relazioni de gli Esseri, i quali abitano la
terra: le re lazioni nascono dalla comunione così dei bisogni, come de mezzi
per soddisfargli, che la natura stessa ha tra essi stabilito. Se l'uomo potesse
vivere nel primitivo stato delle sue naturali relazioni, domandereb besi, come
essendo egli una parte passiva dell'ordine regolatore del mondo; ed es sendo un
composto di due parti sì dipen denti l'una dall'altra, quali sono il corpo e
l'anima, possa mai aspirare alla indi – 41 – pendenza, o sia alla intera
esenzione, da ogni desiderio e da ogni bisogno? Ma l'uomo è nato per la
società, l'ordine della quale ha stabilito altri legami, cioè nuove relazioni
ed obligazioni, e con esse bisogni e desideri maggiori deprimi. Come potrà egli
affrancarsi e da quelli, e da questi insieme? Ciò non ostante ognun cerca di
raggiu gnere l'indipendenza passando da un de siderio all'altro, e crede di
trovarla in una meta, che si allontana a misura, che ci sembra essere più
vicini a toccarla. Essa dunque o è un nome vano ed una fantasima, che illude
tutti coloro i quali le corrono dietro ; o aver debbe un si gnificato diverso
da quello che comune mente se le da. Senza ripetere verità note, chi la ripone
nella moltiplicità e nel go dimento del beni esteriori, non troverà in questi,
che il fastidio della sazietà, e l'in quietudine di non poterla mai acquistare.
Per quanti ne possegga, sarà dal volgo riputato indipendente, ma sarà servo de
gli stessi desideri suoi. E per contrario pos sederà, e sentirà di possedere
l'indipen denza, chi non cercherà altri beni fuor di quelli, che nascono
dall'interno senso dell'animo ; chi non darassi in servitù ai piaceri desensi,
chi non formerassi idoli nel suo cuore, e non rimetterà nella pote stà altrui
la propria felicità. V. questa voce. INDETERMINATo (spec.), negazione del
determinato. V. questa voce. I matematici gli danno un significato speciale, e
dicono quantità indeterminate quelle che sono capaci di diverse, e tal volta
d'innumerevoli determinazioni, di pendentemente da valori che si danno ad altre
quantità, alle quali sono legate con relazioni conosciute. Così pure chiamano
indeterminati i problemi, che son capaci d'uno indefinito numero di soluzioni
diverse. INDETERMINAZIONE (prat.), negazione di determinazione, che si adopera
per espri mere lo stato di sospensione, in cui è la volontà quando non è ancor
matura la deliberazione. V. Deliberazione, Deter minazione, Volontà. Lo stesso
vocabolo è stato adoperato dal Salvini nel senso di quel che in se con tiene
l'indeterminato, o dello stato delle cose indeterminate, come nella materia, la
quale vien determinata dalla forma, mentre che prima era nascosa nella sua in
finita indeterminazione, o che voglia dirsi indefinitezza. V. questa voce.
INDEvozioNE (teol.), negazione di devo zione. V. questa voce. INDICATIvo
(disc.), il primo de modi del verbo. V. Verbo. È il modo diretto o affermativo,
il quale esprime un giudizio assoluto, o sia affer ma, senz'altra idea accessoria,
la conve nienza del predicato al subbietto. INDIFFERENTE (prat.), chi non è pro
penso per una più che per un'altra parte. Si dice anche delle cose che non si
re putano nè buone nè cattive. INDIFFERENZA (spec. e prat.), stato del l'animo,
che non propende per un senti mento più che per un altro. È qualità di
un'azione non lodevole, e non riprensibile. La nostra definizione restrigne il
signi ficato, che anche nel linguaggio filosofico si suole dare al vocabolo
indifferenza, dapoichè per esso si esprime comunemente 6 – 42 – l'equilibrio
così degli appetiti e degli af applica il vocabolo indifferenza; ma non fetti,
come demotivi, che determinar pos sono l'intelletto o la volontà. Giova esa
minare, se lo stesso nome convenga in distintamente a tutti i dinotati stati
del l'animo. L'indifferenza del sentimento può na scere, o da una naturale
disposizione dei sensi non atti a ricevere tutte le impres sioni del piacere e
del dolore, o dalla tem pera d'una immaginazione poco attiva e vivace. E quando
l'una o l'altra cagione provenga da naturale difetto, e non da maturità di
riflessione ; sì che taluno ri manga indifferente a quel che in pari oc
correnze muoverebbe gli appetiti e i desi deri d'ogni altro uomo;
l'indifferenza è indizio o di stupidità, o di quella malattia dell'anima, che
dicesi apatia.V. questa voce. Per l'opposito, se la freddezza, con cui si
ricevono le impressioni desensi o i sug gerimenti della immaginazione, nasca da
calcolo di ragione, e da forza d'animo, capace di rattemperargli, l'indifferenza
acquista il carattere d'un abito virtuoso, che chiamasi moderazione. V. questa
voce. Nell'uno e nell'altro caso le cause che producono questa disposizione
dell'animo van considerate come diversi gradi di ec citamento, che le facoltà
sensitive eserci tano sopra le determinazioni della volon tà; ma ciononostante
l'indifferenza è stata comunemente distinta in due spezie, la speculativa cioè
e la pratica. Quanto alla speculativa, che risguarda gli atti del giudizio, è
manifesto che que sto nome impropriamente si trasporta dal sentimento alle
funzioni dell'intelletto. Im perocchè si può ben concepire uno stato negativo
di appetiti e di affetti, in cui non senta odio o amore per un obbietto
qualunque, e al quale propriamente si potrebbesi immaginare nello stato di sana
e perfetta ragione una tale disposizione dell'intelletto, che tanto
gl'importasse il trovare il vero, quanto il non trovarlo, l'assentire o il non
assentire, il conoscere in somma o il non conoscere. Se un tale stato si
scontra talvolta negli uomini per abito indolenti, i quali limitandosi alla
sola vita sensitiva ed animale, hanno in teramente rinunziato all'uso delle
facoltà dello spirito; uopo è considerarlo, come l'effetto d'una condizione
morbosa, o di una ragione degradata, della quale cer tamente non si occupa la
filosofia dello spirito umano. Il caso frequente ed ovvio, cui applicar si
suole lo stesso vocabolo, è quello della sospensione del giudizio nata da
equiponderanza di ragioni, o da in sufficienza di dati, che vuol dire dubbio,
ovvero da ignoranza, due stati dell'animo affatto diversi dalla indifferenza.
V. Dub bio, Ignoranza. Maggiore, e più importante ancora, è l'improprietà in
cui si cade, quando ap plichiamo lo stesso vocabolo indifferenza alle
determinazioni della volontà; dapoi chè si fa nascere un'ambiguità, che è stata
sorgente di errori e di pericolose opinioni. Il comune de moralisti si è
servito di que sto termine per ispiegare la libertà delle azioni, ed han
denominato equilibrio d'in differenza la libera scelta, per la quale la facoltà
del volere può determinarsi ad un'azione, o al suo contrario. L' impro º prietà
di cotesta espressione fu avvertita da più acuti scolastici, e principalmente
dal grande Aquinate, al quale piacque me glio denominarla facultas ad opposita.
Imperocchè l'idea d'un'assoluta indiffe renza distruggerebbe l'altra più
essenziale del merito dell'azione, o sia la prenozione - - – 45 - del bene, e
toglierebbe alla coscienza quel la influenza che ha nelle determinazioni della
volontà, senza nuocere alla sua li bertà. Farebbe in somma credere che non v'ha
alcuna ragione anteriore per deter minare la volontà ad un fatto più che ad un
altro ; per modo che chi sceglie non si determina a quello cui più inchina, ma
scegliendo a caso, approva quel partito, che la sorte gli ha presentato come il
mi gliore. Cotesto modo d'interpretare la li bertà, distruggerebbe
l'immutabilità delle distinzioni morali, e toglierebbe alla ra gione il suo
impero. Coloro i quali han voluto impugnare il libero arbitrio e la vera origine
del male, non hanno man cato di giovarsi dell'ambiguo senso, che in se
racchiude l'assoluto e vago equi librio d'indifferenza, che altri scrittori
poco accorti avevano concesso come vero; e per un'opposta via son venuti a
stabi lire l'imperio del caso, o sia d'una fa tale necessità, distruggendo
nello stesso tempo l'imputabilità morale delle azioni. Adunque, perchè ritenere
una denomina zione la quale dà un falso concetto degli atti della volontà, e di
cui gli astuti e male intenzionati scrittori possono abusa re? In conclusione,
ammettiamo l'equili brio della indifferenza nelle sensazioni, ed escludiamolo
negli atti del giudizio e della volontà. Nella filosofia pratica questo
vocabolo non esprimerà se non la qualità delle azioni comuni, che non meritano
nota di biasimo o di lode. V. queste voci. INDILIGENZA (prat.), negazione di
dili genza, che vale difetto di cura e di an tivedimento. È meno di negligenza,
che importa as soluta ed abituale mancanza di accorgi mento. V. Megligenza.
INDIMosTRABILE (spee. e disc.), quello che non può essere provato vero per
mezzo del ragionamento. V. Dimostrabile. INDIRETTo (spec.), qualità di una
cogni zione non piena e non immediata.V. Diretto. Equivale tal volta al
subbiettivo. V. que Sta Voce. INDISCERNIBILE (spec.), vocabolo conse crato da
Leibnitz, per esprimere le diffe renze di due cose non identiche, comechè
fossero affatto simili. V. Identico, Simile. E però chiamò principio
degl'indiscer nibili la massima, che le sostanze possono esistere distintamente
l'una dall'altra, quan do abbiano proprietà diverse, per le quali si possano
rispettivamente discernere.V. Pro prietà, Sostanza. INDISCRETEzzA e INDISCRETo
(prat.), ne gazioni di quella virtù pratica che si de nomina discrezione. V.
questa voce. INDISPosizioNE (prat.), difetto della na tura, per lo quale i
sensi o le facoltà dell'animo non hanno l'attitudine a far quello che sarebbe
loro proprio, e che è compreso nel vocabolo affermativo, di cui è contrapposto.
V. Disposizione. INDIVIDUALE (spec.), quel che è pro prio dell'individuo. V.
questa voce. INDIVIDUALITÀ (spec. e ontol.), astratto delle qualità proprie
degl'individui. un contrapposto della universalità. V. Individuo, Universale.
INDIVIDUAzioNE (spec. e ontol.), quel che è costitutivo dell'individuo, e ne de
termina l'identità. ºr – 44 – È termine generico, che serve a spie gare quel
che forma l'essere di ciascuna cosa, e per cui può dirsi questa cosa è.
Applicato all'uomo, è quel che gli scola stici dissero ecceità. V. questa voce.
Principio d'individuazione fu denomi mato la determinazione delle differenze
per le quali ogni Essere distinguesi dalla sua spezie. Così l'Essere
determinato può es sere considerato come singolo ed uno. Gli scolastici fecero
del principio d'in dividuazione una sorgente di sottigliezze, le quali vanno
affatto trascurate. V. Diſ ferenza, Spezie. INDividuo (spee.), ogni Essere
determi nato per le sue qualità, tanto comuni alla spezie cui appartiene,
quanto proprie, le quali lo distinguono dalla spezie stessa, e lo rendono
identico ed uno in se me desimo. V. Identico, Uno. In termini più ovvi,
gl'individui sono i componenti delle spezie, considerato cia scuno per la
propria singolarità. V. Spezie. INDIVISIBILE e INDIVISIBILITÀ (spec. e ont.),
proprietà del semplice, e delle molecule, o particelle elementari della
materia, che non si prestano a divisione. V. Molecula. INDIZIo (spec. disc. e
prat.), segno ve risimile che fa congetturare la verità. Gl'indizi son gli
elementi delle conget ture e delle probabilità. V. queste voci. L'indizio
considerato come una spezie di pruova è definito da Cicerone, conclusione di
cosa ignota ricavata da altra nota. In questo senso medesimo gl'indizi di consi
necessari o probabili. Necessari son quelli che nascono da una connessione in
dubitata tra la cosa nota e l'ignota, nel quale caso l'indizio è un effetto
necessario della causa, che per suo mezzo si rende manifesto. ll parto d'una
donna, per esem pio, è un indizio necessario del commercio ch'ella ha avuto con
un uomo. Probabili son quelli, ne quali la con nessione tra l noto e l'ignoto è
verisimile, senza esser necessaria. Probabili son pure quegli altri indizi o
effetti, che possono essere prodotti da più cause, delle quali alcune son note
ed altre ignote. La proba bilità, a rispetto di questi, nasce dall'igno rare
qual parte abbiano avuto nell'effetto ciascuna delle cause possibili. V. Proba
bilità, Pruova. INDocIE e INDOCILITÀ (prat.), mega zioni del docile. V. questa
voce. INDOLE (spec. e prat.), la natural di sposizione dell'uomo, non
modificata dal l'abito, o dall'educazione. V. queste voci. Se non fosse da
evitare, il più ch'è possibile, le similitudini prese dal mate riale, potrebbe
l'indole essere definita per la tempera dell'animo. I latini la chia marono ora
natura, e ora ingenium. La lingua italiana ha un vocabolo proprio, che le altre
lingue moderne non hanno. L'indole, giusta il bel detto di Cice rone, vedesi ne
fanciulli, come in uno specchio (indicant pueri, in quibus, ut in speculis,
natura cernitur). V. Matura. INDOLENZA (prat.), abito di spensiera taggine, che
rende l'animo inoperoso e non curante. INDOTTIvo (disc.), che ha virtù di per
suadere. INDOTTo (disc.), da indurre, vale ad dotto o allegato. – 45 – Esce dal
significato del verbo, da cui è derivato. INDotto(prat.), negazione di dotto,
dicesi di chi non ha alcuna dottrina. V. Dottrina. INDUBITABILE (spee.), quel
che non è capace di dubbio, o di muover dubbiezza. V. queste voci. INDUBITATo
(spee. ), vale certo, anzi evidente nella certezza. V. Certezza. INDULGENZA
(prat.), benignità di chi con cede quel che la giustizia non richiederebbe.
INDURRE (spec. e disc.), adoperato tal volta impropriamente per dedurre, vale
propriamente persuadere, o col ragiona mento muovere a fare. INDUSTRIA (crit. e
prat.), ingegnosa di ligenza nell'investigare le proprietà delle cose, per
applicarle alle arti, e ad ogni sorta d'opere utili. La natura ha preparato
tutto quel che può soddisfare così i bisogni della semplice e primitiva vita
dell'uomo, come le neces sità secondarie della vita civile, dell'agia tezza, del
lusso, e per sino quelle che son create dalla potenza imitatrice ed inventrice
dell'animo. Ma quel che dà la natura, è la materia insieme colle attitudini
alle for me, le quali vengono aggiunte dalla mano dell'uomo, e di cui la
moltiplicità e va rietà son relative alla maggiore o minore vastità e
perfezione delle sue conoscenze. La mano dell'uomo non crea, ma segue le
indicazioni che la stessa natura gli dà, sia nella riproduzione del vegetabili
e de gli animali, sia nelle forme da lei pre Parate come tipi d'imitazione, sia
nelle relazioni necessarie delle cose, le quali additano l'uso, cui le ha
destinate. Il complesso di tutte le speculazioni, per le quali imitiamo,
sviluppiamo, o compiamo le operazioni della natura, applicandole a bisogni
degl'individui o de popoli, è quel che chiamasi industria i suoi pro dotti
chiamiamo gli accrescimenti di co modo, di opulenza, o di conoscenze, che da
essa ricaviamo. V. Prodotto. È questa un'arte suprema, la quale in se comprende
le singole arti, ch'ella muo ve e indirizza al rispettivo loro scopo. Per la
parte che si prefigge di ricavar dalla terra il maggior frutto possibile, e di
adat tarne le produzioni a bisogni dell'uomo e della società, prende la
denominazione d'industria agraria; per la parte che at tende a moltiplicare il
lavoro della mano, trasformando, componendo, separando, o imitando le opere
della natura, chia masi industria manifattrice, e per quanto si occupa di
mettere in comunicazione tra i diversi popoli i prodotti della natura e delle
arti, prende il nome d'industria mercantile, o di commercio. Da questa
partizione della industria na sce quella delle arti, le quali, attesa l'in
numerevole quantità e qualità degli ob bietti materiali che abbracciano, non
pos sono esser meglio classificate che per le diverse forze adoperate dalla
mano del l'uomo per accrescere le produzioni loro. Di qua la partizione delle
arti, in agrarie, meccaniche, e fisico chimiche. V. Arte. Tra le cose che noi
consideriamo come necessarie o utili alla vita ve n'ha poche, che non abbiano
bisogno della coopera zione e del concorso di tutti i tre dinotati generi
d'industria. Il commercio certa mente vivifica sempre gli altri due, per che
rende comuni a tutti non solamente – 46 – i doni fatti dalla natura a ciascun
clima o contrada, ma ancora le invenzioni e i prodotti delle arti; perchè
ripara alle ine guaglianze che provengono dalle vicissi tudini delle stagioni;
e perchè rende più attiva ed operosa così l'industria agraria, come la
manifattrice. Uno non pertanto è lo scopo, cui tende l'industria, sotto
qualunque denominazione ella venga, il dare cioè l'utilità alle cose, che per
loro stesse o per se sole, non ne avrebbero: questa utilità è quel che con
vocabolo pro prio della scienza chiamasi valore: i va lori son quelli che
formano le ricchezze: l'arte di crearle, di moltiplicarle, e di farle servire
alla forza, all'agiatezza, e alla opulenza delle nazioni, forma l'og getto
d'un'altra scienza che dicesi econo mia politica. V. Economia. INDUTTIvo (crit.
e disc.), il metodo, o il ragionamento, nel quale si fa uso della induzione. V.
questa voce. Induttiva è stata detta ancora quella parte della logica, la quale
insegna a trarre gli argomenti dalla sperienza, e a scoprire le relazioni
defatti della natura, per modo che dalla cognizione del noto si possa salire
all'ignoto. V. Logica. Induttive sono state dette da moderni scrittori le
scienze, alle quali unicamente conviene il ragionamento per induzione, e tali
sono le scienze fisiche, che abbrac ciano lo studio della natura. In questo stu
dio, dovendo la mente procedere dalla cognizione de particolari al generale,
non può stabilire altri dati certi, se non quelli che nascono dalla
osservazione e dalla spe rienza. V. Fisica. INDUnoNE (spec. e disc.),
conclusione ricavata dal particolare al generale, o se condo la bella
definizione di Aristotele, la progressione del singolari all'universale. l
Greci la chiamarono erayaym, e in ductio i Latini, da quali ne abbiam preso il
nome. Aristotele la definì, e ne dimo strò l'uso logico. Bacone da Verulamia,
ne suggerì l'applicazione alle scienze na turali, e dimostrar volle che la sua
in duzione fosse affatto diversa dall'aristote lica. La scuola scozzese ne ha
generaliz zato l'uso, applicandola alla investiga zione de fatti dello spirito.
Noi stessi ab biam considerato come nuovo il metodo di Bacone e degli Scozzesi,
e tra gli an tichi abbiam dato solamente a Socrate la gloria di averne
praticamente dimostrato l'utilità (V. Vol. I. pag. 84 e 423). Ma una più severa
analisi del pensieri di Ari stotele e di Bacone, ci obliga di meglio dichiarire
qual sia la novità, di cui i mo dermi possansi gloriare di rincontro agli
antichi; potendo la differenza tra la in duzione aristotelica e la baconiana
nasce re, o da un diverso procedere della ra gione, o semplicemente da una
nuova ap plicazione dello stesso metodo alle scienze di osservazione e di
fatti. L'ordine e la chiarezza esigono, che sia quì brevemente anteposta la
tela del raziocinio logico, esposta da Aristotele nei libri degli analitici, e
del topici. Due sono le forme, per mezzo delle quali la Dialettica cerca di
trovare il vero, il sillogismo e l'induzione: il sillogismo, da una
proposizione generale assunta come principio, va al particolare: l'induzione,
dal particolare, o sia dalle conseguenze, va al generale. La proposizione
generale, che è la maggiore del sillogismo, accioc chè riesca nella
dimostrazione del partico lare, che è la conseguenza, ha bisogno d'un termine
medio, dal quale risulti, che il terzo membro è compreso nel pri mo. Ogni
animale è mortale, ma l'uomo è animale: dunque l' uomo è mortale. Senza del
secondo, nel quale si contiene la qualità di animale, non potrebbesi con
chiudere che l'uomo è mortale: il termine medio dunque esprime un predicato, o
relazione, comune al primo ed all'ultimo: nel saper trovare cotesta relazione è
ripo sta tutta l'arte sillogistica. Suppongasi ora che fossero noti i due
ultimi termini, cioè che l'uomo è animale e mortale insieme, non potrebbesi per
via del sillogismo tro vare la proposizione generale, perchè il generale non è
compreso nel particolare, come il particolare lo è nel generale. Ma più
particolari formano il generale, sì che per comporre il generale è uopo andare
raccogliendo i particolari, e dopo di aver conosciuto che ciascuna spezie di
animale è mortale, si perviene a scoprire quella verità generale, che nel
sillogismo erasi assunta come nota e certa. Ora questa in versa forma di
ragionare è quel che dicesi induzione (Aristot. analyt. prior. lib. II. cap.
XXIII. e topicor. lib. I. cap. XII.). Contrapponendo l'una all'altra, rilevansi
i vantaggi di ciascuna, ed il vario uso che di esse può farsi. Il sillogismo è
una dimostrazione, di cui la prima proposi zione contiene una verità
indimostrata, ma assunta come vera, la quale presuppone noto il generale e
ignoto il particolare ; laddove l'induzione presuppone noto il par ticolare e
ignoto il generale: nel sillogismo la conclusione è una proposizione dimo
strata; nell'induzione, la generalità che si ricava da particolari è una
presunzione logica fondata sulla verità de casi simili. Ma per la certezza del
sillogismo, è ne. cessario che la proposizione generale con tenga o un'altra
verità precedentemente dimostrata, o un principio indimostrabile per se stesso
evidente. E siccome nella catena delle verità dimostrabili si giugne in ultima
analisi ad una prima verità per se stessa evidente; così la forma sillogi stica
presuppone sempre del principi uni versali noti, i quali per loro stessi non
abbisognano di dimostrazione. E quì Ari stotele stesso dimanda, come ci si ren
dano noti tali principi, e se consistendo la scienza nella cognizione delle
verità di mostrate, sievi una qualche scienza del le scienze, la quale ci
somministri la notizia del principi? No, egli risponde, non v'ha nulla di
superiore alla scienza se non l'intelletto, il quale è la vera fonte de cennati
principi. E come l'intelletto può formargli? Per mezzo di quel natu rale senso
che è stato con diversa misura distribuito a tutti gli animali. Il senso vede
gli obbietti singolari, ma nell'anima ri siede l'universale, ond'è che nella
per sona d'un dato uomo noi vediamo non l'in dividuo, ma l'uomo in generale. Il
senso dunque somministra i principi generali, e li va formando per mezzo della
indu zione (Arist. analyt. post. lib. II cap. XIX). Da questo notabile luogo di
Aristotele (nel quale la dottrina del senso è messa a canto alla esistenza
delle verità gene rali) apparisce manifesto che Aristotele non solamente non
restrinse l'induzione alla sola enumerazione degli esempi, ma l'ebbe come la
forma primitiva del ragio namento, e come la madre di tutte le prime verità
della ragione; e risulta an cora, che quando sieno noti i principi ge nerali
egli suggerisce l'uso del sillogismo, per discendere dal generale al
particolare; laddove, quando si tratti di formare i prin cipi generali per
mezzo dell'osservazione de fatti particolari, addita come l'unica – 48 – via
data dalla natura, l'induzione. In conferma di che vuolsi anche notare, che
parlando egli dell'esempio avvertì, essere diverso dalla induzione, perchè
questa rac cogliendo tutti i casi singolari dimostra che il termine medio del
sillogismo è con tenuto nell'estremo; laddove l'esempio, non raccogliendo tutti
gl'individui, stabi lisce una connessione imperfetta tra l me dio e l'estremo,
perchè la relazione che lega l'uno all'altro, non è del tutto al tutto, nè
d'una parte al tutto; ma d'una ad un'al tra parte solamente (Aristot. Analyt.
prior. lib. II. cap. XXIV).V. Esempio, Sillogismo. Ora per non uscire ancora
dagli anti chi, vuolsi notare che non tutti i grandi maestri del pensare e del
parlare si han sempre formato un chiaro concetto della induzione, e l'han
sovente scambiata col l'esempio. Potremmo noi, salva la vene razione dovuta a
Cicerone, dimostrare esser questi inciampato in tale scambio? « Ogni
argomentazione, dic egli, può essere trattata, o per induzione, o per ra
gionamento. L'induzione è un discorso, per lo quale strappasi l'assentimento di
colui con cui si parla, nelle cose non dubbie ; acciocchè, giovandosi della
similitudine, provar possa anche una cosa dubbia, come dimostra Socrate nel
dialogo colla moglie di Senofonte, e in quello di Aspasia collo stesso
Senofonte: « dimmi di grazia, o mo glie di Senofonte, se la tua vicina avesse
una spezie di oro più pura del tuo, qual de due vorresti tu avere ? quel della
vi cina ella risponde. E se avesse una veste o un muliebre ornato di maggior
valore del tuo, quale vorresti tu avere? quello, risponde ella ancora! Dimmi
ora, ripiglia Socrate, se quella avesse un marito mi gliore del tuo, qual de due
vorresti ave re? Qui la donna arrossì. E Aspasia dalla sua parte, parlando con
Senofonte: di grazia, o Senofonte, se il tuo vicino possedesse un cavallo mi
gliore del tuo, quale vorresti avere? Quel lo, risponde Senofonte. E se
possedesse un fondo migliore del tuo, qual de due ti piacerebbe più di avere?
Certamente il migliore. E se avesse una moglie migliore della tua, quale delle
due tu desidereresti? E quì anche Senofonte tacque ! Dopo di che ripiglia
Aspasia: Dapoichè niun di voi ha voluto dir quello, che io solamente de
siderava udire, dirovvi quel che ciascun di voi pensi. Tu, donna, desideri
certa mente avere il miglior de mariti, e tu, Senofonte, l'ottima delle mogli.
Che se ciascun di voi non faccia per modo di es sere o il miglior de mariti, o la
migliore delle mogli che sia sulla terra, tanto più desidererete di aver
quello, che crederete essere l'ottimo, onde l'uno sia marito del l'ottima tra
le mogli, e l'altra sia impal mata dal miglior de'mariti » (De inv. rhet. lib.
I. c. 31). Quintiliano citò lo stesso luo go, di cui erasi servito Cicerone,
per di mostrare che cosa fosse la induzione; e in luogo di rilevare
l'inconvenienza del paragone s'intrattenne a far l'analisi del dialogo, e a
dimostrare che male ave vano risposto Senofonte e la moglie, as sentendo alle
prime interrogazioni, ond'è che furon presi nella rete di quel sofismo
(Quinctil. instit. orat. lib. V. cap. II.). Noi direm per incidente, che se
quel dialogo di Socrate, il quale è un puro giuoco di false similitudini,
fondate sul vario senso del buono e del meglio, potesse passare per un
argomento logico; dovrebbe essere riferito più all'esempio, che alla induzio
ne. Da ciò segue, che se si vuol rimprove rare a retori latini d'avere talvolta
confuso l'esempio colla induzione, potrebbe ciò essere dimostrato co'due
cennati luoghi ; ma per accusarne Aristotele, o per dire che l'induzione
aristotelica fosse diversa da quella di Bacone, convien prima ve dere, in che
il moderno metodo abbia su perato l'antico. Bacone, nella prima parte della grande
ristaurazione delle scienze, o sia ne libri de dignitate et augmentis
scientiarum, cominciò in prima dall'esporre in che con sistesse l'induzione
degli antichi. « La for ma d'induzione, egli dice, che la Dia lettica propone,
per dirigere l'intelletto, quando trattasi d'inventare o di verificare i
principi è affatto viziosa e incompetente. E tanto è lontano ch'essa abbia la
forza di perfezionare l'opera della natura, quanto per contrario l'avviluppa e
la rovescia. Imperciocchè, se con occhio perspicace si esamini il metodo che
convien seguire, per raccogliere la celeste rugiada delle scienze; rugiada
simile a quella descritta dal poeta, aerei mellis coelestia dona, (essendo le
scienze un estratto defatti par ticolari, naturali o artifiziali, come il mie
le è l'estratto defiori de'campi e degiar dini); ognun certamente conoscerà che
lo spirito abbandonato a se stesso, per vir tù della sua forza natia, forma
induzioni molto più perfette di quella di cui ci par lano i dialettici. Ed in
vero, il ricavare dalla semplice enumerazione de fatti par ticolari, non
contraddetti da altri fatti, una conclusione favorevole alla proposi zione che
vuolsi stabilir come vera (nel che consiste il comune metodo del dialet tici),
è lo stesso che ricavare una vizio sissima conseguenza. Da una induzione di tal
fatta non può nascere, se non una congettura probabile, dapoichè niuno può
avere la certezza, che mentre considera sotto un aspetto favorevole alla
propria opinione i fatti particolari che conosce o di cui si ricorda, non gli
sfugga qualche altro fatto particolare che la contraddica. Cotesta forma
d'induzione, in verità , è sì superficiale e grossolana che renderebbe
incredibile, che l'abbian potuto concepire uomini di acuto e sottile ingegno,
quali son quelli i quali hanno intorno a ciò me ditato; se non si conoscesse
l'impegno che gli spigneva a stabilire i dogmi e le teo rie loro, lasciando da
parte i fatti parti colari per una spezie di disprezzo e di fa sto. E quando si
concedesse che i principi delle scienze possono essere stabiliti col l'aiuto
della induzione, che è ora in uso, o per lo solo mezzo del senso e della spe
rienza, non sarebbe meno vero che nelle cose naturali materiali, il sillogismo
non è una forma abbastanza esatta e sicura per dedurre gli assiomi inferiori.
Tutto quel che può farsi per mezzo del sillo gismo, è il ricondurre le
proposizioni ai principi passando per le proposizioni in termedie. Ora una tal
forma di pruova o d'invenzione de aver luogo nelle scienze popolari, come la
morale, la politica, la giurisprudenza, e anche nella teologia, dacchè piacque
alla divina bontà di adat tarsi alla debolezza della umana intelli genza. Ma se
volessimo attenerci al sillo gismo nella Fisica, la quale si prefigge di legare
la natura per mezzo delle opere sue, e non d'inviluppare con argomenti
l'avversario, la verità ci scapperebbe dalle mani, giacchè la sottigliezza del
discorso non può mai eguagliar quella delle ope razioni della natura; d'onde
viene che nella insufficienza del sillogismo, convien tornare alla induzione,
ma alla vera in duzione, alla emendata cioè, a rispetto così del principi più
generali, come delle proposizioni intermedie». (lib. V, cap. II.). 7 - 50 -
Coerentemente a tali principi, nel nuo vo organo torna egli a discorrere le due
vie o metodi, pe'quali la mente può per venire allo scoprimento del vero: « la
pri ma , cominciando dalle sensazioni e dai fatti particolari si slancia di
primo salto insino a principi più generali, ed indi ri posandosi sopra di essi,
come sopra im mancabili verità ne deduce i principi in termedi, o colla lor
guida ne giudica. Questa è la via comunemente seguita. L'al tra prende altresì
principio dalle sensazioni e da fatti particolari, ma procedendo len tamente a
grado a grado, e senza sal tarne alcuno, tardi arriva alle proposizioni più
generali. Questo secondo metodo è il vero, ma niuno l'ha insino ad ora tenta
to. Ambo i cennati metodi prendono prin cipio dalle sensazioni e dalle cose
partico lari, e riposansi sopra le più generali, ma con una immensa differenza.
L'una non fa che sfiorare l'esperienza e toccarla, per così dire, fuggendo;
mentrechè l'al tra vi si ferma per quanto conviene e con metodo: quella di
vantaggio stabilisce di primo salto non so quali astratte genera lità, vaghe e
inutili: questa d'altra par te si eleva per gradi a principi reali, e
riconosciuti dalla natura ». (Nov. Org. Aphor. 19 e 24 ). Lo stesso autore svi
luppando più appresso i pensieri sin qua esposti soggiugne : « Conviene
impedire all'intelletto di saltare e di volare, per così dire, da fatti
particolari agli assiomi i più lontani, e che io chiamerò genera lissimi, come
quelli che comunemente chia mansi principi delle arti e di tutte le cose, di
risguardargli di botto come altrettante verità immutabili, e di valersene per
ista bilire gli assiomi medi, il che sarebbe una via assai spedita. Questo è
quel che si è sinora praticato, seguendo il natu rale impeto dell'intelletto,
già di lunga mano a ciò accostumato e preparato dalle dimostrazioni
sillogistiche. Ma allora potrà molto sperarsi dalle scienze, quando per la vera
scala, o sia per gradi continui e non interrotti, e senza alcun voto, po trassi
montare da fatti particolari agli as siomi d'infimo ordine, e da questi agli
assiomi medi, i quali salendo a poco a poco, e gli uni sopra degli altri, arri
vano in fine a più generali tra tutti. Im perciocchè gli assiomi dell'infimo
ordine distan poco dalla pretta sperienza. Per con trario gli assiomi supremi,
o generalissimi (e quì parlo desoli che abbiamo) son pu ramente ideali, o sia
son pure astrazioni che non hanno realità nè fondamento. Gli assiomi veri e
fondati, come se dicessimo vivi, sono i rimedi, sopra i quali ripo sano tutte
le scienze e la fortuna reale del genere umano. A questi ancora si ap poggiano
gli assiomi generalissimi, e sotto questo nome noi non includiamo sempli
cemente i principi astratti, ma quelli ve ramente limitati da principi medi.
Allorchè trattasi di stabilire un assioma fa uopo adoperare una forma
d'induzione diversa da quella ch'è stata sinora in uso; e ciò non solamente per
iscoprire e di mostrare quel che comunemente chiamasi i principi, ma per
istabilire ancora gli assiomi d'infimo ordine, i medi, e in una parola, tutti.
Imperocchè quella in duzione la quale procede per via di sem plice
enumerazione, è un metodo da fan ciulli, il quale conduce a conclusioni pre
carie, soggette a grandi rischi, all'appa rire del primo esempio contrario. In
ge nerale essa pronunzia sopra un troppo pic ciol numero di fatti, e defatti i
più ovvi. Ma la forma d'induzione veramente utile alla invenzione o alla
dimostrazione delle – 51 - scienze segue tutt'altra via: analizza le operazioni
della natura: fa una scelta di osservazioni e di esperimenti, spogliando la
massa di tali osservazioni, per mezzo di opportune esclusioni, da fatti non
conclu denti: e dopo di avere stabilito un suffi ciente numero di proposizioni,
si arresta alle affermative, alle quali si attiene. Ora questo è quel che non è
stato ancora fatto, nè anche tentato, se si eccettua il solo Pla tone, il quale
per analizzare e verificare le definizioni e le idee adopera questo metodo
insino ad un certo segno ». (Aphor. 1o4 e 1o5). Infine, a rimuovere il dubbio,
se cotesto nuovo metodo potesse convenire alle sole scienze naturali, ovvero
alle scienze tutte, Bacone dichiara averle tutte compre se; e siccome la logica
comune, la qua le tutto governa col sillogismo, era stata insino a quel tempo
applicata alle scienze naturali, e alle altre, senza eccezione, così ora tutte
debbe abbracciarle l'indu zione; avendo egli inteso dare all'intelletto un
metodo che potesse dirigerlo nelle sue investigazioni comezzi adattati alla
diversa qualità del subbietti (Aphor. 127). L'au tore, nel secondo libro del
nuovo organo, discende alla pratica dimostrazione dell'uso della induzione, e
dà la norma per de terminare le analogie de fatti simili, dei quali propone
diverse categorie, per faci litare l'applicazione delle sue regole all'os
servazione del fenomeni naturali, e per ista bilire una scala ascendente e
discendente di assiomi. Ma lo stato delle scienze fisi che di quel tempo non
permise, che il suo profondo ingegno ottenesse nella pra tica applicazione
decennati concetti quesuc cessi, che erano riservati alla sovrumana mente di
Newton. In tutti gli altri luoghi della sua grande ristaurazione delle scien
ze, ne quali non lascia di ritornare alla importanza e all'uso della vera
induzione, egli non fa che ripetere le medesime idee espresse nel luoghi di
sopra trascritti ; si che da questi possiam raccogliere i carat teri essenziali
del nuovo metodo, per giu dicare in che differisca dall'antico. 1.” Il primo è
, di non fermarsi agli esempi defatti noti e comuni, ma di rac coglierne il
maggior numero possibile, di delerminare i caratteri della somiglianza, di
stabilire le eccezioni, dalle quali può nascere la difformità, di ammettere i
soli fatti concludenti, e di pervenire per tal modo ad una proposizione vera
affirmativa: 2.º di non passare per salto da fatti particolari a generali, e di
non istabilire alcuna generalità che non nasca da una rigorosa scala di
passaggi, per modo che da fatti singolari si ascenda alle verità ge nerali
d'infimo ordine, da queste agli as siomi medi, e da questi altri a genera
lissimi: 3.º di esser cotesto metodo adattabile non alla sola osservazione de
fatti della natura materiale, o ad una più che ad un'altra scienza, ma a tutte
le scienze; anzi essere la via unica, per la quale l'intelletto può pervenire
allo scoprimento del vero, così nella invenzione, come nel la dimostrazione.
Stabiliti i caratteri propri della indu zione di Bacone, giova ora tornare a
quel che ne aveva detto Aristotele. Quanto al primo de tre dinotati requisiti,
Aristotele non solamente non confuse l'enumerazione degli esempi colla
induzione, ma avvertì che l'argomento tratto dagli esempi è im perfetto, tra
perchè non raccoglie tutti i singolari, e perchè da una semplice rela zione
d'un particolare ad un altro partico lare, mal si conchiude all'universale. Con
tale avvertenza egli distinse la vera ana º - 52 – logia, fondata sulle
necessarie relazioni dei fatti permanenti, dall'apparente somiglianza
degl'individui. Circa il secondo, sembra egualmente manifesto, che nel concetto
di Bacone non si trovi nulla di più di quel che detto aveva Aristotele; in
pruova di che baste rebbe addurre la sola definizione che que sti diede della
induzione, la progressione cioè desingolari all'universale. Ma egli spiegò
ancora come questa progressione si formi, cioè raccogliendo i particolari, per
mezzo de'quali alla perfine si giugne alla proposizione generale ignota. Bacone
pre suppone che nell'uso delle antiche scuole da pochi fatti particolari
accostumavasi la mente a stabilire talune pretese proposi zioni generali, le
quali assumevansi come assiomi e divenivano le basi dell'argo mentazione
sillogistica. Ad impedir cotesto abuso egli vuole che non si vada per salto
alle verità generali, ma si segua rigoro samente la scala degli assiomi medi,
per indi giugnere a più generali. Tale è stato per verità l'uso che le scuole
fecero per secoli della induzione, d'onde poi nacque che le scienze fisiche
fossero ingombrate da falsi assiomi, e da supposte cause le quali precludevano
ogni adito alla inter pretazione della natura, e alla vera co gnizione desuoi
fenomeni. Ma colesto falso cammino fu la conseguenza più della er ronea applicazione
della induzione, che dell'avere ignorato le sue leggi. Lo stesso dee dirsi del
terzo requisito della moderna induzione, cioè del dover essere considerato come
un metodo logi co, comune a tutte le scienze, e come il solo mezzo che può
condurre alla inven zione. Aristotele aveva veduto e disegnato il logico
meccanismo della induzione, ma credeva che le scienze già ricche di verità
generali e di assiomi potessero col ragio namento a priori, o sia col
sillogismo pro cedere tanto nella dimostrazione, quanto nella invenzione. In
conclusione, a noi pare, che se nuova voglia dirsi la indu zione di Bacone,
considerata come un me todo logico universale, che solo conduce allo
scoprimento delle verità generali e alla interpretazione della natura, possono
i moderni arrogarsi questa lode sopra gli antichi; ma falso sarebbe il credere
che Aristotele non avesse veduto l'uso che di quella poteva farsi, o scambiato
l'avesse colla semplice enumerazione degli esempi. Ma quì per dire tutto intero
il giudizio del sistema logico e intellettuale di due straordi nari ingegni,
che abbiamo sin qua tra loro comparato, vuolsi notare che mentre Ari stotele
riconosciuto aveva, come fondamenta del ragionamento a priori le verità
intuitive che risedono nell'interno sentimento del l'anima (Analyt. prior. lib.
II. cap. XIX), Bacone per contrario, non ammise altri principi o verità
generali, se non quelle che risultar possono dalla induzione stabi lita sopra
le sensazioni e la sperienza, di chiarato avendo affatto ideali tutte le al tre
verità generalissime formate dalle astra zioni (nov. org. aph. XIX); secondo il
qual detto, ideali sarebbero tutti i principi e le verità intuitive, che non
provengono immediatamente dalla nuda esperienza dei sensi. E pure Aristotele e
Bacone profes savano la medesima opinione intorno alle origini delle umane
conoscenze. Come spie gare una tale contraddizione? Forse può dirsi che Bacone
fu più coerente al proprio sistema, ma che Aristotele sentisse più di quel che
esprimevano i principi razionali della sua dottrina. - Certamente l'induzione
limitata alla espe-. rienza de soli fatti sensibili, non sarebbe - 55 - stata
utile se non alle scienze fisiche. È merito del dottor Tommaso Reid, e della
scuola sua, detta scozzese, l'averla ap plicata alla investigazione
degl'interni fatti dell'animo, adoperandola come un metodo logico della
psicologia. Nella scelta defatti simili, e nel rimontare da particolari ai
generali cotesto metodo fa uso dell'ana logia, che è un principio fondato sopra
l'uniformità e costanza delle leggi della natura. Per esso formiamo le prime no
zioni della causalità, e della somiglianza; trasportiamo al di fuori le nozioni
formate dentro di noi; e per mezzo del passato ci apriamo la cognizione
dell'avvenire. Reid ha dimostrato che questo principio, sì fe condo di scoverte
e d'invenzioni nello stu dio della natura sensibile, è il solo che può guidarci
nella investigazione de fatti dell'intelletto e della coscienza, preservan doci
dalle ipotesi, nelle quali erasi smar rita l'antica filosofia. L'analogia in
somma è il principio re golatore della induzione: l'induzione sco pre la
connessione del fatti, e l'analogia svela la ragione della loro somiglianza:
l'uso dell'una per mezzo dell'altra forma la logica della sperienza: in questa
lo gica è riposto il criterio, che la natura ci ha dato per giugnere alla
cognizione delle leggi e de fini suoi. V. Analogia, Esperienza. INEFFABILE
(teol.), quel che non può esser narrato o spiegato con parole. È proprio di Dio
e delle divine qualità. Quello 'nfinito ed ineffabil bene Che lassù è , cosi
corre ad amore, -- Come a lucido corpo raggio viene. DANTE Purg. INEGUALE
(spec.), negazione dell'eguale. Ha lo stesso significato del diseguale, perchè
la nostra lingua dà la stessa forza alle due particelle negative dis e in, quan
do son messe innanzi a nomi di qualità. V. Eguale. INEQUIVALENTE (disc. e
prat.), nega zione di equivalente. V. questa voce. INERENTE e INERENZA
(ontol.), quel che per natura è nel corpo, e non può essere dallo stesso
separato. E però dicesi essere il peso inerente alla materia, e l'accidente al
suo subbietto. INERUDrro (crit.), negazione di quel che ha erudizione. V.
questa voce. INEazia (spee.), qualità propria della materia, di durare nello
stato di quiete o di moto, insino a che non sia per qual che esterna causa
obligata di mutare lo stato suo. V. Moto, Quiete. I fisici han dato a cotesta
qualità il nome di forza. Ma se una tal denominazione, che conviene alla causa
della mutazione dello stato, possa con proprietà essere adat tata ancora alla resistenza,
che i corpi op pongono all'azione della causa, è una qui: stione intorno alla
quale gli stessi fisici han variamente sentito. V. Forza. INEscUSABILE (prat.),
negazione dell'escusabile. V. Escusare. INEsoRABILE e INEsoRABILITÀ (prat.),
qua lità d'uomo, che non si muove a preghiera di sorta alcuna. INETTEzzA e
INETTITUDINE (spec.), ne gazione dell'attitudine. V. questa voce. – 54 –
INFaceTo (disc.), chi non ha il dono della facezia; o quel che non è ſaceta
mente detto. V. Facezia. INFALLIBILE e INFALLIBILITÀ (teol. e spec.), qualità
propria di Dio, che non può in gannare, nè essere ingannato. I teologi e i
filosofi hanno distinto l'in fallibilità di natura dall'altra di grazia. Di
quella parla la teologia naturale; di questa, la rivelata, o dogmatica. V. Teo
logia. L'infallibilità di natura è propria di Dio, perchè è una conseguenza
della somma ed assoluta sua perfezione. Per sua illumina zione gode ancora di
tal prerogativa la coscienza dell'uomo, la quale scopre l'er rore desensi,
distingue le vere dalle false suggestioni degli affetti e delle passioni, e con
piena e ferma assicuranza si riposa ne propri giudizi. Per una luce di reſles
sione, la quale non può venirle se non dal suo Autore, ella ha in se non sola
mente il senso del giusto e del vero, ma ancora la certezza di possederlo.
L'infal libilità dunque della coscienza umana, è una derivazione della
infallibilità divina. V. Coscienza. INFAMARE (prat.), il dare mala fama, o il
togliere altrui la buona. È più del vituperare, dacchè questo può risguardare
anche un fatto particolare ri prensibile, senza offesa della esistimazione
della persona biasimata. V. Biasimo, Vi tuperio. INFAME (prat.), uomo di
perduta fama. V. questa voce. Israna (prat.), universal grido di vi.
tuperazione e di disistima della persona. Ovvero, perdita della esistimazione e
dell'onore. Nel primo senso è una negazione ed un contrapposto della fama. V.
questa voce. Nel secondo è la maggiore di tutte le pene morali, la quale priva
l'uomo della sua natural dignità. V. Dignità , Pena. INFEDELE e INFEDELTÀ
(prat.), negazio ni, che contengono vizio opposto alla virtù della fedeltà. V.
questa voce. - INFELICITÀ (prat.), stato continuo di sofferenza e di dolore. -
È il contrapposto della felicità, il con cetto della quale presuppone quello
del vero piacere e del dolore. La vera infelicità è quella che porta seco
l'inquietudine e il dolor dell'animo. Chi si rende servo di qualsivoglia passio
ne; chi ripone il bene nel piacer de'sen si; chi lo attende dagli altri e non
da se stesso; chi pone il superfluo nel luogo del necessario, può dirsi
solamente infelice. L'infelicità è al suo colmo e diviene ir reparabile, quando
i vizi si convertano in costumi. V. Costume, Vizio. INFERIRE (disc.), il
passare da una proposizione ad un'altra da quella dipen dente, per una
relazione qualunque. Ha un significato affine al dedurre, ma da questo alquanto
diverso. Il dedurre pre suppone una connessione di relazioni più immediate, per
le quali passando si per viene alla conclusione. V. Dedurre. INFERMrrà (prat.),
alterazione della na tural condizione degli animali, per la qua le vien turbato
l'equilibrio delle forze , insieme coll'esercizio delle rispettive loro
facoltà. – 55 – Per necessità di linguaggio si trasporta dal sensitivo al
morale, e si adopera per esprimere ancora le alterazioni che la mente riceve
per le affezioni del corpo. INFIDo (prat.), negazione e contrap posto di fido.
V. questa voce. INFINITÀ (ontol. teol. e spec.), la nozione dell'infinito,
considerata come qualità. In questo senso non può essere usato con proprietà,
se non per esprimere le virtù dell'Essere infinito. Nel significato comune vale
moltitudine innumerabile di obbietti, nel quale senso è un astratto
dell'infinito relativo, o sia dell'indefinito. V. Indefinito, Infinito. INFINITESIMALE
(spec. e crit.), quel che è più picciolo di qualunque grandezza as segnabile.
V. Assegnabile. È il nome dato al calcolo degl'infini tamente piccioli, o
differenziale. V. que sta Voce. INFINITIvo e INFINITo (disc.), quella parte del
verbo, che esprime l'idea astratta del suo essere, o della sua azione, senza de
terminazione di numeri, o di persone. I gramatici disputano, se debba o no
dirsi modo del verbo, appunto perchè manca d'inflessioni numeriche e personali.
La soluzione di questa controversia dipende dal senso, che si dà alla parola
modo. Se per modi s'intendono le varie forme, colle quali possiamo formare un
giudizio, o enunciare una proposizione; è mani festo, che non potendo
l'infinito servire a formare proposizioni, e a determinare le relazioni tra 'I
predicato e il subbietto, entrar non potrebbe nel numero demodi. Ma se per modi
intendiamo ogni forma, o inflessione destinata a determinare il particolare
significato del verbo a rispetto così delle persone, come delle cose, o del
tempo; non vediamo perchè l' infi mito non debba dirsi un modo, del pari, che i
participi, i gerundi, e i supini. Alla qual considerazione si aggiugne l'altra,
che il verbo è propriamente la forma col lettiva, che in se abbraccia quella di
tutti gli altri modi, prendendone soltanto il con cetto generico ed astratto.
V. Modo. Dal perchè l'infinito esprime l'idea astratta del verbo, segue che in
ogni lingua pren de ancora la forma di nome sostantivo, o sia d'un nome verbo.
Per questa ragione medesima il participio, che indica una qua lità derivata dal
verbo, diviene un addiet tivo verbale. V. Participio. INFINITo (spec. ontol. e
teol.), quel che è incapace di qualunque accrescimento. Ovvero, quello cui non
possono asse gnarsi termini di cominciamento o di fine. Son queste due
definizioni prese, una dalla quantità, l'altra dal tempo, che esprimono una
medesima nozione. Ma in questa nozione noi siam soliti confondere due diversi
concetti dell'infinito che gio va distinguere colle qualità di naturale e di
soprannaturale. L'infinito naturale è una negazione del finito: del finito
formiamo il concetto da noi stessi e dalle altre cose esistenti fuori di noi:
da cotesto concetto passiamo all'al tro dell'infinito per una gradazione d'idee
del tutto sensibili: per quanto grande in estensione o in numero da noi si
concepi sca una cosa, il nostro concetto non c'im pedisce di aggiugnervi col
pensiero una quantità o un numero sempre maggiore, e trasportarci insino ad un
segno che ci manchi l'espressione della grandezza, senza – 56 – che però il
pensiero si arresti nel supporre possibili gli ulteriori gradi di accrescimen
to. Questo è quell'infinito, che gli scolastici chiamarono potenziale, che
altri dissero relativo, e che più propriamente Cartesio dinotò col vocabolo
indefinito. V. Finito, Indefinito. Il soprannaturale poi, detto dagli sco
lastici assoluto, è una nozione incompiuta, che la mente forma per una
negazione del finito, senza poterla abbracciar tutta in tera, perchè trascende
i limiti della ca pacità sua: è un infinito, di cui l'essere è stato, è, e sarà
sempre incapace di qualunque accrescimento, che non ha avuto principio, e non
avrà fine, di cui le qualità sempre immutabili non possono ricevere altro
aumento di per fezione, che in somma non conosce li mili di quantità, di qualità,
o di dura ta. Da questa nozione dell'infinito nasce l'altra della eternità e
dell'eterno, che è l'infinito nel tempo. L'infinito assoluto dunque è Dio, o
sia quell'Essere semplice, reale, perfetto, scevro di qualunque composizione,
senza principio e senza fine, incapace di qual sivoglia accrescimento o
diminuzione. Di Lui non abbiamo nè aver possiamo una nozione compiuta, che
abbracci tutte le qualità e le perfezioni dell'esser suo. Pos siamo ben
concepire la nozione d'un pri mo Essere, da cui tutti gli altri ricono scono
l'esistenza, e che ha in se tutto quel che manca agli altri Esseri da se
creati; lo possiamo concepir dotato di tal virtù e potenza, che per quanto
grande sia, non però non sarebbe capace di al tri aumenti, che sono al dilà
della no stra comprensione. Quando la mente è giunta a questo termine, essa non
ha fatto altro che concepire l'infinito natu rale o potenziale: essa non può
giugnere all'assoluto, perchè questo si confonde coll'incomprensibile. Ma
dall'essere incom prensibile potrebbe taluno conchiudere con tra la verità e la
realità della nozione che ce'n formiamo? No, perchè l'incompren sibilità cade
non circa l'Essere, ma circa le qualità e le perfezioni che formano la sua
essenza. Noi concepiamo il primo Es sere non solamente come esistente, ma come
necessario, e di questa nozione non può darsi altra più chiara o più compiuta;
tanto chiara e compiuta, quanto quella della causa e dell'effetto. Ma
l'ampiezza delle qualità e delle perfezioni di quell'Es sere è tale, che non
può la mente rag giugnerle, perchè non trova in se nulla che possa a quelle
paragonare. E quì gio va ricordare il principio di analogia sta bilito da
Leibnizio, cioè che non altri menti noi giudichiamo degli obbietti posti fuori
di noi, se non per quelli che con cepiamo in noi stessi. Ora, ogn'idea degli
obbietti posti fuori di noi è sempre vera, quando per essa chiaramente
distinguiamo gli uni dagli altri, comechè non potessimo colla stessa chiarezza
conoscere tutte le qua lità loro. Che se così non fosse, il non conoscer noi le
essenze delle cose, sarebbe una ragione per negare l'esistenza loro; e se
fossero vere quelle sole idee, per le quali noi possiam conoscere in tutta la
sua ampiezza il costitutivo delle cose, o niuna idea sarebbe vera, o per dirsi
vera l'idea che abbiam di Dio, dovremmo compren der l'essenza sua, come Egli
stesso la com prende, o sia dovrebbe la nostra intelli genza essere infinita
come la sua. Allorchè diciamo esser vera l'idea, che abbiam di Dio, intendiamo
non solamente dire che è conforme e coerente a lumi del la nostra ragione, ma
che è reale e cor – 57 – rispondente all'attualità della sua esistenza.
Imperocchè può la mente conoscere l'esi stenza dell'infinito assoluto, e di
altri ob bietti come questo incomprensibili, quan tunque non possa concepire
quel che in se stessi sono; non altrimenti che un cieco nato, il quale sa
esservi decolori, quan tunque formarne non possa l'idea, e ne parla, sebbene
non possa indicarne le qua lità, o gli accidenti. V. Incomprensibile. L'idea
dell'infinito relativo o potenziale è un modo della idea dello spazio, del
numero, del tempo, e della misura: da queste ricaviamo la comparazione tra i
finito, e l'infinito: l'infinito nella esten sione e nella misura è quel che
dicesi im mensità. V, questa voce. INFINGARDAGGINE e INFINGARDo (prat.),
lentezza di operare di chi s'infinge di non potere. Differisce dalla pigrizia,
perchè esprime un abito volontario d'inerzia, che inceppa le forze così del
corpo come dell'animo, V. Pigrizia. INFLEssibile (prat.), senso traslato dal
pieghevole e dicesi, tanto in buona quanto in cattiva parte, di chi non cede
alla forza di qualunque seduzione, di chi non in china ad alcun atto servile,
di chi non devia dal rigor della regola, e di chi per caparbietà non si arrende
a veruna per suasione, INFLEssione (disc.), distendimento del suono della
parola, per adattare l'espres sione del derivati all'idea del loro radicali, È
vocabolo proprio de movimenti e dei passaggi della voce da un suono artico lato
ad un altro affine, per esprimere il numero, il genere, le relazioni del vari
casi del nome, i modi, i tempi, e tutti i derivati dalle rispettive radici. I
latini da quali ci viene cotesto voca bolo lo applicarono ancora alle
variazioni del canto: - Ille liquor docuit voces inflectere cantu. TIBULLo. I
gramatici distinguono le inflessioni dalle desinenze, colle quali finisce il
voca bolo, e che d'ordinario servono a deter minare il numero, il genere, il
modo, o il tempo. Laonde sogliono in ogni nome derivato notare tre parti, la
radice, l'in flessione e la desinenza. V. Desinenza , Radice. Il dizionario
della nostra lingua è stato poco coerente, quando ha riconosciuto la
legittimità del verbo inflettere, negando la cittadinanza al participio
inflesso, usato dal Galilei, e al vocabolo inflessione ri cevuto dal comune uso
di parlare, e ri cercato dalla necessità del discorso; il che diviene ancora
più inesplicabile, se si av verte, che i compilatori del vocabolario fecero
grazia al nome flessione, che è un latinismo, ed un preſto sinonimo di altre voci
italiane a questa equivalenti. INFLUsso (spee. e teol.), atto per lo quale la
virtù d'un subbietto passa e si trasfonde in un altro. I metafisici pretesero
con questa idea spiegare il commercio tra l'anima e il corpo, e lo denominarono
influsso fisi co. Per esso supponevano un'azione del l'anima sul corpo, e del
corpo sull'anima, la quale a senso loro spiegava tutti i fe nomeni della
volontà, e delle affezioni che dal corpo si tramandano allo spirito. Co testa
ipotesi fu rimossa da Cartesio e da S – 58 – Malebranche, da quali nacque un
nuovo sistema, quello cioè delle cause occasio nali. V. Causa. Leibnizio
produsse una terza ipotesi, quella cioè dell'armonia prestabilita. Que ste tre
ipotesi contengono i tre concetti, pe quali i filosofi han preteso penetrare
nella cognizione del maggior mistero del la natura. V. Armonia. INFoRME
(spec.), negazione di quel che ha forma. V. questa voce. INrusoRio (spec.),
nome dato a vermi, e agl'insetti, che si generano per la scom posizione delle
sostanze solide, messe in contatto coll'acqua e coll'aria. Needham, Buffon,
Bonnet e gli altri naturalisti del XVIII secolo li chiamarono animaletti delle
infusioni. Ottone Federico Muller gli ha denominato infusori, deno minazione
che è stata accettata dalla zoo logia e dalla fisiologia. Cotesta classe di
animaletti cominciò a richiamare l'atten zione del naturalisti e del fisiologi
insieme intorno alla metà del secolo decimottavo, ed ha seguito i progressi
della costruzione de microscopi. Reaumur, Trembley, Jus sieu, Lyonnet, Needham,
Buffon, Bonnet furono i primi ad entrare nel regno de gl'infinitamente piccioli
della natura sen sibile, e spinsero le loro osservazioni sin dove il permisero
i microscopi del tempo loro. Muller è l'ultimo che gli ha ridotto in classi,
sebbene pare che senza porre mente alle diverse forme organiche decen nati
viventi, ne avesse riunito i vari ge neri per somiglianze affatto apparenti.
Tali somiglianze sono: 1.º la grande picciolezza e trasparenza loro: 2.º la
necessità ch'essi hanno di vivere in un fluido animale o vegetale, il che è una
conseguenza della stessa loro picciolezza : 3.º la particola rità, che non
possano essi altrimenti svi lupparsi, che nelle infusioni delle piante o degli
animali. Da ciò è nato, che pro miscuamente sonsi chiamati infusori tutti
gl'insetti invisibili all'occhio nudo, i quali non possono essere scoperti se
non col l'aiuto del microscopio, e che lo stesso nome si è dato, nelle sostanze
vegetali, alla materia verde di Priestley, la quale apparisce sotto la forma
d'una sostanza verde, mucilaginosa, e inorganica, come il musco formato sopra
la superficie delle acque stagnanti. Ma giova distinguere gli Esseri organici
dagl'inorganici, e limitare il significato di questo vocabolo a quei soli
animaletti, de quali il nome spiega la na tura, spezialmente per quel che
concerne la quistione della generazione spontanea, cui essi han dato luogo. E
però come in fusori van considerati i vermi e gl'insetti, che si formano nella
scomposizione di qual que sostanza solida, operata per mezzo d'un fluido e
dell'aria, nella quale classe debbon esser compresi quelli che nascono e vivono
nelle viscere degli animali, in dicati da fisiologi col nome di entozoi. I
caratteri essenziali, pe quali la zoo logia classifica le innumerabili famiglie
del regno animale, son desunti dalle loro forme organiche; nè potrebbero essere
ri cavati dagli accidenti, che servono sola mente a distinguere le spezie loro.
La classe degl'infusori, secondo la partizione che ne fa Blainville, può essere
divisa nei seguenti generi, o sezioni che vogliandirsi: 1.º ve n'ha di quelli
de quali la forma è pari e simmetrica, non solamente nel corpo, ma ancora nelle
appendici allo stes so annesse, più o meno numerose, e ri vestite d'un vero
involto corneo, come i brachioni: – 59 – 2.º altri hanno un corpo allungato,
ver miforme o depresso, simmetrico, e senza traccia di appendici, come i
vibrioni: 3.º altri son d'una forma radiale con una bocca o cavità apparente,
come la maggior parte delle vorticelle: 4.º altri finalmente son d'un corpo
amor fo, o sia senza forma determinata, che gli renda capaci di essere
definiti; senza bocca di sorte alcuna, e senza vestigio di appendice, come i
protei, i volvoci e le monadi. Ora i caratteri animali trovansi in tre delle
dinotate spezie, ma non potrebbero certamente ravvisarsi nella quarta, la qua
le sebbene abbracci corpi che posson dirsi organici, pur tuttavolta l'organismo
loro non ha alcuna forma determinata, e non può essere riferito a veruno de
tipi della natura. A buon conto essi non sono altro che un tessuto eellulare,
nelle maglie del quale contiensi del fluido, appena conden sato nella
circonferenza, da servire d'in volto o guscio, per modo che tutte le fun zioni
loro riduconsi a due, cioè all'assorbi mento immediato delle molecule che son
contenute nel fluido ambiente, e alla esa lazione. « Son questi, dice il citato
autore, gl'insetti che i fisiologi affermano nascere nelle infusioni vegetali o
animali, e in gra zia de'quali troppo ampiamente ammettono la generazione
spontanea, e molte altre idee più o meno erronee. La verità è, che una tal
supposizione non può essere ammessa per tutti gli animali, che sono annoverati
tra gl'infusori, ma per quelli solamente che noi chiamiamo amorfi ; il che
ammesso, resterebbe a determinare, se essi sieno veri animali, cosa per altro
non tanto fa cile, quanto sembra essere a prima vista. Similmente da fatti che
si è creduto avere osservato negl'infusori delle infime spezie, si è ammessa
una generazione per interni smembramenti spontanei, o per parti di staccate dal
corpo della madre, quasi che nel suo interno si fossero formate delle picciole
gemme o bottoni. Quantunque sia questo un concetto che può la mente for mare,
almeno insino ad un certo segno, pur tuttavolta molto importerebbe il veri
ficarlo. D'altra parte le osservazioni fatte sopra una delle spezie
degl'infusori più elevate, han dato luogo a provare, che l'animale sia, per
così dire, una sorta di combinazione determinata, almeno per rispetto
all'acqua, per modo che restituendogli l'acqua che aveva perduto per
disseccamento, l'animale, il quale sembrava morto, ripiglia i suoi abituali
movimenti, fenomeno verificato nel ro tifero di Spallanzani (vorticella conval
laria di Muller). Ma nella serie di osser vazioni, che restano a farsi sopra
queste spezie di animali, converrebbe adoperare la maggior diligenza possibile,
per evi tare gli errori, i quali provengono dal l'instrumento che gli
osservatori sono obli gati di adoperare; cosa difficile, a meno che essi non
fossero egualmente istruiti nella scienza degli animali, e in quella del
microscopio. ( Diction des sciences naturelles ). Prima di giudicare del fatti,
sopra i quali fondano oggidì i fisiologi la gene razione equivoca o spontanea,
giova ri cordare le varie opinioni, che in diversi tempi prevalsero intorno
alla medesima dottrina. Aristotele, che dobbiam contare come il primo e il
maggiore degli anti chi naturalisti, nella storia degli animali, ammise come
certa la generazione equi voca: c gl'insetti, egli disse, nascono, o da altri
animali dello stesso genere, come i ragni, e da ragni di varie specie, come r –
60 – i bruchi, le locuste e le cicale ; ovvero spontaneamente e non da altri
animali. Di questi altri son prodotti dalla rugiada, che si ferma sulle foglie
nel tempo di pri mavera, secondo l'ordinario corso di na tura; altri dalla
putrefazione del fango, e del letame; altri dalle radici del legno, o dal legno
reciso; altri nascono nel peli degli animali, altri negli escrementi, o già
separati, o ancora contenuti nelle vi scere degli animali, come i vermi che di
consi tarli ». (de hist. animal. lib. V. cap. 19). Senza moltiplicare altri
esem pi, Plinio e tutti gli antichi seguirono la dottrina di Aristotele, la
quale formò l'opinione dominante tra naturalisti insino al decimosettimo
secolo, tempo in cui lo studio della notomia e della fisiologia mi croscopica
portò nuove e migliori cono scenze intorno alla generazione degli ani mali, e
spezialmente degl'insetti. V. Cor ruzione, Generazione. Il celebre Guglielmo
Harvey, nell'opera della generazione degli animali, rove sciò l'ipotesi della
generazione spontanea, stabilì la dottrina della preformazione del germe
nell'uovo, e consecrò la massima omne vivum ea ovo. L'illustre Swammer dam,
(nella storia generale degl'insetti, che egli chiamò Biblia della natura) con
fermò cosuoi esperimenti il principio sta bilito da Harvey, dimostrò i
caratteri di somiglianza che la generazione degl'insetti ha con quella non
solamente degli altri animali, ma ancora delle piante. Tutti i naturalisti di
quella età e della seguente come Leevenhoeck, Malpighi, Boerhave, Haller,
Vallisneri, Reaumur, Trembley, Lyonnet, ed altri non fecero che illustrare con
nuovi esempi il medesimo argomento. ll Redi spezialmente imprese a dimostrar
falsa la generazione spontanea nella pu trefazione delle sostanze animali, e
dimo strò che i vermi, i quali vi si formano, nascono dalle uova della medesima
spezie, che le mosche vi han depositato; la qual conclusione fu dal Malpighi
dimostrata vera anche a rispetto degl' insetti che nascono nelle piante, e con
particolarità di quei vermi e mosche che si trovano nella noce di galla.
Lasciam di dire, in che i cen nati naturalisti discordassero ne sistemi loro,
che intendessero per uovo, e quali fun zioni assegnassero nella generazione
degli animali vivipari agli animaletti spermatici, che ora van pure compresi
nella classe de gl'infusori. Tali quistioni, oltre all'essere straniere al
presente articolo, apparten gono alla spiegazione del mistero della ge
nerazione. O che il miscuglio del fluidi seminali producesse il feto, o che
quello del maschio fecondasse le uova già pre formate, rimase sempre saldo il
principio, che la vita non può venire se non dal germe del vivente. L'opinione
per conse guente della generazione equivoca o spon tanea in un dato genere di
animali, fu risguardata come un errore delle vecchie scuole, confutato non meno
per gli espe rimenti, che per l'analogia delle leggi della natura.
Dall'universal consenso de naturalisti par ve che si allontanassero Needham e
Buf. fon, il quale era stato discorde anche dalle comuni congetture intorno al
modo come si operasse il concepimento del feto, e aveva creduto che i fluidi
seminali de due sessi fossero un complesso di particelle or ganiche, che per
una affinità di elezione concorressero insieme a formarne le varie parti. « Gli
esperimenti da me fatti, egli dice, chiaramente dimostrano non sola mente che
non v'ha germi preesistenti, ma che la generazione degli animali e – 61 – de
vegetabili non è univoca. Il numero degli Esseri viventi o vegetanti, che si
producono pel fortuito assembramento del le molecule organiche, è tanto grande,
quanto quello degli animali e del vegeta bili, che possono riprodursi per una
co stante successione di generazioni. Alla pro duzione delle spezie di Esseri
di fortuita formazione de essere applicato l'assioma degli antichi, corruptio
unius, genera tio alterius. La corruzione, o la scompo sizione degli animali e
devegetabili, pro duce una moltitudine di corpi organici vi venti e vegetanti:
di questi taluni, come quelli della materia latticinosa del cala maio, sono una
sorta di semoventi, per se stessi attivi, comechè d'una forma sem plicissima:
altri, come gli animaletti sper matici, son corpi, che per lo moto sem brano
imitare gli altri animali: altri imi tano i vegetabili per lo modo, col quale
crescono e si distendono: altri come quelli del grano alterato, che si può fare
alter namente vivere e morire, e i quali non saprebbesi ad altra spezie
paragonare: al tri, e questi in grande numero, i quali cominciano dall'esser vegetabili,
passan di poi a formare spezie di animali, e tor nano un'altra volta alla
condizione di ve: getabili. A misura che questo genere di Esseri organici sarà
meglio osservato, è verisimile che vi si troveranno varietà, per noi tanto più
singolari, quanto son più lontane da nostri occhi, e più distanti dalle altre
varietà della natura sinora co nosciute. Il grano guasto, per esempio, è una
spezie di alterazione, o di scom posizione della sostanza organica del gra no,
la quale produce un grande numero di filetti, o di piccioli corpi organici,
simili per la figura alle anguille. Per os servargli col microscopio, basta
tenere il grano in infusione nell'acqua per dieci o dodici ore, e separare i
filetti che ne compongono la sostanza. Da questa pri ma osservazione vedrassi
che essi hanno un notabile moto di flessione e di attorci gliamento, e
insiememente un leggiero moto di progressione, il quale imita quel
d'un'anguilla, che si attorciglia: se manca loro l'acqua, cessano essi di
muoversi, e se nuova acqua vi si aggiunga, il moto ricomincia : conservando
questa materia per giorni, per mesi, e anche per anni; in qualunque tempo si
ripigli l' osserva zione, rifondendo acqua, vi si vedranno sempre le stesse
anguillette, e i medesimi filetti, che vi si videro la prima volta ; per modo
che si può, sempre e per quanto tempo si vuole, fare agire cotesti semo venti,
senza distruggergli, e senza che essi perdano nulla di forza e di attività ». «
Le anguillette, che si formano nella colla di farina hanno la stessa origine,
la riunione cioè delle molecule organiche della parte più sostanziale del
grano: le prime a comparire, non sono certamente prodotte da altre anguillette:
quantunque non sieno state generate, non però son meno atte a generarne altre
viventi: ta gliandole colla punta d'una lancetta, veg gonsi dal corpo loro
uscire moltissime al tre anguillette, quasi come da un fodero, o da un sacco
ripieno di piccioli anima letti, ciascun dequali può dirsi ancor esso un
fodero, nel quale, a misura che s'in grossa, la materia organica si assimila, e
prende la stessa forma di anguilla ». « Un maggior numero di osservazioni
sarebbe necessario per istabilire classi e ge neri di questi Esseri cotanto
singolari, e sì poco conosciuti. Ve n'ha di quelli, che potrebbero essere considerati
come veri zoo fiti, i quali vegetano e insiememente si attorcigliano, e muovono
talune parti del corpo come gli animali; ve n'ha di quelli che a prima vista
sembrano animali, e che si uniscono insieme per formare del vege tali ». «V'ha,
nella classe di tali Esseri organici di quelli, i quali non son pro dotti, se
non dalla corruzione, dalla fer mentazione, o piuttosto dalla scomposizione
delle sostanze animali, o vegetali; ve n'ha d'altri che son corpi organici, i
quali pos son produrre i loro simili, quantunque non sieno stati essi prodotti
alla stessa manie ra. I limiti di tali varietà son forse mag giori di quelli
che possiam noi concepire. Per quanto noi generalizziamo le nostre idee, e
facciamo sforzi per ridurre gli ef fetti della natura a certi punti, e le sue
produzioni a date classi, ci sfuggiranno sempre innumerevoli specie prossime, o
gradazioni, le quali non pertanto si trovano nel naturale ordine delle cose ».
(Ilist. gen. des animaua cap. IX.). L'opinione di Buffon e di Needham ha acquistato
nuovi fautori presso i moderni fisiologi, taluni de quali spacciano oggi come
indubitata la generazione spontanea o eterogenea per diversi fatti che
risultano dalle loro osservazioni, e de quali alcuni escludono necessariamente
(com'essi dicono) la possibilità della preesistenza dell'uovo o del germe, ed
altri somministrano argo menti verisimili, che gli ulteriori esperi menti
potranno rendere certi come i primi. Lasciamo i secondi, che per la stessa loro
confessione, non hanno ancora forza di mostrativa, ed esaminiamo soltanto il va
lor deprimi. Due sono i fatti che si danno per sicuri e non equivochi. 1.° Il
primo è che dopo di aver ver sato dell'acqua sopra taluni corpi solidi,
scopronsi coll'aiuto del microscopio piccioli animaletti di determinata forma
organica, del germe de quali non si ha verun am tecedente vestigio. Tre cose
sono necessa rie a produrre un tal fenomeno, una so stanza solida, l'acqua,
l'aria atmosferica. Quanto alla sostanza solida, tutti i corpi organici, i
quali han perduto la vita, o le parti loro, come il cervello, il polmo ne, il
fegato, i muscoli, gli escrementi producono, nello scomporsi in contatto
coll'acqua e coll'aria, una moltitudine d'infusori, dalla scomposizione de
quali sviluppansi altri infusori. Lo stesso avviene nelle sostanze animali che
si estraggono da corpi organici, e che i fisiologi chia mano principi
immediati, quantunque sieno ancor essi soggetti ad ulteriore scom posizione,
come l'albumina, la gelatina, la fibrina. Lo stesso è degl'infusori, i quali
nascono ne'corpi viventi, dacchè un tal fenomeno avviene nel punti, ne quali
per infermità, o vizio locale succede una qualche scomposizione. 2.° ll secondo
fatto, addotto in dimo strazione della generazione spontanea, è quel degli
animaletti i quali vivono nelle viscere degli altri animali, e che vengon detti
entozoi. Cotesti animaletti non si tro vano nell'acqua, nella terra, o
nell'aria, ma vivono unicamente nelle interne parti del corpo animale, d'onde
cavati fuori, periscono ; non altrimenti che i vermi i quali vivono nella terra
e nell'acqua, non possono vivere nel corpo degli animali. Quanto al primo
fatto, i fautori della ete rogenia escludono la possibilità dell'uovo o germe
preesistente, principalmente per la ragione che la medesima sostanza soli da, la
quale nel suo stato naturale pro duce gl'infusori, esposta alla più forte
azione del fuoco, e anche disseccata , messa di nuovo in contatto coll'acqua e
coll'aria, dà pure i medesimi animaletti; – 65 – d'onde conchiudono che il
preteso germe non possa in quella esistere. Negano pa rimenti, che possa il
germe esistere nel l'acqua, perchè gl'infusori nascono egual mente, quando lo
sperimento si faccia coll'acqua distillata. Dicono in terzo luo go essere
impossibile, che il germe esista nell'aria, perchè sebbene questa contenga
molte sostanze organiche che la traspira zione de corpi organici le trasmette,
pure essa, le riceve sotto forma di vapori, i quali non possono certamente
contenere, o seco trasportare uova. Aggiungono, che potrebbero queste trovarsi
nella polvere la quale trasportata dal vento, o aderisce alle sostanze, o si
deposita nel fondo del vasi aperti; ma da una parte si è osservato che la
polvere scomponevasi e riducevasi in liquido prima che apparissero gl'infu
sori; e dall'altra gli esperimenti a quali essi ne appellano, erano stati fatti
colla debita diligenza, onde la sostanza messa in infusione ne fosse
interamente spogliata, e fosse all'aria impedito qualunque ac cesso ne vasi
chiusi, ne quali furon fatti gli esperimenti. E circa il secondo fatto credono
poter dimostrare la spontaneità della generazione degli entozoi mediante
l'assurdo, che se ciò si negasse converrebbe ammettere che cotesti animali o i
loro germi passar do vrebbero, o cogli alimenti nelle viscere di coloro ne
quali si trovano, o da padre in figlio per mezzo della generazione. Ne gano la
prima ipotesi, per più ragioni. La prima è, che da pochi casi in fuori, ne
quali può avvenire che un verme inte stinale sia inghiottito vivo da un altro
ami male e particolarmente dall'uomo, nella generalità degli altri casi si
rende impos sibile, che nelle sostanze animali, le quali ci servono di alimenti
si conservino in tatte dopo la cozione le uova e i germi, che si potrebbe
supporre, essere in quelle comprese. La seconda ragione è, che molti entozoi
non covano uova, ma cacciano dal corpo loro molti altri simili viventi, sì che
la loro propagazione è circoscritta dalla durata dell'individuo, dentro del
quale essi vivono ; al che si aggiugne, che tra questi ve n'ha di quelli i
quali vivono nel recinto chiuso di taluni orga ni, come nel tessuto cellulare,
nell'in terno del muscoli, del cervello, dell'oc chio, del fegato. Ora le uova
loro non potrebbero essere portate al di fuori se non per lo rinnovamento del
parenchima de cennati organi ; vale a dire che do vrebbero essere portati nel
sangue per as sorbimento, e separati dallo stesso per se crezione ; dopo la
quale operazione per introdursi negli organi d'un altro indivi duo, dovrebbero
insieme cogli alimenti passare nel canale intestinale, e scorrere insieme col
chilo nel sangue, dal quale dovrebbero nuovamente separarsi durante l'interno
lavorio della secrezione e della nutrizione. Tali e tanti passaggi debbono
aversi come chimerici, perchè non vi sono vie aperte a ricevere corpi estranei,
per chè i vasi sanguigni, o condotti secre tori hanno pareti chiuse, a traverso
del le quali niuna sostanza può penetrare se non sia nello stato di
dissoluzione, e di liquidità, senza dire che quando anche le uova degli entozoi
pervenissero nel san gue, non potrebbero insiem con esso cir colare, perchè
dovrebbero essere per lo meno della grandezza deglobetti di que sto liquido,
anzi dieci volte minori, at tesochè i cennati globetti, appena hanno lo spazio
necessario per traversare i va sellini di ultima ramificazione. Infine non
potrebbero queste supposte uova passar co – 64 – gli alimenti, tra perchè gli
enlozoi son co muni tanto a quelli che si nutriscono di soli vegetabili, quanto
agli altri che vivono di sostanze animali, e perchè è dimostrato, che ciascun
animale ha i suoi propri en tozoi, e che non sono minori di dodici le spezie di
quelli, che si scontrano nelle viscere dell'uomo. Quest'ultimo fatto prepara la
risposta alla seconda ipotesi, cioè della trasmis sione del germi degli entozoi
per la via della generazione. Converrebbe, dicono i fisiologi, che la prima
coppia del nostri progenitori avesse seco portato una com piuta collezione di
simili animaletti, e in siem con questa ipotesi converrebbe sup porne molte
altre più inverisimili, ed an che impossibili, perchè ripugnanti all'atto della
generazione. E quì senza spingere più oltre queste investigazioni, crediamo
aver detto abbastanza per fare intendere i fatti e le ragioni, sopra le quali è
fon data oggi la dottrina della generazione eterogenea, equivoca, o spontanea
che voglia dirsi. Conchiudono i fisiologi, « che gli entozoi nascono al modo
stesso degl'in fusori. Essi formansi nell'acqua carica di sostanza organica,
come ne sieri e ne suc chi muccosi, e il più frequentemente nel l'intestino,
dove trovasi dell'aria atmosfe rica, e degassi, di cui è avvenuta la se
crezione per mezzo dell'organo stesso, o esalati dagli alimenti. Più raramente
na scono negli spazi chiusi, ne quali egual, mente sviluppansi i gassi.
Trovansi ne gl'intestini degli embrioni, nelle uova del, la gallina, e
nell'interno degli stessi ento, zoi, ond'è che per ispiegare siffatti feno meni
per la via della propagazione convien ricorrere alle più arbitrarie e
inverisimili supposizioni ». ( Burdach Physiologie T. I, de l'hétérogenie). La
controversia, che i fisiologi fanno intorno alla generazione spontanea degl'in
fusori, è di quelle che debbon essere du bitativamente trattate, e non
dogmatica mente decise, perchè tocca gl'impenetra bili segreti della natura,
anzi il maggiore desuoi misteri, qual è appunto la gene razione. Al dubitare ci
muove ancora l'au torità del maggior numero de naturalisti del XVIII secolo, e
dello stesso Muller, il quale ha creduto possibile che i germi degl'infusori
preesistessero nell'acqua, o nella sostanza solida messa in infusione, o anche
nell'aria. In somma le ragioni del nostro dubitare, sono le seguenti. I.
Gl'infusori appartengono a quella classe di Esseri, di cui la picciolezza tra
passa i limiti del nostri sensi, e di molti de'quali senza la scoverta de
microscopi, avremmo ignorato l'esistenza. Molte parti dell' interna loro
struttura si sottraggon pure alla portata de più perfetti tra quelli
instrumenti. I germi di siffatti insetti, se noi gli concepiamo sotto forma di
uova, appartengono al regno delle cose invisi bili, dal quale la natura ha
voluto tener lontana la curiosità degli osservatori. Co testi germi dunque,
qualunque sia la for ma loro, debbono essere impercettibili, quanto l'infimo
granello della polvere che si disperde nell'aria, o quanto la più te nue delle
molecule del gassi, e possono essere volatili e sparsi per tutta la massa della
materia, senza essere a noi visibili. Dal difetto de'nostri sensi quale
argomento può trarsi alla assoluta loro mancanza? II. Credono i moderni
fisiologi, a forza della più sopraffina diligenza, di potere raggiugnere la
natura, e sorprenderla in quella parte del suo magistero, ch'ella ha voluto più
celarci: distillano l'acqua per averla pura e scevra da ogni estranea – 65 –
sostanza: fanno i loro sperimenti nel va cuo, e intendono impedire ogni accesso
all'aria: adoperano il disseccamento o la cozione per torre via la possibilità,
che i germi della propagazione rimangano na scosi nella sostanza solida, dalla
infusione della quale nascono gl'infusori. Dopo tanta diligenza, se la
infusione produce ancora gli stessi animaletti, credesi dimostrata la spontanea
loro generazione. Ma doman diamo, se ne mezzi sensibili che noi ado periamo per
isolare e scomporre le forze della natura può darsi nulla di perfetto e di assoluto?
Possiam noi ottenere l'acqua perfettamente pura per mezzo della distil lazione,
e possiamo per qualunque breve tempo conservarla nello stato di sua pu rità?
Possiamo, per gli sperimenti fatti ne vasi chiusi, ottenere il perfetto vacuo,
e impedire ogni accesso all'aria atmosfe rica? Siam sicuri, che l'acqua e
l'aria, nel cambiamento o nel nettamento devasi, non riportino alla sostanza
solida quelle particelle o molecule invisibili, che da quella eravamo riusciti
a separare? L'atmo sfera è piena di particelle di sostanze orº ganiche, che i
corpi tramandano, e che l'aria va qua e la depositando. L'acqua tiene in
soluzione particelle solide organi che e non organiche, tra le quali posson
trovarsi, e verisimilmente trovansi i ger mi degl'infusori, e di cento altre
spezie d'insetti aquatici. Chi può affermare con certezza, che il germe
degl'infusori si trovi nella sostanza solida più che nell'ac qua, o nell'aria?
Chi potrebbe negare che sievi una continua circolazione di questi animaletti
tra corpi organici, e l'aria che li penetra e li circonda? Chi è, che può
penetrare nel mondo degl'infinitesimi ma teriali, e numerare i passi della
natura? Gli sperimenti, peguali pretendiamo sag giare le sue operazioni, sono
imperfette ap prossimazioni, le quali ci possono condurre a conoscere le sue
leggi, e non l'essenza delle cose, o il come abbia ella operato. III. I
sostenitori della generazione spon tanea credono di trovare negli animaletti
intestinali, che chiamano entozoi, un ar gomento maggiore per escludere la pree
sistenza del germe vitale. Ma essi sembrano preoccupati dall'idea, che cotesto
germe, se cader potesse sotto i sensi dell'osserva tore, aver dovrebbe la forma
e i caratteri delle uova degli uccelli e del pesci, cioè d'una sostanza
prodotta dalla secrezione dell'ovaia, da servire d'involucro e di nu trimento
all'embrione, d'una cuticola, e dell'embrione stesso ; e dal perchè non trovano
nulla di tale, e non potrebbero spiegare come queste uova vadano volando per
l'atmosfera, nè come penetrino nel chiuso delle viscere e degli organi, nei
quali vivono; conchiudono che sia im possibile la preesistenza del germe. Prima
di esaminare quanto sodo sia co testo ragionamento, converrebbe doman dare agli
autori di esso, che intendano per germe. Quanto a noi, sotto que sto vocabolo
si racchiude l'idea generalis sima d'una predisposizione di parti, ca pace per
se stessa di determinare l'esi stenza d'un Essere organico. Una tal de
finizione conviene a tutti i diversi generi di riproduzione, stabiliti dalla
natura, vale a dire tanto alla propagazione soli taria o monogenia, quanto alla
sessuale o digenia, e nella monogenia comprende così la generazione per
accrescimento, come quella per distaccamento di parti, o per gemme, o per
propagini, o per qualunque altro modo avvenga la propa gazione del corpi
organici nel regno ani male, e nel vegetale. Altra volta i na 9 – 66 –
turalisti restrignevano tutt'i generi degli animali, per rispetto alla loro
riprodu zione, a due sole classi, cioè agli ovi pari e a vivipari, ed allora
l'idea delle uova e delle ovaie, includeva il concetto d' un modo unico di
fecondazione, col quale volevasi spiegare tutti i fenomeni della generazione e
della riproduzione; ma quando cominciossi ad osservare, che i polipi, e molti
vermi ed insetti della terra e del mare moltiplicavansi per talli, per gemme, e
per innesti come le piante; e che ne zoofiti seguiva lo scontro delle due
generazioni, dell'animale cioè e della vegetabile, che eransi credute diverse e
distinte tra loro; si aperse alla mente un campo più vasto di osservazioni,
dalle quali maggiormente risaltò l'ammirabile grada zione, che la natura ha
stabilito nella scala degli Esseri organici. Gli ultimi di questa scala, che
sono gli animali dotati di vita puramente vegetativa e di moto, portano con loro
stessi quel germe di propaga zione solitaria , che è riservata alle infi me
spezie. Tal'è la classe degl'infusori, i quali essendo formati d'un semplice
tes suto cellulare, e d'un sacco digestivo, destinato all'assimilazione del
loro succhi nutrimentali, rappresentano quel primo passaggio, che fa la materia
dallo stato inorganico all'organico. Domandisi ora, dove trovansi i germi di
queste innume revoli spezie di animaletti? Risponderassi, nell'aria,
nell'acqua, nella terra, nell'in terno di tutti i corpi solidi e degli stessi
corpi organici; nella dissoluzione dequali disperdonsi per la immensità dello
spazio, e rientrano in nuovi corpi organici, dove sviluppansi quando, per lo
concorso delle qualità necessarie alla loro fecondazione, possano le naturali
predisposizioni essere ridotte ad atto. IV. I partigiani della generazione spon
tanea, senza negare che gl'infusori e gli entozoi, una volta nati, riproduconsi
o per uno, o per un altro de mezzi della generazione solitaria, pretendono che
la prima loro formazione provenga da parti elerogenee della materia, e da una
virtù plastica, o formatrice, che in essa sup pongono. A buon conto, sotto il
nome di generazione eterogenea essi intendono una creazione, la quale si ripete
sempre che avvenga la medesima combinazione di quelle parti atte a costituire
l'organismo. Questa è la generazione eterogenea, che dicono dimostrata per la
sperienza, o sia per la osservazione del fatti, e però pre feribile alla
contraria opinione, la quale per semplici congetture e per analogia, limitar
vorrebbe la riproduzione degli Esseri organici alla sola generazione omogenea.
Ma costoro chiamano esperienza e fatto il non aver potuto scoprire germi
sensibili, nè fecondazioni per incubazione; il che ri cade in tutte le
difficoltà di sopra proposte. La somma di tali difficoltà è, se possa sta
bilirsi sperienza di sorta alcuna negl'in finitamente piccioli, i quali
sottraggonsi alla osservazione del sensi ; e se possano servire di basi alla
sperienza i soli fatti negativi. D'altra parte, l'analogia è la guida più
sicura che abbiamo per iscoprire le leggi generali della natura, la quale opera
sem pre in un modo costante ed uniforme. Vero è, che nel giudicare delle opere
sue gli autori di sistemi sono stati soliti per lo ad dietro stabilire l'analogia
sopra quel picciol numero di fatti, ch'eran pervenuti alla loro cognizione; il
che facendo hanno so vente ristretto l'immensità delle forze della natura,
adattandole alla cortezza dell'in tendimento loro, ed hanno introdotto nel – 67
– la storia naturale molte anticipate e false opinioni circa la riproduzione
degli Esseri organici. Ma dopo le maravigliose scoverte fatte per mezzo del
microscopio, avvertiti di cotali errori, abbiamo ampliato la sfera delle
osservazioni, ed abbiam potuto sta bilire con certezza taluni fatti generali, i
quali debbonsi avere come regole della natura anche ne'casi simili, insino a
che altri fatti egualmente certi non vengano ad ismentire una tal presunzione.
I fatti generali, che i seguaci della generazione omogenea, del pari che i
fautori della eterogenea, hanno per indubitati sono i seguenti: 1.° Ciascun
Essere organico porta seco il germe della propria riproduzione. 2.” Il
carattere proprio di cotesto ger me riproduttore è la somiglianza delle qua
lità costitutive così dell'Essere procreante, come del procreato. 3.° La forma
delle particelle organiche nelle quali risiede la virtù riproduttrice, e il
modo col quale questa si sviluppa e si comunica, son relativi al vario orga
nismo così degli Esseri animali, come de vegetabili. 4." La riproduzione
per germi (preso questo vocabolo nel più ampio significato), è comune agli
animali e agl'insetti d'ogni sorta, non esclusi quelli, che dicesi po ter
essere riprodotti, anche per genera zione equivoca, o eterogenea, 5.° Gli animali
di perfetto e compiuto organismo, e la maggior parte degl'in setti, i quali non
possono essere osservati senza l'aiuto del microscopio, riproduconsi per
generazione omogenea. De soli infu sori, i quali sono tra gli animaletti mi
eroscopici i meno visibili e i più imper fetti nell' organismo, ignorasi d'
onde e come acquistino moto e vita. Premessi questi fatti generali, vediamo da
qual parte stia la preponderanza della sperienza. Tutti gli sperimenti allegati
in favor della generazione eterogenea o spon tanea degl'infusori e degli
entozoi altro non provano, se non che i loro germi sono invisibili, e noi
ignoriamo come essi si trovino nel chiuso de visceri e degl'in festini. Ora il
difetto del sensi e l'igno ranza assoluta di quel loro modo di es sere, bastano
a dimostrar vera la nuova dottrina della generazione equivoca? Po trassi sopra
questa sola pruova negativa affermare, che la natura abbia voluto per le infime
spezie degli organici deviare dalle regole stabilite per la riproduzione di
tutti gli altri Esseri? E quel che è più, potreb besi ammettere che la natura,
la quale conserva, e più non crea ; facesse conti nuamente nuove creazioni, e
mentre da una parte dà agl'infusori e a vermi in testinali la facoltà di
riprodursi co mezzi comuni a tutte le altre spezie di animali; non cessi
dall'altra di crearne sempre dei nuovi? Non è forse più coerente alla unità e
semplicità delle vie della natura, il pre sumere che cotesta infima classe di
ani mali non formi eccezione, ma segua la regola comune della propagazione
delle altre classi superiori, comechè invisibili e ignoti ci sieno i mezzi
della loro fecon dazione? V. Abbiamo sin qua esposto gli argo menti, pe quali
noi inchiniamo alla opi nione della generazione omogenea, ma non osiamo
affermare che non abbia po tuto la natura determinare, per un altro mezzo
diverso, l'esistenza di talune delle infime classi degli Esseri organici.
Quando così fosse, sarebbe ella più ammirabile per avere maggiormente allungato
le se rie, nelle quali troviamo scritta la sua x: – 68 – legge di continuità.
Avrebbe potuto dalla a maggiore ragione ad altri comunicarla; combinazione di
diverse parti solide, o fluide della materia far nascere il prin cipio della
vita vegetativa così nelle piante come negli animali, e rendere spontanea la generazione
delle infime spezie, nelle quali sono accennati i primi rudimenti del moto e
del sentimento. Domandiamo ora, se in questa, come in ogni altra sua
produzione, la natura operi con re gole costanti ed uniformi, o se fortuita
mente dagli stessi componenti siesi veduto uscir fuori ora questo, ed or
quell'altro composto? Niuno de'fisiologisti, ha osato sinora accusarla di
contraddizione o di diſ formità; che anzi essi la deificano appunto per la
costante uniformità delle sue leggi. Ora l'ordine costante ed uniforme delle
sue determinazioni è il più chiaro segno, anzi la necessaria conseguenza della
preor dinazione d'un principio intelligente, che è fuor della materia, e nel
quale è ripo sta la prima causa di tutte le cose. Impe rocchè nulla v'ha nell'universo,
che non riconosca l'esser suo da una causa diversa dall'universo stesso:
cotesta causa è la ra gion sufficiente così della esistenza, come della forma
sotto la quale ogni cosa esi ste: la sapienza delle sue determinazioni
risplende nella distribuzione e nell'armonia delle opere stesse, e
principalmente nella catena degli Esseri, dotati di vita e di sentimento: il
principio della vita non può in questi trovarsi per propria loro virtù, nè
possono averla ricevuta dalla sostanza materiale: non è proprio, perchè se così
fosse, sarebbero i padroni della loro esi stenza, e potrebbero cambiarla e
renderla immutabile ed immortale : molto meno possono riconoscerla dalla
sostanza mate riale, perchè non essendo ella la causa della sua propria
esistenza, non potrebbe d'onde segue che il principio della vita riconosce per
suo immediato autore la so stanza immateriale, o sia l'intelligenza. Ma in cima
a tutti gli animali dotati di vita e di sentimento v'ha un'altra serie su
periore, dotata pure d'intelligenza, della quale il primo anello è l'uomo:
l'intelli genza di quest'Essere è finita, e i limiti che la circoscrivono son
determinati dallo scopo, o dalla destinazione della sua vita: a lui è dato
insieme coll' uso delle cose create, il conoscere e il contemplare le opere
della natura, onde possa sollevarsi per tal mezzo alla cognizione del suo Au
tore: sebbene soprastà alle altre spezie dei viventi, delle quali è moderatore
e arbi tro, pur tuttavolta non ha ricevuto il po tere di dar la vita ad alcun
animale per infimo che sia; e per quanto grande sia l'industria sua nello
scrutinare le opere e i segreti della natura, non ha saputo sco prire quella
combinazione delle parti ele mentari della materia, dalle quali dicesi che
possa risultare l'organismo e la vita: l'uomo in somma osserva, contempla, e
imita le opere materiali della natura, ma riceve da un'altra sostanza
immateriale maggiore di lui, l'intelligenza e la vita: in questa suprema
intelligenza dunque sta il principio dell'ordine, dell'organismo, e della vita:
la materia è nelle sue mani l'instrumento, col quale plasma e com pone le
diverse forme degli Esseri, nel primo come nell'infimo de quali ha im presso il
suggello della sua infinita sa pienza, ed onnipotenza. VI.” Una mente falsa e
depravata può solamente concepire, che la materia avesse in se una virtù
formatrice, non diretta da ordine o da consiglio, dal seno della quale a caso
saltassero fuori gli Esseri - 09 - organici, belli e formati, come il volgo
crede che nascano le botte dal fango. La voce caso esprime un'idea confusa, che
non può esser dichiarita, se non per un significato negativo, che è l'assenza
del l'ordine e del consiglio. Il dare dun que all'ordine e al sistema della
natura per autore il caso, è lo stesso che espri mere una contraddizione e un impossibile.
Per ischivare l'assurdità, quelli i quali amano farsi figli della terra,
ammettono una intelligenza immedesimata nella ma teria, il che vuol dire una
sostanza non materiale unita colla materiale. Ma come unita? Che, fosse
l'attivo confuso col pas sivo, e la terra animata obbedisse alla terra
animante? Sarebbe la natura na turans di Spinoza, concetto contraddit torio e
incomprensibile. Se poi si dicesse che l'intelligenza è divisa dalla materia; e
in quella si riconoscesse la potestà di volere, di scegliere, di ordinare; in
que sta sola passività, essi tornerebbero non volendo, a riconoscere
l'intelligenza come principio separato dalla sostanza materiale, e con ciò
rimarrebbe escluso il caso e la cieca spontaneità della materia. Ciò non
ostante taluni moderni fisiolo gisti, i quali vagheggiano la natura na turante
di Spinoza hanno volenterosamente preso la generazione spontanea degl'infu
sori, come un argomento vittorioso per dimostrare, che la generazione equivoca,
spontanea, o eterogenia è stato il modo primordiale, dal quale sono nati tutti
gli Esseri organici, non escluso l'uomo, cui si concede soltanto l'onore del
primo luo go tra i vertebrati e i mammiferi. Costoro cominciano dal dirci, che
l'ultimo scopo della fisiologia è il conoscere lo spirito umano ; che per
giugnere a cotesto ter mine uopo è contemplare la natura del l'uomo sotto ogni
aspetto; e che il ter mine di quest'analisi indica il principio da cui
cominciar debbono le nostre inve stigazioni, che è la sua essenza, o sia la
storia della vita, la quale abbraccia l'origine, l'esistenza, e la distruzione
del l'organismo, cioè la generazione, la vita, e la morte. Quanto alla
generazione, « danno essi per indubitato, che la terra ad un'epoca rimotissima
non era abitabile; che a grado a grado sia arrivata allo stato attuale ; che
gli Esseri organici, niuno eccettuato, siensi formati a poco a poco, e senza
genitori, o sia per la via della generazione spontanea o eterogenea. Sta bilito
un tal fatto, come fondamentale, ne deducono, che la terra possedette già una
forza plastica, la quale non poteva essere transitoria e accidentale; che anzi
essendo essenziale e inseparabile dalla na tura, non è ora affatto estinta, ma
è li mitata per rispetto alla estensione delle sue manifestazioni. E però continua
sem pre ad agire per la conservazione di tutto quel che è stato creato ; e
sebbene con servi le forme organiche delle spezie su periori per la sola via
della propagazione, o sia della generazione omogenea ; pur tuttavolta non
ripugna al buon senso il pensare che ancor oggi abbia il potere di produrre le
forme delle spezie inferiori con elementi eterogenei, al modo stesso col quale
creò originariamente tutto quel che nel mondo v'ha di organico ». Noi lasciamo
a lettori fisiologi il riconoscere l'autore, di cui trascriviamo solamente ta
luni luoghi caratteristici della sua filosofia, e per corona del medesimi
aggiugniamo ancora quello che lo stesso autore aggiunse circa la propagazione
omogenea. « Tal volta la propagazione succede alla etero genia, quando
gl'individui prodotti per questo mezzo conservano la loro spezie. Talvolta
ancora è il modo esclusivo di pro creazione per quegli Esseri organici, pei
quali l'eterogenia non ha più luogo; quan tunque debbasi ammettere, che sia
stato il modo primordiale di loro formazione ». Ecco l'uso che i fisiologisti
metafisici han fatto della generazione degl'infusori, facendo d'un fatto
indifferente la pietra angolare della dottrina del panteismo. Ci sia permesso
ora ritornare indietro agli esperimenti che essi citano, o sia a fatti co quali
han preteso dimostrare come in dubitata la generazione equivoca degl'in setti
microscopici, e del vermi intestinali. Lo spirito di prevenzione, col quale
essi deducono strane e false conseguenze in favor d'un sistema che contraddice
alle più ovvie e costanti leggi della natura, toglie al loro giudizio anche
quel grado di autorità, che avrebbero meritato come naturalisti, e come
fisiologi osservatori. L'imparzialità dell'osservatore è il primo del
requisiti, sul quale riposa la credenza di quelli, che accettan come veri gli
espe rimenti altrui, anche quando questi ca dono sopra cose esposte a sensi di
tutti. Di quanta maggior importanza non è que sto requisito nelle osservazioni
di fatti che la natura ha sottratto alla comune portata de sensi, e ne quali,
se non altro, ci è negata l'evidenza ? Quante fallaci appa renze non possono
avere ingannato uomini preoccupati da falsi e anticipati giudizi. Il partito
più sicuro è di credere che la parte invisibile della natura sia regolata colle
medesime leggi della visibile, e che le infime spezie, in luogo di formare una
eccezione, entrino nella regola generale, che ha ella stabilito per la
produzione e per la conservazione di tutti gli altri Es seri organici. Le
eccezioni debbon essere rigorosamente dimostrate, quando vengono a derogare ad
una legge costante ed uni versale, qual è quella che regola la ri produzione
degli animali. V. Generazione. INGANNo (prat.), artifizio usato per in durre
altri in errore. Differisce dalla frode, la quale presup pone un fatto commesso
colla intenzione di cavarne profitto; laddove l'inganno è più generico, e si
riferisce più al mezzo ado perato, che al fine. In somma nella frode trovasi
sempre l'inganno, ma non sempre nell'inganno la frode. V. questa voce. INGEGNo
(cril. e spec.), il naturale in tendimento dell'animo. Con questo nome spiegar
sogliamo il complesso di tutte le virtù intellettive e memorative, come la
prontezza, la faci lità, la vivacità del concepire, del rite nere le idee, e
del riprodurle al bisogno; e però chiamiamo grandi ingegni quelli che
distinguonsi per l'unione di tutte le cennate qualità. Ma di tutte, quella che
propriamente conviene all'ingegno, è la penetrazione o l'acume, che noi al pari
dei latini diciamo vista dell'anima. V. Aeume. I latini diedero a questo
vocabolo un più ampio significato, perchè chiamarono ingenium l'indole e la
natural tempera dell'uomo, degli animali, e delle piante; e collo stesso nome
poi dinotarono la vir tù intellettiva dell'animo. V. Indole. Gl'italiani si sono
limitati a questo se condo significato, che applicano ancora all'immaginazione,
e alla potenza inven trice della ragione: Per correr miglior acqua, alza le
vele, Omai la navicella del mio ingegno, Che lascia dietro a se mar sì crudele.
DANTE. Purg. - 71 – -. INGENITo (spec.), quel che è nato in siem con noi, o fa
parte di nostra natu ral costituzione. - Le facoltà dell'animo, la luce del
vero che rischiara la ragione, le prime nozio mi o principi, che questa ci
suggerisce, sono ingeniti nel senso che son propri del la natura umana, e non
si acquistano per la sperienza, o sia per l'uso desensi esterni. Leibnitz
chiamò ingenite le nozioni del proprio essere, di Dio, della sostanza sem plice
o immateriale, e della composta, così spiegando il concetto delle idee in nate
di Cartesio. V. Idea. INGENERoso (prat.), negazione del ge neroso. V. questa
voce. INGENUITÀ (prat.), sincerità d'animo. Dice alquanto meno di candore, che
è una qualità naturale senza studio; lad dove l'ingenuità è il frutto ancora
della riflessione. V. Candore. INGIocoNDo (prat.), negazione della giocondità.
V. questa voce. INGIURIA (prat.), violazione del diritti di alcuno, sia nella
persona, sia nelle cose, commesso con animo di offenderlo, o di schernirlo. - E
un termine generico che comprende tutte le varie spezie di offese, commesse con
parole o con fatti, cioè l'affronto, la contumelia, il convizio,
l'impertinenza, l'insolenza, l'insulto, l'oltraggiò, l'onta, il sopruso, la
soperchieria, e la villania. V. queste voci. Siccome alla legge civile
appartiene il graduare il dolo, con cui le azioni in giuriose son commesse, ed
il riparare al danno, che l'offesa ha prodotto; così è un vocabolo di più
frequente uso nel di ritto positivo, il quale ne definisce le va rie spezie,
per rispetto alle pene esteriori che proporzionar de alla maggiore o mi nore
intensità del reato. La sapienza morale considera ogn'in giuria come un'azione
illecita che offende la dignità morale di chi la commette, e non lede colui,
contra il quale è diretta. Può questi rimanerne offeso se dimostri di averla
ricevuta, vale a dire se ne con cepisca risentimento. Ma se egli la di sprezzi,
la compatisca, o la perdoni, l'in giuria a guisa d'un dardo respinto tor na a
ferire chi l'ha lanciata. In somma l'uomo virtuoso, se l'ingiuria è lieve, la
dissimula o la disprezza, e se è grave la perdona, e la ricompensa col
benefizio. V. Benefizio. - INGIUSTIZIA (prat.), negazione della giu stizia, o
violazione d'un dovere. V. Giu stizia. Può dinotare tanto l'azione ingiusta,
quanto il vizio che nasce dall'abito del l'essere ingiusto. INGIUSTo (prat.),
negazione del giusto. V. questa voce. INGoRDIGIA (prat.), estrema avidità di
cibo, o di qualunque altra cosa che muo ver possa gli appetiti. È più
dell'avidità e della brama, per chè queste possono restare al desiderio,
comechè non soddisfatto; laddove l'ingor digia presuppone l'insaziabilità.
INGRATITUDINE (prat.), vizio opposto alla gratitudine. V. questa voce. INGRATo
(prat.), chi dimentica i be – 72 – mefizi ricevuti, ovvero è la cosa che non
riesce gradevole, È negazione del grato. V. questa voce. INIMICIZIA e INIMIco
(prat.), contrari d'amicizia, e di amico. V. queste voci. L'inimicizia vale più
della semplice ne gazione dell'amicizia, perchè include l'odio, e il desiderio
di offendere, o di nuocere. Cicerone la definì, ira ulcisoendi tempus
observans. INIQUITÀ (prat.), contrario di equità, V. questa voce. Anche in
questo vocabolo la particella negativa prende forza di peggiorativo, sì che
vale opera malvagia, e non comune ingiustizia. V. Ingiustizia, Malvagità,
lNIRAscIBILE (prat.), contrario d'irasci bile. V. questa voce. - È stato
adoperato nel senso dell'addiet tivo, e non dell'astratto. INIZIATo (prat.),
ammesso alla cogni zione di riti arcani, o di sapienza riposta. È vocabolo
straniero alla sana filosofia, la quale abborre ogni sorta di oscurità, e di
arcano. INNATo, V. Idea. INNOBILEzzA e INNOBILTÀ (prat.), lo stesso che
ignobiltà. V, questa voce. INNOCENTE e INNOCENZA (prat.), qualità o stato d'un
animo, che non conosce il vizio. Son voci proprie dell'età prima, che Dante
descrive: Quici sto io co' parvoli innocenti Da denti morsi della morte, avante
Che fosser da l'umana colpa esenti. (Purg. VII.). Nel senso letterale esprimono
la sola negazione, o sia l'assenza della colpa o del delitto. V. queste voci.
INoBBEDIENZA (prat.), contrario d'ob bedienza, e diverso dalla disubbidienza.
V. queste voci. INONESTÀ e INONESTo (prat.), contrari di onestà e di onesto,
tanto nel senso astratto, quanto nel concreto di azione, o di qualità della persona.
Sono negazioni, nelle quali la particella in ha la stessa forza del dis. V.
Disonestà. INoNoRAto (prat.), negazione dell'ono rato. V. questa voce. È
diverso dal disonorato, che importa perdita dell'onore ; laddove l'inonorato
conviene a chi vive senza meritare, o sen za ottenere lode, o onore. V.
Disonore, Onore. INoRGANIco (spec.), termine negativo contrapposto di organico.
- Il Varchi chiamò inorganiche le potenze dell'anima per distinguerle dagli
organi materiali corporei, il che equivale ad im materiali. INQUIETEzzA e
INQUIETUDINE (prat.), sla to dell'anima non soddisfatto per la man canza di
qualche cosa, che appetisce, o desidera. È quel che i francesi dicono mal-aise
e gl'inglesi uneasiness. È lo stato della coscienza non paga di se stessa, la qua
le, al dir di Seneca, etiam in solitudine anzia atque sollicita est. Ciò
nonostante l'inquietudine è meno della perturbazione, e anche della semplice
agitazione; dacchè l'inquietudine propriamente esprime il co – 75 – minciamento
d'un bisogno non bene noto; laddove l'agitazione conviene alla consa pevolezza
del mal fatto, e la perturbazione al rimorso che se ne prova. Considerata
l'inquietezza come un sentimento incom piuto, e come un naturale indizio di
quel che ci manca, può dirsi essere la sorgente de desideri e degli appetiti.
Secondo Locke è il primo, e forse il solo stimolo delle azioni, che noi diremmo
principio d'azio ne. Leibnitz considerolla ancora come l'ele mento del
desiderio e del dolore, o sia come una disposizione o preparazione al dolore, la
quale opera in noi, non per una chiara e distinta percezione, ma come uno
stimolo che rende attuoso l'istinto. Imperciocchè tra mezzi de quali si è ser
vito il sapientissimo Autor della natura per muovere la potenza attiva, sono le
confuse percezioni in tutti i casi, ne'quali non abbiamo potuto acquistare idee
più distinte degli obbietti. V. Azione, Desi derio, Dolore, Principio,
INRAGIONEvoLE e IRRAGIONEvoLE (spee. e prat.), negazione e contrapposto del
ragionevole. V. questa voce. Dicesi delle persone, delle cose, azioni, e degli
appetiti. delle INRAzioNABILE e IRRAZIONABILE ( disc. e prat.), quel che non ha
ragione, o è contrario alla ragione, o non è degno di creatura ragionevole,
INRAZIONALE e IRRAZIONALE (spee.), con trapposto del razionale, e caratteristico
de bruti, i quali per la mancanza ap punto della ragione distinguonsi
dall'uomo. V. Bruto. l matematici danno a cotesto vocabolo un significato
speciale per dinotare le quantità incommensurabili, di cui le proporzioni non
posson essere con due numeri espres se. V. Incommensurabile, Proporzione.
INREGOLARE e laREgoLARE (prat. e dise.), negazione del regolare, o contrario
alla regola. V. questa voce. INRELIGIosITÀ e INRELIGIoso (teol.), ne gazione
della qualità di religioso. I latini fecero della irreligiosità un si nonimo
della empietà, perchè il vocabolo impius conveniva propriamente a chi ne gava
l'amore e il rispetto dovuto alla Di vinità. Nella nostra lingua lo stesso
vocabolo è spesso adoperato in un senso men grave della empietà, per esprimere qualunque
mancamento di rispetto e di riverenza, do vuta a Dio e alle cose sagre. V.
Empietà. INREsoLUzione e InResoLUzioNE (prat.), stato dell'animo combattuto da
contrari motivi, i quali non fanno determinare la volontà ad alcun atto.
Differisce dalla perplessità che esprime semplicemente quello stato di dubbio,
il quale può esser vinto dalla determinazione. V. Perplessilà. INSANIA (prat.),
infermità della mente, nata dalla perturbazione, o da altra mo rale cagione, -
Cicerone definì lo stato dell'anima di cui cotesta denominazione è propria , e
distinse l'insania dalla demenza e dal fu rore : nomen insaniae significat
mentis aegrotationem et morbum idest insani tatem, Omnes autem perturbationes
ani. mi morbos philosophi appellant ; ne ganigue stultum quemquam his mor bis
vacare, qui auten in morbo sunt, 10 – 74 – sani non sunt. Sanitatem enim animo
rum positam in tranquillitate quadam constantiaque censebant: his rebus men tem
vacuam appellarunt insaniam, pro pterea quod in perturbato animo, sicut in corpore,
sanitas esse non potest. Mec minus illud acute, quod animi affectionem, lumine
mentis carentem, nominaveruntamentiam, eamdemque de mentiam. Ea quo
intelligendum est, eos, qui haec rebus nomina posuerunt, sen sisse hoc idem,
quod a Socrate acce ptum diligenter stoici retinuerunt, omnes insipientes esse
non sanos... Furorem au tem esse rati sunt mentis ad omnia cae citatem. Quod
cum majus esse videatur quam insania, tamen efusmodi est, ut furor in sapientem
cadere possit, non possit insania (Tuscul. l. III. c. IV. e V.). V, Demenza,
Furore. INSEGNAMENTo e INSEGNARE (erit.), il dare altrui cognizione di
checchessia. Vale sopra tutto per l'istruzione che dassi alla gioventù, così da
quelli, che professano le lettere, le arti, o le scienze, come da coloro, i quali
dirigono l'edu cazione del fanciulli. È ufizio proprio della vecchiezza, o del
la matura età, nella quale non solamente raccolgonsi i frutti della sperienza,
ma si è ancora formato un giusto giudizio dei beni e del mali della vita. La
sperienza poi è utile a formare non meno la fa coltà morale, che l'erudizione e
la scien tifica cognizione del giovani. Imperocchè per essa abbiamo imparato ad
evitare l'er rore, e a disporre nell'ordine conveniente le nostre conoscenze.
Cicerone notò, che per naturale inclinazione amano i vecchi l'istruzione della
gioventù, e credono che il corteggio loro sia il maggior decoro del la senile
età: quid enim est jucundius senectute, stipata studiis juventutis? Ed una tale
inclinazione è confermata dagli esempi depiù grandi uomini dell'antichità, i
quali dopo aver passato la vita negli studi e nelle maggiori imprese, impiega
rono gli ozi della vecchiezza all'incremento delle lettere e delle scienze, o
colle pa role, o cogli scritti (de Senect. C. XI.). L'insegnamento non pertanto
è un'arte, la quale richiede taluni requisiti non co muni a tutti: il primo è
la facilità di co municare i propri pensieri, dacchè il pen sare è diverso
dall'insegnare, ed una tal differenza è egregiamente spiegata dallo stesso
grande maestro del pensare e del dire: cogitatio, egli dice, in se ipsa ver
titur, eloquentia compleetitur eos, qui buscum communitate functi sumus (de
off. lib. I. cap. 44). L'altro requisito, è il metodo senza del quale vano
riesce ogn'insegnamento. E però il fondamento della giovenile istru zione,
siccome avvertì Quintiliano, è l'or dine, il quale non è meno necessario ne gli
adulti; dapoichè i metodi pe quali più facilmente si perviene alla cognizione
di tutte le verità d'una scienza, non sono altro che ordine. V. Metodo, Ordine.
Adunque con ottimo consiglio, i mo derni hanno introdotto l'arte pedagogica,
sotto il qual nome van compresi tutti gl'isti tuti, e scuole centrali, o
normali, de stinate a formare uomini atti all'insegna mento per isperimentata
virtù, e per ma turo intelletto. Cotesti istituti non sono meno utili alla
istruzione scientifica, che alla mo rale ; dapoichè loro principal frutto è il
rimuovere dalla professione di educatori, quella classe di cortigiani, nelle
mani dei quali dolevasi Seneca, essere al tempo suo caduta l'educazione della
gioventù: horum – 75 – omnium sermo vitandus est. hi sunt , qui vitia tradunt,
et alio aliunde trans ferunt. Pessimum genus hominum vide batur, qui verba
gestarent . . . . horum sermo multum nocet; nam etiamsi non statim officit,
semina in animo relinquit, sequiturgue nos etiam cum ab illis di scesserimus,
resurrecturum postea ma lum. Quemadmodum qui audierunt sym phoniam, ferunt
secum in auribus mo dulationem illam ac dulcedinem cantus, quae cogitationes
impedit, nee ad seria patitur, intendi; sie adulatorum et prava laudantium
sermo diutius haeret, quam auditur, nee facile est animo dulcem sonum ercutere
- proseguitur et durat, et ea intervallo recurrit. Ideo elauden dae sunt aures
malis vocibus, et quidem primis.... istos tristes et superciliosos alienae
vitae censores, seu hostes, pu blicos pedagogos assis ne.feeeris, nec
dubitaveris bonam vitam, quam opinio nem bonam malle (epist. 123). V. Pe
dagogica. INSENSIBILE (spec. e prat.), termine nega tivo contrapposto di
sensibile.V. questa voce. INserto (spee. e crit.), animaletto, di cui il corpo
è formato da diverse incisure o anelli, congiunti insieme per un tenue tubo.
Siccome gli anelli o incisure di questa spezie d'animali prendono la figura di
al trettante intersecazioni, così i Latini le diedero il nome d'insectum, che è
una letterale traduzione del greco evrouov. I naturalisti lo definiscono:
animale sen za vertebre, a tronco, articolato esterna mente, respirante per gli
esterni orifizi delle trachee interne. Per questi caratteri gli distinguono da
molluschi e dagli zoofiti. Il numero degl'insetti e delle loro for me, è
prodigioso quanto la gradazione della diversa grandezza loro, dapoichè comincia
dalla più picciola misura degli altri animali, e termina alla impercetti bile.
La superficie della terra, le sue ca vità, le acque e i fluidi in generale,
l'atmosfera, le viscere degli animali, i pe sci, i vegetabili, son pieni di
questi vi venti, nelle ultime specie de quali par che spiri la natura
sensitiva, comune a tutti gli altri animali. Per la maggior parte di essi
ignoriamo il destino che ha dato loro la natura nell' ordine dell'universo ;
sic come di molte altre spezie ignora sinora l'uomo, e forse ignorerà sempre le
qua lità, il perchè rimangono innominate. In somma, in niun'altra parte del
regno ani male, la natura è più immensa che ne gl'insetti; e forse in
niun'altra delle opere sue è tanto ammirevole, quanto nel mi nuto e dilicato
artificio di coteste creature. La semplicità delle articolazioni loro; le
diverse spezie di moto, di cui la natura gli ha renduto capaci; gli organi
della re spirazione sparsi per la superficie del cor po; il loro sistema
nervoso, per lo quale esercitano tutte le funzioni della vita sen sitiva ; gli
organi della visione moltipli cati in una picciolissima superficie di cor po,
per provvedere a bisogni così della nutrizione, come della propria difesa; gli
organi dell'odorato e dell'udito adattati non solamente alla loro forma, ma an
cora al mezzo nel quale essi dimorano e vivono; tutte queste considerazioni
sono al trettanti suggetti di ammirazione e di stu pore per la sapienza della
natura. Musquam alibi, dice Plinio, spectatiore naturae re rum artificio. Nella
motomia degl'insetti concepì il Swammerdam la Biblia della na tura, e il Lesser
la teologia degl'insetti. as - – 76 – Qual è il fine di tanto magistero? Pri ma
che le lenti e la notomia microscopica non avesse aperto all'uomo la conoscenza
della struttura esterna e interna degl'in setti, delle proporzioni, e delle
parti ca ratteristiche di ciascuna spezie, coteste me ravigliose opere della
natura sono state sot tratte per sino all'ammirazione dell'uomo E anche dopo
tali scoverte, la parte che me rimane ignota è maggiore della nota. Lontana
dunque sia la presunzione, che la natura abbia profuso cotanta sapienza e arte
pel solo fine di essere dall'uomo ammirata ! La contemplazione di quella parte
delle opere naturali che sono alla portata dell'umana intelligenza, e l'im
mensità delle altre che imperfettamente co nosciamo, o del tutto ignoriamo, concor
rono insieme a formare quel velame, sotto del quale concepiamo la nozione
dell'infini to, e di cui formiamo il principale attributo della Divinità. V.
Immensità, Infinito. INSETToLoGIA (crit.), parte della zoolo gia, che tratta
degl'insetti, e che oggidì chiamasi entomologia. INSIDIA (prat.), inganno
nascoso, per tirarvi dentro l'inimico. L'azione insidiosa ha per suo carattere
proprio la soperchieria o la perfidia. V. que ste voci. INSIGNE (prat.), chi
per fama tra tutti si distingue. V. Fama. - Si dice delle persone, delle azioni
e delle cose. INSINUAZIONE (disc. e prat.), il mettere un concetto nell'animo
altrui, o l'intro dursi lentamente e con accorgimento nel la stima e nella
confidenza di qualcuno. Per un significato a questo affine vale un ragionamento
fatto con dissimulazione o circuizione per guadagnarsi con secu rità l'animo
degli uditori. INSIPIENTE e INSIPIENZA (prat.), mega zione di sapiente, e di
sapienza. V. que sta Voce. - Oltre il senso negativo, l'insipiente vale ancora
sciocco, o supinamente ignorante. InsoLENZA (prat.), atto di alterigia o di
vilipendio, commesso contra i doveri della urbanità, e delle civili
convenienze. Vale talvolta vizio, o abitual carattere d'uomo orgoglioso ed
incivile; e talvolta ancora, ingiuria accompagnata da indo veroso disprezzo. V.
Ingiuria, Disprezzo, Urbanità. INSTANTE e IsrANTE (spec. e ont.), par te della
durata, che la mente concepisce come un elemento indivisibile del tempo. V.
Durata, Tempo. Gli scolastici distinguevano tre spezie d'instanti: di tempo, di
natura, e di ragione. L'istante di tempo è la particella di tempo che precede
l'altra, e dalla cui successione nasce il continuo. Così l'ulti mo istante d'un
giorno dicesi che precede immediatamente quello da cui comincia il giorno
seguente. L'istante di natura è quello che nel col legamento delle cause
naturali intercede tra le cause immediate e le mediate, o tra la causa e
l'effetto. L'istante di ragione, non è una parte di tempo reale, ma è quel
punto che la ragione concepisce aver dovuto precedere una cosa avvenuta, ma che
poteva non avvenire. Si applica alle cose contingenti fatte da Dio, considerate
quando ancor fatte non le aveva. Nel concetto della mente l'istante è una
particella di tempo più breve ancora del momento, che tanto nel linguaggio co
mune, quanto nello scientifico prende al tri diversi significati. V. Momento.
INSTrrUTo (spec. e disc.), ordine, di visamento, o proposito del pensare, del
l'insegnare, o del parlare. INSTITUZIONE (spee. e disc.), disposi zione o
ordinamento di pensieri, o di ope re, per servire all'altrui insegnamento.
Istituzioni son detti pure gli elementi e i compendi delle scienze, delle arti,
o discipline, composti per introdurre la gioventù allo studio di quelle per
mezzo d'una chiara sposizione del loro principi. V. Elementi. InstaUzioNE e
IsrRUzione (spec. dise. e prat.), ogni ammaestramento che abbia per iscopo il
farci sapere quel che igno riamo, o lo spiegare e rischiarare quello che
imperfettamente conosciamo. E comune al pensare, al parlare, e al portamento
della vita. INSULTo (prat.), spezie d'ingiuria com messa con animo di offender
taluno e di schernirlo palesemente. V. Ingiuria. INTEGRALE (crit.), nome dato
al cal colo matematico, il quale si propone di trovare la quantità finita, che
corrisponde alla sua differenziale. a Cotesto calcolo è l'inverso del differen
ziale, e vien detto dagl'Inglesi metodo inverso delle flussioni. V.
Differenziale, Flussione. INTEGRITÀ (prat.), virtù o qualità d'ani mo per ogni
parte onesta, ed irreprensi bile. V. Qualità, Virtù. INTELLETTIvA (spee. e
crit.), adoperata sostantivamente, vale la facoltà o potenza dell'anima che
conosce le qualità e le rela zioni degli obbietti del pensiero.V. Facoltà.
L'intellettiva è stata detta ancora ap prensiva, che insieme colla immagina tiva
e colla memorativa formano la co mune partizione delle tre potenze dell'anima.
V. Apprensiva, Immaginativa, Memorativa. INTELLETTIvo (spec.), l'Essere dotato
d'in telletto, e quel che è proprio dell'intelletto. INTELLETTo (crit. e
spec.), facoltà del l'anima, per la quale l'uomo è atto a percepire, e a
pensare. È propria della mente umana. V. Pensare, Percepire. Varia è
l'accezione data da filosofi a co testo vocabolo. Da taluni è preso nel sen so
di una delle facoltà dell'anima, men trechè da altri scambiasi colla stessa
virtù intellettiva dello spirito umano. Platone l'ebbe, come una delle tre fa
coltà, per le quali acquistiamo i diversi elementi della nostra cognizione, e
pro priamente per quella che forma le nozioni generali ed astratte. V. Facoltà.
Aristotele distinse l'intelletto passivo dall'attivo e al primo diede la
percezione delle immagini degli obbietti esterni, come per un atto involontario
e quasi meccani co: al secondo attribuì le nozioni generali, ricavate dagli
obbietti sensibili, mediante l' astrazione e la formazione del generi Per tal
distinzione del passivo e dell'atti vo, Aristotele introdusse nella filosofia
il concetto della tavola rasa, o sia quella - 78 - similitudine, della quale
han dipoi cotanto abusato i filosofi sensisti. Gli scolastici partirono in tre
le opera zioni dell'intelletto, o sia ne fecero una facoltà complessa di tre
altre, l'apprensio ne, il giudizio, il ragionamento. V. que ste voci.
Distinsero inoltre l'intelletto puro dal non puro. Puro disser quello che conce
pisce idee distinte, senza mistura di no zioni oscure o confuse. E siccome le
idee confuse attribuivansi a sensi e alla imma ginazione; così pura dicevasi
quella intel lezione, che fosse scevra da qualunque immagine o fantasima.
Tal'era per esem pio la nozione del numero, e di quel nu mero, che mediante una
perfetta analisi, potesse essere ridotto alla unità. Men puro poi dicevasi
l'intelletto, il quale concepisce idee miste di sensazione e d'immaginazione;
il perchè le idee delle scienze fisiche e delle morali riferivansi a questa
spezie d'intelletto, come quelle che sono incapaci di perfetta analisi, e di ri
ducimento a principi semplici. V. Analisi. Coteste categorie ad altro non
servono, che ad accrescere la scienza d'inutili par tizioni ; dapoichè quale
utilità di riferire le diverse idee di cui siam capaci ad una diversa qualità
dell'intelletto, che è in se stesso uno e indivisibile? Secondo Leibnitz la
definizione dell'in telletto trovasi nel significato del vocabolo latino
intellectus, il quale non comprende la percezione involontaria, o confusa, che
è comune ancora a bruti, V. Bruto. INTELLETTUALE (spec.), quel che è parte o è
proprio dell'intelletto. INTELLEzioNE (spec.), l'atto dell'intel letto, per lo
quale formasi in noi una per cezione distinta. Secondo Leibnitz è voca bolo
proprio e privativo della mente umana. Il Gelli la definì per l'atto dello
inten dere, proprio dell'intelletto umano. INTELLIGENZA (spec.), qualità
dell'ani ma, per la quale formiamo idee o pensie ri. E pura o immaginativa. Pura
quando trae da se stessa, e non da obbietti esterni l'idea. Immaginativa quando
la ricava dai corpi e dalle sensazioni. Diamo ancora questo nome alle sostanze
incorporee simili o superiori a quella del l'uomo, nel quale significato
equivale a spirito. V. Spirito. INTELLIGIBILE (spee.), atto ad esser com preso
dall'intelletto. INTEMPERANZA (prat.), vizio opposto alla temperanza. V. questa
voce. È proprio dell'abuso del cibi e delle be vande, ridotto in abito e spinto
oltre le naturali esigenze. INTENDIMENTo (spee.), la dote dell'ani ma, per la
quale conosciamo il vero. V. Anima , Vero. Brunetto Latini definì
l'intendimento, la più alta parte dell'anima, per cui ave mo ragione a
conoscimento, e l'uomo è appellato immagine di Dio. Giova nella nostra lingua distinguerlo
dall'intelletto, che noi consideriamo come la facoltà dell'anima, la quale
comprende secondo gli scolastici l'apprensione, il giu dizio, e il
ragionamento. V. Intelletto. Dante stesso distinse l'intendimento dal
l'intelletto: Se ben lo ntendimento tuo accarno Con lo ntelletto, allora mi
rispose (Quei che prima dicea, tu parli d'Arno. – 79 – Si adopera non pertanto
per intelligenza e in altri significati affini, il che non pro duce ambiguità.
INTENSIONE o INTENSITÀ e INTENso (spee. e prat.), vocaboli di comparazione, che
esprimono l'accrescimento del diversi gradi di potenza, de'quali son capaci le
facoltà dell'animo nell'esercizio delle loro funzioni. È un significato
traslato dalle forze mec caniche e dalle qualità degli obbietti sensi bili, come
decolori, de suoni, o degli odo ri, che si applica al pensiero e all'azione.
Altra volta gli scolastici molto sofistica rono intorno alla intensione,
considerata come l'accrescimento di forza ne'corpi, o di energia delle lor
qualità, dapoichè cre devano che la qualità fosse un che di ag giunto alla
sostanza ; ma cotali opinioni son venute fuori d'uso, e sono scomparse insieme
colla metafisica del corpi. Nel linguaggio della fisica la voce in tensità ora
dinota la forza d'un'azione comparata con un'altra simile, per ri spetto al
maggiore o minor accrescimento di cui son capaci le qualità o gli acci denti de
corpi. E però dicesi l'intensità della luce, del calore, del freddo, del
fluido, dell'umidità, e di tali qualità o modi si misura e si gradua gli accresci
menti e le diminuzioni. Tali accrescimenti e diminuzioni, essendo considerati
come contrapposti della intensità, ricevettero nel l'antico linguaggio
scolastico il nome di remissione. V. questa voce. INTENTo (spec. e disc.), fine
che ognun si propone nel volere, nel desiderare, nel l'operare, o nel parlare.
Dante l'adoperò nel senso dello sguardo della mente: La mente mia, che prima
era ristretta Lo 'ntento rallargò. Il suo significato è più generico della
intenzione, che esprime soltanto il fine che muove la volontà. V. Intenzione.
INTENZIONALE (spec.), quel che proviene dal deliberato proposito di alcuno. I
nostri italiani, come il Varchi e il Se gni, l'hanno adoperato nel senso d'idea
le, e come contrapposto del vero. Intenzionali chiamarono gli aristotelici le
spezie, che essi pretendevano che si staccassero dagli obbietti, per venire a
ferire i nostri sensi. INTENZIONE (spec. prat. e disc.), il fine al quale
s'indirizzano le azioni. Nel linguaggio delle antiche scuole cote sto vocabolo
esprimeva l'atto dello intellet to, per lo quale formasi in noi l'idea degli
obbietti sensibili; e però intenzioni chia mavansi ancora le immagini, o le
specie che di questi obbietti passavano alla mente. Nella filosofia morale,
l'intenzione signi fica il proposito deliberato dell'animo, che qualifica
l'azione, la quale da essa prende il carattere di onesta o di biasimevole. Nel
linguaggio poi dell'antica logica valeva nozione o conoscenza, perchè le
conoscenze che la mente ha delle cose, la determinano al volere e all'operare.
Di stinguevano i logici l'intenzione in for male e in obbiettiva: la formale
era la la conoscenza dell'obbietto: l'obbiettiva era lo stesso obbietto
conosciuto: l'una e l'al tra suddividevasi in prima e seconda: la prima formale
era la conoscenza diretta ed immediata dell'obbietto, senza verun aiuto della
riflessione: la seconda formale conteneva le qualità essenziali dell'obbiet to,
ricavate per mezzo della riflessione : la prima obbiettiva, era l'obbietto como
sciuto per l'atto immediato della mente: - 80 - la seconda obbiettiva
risguardava le de mominazioni derivanti dalle sue qualità, come il genere le
spezie ed altre simili. Nulla resta più di questo vano apparato di parole, e
d'inutili categorie. Oggi il vocabolo intenzione ritiene soltanto per suo
significato proprio il fine dell'azione, e il proposito che determina l'agente
morale, V. Agente, Azione. INTEREsse (prat. e disc.), il sentimento della
utilità, che indirizza le azioni di ognuno alla conservazione del proprio es
sere, e al suo maggior bene possibile. È la spinta naturale degl'istinti, degli
appetiti, e di tutti i principi di azione ne quali è riposto l'amor della vita,
la scelta del bene, e l'abborrimento del male e del dolore. Inteso cotesto
vocabolo nel senso il più generico, contiene la ragion sufficiente dell'amor di
se medesimo, detto ancora amor proprio, col quale sovente si scambia. V. Amore.
L'interesse, considerato come principio motore dell'azione, è capace di quella
stessa varietà di significati, che si suole dare al vocabolo utilità, e però
può es sere l'espressione così dell'egoismo, come del vero bene. Per non
confondere questi due significati, gli scrittori han distinto l'interesse
personale dall'interesse bene inteso. Reid chiamò interesse bene in teso il
sentimento di vera utilità, che ci viene dalla matura ragione e dalla spe
rienza : « quando siam pervenuti a com prendere, egli dice, la natural connes
sione degli avvenimenti, e le conseguenze delle nostre azioni, abbracciando
allora con più estesa vista l'esistenza nostra pas sata, presente e futura, noi
correggiamo le nostre prime idee del bene e del male, s ci eleviamo alla
nozione dell'interesse bene inteso, cioè a dire di quell'interesse, di cui non
l'emozione attuale o il deside rio e l'avversione animale del momento sono la
misura; ma di cui la giusta esti mazione risulta dalla previsione delle con
seguenze certe o probabili, che la nostra determinazione potrà seco portare per
tutto il corso della vita ». Se così voglia chia marsi il vero bene e la vera
utilità, la definizione che ne ha dato Reid, ne rende chiaro il concetto; ma lo
stesso potrebbe dirsi del bene e del male, del piacere e del dolore, e di tutti
i vocaboli che hanno un senso relativo al concetto che ciascuno ne forma; il
perchè molti fecero entrare nell'interesse bene inteso i pregiudizi e le false
virtù pratiche nelle quali essi ri ponevano il bene. Limitiamo dunque il si
gnificato dell'interesse alla utilità del pro prio individuo dettata
dall'istinto, e dia mogli per correttivo il dovere, il quale prende norma dalla
ragione e dalla co scienza. V. Dovere. INTERIORE e INTERNo (spec. e prat.),
vocaboli correlativi di esteriore e di ester no, i quali esprimono gli obbietti
che non percepiamo cosensi, ma acquistiamo per la luce della ragione, e per
l'uso della facoltà intellettiva. Per analogia di significato chiamasi in terno
senso dell'animo la facoltà, per la quale conosciamo noi stessi, le diverse
operazioni dell'intelletto e della coscienza, le nostre relazioni con Dio e
cogli altri Esseri, e i doveri che ne risultano. Per la stessa analogia si è
chiamata interna vista dell'animo il naturale acume, per lo quale ella scorge e
sente tutto quel che avviene in se stessa. V. Senso. Similmente mondo
interiore'dicesi l'uni versalità degli obbietti del pensiero, delle – 81 –
relazioni, e delle verità che scopriamo in dipendentemente da sensi per mezzo
della riflessione e della meditazione; e vita in teriore, l'abito della
contemplazione, per la quale ci astraiamo dalle cose sensibili, e ci rivolgiamo
alla considerazione delle opere di Dio, e di noi stessi. V. Contem plazione,
Dio. INTIMIDITÀ (prat.), negazione di timi dità. V. questa voce. INTIMo (spec.
e prat.), accrescitivo d'in terno. Quantunque per terminazione gramati cale
dovrebbe valere come superlativo d'in teriore e d'interno, pure l'uso ha tolto
una tal gradazione nel significato de tre dinotati vocaboli; il perche si
scambiano l'uno per l'altro. - Sostantivamente usato, vuol dire l'in terno
dell'animo. Nella filosofia speculativa è stato detto senso intimo la vista
dell'anima, per la quale leggiamo ne'nostri pensieri, e nella coscienza, con
cui è stata ancora da al cuni confusa. Per non moltiplicare deno minazioni
affini, che non possono essere distinte per significati diversi, crediamo non
doversi fare differenza tra l'interno e l'intimo senso. V. Senso. Per rispetto
alle relazioni della vita, vale esser legato ad alcuno per familia rità ed
amicizia. INTRANSITIvo (disc.), nome dato a quel la sorta di verbi, l'azione de
quali non passa in altra persona o cosa. INTREPIDEzzA e INTREPIDITÀ (prat.),
fer mezza d'animo, che fa di se mostra in nanzi al pericolo, È più del
coraggio, o per meglio dire, esprime un carattere che rileva più il co raggio,
e la bravura, perchè dinota una su periorità di spirito, che non riceve impres
sione dall'aspetto di qualsivoglia pericolo. INTRINSICoeINTRINSEco (ont.
spec.edisc.), quel che è inerente all'essere d'una cosa. Gli scolastici
distinsero tre significati af fini che cotesto vocabolo aver poteva: quel che è
essenziale: il contenuto per rispetto al continente: l'inerente ad un
subbietto, nel quale senso distinguevansi gli accidenti intrinseci dagli
estrinseci. È un correlativo di estrinseco, di cui inverte i significati. V.
Estrinseco. INTUITIvo (spee. ), quel che l'animo vede colla sua luce naturale,
senza biso gno di ragionamento. V. Ragionamento. Aggiunto a verità, esprime
quelle pro posizioni, delle quali la ragione vede di per se l'evidenza. V.
Evidenza. Aggiunto a giudizio, esprime quella parte del nostri giudizi, co quali
ricono sciamo la verità d'una proposizione, ap pena che la sentiamo enunciare;
a diffe renza del giudizi derivativi o dedotti, i quali han bisogno del
discorso e del ra gionamento. V. Giudizio. Aggiunto a certezza, esprime la
convi zione della realità degli obbietti percepiti cosensi, e delle nozioni
suggerite dalla co scienza, o dal senso intimo. V. Certezza. INTUIzione (crit.
e spec.), l'immediata cognizione del vero, che acquistiamo per lo natural senso
della ragione. V. Ragio ne, Senso. L'intuizione è la prima sorgente del l'umana
cognizione, del che non dubitò lo stesso Locke, comechè da tal concetto 11 – 82
– non ricavasse le giuste conseguenze: « la differenza, egli disse, che si
scontra nella chiarezza delle nostre conoscenze, nasce dalla diversa maniera di
perce pire la convenienza o disconvenienza delle proprie idee. Imperciocchè
riflet tendo alla nostra maniera di pensare, scorgeremo che l'anima percepisce
tal volta la convenienza o disconvenienza di due idee immediatamente e pel pro
prio merito loro, senza l'intervenzione d'altra idea; il che può chiamarsi una
conoscenza intuitiva. In tal caso l'ani mo non dura veruna fatica per provare o
esaminare la verità, ma la percepisce come l'occhio vede la luce non prima che
lo volge verso di quella» (lib. IV. c. ). L'intuizione non solamente va risguar
data come il primo grado dell'umana co gnizione, ma come la parte in cui più
risplende la luce divina che irradia la ra gione. Imperciocchè tutto in Dio è
intui zione, laddove l'uomo è obligato di ri correre al ragionamento, per
iscoprire una parte delle relazioni delle cose, e quella parte solamente cui si
limita la sua capa cità; d'onde segue, che il dono stesso del ragionamento,
comechè sia una delle più belle doti dell'umana mente, è non per tanto un indizio
della sua imperfezione. Ma la facoltà del ragionare senza taluni principi o
verità note, che sono i primi anelli delle sue deduzioni, sarebbe una facoltà
sterile, anzi sorgente d'incertezze e di dubbi. L'intuizione è quel raggio di
luce che rivela alla mente le prime veri tà, le quali servono di norma non meno
all'esercizio delle facoltà intellettuali, che al pratico portamento della
vita. V. Prin cipio - Verità, E quì ci sia permesso dissentire dalla ºpinione
di Dugald Stewart, il quale vor. | rebbe fare scomparire ogni differenza tra
l'intuizione e il ragionamento. Dal biso gno, che il ragionamento ha della
intui zione deduce egli la conseguenza, che il ragionamento non sia, se non la
combi nazione della intuizione e della memoria; e dal perchè sovente noi ci
riposiamo sulla evidenza della memoria, per ammettere talune verità, delle
quali non vediamo pre sentemente la connessione, ricava, che la dimostrazione
delle idee medie non sia che un atto della memoria. Ma quante nuove relazioni,
e quante ignote verità non iscopriamo noi per mezzo della dimo strazione ? E
qual sarebbe il merito del l'analisi e della invenzione, se l'una e l'altra non
fossero che un meccanico in strumento della memoria? Il bisogno che il
ragionamento ha della intuizione, e l'in dissolubile unione dell'una e
dell'altra fa coltà, altro non esprime se non il passag gio necessario che la
mente dee fare dal noto all'ignoto. Ma potremo perciò iden tificare l'uno
coll'altro, e confondere le verità insegnate dalla natura con quelle che dobbiamo
necessariamente acquistare per mezzo della dimostrazione, o della spe rienza?
La cennata opinione mal si ac corda co principi dello stesso scrittore, e colla
distinzione tra i giudizi intuitivi e i derivativi, che è propria della sua
scuola. V. Giudizio. INVARIABILE (prat.), quel che segue una norma costante di
principi, o di ordine. È proprio delle azioni che nascono da proposito
deliberato, o da ordine preme ditato. È diverso dall'immutabile, che si rife
risce all'essere delle cose. Immutabile è l'essenza delle cose; invariabile è
la giu stizia. V. Immutabile, - 85 - INvENTARE (spee.), essere il primo a
trovare qualche cosa o a comporre un che di nuovo, per la forza del proprio
ingegno. È diverso dallo scoprire, che può na scere dalla fortuna o dal caso, o
può far palese una cosa, che prima s'ignorava. Flavio inventò la bussola e
Colombo sco perse il nuovo mondo. Galilei inventò il telescopio, e scoperse i
satelliti di Giove. V. Scoprire. INvENZIoNE (crit. e spec.), il pervenire per
le vie razionali alla cognizione d'una verità ignota, o il trovare
l'applicazione meccanica d'una verità teoretica già nota. I metodi, che son le
vie razionali per le quali si perviene allo scoprimento delle ve rità ignote,
formano lo scopo dell'arte d'in ventare, detta pure euristica.V. Euristica. Per
metodo intendiamo l'ordine che la mente segue nelle sue investigazioni. Que
st’ordine è doppio, dacchè procede dal ge nerale al particolare, come nel
metodo sintetico; ovvero dal particolare al gene rale, come nell'analitico.
L'analitico è il me todo proprio della invenzione. V. Metodo. L'invenzione
differisce dalla scovertas quella è il prodotto dell'acume della ra gione
diretto da un metodo qualunque: questa, è il trovamento d'un fatto esi stente
nell'ordine delle cose naturali, o d'una verità, divenuta nota per caso, e
senza opera della ragione. V. Scoverta, La facilità di giugnere allo
scoprimento di verità ignote, o di trovare le applica zioni meccaniche delle
verità note, nasce da una vivacità di mente che dicesi genio, V. Genio.
INvERIsIMIGLIANZA e INVERISIMILE (spec. e prat.), negazioni del verisimile. V.
que sta Voce, InvERsIoNE (dise. ), trasportamento di parole, che fa uscire la
costruzione del discorso dalla semplicità dell'ordine ana litico gramaticale.
V. Costruzione. Comprende tanto la figura detta iperbato da gramatici, quanto
l'ipallage.V. Figura. lNVIDIA (prat.), inquietudine dell'ani ma per un bene da
altri posseduto, e da noi desiderato. V. Inquietudine. Gli stoici la numerarono
come una del le spezie di dolore, e Cicerone la definì, come una tristezza
cagionata dalla prospe rità altrui, quantunque questa non sia di veruno
nocumento a colui che porta invi dia. Ma la malevolenza che desta l'invi dia,
non sempre è tanto forte da produrre il dolore ; ond'è che va meglio contata
tra le inquietudini dell'animo. E d'altra parte ci duole di quel che ci offende
o ci arreca danno, ma ci reca semplice mole stia il vedere, che altri goda quel
bene che desidereremmo per noi; d'onde nasce la differenza tra l'odio e l'invidia.
V. Do lore, Odio , Tristezza. Certamente l'invidia contiene in se due
sentimenti viziosi: uno è il dolersi del bene altrui, l'altro è il voler male
alla persona che lo gode; il perchè chiamasi ancora invidia l'allegrarsi
dell'altrui male. Cote sta passione, che Seneca chiama perni ciosum optimis
telum, è l'alimento del l'ambizione, la quale dà continuo tor mento per lo
paragone del bene altrui. INVISIBILE (spec. e teol.), tutto quel che si sottrae
al senso della vista, o per la natura sua, o per la picciolezza delle parti, o
per la distanza. Le sostanze immateriali sono invisibili per natura: le infime
parti della materia lo sono per la loro picciolezza: i corpi r – 84 – divengono
invisibili, a misura che si al lontanano da noi. Invisibili diconsi tutti gli
obbietti che formasi il pensiero, e del quali la cono scenza non ci viene per
la via de' sensi. Iddio ci è invisibile, ma i suoi attri buti, comechè
invisibili, ci si rendono manifesti per le sue opere visibili. V. Dio. INVITO
(prat.), addiettivo, latinismo ricevuto, che vale involontario. V. que Sta
VOce. InvoLoNTARIo (prat.), negazione del volontario. V. questa voce.
L'involontario ha un senso generico che abbraccia tutto quel che avviene senza
il concorso della nostra volontà. Ne ha un al tro speciale che si riferisce
alle azioni, nelle quali distinguiamo le volontarie dalle in volontarie. Nel
primo senso involontarie sono tutte le funzioni naturali alle quali prestansi i
nostri organi, ma passivamente, e senza che per nulla vi concorra la volontà.
Tali sono la digestione degli alimenti, la cir colazione del sangue, e tutte le
altre ope razioni della natura, dalle quali risulta l'economia animale.
Involontari anche di consi gli avvenimenti che provengono da casi fortuiti, o
da qualunque causa fuori della nostra deliberazione. Quanto poi alle azioni,
che hanno il principio loro nella volontà, i moralisti distinguono
l'involontario assoluto dal re lativo. L'assoluto è quando la volontà non possa
essere diretta dal giudizio necessa rio alla deliberazione; o quando le venga
tolta la libertà necessaria alla scelta. Nel primo caso trovansi i fanciulli, i
dementi e i furiosi: nel secondo son quelli, che cedono alla violenza e alla
forza cui re sistere non possono: Si liberum est tibi, si arbitrii tui est,
utrum velis, an non; id apud te ipse perpendes: si necessitas tollit arbitrium
, scies te non accipere, sed parere. ll relativo finalmente abbraccia le azioni
miste, le quali sebbene provengono dal l'esercizio della nostra potenza attiva,
pure o non sono state maturamente deliberate, o mancano della piena e libera
adesione della volontà. Le azioni inconsiderate, com messe per difetto di
riflessione, e non per proposito deliberato, e quelle eseguite per la
impulsione d'una forza, o d'una pas sione cui un uomo forte avrebbe potuto re
sistere, formano la materia della diversa gradazione, colla quale i moralisti
giudi cano della loro imputabilità: son esse le due spezie di azione, che le
leggi positive distinguono co'caratteri di colpose, e di escusabili. Il confine
che distingue l'azione mista dall'involontaria sta in quel fatto mate riale,
cui la volontà è stata a suo mal grado strascinata. Questo è quel che for ma
l'invito animo de Latini. V. Azione, Volontà. - INUMANO (prat.), negazione di
umano, che vuol dir crudele. V. queste voci. INURBANo (prat.), negazione di
urba no, che vuol dire incivile. V. queste voci, Io (crit. ontol. e spec.), la
coscienza del proprio essere; O il sentimento della propria personalità; Ovvero
il principio pensante, che è in noi, L'io penso, l'io voglio, l'io esisto , è
un fatto reale e certo, quanto gli altri fatti che le sensazioni ci
manifestano. È – 85 – più evidente ancora di questi, perchè la realità delle
sensazioni è subordinata alla condizione dello stato sano degli organi desensi
; laddove la realità del pensare, del volere, dell'esistere sta nell'atto
stesso della coscienza, la quale ci manifesta, insieme colla esistenza, la
continuità e l'identità sua. V. Coscienza, Esistenza, Identità. - Cartesio fece
della proposizione io pen so dunque esisto, la base unica di tutta l'umana
cognizione, e in essa solamente ripose i tipi della certezza. Dubitando di
tutto quello in cui avesse potuto nascon dersi l'errore, andò cercando nella ra
gione un principio certo ed indubitato nel quale fondar potesse la verità delle
umane conoscenze. Egli dimostrò l'uso che può farsi del dubbio metodico,
comunque ne avesse trapassato i giusti limiti. V. Dubbio. Gli obbietti
sensibili, a suo modo di ve dere, sono incerti, perchè i sensi molte volte
errano: gl'immaginabili del pari, perchè vediamo e sentiamo molte cose nel
sonno, che non hanno veruna realità, e anche perchè non abbiamo alcun certo se
gno per distinguere il sonno dalla veglia: le dimostrazioni matematiche e le
verità le più evidenti potrebbero esser false, tra perchè in esse ancora
l'errore è possibi le, e perchè potrebbe l'Autor della natura averci costituito
in un mondo d'illusioni e di false apparenze: sarebbe in somma possibile che
non esistessero il cielo, i corpi, e tutto quel che noi crediamo che esista. Ma
pensando io a questo modo, e credendo che possa esservi qualche po tente e
maligno spirito che m'inganna, è impossibile che io non esista mentre così
penso: io penso, dunque esisto, è la sola verità certa che la mente concepisce:
e il minimum quid inconcussum, che non può essere rivocato in dubbio. « Ma che
dun que sono io? (seguita a dire Cartesio): una cosa che pensa, che intende,
conce pisce, afferma, vuole o non vuole, im magina, e sente. E che mi assicura
della realità del pensiero e del sentimento mio? La chiara e distinta maniera
colla quale io concepisco un tal pensiero! Vero è tutto quel che chiaramente e
distintamente con cepisco dell'idea d'una cosa; e però tutto quel che
chiaramente e distintamente è compreso nell'idea della cosa, può con ve rità
affermarsi che a quella cosa appar tenga». Stabilita così la realità del
proprio pensiero, Cartesio va dallo stesso dedu cendo l'idea della esistenza
degli Esseri e delle cose poste fuori di noi. La prima e la più chiara idea,
che la mente deduce dal proprio essere, è quella di un Ente sommamente
intelligente, possente e per fetto; dapoichè conoscendo essere imper fetta la
propria natura, conosce ancora doverla ripetere da un Ente di se più per fetto,
cui nulla manchi delle perfezioni, delle quali sentesi priva. E per la regola
poc'anzi stabilita, debbono a cotesto Es sere appartenere tutte le perfezioni
che la mente di Lui chiaramente e distintamente concepisce. E siccome
l'esistenza per ri spetto alla nuda possibilità, è una perfe zione; così
l'esistenza sua è necessaria, e può dalla mente essere dedotta a priori. Di
cotesto sistema volle Cartesio (tanto nelle meditazioni, quanto ne principi del
la filosofia naturale) assegnare le ragioni logiche, le quali a senso suo ne
dimostra vano la verità. E in prima cominciando dalle definizioni, considerò
che ogn'idea in se stessa non può dirsi vera o falsa, se non per quanto si
riferisca a qualche altro obbietto; e per conseguente la causa dell'errore non
è nelle idee, ma ne no - -- r---- - -. - - - - - LoLG A vi – 86 - stri giudizi.
La principale causa dell'errore ne giudizi nasce dal credere, che le idee le
quali sono in noi, corrispondano esat tamente agli obbietti posti fuori di noi.
Laonde per accertarci della esistenza delle cose rappresentate dalle idee, uopo
è sta bilire i requisiti della esatta loro somi glianza. Tali requisiti sono:
1.º ogn'idea debbe nascere da una causa che la pro duce : 2.º questa causa
efficiente debbe avere tanta realità formale, quanta realità obbiettiva ha
l'idea. Per formale egl'in tese quel che è nella cosa stessa ; e per obbiettiva
ciò che ne rappresenta l'idea. Ora non potendo trovarsi nella idea più di quel
che è nella cosa, ne segue che le idee altro non sono se non immagini o
dipinture degli obbietti da esse rappre sentati: possono essere da meno del
loro archetipi, ma non mai maggiori o più perfette. Con tal misura graduando le
va rie sorte d'idee che noi possiamo conce pire, o di noi stessi, o degli
obbiettima teriali posti fuori di noi, o degli Esseri animati, o di Dio, egli
così discorre. « Io son la causa di me medesimo, e per conseguente in me trovo
tanto la rea lità formale, quanto la obbiettiva. Per gli obbietti materiali,
che son fuori di me, sarebbe possibile che fosse e non fosse in me la causa
efficiente di tali idee, per chè da una parte posso da me ricavare l'idea della
sostanza, della durata, del numero; e dall'altra la figura, l'estensione, il
sito e il moto non sono formalmente in me. Ad ogni modo posso considerare co
teste qualità primarie della materia, come modi della sostanza; e siccome io
stesso sono una sostanza, così posso averle come eminentemente (o sia
virtualmente) in me contenute. Per rispetto poi alle qualità che sono state
dette seconde, non avendone veruna idea distinta, debbo averle come poste fuori
di me». « Circa gli Esseri animati, ne trovo la causa efficiente in me stesso,
e nella idea della materia. In fine circa l'idea di Dio, che io concepisco come
una sostanza in finita, eterna, immutabile, indipendente, sapientissima, onnipotente,
e per la quale esisto io, ed esistono tutte le altre cose (se pure è vero che
esistano); cotesta idea dico non posso prenderla da me, dapoi chè sebbene io
sia una sostanza, pure come sostanza finita non potrei concepire l'infi nita.
Uopo è dunque che questa idea sia stata messa in me dalla stessa sostanza in
finita, da cui riconosco l'essere mio ». Così torna egli per altra via a
trovare che la esistenza di Dio, è la prima verità im mediata che ciascuno
ricava dalla coscienza del proprio essere. La verità dell'esistenza di Dio, che
la mente da per ogni dove ricava, servì di fiaccola a Cartesio per di radare le
nebbie del suo dubbio metodico, e per ammettere in secondo ordine la cer tezza
delle idee del sensi. « D onde pro vengono queste idee, domanda egli a se
stesso? Debbono venire, o da una natura corporea, nella quale è formalmente con
tenuto tutto quel che obbiettivamente si trova nelle cennate idee; ovvero da
Dio o da qualche altra creatura più nobile del corpo, in cui sieno
eminentemente conte nute. Ora è manifesto, che non essendo Dio ingannatore,
quelle idee non mi ven gono da Lui, o da altra creatura, che forse potesse in
se contenerle non formal mente nè eminentemente. Imperciocchè non avendomi dato
alcun mezzo per conoscere se ciò sia; anzi avendomi dato una gran dissima
inclinazione a credere, che le idee vengono da cose corporee, io non veggo come
potrebbe esser escusato dalla nota - – 87 – d'ingannatore, se esse venissero da
tutt'al tra parte, o fossero prodotte da cause non corporee, il perchè convien
conchiudere, che le cose corporee esistono ». La dottrina di Cartesio, fondata
tutta sull'io penso, de essere considerata sotto due aspetti; per quello cioè
che aggiunse alla dottrina delle vecchie scuole, e per quel che ne tolse:
introdusse un nuovo principio nella filosofia: ne distrusse un altro che aveva
insino a lui dominato. Chiamiamo nuovo il principio pensante, non perchè non
fosse stato noto prima di lui, ma perchè nuovo era per rispetto alla scuola
peripatetica, di cui volle essere riformatore: distrusse poi il vecchio prin
cipio dominante, quello cioè che tutte le idee vengono da sensi, non perchè le
me gasse, o non desse loro un qualche grado di certezza, ma perchè mutandone la
ori gine, e dando loro una sorgente diversa dalla propria, mutò i principi
della certez za, e aperse una nuova porta all'idealismo. Considerata nel primo
aspetto, niuno può negarle il merito di avere repristi nato nella filosofia lo
spiritualismo, e de rivato le prime ed elementari verità della umana cognizione
dalla conoscenza del proprio essere. E per l'opposito, voltan dola dall'altro
lato, ogni uomo dotato dell'ordinario ma retto senso della natura, dura fatica
a concepire come avesse po tuto rinunziare alla certezza del sensi, e come
scinder potesse la testimonianza del la coscienza, centro comune delle facoltà
sensitive e intellettive dell'animo. A que sta contraddizione egli pervenne
rinegando l'autorità desensi, della memoria, del ra gionamento, ed ammettendo
soltanto come certo l'evidenza del proprio pensiero. Ora il pensiero non è
forse egualmente certo guando ci manifesta così gl'interni fatti dell'animo,
come gli esterni desensi? La coscienza non è egualmente sicura, quan do ci
attesta la verità d'una percezione, o d'ogni altra operazione delle nostre fa
coltà? Questa coscienza che scopre la causa degli errori, cui le nostre facoltà
son sog gette, come potrebbe legittimare una parte sola de'nostri giudizi, ed
essere impotente e insufficiente per gli altri? Se la coscienza persuade
Cartesio ch'egli pensa, perchè non lo persuade della esistenza delle cose che
tocca, e di tutte le altre verità di fat to, delle quali l'evidenza non è
minore di quella del pensiero? I limiti che trapassato aveva Cartesio, furono
ristabiliti da Leibnizio, il quale avendo derivato la mozione dell'Essere pen
sante dal fondo o luce propria della ra gione, ne fece la sorgente di quelle
prime verità ch'egli chiamò ingenite, come le nozioni della propria esistenza,
dell'essere in generale, della sostanza, dell'unità, della causa, dell'azione,
della percezione, e di tutte le altre operazioni dell'intelletto; e senza dare
una realità esclusiva alle idee formate dal pensiero, associò il principio
interno all'esterno delle sensazioni, distin guendo i due ordini di verità, de
quali si compone l'umana cognizione, le verità di fatto cioè, e le necessarie
(vol. I. di que sti Saggi cap. XII. p. 21o). V. Principio, Verità. I moderni
hanno introdotto un novello vocabolo composto, il non-io, che espri me la
negazione dell'io, come contrappo slo della sostanza pensante ed intelligente.
Gl'idealisti, e gli amatori di neologie si sono impadroniti di cotesto
vocabolo, per distinguere la materia dallo spirito, il com posto dal semplice,
il moltiplice dall'uno, ed il mondo esteriore dall'interiore. Que sta medesima
voce ha servito ancora a – 88 – molti per indicare i caratteri della filoso
fia, che assume o un doppio, o un unico principio di cognizione. E però unitari
si son detti quelli che professano un sol prin cipio, e dualisti gli altri che
ne ammet tono due. V. Dualismo. Ci sia permesso rigettare un tal voca bolo come
barbaro, antilogico, superfluo, e come generator di ambiguità e di false idee.
Barbaro, perchè contrario a tutte le regole riconosciute dalla lingua per la
for mazione decomposti e denomi negativi; antilogico, perchè la negazione del
sub bietto, e non della qualità, esprime l'idea del non essere, o sia del
nulla, e non già l'idea d'un subbietto diverso dal negato; superfluo perchè non
mancano alla lingua i vocaboli propri per esprimere la mede sima idea;
generator di ambiguità e di false idee, perchè non ha servito sin ora, se non
agl'idealisti per fantasticare intorno alla unità o alla pluralità del principi
di tutte le cose, e a neologisti per aggiu gnere alla oscurità delle idee anche
quella delle parole. V. Idealismo, Meologismo. IPERBATo (dise.), figura di
costruzione, la quale interrompe l'ordine e la naturale connessione delle voci
di una frase. V. Co struzione, Figura. I grammatici la suddividono in varie
spezie; il che per altro è relativo al va rio uso delle costruzioni di ciascuna
lin gua. V. i grammatici. IPocRis A (prat. e teol.), simulamento di pietà, di
sapienza, o di virtù negli atti esterni, che nasconde l'empietà, l'igno ranza,
o il vizio che è dentro. L'ipocrisia religiosa, è un sacrilegio, al quale
concorrono insieme l'empietà, e la tradigione della propria coscienza. La
filosofica è una ostentazione figlia della vanità , o della ambizione. La
morale è la perversità, che trionfa del giudizio del la coscienza del pari che nella
religiosa. Di queste tre spezie d'ipocrisie la filoso fica è meno odiosa delle
altre due, e però è men detestata, ma trova la sua pena nella derisione e nel
disprezzo: asperum cultum, dice Seneca, et intonsum caput, et negligentiorem
barbam , et indictum argento odium, et cubile humi positum, et quid quid aliud
ambitionem perversa via sequitur, devita. Satis ipsum momen philosophiae, etiam
si modeste tractetur, invidiosum est.... id agamus, ut melio rem vitam sequamur
quam vulgus, non ut contrariam : alioqui quos emendari volumus, fugamus, et a
nobis averti mus. (Epist. V.). Ipotesi (spec. e disc.), proposizione supposta,
che forma il suggetto d'ogni quistione; proposizione che serve di fondamento ad
una teorica, e risulta dal confronto e dallo studio del fenomeni della natura e
da pro dotti della sperienza; proposizione, di cui la verità dipende
dall'avveramento d'un'altra; concetto dell'animo nostro, per lo quale spiegar
vogliamo l'ignota causa del feno: meni della natura. Son questi i significati, che
tanto nel linguaggio comune, quanto nello scienti fico, sogliamo dare alla voce
ipotesi. Nel primo senso prendesi comunemente, qua lunque sia l'argomento del
discorso. Nel secondo l'adoprano i fisici, acciocchè serva di mezzo per
ispiegare o prevedere altri fenomeni. Nel terzo la prendono i logici e i
grammatici; gli uni nelle proposizioni e ne sillogismi condizionali, ch'essi
chia – 89 - mano ipotetici; gli altri ne modi de verbi, detti suppositivi. Nel
quarto finalmente la presero gli antichi filosofi, e la prendono ancora quelli
tra moderni, che per cause possibili pretendono spiegare gli occulti fatti
della natura, senza ricorrere all'esperienza. Questo è stato il vizio della
così detta filo sofia naturale, e della metafisica. L'ipotesi, in qualunque dedinotati
sensi differisce dalla pretta supposizione, perchè questa è nome generico
d'ogni fatto sfor mito di pruova di verità, o di realità. Diſ ferisce ancora
dalla congettura, la quale è fondata nella verisimiglianza; dalla pre sunzione,
che è un anticipato giudizio in torno ad un fatto creduto vero ; e dalla
condizione, che ha per fondamento un fatto incerto, ma possibile. V. Condizio
ne, Congettura, Presunzione, Suppo sizione. L'ipotesi può essere il fondamento
d'un sistema, ma non debb essere confusa col sistema, il qual è una seguela di
propo sizioni, che si annodano ad un principio, o ad un fatto, da cui tutte
dipendono. Può sì bene l'ipotesi rendere ipotetico il sistema. V. questa voce,
IpotETIco (spec. e disc.), quel che ha dell'ipotesi, o sia qualità che conviene
al suggetto delle ipotesi, Proposizioni ipotetiche. V. Proposizione, Sillogismo
ipotetico. V. Sillogismo. Ipotiposi (diso.), descrizione delle cose fatta al
vivo, O secondo la definizione di Quintiliano, è la forma delle cose espresse
colle parole, IRA e IRACONDIA (prat.), concitamento dell'animo alla vendetta
per offesa, o dan no ricevuto. Così fu definita dagli antichi, sopra i quali
ricalcarono le loro definizioni i no stri moralisti italiani. Cicerone dà
l'appe tito della vendetta, come carattere dell'ira: est libido puniendi eſus,
qui videatur laesisse infuria. La stessa definizione ne dà Seneca. Ma l'ira può
concepirsi tanto per ingiuria propria, quanto per odio del male, e per cagione
talvolta onesta. Adi rasi il padre contra il figliuolo, e il pre cettore contra
il discepolo, e forma cia scuno il proposito di emendarlo e non di punirlo, o
in cuor suo lo condanna, e vuol tenerlo da se lontano, senza animo di vendetta.
Di vantaggio, adirasi l'uom sapiente, ma generoso si astiene dal con cepir
disegno di male contra l'autor del l'ingiuria o del danno. Egli è vero, che
l'ira sia la più frequente cagione della ven detta, ma da ciò non segue, che
cotesto sentimento sia una necessaria conseguenza di quello. Per la qual cosa
sembraci che basti definirla come un forte concitamento di collera per ingiuria
o danno ricevuto. Distinsero gli antichi, e noi ancora con essi, l'iracondia
dall'ira. Iracondia, è vi zio o sia abito, e ira è moto momenta neo, o di corta
durata, Minuta e vera è la comparazione, che ne fa Cicerone: in aliis anxietas,
unde anzi, in aliis ira cundia dicitur, quae ab ira differt : estgue aliud
iraeundum esse, aliud ira tum, ut differt anarietas ab angore. Me que enim
omnes ana:ii, qui anguntur aliquando, negue anarii semper angun tur, ut inter
ebrietatem et ebriositatem interest, aliudque est esse amatorem , aliud amantem
(Tuscul. IV. c. 12). Adun que non bene disse Francesco da Buti quando nel
comento di Dante definì l'ira e l'iracondia per una medesima cosa; e
contraddisse se stesso in altro luogo, al 12 – 90 – lorchè descrisse l'uomo
iracondo, come acceso d' un abito viziosò , di cui porta i segni impressi nel
volto. IRAsciBILE e IRAscIBILITÀ (prat.), la parte del natural appetito, che
porta l'uomo ad adirarsi del mal che l'offende. IRREFRAGABILE (disc.), quel che
non può essere confutato. Dicesi propriamente delle dimostrazioni e degli
"dal ragionamen to; e mal si direbbe delle verità, o pro posizioni per se
stesse evidenti. lRRISIONE (pra'. ), derisione accompa gnata da ludibrio. V.
queste voci. IsTINTo (spec. e prat.), inclinazione data dalla natura agli
animali, per con seguire un fine utile.V. Animale, Matura. L'istinto va
propriamente considerato, come un veicolo o principio di azione, o sia come una
legge della provida na tura, per la quale gli animali sentono quel che è loro
necessario o utile per la conservazione della vita: è la più am mirabile delle
leggi naturali, perchè av vicina la materia allo spirito : è l'orma, che
l'onnipotenza e la sapienza del Crea ſore, ha impresso nelle creature, accioc
chè per una molla invisibile, senza deli berazione o consiglio, facessero quel
che giova al nutrimento, al progresso, alla riproduzione, alla difesa e alla
conserva zione individuale, dal primo insino all'ul timo atto del viver loro: è
la ragione pra tica di quelle creature che sono incapaci di ragione: è in somma
una illumina zione, che manifesta alla stessa ragione umana l'uso e
l'importanza delle proprie facoltà. V. Azione, Principio. V'ha degl'istinti
comuni a tutti gli ani mali; ve n'ha de particolari a ciascuna spezie; e ve
n'ha de propri dell'uomo, come animal ragionevole. Per ben consi derargli,
giova distinguergli in due clas si, gl'istinti animali cioè, e i razionali.
Gl'istinti animali sono nell'infanzia del l'uomo affatto simili a quelli de
bruti, sì che per essi la natura gli fa sentire quel che non può conoscere
prima che in lui si sviluppi l'intelligenza; e a bruti, quel che non hanno
ancora acquistato per vir tù dell'abito, che è pure un altro princi pio
d'azione. V. Abito. - Ma gl'istinti conservano ancora nell'uomo adulto la
primitiva loro forza in tutte le occorrenze, nelle quali l'azione dee es sere
sì pronta, che non può attendere il concorso della deliberazione e della vo
lontà. Così gli uomini, al pari del bruti, allorchè perdono l'equilibrio,
cercano di ristabilirlo mercè d'uno sforzo istantaneo, che precede persino
l'avvertenza del peri colo; così, gli uni e gli altri schivano per naturale
destrezza le percosse, dalle quali sono minacciati ; riparano i colpi diretti
alle parti più vitali o più dilicate del corpo; chiudono le palpebre per con
servare gli occhi; abbassano o coprono il capo, e si salvano colla fuga da
un'im provvisa aggressione, che non dia loro altro scampo. - Più sensibile e
più maravigliosa è la mano della natura negl' istinti dati alle diverse spezie
de bruti, acciocchè ciascuna adempia il fine della propria condizione; nel che
ha ella con infinita varietà adat tato i mezzi alle qualità, o a bisogni, che
differenziano una spezie dall'altra. I nidi che le diverse famiglie degli
uccelli costruiscono, le tele del ragni e degli al tri insetti filatori, i
bozzoli de bachi filu – 91 – gelli, i ripostigli delle formiche e degli altri
insetti logoratori, le cateratte e le case del castori, i fiali in fine delle
api, sono altrettante pruove della scienza pra tica che la natura ha infuso a
bruli. Osserva il Dottore Reid « che le caselle de favi delle api, per esser
simili e uguali, senza lasciare spazio tramezzo, aver dovevano una determinata
figura, e che tali condizioni non potevano ot tenersi se non col triangolo
equilatero, col quadrato e coll'esagono regolare. Sanno bene i geometri, egli
soggiugne, che non può darsi una quarta maniera di dividere un piano in ispazi
eguali e simili senza lasciare interstizi. Di que ste tre figure l'esagono è
quel che più conviene, così per la solidità del favo, come per l'uso, cui è
destinato. Ora le api, come se il sapessero, fanno le lor caselle esagone. » Un
altro esempio di scienza geome trica merita pure d'essere addotto per rispetto
alla struttura del favo. Curioso problema matematico è il determinare sotto
qual preciso angolo debbansi scon trare i tre piani, del quali è composto il
fondo d'una casella, acciocchè ab biasi la maggiore economia, o sia il me nomo
dispendio di materiali e di opera. Cotesto problema appartiene alla mate matica
trascendente, ed è un di quelli che diconsi de maxima et minima. Taluni
matematici, e tra questi il va lente Maclaurin l'hanno risoluto col cal colo
infinitesimale. Quest'ultimo ha con precisione determinato l'angolo doman dato,
e ha scoperto per mezzo della più esatta misura possibile, che è appunto
l'angolo sotto il quale si scontrano i tre piani del fondo della casella. Qual
è il geometra che ha insegnato alle api le ; » proprietà de solidi insieme
coll'arte di » risolvere i problemi de marima et mi » mima ? In generale vuolsi
collo stesso autore osservare che tutte le arti di fabbricazione sono state tra
gli uomini inventate da uno, migliorate successivamente da altri, e per fezionate
in fine coll'aiuto del tempo e del la sperienza. Ma niun bruto ha inventato
l'arte propria della sua spezie. Ciascun di essi dimostra nell'arte sua, insin
dal na scere, un'eguale attitudine: senza inse gnamento, senza sperienza, senza
abitu dine, ciascuno la possiede e la professa per una sorta d'ispirazione, che
lo rende abile a praticarla così perfettamente, come se ne conoscesse i
principi, le regole e lo scopo. Deesi non pertanto distinguere l'istinto dalle
operazioni puramente meccaniche, le quali sono una conseguenza necessaria della
conformazione degli organi naturali, e che non potrebbero essere diverse di
quelle che sono. Tal è per esempio il suc chiare, l'inghiottire, il respirare,
il muo vere le membra, il mandar fuori la voce, ed altre simili. Coteste
operazioni coman date dal bisogno della natura, non son diverse da quelle che
appartengono all'in terna economia animale, e delle quali molte non possono
essere avvertite dal l'uomo, comechè le senta in se, e dia loro un nome, e
cerchi conoscerne e spie garne le cause. In somma l'istinto pre suppone un
implicito concorso della vo lontà, che la natura muove e determina in vece
nostra. - Quanto agl'istinti razionali, poco sod disfa quel che sin qua ne
hanno detto i filosofi. Reid propone come istinti razionali l'imi tazione e la
credenza. Ma l'imitazione non ar – 92 – è soltanto propria dell'uomo, dapoichè
è comune pure a bruti. Costoro son guidati dall'esempio, il quale può dirsi il
princi pio di tutti gli abiti meccanici loro: i figli modellano i movimenti
delle membra, i suoni della voce, e l'espressione di tutti i bisogni naturali
sopra gli esempi delle madri; correndo insieme, ciascuno ac corda i suoi passi
con quelli dell'altro ; le gregge, del pari che gli stuoli degli uccelli,
seguono i precursori: gli animali imitatori, per carattere di spezie, ripetono
e contraffanno i suoni della voce, e gli stessi gesti, così delle altre spezie,
come dell'uomo. Conviene dunque dire che l'imi tazione è un istinto animale e
razionale insieme, il perchè va considerata e come veicolo nelle operazioni
animali, e come principio d'azione nelle volontarie. Ma l'imitazione
considerata come istinto razionale in che differisce dalla credenza ? La natura
ha dato all'uomo una tendenza al credere, appunto per dargli una guida nel
primo cammino della vita, quando non è ancora sviluppato in lui l'uso delle
intellettuali facoltà: per essa acquistiamo le prime verità necessarie al
portamento della vita, e i primi abiti delle azioni : di questa tendenza
giovasi l'educazione per ispirare a fanciulli i primi germi, così de doveri e
delle obligazioni, come della scienza speculativa! Che è dunque l'imi tazione,
se non l'effetto della credenza, e che altro è la credenza se non l'effetto
dell'autorità? Per la qual cosa l'imitazio ne, la credenza, e l'autorità, non
sono che l'espressione d'un solo e medesimo principio. V. Autorità , Credenza,
Imi tazione. - Ciò non ostante non è la sola autorità che meriti il nome
d'istinto razionale. Ve n ha certamente degli altri più evidenti e più generali,
che regolano l'uso di tutte le facoltà intellettuali, ancora quando que ste son
giunte al segno della loro natu rale perfezione: ve n'ha de permanenti, i quali
accompagnano la ragione in tutti gli stadi della vita, mentrechè la forza
dell'autorità e della credenza ci è stata data dalla natura, quasi per modo di
pro visione, onde ci servisse di supplimento nell'infanzia, o sia nel periodo
della vita prettamente animale. Il primo di tali istinti razionali è il senso
del vero. La mente umana è dotata per sua essenza d'una curiosità
investigatrice di tutte le relazioni delle cose, ch'ella per cepisce, e della
convenienza loro. I ger mi di questa curiosità manifestansi di buo n'ora ne
fanciulli, dequali l'educazione è riposta appunto nell'arte di soddisfarla, e
di bene indirizzarla. Ed acciocchè cotesto senso fosse sempre coerente al fine
cui serve, la natura gli ha dato per compa gno il giudizio, o sia la facoltà
discerni trice del vero e del giusto; sì che il senso della verità è un istinto
inseparabile dalla ragione, il quale si manifesta non prima che comincia a
spiegarsi in noi l'intelli genza, che anzi sottentra alla credenza, dapoichè
sorge quasi compagno dell'età adulta, per iscrutinare, purificare ed am pliare
le conoscenze dell'infanzia, il cui carattere è la cieca credenza. V. Educa
zione, Senso, Vero. I moralisti han parlato di un istinto mo rale, che han
considerato come la causa più generale delle umane azioni: hanno essi così
denominato il desiderio di con seguire il piacere e di schivare il dolore.
Quanto a questo istinto vuolsi osservare, che diverso è il riporre il bene nel
pia cere e il male nel dolore, dal riconoscere la naturale tendenza, così de
sensi come – 95 – della ragione, ad amare l'uno, e ad evi fare l'altro. Diverso
è pure il concepire l'idea del piacere nella sua vera accezio ne, cioè di quel
che giova, dall'inten derlo nel suo volgare significato della vo luttà de
sensi. Per distinguere cotesti di versi significati basta rimuovere l'ambi
guità del vocabolo, giusta l'avvertenza di Cicerone : in eo voluptas , omnium
la tine loquentium more, ponitur cum per cipitur ea quae sensum aliquem mo veat
jucunditas. Hane quoque jucundi tatem, si vis, transfer in animum: ju vare enim
in utroque dicitur, ea eoque jucundum ( de finibus lib. II. c. 4. ). V. Bene,
Dolore, Male, Piacere. Ora concependo l'istinto morale come una tendenza
desensi e della ragione, a quel che giova o nuoce, niuno non può ravvisare un
tal principio nella natura uma na. Un tal concetto, come dice Wolfio, non ha in
se nulla di vizioso, ma il vi. zio può nascere dalla confusa nozione del
piacere e del dolore, che noi potremmo formare, non distinguendo quel che è dei
sensi da quel che è della ragione. In som ma la natural tendenza a volere quel
che giova, e a fuggire quel che nuoce, può più propriamente esser detta
desiderio del la propria utilità, il quale desiderio tra sportato da sensi allo
spirito, come dice Cicerone, ha nella parte morale dell'uomo quel fine
medesimo, a cui serve nella parte animale l'istinto della propria con
servazione. E per quell'ammirabile armo nia, che la natura ha messo in tutte le
facoltà intellettuali dell'uomo, siccome il senso del vero ha per suo compagno
il giudizio; così il desiderio del piacere ha per sua guida la coscienza.
Cotesta facoltà interviene in tutte le nostre azioni, ri corda le cose passate,
separa il vero dal falso piacere, consiglia o riprende la vo lontà, e la spigne
persino alla ritratta zione e al pentimento. L'istinto morale dunque è di sua
natura complesso, per chè comprende non solamente il desiderio di quel che
giova, ma ancora l'interno senso di quel che conviene. Un tal con cetto giova
grandemente a dichiarire la no zione della coscienza, la quale in quanto
consiglia e regola l'azione, non opera in noi, se non come un istinto
razionale. V. Coscienza. Dalle cose dette risulta, che possono es sere
considerati come istinti razionali, la credenza, l'amor del vero, il desiderio
della propria utilità, e la coscienza. Giova in fine osservare che il supremo
Autor della natura muove e conduce gli Esseri sensibili, non solamente per
gl'istinti e per gli appetiti, ma anche per una con traria molla, la quale
insinua loro l'aste nersi da tutto quel che potrebbe nuocere alla conservazione
o allo scopo della vita. Cotesto senso opposto e contrario all'azio ne, è quel
che dicesi avversione. V. que sta V0Ce. IsToRIA. V. Storia. – 95 – CLASSI DE'
VOCABOLI COMPRESI SOTTO LA LETTERA I. FILOSOFIA Cit !TICA, Icastico Icnografia
Iconologia Ictiologia Ideale Idealismo Ideologia Idraulica Idrodinamica
Idrografia Idrografico Idrologia Idrometria Idrostatica Ignorantismo llliberale
Imitazione Immaginativa VOCI ONTOLOGICHE. Identità Immateriale Immaterialità
Immensità lmmenso Impenetrabilità Impossibile Impossibilità Incommensurabile
Incompiuto Incomplesso Incompossibile Indefinito Independente e Immaginazione
Incidere Industria Induttivo Inerudito Infinitesimale Ingegno Insegnamento e
Insegnare Insetto Insettologia Integrale Intellettiva Intelletto Intuizione
lnvenzione Io Indipendente Individualità Individuazione lndivisibile e
lndivisibilità Inerente e Inerenza Infinità Infinito Instante e Istante
Intrinsico e Intrinseco lo FILOSOFIA SPECULATIVA. Ibridismo Idea Ideale
Idealista Identico Identità Idolo Ignoranza Ignoto Illuminazione Illusione
Imitare Imitazione Immaginare Immaginativa Immaginazione Immagine Immateriale
Immaterialità Immediato Immemorabile Immensità Immenso Immensurabile Immobile
Immobilità Immortale Immortalità Immutabile Impenetrabilità Impercettibile
Impercettibilità Imperfetto Imperfezione Imperscrutabile Impersuasibile e
Impersuasibilità Imponderabile Impossibile Impossibilità Impressione
Improporzionale e Improporzionato Inadeguato Inapprensibile Incapacità
Incertezza e Incertitudine Incerto Inclinazione Incogitabile Incognito Incommensurabile
Incommutabile Inclinazione Incogitabile Incognito Incomparabile Incompatibile
Incompiuto Incomplesso Incompossibile Incomposito e Incomposto Incomprensibile
Inconcepibile Incongruenza Inconvenevole, Inconveniente e Inconvenienza
Incorporeo Incorruttibile Incredibile Incredulità Incredulo Incubazione
Indefinitezza Indefinito Independente e Indipendente Indeterminato Indifferenza
Indimostrabile Indiretto Indiscernibile Individuale Individualità
Individuazione Individuo Indivisibile e Indivisibilità Indizio Indole
Indubitabile Indubitato Indurre Induttivo Induzione Ineguale Inerzia inettezza
e Inettitudine Infallibile e Infallibilità Infinità - Infinitesimale Infinito
Influsso Informe Infusorio Ingegno Ingenito Inorganico Inragionevole e Irragionevole
Inrazionale e Irrazionale Insensibile Insetto Instante e Istante Instituto
Instituzione Instruzione e Istruzione Intellettiva Intellettivo Intelletto
Intellettuale Intellezione Intelligenza Intelligibile Intendimento Intensione o
Intensità e Intenso Intento Intenzionale Intenzione Interiore e Interno Intimo
Intrinsico e Intrinseco Intuitivo Intuizione Inventare Invenzione
Inverisimiglianza e Inverisimile Invisibile lo Ipotesi Ipotetico Istinto
FILOSOFIA DISCORSIVA. Identico Idioma Idiota Idiotismo Illazione Illetterato
Imitare Immaginoso Immediato Immemorabile Imperativo Imperfetto Imperito e
Imperizia Impersonale Impersuasibile e Impersuasibilità. Impertinente Impeto
Improbabile e Improbabilità Improprietà e Improprio Inadeguato Inarticolato
Incidente e Incidenza Incognito Incomparabile Incompatibile Incompiuto
Incomplesso Incomposito e Incomposto Inconcludente Incredibile Indeclinabile
Indefinibile Independente e Indipendente Indicativo Indimostrabile lndizio
Indocile e Indocilità Indottivo Indotto Indurre Induzione Inequivalente
Infaceto Inferire Infinitivo e lnfinito Inflessione Inrazionabile e
Irrazionabile Inregolare e Irregolare Insinuazione Instituto Instituzione
Instruzione e Istruzione Intento Intenzione Interesse Intransitivo Intrinsico e
Intrinseco Inversione Iperbato Ipotetico lpoliposi Irrefragabile – 97 -
TEOLOGIA NATURALE» Idolatria Idolo Immateriale Immaterialità Immortale
Immortalità Immutabile Impeccabile e Impeccabilità Impenitenza Increato
Incredulità Incredulo Indevozione Ineffabile Infallibile e Infallibilità
Infinità Infinito Influsso Inreligiosità e Imreligioso lnvisibile Ipocrisia - -
FILosoFIA PRATICA. Iattanza Ideale Idiota Idolo Idoneità lgnavia Ignobile e
Ignobiltà Ignominia Ignoranza Ilarità Illecebra e Illecebroso Illecito Illetterato
Illibatezza Illiberale Illusione Imbecillità Imbroglio Imitare Immacolato e
Immaculato Immaginoso Immane e Immanità Immansueto Immisericordioso Immobile
Immoderanza Immoderato Immodestia Immorale Impazienza Impensatamente e
Impensato Imperito e Imperizia Imperseverante e Imperseveranza Imperterrito
Impertinente Imperturbabile e Imperturbabilità Imperturbazione Imperversare
Impervertire Impeto Impetuosità e Impetuoso Impigliare Implacabile Imprecazione
Improbità Improbo Improperio Improprietà e Improprio Improvedenza, Improvidenza
e Improvido Imprudenza Impudente e Impudenza Impudicizia Impurità Imputabile e
Imputabilità Inabile e Inabilità Inanimare e Inanimire Inanimato Inartificioso
Inavveduto Inavvertenza Inazione Incapacità Incastità Incauto 15 - 98 -
Incentivo Incitamento Inciviltà Inclinazione Incolpabile Inconsideratezza
Incontinenza Inconvenevole, Inconveniente e Inconvenienza Incoraggiare
Incorrigibile Incorruttibile Incostanza Incredibile Incredulità Incredulo
Incrudelire Incuriosità Indebito Indecente e Indecenza lndecoro Indecorosamente
Indefesso Indegnazione e Indignazione Indegnità Indeliberato Independente e
Indipendente Independenza e Indipendenza Indeterminazione Indifferente
lndifferenza - Indiligenza Indiscretezza e Indiscreto Indisposizione Indizio
Indole Indolenza Indotto Indulgenza Industria Inequivalente Inescusabile
Inesorabile e Inesorabilità Infamare Infame Infamia Infedele e Infedeltà
Infelicità Infermità Infido Infingardaggine e Infingardo Inflessibile Inganno
Ingeneroso Ingenuità Ingiocondo Ingiuria Ingiustizia Ingiusto Ingordigia
Ingratitudine Ingrato Inimicizia e Inimico Iniquità Inirascibile Iniziato
Innobilezza e Innobiltà Innocente e Innocenza Inobbedienza Inonestà e Inonesto
Inonorato Inquietezza e Inquietudine Inragionevole e Irragionevole
Inrazionabile e Irrazionabile Inregolare e Irregolare Imresoluzione e
Irresoluzione Insania Insensibile Insidia Insigne Insinuazione Insipiente e
Insipienza Insolenza Instruzione e Istruzione Insulto Integrità Intemperanza
Intensione o Intensità e Intenso Intenzione Interiore e Interno Intimidità
Intimo Intrepidezza e Intrepidità Invariabile Inverisimiglianza e Inverisimile
Invidia Involontario Inumano Inurbano Ipocrisia Ira e Iracondia Irascibile e
Irascibilità Irrisione Istinto GRECISMI SUPERFLUI. Iatrica Iatrochimica
Iconografia Idiolatria Idrogeleologia - 99 - IL Lame (dise.), suono delle
lettere alfabetiche, che si pronunziano colle lab bra. Tal è il suono delle
lettere b, m, p, suono che si forma, facendo fermare la voce sulle labbra. V.
Voce. È vocabolo usato dal Salvini e dal Ma galotti. LACRIMA e LAGRIMA (prat.),
umore che si separa nel corpo umano per mezzo delle glandule dette lacrimali,
che umetta la cornea, ed esce fuor dagli occhi per lo eccitamento prodotto,
così dal dolore del corpo, come dalla tristezza, dalla gioia o dalla
compassione demali altrui. V. Glan dula, Occhio. L'umor lacrimale, che è una
secrezione del sangue, è un fluido omogeneo a quel lo che in se contiene la
membrana cristal lina dell' occhio, e senza del quale non potrebbe la cornea
conservare il suo na turale stato di umidità, nè la trasparenza necessaria al
passaggio deraggi della luce. V. Luce. Siccome cotesto umore ci è comune co gli
animali, così è possibile che in essi al par di noi, e in talune spezie più che
in altre, il dolore produca il medesimo effetto. Dicesi , che i cervi e le
damme versino lagrime quando accorgonsi non avere più scampo. Certamente
mandano fuori per gli occhi un umor denso, il quale formasi in gomma, e a cui
attri buiscesi ancora una certa virtù medicina le. I poeti han fatto talvolta
lagrimare gli animali e le fiere, ma uopo è non con fondere le immagini della
fantasia co fatti della natura. La cagione più comune delle lagrime è il dolor
sensitivo o materiale, di cui quelle sono la naturale espressione; e però le
lagrime accompagnano ogni sensazion dolorosa, che provano i fanciulli, e son
più frequenti nelle persone di debole tem pera, o più facilmente irritabili.
L'educa zione corregge una tale disposizione, per chè ci accostuma a sopportare
e a domi nare il dolore. Est in animis omnium, dice Cicerone, fere natura molle
quid dam, demissum, humile enervatum quo dammodo, et languidum, senile. Si
nihil aliud, nihil esset homine deformius. Sed praesto est domina omnium et
regina ra tio, quae conniva per se et progressa longius fit perfecta virtus.
Haec ut im peret illi parti animi, quae obedire de bet, id videndum et viro.
Quonam modo inquies? Vel ut dominus servo, vel ut imperator militi, vel ut
parens.filio. Si turpissime se illa pars animi geret , quam diari esse mollem,
si se lamentis muliebriter lacrymisque debet, vinciatur et constringatur
amicorum propinquo rumque custodiis. Saepe enim videmus, fraetos pudore, qui
ratione nulla vin ceretur. . . . Totum igitur in eo est, ut tiba imperes
(Tuscul. lib. II. c. 19 e 22). Più difficile è il rattenere le lagrime nella
tristezza, comechè pari sia l'impe rio che la ragione esercita sopra l'una e
l'altra causa del dolore. Le lagrime son la via, per la quale il dolore si
espande e si consuma, ond'è che dopo lungo la crimare l'animo sentesi sgravato
dal peso che l'opprimeva. Tal è il concetto espresso nel bel lamento che
Virgilio mette in bocca sk ad Evandro, allorchè gettasi sopra l'estinto corpo
del figliuolo: Feretro Pallante reposto Procumbit super atque haeret,
lacrimansque gemensque Et via via tandem voci la rata dolore est. Ma difficile
è il contener la natura ol tre la misura delle forze umane. Laonde gli uomini,
che si son fatti più ammirare per la forza dell'animo, avendo soppor tato a
ciglio asciutto le maggiori avver sità della vita, non han potuto contenere il
pianto nella perdita delle persone che loro eran care; o se l'hanno ancora per
alcun tempo frenato e vinto, han finito a replicati colpi della fortuna per
cedere alle imperiose spinte della natura. Narra Erodoto che Psammetico re di
Egitto, vinto da Cambise, vide passare innanzi a se la figliuola in veste
servile insieme con altre vergini egizie prigionie re, destinate all'uffizio di
attignere l'ac qua; e mentre queste passavano col com pianto del loro genitori
e parenti, egli solo atterrò il viso senza dare alcun segno di dolore; che
altrettanto fece al passaggio del figliuolo, che insieme con altri due mila
giovani egizi eran condotti a morte, le cervici con fune legate, e le bocche in
frenate; e che dopo tanta costanza, al ve: dere un de' suoi familiari tra
prigionieri povero e mendico, abbandonossi alle la grime e si percosse il capo.
Del quale fatto domandata a lui stesso la ragione, rispose, « essere le sue
domestiche cala mità assai maggiori del pianto, e degna esser di lagrime la
sventura d'un ami co, il quale decaduto da ricco e felice sta to, era divenuto
povero nella soglia della vecchiezza » (Erodoto lib. III. ). Cotesto esempio,
al quale molti altri simili leg gonsi nella storia moderna, dimostra, o che le
grandi calamità opprimono le forze e non lasciano libero il passaggio a la
menti, o che colma essendo la misura della sofferenza, l'amarezza del dolore
tra bocca e trionfa della compressione, nella quale era dalla riflessione
tenuta. Seneca, il tragico, conferma la prima delle due dinotate ragioni,
allorchè fa dire a Fedra curae leves loquuntur, ingentes stupent. Siccome
giusta e lodevole è la commo zione che in noi desta la compassione dei mali
altrui, perchè dettate dal sentimento e dal dovere della commiserazione; così
bel le e generose son le lagrime, che sparge all'aspetto dell'altrui miseria
l'uom forte, che avrebbe a sdegno i lamenti per qua lunque propria sofferenza o
dolore. Cotesto sentimento è propriamente l'effetto di quel la natural
simpatia, per la quale consi deriam come proprie le affezioni comuni alla
spezie umana ; ond'è che l'aspetto del bene e del male altrui ci allegra e ci
affligge quasi per una corda temperata all'unisono. Da ciò nasce ancora, che
noi versiam lagrime al pianto altrui, per una naturale imitazione, comechè non
sentis simo la stessa cagione di dolore; e che l'oratore, l'attore, il poeta ci
costringa quasi a nostro malgrado alle lagrime, quando sappia ben toccare la
corda che le muove. V. Commiserazione, Simpatia. Nobilissime poi sono le
lagrime, che versiamo per impetrar da Dio perdono dei nostri falli, e per
consolarci in Lui delle miserie della vita: son lagrime di penti mento e di
filiale confidenza, le quali sgravano la coscienza e le ridanno la pace: sono
l'espressione della pietà e della reli giosa carità: per esse l'animo sentesi
alle viare del duol che l'opprimeva, e ritorna alla calma e all'equilibrio del
bene ordinati affetti. – 101 – In conclusione, indecorose son le lagri me del
dolor materiale; escusabili quelle della tristezza; lodevoli quelle della com
miserazione; nobili e virtuose quelle del la religione e della pietà. V. Pietà,
Re ligione. Ma la gioia ancora, l'ammirazione, e l'inaspettato piacere,
eccitano in noi le lagrime, le quali spesso cadono involon tarie, e come un
meccanico effetto dello scuotimento che i sensi ricevono da una grata
impressione, cui non eran prepa rati; il che dimostra essere il pianto in
talune disposizioni dell'animo, una espres sione del sentimenti piacevoli,
quantunque nella generalità provenga da una cagione affatto diversa dal riso.
V. Pianto, Riso LAGNAMENTo e LAGNo (prat.), il dolerci colle parole e colla
voce d'un mal che ci preme. - È diverso dal gemito e dal lamento, dacchè esprime
semplicemente la sensa zione dolorosa che si prova. V. Gemito, Lamento.
LAIDEzzA (prat.), deformità accompa gnata da bruttura materiale, o da osce mità
di vizi e di malvagi costumi. Esprime un'idea complessa del brutto e del lordo,
e si applica tanto alle cose materiali, quanto a vizi e a detti, che offendono
il buon costume o il pudore. LAMENTAZIONE (prat.), l'espressione d'un dolor
continuo, manifestata col piagni stero e con voci, o altre flebili parole. È
più del gemito, che è il semplice ac cento del dolore. Cicerone dice: ingemi
scere nonnumquam viro concessum est, idque raro, eſulatus vero, ne mulieri
guidem, V. Gemito. È più ancora del lamento, il quale espri me un atto
singolare, e di cui la lamen tazione è quasi un frequentativo. LAMENTo (prat.),
suono o accento di dolore. V. Dolore. LARGHEzzA (spec.), una delle tre di
mensioni del corpi, e delle due che for mano la superfecie. Ogni superficie può
essere considerata per le due diverse direzioni che prende nello spazio. Di
queste due direzioni la maggiore dicesi lunghezza, la minore lar ghezza: quella
è determinata da due punti estremi del luogo, che occupa nello spa zio, o sia
dalla linea che congiugne i detti due punti: questa, dalle due linee che ne
formano i lati: la prima è maggiore o eguale, laddove la seconda non può es
sere se non minore o eguale della prima. V. Linea, Lunghezza, Punto. LAscivIA
(prat.), vizio di carnale in temperanza, che rende l'uomo dedito ai piaceri
disonesti, e il fa dissoluto anche per ostentazione. Differisce dalla libidine
e dalla lussuria. V. queste voci. LATITUDINE (spec. e prat.), vale mel
significato comune, estensione in largo e ampiezza; e si applica tanto alle
dimen sioni della materia, quanto alle cono scenze dell'animo. Nel senso di
estensione materiale dicesi latitudine della terra la sua estensione da un polo
all'altro. V. Estensione, Polo. La geografia fisica le dà un particolar
significato, ch'è quello della distanza che passa tra un punto della terra e
l'equato re, misurata sul meridiano, o sia sul cer - 102 - chio massimo,
condotto per lo stesso punto e per lo polo. Una tal distanza misurasi in gradi
della circonferenza di quel cer chio, e fa parte del quarto di essa cir
conferenza, o quadrante, compreso tra l'equatore ed il polo più vicino al
punto, di cui si vuol conoscere la latitudine. E siccome la circonferenza d'un
cerchio qua lunque si suole dividere in 36o parti, chia mate gradi, così la sua
quarta parte ne contiene 9o, e la latitudine non può ol trepassare il
novantesimo grado. La latitudine distinguesi in settentrio nale, detta ancora
boreale, e in meri dionale o australe. Ciascuna di queste due denominazioni si
riferisce all'emisfero, o al polo dello stesso nome. La latitudine d'ogni punto
del globo terrestre è uguale all'altezza del polo ce leste, sull'orizzonte di
quel medesimo pun to. Gli astronomi la ricavano dall'altezza d'un astro,
allorchè passa per lo meridia no, conosciuta che sia la distanza di quel
l'astro medesimo dal polo. V. Polo. LATTE (spec.), liquido nutrimentale or
ganico degli animali mammiferi, che si separa nel corpo delle madri dal sangue
per mezzo delle mammelle, destinato dalla natura all'alimento de parti loro. Le
proprietà apparenti di cotesto fluido hanno in tutti gli animali una certa so
miglianza che lo fanno distinguere dagli altri liquidi organici; dacchè
generalmente è di color bianco, più o meno puro, leggiermente viscoso, d'una
densità mag giore dell'acqua, d'un sapor dolce, e d'un odore non ingrato. Ma le
sue qualità es senziali variano in ciascuna spezie di ani mali secondo la
diversità degli alimenti, destinati dalla natura alla loro nutrizione; ed in
ogni animale differiscono secondo i diversi bisogni de propri allievi, durante
il periodo della lattazione. È uno de prodotti animali, che meglio dimostrano
l'antivedimento della sapien tissima natura per la conservazione delle spezie,
e per rispetto agli animali dome stici destinati a bisogni e agli usi della
vita dell'uomo, è uno de prodotti più utili alla igiene, alla terapeutica, e
alla indu stria. Allorchè l'osservazione della natura e delle sue produzioni
era ancor nuova, e più profondo era nell'uomo il sentimento di riconoscenza
pe'doni, de quali la vita sua è stata arricchita; il latte fu conside rato come
una delle primizie più degne d'essere in sagrifizio offerte alla Divinità. Gli
antichi, comechè non conoscessero le sue proprietà chimiche, pure empirica
mente scopersero le sue virtù medicinali (Plin. hist. nat. lib. XXVIII. cap.
21). Certamente è una delle più maravigliose parti della economia animale. Lava
(spec.), sostanza minerale, fusa per l'azione del fuoco vulcanico. È vocabolo
proprio della mineralogia, ma il suo significato si riferisce ad un fe nomeno,
che ogni uomo contempla con maraviglia, perchè gli dimostra, come attualmente
operoso, il grande laborato rio della natura, nel quale prese forma e
consistenza la terra. La mineralogia e la chimica si occupano dell'analisi
delle lave e degli altri prodotti vulcanici, e pre parano alla geologia i
fatti, sopra i qua li questa scienza fonda le sue congetture, V. Chimica,
Geologia, Mineralogia. LAUTEzzA (prat.), vale copia e sovrab bondanza del
bisognevole. È un contrapposto di parsimonia, di cui il significato proprio si
riferisce a cibi – 105 – e agli altri bisogni della vita sensitiva. In senso
traslato si applica ancora abeni e agli onesti piaceri dell'animo. È diversa
dalla splendidezza, che pre suppone non solamente l'abbondanza, ma ancora
l'apparenza del lustro. V. Splen didezza, Splendore. LEALTÀ (prat.), sincerità
di operare, per la quale un uomo non mostra mai una cosa per un'altra, ed
esattamente mantiene le parole date. Il suo significato differisce alquanto da
quello del vocabolo fedeltà; dapoichè la lealtà esprime nna qualità
caratteristica dell'animo, incapace di operare o di par lare diversamente da
quel che sente ; mentrechè la fedeltà non solamente si ri ferisce all'operar
conforme a dettami del vero, ma presuppone una obligazione contratta per non
mancarvi. V. Fedele, Fedeltà. LECITo (prat.), quel che è conforme al dovere, o
sia quel che è giusto ed onesto. V. Giusto, Onesto. - Il significato del lecito
si riferisce non alla potenza naturale dell'uomo, ma alla morale, dacchè non è
lecito all'uomo fare tutto quel che potrebbe. La sua po tenza è modificata
dalla legge; e siccome questa impone vari ordini di doveri, così il lecito
prende un significato, relativo ora ad una legge, ed ora ad un'altra. Il le.
cito secondo la legge di natura, è di verso dal lecito civile; e nelle varie
con dizioni della vita civile quel che è lecito in una, può essere vietato in
un'altra. Prende ancora il lecito un altro signi ficato relativo, che è quello
di cosa per messa, nel quale senso dicesi lecito tutto quel che non è vietato.
LEGGE (spec. e prat.), la norma delle azioni, ricavata dalle nozioni del vero e
del giusto. V. Giusto, Vero. Secondo Montesquieu, la definizione del la legge è
l'idea del rapporti necessari delle cose, e secondo Bonnet, è l'effetto
de'rapporti. Ma l'una e l'altra definizione sembrano a noi monche, e men chiare
di quel che debb'essere ogni definizione atta a spiegare la natura delle cose
pe loro principali attributi: ambe contengono un concetto metafisico, il quale
oscura, e non rischiara l'essenza e il fine della legge. La convenienza della
legge co tipi del vero e del giusto, è certamente un'idea di relazione, il che
forma la parte chiara della definizione di Montesquieu. Ma que sta sola idea
comune ad ogni rapporto non basta a far intendere la natura del subbietto, e
molto meno quella de due termini, ne quali è riposta la compara zione. Più oscuro
ancora è l'altro concetto, che ripone l'essenza della legge nell'ef fetto del
rapporti. Come l'effetto del rapporti possa deter minare il fine della legge e
la sua conve nienza, non è per se solo intelligibile, ed è si vago e generico,
che potrebbesi scam biare la legge con qualunque altro effetto di rapporti. In
fine non si comprende come la qualità di necessario convenir possa a tutti i
rapporti volontari e contingenti, dai quali nasce la più parte delle leggi
secon darie. La qualità di necessario non po trebbe convenire se non alla legge
di na tura, la quale è l'effetto o la conseguenza dell'ordine generale, e della
sapienza del suo primo Autore. Verò è, che questa è la legge primitiva,
nell'idea della quale si comprende ancora quella delle leggi se condarie; ma è
vero altresì che le defini zioni contener debbono i caratteri comuni – 104 – e
propri di tutte le spezie definite. V. De finizione. - Vuolsi ancora notare,
che impropria mente noi sogliamo trasportare la nozione della legge alle cause
del fenomeni del mon do materiale, dapoichè quelle che chia miamo leggi fisiche
non sono, se non cause preordinate di effetti costanti ed uni formi, le quali
presuppongono l'intelli genza e la volontà d'una causa prima, nella cui
sapienza è riposta la ragion di tutte le cose. Ciò non ostante cotesto si
gnificato improprio è ricevuto nella fisi ca, e nel linguaggio scientifico
della filo sofia. Nello stesso senso siam soliti chia mare leggi naturali le
verità generali, che risguardiamo come regole della natu ra, ed alla cognizione
delle quali perve miamo per mezzo della osservazione dei fatti particolari, e
colla guida dell'analo gia e della induzione. Ma falso e perico loso sarebbe il
derivare da tale improprio significato l'essenza e il fine della leg ge. Falso sarebbe
un tal concetto, perchè la legge ha per suoi caratteri essenziali la giusta
volontà di colui che ordina, e l'obligazione o il dovere dell'obbedienza in
coloro, all'utilità del quali l'ordina zione è diretta. In altri termini il
voca bolo legge esprime una nozione comples sa, la quale in se contiene quella
d'una sapienza ordinatrice, e l'altra dell'obliga zione d'un agente morale, o
sia d'un Es sere dotato di libertà e di volontà. Peri colosa inoltre sarebbe
quella dottrina, per chè il risguardare le cause fisiche come i primi lipi
della legge, toglie di mezzo la libertà degli agenti morali, e al vo lontario
legame dell' obligazione surroga la necessità dell'ordine che regge il mon do
materiale. E tale per verità è stato il ragionar de materialisti, i quali non
hanno ammesso altra legge fuori della ne cessità. Ora stabiliti i due caratteri
essenziali del la legge, vediamo d'onde essa cominci e quale sia lo scopo suo.
Legem, ha detto Ci cerone, negue hominum ingeniis excogi tatam, neo scitum
aliquod esse populo rum, sed aeternum guidaam quoduniver sum mundum regeret,
imperandi probi bendigue sapientia. Ita principem legem illam et ultimam mentem
esse dicebant, (saprevTes) omnia ratione aut cogentis aut vetantis Dei (deleg.
lib. II. c. IV.). Cotesta legge sta nella ragione di Dio, e ha cominciato ad
esser legge non per mezzo della publicazione o dello scritto, ma dal momento in
cui è nata: nata poi non è, perchè è inerente alla mente di vina. Laonde la
vera e la prima legge, quella che in se contiene i principi di tutte le azioni
doverose, è la perfetta ragione del sommo Dio (Cic. ibid.). Ripetiamo dalla
stessa fonte lo scopo della legge: animal providum, questo è l'uomo, sagaa,
multiplea, acutum, me mor, plenum rationis et consilii, prae elara quadam conditione
generatum a summo Deo: solum est enim ea tot ani mantium generibus atque
naturis parti ceps rationis et cogitationis, cum cae tera sintomnia eapertia.
Essendo l'uomo il solo animale, cui è stata comunicata la ragione, da questa
nascono i suoi legami con Dio e cogli altri uomini: la ragione, allorchè
diviene matura e perfetta, prende il nome di sapienza: la sapienza ha due
parli, i doveri verso Dio, e quelli verso i nostri simili, posti come noi nella
pa rità e nella comunione degli stessi diritti: da primi nasce il riconoscere
la suprema potestà di Dio, e l'obbedire alle prescri zioni della sua divina
mente: da secondi – 105 – lo scambievole amor degli uomini, che è il fondamento
della giustizia e della equità. Tal è l'origine e lo scopo della legge primitiva,
la quale in se contiene la for ma e i requisiti di tutte le secondarie or
dinazioni, che da essa derivano. Queste, per meritare il nome di leggi, debbono
esser dettate dalla ragione dell'uomo sa piente, la quale applicar dee i
principi della giustizia e della equità alla varia condizione degli uomini e
delle città, alle civili relazioni, e a bisogni di qualunque stato. Il fine
loro è la salvezza del diritti delle persone, la conservazione delle città e
dell'ordine publico, la tranquillità e il bene di tutti. Se altro fine si
propones sero, e se fossero calcate, non sopra i principi della giustizia e
della equità, e della publica utilità, ma sopra calcoli di privato interesse,
usurperebbero per abuso il nome di leggi (de leg. lib. I. cap. VII. XV. e lib.
II. c. V.). Sin qua della de finizione reale della legge. Gli antichi
giureconsulti ne diedero an cora un'altra nominale, la quale deriva dalla
etimologia del vocabolo, col quale l'indicarono. I Greci la chiamarono vouos da
vegev distribuere, o sia dal jus suum cuique tribuere: i Latini, lea a legen
do, o sia dallo scegliere. Cicerone stesso, che riporta questa diversa
denominazione, soggiugne, ut illi aequitatis, sic nos de lectus vim in lege
ponimus, et proprium zamen utrumque legis est. Il giurecon sulto Marciano nella
sua definizione unì in sieme il concetto tanto della reale quanto della
nominale, dicendo, regula justo rum et injustorum praeceptria facien dorum,
prohibitriacque non faciendorum. La legge differisce dalla regola, perchè
questa propriamente esprime la norma trac ciata alle azioni, astrazion fatta
dalla ra gione sopra la quale è fondata, e dal fine che si propone ; laddove la
nozione della legge è più generica e complessa, come abbiamo testè accennato,
dapoichè comprende la ragione che l'ha dettata , e lo scopo che si prefigge.
Dalla legge in somma nasce la regola. V. questa voce. LEGGEREzzA (prat.), vale
nel senso tras lato, facilità a mutar di volontà. Differisce per qualche grado
dalla inco stanza e dalla volubilità, perchè l'uomo leggiero non mette
importanza ad una cosa più che ad un'altra, mentrechè l'in costante ama non
aver legame che lo stringa, ed il volubile trova diletto nel cangiare. V.
Incostanza, Volubilità. Differisce ancora dalla levità, la quale presuppone
debolezza di mente, e frivole inclinazioni. V. Levità. LENTE (spec. e erit.),
vetro ottico ter minato da due superficie, delle quali una almeno non è piana,
di cui l'ufizio è l'ac crescere la forza della visione, e lo spie gare ed il
produrre insieme i fenomeni della refrazione della luce. V. Luce, Vi sione.
Quantunque questo vocabolo appartenga all'Ottica, pure la teorica, sopra la
quale son costruite le lenti, serve a bene inten dere le funzioni del
principale del nostri organi, che è l'occhio, e a spiegare gli effetti che
produce su di esso la luce, il primo di tutti i doni della natura. Le lenti
sono principalmente di due sorte, le con cave e le convesse. Per meglio compren
dere l'uso che di esse può farsi, e la so miglianza loro colle lenti, che la
natura ha messo nelle membrane e negli umori dell'organo della visione, uopo è
premet tere talune nozioni elementari dell'Ottica, 14 – 106 – 1.° Se un raggio
di luce passi da un corpo trasparente in un altro di diversa densità, nel suo
passaggio si frange, o sia, invece di continuare nella direzione del suo
cammino, ne prende una nuova, conducendo una perpendicolare alla super ficie
del secondo corpo trasparente nel pun to, in cui entra il raggio di luce: cote
sto raggio si accosta alla perpendicolare, se il mezzo nel quale passa, sia più
denso di quello da cui esce; e se ne discosta, se il secondo mezzo sia men
denso del primo. 2.° Mezzo chiamasi il corpo trasparente a traverso del quale
passano i raggi di luce come l'aria, l'acqua, o il vetro: incidenti chiamansi i
raggi che entrano in un corpo trasparente: l'angolo, che al punto d'ingresso
formano colla perpendi colare, chiamasi angolo d'incidenza: l'al tro angolo che
il raggio refratto forma colla stessa perpendicolare, dicesi angolo di
refrazione: il raggio refratto, che ne risulta dicesi emergente: asse della
lente è la linea retta, che unisce i centri di curvatura delle superficie che
terminano la lente, per modo che se la lente è sfe rica convessa, il suo asse è
la retta che unisce i centri delle due sfere, cui appar tengono le sue
superficie: fuoco della lente è il punto, dove i raggi refratti, renduti
convergenti, vanno ad incontrarsi coll'asse. 3.º Qualunque sia l'angolo
d'incidenza, esso ha una relazione costante con quella di refrazione, quando i
mezzi sono gli stessi: Cotesta relazione è espressa colla se guente formola: il
seno dell'angolo d'in cidenza, diviso pel seno dell'angolo di refrazione, dà un
quoziente il quale è costante, in due mezzi dati: cangiati i mezzi, mutasi
ancora il rapporto. Così supponendo che i due mezzi dati sieno l'aria e il
vetro, in qualunque direzione venga un raggio di luce a colpire una superficie
di vetro, il seno dell'angolo d'incidenza è una volta e mezzo il seno di quello
di refrazione. - 4.° Se un raggio di luce passi a tra verso d'un prisma
triangolare, quello si frangerà così all'entrare nel prisma, come all'uscirne,
avvicinandosi alla perpendi colare nell'ingresso, e allontanandosene
nell'uscita. In questo caso il raggio emer gente non sarà paralello
all'incidente, da poichè gl'incidenti divengono minori degli emergenti; vale a
dire, che gl'incidenti faranno colla superficie di emergenza an goli minori di
quelli che gli stessi inci denti fanno colla superficie d'incidenza. 5.º La
luce, che entra bianca nel pris ma, ne esce allungata e colorata co' co lori
dell'arco baleno. Se in una camera oscura introducasi un fascetto di luce so
lare per una picciola apertura praticata nelle imposte d'una finestra, e i suoi
rag gi si faccian cadere nel prisma, questo tramanderà sul cartone l'immagine
detta spettro solare, la quale vedrassi allun gata in direzione perpendicolare
agli spi goli paralelli del prisma, presentando fasce colorate di più colori,
come dirassi all'ar ticolo luce. Premesse tali notizie è facile intendere il
meccanismo e gli effetti delle lenti di vetro. Le concave, essendo meno spesse
o dense nel centro che negli orli, i raggi emergenti debbono divergere più
degl'in cidenti, dapoichè una picciola porzione di tali lenti può essere
considerata come piana in ambe le superficie, e tale che faccia le veci delle
facce d'un prisma trian golare: i raggi della luce debbono, nel l'uscire
piegarsi verso la base del prisma, e quindi avvicinarsi al contorno della lente
dove questa ha una spessezza maggiore, – 107 – il perchè le lenti concave sono
divergenti. Per l'opposito le convesse, essendo più spesse nel centro che verso
gli orli, i raggi debbono convergere, essendochè le picciole porzioni di
prisma, di cui può con cepirsi composto il vetro han le loro basi verso il
centro, sì che i raggi emergenti debbono avvicinarsi più all'asse della lente.
Applicando ora il meccanismo delle lenti artifiziali alle naturali, che
l'occhio in se contiene ; i raggi luminosi, che gli ob bietti esterni
tramandano, raccolgonsi nel la pupilla, mediante una prima conver genza, e
soffrono una nuova refrazione passando per l'umor cristallino ; per ef fetto
della quale vanno a dipingere l'im magine degli obbietti esterni sulla retina,
situata nel fondo dell'occhio.V. questa voce. La spiegazione del meccanismo delle
lenti artificiali e delle naturali, fa altresì inten dere d'onde nascano le
viste difformi o difettuose, e come possa alle stesse darsi riparo. La
difformità nell'organo della vi sione, o i difetti acquistati per età o per
infermità, nascer possono da una delle due seguenti cagioni: o i raggi della
luce vanno ad unirsi più indietro della retina, nel quale caso fa uopo
accrescere la loro convergenza, acciocchè non oltrepassino il naturale punto
della visione : o i raggi stessi, essendo più corti vanno ad unirsi prima della
retina, nel quale caso con viene aumentare la divergenza loro. L'uno o l'altro
fine si consegue armando l'occhio di lenti artifiziali concave e convesse. Il
primo de due dinotati casi forma la vista depresbiti, che veggon bene gli
obbietti lontani, e duran fatica a leggere e ave dere i minuti corpi vicini. Il
secondo ap partiene alla vista de miopi, i quali di stinguon bene i vicini, e
poco, o nulla i lontani. I vecchi sogliono divenire pre sbiti, tra pel
minoramento di sfericità che soffrono le membrane dell'occhio, e per la maggior
densità de loro umori. De'mio pi, taluni per la età divengono presbiti, taluni
altri conservan sempre la stessa con formazione, che hanno per natura ricevu
to. Una tale conformazione, quando sia naturale, è meno dell'altra soggetta a
can giamenti dell'età, ed anche della lunga vecchiezza. Ora formando le lenti
un bi sogno direm naturale d'una gran parte della umanità; noi duriam fatica a
con cepire, come sì tarda sia stata l'invenzione degli occhiali, opera di Salvino
degli Ar mati, fiorentino, il quale visse nel decimo terzo secolo. Come
poterono gli antichi di spensarsi di questo soccorso, alla scoverta del quale
la natura ci ha quasi per mano guidato, dandocene i tipi nella conforma zione
stessa degli occhi ? Come la diversa conformazione di quest'organo, e la sua
debilitazione cagionata dall'assiduo uso del la lettura, non la suggeriron
prima a co loro che consumarono la vita nello studio delle lettere, e
nell'esercizio della incisione, o delle altre arti di minuto lavorio? Coteste
osservazioni rendono manifesto, che senza l'aiuto dell'anatomia, la quale ci ha
spie gato tutto il fenomeno della visione, non avremmo potuto copiare la
natura, e torre da lei l'arte della costruzione delle lenti. LEPIDEzzA (disc.),
detto grazioso e pia cevole. Differisce alquanto dalla facezia, la qua le
include ancora un che di giocoso, atto a muovere il riso. LEPIDo (disc.),
qualità di discorso gio condo e piacevole. Noi chiamiamo lepidi i propositi o
con cetti, che sien detti con grazia ed accon g – 108 – ciamente, e che calzino
opportunamente al discorso. Tali erano ancora i caratteri del lepido presso i
Latini. LEssico (crit. e disc.), serie alfabetica del le voci delle antiche
lingue. V. Dizionario. Lessicognaro(dise), compilatordilessici. E vocabolo
usato dal Redi e dal Salvini. LETIZIA (prat.), contento dell'animo, manifestato
con esterni segni di godimento, per un bene presente che abbiam desiderato. È
più dell'allegrezza, e meno della esul tazione. V. queste voci. LETTERA (dise.),
carattere dell'alfabeto o segno d'un suono articolato, conside rato come
elemento della parola. V. Al fabeto, Parola, Segno. LETTERALE (disc. e crit.),
significato corrispondente al valor delle parole. Distinguesi il significato
letterale da quel lo dell'intero concetto, che dicesi ancora dello spirito.
Letterale chiamasi pure il senso volgare di rincontro al dottrinale o
scientifico, al figurato o allegorico, e al misterioso o riposto. V. Dottrina.
Letterale è detto ancora il calcolo alge braico, e letterali le grandezze che
sono espresse per lettere. V. Algebra. LETTERATo (crit.), uomo addottrinato
nello studio delle lettere. V. questa voce. LETTERATURA (crit.), la dottrina
delle lettere. V. questa voce. LETTERE (erit.), alle quali si suole dare la giunta
di belle o di umane, abbrac ciano la cognizione delle antiche lingue, insieme
colle altre conoscenze che formano il corredo della erudizione e della filolo
gia. V. queste voci. LEvANTE. V. Oriente. LEvITÀ (prat.), qualità contraria
alla gravità, che al pari del suo contrappo sto, si trasporta dal materiale al
morale. E però si adopera in senso di debolezza di mente, e di vanità. V.
Vanità. LIBELLo (prat.), coll'aggiunto di fa moso o infamatorio, è la più
atroce delle ingiurie, premeditata e publicata in uno scritto, col fine di
diffamare alcuno, sor prendendo la credulità di quelli che lo leg gono, e
facendo ignorare il nome del suo autore. V. Diffamare, Ingiuria. Il Maestruzzo
definisce il libello famo so, cedola, la qual contiene la ingiu ria e l'infamia
altrui, gittata in luogo, ch'ella sia trovata. Ci facciam lecito di citare quì
talune leggi positive, come espressioni e pruove de principi di publica morale,
professati da più sapienti legislatori. Nelle leggi delle dodici tavole era
scritto : si quis actila verit, sive carmen condiderit, quod in famiam
flagitiumve alteri precetur, ca pite punitor. Tacito insieme cogli altri
storici del ro mano impero, narra che Augusto il pri mo equiparò il delitto
delibelli famosi a quelli di lesa maestà e cognitionem de famosis libellis
specie legis ejus tracta vit, commotus Cassii Severi libidine, qua viros
faeminasque inlustres proca cibus scriptis diffamaverat (Annal. lib. I. cap. 72
); intorno alla quale ordinazione molti hanno osservato, erronea essere stata l'assimilazione,
ma giusta essere la seve – 109 – rità della pena inflitta. Forse potrebbesi giu
stificare l'assimilazione, dando alla legge di maestà un senso men parziale,
quando sotto questo nome si comprendessero tutti i delitti che infrangono i
vincoli costitutivi dell'ordine civile e violano la sicurezza, la pace, e la
moral dignità delle fami glie. Certamente, tolta ancora di mezzo una tale
assimilazione, le leggi antece denti e susseguenti ad Augusto non omi sero
alcun genere di pena per ritorcere sul capo de libellisti l'infamia, che co
storo avevano cercato di spandere sopra le persone coloro scritti lacerate. In
una leg ge di Ulpiano è detto: Si quis librum ad infamiam alicujus pertinentem
scripse rit, composuerit, edideril, dolove malo fecerit, quo quid eorum fieret;
eliam si alterius nomine ediderit, vel sine no mine, uti de ea re agere
liceret, et si condemnatus sit, qui id fecit, intesta bilis ex lege esse
jubetur, la quale legge fu interpretata nel senso, che il libellista non
solamente non potesse fare testamento, ma neppure fare testimonianza nel testa
menti altrui; nè potesse da altri ricevere checchessia in testamenti fatti a
suo fa vore, sì che privato era del diritto del dare e del ricevere (L. 5 S. 9
de injur. et famos. lib., l. 21 de testib., l. 18 in fine e l. 26 in fine qui
testam. fac. poss.). Alla severità di queste leggi è dovuta la riforma di
quella licenziosa commedia, la quale sotto il colore di esporre alla pu blica
censura il vizio, lacerava l'esistima zione e la fama delle persone e delle fa
miglie; del che fa fede Orazio parlando de versi fescennini: quin etiam lea:
Poenaquelata, malo quae nollet carmine quemquam Describi. Vertere modum
formidine fustis Ad bene dicendum, delectandumque poétae, (Lib. II, epist.). Le
leggi moderne han moderato le an tiche, a rispetto della pena afflittiva del
corpo, ma han cercato colla pena della infamia d'ispirare l'abborrimento per lo
vile e turpe delitto del libelli. Giova an cora notare che il rigor della legge
è di venuto vieppiù salutare e necessario, dac chè la stampa ha facilitato i
mezzi per ispandere i libelli, nascondendo la mano dell'autore. Infatti cotesto
reato si ripro duce e si moltiplica in qualunque tempo, in cui l'ordine civile
si scompone per le fazioni, o si lascia libero il freno alla li cenza della
stampa. Dovendo le leggi po sitive prendere dalla legge morale le note
caratteristiche del dolo, che imprimono alle azioni libere dell'uomo la qualità
di reato, giova rilevar quelle che in se con tengono i famosi libelli: 1.º
lacerano l'esistimazione e offendono la natural dignità delle persone, o sia il
maggiore del diritti, che importa all'uomo di custodire, e alla società di
garentire: 2.º rompono i legami conservatori delle famiglie e dell'ordine
civile: 3.º publicano fatti, del quali l'onestà, il pudore, o il publico
esempio richiedono che si perdano le tracce: 4.º publicando fatti
coll'apparente au torità della stampa, sorprendono la cre dulità del volgo e
della moltitudine: 5.º sono l'instrumento della calunnia, e tolgono a calunniati
il mezzo di smen tirla per l'ignoranza dell'autor loro: 6.º sono un occulto e
insidioso mezzo da esercitare la vendetta, o da dare sfogo alle più turpi
passioni: 7.º corrompono la publica morale, e accostumano gli uomini licenziosi
alla mal dicenza e alla satira velenosa: 8.º favoriscono le fazioni e
alimentano le civili discordie: – 110 – 9.º generano i sospetti e le
diffidenze, o negl'ingiuriati, o nell'autorità publica, allorchè gli uni o
l'altra hanno l'interesse di scoprirne il vero autore. La storia degli scritti
aneddoti e de'li belli famosi i più celebri tra quelli, che han contaminato la
stampa, dimostra quanta fatica siesi durata a scoprire il vero au tore di quei
libelli, che importava alla publica potestà di perseguitare; e quante innocenti
vittime abbian pagato la pena degl'ignoti autori. (V. Bayle, Disserta tion sur
les libelles diffamatoires). LIBERALE (prat e disc. ), aggiunto, che si dà a
tutto quel ch'è civile, bello, ingenuo, o che proviene da animo ben formato. E
però liberali furon detti gli studi che sono d'ornamento e di diletto, come le
lettere e gli esercizi, i quali servono a di strarre l'animo dalla tristezza, o
a render facili e pronte le facoltà dell'animo. Tali sono la retorica,
l'eloquenza, la poesia e in generale gli studi della erudizione. Seneca sembra
contraddirsi, quando in un luogo dice, essere questi studi utili a sollevare
l'animo dalla tristezza e a con solarlo nelle sventure, illa sanabunt vul nus
tuum, illa omnem tristitiam libi evel lent (Consol. ad Helv.); ed in un altro,
comparandogli alla filosofia ne rileva quasi la vanità: unum studium vere
liberale est, quod liberum facit, hoc sapientiae, sublime, forte, magnanimum
caetera pusilla et puerilia sunt (epist. 88). Ma in realtà esprime due pensieri
diversi tra loro compatibili e conciliabili. Quegli studi non solamente servono
alla giocondità del la vita, ma preparano l'animo al più se vero tra tutti,
quello della sapienza, pel quale acquistasi la fortezza e la beatitudine. In
somma gli studi liberali, secondo il detto dello stesso autore praeparant inge
mium, non detinent: rudimenta sunt no Stra non opera. V. Erudizione. Liberali
son dette ancora quelle tra le arti, nelle quali la speculazione dell'in gegno
riluce più della esecuzione della mano, o per meglio dire, nelle quali que sta
è accessoria di quella. A buon conto è la denominazione che distingue le arti
da mestieri. (V. il disc. prelim.). V. Arte. LIBERALITÀ (prat.), virtù datrice
di be nefizi. V. Benefizio, Virtù. È definizione di Albertano giudice di Brescia,
ne suoi trattati morali. La liberalità, secondo Cicerone, aver debbe tre
condizioni o requisiti per essere perfetta virtù: che non offenda la giusti
zia: che non sia maggiore demezzi di chi vuol essere liberale: che sia usata
verso i meritevoli. Ma quali sono gl immeritevoli della li beralità? Definiamo
prima i meritevoli, e facciamolo con Seneca: hominibus pro desse natura jubet,
servi libertive sint, ingenui an libertini, justae libertatis, an inter amicos
datae, quid refert? ubi cunque homo est, ibi beneficio locus est. Ciò non
ostante siccome ogni virtù dee essere esercitata col consiglio, che vuol dire
con retto giudizio, e non per impeto, o per motivo di apparire virtuoso ; così
la liberalità cessa di essere virtù, quando non consegue il suo scopo, o quando
è esercitata per modo, che manchi a quel li, a quali veramente è dovuta. Di qua
le due limitazioni: la prima, quibusdam non dabo, quamvis desit, quia etiamsi
dedero, erit defuturum: tali sono i pro dighi e gli scialacquatori: l'altra,
nec un quam ita defatigata erit, ut non quo tiens dignum invenerit, quasi ex
pleno fluat; il che avviene, quando in turpes indignosque impingitur. Da ciò
segue, che le ricchezze possono essere considerate come un bene, non per chè
danno a noi la sovrabbondanza ma perchè ci somministrano i mezzi da sol levare
l'altrui miseria: divitias nego bo num esser nam si essent bonos facerente nune
quoniam apud malos deprehendi tur, dici bonum non potest hoc illis no men nego:
ceterum et habendas esse , et utiles, et magna commoda afferentes, fateor.
(Seneca, de vita beata c. XXIV). Il sentimento di Seneca resta sempre vero,
ancora quando si spogli di quella stoica ostentazione, che negava a comodi e
alle opportunità della vita il nome di beni. V. Bene. LIBERo (spec. e prat.), addiettivo
pro prio dell'uomo, considerato come agente morale, capace di volere e di non
vole re. V. Agente, Volere. In un senso meno generico, ma pure proprio della
filosofia morale, vale scevro di qualunque passione che impedisce il retto
volere: recte solus liber, secondo Cicerone, nec dominationi cujusquam parens,
neque obediens cupiditati. In questo senso libero è colui che ha saputo
acquistare la morale indipendenza. V. In dependente, Independenza. LIBERTÀ
(spec. e prat.), il potere che l'agente morale esercita sopra le determi
nazioni della volontà, per fare, per non fare, o per preferire un'azione
all'altra. V. Agente, Volontà. Siccome la qualità di agente morale pre suppone
la volontà e l'intelligenza; così il potere ch'egli esercita sopra le azioni sue,
è sempre regolato dal discernimento, o sia dalla scelta di quel che gli convie
ne, o dal rifiuto di ciò che gli nuoce. Quel che gli conviene è il bene, e ciò
che gli nuoce è il male º il potere che esercita nella scelta dell'uno o
dell'altro, è quel che dicesi libertà morale: l'uso che fa di tale libertà per
rispetto alla scelta, è stato detto libero arbitrio. V. Arbitrio, Bene, Male.
Noi ricaviamo la nozione dell'agente morale dall'uomo, nel quale ravvisiamo il
concorso dell'intelletto e della volontà, il perchè la nozione della libertà
morale è propria delle azioni umane, in cui di stinguiamo i vari atti pe quali
la volontà passa dalla potenza all'azione. Tali atti sono le deliberazioni e le
determinazioni: quelle appartengono propriamente all'in telletto che giudica
della convenienza del l'azione: queste alla volontà, che sceglie e preferisce.
L'esercizio dunque della li bertà sta nella determinazione. Premesse tali
nozioni, esaminiamo le varie definizioni che sono state date della libertà
morale, e le conseguenze che da esse son derivate. Locke definì la libertà per
lo potere che ha l'uomo di fare una azione, o di astenersi da quella, di con
tinuarla o di mettervi termine. « E sic come tutte le azioni umane possono
essere ridotte a due sommi generi, al muovere e al pensare, così l'uomo può
dirsi li bero, semprechè abbia il potere di pen sare e di non pensare, di
muovere e di non muovere, conformemente alla preſe renza o alla scelta che ne
fa l'animo. Nei pensieri dell'animo avviene quello stesso che succede
ne'movimenti del corpo. Quan do un pensiero è tale che noi abbiamo il potere di
allontanarlo, o di ritenerlo, se condo la preferenza che gli dà l'animo, – 112
- possiamo allora dirci liberi. Un uomo de sto il quale per necessità dee
sempre avere qualche idea nell'animo, non è libero di pensare o di non pensare
; siccome non sarebbe libero d'impedire, che il suo cor po fosse da un altro
corpo toccato. Ma se si trattasse di trasportare i suoi pensieri da un
subbietto all'altro, questo è quel che spesso da lui dipende, e in ciò può
dirsi libero, siccome libero è di appog giare o di non appoggiare il suo corpo
ad un altro. E per contrario v'ha di ta lune idee che son sì fisse nell'animo,
che niuno può allontanare qualunque sforzo facesse. Tal è il caso dell'uomo
messo alla tortura il quale non può non avere l'idea del dolore. La stessa cosa
avviene quando una violenta passione esercita un'azione sul l'animo, senza
lasciarci la libertà di pen sare ad altre cose, alle quali pensar vor remmo.
Assurda è la quistione da lungo tempo agitata, se la volontà dell'uomo è
libera, o no. La volontà è una potenza o facoltà, in guisa che il domandare se
la volontà abbia la libertà, è lo stesso che cercare, se una potenza abbia
un'al tra potenza. Ora ognun sa che le potenze competono alle sostanze, che
vuol dire ad un agente. In altri termini tanto è do mandare , se la volontà ha
la libertà , quanto sarebbe il chiedere se la libertà è libera. Da ciò segue,
che la quistione non de'essere proposta ne' termini di so pra espressi, ma sì
bene in questi altri, se l'uomo è libero. La risposta a tal di manda è, che
quando un uomo possa per la direzione, o per la scelta del suo spi rito
preferire l'esistenza d'un'azione alla non esistenza della medesima, e così e
converso; vale a dire, se può fare che l'azione esista, o non esista, sin qua è
libero. Nè potremmo noi concepire un Es sere più libero, se non in quanto fosse
capace di fare quel che vuole, per modo che l'uomo sembra essere tanto libero
per rispetto alle sue azioni, quanto trova in se tutto quel che è possibile
alla libertà per renderlo libero, se mi è permesso di così spiegarmi. Ma gli
uomini naturalmente curiosi, e insiememente desiderosi di al lontanare da loro
l'idea della colpa, non sono contenti di questa spezie di libertà, e sostengono
che per dirsi libero, dovrebbe l'uomo avere la libertà di fare tutto quel che
vuole. Ora intorno a ciò credo, che l'uomo non è libero per rispetto al volere
o non volere un'azione, quando quest'azio ne è stata una volta proposta
all'animo suo. La ragione è manifesta, perchè di pendendo l'azione dalla sua
volontà, è ne. cessario che esista o non esista, o sia che l'esistenza o la non
esistenza dell'azione segua esattamente la determinazione e la scelta della
volontà sua; e però non può evitare il volere l'esistenza, o la non esi stenza
dell'azione. Altrimenti converrebbe ammettere un'altra volontà, o sia una fa
coltà di volere anteriore per determinare gli atti di questa volontà, ed
un'altra per determinare quella , e così all'infinito. Laonde l'uomo non ha la
libertà di vo lere o di non volere, ed il farne una qui stione, è lo stesso che
domandare, se vo glia quel che vuole, o se gli piaccia quel che gli piace. Che
è dunque quello che determina la volontà? L'animo ! E se que sta risposta non soddisfa
aggiugnerò, quel che in ogni occasione particolare muove l'animo a determinare
la sua potenza generale al moto o alla quiete, al fare o al non fare. Quello
poi che determina la volontà ad agire non è il maggior bene, siccome credesi
comunemente, ma l'inquie tudine d'un qualche bisogno più urgente, – 115 – di
cui ognuno desidera liberarsi. Questa sola opera sopra la nostra volontà, e la
determina naturalmente all'azione per quel senso che ci spigne a liberarci dal
dolore e da qualunque spiacevole impressione, in compatibili col voto della
felicità, cui aspi riamo. Infatti le inquietudini cagionate dai desideri
presenti sogliono sempre essere pre ferite alle speranze di qualunque maggior
bene lontano. Per evitare colesto male, conviene di continuo ispirare all'animo
l'amor del veri beni, giacchè di rado av viene che un'azione volontaria non sia
in noi accompagnata da qualche desiderio, per modo che la volontà e il
desiderio sono spesso confusi insieme. L'anima non ostante ha la facoltà di
rattenersi dal sod disfare taluni desideri, di considerargli se paratamente, e
di comparare gli uni agli altri, nel che è riposta la libertà dell'uomo, detta
altrimenti libero arbitrio, comechè impropriamente. La determinazione d'una
volontà intellettiva nulla toglie alla liber tà, anzi è quel che ne forma il
princi pal carattere; dacchè se questa si togliesse, l'uomo si troverebbe nello
stato d'una perfetta indifferenza, che sarebbe lo stato più contrario alla vera
libertà. Le ultime mostre determinazioni sono sempre rego late dalla ricerca
del maggior bene possi bile, di cui andiamo in traccia, e che ci libera dalle
determinazioni desemplici de sideri. Se qualche violenta passione venga ad
impadronirsi dell'animo nostro, come sarebbe il dolore d'una crudele tortura, noi
dobbiamo moderarla, facendo gustare all'animo il piacere del bene reale, e im
primendo in esso desideri proporzionati alla eccellenza sua. Nè ascolteremo chi
dicesse di non avere la forza di dominare le pas sioni, e di resistere alla
violenza, colla quale agiscono; dapoichè se non si può sempre resistere alla
potenza degli uomi mi, si può sempre conoscere il vero e il giusto in se
medesimo, e alla presenza di Dio. Ciò non ostante le varie scelte , che gli
uomini fanno nel mondo, dimo strano che il sentimento loro non si ac corda
intorno alla scelta del bene, e che ciascuno ripone la sua felicità in oggetti
di diverso valore. Che se le cose impor tanti per l'uomo non si estendessero al
dilà di questa vita, la ragione di questa diversità, la quale produce che gli
uni s'immergano nel lusso e nella dissolutezza, e gli altri preferiscano la
temperanza alla voluttà, nascerebbe soltanto dacchè ognu no ripone la felicità
in cose diverse. Im perocchè se nulla v ha da sperare al dilà del sepolcro,
giustissima sarebbe la con seguenza, mangiamo e beviamo, giac ché dimane
moriremo ». « Se si riguarda il giudizio che noi fac ciamo delle cose presenti,
può dirsi che un tal giudizio è sempre retto, e che l'uomo sempre sceglie bene,
sebbene non si esten da al dilà delle conseguenze della felicità o della
miseria presente. Niuno certamente renderebbe volontariamente infelice la pro
pria condizione, ma vi è strascinato dai falsi giudizi. Io non parlo già del
giudizi che nascono da un errore invincibile, e che appena meriterebbero il
nome di falsi, ma di quelli che l'uomo riconosce come tali per la confessione,
che ne fa a se me desimo. Suole l'animo ingannarsi nel pa ragonare il piacere o
il dolor presente, col piacere o col dolor futuro, del quale giudichiamo colla
misura della distanza in cui si trova per rispetto a noi; simili ad un erede
prodigo, il quale per un pic ciolo bene presente rinunziasse ad una ricca
eredità più lontana, che non po trebbe mancargli o. 15 – 114 - « Non è chi non
dee riconoscere la fal- condizione migliore di colui che fosse ab sità d'un tal
giudizio, dacchè l'avvenire diverrà presente, e verificherassi allora il
vantaggio della prossimità. Se al mo mento in cui taluno prende in mano il
bicchiere, fosse il piacere del bere accom pagnato da dolori del capo o da mali
di stomaco, che tra poche ore sopragiugne ranno, non lo accosterebbe neppure
alle sue labbra. Ora se una picciola differenza di tempo produce tanta
illusione, a mag giore ragione una più lunga distanza do vrà produrre il
medesimo effetto. Tal'è la corta capacità del nostro animo, che noi non
potremmo godere di due piaceri insieme, e molto meno d'un piacere che a noi si
presentasse nel tempo in cui sof friamo il dolore. Ogni picciola amarezza
versata nella coppa del piacere c'impedi sce di gustarne la dolcezza. Il male
che attualmente proviamo è sempre più duro d'ogni altro. Ogni altro dolore,
esclamar si suole, fuorchè questo » ! - « Le cagioni più comuni di questi falsi
gindizi son due, l'ignoranza, e l'inav vertenza, che è un'ignoranza affettata e
presente, la quale seduce l'intelletto e la volontà. Da tutto ciò apparisce
manifesto, che l'intelletto senza libertà non sarebbe d'alcun uso, e che lo
stesso sarebbe della libertà senza intelletto. Se un uomo veder potesse quel
che gli può produrre del bene o del male, e non fosse capace di dare un passo
verso dell'uno, per allontanarsi dall'altro, che avrebbe egli guadagnato
dall'avere l'uso della vista? Sarebbe più miserabile, perchè languirebbe
sperando inutilmente il bene, e temerebbe il male, che si presenterebbe agli
occhi suoi come inevitabile. E d'altra parte, chi fosse li bero di correre di
qua e di là in una per ſetta oscurità, non si troverebbe in una bandonato alla
balia del vento ». « Resta ora ad esaminare, se sia in po ter dell'uomo il cangiare
in piacere il di spiacere che accompagna talune partico lari azioni. Lo può
certamente in più rin contri. Possono e debbono gli uomini cor reggere il
palato, facendogli prendere di versi gusti. Allo stesso modo possono mu tare il
gusto dell'anima. Una giusta disa mina, la pratica, l'applicazione, l'usanza
produrranno cotesto effetto. Gli abiti han no grandi attrattive, che ci è
molesto ab bandonare. La morale, stabilita sopra le sue vere basi, non può non
determinarci alla virtù, basta che si abbiano come pos sibili una felicità o
una infelicità infinita dopo di questa vita. Bisogna confessare, che una buona
vita, accompagnata dal l'aspettativa d'una eterna felicità possibile, è
preferibile ad una cattiva vita, accom pagnata dal timore d'una terribile mise
ria, o per lo meno dalla spaventevole e incerta speranza d'essere annientato.
Evi dentissima è questa conseguenza, quando anche gli uomini dabbene dovessero
in questo mondo provar solamente mali, e che i cattivi vi godessero d'una
costante prosperità ; il che per altro non è così. Imperciocchè, a ben
considerar le cose prese insieme, la parte che costoro hanno in questa vita, è
la peggiore di tutte » (contraddizione manifesta a quel che ha detto di sopra).
- « Del resto tornando alla potenza, giac chè la libertà non è se non una delle
più importanti spezie di potenze, per renderne più chiaro il concetto, uopo è
congiu gnerlo con quello dell'azione. I generi, delle azioni son due, siccome
ho detto, moto e pensiero. Ma non sempre com pete loro il nome d'azioni, perchè
in molti - 115 - casi la sostanza o l'agente nel quale si trova il moto e il
pensiero, lo ha rice vuto per impressioni d'un agente esterno, sì che debbon
dirsi effetti d'una potenza passiva, e non attiva » (lib. II. cap. XXI). Tal'è,
intorno alla libertà, la dottrina compendiata di Locke, il quale la involse
nella sofistica distinzione della sostanza e della potenza, e soggettolla alle
disposi zioni dell'animo, vale a dire all'influenza de desideri e della natura
sensitiva, dalla quale nascono le prime determinazioni del la volontà.
Sofistica certamente è la lunga discettazione intoruo atermini, ne quali suol
essere conceputa la tesi, se la volontà è libera, dapoichè non è chi non
sottintenda in essa l'uomo, o l'agente morale, e non l'intenda nel suo unico e
vero senso, cioè se l'uomo è libero nel volere e nello sce gliere. - Non vide
egli poi le conseguenze della limitazione apposta al concetto della liber tà,
subordinata all'attuale disposizione dell' animo. Tanto non le vide, quanto in
niuna delle proposizioni che ne de dusse si può ravvisare la più picciola ten
denza alla dottrina del fatalismo, o della necessità. Ma non è men vero, che in
questa come in altre parti del suo sistema intellettuale, egli andò schivando
colla rettitudine del suo senso morale le con seguenze, alle quali l'errore del
principi l'avrebbe condotto. Locke, come abbiamo altrove notato, aveva calcato
il sistema suo sopra i principi di Hobbes (Vol. I. pag. 195). Ora l'argomento
che più d'ogni altro prova la verità di tal giudizio, è ap punto l'articolo
della libertà. « La libertà, secondo Hobbes, è il po tere che ognuno ha di fare
quel che vuo le: non ha nulla di comune colle deter minazioni della volontà, ma
comincia dal punto in cui la volontà si è già determi nata: il desiderio e il
timore sono i primi segreti motori delle nostre azioni: i desi deri ei timori,
che succedonsi gli uni agli altri per tutto il tempo nel quale possiamo fare o
non fare l'azione, chiamansi de liberazione, nella deliberazione l'ultimo
desiderio, o l'ultimo timore chiamasi vo lontà, il desiderio, il timore, la
speranza e le altre passioni non sono volontarie, giacchè non procedono dalla
volontà, ma sono la volontà stessa: la volontà non è un'azione volontaria,
giacchè l'uomo tanto non può dire ch'egli vuol volere, quanto non potrebbe dire
che vuol volere volere, ripetendo all'infinito il verbo volere, il che sarebbe
assurdo o privo d'ogni senso, siccome il voler fare è un desiderio e il non
voler fare è un timore, così la causa del desiderio e del timore, è ancora
causa della volontà: ma l'azione di valutare i vantaggi e i danni, o sia la
ricompensa e la pena, è la causa del desideri e dei timori nostri, e per
conseguente delle no stre volontà, presupposta sempre la no stra credenza, che
le ricompense o i van taggi sperati si verificheranno: le nostre volontà dunque
seguono le nostre opinio ni, siccome le azioni seguono le volontà; nel quale
senso a ragione si dice, che l'opinione governa il mondo ». (de la na ture
humaine chap. XII. ). Tutta la serie delle proposizioni sin qua riportate può
essere ridotta a due sole, che si combattono e distruggono a vicen da: è libera
la volontà che può fare o non fare tutto quel che vuole º non è libero il
volere, perchè trovasi già de terminato da desideri o da timori, che sono i
suoi naturali motori. Le ambiguità della definizione di Locke, e i sofismi di
Hobbes furono dileguati dalla - 116 - definizione di Leibnitz, che considerò la
libertà come un attributo dell'agente mo rale, il quale si determina per se stesso
seguendo sempre il motivo di quel bene, che l' intelletto concepisce come tale
e il concetto di tal bene non lo costrigne, ma lo fa a quel fine inchinare
(Theodic. de la liberté de l'homme P. III. S. 288). Dall'analisi logica di tal
definizione risulta il vero concetto della libertà. E in prima, la nozione
della volontà e della libertà, è una deduzione immediata, che la mente ricava
dalla potenza attiva, o sia dall'esercizio della facoltà che sente in se del
muovere, o del pensare. 0 che consideriamo la libertà come un attributo
dell'Essere capace di volere; o che con sideriamo la libertà e la volontà
insieme, come una facoltà complessa, di cui igno riamo gli elementi
costitutivi, sempre l'una è inseparabile dall'altra. Il dividerle è lo stesso
che scomporre il fatto della natura. 9uesto fatto ci dice, che abbiamo la
capacità di fare o di non fare, e tra diverse azioni di farne piuttosto una che
un'altra. Una tal capacità è l'effetto dell'umana costituzione. 2.° L'azione è
una conseguenza della deliberazione, o sia de'motivi pe quali l'in telletto
esamina la convenienza di quella. Cctesta disamina in somma è un giudizio, il
quale pone l'agente morale nello stato di scegliere, o di preferire il fare, o
il non fare, l'astenersi dall'azione, il cessare dall'azione già cominciata, il
modificarla, o il mutarla in un'altra del tutto contraria. 3.º Alla
deliberazione succede la deter minazione, che è l'atto proprio della vo lontà,
e nel quale è riposta la causa im mediata dell'azione. Cotesto ultimo atto
abbraccia la somma di tutti i motivi de terminanti, gl'istinti, i desideri, i
timo ri, gli argomenti della ragione e le sug gestioni delle passioni. Sin qua
l'agente morale non ha fatto altro che raccogliere tutti i dati per decidersi
intorno alla scelta del bene o del male, o di quello che per tale gli presenta
la credenza o l'opinione che ha formato sopra i dati medesimi. La facoltà e la
capacità che la natura gli ha dato di formare un tal concetto, seguendo gli uni
e rifiutando gli altri, è quel che dicesi libertà morale. Cotesta facoltà è un
attributo essenziale dello agente morale. 4.° La nozione del contrapposto, che
è la necessità, rischiara meglio quella della libertà. L'agente morale può
essere la causa efficiente dell'azione propria, o dell'altrui. Nel primo caso
l'azione voluta dall'agente è libera; nel secondo, l'azio ne, è necessaria per
rispetto all'esecutore, il quale essendo estraneo alle determina zioni e alla
deliberazione del vero autor dell'azione, diviene un instrumento ma teriale o
meccanico della medesima. Chi s'impadronisce del mio braccio, e contra la mia
volontà lo muove per percuotere o per offendere altri, è il vero e solo au tore
della percossa e dell'offesa. La stessa cosa interviene nell'autore
dell'azione, quando questa non è il prodotto sponta neo della propria
deliberazione, ma è la conseguenza di cause estranee, alle quali non è concorsa
la volontà dell'agente. Che se il concorso di tali cause non pre occupi
interamente la volontà, e le la scino una parte della deliberazione, in tal caso
si dà luogo a quelle azioni mi ste, nelle quali la gradazione della mag giore o
minore influenza delle cause estrin seche servono a valutare i gradi del più o
meno di libertà, con cui sono state ese guite. La necessità dunque non è altro
che la privazione della libertà, o sia l'assenza della deliberazione e della
volontà. – 117 – 5.º Allorchè si dice che la sostanza in telligente e attiva,
ha la libertà di vole re, niuno sotto tali espressioni intende che vi sia una
volontà del volere, ma tutti in questo modo di esprimersi raffigurano una
ellissi del discorso, come se si dicesse , che l'uomo, o l'agente morale è
libero nell'uso del volere e della volontà ; sic come, quando dicesi che taluno
abbia vo luto un'azione, ognuno riferisce il volere al fatto, ed ha una
tal'espressione come equi valente al voler fare o non fare quella data azione.
Similmente allorchè si domanda se la volontà è libera, niuno intende fare della
libertà o della volontà una sostanza, o di ammettere un attributo di attributo;
ma tutti in tal modo di dire sottintendono l'uomo o l'agente morale, di cui la
volontà e la libertà formano un attributo unico e indissolubile; dalle quali
spiegazioni è le cito conchiudere, che vane e frivole sono state le dispute
fatte intorno alla interpre tazione e al senso delle cennate espressioni. Che
anzi diremo, non essere degne della filosofia le controversie fondate sulle am
biguità delle parole, allorchè queste hanno ricevuto dall'uso e dal consenso
del dolti un certo e chiaro significato. 6.° La disposizione dell'animo, cui si
è subordinata da taluni la libertà dell'agente morale, contiene pure
un'ambiguità, che può dar luogo a confuse nozioni. Lo stato dell'animo sarebbe
costantemente lo stesso, se l'uomo facesse sempre un retto uso del le sue
facoltà, o se queste non fossero al terate dalle infermità degli organi, o
dalla influenza delle passioni. Ora il considerare lo stato dell'animo quale
può essere negli uomini di non sano giudizio, è lo stesso che trasmutare
l'accidente in essenza, e l'eccezione nella regola. Dal perchè il giu dizio non
è sempre retto, e la volontà non è sempre libera, non si può conchiudere, che
l'umano giudizio è sempre infermo, e che lo stato dell'animo è una determi
nazione necessaria della volontà. Cotesta conseguenza, che sarebbe notata come
an lilogica nel discorso d'un idiota, ha ser vito di fondamento alla dottrina
della ne cessità. V. Azione, Desiderio, Inquietu dine, Mecessità. 7.” In fine,
la natura ha dato alla vo lontà un potere tanto independente dai motivi e da
desideri, quanto l'ha renduta padrona di ritrattare la sua deliberazione. Per
virtù di tal potere, la volontà riesa mina in ogni tempo i motivi, che l'han
determinata, e ne forma il suggetto d'un secondo giudizio, col quale conferma o
ritratta la sua precedente deliberazione. Se la conferma, è questa una seconda
pruova, che non i desideri, i timori, o la disposizione dell'anima l'hanno stra
scinata, ma la ragione l'ha indotta all'azione. Che se la rivoca, la
ritrattazione dimostra aver la volontà tutta la forza necessaria per trionfare
della resistenza di qualsivoglia fisica disposizione. Ed ac ciocchè un tal
potere non fosse da qua lunque altra causa rifrenato, la natura lo ha dato in
custodia alla coscienza; quei censor severo, che accompagna e segue l'azione, ed
invita la volontà al penti mento semprechè disapprova la delibera zione presa.
Adunque nella facoltà del pen timento data all'uomo, e nel sano incor ruttibile
giudizio della coscienza, è riposto il maggior argomento della libertà della
coscienza. V. Coscienza , Pentimento. LIBERTINAGGIo (prat.), sfrenatezza di chi
è di guasti costumi, esercitata abitual mente e con publicità, È vocabolo
adoperato dal Magalotti, – 118 – LIBIDINE (prat.), appetito disordinato di
lussuria. V. questa voce. LicENZA (prat.), abuso della libertà in qualunque
genere di azioni. V. Azione, Libertà. In un significato più speciale vale per
la sfrenata libertà del costumi, o dissolu tezza. V. questa voce. LICENZIoso
(prat.), qualità d'uomo dis soluto, o che usa licenza in ogni genere d'azione.
Si usa ancora come qualità di cose ina nimate, che son cagioni di dissolutezza
e di licenza. Licio (crit.), luogo publico di letterari esercizi. E vocabolo
usato dal Galilei. LICHENE (spec.), espansione vegetale, disposta dalla natura
sotto varie forme, come di grondaie, di membrane, di rami, o di filetti,
aderente agli alberi o alle pie tre per mezzo di delicatissime fibrille. È
vocabolo proprio della botanica, ma va considerata altresì come una parte ele
mentare della natura vegetale. È una so stanza, la quale attaccasi all'esterna
super ficie degli alberi per difendergli, quando son vivi, dal rigore del
freddo, e per faci litarne la scomposizione quando son morti; attaccasi ancora
all'esterna superficie delle lave e delle pietre le più lisce e le più levi
gate. I licheni sono la base fondamentale della vegetazione, perchè nascono e
alli gnano nelle roccie, nelle quali nissun altro vegetabile potrebbe
allignare, e vi formano colla scomposizione della propria sostanza una terra,
che si accumula sempre, insino a che divenga capace di ricevere piante ed
alberi di alto fusto. Per tal mezzo le più aspre e sterili montagne si son
coperte d'al beri e di boschi. È una delle sostanze ve: gelali, dalle quali
taluni fisiologisti trag gono argomenti in favor della forza pla sica della
materia e della generazione spon tanea de vegetabili. I fatti sopra i quali si
fondano sono della stessa natura di quelli, che traggono dalla riproduzione
degl'in fusori. V. questa voce. LIETEzzA e LIETo (prat.), qualità d'ani mo pago
dello stato suo. Vale meno di allegrezza e di letizia, la quale trabocca fuor
dell'anima per se gni esteriori. Si usa ancora come qualità di cose ina nimate,
che producono godimento, o ser vono di occasione a dimostrarlo; e però dicesi
lieto giorno, lieto luogo, lieto con vito, e simili. V. Allegrezza, Letizia.
LIMosINA (prat.), caritatevole soccorso dato al povero. È un atto di liberalità
e di beneficenza in quelli che risecano una parte del pro prio sostentamento
per darlo a bisognosi. È un debito di giustizia, o sia un'obliga zione naturale
ne ricchi, i quali hanno un avanzo di beni, maggior de bisogni loro. Cotesta
obligazione passa dagl'individui nelle civili società, le quali contraggono il
doppio debito di prevenire le cause del l'indigenza, e di provvedere al
sostenta mento del poveri. È dovuta ad ogni uomo bisognoso stra niero o
cittadino che sia. È notabile il detto di Epitteto ad occasione desoccorsi dati
ad un pirato naufrago, di che volevasi fare rimprovero al donatore: non homini,
sed humanitati hune honorem habui. – 119 – È l'obligazione, che il
cristianesimo ha renduto perfetta, facendone il principal precetto della
carità; secondo la quale l'amor de nostri simili, è una parte del l'amore che
dobbiamo a Dio. V. Carità. LINEA (spee.), l'estensione, considerata per la sola
dimensione della lunghezza. V. Lunghezza. Cotesta spezie di estensione non
trovasi in natura, ma è un'astrazione che la geo metria fa, per meglio
esaminare le pro prietà di ciascuna delle tre dimensioni della materia. V. Astrazione,
Dimensio me, Materia. º Per un'altra astrazione simile alla pre cedente, la
linea si ha come nata dallo scorrere del punto sopra un medesimo pia no. Così
considerata, può essere conce puta come la distanza tra due punti estre mi, o
come l'estensione che empie lo spa zio tra essi interposto. V. Distanza, Pun
to, Spazio. Se i due punti estremi della linea sieno posti nella stessa
direzione degli altri in termedi, la linea dicesi retta, e se cia scuno de
punti di essa sia in una dire zione diversa dall'altro, la linea dicesi cur va.
Le proprietà delle linee rette e della sola linea circolare formano il soggetto
della geometria elementare; laddove quel le delle altre curve son trattate
dalla geo metria sublime. V. Geometria. LINGUA (disc.), la favella particolare
a ciascun popolo, temperata alla forma dei principi e delle regole generali del
discorso. Ogni lingua presuppone una collezione di regole, o sia una gramatica,
senza la quale non potrebbero le parole essere di sposte secondo l'ordine delle
idee. V. Gra matica, Regola. - La convenienza poi di quest'ordine sta nella
perfetta concordanza delle parole col le idee, nel che tutte le lingue hanno
una somiglianza tra loro. Cotesta somiglianza nasce appunto dall'esser uno il
linguag gio, e più le lingue, essendochè queste non sono se non l'applicazione
del prin cipi comuni del pensare e del ragionare. V. Linguaggio. LINGUAGGIO
(spee. e dise. ), la colle zione desegni, pequali l'uomo comunica e sviluppa il
pensiero. V. Segno. Siccome i segni sono naturali o artifi ziali, così naturale
o artifiziale è pure il linguaggio. I segni propri del linguaggio naturale sono
il riso, il pianto, i gesti, i movi menti del viso, e i suoni inarticolati
della voce. Un tal modo di esprimere il pen siero, dicesi ancora linguaggio di
azio ne. Cotesto linguaggio è una conseguenza della conformazione degli organi,
e però è relativo alle diverse spezie degli anima li, ciascuna delle quali ha
un linguaggio a se proprio, che le altre spezie diversa mente conformate non
potrebbero intende re: è un linguaggio per se stesso imper fetto, per lo quale
puossi soltanto esprimere l'effetto d'una sensazione, non un'idea, e molto meno
un giudizio. Nell'uomo, il linguaggio d'azione, e per la maggior de strezza ed
attitudine delle sue membra, e per la esimia conformazione del viso e degli
occhi, e per la superiorità in fine della sua intelligenza, nell'uomo dico, il
linguaggio d'azione divien capace ancor de segni artifiziali, o convenzionali ;
il perchè l'azione e il pensiero possono es sere espressi insino al segno
d'eccitare ne gli altri le stesse impressioni che pruova colui che l'esprime. -
120 – Di qua la chiromania degli antichi, e più di questa ancora l'arte
depantomimi, e quel linguaggio di gesti, ausiliario del l'eloquenza della
declamazione e del dram ma, senza del quale la parola perde la forza
dell'espressione. Così può dirsi che anche il linguaggio d'azione ha la sua
eloquenza. V. Eloquenza. - A rendere maggiore l'uso e l'effetto del linguaggio
d'azione nell'uomo, contribui sce la virtù dell'imitazione, che la natura gli
ha dato, virtù per la quale noi siamo naturalmente disposti a conformare la no
stra fisonomia a moti degli affetti e delle passioni, che scorgiamo negli
altri. V. Imi tazione. Il linguaggio artifiziale poi, è l'ordinata collezione
de suoni articolati della voce, inventati per dare un nome ad ogni in dividuo,
per collocarne l'idea nella me moria, per distinguere la somiglianza o
dissomiglianza loro; per potergli ad ogni volontà richiamare alla nostra
concezione; per esaminarne le qualità; per istabilire le relazioni tra essi;
per determinare la con venienza tra nomi o sia tra segni e le cose significate;
per formarne le spezie e i ge neri; per esercitare la facoltà del giudizio, e
la maravigliosa arte del ragionamento; per pensare in somma, e per comunicare
il pensiero. La disposizione dunque, che la natura ha dato all'uomo, di formare
suoni articolati, o sia di comporre la pa rola, è la prima di tutte le
prerogative di questo Essere privilegiato; è l'instru mento principale della
ragione; è il mezzo per lo quale questa non solamente comu nica, ma forma il
pensiero, e invita gli uomini alla unione. V. Genere, Mome, Relazione, Spezie.
I suoni articolati de quali ogni lingua si compone, son pure una conseguenza
della diversa conformazione dell'organo della voce nelle nazioni, che le
parlano; essendochè i suoni piani o duri, le aspi razioni più o meno dense, le
aspre e gut turali pronunzie, e le stesse inflessioni della voce, variano
secondo la diversità delle zone, declimi, e de luoghi ne'quali nasce l'uomo. Ma
le regole del discorso son le medesime in ciascuna di esse; sì che tutte
appariscono calcate sopra tipi pri mitivi d'una lingua madre, la quale ab bia
servito alle altre d'origine e di mo dello. Questi tipi comuni e universali,
pos sono dirsi le leggi generali della parola. La scienza che le insegna è la
gramatica generale, a differenza della particolare, la quale espone la
struttura e le regole di ciascuna lingua. V. Gramatica, Lingua. Se le lingue
sieno nate da una madre comune, o pure per un istituto simile ed uniforme,
dettato dal bisogno di ciascuna delle umane associazioni, è una quistione
archeologica e filosofica insieme. Ma una tal quistione diviene del tutto
filosofica, quando vogliasi la sua soluzione ripetere dalla capacità della
mente umana, con siderata nello stato della sua infanzia, al lorchè dovette
distinguere i nomi partico lari da generali, la sostanza dalle qualità,
l'azione dalla passione; o sia quando, non sapendo e non potendo ancor pensare,
do vette formare l'analisi del pensiero, e det tar leggi onde formarlo. (V. il
vol. l. a pag. 438 e nota 134). Più ardua ancora diviene la medesima quistione,
quando la formazione delle lin gue si riferisca al tempo, in cui non era ancora
inventata la scrittura, dapoi chè la ragione e l'esperienza ci accertano, che
l'invenzione della scrittura è stata di molto susseguente a quella della
parola. V. Scrittura. – 121 – LINGUrsticA (erit.), latinismo superfluo. V.
Etimologia. LIQUIDEzzA e LIQUIDITÀ (spec.), condi zione della materia, nascente
dall'infimo grado di coesione delle particelle che la compongono. Tal è lo
stato del corpi che diconsi li quidi. V. questa voce. LIQUnDo (spec.), corpo
molle, le cui parti, sebbene aderenti tra loro, cedono alla impressione d'ogni picciola
forza, e muovonsi le une sopra delle altre; la qua le proprietà distingue i
liquidi da solidi. V. Molle , Solido. D'altra parte i liquidi non sono com
pressibili, nè possono essere ridotti a mi nor volume colle forze comuni, il
che li distingue da fluidi e da gassi. Il liquido è uno degli stati medi della
materia tra la solidità e la fluidità. V. Fluido, Gas. LiroGRAFIA (crit.), arte
nuova, per la quale si scrive o disegna sopra tavole di pietra, dalle quali
cavansi le copie della scrittura o del disegno, come se fosser quelle
intagliate a bulino. V. Incisione. LrtoLoGIA (erit.), la parte della storia
naturale, che tratta delle spezie e delle proprietà delle pietre. LoDE (prat.),
discorso per lo quale ren diamo onore alla virtù altrui. V. Virtù. Desiderano
gli uomini la lode per quello stesso sentimento, che gli spigne a meri tare
l'altrui esistimazione: ne sono vaghi i fanciulli e i giovanetti: corrono
dietro a lei gli uomini adulti: forma il compia cimento del vecchi! Il
desiderio della lode in somma è un istinto dato dalla natura, per indurci al
ben fare. L'uomo d'altra parte la scambia col ben fatto, e ingan nato dall'amor
di se medesimo, antepone il segno alla cosa significata, nel che la lode può
essere considerata come un ele mento della gloria: trahimur omnes lau dis
studio, et optimus quisque maxime gloria ducitur. V. Gloria. Per la stessa
ragione per la quale l'uomo ama la lode, abborre e fugge il biasimo. L'una e
l'altro non pertanto, distribuiti con imparzial giudizio, sono il più po tente stimolo
alla virtù, o il più efficace correttivo del male. Da ciò segue, che la lode è
una ricompensa che dobbiamo at tendere dagli altri, mentreehè il biasimo è una
pena che la coscienza pronunzia con tra noi stessi. Che se taluno potesse ripu
tarsi imparziale in sino al segno di lodarsi condegnamente, la manifestazione
del pro prio giudizio mentrechè nulla aggiugne rebbe al plauso della coscienza,
il farebbe dagli altri vilipendere; il perchè la lode di se medesimo è il
carattere distintivo dello stolto. V. Coscienza. LoGARITMo (spee.), serie di
numeri di sposti in proporzione aritmetica, i quali corrispondono ad
altrettanti numeri, che procedono in proporzione geometrica. È vocabolo proprio
dell'aritmetica, ma esprime una operazione logica di quel l'arte, perchè serve
a spiegare le rela zioni de numeri, gli uni verso degli altri. LoGicA (erit.
spec. e disc.), l'arte di ben pensare, e di disporre le idee nell'or dine
conveniente alle relazioni loro, tanto per la propria quanto per l'altrui istru
zione. V. Idea , Relazione. Distinguesi la logica in naturale e ar tifiziale.
La naturale è fondata nel retto 16 – 122 – uso della ragione, o sia
nell'attitudine che ciascun uomo ha ricevuto dalla natura, di conoscere il
vero. Per virtù di tale primi tiva illuminazione, gli uomini han prima
ragionato, e di poi ricavato i precetti e le regole del ragionamento; sì che
dal retto ragionar naturale nate sono le regole, del le quali il complesso
forma quel che si è detto logica artifiziale. Cotesta logica ri conosce per suo
autore Aristotele, almeno per la forma sistematica che questi le die de, ond'è
che ha ella ottenuto tra le scienze il primo luogo, durante il regno della filo
soſia peripatetica. Le sue regole sono sparse in diversi libri, tra quelli che
di lui ci restano, come il Trattato delle categorie, il libro della
interpretazione, i primi e i secondi analitici, i topici o luoghi co muni, e il
Trattato del sofismi. Son que sti i libri, compresi nelle edizioni di Ari
stotele sotto il nome di Organon, o di Logica, in fronte alla quale si è
aggiunta l'introduzione di Porfirio, intorno alle così dette categorie. Gli
scolastici, e dopo di loro i riformatori della vecchia logica, sono stati
soliti dividerla in tante parti, quante sono le principali operazioni della
mente nel formare e nell'ordinare il di scorso. La più ricevuta tra tutte le
parti zioni è quella che tratta in primo luogo dell'apprensione o comprensione,
in se condo luogo del giudizio e delle propo sizioni; in terzo luogo del
ragionamento e de sillogismi, e in quarto luogo dell'or dine e del metodo. V.
queste voci. La comprensione delle idee e de segni loro fece nascere le
partizioni logiche, per mezzo delle quali si credette poter de terminare tutti
gli obbietti del pensiero umano, insieme colle qualità delle rispet tive
denominazioni loro. La prima di tali partizioni era quella de cosi detti
predica bili, i quali comprendevano le varie sorte di proposizioni, considerate
per lo rap porto che il predicato di ciascuna ha col subbietto. I rapporti poi
convenendo a più subbietti insieme, furono per tal motivo denominati ancora
universali, presa que sta voce come contrapposto d'individuo. l predicabili o
universali comprendevano tutto quello che può essere affermato d'un subbietto,
ed erano inclusi in cinque clas si, cioè il genere, la spezie, la diffe renza
specifica, il proprio, l'accidente. V. queste voci. Un'altra partizione logica
era quella delle categorie o predicamenti, o sia di tutte le cose semplici che
possono es sere espresse senza composizione o costru zione. Eran queste al
numero di dieci , cioè la sostanza, la quantità, la qua lità, la relazione,
l'azione, la passio ne, il tempo, il luogo, la posizione, la maniera. V. queste
voci. La seconda parte della logica, la quale versava circa le proposizioni,
apriva an cor essa il campo a varie suddivisioni. Gli elementi delle
proposizioni sono i sog getti e i predicati loro. Le qualità poi di ciascuna
facevanle distinguere in afferma tive e negative, siccome la natura del
suggetto, espressa anche col nome di quantità, rendevale universali o parti
colari, oltre altre suddivisioni fondate nel numero de termini d'ogni
proposizione, come delle categoriche e di altre. V. Af fermativo, Categorico,
Megativo, Pro posizione. - La conversione poi delle proposizioni è il mezzo per
passare dalla enunciazione alla dimostrazione, e consiste in questo, che una
proposizione prende per suggetto il predicato, e fa predicato del suggetto. V.
Conversione. – 125 – La terza parte, che concerne il ragio namento, abbraccia
la più importante parte della logica aristotelica, che è quella dei sillogismi,
ne quali è riposta la struttura del discorso, e propriamente la forma detta a
priori. Per essa la mente passa dalle verità generali, o sia dalle propo
sizioni universali, alle particolari; ed un tal passaggio si fa per mezzo di
tre pro posizioni, delle quali la media serve a dimostrare che la terza è
compresa nella prima. Nelle figure e ne modi diversi dei sillogismi Aristotele
ripose tutta la forza del ragionare e del dimostrare. V. Sillogismo. La quarta
finalmente risguarda il me todo, o sia l'arte di disporre una serie d'idee
nell'ordine delle loro relazioni, o per iscoprire le verità ignote, o per di
mostrare le note. È questa la parte della logica più utile all'ingegno, perchè
gli apre la via alla invenzione, e lo acco stuma al rigore e alla severità
della dimo strazione. Di qua l'analisi e la sintesi, che sono i due metodi
pe'quali la ragione o inventa, o dimostra.V. Analisi, Sintesi. Piacque al
chiaro Abate Genovesi mu tare i nomi delle partizioni della logica, e
distinguerla in emendatrice, inventri ce, giudicatrice, ragionatrice, e ordi
natrice, ma una tal novità non fu da altri seguita, e per buone ragioni. Come
dare il titolo di emendatrice della ra gione ad un'arte che prende da questa le
norme del retto ragionare; e come dare la qualità d'inventrice all'altra parte
del l'arte medesima, la quale versa circa la natura e le origini delle idee?
Egli scom pose il bell'ordine dato all'arte di pen sare o logica da Arnaldo e
da Nicole, i quali senza dare troppa dote agli scola stici precetti,
dimostrarono di quanto la logica naturale sia preferibile all'artifiziale.
All'ammirazione che per secoli le scuole diedero all'organo e alla logica
aristotelica succedette un nuovo gusto, quello cioè del ragionamento
geometrico, e alquanto più tardi il fastidio e il disprezzo delle vec chie
forme. Raimondo Lulli aveva sin dal decimoterzo secolo cercato di abbattere la
dialettica aristotelica, e nell'arte lulliana credette aver aperto nuove vie al
ragio namento per conoscere anche le verità che trapassano l'umana capacità. Ma
gli au tori dell'arte di pensare giustamente no tarono, che le regole della
logica di Ari stotele sono utili soltanto per dimostrare ad altri le verità già
conosciute, e l'arte di Lulli, per dare il mezzo di discorrere di quel che
s'ignora. Cartesio fu il pri mo, e il vero riformatore della logica ari
stotelica, con aver sostituito l'analisi al sillogismo, e coll'aver esposto i
principi d'un metodo fondato nell'ordine naturale delle idee. Bacone, dopo di
lui, pretese di sbandire dalle scienze il sillogismo, e propose l'induzione,
come un metodo nuo vo, proprio allo scoprimento delle verità ignote e a
progressi di tutte le scienze. Per amor del vero, convien dire che Ari stotele
aveva ben dinotato l'induzione come una delle due vie, per le quali la ragione
perviene allo scoprimento del vero. Noi abbiamo già dimostrato, che l'induzione
aristotelica non è diversa da quella di Ba cone, di cui il merito è di averne
dimo strato l'uso e l'applicazione allo studio de fatti della natura. V.
Induzione. Dopo di Cartesio e di Bacone, Locke non solamente scagliossi contra
la logica aristotelica, ma pretese sostituire, nell'ana lisi degli atti del
pensiero, la logica na turale all'artifiziale. Sua opinione fu che le
matematiche fossero il solo mezzo pro prio a sviluppare e perfezionare il ragio
n - 124 – namento. Ciò non ostante fu poco osserva tore del metodo, senza del
quale ogni ra gionare non può dirsi retto, nè usurpar può il nome e l'autorità
della logica naturale. Leibnizio senza approvare la logica sco lastica credette
che la logica artifiziale fosse uno studio necessario a conservare la se verità
nell'arte di dimostrare, comechè una ragione esercitata potesse acquistarla
anche senza il soccorso delle regole logi che. Che anzi risguardò la logica
come una spezie di matematica universale con servatrice di regole infallibili,
alle quali è necessario ricorrere sempre che si voglia esaminare il vero valore
d'un ragiona mento. Tal è ancora il giudizio del dot tore Reid, secondo il
quale, non è la logica che aprir dovrebbe alla mente il cammino nell'arte di
ragionare, ma lo studio di essa dovrebbe piuttosto essere ri servato allo stato
adulto della ragione. L'uso della induzione applicato alla in vestigazione del
fenomeni naturali, e allo studio delle facoltà e delle operazioni della mente
ha fatto dare il nome d'induttiva a quella parte della logica, che ne espone i
principi e le regole. Ma per verità una è la logica, o l'arte che addita le due
vie, per le quali può la ragione pervenire allo scoprimento del vero, sì che
una tal deno minazione potrebbessere risguardata come impropria, e nel suo vero
significato equi valente a metodo induttivo. V. Induttivo. Finalmente logica de
probabili è stata denominata l'arte di discernere i vari gradi di probabilità
che hanno le diverse spezie di pruova, per le quali possiamo accer tarci della
verità d'un fatto incerto. lm propria è una tal denominazione, essen dochè in
questo senso il vocabolo logica vale criterio o estimazione delle pruove. V.
Probabilità, Pruova. LoGISTICA (crit.), nome altra volta dato all'aritmetica
speciosa, o algebra. V. que Sla VOCe. “ Gli aritmetici chiamarono logistica la
loro logaritmica, e chiamano ancor oggi logaritmo logistico la differenza che
passa tra 'I logaritmo d'un numero posto nella tavola comune de logaritmi, e un
dato numero di secondi che si cerca di trova re; siccome chiamano linea
logaritmica una curva per la quale si costruiscono i logaritmi, e se ne spiega
la natura. LoNGANIMITÀ (teol. e prat.), lunga e paziente tolleranza per la
quale si aspetta il termine d'un fatto che è molesto, o d'una speranza che
l'animo ha conceputo. È stato principalmente adoperato per esprimere la
benignità, colla quale Dio attende la conversione degli uomini. Ma si applica
ancora alla virtù umana, per la quale pazientemente si attende , o la fine d'un
male che ci duole, o il compi mento d'un bene che si desidera. LoNGIMETRIA
(spec.), l'arte di misurare le lunghezze o le distanze tanto accessi bili, quanto
inaccessibili. V. Distanza. È termine proprio della geometria e della
trigonometria; ma considerata que st’arte come il prodotto delle combinazioni,
che l'intelletto adopera per conoscere le cose le quali trapassano la capacità
desen si , i suoi principi prendono lume dalle mozioni dello spazio, del tempo,
della vi sione, e della luce, le quali appartengono in proprio alla filosofia
speculativa.V. Luce, Spazio, Tempo, Visione. LoNGITUDINE ( spec. e erit.), vale
nel suo comune significato estensione per lun go, o lunghezza. – 125 – In
questo senso dicesi longitudine della terra la sua estensione nella direzione
del l'equatore; siccome dicesi latitudine della terra la sua estensione da un
polo all'al tro. V. Estensione, Latitudine. La geografia fisica intende sotto
questo nome la distanza d'un luogo da un me ridiano considerato come il primo,
o sia un arco dell'equatore, compreso tra il me ridiano del luogo e il primo
meridiano. Per dare una definizione più chiara della pratica misura dell'arco
equatoriale, la longitudine è il numero degradi dell'equa tore compreso tra 'l
meridiano del luogo conosciuto, e quello d'un altro luogo che si vuol
conoscere. Questo numero di gradi si suole estendere da zero insino a 18o gradi
a destra e a sinistra del primo me ridiano, o d'un meridiano conosciuto; e per
un osservatore rivolto al polo nord, la longitudine estesa a destra del dato me
ridiano, dinota di quanto un luogo è più orientale dell'altro; siccome quella a
si nistra dinota di quanto è più occidentale. Il contrario avviene se
l'osservatore rivol gasi al polo sud , o antartico. Si suole ancora numerare la
longitudine da zero insino a 36o gradi sempre in una mede sima direzione.
L'astronomia chiama longitudine d'una stella un arco dell'ecclittica designato
dal principio dell'ariete, o sia dal principio del primo de'dodici segni del
zodiaco, in sino al luogo in cui un cerchio massimo della sfera che passa per
la stella, taglia ad angolo retto l'ecclittica. La longitudine sta in quella
stessa relazione coll'ecclittica, in cui l'ascensione retta sta coll'equatore;
chiamando gli astronomi ascensione retta l'arco dell'equatore compreso tra il
prin cipio di ariete e il punto in cui un cer chio massimo della sfera che
passa per l'astro, taglia perpendicolarmente l'equa tore. V. Ecclittica,
Latitudine. La nautica infine usa la parola longi tudine nello sesso
significato della geo grafia, applicandola al luogo che occupa la nave sulla
superficie del mare, per ri spetto ad un meridiano convenuto. E proprio di
questa scienza il determi nare ad ogn'istante il punto, in cui si trova la nave
in alto mare, ed il cam mino che segue su questo vasto elemento, priva d'ogni
immediata relazione col con tinente, e giovandosi soltanto della bus sola,
delle osservazioni astronomiche, e del calcolo; per raggiugnere il quale sco
po, chiama ancora in soccorso la misura del tempo, ragguagliata al moto del cor
pi celesti, il che appartiene alle speciali conoscenze della scienza medesima.
Quel che importa alla filosofia critica e specu lativa, è il rilevare come la
natura ab bia fatto all'uomo ostensivi i fenomeni del cielo, acciocchè vada
quivi a cercare le nozioni generali dello spazio del tem po, del moto, e delle
distanze che aver non potrebbe da soli fenomeni terrestri ; e come abbia messo
l'intelletto al di so pra de sensi, onde da pochi dati, che questi gli
somministrano, possa aprirsi nuove vie per penetrare nella cognizione
dell'invisibile. V. Distanza, Moto, Spa zio, Tempo. LoNTANANZA (spec.),
vocabolo di rela zione, che indica lunga distanza da noi, o da luogo vicino. V.
Distanza. LoquACITÀ (disc.), vizio di ridondanza e di levità di discorso.
LoQUELA ( disc. ), la naturale facoltà del parlare. – 126 – Siccome
l'articolazione delle parole na sce dalla naturale disposizione dell'organo
della voce, così la loquela scambiasi tal volta colla pronunziazione. Tal è il
senso datole da Dante: O Tosco, che per la città del foco Vivo ten'vai così
parlando onesto Piacciati di restare in questo loco. La tua loquela ti fa
manifesto, Di quella nobil patria natio, Alla qual forse fui troppo molesto.
(Inf. c. X.). Il suo significato differisce da quello di favella, di lingua o
di linguaggio, che tutti esprimono un parlare formato da re gole. V. queste
voci. Luce (spee. e crit.), fluido imponde rabile che emana dal sole secondo
New ton ; o, secondo i fisici moderni, che esiste nello spazio ed è messo in
moto dalla presenza del sole; che colora tutta la natura esteriore, ed è causa
della vi sione. L'ottica è la scienza che spiega i feno meni della luce e
svolge le leggi natu rali, per le quali vien essa tramandata, o dirittamente, o
per reflessione, ovvero per refrazione. Ma senza entrare ne par ticolari di
cotesta scienza, chiunque co mincia a contemplare le maraviglie del l'universo,
non può non fermarsi allo spettacolo della luce, e domandare a se stesso, che è
questa sostanza sottilissima, che sì rapidamente si spande, che vivi fica la
natura, che anima gli organi del la visione, che porta seco il calore, e senza
la quale il mondo resterebbe inos servato? La contemplazione di questo fe
nomeno, che è di tutti il maggiore, per chè da esso nasce l'aspetto e
l'economia del mondo, appartiene egualmente alla filosofia speculativa, alla
critica, alla teo logia naturale, e alla filosofia pratica. Seb bene l'essenza
della luce, come quella d'ogni altra sostanza, rimanga ne segreti della natura;
pur tuttavolta lo studio dei suoi effetti è l'argomento, nel quale la mente
ammira con maggiore stupore la sapienza del supremo Autor di tutte le cose.
Fermiamoci al fenomeno della visione, come quello che ci conduce alla cogni
zione del sublime meccanismo del primo tra nostri sensi, che è la vista. La
luce si propaga in linea retta dal corpo luminoso all'occhio, quando non si
frapponga un altro corpo che sia d'osta colo al suo passaggio. Immensa è la ce
lerità del suo moto, dacchè in otto mi nuti e tredici secondi percorre la
distanza media tra 'l sole e la terra, o sia più di quindici milioni di
miriametri, o di ot tantadue milioni di miglia geografiche ita liane. Allorchè
la luce incontra al suo passaggio un qualche corpo, o reſlette, o si refrange;
è reflessa la luce quando un raggio luminoso cade sopra una su perficie
levigata, nel quale caso ripiegasi formando colla cennata superficie un an golo
eguale a quello che aveva formato nel giugnervi; il che vien espresso colla
nota regola, l'angolo di reflessione è ugua le a quello dell'incidenza: è
refratta, quando passando per corpi diafani riceve dall'azione di tali corpi
una direzione di versa da quella, colla quale sarebbe giunta all'occhio. I
fenomeni della luce reflessa formano il suggetto della catottrica, la quale si
serve della verità testè enunciata, cioè dell'eguaglianza de due angoli di re
flessione e d'incidenza, per ispiegare la teorica degli specchi. Negli specchi
piani l'immagine reflessa apparisce come posta – 127 – dietro allo specchio, in
una distanza eguale a quella in cui si trova l'obbietto che è da vanti. La
spiegazione del fenomeni della luce refratta forma il suggetto della diot
trica. La refrazione avviene sempre che i raggi della luce passano da un corpo
o mezzo in un altro, che sia di una diversa densità, e quando incontrano
l'esterna superficie di questo corpo in una direzione obliqua. Da ciò nasce il
fenomeno del ba stone, in parte ed obliquamente immerso nell'acqua, il quale
apparisce rotto nel luogo, per lo quale vi è entrato. La parte del bastone che
vi è immersa sembra più inclinata dell'altra, perchè i raggi che tramanda,
passando dall'acqua nell'aria si allontanano dalla verticale più della linea
retta, che sarebbe andata dall'occhio al punto d'onde i raggi emanano, e che se
guito avrebbero se non avessero cangiato di mezzo. Cotesto fenomeno si
riproduce sotto forme diverse, le quali son tutte com prese nel seguente canone
generale: un raggio di luce, il quale passa obliqua mente da un mezzo in un
altro, di di versa densità, si frange per modo, che se dal punto dove incontra
la superficie del secondo mezzo s'innalzi una perpen dicolare a questa stessa
superficie, il raggio incidente e il raggio refratto fa ranno con questa
perpendicolare due angoli, de quali i seni saranno in un rapporto costante,
qualunque sia il pri mo de due dinotati angoli. Di questi due angoli, quello
formato nel mezzo men denso è sempre il maggiore. La refra zione, al pari della
reflessione succede sempre nel piano perpendicolare alla su perficie, il quale
è determinato dal raggio incidente. Sopra la cennata legge è fon data la
teorica delle lenti o vetri ottici, de quali le diverse forme servono a fare
convergere in un punto i raggi della luce, o a fargli divergere, secondo le
leggi della refrazione. V. Lente, Refrazione, Reflessione. La refrazione non
succede solamente quando la luce passa per due mezzi di di versa densità, ma
avviene pure allorchè la densità dello stesso mezzo varia lungo il passaggio
del raggio, che lo traversa. In tal caso il raggio non segue la linea retta, ma
descrive una curva, per la di rezion della quale, o sia per la direzione della
sua tangente, giugne all'occhio, e ci lascia giudicare del luogo dell'obbietto.
Questo è quel che avviene pe raggi di luce che passano a traverso de vari
strati dell'atmosfera; ond'è che per gli oggetti lontani, osservati da noi così
nel cielo, come sulla terra, nel determinare la loro distanza, uopo è calcolare
le differenze che nascono dalla densità dell'aria, e dal le diverse cause che
possono modificarla. Talvolta ancora la refrazione sembra can giarsi in
semplice reflessione, il che in terviene quando le inclinazioni son tali , che
i raggi della luce non penetrano sen sibilmente ne mezzi i più diafani. Tal è
il fenomeno della reflessione del paesaggi ne corsi d'acqua che li costeggiano.
Tal è ancora l'altro fenomeno del crepuscolo, il quale succede quando nel
tramontare del sole, non essendo questo molto disceso sotto dell'orizzonte, i
suoi raggi vengono ad incontrare sotto piccioli angoli lo strato superiore
dell'atmosfera, e riflettonsi verso la superficie terrestre. L'intensità poi
del la luce va scemando a misura che si al lontana più dalla sua sorgente, e si
smi nuisce per la reflessione e per la refrazio ne; e può anche estinguersi
interamente, quando passi per corpi trasparenti d'una grande spessenza. – 128 –
Dalla teorica della refrazione nasce quel la della composizione e scomposizione
della luce. Se in una camera ben chiusa, nella quale sia impedito ogni accesso
alla luce, se ne faccia entrare una picciola porzione per una picciola
apertura, praticata nelle imposte d'una finestra, egualmente chiusa
all'esterno, esposta al sole, questa por zion di luce andrà a disegnare sopra
un cartone bianco, situato in direzione per pendicolare, un cerchio bianco che
rap presenta l'immagine del sole. Ma se la stessa porzione di luce si faccia
cadere so pra un prisma triangolare situato in modo che la luce esca per
un'altra delle sue fac ce, l'immagine che disegnerà sul cartone sarà più
allungata, e sarà tinta degli stessi colori dell'iride. Cotesto ingegnoso
esperi mento, che è di Newton, aperse il cam po ad altre belle scoverte.
L'immagine al lungata del sole dimostra, che la luce in trodotta nel prisma, vi
si dilata e i raggi che la compongono si separano e appari scon posti gli uni
sopra degli altri, come se appartenessero a raggi distinti, i quali hanno
sofferto disuguali refrazioni. Il nu mero delle diverse gradazioni di colore,
che presentano i raggi di luce così scom posti dal vetro è di sette; cioè il
violetto, l'indaco, il turchino, il verde, il giallo, l'arancio, il rosso.
Lasciando da parte le quistioni fatte da fisici, se questi colori sien tutti
semplici, o se alcuni nascano dalla composizione di più d'uno tra essi, come il
verde; certamente con questi stessi colori Newton ricompose la stessa porzione
di luce, e riprodusse l'immagine bianca sul cartone, avendo raccolto in una
lente i raggi separati dal primo prisma, fa cendoli tutti passare pel fuoco di
quella. Cotesti esperimenti spiegano perchè gli ob bietti veduti a traverso di
vetri lenticolari, o di corpi trasparenti convessi appariscono molte volte
orlati di colori che sono loro affatto stranieri. Se questi colori sieno nel la
luce, ne corpi da questa illuminati, ovvero in noi, è una quistione di cui tro
verassi la soluzione negli articoli, colore, e qualità. V. queste voci. Il
principale fenomeno della luce è la visione, per mezzo della quale noi giudi
chiamo delle sue qualità, e degli effetti loro. La visione avviene per mezzo
derag gi della luce, i quali passando per la pu pilla s'incrociano tra loro, e
vanno a de scrivere sulla retina una immagine rove sciata degli obbietti
visibili. Cotesto feno meno è una conseguenza della picciolezza dell'apertura
della pupilla (la quale rac coglie tutti i raggi luminosi dell'obbietto
esterno), e della oscurità della membrana, nella quale è compreso il globo
dell'occhio, e che respigne tutti gli altri raggi di luce che non vengano dirittamente
dall'obbietto visibile. L'operazione della natura è stata copiata dall'uomo
nella camera ottica, di cui le pareti sono parimenti tinte di nero, e in un
lato della quale vien praticato un forellino per lo quale i corpi esterni, che
sono sufficientemente illuminati, traman dar possano del raggi di luce. Cotesti
raggi incrociandosi tra loro vanno a disegnare sopra un cartone bianco
l'immagine rove sciata degli obbietti, da quali essi ema nano. Una tale
immagine riesce più esatta e più viva, se all'apertura si applichi una lente, e
si situi il cartone nella direzione del suo fuoco. I raggi della luce saranno
per tal modo concentrati in uno spazio più picciolo, e daranno l'immagine più
corrispondente al naturale e più simile alla immagine dipinta nell'occhio. La
ragione di cotesta somiglianza è, che l'occhio ha le sue lenti naturali, per
mezzo delle quali i raggi proiettati da qualunque punto del l'obbietto
esteriore cadono sopra altrettanti punti della pupilla, e sono talmente re
fratti dalla cornea e dall'umor cristallino, che di nuovo si riuniscono nella
retina, e gli danno la stessa tinta del colore che, è nell'obbietto dal quale
sono emanati. Ma nella retina l'immagine dell'obbietto ester no vien dipinta a
rovescio. D'onde ciò av viene? Secondo la spiegazione datane da Keplero, i
raggi, che provengono da di versi punti dell'obbietto esterno, s'incro ciano
prima di giugnere alla retina; sì che la parte superiore dell'obbietto viene a
dipignersi nella parte inferiore della re tina, e il lato destro alla parte del
sinistro. D onde poi nasce che noi vediam di ritto, e nella sua natural
posizione l'ob bietto, che nella retina sta dipinto capo volto? E come fassi,
che vedendo con ciascun occhio la stessa immagine, questa ci apparisca unica e
non doppia ? Ambe le cennate quistioni posson dirsi metafisi che più che
ottiche o fisiche, dapoichè appartengono al mistero della sensazione, o sia
della comunicazione delle materiali impressioni desensi alla facoltà percettiva
dell'animo. Qualunque sia la soluzione vera o congetturale, che di esse può dar
si, piaccia vederla nell'articolo proprio della visione. V. Ocehio, Visione.
LUNA (spec. e crit.), il pianeta satel lite della terra, che riceve la sua luce
dal sole, e compie intorno alla terra il suo giro nel termine di circa
ventisette giorni e sette ore. È un corpo opaco e sferico, che ha ancor esso un
movimento di rotazione in torno al proprio asse, il quale moto pure si compie
nel medesimo termine di ven tisette giorni e ore sette in circa. Come corpo
oscuro, c'e riceve la sua luce dal sole, ne riflette quella sola parte che può
a noi venirne, secondo le sue va rie posizioni tra la terra e il sole. Tali po
sizioni son dagli astronomi ridotte a quat tro, cioè la congiunzione, o sia
quando la superficie illuminata è rivolta al sole, e l'oscura alla terra;
l'opposizione o sia quando il suo disco apparisce a noi in teramente
illuminato; e le due quadra ture, o sia quando a noi apparisce in parte
illuminata, e in parte oscura, pri ma, o dopo della congiunzione e della opposizione.
Son queste le varie apparenze che chiamar si sogliono sue fasi. Gli ec clissi
di sole non possono accadere che con la luna nuova , o nella congiun zione; e
per contrario gli ecclissi di luna non avvengono se non con la luna pie na, o
nella opposizione: dalle fasi na sce la spiegazione del fenomeni dell'ec clissi
così solare come lunare. Il corso della luna si misura dalla posizione delle
stelle vicine, da cui si allontana, e alle quali fa ritorno. Questo è quel
corso, ch'ella compie nel termine di ventisette giorni e sette ore circa, e che
gli astro nomi chiamano sidereo o periodico. Ma per rispetto al sole, la luna
più noi tro va in quel punto in cui lasciollo, dacchè esso nel suo cammino si è
avanzato più all'oriente del sito della stella. Laonde la luna impiegar dee un
tempo maggiore, per trovarsi nella medesima posizione ver so del sole, il che
effettua nel termine di circa due giorni e mezzo, e chiamasi ri volgimento
sinodico, lunazione, o mese lunare. Il mese lunare dunque abbraccia tutto il
corso che la luna fa da una con giunzione all'altra, comprende le sue va rie
fasi, e compiesi nel termine di circa ventinove giorni e mezzo. 17 – 150 –
Lasciamo all'astronomia la spiegazione del fenomeni che nascono dal vario moto
della luna; e a' fisici, le congetture in torno alla natura e alle qualità di
quel corpo sferico, alle inegualità della sua superficie, alle sue macchie, e
all'at mosfera, di cui è circondato. Tali con getture son comuni a tutti i
pianeti. Ma la luna ha più degli altri esercitato le nostre investigazioni,
perchè è a noi più vicina e apparente; perchè più immediate e sensibili son le
relazioni e le influenze dell'un pianeta verso dell'altro ; e final mente
perchè le somiglianze che tra l'uno e l'altro ravvisiamo, ci fan credere che la
natura, sempre uniforme e costante nelle sue operazioni, abbia dato loro una
destinazione parimenti simile. Tranne le conoscenze positive intorno alle
montagne della luna, acquistate per mezzo decan nocchiali; e tranne ancora la
conoscenza della tenuità della sua atmosfera, che ci vien somministrata dalla
teorica delle re frazioni; tutte le altre congetture restano nella sfera delle
ipotesi, e somministrano alla filosofia intellettuale un altro argo mento per
riconoscere la linea che ci se para dall'invisibile e dall'incomprensibile,
eccettuate le poche notizie che ci procura la sua maggior vicinanza. Della luna
dun que, non possiam dire nulla di più certo di ciò che conosciamo d'ogni altra
parte del sistema planetario. V. Pianeta, Sistema. LUNGHEzzA (spec.), quella
parte del l'estensione, che è terminata dagli estremi suoi. V. Estensione. La
lunghezza è la parte dell'estensione, che si misura per una linea tirata da un
estremo all'altro di essa, a differenza della larghezza che si considera come
limitata da lati. L'una e l'altra sono astrazioni di due delle tre dimensioni
della materia, che non si possono tra loro disgiungere. V. Larghezza, Linea.
LUoGo (spec. ontol. e disc.), la parte dello spazio, che ogni corpo occupa O
come disse Varrone, ubi quidquam consistit. L'idea del luogo contiene una
relazione a quella dello spazio, e propriamente in dica la situazione d'una
cosa, considerata per la distanza che passa tra essa e le al tre vicine o
lontane. Preso in senso più generico, dinota il posto che i corpi prendono
nell'universo, o presentemente o possibilmente; nel quale significato giova
distinguerlo con Leibnitz in particolare ed universale: una tale di stinzione è
relativa all'altra, che dee farsi tra lo spazio determinato e l'indeterminato.
V. Spazio. Per similitudine, e per l'analogia che la mente umana ravvisa tra lo
spazio e il tempo, l'idea del luogo si trasporta an che al tempo; sì che
l'avere o il trovar luogo nel tempo importa, opportunità o occasione di fare.
Per un'altra traslazione, si applica ancora alle cose intellettuali, e vale
ordine ne pensieri. In fine anche i dialettici han dato a questo vocabolo un
significato speciale per indicare le sedi, o le sorgenti degli argo menti, onde
Cicerone disse: loci, in qui bus latent argumenta. Non solamente la retorica e
l'oratoria, ma le scienze stesse le quali furono altra volta dialetticamente
trattate ebbero taluni argomenti generali, da quali traevano i particolari, che
deno minarono luoghi. I retori generalmente diedero una grande importanza
all'arte di trovare gli argomenti, e gli antichi più, che i moderni. Aristotele
trattò dei – 151 – luoghi dopo di aver esposto gli argo menti. Pietro Ramo
sostenne dover quelli nell'ordine precedere e non succedere a questi. Taluni de
logici moderni ne han fatto una parte dell'arte di ragionare, e l'han chiamata
logica inventrice. Altri più sanamente han creduto che meglio sa rebbe il
cancellare questa parte dell'arte logica, e senza incatenare con regole la
natura, l'affidarci alla spontaneità ch'ella ha dato alla facoltà del
ragionare. In con ferma di che (dice un giudizioso scrittore dell'arte di
pensare) potrebbesi interro gare gli uomini veramente eloquenti, i quali han
sempre materia d'avanzo, se quando son essi meglio riusciti a persua dere,
abbiano mai pensato di trovare qual che argomento a causa, ab effectu, ab
adjunctis. Ciò nonostante tra perchè la logica ar tifiziale scolastica ha
ancora qualche fau tore, e perchè conviene non ignorare i nomi, diciamo essere
stati i luoghi degli argomenti divisi in grammatici, logici, e metafisici,
Grammatici son gli argomenti ricavati dall'etimologia denomi, o sia da
derivati, che i Latini chiamarono verba coniugata, e i Greci rapayuux. Tali
sarebbero gli ar gomenti: Homo sum, humani nil a me alienum puto Mortali
urgemur ab hoste mortales, V. Paronimo. Logici furon detti i termini
universali, come il genere, la spezie, la differenza, il proprio, l'accidente,
la definizione, la divisione, senza entrare nelle regole come usarne, per le
quali vedi l'arte di pen sare di Arnaldo. Luoghi metafisici in fine chiamaronsi
alcuni termini generali, che convengono a tutti gli Esseri, e a quali molti
argomenti si riferiscono, come la causa, l'effetto, il tutto, le parti, i
termini contrapposti. V. queste voci. LUSINGA (prat.), dolcezza di parole dette
con color di verità, per trarre l'opinione o la volontà altrui alla propria
utilità. Tal'è l'esatta definizione che ne dà il noto testo, che porta per
titolo fior di virtù. In questo senso medesimo adoprò Dante la voce lusinga. In
un senso men proprio significa pa role e maniere insinuanti, adoperate con buon
fine per indurre alcuno a far cosa onesta, e a se utile. LUsso (prat. e crit.),
eccesso di spese improduttive, fatte per ostentazione, e per amor di vita
voluttuosa. Rendiamo ragione di cotesta definizione. Varie sono state le
definizioni che han dato del lusso i moralisti, e gli economi sti, e diverse
tra loro le controversie in torno al danno o alla utilità, che da quello deriva
così all'individuo, come alla civil società. I moralisti, che in generale
l'hanno definito come lo smoderato uso delle ric chezze, l'hanno risguardato
come un abito vizioso nato dal soverchio culto del corpo, il quale alimenta la
mollezza e la sensua lità, e toglie alla liberalità e alla benefi cenza
l'avanzo destinato al soccorso del l'indigenza. Degli economisti taluni l'han
definito l'eccesso delle spese oltre il neces sario bisogno; altri l'uso delle
cose su perflue; altri l'uso delle cose che vendonsi a caro prezzo; altri
l'arte di sminuire le privazioni, e di accrescere la comodità e i piaceri della
esistenza o della vita civi r - 152 - le; altri lo studio di vivere con
soverchia morbidezza, o raffinamento di piaceri, tanto del corpo, quanto
dell'animo; altri in fine l'ostentazione o il fasto delle ric chezze. La
varietà delle definizioni è nata dal vario aspetto, nel quale è stato ri
sguardato, e da ciò sono ancora derivate da una parte le declamazioni contra il
lusso, e dall'altra le sue apologie; sì che taluni l'hanno considerato come la
cagione della ineguaglianza e della disproporzione delle fortune, della
depravazione decostu mi, e della rovina delle nazioni; mentre chè altri l'hanno
predicato come la causa vivificatrice della industria, e come il mag giore
istrumento della diffusione del da naro e delle ricchezze d'uno stato. Da que
sta varia maniera di sentire è nato altresì l'essersi da alcuni scrittori fatto
rimprovero alla economia politica, di avere stabilito principi contrari alla
publica e privata morale, quasi che avesse detto che l'in dustria e la
ricchezza delle nazioni non può stare senza una causa, che perenne mente
fomenti la corruttela e la licenza de'costumi. In somma (siccome ben disse uno
del nostri maggiori economisti, che possiamo ancora considerare come un per
fetto moralista) « i teologi da una parte, e i politici dall'altra ;
gl'industrianti da un lato, e dall'altro i sobri e modesti proprietari; da una
banda i poveri, e dall'altra i ricchi: di qua i vecchi e gli avari, e di là i
giovani lussureggianti hanno dato alla parola lusso tante e sì diverse nozioni,
e risguardatala per tanti e sì diversi aspetti, che e pare che non se ne possa
rinvenire il bandolo. Quel che è lusso per alcuni, non è per altri, e anzi ciò
che per alcuni è detto lusso, per altri chiamasi sordidezza » (Genovesi lezioni
di commercio C. X. delle arti di lusso). In conferma delle quali osservazioni,
siccome tutte le definizioni del lusso son fondate sopra l'idea del superfluo,
così vorremmo prima d'ogni altro domandare la definizione di questo vocabolo.
Super fluo, nel più rigoroso significato, è tutto quel che non è assolutamente
necessario pel sostentamento della vita. Se un uomo può vivere alimentandosi di
erbe e di al tri spontanei frutti della terra; se può co prirsi d'una pelle per
difendersi dalla nu dità e per sottrarsi alle inclemenze delle stagioni; se può
trovare un ricovero in una capanna, saranno considerate come superfluità il
pane, la carne, le vesti, e la casa? Il superfluo è relativo alla varia
condizione delle persone, alla diversa qua lità delle professioni, e a diversi
bisogni che nascono dall'abito, dalla educazione, e dalle usanze. Nè basterebbe
ampliare il significato del necessario, estendendolo a certi dati bisogni
secondari della vita ci vile, perchè la stessa difficoltà si scon trerebbe
nella indeterminabile gradazione de bisogni relativi a diversi stati delle per
sone e delle famiglie. Il superfluo dell'uno forma una necessità secondaria a
rispetto della classe immediata, e va ascendendo per modo, che non può
assegnarsi un termine fisso, il quale dia a ciascuna di queste due idee un
carattere certo, che la faccia distinguere dall'altra. Il super fluo dunque,
come ogni altro relativo, contiene una confusa nozione, la quale non può
servire di base alla definizione del lusso. Lo stesso dee dirsi della idea
correlativa del necessario, la quale, li mita soverchiamente l'uso del beni che
la natura ha dispensato all'uomo per lo go dimento della vita. Ognun sa, che
que sti beni, o ci vengono direttamente e im mediatamente dalla natura, o son
da noi – 155 – procacciati colla fatica e coll'industria ; e che di essi pochi
sono gl'indispensabili alla esistenza, ma la più parte risguar dano o le
comodità del vivere, o anche l'onesto diletto. Gli abiti e le usanze del la
vita civile fanno sì, che le comodità passino nella classe de beni necessari, e
quelli di puro diletto nella classe delle co modità. Chi volesse esempi di
cotesto pas saggio li troverebbe nell'uso del caffè, degli aromi, del tabacco,
de prodotti delle arti belle, e della maggior parte delle arti d'industria. Son
questi i beni che molti plicano le professioni, che adornano la vita, che
promuovono l'industria ed il commercio, che producono le ricchezze. Chi volesse
in essi trovare il lusso corrut tore della semplicità e purità del costumi,
anteporrebbe manifestamente lo stato dei popoli selvaggi alla vita delle culte
na zioni. Dalle cose sin qua dette apparisce manifesto, che non bisogna cercare
la definizione del lusso nella idea del neces sario e del superfluo, ma convien
tro vare un qualche altro carattere essenziale, che distingua il lusso utile
dal vizioso, se pur si voglia confondere l'uno e l'altro sotto un nome comune.
Trovato questo ban dolo, sarà facile mettere d'accordo l'eco nomia politica
colla morale. Certamente, uno de principali caratteri del lusso è
l'ostentazione, che vuol dire vanità, e desiderio di distinguersi dagli altri,
ma non è il solo che può determi narne una esatta definizione; impercioc chè il
desiderio di distinguersi si trova così nel bene come nel male, nè condan nar possiamo
le azioni utili, sol perchè sien fatte per sola emulazione di onore e di lode.
La vanità è viziosa, quando le azioni sono per se stesse riprensibili ; e però
a rendere condannabile il lusso, conviene che la profusione delle spese ab bia
per fine il procurarsi godimenti fri voli o dispregevoli, che entrar non pos
sono in alcuna di quelle classi di cose superflue, le quali possono per
l'usanza e per le condizioni civili divenir necessa rie. Avremo dunque una
definizione meno incompiuta del lusso, se diremo, essere l'eccesso delle spese,
fatte con animo di distinguersi, in vani e frivoli godi menti. Ma fermandoci a
queste idee avre mo forse soddisfatto i fini della filosofia morale, lasciando
indietro quelli della po litica economia, la quale dimostra come le ricchezze
sociali rinascono sempre da quelle spese o consumazioni, che sono per loro
stesse riproduttive di altri valori. Questa scienza o arte, per altra via cam
minando, viene a confermare e sostenere i precetti della filosofia morale;
imperoc chè distingue le spese improduttive dalle riproduttive, e dimostra che
la consuma zione del valori in obbietti di puro fasto, sottrae sempre un egual
somma di capi tali alla riproduzione degli obbietti della consumazione utile.
Le spese improduttive son quelle che disquilibrano le fortune degl'individui,
come quelle delle civili società: son esse che favoriscono la mollezza, e la
licen za, e mettono in perpetuo contrasto tra loro il fasto d'una classe colla
miseria d'un'altra. E di quale classe ? della più numerosa, più laboriosa, e
più necessaria alla conservazione della civil esistenza ! Un fastoso ricco, il
quale profonde in og getti di ornato, in cani, in cavalli, e in capricciosi o
voluttuosi piaceri le sue rendite, che sono il prodotto di capitali impiegati
nella utile produzione delle terre o della industria, sottrae direttamente ed
immediatamente le stesse rendite alla ri – 154 – produzione, cui sarebbero
naturalmente destinate. Egli sminuisce di tanto i suoi capitali produttivi di
quanto toglie al nu trimento e alla comodità del coltivatori e delle altre
persone laboriose che sono gl'in strumenti necessari della produzione: to glie
a costoro i mezzi del sostentamento e dell'agiatezza, e finisce per cadere egli
stesso nella miseria. Questo è il lusso cor ruttore della morale, il quale
distrugge le famiglie, consuma le ricchezze, e le ri volge alla distruzione
delle nazioni. Ren diamo ora compiuta la definizione del lusso per modo che
concili insieme i fini della sapienza morale e della scienza promotrice della
publica ricchezza. Tre sono i carat teri, che lo rendono condannabile dall'una
e dall'altra insieme : la ostentazione : il cambio d'un piacere frivolo o
vizioso per un altro più utile: la qualità d'una spesa dan nosa, perchè
improduttiva. V. Economia. LUssURIA (prat.), amor disordinato di dilettazione.
Il suo significato proprio è l'eccessivo amor della voluttà ; ma in un senso
più ampio si adopera per ogni sorta di viver molle, ed anche per lusso. Tal
doppio si gnificato ci vien da latini, colla differenza che il significato
proprio presso di loro era il generico, e per similitudine lo speciale della
voluttà. Un bel luogo di Tito Livio dimostra non meno il significato proprio
del voca bolo, che l'origine del lusso in Roma. Luxuriae peregrinae origo ab exercitu
asiatico invecta in urbem est. ii primum lectos aeratos, vestem stragulam
pretio sam, plagulas, et alia textilia, et quae tum magnificae supelleclilis
habebantur, monopodia et abacos Romam advere runt. Tune psaltriae
sambucistriaeque, et convivalia ludionum obleclamenta ad. dita epulis: epulae
quoque ipsae et cura et sumptu majore apparari coeptae. Tum coquus, vilissimum
antiguis mancipium, et aestimatione et usu, in praetio esse; et quod
ministerium fuerat, ars haberi coepta. via tamen illa quae tum conci piebantur,
semina erant futurae luxu riae. (Lib. XXXIX. cap. VI.). Non meno bello è il
luogo nel quale Cicerone parla della lussuria, come ec cesso di voluttà e di
libidine: Pertinet ad omnem officii quaestionem semper in promptu habere,
quantum natura homi nis pecudibus, reliquisque belluis ante cedat. Illae nihil
sentiunt, nisi volupta tem, ad eamque feruntur omni impetuº hominis autem mens
discendo alitur, et cogitando semper aliquid aut anquirit, aut agit, videndigue
et audiendi dele clatione ducitur. Quin etiam, si quis est paulo ad voluptales
propensior, modo ne sit ea petendum genere (sunt enim guidam homines non re,
sed nomine), sed si quis est paulo erectior, quamvis voluptate capiatur,
occultat et dissimu lat appetitum voluptatis propter verecun diam. Ex quo
intelligitur, corporis vo luptatem non satis esse dignam hominis praestantia,
eamque contemni et reiei oportere. Sin sit quisquam qui aliquid tribuat
voluptati diligenter ei tenendum esse effusfruendae modum. Itaque victus
cultusque corporis ad valetudinem refe rantur, et ad vires, non ad voluptatem.
Atque etiam si considerare volumus, guae sit in natura eccellentia et digni
tas, intelliganus quam sit turpe dif fluere lururia et delicate ae molliter vie
vere, quamque honestum, parce, con tinenter, severe, sobrie (de off lib. I.
cap. XXX). In questo senso medesimo egli – 155 – adoperollo in altro luogo
degli stessi libri: Mihil magis carendum senectuti, quam ne languori se,
desidiaeque dedat. Lu auria vero, cum omni aetati turpis, tum senectuti
foedissima est. Sin au tem libidinum etiam intemperantia ac cesserit, duplex
malum est, quod et ipsa senectus concipit dedecus, et facit adolescentium
impudentiorem intempe rantiam (ibid. c. XXXII.). La lussuria esprime alquanto
meno del la lascivia, perchè sebbene ambo i voca boli esprimano una smoderata
libidine ; pure la lascivia dinota ancora la publi cità e la pompa del vizio.
V. Lascivia. LUTTo (prat.), tristezza prodotta dalla perdita di persona a noi
cara.V. Tristezza. Belle, comechè piene di stoico rigore, son le considerazioni
di Seneca, per le quali l'uom sapiente rattemperar dee il lutto prodotto dalla
morte delle persone, che gli son care: eo aequiore animo esse debemus , quod
quos amisimus sequi mur: respice celeritatem rapidissimi tem poris: cogita
brevitatem hujus spatii, per quod citatissimi currimus: observa hunc comitatum
generis humani, eodem tendentis, minimis intervallis distinctum, etiam ubi
maxima videhtur: quem putas periisse, praemissus est (epist. XCIX.). – 157 -
CLASSI DE VOCABOLI COMPRESI SOTTO LA LETTERA L, FILOSOFIA CRITICA. FILOSOFIA
SPECULATIVA. Lente Litografia Larghezza Liquidità Lessico Litologia Latitudine
Liquido Letterale Logica Latte Logaritmo Letterato Logistica Lava Logica
Letteratura Longitudine Legge - Longimetria Lettere Luce Lente Longitudine
Licéo Luna - Libero Lontananza Linguistica Lusso Libertà . Luce Lichene Luna
Linea Lunghezza VOCI ONTOLOGICHE. Linguaggio Luogo Liquidezza e - Luogo MS
FILOSOFIA DISCORSIVA. Labbiale Lepidezza Lepido Lessico Lessicografo Lettera
Letterale Liberale Lingua Linguaggio Logica Loquacità Loquela Luogo TEOLOGIA
NATURALE. Longanimità FILOSOFIA PRATICA, Lacrima e Lagrima Lagnamento e Lagno
Laidezza Lamentazione Lamento Lascivia Latitudine Lautezza Lealtà Lecito Legge
Leggerezza Letizia Levità Libello Liberale Liberalità Libero Libertà
Libertinaggio Libidine Licenza Licenzioso Lietezza e Lieto Limosina Lode -
Longanimità Lusinga Lusso Lussuria Lutto - 1 9 – MI Mara (spec. e crit.),
instru mento, o assortimento d'instrumenti, con gegnato dalla facoltà
inventrice dell'uomo, come ausiliario del suo lavor manuale. Ogni macchina può
avere uno de se guenti scopi: o di accrescere gli effetti della forza motrice,
o di rendere eguale e uniforme l'azione della sua potenza, o di sminuire la
resistenza degli ostacoli , o di accorciare il tempo del lavoro. I mezzi
de'quali si vale l'ingegno umano per conseguire i cennati fini son tutti ri
posti nel trovar tali motori naturali, o ar tifiziali, che producano l'intero
risparmio delle forze dell'uomo, che le rendano conti nue, che le accrescano. A
ciò fare chiama in suo aiuto le forze degli animali, le cose inanimate, come
l'acqua, l'aria, il vento, il vapore, e gli stessi fluidi imponderabili, come
la luce, l'elettricità, il magnetismo. I meccanici han distinto le macchine in
semplici e composte, avendo noverato nella prima spezie quelle che sono di co
mune uso, e che entrar sogliono nell'as sortimento delle più complicate.
Checchè sia di cotal partizione, vuolsi notare, che v'ha una macchina preparata
dalla natu ra, nella quale sono impressi i tipi delle varie spezie del moto, e
che ha servito di elemento a tutte le altre. Questa è la mano dell'uomo. V.
Mano. MACCHINAMENTo e MACCHINAZIONE (prat.), l'operar con insidie, per riuscire
in un intento che vuolsi tenere nascoso. Differisce dalla trama, perchè presup
pone un apparecchio di mezzi più lungo ed artifizioso. V. Trama. - - - -
MACRoLoGIA (grec. sup.), vizio di ri dondanza di discorso, o di soverchia lun
ghezza di favellare. Ha nel vocabolo prolissità il suo equi valente. -
MAGNANIMITÀ (prat.), qualità d'animo portato a grandi e utili cose. . Il fior
di virtù definisce la magnani mità, l'attendere a belle, alte, valorose e
virtudiose cose. L'onestà e l'utilità non possono essere disgiunte, e quì per
utilità intendersi debbe il ben comune, dacchè se taluno amasse le grandi ed
utili imprese per sua pri vata utilità, come per cupidità ed avari zia,
meriterebbe il nome di audace e non di magnanimo: Cicerone, in conferma di tal
definizione commenda la bella sentenza di Platone: non solum scientia , quae
est remota a justitia, calliditas potius, quam sapientia est appellanda; verum
etiam animus paratus ad periculum , si sua cupiditate, non utiliate com muni
impellitur, audaciae potius no men habeat, quam fortitudinis (de off. lib. I.
c. 19). E la lode di maggior grandezza che darsi possa ad un uomo così
nell'operare come nel soffrire le avversità di fortuna. MAGNANIMo ( prat.), chi
è acconcio a grandissimi fatti, e gode di far grandi COSG. È definizione di Ser
Brunetto. Si ado pera ancora per epiteto d'imprese, e di cose degne d'un gran
cuore; nel quale senso bello è l'esempio che ne dà il Tasso º - 140 - parlando
di Sofronia che accusa se inno cente per salvare il popol suo: Magnanima
menzogna, or quando è il vero Si bello, che si possa a te preporre? (C. II.
st.). MAGNETE (spec.), o calamita, sostanza minerale ferruginosa che ha per sue
qua lità caratteristiche l'attrazione del ferro, e la polarità. - Quanto
all'attrazione, gli antichi la co nobbero per la sperienza del più visibile de
suoi effetti. La filosofia naturale pre tese di spiegarne la ragione per una di
quelle analogie, per le quali volevansi comprendere tutti i fenomeni della natu
ra. Talete, al dire di Aristotele, avendo riposto l'essenza dell'anima in tutto
quel che è atto a muovere, credette che la calamita fosse informata da
un'anima, appunto perchè ha la virtù di muovere il ferro. Cotesta ipotesi,
degna soltanto del l'infanzia della filosofia, non fu più da altri riprodotta.
I greci e latini scrittori, filosofi o poeti che fossero, limitaronsi a
descrivere gli effetti dell'attrazione, e spe zialmente quello della catena
composta di più anelli di ferro, i quali reggevano an cora alla forza del
vento. Ne parla Pla tone nel dialogo l'Ione, e bellamente la descrive Lucrezio
: Hune homines lapidem mirantur, quippe catenam Saepe ea annellis reddit
pendentibus ex se Quinque etenim licet interdum, pluresque ridere Ordine
demisso, levibus jactarier auris Unus ibi ea uno dependet subter adhaerens Ba
alioque alius lapides vim, vinctaque noscit Usque adeo permanenter vis pervalet
eſus. (Lucret. lib. VI. v. 91 o). Plinio narra che Dinocare, architetto,
incominciato aveva a fabbricare a volta in Alessandria il tempio di Arsinoe,
nel quale figurar doveva la sua statua, come sospesa in aria per virtù d'un
ferro (hist. nat. lib. XXXIV. cap. 14.). Circa poi la polarità, la sua scoverta
è dovuta agli sperimenti della fisica. Se si esponga all'azione della calamita
la li matura del ferro, le particelle di questa polvere non si distribuiranno
egualmente per la sua superficie, ma si aggruppe ranno in più pennoncelli in
due punti di versi, che sono gli estremi di una spran ga, o di un ago di
acciaio calamitato. I due punti diversi intorno a quali av vengono tali
aggruppamenti, son deno minati poli della calamita. Se le spran ghe o gli aghi
sieno sospesi per modo, che possano liberamente girare; o quando sieno situati
sopra pezzi di sughero, che gli faccian galleggiare sull'acqua; se si av vicini
loro una calamita per uno de suoi poli, vedrassi questa attrarre un de poli
della spranga e respignere costantemente l'altro, il quale è attratto dal
secondo polo della stessa calamita. Distinguendo cotesti due punti con un
qualche segno partico lare, per potergli riconoscere, scorgerassi che in un
tempo ed in un luogo medesi mo, essi volteransi sempre verso gli stessi punti
dell'orizzonte, l'uno a settentrione l'altro a mezzogiorno. A quest'altra impor
tantissima qualità della calamita è dovuta l'invenzione della bussola cotanto
utile alla navigazione. Vuolsi per ora quì notare, essersi dato nel moderno
linguaggio della scienza il nome di australe al polo della calamita che voltasi
al settentrione, e di boreale all'altro che voltasi al mezzo gior no per
esprimere l'azione reciproca e con traria delle calamite, le quali attraggonsi
pe poli opposti, e si respingono per quelli che portano la stessa
denominazione. L'esi – 141 – stenza di tali forze è dimostrato dallo spe
rimento di due calamite adattate l'una so pra dell'altra, polo sopra polo. Esse
non potranno essere disgiunte, se non mediante un grande sforzo, il quale
indica l'attra zione; laddove, cangiato il polo d'una delle due, non solamente
cessa ogni re sistenza, ma diviene sensibile la repul sione. Quale sia la causa
di queste forze di attrazione e di ripulsione insieme, e se i due fenomeni
dell'attrazione e della polarità dipendano dalla stessa o da di verse cagioni,
è rimaso, e rimarrà forse nel segreto della natura. La nostra igno ranza, non
ostante i progressi fatti dalle scienze fisiche, è rimasa qual era al tem po di
Cicerone il quale dopo aver parlato della virtù attraente della calamita, sog
giunse, at rationem cur ita sit, afferre nequeam. MAGNETIco (spec.), quel che
appartiene o si riferisce alla calamita, o magnete. Forze magnetiche sono state
dette l'at trazione e la repulsione, che si osservano ne poli della calamita.
La forza magnetica vien considerata da fisici come un fluido, e le due
contrarie forze come due fluidi sparsi nella massa del ferro, i quali com
binati insieme, si collidono e distruggonsi a vicenda; laddove separati per
modo che ognuno rimanga libero, e prenda sede in ciascuno de due punti della
calamita, rap pariscono allora i fenomeni dell'attrazione e della repulsione.
Cotesti fonomeni per una figura di convenzione spiegansi dai fisici, come se le
molecule del fluido che è ad un dato polo si respingessero tra loro, a guisa
del calorico, mentrechè uno di questi fluidi attrae quello dell'altro polo, e
ne viene attratto. Certamente queste at trazioni e ripulsioni si producono con
una intensità che va scemando colla distanza, e ad una doppia distanza diviene
quat tro volte minore, o sia decresce come il quadrato delle distanze, nel che
il fluido magnetico segue la stessa legge dell'elet trico. Il considerare la forza
magnetica come un fluido non è un'ipotesi che muta la sua essenza, ma è un modo
di conce pirla, atto a spiegare i suoi fenomeni, e ad annodargli ad un
principio comune, o sia ad una legge della natura che ri sulta dalla
osservazione de fatti partico lari. Quel che diciamo del fluido magne tico va
detto ancora dell'elettrico, del gal vanico, e di tutte le altre forze della na
tura, che i fisici son soliti comprendere sotto il nome di fluidi imponderabili
dei quali conosciamo gli effetti, senza poter penetrare nella causa che li
muove, e molto meno nell'essenza loro. V. Elettri cità , Galvanismo. MAGNETISMo
(spec. e erit.), la teorica, o dottrina delle forze magnetiche. MAGNETISMO
ANIMALE (spec. e crit.), dot trina misteriosa moderna, nata in Alema gna, la
quale presuppone il potere di pro durre in altri il sonno magnetico, o sia il
sonno di nottivaghi, o nottambuli, e di mettere per tal mezzo la persona addor
mentata o magnetizzata sotto la dipen denza del magnetizzatore. Innumerevoli e
incredibili maraviglie sono state scritte intorno a fenomeni di cotesto sonno
magnetico, i quali non po tranno prender luogo tra fatti scientifici, se non
quando sieno verificati per mezzo di publici, e solenni esperimenti, prati cati
o verificati da accademie, e da col legi scevri da prevenzione, e da ogni
esaltamento. – 142 – Per ora, se dee credersi alla moltipli cità delle
testimonianze, il solo fatto che può ammettersi come vero, è che tra per sone
di dispari forza, può l'individuo do tato di forza maggiore eccitare il sonno
magnetico nell'altro, che trovisi in uno stato di alterazione nervosa. Se
cotesto pas saggio ad uno stato violento e non natu rale, possa produrre
salutari effetti, il de ciderlo spetta alla medicina, la quale si nora non ha
trovato nulla per determinare la forza di tal rimedio, o per indirizzarlo ad un
certo e utile fine. Quanto poi allo stato di esaltamento morale che si predica,
all'acume, alla chiarezza del sensi che nel sonno acquista il magnetizzato,
alla sua antiveggenza pro fetica, e alla mistica comunicazione che si
stabilisce tra se e gli altri, i quali per mezzo del magnetizzatore formar
possono una catena magnetica, che a guisa del l'elettrica, fa sentire a tutti
quel che il magnetizzato sente; credan queste ed al tre simili dicerie coloro,
i quali si pascono del maraviglioso, o amano trovare feno meni che aprissero
loro nuove vie, per sollevarsi insino al cielo. MAGNIFICENZA (prat.),
liberalità che tra passa la comune misura dello spendere. È proprio dello
spendere del ricchi e grandi personaggi, i quali mettono la pompa anche
nell'esercizio della virtù. MAGNILooUENZA (dise. ), sinonimo di grandiloquenza,
che ci viene da un lati nismo. MAGNITUDINE (prat.), voce latina, che equivale a
grandezza, ma che non si ado prerebbe in tutti i significati del vocabolo
italiano, Si usa nel senso di cccellenza o perfe zione di virtù, e di altezza
di onore. MALAccoNcio (prat.), negazione di ac concio. Equivale al disacconcio.
V. questa voce. MALAcconto (prat.), uom che difetta del naturale e comune avvedimento.
MulacoLoGIA (erit.), parte della zoolo gia che tratta degli animali molli, come
i molluschi e i testacei. V. queste voci. È vocabolo usato da moderni zoologi
per ampliar quello di conchigliologia, che per la sua etimologia sembra com
prendere solamente i testacei, o sieno i molluschi coperti da nicchio. V.
Conchi gliologia. MALACREANZA (prat.), fatto contrario alle regole e alle
maniere del viver civile. È più della inciviltà, che esprime sola mente una
negazione della civiltà. V. que Sta Voce. MALADIzioNE e MALEDIzioNE (prat.),
detto per lo quale si pronunzia il male contra alcuno, questo desiderando e
imprecando. È definizione del Maestruzzo. Vale tanto nel senso d'una giusta
pena del vizio, quanto in quello di maligna imprecazione. V. questa voce. MALAFFETTo
(prat.), chi porta odio, o è disposto ad odiare. V. Odio. MALAGEvoLE (prat.),
quel che presenta difficoltà a superare. È alquanto diverso dal difficile, che
esprime un'idea più generica, cioè di quel che non è facile, tanto per la na –
145 – tura stessa della cosa, quanto per estrin seci ostacoli; sì che il
difficile differisce dal malagevole, quanto l'agevole dal fa cile. V. Facile,
MALANcoNIA e MALINCONIA (prat.), pas sione d'animo che produce continuo umor
tristo. È diverso dalla tristezza che propriamente è un sentimento più acuto e
profondo, ed anche di più corta durata; laddove la ma linconia è uno stato, o
un'abituale dispo sizione dell'animo. L'umor malinconico divenendo abituale e
fisso nell'animo è talvolta risguardato come uno degli stadi della mania.V.
questa voce. MALANNo (prat.), mal che si soffre per cattiva ventura. E però si
usa anche nel senso d'impre cazione. V. Male. MALARDrro (prat.), peggiorativo
di ar dito, e vale temerario o sfrontato. MALAvoGLIENZA e MALEvoGLIENZA
(prat.), desiderio di male per cagion d'inimicizia. Differisce dall'odio, che è
abborrimento inveterato, e dicesi tanto delle cose quanto delle persone;
laddove la malevoglienza si applica alle persone solamente. V. Inimi cizia ,
Odio. I nostri italiani han fatto differenza tra malevoglienza e malevolenza,
avendo dato a questo secondo nome il significato d'una cattiva disposizione
d'animo, che diremmo malignità. Cotesta differenza di significati, par che
trovi la sua ragione sufficiente nella diversa etimologia dell'uno e dell'al
tro vocabolo, essendo la malevoglienza un composto derivato di voglia, e l'al
tro del solo volere. La malevolenza in somma è sentimento d'un animo
malaffetto, contrario all'istinto socievole, o sia è il contrapposto della be
nevolenza. V. questa voce. MALAvvEDUTo (prat.), vale disavveduto, o incauto. -
È uno di quei sinonimi, i quali nascono da diverse voci negative o privative,
che possono, secondo l'uso della lingua, essere aggiunte allo stesso nome. V.
Sinonimo. MALCONSIGLIATo (prat.), chi male opera per altrui suggerimento.
Differisce dall'incauto e dal malaccorto, perchè in questi l'errore può nascer
solo da difetto di riflessione e di giudizio; lad dove in quello trovasi il
concorso del con siglio altrui. V. Consiglio. MALCONTENTo (prat.), addiettivo
che indica animo dispiaciuto, o non soddis fatto per cosa che gli è mancata.
MALcosTUMATo (prat.), di cattivi costumi. MALCREATo (prat.), vale non educato.
MALDICENZA (prat.), palesamento dei vizi o de difetti altrui. È vizio contrario
all'amistà e alla bene volenza, la quale ci obliga di compatire, e di tener
celati i fatti biasimevoli degli altri. Sembra che Cicerone lo confondesse
coll'odio, e coll'invidia, perchè lo definì, aegritudo ea eo, quod alter quoque
po tiatureo, quod ipse concupierit. (Tusc. IV. cap. 8.). L'odio e l'invidia son
passioni motrici della maldicenza, ma non possono essere confuse col fatto, che
n'è la conseguenza. La maldicenza ridotta in abito, siccome – 144 – notò
Teofrasto in uno de suoi caratteri non risparmia alcuno: comincia dagl'igno ti,
passa agli amici, indi a congiunti, e persino a trapassati. V. Invidia, Odio.
MALDisposto (prat.), di cattiva indole, o di animo che tende al male. V. Dispo
sizione. MALE (spec. teol. prat. e disc.), im perfezione delle creature, la
quale genera il dolore. L'imperfezione nelle creature è una con seguenza
necessaria dell'esser composto, dapoichè nascendo tutto per finire, uopo è che
la fine sia predisposta sin dal nasci mento per una graduale e successiva disso
luzione o corruzione. Il male dunque può essere ancora definito, il principio
della dissoluzione, inerente ad ogni mortal creatura. V. Corruzione,
Dissoluzione, L'uomo non sarebbe giunto a conoscere l'imperfezione propria e
delle altre crea ture (come non la conoscono i bruti) senza la superiore luce
della ragione, la quale scopre se perfetta, e imperfetto il corpo, cui è unita.
Così distingue le varie spe zie d'imperfezioni, alle quali le creature tutte
son soggette ; vede quelle che son comuni; discerne le proprie, ne conosce l'origine,
e a rispetto delle creature a se sottoposte, esercita quello stesso poter be
nefico, che eminentemente Dio spiega so pra tutti, per prevenire, riparare, o
ren dere tollerabile il male che con diversa mi sura a tutti sovrasta, come
conseguenza della comune condizione, cioè di Esseri materiali e composti. A
queste diverse spe zie d'imperfezioni corrispondono le varie denominazioni date
a mali. Senza parlar di quelle delle scuole, che sono tante, quanti sono in
ciascuna spezie i contrap. posti del bene, giova principalmente di stinguere il
male necessario dal contin gente necessario diciam quello inerente alla
condizione delle creature: contingente l'altro che può nascere dal fatto d'ogni
agente libero ed intelligente. Son queste le due spezie di mali, che molti han
de signato conomi fisici e morali, compren dendo ne primi, quelli che derivano
dalle leggi naturali (che noi chiamiamo condi zioni delle creature); e ne
secondi tutti gli altri, che nascono dall'abuso della ti bertà. Ma giova alla
chiarezza del lin guaggio filosofico ritenere la denomina zione di male morale,
come contrapposto del fisico, per distinguere così nel male come nel bene, e
nel dolore come nel pia cere quel che tocca i sensi, o che appar tiene allo
spirito. V. Contingente, Me cessario. Sin dal primo nascere della filosofia,
l'umana mente è corsa ad investigare l'ori gine del male necessario, per
ispiegare come potesse conciliarlo coll'infinita perfe zione e potenza
dell'Autor di tutte le cose; e ha domandato a se stessa, perohè il male è stato
da Dio permesso, e per chè nel male contingente, non ha fatto l'uomo più forte
per evitarlo? La prima domanda può essere così tradotta: per chè Dio non ha
fatto le sue creature perfette ? e la seconda: perchè ha fatto libero l'uomo?
Disputando intorno all'ori gine del male necessario, coloro i quali non seppero
rinegare il governo morale della Provvidenza, presupposero uno stato anteriore
delle anime, dal quale erano decadute per propria colpa, passando ad una vita
di espiazione e di sperimento. Tal fu il concetto di quelli che concilia rono
la necessità del male, o sia l'im perfezione delle creature, colla ipotesi - –
145 - della preesistenza delle anime. Altri più arditi presupposero avere
partecipato alla costituzione del mondo due opposti prin cipi coeterni e non
dipendenti l'uno dal l'altro, de'quali uno fu chiamato buono, l'altro reo ,
cioè il bene e il male. Co testi due principi furono dalla immagina zione
divinizzati, sì che gli uomini ono rarono e adorarono l'uno coll'amore e colla
riconoscenza, e l'altro col timore. Questa è la famosa dottrina de due prin
cipi, che invase la filosofia e le religioni della maggior parte dell'Asia, e
fu poi riprodotta dalla setta de manichei. Una terza dottrina in fine,
conciliar volendo l'esistenza del male colla infinita sapienza e bontà
dell'Ente Perfettissimo, professò che tanto il bene quanto il male sono stati
da Dio predisposti e coordinati al nostro meglio; che la permissione del male
nulla toglie alla sua infinita bontà e perfezione; che le leggi generali, per
le quali Dio reg ge il mondo son quelle che ne dimostrano la perfezione; e che
il male contingente, cui l'uomo è soggetto, è sempre alle sue azioni imputabile
; il perchè è egli sog getto alla punizione, e rimunerato dalla ricompensa.
Questa è la dottrina, per la quale si distinse la filosofia di Platone, e che
ricevette il nome di ottimismo, V. que Sla VOCG. - Ma la dottrina
dell'ottimismo è stata co mune anche a molti di quelli che hanno negato la
libertà delle azioni. Per co storo l'ottimismo è una legge di neces sità, la
quale mena l'uomo all'indiffe renza del bene e del male; attesochè an che il
male contingente vien da essi con siderato come la conseguenza dell'ordine
generale, e della nostra propria costitu zione. Non parliamo dello scetticismo,
il quale è pronto a raccogliere da tutte le false dottrine, e dalle loro
contraddizioni gli argomenti, che possono rafforzare le opinioni negative,
senza nulla statuire di affermativo. Qual è l'uomo di sana men te, che alla
vista di tante e sì strane opi nioni non sentirassi spinto a deplorare la
vanità di qualunque filosofia, che pene trar voglia nella investigazione delle
cause naturali, e del mistero della creazione ? V. Libertà, Vecessità. Il male
necessario, derivato dalla im perfezione della materia, perde tutto quel di
astruso, che sembra avere nelle dispu tazioni del filosofi ; siccome il male
con tingente riceve una facile e naturale spie gazione dalla certezza d'una
vita futura. Ed è pur cosa maravigliosa che gli uo mini stessi, i quali, per
istinto e per ra gione han veduto l'immortalità dell'ani ma, non sempre abbian
veduto la connes sione, che questa dottrina ha con quella del bene e del male.
Tanto è vero che per correre dietro alle fantasime dell'im maginazione, la
falsa filosofia si priva an che di quelle scintille di luce primitiva, per le
quali la natura ci ha dato i mezzi di sciorre i grandi problemi, che la mente
si forma, intorno alla sua futura sorte. V. Futuro , Immortalità , Vita. La
voce male, messa in composizione di altri nomi di qualità, dà al composto signi
ficati di negazione, di peggiorativo, d'in convenienza; o d'imperfezione, come
nevo caboli malacconcio, malaccorto, malage vole, malardito, mald'sposto,
malefico, malevolo, ed altri simili. V. queste voci. MALEFIco e MAI rizio
(prat.), ogni azio ne vietata, e punita dalla legge. È voce generica che
abbraccia anche i fatti illeciti, riprovati dalla legge di na tura e dalla
coscienza. 19 MALEvoLENZA. V. Malavoglienza. MALEvoLo (prat.), vale uom
disposto per prevenzione, a voler male. MALFARE (prat.), commetter cosa ille
cita, o sconvenevole. MALIGNARE (prat. e disc.), prendere i fatti o i detti
altrui nel senso il più sini stro, per cattiva disposizione d'animo con tra
qualcuno. MALIGNITÀ (prat.), cattiva indole, di sposta a nuocere altrui,
comechè non vi trovi l'utile proprio. Differisce dalla malizia e dalla malva
gità. V. queste voci. MALINCONIA. V. Malanconia. MALIZIA e MALIZIETTA (prat.),
conoscenza del vizio e delle pratiche sue. spesso ancora usato, come pensa
mento di mente dedita al male, e a'cat tivi abiti del vizio. Dante l'ha usato
nell'uno e nell'altro SCIlSO : Lo cielo i vostri movimenti inizia, Non dico
tutti, ma posto ch'io'l dica Lume v'è dato a bene e a malizia. Ed in altro
luogo dello stesso canto, Lo mondo è ben cosi tutto diserto D'ogni virtute,
come tu mi suone E di malizia gravido e coverto. (Purg. c. XVI. ). In ambo i
notati sensi l'adoperarono il Boccaccio, ed i moralisti italiani come Francesco
da Buti, il Passavanti ed altri. Vale ancora scaltrezza e furberia, nel quale
senso ammette il diminutivo mali zietta. MALo (prat.), add., qualità contraria
al buono. V. questa voce. MALORE (prat.), traslato delle malattie del corpo,
che si applica a mali e alle perturbazioni dell'animo. MALVAGIo e MALVAGITÀ (prat.),
qualità d'uomo cattivo, che di proposito segue il vizio, e le pratiche sue. Il
nome di malvagio esprime una qua lità peggiore del cattivo, che è propria mente
il contrario del buono.V. queste voci. MAMMIFERo (spec.), animal viviparo, a
sangue rosso e caldo, provveduto di mammelle, onde allattare la prole per lo
tempo, per lo quale non può questa da se alimentarsi. V. Animale. Le mammelle
sono state scelte da zoo logi per un segno, o carattere, atto a distinguere la
classe degli animali dotati di maggior forza, che diconsi perfetti, e dequali
l'uomo forma il primo ordine. V. Zoologia. MANCAMENTo (prat.), omissione, che
proviene da imperfezione, o da poca ri flessione. Quantunque esprima
genericamente l'idea d'un atto difettivo per errore o per col pa; pur
tuttavolta si adopera anche nello special significato di fallo, nel quale senso
vale alquanto meno di fallo, di difetto e di colpa. V. queste voci. MANcATORE
(prat.), chi non è fedele alla promessa, – 147 – MANIA (prat.), spezie di
pazzia, ac compagnata dal furore, V. questa voce. Considerata come una
malattia, la quale nasce da alterazione degli organi dell'en cefalo, appartiene
interamente alla mcdi cina. Risguardata poi come alienazione mentale, maggiore
di quella che si osserva in tutte le altre spezie di follie e di de menze, è
materia di congetture e d'ipo tesi tanto oscure, quanto l'è la spiegazione del
rapporti che la natura ha stabilito tra le funzioni degli organi e le
operazioni dello spirito. Quel che sembra men dub bio, per le osservazioni fatte
sopra i ma niaci, è che la percezione loro non cor risponda alla realità degli
obbietti esterni, o sia che questi non giungono all'animo quali sono ; dacchè i
furiosi divengono spesso insensibili al freddo, al caldo, alla fame e anche a
dolori, non che indiffe renti alla vigilia e al sonno; e sogliono vedere in
quelli, che sono loro d'intorno, altrettanti nemici preparati, in atto di per
euotergli e di fare loro del male, V. Fol lia, Furore. MANIERA (prat. spec. e
dise.), modo di essere, o di comportarsi nell'operare, nel pensare, o nel
discorrere, che il rende va rio per gli accidenti e non per la sostanza. Vale
ancora spezie, sorta, o qualità , sì che diciamo cose ed uomini di diverse
maniere. Aristotele considerando le maniere come abito, ne fece la decima delle
sue cate gorie. V. Categoria. Come ab.ti vengon considerate le ma niere nel
cornune significato, perchè sotto questo nome intendiamo l'espressione dei
costumi, per la quale giudichiamo delle qualità degli uomini nel loro rapporti
colla civile società; e però chiamiamo maniere il portamento e tutte l'esterne
forme del con versare; e distinguiamo le belle o le gen tili maniere, dalle
cattive e dalle ruvide. Nell'arte del dire e nelle altre arti imi tative, vale
un che di studiato, o di affet tato, che si allontana dal semplice e dal
naturale; sì che diciamo stile, disegno, e pitture manierate. MANIFESTo
(disc.), quel che è per se stesso chiaro, e toccasi quasi con mano. Scambiasi
dall'uso coll'aperto, col chia ro, coll'evidente, col notorio, col pa lese e
col patente, ma ciascuna di cote ste voci esprime una diversa gradazione di
chiarezza, e la ragione della diversità nasce dalla rispettiva loro etimologia.
Aperto è quel che è stato svolto per mezzo di spiegazione, e di ragionamento:
chiaro è quel che per luce di ragione o di discorso si rende facile e noto: evi
dente è quel che non può non esser da tutti veduto, o perchè chiaro di per se,
o perchè dimostrato: notorio è quel che è divenuto noto per divolgamento:
palese è ciò , che da ignoto che prima era , si rende noto col discorso:
patente, quel che è noto per l'apparenza stessa delle cose. Non solamente
l'etimologia di ciascuno de' divisati nomi, ma l'uso del buoni scrit tori
dimostra esser questo il significato loro proprio: aprire il vero d'ogni cosa,
far chiaro quel che da prima non s'inten de, far palese quel che celato era ha
detto il Boccaccio. Il manifesto dice più di tutti, così nell'italiano, come
nel lati no, da cui ci viene un tal nome: eius modi res, disse Cicerone, ita
notas, ila testatas, ita magnas , ita manifestas proferam (contra Verr. II. c.
16. ). ll sin qua detto dimostra che i voca boli simili, che il comune uso di
par se – 148 – lare confonde nella classe de sinonimi, non sono tali, quando
vadasi a cercare nelle etimologie la ragione del loro significati. V. Evidente,
Sinonimo. MANo (spec. e prat.), uno delle due membra date all'uomo, come organo
im mediato del tatto e del moto attivo; dotato della forza di prendere, di
strin gere, e di fermare i corpi di qualunque volume; capace di ricevere tutte
le sensazioni del tatto, e le impressioni di tutti i corpi, so lidi, fluidi, o
aeriformi che sieno, per dare all'anima le conoscenze delle qualità della
materia, niuna esclusa, la coesione delle parti, l'estensione, le sue dimen
sioni, la mobilità, il peso, l'aridità, la fluidità, l'elasticità ; atto a
muovere i corpi esterni, e a im primere loro ogni sorta di moto ; corredato
infine di tale agilità, pieghe volezza, e destrezza di articolazioni, che lo
rendono l'instrumento generatore di tutte le macchine. Alle divisate proprietà
della mano cor risponde la struttura delle sue parti. La delicatezza e la
fermezza insieme de suoi integumenti; la moltiplicità del nervi, in vari sensi
distribuiti, che si spandono per tutte le glandulette subcutanee della sua
palma; la proporzionale lunghezza delle dita, e la somma loro mobilità; la
polpa cellulosa e vascolare degli estremi loro, custodita e difesa dalle
unghie; la facilità con cui il carpo il metacarpo e le falanci muovonsi le une
sopra le altre; la dispo sizione e la prontezza del muscoli nell'ob bedire alle
varie articolazioni delle dita, lasciando libero e indipendente il pollice, che
da esse è separato; tutte queste va rietà di conformazione rendono ragione
delle belle attitudini della mano, e fan manifesto il disegno di dare all'uomo
il potere e i mezzi per accrescere la potenza delle sue forze, per crearsi
mezzi ausiliari di lavoro, per aggiugnere in somma la destrezza alla forza.
Tutti coloro i quali han contemplato la struttura del corpo umano, hanno in
quella della mano ri conosciuto i fini del Creatore. Galeno os servò che la
struttura della mano dell'uomo presuppone la ragione; per modo che la sua
qualità di animal ragionevole è dimo strata dalla sua intelligenza, del pari
che da mezzi di esecuzione che la natura gli ha dalo. Cicerone fece un
grandioso e subli me apparato della struttura della mano, di cui basta citare
l'ultimo concetto: no stris denique manibus in rerum natura quasi alteram
naturam efficere conamur. (de nat. deor. l. II. c. 6o). Gli atei per contrario,
che nulla leggono nel disegno e ne fini del Creatore, riposero il carat tere
distintivo dell'uomo nella conforma zione della mano, e osaron dire che se in
luogo di questa, fossero stati i nostri polsi terminati da un piede di cavallo,
non saremmo dissimili dagli altri bruti. Che stolta ipotesi, che miserabile
filoso fia, la quale ritorce contra l'esistenza del Creatore quel che più
chiaramente dimo stra la sapienza e i fini delle opere sue! V. Dita , Macchina
, Moto, Tatto. MANSUETUDINE (prat.), abituale placi dezza dell'animo nel
resistere a moti del l'ira, e nel sopportare le avversità. È un senso traslato
dalla dimestichezza, alla quale l'uomo riduce gli animali in domiti e le fiere.
- È proprio de costumi sempre temperati ed eguali per benigna inclinazione, o
per abito di assuefazione e di pazienza, – 149 – Nel senso di virtù usata dal
superiore verso l'inferiore, equivale a benignità, e a clemenza. V. queste
voci. MARAvIGLIA (spec. e prat.), commo zione d'animo che ci rende attoniti,
per la novità d'un fatto non prima noto, o non atteso. La maraviglia può trarre
dietro a se la semplice sorpresa della novità, e se questa ci è utile o
gradevole, anche un sentimento di benevolenza, che dicesi am mirazione. V.
questa voce. La maraviglia suol dirsi essere figlia del l'ignoranza, nel senso
che la più parte delle cose apprese per la sperienza o per la scienza, giungono
nuove all'ignorante e all'idiota. D'altra parte il non sen tire maraviglia, e
il non ammirare nulla in tutto quel che avvenir può di grande e d'ingegnoso, è
lo stesso che professare un aperto disprezzo per la scienza, ed una piena
indifferenza per lo bene e per lo male. Una tal maniera di sentire è quella
malattia dell'anima, che dicesi apatia, e che ridotta in pratica formò la
dottrina degli epicurei: è la dottrina poeticamente esposta da Orazio: Nil
admirari, prope res est una , Numici, Solaque, quae possit facere et servare
beatum. MARAVIGLIOso (spec. disc. e prat.), tut to quel che esce fuor delle
comuni regole della natura. Considerando le opere della natura sen sibile
separatamente da quelle dello spi rito e della intelligenza, distinguiamo il
maraviglioso del sensi dal maraviglioso della ragione. I giganti, i mostri, e
tutte le eccezioni che si scontrano negl'indivi dui e nelle spezie,
appartengono al ma raviglioso desensi. Le cause invisibili dei fatti della
natura, e tutto il soprannatu rale, cui l'uom crede e creder dee per fatto
della stessa natura, forma il mara viglioso della ragione. Sin qua del ma raviglioso
naturale. V. Matura, Sopran naturale. Ma v'ha un'altra sorta di maraviglioso,
che chiameremo artifiziale perchè nasce dalla imitazione, o sia dalla virtù che
la natura ha dato all'uomo di contraffare le opere sue, e di comporre i suoi
pensieri sopra gli esempi che da lei riceve. La facoltà dell'animo, in cui
risiede cotesta virtù imitatrice, è l'immaginazione, la quale crea immagini e
figure per cavar da esse il vero, o il bello. Questa spe zie di maraviglioso è
somministrato dalla finzione. Tanto il maraviglioso della natura, quan to
l'artifiziale somministrano i più belli ar gomenti, che trattar possano la
poesia , e le arti imitative. Più difficile è l' imi tazione del maraviglioso
naturale, perchè chi imprende a rappresentarlo o a descri verlo, dee sapere
sollevarsi insino all'al tezza e alla grandiosità della natura , e sostenersi
in quell'altezza col pensieri, e colla espressione: in ciò son riposti il dif
ficile dell'arte, ed il carattere distintivo de grandi poeti e de grandi
artisti. Più ampio è il campo del maraviglioso artifiziale, nel quale riuscir
possono an che mediocri ingegni, purchè rispettino i due principali requisiti
d'ogni finzione che si prefigge d'istruire o di dilettare, cioè il possibile ed
il verisimile. V. Fin zione, Imitazione. MARE (spec. e crit.), la massa delle
ac que salse, che coprono la più gran parte della superficie del globo, e
circondano - 150 – l'altra che si eleva sopra del loro livello, dividendola in
vari continenti ed isole. In un senso meno ampio, mari si son chiamati le
porzioni dello stesso fluido, le quali penetrano nell'interno delle terre, o
son da queste circondate, e si è da taluni riservato il nome di oceano alla
grande massa, da cui tali porzioni si distaccano. La separazione loro avviene
per aperture più o meno grandi, per mezzo delle quali conservano ancora la
scambievole comu nicazione. Per aperture intendonsi i var chi formati dalle
terre sottoposte al mare, che per quelle vie si spande occupando tutto quel che
sta sotto al suo livello. Di tal natura sono il mar mediterraneo, il mare
rosso, il mare delle Antille, il mar della China, e gli altri mari i quali
prendono nome dalle coste e dalle terre che bagnano. Lo stesso nome dassi a
grandi recipienti d'acque salse o dolci, i quali sono chiusi interamente dalle
terre che li circondano, comechè non abbiano alcuna apparente comunicazione col
mare, nel quale nume ro, sono il mar Caspio, il mare d'Aral, il mare morto, o
lago asfaltico, e al tri. Certamente sarebbe più proprio distin guere l'un
vocabolo dall'altro, ma così gli antichi come i moderni hanno promi scuamente
dato il nome di mare a tutta la parte fluida del globo, e alle sue di verse
sezioni; e della voce oceano si son serviti come d'un termine di relazione per
distinguerlo da mari interiori. Lasciamo alla geografia fisica il determinare i
loro significati; alla fisica la disamina delle va rie leggi del moto, alle
quali le acque del mare obbediscono, e come queste co spirino al movimento
generale del globo di cui fan parte; alla chimica le proprietà delle dette
acque, insiem colle cause che le differenziano dal comune fluido desti nato a
fecondar la terra e ad alimentare i suoi abitatori; alla storia naturale la co
noscenza delle innumerevoli spezie di ani mali che popolano il mare, e di
piante che vi vegetano con una economia affatto diversa della terrestre.
Riunendo insieme tutti gli obbietti, che partitamente esamina ciascuna delle
indicate scienze, qual nuo vo campo di meditazione non si apre alla mente
dell'uomo circa la immensità delle opere della natura, e circa la maravi gliosa
armonia che regna tra le diverse parti dell'universo! Il volgo riguarda il mare
come un ac cessorio della terra, e come una via di comunicazione tra le diverse
regioni del continente; ma l'uomo contemplatore non prima comincia a studiare i
rapporti del mare col globo intero, e colle parti stesse del continente, che
resta attonito in vedere che il mare abbraccia quasi tre quarte parti
dell'intera superficie del globo; dac chè decentoquarantotto milioni e cinque
cento mila miglia quadrate (5,1ooooo mi riametri quadrati), a quali i geografi
fanno ascendere l'intera superficie del globo, il solo mare ne prende
centosette milioni e set tecento mila miglia (3,7ooooo miriametri quadrati),
vale a dire quasi tre quarte par ti. E passando ad esaminare la figura dei
continenti e demari, tosto si accorge, che tutte le disuguaglianze che osserva
nella terra ora abitata, esistono ancora nel fondo del mare; che le isole non
sono se non le cime di alte montagne, delle quali le basi e le radici son
coverte dall'acqua ; che le cime di altre montagne mene alte vengono a fior
d'acqua; che v'ha in som ma nel mare come nella terra pianure, valli, profondi
valloni, scoscese, e pro minenze di diversa misura; che la super – 151 – ficie
della terra è composta di strati di ma terie diverse ; che il primo di tali
strati destinato alla vegetazione delle piante e alla nutrizione degli animali
è un misto di particelle animali e vegetali ridotte in polvere, nella quale più
non si ravvisano vestigie dell'antico organismo; che a tale strato sottostanno
altri composti di sab bia, di materia calcarea, di argilla, di rottami di
conchiglie, di marmo, di ciot toli, di creta, di gesso; che ognun di detti
strati soprastà paralellamente all'altro, conservando sempre la medesima
spessezza in tutta la sua estensione; che nelle adia centi colline, gli strati
delle stesse materie trovansi al medesimo livello, quantunque le colline sieno
separate da grandi e pro fonde distanze. E continuando ad esami nare la
disposizione e il naturale stato delle terre osserva, che negli strati i più
solidi, come quelli delle rocce, delle cave di marmi e di pietre v ha sempre
delle fenditure perpendicolari all'orizzonte; che nell'interno delle terre,
come sulle cime de monti, e ne luoghi i più lontani dal mare scontransi
conchiglie, carcame di pesci e piante marine, simili alle spezie ora viventi;
che le conchiglie e i nicchi trovansi tanto nell'interno delle rocce, dei
marmi, e delle pietre le più dure, quanto nelle crete e nelle terre; che vi si
trovano rinchiuse, incorporate, petrificate, e ri piene della materia stessa,
nella quale sono state inviluppate e avvolte ; che in somma da per ogni dove le
terre, le pie tre, e le materie terrestri d'ogni sorta son piene di avanzi
d'animali e di materie ma rine. Di tutte queste osservazioni fa tesoro la
geologia per conchiudere che la super ficie della terra, fu ne'primi tempi
della creazione men solida di quel che poi di Venne, che fu altra volta coverta
dalle acque del mare, anche al disopra delle più alte cime delle montagne; che
cotesta dimora delle acque del mare spiega non solamente il paralellismo degli
strati oriz zontali, e l'inclinazione loro nelle terre montuose, ma svela
ancora il perchè gli strati delle materie più pesanti si trovino spesso posti
sopra gli strati delle più leg giere, e come dal ritiramento delle ac que, e
per conseguente dal disseccamento delle sostanze terrose, sieno nate le fen
diture perpendicolari delle masse pietrose. Di quanto cotesta scienza non
amplia l'umana cognizione? quale largo uso d'in duzione non porge alla ragione?
Quanta materia di meditazione non somministra all'uomo contemplatore delle
maraviglie dell'universo? Insino a che la geologia, seguendo il destino delle
altre scienze na turali, è corsa dietro alle ipotesi, le così dette teorie
della terra combattevansi le une colle altre. Buffon fu il primo che la mise
sul cammino dell'osservazione e del l'analisi de'fatti. Da quel tempo si ha
ella aperto degli spiragli per leggere nel seno della natura, e dell'antichità.
Il suo più bel frutto è l'aver dimostrato la concor danza delle osservazioni
naturali colla sto rica tradizione del genere umano, V. Geo logia, Terra ,
Tradizione. MARRANo (prat.), vale infedele o mis leale. Uom senza legge e senza
coscienzia Traditor ghiotto eretico e marrano. Berni. MARTE. V. Pianeta.
MARTIRIo (teol. e spee.), vocabolo con secrato al glorioso supplizio di quelli,
che innanzi agl'infedeli facevan publica pro fessione della fede cristiana. –
152 – Ma lo stesso vocabolo può e debb'essere applicato al sacrifizio della
vita, o di altro grave interesse materiale, fatto per l'adem pimento d'ogni
indispensabile dovere. Di tutti i doveri che c'impone la legge di natura, il
maggiore è la giustizia, con siderata tanto come virtù publica, quanto come
virtù privata. Martire è il giudice che paga colla vita, o colla miseria l'im
parziale esercizio del suo ministero, e l'in dipendenza del proprio giudizio;
di mar tire merita il nome l'uom giusto, che ri cusa di conservare la vita a
spese del più lieve diritto altrui. Più glorioso ancora è il martirio che
dettar suole quella sublime benevolenza, che noi cristiani chiamiamo carità.
Niun' altra virtù , quanto questa trasforma l'uomo in uno spirito celeste,
perchè non il dovere, ma il puro amor del bene altrui lo muove a sagrificargli
la vita con tutte le illusioni sue. Quanto non venereremo coloro che per
sovvenire agli altrui bisogni, condannano se stessi alla miseria ; che spendono
la fortuna e la vita per istruire, per educare, o per ricondurre al sentiero
della virtù i travia ti; che ne naufragi corrono a salvare gli altri col
manifesto pericolo della loro vita; che nelle pestilenzie e ne contagi per
nulla contando le infermità e la vita stessa van no ad apprestare soccorsi e
conforto alle vittime della miseria, dell'avarizia e del l'egoismo? Che vale
una vita conservata a spese della infelicità altrui? La religione cristiana ha
perfezionato e sublimato tutti i doveri naturali e le virtù predicate dalla
ragione; e nell'esempio del primo de'doveri verso Dio, ha adom brato ancora
quelli verso degli altri, e di noi stessi. E però generalizzando l'idea
contenuta nel martirio religioso, diremo che ogni dovere ed ogni virtù porta
seco l'obligo del martirio. V. Carità, Dovere, Giustizia, Virtù. MASSIMA (spee.
e disc. ), proposizione generale evidente, la quale serve di prin cipio, o di
fondamento al ragionamento. V. Principio, Ragionamento. Comechè cotesto
vocabolo sembri essere un sinonimo di assioma, ciò non ostante de essere l'uno
dall'altro distinto, riferen dosi spezialmente gli assiomi a quelle ve: rità
che servon di fondamento alle scienze. V. Assioma, Scienza. Della utilità delle
massime nel ragiona. menti logici, si è disputato dal momento in cui
cominciossi a rivocare in dubbio l'utilità del sillogismo, o sia dal punto in
cui nelle scienze fu inteso il bisogno, più dell'osservazione e del metodo
induttivo, che delle dimostrazioni sintetiche. Locke pretese, che le massime o
sieno le verità generali non sono di veruna utilità alle scienze, dapoichè non conoscendo
noi la vera essenza delle cose, possiamo inten dere chiaramente la convenienza
o discon venienza delle idee a rispetto del termini o delle proposizioni colle
quali vengon quelle enunziate; ma non mai possiamo conoscere i veri caratteri
naturali, che de terminano l'essenza di ciascuna spezie. Di qua derivò egli,
che non si dà vera evi denza immediata d'alcuna massima, e che in poche massime
può darsi l'evidenza immediata determini, ma non tale, che non abbia bisogno di
qualche pruova o dimostrazione. Della pretesa evidenza delle massime generali,
dissegli, essersi dalle scuole abusato, allorchè assumevansi come vere e
indubitate talune verità riconosciute, le quali non pertanto non potevano
essere risguardate come principi o verità di pura intuizione. In somma Locke
ammise l'uti Rus lità delle massime, considerate come re gole di metodo
nell'insegnamento, ma non come principi pe quali potesse otte nersi il
progresso delle scienze, e credette confermare la sua opinione coll'esempio
dell'ammirabile opera del principi della filosofia naturale di Newton, il quale
di mostrò molte nuove verità, senza ricorrere alle massime, quel che è, è, o a
quel l'altra, il tutto è maggiore della parte. L'opinione di Locke era in parte
la con seguenza del suo falso principio intorno alla verità delle idee
immediate, e in par te ancora era suggerita dalla prevenzione contra la
filosofia scolastica. L'abuso delle massime, o sia l'avere assunto come ve rità
certe molte proposizioni convenute, è stato uno degli errori della filosofia
scola stica, ed uno de grandi ostacoli del pro gresso della filosofia
intellettuale; ma il proscrivere le massime sarebbe lo stesso che dichiarare
inutili le verità generali, e condannare la sintesi. La certezza delle ve rità
generali dipende dalla giusta nozione delle prime verità e de principi
dell'umana cognizione, e non dalla sola convenienza determini colle idee, unica
sorgente, se condo Locke, di tutte le nostre conoscen ze. Così il suo falso
concetto della inuti lità delle verità generali rannodasi in ul tima analisi
coll'unico principio del suo sistema intellettuale. V. Cognizione, Prin cipio,
Verità. MAssIMo (spee. e crit.), la quantità va riabile, che non è capace di
altro accre scimento. È termine del matematici, i quali con trappongono al
massimo il minimo (l'ul timo termine di diminuzione, di cui è ca pace la
quantità variabile), e fondano so pra entrambi il metodo così detto de mari mis
et minimis. La ragione sulla quale è fondato un tal metodo è, che una quan tità
crescente e decrescente passa per due opposte differenze: allorchè procede nel.
l'aumento, la differenza è positiva, e per contrario diviene negativa quando è
nella scala della diminuzione. Ora una quantità che passa dal positivo al
negativo, e dal negativo al positivo, dee nel passaggio essere eguale al zero,
al niente, o all'infi nito, che è quel che l'algebra espone col la formola
dy=o. I matematici si servono delle ordinate d'una curva per dimostrare le
quantità crescenti e decrescenti, alle quali applicano il calcolo de massimi e
de minimi. Leibnizio credette che coll'aiuto di co testo calcolo potesse ancora
la metafisica rendere più chiare le nozioni dell'infinito e del minimo, come
del massimo e del perfettissimo; il perchè lo fece entrare nel la sua
caratteristica, o arte combinato ria delle grandezze. V. Caratteristica.
MATEMATICA, osctENZEMATEMATICHE (crit.), versano circa le proprietà della
quantità o grandezza, sia continua, sia discreta. V. Grandezza, Quantità. Le
scienze matematiche son comunemente divise in due classi, le pure cioè e le
mister quelle considerano in astratto le proprietà della quantità: queste se ne
occupano nel concreto, vale a dire discendono all'appli cazione delle verità e
deteoremi geometrici adiversi subbietti delle scienze fisiche, alle quali somministrano
ancora i metodi per la invenzione e per la dimostrazione. Fra le miste sono
state con particolar nome de signate le scienze fisico-matematiche, le quali
geometricamente spiegano le cause di molti fenomeni naturali, e ne determi mano
gli effetti; ma sì le une che le al tre entrar possono in una sola classe più -
20 – 154 – generica, che è quella di matematiche applicate alle scienze
fisiche. (V. il di scorso preliminare, scienze della natura). MATEMATICo
(crit.), nell'addiettivo, è tutto quel che si riferisce al metodo o alle
scienze di questo nome; e nel sostantivo, colui che le professa. MATERIA (spec.
ontol. e crit.), la so stanza del corpi, nota per le sue qualità sensibili. V.
Sostanza. Tra le qualità sensibili della materia chiamiamo essenziali quelle,
per le quali tutti convenevolmente la concepiscono, cioè l'estensione, la
solidità o impenetra bilità, la figura, la divisibilità, e la mo bilità. V.
queste voci. Cartesio distinse le qualità primarie dalle secondarie nella
materia, per la chiarezza maggiore dell'idea che acquistiamo delle une per
rispetto alle altre; dacchè conoscia mo la grandezza e la figura in un corpo,
meglio del colore, dell'odore e del sapore. Locke chiamò primarie o originali
quel le che noi percepiamo come inseparabili da corpi, e che tali appariscono a
nostri sensi, in qualunque stato trovisi un cor po, o qualunque delle sue
parti. Tali era no a senso suo la solidità, l'estensione, la figura, il moto,
la quiete, il numero, Denominò poi secondarie quelle che hanno la potenza di
produrre in noi diverse sen sazioni per lo mezzo delle primarie, come i colori,
i suoni, i sapori, il caldo, il freddo ec.; delle quali sensazioni non possiamo
dire se la causa sia in noi, nei corpi stessi, o nelle cose che ci circon dano.
V. Qualità. Il dottor Reid seguì la partizione delle qualità della materia,
proposte da Locke, ma escluse il numero dalle primarie, per chè l'idea di
quello va considerata come un'astrazione dell'animo, e non come una percezione
diretta ed immediata della sen sazione. D'altra parte aggiunse alla soli dità
ed all'estensione, la divisibilità, la durezza, la mollezza e la fluidità. Il
signor Royer Collard, avendo consi derato la figura come una modificazione
dell'estensione; la solidità, l'impenetrabi lità e la resistenza come una
stessa cosa; la durezza la mollezza e la fluidità come diversi gradi della
solidità, la divisibilità e la mobilità come idee complesse, le quali
presuppongono l'esercizio della memoria congiuntamente all'idea del moto;
ridusse le qualità primarie alle due principali, l'estensione e la solidità.
Cotesta ridu zione è plausibile sempre che si parli delle qualità essenziali,
ma v'ha di altre qualità sensibili, che formano il suggetto delle
investigazioni della fisica. Tali sono la porosità o sia la proprietà ne corpi
di non avere le loro molecule a contatto: la compressibilità o sia la capacità
che i corpi hanno di essere ridotti ad un volume minor dell'ordinario:
l'elasticità, o sia la vir.ù che hanno di ripigliare dopo la compres sione
l'antica loro forma e volume : il peso, o sia la tendenza che tutti nella loro
caduta hanno verso la terra, quando non sieno ritenuti ; tendenza la quale è
dimostrata ancora dalla pressione che ogni corpo esercita sopra degli altri che
gli sot tostanno. Una tal qualità non è meno in portante per la generalità
delle leggi, le quali ne regolano gli effetti nella caduta e nel moto di tutti
i corpi solidi, che per la eccezione de così detti imponderabili, il peso
dequali per la sua infinita tenuità si sottrae ad ogni osservazione denostri
sen si. V. Compressibilità, Elasticità, Im ponderabile, Peso, Porosità. – 155 -
Materia prima fu detta da Aristotele quella ch'è priva della sua forma, o sia
uno de principi di tutte le cose. Questi prin cipi, secondo lui, eran due, la
genera zione e la corruzione. Principi della ge nerazione erano la materia e la
forma, sì che la generazione altro non era, che l'unione dell'una e dell'altra
insieme, raffi gurata la materia coll'idea della materni tà, e la forma con
quella della paternità. V. Generazione. La materia prima non aveva per se
stessa qualità, proprietà, o accidenti di sorte alcuna ; in atto era nulla, ma
in potenza tutto; appetiva la forma, ed era capace di qualunque delle varietà
della forma stessa, per modo che appena ne la sciava una, prendevane un'altra.
La cor ruzione per contrario distruggeva l'opera della generazione, separando
la materia dalla sua forma sostanziale. La materia se condo Aristotele, del
pari che secondo i Pitagorici e i Platonici, era eterna. La dot trina di queste
scuole variava non pertanto a rispetto dell'idea delle forme. V. Cor ruzione,
Forma. Nella moderna filosofia, Cartesio separò interamente il mondo materiale
dallo spi rituale. La materia si concepisce da sensi, per le sue qualità,
l'estensione, la figu ra, il moto; è inanimata, incapace di sentire, inerte, o
sia incapace di operare qualunque spezie di cangiamento nel suo modo di essere;
incapace finalmente di pensare, per modo che questo è quel che la distingue
dallo spirito, l'esistenza del quale ci è manifestata da una sorgente af fatto
diversa da sensi, qual è il sentimento dell'Essere pensante, o l'Io.V. questa
voce. Al vocabolo materia dassi ancora nel linguaggio scientifico un
significato equi valente a quello di sostanza materiale; e però diciamo materie
animali, vegetali, organiche, o inorganiche per esprimere la diversa condizione
de corpi considerati per la vita, per l'organismo o per la pri vazione dell'una
e dell'altra. V. Corpo. Materia verde furon chiamate da Priest ley le molecule
vegetali, che si sviluppan dall'acqua stagnante s lle pietre, nel fondo degli
stagni e del fossati, sopra i quali ri posano le acque. Cotesta materia verde,
insieme con quegli altri rudimenti vege tali conosciuti col nome di lichene, e
co gli animaletti, detti infusori, hanno som ministrato argomenti a fautori
della ge nerazione spontanea per dimostrare l'esi stenza d'una forza plastica
nella natura, la quale forma e compone l'organismo. Ma costoro han creduto
trovare nella ma teria verde segni e caratteri organici con tra le osservazioni
e il giudizio dello stesso Priestley, il quale dietro le più accurate
osservazioni microscopiche, affermò non avervi trovato alcun vestigio di
organismo animale o vegetale, e non considerollo altrimenti che come un sedimento
moc cioso, colorato dall'acqua. V. Genera zione, Infusorio, Lichene.
MATERIALISMo (spee. e crit.), dottrina di coloro, i quali professano, che i
fenomeni naturali sien prodotti da potenze attive, ine renti alla materia; che
riconoscon questa, come la sola causa produttrice degli Es seri organici; che
ripongono l'intelligenza nell'organismo; che dicono eterna essere la materia;
che sostengono esser materiale l'anima; che ammettono come sostanza universale
ed unica la materia; che affer mano essere la Divinità sparsa nella mate ria; o
che in qualunque modo negano l'esi stenza dello spirito, o sia della sostanza
in telligente. V. Essere, Materia, Spirito. r – 156 – MATERIALISTA (spec.), chi
professa il ma erialismo in uno desensi di sopra additati. MATERIALITÀ (spec.),
l'astratta qualità del materiale, o di ciò che è materia. V. questa voce. È
vocabolo frequentemente adoperato per esprimere l'insana dottrina di quelli i
quali negano la sostanza spirituale dell'anima, o ammettono come possibile, che
sia l'a- nima una emanazione della materia. Così per contrapposto
l'immaterialità serve a di notare la comune dottrina della spiritualità.
MATERNITÀ (spec. e prat.), la qualità o l'essere di madre. Va quì considerata,
meno come la causa immediata, o come la forma dell'Essere generato, che come la
potestà conserva trice della prole, e come la depositaria degl'istinti, pe
quali gli animali si svi luppano e si riproducono. I sessi unisconsi per
l'istinto, il quale insegna ancora agli uccelli l'arte di co struire i nidi, e
di covare le uova. Noi bene intendiamo come la natura conduca gli animali a
depositar le uova, cioè per una funzione necessaria, dettata dal biso gno di
liberarsi dal peso loro. Concepiamo del pari, come dopo questa prima ope
razione vada guidando le madri all'altra funzione della incubazione.
Un'accensione febbrile fa sentire la necessità di sgra varsi dell'eccessivo
loro calore, comunican dolo alle uova sopra le quali giacciono. Ma non possiamo
in verun modo conce pire, come la rondine, che per la pri ma volta sente il
peso delle uova, che ignora d'onde provenga una tal sensazio ne, e che
l'apprende come non diversa da ogni altra delle sue naturali necessità; non
possiam, dico, concepire come co minci a fare gli apparecchi del suo par to, e
mostri quasi di avere un'anticipata conoscenza di quell'avvenimento, al quale
macchinalmente si prepara. Non possiamo spiegare questo fatto per la via del
ragio namento, se anche volessimo supporre ne. gli ovipari la consapevolezza
del concepi mento, perchè la prima rondine, o quella che non aveva ancora
veduto avvenire nul la di simile, ignorava che fosse quel che portava nel suo
seno, nè poteva congettu rare che fosse un altro animale a se simile, il quale
doveva venir alla luce. Per ispie gare cotesto mistero, noi non sappiamo dir
nulla di più chiaro, se non se è un istinto attaccato alla costituzione stessa
dell'Es sere. Allo stesso modo spieghiamo i ma ravigliosi antivedimenti di
tutte le altre spezie di ovipari, non esclusi gl'insetti, molti de quali vanno
a depositare le uova sopra quelle particolari frondi che servir potranno di
nutrimento a loro nati. Col medesimo vocabolo istinto rendiamo ra gione di
tutte le successive cure della ma ternità, della nutrizione cioè , della cu
stodia della prole, degli ammaestramenti al volo, o alle altre funzioni proprie
di ciascuna spezie, e di quell'intenso sensi tivo affetto, per lo quale le
madri mostran di vivere quasi unicamente per gli Esseri da loro generati. Ciò
non ostante noi non possiamo dare veruna definizione del nome istinto, perchè
confusa è l'idea che ce ne formiamo. I Latini vollero spiegarlo con altri
termini, che non son di esso più chiari. Cicerone disse: in bestiis vis na
turae inspici potest: quarum in factu et in educatione laborem cum cernimus ,
naturae ipsius vocem videmur audire (definib. lib. Ill. c. XIX.). V. Mido. La
forza e la voce della natura non esprimono più che l'istinto. Ora scegliendo –
157 – un'altra espressione la quale renda più chiara l'idea racchiusa nel nome,
diciamo che gl'istinti della maternità sono un ra gionamento, non dell'animale,
ma d'un'al tra RAGIONE, di quella cioè che dispose il suo organismo, a guisa
d'un instrumento atto ad eseguire meccanicamente le fun zioni necessarie alla
conservazione e alla ri produzione della propria spezie. V. Istinto. Che simili
istinti nascano da una causa intelligente posta fuori dell'organismo, il
dimostra la maternità nell'uomo, nel qua le tutto diviene razionale. Sebben
comune cogli animali gli sia il mezzo della ripro duzione, e al par di quelli cominci
dal l'obbedire a ciò che dicesi istinto o forza della natura; pur tuttavolta
tosto in lui sottentra il ragionamento proprio, e la conoscenza de fini
pe'quali sono state sta bilite le relazioni della maternità. Inter hominem et
belluam , dice il nostro au tore, hoc maxime interest, quod haec tantum,
quantum sensu movetur, ad id solum quod adest, quodque praesens est , se
accomodat, paululum admo dum sentiens praeteritum aut futurum. EIomo autem
(quod rationis est parti ceps , per quam consequentia cernit , causas rerum
videt, earumque progres sus, et quasi antecessiones non ignorat, similitudines
comparat, et rebus prae sentibus adjungil atque annectit.futuras) facile totius
vitae cursum videt, adeam que regendam praeparatres necessarias. (de offic. l.
I. c. IV.). Le cure in somma della maternità pas sano dal naturale sentimento a
quel ra zionale affetto, il quale richiama l'uomo alla famiglia e alla società.
Egli è vero che questo medesimo affetto è comune alla paternità, ma v'ha tra
questi due lega mi la differenza, che l'affezion paterna nasce dal senso
morale, dall'abito, e dalla riflessione; mentrechè la materna è una
continuazione di quel primo affetto istinti vo, che è poi rischiarato e
confermato dal la ragione. Laonde la maternità non so lamente è il principio e
la sede della be nevolenza e dell'amicizia, ma può chia marsi la più bella
forma dell'amor uma no, e la più bella immagine dell'amor divino: è l'immagine
stessa della Prov videnza l Il cuor d'una buona madre, disse Marmontel, è il
capo lavoro della natura. V. Paternità. MATTERIA (prat.), azion folle, degna
d'un matto. MATTEzzA (prat.), vizio della mente, che se è abituale, equivale a
follia ; e quando non sia costante, indica levità o spensieratezza. V. Follia.
Me (spec. e disc.), il proprio essere, distinto dal corpo, capace di sentire,
di pensare e di volere. Il memedesimo esprime ancora l'unità e l'identità della
propria persona. V. Iden tità, Persona , Unità. Nell'uso e nel significato
comune è un caso dell'io, che al pari del caso retto, dinota il subbietto, che
pensa, sente e vuole. V. Io. Q - MECCANICA (crit.), la parte delle ma tematiche
miste, o delle matematiche ap plicate alle scienze fisiche, la quale esa mina i
fenomeni de corpi, che sono in istato di movimento, o di tendenza al moto, e
abbraccia la misura delle forze, la velocità del corpi mossi, le resistenze
loro, l'equilibrio che può risultare così dalle resistenze come dal concorso e
dal – 158 – la composizione di più forze applicate ad un medesimo punto, o ad
un sistema di punti diversi. Le cennate investigazioni comprendono ogni sorta
di corpi, ed ogni spezie di moto rettilineo o curvilineo, del pari che ogni
forza acceleratrice o motrice come il vapore, le pressioni del fluidi liquidi o
aeriformi, e di qualunque altro agente della natura. E siccome dalla conoscenza
delle leggi del moto, nasce la cognizione di tutto il sistema della natura ;
così la meccanica contiene la più importante parte della Fisica generale, e ne
forma il prin cipal fondamento. Sue suddivisioni sono, la Statica, la Dinamica,
l'Idrostatica, l'Idrodinamica e l'Acustica ; siccome dalle sue teorie applicate
al moto e alle forze motrici del corpi celesti, nasce l'astrono mia geometrica,
o la meccanica celeste. V. queste voci. MEccANIco (crit.), tutto quel che ap
partiene o si riferisce alla meccanica. Potenze meccaniche sono state dette le
macchine semplici, dalla composizione delle quali nascon le composte. V. Mac
china. Arti meccaniche. V. Arte. MEDICINA ( erit.), l'arte di restituire la
sanità agl'infermi e di conservarla a sani. Cotesta arte, che è propria
dell'antro pologia, presuppone come sue fondamenta la cognizione
dell'organismo, e delle leg gi, per le quali la natura regola l'eco nomia della
vita animale tanto nell'uomo quanto negli altri Esseri organici, dotati di
senso e di vita. Di qua la notomia, la fisiologia generale, e la fisiologia uma
na; i quali studi fan conoscere l'uomo, qual è nel suo naturale stato di
sanità. Dallo stato sano passa l'arte ad esaminare lo stato morboso,
considerato questo come causa dell'alterazione delle funzioni vitali, ed indi
gli effetti suoi ricavati da fenome mi, o segni apparenti del morbo stesso,
onde da questi salirsi possa alle cause che l'hanno prodotto, desumendole dal
pas saggio stesso che gl'infermi han fatto dal lo stato sano al morboso. Tali
sono gli obbietti della patologia generale, a cia scun de quali corrispondono
le tre parti, che la compongono, cioè la nosologia ge nerale, la sintomatologia
o semeiotica, e la etiologia. V. queste voci. Siccome la patologia contiene lo
studio de caratteri generali delle malattie, e però può essere considerata come
la fisiologia dello stato morboso; così quella detta spe ciale dà la cognizione
delle varie spe zie di malattie, note per la vecchia spe rienza del genere umano,
e per la storia della medicina. Scopo suo è il rilevare i sintomi pe quali
possa formarsi giudizio della natura del male, e dell'esito che aver potrà. E
però la patologia speciale ha due parti che sono la diagnosi e il pronostico.
All'enunciate conoscenze acquistate col l'ordine testè divisato, succede la
terapeu tica la qual prefiggesi di restituire la sa nità al corpo infermo,
nelle malattie sa nabili, e di rendere men penosi i sintomi delle insanabili.
Duplice è ancora la sua partizione in generale e speciale, ver sando la prima
circa le generiche indica zioni delle cure, corrispondenti a vari ge neri
de'morbi; e la seconda, circa le re gole curative di ciascuna spezie di quelli,
nel che prende norma dalla patologia spe ciale. In fine la farmacologia, detta
an cora materia medica addita l'uso de'rimedi, e la loro composizione, al che
prende una – 159 – grande parte la storia naturale, e la chi mica per ognuna
delle tre sue diramazioni, cioè la vegetale, l'animale, e la minerale. Non è
alcun'altra scientifica professio ne, la quale richieda tanto corredo di co
noscenze, quante ne vuole la medicina ; nè ve n'ha altra che più di questa si
an nodi a tutte le parti dell'umano sapere. A cominciar dagli Egizi e da Greci,
l'arte medica fu sempre coltivata da maggiori sapienti, i quali non furono men
celebri nella filosofia e nelle scienze naturali, che nell'arte loro propria.
Ermete tra gli Egizi, e tra Greci Pitagora, Ippocrate, Ascle piade, Aretéo di
Cappadocia, Galeno fu rono i primi sapienti dell' età loro. La stessa lode è
dovuta agli Arabi, presso i quali rimase la medicina nascosa insieme colle
altre scienze naturali insino al XIII secolo. Dopo il rinascimento delle
lettere e delle scienze, Andrea Cesalpino, e tutti i più chiari medici italiani
del XV seco lo, del pari che Arnaldo di Villanova, Raimondo Lulli, Paracelso ed
altri furono i ristauratori delle scienze fisiche, e del la storia naturale. A
costoro son dovuti i primi passi dati nella chimica, e molte delle prime
scoverle fatte nelle scienze fisi che. In fine di quanto le scienze naturali
non sono debitrici al grande Harvey, a Boherave, a Redi, a Malpighi, a Val
lisnieri? Non diremo già, che i medici e i fisio logi abbian sempre renduto
utili servigi alla filosofia, giacchè è a tutti noto, che da taluni di loro
provengono le dottrine fautrici del materialismo, e dell'organismo pensante. Ma
l'abuso delle conoscenze, nato dalla particolare disposizione delle menti di
coloro i quali professano le scienze, non torna mai a discapito delle medesime.
Cer tamente, le scienze mediche hanno un na tural parentado collo studio della
natura, e colla stessa filosofia intellettuale; tra per chè sono, al pari di
tutte le scienze nn turali, fondate nell'uso della induzione e del
ragionamento, e perchè la connessione stessa del fenomeni naturali conduce la
men te dalle cause e relazioni materiali, alle speculative e intellettuali.
Molto meno po tremmo affermare , che la congiunzione degli studi medici con
quelli della ragione abbia contribuito a rendere meno incerta la medicina;
perchè invano si attenderebbe dalla ragione, che mutar potesse la na tura del
subbietto, cui sono applicate le sue speculazioni. Che possono far di me glio
le arti mediche sopra Esseri fragili e caduchi, i quali portano nascendo il ger
me della loro dissoluzione, se non di ri muovere le cagioni accidentali della
loro distruzione, e rendere men penosi gli ef fetti di quelle inevitabili,
nelle quali la natura stessa ha segnato il termine della loro durata? Ciò non
ostante gli uomini non cessano di accusare d'incertezza, la medicina perchè non
ha trovato il mezzo da rendergli immortali. Che se essa è in certa ancora ne
suoi pronostici, non però può conchiudersi che inutile sia lo scopo delle sue
investigazioni. Pronostico chia mano i medici il giudizio dell'evento d'una
malattia, ricavato da sintomi, o sia dai segni apparenti della medesima: da
tali segni convalidati dalla sperienza desumono essi la natura del male, la sua
guarigio ne, o il suo termine letale, la sua du rata, e talvolta ancora la crisi,
per la quale potrà risolversi. È questa la parte più importante della
semeiotica, fondata unicamente nella sperienza, e a rispetto della quale può
dirsi che il corso di tanti secoli, quanti sono trascorsi da Ippocrate insino a
noi, nulla o poco ha aggiunto – 160 – a ciò che quell'insigne uomo ne scrisse.
Da quel tempo sin qua può dirsi che la medicina non abbia altro guadagnato nel
l'arte del pronostico (o prognosi), fuor di quello che si è acquistato per le
osser vazioni su polsi, o sulle malattie allora non conosciute, o da lui non
osservate. La ragione degli scarsi progressi di que sta parte della medicina è,
che i medici de'tempi seguenti han preteso ricavare l'arte del pronostico dalle
teorie e da ragiona menti a priori, e non dalle osservazioni e da fatti; d'onde
può desumersi che co testa arte appartenga unicamente alla me dicina empirica,
e non alla speculativa. Del resto lo stesso Ippocrate avvertì che ne morbi
acuti le predizioni della guari gione o della morte, non sono mai abba stanza
sicure, attesa la rapidità colla quale succedonsi le mutazioni nel corpo umano,
sopra tutto nella circolazione de suoi ſlui di, o umori (aphorism. XIX. sect.
II. ). Nella sperienza è pure fondata l'etio'ogia, comechè sia questa la parte
della patologia, nella quale più valga il ragio namento e il criterio medico.
Suo scopo È il determinare le cause, o sieno le in fluenze esterne, che
operando sulla vita, l'abbian fatto passare dallo stato sano al morboso.
Esterne, per rispetto al natural equilibrio dell'umana costituzione, son le
forze per le quali avviene un tal passag gio, come le alterazioni del calore,
della luce, dell'elettricità , dell'aria, e come i veleni, l'abuso del cibo o
delle bevande, le lesioni degli organi, il violento stato delle passioni, ed
ogni altro eccesso con trario alla normale economia della natura. Coteste cause
operano diversamente sulla vita; e in proporzione della maggiore o minore
reazione delle forze vitali, gene rano le malattie. Noi ignoriamo come la più
parte di esse agiscano, ma gli effetti ci manifestano le cause da cui sono
stati prodotti, e somministrano all'arte medica il dato più sicuro per
determinare la qua lità del morbo, e per adattarvi le tera peutiche
prescrizioni. V. Patologia. MEDIOCRITÀ (prat.), quel che non ha difetto nè eccesso.
L'uso dà a questo vocabolo un signi ficato minorativo, tranne se si applichi a
desideri e agli appetiti, nel quale caso prende il senso di temperanza e di mo
derazione. Cicerone non solamente diede come precetto, il comporre alla medio
crità gli abiti del vivere: medioeritas ad omnem usum cultumque vitae transfe
renda est, ma suggerì tre mezzi, onde ridurla in abito: 1.º che gli appetiti
sien sempre obbedienti alla ragione: 2.º che non si dia ad alcuna cosa
un'importanza maggiore di quella che la cosa stessa me rita : 3.º che negli
esterni modi del vi vere e nelle cure dell'agiatezza si fugga la pompa e non si
oltrepassi la giusta mi sura tra 'I manco ed il superfluo (De off. I. I. c.
39). È questo il bello argomento dell'ode di Orazio in cui raccomanda la
moderazione nella prospera come nell'av versa fortuna: Auream quisquis
mediocritatem Diligit, tutus caret obsoleti Sordibus tecti, caret invidenda
Sobrius aula. - (lib. II. Od. X.). MEDITARE (spec.), considerare attenta mente
alcuna cosa, per conoscere il vero, o per deliberare con maturità di ragione.
MEDITAZIONE (spec. prat. e teol.), l'atto della mente per lo quale cerchiam di
co – 161 - noscere il vero, e d'indagare le qualità degli obbietti. La
meditazione, considerata semplice mente come una operazione dell'animo intorno
alle proprie idee, potrebbe essere scambiata colla riflessione, se non che
esprime una più intensa e continua atten zione, per la quale la mente perviene
alla conoscenza delle relazioni degli obbietti a cui si rivolge. E però va
risguardato come il cammino scientifico della ragione, me cessario
all'investigazione de principi d'ogni scienza o arte. V. Riflessione, Scienza.
Ogni obbietto del pensiero può formare suggetto di meditazione. Cartesio chiamò
meditazioni i suoi studi intorno all'ana lisi del pensiero, ed acciocchè
fossero utili allo scopo che prefiggevasi, soggettolle a talune regole, le
quali servono a formare un retto criterio. Tali regole sono : limi tare le
indagini agli obbietti che sono della capacità dello spirito umano: cedere
all'au torità degli esempi, e non delle idee al trui: partire sempre dal
facile, dal sem plice, dal noto, per passare al difficile e al composto, e per
giugnere all'ignoto: scomporre le quistioni complesse, ed or dinarle secondo le
naturali relazioni delle idee: compiere il voto tra le idee, per modo che
ciascuna delle medie nasca necessa riamente da quella che la precede: dimo
strare ogni proposizione, acciocchè sia ben compresa, e bene enunciata. A
queste sei regole potrebbero essere aggiunte tutte le altre che la sperienza
demetodi ha dimo strato, o potrà dimostrare utili all'investi gazione della
verità. E sarebbe pur deside rabile, che all'insegnamento d'ogni scienza
fossero anteposte le regole di quel criterio, che dee guidar la mente alla
cognizione del principi, e alla soluzione del problemi che le appartengono. V.
Criterio, Metodo. Lo stesso nome di meditazione dassi co munemente alla
contemplazione delle opere di Dio, o del propri doveri, fatta col fine di
perfezionare l'animo, rivolgendolo ai pensieri celesti. La scala delle cose
create è il più fecondo e più utile argomento di simili meditazioni.
MELANCOLIA. V. Malanconia. MELODIA (crit.), dolcezza di canto, e concordia di
suoni. Gli antichi distinguevano l'esecuzione del canto dalle regole per la sua
modula zione, le quali formavano la melopea. Differisce dall'armonia che è
termine più generico, e significa concordanza di suoni diversi. La melodia dice
più che armonia, dapoichè esprime la concordanza che pia ce, o sia la soavità
del canto o del suo no. V. Armonia. MELODRAMMA (crit.), rappresentazione
teatrale, in cui l'azione e la parola sono accompagnate dal suono, dal canto, e
anche dalla danza. Il melodramma, che trova nella lirica pastorale il suo
proprio e naturale sug getto, fu trasportato ne due antipassati secoli ad ogni
sorta di argomenti, e spe zialmente agli eroici, ricavati dalla mi tologia, o
dalla storia, non esclusa la sa gra. Di tal genere è la così detta opera un
musica, nella quale gli eroi cantano arie, e declamano al suon degl'istrumenti,
che figurano come loro organi parlanti. Chi volesse con severa critica
esaminare questa spezie di dramma, non potrebbe non risguardarlo come una
bizzarra com posizione della fantasia, di cui le parti sono commesse insieme,
non per la rap presentazione del bello e del verisimile di 21 – 162 – natura,
ma per dilettare gli spettatori col la varietà degli accessori e degli ornati.
L'Italia n'è stata l'inventrice, perchè sin dal XVI secolo ne diede i primi
saggi, che andò poi perfezionando. Le altre na zioni l'hanno imitata, e
ciascuna ascrive ora ad onore delle arti l'avere un teatro destinato all'opera
in musica. Di essa par lando Scipione Maffei disse : « finchè la presente
maniera di musica si riterrà, non sarà mai possibile fare in modo che non sia
per sempre un'arte storpiata in grazia d'un'altra, e dove il superiore misera
mente serve all'inferiore, tal che il poeta quel luogo ci tenga, che tiene il
violinista ove suoni per ballo ». V. Musica, Poesia. Per contrario l'opinione
comune, più in dulgente di quella de sapienti, dice che la vaghezza dello
spettacolo, e de suoi ac cessori compensi i difetti drammatici; che il
melodramma, se non favorisce alla poe sia, dà certamente risalto alla musica ed
alimenta tante arti subalterne, quante ne richiedono le decorazioni e gli
accessori suoi. Checchè sia di tal controversia, di cui certamente non ci
faremo giudici, l'opera in musica ha le regole, che le sono pro prie, ed ha
avuto chiari legislatori e ri formatori. Apostolo Zeno, Algarotti, Pla nelli
han cercato di stabilire talune regole di convenienza, per le quali possa il me
lodramma sostener la figura e il carat tere di dramma, e sia sottratto a
capricci del gusto e della moda. Più benemerito di tutti è stato il bello,
dilicato e fiorito ingegno di Metastasio, il quale ha toccato il segno del
sublime, cui possono arrivare le due arti sorelle, la poesia cioè e la musica
insieme asso ciate. Di lui tutti han detto, che l'Italia avrebbe dato al mondo
letterario il più perfetto modello del poeta tragico, se si fosse dedicato alla
tragedia. Dopo di lui un gusto più severo ha condannato il ge nere del poema,
ma non però il publico ha voluto privarsi del piacere che produ cono le varietà
del melodramma. V. Dram ma , Tragedia. MEMBRo (spec. e disc.), parte del corpo
animale. Differisce da organo, che è proprio di quella parte del corpo la quale
ha una forma, e serve ad una data funzione. V. Organo. Per similitudine vale
parte anche d'un corpo collettivo o morale. E per altra similitudine significa
an cora periodo, sentenza o altra parte del discorso che racchiuda un senso
compiuto. V. Discorso. MEMORABILE (disc.), degno d'essere ri cordato.
Differisce alquanto dal memorando. MEMoRANDo (disc.), degno d'essere non
solamente ricordato, ma passato ancora ad esempio. De figli i figli, e chi
verrà da quelli Quindi avran chiari e memorandi esempi. TAsso. MEMoRATIVA
(spec. e crit.), la facoltà della memoria, detta ancora retentiva. V. questa
voce. MEMORIA (crit. e spec.), una delle fa coltà intellettive, per la quale
l'anima ri tiene le conoscenze acquistate, e le richiama al pensiero. V.
Facoltà. L'uso della memoria presuppone l'atten zione e la riflessione, senza
le quali non – 165 - avremmo idee, o nozioni di sorta alcuna. V. Attenzione,
Riflessione. Ne diversi sistemi di filosofia, il con cetto che i loro autori
han formato della memoria, è stato strettamente collegato con quello della
natura delle idee. Così, nella ipotesi delle immagini o specie del le idee, le
impressioni di queste imma gini nel cervello, formavano il serbatoio dal quale
erano le idee richiamate. Così, Locke definì la memoria per la facoltà di
ridestare le passate sensazioni. Così infi ne, Hume risguardò la memoria come
una gradazione delle impressioni desensi. V. Idea, Impressione. La filosofia
scolastica distinse la memoria in immaginativa ed intellettiva: imma ginativa
dicevasi quella che serba le idee ricevute per mezzo del sensi: intellettiva,
quella che conserva le intellezioni, cioè le nozioni acquistate per le interne
ope razioni, colle quali l'anima riflette in se medesima, e conosce che
intende. L'im maginativa, dicevano gli aristotelici, è co mune a bruti, ma
differisce da quella che ha l'uomo, perchè questi, giusta l'espres sione del
Gelli, serba insieme colle im magini i modi, e ogni altra parte del l'idea
complessa, formata dall'intelletto. La memoria oltre all'essere una facoltà
ausiliaria di tutte le altre, è per se stessa essenziale, dacchè è il mezzo,
per lo quale l'Autor della natura ha voluto farci conser vare la cognizione del
passato: è la fonte da cui attigniamo la nozione della dura ta, del futuro, del
tempo, e della nostra personale identità. V. queste voci. Non può la memoria
confondersi colla immaginazione, tra perchè v'ha degli uo mini memoriosi e
nello stesso tempo po veri d'immaginazione; e perchè l'imma ginazione ha
bisogno del soccorso della memoria, da cui riceve il suo principale alimento.
Le operazioni che la mente eser cita sotto il nome di ciascuna delle due
divisate facoltà son diverse tra loro, nel senso che la memoria è independente
dalla immaginazione, quando che l'immagina zione de'esser mossa dalla memoria.
Que sta in somma è una facoltà intermedia tra la percezione e l'immaginazione,
e tra il senso intimo e l'immaginazione, cui tras mette e comunica quel che ha
da quelle due facoltà ricevuto. V. Immaginazione. MENDACE (prat.), chi di
proposito ma sconde il vero. Dicesi ancora delle cose che non rap presentano il
vero. MENDACIo (prat.), la parola o il fatto che nasconde il vero. È più
generico della voce bugia, che si riferisce solamente alla parola. V. Bugia.
MENoMo e MINIMo (spec. e crit.), l'ul timo termine della diminuzione, opposto
al massimo. V. questa voce. - MENTE (crit spee. e prat.), l'anima, o lo spirito
considerato nel complesso di tutte le facoltà sue, V. Facoltà. È vocabolo che
ci vien da Latini, i qua li per esso esprimer vollero la forza della
intelligenza direttrice di tutte le potenze dell'anima. Cicerone in un luogo
disse: mens , cui regnum totius animi a na tura tributum (Tusc. l. III. c. 5):
in un altro, animus ita est constitutus, ut et sensibus instructus sit, et
habeat prae stantiam mentis , in qua est mirabilis quaedam vis rationis, et
cognitionis, et scientiae virtutum omnium (definib. v. c. 12): ed in un terzo,
mens sensuum ar – 164 – fons est, atque etiam ipsa sensus est, naturalem vim
habet, quam intendit ad ea, quibus movetur (Lucullus. c. 1o), nel quale luogo è
notabile la nozione del senso intimo, considerato come il poter direttivo che
la ragione esercita sopra le altre facoltà o virtù dell'animo. Quantunque i
Latini avessero preso il loro vocabolo dal greco usyos, che vuol dire animo, o
impeto e ardore dell'ani mo, pur tuttavolta i Greci chiamarono vovs quel che i
Latini dissero mens. Il concetto che ne fece Aristotele è lo stesso di quello
che formonne Cicerone. Fu egli il primo a dire, che la mente è intelligi bile a
se stessa, al pari delle altre cose intelligibili, vous vontos est, a oref rx
vomta, pensiero affatto simile a quel di Cicerone: est illud quidem maximum ,
animo ipso animum videre (Tuscul. l. I. c. 22). I Francesi mancano di tal voca
bolo, e confondono il significato di men te cogli altri che danno alla voce
esprit. V. Spirito. Essendo nel concetto della mente com prese quello della
perfetta ragione; l'uso, così tra Latini come tra gl' Italiani, ha renduto
comune un tal vocabolo alla in telligenza e alla sapienza divina, nella quale
stanno i tipi della umana. E però gli antichi dissero: deorum mente atque
ratione mundum administrari et regi, e Dante parlando del cielo, Dalla mente
profonda che lui volve Prende l'imago e fassene suggello. Così ancora Seneca:
nulla sine Deo mens bona est: semina in corporibus humanis divina dispersa
sunt, quae si bonus cul tor eaccipit, similia origini prodeunt, et paria his ea
quibus orta sunt surgunt. (epist. LXXIII). - Sin qua del significato proprio di
tal vocabolo. Tutte le altre accezioni, che l'uso davagli tra Latini, e ancora
tra noi, come di volontà, di memoria, o d'immagina zione, sono ampliazioni del
parlar comu ne, straniere allo scientifico linguaggio. MENTIRE (prat.), dir
cosa contraria a quel che si ha nella mente. È voce che ci vien da Latini.
MENzoGNA (prat.), detto contrario al vero. E più generico di bugia, che
prendesi sempre in mala parte; laddove menzogna si usa anche nel senso di ciò
che ha ap parenza di falso. È pure del genere dei mendaci. V. questa voce.
MERCURIO. V. Pianeta. MERIDIANo (spec. e crit.), cerchio mas simo della sfera
celeste, disegnato dagli astronomi, il quale divide in due parti eguali le
porzioni de cerchi paralelli, che gli astri sembrano descrivere sopra l'oriz
zonte, per effetto del moto diurno della terra. Quando gli astri passano per
cote sto cerchio, toccano il punto della loro maggior elevazione, ed il sole
passando per lo stesso, segna il mezzogiorno. Il piano di cotesto cerchio
incontrando la superficie della terra, segna su di essa la circonferenza d'un
altro cerchio mas simo terrestre, che passa pepoli e prende il nome di
meridiano terrestre. Siccome la circonferenza del meridiano terrestre si
avvolge intorno alla terra, così ne se gue che molte contrade abbiano lo stesso
meridiano terrestre, e il medesimo meri diano celeste che trovasi in un sol
piano col terrestre. Tali contrade hanno contem – i poraneamente il mezzogiorno
e la mezza notte. Or siccome ogni meridiano terre stre interseca l'equatore in
due punti op posti, e innumerevoli sono i punti del l'equatore; così
innumerevoli son pure i meridiani terrestri. Prendendo uno di tali meridiani
per termine di paragone, tutti gli altri serberanno da questo primo me ridiano
una maggiore o minore distanza, contata sull'equatore, che si chiama lon
gitudine; ond'è che cambiandosi di me ridiano, si cambia ancora di longitudine.
V. questa voce. Linea meridiana dicesi quella, secondo la quale il piano del
meridiano del luogo taglia il piano dell' orizzonte sensibile. I suoi punti
estremi sono il settentrione e il mezzo giorno, e questi prendono il nome del
polo, dalla parte del quale son situati. Quantunque queste voci sien proprie
del l'astronomia, della geografia, e della gno monica, pur tuttavolta le loro
definizioni servono a far intendere, come la mente abbia portato sotto i sensi
il moto de corpi celesti, circoscrivendo quasi l'immensità del cielo. MERITo
(prat.), valor d'un'azione, de gna della propria o dell'altrui approva zione.
V. questa voce. MESE (spec.), durata del giro della luna intorno alla terra, o
del giro del sole per ciascuno de segni del zodiaco. Dalla durata dell'uno o
dell'altro giro provengono il mese lunare o il solare, che sono ambedue misure
del tempo. V. Mi sura, Tempo. MESTIERE e MESTIERo (crit.), la profes sione, o
l'abituale esercizio delle opere manuali. ru sas () ) - A differenza dell'arte,
il mestiere non richiede se non una pratica conoscenza del modo, onde dare la forma
al lavoro; ed una tal conoscenza si acquista per abi to, o per imitazione.
Quelli che l'eserci tano diconsi operai. V. Arte. MESTIZIA (prat.), sorta di
tristezza, ac compagnata da esterna manifestazione. È un misto della tristezza
e della ma linconia. V. queste voci.. METAFISICA (crit.), la scienza investi
gatrice delle cause e del principi naturali. V. Causa, Matura, Principio.
Colesta scienza ha le sue radici nella curiosità, che l'uomo seco porta, di co
noscere l'origine di se, degli Esseri , e delle cose dalle quali è circondato;
il per chè può dirsi la prima e più antica parte della filosofia intellettuale.
Riconosce per suo fondatore Aristotele, non perchè fosse egli stato il primo
pensator metafisico, ma perchè fu il primo a darle forma e nome; se pur sua fu
la denominazione di metafisici, data a libri, che di lui con tal nome ci
restano. V. Curiosità. Certamente il significato delle parole ustx ra quota
comprende tutto quel che ante cede le cose materiali, e che trascende la
cognizione degli obbietti sensibili; ond'è che secondo la mente di Aristotele,
la metafisica comprende i principi e le cause efficienti delle cose materiali,
la cogni zione delle facoltà e delle operazioni del l'anima, e in generale la
cognizione d'ogni natura spirituale, incominciando dalla di vina. La sublimità
del suo argomento, il quale contiene ad un tempo la chiave e l'apice dell'umana
cognizione, le fece me ritare il nome di sapienza e di filosofia prima. – 166 –
Siccome è proprio della cennata scienza il considerare i diversi subbietti
della na tura, per quel che sono in se medesimi; e siccome una tal maniera di
considerar gli non può altrimenti ottenersi, se non separando l'idea del
subbietto dal subbietto reale; così ne segue che astratte pur sieno tutte le
nozioni, che la mente forma in torno alle qualità o a modi de subbietti me
desimi. Ora una scienza la quale tutta si spande nel campo dell'astrazione,
richiede un vocabolario di nomi d'un significato con venuto, tecnico, o
speciale che voglia dirsi. Ogni subbietto, considerato per quel che è, o può
essere in natura, è un ente, e con siderato a rispetto della essenzia sua, la
quale è unica ed immutabile, è una so stanza. La sostanza poi ha gli attributi,
le qualità, gli accidenti propri, sì che può essere considerata in ciascuno
decennati modi di essere ; e tutti, o ciascun di essi possono essere
risguardati, o comparati vamente tra loro, o isolatamente, e tanto come
coesistenti, quanto come successivi. Di qua le altre mozioni e i nomi del neces
sario e del contingente, dell'esistenza, e della possibilità, dell'uno e del
molti plice, del semplice e del composto, del l'identico e del diverso, del
moto e del la quiete, dell'azione e della potenza , della causa e dell'effetto,
dello spazio, della durazione, e del tempo. V. queste voci. Sin qua i termini
sarebbero stati utili alla scienza, se la metafisica limitata si fosse a
osservare, e non a spiegare la natura. Ma avendo voluto spiegarla, ed essendo
ella nata dalle ceneri della filoso fia naturale degli antichi; non seppe svez
zarsi dalle congetture e dalle ipotesi ; al che per isventura della umana
ragione si aggiunse il dogmatismo della filosofia pe ripatetica. Da queste
cause unite insieme derivò, che la metafisica divenisse una scienza d'ipotesi e
di sottigliezze, e il suo linguaggio, un gergo di parole ambigue, le quali
condussero la mente, e con essa l'umana cognizione, al più fantastico ra
zionalismo. V. Dogmatismo, Ipotesi, Ra zionalismo. Un tanto male le venne
principalmente da quella parte di se, cui gli scolastici diedero il nome di
ontologia, appunto perchè versava circa le più astratte no zioni dell'ente e
della sostanza. Bacone vide il falso cammino della me tafisica, ed avendo
voluto trarla indietro a principi suoi , propose la partizione in due della
così detta filosofia naturale, nella fisica speciale cioè, e nella metafi sica,
dando a quella l'investigazione delle cose materiali e mutabili, e a questa le
mozioni astratte, e i subbietti costanti e immutabili della natura. In altri
termini la Fisica, secondo Bacone, presuppone nella natura la semplice
esistenza, il moto, e la necessità (che vuol dire la coordina zione delle cause
naturali); laddove la me tafisica presuppone l'intenzione e le idee. Da ciò
fece egli derivare, che la prima ver sar dovesse circa la materia e
l'efficiente suo, e la seconda circa la forma e il fine. V. Fine , Fisica,
Forma. Giova non pertanto osservare, che giu sta il pensiero di Bacone, tutte
le condi zioni relative o accidentali degli Esseri , come la quantità,
l'identità, la diversità, la possibilità, dovevano far parte della Fisica, a
cui trasferì il nome di prima filosofia ; d'onde poi nacque, che alla fisica
generale, la quale appunto tratta delle condizioni comuni a tutti gli Esseri
materiali, fu dato il nome di metafisica de corpi, denominazione non solamente
– 167 – impropria ma falsa, perchè fondata nello studio a priori della natura.
Cartesio dalla sua parte concepì pure l'idea d'una filosofia prima, di cui
scopo fosse l'indagare i principi dell'umana co gnizione, i quali servono di
scala alla nozione della necessaria esistenza di Dio, e preparano la mente alla
investigazione de principi della materia, e alla contem plazione dell'universo.
Il concetto di Car tesio è la pietra angolare della salutare riforma, che la
sua scuola operò negli studi metafisici. La gloria di tal riforma non pertanto
è dovuta ad ambo i grandi uomini testè citati: a Bacone perchè mutò il metodo
della scienza: a Cartesio perchè ne indicò meglio il principio e il fine :
l'uno subordinò la metafisica alla fisica, perchè volle che la osservazione
precedesse il raziocinio, con che tolse alla metafisica la vana pretensione di
spiegare razional mente la natura: l'altro indirizzò tutta la filosofia
speculativa all'unico scopo suo, cioè alla cognizione della sostanza spiri
tuale e di se medesimo. I progressi delle scienze fisiche, ottenuti per mezzo
dell'osservazione e del metodo analitico, han dimostrato alla metafisica
l'utilità di sbandire le ipotesi, e alimen tano oggidì la speranza, che
seguendo lo stesso metodo possa la filosofia intel lettuale nella
investigazione del fenomeni dello spirito umano raggiugnere il corso che quelle
han fatto nella cognizione della natura sensibile. Ma può il solo metodo
condurre le due scienze al medesimo api ce? In altri termini, può il metodo su
perare le difficoltà che nascono dalla di versa qualità de'suggetti? Può
all'umana mente aprirsi la cognizione del fini, anzi del mistero della natura,
come se le apro no le leggi costanti del fenomeni fisici? Non basta che la
metafisica sbandisca le ipotesi, e prenda per guida il filo del l'osservazione
e dell'analisi, ma dee con tenere le sue investigazioni ne limiti del l'umana
capacità; ed acciocchè non tra scenda cotai limiti, farà forse uopo, ad esempio
d'un altro illustre genio della filo sofia naturale, che ella stabilisca le
regole del suo filosofare. Ufizio di tali regole sarà il rattenere la mente da
ogni trascorso, raffrenando la natural sua curiosità. (V. il vol. I, c. XX.).
Intanto proscritta l'antica metafisica, molti han fatto guerra persino al nome
suo, confondendola colla ontologia; e però nuove partizioni e denominazioni
sono sur te, quasichè si trattasse di cancellarne la rimembranza. E siccome la
moda s'in sinua negli studi severi della ragione, del pari che negli ameni
della immaginazione; così avviene sovente, che si faccia guerra a'nomi,
tornando per altra via alle idee stesse, che quei nomi rappresentavano. In
fatti che altro importa la filosofia tra scendente, di cui fanno tanta pompa i
moderni filosofi, se non la metafisica de gli antichi? Conserviamo dunque i
voca boli ricevuti, seguendo anche in ciò l'esem pio di Bacone, ed evitiamo
soltanto l'abuso che di essi si è fatto. V. Trascendente. La metafisica, intesa
nel suo retto sen so , è la scienza che abbraccia tutti gli studi della
ragione, incominciando da quel che noi chiamiamo filosofia critica, inve stiga
l'essenza e le cause di tutte le cose, per quanto il comportano i limiti
dell'umana capacità; regola e dirige il pensie ro; presiede alla parola;
rischiara la dot trina de'doveri e delle azioni; è la scienza delle scienze e
delle arti, perchè sommi nistra loro le prime verità, le definizioni, i metodi,
e la forma del ragionare; ella – 168 – è in somma tutta la filosofia. Risguarde
remo per conseguente come sue parti la psicologia co' suoi postulati o
preliminari, la cosmologia ridotta alla dimostrazione dell'ordine e della
perfezione dell'universo, e la teologia naturale. V. queste voci. METALLo
(spec. e crit.), sostanza mi merale pesante, dura, lucida o opaca, duttile, che
divien fluida all'azione del fuoco senza perdere interamente la sua fissità, e
che col raffreddamento ripiglia la sua naturale durezza. Tal'era la definizione
che davasi deme talli insino al cominciar di questo secolo, e tale è quella che
conviene a loro carat teri esteriori, e a principali tra loro carat teri fisici
e chimici. Ma siccome in talune delle sostanze, dette metalli, non si trovan
tutte le qua lità testè enunciate, ed in talune altre tro vansi con diversa
gradazione o intensità; così aveva la scienza creato due generi subordinati,
uno di semi-metalli, l'altro di metalli imperfetti. Semi metalli furon detti
quelli che sebbene ne avessero i ca ratteri apparenti, pure frangevansi sotto
il martello, e non resistevano all'azione del fuoco che li volatilizzava, o ne
dis sipava le molecule: imperfetti dicevansi quegli altri che l'aria e l'acqua
può al terare, a quali l'azion del fuoco toglie la lucidezza, o la forma
metallica, o che ad una temperatura molto alta, possono essere scomposti, o può
una parte delle molecule loro essere dissipata. In somma perfetti metalli erano
soltanto l'oro e l'ar gento, che l'aria e l'acqua non può in alcun modo
alterare, e l'azione del fuoco non può calcinare, o dissiparne le mo lecule ;
ed imperfetti erano il rame, il ferro, lo stagno e il piombo. Non par liamo
della partizione del metalli fatta da gli alchimisti: diciamo soltanto, che la
publica economia ha per lungo tempo bi partito i metalli in nobili e ignobili,
aven do dato la prima qualità all'oro e all'ar gento come rappresentanti di
tutti i valori, e la seconda agli altri. Con tale partizione non tenevasi alcun
conto dell'importanza dell'uso che di essi facciamo, e dell'aiuto che questi
prestano a tutti gli altri bisogni della vita. V. Economia. Sin qua l'antica
partizione del metalli può stare a canto alle nuove idee demo dermi chimici e
mineralogisti. Il punto dal quale sembra che questi divergano sta nel carattere
essenziale, e diremo co stitutivo della sostanza metallica. Cotesto carattere
nasceva da una qualità propria, sui generis, opposta a quelle delle altre
sostanze minerali, dette terrose ; e sic come le sostanze alcaline
distinguevansi dalle terrose, così diverse dalle une e dalle altre ripulavansi
le metalliche. Ma la moderna chimica crede aver trovato sostanze metalliche, le
quali formano la base di altre sostanze terrose e alcaline, e mancano
de'caratteri apparenti, pe'quali distinguevansi gli antichi metalli. I nuo vi
metalli, de quali la scoverta è dovuta alla chimica, oltre all'aver accresciuto
il numero degli antichi, han dato luogo ad una nuova partizione, desunta da
loro ca ratteri più o meno visibili. Haiiy ha chia mato autopsidi quelli
de'quali i caratteri si manifestano per se stessi, e eteropsidi gli altri, che
conviene andare cercando per mezzo dell'analisi. Gli autopsidi sono sinora
giunti al numero di ventotto, cioè il platino, l'oro, l'argento, il mercu rio,
il rame, il ferro, il piombo, lo stagno, lo zinco, il bismuto, l'antimo nio, il
cobalto, il nickel, il manganese, – 169 – l'arsenico, il molibdeno, lo
seleelio, l'urano, il titanio, il tellurio, il cromo, il tantalio o columbio,
il cerio o cere rio, l'iridio, il palladio, il cadmio, l'osmio, e il rodio. Il
numero poi degli eteropsidi, come quelli che son tratti dal le terre, dagli
alcali, o da altre sostanze dette metalloidee, cresce alla giornata, nè può
antivedersi, se non si perverrà forse a scoprire qualche altra sostanza ele
mentare comune a metalli e agli altri mi nerali. È a desiderare solamente, che
la chimica sia circospetta così nel riconoscere l'identità delle sostanze che
posson dirsi di primo getto dalla natura; come nel di chiarare semplici le
sostanze ottenute per le ultime vie delle analisi sue. V. Chimica. METALLURGIA
(erit.), l'arte di estrarre i metalli da minerali, co quali trovansi combinati
nel seno della terra. È un'arte, la quale ha per sue ausilia rie la
mineralogia, la chimica, e la mec canica: la mineralogia, perchè da essa trae
la conoscenza delle sostanze che dee trattare: la chimica, perchè questa le som
ministra gli agenti necessari alle sue ope razioni: la meccanica, perchè le
sommi nistra le macchine e per esse tutto l'ap parato delle forze, di cui ha
bisogno. METAMORFosi (ontol. ), trasformazione d'un Essere in un altro. - È
vocabolo proprio della mitologia anti ca, e però sarebbe straniero al
linguaggio della filosofia, se non fosse piaciuto a Leib nitz di chiamare con
questo nome il suc cessivo cangiamento di stato e di forma, cui son soggette le
sue monadi.V. Monade. Metrona (spec. e crit. ), fenomeno dell'atmosfera,
cagionato dall'azione di stinta o simultanea de quattro fluidi im ponderabili,
calorico, luce, elettricità, e magnetismo sull'aria, o sulle materie che
trovansi in essa sospese. Per lo innanzi i fisici distinguevano tre spezie di
meteore, le acquose, le ignee o luminose, e le aeree. Chiamavansi ac quose
quelle che traevano origine dall'ac qua, che trovasi sospesa nell'atmosfera
sotto forma di vapore invisibile, e passa per diversi stati, de'quali ciascuno
prende il nome di meteora, come la nebbia, i nuvoli, la pioggia, la rugiada, la
neve, la gragnuola e il ghiaccio: luminose di cevansi i baleni, i tuoni,
l'iride, i pa reli, i fuochi fatui: aeree, i venti, le trombe, gli uragani.
Cotesta partizione, dettata dalle semplici apparenze, non è più del gusto della
mo derma fisica, la quale se non è ancora riuscita a scoprire le cause di molti
feno meni atmosferici, ha almeno stabilito un importante principio
d'investigazione, cioè che in qualunque dedinotati fenomeni con corre per lo
più l'azione di molte cause, e di più d'uno del principali agenti della natura,
quali sono il calorico, l'elettri cità , la luce, ed il magnetismo. Così nella
formazione della grandine (di cui si può dire non essersi ancora data una
soddisfacente spiegazione) concorrono cer tamente il calorico e l'elettricità.
V. que ste voci. METEREOLOGIA (crit.), la scienza che spie ga i fenomeni delle
meteore, ne determina le varie spezie, e ne investiga le cagioni. Conviene
confessare, che la metereo logia tiensi ancora più indietro delle al-. tre
scienze naturali, non ostante la sco perta di taluni principi fondamentali e di
vari instrumenti, i quali togliendole tutto 22 – 170 – l'antico maraviglioso,
ne hanno sottoposto lo studio alle ordinarie leggi della fisica. Prima di Cartesio
e di Newton, i quali adoprarono i principi dell'ottica per la spie gazione
dell'iride e di altri fenomeni lu minosi; prima di Franklin, il quale sco perse
la causa del fulmine, e con essa l' elettricità atmosferica, che tanta parte ha
nella formazione delle meteore; prima della invenzione del barometro e del ter
mometro, strumenti che colle loro mi sure han dato a fisici certe indicazioni
di alcune principali condizioni dell'atmosfera; la metereologia, era un'arte
congetturale e volgare, la quale dal più al meno eser citava l'immaginazione de
suoi cultori. Ciò non ostante tutte le utili scoverte ed in venzioni testè
divisate di poco l'han fatto progredire, ed hanno soltanto aggrandito la sfera
delle sue speranze. Son pochi anni, da che si è in Europa introdotto un rego
lare sistema di osservazioni metereologi che, e publici osservatori, destinati
a rac coglierle, sonsi stabiliti in diverse parti del globo. Una copiosa
raccolta di fatti, purchè sien sempre fedeli, potrà forse spi gnere più innanzi
le teoretiche conoscenze di questa scienza. METoDo (crit. spec. e dise.),
l'ordine che seguir dee la mente, per trovare più facilmente le verità ignole,
e per dimo strare le note. L'ordine della investigazione d'una ve rità, che si
cerca e non ancora si conosce, è essenzialmente diverso da quello, che la mente
segue nel dimostrare una verità già nota. Cotesta diversità è quel che di
stingue il metodo analitico dal sintetico detti comunemente a posteriori e a
priori. L'uno e l'altro non pertanto riconoscono una regola comune, cioè che le
verità note servano di scala alla induzione o alla dimostrazione per giugnere
allo scopo che ciascuna si prefigge. V. Analitico , Di mostrazione, Induzione,
Sintetico. Ogni metodo ha le sue regole, che l'esperienza ha additato come più
facili per la invenzione, o il criterio stesso sug gerisce come le più
conducenti alla dimo strazione. Le proprie del metodo analitico SOInO : - -. -
1.º che sia chiaramente enunciata la quistione, che ognuno si propone di ri
solvere; - 2.º che l'opera della mente sia princi palmente diretta a scoprire
qualche idea intermedia, la quale serva come di mi sura comune per conoscere le
relazioni delle altre idee, necessarie per giugnere alla soluzione; 3.º che il
suggetto principale della qui stione sia spogliato di tutte le proposizioni
incidenti, che non hanno una relazione necessaria colla verità che vassi
cercando; 4.º che le quistioni complesse si divi dano nelle varie proposizioni
che le com pongono, per essere successivamente esa minate, cominciando da
quelle che con tengono le idee le più semplici, e passando alle altre, quando
le prime sieno state chia ramente comprese ; 5.º che nelle scienze matematiche
le idee fondamentali, necessarie alla soluzione, sie no espresse con segni o
con formole conve nute, acciocchè la memoria le abbia sem pre presenti, e non
sia l'intelletto obligato ad alcun atto retrogrado per conoscere di nuovo quel
che è stato già un'altra volta compreso; - 6.º che fatto tale apparato si vada
alla comparazione delle idee note, e sopra tutto delle intermedie scelte come
gradi o passaggi dalle note alle ignote; - 171 – 7.º che se, dopo di avere
profonda mente esaminato la quistione colla guida delle precedenti regole, non
si venga a capo della soluzione, non debba pronun ziarsi l'impossibilità di
ottenerla, senza dimostrarla praticamente, o ravvicinando la quistione proposta
ad altre già risolute, o facendo avvertire l'assurdità de'dati, o il difetto di
alcuno di essi. Quanto poi al sintetico, le sue regole SOnO : - 1.º che nulla
venga enunciato con vo caboli che non sieno perfettamente noti, o chiaramente
definiti ; 2.º che l'ordine del ragionamento sia l'inverso di quello che
conduce l'analisi alla soluzione d'una quistione qualunque; di tal che sieno
enunciate da principio le operazioni da eseguirsi per giugnere al proposto
scopo, e dimostrata indi la loro esattezza, come se se'n facesse la pruova. Per
lungo tempo si credette, che il me todo sintetico fosse il solo conveniente
all'in segnamento, o sia all'arte didascalica, come quello che si prefigge di
dimostrare le verità già note, e non di trovarne delle nuove; e insino a che
prevalse una tale opi nione, le scienze matematiche diedero alle altre il
perfetto modello del metodo sinte tico. Ma la sperienza ha fatto conoscere, che
il dimostrare le verità generali rica vate dalle idee particolari per quella
stessa via, per la quale sono state trovate, non solamente è più sicuro, e
riesce più fa cile alla ragione, ma giova ad introdurre la mente nell'arte
dello inventare; il per chè l'insegnamento delle scienze naturali, è oggidì
passato dal sintetico all'analitico. Del resto l'intelletto fa un promiscuo uso
d'ambedue, e per saggiare le verità tro vate per mezzo dell'uno ricorre sovente
all'altro, sì che non si dà scienza, la quale possa dispensarsi d'alcuno di
essi, comechè si possa nella generalità affer mare, che l'analitico conviene
più al sa pere sperimentale, e il sintetico al posi tivo, o razionale. V.
Analisi , Sintesi. Per una conseguenza delle cose dette lo studio delle
lettere, della erudizione, della giurisprudenza e di tutte le così dette
scienze positive è rimaso e rimarrà sotto la dominazione del metodo sintetico.
È pro prio della Logica l'additare l'uso del me todi più convenienti a ciascun
genere d'in segnamento. Ma nel logico linguaggio il vocabolo metodo è adoperato
in un senso più generico, cioè di ordine, e di una conveniente disposizione di
parti, dalle quali risulti la forza, la chiarezza, o l'ele ganza del
ragionamento, e del discorso. V. Logica. - METRo. V. Verso. MEzzo (prat. e
spec.), quel che con giunge l'azione dell'operante col suo fine. In questo
senso il mezzo può anche es sere un fine intermedio in una seguela di azioni
connesse, che tendono tutte ad un medesimo fine. Sarebbe questo il fine cui
degli scolastici. V. Fine. Per un altro significato a questo affine, vale causa
intermedia o secondaria, la quale sta tra la movente e l'efficiente. Così Dante
chiamò mezzo la legge naturale, o le cause seconde, per le quali Dio governa.
Presso e lontano li nè pon nè leva: Che dove Dio senza mezzo governa La legge
natural nulla rilieva. (Par. C. XXX.). Dicesi ancora mezzo il fluido ambiente,
o il fluido circonfuso a corpi, de quali la scienza considera il moto, o la
quiete. In -Al72 – questo senso è spesso adoperato dal Gali lei, e prima di lui
dallo stesso Dante: Lo viso mio seguiva i suo' sembianti E segui fin che 'l
mezzo per lo molto Gli tolse 'l trapassar del più avanti. (Par. C. XXVII.).
MICRocosMo (spec.), il mondo compen diato nell'uomo. - È una immagine, che
dall'antica è pas sata nella moderna filosofia, e che sarà di tutti i tempi,
perchè fondata nella ve rità. La materia organizzata, mossa e di retta dalla
volontà e dalla sostanza intel ligente dell'uomo, è un emblema, o un ritratto
in piccolo della grande macchina dell'universo, mossa e regolata dalla su prema
intelligenza del suo Autore. La fab brica del mondo e quella dell'uomo son due
opere della stessa mano, in una delle quali trovasi il compendio di tutte le
per ſezioni dell'altra, materia, forme, orga mismo, connessione di parti, moto,
or dine, proporzioni, e attitudine ad obbe dire ad una potenza attiva ed
intelligente. La sola differenza, che rende men per fetta la somiglianza, è che
la potenza mo trice del mondo è fuori del mondo stesso, mentrechè nell'uomo forma
parte del suo composto; che in quello è infinita e per fetta, in questo, finita
ed imperfetta. Ma quando si considera, che cotesta po ienza nell'uomo, è ancor
essa una im magine della divina, da cui riceve lume e guida; più chiara ancora
risulta la so miglianza tra l'una e l'altra opera, sì che per doppia ragione
può l'uomo chia marsi un microcosmo, perchè rappresenta tanto il sistema
materiale, quanto l'intel lettuale dell'universo. V. Intelletto, Uni 176' SO.
MICROGRAFIA (gree. sup.), descrizione degli oggetti, che son visibili soltanto
col l'uso del microscopio. - Se cotesto vocabolo fosse utile o neces sario,
tutte le parti dell'entomologia, della fisiologia, della botanica, e della mine
ralogia, che versano circa le qualità de gli oggetti microscopici, verrebbero
con fuse sotto questo nome solo. D'altra parte il microscopio che è un
instrumento, non può determinare nè gli obbietti nè il fine di tutte le
scienze, le quali possono far Ile uSO, . McRoscopio (spec.), strumento desti
nato ad ingrandire gli obbietti, che per la loro picciolezza soltraggonsi alla
visione. Ottiensi l'ingrandimento presentando gli obbietti all'occhio sotto un
angolo mag giore di quello della vista naturale. I mi croscopi son semplici o
composti. Sem plici diconsi le lenti molto convesse, che ingrandiscono
l'obbietto. Senza l'aiuto di tali lenti un oggetto posto alla distanza della
visione distinta, si presenta all'oc chio sotto un angolo troppo piccolo per
poter essere veduto chiaramente; e però lo avviciniamo quanto più possiamo
all'or gano, per ottenere un angolo ottico mag giore. Ciò non ostante, siccome
in questa posizione i raggi di luce che l'obbietto tra manda cadono sull'occhio
in direzioni trop po divergenti e refratti dall'occhio stesso, e non possono
tutti unirsi sulla retina; così l'immagine dell'obbietto riesce sempre in
distinta e confusa. Ora per evitare la di vergenza de'raggi della luce
adoperasi un vetro ottico convesso, acciocchè l'occhio riceva i fascetti della
luce sotto la stessa direzione, nella quale li riceverebbe, se l'oggetto fosse
più grande e collocato alla distanza proporzionata alla forza della vi – 175 –
sta.. I microscopi composti, o doppi son formati di più lenti e di più tubi,
dispo ste le lenti per modo che sieno nel me desimo asse, il quale passi per
l'oggetto posto nel fuoco del vetro ad esso più vi cino. Così i raggi della
luce attraver sando questo vetro si frangono , e pro ducono nel fuoco anteriore
un'immagine più grande. Cotesti raggi, usciti dal pri mo vetro incontrano la
seconda lente, la quale accresce ancora di vantaggio la convergenza loro, sì
che l'occhio vede gli obbietti sotto un angolo più aperto, e l'obbietto gli
apparisce più grande, ap punto perchè me giudica dall'apertura del l'angolo. -
I microscopi semplici possono ancor essi avere più lenti, il che si pratica
quando queste si facciano molto convesse, per avere un maggiore ingrandimento
dell'obbietto. In questo caso vedesi diffuso tutto quel che circonda il punto
principale a cagione del l'aberrazione di sfericità, per evitare il qual
inconveniente formasi il microscopio semplice di due vetri eguali, piano-con
vessi, o sia convessi da una faccia e pia mi dall'altra, che si accoppiano dal
lato piano, frapponendovi un diaframma, o una lamina bucata nel suo centro.
Luſi zio di tale lamina è d'intercettare tutti i raggi troppo distanti
dall'asse, acciocchè questi non rendano diffusa l'immagine. Quanto a tubi
diversi, che entrar possono nella composizione de'microscopi, la fun zione lero
è di avvicinare o allontanare le lenti come meglio si voglia. Appartiene
all'ottica lo spiegare i vari rapporti delle distanze degli obbietti dal fuoco
delle lenti e dall'occhio dell'osser vatore, onde ottenere maggiori o minori
ingrandimenti; dal che nasce ancora la varia forma de'microscopi. Vuolsi quì
sol tanto notare, che la scienza e le arti ot tiche sono nate dallo studio
della naturale conformazione dell'occhio, e son per con seguente dovute alla
notomia. Gli antichi le ignorarono (giusta quel che abbiamo accennato
nell'articolo lente), e i moderni stessi non han saputo dalla teorica della
visione, ricavare l'arte di costruire micro scopi, se non al cominciare del
decimo settimo secolo. Da quel tempo in qua co testo strumento ha riversato i
suoi van taggi sulla notomia, non che sopra tutte le scienze naturali; ed ha
aperto all'uomo la strada per penetrare nel regno degl'in finitamente piccoli.
V. Lente, Ocehio. MIDOLLA e MIDOLLo (spec.), sostanza, molle oleacea, contenuta
nelle cavitadi delle ossa. Le ossa principali del corpo, o hanno una grande
cavità, o sono spugnosi e pieni di cellette: in ambedue le spezie è
internamente riposta cotesta sostanza mem branosa, contenuta in proprie
vescichette, che mettono l'una nell'altra. La membrana di cui sono internamente
foderate le ossa lunghe, è detta midollare, e così pure è denominato il canale,
che è da quella riempiuto: la stessa diffondesi tra le la mine del tessuto
spugnoso che è riposto ne capi, ne condili, e nelle articola zioni delle ossa,
alle quali serve d'in terno periostio: in essa pure diffondonsi i vasi
arteriosi e venosi, i quali servono alla nutrizione delle ossa, del pari che i
pochi loro nervi e taluni vasi linfatici. Nelle cellule poi delle ossa piane la
stessa sostanza prende il nome di succo oleo so, o midollare. Molte ossa non
pertanto son prive di sostanza midollare, come le corna de cervi, le forbici
del granchi ed altri. – 174 – Midolla allungata è la parte midollare del
cervello e del cerebello, congiunta in uno, venendo la parte anteriore di essa
dal cerebro, e la posteriore dal cerebello. V. Cerebro. Midolla spinale è una
continuazione della midolla allungata, o sia della parte midollare del cervello
fuori del cranio. V. Spina. MILLANTERIA (prat.), il lodar se, e il far le cose
sue maggiori di quel che sono, e di quel che possono essere. E definizione del
Varchi. Differisce al quanto dalla vanagloria, ed è sinonimo di iattanza. V.
queste voci. MINERALE (spec.), materia inorganica, che sta sotterra. -
Differisce alquanto dal fossile, che è più generico; riferendosi il minerale, a
quel che si cava dalla miniera, o ivi si trova. V. Fossile. MINERALoGIA (spec.
e crit.), la parte della storia e delle scienze naturali, che versa circa le
sostanze inorganiche le quali trovansi nel seno della terra. La conoscenza
delle varie spezie delle terre, delle pietre, desali, del cristallina turali,
decorpi organici petrificati, deme talli, delle produzioni vulcaniche, son
tutti obbietti di questa parte della storia naturale, e della scienza che ne
esamina la proprietà. Altra volta la mineralogia è stata pu ramente
descrittiva, e al pari di tutte le altre parti della storia naturale, non ebbe
per lungo tempo se non osservatori vol gari, i quali pretesero di giudicare
delle qualità del fossili pesoli loro caratteri este riori. Ma quando le
osservazioni de fatti particolari han somministrato alla mente dati
sufficienti, a potere per mezzo della induzione pervenire alla cognizione di ta
lune verità generali; e quando la chimica ha cominciato a somministrare i lumi
ne cessari a conoscere e a spiegare i feno meni, nati dalla composizione e
scompo sizione del corpi; si è conosciuta altresì la necessità di suddividere
la mineralogia in altri studi ausiliari, o dipendenti, non che di separare la
parte tecnica dalla scientifica. La chimica applicata alle so stanze minerali
ha dato i mezzi per cono scere talune delle loro proprietà essenziali, mentre
altre ne ha somministrato la fisi ca ; sì che da entrambe è nata l' oritto
gnosia, o sia l'arte di distinguere i ge neri e le spezie per un triplice
carattere, cioè l'apparente, il chimico, ed il fisico. V. Chimica,
Orittognosia. Similmente quando le osservazioni fatte sulle forme regolari di
taluni corpi dimo strarono, che passando essi dallo stato li quido o gassoso al
solido, assumono una data forma; che una tal forma nasce dal l'azione
reciproca, che le molecule loro esercitano le une sopra delle altre; che da
tale azione, allorchè le molecule si uni scono nella direzione delle rispettive
fac ce, nasce la coesione tra loro; e che da tal coesione predisposta dalla natura
con leggi costanti ed invariabili , nascono le forme de cristalli, le quali
sono altrettanti caratteri discerniſivi delle sostanze mede sime; vennero i
mineralogisti geometri a spiegare, come le forme di cristalli sieno perſetti
poliedri, de quali gli angoli hanno ancor essi un valore determinato ed in
variabile. Così nacque la cristallografia, scienza del tutto geometrica, la
quale ha dato una teorica spiegazione della strut tura del cristalli, delle
varie loro forme, – 175 - della simmetrica disposizione del piani dai quali son
formati, e del diversi rapporti delle parti loro. V. Cristallografia. Non è
questo il solo soccorso che la mi neralogia ha ricavato dalle scienze mate
matiche; dapoichè senza l'aiuto della mec canica e della idraulica, non avrebbe
avu to i mezzi nè d'introdurre l'aria respira bile nel profondo delle sue cave,
nè di condurvi canali, nè di cavar fuori le co piose vene d'acque che da esse
sgorgano, nè di dar la legge a tali acque, ridu cendole in alvei e canali
sotterranei, nè di portare insino alla esterna superficie le grandi moli di
minerali che se n'estrag gono. Dopo tanti e tali progressi la mi neralogia
lasciando alla storia naturale la sua parte descrittiva, è passata a formare
parte delle scienze fisico-matematiche. V. Matematica. Finalmente la
mineralogia per la cono scenza della varia composizione delle so stanze terrose
o lapidee, delle omogenee, delle eterogenee, e dell'andamento o gia citura
degli strati sottoposti alla nostra su perficie, ha somministrato alla geologia
una gran parte de'dati, sopra i quali co testa scienza fonda i suoi giudizi
intorno alla così detta teoria della terra. V. Geo logia, Terra. - MINIMo. V.
Menomo. MiscREDENTEeMiscREDENZA(spee. e teol), condizione o vizio d'un animo
che si ri fiuta tanto alla comune credenza d'istin to, quanto a quella di
ragione. V. Cre denza. - - - sº MisERABILE e MiserevoLE (prat.), ri pieno di
miseria, o degno di compassione, V. Miseria. MisERANDo (prat.), più che
miserabile, vale come esempio di calamità o di fatto atroce, da esser quello
compatito, e que sto abborrito. V. Miseria. MisERAZIONE (prat.), vale
compatimento, e misericordia. V. queste voci. MISEREvoLE. V. Miserabile.
MISERIA e MisERo (prat.), l'infelicità, che desta l'altrui commiserazione.V.
Infelicità. E però i nostri moralisti han detto es sere la miseria senza
invidia. In questo senso adoperolla Dante allorchè disse: Io son fatto da Dio,
sua mercè tale, Che la vostra miseria non mi tange. Inf. C. II. Vale talvolta
lo stato dell'uomo soggetto a mali inevitabili di natura, onde la mise ria si
ha come la condizione propria della vita umana: - Quanto più m'avvicino al
giorno estremo Che l'umana miseria suol far breve Più veggio 'l tempo andar
veloce e leve, E'l mio di lui sperar fallace e scemo. (PETR. Son. XXIV. ). Vale
ancora stato di povertà e di scar sezza d'ingegno, onde si applica agli uo mini
di poco intelletto o sentimento. Vale finalmente stato e condizione d'uomo che
corre dietro, a falsi beni della vita , nel quale senso diciamo miseri gli
avari e i malvagi. E però misero non è mai l'uom sa piente, il quale sa vincere
il dolore e trionfar del mali della vita sensitiva. È questo il bel frutto
della pratica sapienza, di cui parla Cicerone ; si enim sapiens - 176 - aliquis
miser esse possit, nae egoistam gloriosam memorabilemoue virtutem non magno
aestimandam putem. (de finib. L. III. C. III.). MisERIcoRDEvoLE (prat.), capace
di due sensi, l'uno passivo, ed attivo l'altro, cioè degno di misericordia , e
misericor dioso. V. questa voce. MISERIcoRDIA (prat.), affetto virtuoso, che ci
muove ad aver compassione d'al trui nelle sue miserie, e a sovvenirlo. È
diverso dalla compassione e dalla com miserazione, da cui sogliamo essere mossi
anche verso di coloro, i quali han meri tato il male che gli rende miseri ed
infe lici. Cicerone definì la misericordia: aegri dudo ea miseria alterius
infuria laboran tis; e a tal definizione soggiunse: nemo enim parricidae, aut
proditoris suppli cio misericordia commovetur (Tusc. IV. cap. 8.). Par che
Seneca riprender volesse Cice rone di questa definizione, quando per
giustificare i principi della setta stoica im prese a sostenere che la
misericordia è un vizio, e non una virtù. Ma niun altro luo go più di questo
scopre quanto affettata e falsa fosse la virtù degli stoici, e quanto manierato
ed esagerato lo stil di Seneca, quando volle difenderla e dialetticamente
sostenerla. Notabile tutto intero è il capo quinto del secondo libro del suo
trattato de cle mentia. « Siccome la religione onora gli dei, e la
superstizione li vilipende; così i buoni eserciteranno la clemenza e la man
suetudine, ma eviteranno la misericordia. Questa infatti è vizio di
picciolissimo ani mo, il quale vien meno all'aspetto de'mali altrui, il perchè
è comune alla parte più spregevole degli uomini. Son le vecchia relle e le
donnicciuole, quelle che muo vonsi alle lagrime del più ribaldi, e che se il
potessero, romperebbero le porte delle prigioni. La misericordia guarda non la
eausa del male, ma sì bene la sorte del delinquente; laddove la clemenza è
sempre compagna della ragione. So che gl'im periti male sentono della setta
stoica, te mendola per soverchiamente dura, e per incapace di dare a potenti e
a re umani consigli. Le si rimprovera sopratutto che neghi all'uom sapiente il
commiserare e il perdonare; le quali cose, se sieno in tese secondo il rigor
delle parole, sareb bero odiose, perchè non lascerebbero ve: runa speranza di
scampo agli errori uma ni, e renderebbero inevitabili le pene. Se così fosse,
nulla si troverebbe di più spie tato di questa setta, la quale farebbe un
precetto del rinegare l'umanità e chiude rebbe all'infortunio il suo più sicuro
por to, che è il mutuo soccorso. Ma per ve rità, niuna setta è di questa più
benigna, più indulgente, degli uomini più amante, e al comun bene più intenſa,
per modo che suo istituto è l'esser soccorrevole, e provida non solamente
agl'individui, ma alla universalità. La misericordia è il do lor che l'animo
prova per l'aspetto delle altrui miserie; ovvero è la tristezza che l'animo
concepisce permali che sopravven gono a quelli, i quali ne sarebbero imme
ritevoli. Ora il dolore o la tristezza cader non può nell'animo dell'uom
sapiente : la sua mente è serena, nè può avvenir cosa che l'adombri. Nulla
conviene tanto all'uomo, quanto un animo grande. Ma come supporlo grande, se il
timore e la mestizia lo confondono, o l'annebbiano e lo contraggono ? Ciò non
avverrà al sapiente neppure nelle sue proprie cala - 177 - mità, nelle quali
ripercuoterà e farà in nanzi a se cadere l'ira della fortuna, ser vando sempre
una equabile placidezza ed immobilità, il che far non potrebbe se desse ricetto
alla tristezza. Il sapiente inol tre antivede, ed è sempre pronto nelle sue
deliberazioni, dapoichè il liquido e il puro non può mai nascere dal torbido.
Inabile è la tristezza a guardar nelle cose adden tro, a trovare gli utili
partiti, a schivare i pericolosi, o a ben valutargli. Laonde non commisera,
dacchè non si può com miserare senza partecipar della miseria ; ma pratica con
volenteroso e lieto animo quel che i misericordiosi farebbero colla tristezza o
col dolore ». La misericordia dunque, secondo Se necà , è vizio non perchè
soccorre, ma perchè procede da un moto dell'animo, ch'esser dovrebbe immoto a
qualunque affetto. Ma cotesto moto, secondo il senso del vocabolo latino, è
suscitato da due sentimenti certamente virtuosi, la giustizia e l'umanità, vale
a dire da quella virtù perfetta nella quale gli stoici riponevano il sommo
bene. Ora quando egli suppose, che la misericordia traesse il suo princi pio
dalla sola compassione de'mali altrui, e quando dichiarolla vizio, degno di co
loro, che per favorire l'impunità aves sero sposato la causa de'delinquenti,
mutò il significato del vocabolo , e tolse dalla definizione di Cicerone il suo
essenzial ca rattere, che sta nelle parole ea miseria alterius infuria
laborantis. I suoi argo menti, fondati tutti nell'ambiguità delle parole
aegritudo e tristitia, formano una sofistica declamazione, diretta a rovesciare
una definizione d'un senso univoco presso i moralisti e presso i gramatici. La
lingua italiana ha ritenuto il puro significato del vocabolo latino ; nè alcun
moralista ha considerato altrimenti la mi sericordia, che come una virtù, nella
qua le son racchiusi la pratica e l'adempimento di tutti i doveri verso i
nostri simili. Che anzi, tanto nel senso morale, quanto nel teologico tutti
riconoscono nella Divinità, la sede della misericordia: In te misericordia, in
te pietate In te magnificenza, in te s'aduna Quantunque in creatura è di
bontate. DANTE Par. XXXIII. MISERICORD:oso (prat.), chi sente ed esercita
misericordia. È epiteto, per eccellenza, del signor Iddio, che è la fonte di
tutte le virtù, e spezialmente della benevolenza per le sue creature. Nel
comune significato vale caritatevole. V. questa voce. MISFARE (prat.), far male,
o l'offen dere il diritto altrui. V. Fare. MISLEALE e MISLEALITÀ (prat.), nega
zione del leale, al pari di disleale. V. que ste voci. MISTERo e MISTERIO
(spee. e disc.), fatto arcano, o perchè tramandato colla legge del segreto, o
perchè espresso con figure, o perchè incomprensibile. In ciascuno de tre
dinotati sensi si suo le adoperare la voce mistero, che fu pure accolto
dall'antica filosofia. Ma questa aver non dee dottrine o linguaggi arcani, i
quali la farebbono degenerare in sette, o in quelle scuole di false dottrine, o
an che di ciurmerie nelle quali cadde l'inse gnamento esoterico degli antichi.
V. Eso terico, 25 – 178 – Misteri della natura chiamiamo tutti i fatti
naturali, de'quali non possiamo spie gare le cause, nè intendere come avven gano;
nel quale senso diciamo essere noi circondati da misteri, e l'uomo stesso es
sere un mistero. Da ciò nasce che siam soliti confondere l'incomprensibile
coll'ar cano. V. Incomprensibile. - MISTICISMo (crit.), nome moderno dato a que
sistemi di filosofia, speculativa o pratica, pe quali vuolsi spiegare per cause
soprannaturali ed incomprensibili le verità razionali. MisTIco (prat.),
addiettivo, vale mi sterioso, o sia tutto quel che contiene un senso
incomprensibile o riferibile a cagioni ignote o soprannaturali. Mistico
(prat.), sostantivo, uomo de dito a mistiche speculazioni. MISTo (spec.), nome
che Locke diede a modi del pensiero, per dinotare l'unione di più idee semplici
di diversa spezie, dalla quale risulti una idea complessa, ma unica. È nel
linguaggio del cennato autore, un contrapposto del modo semplice, che contiene
una combinazione d'idee sem plici della stessa spezie. V. Modo. L'una e l'altra
denominazione son re lative alla categorica partizione, che que gli fece de
vari generi delle idee; dapoi chè le distinse in semplici o complesse, e divise
le complesse in idee di sostanze, di modi, o di relazione, suddividendo i modi
in semplici e misti. Per meglio intendere un tal concetto, chiamò egli miste le
combinazioni che il pensiero fa delle diverse idee semplici, le quali, secondo
lui, non hanno altra realità fuor di quella che dà loro lo stesso pensiero.
Tali sarebbero le idee di gra titudine, di amicizia , di menzogna, di
obligazione, vale a dire le idee ge nerali, o mozioni che l'intelletto forma dalle
idee particolari d'un uomo ricono scente, amorevole, osservatore delle pro
messe. Cotesto divisamento è coerente al resto della dottrina di Locke, il
quale nel le idee generali, non vide altro che un arbitrario significato, ma è
affatto contra rio alla sana dottrina della ragione, la quale vede nelle idee
generali quella stes sa realità, che è nelle cose significate. E questa una
delle pruove del nominalismo di Locke, il qual è stato men giustamente creduto
da suoi fautori, per puro concet tualista. V. questa voce. Del resto le
categorie delle idee proposte da Locke non sono più in uso, tranne la
distinzione tra le idee semplici, e le com plesse, e fra le idee e i modi. V.
Idea. MisuRA (spec.), relazione del meno al più, per la quale determiniamo la quan
tità d'una cosa per rispetto ad un'altra. V. Quantità, Relazione. Le quantità
di qualunque genere esse sieno, si misurano paragonandole a gran dezze dello
stesso genere, considerate que ste come modelli invariabili, i quali pren dono
il nome di unità di misura, dicesi misura d'una grandezza il rapporto che
questa serba colla sua unità. Così per esem pio, avendo stabilito il metro per
unità delle lunghezze, la distanza tra due punti sarà misurata, allorchè verrà
espressa in metri. La misura di una grandezza es sendo un rapporto, ne segue
che essen zialmente è un numero astratto. E sicco me l'estensione può avere
una, due, o – 179 – tre dimensioni, secondochè si tratti di li nee, di
superficie, o di solidi; così l'unità di misura può essere lineare, superficia
ria, o solida. Per la maggiore semplicità de'calcoli si è convenuto di prendere
l'uni tà quadrata per misura delle superficie, e l'unità cubica per la misura
desolidi. Il vocabolo misura, nelle matematiche pure e nelle applicate si
adopera ancora in un significato diverso dal precedente. Quando due quantità
dipendono l'una dal l'altra in modo , che al variar dell'una varia in
proporzione l'altra, scambiansi insieme, e l'una dicesi misura dell'altra. In
questo significato dicesi che nel cerchio gli archi misurano gli angoli al
centro, e che il peso d'un corpo misura la mas sa, perchè gli archi e i pesi
son propor zionali agli angoli e alle masse. E quanto alla misura del moto, i
fi sici la desumono dalla velocità, che è lo spazio percorso dal mobile in un
dato tem po, (o più generalmente detto, è il rap porto dello spazio al tempo)
per modo che dicesi un moto doppio o metà d'un altro, allorchè le
corrispondenti velocità seno in questa medesima relazione. Nei moti uniformi,
essendo costante la velo cità, e proporzionale lo spazio al tempo, possono lo
spazio e il tempo prendersi, l'uno per misura dell'altro. Di quà le mi sure
naturali del tempo, dedotte dalle pe. riodiche rivoluzioni della terra intorno
al suo asse, o sia del giorno; della terra intorno al sole, o sia dell'anno; e
della luna intorno alla terra, o sia del mese lunare. V. Spazio, Tempo,
Velocità. E quì vuolsi notare, che tanto nel caso in cui si valutino
direttamente le gran dezze paragonandole ad altre dello stesso genere prese per
unità; quanto nel caso in cui si valutino per mezzo di altre gran dezze
proporzionali, la misura d'una gran dezza assoluta o relativa, è sempre un nu
mero. E però il numero è il principio an cora di tutte le misure civili di
lunghez za, di superficie, di capacità e di peso, che sono in uso tra i diversi
popoli della terra. V. Mumero. Per lungo tempo si è desiderato di tro vare
nella natura una unità invariabile, la quale servir potesse di elemento primi
tivo alle misure civili , e si credette da prima di averla trovata nella
lunghezza del pendolo semplice, che batte i secondi di tempo. Ma quando si
conobbe che que sta lunghezza non è la stessa ne diversi punti della superficie
terrestre, e che di minuisce, come i pesi, all'equatore, e cresce verso i poli;
e quando considerossi la difficoltà che v'ha nella pratica di de terminare con
esattezza la lunghezza del pendolo, cominciaronsi a cercare altre unità
invariabili, le quali servir potessero di elementi alle comuni misure. Il primo
pensiero che presentossi allora all'accade mia di Francia fu la misura d'un
grado del meridiano terrestre. Ma quest'altro dato era per la stessa ragione
della figura della terra, variabile; dapoichè il grado sareb be stato troppo
corto verso l'equatore, e troppo lungo verso i poli. Alla perfine l'unità
invariabile fu presa nella diecimi lionesima parte del quadrante del me ridiano
terrestre, o sia della distanza dal polo all'equatore. V. queste voci. La
divisione e la moltiplicazione deci male di questa unità, la rende atta a mi
surare le più piccole e le più grandi quan tità lineari; per modo che l'unità
numerica, considerata nelle diverse classi del sistema decimale, è sempre
l'elemento della mi sura delle lunghezze, e per conseguente delle superficie e
delle solidità. V. Unità. º – 180 – Mite (prat.), indole benigna, avversa a
dure maniere. V. Indole. MiToLoGIA (crit.), trattato delle anti che favole e
dell'origine loro. V. Favola. È parte della erudizione e dello studio delle
lettere. V. Erudizione. In un senso più limitato si adopera per esprimere la
parte delle antiche favole, che concerneva la dottrina teologica e re ligiosa
del paganesimo. MoBILITÀ (spec.), la potenza o la ca pacità del muoversi e
dell'esser mosso. La possibilità di essere mosso è una proprietà generale del
corpi, e da molti vien considerata come una delle qualità della materia, dette
primarie. V. Mate ria, Moto. - Trasportata al morale, vale, volubilità, e
leggerezza, ond'è che dassi per epiteto alla fortuna. V. questa voce. MoDA
(spee. e crit.), opinion domi mante del bello, dettato dal gusto dell'età
presente. V. Gusto. In nn significato men proprio, prende il nome di moda
l'opinion corrente, con siderata per rispetto alla sua mobilità. La moda è una
sorgente d'invenzioni, le quali cercano di conciliare insieme il bello e il
dilettevole, il perchè ella prende norma dal gusto, ed è variabile come quello.
È variabile altresì, come l'opinio me, quando si attacca al verisimile e non al
vero, o al relativo e non all'assoluto. V. Opinione. MoDALITÀ (spee. e ontol.),
la nozione del modo, che i logici chiamano ragion formale del modo. È
un'astrazion dell'astratto, che esprime l'operazione che fa la mente nel conce
pire il modo. V. Modo. Kant definì la modalità, il concetto del l'esistenza
delle relazioni che formano gli obbietti del nostri giudizi. V. Forma.
MoDERANZA e MoDERAzioNE (prat.), di sposizione dell'animo a temperare gli ap
petiti , e a ridurgli al giusto uso della ragione. V. Appetito. Considerata una
tal qualità, come già ridotta in abito, scambiasi colla virtù del la continenza
e della modestia, unite in sieme. - Come di perfetta virtù parlonne Orazio,
allorchè ne fece il ritratto nell'uomo, che subordina i desideri al necessario,
e si gnoreggia colla fortezza dell'animo tutte le vicissitudini della fortuna:
Desiderantem quod satis est, negue Tumultuosum sollicitat mare, Nec saevus
Arcturi cadentis Impetus, aut orientis Haedi: Mon verberatae grandine vineae,
Fundusque mendaa ; arbore nunc aquas Culpante, nunc torrentia agros Sidera,
nunc hiemes iniquas. Od, I. lib., III. Differisce non pertanto dalla modestia,
che esprime la giusta estimazione di se medesimo. V. Modestia. MoDESTIA
(prat.), sentimento che ci ricorda l'imperfezione del proprio essere, e
c'impedisce di elevarci sopra degli altri. Senza modestia non si dà perfetta
vir tù, perchè questa consiste principalmente nella severità del giudizio che
portar dob biamo di noi stessi. L'uomo lodato ed am mirato dalla moltitudine,
il quale condanna se stesso, ed è intento a conseguire quel – 181 – che gli
manca, più che a compiacersi di ciò che possiede, è il ritratto della per fetta
virtù umana. Il pregio di cotesta vir tù è rilevato dal contrapposto de vizi
che l'offendono, come l'orgoglio, l'immode rato amor di se medesimo, la vanità,
la iattanza, ed il fasto esteriore. Quanto mi sera non è la condizione di
coloro, i quali corron dietro alla lode, e pongono il giu dizio altrui nel
luogo della propria co scienza? Quanto più dispregevole non è la condizione di
quegli altri, i quali consape voli di non aver meritato lode, la strap pano per
mezzo dell'autorità, e del pote re, appieno soddisfatti dall'aura delle lu
singhevoli parole? La modestia è una virtù raccomandata dalla natura, la quale
ce ne ha dato l'istinto nella verecondia e nel pudore, impresso persino nel
volto della innocente età. E però dee l'educazione confermarla, risparmiando la
lode a giovani, e ratte mendo in essi gl'impulsi dell'amor proprio e della
presunzione. Dovrebbero gli educa tori praticare quel che di se scrisse il
dotto olandese Adriano Giunio, cioè che faceva sempre a giovani suoi allievi il
quadro del le proprie imperfezioni, ut juventus ab eremplo meo praeceptum
hauriat mode stiae, ut certum fructum peritiae certo judicio asseguatur. Id
enim testor, nihil mihi secundum benedictionem Dei tam commodavisse in rebus
omnibus, quam illam de me ipso diffidentiam ea con scientia infirmitatis et
pudoris mei, et studiosam allorum, quibuscunque adſui, observantiam (Jun. in
vita sua). Per altro vuolsi dire del Giunio, che amò la modestia, tranne che
nello scrivere della vita sua, vanità per altro non infrequente ne'dotti. La
modestia, considerata come virtù, ha due parti, delle quali una sta nel sen.
timento, l'altra nell'abito esterno del cor po. Precetti della prima sono: il
rispet tare gli altri: il diffidare di se medesimo: il ripassare nella età
matura la vita e i fatti della giovinezza ; del quale ultimo precetto ampio è
il significato e la forza, perchè abbraccia i fatti così dell'intellet to, come
della volontà. Bello sopra ogni altro è l'esempio, che ne abbiamo in uno de più
profondi ingegni, che tutti ammi rano per l'erudizione, e per la sagacità della
mente, Ugone Grozio, il quale scri vendo ad un altro uomo celebre dell'età sua
facevagli la seguente confessione: re sipiseere caepi ab ea insania, quae mihi
eum aliis nonnullis communis fuit , ut caeca quadam innotescendi libidine nihil
nisi infamiam meam publicarem , da remque ea mundo spectanda, quae nune ne
solus quidem apud me sine magno pudore, et acri doloris sensu conspicio
(Baillet, jugement des savans P. II, cap. IX. des prejugés de l'age). La
seconda parte della modestia, ap plicata a pratici portamenti della vita, com
prende, secondo la sentenza di Cicerone, omne decorum, sive quod perlinet ad
omnem honestatem , in unoquoque ge nere virtulis. Definì egli ancora tutto quel
che deesi comprendere nel nome decorum: omne quod elucet in vita, et movet ap
probationem eorum, quibuscum vivitur, ordine, et constantia , et moderatione
dictorum atque factorum (de off lib. I. cap. XXVIII.). Il decorum de Latini è
il nostro conveniente, al quale dobbiamo adattare i fatti e gli abiti propri di
ogni età. Precisa ed acconcia è la distinzione che il lodato autore ne fa nel
libro de senectute. cursus est certus aetatis , et tuna via naturae, eague
simplex, sua que cui gue parti aetatis tempestivitas est – 182 – data, ut et
infirmita; puerorum, et fe rocitas juvenum , et gravitas fam con stantis
aetatis, et senectutis maturitas naturale quiddam habeat, quod suo tem pore
percipi debeat (de Senect. C. X.). A cotesta parte pratica appartiene princi
palmente la verecondia , nella quale ab biam pure la natura per guida. In fatti
siccome ella ha esposto allo sguardo di tutti la forma e l'aspetto del corpo,
così ne ha coverto o nascoso quelle parti che servir debbono alle sordide
funzioni della vita animale. Sopra questo fatto della na tura si è modellata la
verecondia dell'uomo: hane naturae tam diligentem fabricam, dice lo stesso
Cicerone, imitata est homi num verecundia: quae enim natura oc cultavit, eadem
omnes, qui sana mente sunt, removent ab oculis; ipsique neces sitati dant
operam, ut quam occultissime pareant: quarumque partium corporis usus sunt
necessarii, eas neque partes, neque earum usus suis nominibus ap pellant,
quodgue facere turpe non est, modo occulte, id dicere obscaenum est. AVos, egli
conchiude, naturam sequamur, et ab omni quod abhorret ab oculorum auriumque
approbatione fugiamus. Sla tus , incessus, sessio, accubatio , vul tus, oculi,
manuum motus, teneant illud decorum (de offic. lib. I. cap. XXXV.). V. Verecondia.
- MoDIFIcAzioNE (spec. e ontol.), il can giamento che il subbietto riceve per
una diversa maniera di essere. E l'effetto che il modo produce nel sub bietto.
V. Modo. Mono (spec. ontol. disc. e crit.), qua lità che un soggetto può avere
e non ave re, senza che la sua essenza sia distrutta o cangiata. Il moto e la
quiete son modi d'un corpo. Modi del pensiero diconsi le idee com plesse, o
combinazioni d'idee semplici che l'animo forma, sia considerandole per date
qualità del subbietto, sia astraendole dal subbietto stesso, sia unendo più
d'esse insieme. Il Gelli definì i modi, nostre eogita zioni intorno alle idee
semplici. Ma co testa definizione non lascia bene intendere la natura della
cosa definita. Locke distinse i modi in semplici e misti, e chiamò semplici le
combinazioni d'idee semplici della stessa spezie, senza mistura d'altra idea,
come una decina, un centinaio, un migliaio, composti d'unità aritmetiche;
misti, le idee complesse o le combinazioni di più idee semplici di diversa
spezie, dalle quali l'animo ricava un'idea unica. Per altro una tal distinzione
non è ora accettata nelle scuole , nè è più chiara della definizione ch'egli
diede del semplice e del complesso. V. Misto, Semplice. La definizione del modo
è affatto no minale, perchè risguarda un vocabolo di convenzione ricevuto
principalmente per co modo delle logiche partizioni. Leibnitz propose una
partizione, diversa da quella di Locke, ricavata dagli obbietti stessi delle
idee, cioè in astratti e con creti, gli astratti in assoluti e relativi. gli
assoluti in attributi e modificazioni e gli attributi e le modificazioni in
semplici e composti, i concreti in sostanze ed in cose sostanziali, composte e
derivanti dalle sostanze vere e semplici. Noi non ve diamo di quale utilità
possano essere que ste e simili categorie, utili soltanto ad ac crescere il
logico apparato de nomi, sen za alcun prò dell'intelletto. V. Categoria, – 185
– Modi de sillogismi sono le diverse combi nazioni delle proposizioni, che li
compon gono per rispetto alla loro qualità o quan tità. Coteste combinazioni
servono a sud dividere le figure de sillogismi in diverse spezie. V.
Sillogismo. Modi degrammatici son le varie forme di determinazioni date al
verbo, accioc chè esprima le differenti azioni ed affe zioni del suggetto, come
l'indicativo, l'imperativo, l'ottativo, il congiuntivo, l'infinito. V. Verbo.
Modo, nella musica, detto ancora dai greci tropo e tuono, è voce la quale co
munemente si adopera per esprimere non le leggi del tempi, ma quelle de suoni.
I gradi delle progressioni di qualunque suono dal grave all'acuto hanno un nu
mero prescritto, che dicesi ottava, la quale si va colle medesime interne pro
porzioni ripetendo, quando si vuole più oltre procedere: in quella guisa che
noi nel contare ordinariamente facciamo, ri petendo le decine. Di cotesti gradi
pro gressivi, de quali si compone l'ottava , altri sono intieri ed altri
dimezzati, cioè semituoni. Dalla prescritta collocazione di questi semituoni,
fra i tuoni intieri, na sce l'analogia delle voci in tutta l'ot tava comprese,
colla nota o sia voce fondamentale della medesima, dalla qua le prende nome il
tuono, in cui si can ta, secondo la nostra pratica. V. Musica, Tuono. MoLECOLA
e MoLECULA (spec.), parti cella elementare, sensibile della materia. Vuolsi dire
elementare sensibile, per di stinguere le molecule dagli atomi. Quelle sono
l'ultimo termine delle analisi chimi che, e delle osservazioni microscopiche:
questi son punti matematici che vediamo col pensiero, e del quali supponiamo
l'esi stenza. V. Atomo. MoLESTIA (prat.), fastidio, che si ri ceve per
qualunque disaggradevole im pressione, così nell'esterno, come nell'in terno
senso. Gli stoici la numeravano tra le spezie del dolore. V. Dolore. Applicato
questo vocabolo alle affezioni dell'animo, vale inquietudine.V.questa voce.
MoLLEzzA (spec. e prat.), qualità della materia, che indica uno stato di
coesione delle sue parti, medio tra la durezza e la liquidità. V. queste voci.
Trasportato al morale, vuol dire ecces sivo amor della comodità del vivere, o soverchia
debolezza, nel quale senso è un contrapposto di fortezza. E però diciamo di
essere il pianto segno di mollezza d'ani mo, e molli chiamiamo gli animi che di
mostrano tepidità, o difetto di coraggio. Differisce dalla morbidezza. V.
questa voce. MoLLUsco (crit.), animale molle, non articolato , coverto o non
coverto di nicchio. E nome di classe di molte ed innume revoli spezie di
animali e di vermi, che la zoologia definisce e classifica pe loro caratteri
anatomici. Gli antichi, a comin ciare da Aristotele, compresero sotto que sto
nome gli animali senza sangue, dei quali le parti carnose formano l'esterna
superficie del corpo, portando nell'interno le più solide; o sia quegli animali
che per la struttura loro formano un con trapposto del testacei. I moderni non
so lamente vi hanno compreso i testacei, ma vi hanno altresì incluso tutti
quelli che per la somiglianza della struttura van considerati come generi
affini, Cuvier vi – 184 – ha compreso tutti gli animali senza ver tebre,
provveduti di vasi sanguigni e di una midolla spinale semplice, ma non
articolati. Son essi le infime spezie degli Esseri organici, nelle quali
cominciasi ad am mirare il magistero elementare della na tura, cioè i primi
tipi o rudimenti dell'or ganismo animale, spezialmente per quel che concerne la
generazione. Son queste le spezie, nelle quali la natura ha stabi lito la
generazione solitaria, che in al cune risulta dalla combinazione del due sessi
nel medesimo individuo, e in al cune altre da un solo, il che sparge an cora
lume intorno alla moltiplicazione de gli animaletti microscopici, o infusori.
V. Generazione, Infusorio. Di non minore importanza è lo studio de molluschi
per la geologia. Questa scienza fonda le sue principali congetture sopra le
diverse spezie di nicchi, che trovansi ne gli strati della terra, e de quali va
rico noscendo l'identità colle spezie attualmente viventi, per determinare le
epoche più o meno rimote, in cui il mare ha coperto la terra, o ha insieme con
essa formato una massa fluida, prima che compiute fossero tutte le opere della
creazione. In fine dalle innumerevoli spezie delle con chiglie, le quali si
sono accumulate e si accumulano nel continuo volgere desecoli la geologia
scopre la causa della riprodu zione della materia calcarea, da cui molti fan derivare
l'accrescimento della massa solida e la progressiva diminuzione della parte
liquida del globo terraqueo. V. Geo logia, Mare, Terra. La parte della
zoologia, che tratta dei molluschi, è detta conchigliologia, o con vocabolo più
moderno, malacologia.V. que sle voci, MoLTIPLICE E MULTIPLICE (spec. ontol. e
crit.), la quantità numerale, che ha per suo principio l'unità. Siccome
dall'unità numerica, noi per astrazione ricaviamo l'unità dell'Essere semplice,
scevro di parti; così prendiamo il moltiplice come il suo contrapposto, o sia
come il rappresentante del composto. Nella moderna neologia filosofica è sta to
riprodotto il moltiplice, per esprimere la materia, il non io, e il mondo este
riore. Ma è questa una riproduzione del l'antico linguaggio di taluni
materialisti, i quali contrapponevano il moltiplice alla unità, e l'onoravano
del nome di trascen dentale. Cotesto moltiplice non aveva per suo principio
l'unità; non tendeva a sta bilirla, e non poteva a quella essere ri dotta;
sotto un tal nome, la materia era il principio di tutte le cose. Laonde di
stinguevasi il moltiplice negativo dal po sitivo, il quale solamente
riconosceva per suo principio l'unità. V. Unità. Quantunque molti moderni
autori del la scuola alemanna, o di quelli che ne vagheggiano il linguaggio,
abbiano fatto uso di questo vocabolo, non per istabi lire il moltiplice come
principio, ma per escluderlo, ciò nonostante crediamo che l'esempio loro non
debba essere imitato, tra perchè la loro dottrina corre dietro ad un'altra
estremità opposta che è l'idea lismo, e perchè non hanno essi altro sco po, se
non di oscurare il linguaggio della scienza, nel che non possono certamente
fare autorità. Un particolar significato dà l'aritmetica al vocabolo
moltiplice, ed è quel numero il quale ne contiene un altro in se più volte
esattamente. Così 6 è un moltiplice di 2, e 2 è una parte aliquota di 6; e 12 è
un moltiplice di 6, di 4 e di 3, perchè – 185 – comprende il sei due volte, il
quattro tre volte, e il tre quattro volte esattamente. ASottomoltiplice o
summoltiplice, dicesi quel numero, che è contenuto esattamente in un numero
maggiore. Cotesto vocabolo si applica più spezialmente a numeri, es sendo per
le altre grandezze in maggiore uso la denominazione di parte aliquota. V.
Sottomoltiplice. Quantunque queste voci sien proprie de matematici, pure le ha
talvolta usato per analogia la filosofia speculativa. Ma giova ricordare che i
rapporti della quan tità misurabile, non possono essere ap plicati alle
indeterminate relazioni delle verità metafisiche; e che da simili para goni ne
risultano idee non solamente non esatte, ma confuse, e spesso ancora false.
MoMENTo (spec. erit. prat. e disc.), parte minuta e indivisibile del tempo, che
consideriamo come il principio del moto successivo o della sua durata. V. Moto,
Tempo. Momento chiamano i meccanici la pro pensione che ogni corpo ha di andare
al basso, cagionata così dalla gravità del mobile, come dalla disposizione che
ab biano tra loro diversi corpi gravi ; ov vero come disse il Galilei, è
quell'im peto di andare al basso, composto di gra vità, posizione, e altro dal
che possa essere tal propensione cagionata. Momento chiamasi ancora nella
statica il prodotto d'una potenza per la sua di stanza ad un punto fisso, la
quale dicesi braccio di leva. Supponendo costante la forza, è chiaro che il suo
effetto, o sia il momento cresce al crescere del brac cio di leva. Su questo
principio è fondato l'equilibrio delle bilance. Nella dinamica la parola
momento ha altri significati analoghi al precedente, e distinguonsi il momento
di rotazione e il momento d'inerzia: il primo è il prodotto della forza per la
sua distanza dall'asse, intorno al quale tende a far girare il cor po: il
secondo è la somma del prodotti de diversi elementi materiali d'un sistema pe
quadrati delle loro distanze dall'asse. Momenti nella teorica degl'infinitesi
mali chiamansi le parti infinitamente pic ciole della quantità variabile, o
sieno gl'in crementi o decrementi della quantità, con siderata come in un
continuo flusso. Tali momenti sono risguardati come i principi generatori della
quantità, non perchè ab biano una grandezza propria, ma perchè sono i punti
d'onde comincia la grada zione delle loro differenze. Considerando le quantità
matematiche come generate dal moto, Newton chiamò momenti le flus sioni della
quantità. Con altro nome, ma col medesimo concetto, Leibnitz considerò gl'
infinitesimali come differenze, o sia come parti infinitamente picciole, le
quali essendo prese un infinito numero di volte uguagliar possono una data
quantità ſimi ta. Da tal diversa maniera di risguardare i momenti della
quantità, nacquero le due diverse denominazioni date allo stes so calcolo, cioè
di differenziale, o delle flussioni. V. queste voci. Momento infine, nella
estimazione dei fatti, del pensieri, o degli argomenti d'un discorso, vale
peso, o importanza ; il quale significato ci viene dagli antichi, sì che al par
di loro diciamo esser cosa di grande o di piccolo momento. MoNADE (ontol e
spec.), Essere, o so stanza semplice, immaginata da Leibnitz, e secondo lui,
dotata di percezione e di appetito, che informa un corpo organico. 24 – 186 –
Gli aggregati materiali secondo Leibnitz son pieni di monadi, nelle quali
risiede la forza e il moto; siccome pure le di verse parti d'un corpo organico
hanno le loro monadi, delle quali ciascuna è in serviente alla monade
principale. Le monadi sono di tanti gradi, quanti son quelli che differenziano
l'immensa sca la delle sostanze semplici. La monade pri mitiva è Dio, create
essendo le altre, e però dette derivative. Ciascuna monade è dotata o di
ragione e di appetito (e que sta è l'anima umana), o di semplice per cezione e
di senso (e questa è l'anima de bruti), o di minori gradi di perce zione e di
appetiti, ed in questa classe entran tutte le altre anime degli Esseri
inferiori che bene non conosciamo. Sembra che Leibnitz prendendo da Pi tagorici
il vocabolo abbia voluto spiegare e rendere ragionevole il concetto di quella
scuola intorno alla unità. In fatti chiama egli le monadi unità reali. Nel suo
concetto son le monadi diverse dagli atomi, i quali perchè materiali, non
potrebbero essere gli elementi decor pi. V. Atomo, Unità. MoNDo (spee. ontol. e
crit.), l'ag gregato degli Esseri e delle cose, che il cielo e la terra con
engono. V. Cielo, Terra. I Greci gli diedero un nome ricavato dal la sua
perfezione, o sia dall'ordine e dalla simmetria delle sue parti, cioè zooaos; e
quando lo considerarono come l'aggregato e il composto di tutte le cose, lo
denomi narono ro rxy. I Latini imitarono i Greci chiamandolo mundus, o sia
l'ornato per eccellenza, e universum. Di tutte le an tiche definizioni, la più
acconcia è forse quella che leggesi in Vitruvio: mundus est omnium naturae
rerum conceptio sum ma, coelumque sideribus conformatum (l. IX. c. 4.). Noi al
par de' Greci e dei Latini confondiamo nel comune uso di par lare il mondo
coll'universo. Venendo alle definizioni scientifiche, gli ontologisti lo
considerarono come un ente composto, e andarono cercando a priori gli
attributi, che in tal qualità gli conve nissero. Essi lo definirono, una serie
di enti finiti, simultanei e successivi tra loro connessi. Cotesta definizione,
e tutti gli attributi che dalla stessa facevano di scendere in luogo di
dichiarire il naturale concetto del mondo sensibile, lo rende vano oscuro ed astruso,
anche perchè cia scuno determini suoi richiedeva, per es sere inteso, una
particolar definizione. Av venturosamente per noi, l'investigazione a priori
della natura e delle sue opere, è stata sbandita dall'uso e dal gusto della
moderna filosofia. Seguendo l'inverso metodo della inve stigazione a
posteriori, distinguiamo in primo luogo il mondo sensibile, da quel che
chiamasi mondo intelligibile. Per mon do sensibile o visibile (che nel
linguaggio delle scuole era detto adspectabilis), in tendiamo l'aggregato degli
obbietti mate riali, e del corpi animali, ne quali con sideriamo l'unione delle
due sostanze, la materiale cioè e la spirituale. Cotesto ag gregato di Esseri e
di cose, che obbedi scono ad un sistema di leggi costanti ed uniformi, è
l'opera di un Essere perfettis simo, che è la prima causa dell'esistenza di
tutti gli altri, ed ha in se stesso la cau sa della esistenza propria. La prima
causa del mondo è necessaria, ma il mondo e le cose tutte che lo compongono son
con tingenti, e son fuori della causa stessa che gli ha prodotto. L'aspetto
dunque del - 187 - mondo sensibile ci mena alla conoscenza della creazione,
della prima causa intelli gente di tutte le cose, e delle leggi colle quali
l'infinita sapienza l'ha ordinato e lo conserva. Per tale conoscenza noi
scopria mo gli altri attributi, convenienti ad un Essere infinitamente sapiente
ed onnipo tente. Per noi il mondo non è eterno, non è animato, non è la stessa
Divinità, come fantasticarono le prime scuole defi losofi, i quali vollero andare
riconoscendo a priori l'origine di tutte le cose; ma è la scala delle cose
create, per la quale ascendiamo alla contemplazione di Dio e della natura, cioè
delle opere sue. ln questo diverso concetto del mondo e del la natura è riposto
il carattere che distin gue l'antica dalla moderna filosofia. Con seguenza di
tal diversità è, che noi, ri gettata la cosmogonia, come una dottrina puramente
mitologica, facciamo della cos mologia i preliminari della teologia na turale,
cui essa prepara la cognizione del sistema delle cose create, della con
tingenza dell'essere loro, e della necessità dell'Ente perfettissimo. V.
Cosmologia, Creazione. Sin qua del mondo visibile, da cui nel linguaggio
filosofico distinguesi il mondo intelligibile, che è il complesso delle so stanze
semplici, o sia degli spiriti, e delle relazioni loro. In cotesto mondo legge
il pensiero e non l'occhio : vi scorge non la catena degli Esseri materiali, ma
l'or dine morale dell'univcrso : vi trova le cause finali della creazione: e
dalle re lazioni degli Esseri, ricava lo scopo della vita, la conoscenza de
diritti e del doveri, e il futuro destino dell'uomo. Cotesto stu dio in somma è
tutto interiore, comincia dalla conoscenza del proprio essere, serve di
compimento alla scienza di Dio e della natura, ed è il fondamento della psicolo
gia. V. questa voce. Quantunque i vocaboli mondo ed uni verso si scambiano nel
comune uso di parlare, come sinonimi ; pur tuttavolta ciascun de due riceve
dalla propria eti mologia un significato diverso da quello dell'altro. Mondo è
la collezione e la se rie di tutti gli Esseri sensibili : universo è il
complesso del sensibile e dell'intel ligibile insieme, o sia è il sistema tutto
intero delle opere dell'Autor della natura. V. Vatura, Universo. MoNoMANIA
(prat.), spezie di mania, che nasce dalla passione o dal furore per un obbietto
solo, o per una idea unica. Suol essere l'infermità della solitudine. V. Mania.
MoRALE (crit. spec. e prat.), quel che appartiene alle interne facoltà
dell'anima tanto intellettive, quanto attive. V. Ani ma, Facoltà. E però
adopriamo l'addiettivo morale, come contrapposto del materiale, e non solamente
distinguiamo la natura morale dalla materiale, ma diciamo per chia rezza di
discorso facoltà morali, discer nimento, giudizio, ragionamento mora le , e
virtù morali. V. queste voci. La radice di questo vocabolo è nella pa rola
latina mos, che gl'italiani rendono per costume: il suo significato proprio non
esprime altra idea, se non quella della consuetudine, o sia dell'abito
razionale, senza del quale non può acquistarsi vir tù, e non può perfezionarsi
veruna delle facoltà intellettuali. Di qua nasce, che morale sia stata detta la
scienza la quale espone le obligazioni ei doveri dell'uomo, verso Dio, verso se
medesimo, e verso gli r - 188 – altri Esseri. Cotesta scienza è stata deno
minata anche Etica, come un derivato della voce greca eSos, che i latini tra
dussero per mos. Gli spositori della filosofia morale hanno per lo addietro
compreso nella medesima scienza le virtù intellettuali, il modo di acquistarle,
di perfezionarle e di applicarle alla cognizione de principi de diritti e delle
obligazioni: essi distinsero le virtù intel lettuali formali dalle materiali,
avendo chiamato formali quelle che si riferiscono alla sola capacità
dell'intelletto, astrazion fatta dagli obbietti circa i quali possono ver sare
; e materiali quelle che concernono gli obbietti medesimi, o sia la pratica co
gnizione de'doveri, propri della condizione, o dello stato del vivere di
ciascun uomo. Altri comprendevano nel nome di virtù morali gli abiti delle
azioni conformi alla legge naturale; e messa da banda la di stinzione del
formale e del materiale , riferivano le virtù tutte a due classi, le
intellettuali e le morali: nelle prime eran compresi gli abiti dell'intelletto:
nelle se conde quelli della volontà. V. Virtù. Spogliamo la filosofia delle
denomina zioni scolastiche, e serbiamo quella distin zione, che la natura
stessa ha tracciato nelle facoltà di cui ha dotato la ragio ne, cioè del
conoscere e del volere. So pra questa distinzione è fondata l'altra, della
speculazione e della pratica, di stinzione sopratutto necessaria nella filoso
fia; dapoichè altro è la conoscenza delle astratte verità, altro la pratica
dedoveri, la quale nasce dal retto uso della volon tà. Certamente perfetta può
dirsi la cogni zione di quell'uomo che abbia congiunto lo studio della parte
speculativa col pra tico esercizio della virtù, ed abbia messo in perfetta
relazione tra loro la ragione, e la volontà ; ma quanto rari non sono cotesti
modelli di sapienza e di virtù 2 D'altra parte la natura ci ha ella stessa
iniziato, e ci guida nella pratica del do veri e delle virtù: i filosofi e i
metafisici formano una parte infinitesima dell'uma nità , mentrechè la virtù
dovrebbe essere la dote di ogni uomo. E siccome ciascuno può ben giudicare
de'colori e delle altre qualità visibili degli obbietti esterni sen za
conoscere la notomia dell'occhio e del l'orecchio ; così può la generalità pra
ticare le regole del giusto e dell'onesto, senza avere aperta la mente
all'analisi dell'interna costituzione dello spirito. Che anzi la sperienza di
tutti gli errori specu lativi ha dimostrato, che giova tanto alla scienza,
quanto al pratico esercizio delle virtù, il prendere gl'inizi dell'uno e del
l'altro studio, non da altro fonte, che dal senso stesso della natura. Ciò non
vieta che la scienza, o sia la riflessione, venga a sviluppare e a dichiarire
quello cui la natura ha indirizzato gl'istinti e gli ap petiti. Tal è lo scopo
della filosofia mo rale, che abbraccia la cognizione delle obligazioni e
dedoveri, distinta dalla in tellettuale che versa circa la cognizione delle
facoltà dell'anima, e l'analisi del pensiero. V. Cognizione, Filosofia. La
morale ripete le sue prime verità dal senso intimo della natura, ed ha per suo
giudice la coscienza ; che anzi la parti zione de suoi tre grandi obbietti, non
è se non la conseguenza de tre importanti doveri, che la luce stessa della
ragione ci rivela. Cotesti doveri sono: onorare Dio: vivere conformemente afini
della natu ra: considerare i nostri simili, come posti in una perfetta
comunione di b sogni e di doveri con noi. Son queste le tre verità, da cui
derivano tutti gli altri – I89 – principi della scienza, e sopra i quali è
fondata la così detta legge di natura. Della legge o sia diritto di natura si è
formato una scienza a parte, ed una spezie di giurisprudenza primitiva, come
chè in realtà altro non contenga, che l'ap plicazione della filosofia morale a
doveri dell'uomo considerato in rapporto cogli al tri uomini, e come membro
della società civile e della gran famiglia del genere umano. Dalla natura del
subbietto cui è applicata nascono le tre differenze che di stinguono lo studio
del diritto della na tura da quello della filosofia morale: la prima è che il
diritto della natura discende dal generale al particolare, presupponendo sempre
le nozioni della filosofia morale: la seconda che, a stabilire la reciproca
zione de doveri, per un inverso metodo, prende ad esaminare il diritto, cui il
do vere corrisponde: la terza che dall'applica zione de principi passa alla
disamina delle diverse relazioni che nascono dalle civili associazioni. V.
Diritto, Legge, Matura. L'epiteto di morale è stato pure dato alla proprietà,
che l'anima ha di discer nere le nozioni del giusto e dell' onesto, la qual
proprietà o attributo dell'anima è stata con particolar denominazione chia mata
senso morale. V. Senso. MoRBIDEzzA (prat.), soverchio amor de dilicati
trattamenti. Differisce dalla mollezza in quanto che si possono ricercare le
delicatezze del vi vere senza nota di vizio; laddove la mol lezza racchiude
sempre l'idea d'una de bolezza, che non sa vincere la forza del l'abito
contratto. V. Mollezza. MoRDACITÀ (prat.), qualità dedetti che sono offensivi,
e pungenti. MoRTALE (prat.), universale condizione degli Esseri composti, che
sono dotati di vita. Il mortale riferiscesi alla vita, o sia alla separazione
dello spirito dalla mate ria; dacchè negli Esseri puramente ma teriali, la
distruzione prende il nome di dissoluzione, o scomposizione. In questo senso
disse Cicerone: omne quod ortum sit mortalitas consequitur: parlò egli del
composto, e non del semplice, dacchè di stinse sempre nell'uomo il fragile ed
il mortale del corpo, dal divino e dall'eter no dell'anima. MoRTE (spec. e
prat.), la separazione del corpo dallo spirito, cagionata dalla dissoluzione
della materia. V. Corpo, Ma teria, Spirito. L'uomo teme la morte, come un male,
e cerca da se allontanarlo il più che può, tra per l'istinto della natura
animale, e per l'incertezza del suo stato futuro; nel che rendesi egli
inferiore a bruti, i quali trovano nella morte il termine delle sof ferenze. Ma
se in tutto il corso della vita, l'uomo impara a moderare e vincere l'istinto,
perchè non adopera il medesimo studio per dissipare il vano timor della morte?
L'incertezza del futuro, è un male volontario, che l'uomo stesso per due mezzi
si crea: o chiudendo gli occhi del la mente alla cognizione del vero scopo
della vita, o corrompendo con false dot trine i germi della sapienza naturale.
Il principale, anzi l'unico fine della filo sofia, è il saper vincere il timor
della morte, giusta il bel detto di Socrate ri ferito da Platone, che la vita
intera del filosofo, è la contemplazione della mor te. V. Vita. Comentando
l'anzidetta sentenza, Cice — 190 — rone soggiugne : quid aliud agimus, cum a
voluptate, idest a corpore, cum a re familiari, quae est ministra et famula
corporis , cum a republica, cum a nego fio omni revoeamus animum ? quid tum
agimus, nisi animum ad seipsum advo camu* , secum e88e cognmu8, maacmme que a
corpore abducimus ? Secernere enim a corpore animum, nec quidquam aliud est
quam emori discere. . . Hoc et dum erimus in terris , erit illi coele sti vitae
simile: et cum illue eae his vin culis emissi feremur , minus tardabitur cursus
animorum. Nam qui in compe dibus corporis semper fuerunt , etiam cum soluti
sunt , tardius inyrediuntur, aut ii qui ferro vineti multos annos fue vunt. Quo
eum venerimus, tum denique vivemus. Nam haec quidem vita mors est , quam
lamentari possem si liberet. (Tuscul. I. c. XXXI.). Ed esemplificando nella
persona di So crale la vila del saggio, non è men bello il ritratlo che fa
della morte di lui: His et talibus rationibus adductus So cratcs , nec patronum
quaesivit ad ju dicium capitis , nec judicibus suppleae fuit: adhibuitque
liberam eontumaciam, a magnitudine animi ductam , non a su perbia : et supremo
vitae die de hoc ipso ^multa disseruit , et paucis ante diebus, cum faeile
posset educi e custodia, no Iuit : et cum paene in manu jam mor tiferum illud
teneret poculum , locutus ita est , ut non ad mortem tradi , ve rum in coelum
videretur adscendere. E però se dowesse definirsi la morte se condo il concetlo
di Cicerone , dovrebbe dirsi è il ratorno dell'anima alla sua sede; animus, cum
ea corpore eaccidit, domum revertitur ( Divin. I. c. 25); ed in altro luogo :
qualis animus in corpore, tam quam alienae domi , quam qualis eum eaeierit, et
in liberum coelum, quasi in domum suam , venerit (Tuscul. l. I. c. 22). Essendo
a tutti comuni i pensieri intorno alla caducità della vita, ed innumerevoli i
luoghi degli autori che insinuano il di sprezzo della morte ; sembraci
opportuno ricordar quelli, che ci vengono da'sapienti dell'antichità ; perchè
più propri a dimo strare che la natural sapienza della ragione basta ad ispirare
il disprezzo della morte, e a farcela risguardare come il principio d'una nuova
vita. Tra'più notabili è l'epi stola ClI di Seneca, comechè non esente dal
vizio delle parafrasi, e dell'affettazione, in cui il citato scritlore cader
suole per vo glia di troppo dire. Ne ricordiamo il comin ciamento, di cui il
resto non è che ripe timento, o comento desuoi propri pensieri. Cum venerit
dies ille, qui miztum hoc divini humanique secernat, corpus hoc ubi inveni
relinquam : ipse me diis red dam. /Vec mune sine il/is sum, sed gravi
terrenoque detineor. Per has mortalis aevi moras, illi meliori longiorique
vitae proluditur. Quemadmodum novem men sibus nos tenet maternus uterus, et
prae parat non sibi, sed illi loco in quem vi demur emitti, jam idonei spiritum
tra here , et in aperto durare ; sie per hoe 8patium , quod ab infantia patet
in se nectutem , in alium maturescimus par tum. Alia origo nos ea pectat ,
alius re rum status. /Vondum coelum , nisi eae intervallo , pati possumus.
Proinde in trepidus horam illam decretoriam pro spiee : non est animo suprema,
sed cor pori. Quidquid cirea te facet rerum , tamquam hospitalis loci sarcinas
$pecta: transeundum est. Eccutit redeuntem na tura , sicut intrantem. Non licet
plus efferre quam intuleris : imo etiam eae – 191 – eo quod in vitam attulisti,
pars magna ponenda est. V. Anima , Immortalità. MostRo (spec.), Essere
organico, nato con una conformazione diversa da quella della sua specie.
Secondo il Varchi, mostri debbonsi dire negli animali que parti, i quali si gene
rano fuori dell'intendimento della natura, e per conseguente son diversi in
alcuna parte, o dissomiglianti dal producente. Si suole, nell'uso comune di
parlare, di stinguere i mostri perfetti dagl'imperfetti. Perfetti diconsi
quelli, i quali mancano affatto de caratteri distintivi della loro spe zie:
imperfetti, le creature deformi per vi zio di struttura, nelle quali non
pertanto riconosconsi i caratteri della spezie. Tra le vane dispute, fatte da
fisici e da metafisici fu quella, se i mostri fos sero preformati, o nascessero
da accidenti che turbato avessero l'ordinario corso del la natura. Cotesta
disputa divenne più ani mata che mai per le opposte opinioni di due celebri
anatomici del passato secolo Lemery e Winslow. Il primo spiegava il nascimento
de mostri per accidenti avve nuti nel germe, come quando qualcuna delle parti
nel tempo della loro mollezza era distrutta, offesa, o impedita a svilup parsi,
o come quando l'azione di due germi si fosse insieme confusa: dal pri mo caso
faceva egli derivare i mostri per difetto, quali sono i feti mutilati, o non
compiuti nella formazione di alcun mem bro: dal secondo, i mostri per eccesso i
quali son provveduti di parti superflue, destinate per più d'un individuo. Il
pri mo esempio di tali mostri sarebbe quello de gemelli che nascono aderenti,
gli uni agli altri. Per costoro non può dirsi di strutta veruna parte
principale del loro germi, ma può congetturarsi che dalla lacerazione di talune
parti del feto, avve nuta in un punto, e dalla riunione delle stesse in altro
punto, sia derivata l'ade renza de due corpi. I mostri poi a due teste sopra un
corpo solo, o a due corpi sotto una sola testa debbon provenire dalla
distruzione di molte parti avvenuta in cia scuno de due germi: in un di essi
han do vuto perdersi quelle che formar dovevano il busto: nell'altro quelle che
appartenevano al capo. Contra questo sistema di Lemery, che verisimilmente
spiega l'origine demo stri, pronunciossi Winslow, il quale volle derivargli da
una primigenia formazione, e ciò sul fondamento che nelle sue ana tomiche
sezioni aveva trovato mostruosità tali, che non potevano essere spiegate per
cause accidentali, ma dovevano necessa riamente attribuirsi a meditato disegno
del la natura. Le memorie della reale accade mia delle scienze di Parigi degli
anni 1724, 1733 , 1734, 1738, e 174o son piene di dissertazioni scritte in
sostegno dell'una e dell'altra ipotesi, per ognuna delle quali si fecero valere
gli argomenti metafisici; accusando gli uni di empietà la supposi zione che
avesse potuto Dio creare germi originariamente mostruosi ; e replicando gli
altri essere temerità il limitare la sua onnipotenza, quasi che fosse stato
Egli obligato di seguire nelle opere sue una costante ed invariabile
uniformità. Locke, il quale volle rivocare in dub bio la realità delle essenze,
sembra che inchinasse a credere i mostri una produ zione originale della
natura, più che una accidentale difformità delle spezie. « Le nascite
irregolari e mostruose, egli disse, che avvengono in diverse spezie di ami mali
prestano motivo a dubitare di due proposizioni generalmente credute vere, - 192
– cioè che la natura abbia stabilito talune determinate essenze, come modelli
di tutte le cose, le quali debban essere prodotte; e che nel fatto non sempre
le riesce ser bare le essenze, quali avevale da prima concepute. Gli Esseri,
che noi chiamiamo mostri, sono realmente una spezie distinta nel senso
scolastico del vocabolo spezie. Certamente ogni cosa che esiste, ha la sua
particolar costituzione; in conferma di che v'ha di mostri, i quali poco o
nulla hanno delle qualità comuni alla spezie da cui traggon origine, e alle
quali sem brano appartenere per ragione della loro nascita. Inoltre le essenze
reali, che noi distinguiamo in varie spezie, e alle quali diamo nomi relativi
alle stesse nostre di stinzioni, converrebbe che ci fossero note, o sia che
potessimo averne delle idee. Ma siccome ignoriamo tutte le divisate cose, così
le essenze reali per nulla servono a classificare le sostanze in ispezie ». A
que sto modo Locke togliendo di mezzo la rea lità delle essenze di tutte le
cose, diede una personalità propria a mostri. Della sua opi mione giovaronsi i
materialisti e gli scet fici; negando i primi ogni causa intelli gente fuori
della materia; e non ammet tendo i secondi nulla di reale fuori degli apparenti
fenomeni della natura. Ciò non ostante, non sono queste le conseguenze che
Locke intese trarre dalla sua opinio ne, dapoichè nel capo stesso del libro in
cui nega la realità delle essenze, leggesi una delle più belle analisi delle
diverse gradazioni delle spezie, tra le quali il supremo Autor dell'universo ha
distri buito gli Esseri creati. Dopo di aver egli addotto gli argomenti, pe
quali creder dobbiamo essere le spezie degli spiriti in numerevoli quanto
quelle de corpi orga mici , soggiugne : « E quando conside riamo la potenza e
la sapienza infinita dell'Autore di tutte le cose, nasce il pen siero, che è
conforme alla sontuosa ar monia dell'universo, al gran disegno, e all'infinita
bontà di quel sovrano archi teſto, che le diverse spezie delle creature si
elevino a poco a poco verso la sua in finita perfezione, al modo stesso come le
vediamo discendere per gradi quasi insen sibili. Ammessa cotesta verità come
pro babile, possiamo noi inferirne che il nu mero delle spezie superiori a noi,
è mol to maggiore delle inferiori; perchè siamo assai più distanti in gradi di
perfezione dall'Essere infinito, che nol siamo dalla condizione delle infime
creature, e da ciò che si approssima al nulla». Come dun que negare la realità
delle essenze delle spezie, sì numerose, sì necessarie, e sì collegate col
disegno dell'universo? Egli negolle per la sola ragione che le igno rava. Ma
quì replicò Leibnizio, l'igno ranza non è causa sufficiente per negare quel che
noi conosciamo che esiste. Le qualità esteriori che noi conosciamo nelle
sostanze formano una cognizione relativa, e provisionale delle interne essenze
delle spezie. V. Essenza. Taluni metafisici fisiologi, tra quali Bon net,
distinsero quattro generi di mostri: 1.º quelli che nascono da genitori di di.
versa spezie, e a quali la natura ha dato una conformazione media tra l'uno e
l'al tro, come il mulo: 2.º quelli, de quali un qualche membro è disposto in un
modo diverso dal resto degli animali della pro pria spezie: 3.º quelli che
mancano di qualche parte dell'organismo, comune alla loro spezie: 4.º quelli
che ne hanno qual cuna di soverchio. Ma cotesta partizione proposta dall'autore
come più atta a spie gare la sua favorita ipotesi della prefors mazione del
germe, può ben essere ri dotta a quella di Lemery. Imperocchè il primo genere
non va riferito tra mostri, ma tra le spezie intermedie, che si pro ducono per
una legge costante della na tura; e quanto al secondo, esso entra
manifestamente nel genere dei mostri per difetto. Messe da banda le congetture
fisiologi che intorno al processo della generazione, una sempre rimane la
quistione specula tiva intorno all'essenza de mostri. Son essi spezie o
individui ? Come creder gli spezie di per se, se i più singolari tra loro
portan seco i caratteri d'un'al tra spezie, da cui traggon origine? Come
dubitare che tanto i mostri per difetto, quanto quelli per eccesso provengano
da accidenti o ostacoli sopravvenuti nel tempo della loro formazione, se i
vegetabili la produzione de quali cade per più versi sotto i nostri sensi, ci
dimostra e ci spiega come si formino molte mostruose defor mità? Tra tutti i
mostri descritti degli an tichi, tranne i soli mitologici, e tra quelli stessi,
narrati dall'Aldovrandi e dagli al tri collettori delle cose maravigliose, non
ve n'ha forse di più singolari d'uno ve duto da Montaigne, in persona d'un gio
vinetto, che portava pendente dal petto un fanciullo senza capo, al suo corpo
aderente per lo vertice delle mammelle: il giovi metto vivente all'età di
quattordici anni ri fiutava ogni altro nutrimento fuori del latte della sua
nutrice (Essais lib. II. cap. XXX.). In questo mostro riunivansi i due esempi
del difetto e dell'eccesso avvenuti nel concepimento di due gemelli, i quali sa
rebbero nati perfetti senza l'ostacolo, che confuso aveva la loro formazione.
Mostri, nel rigore del termine, posson chiamarsi tutti gli Esseri, i quali
nelle membra loro hanno sortito una diversità nel meno o nel più, che si
allontana dalle forme della pro pria spezie. La ragione dice che nella scala
dal meno al più, o sia dal difetto e dal l'eccesso d'un dito, d'un dente, o
d'altro membro meno necessario, non si può ri cavare un argomento diverso da
quello che si trae dalla mancanza o dall'addop piatura di qualcheduno degli
organi più necessari e vitali. V. Deformità. MoTivo (spee. e pral.), impulsione
data alla volontà, per determinarla all'azione. In questo senso generico il
vocabolo ab braccia tanto le impulsioni desensi, quanto gli argomenti della
deliberazione: quelle son comuni a bruti: questi particolari agli Esseri
intelligenti e ragionevoli. Impul sioni de sensi chiamiamo gl'istinti e gli
appetiti sensitivi, i quali ne bruti deter minano necessariamente la volontà,
lad dove negli uomini producono una tenden za, subordinata all'impero della
ragione. I motivi razionali son proposizioni o ar gomenti, che suggeriscono il
fare o il non fare: sono gli elementi della delibe razione, che li mette in
disamina, come altrettanti avvisi, de quali il giudizio di scerne la
convenienza. V. Deliberazione, Volontà. Moro (spee. ontol. e crit.), il passag
gio d'un corpo, o d'una parte del corpo, da un luogo all'altro dello spazio. Il
moto è stato il suggetto delle mag giori sottigliezze degli antichi e del mo
derni metafisici. Comincian queste dalle varie sue definizioni, per dichiarire
le quali uopo è distinguere il moto generale dal locale. Gli antichi diedero a
cotesto vo cabolo un senso ora più ampio, ora più limitato, distinguendo
diverse spezie di 25 – 194 – movimento, che tutte furono indicate collo stesso
nome. Moto chiamarono qualunque mutazione o passaggio della materia da uno
stato all'altro, come la produzione o creazione di tutte le cose; moto, i can
giamenti e le trasformazioni cui son sog gette le cose materiali esistenti,
come la generazione; moto, il passaggio succes sivo da uno stato all'altro
decomposti per gli avvicendamenti delle parti componenti, come l'accrescimento
o la diminuzione del volume de corpi; moto, il trasferimento del corpi da un
sito all'altro dello spazio, che fu propriamente detto moto locale, e del quale
si occupa la meccanica. È famosa la definizione del moto lo cale, attribuita ad
Aristotele, aetus entis in potentia , quatenus est in potentia. Essa è stata
giustamente derisa e prover biata, ma in onor di Aristotele uopo è dire che
cotesta formola ci vien dalle scuole, le quali sfigurarono il concetto del loro
maestro. Questi disse: il moto è l'atto di quel che è mobile in quanto è mobile
(xtynos, syteMexetx toy avrov, navntov). A questa definizione egli sog giugne :
« il che avviene per lo contatto di quel che ha la forza di muovere, ond'è che
v'ha ancora passività nella cosa che è mossa » (de motu cap. II. ). Ora il
senso chiaro del concetto di Aristotele è : il moto è l'effetto della causa che
ha la forza di far cangiare di luogo la cosa per se stessa mobile : l'atto che
esercita una tale forza costituisce l'attivo del moto: la cosa sopra la quale
l'esercita è passiva, Cotesta passività corrisponde precisamente alla inerzia
del moderni fisici: essa è la proprietà che hanno i corpi di essere in
differenti alla quiete e al moto. -- -- Leibnizio volendo ancor egli
giustificare la definizione di Aristotele, notò che il vo. cabolo xtvmois fu da
lui adoperato nel senso di cangiamento e non di moto; e che quel che noi
diciamo moto fu da lui denomi nato popz, latio, avendo in altri luoghi
enumerato il topa tra le spezie del moto, o del cangiamento (tms utynaeas).
Secondo questa spiegazione, la definizione non so lamente diverrebbe più
chiara, ma si av vicinerebbe a quella del moderni, impe rocchè il moto sarebbe
definito : il can giamento di luogo, operato da una forza capace di muovere la
cosa mobile. Val ga cotesta illustrazione a dimostrare che i barbarismi del
linguaggio scolastico hanno spesso oscurato le idee, e sfigurato i con cetti
del grande maestro del peripatetici. Locke, e sia permesso dirlo, che fu scarso
conoscitore e estimatore dell'antica filoso fia, scagliossi contra la
definizione di Ari stotele, e l'additò come uno de più ride voli esempi
dell'assurdità e del sofismo, (Essai concern: l'entend. hum. lib. III. chap.
IV.). L'ebbe egli come una idea semplice indefinibile, che si acquista per la
sola sensazione, e però non può essere ad altra comparata. Ma noi abbiamo al
trove rilevato quanto incompiuto e poco esatto fosse il concetto, che questo
autore formassi delle idee semplici. L'idea del moto è complessa perchè ne
racchiude in se molte altre, come quelle della poten za, dell'azione, della
passività del corpo mosso e della quiete, che è il contrap posto del moto, (Discorso
preliminare). V. Idea. - Gli epicurei avevano definito il moto per lo passaggio
d'un corpo o d'una parte del corpo da un luogo all'altro, definizione che
presso a poco seguirono i cartesiani, i quali dissero essere il moto un
passaggio o un allontanamento d'una parte della materia dalle parti conti – 195
– gue. Il Borelli e dopo di lui altri moder mi, lo definirono per lo passaggio
suc cessivo decorpi da un luogo ad un al tro, in un determinato tempo, essen
dochè il corpo è in contiguità con tutte le parti dello spazio intermedio. Di
qua la definizione comunemente ricevuta del passaggio, o trasferimento de corpi
da un luogo ad un altro, la quale per ve rità è monca, dapoichè non include il
movimento di rotazione intorno ad un asse immobile. In tale spezie di moto non
v'ha trasferimento da luogo a luogo, nè le par ticelle del corpo, disposte
lungo l'asse di rotazione, hanno moto, il perchè la defi nizione di Epicuro è
delle altre più esatta. Lasciamo alla meccanica, cui propria mente appartiene
la disamina del moto locale, la partizione delle varie sorte del moto. Gli
antichi fisici, seguendo Aristo tele, lo distinguevano in naturale e vio lento,
e chiamavano naturale quello di cui il principio, o sia la forza motrice, è
racchiuso nello stesso corpo mosso, qual è il moto d'ogni corpo, che per la for
za della sua gravità tende a cadere verso il centro della terra ; violento
l'altro, che nasce da una causa estrinseca, come dall'urto, dalla percossa, o
dallo slancio del braccio, e d'ogni altro strumento o macchina. I moderni lo
distinguono in as soluto e relativo, e chiamano assoluto quello per lo quale si
opera un effettivo cangiamento di sito nello spazio, assolu tamente
considerato; relativo quello, che risulta dal paragone dello stato del corpo
mosso, con quello degli altri che lo cir condano. Cotesta partizione non
pertanto considera il moto, per lo cangiamento del sito nello spazio; ma ve
n'ha delle al tre che lo considerano a rispetto del tem po, della direzione,
della forza motrice, della resistenza , della collisione che na sce da contrari
sforzi di questa e di quel la, e de mezzi artifiziali pe'quali possa ac
crescersi la forza e diminuirsi la resistenza. La misura generale del moto è la
velocità, la quale secondo i meccanici è lo spazio percorso dal mobile in un
tempo costante e determinato, e propriamente nella unità di tempo; o se anche
vogliasi più gene ricamente esprimerla, è il rapporto dello spazio al tempo
impiegato dal mobile a percorrerlo. V. Misura , Spazio. Da queste diverse
maniere di conside rare il moto, le sue cause e le sue misu re, nascono i
diversi suggetti della mec eanica, cioè il moto assoluto e il relati vo, la
velocità, il moto equabile e il va riabile, le forze motrici, le combinazioni
di più forze unite insieme, il moto per la linea retta, o per le curve, quello
detto di rotazione, di oscillazione e vibrazione, l'urto de corpi, le
resistenze, l'equilibrio, le macchine. In somma i fenomeni del moto locale,
considerato come lo stru mento meccanico della natura, formano lo scopo della
fisica generale, la quale ne raccoglie le leggi per mezzo della os servazione e
dell'analisi. V. Fisiea, Mec canea. - La filosofia speculativa e critica consi
dera il moto sotto un aspetto più ampio e da esso fa nascere una quistione
trascen dentale, che conduce la mente alla co gnizione della causa primitiva di
tutte le cose. Considera ella più il moto generale, che il locale, e abbraccia
ne'suoi conce pimenti la mutazione continua della ma teria e il passaggio che
questa fa da uno stato all'altro, la produzione, la genera zione, le continue
trasformazioni che ri ceve per le varie combinazioni de suoi componenti, la
corruzione infine e la dis zº: – 196 – soluzione de suoi composti. Dal
complesso poi di tutte queste considerazioni ricava la più importante di tutte
le metafisiche quistioni, cioè, la causa del moto è nel la materia, o fuori
della materia ? Rendiamo giustizia agli antichi, i qua li comunque avessero
vaneggiato circa le origini della materia e del mondo; pure sentirono non
potere disgiungere la causa del moto dalla intelligenza. Aristotele at testa,
che Anassagora e gli altri i quali furono i primi a riconoscere dalla intelli
genza la causa e l'ordine del mondo, in quella riposero l'origine del moto
(Meta physicor. lib. I. cap. III.). Egli stesso, comechè riponesse nella natura
il princi pio e la causa del moto , e credesse la natura legata da una legge di
necessità, presuppose non pertanto un primo moto re, il quale non fosse da
altri mosso (de coelo lib. I. cap. III., e lib. II. cap. III., e Sesto Empirico
adversus mathem. lib. X. S. 33). Cicerone nella sposizione della dot trina di
Platone intorno al moto dice: au diamus Platonem, quasi quemalam deum
philosophorum, cui duo placet esse mo tus, unum suum, alterum externum: esse
autem divinius, quod ipsum ea se sua sponte moveatur, quam quod pulsu agi tetur
alieno. hune aulem motum in solis animis esse ponit, ab hisque principium motus
esse ductum putat (de nat. deor. lib. II. cap. XII.). Locke vide certamente
meno denominati filosofi, allorchè credette che il moto fosse una qualità
aggiunta alla materia dalla onnipotenza di Dio. Ma qual maraviglia che abbia
supposto nella materia il moto, se collo stesso argomento suppose quella capace
della intelligenza? (V. vol. I. nota 64). Egli non fu materialista, ma tolse
forse i principi di cotesta sua dottrina dallobbes. Leibnizio disse che i corpi
non riceverebbero mai il moto per l'urto degli altri corpi, se non ne avessero
in loro stessi il principio; il quale detto deessere inteso nel senso che la potenza
o sia la mobili'à, risiede ne'corpi stessi. V. Mobilità. I materialisti non
solamente danno il moto alla materia, ma dal moto fanno nascere l'organismo, la
vegetazione, l'ani malità, e il pensiero : d' un istrumento della natura e d'un
effetto della causa motrice, formano un nume e la causa stessa di tutte le cose
; confondendo così nel medesimo subbietto l'azione e la pas sività, e
distruggendo la nozione della cau salità. Tali sono gli assurdi ne'quali son
caduti coloro, a quali è piaciuto risguar dare il moto come una qualità della
ma teria. V. Materia, Qualità. Ma come si comunica il moto dallo spi rito alla
materia, e dove risiede la forza motrice? Non ha la metafisica altro pro blema
più insolubile di questo, e se tale non fosse, possederebbe ella tutto il
segreto della natura. Non può la mente neppur concepire, come il pensiero abbia
la po tenza di produrre il moto. Tanto non pos siamo concepirlo, quanto gli
stessi carte siani (i quali riferivano tutto allo spirito), convenivano che le
anime dar non possono una nuova forza alla materia, ma posson dare una nuova
determinazione o direzione a quella forza che è nella materia. Leibni zio ebbe
per inconcepibile così l'una come l'altra virtù nell'anima, e dichiarò che co
testo problema non è altrimenti solubile, se non per l'armonia prestabilita.
Noi, senza accettare questa soluzione, inviteremo i filosofi a rassegnarsi a
limiti della uma ma capacità, e a rispettare il velo di cui la natura ha
coperto le relazioni tra lo spi rito e la materia. V. Armonia, Forza, Materia,
Spirito. – i97 – MovIMENTo (spec. e prat.), l'atto del muovere, o del
cangiamento del sito d'un corpo. Differisce dal moto, che è una idea complessa,
la quale abbraccia le idee della forza motrice, e della passività del corpo
mosso. V. Moto. L'idioma francese confonde in uno stesso vocabolo lo stato e
l'azione del moto, che è quel che gl'Italiani distinguono con due diverse voci.
- Per analogia, e per necessità di lin guaggio, l'idea del muovere e del movi
mento si trasporta dalle cose materiali, a passaggi da un sentimento, o da un
atto del pensiero ad un altro. MUCILAGINE (spec.), materia viscosa, densa,
insipida, che si ha come uno dei principi immediati del vegetabili. V. que Sta
VOCe. MuscoLo (spec.), parte carnosa e fibrosa del corpo degli animali,
destinata ad es sere l'organo e l'istrumento del moto. ll muscolo è un fascio
di lamine sot tili parallele, suddiviso in un grande nu mero di fascetti o
muscoletti, ciascuno rin chiuso nella sua propria membrana cellu lare, dalla
cui interna superficie passano numerosi filamenti trasversali, i quali in
tersecano il muscolo in diverse aree distin te, piene di altri loro rispettivi
fascicoli di fibre. V. Fibra. Ogni muscolo ordinariamente è diviso in tre
parti, denominate il capo, la coda ed il ventre, il capo e la coda, o sieno gli
estremi sono ordinariamente tendinosi: di essi il primo è fissato nella parte
stabile, ed il secondo in quella, che è destinata ad esser mossa: il ventre
contiene la parte grossa carnosa, in cui sono inserite arte - rie e nervi, e
d'onde escono vene, e con dotti linfatici. Le funzioni demuscoli nel corpo
animale sono delle più importanti, e sarebbero quelle che dar potrebbero qual
che bagliore intorno al segreto del moto volontario, se il ministero loro non
an dasse a confondersi insieme con quello dei nervi nell'organo del cervello.
Se quest'or gano è fortemente compresso, o contuso, ostrutto, lacerato, o in
istato di suppura zione, l'azione volontaria de'muscoli cessa all'istante, e
con essa quella de sensi e della memoria, quantunque continui l'azione
spontanea demuscoli del cuore, del le viscere e delle parti vitali. Se si com
prima o si leghi il nervo d'un muscolo, sì che venga a corrompersi, ovvero se
quello si tagli, cesserà all'istante il moto del muscolo, specialmente ne
volontari: lo stesso avverrà se si tagli un tronco di nervo, di cui i rami si
diffondono per diversi muscoli: lo stesso, se le mede sime lesioni si
verificassero nell'arteria la quale porta il sangue a diversi muscoli. V.
Cervello, Fibra, Mervo. I motomisti hanno distinto i muscoli in due classi, i
volontari, e gl'involontari o necessari. Quanto a volontari, ha cia scun di
essi il suo muscolo antagonista, il quale muovesi alternamente e in con traria
direzione; per modo che l'uno si rilascia, mentre l'altro si contrae ad ar
bitrio della volontà. Per coutrario i ne cessari racchiudono in se stessi la
forza di contrazione e di espansione, e non hanno antagonisti: in questo numero
sono per quel che si crede il cuore e le tuniche muscolari degl'intestini.
Lasciamo alla notomia la denomina zione, il numero, e la varia disposizione
de'muscoli. Vuolsi soltanto osservare, che tanto i muscoli sono gl'istrumenti
neces sari del moto animale, quanto la natura gli ha destinati a due diverse
spezie di moto, il volontario, che è messo alla disposizione dell'agente, e il
necessario, il quale si esegue per lo puro meccanismo delle parti. V. Moto,
Volontà. Museo (crit.), luogo, o edifizio desti mato a conservare collezioni, o
serie di obbietti utili alla erudizione o all'insegna mento delle scienze,
delle lettere, e delle arti. - È nota l'origine di questa denominazione, che fu
per la prima volta data al luogo, nel grande palazzo di Alessandria, in cui
albergati e alimentati erano a spese del publico erario un grande numero di
dotti, distribuiti in varie classi. Lo stesso nome dalle persone passò poi alle
cose, e mu sei, gallerie, o gabinetti chiamaronsi i luoghi dove si ripongono
antichità d'ogni sorta, collezioni di macchine, saggi spe rimentali, opere di
belle arti, e prodotti de vari regni della natura. Coteste colle zioni, al pari
delle biblioteche utilissime all'insegnamento della gioventù ed al pro gresso
delle scienze, e delle arti stesse di cui raccolgono i saggi; servono ancora di
ornamento e di pompa alle città, alle università, alle corti, e a grandi perso
maggi, i quali amano di farle valere, come pruove della protezione e dell'inco
raggiamento ch'essi concedono agli studi. Quantunque la vanità e l'ostentazione
cor rompano sovente il fine delle opere le più utili ; pur tuttavolta niuno osa
negare i grandi vantaggi che da simili assortimenti ricavano le scienze,
l'erudizione, e le arti; e di tutte le vanità, delle quali il cuor del l'uomo è
capace, ognuno riconosce que sta come la più escusabile, perchè com pensata dal
ben che produce. Ma per me ritare una tal'eccezione, uopo è che la vanità sia
profittevole. Che se i musei e le biblioteche, chiuse al publico uso, re
stassero come semplici titoli di gloria per le comunanze che le possedono, o
come pruove della dottrina di quelli che le for marono; indifferente il publico
alla vana gloria delle une, e alla folle presunzione degli altri,
risguarderebbe tali depositi come i ripostigli degli avari, i quali sot
traggono la moneta alla circolazione per solo amore di contemplarla; e rassomi
glierebbe la scienza di que falsi dotti, al ricco descritto da Seneca, che per
aver comperato tanti servi, quanti potessero rispondere per lui, credeva sapere
tutto quel che la sua casa conteneva. MusicA (crit.), l'arte di formare coi suoni
l'armonia e la melodia. V. queste VOCl. - L'arte consiste nel disporre e maneg
giare i suoni gravi ed acuti, e di propor zionargli tra loro, separandoli per
mezzo di giusti intervalli. Ogni arte presuppone le sue regole, e queste nella
musica hanno un doppio scopo: l'uno è di determi nare i rapporti tra i suoni
acuti e i gra vi, e tra i tempi lunghi e brevi, per modo che possano produrre
una sensa zione gradevole all'udito: l'altro di di sporre i suoni per modo che
producano l'effetto che si desidera: il primo è l'ob bietto della musica
teoretica, il secondo, della pratica. Gli antichi facevan due parti della mu
sica teoretica, e la distinguevano in ar monica e ritmica: quella insegnava le
diverse maniere, nelle quali i suoni pro ducono la sensazione nell'udito, per
ri spetto agl'intervalli che li separano, dal che nascono le regole della
consonanza: – 199 - questa spiegava i ritmi, e le misure lun ghe e brevi del
tempo, e di tutte le sue suddivisioni, onde adattarvi la serie suc cessiva del
tuoni. Distinguevano del pari la musica pratica in due parti, ciascuna delle
quali conteneva l'esecuzione d'una delle due già dette, e queste erano la
melopea e la ritmopea. Porfirio, senza distinguere la musica teoretica dalla
pratica, ne pro pose una partizione più ampia, desumen dola dal movimento muto
o sonoro, cioè in ritmica per la dansa; in metrica per la cadenza e per lo
numero; in organica per la pratica degl'istrumenti; in poetica per l'armonia e
per la misura del versi; in ipocritica per gli atteggiamenti de pan tomimi; e
in armon ea per lo canto. Più semplice è la moderna partizione della musica in
armonia e melodia, alla prima spettano le regole per le consonanze: alla
seconda l'arte di concordare i suoni per modo che producano la soavità del
Canto. - - - - - . È antica la disputa, se la voce umana, il canto degli
uccelli, o gli agresti istru menti abbiano somministrato alla musica i suoi
primi elementi. La più sicura so luzione di tal quistione sta nell'ammettere
come coeguali le tre sorgenti dell'armo mia, che le oziose investigazioni degli
eru diti vorrebbero considerare come succes sive. Riflettendo sopra ciascuna di
esse, ognuno potè da prima vedere che il pas saggio della voce dal grave
all'acuto è graduale, e nella sua gradazione facil cosa fu il distinguere i
punti di fermata del fiato, d'onde nasce il suono. Che se si volesse concedere
agl'istrumenti l'an teriorità, non potrebbe non darsi cotesto primato
agl'istrumenti da fiato, il che de ciderebbe la quistione in favor della voce,
Resterebbe non pertanto il dubbio, qual voce fosse stata la prima, se l'umana,
o quella degli uccelli, come volle Lucrezio: At liquidas avium voces imitarier
ore Ante fuit multo, quam levia carmina cantu Concelebrare homines possini,
auresque juvare Et zephyri cavo per calamorum sibila primum Agresteis docuere
cavas inflare cicutas. Se gli uccelli furon primi a popolare la terra, come e
pare, l'uomo certamente prima intese il canto loro, e poi pensò d' imitargli.
Ma faceva d'uopo dell'imita zione per iscomporre le liquide loro voci e per
accostumare l'orecchio alla misura desuoni; e però è sempre vero che il can to
umano abbia dato la scala delle grada zioni alla musica; della qual verità se
ta luno dubitasse, il fatto basterebbe a con fermarla. Ognun sa che Guido
Aretino, monaco benedettino dell'undecimo secolo ricavò dal cantico
ecclesiastico del diacono Paolo le sei note, ut, re, mi, ſa, sol, la. Ed un tal
cantico riportato da Vossio diceva: Ut queant laxis Re sonare fibris - - - - -
Mira gestorum Famuli tuorum Solve pollutis - · Labiis reatum. (Vossio de
quatuor - - artib. popul. c. IV). Le storie son piene delle maraviglie ope rate
dalla musica sul sentimento e sulle passioni; anzi al giorno d'oggi siamo co
munemente disposti a credere, o che la musica moderna non abbia potuto raggiu
gnere la perfezione dell'antica, o che que st'arte abbia perduto una parte di
quel la forza che ebbe da prima sulla tempera ancor novella del cuore umano.
Tali opi – 200 – nioni son forse nate dal perchè non ve diamo più ammanzite le
fiere al suono della lira, o del canto, nè incitato que sti al furore, e quegli
alla mansuetu dine per la subita impressione d'uno o d'un altro istromento. Ma
tra queste opi mioni s'interpone una media, nella quale sta la verità. Tolti
dalle narrazioni de gli antichi i prestigi mitologici, i quali ricoprivano le
origini di tutte le umane invenzioni; e risecata da fatti loro quella parte di
esagerazione, che nasceva dal soverchio amore del maraviglioso; tro verassi che
nulla ha perduto la musica del potere e dell'influenza che esercita nel
muovere, e nel determinare il senti mento dell'uomo, e forse ancora quello di
talune delle spezie de bruti. La musica certamente muove i sentimenti pietosi,
e con essi le lagrime; esilara l'animo e lo spinge all'allegrezza, e al riso;
l'incita allo sdegno, e lo rende animoso. Quali altri effetti maggiori di
questi potevano sperimentarne gli antichi? Essi non ci nar rano effetti
diversi, se non i terapeutici, ne quali le amplificazioni non sono meno
rivestite di favole e di mitologiche tradi zioni: a queste tradizioni
appartengono le maraviglie operate dalla musica nella guarigione di molte
spezie di malattie. Ciò non ostante una diversità di gusto, e per conseguente
di effetti dobbiam sup porre nella musica antica per la differenza de vari
generi d'azione, a quali era essa adattata. Il metrioo ed il poetico, re lativi
alla cadenza e alla diversa misura de versi degli antichi, non formano una
parte caratteristica della moderna musica; laddove presso gli antichi
comprendevano tante diverse spezie di ritmi e di misure, quante erano le
composizioni del versi di vari piedi, e le gradazioni di tempo lungo o breve di
cui quelli eran capaci. Ogni ge nere di poesia, ed ogni metro aver doveva
un'armonia particolare, e una caratteri stica, che più non conosciamo per la mo
notonia del versi e delle rime nostre. Del resto, per quanto ingegnose e
pregevoli sieno le investigazioni, che gli eruditi han fatto intorno alla
musica degli antichi; non è permesso a noi formare se non semplici congetture
intorno alla perfezione della mu sica presso i Greci, e al paragone della loro
colla nostra. Quel che con maggiore fondamento si può affermare è, che non
ostante la diversità della lingua e de'metri poetici, gl'Italiani sono stati
gli eredi dei greci nella melodia del canto ; e che a tutte le altre nazioni
della moderna Eu ropa è stato solamente riservato il merito di portare la
musica istrumentale ad una perfezione che i Greci non conobbero. La costruzione
de loro flauti, e di tutti i loro istrumenti da fiato, il picciol numero di
corde, delle quali erano montate le lire o cetre, e il difetto del tasti
dimostrano ch'essi erano di molto inferiori a noi nel l'armonia, nella varietà
, e nella forza degl' instrumenti, del pari che nel gran dioso effetto denostri
orchestri. E quì un amator della musica greca ed italiana ob biettar potrebbe,
che il principale ufizio della musica istrumentale sia di accompa gnare la
vocale e darle risalto, non di na sconderla e di opprimerla. Potrebbe que sti
dire, che la natura ha dato un gusto di armonia relativo alla loquela e all'or
gano de popoli di diverse zone; che la me lodia del canto è di quelli, del
quali fa cile ed armonioso è il linguaggio; e che l'artifiziale armonia d'e'le
corde e del fiato è riservata a quegli altri, i quali coprir debbono
coll'armonia degl'istrumenti l'asprezza del loro suoni nasali, gutturali, o –
20 l – gravemente aspirati. Ora in queste diffe renze appunto sta la gara tra
le moderne mazioni, che son di qua e di là dalle Alpi. Uno scrittore italiano
non può disputar di gusto cogli Alemanni e cogl'Inglesi, che trovan forse
l'armonia della loro musica istrumentale più bella della melodia ita liana. Ma
non ne giudicavano allo stesso modo gli oltramontani d'un sccolo in die tro; in
conferma di che rammenteremo quel che ne scrisse il chiarissimo autore
dell'articolo musica nella enciclopedia fran cese. « Da questo lato (per la
perfezione degl'istrumenti) noi vinciamo gli antichi, ma non abusiamo forse
della nostra su periorità? Questo è un dubbio che facil mente viene alla mente,
quando si sen tono i nostri melodrammi seri. Forse quel caos, quella confusione
di parti, quella moltitudine d'istrumenti diversi che sem brano contrastare
l'uno coll'altro; forse quello strepitoso accompagnamento che sof foca la voce
senza sostenerla, formano le vere bellezze della musica? Son queste le sorgenti
della sua forza e della sua ener gia? Se così fosse, la musica più ricca
d'armonia dovrebb'essere la più commo vente, ma non è questo il giudizio della
generalità. Guardiamo un poco gl'Italiani nostri contemporanei, la musica
de'quali è la migliore, o piuttosto la sola buona nel mondo, giusta l'unanime
giudizio di tutti i popoli, tranne che de Francesi, i quali le antepongono la
loro propria. Ve dete quella sobrietà negli accordi, e quella scelta
nell'armonia l Essi non si avvisano di giudicare del merito d'una musica dal
numero delle sue parti: i melodrammi loro consistono in duetti, che tutta l'Eu
ropa ammira, e procura d'imitare. Cer tamente i Francesi non riusciranno a far
gustare agli stranieri la loro musica, mol tiplicando le parti. Si ammira
l'armonia quando è opportunamente distribuita: al lora i suoi incantesimi
toccano tutti gli uomini dotati di sentimento, ma non mai dee l'armonia
assorbire la melodia, nè la soavità del canto. I più belli accordi de
gl'istrumenti non piaceranno mai tanto, quanto piacciono le commoventi
inflessioni d'una voce bella, e ben condotta. Chiun que rifletterà senza
spirito di parte, sopra quel che più lo muove nell'ascoltare una bella musica, sentirà
che il vero impe rio del cuore appartiene alla melodia ». V. Canto, Voce.
L'acustica forma parte della musica teo retica, spezialmente per quel che
concerne la teoria de suoni delle corde vibranti; ma uopo è convenire che la
conoscenza delle relazioni di moto e di tempo, che i suoni della voce o delle
corde armoniche hanno coll'organo dell'udito, può essere utile a spiegare
fisicamente i fenomeni del suono, e non a formare, o perfezionare il gusto
della musica; in conferma di che l'espe rienza dimostra, che niuno degrandi mae
stri di quest'arte sia pervenuto al sommo grado del bello e del dilettevole per
la via della geometria e della meccanica, ma sì bene per la invenzione attinta
dal sentimento, e guidata dalla pratica cono scenza delle leggi dell'armonia.
Vuolsi infine notare, che gli antichi diedero al vocabolo armonia un signifi
cato più ampio di quel che si riferisce alla concordanza de suoni, e
l'applicarono all'ordine e alla disposizione delle cose dissimili, dalle quali
risulta un sistema simmetrico ed uniforme; e però sotto il nome di musica
compresero una scienza ideale, la quale presiede all'ordine uni versale del
mondo materiale ed intelligi bile. Di qua i concetti di Ermete, di Pi 26 – 202
– tagora e di Platone, i quali ne fecero la scienza regolatrice dell'universo:
di qua la musica divina, la celeste, quella del mondo e delle sfere. Rileghiamo
tali con cetti tra le idee trascendentali dell'antica filosofia naturale, le
quali erano una con seguenza de vari sistemi fisici, da cui ri petevano essi le
origini di tutte le cose. V. Armonia. MUTABILE e MUTABILITÀ (spee. e ontol.),
qualità dell'Essere composto e finito, per chè capace di mutazione. MUTAZIONE
(spec. e ontol.), variazione che i corpi possono ricevere nella figura, nella
quantità, nel sito delle parti, o nel luogo che occupano nello spazio. Niuna
delle cennate variazioni può av venire, se non per mezzo del moto, ond'è che il
moto dicesi essere la causa di tutte le mutazioni de corpi. V. Corpo, Moto. Gli
ontologisti fecero della mutazione un'idea astratta, di cui andarono esami
mando le qualità, e da queste dedussero molti inutili teoremi, come i seguenti
: la mutazione non può cadere se non sugli accidenti, dacchè immutabile è
l'essenza de corpi: i corpi sono enti composti: gli enti composti sono estesi:
adunque la mu tazione ne corpi non può essere prodotta ne corpi, se non in
quanto sono estesi: la mutazione non può avvenire, se non per mezzo del molo:
il moto non si co munica se non per la contiguità del cor pi: dunque ogni
mutazione proviene da un altro corpo contiguo : la mutazione risguarda gli
accidenti o i modi: la va riazione demodi altro non è che cangia mento de
limiti nel corpi, d'onde segue che nulla di sostanziale perisce ne corpi per
mezzo delle mutazioni: l'ente finito è capace di diverse modificazioni, le
quali formano altrettanti stati o condizioni di verse: ma di tali condizioni
l'ente finito è capace successivamente, e non simulta neamente, perchè ogni sua
qualità è cir coscritta da certi limiti : dunque l'idea della mutazione è
propria dell'ente fini to, il quale potrebbe ancora essere defi nito, per
quello che non ha attualmente tutti gli stati di cui è successivamente capace.
Wolfio gloriossi di aver trovato questa definizione dell'ente finito, come una
con seguenza della sua mutabilità. Niuno al giorno d'oggi si sentirebbe
disposto a compiacersi d'una simile scoverta, e mol to meno ad ammirarla negli
altri. Il solo concetto utile, che può da questa tauto logia ricavarsi è, che
il mutabile è pro prio dell'Essere composto o finito, a dif. ferenza
dell'immutabile, che è l'attributo dell'Essere semplice, e per eccellenza,
quello dell'Ente perfettissimo. V. Immu tabile. – 205 - CLASSI DE VOCABOLI
COMPRESI SOTTO LA LETTERA M. FILOSOFIA CRITICA. Macchina Magnetismo Magnetismo
animale Malacologia Mare Massimo Matematica, o Scienzematematiche Matematico
Materia Materialismo Meccanica Meccanico Medicina Melodia Melodramma Memorativa
Memoria Menomo e Minimo Mente Meridiano Mestiere e Mestiero Metafisica Metallo
Metallurgia Meteora Metereologia Metodo Mineralogia Misticismo Mitologia Moda
Modo Mollusco Moltiplice e Multiplice Momento Mondo Morale Moto Museo Musica
VOCI ONTOLOGICHE, Materia Metamorfosi Modalità Modificazione Modo Moltiplice e
Multiplice Monade Mondo Moto Mutabile e Mutabilità Mutazione – 204 – FILOSOFIA
SPECULATIVA. FILOSOFIA DISCORSIVA, Macchina Microcosmo Magniloquenza Membro
Magnete Microscopio Male Memorabile Magnetico Midolla e Malignare Memorando
Magnetismo Mlidollo Maniera Metodo Magnetismo animale Mineralogia Mlanifesto
Mistero e Male Miscredente e Maraviglioso Misterio. Mammifero Miscredenza
Massima Modo Maniera Mistero e Me Momento Mano - Misterio Maraviglia Misto
TEOLOGIA NATURALE, Maraviglioso Misura Mare Mobilità Male Miscredente e
Martirio Moda Martirio - Miscredenza Massima Modalità Meditazione Massimo
Modificazione Materia Modo Materialismo Molecola e Materialista Molecula
Materialità Mollezza Maternità Moltiplice e Me Multiplice Meditare Momento
Meditazione Monade Membro Mondo Memorativa Morale Memoria Morte Menomo e Mostro
Minimo Motivo Mente Moto Meridiano Movimento Mese Mucilagine Metallo Muscolo
Meteora Mutabile e Metodo Mutabilità Mezzo Mutazione – 205 – Macchinamento e
Mlacchinazione Magnanimità Magnanimo Magnificenza Magnitudine Malacconcio Malaccorto
Malacreanza Maladizione e Maledizione Malaffetto Malagevole Malanconia e
Malinconia Mlalanno Malardito Malavoglienza e Mlalevoglienza Malavveduto
Malconsigliato Malcontento Malcostumato Malcreato Maldicenza FILOSOFI A
PRATICA, Maldisposto Male Maleficio e Malefizio Malevolo Malfare Malignare
Malignità Malizia e Malizietta Malo Malore Malvagio e Malvagità Mancamento
Mancatore Maniera Mano Mansuetudine Maraviglia Maraviglioso Marrano Maternità
Matteria Mattezza Mlediocrità Meditazione Mendace Mendacio Mente Mentire
Menzogna Merito Mestizia Mezzo Millanteria Miserabile e Miserevole Miserando
Miserazione Miseria e Misero Misericordevole Misericordia Misericordioso
Misfare Misleale e Mislealtà Mistico add. Mlistico sost. Mite Moderanza e
Moderazione Mlodestia Molestia Mollezza Momento Monomania Morale Morbidezza
Mordacità Mortale Morte Motivo Movimento GRECISMI SUPERFLUI. Macrologia
Movimento – 207 – N NADIR (spec. ), il punto del cielo opposto allo zenit, dove
terminerebbe la perpendicolare tirata dalla pianta del no stri piedi. V. Zenit.
NANo (spec.), essere organico mostruoso per soverchia picciolezza. ln talune
spezie di animali, e di pian te, la natura ha stabilito tali gradazioni di
grandezze, che v'ha de'nani, i quali formano spezie. Nella spezie umana i nani
sono indi vidui singolari, di difettuosa organizza zione, i quali, quando alla
cortezza della comune altezza si accoppia altro vizio di conformazione o di
proporzione, possono chiamarsi mostri. V. Mostro. Fra i nani descritti , ve n'è
stato di quelli, che sono nati d'una statura non maggiore di nove pollici, e
nella età ma tura non hanno oltrepassato i trenta o i quaranta. Quantunque tra
costoro siesi dato qualche esempio di persone ben con formate nelle loro membra
e di esatte pro porzioni, pur tuttavolta nella generalità essi portano seco le
impronte di parti or ganiche imperfette, che per impedimento sofferto nel
concepimento non hanno po tuto svilupparsi. Lo stesso può dirsi delle loro
facoltà intellettuali, che d'ordinario son tarde ed inceppate, comechè per ec
cezione se ne trovi alcuno di svelto ed acuto ingegno. Tali varietà dimostrano
la singolarità delle cause della loro produ zione. Del resto la denominazione
di mano è spesso relativa a popoli, i quali si tro vano al disotto della media
statura degli altri uomini. Per essi la brevità della sta tura è una
gradazione, che forma spezie e non singolarità. Tali sono per esempio gli
Esquimali, i Lapponi, o i Samoiedi. Deesi di loro dire quello stesso che ab
biam detto de giganti. V. questa voce. NARRAZIONE (disc.), sposizione o rac
conto di fatti, avvenuti o supposti. Ve n'ha di due generi, una storica,
l'altra poetica: quella dettata dalla me moria: questa dalla immaginazione:
alla prima suole ancora darsi il nome di sem plice o naturale, alla seconda di
artifi ziale. - Quanto alla storica o semplice, secondo le partizioni retoriche
degli antichi, la narrazione è la seconda parte del discor so, perchè viene
immediatamente dopo l'esordio. Cicerone, se suoi sono i libri ad Erennio,
divide in sei parti l'orazio ne, cioè l'esordio, la narrazione, la par tizione,
la pruova, la confutazione, e la conclusione. Ma cotesta divisione sem bra
appartenere propriamente alla orato ria giudiziale, dacchè talune delle cen
nate parti possono essere superflue negli altri generi di orazione, che
l'eloquenza abbraccia. V. Eloquenza. Veri certamente sono i requisiti che il
cennato autore esige in ogni narrazione: la brevità, la chiarezza, e la verisi
miglianza. Si consegue la lode della bre vità, quando la sposizione del fatto
co mincia dalle sue cause immediate, e non da rimote origini ; quando si espone
il fatto nella sua generalità, spogliato di quelle minute particolarità, che
sono inu – 208 – tili allo scopo del discorso, quando non si perda l'oratore in
digressioni e in ri petimenti; quando in somma faccia pre sentire agli
ascoltanti il successo, prima ancora di averlo detto. La chiarezza con siste
nell'esporre le cose coll'ordine stesso col quale sono avvenute o avrebbero po
tuto avvenire. La verisimiglianza sta nel dirle in modo, che non ripugnino al
cre dibile, o sia alla opinione o alla natura, e non appariscano contrarie alle
giuste distanze del tempo, alla qualità delle per sone, alla comune prudenza
degli uomi ni, e alla opportunità delle altre circo stanze. I tre accennati
requisiti conven gono ad ogni sorta di narrazione, come chè l'arte oratoria
esiga talvolta che si esca dalla semplicità del naturale discor so. Imperocchè
gli ornamenti della elo quenza, e lo studio che l'oratore fa in preparare gli
animi al fine che si propo ne, non impediscono, anzi esigono ch'egli
intrattenga gli ascoltanti il men ch'è pos sibile nella sposizione del fatto,
la quale è la parte più sterile della orazione. Le figure e gli ornati
distinguono la narrazione poetica dalla storica. Il poeta si prefigge di
esporre il fatto, o la parte di esso, che è la più propria a muovere
l'interesse e ad eccitare le passioni delet tori, o degli spettatori; e in quei
generi di poesia, ne quali l'argomento de'essere portato al sublime, come
nell'epopea e nella tragedia, la narrazione poetica si avvicina alla oratoria,
e ne prende i ca ratteri. V. Poesia. NASALE (dise,), addiettivo, suono che la
voce forma, passando per le narici. L'aria spinta dalla gola insino all'estre
mo delle labbra percorre una linea quasi retta; laddove passando per le narici
s'in curva, per modo che la curvatura altera il suono semplice, e lo fa
risuonare per l'organo del naso che fa le veci d'in strumento sonoro. La
struttura delle na rici è tale, che essendo separate da un sottilissimo
diaframma, divengono capaci d'oscillazione; il perchè la voce non po tendo
uscire libera, prende quasi una in flessione di canto. Da tal composizione
nasce il suono della lettera n, la quale, come la più dolce delle consonanti
liqui de, serve di accompagnamento alla vo cale. I suoni nasali formano uno del
ca ratteri distintivi delle lingue oltramontane. L'italiana gli addolcisce,
mettendogli nel principio o nel mezzo della parola, ma gli abborre nel fine
devocaboli, che fini scono tutti cosuoni delle vocali semplici. V. Voce. NAso
(spec.), organo dell'odorato. V. questa voce. NATURA (spec. ontol. e crit.),
l'uni versalità degli Esseri e delle cose create. Cotesto generico significato
può esser diviso in due, che diremmo passivo l'uno, e attivo l'altro;
imperocchè può esprime re, o la collezione di tutte le cose che il mondo
abbraccia nell'ordine, col quale sono state disposte dalla mano del Crea tore;
o la stessa divina intelligenza, che in se eminentemente le contiene, perchè le
ha create e le conserva. In questo dop pio senso gli antichi promiscuamente ado
perarono il vocabolo natura, siccome può vedersi dal poema di Lucrezio de rerum
natura e da libri di Cicerone de natura deorum. Un altro significato del tutto
etimolo gico, ha dato a questo vocabolo il co mune uso di parlare, dapoichè con
esso – 209 - designa tutto quel che gli Esseri portano con loro dal nascimento.
Le scienze hanno ancor esse adottato cotesto vario senso, introdotto dall'uso;
il perchè non v'ha forse altro vocabolo, che abbia un mag gior numero di
accezioni. Matura, si è detta l'essenza delle cose, o sia l'intrinseco loro
costitutivo; natura, la sostanza, o l'Essere stesso; natura , qualunque
ingenita proprietà delle cose; natura, la primitiva costituzione o strut tura
delle cose materiali; natura, l'azione delle cause naturali, quali sono state
da prima ordinate; natura, l'interno prin cipio del moto e della quiete, quale
è ne corpi per le leggi della loro genera zione; natura, l'indole,
l'inclinazione, ed anche il costume, l'abito, e tutto quel che consideriamo
come inseparabile dal subbietto; natura, il temperamento degli animali, e per
conseguente, i bisogni, le affezioni, le passioni proprie della spe zie, cui
ogni Essere appartiene; natura infine, il contrapposto dell'arte e del
l'industria dell'uomo. In questi significati son compresi quelli, che al numero
di otto Aristotele attribuì al vocabolo natura ne'suoi libri metafisici
(Metaphisic. lib. V. cap. IV.). Di tutti gli esposti significati ne'quali co
testo vocabolo trovasi indistintamente ado perato dagli antichi e da moderni
metafi sici, il proprio è quello della universa lità delle cose create secondo
la disposi zione e l'ordine che han ricevuto dal Crea tore; gli altri debbonsi
avere come im propri o sia come derivati per similitudini o per figure. E
quantunque il signifi cato proprio si riferisce ora all'opera della creazione e
ora alla intelligenza creatrice di tutte le cose, pure è manifesto esser queste
due idee, le quali non possono confondersi nel medesimo subbietto, al trimenti
la causa si confonderebbe coll'ef fetto, e la creazione col creatore. Da ciò
segue, che quando noi personifichiamo la natura, e diciamo le opere, le leggi,
la sapienza della natura, intendiamo par lare del Creatore, dapoichè se
riponessimo cotesti attributi nelle cose stesse, verremmo a supporre in loro
una forza, una virtù creatrice, o una intelligenza, che dee ne cessariamente
risedere fuori di esse. Ciò non ostante l'abuso del linguaggio ha ti rato
dietro a se anche quello delle idee, il perchè molti tra gli antichi fecero
della natura un Essere dotato d'intelligenza e di volontà, e tra questi taluni
la deifica rono confondendola colla persona stessa del Creatore; e taluni altri
le diedero un poter secondario, subordinato al supremo Fattore, ma da quello
distinto, e desti nato ad operare con certe leggi, e a con servare le cose
create. Che queste fanta sime avessero potuto sedurre la ragione, quando la
così detta filosofia naturale ave va celato all'uomo le vere origini della
natura, è una conseguenza del sistema che pretendeva tutto spiegare per la con
nessione di cause ordinarie e comuni, de sunte dagli stessi fenomeni naturali.
Ma che le medesime chimere abbiano potuto trovare fautori nella moderna
filosofia, la quale non riconosce più l'eternità del mondo, nè quella della
materia; questo è quel che ogni incorrotta ragione non può concepire. Da tali
strani concetti nacque la famosa dottrina del panteismo, la qua le toglie al
mondo la Divinità, e non sa prem dire, se materializzi lo spirito, o
spiritualizzi la materia. Grande apostolo di cotesta dottrina fu Benedetto
Spinoza, il quale distinse la natura in naturante e naturata o sia attiva e
passiva. Dalla 27 – 210 – stessa fonte è nata la così detta filosofia della
natura, vagheggiata da frenologi e da fisiologisti, la quale al pari della sua
gemella, non ammette se non una sostanza unica, omogenea, diversamente
modificata, che per sua interna virtù si forma, si sviluppa, e si perfeziona ;
e che nel meccanismo degli organi va a confondersi colla intelligenza e colla
ra gione. V. Fisiologia, Frenologia, Pan teismo. La sana filosofia non può
avere un lin guaggio comune colle false ed assurde dot trine, ed evitar dee le
ambiguità che pos sono nascondersi nel vario significato dei vocaboli. Per natura
ella intende la pro duzione dell'Onnipotente, regolata dalla sua infinita
sapienza: indici di questa sa pienza sono le leggi costanti ed uniformi, le
quali tendono alla conservazione e all'ar monia dell'universo. Se talvolta noi
ci ser viamo del medesimo vocabolo per espri mere la stessa sapienza creatrice
di tutte le cose, è questo un compendioso modo di dire, nel quale è sempre
sottinteso l'Au tor della natura, NATURALE (spec. e ontol.), addiettivo, quel
che è proprio di ogni Essere, consi derato nella sua primitiva costituzione.
Esprime ancora l'ordinario corso delle leggi e dell'ordine della natura, nel
quale significato ha per suo contrapposto il so prannaturale. V. questa voce.
Partecipa de vari sensi della voce ma tura, ed è il contrapposto dell'artifiziale.
V. Vatura. - NATURALE (spee. e prat.), sostantivo, l'inclinazione, l'indole, e
il tempera mento che ogni animale ha sortito dalla natura. NATURALISMo (crit. e
teol.), falsa dot trina di coloro i quali non ammettono religione rivelata. Si
è da taluni ancora così denominata la dottrina degli atei e del materialisti, i
quali riconoscono per loro divinità, il vano uome di natura. V. questa voce.
NATURALISTA (crit.), professore di sto ria, o di scienze naturali. Dicesi
ancora de professori di belle arti, che imitano il vero, prendendolo dalla
natura. NATURANTE e NATURATA (ontol.), bar barismi introdotti da panteisti, e
dal prin cipe loro Spinoza, per distinguere la na tura produttrice dalla
prodotta. V. Natura. NAVIGAZIONE e NAUTICA (crit.), l'arte del navigare, la
quale abbraccia più arti idrauliche unite insieme, cioè la costru zione del
vascelli, la costruzione degl'in strumenti necessari alla navigazione, e il
saper condurre le navi da un luogo ad un altro per la via più breve e più
sicura. Quest'arte attigne i suoi dati insiem colle regole del navigare dalla
geografia, dalla idrografia, dalla meccanica, dalla idraulica, e
dall'astronomia. L'astronomia sopra tutto le somministra le conoscenze delle
latitudini, e delle longitudini, e in generale, delle distanze, che misura dai
punti del cielo, sotto i quali si naviga. V. Cielo , Latitudine, Longitudine.
NECESSARIO (ontol. spec. e teol.), quel che niuna volontà può impedire che sia
ciò che è. V. Volontà. I metafisici lo definirono: quello, di cui il contrario
è impossibile, e implica contraddizione, – 211 - L'una definizione si riferisce
al princi pio della volontà, l'altra alla possibilità dell'evento: ambe dicono
lo stesso, ma la prima è fondata in una nozione a tutti comune ; laddove la
seconda presuppone una verità scientifica. Da ciò segue, che il vocabolo
necessario sia contrapposto del volontario, e del possibile, o sia del
contingente. V. Contingente, Possibile, Volontario. Il significato di tal
vocabolo conviene, tanto a quel che per propria natura esi ste, quanto a quel
che esistendo per al trui volontà, non può essere diverso di quel che è, e però
distinguesi il necessa rio di esistenza, dal necessario di essen za. La
necessità di esistenza si scontra nel solo Ente Perfettissimo, dapoichè Egli ha
in se medesimo la causa, o la ragion sufficiente dell'esistenza sua. La
necessità di essenza poi trovasi nelle qualità deter minate, che le cose create
aver debbono secondo l'ordine della natura. Le pro prietà de numeri, le qualità
delle gran dezze geometriche, ed in generale l'es senza di tutte le cose, sono
necessarie, perchè non potrebbero essere diverse di quelle che sono. In questo
senso diconsi necessarie le verità, delle quali il fon damento sta nell'ordine
immutabile della natura. V. Essenza, Verità. NEcEssITÀ (ontol. spec. e prat.),
deter minazione d'una volontà, o d'un ordine di cose, cui dobbiamo obbedire. V.
Or dine, Volontà. Chi dice ordine, presuppone pure la volontà d'una causa
intelligente che lo abbia predisposto; dapoichè ogni disposi zione di parti
indica scelta, e ogni scelta indica cognizione delle relazioni che le parti
hanno tra loro. La causa intelligente, da cui nasce l'ordine della natura, è la
sapienza dell'Ente perfettissimo, la quale per rispetto a fenomeni, che ne sono
le conseguenze, diviene una legge di neces sità. E però necessarie divengono le
rela zioni di connessione tra le cause e gli ef fetti; e necessarie pure le
verità che da tal connessione ricaviamo. Così le cose, che da prima erano
contingenti a rispetto della esistenza, han sortito un'essenza ne cessaria ed
immutabile, dapoichè non po trebbono essere diverse di quel che sono. V.
Mecessario. Quantunque facile e ovvio per se sia il concetto della necessità;
pure non è man cala tra vaneggiamenti della mente uma na l'ipotesi d'una
necessità preesistente all'opera della natura. Taluni l'immagi narono tale, che
legato e diretto avesse la volontà del primo Autore, senza esclu derla affatto;
altri la credettero cieca e tale, che in lei riposero la prima causa di tutte
le cose. Simili dottrine non pos sono trovar luogo se non nell'ateismo, o nel
materialismo; e la necessità così in tesa, è una delle spezie del fato. V.
Fato. La nozione della necessità, applicata alle azioni umane, è contrapposto,
o pri vazione di libertà, perchè libero non è quel che nasce dalla volontà
altrui, e non dalla propria. E quando si togliesse alla volontà la scelta, le
azioni tutte sarebbero figlie della necessità, perchè sarebbero determinate da
una causa superiore, cui saremmo costretti di obbedire. Quelli i quali han
voluto negare la libertà morale dell'uomo, hanno elevato a cause deter minanti
gl'istinti, gli appetiti, vale a dire gl'incentivi che la natura ci ha dato
come semplici tendenze. Cotesta dottrina è figlia della precedente, o sia è una
conseguenza del sistema che fa del mondo e dell'uomo »; – 212 – altrettante
macchine mosse da cause del tutto materiali. V. Appetito, Istinto, Libertà.
V'ha non pertanto delle azioni le quali diconsi necessarie, perchè dettate
dalle leggi di nostra naturale costituzione, alle quali siam passivi. V' ha in
fine un al tro genere d'azioni che diconsi necessarie per necessità relativa, e
son quelle nelle quali la volontà non essendo libera, non si muove per le
proprie determinazioni, ma è costretta di cedere a cause estrinse che, come la
violenza, il timore, o l'in vincibile dolore. Cotesta necessità è stata
denominata imperfetta o relativa per con trapposto della fisica o assoluta. Gli
sco lastici, sì moralisti che teologi distinsero con altri nomi la necessità
imperfetta, e ne fecero varie categorie, come l'ipote tica , l' antecedente, la
concomitante , la conseguente, la disgiuntiva, le quali tutte entrano nel
genere della relativa, V. Assoluto, Relativo. NEGATIvo (spec. e disc.),
vocabolo che separa un subbietto da un altro, una qua lità da un subbietto, o
una qualità da un'altra qualità. Le voci negative son sempre termini di
relazione, i quali indicano la diversità di due idee insieme paragonate, o la
diffe renza che passa tra loro: son contrappo sti dell'affermativo e del
positivo. V. que ste voci. I logici chiamano negative quelle pro posizioni, per
le quali si dice che una cosa non è un'altra, e fanno di tali pro posizioni la
conversione, come delle afº fermative. Regola di questa conversione è che nelle
proposizioni negative l'attri buto è sempre preso universalmente, e secondo
l'intera ampiezza del suo signifi cato ; d'onde segue che le proposizioni
universali si convertono facilmente, cam biando l'attributo in subbietto, e
conser vando all'attributo, divenuto subbietto, l'universalità che aveva il
primo subbietto, laddove nelle particolari non può farsi conversione quando il
subbietto è preso in un senso universale. Così può essere conversa la
proposizione non v'ha figura che contenga uno spazio indeterminato, e per
l'opposito non potrebbesi convertere l'altra, v'ha delle figure che non sono
triangoli, perchè non v'ha triangolo, che non sia figura. V. Conversione.
Distinguono ancora i logici i vocaboli privativi da negativi, della qual
distinzione la ragione sta nelle definizioni devocaboli negazione e privazione.
V. queste voci. Chiamano i matematici negative quelle quantità reali, che sono
in relazione del meno con altre quantità maggiori, le quali però son dette
positive, NEGAZIONE (spec. e dise.), giudizio per lo quale pronunziamo non
esistere un sub bietto, non convenire un attributo, o non darsi relazione tra
due cose. Prendesi ancora per la voce, che da se sola, o accompagnata con altra
parola, serve a cangiare l'affermativo in negativo. Gli antichi metafisici, la
distinguevano dalla privazione: negazione era l'assenza d'un attributo, che non
potrebbesi trovare nel subbietto, perchè incompatibile colla natura sua, come
quando dicesi, l'ani ma non è materiale, perchè la materia lità ripugna alla
natura dello spirito: pri vazione era l'assenza dell'attributo in un subbietto,
in cui ordinariamente si trova, come quando dicesi non essere calda o fredda
una cosa che aver suole una di queste due qualità. L'una e l'altra non - – 215
– pertanto hanno per comune contrapposto l'affermazione. V. questa voce. La
cennata distinzione non è affatto inu tile, anzi trova un fondamento di verità
nell'analisi così del pensiero come della pa rola ; dapoichè diverso è in
realtà il me gare assolutamente la convenienza d'una qualità al subbietto, dal
negarla per lo motivo che, sebbene potrebbe in esso tro varsi, pure non vi si
trova: l'una esprime l'essenza della cosa, l'altra, l'accidente. In fatti tanto
le antiche, quanto le mo derne lingue distinguono le particelle e i nomi negativi
dalle particelle e da nomi privativi. I Greci servivansi dell'alfa, che i
gramatici chiaman privativo, perchè to glieva una qualità propria del nome
affer mativo, e gli dava un senso affatto con trario. I Latini accolsero in
molte parole l'alfa privativo de' Greci, e fecero uso di altre particelle, come
del de , del dis, e dell'in per formare i loro nomi priva tivi, come dedecor,
disfunctus, disso ciabilis, indignus, indecorus, insanus, ed altri. Le lingue
volgari moderne e spezial mente l'italiana, hanno adottato tanto le particelle
privative de' Greci e de Latini, quanto i nomi composti che da esse de rivano;
ed hanno altresì continuato a va lersi delle stesse particelle per formarne
de'nuovi. Questa è la maggior pruova del la ragionevolezza di tal distinzione,
qua lunque sia l'abuso che gli aristotelici fe cero della privazione,
considerandola come un agente della natura, e mettendola del pari colla materia
e colla forma. V. Pri vazione. NEFANDEzzA, NEFANDIGIA e NEFANDITÀ (prat.), ogni
vizio turpe, che offende l'altrui pudore. NEFARIO (prat.), addiettivo,
scellerato, che non può essere nominato senza abbor rimento, NEGHITToso
(prat.), uomo che ama l'ozio e fugge ogni fatica. NEGLIGENZA (prat.),
remissione di vo lontà, per la quale taluno non fa quel che far debbe, o lo fa
nel modo non debito. NEMIco (prat.), chi non ama, o non vuole il bene d'un
altro, ovvero cerca di nuocergli. - E il contrapposto dell'amico. V. questa
VOCG, NEoGRAFIA (disc.), val nuova ortogra fia. V. questa voce. NEOGRAFISMo (grec.
sup.), inusitata e viziosa maniera di ortografizzare. NEoLoGIA (disc.), l'uso
di nuovi vo caboli, o di antichi, a quali dassi un SeIlSO IluloVO. NEoLoGISMo
(disc.), abuso, o vizio di voci nuove, non necessarie, o riprova bili dalle
regole della lingua. NEQUIZIA (prat.), scelleratezza o mal vagità, ridotta in
abito, e inveterata. NERvo (spee.), corpo lungo bianco, e rotondo, simile a
cordicella, composto di molte fibre, nascenti dal cervello e dalla midolla
spinale, che si distribuisce per tutte le parti del corpo, come instru mento
della sensazione e del moto.V. Cer vello, Fibra, - – 214 – I nervi traggon
origine da ogni punto della sostanza corticale del cervello, dalla quale escono
come tenuissime fibre midol lari, che indi progredendo ed unendosi insieme
s'ingrossano, e formano la mi dolla allungata, e la spinale, da cia scuna delle
quali escono simmetricamente distribuiti per paia. V. Cervello, Midolla. Così
formati e mandati fuori dalla mi dolla allungata e dalla spinale, sin che
restano dentro del cranio, compongono le dieci paia dette encefaliche, che
taluni moderni scrittori, tra quali Soemmering, (suddividendo due delle dieci),
fanno ascendere a dodici. In queste dieci paia, par che si trovino i principali
ministri delle sensazioni, dalle quali la più parte di essi ha ricevuto nome.
In fatti il pri mo paio è degli olfattori; il secondo de gli ottici, il terzo
denervi motori comuni degli occhi; il quarto del patetici, altri menti detti
muscolari obliqui superiori; il quinto, è maggior di tutti, che serve al senso,
al moto, al tatto, e al gusto; il sesto, propriamente detto denervi motori
esterni dell'occhio; il settimo de'nervi au ditori, diviso in porzion dura ed
in por zion molle, ch'è propriamente il nervo acustico; l'ottavo, denervi
vaghi, perchè si prolungano nella cavità del torace e sino in quella
dell'addomine, contraendo anastomosi con molti altri nervi in ispe cie col
grande intercostale; il nono de gl'ipoglottici, e il decimo denervi glosso
faringei. Uscendo i nervi dal cranio, ne for mano altre trenta paia , alle
quali suole aggiugnersi un altro, detto accessorio del ſ/illis, che si stacca
dal midollo spi male nella regione delle prime vertebre del collo, ricorre nel
cranio pel gran forame occipitale, ne esce per altri piccoli fora metti e va
finalmente a congiungersi col paio vago e coll'ipoglosso, da quali si se para
per distribuirsi interamente al mu scolo trapezio. Cotesta seconda classe, det
ta denervi spinali, non è distinta in ge neri o in ispezie designate con
propria denominazione, ma ha una semplice di visione numerica, di primo,
secondo, terzo paio, ec., ciascun de quali prende il suo nome dalla regione che
occupa, e però vengon detti nervi cervicali, dor sali, lombari, o sacri. Il
numero non pertanto de nervi spinali varia negli ani mali, a misura che varia
in essi il nu mero delle vertebre, e l'estensione della midolla spinale. - I
nervi tutti hanno le loro radici, e chiamansi con questo nome i punti dai quali
essi distaccansi da centri nervosi. Il numero poi delle radici non è lo stesso
per tutti; è maggiore o minore a seconda della grossezza del nervo che ne
risulta. I nervi spinali han doppio ordine di radi ci, le anteriori nascenti
dalla parte omo nima del midollo spinale, e le posteriori dalla posteriore.
Esse confluiscono a for mare un solo cordone nelle vicinanze del forame per lo
quale escono dalla verte bra rispettiva; ma tutte provengono dalla sostanza
grigia della midolla. l nervi tutti, insino a che son dentro della midolla son
molli e polposi, e quan do la lasciano, vestonsi d'una borsa o guaina, da cui
son difesi ; e così ve stiti procedono insino alla dura madre, che è perforata
nel punto dello scontro loro, e di cui l'apertura giugne insino a forami del
cranio. Per tal mezzo le pri me dieci paia di nervi passano illese fuori del
cranio; e del pari le trenta paia dei nervi spinali discendono vestiti pe
forami laterali delle vertebre, e vanno a disper – 215 – dersi per tutto il
corpo insino agli estremi punti delle sue parti solide. Cotesti invo lucri de
nervi sono per tutta l'estensione loro tramezzati da vasi sanguigni e lin
fatici di strettissima tessitura, i quali ser vono alla nutrizione delle
fibrille. Ma ap pena le ultime estremità de'nervi son per entrare nelle parti
alle quali appartengono, depongono le loro tuniche e si espandono sotto la
forma o d'una sottilissima mem brana, o d'una tenera polpa. Gli antichi
notomisti annoveravano trai nervi encefalici il nervo gran simpatico o grande
intercostale. Ma più accurate osservazioni han renduto manifesto, che esso costituisca
un sistema secondario di nervi nell'uomo e negli altri animali su periori,
congiunto bensì in moltissime parti collo encefalico spinale, ma per l'ori gine
independente. Il gran simpatico è una vasta rete nervosa, la quale ha tanti
centri, quanti sono i ganglii esistenti nelle tre cavità del corpo. Cotesti gan
glii, sono al dire di Scarpa, gomitoli di fibre nervose. I filetti nervosi, che
da essi emanano, vi sono intimamente ade renti; mettono in rapporto i ganglii
tra loro; penetrano raramente tra muscoli, e formano numerosi plessi,
principalmente intorno alle arterie; che anzi sembrano destinati a seguire il
corso delle arterie in tutte le loro ramificazioni. Chiamiamo pure organico
cotesto secondario sistema, perchè necessario alla vita organica, o vegetativa.
Le osservazioni del fisiologi, intorno al ministero del nervi, ci danno come
sicuri taluni fatti, i quali spandono qualche lume non meno sopra i fenomeni
delle sensa zioni e del moto, che sulle funzioni del cervello. Tali fatti sono
: 1.” Tutta la sostanza vascolare del cer. vello è impiegata in formare le
fibrille de'nervi, anzi in esse passa e si converte; 2.” Quando la midolla
allungata o la spinale sia compressa, lacerata, o cor rotta, cessa all'istante
l'azion de nervi che di là nascono, laddove togliendo via il cervello e il
cervelletto, non si estin gue l'azione del nervi ; il che dimostra che i nervi
tutti melton capo nelle due mi dolle, nell'allungata cioè e nella spinale; 3.º
Quantunque i nervi, nella naturale loro condizione, sieno da pertutto non tesi,
ma pendenti, curvi ed obliqui; pur tut tavolta il moto e la sensazione si opera
per mezzo loro quasi istantaneamente ; 4.° I nervi son composti di fibre e di
fibrille, ciascuna delle quali è rivestita d'una membrana o polpa nell'interno
del la quale si ramificano i loro vasellini nu trimentali. Essi diramansi, si
scontrano, passano gli uni a traverso degli altri, e formano o una spezie di
rete, che chiamasi plesso, o un gruppo più stretto, in for ma di rigonfiamento,
che dicesi ganglio; 5.° Se i nervi vengon compressi, legati, o stretti, perdono
la forza in quelle parti, che son tra la legatura e i loro estremi, senza
perderla in quelle altre che sono tra la legatura e la midolla del cervello e
del cervelletto; 6.° I nervi non son capaci di contra zione o d'irritazione,
essendo queste due qualità privative demuscoli; dapoichè se condo Haller, le
parti che contraggonsi o muovonsi, son diverse da quelle che son destinate a
ricevere o a trasmettere le sensazioni, d'onde nasce la celebre di visione
delle parti del corpo animale, fatta dal cennato autore in parti irritabili e
sensibili, 7.° Il moto si esegue per mezzo del muscolo; il perchè conviene che
la spin - 216 – ta, la quale proviene da centri nervosi, sia dal nervo
comunicata al muscolo; 8.° Operandosi la sensazione negli emi sferi del
cervello, uopo è che l'impres sione ricevuta dal nervo sia insino ad essi
condotta ; 9.° 1 nervi a doppia radice servono in pari tempo al moto e alla
sensazione ; laddove gli altri di radice unica general mente parlando servono
senza promiscui. ià, o all'una, o all'altra funzione. Dagli esposti fatti
fisiologici sono stati in diversi tempi dedotte varie conseguenze. La curiosità
d'investigare in qual modo i nervi si faccian portatori della impres sione della
sensazione, o dell'azione del moto, suggerì diverse spiegazioni dell'uno e
dell'altro fenomeno. Taluni dissero, che le fibrille nervee ricevendo di
continuo un umore o succo dalla midolla del cere bro, lo trasmettono alle più
minute parti del corpo, e col mezzo di tale fluido ese guono le funzioni della
sensazione e del moto. Questo è il sistema detto degli spi riti animali, il
quale essendo stato per lungo tempo dominante, e spezialmente da Cartesio in
poi; ha ora perduto ogni credito, e ha ceduto il luogo all'altra ipo tesi del
fluido nervoso. Altri pretesero, che i nervi esercitas sero il ministero loro
pcr vibrazioni , o sia per l'azione d'una fibrilla tesa, la quale ipotesi è
sembrata ripugnare alla natura de nervi, perchè essendo questi molli, polposi,
e obliqui; non può in essi supporsi un'azione tanto pronta ed immediata quant'è
quella della sensazione e del moto muscolare. Il galvanismo ha somministrato a
no stri tempi una terza ipotesi, cioè che l'azione de nervi si eserciti per
mezzo di questo fluido imponderabile, dapoichè la sperienza ha dimostrato
essere il galva nismo uno del più forti eccitanti del si stema nervoso. Insino
a che gli esperi menti fisici non somministreranno altri fatti che rafforzino
una tal congettura, rimarrà essa tra le ipotesi che si fanno per ispiegare il
pratico messaggio de'ner vi. Intanto i fisiologi ritengono, che la
comunicazione così del moto, come della sensazione si faccia per mezzo del
fluido nervoso, e cercano a tutto potere di tro vare il più di analogie ch'è possibile,
tra questo e il galvanico. Ma quando essi le trovassero, e riuscissero a
dimostrare l'esi stenza di cotesta magica forza nel corpo umano, non avrebbero
fatto altro che sco prire un altro più inesplicabile fenomeno. Le nostre
spiegazioni possono giugnere insino al punto d'onde parte l'azione mec canica
del moto, e dove giungono le sen sazioni. Giunti a questa sede, che è il
cervello, resta a trovare in quest'organo la forza motrice, e lo specchio nel
quale riflettano gli obbietti portati dalla sensa zione. Ma quest'organo è
passivo come gli altri, e dà tanto a nervi quanto ri ceve dalla circolazione
del sangue, inter rotta la quale nella midolla da cui i nervi prendono origine,
cessa all'istante ogni loro azione. La natura stessa delle sue funzioni ci
dice, essere una membrana ge neratrice e alimentatrice del sistema ner voso.
Fuori dunque del cervello e denervi deesi trovare il principio della forza mo
trice, e la sostanza che spiritualizza le sensazioni. V. Moto, Sensazione.
NETTEzzA (prat.), traslato della mon dizia e della pulitezza del corpo, che ap
plicato allo spirito, vale purità e sincerità. Può dirsi del pensieri, delle
parole, e delle opere. Giusta il detto del Segneri, la - 217 - prima si oppone
all'astuzia, la seconda alle finzioni, e la terza alle fraudi. V. Astu zia,
Finzione, Fraude. Nino (spec.), picciol covacciuolo di diverse materie, fatto
dagli occelli per covarvi dentro le loro uova, e allevarvi i pulcini. Non è chi
non ammiri la providenza della natura nell'istinto, che ha dato agli uccelli di
costruire i loro nidi. Cotesto istinto non solamente è notabile per l'an
tivedimento che i cennati animali hanno di formarsi un covacciuolo per lo
riposo del proprio corpo nel tempo dell'incuba zione, ma sopratutto per
l'anticipata co noscenza di tutti i bisogni della loro pro le. Oltre al saper
trovare le materie sec che più opportune al tessuto del loro ri coveri, molti
di essi hanno l'arte di tro varne altre più umide per plasmare le pareti e
foderar le varie celle, delle quali l'edifizio loro si compone. Un tale lavorio
è sopra ogni altro ammirevole ne favi delle api, anche per le forme e pro
porzioni geometriche colle quali sono co strutti. Ma poco più, o poco meno,
tutte le spezie degli uccelli che nidificano, son provveduti del medesimo acume.
La cin gallegra va a cercare quella spezie di borra di seta, che danno i
fiocchi del sa lice per formare il suo nido. Molti na scondono i loro nidi;
altri li sospendono a rami degli alberi i più flessibili, per im pedire che i
rettili e gli uccelli predatori vengano a sorprendergli o ad assaltargli. Mille
di simili ingegnosi artifizi son descritti da'naturalisti, e son caratteristici
del senti mento di maternità ne bruti. V. Maternità. Buffon è stato il solo che
abbia detto, non essere necessario il ricorrere ad una legge speciale del
Creatore, per ispiegare il talento degli animali nella costruzione de'nidi. «Vi
son condotti gradatamente, egli dice, e trovano da prima un sito che loro
convenga, e nel quale si allo gano trasportandovi di poi tutto quel che può
renderlo più comodo. Cotesto nido è un luogo che in appresso riconosceranno e
dove tranquillamente dimoreranno. L'amore è il sentimento che li guida e gli
incita al lavoro : ognun di essi sente il bisogno che ha dell'altro, e godono
nello stare insieme: cercano di nascondersi al resto dell'universo, che per
essi è dive nuto molesto e pericoloso più che mai; e però si fermano nel più
folto degli al beri, e ne luoghi più inaccessibili o più oscuri, e per potervi
meno incomoda mente dimorare raccolgono foglie ed al tre materie, e a gara
lavorano alla co mune abitazione: gli uni meno abili, o men sensuali fan lavori
alla grossa ab bozzati; altri contentansi di quel che tro vano bell'e fatto, e
non hanno altro do micilio se non i buchi che i primi si pre sentano, o i vasi
che loro si preparano. Tali operazioni son relative al diverso modo, col quale
son essi organizzati, e dipen dono dal sentimento, che in qualsivoglia grado
d'intensità, non può mai produrre il ragionamento, e molto meno può dare quella
intuitiva previdenza, o quella certa conoscenza dell'avvenire, che in essi si
suppone ». (Discours sur la nature des animaux). - L'amore e il senso può
spiegare tutto quel che gli animali fanno per soddisfare il bisogno presente, e
non quel che essi anticipano pel futuro, e per l'esistenza di altri Esseri che
non possono antivedere. D'altra parte, niuno ha mai detto open sato, che gli
animali fossero capaci d'in tuitiva previdenza e di ragionamento, o 28 - 218 -
di certa conoscenza dell'avvenire. Essi operano senza conoscenza di quel che
fan no, in virtù d'una legge o d'un fatto del la natura che gli spinge e li
guida nel l'operare. Questo è quel che noi chiamiamo. istinto, e che più
propriamente dirsi po-, trebbe legge speciale del Creatore, legge che appunto
Buffon ha rinegato.V. Istinto, NIENTE o NULLA (spee. e ontol.), la neº gazione
dell'essere e del possibile. V. que ste voci. Gli scolastici rendettero astrusa
l'idea del niente, perchè a forza di definizioni e di distinzioni, ne formarono
un sub bietto dotato di certe qualità. Ciò non ostante l'astratta definizione
ch'essi ne da vano può dirsi esatta: quel che non ha realità, non è
concepibile, ed è soltanto capace d'una denominazione negativa. Se quì si
fossero fermati, avrebbero tutto detto. Ma cominciarono dal distinguere due
sensi nel vocabolo niente, l'uno stretto, l'altro ampio: nel senso men lato
dissero, essere l'impossibile, o sia l'incompossibile, che nello stesso tempo
afferma e nega, ed ha attributi contraddittori: nel più lato, dissero che il niente
abbraccia così l'im possibile, come il possibile, quando que sto è ancora nello
stato di possibilità. E passando poi a considerarlo come un non ente, tornarono
a distinguerlo in nega tivo e privativo e il niente negativo di cevano essere
l'assenza della entità o rea lità in qualunque subbietto ; e il priva tivo,
l'assenza della entità in un subbietto che ne sarebbe stato capace. L'ignoranza
per esempio sarebbe un nulla negativo, quando taluno ignora quel che per natura
non può conoscere; e direbbesi privativo, quando ignora quel che saper dovrebbe
o potrebbe, s . - Rimuoviamo simili baie, e sofismi. Non si può concepire il
niente, perchè la mente non può concepire se non l'esistente, o il possibile,
vale a dire il reale: il niente è un vocabolo di negazione, che non può seco
portare alcuna idea di subbietto: con cepisco me stesso, o sia l'essere, ma con
cepir non posso il non essere, a questo vocabolo dunque di pura negazione non
corrisponde veruna realità. Ma spesso sotto il nome di niente noi concepir
sogliamo lo stato antecedente alle cose esistenti. Che cosa esisteva prima
della creazione? Che è quel che teneva il luogo dell'universo e delle cose
create? Esisteva Dio, e fuor di Lui nulla ! Che è questo nulla? La sola
possibilità che le cose esi stessero per volontà dell'Essere eterno! Ma dal
niente non può nascere il niente, dis sero gli antichi. Il principio è vero
rela tivamente alla potenza degli Esseri fini ti, e non per rispetto all'Essere
infinito. Ciò non ostante, tra perchè la mente non può concepire il non
esistente; e perchè la stessa difficoltà prova nel concepire l'in finito;
piacque alla filosofia naturale ap plicare il principio ex nihilo nihil fil
alla produzione dell'universo, e si valse di tal principio per escludere la
creazione, e per istabilire la dottrina della eternità della materia. V. questa
voce. NIMICIZIA e NIMIco. V. Inimicizia. NIQUITÀ. V. Iniquità. NIQUIToso
(prat.), vale cattivo, ira condo ed irato. V. Ira. NoBILE e NoBILTÀ (prat.),
quel che con viene alla dignità e al decoro dell'uomo, in qualunque grado sia
posto. - 219 - NocUMENro (prat.), l' effetto prodotto dall'azione del nuocere.
Differisce dal danno, perchè questo pre suppone la volontà di produrlo, laddove
il nocumento può nascere da semplice pri vazione di bene, cagionata senza animo
di far male. V. Danno. Noia (prat.), molestia che l'animo prova per difetto di
gradevoli pensieri. Differisce dal fastidio, o tedio, per chè questo è prodotto
dalla sazietà di ciò che abbiamo una volta desiderato, lad dove la noia presuppone
soltanto l'assen za di qualunque piacevole intertenimento. V. Fastidio. NoME
(dise. e spec. ), voce che desi gna gli Esseri, le cose, o le idee per note, o
caratteri, che faccian distinguere le une dalle altre. Del tutto grammaticale è
la definizione che ne diede Aristotele, e che gli scola stici ritennero: voce
che esprime una adea senza designazione di tempo per convenzione degli uomini,
di cui le parti prese separatamente non hanno signifi. cato alcuno, e che nel
suo caso retto in dica una certa e determinata idea (vox significans ea
instituto sine tempore, eu ius nulla pars significat separatim, est que finita
etreeta, de interpret. cap. II). E questa una definizione nominale, che ha
bisogno d'un comento, per bene in tendere il concetto dell'autore. Il signifi
cato di convenzione (ex instituto) pre suppone, che nella formazione del lin
guaggi gli uomini abbiano imposto i pri mi nomi alle cose: il sine tempore vuol
dire che a differenza del verbo, il nome esprime l'idea senza veruna relazione
al tempo presente, al passato, o al futuro: che le parti del nome non abbiano
alcun significato di per se, riferiscesi alle silla be, componenti della
parola, le quali son semplici suoni, che non esprimono alcuna idea: per ultimo
le parole finita et recta, altro non importano, se non il nomina tivo che
designa un obbietto individuale. Il nome va considerato in due diversi aspetti,
gramaticale l'uno, speculativo o filosofico l'altro. Quanto al primo giova
sopratutto distinguere i nomi propriida gli appellativi, la qual distinzione ne
ab braccia tutte le diverse spezie. I propri son quelli, che designano gli
obbietti in dividuali per caratteri desunti dalla loro natura. Tali sono i
nomi, Pietro, Roma, Arno, de'quali il primo addita un deter minato uomo, il
secondo, una sola cit tà, il terzo, un sol fiume. Gli appella tivi per
l'opposito designano gli obbietti per l'idea generale d'una natura comune a più
di essi. Di tal fatta sono i nomi uomo, animale, pianta, de'quali il pri
modinota ciascuno individuo della spezie umana, il secondo, ciascuno delle
spezie degli animali, il terzo, ciascuno delle spezie del vegetabili. Ora negli
appellativi distinguono i gramatici due significati, uno detto comprensivo, o
di compren sione, l'altro, estensivo o di estensione. Il comprensivo abbraccia
tutte le partico lari idee, dalle quali risulta la natura o l'essenza
dell'obbietto denominato. Il nome appellativo uomo, per esempio, comprende le
idee particolari di un corpo vivente do tato di anima ragionevole; siccome
l'idea del corpo vivente, abbraccia le altre di Essere materiale, organico,
dotato di moto volontario, e di sentimento; del pari che l'idea di anima
ragionevole abbraccia quel le delle potenze sue, cioè l'intelletto, la memoria,
la volontà ec. Tal'è la com r - prensione dell'idea della natura comune a tutti
gl'individui, indicati dal nome ap pellativo uomo. D'altra parte il significato
di estensione è quello che abbraccia più individui della medesima spezie, della
qual natura sono i nomi numerali e i col lettivi, come dieci, cento, tutti gli
uomi ni, o una moltitudine di essi. Tornando ora alla partizione generale de
nomi in propri e appellativi, pare che essendo l'universo composto d'indivi
dui, i quali formano le spezie e i generi, dovrebbero le lingue contenere più
nomi propri che appellativi. Ciò non ostante si avvera il contrario, perchè
picciolissimo è in ogni lingua il numero denomi pro pri nel confronto degli
appellativi. D'onde nasce una sì grande sproporzione di nu mero ? Ne abbiamo
già detto le ragioni in parlando della origine del linguaggio, e però basterà
quì accennarle: 1.° Se ciascuno degl'individui, i quali compongono l'universo,
compreso il mon do materiale e l'intellettuale, dovessessere noto per un nome
suo proprio, niuna in telligenza creata sarebbe capace di ritene re, e molto
meno di foggiare una sì pro digiosa moltitudine di nomi; nè le limi tate
combinazioni della parola si prestereb bero a somministrare tanta copia di de
nominazioni. Ciò non potrebbe altrimenti farsi, che moltiplicando sempre gli
ele menti semplici della parola, o sia le sil labe, le quali giunte ad un certo
numero non sarebbero più pronunciabili, nè di possibile retentiva. 2.º Esclusa
la possibilità d'una lingua comune, composta tutta di nomi propri; è manifesto
che gli uomini (se alcun di essi avesse inventato la parola) avrebbonsi formato
tante lingue particolari, quante sono le famiglie e le professioni alle quali
sono addetti. Imperocchè noi diamo nome alle cose e agli Esseri che conosciamo
e co'quali conversiamo, e trascuriamo tutti gli altri obbietti, a quali non
diamo ve runa importanza, o che risguardiamo come simili. Ma coteste
particolari lingue non si sarebbero intese tra loro; tra perchè non avrebbero
avuto alcun punto di con nessione, e perchè un catalogo di nomi noti ad una società,
ad una famiglia, ad un'arte, o ad una disciplina qua lunque, sarebbe stato
estraneo all'altra. Adunque i pretesi inventori del linguag. gio dovettero
ricorrere a nomi appellativi per comprendere in essi le cose e gli Es seri
simili, le proprietà comuni, e le idee generali di sostanza, di essenza, di na
tura, di qualità ed altre simili. 3.° Non solamente gli appellativi sono gli
ausiliari de nomi propri, ma sono i principali, e i primi ancora nell'origine.
Imperocchè non avrebbesi potuto esprimere il proprio di ciascuno individuo, se
non fossero stati noti i nomi delle spezie e dei generi, perchè i nomi propri
non sareb bero stati atti ad indicare gl'individui, se prima non si fossero
formati quelli delle qualità, da cui i propri son derivati. Co testa verità
nasce dalla ragione, ed è con fermata dalla sperienza di tutti gl'idiomi de
popoli, sì antichi che moderni. Trala sciando gli esempi, è risaputo che in
ogni lingua i nomi propri discendono da una radice, che ha un significato
generico, o appellativo; ed è opinione de più sapienti critici, che le prime
denominazioni furon date alle spezie, d'onde poi furono derivati i nomi propri.
Quelli che han creduto es sere stato l'uomo l'inventor della parola, e a'quali
l'immaginazione ha quasi dipinto il giornaliero progresso delle lingue, han
figurato, che cominciossi da prima a im - 221 - porre i nomi alle cose
individuali, e da ques e poi a grado a grado salendo si passò a nomi degeneri e
delle spezie. Checchè sia di questa opinione, alla quale torne remo quì
appresso, vuolsi notare, che diverse partizioni di nomi sono state pro poste da
gramatici, ora chiamando gene rici i nomi appellativi, e individuali i propri,
ora suddividendo gli uni e gli al tri in varie altre spezie; partizioni le
quali nulla aggiungono o tolgono a due sommi generi del nome, cioè gli
appellativi e i propri. In generale, la gramatica di tutte le lingue sceglie
due astratte nozioni per distinguere la varia natura denomi, cioè la sostanza e
la qualità, e da queste ri cava la prima divisione del sostantivi e degli
aggiuntivi, o addiettivi: i primi sono personali o reali, i reali suddivi donsi
in appellativi, propri, concreti, o astratti. Negli aggiuntivi distinguesi il
significato di comprensione, da quello di estensione, significati che più
propria mente potrebbero essere detti di qualità, o di numero. V. Qualità,
Sostanza. Sin qua di ciò che appartiene alla gra matica. Ma la quistione delle
origini dei nomi si annoda a quella delle origini del la parola, anzi con essa
si confonde; qui stione di grandissima importanza, così nella filosofia, come
nella archeologia. Quelli che suppongono l'uomo nato muto, e colla sola
disposizione naturale a for mare un linguaggio, ragionando coll'ana logia della
sperienza, dicono che comin ciossi da prima a imporre i nomi alle cose
individuali, e da queste si passò poi alle spezie e a generi. Tal fu l'opinione
di Scaligero, il quale enunciolla come as sioma: qui nomen imposuit rebus, indi
vidua nota prius habuit, quam species (de Caus. linguae latinae lib, IV. cap.
91.). Tal'è stata la comune sentenza degli scrittori, i quali non hanno pensato
alla difficoltà di formare le idee generali sen za avere una lingua già
formata. Tale a maggiore ragione doveva essere l'opinione di quelli che han
fatto nascere la ragione e la parola dalla sensazione, come Con dillac ed
Elvezio. Nulla dir potremmo in torno all'assurdità di cotali opinioni, di più
di quello che abbiamo già osservato circa le origini del linguaggio (V. I. pag.
438 e N. 134). Ci piace soltanto, alle autorità de pochi e grand'ingegni, i
quali pensa rono non essere opera umana la forma zione del linguaggio,
aggiugnere ancora quelle del maggiore del moderni grama tici, il signor de
Beauzée. « Qualunque sia il sistema, egli dice, che si concepi sca intorno alla
formazione denomi, fon dato nella supposizione, che l'uomo sia nato muto,
insuperabili sono le difficoltà che si scontrano, e come impossibile si
presenta l'idea, che le lingue abbiamo po tuto nascere per mezzi puramente
umani. Il solo sistema, che previene ogni obbie zione sembrami esser quello,
che stabili sce, avere Dio dato a nostri progenitori la facoltà di parlare
insieme con una lin gua già formata ( Grammaire générale liv. II. chap. I.). V.
Linguaggio. NoMINALE (disc. e spec.), quel che ap partiene a nome. È vocabolo
usato dal Salvini. Nominale è detta la definizione, che spiega il valore de
vocaboli per mezzo del la loro etimologia. V. Definizione, Eti mologia.
Nominali chiamò Locke le essenze del le idee universali formate dalla mente,
dalle quali ricaviamo la partizione dege neri e delle spezie. V. Essenza, – 222
- Nominali furon detti i seguaci della scuola, la quale insegnava, che le idee
generali ricavate dalla mente da quel che è comune a più individui, e le
astratte mozioni derivate dalle qualità de vari sub bietti della natura, sono
nudi nomi o se gni, sforniti d'ogni realità di esistenza, È facile il vedere
che le essenze nomi mali introdotte da Locke, sono una conse guenza della
dottrina denominali. Facile ancora è il rilevare, che l'abuso di cotesta
dottrina può menare allo scetticismo, il quale rinega la realità del pensiero e
ri duce la natura a fenomeni di mera appa renza. Ciò non ostante la scuola
denomi: nali giovò nel rinascimento della filosofia a temperare l'estremità
della opposta scuo la, detta dereali, i quali affermavano che le nozioni
universali sono Esseri o forme innate dello spirito. Tra queste estreme
opinioni ve n'ha una media, nella quale sembra riposta la verità, quella cioè
dei concettualisti, i quali dicono, essere le verità universali concetti della
mente, ri cavati da tipi veri che esistono nella na tura, e risiedono
negl'individui. (Vol.l. pag. 76, 372, e 418). V. Concettuali sta, Reale.
NoMINANZA. V. Fama. NoMINATIvo (disc.), il casoretto del nome. Nelle lingue che
hanno casi, il nomi nativo è il primo tra essi, e dicesi retto perchè esprime
la cosa colla voce propria del nome, senza veruna inflessione: in quelle, che
non ne hanno, il nomina tivo è distinto per l'articolo, o sia per la
preposizione messa innanzi al nome, la quale colle sue diverse terminazioni lo
rende declinabile. In queste lingue, in somma, le varie inflessioni de casi pas
sano dal nome alla preposizione, che noi distinguiamo in articolo e segnacaso.
V. Caso, Declinazione. - Taluni moderni grammatici pretesero di mutare il
vocabolo nominativo in sub biettivo, come più caratteristico del pri mo. Ma
giusta l'osservazione di Beauzée non v'ha ragione di cambiare le antiche
denominazioni, quando hanno un signi ficato universalmente ricevuto, che non dà
luogo ad alcuna ambiguità. . . . Notizia (spec.), la conoscenza di un fatto, o
d'una verità, in qualunque modo acquistata. È comune alle verità di fatto, e
alle speculative. I Greci e i Latini scambiarono cotesto vocabolo colla
nozione, o evvotx. V. Mozione. - Prime notizie han chiamato i Latini quel le
verità prime, o principi, che la ragione scopre di per se, e che servono di
fonda mento a tutte le altre verità, acquistate per la riflessione, o derivate
per lo ragiona mento. Cicerone dice che la natura inge nuit sine doctrina
notitias parvas rerum maximarum, et quasi instituit docere, et indurit in ea
quae inerant, tanquam elementa virtutis. Nello stesso senso ado perollo Dante:
Però la onde vegna lo 'ntelletto Delle prime notizie uomo non sape E de'primi
appetibili l'affetto. - Purg. C. 18. V. Principio. NoToMIA. V. Anatomia. NoTTE
(spec.), la parte del giorno na turale, nella quale il sole sta sotto l'oriz
zonte. V. Giorno. –225 – NovELLA (erit. disc. e prat.), racconto di fatti finti
o contornati col fine di dilet tare, o d'istruire. È una delle spezie della
favola, che dal suggetto e dallo scopo suo prende il carattere dell'allegorico,
del morale o del giocoso. V. Favola. Antico è il gusto delle novelle, spezial
mente presso i Greci, i quali non le de nominarono altrimenti che favole, di
che fanno testimonianza le favole milesie o ioniche e le sibaritiche, nate
nella Magna Grecia. Ma da Greci provengono gli apolo ghi, e non le moderne
novelle che ci ven gono da popoli orientali, i quali ne comu nicarono a noi il
gusto per mezzo degli Ara bi. Sembra che costoro lo diffondessero in Ispagna e
in Provenza, d'onde poi passas sero in Italia; imperocchè da essi ci ven gono
le prime composizioni di questo ge nere, e tra le nazioni che lo coltivarono,
niun'altra vanta scrittori più antichi degli Spagnuoli. Le famose favole di
Pilpai, o libro di Catila e Dimma, formarono le delizie, ed anche l'istruzione
dell'infante D. Alfonso, figlio del re Ferdinando il san to, e furono per sua
volontà trasportate in lingua spagnuola intorno alla metà del XIII secolo.
Arabe ed orientali son pure le mille ed una notte tradotte dal Galland; siccome
dalla stessa origine provengono la maggior parte delle novelle comprese nella
collezione del Movelliero francese. E quì giova notare, che queste composi
zioni di fantasia appartengono più al ge nere delle favole morali ed
allegoriche, che alle giocose. E per l'opposito in Ita lia, dove il gusto delle
novelle cominciò a spandersi verso la fine del XIII, e al cominciare del XIV
secolo, prevalse il gusto delle dilettevoli. Il decamerone di Messer Giovanni
Boccaccio, le novelle del Sacchetti, il Pecorone di Giovanni Fio rentino, il
libro di novelle e di bel par lare gentile, le novelle del Bandello, e quante
altre sono raccolte nel novelliero italiano fan pruova che in Italia non so
lamente furon preferite le giocose, ma che per la corruzione de'costumi di quei
tempi furon portate insino alla violazione delle più sante leggi della onestà e
del pudore. Di ciò il più chiaro esempio è il decamerone del Boccaccio, cui non
per tanto fu perdonata tanta licenza in gra zia della esattezza ed eleganza
della sua locuzione. Cotesti pregi, che in niun al tro scrittore furono
maggiori o eguali, lo fecero risguardare come un libro necessa rio alla
istruzione della gioventù; il per chè emendato e ripurgato fu messo nelle mani
degiovani, come primo studio del l'eloquenza italiana. V. Eloquenza. La novella
differisce dal romanzo per la semplicità del racconto, e per la bre vità
dell'azione. Il romanzo, in verso o in prosa che sia scritto, è una favola più
contornata la quale prende talune delle for me del poema o del dramma.V.
Romanzo. NozIoNE (spec.), conoscenza che l'in telletto forma dalle idee
particolari della percezione. V. Idea, Percezione. Cotesta denominazione è
propria delle verità generali ed astratte che la mente ricava dalle semplici e
particolari cono scenze acquistate per mezzo desensi, alle quali esclusivamente
diamo il nome d'idee. E però diremo l'idea del sapore, del co lore, del caldo,
o del freddo, e la no zione della giustizia, della pietà, o della virtù. Il
separare con diversi nomi questi due diversi significati giova non solamente ad
ischivare le ambiguità nate dal promi scuo uso, che si è fatto per l'addietro
devo - 224 - caboli idea e nozione, ma ancora a dichia rire le vere origini
delle umane conoscenze. Locke propose di limitare il vocabolo mozione alle
conoscenze che acquistiamo per mezzo della riflessione, ma egli stes so non fu
fedele osservatore di tal signi ficato, perchè adoprollo promiscuamente insieme
coll'altro idea per le conoscenze de sensi e dello intelletto. Meglio
de'moderni, gli antichi diedero a vocaboli idea e notio due distinti signi,
ficati: Motionem appello, dice Cicerone, quod Graeei tum eyvotav, tum rpoMºltº
dicunt. Ea est insita et ante percepta eujusque formae cognitio, enodationis
indigens (Cic. Top. cap. VII.); nel quale Tuogo Cicerone, del pari che altrove,
comprende nel significato di notio le idee innate, quali avevale concepute
Platone. Tale è ancora il significato che a que sto vocabolo ha dato il
Salvini, forse pren dendolo da Cicerone: e tutti abbiam den » tro di noi la
sinderesi, che non vale » altro che conserva e guardia di quelle prime nozioni,
cioè di quel lumi ragio nevoli e naturali, che come suo patri monio possiede
l'anima ». Gli scolastici distinsero la nozione for male dall'obbiettiva, e
suddivisero l'una e l'altra in prima e seconda, avendo chia mato formale la
cognizione della cosa qual è in se stessa, e obbiettiva quella che noi
concepiamo conformemente alla natura del la cosa stessa. Ma distinzioni
cosiffatte sono state giustamente sbandite dalle moderne scuole e dallo studio
della ragione. Nelle scuole, nelle quali è stato ammesso un prin cipio
pensante, diverso dalla sensazione, ; sonsi designati col nome di comuni
nozioni, (notva evvota), quei principi evidenti, i quali formano il corredo
della ragione, e servono di fondamento a tutte le verità de dotte o dimostrate;
e tali comuni nozioni sono state bipartite in teoretiche e prati che le prime
destinate ad essere le sor genti d'ogni ragionamento: le seconde, impresse
anche negl'istinti e nelle ten denze naturali, per servire di guida alla onestà
e al dovere: in altri termini, quel le sono i principi o verità intuitive: que
ste, i pratici precetti della virtù, che con altro nome, così gli antichi come
i mo derni han chiamato ancora prime notizie. V. Intuitivo, Motizia, Principio,
Verità. Leibnizio, nel trattato de veritate et ideis, definir volle le nozioni
oscure o chiare, confuse o distinte, adequate o ina dequate, nel che diede
definizioni comuni anche alle idee. Ora non essendo i due vocaboli sinonimi tra
loro, nè potendo esserlo; restituiamo al vocabolo nozione quel significato, che
le viene dalla pro pria etimologia: è la conoscenza, o l'atto del conoscere, il
quale viene dall'intel letto, a differenza dell'idea che nasce dalla
percezione, per lo ministerio desensi. NULLA. V. Miente. NUMERALE (dise.),
spezie di nome, che addita il numero di più individui, o che dinota
distribuzione di quantità, o di più cose successive. E però i gramatici
distinguono i nomi numerali in principali, distributivi, e or dinativi.
NUMERIco (crit. spec. e disc.), quel che appartiene o si riferisce al numero.
Numerico dicesi il calcolo, che fa uso delle cifre de numeri e non delle
lettere alfabetiche. Differenza numerica è quella che distin gue un individuo
dall'altro. V. Mumero. – 225 - NUMERo (spee. crit. ontol. e dise. ), astratta
nozione dell'aggregato di più uni tà, o della relazione d'una quantità ad
un'altra della medesima spezie, presa per unità. V. Quantità , Relazione ,
Unità. Euclide definì semplicemente il numero, un aggregato di unità, e Newton,
l'a- stratta relazione d'una quantità ad un'al tra della medesima spezie, che
si pren de per unità. Ognun vede, che per for mare un esatto concetto del
numero, uopo è congiugnere insieme ambe le cennate definizioni. Volfio spiegò
per un esempio la definizione di Newton , perchè disse: il numero è quel che ha
colla unità quel la medesima relazione, che una linea retta ha con un'altra
linea retta, e però prendendo una linea retta per una unità, ogni numero può
essere rappresentato da un'altra linea retta. Il numero è la misura universale
della quantità, si discreta che continua, dapoi chè questa seconda spezie di
grandezza si scambia colla prima, quando per valutare una data grandezza
continua, si assume per unità una grandezza della medesima spezie. La
differenza tra l'una e l'altra sta in questo, che nella grandezza con tinua
l'unità è convenzionale, e nella di screta l'unità è un di quegl'individui, il
cui aggregato chiamasi numero ; e però la definizione di Euclide accenna più
alla grandezza discreta, e quella di Newton alla continua, sebbene nella misura
della quantità tutto riducesi a numero, e quindi a grandezza discreta. Come
quantità misurabile, il numero prende diversi nomi, e vien da matema tici
distinto in varie specie, le quali pos son essere ridot'e alle tre divisate da
New ton: gl'interi, i quali divisi per la unità non lasciano alcun resto: i
fratti, i quali sebbene non contengano un esatto numero di volte l'unità, sono
pur tuttavolta divi sibili esattamente per una parte di essa:
gl'incommensurabili o sordi, detti an cora irrazionali, perchè non misurabili
per mezzo dell'unità, nè di una parte co munque piccola di essa. Siccome gli
antichi metafisici, conside rarono gli Esseri semplici, o immateriali, come le
vere unità della natura; così die dero anche al vocabolo numero un signi ficato
trascendentale. E pero Pitagora ri pose gli elementi di tutte le cose nelle unità,
e chiamò numeri razionali gli ordini e le serie dalle quali risulta la sim
metria dell'universo, e l'armonia delle sue leggi. Lasciamo cotesto significato
alla mistica filosofia de' pitagorici, e del loro seguaci. Le proprietà
de'numeri, i loro rapporti, e le regole del loro calcolo formano l'ob bietto di
quella scienza, che dicesi arit metica, dalla quale comincia lo studio delle
scienze matematiche e della quantità, e nella quale terminano tutte le ricerche
di tali scienze, perchè le grandezze, di qua lunque spezie esse sieno, debbon
sempre nell'applicazione essere ridotte a numero. Gli scolastici trovarono
anche nel nu mero la materia e la forma, e chiama rono materia la cosa
numerata, come per esempio il danaro, e forma la quan tità espressa dal numero,
come dieci, o cento. Presso i gramatici, chiamansi numeri le terminazioni delle
parti declinabili del discorso, le quali aggiungono all'idea principale del
subbietto l'accessoria della quantità. Nelle lingue moderne tranne sol tanto la
polacca conosconsi due soli nu meri, il singolare e il plurale; nel che hanno
esse per compagna la latina. Nel 29 – 226 – la ebraica e nella greca per
contrario co noscevasi ancora il duale, che trovasi pure nell'idioma de
Polacchi. Per verità, se le lingue che hanno due soli numeri, non lasciano
nulla a desiderare per la chia rezza del discorso , e schivano senza ve runa
difficoltà le ambiguità della pluralità, sien due o più le persone che parlano,
o a cui si parla; non si può facilmente com prendere la necessità o l'utilità
d'un terzo numero, il quale moltiplica le combina zioni devocaboli e delle loro
terminazioni. - i , - – 227 - CLASSI DE VOCABOLI COMPRESI SOTTO LA LETTERA N.
PILOSOFIA CRITICA, FILOSOFIA SPECULATIVA. Natura Nautica Nadir Nido Naturalismo
Novella Nano Niente o Naturalista Numerico Naso Nulla Navigazione e Numero
Natura Nome Naturale add. Nominale VOCI ONTOLOGICHE, Naturale sost. Notizia
Necessario Notte Natura Necessità Necessità Nozione Naturale add. Niente o
Negativo Numerico Naturante e Nulla Negazione Numero Naturata Numero Nervo
Necessario FILOSOFIA DISCORSIVA, Narrazione Nome Nasale Nominale Negativo
Nominativo Negazione Novella Neografia Numerale Neologia Numerico Neologismo
Numero – 228 – TEOLOGIA NATURALE. GRECISMI SUPERFLUI, Naturalismo Necessario
Neografismo FILosoFIA PRATICA. Naturale sost. Nequizia Necessità Nettezza
Nefandezza, Niquitoso Nefandigia e Nobile e Nefandità Nobiltà Nefario Nocumento
Neghittoso Noia Negligenza Novella Nemico – 229 – O O-rea (prat.), fatto, per
lo quale adempiesi una obligazione imposta dalla legge. V. Obligazione.
OBBEDIRE (prat.), adempiere l'obliga zione che la legge impone. V. Legge.
L'obbedire è proprio dell'agente mora le, o sia dell'Essere intelligente,
capace di obligazione; e però presuppone la fa coltà del volere e dell'eseguire
liberamente l'azione. V. Libertà, Volontà. La violenza, ed ogni atto che
costringa l'animo ad eseguire l'altrui volontà, can gia l'obbedienza in
servitù: Servitus est obedientia fracti animi et abiecti et ar bitrio carentis
suo (Cic. Parad. v. c. I.). OBBIETTIvo o 0gGETTIvo (spec. disc. e ontol.), quel
che la mente concepisce come posto fuori di se. Secondo il Magalotti,
obbiettivo dicesi tuttociò che l'intelletto vede con chiarezza eguale a quella,
con cui discerne l'ob bietto del pensiero. Ma un tal significato può dirsi più
gramaticale che filosofico. Nel linguaggio scolastico cotesto voca bolo era
adoperato per esprimere, ora il modo col quale la mente acquista la co noscenza
dell'obbietto, e ora la potenza di conoscerlo. Distinguevasi inoltre la co
gnizione obbiettiva d'una cosa dalla esi stenza obbiettiva della cosa medesima.
Obbiettiva dicevasi la cognizione di quel subbietto, di cui tanto si sa, quanto
ne dice il modo per mezzo del quale lo co nosciamo. In questo senso un tal voca
bolo equivaleva all'apparente, o al fe nomeno, ed aveva per suo contrapposto il
formale, che includeva la cognizione reale ed attuale del subbietto. Dicevasi
an cora obbiettiva la facoltà o potenza che ha l'animo di poter formare
l'immagine o l'idea di qualunque cosa. Ed in fine ob biettiva dicevasi
l'esistenza di quelle cose, che non hanno nè possono avere altra rea lità fuori
di quella che ne dà loro il con cetto stesso della mente; o che non aven done
ora alcuna, ne hanno altra volta avuto una ; o che essendo per se stesse
possibili, non ripugna che tornino ad esi stere nell'avvenire. Tali sarebbero
le idee di tutte le cose che l'immaginazione con cepisce, che la memoria
ricorda, o che l'intelletto antivede come di possibile esi stenza. Nel tempo in
cui non esistono, ed in cui la mente se le ripresenta, l'esi stenza loro
dicevasi meramente obbiettiva. Cartesio distinse la realità in tre diversi
generi, la formale, l'obbiettiva, e l'eminente. Parlando delle idee, dopo di
avere stabilito, che ogn'idea aver debbe una causa efficiente, assume che
cotesta causa efficiente debba per lo meno avere tanta realità formale o
eminente, quanta realità obbiettiva v ha nell'idea. La con clusione ch'egli
vuole ricavarne è , che le idee le quali sono le immagini degli obbietti, non
possono contenere niente di maggiore o di più perfetto di ciò che si trova
negli obbietti da quali son ricavate. Ma che è per lui il formale, l'eminente,
e l'obbiettivo ? Il formale è l'attualità o la presente esistenza della cosa
rappresen tata; l'obbiettivo sta nel segno che la rap presenta; l'eminente
nella ragione che ci fa credere l'obbiettivo corrispondente al – 250 – formale.
Per meglio dichiarire il suo con cetto cerchiamo di trovare le tre spezie di
realità nell'unico subbietto ch'egli ammette come certo in natura. Questo
subbietto è l' io, che è la causa efficiente dell'idea che ne formo: la sua
realità formale sta nella mia attuale esistenza, della quale non posso
dubitare: la obbiettiva sta nel pensiero, di cui ho il senso e la consa
pevolezza : la eminente sta nella ragio ne, la quale mi dice essere
impossibile, ch'io pensassi o dubitassi, quando non esistessi. Ed estendendo il
medesimo esem pio alle altre cose possibili, come è l'esi stenza degli Esseri
materiali, l'idea di questi ha una realità obbiettiva, eminen te, e formale,
perchè posso ricavare da me stesso l'idea di sostanza, di durata, di numero; ma
per contrario non posso ricavare la figura, l'estensione, la situa zione e il
moto, le quali idee non sono formalmente in me, essendo io solamente un Essere
pensante. Ciò non ostante le divisate qualità son tutte modi della so stanza, e
siccome sono io stesso una so stanza, così posso considerarle come emi
nentemente in me contenute. Nella mede sima guisa posso formare l'idea degli Es
seri animati unendo insieme l'idea dell'io con quella della materia. Quando si
vo glia da questo triplice concetto del forma le, dell'obbiettivo, e
dell'eminente, rica vare una netta definizione dell'obbiettivo, Cartesio sotto
questo nome intese la rea lità dell'obbietto esterno concepita dalla mente. In
fatti in una delle risposte alle difficoltà fatte da suoi emuli contra l'idea
obbiettiva dell'esistenza di Dio, spiegò che aveva inteso dire colle parole,
ideam esse ipsam rem cogitatam , quatenus est objective in intellectu. La
parola obbiettivo, egli disse, è una denomi nazione estrinseca, conveniente
propria mente alle cose esteriori, le quali son poste fuori dell'intelletto.
Ora l'idea non è mai fuori dell'intelletto, ma può stare nell'intelletto, come
vi stanno gli obbietti percepiti per mezzo del sensi; vale a dire che la mente
creda alla realità di quella, come crede alla realità di queste (Respon sio ad
prim. object, in medit.). V. Este riore, Idea , Obbietto. Cotesto vocabolo è
stato messo in mag gior uso dal moderno linguaggio filoso fico, ad imitazione
di Kant, ed ha rice vuto per suo contrapposto il subbiettivo. Dichiariamo
ancora coll'esempio la defi nizione dell'obbiettivo e del subbiettivo. Io veggo
una cosa qualunque e ne for mo il concetto o l'idea. Nella mia per cezione son
da distinguere due cose: io sono il subbietto che percepisco: la cosa veduta, è
l'obbietto percepito : la cono scenza della mia propria percezione è sub
biettiva: quella della cosa veduta è ob biettiva. Se la certezza dell'una
equivalga o prevalga all'altra, è una quistione che non appartiene se non a
partigiani del l'idealismo o del sensismo. V. Certezza. Kant rendette difficili
queste definizio ni, per se stesse semplici e chiare. Chia mò obbiettiva
l'intuizione sensibile, la quale si riferisce immediatamente ad un obbietto
esterno, e abbraccia il concetto di tutte le qualità sue; e obbiettiva pa
rimenti chiamò l'idea d'ogni cosa, che la ragione concepisce come reale. Ma in
trodusse un obbiettivo empirico diverso dall'obbiettivo razionale, per modo che
concepiamo come poste fuori di noi molte eose che sono in noi. Così il
subbiettivo razionale può divenire obbiettivo empirico; il che interviene
quando applichiamo un modo del nostro pensiero a qualche ob – 251 – bietto esterno.
Tal sarebbe per esempio la nozione dello spazio, quando prendiamo a
considerarlo, non come un modo del pensiero, ma come cosa esistente fuori di
noi. Ma di ciò nell'articolo spazio. V. Sub biettivo. OBBIETTo e OGGETTo (spec.
crit. e disc.). la cosa che si presenta a sensi per essere percepita, o
l'argomento circa il quale versa il pensiero. Ogni operazione dell'animo aver
debbe il suo obbietto, dapoichè il vedere pre suppone la cosa veduta ; il
desiderare, la cosa desiderata; e il pensare, l'argo mento cui l'animo volge
l'attenzione e la riflessione. Cotesto obbietto nelle opera zioni dell'animo è
sempre distinto dalla operazione stessa, e dal subbietto che l'esercita; e
sopra tal diversità è fondata la distinzione tra l'obbiettivo e il subbiettivo di
cui abbiamo testè parlato. Laonde l'atto della percezione produce in noi la
cono scenza dell'obbietto presente a sensi, il quale è tanto diverso dalla
funzione del percepire, quanto gli obbietti esterni son diversi da noi che li
percepiamo. V. Per cezione. Il pensiero aver debbe necessariamente un obbietto
circa il quale si esercita. E però le arti, le scienze, e le discipline tutte
ne hanno rispettivamente uno. Questa che è una naturale conseguenza della
defini zione dell' obbietto, divenne nelle mani degli scolastici il capo, cui
attaccarono una lunga serie d'inutili categorie. Di stinsero in primo luogo
l'obbietto mate riale delle scienze dal formale, o dal totale o adeguato, e
chiamaron mate riale la cosa circa la quale versa la scien za, come il corpo
umano considerato qual obbietto della medicina; formale, la ma niera di
considerare l'obbietto, cioè il corpo umano considerato a rispetto della sua
guarigione, adequato l'uno e l'altro unito insieme. Non contenti di tali distin
zioni, ne introdussero altre ancora più inutili e sofistiche, come l'objectum
quod complexum, l'incompletam, l'objectum quo, distinto parimenti nel complesso
e nell'incomplesso, l'objectum per acei dens , l'objectum per se distinto nello
adeguato e inadeguato, l'objectum proxi mum et remotum, l'objectum attributio-.
nis, e l'attributum, l'objeetum sensus, ed altre distinzioni ora dimenticate
insieme col linguaggio e col metodo logico, cui erano relative. V. Categoria,
Metodo. OBBIEzioNE (disc.), opposizione o dub bio, che si fa alla opinione
altrui. OBLIGAZIONE (spec. e prat.), legame, o relazione, tra l'agente morale e
la leg ge, per un'azione, che questa comanda come giusta, o consiglia come
virtuosa. V. Agente, Legge, Relazione. La nozione dell'obligazione ne presup
pone necessariamente altre due che la pre cedono, quelle cioè dell'agente
morale, e della legge; d'onde segue, che i bruti ne quali non possiamo
riconoscere la qua lità di agenti morali, sono incapaci di obligazioni. Per
essi non v'ha legge pro priamente detta, ma causa; non libertà, ma necessità;
non ragionamento, ma istin to. Da ciò segue pure che l'obligazione è un
principio razionale di azione, pro prio e privativo dell'uomo. V. Azione,
Causa, Principio. Ma qual'è la legge, per la quale acqui stiamo la prima mozione
dell'obligazione? Quella legge, di cui la luce rischiara la mente non prima che
si schiude in noi – 252 - la cognizione di noi stessi, e delle rela zioni,
colle quali siamo collegati a tutto l'ordine degli altri Esseri intelligenti, e
dell'universo intero! La legge del giusto e dell'onesto ! V. Giusto, Onesto.
Non è da precetti del legislatori, ma dalla ragione stessa, che noi impariamo
l'amare e il rispettare i genitori, l'esser grati a benefizi, il mantenere la
parola data, il non fare per altri quel che non vorremmo fosse a noi fatto.
Coteste ve rità sono in noi impresse dalla natura, dapoichè la luce loro è
spontanea e co mune, tranne che negli uomini depravati, ne quali è oppressa
dalle false opinioni o da cattivi abiti. V. Principio, Verità. Dal primo
concetto dell'obligazione mo: rale, noi ricaviamo l'altro delle obliga zioni
civili, le quali nascono dalle leggi secondarie ; che anzi riferiamo queste a
quella, come all'originale loro, da cui prendono norma e misura. E siccome
tutte le umane ordinazioni debbono nascere da un principio riconosciuto dalla
legge pri mitiva della natura, così esse producono sempre un legame simile a
quello della stessa natura ; dal che nasce la nozione dell'obbedienza. V.
questa voce, Dallo stesso concetto dell'obligazione nasce l'altro di quella
virtù, che si pre figge lo spontaneo e costante adempimento delle obligazioni
contratte, o sia il pro posito di dare a ciascuno quel che gli è do vuto, che è
appunto la giustizia. V. Giu stizia, La ragione non solamente comanda quel ch'è
giusto, ma consiglia altresì quel ch'è retto e buono. Il senso del retto e del
buo no ha dunque per suo fondamento, non la legge o la giustizia, ma l'autorità
del la stessa ragione, che è quel che dicesi equità. V, questa voce, - L'equità
produce ancora un'obligazione men rigorosa della prima, ma pur effi cace a
muovere la volontà, dapoichè ha per suo scopo l'onesto e il bene, che per
natura è la causa motrice delle umane azioni. Di qua l'origine del bene
assoluto e del relativo, e delle così dette obliga zioni perfette ed
imperfette. Cotesta di stinzione non appartiene alla filosofia mo rale, tra
perchè è stata introdotta da giu reconsulti per esprimere i diversi effetti del
necessario e del volontario; e perchè contiene una denominazione impropria, che
ripugna al rigore del linguaggio filo sofico. V. Assoluto, Bene, Onesto. Sin
qua l' obligazione è considerata, eome una conseguenza della legge primi tiva,
la quale stabilisce i doveri dell'uomo verso del suo Autore, e degli altri
Esseri. Ma può essa avere ancora un'altra origine del tutto volontaria, e
questa è la pro messa , o il patto per lo quale taluno legasi di fare cosa
giovevole, o di non fare cosa ad altri dannosa. Tal'è la sor gente delle
volontarie obligazioni le quali formano i vincoli delle civili associazioni, e
delle publiche e private convenzioni. L'esatta e fedele osservanza della
promessa è un dover che nasce dalla legge primi tiva e forma parte del giusto e
dell'one sto, Le forme delle promesse e de patti, e i modi onde rendergli efficaci
apparten
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